Teoria, didattica e prassi della traduzione
 9788820760601

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L I N G U A G G I

TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE a cura di Giovanna Calabro`

ISSN 1972-0696

Liguori Editore

Questo volume e` stampato con il contributo del Dipartimento Studi Linguistici e Letterari dell’Universita` di Salerno

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2001 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Novembre 2001 Calabrò, Giovanna (a cura di): Teoria, didattica e prassi della traduzione/Giovanna Calabrò (a cura di) Linguistica e linguaggi Napoli : Liguori, 2001 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 6060 - 1 ISSN 1972-0696 1. Lingua

2. Letteratura

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————––—————— 14 13 12 11 10 09 08 07 06 05 04 03 02 01 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

INDICE

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Introduzione di Giovanna Calabro`

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Linguistique, herme´neutique et traduction di Enrico Arcaini

Les 4 aˆges de la traductologie. Quelle the´orie pour la pratique traduisante? di Jean-Rene´ Ladmiral

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La danza del senso. Aspetti del dibattito su indeterminatezza e traducibilita` delle lingue di Stefano Gensini

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Traduzione automatica tra sogni e realta`. Gli strumenti linguistici di Emilio D’Agostino - Annibale Elia

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Interpretariato ovvero della traduzione orale di Gabriella Dozin Crivaro - Adriana Villamena

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La traduzione ‘economica’. Per un approccio polisemico di Bruna Di Sabato

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Who’s afraid of otherness? Film translation and the foreignizing/ domesticating dilemma di John Denton

viii

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INDICE

Tradurre verso l’italiano di Graziano Benelli

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Translation and postcolonialism di Susan Bassnett

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L’autotraduzione di Jacqueline Risset

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Tradurre teatro (Shakespeare): la resa linguistica e la trasmissione dell’energia di Alessandro Serpieri

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Le mani sporche di Angelo Morino

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Rivedere le traduzioni: ripensamenti e disagi di uno sguardo altrui di Giovanna Mochi

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Splendore e miseria della teoria. Il caso della traduzione letteraria di Stefano Manferlotti

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La forza del pensiero e i remotos ruisen˜ores: in margine a una recente traduzione dei sonetti di Go´ngora di Giulia Poggi

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Note in margine alla traduzione poetica di Ida Porena

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La traduzione delle rime sulla morte di Ludwig Feuerbach di Alberto Scarponi

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Tradurre Belli in russo di Evgenji Solonovich

INDICE

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Poesia postmoderna: l’infinita traduzione di Annalisa Goldoni

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Tradurre Raymond Carver di Riccardo Duranti

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Cosa si traduce quando si traduce di Piero Falchetta

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Traduire du franc¸ais en franc¸ais di Jacques Jouet

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Appendice Antologia di testi scelti e letti da Giuseppe Gentile

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Gli Autori

Avvertenza Al volume va unito un Cd Rom con un’antologia di testi scelti e letti da Giuseppe Gentile. Nelle note e nella bibliografia si e` preferito seguire i criteri in uso nei singoli settori disciplinari.

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INTRODUZIONE di Giovanna Calabro`

Son lieta di presentare questo volume che raccoglie gli atti del Convegno su ‘Teoria, didattica e prassi della traduzione’ promosso dal Dipartimento di studi linguistici e letterari della Facolta` di Lingue di Salerno nella primavera del ’98. Di allora, di quelle giornate fitte di incontri mi piace oggi, anzitutto, ricordare il clima cordiale in cui si svolsero, di autentica comunicazione, l’avvicendarsi stimolante di diverse prospettive d’analisi, il dialogo che seppero animare relatori e pubblico: e di questo son grata, ancora una volta, a tutti i partecipanti. L’articolazione dei lavori in tre sezioni, teoria, didattica, prassi, esprime la scelta che ci aveva guidato nell’organizzazione stessa del convegno: delineare una mappa degli aspetti e dei problemi che il tradurre da una lingua all’altra presuppone, provando a costruire una visione d’insieme attraverso l’apporto di piu` punti d’osservazione: degli studiosi di linguistica, traduttologia, filosofia del linguaggio, dei traduttori, degli interpreti, degli scrittori, dei critici letterari. Pur destinando maggior spazio alla sezione della ‘prassi’, non si e` voluto trascurare di affrontare la ‘teoria’ o meglio il nodo dei rapporti che intercorrono tra i due momenti: e cio` non solo per il rilievo degli studi che vi hanno dedicato logici, linguisti, filosofi, ma anche per le implicazioni sul piano pedagogico e didattico – oggi di particolare attualita` nel quadro della riforma universitaria che ridisegna ordinamenti, gruppi disciplinari, profili professionali. Insegnare a tradurre impone evidentemente di far chiarezza sulla natura del sapere che si vuol trasmettere oltre che sui metodi per realizzare tale trasmissione. Al centro dunque del dibattito la riflessione su che cosa significa tradurre: sulle competenze richieste da tipologie diverse di traduzione, orale e scritta, interlinguistica e intersemiotica, tecnica e letteraria; sul sapere del

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traduttore, sui nessi tra competenza linguistica, capacita` ermeneutica e talento traduttivo; sugli esiti del sogno scientista della traduzione automatica; sulle responsabilita` del mondo editoriale e di quello accademico nella scelta e nella formazione di bravi traduttori; e poi una gran messe di osservazioni penetranti, nate sul campo, fatte da chi si e` cimentato con testi straordinari. Penso ad Alessandro Serpieri che parla della sua esperienza di traduttore del teatro di Shakespeare, alla Risset che ha tradotto, tra gli altri, Dante, alle note di Ida Porena intorno ai lirici tedeschi, di Duranti su Carver, di Annalisa Goldoni su Duncan, al Belli tradotto in russo da Solonovich, al bilancio dell’impresa gongorina tracciato da Giulia Poggi, ai commenti di Stefano Manferlotti traduttore di Dickens, a quelli di Falchetta, di Benelli, di Scarponi, di Angelo Morino traduttore dei piu` grandi scrittori sudamericani. Osservazioni che non riguardano solo le strategie del mestiere, i trabocchetti del testo, la tecnica per risolvere i passi ardui, ma anche – e mi sembra una nota interessante – il mondo della propria soggettivita`, delle emozioni, delle reazioni singolari che accompagnano il prolungato corpo a corpo con il linguaggio dell’altro; un sintomo forse della possibilita` che la figura del traduttore, in quanto persona empirica, emerga dall’ombra a cui lo vincola il suo stesso ruolo, che prescrive la rinuncia al protagonismo. Mi colpisce ad esempio il taglio autobiografico che Morino ha dato al suo intervento: cronaca di una vita ‘en traducteur’ «avventura solitaria» come lui la definisce, spesa a «leggere, leggere fino a trarre un sapere sul linguaggio, fino a vivere una specie di passione nei confronti delle parole e delle frasi confrontandovisi per riscoprirle e riscoprirsi»; resoconto dei suoi entusiasmi come dei suoi momenti di sazieta`, di tedio, della paura d’essere divorato dalla lingua dell’Altro, di essere schiacciato dallo strapotere delle sue parole. Ma potrei citare anche le notazioni di Giovanna Mochi sul suo «disagio» nel rivedere le traduzioni altrui, o le osservazioni di Giulia Poggi sul carattere «erotico» della intensa e prolungata frequentazione del testo poetico gongorino; o l’emozione di Ida Porena nell’esprimere il suo vissuto di traduttrice o la confessione di Duranti:«A volte si traduce non soltanto per rendere disponibile ad altri un’esperienza(...), ma anche per esprimere un’esigenza personale, intima, che puo` arricchire e rendere piu` stimolante l’intero processo». Mi sembrano tutti richiami volti a rivendicare la centralita` del soggetto, anche empirico, del traduttore, quale elemento fondamentale di cui tener conto se si vuole intendere la natura e i problemi della traduzione. Richiami che acquistano ancora maggior risalto se considerati nel quadro di una situazione di misconoscimento di questo mestiere: le traduzioni sono

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generalmente mal pagate, e come ricorda la stessa Bassnett, contano poco o nulla come titolo in un curriculum accademico; non a caso solo in epoca recente (Parigi 1953) i traduttori hanno dato vita a una Federazione internazionale in cui hanno affermato pienamente la loro identita` professionale e reclamato una dignita` corporativa a livello internazionale. D’altro canto nella storia e nella teoria della letteratura la considerazione dedicata alla traduzione (e anche alla biografia di chi la realizza) e` stata scarna, direi marginale. In linea di principio possiamo affermare che qualunque sia il testo da tradurre, che si tratti delle istruzioni per un kit di montaggio o di un sonetto di Petrarca, la dinamica del trasferimento semantico da una lingua all’altra, non muta. Ma evidentemente cambia enormemente il grado e la varieta` di competenze richieste. Se tradurre e` prima di tutto intendere, interpretare il linguaggio del testo, lo sforzo richiesto nei due casi citati e` di gran lunga diverso. Se si traduce filosofia, scienza, ma soprattutto letteratura, non basta essere edotti dei segreti delle due lingue, di partenza e di arrivo, occorre una conoscenza vasta e profonda dell’autore e del suo universo emotivo, culturale, storico per saper cogliere nel linguaggio del testo tutta la gamma e la rete di significati impliciti e, in piu`, occorre il talento, non solo linguistico, per ricreare nella propria lingua nativa l’equivalente del testo originario, con tutta la sua potenziale rete polisemica. Una polisemia, pero`, che non puo` essere vaghezza! E` la profonda costrizione a cui sottosta il bravo traduttore. La traduzione letteraria e` allora un osservatorio privilegiato per cogliere gli aspetti e i problemi nella loro forma piu` ampia, piu` complessa, e piu` ardua da risolvere. Ma proprio per questo conviene riconoscere, come da piu` parti e` stato sottolineato, che se e` possibile incardinare la formazione di un traduttore professionista nell’ordinamento universitario, ben diverso e` il caso di chi opera su testi letterari, il cui mestiere, il cui sapere, maturato nel corso di un’«avventura solitaria», puo`, sı`, essere costruito attraverso lo stimolo dell’insegnamento ma probabilmente secondo ritmi e metodi che sono piu` propri della bottega artigianale. E neppure tutti quelli che vanno a bottega lo diventeranno. E` un dato di partenza ineludibile, che conviene non dimenticare. Tradurre e` in genere un veicolo potente di diffusione della conoscenza e della cultura. Sul piano linguistico e` uno degli strumenti di crescita, di ampliamento, di arricchimento della lingua stessa in cui si traduce. E` un

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fattore di creativita` di nuove forme, non solo linguistiche. Lo sono perfino talvolta le ‘cattive traduzioni’. Abbiamo appreso, ad esempio, che nella letteratura francese del primo ottocento, la voga del poema in prosa e del verso libero trae origine dall’esperienza di traduzioni imperfette fatte verso la fine del ‘700 da viaggiatori, orientalisti, incapaci di rendere nel sistema francese le prosodie particolari di alcune poesie «esotiche»; i romantici, poi, Chateaubriand, Me´rime´e, Victor Hugo, le giudicarono eccellenti e le imitarono. Eppure a fronte della mole imponente di traduzioni che costellano la storia della civilta` occidentale, ci si continua a chiedere se questa operazione sia di fatto possibile. E` l’eterno interrogativo che affonda le radici nel terreno di antichi dubbi religiosi e psicologici se sia lecito passare da una lingua all’altra. In verita` le motivazioni sia a favore sia contro la traducibilita` hanno entrambe origini remote, situabili nel clima dell’ideologia religiosa del divieto o della speranza provvidenziale di superare la catastrofe di Babele. In epoca moderna, il postulato dell’intraducibilita` si secolarizza e poggia sulla convinzione che non vi possa essere autentica simmetria tra due sistemi semantici differenti. E l’attacco alla traduzione appare come una debole variante di un piu` generale attacco al linguaggio stesso. La traduzione interlinguistica finisce con l’essere una forma anche se specialissima della comunicazione in generale. Comprendere significa tradurre il linguaggio dell’altro nel proprio e in questo senso la traduzione non e` dissimile dal processo che effettua il parlante nativo; essa e` solo resa piu` ardua dalla enorme distanza dei codici e quindi dalla ricerca laboriosa di equivalenza, e dalla necessita` di esplicare cio` che nell’originale coesiste in forma latente e immediata nella mente del lettore. Poter tradurre si correla quindi alla riflessione sulla natura del linguaggio e della comunicazione, coma dimostra il dibattito che si e` sviluppato nel pensiero linguistico contemporaneo, l’approccio ermeneutico, la scuola logico – matematica, il confronto fra le tesi di Jakobson e Quine; un dibattito, come ci ricorda S. Gensini, le cui origini risalgono ad una fase decisiva della storia della filosofia del linguaggio, tra Illuminismo e Romanticismo, alle linee di ricerca inaugurate da autori come Leibniz, Leopardi e Humboldt. E` possibile trattare la traduzione alla stregua di una scienza genuina, di cui dare una teoria secondo il modello logico triadico di ripetibilita`, prevedibilita` e confutazione? In anni recenti la ricerca coltivata in ambienti di formazione strutturalista, e` culminata nello sforzo di rendere possibile la traduzione automatica, realizzata con l’ausilio del calcolatore: un sogno che

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non si e` fatto realta` o almeno non nei modi ambiziosi con cui lo si vagheggiava. L’esperienza infatti ha dimostrato la vanita` di tale pretesa riservandone le possibilita` di applicazione solo ai casi particolari, limitati ancorche´ preziosi, di linguaggi assolutamente circoscritti e fortemente formalizzabili. In tutti gli altri, che si tratti della lingua comune o letteraria o tecnica, il margine di individualita` dell’uso linguistico e` cosı` alto e complesso da rendere impossibile ogni forma di automatismo o di previsione aprioristica. Governare il processo per garantirsi i risultati resta ancora un obiettivo utopico o almeno remoto. Si e` accresciuta la mole di riflessioni affascinanti sulla traduzione come crocevia anche di approcci pluridisciplinari, (antropologia, logica, linguistica, teoria dell’informazione, letteratura comparata, psicanalisi...), e` accaduta la nascita di un ‘luogo disciplinare’ addirittura: la traduttologia, in cui si concentra questo crogiuolo di studi, confluenza di istanze teoriche e pragmatiche; ma resta oscuro il modo in cui questo tesoro di conoscenze possa direttamente agire sull’atto del tradurre, possa insomma essere finalizzato preventivamente a migliorarne l’esecuzione. Parafrasando il titolo di un celebre saggio di Ortega y Gasset, come propone S. Manferlotti, verrebbe da concludere: Miseria e splendore della teoria. Oppure, ricorrendo a un’altra formulazione che mi pare assai felice, riconoscere che la traduzione e` un’arte esatta come la matematica, nel senso in cui lo ha precisato Wittgenstein; in entrambe, infatti, la ricerca e la soluzione di un problema possono convivere con l’assenza di un metodo sistematico per risolverlo. La traduzione, dicevamo, e` un fattore di creativita` che si innesca nella lingua, nella cultura di arrivo ma che si riverbera anche, a volte, sullo stesso testo che si traduce. L’atto traduttivo compiuto sul teatro di Shakespeare, dice Serpieri, fa sprigionare l’energia propulsiva che esso possiede, apre a una vita nuova dell’originale; un’osservazione alla quale si puo` associare quella di Steiner, nel suo After Babel, quando avverte che «nel moto di trasferimento semantico la statura del testo si accresce». Naturalmente questo aspetto ha a che fare con la questione della traduzione come interpretazione del testo e quindi come attivita` potenzialmente sempre possibile. Bandiamo dunque l’illusione della traduzione ‘giusta’, cioe` definitiva. Esistono traduzioni, non ‘la traduzione’. Come per i classici, che ad ogni epoca torniamo a leggere senza esaurirli perche´ noi stessi li arricchiamo attraverso nuove domande che poniamo ad essi, cosı` ogni opera e` suscettibile di essere tradotta illimitate volte, da mani diverse, per destinatari nuovi, secondo prospettive inedite e piu` affinati strumenti di lettura

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testuale. Che cosa tradurre, quando, in che modo: e` una scelta determinata dalla nostra idea del passato, dal nostro rapporto con esso, dalla sua infinita plasticita`. Cio` che in un certo momento pareva secondario, ad una diversa scadenza del tempo appare invece necessario. E` la dialettica vitale di cui si nutre la storia della letteratura e insieme l’universo della traduzione. «E` traducibile cio` che contiene in se´ il mutamento semantico delle parole indipendentemente e al di la` della ‘verita`’di un ipotetico significato originale», dice Giovanna Mochi. Ne sono segno anche alcuni fenomeni singolari come l’autotraduzione o la traduzione nella stessa lingua, che rivelano tra l’altro il fondo traduttivo di ogni scrittura. Si e` detto che tradurre e` un tentativo di annullare e ricomporre una differenza, un’alterita`, e come tale e` un «percorso innaturale e inevitabilmente violento»; comporta il rischio di non saper restituire, alla fine, l’equilibrio e la coerenza originaria dell’organismo vivo. Scegliere di naturalizzare il testo, neutralizzando le sue oscurita`, le sue resistenze o forzare la lingua d’arrivo verso soluzioni inusitate, che non le sono congeniali, proprio per lasciar traccia dell’alterita`: e` questo il dilemma che si pone costantemente al traduttore. Siamo chiamati sempre a un calcolo economico in termini di perdite e guadagni. Se lavoriamo su un testo poetico, cio` che si perde, per esempio, rinunciando alla rima lo si guadagna a un altro livello, con un altro tipo di ripetizione; cio` che eliminiamo, cancellando un’assonanza, possiamo recuperarlo con una scelta lessicale. La trasformazione cui il testo e` sottoposto nel processo di trasposizione all’altra lingua e` solitamente considerata causa di un impoverimento inevitabile. Dall’esperienza degli studi postcoloniali viene oggi lo stimolo a leggere il meccanismo e la dinamica traduttiva interlinguistica in una diversa prospettiva, intendendo cioe` la metamorfosi subita dal testo non come riduzione, ma come liberazione, apertura di uno spazio «di esplorazione, non piu` di sacrificio, come possibilita` di nuovi rapporti tra le lingue e non piu` di rifiuto o denegazione di Babele». Il discorso assume un’ampiezza e una connotazione di valore storico, oserei dire politico. Fascino archetipico assume la figura della donna interprete di Corte´s, Malinche; luce simbolica emana dal cannibalismo sacrificale compiuto dagli indiani Tupinamba in Brasile ai danni di un prete missionario; valore esemplare ha le relazione interlinguistica tra Spagnoli e Filippini all’epoca della colonizzazione. Personaggi o atti – richiamati da S. Basnett – che mostrano l’ambivalenza di fondo che connota i rapporti anche tra lingue e la necessita` di porre in luce i segni politici che sono sempre sottesi a operazioni solo in apparenza neutrali o circoscritte al mero ambito lingui-

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stico; di qui l’opportunita` di coinvolgere ottiche pluridiciplinari per studiare i significati profondi che l’attivita` e la storia delle traduzioni possiedono e rivelano. Questi esempi infatti parlano tutti di una dinamica di sopraffazione intenzionale o comunque potenziale connessa a questo atto in quanto incontro con l’Altro: l’ attitudine opposta dei filippini e degli spagnoli, che manifesta l’una la resistenza l’altra la volonta` di cancellazione della alterita` linguistica, e` spia delle forze diverse che animano i soggetti parlanti, che sono anche protagonisti di un processo storico e politico imponente qual e` la colonizzazione, in cui costantemente e continuamente e` in gioco l’accettazione e/o l’annullamento della identita` e della differenza reciproca. L’atto di violenza dei Tupinamba, giudicato sacrilego nella prospettiva europea, nella cultura indigena e` simbolicamente segno di omaggio, riconoscimento della superiorita` dell’Altro, di cui ci si vuole appropriare mangiandolo. Perdita o guadagno, impoverimento o arricchimento, si diceva prima; naturalizzare l’originale o mantenere in vita i segni della sua inalienabile singolarita` che si incarna nel tessuto verbale dell’organismo originario? Gli studi postcoloniali, la metafora della cannibalizzazione ci richiamano a un esercizio difficile di conoscenza di cui la traduzione cosı` concepita e` specchio simbolico: appare come la capacita` di abitare la soglia, lo spazio fluido dell’inter, che sta ‘tra’ soggetti, lingue, comunita`, culture; un’occasione sorprendente, di vitale nutrimento, necessaria nella realta` odierna. «Ningu´n problema tan consustancial con las letras y con su modesto misterio como el que propone una traduccio´n», ha affermato Borges. Prima di tutto, direi, perche´ al traduttore e` offerto di entrare nel laboratorio della scrittura, di coincidere fuggevolmente con la creazione del testo: scegliere una soluzione traduttiva significa intravedere il momento in cui ancora esistevano diverse possibilita`, prima che l’autore fissasse il testo nella sua forma definitiva. Non a caso forse, sono proprio gli scrittori, gli artisti quelli che hanno saputo cogliere mirabilmente la natura e l’effetto dell’atto traduttivo, a partire dall’acuta metafora cervantina attraverso cui si evidenzia la materialita` della relazione inestricabile fra originale e traduzione, intesi come il dritto e il rovescio della tessitura di un tappeto. Facciamo un salto nel tempo e apriamo l’ Atlas de litte´rature potentielle (Paris 1981); al capitolo sulla traduzione vi troveremo segnalata quella «des textes a` l’inte´rieur d’une meˆme langue». Un esercizio bizarro ma perfettamente plausibile che dimostra la compatibilita`, anzi la profonda affinita` del meccanismo traduttivo e di quello letterario. Ricordiamo gli Exercises de style di Queneau. Perche´ non tradurre dal francese al francese se si accetta, nella traduzione

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da una lingua all’altra, di poter privilegiare il suono o il senso, la prosodia o la sintassi, il genere letterario o il lessico? Tutto e` valido purche´ lo si decida. Provocazioni che finiscono col mettere in questione il concetto di originalita` e per esso la stessa identita`, come dato stabilmente consistente, del testo letterario. Trucco, inganno, soverchieria: siamo sul terreno mobile, precario del concetto di letteratura potenziale dell’ultima avanguardia, dove i giochi linguistici praticati dall’Oulipo prendono a prestito l’esempio della traduzione, si incarnano e si inverano attraverso di essa, sconfinando nelle plaghe del metafisico. «El traductor no reproduce, no copia, no calca (...) plasma siempre por vez primera una experiencia u´nica, irrepetible e intrasferible; crea en su lengua lo que en su cabeza se encuentra en otra lengua», afferma Javier Marı´as, narratore di rango e traduttore esemplare. E anche Van Gogh, descrivendo in una lettera al fratello il ruolo dei modelli pittorici nel suo modo di dipingere, comparava la sua pittura alla traduzione, precisando che non si sforzava appunto di copiare i disegni di Millet, ma di ‘tradurli’ al suo linguaggio, quello dei colori. Anche lui, insomma, coglieva il carattere non passivamente mimetico dell’atto traduttivo, bensı` creativo. Dell’affinita`, della «consustanzialita`» tra letteratura e traduzione, parla evidentemente anche un fenomeno come l’autotraduzione, praticata da scrittori eccelsi del nostro secolo come Nabokov, Joyce, Beckett. Per Beckett, autotradursi era un tentativo di ritrovare entro la lingua materna la lingua straniera, sbarazzarsi del velo della lingua materna «per riuscire ad arrivare alle cose». «Je suis tous ces mots, tous ces etrangers» dice l’io dell’Innommable. Lo spaesamento linguistico, la babelizzazione cui sono esposti i suoi personaggi, che intacca la fiducia nell’autosufficienza delle lingue, e` una «vera poetica della traduzione». Nel caso della poesia l’autotraduzione e` un’ esperienza ‘crudele’, perche´ opera la rottura di quell’armonia tra suono e senso, parola e cosa,(«le myste`re dans les lettres», anche secondo Mallarme´) che e` carattere distintivo della poesia stessa. Ma ha un senso, dice Jacqueline Risset; si trasforma in nuova «gioia del farsi»; perche´ rivela la profonda verita` del paradosso su cui si fonda tanto la letteratura quanto la traduzione: un testo perfetto, la cui perfezione inalterabile finisce col consistere proprio nella sua inesauribile disponibilita` a mutare, ad essere plurale. Un miracolo di esattezza. Percio` fra tutte le definizioni che tentano di approssimarsi alla natura della traduzione continuo a preferire quella steineriana, perche´ e` quasi un ossimoro: la traduzione e` un’arte esatta. Come la matematica, come la letteratura. Salerno, 30 luglio 2001

´ NEUTIQUE ET LINGUISTIQUE, HERME TRADUCTION di Enrico Arcaini

1. Les jalons de l’herme´neutique Nous voulons attirer a` nouveau l’attention sur un de´bat qui a forme´ l’objet de querelles se´rieuses a` propos d’un sujet particulie`rement important a` nos fins: celui de l’interpre´tation. La discussion qui a eu lieu depuis toujours porte sur un phe´nome`ne que l’on a souvent tendance a` conside´rer comme un «en soi»: il y a un objet de l’interpre´tation et un sujet de l’interpre´tation; il doit y avoir, par suite, une me´thode de l’interpre´tation qui lui serait exte´rieur et qui fournirait la clef de la connaissance. En ce qui concerne l’interpre´tation d’un texte – et par suite l’analyse du discours qui repre´sente la voie oblige´e a` suivre – l’apport de la re´flexion herme´neutique est une contribution fondamentale. Les positions en pre´sence (celles de Ricœur et de Gadamer tout particulie`rement) sont aujourd’hui des jalons de premie`re importance puisqu’ils permettent d’e´tayer l’analyse linguistique la plus fine. Dans cette optique, le texte est un objet clos, comme entite´ soumise a` l’analyse, mais s’explique par une se´rie de re´seaux comple´mentaires qui vont de la connaissance pre´alable (Vorversta¨ndnis) a` l’examen des circonstances qui me`nent a` la re´fe´rence. La lecture herme´neutique se pre´vaut donc d’une me´thode qui analyse le ve´cu dans le mouvement dynamique de sa constitution et tire du «figement linguistique» de la line´arite´ les coordonne´es spatiales, temporelles et culturelles ne´cessaires et suffisantes pour que le sens textuel soit pre´cise´ et par suite susceptible de traduction au sens large du terme.

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2. Le paradigme de la compre´hension L’ope´ration herme´neutique est complexe. Les principes ge´ne´raux qui se de´gagent de la re´flexion the´orique peuvent se mate´rialiser par une recherche ade´quate de l’objet lui-meˆme, par une sous-analyse fine qui se trouve eˆtre fixe´e par un certain nombre de de´marches ne´cessaires du paradigme conceptuel et notionnel appartenant au processus ge´ne´ral de la connaissance. Le proble`me sera de ve´rifier dans quelle mesure ces notions seront rendues linguistiquement et grammaticalise´es. En fait, la connaissance herme´neutique tourne autour d’un certain nombre de facteurs dont le lieu fondamental est la compre´hension, notion complexe qui implique: • connaıˆtre analytiquement; • e´clairer (au sens ou` la base latine clarus pre´cise l’extension maximale de «rendre clair» et intelligible), la phase active de la compre´hension qui repre´sente le support de la connaissance; • expliquer par la justification des donne´es et des relations dans le contexte approprie´; • interpre´ter, ope´ration qui suppose l’un des poˆles fondamentaux de la communication, la pre´sence – active – de l’interlocuteur et son poids interactif dans la constitution du sens; • traduire, dans la mesure ou` la compre´hension d’un acquis se «justifie» par le passage motive´ dans une direction de´termine´e. L’exe´ge`se est l’une des ope´rations qui semble re´sumer dans un secteur de´termine´ le processus qui consiste a` re´duire progressivement l’opacite´ d’un texte, pour focaliser le contenu et le «repre´senter» correctement. C’est le concours circulaire de ces notions, de´fini dans une situation de´termine´e ou dans un texte, qui aboutit a` analyser la complexite´ et, progressivement, a` la re´duire. Dans le champ linguistique, qui est le noˆtre, la compre´hension du texte e´crit ou oral, graˆce aux concepts ope´rationnels que nous venons de de´gager, passe a` travers des notions tre`s ge´ne´rales communes aux langues (leurs universaux) permettant de tre`s haut d’apercevoir des facteurs d’intelligibilite´ et de comparabilite´, des valeurs spe´cifiques qui de´finissent des aires communes a` des ensembles de syste`mes typologiquement proches; des modules spe´cifiques qui repre´sentent les re´ponses particulie`res des syste`mes linguistiques aux conditions impose´es par la culture et l’histoire. L’universel se reconnaıˆt ainsi dans le relativisme de chaque langue.

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Connaissance a-syste´matique et connaissance syste´matique Du point de vue me´thodologique, la recherche suit une direction oblige´e par la nature meˆme de l’objet. La re´flexion herme´neutique fournit les lignes conceptuelles et le cadre ge´ne´ral, mais celle-ci repose sur l’objet auquel elle s’applique (au sens de Gadamer) obligeant le chercheur a` de´limiter son texte-objet et a` remonter en quelque sorte vers l’abstraction maximale, qui, assurant le maximum de ge´ne´ralite´, garantit par la` meˆme le maximum de comparabilite´. Ainsi la description (fonction premie`re de l’analyste et de l’interpre`te qui va transfe´rer) utilise les donne´es brutes et les organise pour en rechercher les re´gularite´s propres au syste`me spe´cifique, de´gage des cate´gories abstraites susceptibles conceptuellement de de´finir des syste`mes autres et remonte a` des typologies montrant les e´quivalences au plus haut niveau: les universaux. Il y a donc un va et vient ne´cessaire entre les principes herme´neutiques et la recherche applique´e et sectorielle, l’une ne pouvant fonctionner sans l’autre sous peine d’abstraction ste´rile ou de particularisme ad hoc qui ne permettrait, finalement, pas de comparaison. Ce qui paraıˆt the´orise´ comme proce´dure de recherche inde´pendante (herme´neutique comme the´orie du processus de l’interpre´tation et connaissance ope´rationnelle in experiendo) est en re´alite´ l’instrument conceptuel qui me`ne au brassage des donne´es par les concepts propres a` l’interpre´tation et en garantit la validite´. Bref, l’axiome qui se de´gage de ces conside´rations est le suivant: la connaissance asyste´matique du monde (de l’objet-texte en l’occurrence) devient connaissance syste´matique par le moyen de re´gularisations qui tiennent compte des principes herme´neutiques. Le sujet individuel devient sujet e´piste´mique dans la mesure ou` il re´gularise le monde asyste´matique dans lequel il e´volue. Mais ce monde n’est pas sans attaches puisqu’il est tributaire de la tradition et de l’histoire, voire meˆme de l’action de la vie quotidienne: les connaissances pre´alables (vorversta¨ndnis) e´clairent dans une certaine mesure les Actes (de langage) ou, au sens large, le texte-objet, et permettent de le situer dans un syste`me de connaissances – partiellement constitue´es – par l’expe´rience ou la re´flexion critique: c’est la phase de la perception brute qui se renforce par le constat de la re´gularite´ des occurrences et me`ne a` la re´gularisation et a` la connaissance syste´matique. Le cercle herme´neutique est ainsi un principe ge´ne´ral de la connaissance et un instrument me´thodologique de la recherche applique´e. Il permet d’e´tablir des hypothe`ses approprie´es et fournit les moyens pertinents de l’analyse et de proce´dures de de´couverte, progressivement, par cercles concentriques. La recherche aux diffe´rents niveaux de l’analyse

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(perception – re´gularisation – repre´sentation) met en relief les e´le´ments de la connaissance qui lui sont ne´cessaires pour re´soudre des proble`mes particuliers dans un cadre global cohe´rent.

4. La langue objet et instrument de connaissance La langue – qui apparaıˆt bien encore plus comme une forme que comme une substance – repre´sente l’objet a` analyser par les moyens qui sont propres a` la linguistique dans les dimensions qui ont e´te´ e´voque´es. Les instruments linguistiques (cate´gories grammaticales, pre´dicateurs, indicateurs, connecteurs, quantificateurs) sont autant de jalons de la langue (ou plus pre´cise´ment de la norme de l’usage) qui se manifestent par la parole, laquelle est soumise au jeu complexe de la situation et du texte et se clarifie par l’application des crite`res fournis par l’herme´neutique. La compre´hension du texte (ineffable dans sa stricte individualite´) est conscience de la co-pre´sence des facteurs qui contribuent a` former la signification. Ce n’est pas tant la compre´hension de la langue, du syste`me linguistique qu’il faut saisir, mais bien ce qui se re´ve`le a` travers l’usage de la langue. La langue comme syste`me a une valeur instrumentale de`s qu’elle permet de re´ve´ler les me´canismes producteurs de sens qui ont porte´ a` sa re´alisation. C’est le propre de l’herme´neutique de faire de´couvrir faits, circonstances et proce´dures qui font du produit linguistique le te´moin symbolique charge´ de valeurs qui se singularisent dans et a` travers le texte. Le sens est donc perceptible dans le cadre d’une conception dynamique de la langue, voire de la linguistique. La confrontation entre syste`me linguistique et – par suite – de textes-objets passe e´galement a` travers une conception dynamique des faits linguistiques. Comprendre c’est donc traduire, savoir reparcourir les e´tapes de la formation du sens dans le cadre d’une herme´neutique qui a engage´ la recherche dans le paradigme complexe qui la de´finit. Traduire, au sens de transposer d’un syste`me a` l’autre, c’est faire pour l’alte´rite´ le meˆme type d’ope´ration sur des entite´s non encore transforme´es en texte-objet (celui auquel aboutira l’ope´ration de traduction), mais qui sont de´crites conceptuellement suivant des me´thodes et des proce´dures susceptibles de comparaison et de rapprochement. La comparaison est pre´cise´ment le rapprochement de deux ou de tous les univers de l’alte´rite´, ayant e´te´ traite´ suivant les proce´de´s herme´neutiques. Avec ceci de particulier: dans l’univers-te´moin (objet de la transposition) le traitement herme´neutique du texte se pre´vaut d’une analyse sur un ensem-

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ble de donne´es re´elles qui permettent de remonter a` un cadre conceptuel: cate´gories relatives a` un syste`me donne´, e´le´ments invariants communs aux langues typologiquement proches, universaux notionnels. Et c’est ce cadre conceptuel qui fournit les re´pe`res the´oriques dans lesquels e´volue le syste`me d’arrive´e. Leur mate´rialisation linguistique ou se´miotique de´pendra des valeurs ou des modulations spe´cifiques propres au syste`me langueculture. Garantir le passage correct d’une comparaison interlinguistique ce n’est donc pas seulement garantir la correspondance formelle entre syste`mes a` des niveaux d’abstraction qui pourraient en eux-meˆmes assurer une certaine compre´hension, mais bien pe´ne´trer toutes les zones focales significatives et caracte´risantes. Cette ope´ration est possible uniquement quand l’ope´ration herme´neutique a pris en charge toutes les donne´es culturelles propres au syste`me en question. L’impact herme´neutique sur la connaissance en ge´ne´ral et sur le processus de la traduction – au sens classique du terme – pivote autour d’un certain nombre de concepts que nous pourrions qualifier d’approximations successives dont chacune peut repre´senter aussi bien un point de de´part de l’enqueˆte qu’un e´le´ment dialectiquement pertinent. Les deux phe´nome`nes de la compre´hension et de la traduction interne sont co-relie´s et interagissent. Ils inte`grent des notions propres a` la constitution des textes (rhe´torique, argumentation), les notions proprement linguistiques de paradigme (par identite´ et diffe´rence), celles d’intention du locuteur et de causalite´ et au bas de l’e´chelle des valeurs (sans doute le concept le plus significatif) celles de norme et d’idiomaticite´. Ceci suppose, bien entendu, la recherche – comparative – de re`gles a` travers les re´gularisations. Dans ce sens, les disciplines qui inte´ressent l’herme´neutique et l’activite´ traduisante le´gitiment l’apport des sciences linguistiques dans leur extension la plus pertinente, dans la double dimension de la recherche synchronique ou diachronique: phonologie, phone´tique, se´mantique, syntaxe descriptive, linguistique historique, linguistique textuelle, typologie linguistique. Il faut souligner que l’ide´e maıˆtresse qui se de´gage d’une telle conception de la comparaison interlinguistique est que le produit de la traduction n’est pas fixe´ une fois pour toutes. La traduction comme issue du processus herme´neutique est axe´e sur une synchronie de´termine´e et comme telle re´pond – alors – aux questions qui ont e´te´ pose´es par les proce´dures de de´couverte agissant sur le texte, qui, elles, demeurent fixes (ou fige´es dans le temps, si l’on conside`re que le figement est le re´sultat du dynamisme qui a constitue´ le sens). Ceci justifie les mouvements au niveau formel le plus bas par rapport a` la parole et la modification adaptative de la traduction comme

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re´ponse aux nouvelles exigences et caracte´ristiques du code synchronique envisage´. Ainsi le concept fondamental d’e´quivalence doit eˆtre remplace´ par le concept dynamique d’homologie qui s’oriente tout naturellement vers le lecteur lisant les invariants ne´cessaires et suffisants du texte de de´part.

5. Un mode`le inte´gre´ du signe linguistique Nous proposons un mode`le the´orique inte´gre´ qui englobe les analyses linguistiques greffe´es sur les concepts ope´ratoires de l’herme´neutique. Nous privile´gions les facteurs linguistiques (matie`re premie`re de l’enqueˆte) dans leur articulation complexe de structure comme syste` me syntaxicose´mantique et inte´gre´s dans une conception globale de l’Acte de langage et de sa modalite´ effective (syste`me logico-se´mantique et pragmatique). C’est pre´cise´ment cette mise en relief du linguistique dans l’e´chafaudage de l’ensemble communicatif qui renvoie au texte-objet dont il est issu et se´mantise – a` travers le jeu des diffe´rentes parties – le message global. La structure linguistique est signe symbolique ancre´ dans les situations concre`tes de la construction du sens; ce signe (de nature dialectique) se mate´rialise par l’impact des conditions psycho-sociolinguistiques de la production jusqu’a` la de´termination de l’acte individuel de re´fe´rence. Dans ce sens le signe est tributaire (et c’est ce a` quoi il doit son fonctionnement) des conditions empiriques de son impact avec le monde (histoire, relations contextuelles, relations avec le monde). Le signe se concre´tise dans l’usage re´el par les ressources propres au syste`me spe´cifique qu’il de´veloppe et qui repre´sentent finalement le produit fini caracte´ristique, the´oriquement ineffable. C’est la re´ponse «idiomatique» ou «idiosyncrasique» au phe´nome`ne de la communication (au sens tre`s large: le fait de communiquer) comme ensemble de re`gles, strate´gies, normes, attitude du scripteur ou du locuteur. Le signe linguistique entendu comme fonction globalisante complexe (structure, personnalite´, culture, signe ope´ratoire) est constitutif de texte et macro-texte dans la mesure ou` tous les e´le´ments interagissants et co-relie´s sont partie du texte-objet qui a e´te´ evoque´. L’analyse fine permet ainsi de pre´ciser le texte (les typologies de textes) graˆce a` la mise en relief des fonctions dominantes [Neubert: 1994; SnellHornby: 1989; Arcaini: 1992] comme objet et totalite´ singulie`re et de re´ve´ler les me´canismes constitutifs du sens. Dans cette direction, nous l’avons montre´, les proce´dures heuristiques de l’herme´neutique sont inte´res-

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santes, pre´cise´ment parce qu’elles sont fonde´es sur le noyau solide des acquis de la linguistique et des sciences qui s’y rattachent. La comparaison (la traduction est foncie`rement une approche comparative globalisante) se fait par le biais de ce que nous avons qualifie´ d’invariants universaux et des re´ponses typologiques aux manifestations linguistiques. Ce sont les e´le´ments re´sistants et communs aux syste`mes de communication (et d’expression, pour ne rien omettre) qui seuls sont en mesure d’assurer que les correspondances seront cherche´es et mene´es en bonne et due forme. Ce sont les notions qui ont trait a` la de´finition du signe-texte et de ses articulations abstraites et fonctionnelles: facteurs linguistiques (Acte de langage et sa sous-analyse), personnalite´ (acte d’e´nonciation en fonction des conventions et de l’intention du locuteur), culture (histoire et conditions empiriques de l’Acte), signe (entendu comme re´ponse objective et phe´nome`ne complexe ayant ses strate´gies et ses re`gles). Telle est la toile de fond ne´cessaire qui repre´sente le moment le plus inte´ressant de l’approfondissement herme´neutique. Mais il ne s’agit que d’une base; il ne faut y voir qu’une premie`re approximation. L’ope´ration traduisante mate´rialise ces concepts ge´ne´raux – de´ja` fixe´s sans vocation significative pre´cise – tient compte des variables qui supposent des choix pre´alables: le texte de de´part peut poser des proble`mes de diachronie (dans des textes pour lesquels le facteur temps a une incidence de´terminante) ou de synchronie. Les re´ponses supposent l’e´laboration de paradigmes linguistiques (les invariants ge´ne´raux sont assure´s par l’analyse du texte de de´part) homologiques et qui ne correspondent pas ne´cessairement sur le plan formel aux donne´es du texte a` transposer. C’est a` cet endroit qu’il est requis que les connaissances des syste`mes a` comparer soient tre`s approfondies et spe´cifiques. Le parcours ide´al de la traduction qui a e´te´ trace´ ne tient pas compte des situations concre`tes dans lesquelles e´volue l’ope´rateur et des conditionnements auxquels il est soumis. La discussion de ce point me´riterait une e´tude a` part, qui de´borde le cadre de notre propos actuel. Nous en rappellerons les e´le´ments principaux. Pour nous en tenir a` la traduction humaine, ces facteurs peuvent eˆtre re´sume´s de la fac¸on suivante: limite des connaissance linguistiques des syste`mes a` e´tudier; insuffisantes connaissances the´oriques dans la de´termination des actes langagiers et de leur interpre´tation; objectif de la traduction (finalite´ didactique etc.); difficulte´s d’inscription de la culture dans un syste`me culturel apparemment re´fractaire.

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6. L’Acte de langage et le discours litte´raire Les crite`res qui de´finissent les proce´dures de la re´flexion herme´neutique et l’analyse proprement dite s’appliquent a` l’acte de langage dans sa ge´ne´ralite´. Le langage ordinaire, ou mieux l’usage de cet instrument mouvant et varie´ qu’est le langage dans les situations de communication de tous les jours, n’a pas de pre´-orientation pre´cise. L’orientation se construit au fur et a` mesure que l’e´change ou l’expose´ se de´chiffre dans un cadre dont les re´actifs sont impre´dictibles. L’argumentation se construit ou se de´construit, se re´ajuste suivant le de´roulement de l’inte´raction; l’argumentation est en dehors de sche´mas pre´conc¸us et de´pend du «hasard» de la construction progressive. C’est un acte que l’on pourrait qualifier de gratuit puisqu’il n’a pas de finalite´ obligatoire a` atteindre. C’est le ve´cu (Erlebnis) de tous les jours, dans sa mouvance relativement arbitraire. L’e´motivite´, le jeu, le paradoxe, le mensonge semblent eˆtre les facettes impre´visibles de la conversation. Seules demeurent certaines attentes stylistiques ou le respect de re`gles-cadres qui de´coupent le comportement ge´ne´ral e´tant donne´ un certain type de socie´te´. Si l’on conside`re que la langue litte´raire est un domaine sui generis, c’est suˆrement celui ou` l’on trouve le maximum de liberte´ quitte a` respecter les «re`gles» de la litte´rarite´. Le «discours litte´raire» – artistique plus en ge´ne´ral – en de´pit de l’apparente liberte´ dans laquelle il e´volue de par sa nature est vraisembleblement le plus fortement lie´ a` son objet, a` cette diffe´rence pre`s qu’il n’est pas, qu’il ne doit pas eˆtre «partage´» par d’autres te´moins de son art ou par un genre d’argumentation particulier qui lui serait inte´rieur. Au contraire, plus pousse´e est l’e´laboration du langage et des syste`mes de valeur qu’il ve´hicule, plus il est lui-meˆme, plus fort est le sentiment de nouveaute´ qu’il re´ve`le, en donnant pre´cise´ment des sensations particulie`res aux horizons nouveaux. Paradoxalement nous pourrions dire que c’est le plus astreint des actes gratuits (sans finalite´ obligatoire). C’est donc un objet unique dans sa cohe´sion textuelle, partant plus difficile a` de´chiffrer et par suite a` rendre. Mais la litte´rarite´ est une vue sur le langage. L’e´laboration du syste`me de valeurs greffe´es sur la langue, est l’acte cre´ateur qui agit sur les relations entre les formes avant meˆme que sur les formes linguistiques. L’he´ritage des instruments formels contraint en quelque sorte l’e´crivain a` utiliser des outils dont les concre´tions, venues de la tradition, l’obligent a` jouer sur d’autres claviers. L’e´crivain est cre´ateur dans la mesure ou` il de´passe les valeurs de la forme canonique par un effort de reconstitution du langage, qui fait du produit d’ensemble un de´passement original.

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Mais comprendre le texte, c’est saisir par diffe´rence. Dans les deux sens possibles du terme: diffe´rence par rapport a` la source commune, legs du passe´; diffe´rence par rapport aux potentialite´s du syste`me de valeurs e´labore´ par l’e´crivain. C’est dans cette perspective que peut et doit se situer le lecteur-herme´neute qui s’engage dans le re´seau mouvant de la production linguistique et conceptuelle. Comprendre c’est alors refaire le parcours complexe dans le sens de la forme et de l’ide´e et mesurer le degre´ d’originalite´ par rapport a` cette commune mesure qu’est ce que l’on convient d’appeler la langue commune. Finalement, traduire ce sera transformer l’essence des re´sultats de cette analyse en un syste`me autre qui doit (ou devrait ide´alement) avoir parcouru le meˆme processus d’e´laboration. Le proble`me ge´ne´ral est de situer instruments et ide´es pour comprendre. Traduire c’est encore situer (ou mieux restituer) par rapport a` la destination qui comprend un certain nombre de variables ine´vitables: le facteur temps, la culture au sens tre`s large du terme, les syste`mes linguistiques susceptibles d’interfe´rer ne´gativement, l’absence de correspondances formelles ou notionnelles. Il est donc e´vident que la traduction va force´ment jouer sur trois claviers qui doivent eˆtre soumis a` des analyses tre`s fines: l’objet synchronique par rapport a` son syste`me formel et culturel, le syste`me formel et notionnel de la destination et l’ensemble des facteurs astreignants qui conditionnent le passage homologique d’une langue a` l’autre. C’est ainsi que sont ne´cessaires les connaissances des pre´suppositions avant d’entreprendre le travail de traduction. Saisir l’atmosphe`re de Der Tod in Venedig de Thomas Mann ou de La coscienza di Zeno de Italo Svevo, c’est d’abord avoir connu la situation culturelle d’une pe´riode caracte´rise´e dans les diffe´rents domaines de la culture qui de´finissent un certain mouvement d’ide´es: de la peinture aux sciences, de la philosophie aux litte´ratures qui imposent leurs mode`les, a` la musique. C’est e´galement comprendre que si les mots utilise´s repre´sentent la culture coutumie`re et que l’e´crivain, se servant des meˆmes outils, pe´ne`tre de nouveaux horizons, il faut chercher quelque part dans l’agencement du texte ou, dans de nouvelles mises en relation des mots, un sens transversal qui sillonne l’œuvre dans son ensemble et lui donne l’atmosphe`re qui doit eˆtre rendue.

7. La lecture et le choix lexical La traduction apparemment «facile» de certains vers de Dante n’en suppose pas moins la lecture herme´neutique si c’est Dante que l’on veut compren-

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dre et exprimer. Dans le cas ou` la langue d’arrive´e permet des choix, le lecteur est oblige´ de se prononcer et de justifier la solution adopte´e dans le paradigme dont il dispose, compte tenu des proble`mes ge´ne´raux qui se posent. C’est dire qu’on n’e´chappe pas au proble`me de l’interpre´tation. A plus forte raison lorsque le paradigme lexical semble s’imposer. Prenons un exemple chez Dante: Cred’io ch’ei credette ch’io credesse Che tante voci uscisser, tra quei tronchi, Da gente che per noi si nascondesse (Inferno, XIII, 25-27)

Si l’on donne au verbe credere «une acception ‘allant de soi’, aucun proble`me ne se pose pour le franc¸ais; le verbe «croire» a une polyvalence tre`s e´tendue capable de couvrir toute ambiguı¨te´ et aussi bien tout refus d’interpre´ter. En fait, nous trouvons en franc¸ais, par exemple: Je crois qu’il crut alors que je croyais Que tant de voix sortaient d’entre les branches, De la bouche des gens qui s’y cachaient de nous (Longnon)

qui nous laisse dans la difficulte´ interpre´tative la plus totale. On n’est gue`re plus renseigne´ en anglais: I think he must have thought that I was thinking that all those voices through the boles resounding Were those of folk who from our gaze hid shrinking (D. L. Sayers, Penguin Classics, 1949)

Cependant du point de vue strictement the´orique l’aire se´mantique du verbe «croire» peut s’analyser. Il appartient a` un champ paradigmatique qui comprend a` partir de «penser» des renvois vers «re´fle´chir» et qui de´veloppe depuis «croire»: «juger» et «estimer». Pour simplifier, nous dirons que «croire» peut avoir une valeur e´piste´mique ( j’estime que) ou une acception purement assertive. Ce qui suppose un choix dans une liste de verbes autres que «croire» en fonction de l’interpre´tation de´rivant du contexte linguistique. L’option est obligatoire en allemand ou` au moins deux verbes dans un paradigme assez vaste semblent convenir a` la lecture du vers de Dante. Mais l’option est un choix et une interpre´tation a` justifier. Ce souci est

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laisse´ au lecteur en franc¸ais (ainsi qu’en italien, d’ailleurs). En allemand nous avons: «denken», qui e´quivaut a` «penser», «estimer (bien)», «se douter que»; et «glauben» qui implique une croyance ferme, l’affirmation, la de´claration. Ce sont ces deux parcours qu’il faut trouver dans: • Stefan George, 1958( denken) Ich denke dass er dachte dass ich dachte so viele stimmen kla¨men aus dem laube vor einer schar die sie unsichtbar machte.

• Hermann Gmelin, 1980, (glauben) Ich glaub, er glaubte, dass ich glauben ko¨nnte Dass soviel Stimmenaus den Zweigen ka¨men. Von Leuten, die vor uns verborgen waren.

• ou bien en anglais chez Henry F. Cary, 1814 (e´d. J.M. Dent, 1955): [...] He, as it seem’d, believed That I had thought so many voices came From some amid those thickets close conceal’d

abstraction faite de tous les autres proble`mes qui se posent dans les solutions propose´es a` d’autres niveaux.

8. Traduction homologique Une voie semble s’imposer: il faut re´aliser le rapprochement de deux syste`mes de re´fe´rence. Non pas tant la diffe´rence de «substance» communicative (par exemple, les fonctions communicatives), mais les instruments graˆce auxquels se manifeste l’acte, soit au niveau de la «structure», soit au niveau de la «culture». Les choix a` effectuer – dans la culture linguistique – ne sont pas illimite´s dans la mesure ou` ils refle`tent des identite´s illocutoires qui peuvent eˆtre ramene´es dans le cadre d’une vision de l’intention communicative. La notion d’homologie qui a e´te´ the´orise´e suppose qu’il n’y a pas de correspondance terme a` terme, voire meˆme des lexicalisations a` comparer, mais qu’il y a des «e´quilibres» possibles, formels et substantiels (culturels, historiques) qui peuvent eˆtre re´alise´s par des conceptualisations homologiques inscrites dans le syste`me de la langue d’arrive´e. Nous aurons le tableau synoptique suivant:

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•• •• •• •• ••

paradigmes paradigmes paradigmes paradigmes paradigmes

paralle`les; divergents sur un plan culturel; de compensation comme «traduction» conceptuelle; divergents sur un plan formel; de compensation comme «traduction» culturelle.

Les conditions de la traductibilite´ sont en rapport avec la re´ponse – aussi bien sur le plan qualitatif que quantitatif – que l’on pourra donner a` la constitution des paradigmes aux diffe´rents niveaux de la langue en synchronie comme en diachronie. La recherche comparative – interne et interlinguistique – doit offrir non pas des solutions toutes faites, mais des situations e´nonciatives homologues re´pondant aux diverses caracte´risations de l’acte de communication. Le proble`me est de trouver et de de´crire les rapports e´nonce´s/situations dans les deux directions de formes idiosyncrasiques (avec transpositions automatiques) et idiomatiques (avec constructions convergentes et/ou divergentes) dans le cadre d’une conception dynamique de la langue.

Bibliographie Arcaini E. 1991. Analisi linguistica e traduzione. Bologna: Pa`tron — 1992. «La traduzione come operazione transculturale», in Lingua e Stile, XXVII, 2, (pp. 157-181) — 1992. «L’espressione linguistica della proprieta` nel mondo romano», in Bologna, la cultura italiana e le letterature straniere moderne. Atti del Convegno Alma Mater Studiorum Saecularia Nona. Ravenna: Longo Editore. (pp. 97-111) Gadamer H.-G. 1960. Wahrhheit und Methode. Tu¨bingen: Mohr (trad. it. Verita` e metodo, Milano, Bompiani, 1990) Ricoeur P. 1977. La se´mantique de l’action. Paris: CNRS (trad. it. La semantica dell’azione, Milano, Jaca Book, 1986) Snell-Hornby M. 1989. Translation Studies. An Integrated Approach. Amsterdam, Philadelphia: Benjamins Stolze R. 1992. Hermeneutisches U¨bersetzen. Linguistische Kategorien des Verstehens und Formulieren beim U¨bersetzen. Tu¨bingen: Gunter Narr Tirkkonen-Condit S. 1991. Empirical Research in Translation and Intercultural Studies. Tu¨bingen: Gunter Narr

ˆ GES DE LA TRADUCTOLOGIE. LES 4 A ´ ORIE POUR LA PRATIQUE QUELLE THE TRADUISANTE? di Jean-Rene´ Ladmiral

Devant intervenir dans le cadre de la premie`re partie du colloque de Salerne consacre´e a` la the´orie de la traduction, le 2 avril 1998 (le lendemain du 1er avril...), la question que je me suis pose´e e´tait la question e´piste´mologique (ou me´ta-the´orique) du statut de la the´orie en traduction, c’est-a`-dire la question de savoir quel est le statut du discours traductologique et quel est son rapport a` la pratique. Faire la the´orie de la traduction, c’est justement l’objet de la traductologie. Or, si jeune qu’elle soit, cette discipline a de´ja` une histoire! C’est ce qui m’a conduit a` entreprendre d’y introduire une pe´riodisation (comme disent les historiens) et a` distinguer quatre fac¸ons de «faire la the´orie» de la traduction correspondant a` quatre moments historiques, a` distinguer quatre e´tapes dans ce qui serait de´ja` l’histoire de la traductologie. Mais, pour aller plus vite, il ne s’agira pas tant de proposer un classement prenant pour objet les diffe´rentes the´ories individuelles, telles qu’ont pu nous les proposer diffe´rents «auteurs»; il s’agira bien plutoˆt d’une «arche´ologie» au sens qu’a pris ce terme depuis Michel Foucault: c’est ce que sont cense´es sugge´rer les connotations le´ge`rement archaı¨santes de mon titre distinguant quatre aˆges de la traductologie. Pour en traiter, je propose une typologie diachronique (ou historique) a` quatre termes distinguant: – une traductologie normative ou prescriptive – une traductologie descriptive – une traductologie scientifique ou inductive – une traductologie productive. C’est la` ce que j’appelle cum grano salis mon «quatrain traductologique»

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puisqu’aussi bien, on l’aura note´, les de´signations que j’ai retenues pour e´tiqueter ces quatre cate´gories riment deux a` deux... De fait, j’avais de´ja` esquisse´ l’essentiel de cette typologie a` quatre termes dans le cadre d’une e´tude que j’ai publie´e nague`re; et plus d’une dizaine d’anne´es plus tard, il ne m’apparaıˆt pas qu’il y ait lieu de modifier fondamentalement ce sche´ma. C’est pourquoi j’en reprends ici le texte, a` peu pre`s tel quel – en le relativisant et en le comple´tant, en l’assortissant des commentaires, comple´ments et ajustements qu’aura rendu ne´cessaires a` mes yeux le de´veloppement de la re´flexion traductologique entre-temps – et ce, tout en mainte1 nant bien se´pare´es ces deux couches de texte . Pre´senter les choses ainsi e´tait pour moi une question d’honneˆtete´ intellectuelle: j’entends «jouer cartes sur tables», en laissant apparent le «baˆti» ou le trace´ d’une recherche en cours (work in progress), au lieu de «tartiner» (comme disait Bachelard) un texte apparemment nouveau reprenant en partie les meˆmes ide´es... Il y a la` une proble´matique qui m’occupe depuis plusieurs anne´es2 et m’a paru me´riter de faire l’objet d’une reprise approfondie, puisqu’aussi bien c’est d’une re´flexion e´piste´mologique sur notre discipline qu’il s’agit; et ma the`se est qu’en sciences humaines l’e´piste´mologie est proprement coextensive au discours de la recherche elle-meˆme. En outre, au-dela` de l’inte´reˆt qu’on pourra prendre a` suivre le travail d’une recherche qui s’inscrit dans la dure´e, ce m’est aussi l’occasion de bien marquer qu’il n’est pas vrai que les re´flexions et les travaux publie´s dans le domaine des sciences humaines soient soumis au meˆme rythme d’obsolescence acce´le´re´e que dans le domaine des sciences exactes. Le croire, c’est ce´der a` cette ide´ologie dominante de la modernite´ qu’est le positivisme. – Sinon, on serait plus pre`s du discours de la pub’ que du discours de la recherche; a` moins qu’on ne soit fonde´ a` n’y voir qu’une manifestation d’inte´reˆts professionnels corporatistes, re´pondant aux contraintes universitaires du publish or perish ...3 1

«Traductologiques», in Retour a` la traduction: nume´ro spe´cial de la revue «Le Franc¸ais dans le monde» (Recherches et applications), e´d. Marie-Jose´ Capelle, Francis Debyser, et Jean-Luc Goester, aouˆt-septembre 1987, pp. 18-25. – Les e´le´ments de ce texte de 1987 seront nume´rote´s 1.1., 2.1., 3.1., 4.1. et 5.1.; et les e´le´ments de prolongement critique «auto-philologique» qui ont e´te´ indique´s a` Salerne: 1.2., 2.2., 3.2., 4.2. et 5.2., ainsi que 6. et 7. 2 Cf. de´ja` ma contribution intitule´e «Les quatre aˆges de la traductologie – Re´flexions sur une diachronie de la the´orie de la traduction», in L’histoire et les the´ories de la traduction. Les actes (colloque de Gene`ve: 3-5 octobre 1996), ASTTI & ETI, Berne & Gene`ve 1997, pp. 11-42. De fait, la pre´sente e´tude en reprend la substance dans une large mesure… 3 Ce serait une premie`re remarque e´piste´mologique, en passant, qui s’applique tout a` fait a`

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1. The´orie traductologique et pratique traduisante 1.1. En matie`re de traduction, c’est maintenant un lieu commun oblige´ que de souligner la croissance exponentielle des besoins et la masse e´crasante des documents traduits de nos jours. Mais on se pose moins souvent des questions touchant le de´veloppement corre´latif du discours sur la traduction, qui rele`ve de ce qu’on appellera en franc¸ais la traductologie4 (soit en allemand U¨bersetzungswissenschaft et en anglais Translation Studies). Il y a la` l’accumulation de tout un savoir qui, a` son tour, appelle le retour re´flexif d’une e´piste´mologie. En pre´cisant que mon propos est ici de nature e´piste´mologique, j’entends marquer que le discours tenu sera proprement the´orique, c’est-a`-dire qu’il ne s’agira pas pour moi de contribuer a` augmenter la somme des informations, des connaissances dont nous disposons sur la traduction, mais d’induire un changement des attitudes intellectuelles (ou «mentales») qui sont les noˆtres quand nous prenons la traduction pour objet d’e´tude; bien plus, je dirai que mon propos est ici d’ordre me´tathe´orique, puisque j’entends tenir un «discours sur le discours sur» la traduction. – Et paradoxalement, je pre´tends que ce discours est, de ce fait meˆme, directement pratique. Plus concre`tement, la question est: Quelle the´orie pour la pratique tradui5 sante? Une e´piste´mologie de la traduction ira a` de´terminer quel est le la traductologie, comme j’y insiste dans la Pre´face a` la seconde e´dition de mon livre Traduire: the´ore`mes pour la traduction, Gallimard, Paris 1994 (coll. «Tel», 246), p. V sqq. 4 Il arrive qu’on m’attribue la paternite´ du terme en franc¸ais... En fait, je serais surpris que le concept ne soit pas apparu quasi simultane´ment chez plusieurs auteurs, conforme´ment a` ce qui se passe le plus souvent en histoire des sciences. Sur ce point de terminologie, voir mon e´tude intitule´e «Philosophie de la traduction et linguistique d’intervention», parue dans le nume´ro spe´cial Traduzione tradizione de la revue bilingue franco-italienne «Lectures» (Bari, Dedalo), n˚ 4-5, agosto 1980, p. 11 sqq. 5 C’est ce titre que j’avais donne´ a` une pre´ce´dente e´tude publie´e dans les Actes des «Rencontres autour de la traduction» organise´es par le B.E.L.C. (Paris, 11-14 mars 1986): La Traduction, Paris 1986, pp. 145-166. – Conforme´ment a` une habitude de plus en plus re´pandue dans les publications en sciences humaines, j’ai e´te´ amene´ a` citer plusieurs de mes propres travaux: la pre´sente e´tude s’inscrit en effet dans le cadre d’une re´flexion d’ensemble dont c’e´tait l’occasion de faire apparaıˆtre la cohe´rence et avec laquelle il m’a semble´ utile de marquer certains points de contact; c’e´tait aussi une fac¸on d’alle´ger cette meˆme e´tude qui, avec le recul, menac¸ait de prendre une ampleur excessive (et qui fournira sans doute la matie`re d’un prochain livre); enfin, c¸a a e´te´ souvent l’occasion de mentionner certains nume´ros spe´ciaux de revues et autres publications collectives consacre´s a` la traduction

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statut the´orique du savoir traductologique. Il s’agit en effet de savoir, plus pre´cise´ment, quel type de discours il convient de tenir sur la traduction. D’une fac¸on ge´ne´rale, on peut de´fendre l’ide´e que le discours des sciences humaines s’autorise en grande partie de son utilite´ pratique au niveau de la «demande sociale», dans la mesure ou` il n’est gue`re en mesure d’invoquer un rapport a` la ve´rite´ aussi incontestable que celui qui de´finit «la Science» – au sens strict qu’a le terme en franc¸ais (ou en anglais), de´signant les seules sciences exactes (c’est-a`-dire en un sens beaucoup plus e´troit que celui que peut reveˆtir l’allemand Wissenschaft). S’agissant des sciences «dures», on remarquera au demeurant qu’avec la me´thode expe´rimentale, c’est aussi un crite`re pragmatique d’utilite´ qui semble nous apporter la garantie de ce qu’on appelle justement les ve´rite´s scientifiques, au niveau des applications techniques. Toujours est-il que le savoir traductologique rele`ve, a` l’e´vidence, de ce qu’il convient d’appeler les sciences humaines – sinon, en toute rigueur, des «sciences sociales», comme voudraient dire d’aucuns en vertu de ce qui n’est qu’un anglicisme de mauvais aloi6. Ainsi ma the`se sera-t-elle que le discours «sur» la traduction, en quoi re´side la traductologie, se doit d’eˆtre un discours pour la traduction; et c’est ce que j’ai tenu a` marquer dans le titre meˆme de mon livre7. En un mot: on ne devra pas attendre de la traductologie qu’elle nous tienne un discours «scientifique» (stricto sensu), mais qu’elle constitue une praxe´ologie, c’est-a`-dire une discipline ou un savoir dont tout le sens ne va qu’a` nous apporter une «science de la pratique» (Handlungswissenschaft). D’ou` ce paradoxe qu’a` faire la the´orie de la the´orie, on est cense´ embrayer directement sur la pratique. S’il est vrai que la traductologie n’est pas (encore) une science, ni sans doute la linguistique elle-meˆme – a` supposer qu’elles le devinssent jamais, au sens e´troit – il reste qu’il existe de´ja` une masse tre`s importante de litte´rature sur la traduction. Si l’on comptabilise ce qui a pu se publier en quelque quatre ou cinq «grandes langues», comme l’allemand, l’anglais, le franc¸ais, le russe, l’italien..., on aura plus d’une centaine d’ouvrages, sans compter les articles! Depuis quelques anne´es, on assiste meˆme a` une explosion du nombre des «e´tudes sur la traduction». qu’autrement, peut-eˆtre, le lecteur euˆt ignore´. En revanche, je me suis limite´ a` l’essentiel pour ce qui est des re´fe´rences bibliographiques en ge´ne´ral… 6 C’est l’une des critiques que j’adresse a` Henri Meschonnic, dans le cadre de la pole´mique qui nous a oppose´s: cf. Jean-Rene´ Ladmiral & Henri Meschonnic (e´ds.), La Traduction: nume´ro spe´cial de la revue «Langue franc¸aise», n˚ 51, septembre 1981, pp. 9 et 10 sq. 7 Traduire: the´ore`mes pour la traduction de´ja` cite´ (cf sup. note 3).

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Tant et si bien qu’on se trouverait dans une e´trange situation, ou` la traductologie constituerait de´ja`, a` l’aube de sa naissance, une discipline «a` plein temps». Ainsi les traductologues seraient-ils entie`rement occupe´s a` lire toute cette litte´rature the´orique et a` produire eux-meˆme la the´orie de la traduction; et ils n’auraient pas l’expe´rience de la pratique traduisante, car ils n’en auraient pas le temps. L’inflation continue de la litte´rature traductologique, a` laquelle constitutivement ils contribuent, les placeraient pour ainsi dire dans la situation d’Achille poursuivant la tortue et qui, si l’on en croit Ze´non d’Ele´e, ne rattrapera jamais «le plus lent des animaux»... Inversement, les traducteurs seraient eux-meˆmes totalement absorbe´s par la pratique, sans avoir le temps ni les moyens de prendre connaissance de tout ce savoir the´orique que la traductologie est cense´e accumuler sur la traduction, qu’ils pratiquent! A l’e´vidence, c’est la` une situation paradoxale, mais aussi absurde et intenable, pour ainsi dire scandaleuse. En soi, il n’est pas inconcevable qu’existe une discipline voue´e a` la description the´orique d’une re´alite´ avec laquelle elle ne s’identifie pas. E´piste´mologiquement, cette coupure sujet-objet n’est rien moins qu’exceptionnelle. C’est la re`gle dans les sciences exactes; mais c’est aussi le cas en sciences humaines: pour faire l’histoire du Moyen Age, par exemple, il n’est pas absolument ne´cessaire d’eˆtre soi-meˆme un homme du Moyen Age! dirais-je au risque de froˆler le sophisme... En ce sens, ce serait une attitude excessive et «poujadiste» que de vouloir a priori re´cuser comme traductologue tout the´oricien qui ne serait pas lui-meˆme traducteur. De fait, c’est pourtant la` une objection que l’on voit fre´quemment les praticiens de la traduction «jeter a` la figure» de ceux qui se meˆlent d’en faire la the´orie. En traduction, le clivage the´oriciens/praticiens se montre souvent tre`s charge´ e´motionnellement, tre`s «investi» psychologiquement. C’est ainsi qu’on a la surprise de voir se de´clencher parfois d’incroyables «batailles d’Hernani» dont la traduction est l’enjeu inattendu et qui opposent les traducteurs aux traductologues. Il semblerait un peu que les incursions cognitives des the´oriciens-traductologues, les praticiens-traducteurs les rec¸ussent pour ainsi dire comme des attouchements induˆs et y re´pondissent par un noli me tangere courrouce´, du genre: «Ne me mets pas la main a` la pratique!» Au-dela` de telles oppositions, qui te´moignent d’une ambivalence profonde8 – et meˆme s’il n’est, donc, en soi pas totalement ille´gitime d’e´tudier 8

Ce n’est pas le lieu de de´velopper ici la proble´matique d’un «inconscient de la traduction», dont j’ai traite´ dans mon e´tude: La traduction prolige`re? – Sur le statut des textes qu’on traduit, in Μετα, Vol. 35/N˚ 1, mars 1990, pp. 102-118.

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la traduction comme un objet exte´rieur, sans en avoir directement la pratique – il reste que c’est bien quand meˆme d’une pratique qu’il est question en l’occurrence; et il est clair qu’un the´oricien est en cette affaire beaucoup plus cre´dible s’il est «du baˆtiment», s’il a une expe´rience pratique ` titre personnel, le signataire de la pre´sente e´tude ne se de ce dont il traite. A fuˆt jamais risque´ a` publier dans le domaine de la the´orie traductologique s’il n’avait pas lui-meˆme paralle`lement une expe´rience pratique de traducteur (avec pre`s d’une dizaine de livres traduits de l’anglais et, surtout, de l’allemand en franc¸ais). Cela dit, une telle e´tude, purement the´orique et «de´simplique´e», est possible: elle fournirait la matie`re pour un chapitre de ce qu’il est convenu d’appeler la linguistique descriptive et/ou contrastive – chapitre dont, au demeurant, Georges Mounin de´plore la trop fre´quente l’absence dans la plupart des manuels de linguistique, voire de philosophie. Mais ce ne serait pas encore de la traductologie, au sens e´troit que je m’attache a` de´finir. Voila` de´ja` une premie`re alternative, entre deux approches possibles; et ce ne sont pas les seules. C’est tout un foisonnement me´thodologique qui vient nourrir la masse, de´ja` note´e plus haut, de litte´rature traductologique publie´e. Compte tenu de cette importance quantitative et compte tenu de la diffe´rence qualitative des approches possibles, on peut dire qu’il y a beaucoup de discours sur la traduction: au sens ou` on a beaucoup e´crit et ou` il y a beaucoup a` lire, mais aussi au sens ou` il y a plusieurs types de discours traductologiques. D’ou` la ne´cessite´ d’y mettre un certain ordre. C’est la raison pour laquelle je propose ici un classement qui va au-dela` de la simple classification que j’avais ante´rieurement propose´e9 et qui s’en tenait a` l’e´tiquetage phe´nome´nologique de divers travaux. Ce que je me suis attache´ a` proposer ici est proprement une typologie, visant a` mettre en e´vidence ce qu’on appelle, depuis Max Weber, des «types ide´aux» auxquels correspondent tendanciellement les diverses modalite´s du discours traductologique. C’est ainsi que j’ai distingue´ quatre types de traductologies. Par ailleurs, il est clair qu’une telle me´ta-typologie du discours sur la traduction est tout autre

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C’est une proble´matique que j’avais aborde´e dans mon e´tude intitule´e Philosophie de la traduction et linguistique d’intervention, cit., p. 17 sqq.; et j’y suis revenu plus en de´tail dans Technique et esthe´tique de la traduction, in Actes des Journe´es europe´ennes de la traduction professionnelle (UNESCO, Paris 25-26 mars 1987), publie´s dans la revue «Encrages» (Hachette–Universite´ de Paris-VIII: Vincennes a` Saint-Denis), n˚ 17, Printemps 1987, pp. 190-197.

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chose qu’une typologie de la traduction, comme celles qui ont pu eˆtre 10 propose´es par d’aucuns .

1.2. Fondamentalement, le proble`me pose´ est bien re´sume´ par la question suivante: quelle(s) the´orie(s) pour la pratique traduisante? C’est le proble`me du statut de la the´orie de la traduction, c’est-a`-dire le proble`me du statut du discours traductologique. Il s’agit de de´velopper une traductologie dont la the´orie de la traduction est le cœur et a` laquelle elle tend a` s’identifier, par synecdoque. Dans cet esprit, c’est d’abord a` la linguistique – et, plus spe´cifiquement, a` la Linguistique Applique´e, a` une linguistique applique´e a` la traduction – voire a` une philosophie de la traduction, que s’alimente le discours de la the´orie traductologique. Ainsi qu’il a e´te´ indique´, il y a la` un savoir the´orique qui a sa le´gitimite´ en soi, inde´pendamment des pre´occupations pratiques du traducteur. Mais il est cense´ pre´senter aussi un inte´reˆt pour les traducteurs, au moins pour une part. De la linguistique, on peut induire les e´le´ments d’une me´thodologie proble´matisant la traduction, ainsi qu’une terminologie permettant d’e´tiqueter les re´alite´s langagie`res avec lesquelles le ` une philosophie de la traduction, il reviendra de traducteur a a` faire. A nourrir une re´flexion sur la pratique, sans quoi il n’est pas de traductologie qui tienne. Cela dit, il est clair qu’il y a aussi une dimension psychologique de la pratique traduisante. Ainsi l’e´piste´mologie du discours traductologique nous renvoie-t-elle d’abord essentiellement au triangle interdisciplinaire que constituent la ` quoi ne devra pas manlinguistique, la philosophie et la psychologie11. A quer le comple´ment des sciences sociales qui viennent apporter les informations assurant le remplissement d’une se´mantique concre`te et approfondie, comme l’ont assez montre´ les travaux de Eugene A. Nida. Par ailleurs, il est vrai qu’il y a aussi un savoir et un habitus propres aux litte´raires dont on conc¸oit mal qu’on puisse se passer... En sorte que, de proche en proche, c’est l’ensemble des sciences humaines qui se trouvent convoque´es. Il n’y

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Voir notamment celle de Katharina Reiss et l’expose´ critique que j’en ai fait (en franc¸ais) dans mes E´le´ments de traduction philosophique, in «Langue franc¸aise», n˚ 51, septembre 1981, p. 19 sqq. 11 Traduire: the´ore`mes pour la traduction, cit., pp. IX-XXI.

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aura, au demeurant, pas lieu de s’en e´tonner outre-mesure: cela correspond a` une tendance e´piste´mologique ge´ne´rale, qui va a` faire e´clater les grandes «sciences» traditionnelles en autant de sous-disciplines ou «approches» qu’il y a d’objets spe´cifiques, quitte a` y re´introduire une part importante d’interdisciplinarite´. Concurremment, on assiste a` une sorte d’inflation du discours the´orique ou` il me semble qu’il y a trop souvent lieu de voir un «effet pervers» de la professionalisation de la recherche dans le cadre des institutions universitaires. D’ou` la ne´cessite´ d’une re´flexion e´piste´mologique, c’est-a`-dire «me´tathe´orique» en quelque sorte: ladite me´ta-the´orie e´tant cense´e apporter des e´clairages critiques de´bouchant sur la pratique. Concre`tement, aujourd’hui encore plus qu’hier, on dira qu’il y a «trop de publications» sur la traduction – ce qui impose l’obligation paradoxale que la me´diation entre chercheurs d’une meˆme discipline s’ope`re, d’une sous-discipline a` l’autre, par le biais ` l’inte´rieur d’une meˆme sous-discipline, des compte rendus de la presse...12 A la me´diation fait encore proble`me: il revient au chercheur d’assurer ce que j’appelle une «auto-re´ception didactique de sa propre discipline»; et je dirai que c’est un peu la fonction de nos colloques. Paralle`lement a` la recherche proprement dite, nous attendons d’un colloque comme celui de Salerne qu’il contribue a` notre formation permanente, a` notre recyclage... La complexite´ croissante de ces proble`mes exige une mise en ordre – ne fuˆt-ce que pour des raisons pe´dagogiques. Outre celles qui viennent d’eˆtre indique´es, en effet, il se trouve que certains d’entre nous sont engage´s dans la formation des traducteurs paralle`lement a` leur activite´ de traducteurs. A titre personnel, l’auteur de ces lignes assure notamment un enseignement de the´orie de la traduction. De`s lors se pose la question de savoir comment enseigner la traductologie: quelle traductologie enseigner? quels sont les choix auxquels il faudra consentir? En effet – dans un Institut de formation comme l’I.S.I.T. ou l’E.S.I.T. a` Paris, comme l’E.T.I. a` Gene`ve, comme l’Institut de Trieste en Italie, etc. – un tel enseignement ne doit pas prendre une ampleur telle qu’il basculerait du coˆte´ d’une initiation a` la recherche, alors qu’il doit rester au service de la future pratique professionnelle de nos e´tudiants. C’est l’un des sens que reveˆt la «demande sociale» pre´ce´demment e´voque´e.

12

Cf. Ju¨rgen Habermas, La Technique et la science comme ‘ide´ologie’, pre´f. et trad. J.-R. Ladmiral, Gallimard, Paris 1973... (coll. Les Essais). Re´e´ditions en livre de poche: Paris, Denoe¨l-Gonthier, 1978... (coll. Me´diations, n˚ 167); puis reprise et re´e´ditions chez Gallimard, a` partir de 1990 (coll. Tel, n˚ 161), p. 126 sq.

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Il s’agira donc de passer de la «phylogene`se» diachronique d’une histoire de la discipline a` l’«ontogene`se» didactique et me´thodologique d’une progression pe´dagogique. C’est, a` vrai dire, la pre´occupation qui e´tait d’emble´e a` l’arrie`re-plan de ma typologie des «quatre Ages de la traductologie»; c’est aussi la raison pour laquelle je m’y tiens, quitte a` y apporter ici quelques e´le´ments de relativisation critique et d’actualisation. Et la premie`re re´vision que j’y apporterai sera, pour ainsi dire, de de´-diachroniser ces quatre «aˆges», ladite typologie devenant une synchronie de modes discursifs ou cognitifs. Pour moi, en l’occurrence, l’important n’est pas de me cramponner a` cette typologie par fide´lite´ au passe´, mais de faire travailler les concepts. La mise en place d’une telle typologie et la se´lection corre´lative des contenus the´oriques a` enseigner est a` la fois possible et de´licate, dans la mesure ou` il n’y a pas de parcours oblige´ en matie`re traductologique. Cela tient aussi a` une donne´e e´piste´mologique: je dirai que dans les sciences humaines (et donc, en particulier, en traductologie), il y a une rassurante «viscosite´» du savoir, ou` il entre une part de contingence. Une part de contingence historique (ou diachronique) qui m’ame`ne a` proble´matiser, puis a` relativiser les quatre «aˆges» de la traductologie. Une part de contingence culturelle immanente a` l’histoire des sciences humaines, de la linguistique en l’occurrence, qui a pu faire par exemple qu’une certaine traductologie europe´enne ait e´te´ de tradition structuraliste, alors que certains the´oriciens e´taient plus volontiers de tradition chomskyenne, outre-Atlantique et ailleurs. Il n’est pas jusqu’a` l’appellation de notre discipline elle-meˆme qui ne pose un proble`me de traduction et ne renvoie aux contingences de la communication interculturelle. Il est en effet possible de discerner des connotations diffe´rentielles attache´es aux termes qui de´signent la traductologie en allemand, en anglais et en franc¸ais par exemple. En anglais, la cate´gorie Translation Studies connote l’e´piste´mologie empiriste de la tradition anglo-saxonne et implique par la`-meˆme une de´finition tre`s large, en extension, du domaine de la discipline. En allemand, le concept U¨bersetzungswissenschaft pourra eˆtre traduit litte´ralement en franc¸ais par «science de la traduction» et pourrait, du meˆme coup, laisser penser qu’il s’y attache une connotation positiviste. En fait, c’est un peu plus complique´: s’il est vrai que d’aucuns ont pu sembler ce´der paradoxalement aux tentations du scientisme, sous l’influence du triomphalisme pre´valent nague`re en linguistique, d’autres ont su se ressouvenir de la lec¸on des philosophes ne´okantiens qui ope´raient une dichotomie fondamentale entre sciences exactes et «sciences humaines» (Geisteswissenschaften) pour bien marquer la spe´cificite´

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13 e´piste´mologique de ces dernie`res, en compre´hension . Je tiens que c’est aussi dans ce dernier sens qu’il y a lieu d’entendre le franc¸ais traductologie qui, significativement, fait e´cho au terme sociologie14. Comme quoi, le projet de rationalite´ qui constitue les sciences humaines s’inscrit dans le cadre de traditions linguistiques, culturelles et nationales. Au bout du compte, le traductologue peut-il vraiment s’en e´tonner?

2. La traductologie prescriptive

2.1. Le premier aˆge de la traductologie que j’ai distingue´ correspondait a` ce que j’ai appele´ d’abord la traductologie prescriptive ou normative, a` l’instar de l’opposition liminaire que les linguistes se plaisaient couramment a` camper nague`re entre une grammaire traditionnelle, reste´e encore normative ou «prescriptive», et une linguistique naissante, enfin devenue scientifique et «descriptive». J’y rangeais des oeuvres de plus ou moins haute vole´e spe´culative, qu’elles soient d’inspiration litte´raire ou d’obe´dience philosophique, comme les travaux essayistiques d’un Walter Benjamin15 ou d’un Henri Meschonnic16, d’un Valery Larbaud17; d’un Jose´ Ortega y Gasset18 ou d’un George

13

Il y a la` toute une proble´matique, a` la fois e´piste´mologique et terminologique, c’est-a`dire aussi traductologique, dont j’ai traite´ a` propos des traductions de Ju¨rgen Habermas, cf. La Technique et la science comme ‘ide´ologie’, cit., p. XLVII et passim. 14 Cf. Philosophie de la traduction et linguistique d’intervention, cit., pp. 11 sq. et 16 sq. 15 Comme on sait, Walter Benjamin a publie´ d’abord son Essai sur ‘‘La taˆche du traducteur’’ en 1923, comme pre´face a` sa traduction des Tableaux parisiens de Baudelaire: Die Aufgabe des U¨bersetzers, in Iluminationen. Ausgewa¨hlte Scriften, Francfort/M., Suhrkamp, 1961 (Die Bu¨cher der Neunzehn, n˚ 78), pp. 55-69. Pour une critique des positions qu’y de´fend Benjamin, cfr. notre e´tude intitule´e Entre les lignes, entre les langues, in «Revue d’Esthe´tique» (Toulouse: Privat), n˚ 1 (nouvelle se´rie), pp. 67-77. 16 Citons seulement le premier livre, essentiel, qu’il a consacre´ a` la traduction: E´piste´mologie de l’e´criture & Poe´tique de la traduction, in Pour la poe´tique II, Gallimard, Paris 1937 (coll. Le Chemin). Par la suite, Henri Meschonnic a publie´, comme on sait, de nombreux travaux sur la traduction (cf. notamment note 6). 12 17 Sous l’invocation de Saint Je´roˆme, Gallimard, Paris 1957 (collection blanche). 18 Miseria y Esplendor de la Traduccio´n (1937).

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19 20 Steiner et d’un Antoine Berman . D’une fac¸on ge´nerale, on remarquera a` ce propos que je ne traite gue`re ici spe´cifiquement de la traduction litte´raire, ou` je choisis de ne voir qu’un cas limite de la traduction ge´ne´rale. S’il est vrai que certains travaux en traitent tout spe´cialement – notamment les ouvrages qui viennent d’eˆtre cite´s, ou encore le livre d’un Efim Etkind21, etc. – je tiens qu’il n’y a pas la` un ‘‘domaine re´serve´’’, appelant une the´orie se´pare´e. Je re´cuse expresse´ment le ‘‘mime´tisme’’ qui voudrait qu’il falluˆt que ce fuˆt exclusivement a` une re´flexion spe´cifiquement litte´raire qu’il revıˆnt le privile`ge de traiter de la traduction litte´raire (pas plus qu’il ne faut qu’un medecin soit lui-meˆme malade pour eˆtre en mesure de soigner les gens!), sans me´connaıˆtre bien suˆr l’apport de´cisif qu’apporte la ‘‘sensibilite´’’ litte´raire a` la the´orie de la traduction. Surtout: je conteste fondamentalement la position ‘‘me´tathe´orique’’ de ces litte´ralistes que j’ai appele´s sourciers22 et qui voudraient que la traduction ‘‘technique’’ ou professionnelle ne soit justiciable que d’une the´orie du sens (cibliste), alors que la traduction litte´raire me´riterait une the´orie (sourcie`re) de la ‘‘signifiance’’23. C’est aussi bien suˆr dans la cate´gorie de la ‘‘traductologie prescriptive’’ qu’il y a lieu de faire figurer les publications pe´dagogiques traditionnelles, qui peuvent eˆtre tout a` fait subalternes comme les manuels de traduction les plus traditionnels, aide-me´moire, me´mentos, vade-me´cum et autres guideaˆnes, etc. Tre`s globalement, je dirai que l’ensemble de ces travaux ressortissent au stade ‘‘pre´-linguistique’’ d’une re´flexion sur le langage qu’on pourra dire ide´ologique – ou meˆme ‘‘philosophique’’, au sens tre`s large et ici pe´joratif ou` l’entendent parfois certains, a` tort – pour autant qu’elle illustre les diverses figures d’une ide´ologie spontane´e concernant le langage. Au vrai, ce n’est plus la majorite´ de la litte´rature qui se produit maintenant sur la traduction: c’est pourquoi j’ai parle´ a` ce propos de la ‘‘traductologie d’avant-hier’’...

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After Babel. Aspects of Language and Translation. Oxford University Press, New York-London 1975. 20 Antoine Berman, L’E´preuve de l’e´tranger. Culture et traduction dans l’Allemagne romantique, Gallimard, Paris 1984 (coll. Les Essais, no. CCXXVI; re´ed. coll. TEL, no. 252). 21 Un art en crise. Essai de poe´tique de la traduction poe´tique. L’Age d’Homme, Lausanne 1982 (coll. Slavica). 22 Voir mon e´tude: Sourciers et ciblistes, in «Revue d’esthetique», No 12 (1986), pp. 33-42. 23 Cf. La traduction prolige`re? – Sur le statut des textes qu’on traduit., cit., p. 106 sq.

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2.2. En re´alite´, cette cate´gorie est un peu un fourre-tout (catch-all) puisqu’aussi bien j’y subsumais non seulement des ouvrages pe´dagogiques, mais encore des travaux litte´raires traditionnels, prodiguant les conseils empiriques classiques, et meˆme certains opuscules «philosophiques» touchant la traduction. En ce sens, ce discours traductologique est bien d’avant-hier. Mais il est aussi d’aujourd’hui et de toujours – comme les acquis de la vie quotidienne – dans la mesure ou` la traduction est une pratique assez re´pandue et diverse pour que chacun pense eˆtre en droit de «donner son avis» sur la question. C’est ainsi que des esprits venus d’horizons tre`s diffe´rents rede´couvrent re´gulie`rement des ide´es on ne peut plus classiques, qu’ils asse`nent avec la conviction d’apporter quelque chose de nouveau et qui leur est tout a` fait personnel... En somme, ce ne serait pas tant au plan diachronique d’une phylogene`se historique que la traductologie prescriptive repre´senterait un premier aˆge, mais au plan «ontoge´ne´tique» de la re´flexion personnelle de chacun et de ses ine´vitables naı¨vete´s ide´ologiques (cf. sup.) qui repre´senteraient comme une «maladie infantile» de la traductologie. En tout cas, il conviendra de distinguer trois aspects diffe´rents dans cette ne´buleuse intellectuelle. 1˚) Il y a la dimension philosophique dont je tiens que c’est une dimension essentielle de la traductologie. Cela manque a` apparaıˆtre en toute clarte´ parce que, d’une part, les travaux publie´s dans ce sens ne sont pas tre`s nombreux et parce que, d’autre part, c’est a` peine si l’on est sorti maintenant de l’e´poque ou` l’on a cru que la traduction relevait exclusivement de la linguistique (ceci expliquant en partie cela). Toujours est-il que la traductologie est une discipline de re´flexion et non une discipline de savoir. Du coup, bien e´videmment, la re´flexivite´ spe´culative de la philosophie y a sa place. La philosophie de la traduction n’est pas un archaı¨sme re´siduel de notre tradition culturelle, mais une e´che´ance de la pense´e moderne, et particulie`rement de la traductologie. Aussi n’est-ce pas au sens pe´joratif pre´ce´demment e´voque´ qu’on devra parler de «traductologie philosophique» a` propos des travaux d’un Antoine Berman, par exemple. C’est aussi une re´flexion que je me suis attache´ a` de´velopper – dans une direction a` vrai dire oppose´e a` celle du regrette´ Antoine Berman – et sur laquelle je reviendrai (rapidement) a` la fin de la pre´sente e´tude. Sans doute le titre de traductologie «prescriptive», que j’avais retenu, ne convient-il que tre`s imparfaitement a` une telle philosophie de la traduction. On notera toutefois que les professions de foi litte´ralistes de the´oriciens

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«sourciers» comme Walter Benjamin, Henri Meschonnic ou Antoine Berman prennent en ge´ne´ral la forme d’affirmations pe´remptoires, dont le caracte`re normatif, voire prescriptif, est proprement manifeste... 2˚) Il est a` peine besoin de rappeler qu’il y a une dimension litte´raire de la traduction, sur laquelle la tradition comme la pense´e contemporaine sont prolixes. La traduction devient de`s lors un objet relevant a` la fois de la litte´rature compare´e et de l’histoire litte´raire, voire de la stylistique. Mais, encore une fois, c’est une dimension du travail traductologique dont je ne traiterai pas ici. Cette approche litte´raire aura e´te´ fort heureusement bien pre´sente au colloque de Salerne. Ainsi qu’il a e´te´ sugge´re´ plus haut, on notera que la de´marche litte´raire ne se limite pas bien suˆr a` la mise en regard de «l’homme et l’œuvre», ni meˆme a` un impressionnisme stylistique esthe´tisant, et encore moins aux formalismes nague`re en vogue. D’une fac¸on ge´ne´rale, il y a une pense´e propre a` l’approche litte´raire des proble`mes, ce qu’illustrent magistralement des auteurs contemporains comme George Steiner, Alain Finkielkraut ou Umberto Eco. Aussi n’est-ce finalement pas sans raison que j’avais regroupe´ dans la meˆme cate´gorie traductologique les e´tudes relevant du discours litte´raire et de la discipline philosophique. En e´cho a` ces «retrouvailles e´piste´mologiques», si l’on peut dire, c’est dans le cadre de la philosophie de la traduction que j’ai de´veloppe´ mon Esthe´tique de la traduction, aux confins de la sensibilite´ litte´raire. 3˚) Il semblerait qu’il y ait au moins un point sur lequel je ne doive pas continuer ici a` «faire mon autocritique»: le discours didactique n’est-il pas, par construction, normatif? Corollairement, la traduction dans l’institution pe´dagogique est par nature prescriptive. De fait, l’utilisation de la traduction dans le cadre de l’enseignement des langues est tre`s ge´ne´ralement normatif, beaucoup trop normatif24. Ces prescriptions pe´dagogiques sont meˆme en partie a` l’origine de l’erreur litte´raliste et des naı¨vete´s «sourcie`res» qui se´vissent en traduction. On a alors a` faire a` ce que Louis Truffaut a appele´ des «traductions linguistiques», par opposition a` ce que j’avais appele´ des «traductions traductionnelles». ` bien y regarder, les choses sont un peu plus complexes. D’abord, la A normativite´ litte´ raliste en traduction est contradictoire et «contreperformante». L’injonction litte´raliste permet certes de faire fonctionner la traduction comme test de compe´tence concernant la maıˆtrise de la norme 24 Je ne reviens pas ici sur ce point que j’ai de´veloppe´ dans mon livre Traduire: the´ore`mes pour la traduction, cit., pp. 23-43.

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grammaticale; mais, du meˆme coup, on n’a plus a` faire avec l’activite´ productrice d’un texte-cible, en quoi re´side proprement la traduction. L’ide´e est que la prescription pe´dagogique litte´raliste est en somme d’en faire le moins possible! puisque c’est de «coller» a` l’e´nonciation de la langue-source du texte original... Mais il faut dire surtout que ce qui nous inte´resse ici, ce n’est pas seulement l’enseignement des langues, ni meˆme la traduction mise a` son service. Du coup, les enseignements de traduction qu’il nous incombe de dispenser, a` nous qui sommes presque tous professeurs en meˆme temps que ` titre personnel, ceux traducteurs, ne sont pas ne´cessairement normatifs. A que j’assure a` l’I.S.I.T. ne sont pas tant des cours de traduction inculquant des principes normatifs et des solutions prescriptives que des se´minaires visant a` mettre en place ce que depuis peu on est convenu d’appeler en sciences humaines des «discours the´rapeutiques», dont le contenu rele`ve de cette «traductologie productive» qui sera the´matise´e plus bas. L’enjeu est que ces jeunes adultes en formation que sont nos e´tudiants soient mis en position, pour ainsi dire, de «s’auto-accoucher en tant que traducteurs». En sorte qu’on aurait en fin de compte une pe´dagogie non prescriptive – en quelque fac¸on, et dans une certaine mesure – ce qui est pour le moins paradoxal! presque une contradictio in adjecto.

3. La traductologie descriptive 3.1. Dans les faits, l’essentiel de ce qui se publie actuellement, et grosso modo depuis la deuxie`me guerre mondiale, constitue ce que j’appellerai la traductologie descriptive, dans l’esprit de l’opposition a` laquelle j’ai fait e´cho un peu plus haut: c’est dire qu’une telle traductologie fait essentiellement alle´geance a` la linguistique, entendue comme «science» rectrice qu’avait institue´e comme telle la rigueur me´thodologique nouvelle d’une «coupure e´piste´mologique» re´cente. Dans cet esprit, certains pre´fe`rent encore (notamment en Allemagne) subsumer la traductologie (U¨bersetzungswissenschaft), conjointement avec d’autres recherches comme celles qui rele`vent de la didactique des langues, sous l’e´tiquette de Linguistique Applique´e – avec la double majuscule d’un anglicisme, comme pour «faire syntagme» et laisser deviner en filigrane de cette expression une sorte de mauvaise

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conscience se´mantique, comme si on savait de´ja` qu’on ne saurait la` parler d’«application» au sens propre et que, de toute fac¸on, ce n’est pas (seule25 ment) de la linguistique qu’il s’agirait d’«appliquer»... C’est dans cette cate´gorie de la traductologie descriptive que je rangerai la Stylistique compare´e de J.-P. Vinay et J. Darbelnet26, mais aussi des travaux comme ceux de J. Guillemin-Flesher27, voire de M. Ballard28, etc. De tels auteurs font le choix me´thodologique de privile´gier une approche linguistique que, pour aller vite, j’appellerai contrastiviste (meˆme si, en fait, ce peuvent eˆtre a` chaque fois des the´ories linguistiques extreˆmement diffe´rentes qui sont a` l’œuvre). On aura note´ qu’il semble bien qu’une telle de´marche rencontre la faveur de nos colle`gues anglicistes, comme si la «distance linguistique» re´duite qui existe entre le franc¸ais et l’anglais, par exemple, leur permettait un type de travail auquel d’autres, ope´rant sur des langues moins proches, ` quoi viendrait s’ajouter la dimension «institutionnelle» dussent renoncer. A de la situation proprement exceptionnelle d’un couple de langues comme le binoˆme franc¸ais-anglais sur le marche´ linguistique (et didactique). Ainsi une Analyse Institutionnelle des bases mate´rielles sur lesquelles repose la linguistique, «applique´e» ou non, devrait-elle sans doute conduire, paradoxalement, a` prendre le contre-pied de la situation dominante que les anglicistes (voire les anglophones) y occupent plus ou moins ne´cessairement. On conc¸oit de`s lors que la mise «en contact», par la traduction, de certaines langues appellerait un traitement relevant d’une me´thodologie plus ge´ne´rale: ce serait le cas, ne fuˆt-ce peut-eˆtre que du couple franc¸aisallemand, sur lequel il se trouve que je travaille le plus couramment. C’est a` cette contingence sans doute que je dois d’avoir e´te´ porte´ prendre a` une orientation ge´ne´raliste. Dans cet esprit, j’entends qu’il convient de distinguer deux attitudes me´thodologiques fondamentales en the´orie de la traduction, tant au niveau de la recherche qu’au niveau de l’enseignement. Il y a, d’une part, les «contrastivistes» dont il vient d’eˆtre question, et qui 25

Pour une critique de ce concept proble´matique de Linguistique Applique´e, cf. notamment mon e´tude sur Linguistique Applique´e et enseignement des langues (I) & (II), in «Revue d’Allemagne», t.VII/n˚ 3 & n˚ 4, juillet-septembre & octobre-de´cembre 1975, pp. 321-334 & 515-532. 26 Jean-Paul Vinay & Jean Darlbelnet, Stylistique compare´e du franc¸ais et de l’anglais. 4 Me´thode de traduction, Didier, Paris 1968. 27 Jacqueline Guillemin-Flesher, Syntaxe compare´e du franc¸ais et de l’anglais, Gap, Ophrys, 1981. 28 Michel Ballard, La traduction: de l’anglais au franc¸ais, Nathan, Paris 1987.

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travaillent au niveau des textes et des langues en contact: leur travail est au centre de la traductologie descriptive dont je traite ici. D’autre part, il y a ceux que j’appellerai les «traductologues», en un sens restrictif, dont la me´thodologie ge´ne´raliste n’est pas directement lie´e a` tel ou tel couple de langues et qui contribueraient plutoˆt a` la «traductologie productive» the´matise´e plus bas. Quoi qu’il en soit de ce proble`me spe´cifique, plus ge´ne´ralement c’est aussi dans le cadre de la «traductologie descriptive» que je serai porte´ a` classer la plupart des travaux qui rele`vent de la the´orie de la traduction proprement dite: de Georges Mounin a` Efim Etkind, de J. C. Catford a` W. 29 Wilss , etc. Les limites imparties a` la pre´sente e´tude m’interdisent bien suˆr de prolonger la liste et de faire ici une analyse argumente´e de ces diffe´rentes the´ories. D’une fac¸on ge´ne´rale, ce qu’il y a de commun a` tous ces diffe´rents travaux, c’est que pre´cise´ment ils re´unissent les e´le´ments d’une description: ils proce`dent d’une de´marche a posteriori. Cette traductologie descriptive se situe «en aval» du travail du traducteur. Elle prend pour objet la traduction comme produit, comme re´sultat (ou comme effet) de l’activite´ traduisante: je serais tente´ de parler d’ «un *traduit», comme on dit justement «un produit». C’est d’abord en ce sens qu’a` son propos je parlerai de «traductologie d’hier»: d’abord, donc, parce qu’elle se situe dans l’apre`s-coup, au niveau de ce que Bergson appelait le «tout fait» par opposition au «se faisant». Cela reste vrai, meˆme si ce qui constitue l’objet ultime de la recherche que me`ne une Jacqueline Guillemin-Flesher, par exemple, se situe au niveau «profond» des ope´rateurs que met en œuvre l’activite´ du sujet parlant et dont les traces au niveau des e´nonce´s de surface permettent, pour ainsi dire, de reconstruire l’arche´ologie. Mais si je dis que la traductologie descriptive est la traductologie d’hier, c’est surtout dans la mesure ou` il m’apparaıˆt que ce ne sera plus maintenant dans cette seule direction que se fera l’essentiel des recherches sur la traduction. Cela dit, il ne s’agit pas pour moi d’e´tablir une sorte de hie´rarchie entre diffe´rentes approches traductologiques dont les unes se trouveraient aujourd’hui «de´passe´es», au sens positiviste d’une ide´ologie diffuse qui, re´cemment encore, voulait aligner le mode de de´veloppement Au moins pour ce qui est du premier livre de ce dernier: Wolfram Wilss, U¨bersetzungswissenschaft. Probleme und Methoden, Klett, Stuttgart 1977. On verra que ses travaux ulte´rieurs s’orientent maintenant depuis plusieurs anne´es du coˆte´ d’une traductologie de la cognition qui rele`ve plutoˆt de ce que j’appelle la «traductologie inductive». 29

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des sciences humaines, et particulie`rement de la linguistique, sur celui des sciences exactes (cf. sup.). Il y a (et il y aura) encore place pour une traductologie descriptive, de meˆme que pour une traductologie prescriptive, comme on l’a vu. Si hie´rarchisation il y a, elle n’est pas tant e´piste´mologique, et d’esprit plus ou moins positiviste, que didactique. Les quatre approches traductologiques que je distingue ici – celles d’«avant-hier», d’«hier», puis d»‘aujourd’hui» et de «demain» – s’organisent selon la chronologie d’une pe´riodisation qui les indique autant et plus comme les e´tapes «ontoge´ne´tiques» d’une progression pe´dagogique que comme les moments «phyloge´ne´tiques» d’une histoire de la discipline traductologique elle-meˆme, ainsi que je l’ai affirme´ d’emble´e au de´but de la pre´sente e´tude. La perspective e´piste´mologique de´veloppe´e ici ne prend en effet tout son sens que par rapport a` la double e´che´ance de la pratique: celle des traducteurs eux-meˆmes (au nombre desquels, encore une fois, se range aussi l’auteur de ces lignes), mais aussi celle des formateurs – comme cela a de´ja` e´te´ souligne´ a` plusieurs reprises. Autrement dit, on devra y voir encore un e´le´ment de re´ponse aux questions que pose la formation des traducteurs, et notamment celle-ci: Faut-il enseigner la traductologie? et laquelle?30 C’est ainsi, en particulier, qu’il n’y a pas lieu de rejeter comple`tement la traductologie descriptive. Elle sera fort utile aux formateurs, aux enseignants qui sont en charge de la formation des traducteurs. Proce´dant a posteriori a` des analyses linguistiques plus ou moins comparatives de textes existants – texte-source et texte-cible – elle pourra a` tout le moins contribuer au perfectionnement linguistique, c’est-a`-dire a` cette (re-)mise a` niveau en langue qui reste un e´le´ment dont la formation des traducteurs ne saurait faire totalement l’e´conomie: tant il est vrai que, dans la pratique, il n’est gue`re possible de maintenir en toute rigueur le principe de cette «orthodoxie» pe´dagogique qui voudrait que l’enseignement de la traduction proprement dit ne puˆt commencer qu’une fois acquise parfaitement la maıˆtrise des 30 C’est un point que j’ai e´te´ amene´ a` de´velopper au IIe colloque arabo-francophone de 1’A.U.P.E.L.F. (Association des universite´s partiellement ou entie`rement de langue franc¸aise) sur «The´orie et didactique de la traduction» a` Tanger (15-17 juillet 1987), en re´ponse a` une stimulante intervention de Haı¨ssam Safar (Mons, Belgique). Cela fera l’objet d’une prochaine e´tude, dans le prolongement de la pre´sente et de ma contribution aux Actes du colloque international de l’A.I.L.A. (Association Internationale de Linguistique Applique´e) de Sarrebruck (25-30 juillet 1983): Traduction philosophique et formation des traducteurs – Principes didactiques, in Wolfram Wilss & Gisela Thome (e´ds.), Die Theorie des U¨bersetzens und ihr Aufschlußwert fu¨r die U¨bersetzungs- und Dometschdidaktik, G. Narr, Tu¨bingen 1984 (Tu¨binger Beitra¨ge zur Linguistik, n˚ 247), pp. 231-240.

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langues de travail utilise´es par le futur traducteur. Mais, en fait, ce sera surtout aux professeurs de langues que la traductologie descriptive pourra 31 eˆtre utile .

3.2. En somme, dans l’esprit de ce que j’ai appele´ d’emble´ e une de´diachronisation de mes quatre «aˆges de la traductologie», il est bien clair que la traductologie descriptive est la traductologie d’hier au sens d’une datation d’origine, et non pas tant au sens de l’ide´ologie re´gnante ou` se meˆlent progressisme moderniste et positivisme scientiste qui voudraient n’y voir qu’une e´tape de´passe´e – contrairement a` ce qu’avait cru percevoir Michel Ballard dans mes propos, lors d’un pre´ce´dent colloque ou` nous avions e´te´ amene´s a` aborder cette question32. Ainsi le travail analytique de la traductologie descriptive reste-t-il valable au moins pour les enseignants de langue. On pourra meˆme y puiser le mate´riau pour une casuistique de la traduction comme celle que j’ai esquisse´e dans le cadre du second tome de la Grammaire compare´e de Jean-Marie Zemb33 ou encore comme celle, plus linguistique, a` laquelle a travaille´ un Michel Ballard. La traductologie descriptive fournira des termes de comparaison, permettant de mieux appre´cier re´trospectivement les performances de traduction qui viendront nourrir ladite casuistique. ` la base, la linguistique apporte les e´le´ments d’un e´tiquetage terminoA logique et conceptuel sans lesquels il ne serait pas possible d’entreprendre la description des rapports d’identite´ et de diffe´rence existant entre le texte-source et le texte-cible. Mais on ne saurait ignorer que la linguistique d’aujourd’hui n’est plus la linguistique-croupion, et positiviste, d’antan. Elle s’est e´largie a` la se´mantique, a` la pragmatique, a` la linguistique de l’e´nonciation, etc.: pour la traductologie, il y a maintenant beaucoup a` y prendre et a` 31

C’est point que j’ai discute´ a` plusieurs reprises avec notre colle`gue Albrecht Neubert, de Leipzig. Au reste, je n’exclus pas non plus que la traductologie descriptive puisse aussi servir un a` l’enseignement de la traduction elle-meˆme. J’y reviendrai dans le cadre d’une prochaine e´tude, traitant spe´cifiquement de la formation des traducteurs. 32 Cf. les Rencontres autour de la traduction organise´es par le B.E.L.C. a` Paris, en mars 1986, dont les Actes ont e´te´ cite´s plus haut: La Traduction, cit., Paris, 1986. 33 «Les nœuds gordiens», in Jean-Marie Zemb, Vergleichende Grammatik: Franzo¨sischDeutsch, Teil 2: L’e´conomie de la langue et le jeu de la parole, Bibliographisches Institut/Dudenverlag, Mannheim 1984, p. 733 sqq.

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en apprendre. En ce sens, le combat contre la linguistique, que me`nent encore certains traductologues, est un combat d’arrie`re-garde. Il reste qu’on ne peut pas ne pas souscrire au premier commandement e´nonce´ par Louis Truffaut: «Linguistique et traduction tu distingueras». Plus personne ne croit encore au sche´ma ancien en vertu duquel il serait possible de passer du texte-source au texte-cible de fac¸on quasiment line´aire, en passant par une suite de transformations interme´diaires. Un tel sche´ma transformationnel de la traduction pre´suppose des «axes paraphrastiques» inter-langues qui, a` l’e´vidence, ne correspondent a` rien de re´el34. Re´trospectivement, on s’e´tonne meˆme qu’un tel sche´ma – linguistique, et meˆme «linguisticiste» – ait pu eˆtre l’impense´ sous-jacent de bien des linguistes s’occupant de traduction. Je ne prends meˆme pas la peine de l’expliciter et de le rappeler ici. Anticipant sur ce dont j’entends qu’une «traductologie productive» aura a` traiter (cf. inf.), je dirai qu’a` mon sens la traduction est une ope´ration mentale essentiellement binaire. Ma the`se est qu’elle comporte essentiellement deux phases: – une phase (I) de lecture-interpre´tation et – une phase (II) de re´expression (rewording), c’est-a`-dire en l’occurrence de re´e´criture, l’articulation entre les deux e´tant assure´e par le salto mortale de la 35 ` quoi il y de´verbalisation, qui n’est pour ainsi dire qu’une «interphase» . A aura lieu d’ajouter en fait deux comple´ments: d’une part, e´ventuellement, une phase ze´ro de documentation pre´alable (Ø); et d’autre part, bien suˆr, deux quasi-phases de relectures (IIbis) et (IIter), la premie`re tendant a` optimiser la re´daction du texte-cible (IIbis) et la seconde visant a` s’assurer qu’on n’a pas, entre temps, perdu le contact synonymique avec le textesource (IIter). Eh bien! sans doute la traductologie descriptive, d’obe´dience linguistique, pourra-t-elle contribuer a` e´clairer l’apprenti-traducteur dans la premie`re phase de lecture-interpre´tation, avant le salto mortale de la de´verbalisation.

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Cf. Traduire: the´ore`mes pour la traduction, cit., p. 124 sqq. Je renvoie ici au sche´ma que j’ai indique´ dans mon article sur Le traducteur et l’ordinateur, in «Langages», n˚ 116, de´cembre 1994, pp. 11-19: il sera de´veloppe´ dans une prochaine e´tude. 35

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4. La traductologie inductive 4.1. Une fois bien marque´e, mais aussi relativise´e, la place qui revient en traductologie a` la linguistique, je dirai que l’avenir de la traductologie me paraıˆt devoir aller au moins autant du coˆte´ de la psychologie que de la linguistique. C’est ainsi qu’on voit naıˆtre actuellement ce que j’appellerai une traductologie inductive ou «scientifique», qui regarde du coˆte´ de la psychologie cognitive et prend pour objet «ce qui se passe dans la teˆte des traducteurs»36. Il ne s’agit plus de s’en tenir a` l’e´tude a posteriori de ce qu’on appelle des «traductions» au sens ou` ce sont des produits, mais de remonter a` la source et d’e´tudier en amont l’activite´ traduisante elle-meˆme, la «traduction» en train de se faire. Je dirai que cette recherche, c’est la «traductologie de demain». Car, effectivement, il reste beaucoup a` faire. Ce n’est qu’un de´but: c¸a et la`, a` Paris ou a` Gene`ve, a` Bochum ou a` Sarrebruck, a` Nanterre, a` Hildesheim et ailleurs, il y a eu un certain nombre de recherches plus ou moins ponctuelles...37 J’ai moi-meˆme esquisse´ une psychologie sociale de la traduction38. Mais ces travaux sont reste´s jusqu’a` maintenant relativement ponctuels et limite´s. Cela dit, il semblerait que le temps soit venu des premie`res synthe`ses: c’e´tait notamment l’ambition des dernie`res publications de Wolfram Wilss39. 36

C’e´tait, comme on sait, le titre du livre d’un de nos colle`gues, de Nanterre puis de Hildesheim et maintenant de Bochum: Hans P. Krings, Was in den Ko¨pfen von U¨bersetzern ¨ bersetzungsprozesses an fortgeschrittenen vorgeht. Eine empirische Untersuchung des U Franzo¨sischlernern, G. Narr, Tu¨bingen 1986 (Tu¨binger Beitra¨ge zur Linguistik, n˚ 291). 37 Outre le travail de Hans Peter Krings, il conviendra de citer notamment les recherches de Danica Seleskovitch et Marianne Lederer, de Erika Diehl et de Hannelore Lee-Jahnke, etc. Plus re´cemment, il convient d’e´voquer la part prise dans ces recherches par la Genevoise Hannelore Lee-Jahnke: on se reportera notamment a` sa contribution aux Actes du colloque sur «Enseignement de la traduction et traduction dans l’enseignement» qu’a organise´ Maurice Pergnier a` l’Universite´ de Paris-XII (Cre´teil, 28-30 avril 1997), a` paraıˆtre aux Presses de l’Universite´ d’Ottawa sous la direction de Jean Delisle. 38 Cf. Jean-Rene´ Ladmiral & Edmond Marc Lipiansky, La Communication interculturelle, Armand Colin, Paris 11989, re´e´d. 21991 et 31995 (Bibliothe`que europe´enne des sciences de l’e´ducation), pp. 21-76. 39 Cf. notamment Kognition und U¨bersetzen. Zu Theorie und Praxis der menschlichen und ¨ bersetzung,Niemeyer, Tu¨bingen 1988 (Konzepte der Sprach- und der maschinellen U Literaturwissenschaft, n˚41) et U¨bersetzungsfertigkeit. Anna¨herungen an einen komplexen

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De fait, c’est le comportement de l’interpre`te – de celui qu’on appelle parfois le «traducteur oral» – qui, en re´alite´, sera le moins malaise´ d’e´tudier. On peut en effet peut en faire «a` chaud» des enregistrements (audio ou meˆme vide´o) qui feront ensuite l’objet d’une analyse inductive tre`s pre´cise. ` partir d’un tel mate´riel empirique, il devient possible d’e´tudier le foncA tionnement psycholinguistique et cognitif de l’interpre`te. De´ja` de`s qu’il s’agit des traducteurs proprement dits, c’est le dispositif d’acce`s aux donne´es qui fait proble`me. Sans doute ne peut-on e´viter de travailler sur des donne´es introspectives; et tel est bien le choix me´thodologique qui a e´te´ celui qu’avait duˆ adopter Hans P. Krings pour sa recherche, ainsi que d’autres apre`s lui comme Hannelore Lee-Jahnke. Mais surtout, on n’en est encore qu’aux tout de´buts d’une traductologie scientifique ou inductive. Nous ne disposons pas encore d’une the´orie synthe´tique et cohe´rente, expe´rimentalement valide´e et suffisamment assure´e – dont il suffirait d’«appliquer» dans la pratique les acquis scientifiques. En l’absence d’une science faite, il faudra bien qu’a` l’instar de Descartes, nous traducteurs et traductologues, nous nous forgions une «morale par provision»...

4.2. S’agissant de cette «traductologie inductive» ou scientifique, on aura note´ que je n’ai pas pris la peine de donner une bibliographie plus ou moins comple`te des recherches mene´es dans cette direction, ni meˆme seulement d’actualiser les quelques re´fe´rences indique´es. C’est qu’il y a la` tout un travail a` faire! plus tard, justement. C’est bien la traductologie de demain. En l’occurrence, on a affaire a` un champ d’e´tudes qui rele`ve de la psychologie expe´rimentale, exigeant la mise en place de ve´ritables programmes de recherche et l’application d’une me´thodologie rigoureuse. S’agissant de psychologie – et en attendant, donc, les travaux qui seront ne´cessaires – je me contenterai aujourd’hui de renvoyer a` l’e´tude programmatique que j’ai 40 publie´e pour le de´veloppement des recherches allant dans ce sens .

u¨bersetzungspraktischen Begriff, G. Narr, Tu¨bingen 1992 (Tu¨binger Beitra¨ge zur Linguistik, n˚ 376). 40 Pour une psychologie de la traduction, in U¨bersetzungswissenschaft im Umbruch. Festschrift fu¨r Wolfram Wilss zum 70. Geburtstag, Angelika Lauer/Heidrun Gerzymisch-Arbogast/Johann Haller/Erich Steiner (e´ds.), Gunter Narr Verlag, Tu¨bingen 1996, pp. 27-35.

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Pour toutes ces raisons, il ne m’est gue`re possible d’aller au-dela` des quelques indications qui pre´ce`dent. On y apportera toutefois le comple´ment des remarques suivantes. 1˚) L’e´che´ance d’avoir a` re´pondre «demain» aux exigences de la me´thodologie scientifique qu’entendent mettre en œuvre la psychologie cognitive et la psycholinguistique ne nous interdit pas, en attendant, d’avoir recours a` une approche plus «phe´nome´nologique», s’attachant a` la description du 41 ve´cu re´el du traducteur au travail . C’e´tait au demeurant ce qu’anticipait de´ja` ce qui a e´te´ dit plus haut du «salto mortale de la de´verbalisation» qui est a` l’articulation des deux phases du fonctionnement mental de l’ope´ration traduisante. Plus ge´ne´ralement, il y a place aussi pour une phe´nome´nologie du ve´cu psychologique et existentiel global de ce bilingue professionnel qu’est traducteur42. Mais la`, on est de´ja` dans le domaine de la traductologie productive, qui fait l’objet de notre prochaine partie... 2˚) C’est d’autant plus vrai que l’horizon d’une traductologie scientifique a pu sembler s’e´loigner. C’est bien de la traductologie de demain qu’il s’agit. Il avait meˆme semble´ que les recherches tendent a` marquer le pas dans ce domaine et qu’on duˆt plutoˆt parler de la traductologie d’apre`s` quoi vient s’ajouter le fait que les re´sultats de la recherche ne se demain! A laissent pas anticiper... Mais il est sans doute permis de penser que la reprise des recherches empiriques laisse espe´rer des avance´es significatives pour «demain». Il reste que ce n’est sans doute que pour «apre`s-demain» qu’on pourra en attendre des retombe´es concre`tes au double niveau d’une didactique de la traduction, aussi bien pe´dagogique que professionnelle, c’est-a`-dire en fin de compte pour la pratique du traducteur. 3˚) Encore conviendra-t-il de ne pas attendre des recherches scientifiques de la traductologie inductive qu’elles nous fournissent des recettesmiracles. Ce ne serait jamais qu’une nouvelle mouture de la meˆme illusion positiviste qui e´tait de´ja` a` l’arrie`re-plan des espe´rances naı¨ves et de´mesure´es que d’aucuns ont nourries nague`re a` l’endroit de la T.A. (traduction automatique). Entre temps, comme on sait, il a fallu en rabattre par rapport au fantasme de la «machine a` traduire» et ne plus envisager qu’une T.A.O. (traduction assiste´e par ordinateur); on en vient meˆme a` devoir se conten41

J’en ai esquisse´ le cadre ge´ne´ral dans mon e´tude intitule´e Traduire, c’est-a`-dire... – Phe´nome´nologies d’un concept pluriel, in Μετα, Vol. 40/n˚ 3, septembre 1995, p. 415 sq. 42 Cf. mon e´tude L’Europe des langues: traduction et communication interculturelle, in «Psychologie Europe», Vol. II/N˚ 2, De´c.1992-Janv.-Fe´v. 1993, pp. 25-34. Pour une phe´nome´nologie plus existentielle et «impressionniste», voir le chapitre II: «Le corps entre deux langues», de notre livre La Communication interculturelle, cit., pp. 77-94.

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ter de de´finir une «station du traducteur» inte´grant les diffe´rents outils 43 informatiques disponibles au poste de travail . Qu’il s’agisse des recherches psycholinguistiques de la traductologie inductive ou de l’informatisation des me´tiers de la traduction, l’erreur serait de croire qu’on a affaire a` un objet d’e´tudes qu’il soit possible d’identifier de fac¸on re´ductrice a` un mode`le line´aire. Les recherches en sciences cognitives ont souligne´ la complexite´ des activite´s mentales qu’elles prennent pour objet. Plus spe´cifiquement, linguistes et traducteurs connaissent la complexite´ des langues naturelles en elles-meˆmes – redouble´e de celle qu’y ajoute leur rapport au monde, sans lequel la plupart des e´nonce´s ne sauraient «faire sens»... Il n’y a pas lieu de s’imaginer qu’on puisse re´duire le nombre des parame`tres qui de´finissent objectivement la traduction, sans perdre de vue la re´alite´. Quoi qu’il en soit, en attendant qu’on dispose effectivement d’une description scientifique de l’activite´ traduisante, la T.A.O. devra continuer de se contenter de «bidouiller le bidule informatique» et le the´oricien de la traduction s’en remettre a` ce que j’ai annonce´ sous le nom de traductologie productive.

5. La traductologie productive 5.1. En attendant la «traductologie de demain», donc, il nous faut ge´rer une pratique au jour le jour. C’est tout le sens de la traductologie productive que je the´matise comme e´tant la «traductologie d’aujourd’hui». L’ambition n’est plus – ou plutoˆt: pas encore – d’e´laborer un discours scientifique sur la traduction, entendue comme le produit de l’activite´ traduisante, ni meˆme comme cette activite´ elle-meˆme, mais de bricoler un ensemble de concepts et de principes qui soient de nature a` anticiper et a` faciliter la pratique traduisante ou «traductrice».

43 Sur cette proble´matique, qui de´passe notre propos ici, cf. le Nume´ro spe´cial, de´ja` cite´, de la revue «Langages», n˚ 116, de´cembre 1994, ainsi que le livre sur L’Environnement traductionnel. La station de travail du traducteur de l’an 2001 (Actes du colloque de Mons, 25-27 avril 1991), sous la dir. d’Andre´ Clas & Hayssam Safar, Aupelf/Presses de l’Universite´ du Que´bec, Montreal 1992.

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S’agissant d’un discours «facilitateur», on aura devine´ que c’est encore du coˆte´ de la psychologie qu’il y aura lieu d’aller. Mais la psychologie dont il s’agit, en l’occurrence, n’est pas la psychologie cognitive, la «psychologie de l’intelligence» comme compe´tence spe´cifique, ni meˆme la psycholinguistique comme sous-discipline plus ou moins «technique»; ce sera une psychologie plus globale, une psychologie de la personnalite´, comme peut l’eˆtre la psychanalyse, par exemple. Au reste, l’analogie avec la psychanalyse n’est pas sans pertinence e´piste´mologique. Si et quand on a besoin du traductologue, si et quand le discours traductologique est requis, c’est qu’il y a un proble`me. Or, mises a` part les difficulte´s touchant a` la terminologie ou aux realia affe´rentes au domaine conside´re´ (subject-matter), et sans parler bien suˆr des proble`mes de langues, les proble`mes de traduction renvoient essentiellement a` l’obligation de tenir compte ensemble d’impe´ratifs contradictoires: rendre le sens exact, et les connotations stylistiques, et la valeur de ste´re´otype idiomatique, et la teneur me´taphorique, et les re´fe´rences culturelles, et le nombre de syllabes, et la sonorite´, etc. – et tout c¸a pour un seul et meˆme item linguistique! C’est l’expe´rience de tout traducteur que d’e´prouver que tous les e´quivalents propose´s pour telle ou telle difficulte´ de texte-source devront eˆtre re´cuse´s les uns apre`s les autres, si l’on attend de chacun d’eux qu’il rende toutes ces nuances de l’original – et qui plus est: hors contexte! comme c’est souvent le cas pour ce genre de discussions aboutissant a` de telles he´catombes «falsificatoires» de toutes les traductions possibles. Poser le proble`me dans ces termes, c’est se confronter a` une constellation proprement conflictuelle qui fait penser a` ce que les psychanalystes appellent un complexe. D’ou` aussi l’expe´rience excessivement frustrante pour le traducteur d’un «blocage» psychologique et d’une perte de ses moyens d’expression44, qui serait comme l’e´quivalent d’une castration symbolique. Aussi le discours traductologique est-il bien un discours the´rapeutique, ainsi qu’il y a e´te´ fait allusion pre´ce´demment. De`s lors, le traductologue remplirait une fonction que je me risquerai a` qualifier de «traductothe´rapeutique». Ce qu’on pourra en attendre, c’est qu’il nous aide a` lever notre «complexe du traducteur», en instaurant un champ traductologique qui, a` l’instar du «champ psychanalytique» freudien, n’est rien autre qu’un espace de parole permettant la verbalisation des proble`mes. Par la seule vertu du «travail» langagier, le discours traducto-logique induira une mise a` distance 44

18.

Cf. Traduire: the´ore`mes pour la traduction, cit., p. 25 et Le traducteur et l’ordinateur, cit., p.

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objectivant le proble`me de traduction qui se pose a` nous. Du coup, le traducteur pourra sortir de l’e´tat d’«aboulie» et d’«impuissance» expressive ou` il peut arriver qu’il se soit trouve´ plonge´; et, la situation e´tant de´bloque´e, il sera en mesure de reprendre l’initiative. Sans aller jusque-la`, a` un niveau plus simple, ce qui sera rendu possible par la verbalisation et l’objectivation propres au discours traductologique, c’est d’abord une attitude de re´flexion par rapport aux contradictions de la pratique. De fac¸on plus simple et plus imme´diate encore, le premier be´ne´fice de la verbalisation traductologique re´sidera en un e´tiquetage des difficulte´s de traduction rencontre´es au fur et a` mesure et, surtout, des solutions qu’on y aura apporte´es au coup par coup: en sorte qu’on puisse engranger et capitaliser les bonnes solutions, les «bonheurs de traduction» qui nous sont venus sous la plume (ou, plutoˆt, sous les touches du clavier), pour en reproduire l’e´quivalent a` l’avenir; et puis, bien suˆr, pour e´liminer les mauvaises et en inhiber la re´pe´tition ulte´rieure, graˆce a` une meilleure connaissance de soi, de sa propre idiosyncrasie de traducteur, c’est-a`-dire de ses de´fauts, de ses tics, etc. Au plan cognitif, ce qu’il y a lieu d’attendre du discours traductologique, ce sont les e´le´ments d’une conceptualisation. Je dis bien: «les e´le´ments» d’une conceptualisation, au sens ou` il y a la` un pluriel significatif: les concepts, mate´rialise´s par des mots, et les principes, mate´rialise´s par des phrases (e´ventuellement nominalisables), que doit re´unir une traductologie productive ne s’inte`grent pas ne´cessairement a` l’architectonique d’un ensemble discursif rigoureux. Je plaiderai meˆme pour une certaine de´sinvolture the´orique, n’he´sitant pas a` renoncer aux exigences axiomatiques de rigueur logique, de cohe´rence interne, de «proprete´» formelle. Dans cet esprit, la the´orie traductologique ne se pre´sentera pas comme une construction unitaire, mais comme un ensemble d’items the´oriques pluriels ou – pour reprendre encore le titre de mon propre livre, de´ja` cite´ – de «the´ore`mes», non pas au sens ge´ome´trique du terme, mais au sens e´tymologique ou` il faut entendre des e´le´ments de the´orie. Je serais presque tente´ de dire: des «*the´orisats»... La fonction de cette the´orie «en miettes», ce serait d’eˆtre comme la boıˆte a` outils du traducteur, ou` ce dernier pourra puiser des outils conceptuels, a` sa convenance. Ses concepts ou principes pourront meˆme, au besoin, eˆtre contradictoires. Ainsi du the´ore`me de dissimilation et du the´ore`me de transparence, par exemple, qui s’opposent de la meˆme fac¸on que sont «contradictoires» un marteau et une paire de tenailles, si l’on peut dire, 45 puisque l’un sert a` de´faire ce que l’autre a fait et inversement. C’est au 45

Les limites imparties au pre´sent «papier» (de´ja` tre`s long) m’interdisent d’expliciter la

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demeurant ce que the´matise le the´ore`me de dichotomie, avec ses diffe´rents corollaires, emble´matique en cela de la pratique traduisante au point qu’on 46 pourrait y voire un «me´ta-the´ore`me» . Au terme de la pre´sentation de cette typologie quadripartite, opposant quatre sortes de traductologies, prescriptive et descriptive, inductive et productive – dont il a e´te´ de´ja` note´ qu’elles riment deux a` deux, comme en un quatrain – il reste au moins une question que je ne saurais e´luder. Ayant moi-meˆme commis un livre sur la traduction, rassemblant des «the´ore`mes pour traduire», il serait pour le moins e´trange que je manquasse a` me situer au sein de ce cadre; et, de fait, je n’aurai pas cette coquetterie. Au risque de sembler avoir tenu le discours d’un plaidoyer pro domo, j’aurai l’immodestie de penser, tout simplement, que mon livre re´alise, au moins partiellement, le programme d’une traductologie productive, tel que je viens de l’esquisser. J’entends y proposer ce que j’avais appele´, d’une formule, «une rhapsodie de the´ore`mes disjoints affronte´s a` la tourmente de la pratique»...

5.2. Il serait bien suˆr absurde et ridicule de ma part de croire et de pre´tendre que je sois le seul a` avoir travaille´ dans ce sens: les nombreux et beaux travaux d’un Eugene A. Nida, par exemple, me paraissent de´border le cadre de la traductologie descriptive pour rejoindre la traductologie productive. A fortiori en est-il e´videmment (et expresse´ment) ainsi des Dix Commandements de Louis Truffaut. Sans doute en ira-t-il de meˆme pour d’autres auteurs... D’une fac¸on ge´ne´rale, on peut meˆme dire que beaucoup d’entre nous e´tant a` la fois enseignants et traducteurs (ainsi que cela a e´te´ rappele´ plus haut), nous sommes tous plus ou moins the´oriciens, quand meˆme! et le discours the´orique de la traductologie nous est plus ou moins commun, implicitement. Seulement, certains d’entre nous ont pris le risque d’une formalisation de l’implicite et se sont donne´ la peine – mais aussi la joie narcissique et litte´raire – d’une mise en forme discursive et the´orique de ce chose en pre´sentant et en discutant des exemples concrets comme il m’est arrive´ de le faire dans mon livre Traduire: the´ore`mes pour la traduction, cit., p. 216 sqq. et dans des e´tudes comme celle que j’ai publie´e dans «Langue franc¸aise», n˚ 51, septembre 1981, p. 19 sqq. (cf. sup.) ou comme «Les nœuds gordiens», cit., p. 733 sqq., etc. 46 On trouvera une pre´sentation de ce the´ore`me de dichotomie dans mon e´tude sur «Le prime interculturel de la traduction», in «Palimpsestes», N˚ 11 (1997), pp. 15-30.

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dont je postule que c’est l’objet d’une sorte de consensus plus ou moins conscient entre nous. ` vrai dire, on retrouvera souvent des e´le´ments de traductologie A productive sous-jacents aux publications traductologiques que j’ai range´es dans les trois autres cate´gories distingue´es ici. De fait, cette pre´occupation ne pouvait pas eˆtre totalement absente du discours traductologique quel qu’il soit, ainsi que le fait apparaıˆtre une lecture re´trospective de l’histoire des the´ories de la traduction. C’est cette meˆme logique qui m’a conduit a` esquisser plus haut, a` plusieurs reprises, certaines perspectives anticipant de´ja` sur la traductologie productive, notamment dans le cadre de la pre´sentation critique que j’ai faite de la traductologie descriptive et de la traductologie inductive (cf. sup.). Compte tenu de l’ampleur prise par la pre´sente e´tude, je pre´fe`re renoncer a` les reprendre et a` les de´velopper ici, de meˆme que je m’interdis d’y adjoindre maintenant la discussion d’exemples concrets de traduction ou la pre´sentation de nouveaux «the´ore`mes».

6. Remarque e´piste´mologique Sans doute convient-il de revenir sur la distinction que j’ai ope´re´e entre traductologie productive et traductologie inductive. Il y a la` deux types de discours tre`s diffe´rents correspondant non seulement a` deux approches me´thodologiques tout a` fait spe´cifiques, mais encore a` deux strate´gies cognitives radicalement he´te´roge`nes. La traductologie inductive est, donc, l’e´tude scientifique de ce qui est cense´ se passer dans le cerveau des traducteurs. C’est un travail de recherche qui s’astreint a` gager sur l’expe´rience les hypothe`ses et the´ories qu’elle formule, le plus souvent par l’observation et la mesure d’un mate´riel empirique et parfois meˆme, quand c’est possible, elle aura recours a` la me´thode expe´rimentale (stricto sensu). Sa finalite´ est d’atteindre a` l’objectivite´ scientifique. La traductologie productive, quant a` elle, s’attache a` prendre conscience de ce qui se passe dans la teˆte de ce traducteur que nous sommes chacun de nous. Il y a la` une approche qu’on pourra de´finir en termes de phe´nome´nologie et dont la me´thode est l’introspection. La traductologie productive assume donc la subjectivite´ de sa de´marche, dont l’objectif est de pourvoir a` une pe´dagogie et meˆme a` une «auto-pe´dagogie» de la traduction. C’est pourquoi je pourrais reprendre a` mon compte la formulation de Jean Delisle qui a parle´ a` ce propos, je crois, de «the´orie didactique de la traduction».

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Longtemps, j’ai cru que l’articulation de ces deux approches en traductologie e´tait une affaire de calendrier; et c’est encore la position que je de´fends ici. En somme: la traductologie productive, c’est la traductologie d’aujourd’hui; et traductologie inductive, celle de demain, voire d’apre`sdemain (cf. sup. ): l’une finissant par rattraper l’autre, et la remplacer. Mais il m’est apparu de plus en plus clairement que ce n’est pas seulement un proble`me de temps et que les e´che´ances de la recherche se situent sur un autre plan que les exigences propres a` la pratique. Encore une fois, il y a la` deux approches the´oriques he´te´roge`nes que sous-tendent deux modalite´s cognitives qu’il conviendra de bien distinguer aussi bien au niveau psychologique du fonctionnement mental du traducteur qu’au niveau e´piste´mologique et philosophique du rapport a` la re´alite´. D’abord, en effet, on est fonde´ a` penser que ce n’est pas la meˆme intelligence qui est a` l’œuvre dans les deux cas47. D’un coˆte´, la performance attendue en traductologie inductive est une de´marche intellectuelle consistant a` appliquer un protocole de recherche formalise´e qui exige une artificialisation de son objet, a` savoir les processus cognitifs que met en jeu l’activite´ de traduire. D’un autre coˆte´, la traductologie productive ne vise pas a` la connaissance d’un objet: elle ne tend qu’a` la maıˆtrise d’une pratique, c’est-a`-dire a` une conduite langagie`re d’e´criture bilingue. Dans ce dernier cas, c’est une modalite´ d’«intelligence pratique» qui est mobilise´e. Il s’agit de prendre toute la mesure d’une re´alite´ concre`te excessivement complexe et nuance´e comme peut l’eˆtre un texte donne´ (texte-source, mais aussi textecible): on est confronte´ la` a` ce qu’on appelle une idiosyncrasie, dont il est bien clair qu’elle est ine´puisable et qu’on devra se limiter en fonctions de crite`res purement pragmatiques; et le «rapport a` l’objet» re´side essentiellement dans l’anticipation intuitive d’un comportement du sujet lui-meˆme. Il y a la` une analogie e´vidente avec la «the´orie des IM» (intelligences multiples) du psychologue cognitiviste ame´ricain Howard Gardner, sur laquelle je serai amene´ a` revenir dans une prochaine e´tude. De meˆme, on

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Que «l’intelligence» ne soit pas une faculte´ unitaire et homoge`ne, comme on a trop longtemps voulu le croire, mais qu’elle serait plutoˆt de nature modulaire, c’est-a`-dire plurielle, le bon sens et l’observation courante avaient fait plus qu’en donner le soupc¸on depuis de´ja` quelque temps. C’est ce que confirme la psychologie contemporaine – meˆme si, a` vrai dire, la me´thodologie des test mentaux a jusqu’a` pre´sent manque´ a` prendre cette donne´e en compte – et notamment les recherches re´centes d’un Howard Gardner. Cf. le bilan re´trospectif de la «the´orie des IM» (intelligences multiples) que l’auteur a publie´ lui-meˆme: Howard Gardner, Les Intelligences mutiples, trad. fr. Ph. Evans-Clark, M. Muracciole et N. Weinwurzel, Retz, Paris 1996 (coll. Psychologie).

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notera au demeurant qu’il existe un paralle´lisme entre le clivage qui oppose en psychologie, sur le plan e´piste´mologique, la psychologie expe´rimentale et la psychologie clinique, et l’opposition que je fais entre la traductologie inductive et la traductologie productive. Mais plus profonde´ment, c’est un proble`me proprement philosophique qui se trouve pose´. On pourra en effet distinguer trois niveaux paralle`les. (1) Il y a d’abord le clivage entre ces deux modes de discursivite´s traductologiques que de´finissent l’approche inductive et l’approche productive. (2) Au niveau psychologique du sujet connaissant, ce clivage renverrait donc en fait a` la distinction ope´re´e entre deux formes d’intelligences diffe´rentes. (3) Plus fondamentalement enfin, au niveau philosophique des re´alite´s objectives qu’il s’agit de connaıˆtre, il conviendra de marquer l’opposition entre deux modalite´s d’intelligibilite´ du monde. Ainsi aurait-on l’alternative entre un objectivisme, dont je vais ici-meˆme esquisser la critique en traductologie, et la re-subjectivation des proble`mes de la traduction pour laquelle je plaide.

7. Horizons philosophiques Il reste que je ne saurais conclure la pre´sente e´tude sans relever un paradoxe philosophique inhe´rent a` l’argumentation que j’ai de´veloppe´e ici. Apre`s avoir propose´ une typologie des discours traductologiques, tout mon propos est alle´ a` plaider pour une traductologie productive, dont la fonction est de contribuer a` anticiper la production d’un texte-cible par le traducteur. C’est pour moi l’enjeu essentiel de toute the´orie de la traduction; et je serais tente´ de dire, par synecdoque, que tout le discours traductologique se re´sume a` c¸a! en sorte que, par un effet de cette meˆme synecdoque, toute traductologie tendrait a` eˆtre une traductologie productive, au sens que j’ai de´fini. Mais alors c’est qu’on aurait affaire a` une connaissance productive; et on retouve ici le paradoxe philosophique qui est au cœur de la the´orie kantienne de la connaissance. Pour Kant, en effet, c’est la connaissance qui produit son objet – au moins en partie, en grande partie. C’est le sens de la fameuse «re´volution copernicienne» a` partir de laquelle il entendait refonder la philosophie sur une critique de la raison a` l’œuvre dans les sciences de son temps. Il ne m’est gue`re possible de de´velopper ici cet horizon philosophique de la traductologie48. Je me contenterai pour l’heure d’en de´gager deux ou trois corollaires. 48

Ce sera l’objet d’une prochaine e´tude, reprenant notamment la substance de ma

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Avant tout, c’est encore une fac¸on de se de´prendre des naı¨vete´s du positivisme, qui tend a` devenir l’ide´ologie spontane´e de la modernite´: ainsi que je me suis attache´ a` le montrer, il convient de de´jouer l’illusion objectiviste en traductologie, pour prendre la mesure de la subjectivite´ inhe´rente a` toute connaissance – et, en particulier, a` la connaissance traductologique. Il semblerait que ce fuˆt une e´vidence, en l’espe`ce, puisque la traduction est une pratique et, plus pre´cise´ment, la pratique de ce sujet qu’est le traducteur. Aussi la traductologie (productive) ne saurait-elle manquer a` ce que j’ai appele´ une re-subjectivisation du cognitif et le be´ne´fice qu’on pourra en attendre est-il de nous aider a` nous autoaccoucher en tant que traducteurs, c’est-a`-dire de nous assurer de notre propre idiosyncrasie de traducteur, dirai-je pour reprendre deux formules utilise´es pre´ce´demment. Toutefois l’esprit positiviste de la modernite´ fait que la tentation objectiviste vient hanter la traductologie: sous une forme descriptive qui fait pour ainsi dire une «fixation» sur l’apre`s-coup linguistique objective´ de l’ope´ration traduisante ou sous une forme psycholinguistique visant a` induire les me´canismes objectifs de cette ope´ration mentale, comme on l’a vu. Le moindre paradoxe n’est pas qu’il faille ainsi toujours revenir a` l’e´vidence, a` ces e´vidences fondatrices qu’en d’autres temps on appelait des axiomes. En quoi la traductologie se re´ve`le eˆtre apparente´e a` la philosophie. N’est-elle pas, au reste, une discipline de re´flexion, et non une discipline de savoir? Plus ge´ne´ralement: la traductologie est une science humaine. Encore une fois – dans les sciences humaines, a` la diffe´rence des sciences exactes – la re´flexion e´piste´mologique d’un me´talangage critique est coextensive au discours de la recherche elle-meˆme. Surtout: la connaissance empirique des faits humain ne s’y de´ploie pas sans de´boucher sur des horizons philosophiques comme ceux qui viennent d’eˆtre e´voque´s. Il est clair qu’il n’est gue`re possible d’aller plus loin dans la pre´sente e´tude: il y a la` tout un chantier de re´flexion, auquel j’accorde pour ma part la plus grande importance49. Il y a matie`re a` une philosophie de la confe´rence intitule´e Critique de la raison traductive au colloque «Philosophie et traduction» organise´ par Jacques Rancie`re et Antonia Soulez a` l’Universite´ de Paris – VIII: Vincennes a` Saint-Denis, le 16 janvier 1996. 49 Je me contenterai ici de renvoyer a` quelques-unes des e´tudes que j’ai de´ja` consacre´es a` cette perspective traductologique: Pour une philosophie de la traduction, in «Revue de me´taphysique et de morale», N˚ 1/1989, pp. 5-22; La traduction prolige`re? – Sur le statut des textes qu’on traduit, cit., pp. 102-118; Entre les lignes, entre les langues, dans le cadre du Nume´ro spe´cial sur Walter Benjamin de la «Revue d’esthe´tique» (nouvelle se´rie), N˚ 1 (1981), pp. 67-77, etc.

ˆ GES DE LA TRADUCTOLOGIE LES 4 A

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traduction a` part entie`re, qui a sa place en traductologie comme en philosophie.50 En sorte qu’apre`s avoir distingue´ quatre modes de discursivite´ traductologique – prescriptive et descriptive, productive et inductive – j’en distinguerai un cinquie`me (qu’en un premier temps j’avais un peu trop vite subsume´ sous la traductologie prescriptive): celui d’une traductologie spe´culative ou philosophique, que je ne peux gue`re appeler une traductologie «re´flexive», dans la mesure ou` je me suis attache´ a` montrer que c’est le propos essentiel de toute traductologie que d’eˆtre justement re´flexive. Enfin, ayant plaide´ pour une re-subjectivation de la traduction, non seulement pour ce qui est du traducteur lui-meˆme, mais encore et du meˆme coup pour son lecteur, je concluerai en plac¸ant la traductologie sous l’e´gide de la proble´matique the´ologique me´die´vale de la receptio. Salerne n’e´tant pas loin d’Aquino, je concluerai «en voisins» pour ainsi dire, en citant une formule de Saint Thomas d’Aquin que j’affectionne: «Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur»51 – qui, ainsi de´coupe´e de son contexte, fera figure d’aphorisme... a` Salerne!

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C’est ce que je me suis attache´ a` de´montrer et a` fonder e´piste´mologiquement dans le cadre de ma The`se d’Habilitation a` diriger des recherches, sous le titre La traductologie: de la linguistique a` la philosophie: cf. notamment le quatrie`me volume intitule´ Pour une philosophie de la traduction (338 pp.), a` paraıˆtre (traduction espagnole sous presse). 51 Et je sacrifierai a` cette pratique de la rhe´torique traditionnelle qu’on appelle une pre´te´rition: en ajoutant que, bien suˆr, je n’ai pas besoin de traduire cette citation, dont il est e´videmment clair pour tous qu’elle veut dire, en l’occurrence, que quelque soit le message, il n’en est jamais rec¸u par celui auquel on s’adresse que ce que lui en auront permis de recevoir les limites qui font qu’il est ce qu’il est. – P.S.: N’ayant rien dit jusqu’ici du rapport entre rhe´torique et traduction, je ne voudrais pas terminer cette e´tude sans avoir cite´ un ouvrage qui, sur cette question peu traite´e, a le grand me´rite de faire le lien entre the´orie et pratique: Miche`le A. Lorgnet, Pour une traduction holistique – recueil d’exemples pour l’analyse et la traduction, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice, Bologna 1995 (Biblioteca della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori, Forlı`).

LA DANZA DEL SENSO. ASPETTI DEL DIBATTITO SU INDETERMINATEZZA ` DELLE LINGUE E TRADUCIBILITA di Stefano Gensini

1. Chi scrive non e` un teorico della traduzione, ma uno studioso di filosofia del linguaggio che ha fatto e fa traduzioni, e legge, per ragioni di lavoro, scritti di pensatori di varie epoche i quali si interrogano sul problema del tradurre in relazione alla natura del linguaggio e della comunicazione. Sono stato stimolato da questo convegno a mettere assieme alcuni spunti che da temi centrali del dibattito traduttologico del nostro secolo rimandano a problemi di teoria linguistica, quali sono stati avvertiti e discussi da classici della nostra disciplina. Il punto che mi interessa e` la discussione sul modo in cui le diverse strutture linguistiche condizionano il pensiero e le conseguenze che ne derivano, generalmente parlando, in ordine alla «traducibilita`» delle lingue e dei testi. Mi propongo di illustrare brevemente come questo tema e` stato discusso da due autori di orientamento ben diverso, ma entrambi «classici» del pensiero linguistico contemporaneo, come Roman Jakobson e Willard van Orman Quine, e gli interrogativi che ne sono discesi. In un secondo momento provero` a rintracciare le origini di questo dibattito in una fase storicamente decisiva della storia della filosofia del linguaggio occidentale, quella che si colloca fra Aufkla¨rung e Romantik, e presentero` suggestioni di autori come Leibniz, Leopardi e Humboldt, che, nella differenza profonda dei loro profili intellettuali e delle rispettive linee di ricerca, si leggono con interesse in riferimento alle questioni oggi piu` dibattute. 2. Com’e` noto, dobbiamo a Roman Jakobson, nel famoso saggio On

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1 linguistic aspects of translation (1959) , l’idea che il concetto di traduzione implichi simultaneamente tre tipi diversi di attivita` traduttoria: la traduzione «endolinguistica», immanente a ogni forma di comunicazione all’interno di un dato idioma, in quanto procedimento permanente di riformulazione; la traduzione «interlinguistica», che e` quella piu` vicina al senso tradizionale del termine; la traduzione «intersemiotica», che pone il problema del passaggio dai segni di una lingua a quelli di altri codici comunicativi. Fatta questa strategica distinzione, Jakobson si spinge a concludere che «Le lingue differiscono essenzialmente per cio` che devono esprimere, non per cio` che possono esprimere» (1972: 61). Che e` un modo assai sintetico ed elegante di porre due distinti princı`pi: quello della determinatezza semantica di ciascuna lingua, nel senso che l’universo dei sensi disponibili a un idioma e` vincolato a una gamma complessa, storicamente e culturalmente determinata, di opzioni; e quello, per certi versi opposto, della potenziale apertura semantica di tutte le lingue: un principio che e` stato in anni successivi riformulato con terminologia diversa («principio di esprimibilita`» da Searle, «infinita`» da Chomsky, «onnipotenza semiotica» da De Mauro2. Il nesso/differenza che Jakobson pone e`, va detto subito, tutt’altro che pacifico: lo e` in termini teorici profondi, di la`, e in certo modo prescindendo, dal fatto che di traduzioni efficienti e` tramata tutta la storia della cultura occidentale; perche´ il presupposto che Jakobson sottoscrive, senza nemmeno esplicitarlo, e` che le lingue, tutte le lingue, «possano dire tutto» (almeno in linea teorica); che esse abbiano, cioe`, gli strumenti per vincere la loro specificita` semantica, che le radica in un determinato asse socioculturale. Lo stesso anno in cui Jakobson pubblica il suo scritto, meritatamente famoso, esce Meaning and Translation di Quine, ripresentato con modifiche l’anno successivo nel volume Word and Object3, una pietra miliare nel recente dibattito epistemologico e filosofico-linguistico. La tesi di Quine e` nota come tesi della «indeterminatezza» della traduzione. Essa sostiene che se si desse una condizione di apprendimento «radicale» di una lingua straniera, come puo` essere il caso di un linguista il quale entra in contatto

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Lo si legge in italiano in id. (1972: 56-76). Si v. su cio` De Mauro (1982). E` appena il caso di ricordare che il luogo classico della linguistica novecentesca in cui questo principio (inteso in termini di «onniformativita` semantica») e` stato proposto e` i Prolegomena to a theory of language di Hjelmslev (1943). 3 Cfr. anche l’ed. ital., accompagnata da una importante introduzione di Fabrizio Mondadori, in Quine (1970). 2

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con una comunita` parlante una lingua a lui assolutamente sconosciuta, non avremmo a nessun patto la garanzia di poter circoscrivere con esattezza il significato di nessun enunciato: neppure di enunciati di riferimento (quelli, cioe`, che a buona ragione possono sembrarci i piu` aderenti a stati di cose). Quine lavora con un modello di tipo comportamentista, parte cioe` da enunciati ancorati a stimolazioni sensoriali (come di chi vede passare un coniglio e sente dire a un indigeno – che pure vede passare lo stesso coniglio – la parola Gavagai); eppure, sviscerando le condizioni di comunicazione di una situazione che puo` apparirci quanto mai favorevole alla identificazione di significati traducibili con certezza, Quine mostra che ogni enunciazione trae il suo senso da un contorno di opzioni culturali (e da una gamma indefinita di circostanze individuali) che rendono illusorio il contatto. A maggior ragione cio` varra` per enunciati piu` complessi e svincolati dalla sfera sensoriale, tipo «I neutrini non hanno massa». I significati sono dunque specifici per ciascuna lingua e, quando ci sforziamo di tradurli, in effetti lo facciamo in riferimento non a una realta` obiettiva ma a una nostra arbitraria ipotesi di ricostruzione del loro contorno: nelle sue parole, «e` soltanto relativamente a un manuale di traduzione in gran parte arbitrario che la maggior parte di enunciati stranieri appare condividere il significato di enunciati inglesi». Per dare un’idea dell’impatto della teoria di Quine4, ricordero` che il libro di epistemologia forse piu` fortunato dell’ultimo quarantennio, La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn, estende il principio di indeterminatezza alla nozione stessa di teoria e al modo in cui va interpretato il confronto e la competizione dei «paradigmi» scientifici. Lungi dall’essere «cumulabili» e «falsificabili» in senso popperiano, le acquisizioni della scienza sarebbero tali (e dunque leggibili) solo all’interno del loro paradigma, che´ questo istituirebbe un modo del tutto originale e indipendente di scegliere i dati e di connetterli in uno schema interpretativo. Con quali conseguenze per il confronto delle idee e per gli stili della ricerca scientifica (oltre che del costume accademico) e` abbastanza facile immaginare. 3. C’e` un aspetto del ragionamento di Quine che, credo, deve farci riflettere. Quine insiste sulla indefinita complessita` delle determinazioni – fino in fondo inconoscibili al linguista esploratore – grazie alle quali l’indigeno giunge a dire Gavagai (intendo forse dire «coniglio», ma forse invece «c’e` una cosa che corre e si puo` mangiare», ma forse anche qualcosa di diverso). 4

Sul quale v. ad es. Santambrogio (1992).

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All’inizio del secolo il problema della assoluta individualita` del senso era stato colto e posto con mire diverse da personalita` quali Saussure, che partiva di lı` per chiedersi come si arriva a capirsi, Croce, che aveva a cuore il carattere germinale, originario di ciascun atto linguistico, che e` anzitutto atto espressivo, e Bergson, che contrapponeva l’intuizione del nostro profondo (con la sua durata indeterminabile) all’analisi della vita psicologica 5 superficiale . L’unico linguista dei tre, Saussure, risolse il problema suggerendo che la mediazione fra l’individualita` degli atti sia di fonazione sia di significazione e` la lingua, la quale traccia dei confini entro i quali i parlanti imparano a far ricadere quegli atti: e allora avremmo cio` che la tradizione strutturalista ha chiamato fonemi e monemi, soluzione pacificamente accettata fino a qualche anno fa. Ma il problema si ripropone, e si drammatizza, se vediamo le cose in prospettiva interlinguistica. Perche´, ammesso che ciascuna lingua istituisca il suo sistema di mediazioni (qualcuno preferirebbe dire: di classificazioni), che cosa c’e` che puo` mediare fra sistemi diversi, proiezioni astratte di una realta` linguistica in ultima istanza estremamente fluida e, appunto, indeterminabile? Chiaramente il problema si scioglierebbe come neve al sole se ammettessimo la risposta cognitivista piu` hard, quell’ipotesi di un «linguaggio del pensiero» – per dirla con Fodor – o di un «mentalese» che soggiacerebbe alle lingue diverse, riducendosi queste ultime, in fondo, a un sistema di etichettature di universali semantici6. Ma senza inoltrarci in una discussione dei presupposti teorici del cognitivismo, basti osservare come esso sia di solito stato disattento alla varieta` dei casi proposti dalla presa in considerazioni di lingue differenti, e come abbia sempre costruito i suoi dati in riferimento a una lingua sola – l’inglese, poi postulando una simmetria fra i risultati dell’analisi e una presunta dimensione universale del linguaggio/pensiero. E basti ricordare come per il capofila riconosciuto del cognitivismo in linguistica, Noam Chomsky, la semantica abbia a lungo avuto un ruolo puramente interpretativo, superficiale, mentre la parte profonda, universale delle lingue andava ritrovata in un algoritmo sintattico. L’organizzazione dei significati e` pero` esattamente il cuore del nostro problema; e non si puo` immaginare una traduttologia che sia asemantica. 4. Vorrei a questo punto proporre al lettore una specie di passo del

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Cfr. Saussure (1967). Di Bergson si puo` vedere ad es. il saggio Introduction a` la metaphysique (1903) (ed. ital. 1994). Sulla complessa posizione di Croce, a parte De Mauro (1971: 103 ss.), si v. D’Angelo (1982). 6 Una formulazione ormai classica del pensiero di Jerry A. Fodor e` id. (1987).

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gambero, saltando indietro nel tempo di circa tre secoli e andando a ripescare una pagina di un classico della filosofia, ma anche di un riconosciuto precursore della moderna logica simbolica e dell’intelligenza artificiale, il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz. Grande conoscitore e studioso di lingue diverse, oltre che della «caratteristica universale», Leibniz scrive correntemente latino e francese e si pone il problema della utilizzabilita` della sua lingua madre, il tedesco, per parlare e scrivere a un pubblico dotto, europeo e non solo europeo, di scienza e filosofia. In un saggio bellissimo e pochissimo noto fuori della cerchia dei leibnizologi, gli Unvorgreifliche Gedanken betreffend die Ausu¨bung und Verbesserung der Teutschen Sprache («Pensieri senza pretese circa l’uso e il miglioramento della lingua tedesca»: attribuibili al 1696-97), uno dei suoi pochissimi lavori scritti in tedesco, Leibniz fa una serie di proposte per l’arricchimento delle risorse lessicali della sua lingua; ma non trascura gli aspetti generali, teorici, della questione. Questi sono mirabilmente riassunti in due paragrafi che citero`, per comodita`, in una mia traduzione: «§ 59. Finalmente una lingua, per quanto povera sia, puo` invero esprimere tutto; anche se gia` si dice che vi siano dei popoli barbari ai quali non si puo` significare che cosa vuol dire dio. Sebbene si possa in fondo, con circonlocuzioni e descrizioni, significare ogni cosa, tuttavia con un tale allungamento ogni piacere, ogni espressivita` va persa, sia per chi parla, sia per chi ascolta. [...] § 61. Per la verita`, credo non ci sia una lingua al mondo che possa rendere una parola di altre lingue con la stessa efficacia e anche con una sola 7 parola» .

Prima e dopo questi fulminanti paragrafi, Leibniz spende parole efficaci per sostenere la necessita` delle traduzioni, che son quelle che cimentano e arricchiscono le lingue, consentono loro di munirsi di termini e contenuti che finora non hanno coperto, ma anche le stimolano a attivare e sfruttare le risorse endogene, mettendo in uso parole nazionali per forma, ma nuove e non solo nazionali per spettro semantico. E, con evidente riferimento al 7

§ 59 «Es kann zwar endlich eine jede Sprache, sie sei so arm, als sie wolle, alles geben, obschon man sagt, es wa¨ren barbarische Vo¨lker, denen man nicht bedeuten kann, was Gott sagen wolle. Allein, obschon alles endlich durch Umschweife und Beschreibung bedeutet werden kann, so verliert sich doch bei solcher Weitschweifgkeit alle Lust, alle Nachdruck in dem, der redet, und in dem, der ho¨rt [...]. § 61 «Nun glaube ich zwar nicht, daß eine Sprache in der Welt sei, die anderer Sprache Worte jedesmal mit gleichem Nachdruck und auch mit einem Worte geben ko¨nne» (1983: 27-8).

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Lutero del Sendbrief von Dolmetschen, spiega l’importanza di andare a ricercare le risorse della buona lingua tedesca fuori delle accademie, nei mercati e nelle botteghe, dove prosperano le arti e le tecniche e la lingua si 8 fa davvero «moneta corrente» . Mi preme soprattutto l’aspetto teorico sollevato da Leibniz. La specificita` di ciascuna lingua sta nel fatto che l’efficacia comunicativa si perde se pretendiamo di comunicare certi sensi al di fuori delle strutture grammaticali, delle risorse espressive proprie di quella lingua; tuttavia il passaggio e` teoricamente possibile, perche´ qualsiasi lingua, per povera che sia, puo` esprimere tutto (alles geben) in virtu` di quelle che oggi chiameremmo le sue capacita` metalinguistiche: parafrasi, circonlocuzioni, la capacita` medesima di esplicitare i propri limiti semantici e di alludere a quel che ricade fuori – per adesso – della propria sfera. E poi di modificare, allargare o restringere i valori semantici incastonati nelle parole e nei modi di dire, quelli che oggi chiameremmo gli idioms. E` grazie a risorse del genere che e` garantito a priori, in termini immanenti, linguistici, quel livello di mediazione di cui andavamo in cerca. Il passo assume tutta la sua forza se teniamo presente che in altri contesti Leibniz confronta la stabilita` convenzionale dei significati di una lingua universale (una lingua «perfetta», come la chiamerebbe Umberto Eco) col carattere «parum constitutum» (come altrove il filosofo tedesco si esprime) delle parole nelle lingue storico-naturali: una «nonstabilita`», una «apertura» o, per usare termini suoi, una indetermination des mots9 che, lungi dal rappresentare un difetto, fa parte dell’efficacia delle lingue comuni ed e` condizione di possibilita` del loro arricchimento semantico. In sintesi, dilatabilita` semantica e possibilita` di utilizzare dispositivi metalinguistici sono i due cardini che ogni lingua, «per quanto povera sia», puo` mettere a frutto per tradurre altre lingue piu` ricche di tradizione e di contenuti, e quindi per aiutare il progresso della comunita` parlante. Non puo` non tornare a mente, a questo punto, un celebre passo di Saussure, che gli allievi non ritennero di trascrivere nel Cours de linguistique ge´ne´rale, ma che ci da` una precisa idea di che cosa il fondatore della 8

Per una presentazione complessiva delle idee linguistiche di Leibniz cfr., a cura di chi scrive, Leibniz (1995). Ivi anche una trad. ital. integrale dei Gedanken gia` ricordati. 9 Cosı` nei Nouveaux Essais sur l’entendement humain («Dans cette indetermination du langage, ou` l’on manque d’une espece de loix qui re`glent la signification des mots, comme il y en a quelque chose dans le titre des Digestes du droit Romain, De verborum significatione, les personnes les plus judicieuses, lorsq’elles e´crivent pour des lecteurs ordinaires, se priveroient de ce qui donne de l’agre´ment et de la force a` leur expressions si elles vouloient s’attacher rigoureusement a` des significations fixes des termes»: II 29 = A VI 6: 260).

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linguistica novecentesca a sua volta intendesse con arbitrarieta` e dilatabilita` semantica: se per assurdo una lingua umana, fatta per aderire ai bisogni della massa parlante, si riducesse a due soli segni, questi dovrebbero comunque essere in grado di soddisfare quei bisogni, accogliendo «tutte le significazioni: l’uno avrebbe designato una meta` degli oggetti, l’altro l’altra meta`» (CLG 1191 B Engler). Cosı` brutalmente, ma suggestivamente espresso da Saussure, il principio della continua apertura dei confini semantici (che segna una vera rottura del paradigma convenzionalista) e` il 10 presupposto di cui ha bisogno la facolta` metalinguistica per operare . 5. Tornando a Leibniz, la sua sottolineatura della peculiarita` dei modi in cui ciascuna lingua esprime il pensiero (ogni lingua, egli dice, e` ein Spiegel des Verstandes11) si collega alla nozione di «genio delle lingue», circolante in ambiente portorealista fino dalla prima meta` del Seicento e ormai diffusasi in tutta Europa. (Si trovano attestazioni di questa espressione nello stesso Leibniz, e nella prosa critica italiana del primo Settecento). Tale nozione, unita agli argomenti della querelle linguistico-nazionale del nuovo secolo, si ripresenta in numerosi autori per rafforzare e radicare il principio della determinatezza semantica degli idiomi (ed eventualmente della superiorita` di uno o di un altro sui restanti). Da Condillac a Herder al nostro Cesarotti questo punto viene sostenuto con una certa costanza e con varieta` di argomentazioni12. E` pero` in Humboldt che la nozione trova un suo autentico dispiegamento filosofico, coniugata com’e` ai dettami della filosofia kantiana che riconducono il linguaggio (e le lingue che sono le differenti espressioni di esso) alla soggettivita` conoscente e alla prassi di unificazione del molteplice che questa esercita creativamente. In Humboldt, che muove dal pensiero di Kant esplicitandone le possibili valenze semiotiche13, la differenza delle lingue si da` nella sua pienezza, ma insieme viene ricondotta a una unita`, o per dire meglio alla universalita` della facolta` di linguaggio. Questa universalita` trascendentale dipende dal fatto che «gli uomini condi10

Per un ripensamento del problema teorico dell’indeterminatezza alla luce dei problemi attuali della semiotica cfr. Garroni (1998). 11 Nel primo paragrafo dei citati Gedanken (1983: 5). 12 Il punto fu colto con precisione da Hans H. Christmann gia` in uno studio del 1965. Per approfondimenti mi permetto di rimandare a Gensini (1993). 13 Non e` questo il luogo per addentrarsi nel complesso dibattito intorno al «silenzio» di Kant sul linguaggio e alla possibilita` o meno di desumere dalle sue «Critiche» (in particolare dalla terza) i presupposti (impliciti) per una teoria semantica. Per un quadro in chiave storico-teorica del problema cfr. Formigari (1977) e ora Perconti (1999).

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vidono pressappoco gli stessi bisogni e le stesse forze fisiche e morali» (Saggio sulle lingue del nuovo continente 1989 [1812]: 85), e che il linguaggio si presenta come qualcosa di coincidente con la natura stessa dell’uomo, come «un istinto intellettuale della ragione» (Sullo studio comparato delle lingue: 1989 [1820]: 125); e` un principio di unificazione dell’esperienza, che si da` simultaneamente all’articolazione del pensiero, ed e` quindi un principio radicalmente conoscitivo e creativo. E` questa dimensione trascendentale, totalmente umana, che fonda la possibilita` di tradurre, anche se ciascuna lingua, aderendo strettissimamente alla nazione che la parla, «la tiene prigioniera in un determinato circolo» (1989 [1812]: 90). Infatti «ogni lingua presenta lo spirito umano tutto intero, ma avendo sempre un carattere particolare, non lo presenta che da un solo lato» (ibidem). Frase che si puo` leggere da sinistra verso destra ma anche, per cosı` dire, da destra verso sinistra, nel senso che ciascuna lingua, pur radicata in una Weltansicht, presenta lo spirito umano tutto intero. Da una parte, come si vede, questa impostazione non lascia ridurre Humboldt, checche´ se ne sia detto e se ne dica, al ruolo di precursore della cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf, che sostiene l’irriducibilita` reciproca delle sfere semantiche delle singole lingue14; dall’altra ripropone in termini nuovi e piu` complessi il problema di Leibniz. Scrive infatti Humboldt nell’introduzione alla traduzione dell’Agamennone di Eschilo: «Poiche´ e` prodigiosa caratteristica delle lingue poter bastare dapprima, tutte, agli usi comuni della vita e poi poter essere elevate all’infinito dallo spirito della nazione, che le elabora, verso uno spirito piu` alto e sempre piu` multiforme. Non e` troppo arrischiato affermare che in ogni lingua, anche nei dialetti di popoli molto rozzi che noi non conosciamo a sufficienza (col che non si vuol dire che una lingua non sia originariamente migliore di un’altra e che alcune altre non siano per sempre irraggiungibili) si puo` esprimere tutto, le cose piu` alte e profonde, le piu` forti e delicate» (1993 [1816]: 136).

E ribadisce nel gia` citato Studio comparato del 1820: «Finora l’esperienza personale mi ha mostrato che anche i cosiddetti idiomi rozzi e barbarici possiedono gia` tutto cio` che occorre ad un uso 14 Per una presentazione complessiva delle idee sul linguaggio e le lingue di Wilhelm von Humboldt, si v. la ampia introduzione di Donatella Di Cesare alla sua traduzione italiana della celeberrima Einleitung zum Kawi-Werk, meglio nota col titolo Ueber die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluss auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts (1836): cfr. Humboldt (1991: XI-XCVI).

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completo e sono forme in cui, come i migliori e piu` eccellenti idiomi hanno provato, l’animo intero potrebbe incarnarsi nel corso del tempo per dar forma in esse, in maniera piu` o meno perfetta, ad ogni genere di idee» (1989 [1820]: 118).

Naturalmente a Humboldt preme affermare un punto di principio, senza negare i dislivelli storicamente determinati fra idiomi. La traducibilita` andra` dunque poi vista in concreto, nei termini di cio` che due lingue, due culture, hanno effettivamente sedimentato di comune, e delle modalita` effettive in cui un universo di significati potra` rendersi disponibile in un universo differente che, pur lasciando trasparire «l’estraneita`», o meglio proprio facendola trasparire, consentira` l’accesso a questo. 6. Credo che le osservazioni di Leibniz e Humboldt qui presentate diano un’idea dello sfondo storico sul quale si staglia la celebre suggestione di Jakobson dalla quale siamo partiti. Il binomio specificita` delle lingue / universalita` del linguaggio e` profondamente radicato nella tradizione filosofico-linguistica occidentale e, visti in questa chiave, anche alcuni asserti centrali dello strutturalismo assumono una luce diversa. Non a caso, l’autore contemporaneo in cui quel binomio e` posto per primo con tanta forza, Ernst Cassirer, comincia la sua grande opera Philosophie der symbolischen Formen (1923) con un primo tomo (Die Sprache) dedicato largamente alla storia della filosofia del linguaggio e al lento costruirsi di quel nesso. Ma non e` questo il luogo per approfondire il problema. Desidero invece concludere segnalando che esattamente negli anni cui risalgono gli scritti di Humboldt prima citati, e certo senza poterli in alcun modo conoscere, in un angolo appartato d’Italia il nostro Leopardi si interrogava in termini analoghi sulla possibilita` di tradurre e su cio` che per un verso rende necessario, per un altro rende cosı` disperatamente difficile tradurre «in modo perfetto». Sono domande ch’egli si poneva in funzione di una precisa esperienza intellettuale e professionale, di traduttore e di grande studioso di lingue classiche; ma anche in funzione di un dibattito culturale assai vivo sulla scena europea, nel quale occorreva contrastare il mito della «universalita`» del francese, contrapponendo a esso il senso del sedimento storico ineliminabile dei singoli idiomi nazionali (e del francese fra questi) e insieme la prospettiva di una convergenza internazionale delle lingue che non si presentasse come rescissione di quelle diverse e autonome tradizioni. Sia consentito seguire schematicamente, per mere citazioni, l’oscillare del Leopardi fra i due poli del nostro ragionamento. Anzitutto il polo della

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individualita` semantica, che spinge a sondare la dimensione sfumata, eppure quanto reale e determinante, di quel che oggi chiameremmo «senso» della lingua: «Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli e` piu` familiare, cosı` ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualita` delle scritture fatte in qualunque lingua. Come il pensiero, cosı` il sentimento delle qualita` spettanti alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a noi usuale. I modi, le forme, le parole, le grazie, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che puo` spettare alla lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in male) non si sente mai ne´ si gusta se non in relazione colla lingua familiare, e paragonando piu` o meno distintamente quella frase straniera a una frase nostrale, trasportando quell’ardimento, quell’eleganza ec. in nostra lingua. Di maniera che l’effetto di una scrittura in lingua straniera sull’animo nostro, e` come l’effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura e` adattata a renderle con esattezza; sicche´ tutto l’effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall’oggetto reale» (Zib. 963, 20-22 aprile 1821).

E poi il polo della convergenza, della potenziale unita`, che si dispiega solo ove sia consentito a una lingua, col libero gioco delle forze sociali, con una qualita` del vivere umano non irreggimentata dall’eccessiva razionalita` dei moderni, di sviluppare fino in fondo la sua liberta`, varieta`, pieghevolezza, adattabilita`. «Una lingua perfetta che sia pieamente libera ec. colle altre qualita` dette di sopra, contiene in se stessa, per dir cosı`, tutte le lingue virtualmente, ma non mica puo` mai contenerne neppur una sostanzialmente. Ella ha quello che equivale a cio` che le altre hanno, ma non gia` quello stesso precisamente che le altre hanno. Ella puo` dunque colle sue forme rappresentare e imitare l’andamento dell’altre, restando pero` sempre la stessa, e sempre una, e conservando il suo carattere ben distinto da tutte» (Zib. 2853, 29-30 giugno 1823).

Leopardi sapeva bene di proporre un obiettivo – quello di una traduzione perfetta – al limite delle forze umane, e tuttavia teoricamente possibile, a suo avviso, a chi conoscesse perfettamente la sua lingua nativa, in tutte le sue sfumature. Anche aveva in vista una sua teoria sull’italiano come lingua massimamente inclinata, fra le altre moderne, alle traduzioni, come lingua varia, molteplice, quasi un aggregato di mille lingue e mille registri,

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una lingua che forse come nessuna si poteva pensare di piegare – solo a 15 conoscerne a fondo i segreti – alle esigenze espressive piu` diverse : perfino, al limite, allo stile conciso e nervoso dei francesi, con la loro sintassi spezzata e i loro periodi uniproposizionali, restando pur sempre lingua italiana. Laddove il contrario non era storicamente (anche se non assolutamente) possibile. Non so che cosa si debba davvero pensare della adattabilita` dell’italiano: osservo che un sicuro intendente come Calvino, in un articolo apparso nel 1965 sul Contemporaneo di Rinascita, parlo` di questa lingua agile, quasi fosse fatta di gomma, in termini non dissimili da quelli di Leopardi, del suo amatissimo Leopardi16. A me interessava in questa sede offrire qualche argomento storico e, spero, anche teorico, a favore della traducibilita` delle lingue: una tesi che credo vada ribadita a partire da motivazioni squisitamente linguistiche nei rispetti di tendenze seducenti, ma anche alla fin fine fallaci, dell’attuale dibattito filosofico-linguistico.

Riferimenti bibliografici Albano Leoni, F./ Gambarara, D./ Gensini, S. / Lo Piparo, F. / Simone, R. (a cura di). 1998. Ai limiti del linguaggio. Vaghezza, significato e storia (a cura di F. Albano Leoni et al.). Roma-Bari: Laterza. 49-77. Bergson, H. 1994. Introduzione alla metafisica. (a cura di V. Mathieu) [orig. Introduction a` la metaphysique, 1904]. Roma-Bari: Laterza. Calvino, I. 1980. Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e societa`. Torino: Einaudi. Christmann, H. H. 1965. «Un aspetto del concetto humboldtiano della lingua e i suoi precursori italiani». In Problemi di lingua e letteratura italiana del Settecento. Atti del quarto Congresso dell’associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Magonza e Colonia, 28 aprile-1 maggio 1962. Wiesbaden: Franz Steiner Verlag. 328-32. De Mauro, T. 1982. Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue. Roma-Bari: Laterza.

15 Per una scelta e una presentazione delle pagine linguistiche leopardiane rimando a Leopardi (1998). 16 Vedi ora l’articolo in Calvino (1980: 116-21). Esso si inseriva nel dibattito sulle trasformazioni in corso nella lingua italiana aperto dal alcuni famosi, provocatori interventi di Pier Paolo Pasolini.

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TRADUZIONE AUTOMATICA TRA SOGNI E ` . GLI STRUMENTI LINGUISTICI REALTA di Emilio D’Agostino - Annibale Elia

1. L’imperfezione delle lingue L’interesse che ciclicamente si riaccende intorno ai progetti di traduzione 1 automatica ed al loro finanziamento pubblico e privato ripropone, seppur in termini rinnovati, alcuni dei piu` antichi sogni dell’uomo: la possibilita` di costruire un automa intelligente. Costruire una macchina umana significa sapere com’e` fatto l’uomo e, se necessario, correggere le sue eventuali imperfezioni. C’e` una corrente di pensiero che ha considerato e considera le lingue umane imperfette e percio` inadatte a compiti molto rigorosi come la ricerca della verita`. In quest’ot1 Per una storia della traduzione automatica, si veda almeno Delavenay (1960), Hutchins (1986), Panov (1960). Per un’informativa sulla situazione attuale e sui progetti privati e pubblici si puo` consultare l’ILC del CNR di Pisa e il Centro THAMUS di Salerno. Dopo il fallimento ufficiale del 1965 con il rapporto ALPAC, l’obiettivo della traduzione automatica e` stato ridimensionato a traduzione assistita dal computer: in ogni caso, l’evoluzione della tecnologia e delle risorse linguistiche hanno permesso di realizzare piccoli progressi nella direzione di piccole automazioni nella fase di analisi (parsing), di transfer e di generazione. La Comunita` Europea, negli anni ’70 ha finanziato in modo imponente il progetto EUROTRA; negli anni ’90 il progetto EUROLANG ha riunito i leaders europei per la realizzazione di un sistema avanzato di traduzione assistita. Alla data attuale, dei tre sistemi storici, Sistran (Gachot – Francia), Logos (USA) e Metal (Siemens – Germania), solo il sistema LOGOS, che ha creato una joint venture con la societa` italiana THAMUS, ha ancora una presenza sul mercato. Gli altri sistemi languono, soprattutto perche´ la strategia commerciale delle societa` proprietarie e` stata impostata a livello di monoprodotto. Poiche´ il mercato non e` maturo per il costo ancora sostenuto delle installazioni, vengono preferiti prodotti piu` leggeri (dizionari elettronici, piccoli sistemi di assistenza alla traduzione) o servizi globali di traduzione, documentazione e stampa, che sono offerti, per esempio dal THAMUS.

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tica, l’imperfezione delle lingue e` vista anche come fonte d’intralcio per la comprensione sia tra individui parlanti una stessa lingua che tra individui obbligati a tradurre da lingue differenti. Come e` noto, questa e` tradizione consolidata nel pensiero occidentale. Per Apel (1963): «La speculazione occidentale relativa alla diversita` delle lingue prende le mosse dal racconto biblico della confusione delle lingue che Dio provoca in occasione della costruzione della torre a Babel, e cioe` denota il carattere punitivo che una visuale teologica annette ad ogni diversita` di lingue.» (p. 142)

Allo stesso tempo, pero`, Apel evidenzia come, da Dante, nella sua funzione di «mediatore che trasferisce la problematica linguistica dalla formulazione teologica medioevale a quella filosofico-scientifica dell’e`ra moderna», in poi: «L’apprezzamento scientifico, e piu` tardi anche religioso, delle lingue popolari [leggi: «volgari»] introdotto da Dante determina, alla fine un completo capovolgimento della valutazione filosofica della diversita` delle lingue: W. v. Humboldt ed E. M. Arndt vi scorgeranno, come anche nella molteplicita` delle culture in generale, una salutare costrizione all’autocritica e alla mutua integrazione nel cammino verso una verita`. Questo mutamento e` preparato dalla vecchia dottrina della chiesa orientale, tornata in auge nella Riforma, secondo cui l’infusione dello Spirito Santo a Pentecoste, e il miracolo delle lingue che l’accompagna, trasforma la confusione babilonica in un dono della grazia di Dio, poiche´ ora tutte le lingue materne sono santificate in quanto canali dell’unica verita` dell’Evangelo.» (ibidem)

E` nella compresenza di entrambe le tradizioni – lingue «imperfette» o lingue piu` semplicemente «diverse», quindi incommensurabili – che nasce e rinasce, ciclicamente, nella storia umana, la speranza di costruire una lingua «perfetta». L’avventura della traduzione automatica appartiene, in questo senso, a tale universo di speranze e segue le alterne vicende, in questo secolo, delle illusioni e delle disillusioni delle teorie linguistiche. L’Intelligenza Artificiale, come disciplina destinata alla simulazione dei processi umani di apprendimento e di ragionamento, dal calcolo al linguaggio, mediante i calcolatori elettronici, viene battezzata tra il 1955 e il 1956, al Massachusetts Institute of Technology di Boston da professori e assistenti di matematica come John Mc Carthy e Marvin Minsky. Il calcolatore elettro-

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nico, in questo nuovo orizzonte disciplinare, viene proposto come una moderna macchina intelligente. Di macchine capaci di sostituire l’uomo in attivita` tipiche della sua intelligenza si e` vagheggiato non poco nel corso della storia umana. Jonathan Swift, nel 1727, si diverte a far trovare al suo Gulliver una macchina per scrivere libri, che echeggia, probabilmente, le ricerche del filosofo e missionario catalano Raimo´n Llull, nato nel 1234, ideatore dell’Ars Magna. Nei suoi viaggi, Llull si era imbattuto nella tradizione araba della zairja, una «macchina pensante» basata sulle 28 lettere dell’alfabeto arabo corrispondenti ad altrettante categorie filosofiche. Se la zairja era una fantasia di tradizione astrologica, Llull ne immaginava una versione cristiana basata su dogmi medievali e destinata a risolvere ogni problema di teologia, metafisica e morale, per arrivare alla verita` senza doversi preoccupare di pensare. La macchina di Llull e` immaginaria. Come immaginario e` Frankenstein: la macchina vivente. I computer invece sono reali e, in un qualche modo, funzionano piu` che bene. Il loro utilizzo per scopi piu` «simbolici» dei pur complicati calcoli numerici ha posto, immediatamente, il problema in termini piu` realistici e anche piu` scientifici.

2. Le necessita` del calcolo Uno degli aspetti collegati al sogno della macchina intelligente e` la possibilita` di costruire un meccanismo in grado di ragionare. Il ragionamento umano, nella storia del pensiero classico, viene situato quasi a meta` tra le capacita` di calcolo e le capacita` linguistiche. Non pochi pensatori sono stati affascinati dall’idea di fondere i due tipi di capacita`: in genere, la lingua umana e` stata ritenuta imperfetta, perche´, in definitiva, cosı` come e` fatta, si presta male ad essere usata con il rigore del calcolo, cioe` con una lineare corrispondenza biunivoca tra forma e significato, anche se una sua componente fondamentale, quella riconducibile al calcolo, ha fatto sı` che spesso si sia affermato che la lingua e`, per similitudine, come un calcolo. Sia che l’imperfezione sia stata causata dalla corruzione babelica e, quindi, sia necessario ricostruire la lingua adamitica, sia che tale condizione rappresenti un aspetto intrinseco alle lingue naturali in quanto tali e, quindi, obblighi all’invenzione ed alla diffusione di una lingua artificiale, il problema si mantiene inalterato: per meccanizzare la conoscenza e` necessario utilizzare un codice inequivoco, che contenga i significati primi, connessi ai concetti universali comuni a tutti gli uomini. In realta`, nella stessa formula-

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zione della «proposizione-pittura» di Wittgenstein nel Tractatus 2, e` presente, come ultima manifestazione dell’aristotelismo linguistico, l’aspirazione ad un codice-lingua comune ed inequivoco e una lingua-repertorio fondata sull’idea – «semplicistica», per dirla con De Mauro (1965) che riprende una precedente interpretazione di Martinet (1960) – per la quale il mondo si organizza e si ordina anteriormente alla visione che ne ha l’uomo ed indipendentemente dalla sua categorizzazione e formulazione attraverso il linguaggio. In definitiva, quest’approccio e` stato presente anche in tutti quei progetti di traduzione automatica basati sulla costruzione di una lingua pivot, astratta e semanticamente univoca che dovrebbe garantire la corrispondenza uno ad uno di parola e concetto. Un testo in lingua source verrebbe tradotto prima nella lingua pivot e poi da questa verrebbe generato il testo nella lingua target voluta. Il compito dei moduli di analisi e generazione diventerebbe piu` agevole proprio grazie a questo passaggio per la lingua pivot3. I progetti di traduzione automatica piu` recenti sono orientati alla costruzione di sistemi modulari basati sul transfer della coppia bilingue interessata, piuttosto che sulla lingua pivot, anche se la ricerca di un sistema semantico inequivoco e slegato dalle concrete realizzazioni lessicali e sintattiche continua a interessare il dibattito teorico, che pare riscoprire lo stesso sogno ad ogni salto tecnologico relativo all’hardware ed al software. 2

Il riferimento qui e`, in particolare, alla proposizione 4.01 del Tractatus: «La proposizione e` un’immagine della realta`. La proposizione e` un modello della realta` quale noi la pensiamo» ed alla proposizione 5.6: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». 3 Il problema della traduzione automatica degli anni ’80 era ancora quello del linguaggio pivot, semantico e astratto. La sua costruzione, con qualche astuzia sintattica in piu`, continua a rinviare al modello di Wilkins e del Leibniz logico. Il fatto e` che un linguaggio pivot e` stato realmente costruito (il SAL del sistema LOGOS-THAMUS): essendo basato su di una sola delle molteplici classificazioni o enciclopedie umane, cioe` su di una classificazione ideologica (legata al sapere e alle decisioni logico-epistemologiche di un gruppo di ricercatori), questo linguaggio pivot funziona molto imperfettamente. Per aggiustare il tiro della traduzione, allora, nel sistema automatico LOGOS-THAMUS, per esempio, intervengono due programmi aggiuntivi che perfezionano il procedimento di transfer aumentando la potenza del vocabolario bilingue e la struttura lessico-grammaticale dei verbi. I sistemi di traduzione automatica odierni funzionano soltanto se vengono applicati a manuali tecnici in cui l’informazione rispetta schemi sintattici e moduli stilistici ripetitivi e soprattutto se la mole di pagine da tradurre e` abbastanza imponente da permettere al sistema di integrare le correzioni fatte a partire dalle prime cinque-seimila pagine, in modo che intorno alle diecimila pagine il tasso di errore si abbatte radicalmente (circa il 10%).

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La stessa speranza, che troviamo ancora aleggiare nei congressi di linguistica computazionale, ha alimentato svariate costruzioni filosofiche: quelle di Llull e del neolullismo veicolato da Comenio, quelle dei filosofi del linguaggio del ’600 inglese, quella di Leibniz. Nella terminologia del tempo, la lingua pivot perfetta sarebbe la lingua filosofica (scientifica) per eccellenza. Il progetto di una totale reinvenzione del linguaggio sta a fondamento dell’Essay towards a Real Character and a Philosophical Language di John Wilkins del 1668, ma anche di alcune sue riflessioni contenute nel Mercury, or the Secret and Swift Messenger, del 1641 e delle tesi anticipatorie di Seth Ward nel Vindiciae Academiarum, del 1654. Fino agli ultimi decenni del 1600, tutti i progetti di lingua universale sono, in definitiva, orientati sul modello di Wilkins e si propongono come sistemi di lingua naturale. Quel modello prevedeva la concreta realizzazione di una lingua artificiale, costruita sulla base di un codice sillabico (Ba, Be, ... So, Sy) che, usato a partire da una lista dei sensi dei concetti primitivi della vita e della conoscenza, avrebbe dovuto permettere di ricodificare ogni significato di una parola con una combinazione del tipo Baso, ... Besy. Quello di Wilkins sembra proprio un «alfabeto delle nozioni primitive», espressione che Leibniz usa nel 1691 per parlare anonimamente, in una nota recensitoria, della sua Dissertatio de Arte Combinatoria4. Eppure c’e` una profonda differenza tra i propugnatori della lingua filosofica come Ward e Wilkins e Leibniz. Almeno per due ragioni contrapposte: da una parte, egli si mosse davvero, a differenza dei neo-lullisti, in direzione di una logica algebrica moderna e, dall’altra, ebbe un’attenzione e un rispetto per le imperfette lingue umane addirittura da studioso di linguistica descrittiva o di lessicografia. E` indubbio che il nome di Leibniz e` legato indissolubilmente e prevalentemente5 alla ricerca della caratteristica universale, cioe` ad un progetto che, a giusto titolo, gli storici dell’Intelligenza Artificiale antepongono, per il suo valore fondante, alla cosiddetta «algebra di Boole» e al progetto di «macchina analitica» di Babbage. Leibniz voleva meccanizzare la ragione, in tutti i sensi: sia cercando di esprimere «algebricamente» le regole assodate del ragionamento sillogistico, sia costruendo macchine calcolatrici e strumenti di precisione per automi ad orologeria. Per quanto riguarda il 4 L’opera fu scritta nel 1665, pubblicata nel 1666 e ripubblicata a insaputa dell’autore nel 1690. Cf. per queste questioni F. Barone, Introduzione, in Goffredo Guglielmo Leibniz, Scritti di Logica, edizione a cura di Francesco Barone, Bologna Zanichelli 1968. 5 Ormai questo luogo comune, che e` l’espressione di una lacuna storiografica, e` stato cancellato anche grazie a Gensini (1995).

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primo aspetto, quello algebrico, Leibniz fallı` e bisogno` aspettare George Boole perche´ l’interpretazione delle espressioni algebriche venisse liberata dal vincolo matematico e venisse estesa alle proposizioni riguardanti classi di oggetti. Da questo punto di vista, il progetto di Leibniz, anche se e` fallito, e` importante perche´ rappresenta una rivoluzionaria linea di sviluppo per la logica, non riducibile alle preoccupazioni seicentesche per la lingua perfetta o universale. Le preoccupazioni linguistiche di Leibniz, d’altra parte, vanno piuttosto in altre direzioni. Gensini (1995) ci ricorda che: «lungi dall’attribuire alle parole il connotato dell’imperfezione (come accadeva nell’Essay di John Wilkins), Leibniz fa di queste la base di ogni possibile processo di formalizzazione: se claritas e veritas sono i due ingredienti basici del discorso dimostrativo, la prima condizione si ottiene attraverso vincoli testuali (...) che progressivamente rastremano le fisiologiche oscillazioni semantiche delle parole, valendosi della loro stessa flessibilita` per porvi i necessari argini.» (p. 9)

Filosofi, logici e linguisti hanno tracciato e ancora tracciano un tortuoso percorso tra sogni di meccanizzazione, che la tecnologia in fasi alterne esalta, e ansie di formalizzazione e di perfezione, che l’attenzione alle lingue concrete regolarmente ridimensiona.

3. I moderni calcolatori La tecnologia informatica ha reso i sogni spettacolari, ma ha anche creato nuovi problemi, addirittura basilari: ad esempio, il problema della comunicazione con il calcolatore, questione quest’ultima che rappresenta, in definitiva, un problema di «traduzione». Il linguaggio di programmazione, infatti, e` una specie di pidgin, una rozza lingua di scambio, ed e` nato dalle riflessioni sulle grammatiche formali. Il linguaggio, in generale, ha rappresentato uno dei problemi cruciali dell’Intelligenza Artificiale sin dall’inizio. Sia quello artificiale con il quale il programmatore dialoga con il computer, sia quello naturale con il quale non solo il programmatore, ma tutti gli essere umani pensano, comunicano, esprimono emozioni. La costruzione di una macchina intelligente e` uno degli obiettivi dell’IA e il linguaggio naturale e` una delle componenti piu` importanti dell’intelligenza umana. Si puo` dire che finche´ non si sara` in grado di programmare il computer con la stessa duttilita` con la quale si illustra un progetto scientifico ad un collega, e finche´ un utente qualsiasi non potra` dialogare con il computer e chiedergli

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di fare quello che vuole, il sogno della macchina intelligente non sara` stato tradotto in realta`. I primi successi in questo campo spinsero, negli Stati Uniti, come abbiamo gia` accennato, alcuni linguisti a lanciarsi nel campo della traduzione automatica delle lingue storico-naturali. I linguisti erano affascinati dalla scoperta che la sintassi di una lingua naturale aveva straordinarie somiglianze con una grammatica formale6 di natura algebrica e pensarono che, disponendo di una grammatica formalizzata e di un vocabolario bilingue da consultare automaticamente, il gioco della traduzione fosse fatto. Ben presto essi si scontrarono con l’antichissimo problema della polisemia delle parole e dell’ambiguita` delle frasi e dei discorsi e con un grado piu` o meno alto di incommensurabilita` fra sistemi linguistici. Come e` ampiamente noto, fino agli anni ’60, le ricerche in questo campo beneficiarono di ingenti finanziamenti militari. La breve storia di questa prima esperienza e la vasta raccolta di aneddoti a tale riguardo possono far comprendere molte cose sulle difficolta` del trattamento automatico del linguaggio naturale. Una delle prime applicazioni dell’IA fu anche uno dei suoi piu` grossi fallimenti. Si provo` e riprovo` fino a che negli anni ’60 l’insuccesso fu riconosciuto pubblicamente. Questi primi traduttori automatici facevano troppi e grossolani errori, come, d’altronde, ne fanno anche alcuni dei piu` recenti: il risultato del doppio passaggio italiano→russo e russo→italiano, Lo spirito e` forte ma la carne e` debole riconvertito in La vodka e` buona ma la carne e` guasta costituisce un aneddoto interpretabile come un esempio significativo, alla stessa stregua della traduzione data da un programma commerciale di Dante Alighieri nell’inglese Giving Alighieri. L’automa, non possedendo conoscenze sull’uso delle parole, cioe` sui loro significati e sensi, ne ha selezionato a caso alcuni tra i possibili. Infatti spirito puo` essere ‘‘anima’’, ‘‘mente’’ ‘‘alcol’’ ecc., carne puo` essere "tessuti del corpo umano e animale’’, ‘‘natura umana’’, ‘‘parte degli animali da macello’’ ecc., cosı` come non e` stato capace di distinguere un potenziale participio

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Per quanto concerne la nozione di «grammatica formale» vedasi Baudot (1982). In ogni caso, qui si ricordera` che il requisito minimo cui una grammatica deve soddisfare e` la capacita` di definire quali sono le frasi che appartengono ad un linguaggio, cioe` quell’insieme di frasi costruite su di un certo vocabolario. Le frasi cosı` definite sono dette «ben formate» o «grammaticali» e si distinguono da quelle «non grammaticali». Molto spesso, quando si parla di un linguaggio come di un insieme di frasi, la grammaticalita` concerne il solo piano sintattico. Sul piano formale, una grammatica e` un sistema finito adeguato a descrivere un linguaggio, nel senso che esso rappresenta un sistema costituito da un numero finito di componenti.

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presente da un nome proprio. L’I.A. si era scontrata con il problema del significato e degli usi.

4. I problemi linguistici Il problema e` cosı` antico che, da Platone in poi, si sono susseguite lunghe fasi di discettazioni teoriche, ma poche reali conquiste scientifiche e cio` nonostante gli sviluppi complessi sul piano della formalizzazione ottenutisi in linguistica in questo secolo, in particolare nella seconda meta` in ambiente chomskyano. Intorno ai primi anni ’60, N. Chomsky consolidava una teoria elaborata a partire dalle riflessioni del suo maestro Z. S. Harris e dagli scambi con l’algebrista francese M. Schu¨tzenberger: la teoria della grammatica generativo-trasformazionale, nella quale la sintassi giocava un ruolo centrale e la semantica (il componente relativo al significato) interveniva come modulo interpretativo delle frasi. Tra il 1963 e il 1967 si sviluppo` un ampio dibattito sul rapporto tra sintassi e semantica: da una parte i «sintatticisti», assertori della centralita` della sintassi e della sua indipendenza dalla semantica, dall’altra i «semanticisti», assertori della dipendenza della sintassi dalla semantica. In particolare, riferendoci al trattamento automatico del linguaggio naturale, e` possibile ricordare che uno dei suoi presupposti e` costituito dall’idea che fenomeni linguistici possano essere rappresentati in modo da essere manipolati da computer. Normalmente si suole contrapporre a tale riguardo un approccio matematico ad un approccio linguistico: il primo sviluppatosi certamente per primo e caratterizzato dall’uso di metodi non elaborati in modo specifico per il problema di cui qui si discute, il secondo, invece, legato a specifici modelli formali della lingua.7 Ad esempio, la correzione ortografica di un qualsiasi word processor, nel primo caso, tentera` di individuare gli errori sulla base della preventiva considerazione statistica delle probabilita` di occorrenza di sequenze di due o tre caratteri grafici, mentre nel secondo, essa usera` a tale scopo dei dizionari e delle grammatiche che avranno precedentemente cercato di illustrare in modo esplicito e rigoroso il meccanismo linguistico sottoposto a verifica. Nel primo caso, non e` necessaria alcuna conoscenza linguistica previa, nel secondo e` evidente come maggiore sia il grado di adeguatezza descrittiva dei dizionari e delle grammatiche di riferimento, tanto piu` basso sara` il margine di errore 7

Rimandiamo a tale proposito a Gross (1991).

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della macchina. I limiti del primo approccio hanno fatto sı` che attualmente sia il secondo quello maggiormente impiegato, anche se una forte contaminazione tra i due sia presente in numerosi sistemi di trattamento automatico.8 Il modello di tipo linguistico – e` noto – si e` fondato inizialmente sulle grammatiche context-free chomskyane9, in ragione del fatto che esse si prestano bene ad un calcolo automatico, dato che le operazioni necessarie al riconoscimento delle sequenze sono semplici e poco numerose. Numerose varianti di tali grammatiche sono state costruite, in particolare quelle utilizzate per i linguaggi di programmazione e quelle impiegate nell’analisi di lingue storico-naturali. Le prime sono non ambigue e trovano applicazione anche nella generazione e traduzione di testi, apparentemente realizzati in una lingua naturale, ma che hanno la proprieta` di essere associati ad una relazione Forma-Significato totalmente controllata e univoca. E` il caso, ad esempio, della traduzione dei messaggi meteorologici contraddistinti, in particolare, da frasi brevi e da un vocabolario limitato e, data la sua specializzazione, non ambiguo. In realta`, le grammatiche utilizzate per le lingue naturali erano tradizionalmente molto deboli e limitate dal punto di vista strettamente linguistico-descrittivo, non tanto sul piano della descrizione di marche semplici come genere, numero, coniugazione ecc., ma sul piano della descrizione dei vincoli distribuzionali operanti sulla combinatoria delle lingue. Il problema era e restava la descrizione: il vocabolario, inteso in termini di puri lemmi, di una lingua va da un minimo di 6000 parole a una media 8 9

di —







L’esempio e` fornito per l’appunto dal sistema Logos-Thamus. Rimandando a Baudot (1982), qui ricorderemo soltanto che la gerarchia di grammatiche Chomsky prevedeva il seguente quadro: grammatiche di tipo 0 dette «senza restrizioni», cioe` non sottoposte ad alcuna restrizione nella scrittura delle regole e che presentano il difetto legato alla indecidibilita` dei linguaggi che esse definiscono; grammatiche di tipo 1 dette «dipendenti dal contesto», cioe` grammatiche che possono avere tutta la generalita` permessa dalla forma φAψ →φwψ , cioe` possono avere regole del tipo A→w/φ − ψ , nel senso che il simbolo non terminale A viene riscritto con una frase non vuota w, a condizione che A sia posto nel contesto φ ... ψ ; grammatiche di tipo 2 dette «indipendenti dal contesto», che presentano regole che hanno la forma A→w, cioe` regole che permettono l’operazione di riscrittura quale che sia il conteso in cui esso si trova, cioe` consentono la riscrittura di un simbolo non terminale in una frase non vuota indipendentemente dal contesto; infine grammatiche di tipo 3 dette «a stati finiti» con regole che possono avere l’una o l’altra delle forme: A→aB oppure A→a, cioe` consentono di sostituire un simbolo non terminale con un simbolo terminale eventualmente seguito da un simbolo non terminale.

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di 150.000. Si sarebbe dovuto verificare un larghissimo campione di frasi. Nessuno provo` a fare piu` di qualche decina di descrizioni. In definitiva, sia nel gruppo sintatticista, sia in quello semanticista, non si lavorava concretamente sul vocabolario da connettere al modulo sintattico. Questo vocabolario (Lessico), in teoria, si riempiva sempre piu` di regole classificatorie e di criteri selettivi, nella speranza di trovare qualche regola generale che diminuisse il peso delle eccezioni ma, in pratica, nessuna lingua veniva setacciata e descritta esaustivamente. Dal punto di vista dell’I.A. questo non fu un bene. Il progetto della traduzione automatica fu in parte abbandonato e molti ricercatori intrapresero, alla luce anche delle indicazioni teoriche della grammatica generativa, lo studio serrato del problema semantico, che appariva come preliminare a quello della traduzione automatica. Gli studi furono condotti da un punto di vista logico e psicologico e, mancando dati linguistici esaustivi e concreti da inserire nei programmi, si elaborarono simulazioni molto ristrette. E` invece di lavori in apparenza umili e minuziosi che ha bisogno in questo campo l’I.A. Mentre, a partire dagli anni ’60, Chomsky, suscitava l’intricato dibattito sulla teoria del significato in relazione alla sintassi, un altro allievo di Harris, il francese Maurice Gross, intraprendeva un progetto che al suo inizio fu definito irrealizzabile ed epistemologicamente non significativo e inadeguato: la costruzione di un vocabolario del francese interamente fuso con la sua grammatica. Ogni parola di un vocabolario d’uso comune di dimensioni ampie venne studiata in relazione a diverse centinaia di proprieta` sintattiche: il risultato fu un Lessico-Grammatica, cioe` una banca dati di milioni di contesti frasali testati sul piano dei vincoli distribuzionali operanti sulla combinatoria generale e sul piano della correlazione tra proprieta` diverse. In tal modo, dal punto di vista formale, era possibile definire non solo e non tanto le regole di buona formazione delle frasi di una lingua, quanto piuttosto l’insieme delle frasi ben formate ed il relativo complemento delle frasi non ben formate. La conclusione, per certi versi inattesa, cui le ricerche dei grossiani pervenivano modificava l’immagine di una lingua che nel suo complesso si era costruita: ad esempio, su alcune migliaia di verbi di una qualsiasi delle lingue analizzate (francese, italiano, spagnolo, inglese ecc.) non ce ne erano, in media, due che presentassero lo stesso comportamento sintattico, cioe` rientrassero nella stessa classe. In particolare, con le ricerche inaugurate dallo studio di Gross sulle completive del francese, la questione del trattamento e dell’accumulazione dei dati e` divenuta finalmente questione cruciale in linguistica. L’analisi sulle completive del francese nasce come "verifica" delle ipotesi

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trasformazionaliste, ma si trasforma in un potente strumento di riflessione prima e di cambiamento poi. Con essa, innanzitutto, vengono rimesse in discussione nozioni che erano sembrate del tutto certe nella tradizione, come quelle di ‘‘regola’’ e di ‘‘eccezione’’: «Le statut de la notion de classe grammaticale soule`ve diffe´rents questions. En grammaire traditionelle comme en grammaire transformationelle, une classe est de´finie a` partir de proprie´te´s morphologiques, syntaxiques ou se´mantiques. Dans le cas des proprie´te´s syntaxique de´crites ici nous pouvons adopter la de´finition: une combinaison boole´enne de proprie´te´s P de´finit une classe d’e´le´ments lexicaux. En re`gle ge´ne´ral, les grammairiens, apre`s avoir mis en e´vidence l’existence de proprie´te´s P, ne font pas que donner quelques exemples des membres de la classe correspondante. Un examen de la litte´rature montre que les classes syntaxiques ne sont jamais de´finies qu’en intention, il n’existe aucun exemple de de´finition en extension, c’est-a`-dire qui aurait la forme: les e´le´ments de la classe de´finie par les proprie´te´s P sont m1, m2,. .., mk (i.e. la liste des e´le´ments) et il en existe pas d’autres. Nos tables fournissent donc un re´sultat empirique qui n’e´tait pas e´vident a priori. Elles montrent qu’il est possible de construire des classes syntaxiques extensionelles. Comme nous l’avons mentionne´, il est vraisembable que les linguistes aient pense´, que les de´nombrements complets de formes n’e´taient pas humainement faisables du fait de leur nombre extraordinairement e´leve´; nos tables apportent une re´ponse claire a` cette question.» (Gross 1975, p. 33)

C’e` un secondo aspetto fondamentale che e` stato messo in luce nell’analisi grossiana. La salienza del Lessico nella definizione della forma della grammatica. Infatti, il Lessico di una lingua, che e` stato utilizzato in partenza come mezzo di controllo sulle ipotesi teoriche, diviene esso stesso ‘‘cuore’’ del modello generale di grammatica. Le regole, ci si e` abituati a dire, mostrano il loro statuto ‘‘lessico-dipendente’’, rivelano cioe` che possono essere ‘‘attivate’’ nel caso di particolari sottoinsiemi lessicali e possono non esserlo nel caso di altri. Ed un’affermazione di tale tipo e` del tutto differente dalla nozione di ‘‘governo lessicale’’ adottata in grammatica generativa. Infine, la stessa questione dell’accumulazione, rappresentazione, aggiornamento, gestione ed interrogazione dei dati diverra` fondamentale nel modello grossiano e si leghera`, piu` avanti, alla questione degli standard di rappresentazione per i dati linguistici nel trattamento automatico

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5. Grammatiche e lessico Il mito della regolarita` formale della sintassi cade. Quella che si riteneva essere La Grammatica si dissolve in un vasto insieme di migliaia di grammatiche locali tutte da esplorare. E` su tale base che una lingua rivela concretamente il suo essere per definizione un sistema «complesso»10: dalla semplicistica immagine caotica ed imprevedibile che e` stata tradizionalmente attribuita ad essa nella valutazione, in particolare, della sua componente «Vocabolario», si passa ad un’immagine piu` articolata nella quale l’interazione tra componenti diverse provoca comportamenti in apparenza inattesi. In realta`, cio` che appare chiaro e`, non tanto l’imprevedibilita`, la creativita` come metafora dell’impossibilita` o dell’incapacita` di descrizione e illustrazione dei meccanismi del sistema, quanto piuttosto l’inadeguatezza degli strumenti impiegati e il peso di una concezione della teoria linguistica che ha mal concepito le nozioni di «modello» come semplificazione e astrazione. La descrizione minuziosa appare, in tale prospettiva, condizione necessaria allo sviluppo della teoria, fermo restando che descrizione ed osservazione sono sempre attivita` di tipo selettivo, cioe` condizionate da un punto di vista. Faremo alcuni esempi. Le espressioni idiomatiche della lingua vengono a far parte dello stesso continuum delle frasi cosiddette libere e, allo stesso modo, in generale tutto il «materiale» e tutte le sequenze che, in una certa lingua, rivelano un tasso maggiore o minore di idiomaticita` e di «blocco». In italiano abbiamo diversi modi per intensificare il significato di una frase; per esempio, in classe di equivalenza con molto ritroviamo, ad esempio, differenti «materiali». Non solo altri avverbi come assai, grandemente e simili, ma anche suffissi come –issimo e, nel caso di alcuni aggettivi, la stessa iterazione dell’aggettivo: alto: Ugo e` alto Ugo e` molto alto Ugo e` altissimo Ugo e` alto alto

cosı` il suo contrario basso: basso: Ugo Ugo Ugo Ugo 10

e` basso e` molto basso e` bassissimo e` basso basso

Si rinvia all’Introduzione di D’Agostino in D’Agostino (1995).

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Sulla base di questa constatazione, si sarebbe portati a ritenere valida l’individuazione di una classe di equivalenza del tipo {Avv di quantita` + -issim- + Agg Agg}, ma in realta` un esame piu` attento dimostrerebbe immediatamente che una tale generalizzazione non ha tenuto conto di alcuni vincoli distribuzionali, di alcune «idiosincrasie» lessicali che vanno descritte piu` che esorcizzate. Infatti, se esaminiamo anche solo il caso di una coppia di aggettivi appartenenti ad una sottoclasse diversa come bello e brutto, osserviamo che: bello: Anna e` bella Anna e` bellissima Anna e` molto bella *Anna e` bella bella brutto: Eva Eva Eva Eva

e` brutta e` bruttissima e` molto brutta e` brutta brutta

Ci si accorge che la generalizzazione operata e` falsa e che vale ancora una volta il principio per il quale non c’e` alcun rapporto di implicazione stretta tra l’appartenere ad una certa classe e l’uniformita` di comportamento. Se continuiamo con l’esempio dei meccanismi di intensificazione in italiano e analizziamo avverbi idiomatici, possiamo identificare equivalenze tra varie sequenze, come negli esempi seguenti: Maddalena e Anna hanno mangiato molto Maddalena e Anna hanno mangiato a crepapelle Max e Ugo comprano molte penne Max e Ugo comprano penne a bizzeffe Il quadro e le terrecotte valgono molto Il quadro e le terrecotte valgono un occhio della testa

Ma, anche in questo caso, dobbiamo constatare che le sequenze in questione (a crepapelle, a bizzeffe, un occhio della testa) non sono varianti libere, ma contestuali, nel senso che su di esse pesano vincoli forti di ordine distribuzionale. Non sono, infatti, grammaticali le sequenze seguenti: *Maddalena e Anna hanno mangiato un occhio della testa

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*Il quadro e le terrecotte valgono a crepapelle

mentre, invece, sono entrambe accettabili: Max e Ugo hanno riso molto Max e Ugo hanno riso a crepapelle

ma non: *Maddalena e Anna hanno riso molto *Maddalena e Anna hanno riso a bizzeffe

Allo stesso modo, delle equivalenze possono essere rintracciate tra «materiali» che, in apparenza, non hanno nulla a che vedere tra loro. Si esamini la relazione tra il suffisso -issim- e scoppiare in frasi come: Eva e` allegra Eva e` allegrissima Eva scoppia di allegria

In questo caso, la relazione si stabilisce tra il suffisso ed un uso in genere riconosciuto come idiomatico di scoppiare distinto nettamente da quello presente in frasi come: la bomba scoppiera` (domani)

Si noti anche come la forma scoppiare, in un caso, si associa ad una costruzione preposizionale (V Prep N) nella quale il predicato (allegria) e` in posizione post-verbale come l’aggettivo (allegro), mentre nell’altro, invece, il predicato e` verbale (scoppiare) ed occupa la normale posizione a destra del soggetto. Inoltre, va notato che, non e` possibile applicare al primo uso qui riportato la cancellazione della sequenza Prep N, infatti otterremo una frase eventualmente non inaccettabile, ma riconducibile al secondo uso in questione: Eva scoppia

o ad usi chiaramente idiomatici come quelli impiegati in metafore sportive come: il ciclista scoppio` negli ultimi 10 Km

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Un traduttore automatico italiano-spagnolo del tipo di quelli citati all’inizio avrebbe fornito una frase come: *el ciclista estallo´ en los ultimos 40 Km

che costruito sul modello: la bomba estallo´

potrebbe fare coppia con il Giving Alighieri citato prima, invece di fornire una traduzione come: el ciclista revento´ en los ultimos 40 km

e la povera *Eva habrı´a estallado o explotado de alegrı´a. In effetti, tutte le varianti esemplificate non sono generalizzabili in modo semplice: e` necessario costruire molte grammatiche locali specifiche. Dal punto di vista della lingua perfetta, esse sono solo d’impaccio, ma la potenza semiotica della lingue, storica e naturale, biologica e sociale, risiede proprio nella ricchezza e nella ridondanza delle sue espressioni. La differenza fondamentale, tra un automa ed un essere umano, almeno per quanto concerne il linguaggio, risiede nel fatto che, mentre il secondo procede mettendo in atto un potente meccanismo innato che gli consente di interpretare correttamente ed in tempi rapidissimi l’assoluta maggior parte delle sequenze linguistiche indipendentemente dalla loro «buona formazione», il primo, al contrario, impara attraverso gli errori che compie. In questo senso, le «correzioni» operate da chi lo ha programmato e da chi se ne serve sono indispensabili ed esse non sono altro che descrizioni locali sempre piu` adeguate, anche per regole che appaiono ai parlanti come assolutamente semplici. Pertanto, l’analisi automatica del linguaggio naturale, per qualsiasi applicazione sia sviluppata, obbliga ad un lavoro di descrizione tendente all’esaustivita`, affinche´ il margine di errore dell’automa sia progressivamente ridotto in limiti che possono essere considerati fisiologici. Il lavoro di Gross, partito nel 1968, non e` piu` l’idea di un isolato positivista in ritardo sull’evoluzione dell’epistemologia e della ricerca scientifica. Dal suo laboratorio di Parigi si e` organizzata una rete di laboratori in tutta Europa in cui si costruiscono Lessico-Grammatiche delle lingue. Si puo` dire che, prima di Gross, i vocabolari e le grammatiche avevano sempre conservato la loro antichissima spartizione di ruoli: i vocabolari consacrati al significato o, attraverso di esso, all’elenco delle parole corri-

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spondenti in altre lingue, le grammatiche consacrate alle regole fonologiche, morfologiche e sintattiche. L’assunto di base soggiacente a questa tradizione e` quello che individua nel significato la parte ‘‘mutevole’’, storica, addirittura psicologica della lingua e nelle regole grammaticali la parte ‘‘stabile’’, rigorosa, automatica. L’approccio grossiano ha costretto i linguisti e i filosofi a rendersi conto che le decine di milioni di possibilita` combinatorie di circa diecimila verbi con gli altri elementi della frase, pur rispettando strutture formali superficiali abbastanza simili, vengono gestite, controllate e conosciute da una mente umana che non puo` archiviare in memoria piu` di 1,5 verbo per classe di comportamenti simili. Sulla base dell’approccio Lessico-Grammaticale e` stata analizzata anche 11 la lingua italiana ed e` stata individuata la struttura globale della frase semplice (imperniata sul comportamento dei verbi), in base alla quale, grazie a circa cinquanta classi strutturali diverse, si e` riusciti a descrivere, in prima approssimazione, il funzionamento della sintassi elementare dell’italiano, in relazione a 10.000 verbi. Un ulteriore passo avanti e` stato lo studio della sintassi dei nomi predicativi, cioe` di quei nomi che grazie alla presenza di pochi verbi senza significato pieno si comportano come dei veri e propri verbi: Max (fece + diede) l’annuncio del suo matrimonio agli amici Lia fece la bestialita` di sposarsi

i verbi fare e dare12 non hanno il significato di «fabbricare» e di «consegnare», sono «verbi supporto» (in questo caso, una specie di ausiliari di nomi che, negli esempi, hanno funzione predicativa), le preposizioni di e a dipendono da annuncio, cosı` come il complemento diretto e la preposizione a dipendono dal verbo annunciare in: Max annuncio` il suo matrimonio agli amici

In un secondo momento sono stati studiati i costrutti cosiddetti idiomatici,

11

Ci riferiamo ai lavori di linguistica descrittiva e computazionale svolti presso l’Istituto di Linguistica dell’Universita` di Salerno. Per una bibliografia minima, si veda almeno D’Agostino (1992), (1995), Elia (1994), Elia (1995), Elia, Martinelli, D’Agostino (1983). 12 In particolare in D’Agostino (1993) gli usi di fare e dare sono stati analizzati anche nel corpus di parlato italiano costruito per il Lessico di Frequenza dell’Italiano parlato (L.I.P.) curato da Tullio De Mauro.

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cioe` non interpretabili con un calcolo semplice dei significati dei singoli elementi: perdere la tramontana = verbo: «arrabbiarsi» tirare le cuoia = verbo: «morire» testa di cuoio= nome: «agente speciale» di gran carriera= avverbio: «rapidamente»

Gli studi sono andati avanti e oggi sono state costituite diverse banche dati elettroniche che hanno permesso di rivedere completamente le idee che ci si era fatti del lessico e della grammatica13. Ecco alcuni risultati, in termini numerici: — su un lessico di circa 100.000 parole semplici, i verbi sono circa 10.000: con circa 50 classi di strutture si descrive una sintassi elementare; — su circa 10.000 verbi, 3000 sono in grado di reggere un’altra frase (soggettiva, oggettiva, completiva); su 10.000, 8000 hanno una struttura diretta senza preposizioni al primo posto e solo 2000 hanno una struttura senza complementi o preposizionale; — su 100.000 parole semplici, i nomi sono circa 60.000 e i nomi predicativi circa 30.000 (cioe` piu` dei verbi); — i verbi idiomatici sono circa 15.000, cioe` piu` dei 10.000 verbi semplici; — i nomi idiomatici comuni sono circa 80.000, cioe` piu` dei 60.000 nomi semplici; — i nomi idiomatici tecnici arrivano facilmente a 1.000.000, cioe` dieci volte di piu` del vocabolario di forme semplici. Uno dei risultati piu` visibili di tutte queste ricerche e` che la distribuzione combinatoria degli argomenti dei predicati verbali e nominali si presenta da un lato piu` fissa e anomala dal punto di vista semantico (ci riferiamo ai costrutti idiomatici) e dall’altro, benche´ a prima vista dominata dal caos, appare organizzata in sub-grammatiche dipendenti da zone lessicali determinate.

13 Sono stati costruiti diversi dizionari elettronici monolingui, bilingui, idiomatici, tecnicoscientifici per un totale di piu` di 1.500.000 di lemmi.

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6. Strumenti linguistici per l’analisi automatica Dalla pratica della ricerca Lessico-Grammaticale due sono gli strumenti principali scaturiti nel campo del trattamento automatico delle lingue naturali, come risposta alle debolezze sia degli approcci matematici sia di quelli linguistici fondati sulle grammatiche context-free: l’elaborazione di dizionari elettronici e la costruzione di grammatiche locali attraverso l’applicazione della teoria degli automi finiti. I primi non sono stati solo il frutto dell’analisi grossiana, ma anche di modelli diversi, in particolare di quelli generalmente «attanziali», anche se, a nostro avviso, la metodologia distribuzionalista e trasformazionalista harrisiana cui si sono ispirati le varie Lessico-Grammatiche fornisce strumenti di analisi migliori. Le seconde, invece, sono state costruite a partire dalle grammatiche atte a descrivere linguaggi le cui strutture si limitano alla concatenazione di elementi, senza raggruppamenti in costituenti a piu` livelli. Qui di seguito illustreremo sia gli uni che gli altri.

7. I dizionari elettronici Come ricorda Silberztein (1993), tre sono i caratteri fondamentali dei dizionari elettronici che li distinguono dai dizionari cartacei (oggi anche digitalizzati) comuni: (relativa)14 completezza, esplicitezza e legame con i programmi di trattamento automatico. La prima si giustifica sulla base della considerazione per la quale ogni perdita di informazione concernente le parole di un testo si trasforma in una potenziale perdita di capacita` di analisi del testo. La seconda si giustifica sulla base del fatto che nulla e` evidente e noto alla macchina, ragione per la quale tutto deve essere esplicitato e reso chiaro. Infine, tutte le informazioni accumulate devono essere in un formato coerente che segua sempre e comunque gli stessi standard, sia per quanto riguarda la forma dell’entrata lessicale, sia per quanto riguarda la sequenza delle informazioni ad essa associate. Se esaminiamo i livelli di analisi fonemico, morfologico e ortografico, e sintattico, possiamo sottolineare gli aspetti seguenti: 1) l’ottica che ci deve accompagnare e` comunque e soltanto quella del 14

Il carattere «relativo» non puo` essere qui interpretato come una «debolezza» dell’approccio, quanto piuttosto una condizione inevitabile dato il carattere «aperto» del lessico di una lingua.

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trattamento dei testi scritti, pertanto la nozione di «parola» sara` – escluse le costruzioni polirematiche di vario tipo – quella per la quale una parola e` «una sequenza alfanumerica preceduta e seguita da bianco»; da cio` deriva principalmente che 1) che le classi morfologiche, ad esempio dei nomi, aggettivi e verbi, sono di numero molto superiore a quelli elencati nelle normali grammatiche; 2) che il trattamento di lingue come l’italiano, caratterizzate da una buona corrispondenza tra realta` fonemica, realta` morfologica e realta` ortografica e` piu` semplice di quello delle lingue come il francese, per le quali la corrispondenza tra i vari piani e` piu` complessa; 3) che l’informazione ortografica non costituisce una questione marginale, come potrebbe ritenersi, ma, al contrario, deve ricevere un’attenzione particolare: ad esempio, tutte le varianti ortografiche possibili devono/debbono essere previste; 4) che il livello sintattico deve contenere tutte le informazioni riguardanti le proprieta` grammaticali di ogni singola entrata lessicale: ad esempio, per ogni verbo con funzione predicativa la sua sottocategorizzazione stretta, le restrizioni distribuzionali sulle posizioni soggetto e complementi, le trasformazioni accettate ecc. Se escludiamo i livelli della rappresentazione fonemica, della rappresentazione morfologica e di quella ortografica, e` facile rendersi conto delle dimensioni dell’oggetto «dizionario elettronico» e quindi la quantificazione fornita in precedenza nel paragrafo (5.) apparira` certamente piu` chiara, come evidentemente piu` problematici appariranno i problemi della rappresentazione dei fenomeni evidenziati qui.

8. Automi finiti Un «automa finito» e` un sistema che puo` assumere un numero finito di stati, uno di questi stati e` distinto ed e` definito «stato iniziale», un altro e` definito «stato terminale». L’automa ha la proprieta` di poter leggere, uno dopo l’altro, i simboli di una sequenza costruita su un certo vocabolario: quando l’automa ha letto un simbolo puo` passare allo stato successivo, cioe`

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cambiare di stato, ma il nuovo stato assunto dipende sia dal simbolo letto che dallo stato nel quale si trovava al momento della lettura. Un automa puo` ricevere una rappresentazione in «grafi» come quella seguente, relativa 15 alla grammatica delle combinazioni dei verbi della classe delle completive dirette (dire) in italiano:

Gli automi finiti, quindi, consentono di rappresentare, in generale, dei linguaggi che sono costituiti da insiemi di sequenze riconosciute dall’automa, in particolare essi sono impiegati per rappresentare le grammatiche locali di meccanismi combinatori rintracciabili nei testi trattati automaticamente. Ad esempio, nel caso in questione, l’automa non avrebbe riconosciuto sequenze del tipo *dire del fatto che, *dire da ecc. e quindi non avrebbe proceduto a nessun trattamento; allo stesso tempo avrebbe trattato combinazioni nelle quali fosse stato presente un avverbio. Alla stessa stregua, nel caso del grafo seguente, corrispondente alla grammatica locale delle combinazioni di forme verbali flesse all’infinito, al gerundio ed al participio passato con i clitici, normalmente mai descritte analiticamente nelle grammatiche o nei dizionari: l’automa avrebbe escluso alcune combinazioni non 15

La notazione numerica (47) corrisponde al codice attribuito alla classe in Elia (1984).

TRADUZIONE AUTOMATICA TRA SOGNI E REALTA`. GLI STRUMENTI LINGUISTICI

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previste perche´ inaccettabili (*mangiatisila, *lettolamela ecc.) e, al contrario, ne avrebbe trattate altre come mangiatosela, lettomelo ecc.

Conclusioni La conclusione alla quale ci sentiamo di giungere e`, in realta`, molto semplice, anche se presuppone quello che e` stato qui definito un lavoro «minuzioso» di analisi e descrizione: la filosofia dell’analisi automatica del linguaggio non puo` essere molto distante dalla filosofia del piu` ci metti, piu` ci trovi che ispira la tradizionale ricetta della «minestra maritata» napoletana. E cio` perche´ le lingue naturali rappresentano, se non in assoluto il principale, certamente uno dei principali esempi dei cosiddetti «sistemi complessi» o «apparentemente caotici» o «deterministicamente complessi». La «complessita`», che non e` affatto sinonimo della piu` semplice «complicatezza» o della piu` generica «ricchezza», ma e` piuttosto termine tecnico che definisce sistemi che vedono interagire tra loro un numero elevato di variabili, tanto da non essere assimilabili ai sistemi deterministici come quelli descritti dalla meccanica classica, e` anche divenuta oggi parola alla

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moda, ma e` necessario notare come, non soltanto i fisici e i matematici abbiano avuto a fare con essa nella storia delle loro discipline, ma anche tutti coloro che si sono occupati di comportamento umano: i sociologi, gli antropologi ecc. I linguisti, come tutti coloro che nella loro pratica professionale hanno avuto a che fare con i «prodotti» del comportamento linguistico umano – cioe` i testi e i discorsi – sanno da sempre che le lingue appartengono per definizione alla classe dei sistemi complessi, ma nella storia del pensiero linguistico troppe volte si sono fatti prendere la mano da una irrefrenabile voglia di semplificazione che ha portato alla costruzione di modelli che, per raffinati che fossero, hanno impedito la comprensione dei fenomeni in oggetto. La traduzione automatica, come il trattamento automatico dei dati linguistici in generale, e` stata a lungo un esempio di cio`, ma oggi e` possibile dire che esistono le prove del fatto che nessun modello teorico, nessun programma informatico, come nessuna tecnologia, in se stessi possono sostituirsi al lavoro di descrizione dei «fatti» di lingua.

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INTERPRETARIATO OVVERO DELLA TRADUZIONE ORALE di Gabriella Dozin Crivaro - Adriana Villamena

Parlare di interpretazione puo` essere senz’altro un fatto piacevole, per noi interpreti, per spiegare in che cosa consiste questo lavoro a chi ci guarda da lontano, a chi non sa assolutamente come esso si svolga. In questo Convegno si e` parlato di traduzione scritta: traduzione di testi tecnici, scientifici, letterari e traduzione assistita; anche in quest’ultimo caso si tratta di traduzione scritta, che prevede il contatto diretto del traduttore con il testo da rielaborare nell’altra lingua servendosi di tutti gli ausili possibili: vocabolari, libri, terminologie specifiche, computer, dizionari. Non solo, ma, a seconda del tipo di traduzione, ci sara` la possibilita` di consultare testi specifici. La traduzione orale e` completamente diversa da quella scritta: e` una traduzione immediata, rapida: l’interprete ascolta una persona che parla e deve immediatamente rendere il senso di quello che e` stato detto. Il senso e` sufficiente se si tratta di un argomento discorsivo, mentre, qualora si tratti di un argomento di carattere scientifico, bisogna necessariamente essere molto precisi. La traduzione orale puo` essere simultanea, consecutiva, chuchotage, trattativa. Parleremo piu` ampiamente di simultanea e consecutiva ma e` opportuno accennare anche allo chuchotage e alla trattativa: lo chuchotage consiste nel bisbigliare all’ospite straniero quanto detto dagli oratori e nel fare una simultanea differita o una consecutiva di quanto l’ospite straniero dice; la trattativa e` una consecutiva piu` semplice, piu` leggera, meno impegnativa, poiche´ e` quella che si fa, ad esempio, nelle fiere: ci sono i vari stands e, quando giungono visitatori stranieri, l’interprete conduce il dialogo e la trattativa tra compratore e venditore di nazionalita` diverse. Ma parliamo della «simultanea» che si fa in una cabina, isolati dal

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pubblico, con un microfono in cui parlare e le cuffie per ascoltare. Nel momento in cui l’interprete mette la cuffia, prova il suo microfono ed e` pronto per tradurre, qual e` la regola di massima? L’oratore avvia il suo discorso e si comincia a tradurre due secondi dopo? Oppure l’oratore parla e l’interprete comincia la traduzione trenta secondi dopo? Molto dipende, chiaramente, dalla lingua dalla quale si traduce; in tedesco, per esempio, il verbo e` in fondo alla frase: l’interprete comincia la sua traduzione quando l’oratore ha quasi completato la prima frase. Tradurre dal francese e` piu` facile, sebbene convenga comunque aspettare qualche secondo se consideriamo l’abitudine italiana di anticipare il verbo rispetto al soggetto. Dallo spagnolo conviene senz’altro aspettare qualche attimo perche´ spesso la costruzione della frase e` diversa rispetto alla lingua italiana. Non troppo, ma nemmeno troppo poco. Per l’inglese, e` forse l’aggettivazione quella che presenta piu` problemi perche´ si deve in qualche modo rovesciare la frase e, comunque, aspettare il sostantivo memorizzando tutti gli attributi. L’AIIC (Associazione Internazionale Interpreti di Conferenza) ha fatto un’indagine presso gli utenti per vedere quale dovrebbe essere l’identikit dell’interprete ideale; tra i vari dati riportati, va sottolineato che il 90% dei consultati ha affermato di provare disagio quando l’oratore comincia a parlare e l’interprete ritarda, e al disagio si aggiunge l’incertezza. E` chiaro che non tutti i presenti in sala conoscono i tempi e le difficolta` che una lingua, con le sue costruzioni, puo` presentare; ma non bisogna ritardare troppo rispetto all’oratore per non creare attesa e disagio in chi ascolta (si puo` avere un eloquio piu` lento per aspettare). Traduzione immediata significa, a monte, conoscenza dell’argomento, necessaria anche per dare il giusto tono alla frase. A volte l’interprete si sente chiedere: «Ah!, ma perche´, voi capite quello che traducete...?» La risposta puo` essere solo: «Non tradurrei mai una materia che non capisco». Ma che cosa significa questo? Significa che, a monte, l’interprete deve avere una sua buona preparazione, nel senso che, mentre chi traduce a casa di fronte a un neologismo, a una parola strana o a un concetto poco chiaro che suscita dubbi, ha tutto il tempo di studiare e consultare altri libri, l’interprete simultaneista deve avere la capacita` di captare e rendere il concetto in un’altra lingua immediatamente – il che presuppone conoscenza dell’argomento. Questo non vuol dire che l’interprete debba essere onnisciente, ma deve sopperire ad una impossibile conoscenza approfondita di tutto con una curiosita` per tutto quello che avviene nel mondo delle arti, della scienza, della letteratura, della storia, della politica, dell’economia, ecc. Questa curiosita` intellettuale porta a

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leggere tantissimi giornali, a comprare dei libri specifici (a seconda delle proprie preferenze e inclinazioni) e ad osservare attentamente quello che accade nel mondo. Il segreto e` leggere, leggere, leggere......e non solo nella lingua madre, ma anche nelle lingue di lavoro per essere a conoscenza di cio` che avviene intorno a noi, poiche´ capita sempre, durante convegni su qualsiasi argomento, l’oratore che fa la battuta su una situazione politica, o sulla mitologia, o su personaggi biblici. Non bisogna fermarsi mai, ma cercare sempre qualcosa di nuovo. Non basta la conoscenza terminologica, che e` necessaria, ma e` fondamentale una forte e solida cultura di base, che si forma col tempo. Mai adagiarsi sugli allori! Il lavoro di interprete e` un lavoro stressante, di tensione, puo` sempre arrivare la parola che non si conosce! E non bisogna dimenticare che ogni convegno e` un esame! A tale proposito, l’AIIC ha preparato un prontuario di consigli a coloro che vorrebbero avvicinarsi alla professione di interprete di conferenze. Professione che e`, tra l’altro, vecchissima. Subito dopo la I guerra mondiale, si faceva soprattutto interpretazione francese-inglese e viceversa, per cui gli interpreti conoscevano benissimo queste due lingue. Dopo la II guerra mondiale e la nascita delle Nazioni Unite, le lingue ufficiali divennero cinque; pertanto, non bastava piu` l’interprete che parlasse francese e inglese, ma era necessario conoscere almeno le cinque lingue dell’O.N.U.; si aggiunsero, infatti, lo spagnolo, il russo e il cinese. Gli interpreti hanno dovuto via via apprendere bene altre lingue; poi c’e` stata la divisione in lingua A e lingua B, in attiva e passiva (si dovrebbe sempre tradurre verso la madrelingua; cio` pero` non sempre e` possibile, per cui spesso si traduce anche nella lingua B, che si dovrebbe conoscere ad un ottimo livello). Adesso si sta arrivando a piccole specializzazioni. Torniamo ora alla tecnica. L’oratore comincia a parlare e l’interprete aspetta qualche secondo per vedere che taglio viene dato al discorso. Se si tratta di un discorso di tipo politico o di tipo discorsivo che si riesce a ricordare facilmente – e non dimentichiamo che, fra le qualita` dell’interprete, deve esserci una grossa capacita` di concentrazione – conviene restare un po’ indietro cosı` da formare meglio e in maniera piu` elegante la frase nella lingua di arrivo. Quindi, nei limiti del possibile e delle proprie capacita` di concentrazione, si cerca di restare un po’ indietro rispetto all’oratore. Non dimentichiamo, che, a volte, una traduzione «mot a` mot», non da`, in uscita una lingua, ma soltanto delle parole! Quando, invece, si va piu` nello scientifico, ad esempio in occasione di congressi medici, di chimica o di biologia, dove c’e` tutta una serie di

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vocaboli tecnici e lo stile passa in secondo piano rispetto alla specificita` terminologica, dove chi ascolta deve sapere che l’oratore sta parlando, ad esempio, di «fegato» e non di «milza», allora cambia la tecnica: bisogna preoccuparsi del termine esatto e tenersi molto piu` vicino all’oratore. Pazienza se lo stile non e` eccelso! La cosa piu` importante e` seguire fedelmente l’oratore per non perdere nemmeno una parola. Dal punto di vista della resa, in cabina, giacche´ i microfoni sono molto sensibili, sono preferibili due secondi di silenzio piuttosto che il prolungamento della vocale della parola precedente. Bisogna evitare anche di ansimare e cercare di rendere anche le intonazioni dell’oratore. C’e`, nel caso di oratori particolarmente infervorati, una vera e propria ginnastica respiratoria da fare per avere un eloquio piu` rapido e far sı` che si evitino sospiri. Per quanto riguarda, poi, il tono da tenere, bisogna senz’altro evitare il tono monocorde. Anche se l’oratore legge, l’interprete deve sempre cercare di migliorare il suo tono magari noioso. Questo viene senz’altro richiesto all’interprete: se l’ascoltatore si annoia non ci si potra` mai giustificare col fatto che noioso era lo stesso oratore. La colpa e` sempre dell’interprete, mai dell’oratore. L’oratore non si tocca. Se ad esempio parla velocemente, si chiede scusa dello stile poco curato, ma non ci si giustifica mai con il ritmo troppo sostenuto dell’oratore scaricando le responsabilita` su di lui. Gli oratori non vanno mai criticati. Cosı` come di fronte a discorsi particolarmente delicati e` richiesto ad un interprete serio il rispetto del segreto professionale.

La consecutiva La consecutiva e` una tecnica diversa dalla simultanea e presuppone delle caratteristiche un po’ diverse dell’interprete. In linea di massima i cosiddetti interpreti di conferenza fanno sia la simultanea che la consecutiva. Ci sono pero` molti interpreti che fanno solo simultanea, perche´ la consecutiva richiede un tipo di impegno completamente diverso, che comporta anche una maggiore esposizione dell’interprete per ragioni diverse. Prima di tutto perche´ nella cabina si e` nascosti, si e` in due e ci si puo` dare un certo aiuto, ma soprattutto non si appare in prima persona e questo gioca a vantaggio della tranquillita` dell’interprete stesso. L’interprete di consecutiva, invece, lavora da solo: in occasione di un convegno con un oratore straniero, l’interprete di consecutiva gli siede accanto e appena l’oratore si interrompe, prende la parola sostituendosi, nel periodo necessario alla tradu-

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zione, all’oratore stesso, diventa cioe` «l’oratore». Potete immaginare cosa questo voglia dire dal punto di vista emotivo: si vedono gli occhi del pubblico. Questo significa anche altre cose legate al coinvolgimento dell’interprete: mentre in simultanea l’interprete e` coinvolto dal ritmo dell’oratore e partecipa alla sua vitalita` cercando di uniformarsi a mo’ di doppiatore, cercando di «entrare» nell’oratore stesso, l’interprete di consecutiva che affronta il pubblico direttamente deve avere anche delle caratteristiche di attore. In effetti l’interprete di consecutiva, una volta finito di prendere appunti, dopo averli messi in ordine, non deve cominciare a parlare leggendoli e limitandosi a indirizzare lo sguardo solo ai fogli. L’interprete deve invece interagire col pubblico: quindi la sua bravura non e` soltanto la bravura nella resa, ma e` anche la sua capacita` di interessare il pubblico, di mantenerlo sveglio, di cogliere dagli sguardi se c’e` o meno interesse, di giocare con la voce stessa se constata che l’interesse cala. E` un po’ un lavoro da attore della commedia dell’arte: c’e` il canovaccio, ma il lavoro deve essere fatto improvvisando, in una continua interazione col pubblico. Questo e` qualcosa che rende la consecutiva ancora piu` difficile della simultanea, anche perche´ non tutti hanno il coraggio di guardare la gente in faccia e parlare, trasmettendo un messaggio che e` di qualcun altro, prendendosi cosı` la responsabilita` di riportare parole di altri. Senz’altro, quindi, la traduzione consecutiva richiede un particolarissimo impegno. La simultanea comporta grandissima prontezza di riflessi e la capacita` di avere una memoria a breve per ricostruire il discorso da una lingua all’altra con le difficolta` del caso: si pensi al passaggio dall’inglese all’italiano – due lingue strutturate in modo diverso – o ancora peggio alla traduzione dall’italiano, prolisso e molto articolato all’inglese, molto piu` stringato e sintetico. Ma nella consecutiva a questo tipo di problemi si aggiungono quelli di una memoria piu` a lungo termine giacche´ non basta prendere gli appunti, ma e` necessario approfondire, capire esattamente quello che l’oratore dice cercando di ricordare il piu` possibile. Chi si avvicina digiuno alla pratica della consecutiva tende a scrivere tutto per il panico di dimenticare o perdere qualcosa, ma in effetti l’interprete di consecutiva che sa fare il suo lavoro, scrive pochissimo, si limita alle cose essenziali, le chiavi – i nomi, le date, i riferimenti – e a qualcosa che richiami il concetto per avere una scaletta e ricostruire il discorso. Qualcuno ha detto che il buon interprete di consecutiva non deve usare piu` di venti segni. Si tratta chiaramente di una esasperazione, ma obiettivamente l’interprete di consecutiva deve cercare di capire molto bene, ricordare moltissimo e scrivere poco.

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Ma scrivere come? A questo punto si passa alla tecnica di presa di appunti in consecutiva. E` stata elaborata una tecnica che e` incredibilmente affascinante anche dopo anni di lavoro. E` una tecnica che mette in gioco la mente: ogni volta che viene interpretato un concetto con un segno, si fa in quel momento esatto un’elaborazione mentale che non e` solo un’elaborazione linguistica, ma e` la capacita` di rendere un concetto con il segno. In effetti, la presa di appunti della consecutiva indica fondamentalmente i concetti, non le parole, anche se a volte anche le parole, sintetizzando al massimo. E` in assoluto una tecnica da utilizzare per la presa di appunti in qualunque campo: durante consigli e assemblee, lezioni universitarie, interviste giornalistiche. L’idea fondamentale della consecutiva e` che al di la` delle parole bisogna cogliere i concetti e molte volte le parole sono amiche, ma sono anche nemiche: soprattutto l’italiano si presta molto a questo. Noi pensiamo che una frase sia espressa in maniera esatta con certe parole, ma quando ne andiamo a cogliere il succo vediamo che le parole o sono inadatte o sono eccessive in numero. La capacita`, quindi, dell’interprete di consecutiva deve essere quella di andare al di la` delle parole, impossessarsi di quelle utili e di eliminare quelle che non lo sono, ma anche attraversarle e guardare al di la` delle parole per captare il vero concetto che l’oratore voleva esprimere. Vediamo quindi come e` complessa questa elaborazione cerebrale da fare in contemporanea all’ascolto. La resa in un secondo momento di quanto l’oratore ha detto va semplificata per evitare che chi conosce la lingua si annoi ad ascoltare la traduzione e che chi aspetta la traduzione debba aspettare troppo a lungo. Tra l’altro, se non si tratta di una consecutiva frase per frase (come nel caso di congressi scientifici), ma si tratta di un argomento piu` facile da sintetizzare, l’interprete deve parlare per un periodo di tempo minore rispetto all’oratore: orientativamente per un tempo pari a due terzi, due terzi che pero` sono modulabili a seconda del tipo di argomento che si tratta e a volte del ruolo dell’oratore stesso. Ci sono infatti oratori che ci tengono a che il loro discorso venga riportato in modo integrale e che hanno un ruolo rappresentativo notevole: in questi casi essere troppo sintetici e` offensivo. C’e` quindi, oltre quanto detto prima a proposito della capacita` di intrattenere il pubblico con espressioni facciali, e minimamente gestuali, anche il bisogno di una sensibilita` nel capire come l’oratore da tradurre vorrebbe essere tradotto, come porsi anche nei suoi riguardi. E` un gioco psicologico sottile che entra anche nella trattativa, perche´ la trattativa e` un tipo di interpretariato che comporta un’interazione con le parti e l’interprete viene profondamente coinvolto, entra nel gioco e talvolta viene invitato a esprimere opinioni.

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Essere, in quanto interprete, mezzo di comunicazione diventa molto piu` gratificante quando si entra in diretto contatto con le parti. La simultanea e` molto affascinante e rappresenta una continua scommessa con se stessi dal punto di vista della velocita`, della capacita` di rendere, della conoscenza dell’argomento, ma la consecutiva e la trattativa presuppongono un rapporto con gli altri che e` molto piu` coinvolgente. Torniamo alla tecnica. Questa si basa su di una rappresentazione grafica molto chiara degli appunti: non ci si limita solo ad indicare un’intera frase o un concetto con un segno o con un simbolo o con un’abbreviazione, ma ad impostare graficamente la pagina in un modo particolare che consente, al momento della rilettura, di avere il programma di quello che si deve dire gia` sotto gli occhi; prima di individuare i vari elementi della frase si sa gia` come sara` scandito il discorso. Il che significa fondamentalmente che per la consecutiva non si utilizza l’orizzontalita` tradizionale del nostro scrivere, ma si utilizza un sistema di obliquita` che consente di mettere in evidenza le varie parti del discorso in maniera molto piu` marcata, per cui la rilettura della successione logica del discorso riesce piu` facile. Senz’altro l’impostazione grafica e` la cosa piu` importante e al suo interno vi e` tutto un gioco di segni, simboli, abbreviazioni accettati ormai a livello mondiale da tutti gli interpreti. La consecutiva e` nata nell’ambito della politica internazionale e quindi l’ossatura e` rappresentata da segni che indicano alcuni concetti di base in questo settore. Vi sono pero` dei segni utilizzabili comunque, come le frecce che indicano movimento o collegamenti tra le parti del discorso, ma altri sono strettamente legati al settore della politica internazionale. Questo puo` spiazzare chi comincia a lavorare come interprete di consecutiva in campi diversi da questo, perche´ puo` far credere talvolta di non avere strumenti sufficienti e adeguati. A questo sopperisce la creativita` dell’interprete: una volta capito che un concetto si puo` rendere con un segno, il segno lo si inventa. Per avere un’idea dei segni piu` comunemente usati facciamo l’esempio della | sedia: che indica il presidente. Presidente in inglese e` «chairman: l’uomo che sta sulla sedia», quindi viene dalla logica della parola stessa. Poi ci sono altri segni come la bandiera per indicare il popolo. Ce ne sono altri, per esempio, come quello di approvazione che e` OK. Tutti questi segni non indicano solo un nome, ma indicano anche un verbo, cioe` l’azione, e in questo senso si possono utilizzare parti delle forme verbali che indicano il tempo. Per es. in inglese si puo` aggiungere una -d, per il passato, in alto a destra del segno, o -ll per il futuro, o ancora -ld per il condizionale, coniugando cosı` il segno stesso. Tutto questo non vuol dire

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dimenticare le parole esagerando nell’uso della simbologia, come accade per chi inizia ad usare questa tecnica. A volte, infatti, gli studenti che cominciano a prendere appunti in consecutiva, incoraggiati dall’idea di «inventare» nuovi simboli, perdono tempo prezioso ad elaborare disegni complessi. Ma se questo sistema puo` essere piacevole nei primi tempi durante le esercitazioni in classe, certamente non e` da applicare a livello professionale perche´ non bisogna dimenticare che gli appunti devono essere presi velocemente. Durante la presa di appunti professionale, infatti, si arriva al punto che, 1 se si deve indicare il concetto di «mezzo», che puo` essere reso con , si 2 preferisce scriverlo con 1/2 perche´ anche l’inclinazione del fratto fa guadagnare qualche porzione di secondo. Per dare un’idea dell’obliquita` cui si e` fatto cenno prima, se vogliamo dire che «Il Governo ha approvato la relazione economica», avremo: Gv okd rel__ ec. dove Gv sta per governo (in italiano, francese e inglese), e la «relazione» viene resa nella sua desinenza -zione con un segno orizzontale in basso a destra che abbrevia anche -tion in inglese e in francese. L’aggettivo «economico» viene qui abbreviato solo con «ec.» perche´ in questo caso non vi e` possibilita` di equivoco. Se si trattasse di esprimere il concetto di «economia» allo stesso segno basterebbe aggiungere in alto a destra la lettera finale «y» : ec.y. Le abbreviazioni devono comunque essere precise e devono per lo piu` basarsi sulle consonanti che ci consentono di avere un’idea della parola nella sua completezza. Gia` dall’esempio fatto si nota che ogni parte del discorso e` stato messo in evidenza. Non dobbiamo seguire con l’occhio una linea orizzontale, identificando parola dopo parola, ma abbiamo sott’occhio il «progetto» del discorso, cioe` la rappresentazione grafica globale di quanto dovremo dire. Un altro aspetto importante della rappresentazione grafica e` quello delle divisioni tra un periodo e l’altro che ci permettono di passare da un concetto all’altro e quindi ci indicano il momento in cui dobbiamo spezzare il discorso e dove dobbiamo indicare il collegamento logico fra i concetti. Prendendo appunti spesso si dimentica che il periodo successivo e` conse-

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quenziale al precedente, pertanto saranno necessari anche segni per indicare i «percio`», i «ma» e cosı` via. Per quanto riguarda la «lingua» in cui si prendono gli appunti, non c’e` una regola fissa: si prendono come si vuole e nella lingua che si preferisce. Chi conosce l’inglese sa che in inglese molte parole sono piu` brevi: per esempio per «domandare» sara` senz’altro meglio usare il corrispondente inglese «ask» composto da sole tre lettere. La presa di appunti non comporta alcun riferimento alla lingua di arrivo o di partenza, e` un procedimento personale nel quale si puo` inserire tutto quello che si vuole. Si possono usare tutte le abbreviazioni di tutti i settori della vita quotidiana: la matematica, la segnaletica stradale, le abbreviazioni standard di settori vari. C’e` un’enorme liberta` e ogni interprete, dopo aver avuto una formazione di base e gli strumenti fondamentali per la consecutiva, assume il suo personale modo di prendere appunti. Ci sono coloro che tendono a conservare i segni che gli sono stati trasmessi, coloro che ne inventano continuamente di nuovi. Nessuno detta regole assolute. L’interprete scrive e rilegge da solo quello che ha scritto, non deve far leggere i suoi appunti ad altri. Si e` gia` parlato dello stato d’animo del pubblico che in pratica deve «subire» la traduzione. Chi ascolta e` in uno stato di incertezza, di insicurezza, di mancanza di fiducia perche´ non e` detto che debba per forza fidarsi di una voce estranea. Per questo motivo la voce deve arrivare sicura, sia in consecutiva che in simultanea. Il tono della voce deve rassicurare l’utente e quindi bisogna imparare ad impostare la voce e ad usare i microfoni. I simultaneisti spesso hanno il microfono fisso, staccato cioe` dalla cuffia, a volte se lo trovano inserito nella cuffia e allora devono imparare come usare la voce per evitare che risulti sgradevole. Ma anche gli interpreti di consecutiva devono imparare ad usare la distanza giusta dal microfono. Si e` parlato del fatto che spesso gli interpreti pensano che ci sia un modo di tradurre di cui l’utente e` piu` soddisfatto. Si e` scoperto invece, da studi specifici in materia, che gli utenti davano piu` peso a certi aspetti rispetto ad altri, ai quali gli interpreti davano piu` importanza. Per esempio, a proposito dei convegni scientifici, gli utenti e gli oratori davano grande importanza alla precisione terminologica ed al dettaglio contestuale rispetto all’uso di espressioni forbite o stilisticamente piu` raffinate. E anche in questi studi veniva evidenziata la qualita` della voce, l’espressione facciale e il controllo delle mani e del corpo per la consecutiva. Entrano in gioco tantissimi fattori nella valutazione di questa figura, misconosciuta, dell’interprete che a volte e` visto come qualcuno che esprime pari pari in un’altra lingua quello che e` stato detto da altri.

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Quella dell’interprete e` invece una figura molto piu` sfaccettata che richiede grande preparazione, cultura e soprattutto alcune caratteristiche precise, nel senso che non basta la conoscenza della lingua, ma sono necessarie delle caratteristiche innate che non tutti hanno. Ci sono, cioe`, persone che non potranno mai diventare interpreti, e in questo non entrano ne´ intelligenza ne´ buona volonta`, ma solo il fatto che queste persone hanno caratteristiche diverse da quelle tipiche di un interprete. Ci possono essere traduttori straordinari, capaci di fare delle traduzioni scritte raffinatissime, che hanno bisogno di tempo nel loro processo di elaborazione. L’interprete invece deve essere rapido sia per la simultanea, per la consecutiva, per la trattativa o lo chuchotage. Le caratteristiche fondamentali sono la rapidita` di riflessi e la tranquillita`. Per dare sicurezza, le ansie e le tensioni che ciascun interprete comunque ha, devono sempre rimanere nascoste. Nella consecutiva, di fronte al pubblico che lo guarda e lo ascolta, l’interprete decidera` di giocare il suo ruolo, di fare l’«attore». Nella simultanea si trovera` di fronte alla grande incognita rappresentata dal modo in cui gli oratori parleranno, dal loro accento, dalla velocita` e dovra` comunque infondere sicurezza.

Conclusione Vi segnaliamo un articolo relativo al seminario svoltosi in Spagna nel luglio ’ 94 dal titolo L’interprete: comunicatore di massa, organizzato da interpreti in collaborazione con professori di semiotica. Questo convegno si e` svolto all’Universita` della Corun˜a alla presenza di eminenti esponenti della scuola di semiotica come Gonzalo Abril e Venceslao Castanares dell’Universita` Complutense di Madrid. Un brano, che mi e` sembrato interessante e che vi traduco qui «a vista» (il testo e` in francese). A proposito, apro una parentesi: fa parte del lavoro dell’interprete anche la traduzione «a vista». Questo tipo di traduzione viene a volte richiesto all’interprete di simultanea o di consecutiva – comunque in ambito congressuale – magari da un giornalista cui e` stato dato un testo in lingua dal quale deve ricavare il comunicato stampa: egli vi chiede di tradurlo rapidamente, e voi leggete direttamente in italiano, senza avere avuto il tempo di dargli una scorsa. Un’altra situazione puo` essere quella in cui la Presidenza stessa del convegno vi chiede di leggere un comunicato dopo un incontro importante: vi viene dato un testo in francese, in inglese o in un’altra lingua e vi si chiede di leggerlo prima in italiano, poi in francese: anche qui traduzione «a vista». E ricordo che all’Universita` di Ginevra, la traduzione «a vista» era

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una delle prove d’esame per conseguire il Diploma di Interprete di Conferenza: dopo aver fatto la prova di consecutiva e la prova di simultanea in cabina, bisognava superare la prova di traduzione «a vista». Tecnica per questo tipo di traduzione? Parlare in modo chiaro, in tono non monocorde, ma piuttosto uniforme, non rapido, cercando, con lo sguardo, di andare «oltre», allo scopo di costruire bene le frasi via via che si presentano. Ma ritorniamo ora al brano che ci interessa e che dice: «In quanto ri-creatore, quindi nuovo creatore di un messaggio, l’interprete deve assumere la paternita` di un discorso che diventa suo proprio e non piu` un calco, una copia esatta dell’originale. L’interprete si identifica col discorso dell’oratore, ma non in modo assoluto o privo di critica». Lungi dall’essere trasparente «l’interprete acquisisce una presenza palpabile» che diventa esplicita quando ha l’occasione di aggiungere un commento oppure di usare espressioni quali «dice l’oratore» oppure se da` un chiarimento «nota dell’interprete». Puo` capitare, per esempio, un gioco di parole; ora, i giochi di parole, non sempre possono essere trasferiti da una lingua all’altra. Allora l’interprete che non puo` rendere lo stesso effetto nell’altra lingua, deve spiegare che le parole dette dall’oratore hanno quel significato e che con quel gioco di parole intraducibile ha voluto dire questo e quello. Bisogna comunque spiegarlo per evitare di creare disagio nel pubblico. L’interprete interviene per lo piu` per spiegare quei concetti e quei termini che non hanno un chiaro corrispondente nell’altra lingua; o ancora infila nel discorso «l’oratore dice, o ribadisce» quando si sottolinea o si ripete un concetto gia` espresso. «L’interprete parla in prima persona come se fosse l’oratore (principio di identificazione), ma allo stesso tempo il suo discorso non potrebbe sostituirsi a quello dell’oratore originale (principio di realta`). L’interprete giunge a rendere il suo compito verosimile, quindi legittimo, proprio perche´ si colloca a un punto di equidistanza da questi due poli di tensione».

Dopo questo brano si parla di fonazione, suggerendo alle varie Scuole Interpreti l’importanza dell’istituzione, nel curriculum, di un corso di dizione, che sarebbe importantissimo poiche´ l’interprete deve saper scandire e pronunciare in maniera appropriata. Cosa, questa, che diventa ancora piu` importante in presenza di un oratore che parli in modo rapido perche´, ad esempio, e` stato ridotto il tempo del suo intervento. Un altro articolo che tratta dell’interprete ideale riporta i risultati di un

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test che e` stato fatto su 200 partecipanti ad 84 conferenze in 25 paesi diversi. Secondo le persone intervistate l’interprete deve parlare in modo chiaro e «lively» cioe` vivace, deve capire l’argomento del convegno e conoscerne la terminologia, parlare formando frasi grammaticamente corrette ed enunciarle in modo chiaro. L’enunciazione chiara ritorna per il 90% degli intervistati. E` richiesta chiarezza del discorso ma anche fedelta` al suo significato, quindi una traduzione non parola per parola. Infine l’interprete ideale deve tenersi quanto piu` vicino possibile all’oratore e cercare di completare il discorso nel momento stesso in cui lo ha terminato l’oratore, sebbene spesso, pero`, accada di rimanere arretrati di 4 o 5 secondi. Il 34% degli intervistati ha detto di provare disagio se l’interprete non «attacca» quasi subito e se fa lunghe pause. E poi la voce: la voce e` ritenuta molto importante, deve essere piacevole, non monotona, naturale e che rifletta l’intonazione dell’oratore: un interprete fa proprie le argomentazioni di quest’ultimo. D’altronde, una volta che c’e` stata una preparazione a monte e che si e` entrati nell’argomento del convegno, si riesce a interagire perfettamente con l’oratore: in simultanea, l’oratore non sapra` mai di questa interazione, ma in consecutiva si stabilisce un’evidente intesa con l’oratore che, tacitamente, arriva anche a chiedere una sorta di approvazione dell’interprete. In simultanea l’oratore avra` la prova dell’efficacia della traduzione dal tono degli applausi e dalle domande che gli verranno poste. Per quanto riguarda le scuole di formazione per interpreti segnaliamo: • Universita` di Trieste e Universita` di Forlı` che hanno un corso di studi quadriennale e che rilasciano una laurea a tutti gli effetti. • Scuola Superiore di Interpreti e Traduttori (privata) con sede a Milano, Bologna, Genova, Firenze, Roma, Bari, allineate tra loro come ordinamento e piano di studi.

LA TRADUZIONE ‘ECONOMICA’. PER UN APPROCCIO POLISEMICO di Bruna Di Sabato

La traduzione di testi economici ci offre uno spaccato che presenta alcune tipologie comuni all’‘universo traduzione’ inteso nella sua globalita`: mi riferisco, in particolare, all’internazionalizzazione e alla standardizzazione dei linguaggi speciali1 e alla crescente produzione di traduzioni a carattere informativo, due tendenze caratterizzanti tutto il nostro secolo, particolarmente vistose, direi, nella seconda meta` dello stesso2. Queste due tendenze sono alla base di riflessioni contemporanee sul tradurre in ambito non specificatamente letterario, e sui linguaggi speciali in generale. Cogliendo la suggestione offerta dalla polisemia dell’aggettivo ‘economico’ e dopo esserci soffermati sulle peculiarita` del testo economico, osserveremo piu` da vicino alcune delle caratteristiche della traduzione ‘economica’, tale non solo perche´ connessa all’economia, ma anche perche´ relativamente poco dispendiosa in termini di energie e di denaro. Queste due caratteristiche sono, peraltro, estendibili a molti approcci traduttivi a scopo divulgativo e informativo.

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Per linguaggio speciale intendo quella parte del linguaggio tipica di una determinata area professionale o culturale, che ha come caratteristica peculiare quella di «rendere efficiente la comunicazione tra specialisti» (Cesare G. Cecioni, La traducibilita` del linguaggio giuridico inglese, in Giuseppina Cortese (a cura di), Tradurre i linguaggi settoriali, Edizioni Libreria Cortina, Torino 1996, p. 156). 2 «By 1900, with English increasingly filling the position of “language of authority” (...) the trend towards monolingualisation increases, as does the corresponding trend towards producing translation for information» (Andre´ Lefevere, Translation: Its Genealogy in the West, in Susan Bassnett, Andre´ Lefevere (a cura di), Translation, History and Culture, Pinter, London 1990, p.17).

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1. L’economia e` «la scienza che puo` essere in generale definita come lo studio delle leggi che regolano la produzione, la distribuzione e il consumo 3 delle merci» . Ma per “economia” deve intendersi tutto cio` che ha a che fare con le specifiche applicazioni delle teorie economiche: cio` vuol dire le relazioni che mettono in contatto gli individui o le stesse istituzioni con il fine di soddisfare necessita` di ordine sociale, produttivo, commerciale, e finanziario. Qualsiasi relazione implica comunicazione di teorie, informazioni, accordi e molto altro. In termini generali, testo economico e` allora il saggio di storia economica, la lettera commerciale, l’articolo di marketing, il contratto di copertura finanziaria e una miriade di altri tipi di testi, ognuno con specificita` non trascurabili. La traduzione economica rimanda, dunque, ad un’area culturale molto vasta e sempre meno omogenea, rispondente alla specializzazione e alla parcellizzazione del sapere moderno. Dietro ogni traduzione vi e` una volonta` di entrare in connessione reciproca da parte di individui parlanti lingue diverse4. Spesso la comunicazione traduttiva e` stata letta come una sorta di “cannibalismo” culturale: prendo a prestito questa metafora da Susan Bassnett5 per riferirmi a un sistema culturale che cerca di impadronirsi di elementi estranei per farli suoi6. Ma analizzato dalla prospettiva opposta, il tradurre puo` essere visto 3

Aldo Duro, Vocabolario della lingua italiana (VOLIT), Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1986-1994, voce “economia”. 4 La comunicazione interlinguistica viene spesso considerata non dissimile da qualsiasi altro tipo di comunicazione. Lo stesso George Steiner imposta una sezione del suo After Babel – “Topologies of Culture” – su un simile assunto: «Translation proper, the interpretation of verbal signs in one language by means of verbal signs in another, is a special heightened case of the process of communication and reception in any act of human speech. The fundamental epistemological and linguistic problems implicit in interlingual translation are fundamental just because they are already implicit in all intralingual discourse.» (George Steiner, After Babel. Aspects of Language and Translation, Oxford University Press, Oxford 1992 (1975), p. 436). 5 Susan Bassnett, Translation Studies, Routledge, London 1988 (1980), pp. xiv-xv. 6 Susan Bassnett adopera questa metafora mutuandola dai traduttori brasiliani, per alludere alla funzione della traduzione in ottica post-coloniale. Ma la metafora ben si addice a cio` che e` spesso accaduto in passato, quando la completa appropriazione del testo da parte della cultura d’arrivo era considerata una normale dinamica culturale. Per approfondire il discorso si legga la stessa Susan Bassnett, Translation Studies, cit.; Susan Bassnett, Andre´ Lefevere, cit., George Mounin, Teoria e storia della traduzione, Einaudi, Torino, 1965; Peter Newmark, A Textbook of Translation, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1988; Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility, Routledge, London 1997.

LA TRADUZIONE ‘ECONOMICA’. PER UN APPROCCIO POLISEMICO

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come la manifestazione di un’egemonia. Cio` e` particolarmente evidente in ambito letterario, dove il procedimento traduttivo e` responsabile di forti influssi di una cultura su un’altra, in qualche caso piu` vistosi, in altri piu` 7 discreti . La lingua dalla quale si traduce di piu` e` lo strumento di egemonie di carattere economico o culturale. La lingua inglese e`, per l’appunto, la lingua dalla quale si traduce di piu` in campo economico e, nel contempo, e` anche la lingua di comunicazione internazionale. Di fatto, dunque, esistono motivazioni sia di ordine economico sia di ordine culturale perche´ si traduca dall’inglese. E` vero che l’Italia e` legata all’area del dollaro e, di conseguenza, sperimenta una sorta di condizionamento statunitense sull’andamento economico nazionale. E` vero anche, pero`, che l’economia e` spesso identificata con la cultura e la lingua anglosassone perche´ i maggiori economisti, da quelli che hanno letteralmente creato l’economia come disciplina autonoma a quelli piu` influenti ai giorni nostri – e cioe` da Stuart Mill, Smith, Ricardo, fino a Keynes, a Galbraith e allo stesso Modigliani – sono di lingua inglese o adoperano l’inglese per comunicare. Il Regno Unito, per parte sua, ha una forte tradizione economica: non si puo` dimenticare che e` questo il paese che per primo ha sperimentato la Rivoluzione industriale. In prospettiva sincronica, poi, occorre aggiungere che aree come la finanza o il marketing stanno attraversando un periodo di grossa fortuna, e che le continue innovazioni introdotte in tali settori economici, contrassegnati da una rapida evoluzione, sono di matrice angloamericana. La Borsa italiana, per esempio, ha subito di recente innovazioni strutturali di chiara ispirazione angloamericana: la telematizzazione delle contrattazioni, la creazione delle Sim sono solo due esempi. Anche le politiche di deregolamentazione e di privatizzazione che stiamo ancora sperimentando in Italia sono state da tempo applicate negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. In definitiva, non possono esserci dubbi sul fatto che la cultura economica del nostro paese subisca un’egemonia angloamericana. * * * 7

«Translation has been a major shaping force in the development of world culture, and no study of comparative literature can take place without regard to translation» (Bassnett, Lefevere, cit., p. 12). Andre` Lefevere e Susan Bassnett sono tra gli studiosi che hanno analizzato il tradurre da questa prospettiva. Lefevere reputa la traduzione il mezzo principale di influsso interculturale: translation «introduces innovation into a literature. It is the main medium through which one literature influences another.» (Lefevere in Bassnett, Lefevere, cit., p. 27).

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Centinaia di volumi vengono tradotti ogni anno in Italia. Dando un’occhiata al Catalogo dei libri in commercio annata 1997, ci si puo` rendere conto della portata del fenomeno: alla voce ‘‘economia’’, su circa 200 titoli una sessantina sono di autori stranieri. Analizzando piu` attentamente anche le voci minori, quali ‘‘finanza’’, ‘‘economia aziendale’’ e cosı` via, ossia tutta la produzione che rientrerebbe sotto la voce ‘‘economia’’ come la intendiamo noi, e` facile rendersi conto che si traducono per lo piu` testi a 8 carattere divulgativo , nella migliore delle ipotesi manualistica. Un sguardo in libreria agli scaffali contrassegnati dalla voce ‘‘economia’’ e dalla voce ‘‘finanza’’ bastera` a far notare l’invasione di pubblicazioni a firma di autori americani su come ottenere successo, come essere un manager felice, come far soldi senza averne: guide fai da te, insomma, per affrontare a livello individuale il vasto e inquietante universo economico. Libri placebo per vincere o tentare di vincere il malessere derivante da un vivere dominato dal dio denaro e dall’apparire. Questa vera e propria alluvione di libri-spazzatura, come li definirei senza troppe incertezze, e` la conseguenza del fascino che la cultura americana esercita sulla nostra: ci lasciamo dominare, ammaliati dall’offerta di una facile soluzione ai nostri problemi9. Questo per quanto riguarda il grande pubblico. Ma gli addetti ai lavori, economisti, insegnanti, docenti universitari, politici, operatori economici, cosa leggono? Tornando al panorama offerto dal Catalogo dei libri in commercio e dagli scaffali delle librerie, sembrerebbe che i personaggi appena citati non leggano quasi nulla di autori stranieri, essendo le pubblicazioni specialistiche per lo piu` assenti da entrambi i contesti. In realta`, cio` che accade e` che i rappresentanti di queste categorie leggono direttamente in lingua straniera. Si traduce molto meno di quanto si pensi, in questo settore editoriale, per il semplice fatto che l’addetto ai lavori preferisce leggere il testo originale e, dunque, non esiste mercato per le pubblicazioni specialistiche. 8 Secondo Maurizio Gotti «l’elemento principale che differenzia (...) il testo divulgativo da quello specialistico vero e proprio consiste nell’assenza nel primo tipo di testi di un’elaborazione di nuovi contenuti scientifici che apportino un accrescimento nel bagaglio concettuale di una certa disciplina» (Maurizio Gotti, Il linguaggio della divulgazione. Problematiche di traduzione intralinguistica, in Cortese, cit., p. 218). 9 «But the masses do not always want to be influenced. Translations can be and are still seen as a threat to the identity of a culture» (Lefevere in Bassnett, Lefevere, cit., p. 17). Questa affermazione di Andre´ Lefevere, pur vera in alcune condizioni storiche o geografiche, non sembrerebbe calzare nel caso del rapporto tra traduzioni e grande pubblico nell’Italia contemporanea.

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Soprattutto nei settori legati all’economia, l’inglese ha un ruolo preponderante: sta diventando sempre piu` la lingua par excellence delle comunicazioni internazionali. Anche per quanto concerne i rapporti commerciali, gli stessi documenti – trattative, lettere, contratti e quanto altro – sono spesso redatti direttamente in inglese senza servirsi di traduttori, producendo una grossa mole di documenti, senz’altro precisa dal punto di vista lessicale, ma con vistose imperizie sintattiche. In realta`, il mondo economico e` pieno di testi scritti in cattivo inglese, che nella gran parte dei casi non sono opera di 10 traduttori professionisti . 2. La correttezza dal punto di vista lessicale di questi testi discende direttamente dalla tendenza della lingua economica agli internazionalismi, tendenza peraltro tipica di molti linguaggi specialistici. La traduzione di testi economici e` “economica” anche perche´ la forte preponderanza di prestiti e di calchi agevola di molto il lavoro di chi traduce e permette a chi del settore di comunicare in lingua straniera, sia pure a partire da una scarsa competenza linguistica di base. Si parla spesso di anglitaliano per definire alcuni linguaggi speciali. Il problema e` ancora una volta culturale. In settori in rapida evoluzione e globalizzazione, come quello della finanza, si e` verificata una parallela importazione culturale e lessicale: caratteristica dei nostri tempi e` l’importazione nel panorama finanziario italiano di strumenti e tecniche finanziarie americane e britanniche e, di pari passo, dei loro nomi, che fanno ormai parte della nostra lingua come prestiti (swap, cap, floor, future sono tutti strumenti finanziari che, pur essendo adoperati dal mercato italiano, mancano di un traducente) e solo in casi piu` rari come prestiti integrati (opzione da option, derivato da derivative). Anzi, anche nei casi in cui vi e` adattamento, si preferisce quasi sempre adoperare il termine originale (per esempio, si parla di options piuttosto che di opzioni). Spesso il traducente e` facilmente coniabile, eppure si ricorre al termine inglese: pensiamo ai neologismi composti a partire dall’esistente come eurobond, preferito a eurobbligazione o a corporate finance, preferito a finanza d’impresa o a corporate governance, preferito a governo d’impresa. Dietro tutto cio` vi e` senz’altro pigrizia, vi e` se volete anche moda, ma, cio` che e` piu` importante, 10

Anche se la mia disamina continua trattando questioni di resa lessicale, ricordo che parlando di parole si parla anche di concetti. Desidero, inoltre, sottolineare che solo la mancanza di spazio mi impedisce di considerare altri aspetti della lingua speciale che reputo non meno importanti. Sull’importanza della competenza grammaticale ai fini della traduzione rimando all’interessante intervento di Carol Taylor Torsello, Grammatica e traduzione, in Cortese, cit., pp. 87-119).

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vi e` la crescente volonta` da parte degli operatori economici di avere un 11 lessico comune al di la` dei confini nazionali . Gise`le Vanhe`se, nel suo recentissimo ed interessante saggio su Traduzione tecnico-scientifica e lessicologia12, definisce questo lessico comune come un «vocabolario dalla vocazione universale», e ne identifica le caratteristiche principali nei prestiti e nei calchi, «processi di scambio e di normalizzazione terminologica», oltre che nel ricorso a basi greco-latine, «Forme capaci di funzionare al di la` delle differenze nazionali». D’altro canto basta prendere una pagina de «Il Sole 24ore» per rendersi conto della incidenza degli anglicismi nella lingua economica. Persino la Banca d’Italia diventa Bankitalia! E` chiaro che il linguaggio giornalistico e` il piu` affetto da questa tendenza, ma anche se apriamo un dizionario di economia, risulta evidente che l’incidenza di termini inglesi e` comunque considerevole (il Dizionario di Economia della Garzanti contiene circa 450 lemmi inglesi su un totale di circa 3000 voci). Tutto il panorama economico e`, dunque, caratterizzato dalla presenza di anglicismi e non solo per quanto concerne i tecnicismi: boom, record, trend sono parole che fanno parte della lingua comune eppure in tali contesti vengono preferite a quelle italiane. Tornando alla traduzione, l’uso di internazionalismi rende sicuramente piu` facile il lavoro del traduttore13. Ma, se e` vero che il problema delle equivalenze lessicali e` ridotto dalla tendenza alla omologazione linguistica alla creazione di una serie di microlingue internazionali che permettano agli addetti ai lavori di comunicare al di sopra delle barriere linguistiche, pur senza conoscere bene le lingue straniere, e se e` vero che il lavoro del traduttore e` a questo punto snellito 11 Non e` questa la sede idonea a valutare l’effetto che la significativa presenza lessicale di matrice anglo-americana sta esercitando sulla nostra lingua ma, viceversa, trovo peculiare il tono negativo con cui George Steiner giudica l’influsso che le tendenze all’internazionalizzazione e standardizzazione dei linguaggi speciali stanno esercitando sull’inglese. Egli parla di «debilitating effects»: «Internationally or not, American English and English, by virtue of their global diffusion, are a principal agent in the destruction of natural linguistic diversity (...). More subtly, the modulation of English into an “Esperanto” of world commerce, technology and tourism, is having debilitating effects on English proper.» (Steiner, cit., p. 495). 12 Si veda Gise`le Vanhe`se, Traduzione tecnico scientifica e lessicologia, in Margherita Ulrych (a cura di), Tradurre. Un approccio multidisciplinare, UTET, Torino 1997. 13 Cio` veniva notato gia` qualche anno fa da Isadore Pinchuck, in uno dei primi testi in lingua inglese sulla traduzione scientifica e tecnica: «It goes without saying that internationalism in technical language is important in translation and can make the translator’s task much easier» (Isadore Pinchuck, Scientific and Technical Translation, Deutsch, London 1977, p. 185).

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dalla presenza di un lessico comune a tutte le lingue, e` pero` anche vero che la minore competenza linguistica va compensata con una maggiore competenza cognitiva. La crescente specializzazione delle discipline economiche necessita di una preparazione adeguata ad affrontare testi altrimenti incomprensibili. Sono pochi i traduttori professionisti in grado di tradurre con la necessaria competenza culturale un testo di economia. E` per questo che spesso le traduzioni di testi importanti sono affidate ad economisti che conoscono l’inglese, preferiti, dunque, a traduttori che conoscono l’economia. Per far sı` che i traduttori non siano scavalcati dalla competenza culturale di addetti ai 14 lavori, a tutto discapito della nostra lingua , occorre che essi si preparino adeguatamente, specializzandosi in determinati campi e non operando a largo raggio, accettando, come spesso accade, tutto cio` che viene dal mercato. Gli studiosi che si occupano di traduzione tecnica evidenziano il tentativo di eliminare la figura del traduttore mediante due operazioni, la creazione di un lessico internazionale e la conseguente automatizzazione delle traduzioni15. Su circuito Internet sono disponibili servizi di traduzione automatica sempre piu` sofisticati, che naturalmente sono efficaci solo su alcuni tipi di testo, quelli che David Katan definirebbe appartenenti ad un ambito culturale “tecnico”16. 3. Tutto cio` e` la conseguenza di un circolo vizioso difficile da aggirare: le traduzioni sono mal pagate perche´ sono mal fatte e sono mal fatte perche´ sono mal pagate. D’altro canto, pare che pure nel progredito mondo angloamericano le cose stiano nello stesso modo. Anche negli USA, 14 Peraltro, Margherita Ulrych osserva che una delle piu` frequenti lamentele circa l’attivita` dei traduttori assunti da poco per la Commissione Europea e` il basso livello di conoscenza della lingua madre (Margherita Ulrych, Il testo, il mercato e il committente: fattori imprescindibili nella formazione del traduttore, in Cortese, cit., p. 315). 15 In ambito tecnico «si tenta da una parte di eliminare totalmente il traduttore, il che e` lo scopo implicito della traduzione automatica. Dall’altra si cerca di agire sugli stessi lessici della microlingua con la costituzione di una lingua standard internazionale che si attualizzerebbe in “tecnoletti” nazionali», Vanhe`se, cit., p. 189. 16 A proposito de L’importanza della cultura nella traduzione, in un recente saggio Katan tratta lo spinoso problema dell’equivalenza tra originale e traduzione affermando che il tipo di ricezione di un testo tradotto nella cultura d’arrivo dipende dal tipo di cultura implicita nel testo. Egli illustra i diversi tipi di cultura presenti in un testo e, quindi, i diversi tipi di competenza richiesti al traduttore, dividendoli in cultura tecnica, cultura formale e cultura inconscia e informale. L’approccio traduttivo variera` a seconda del tipo di preparazione culturale richiesta da un testo. (David Katan, L’importanza della cultura nella traduzione, in Ulrych, cit., pp. 34-40).

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nonostante il rinnovato interesse verso la traduzione a livello accademico ed istituzionale, pare che i traduttori continuino a essere poco considerati, mal pagati, spesso esclusi dalle copertine dei libri17. Eccoci giunti allora all’ultimo punto suggerito dall’aggettivo economico: la traduzione economica e` ‘economica’ anche perche` ... costa poco. Uno sguardo al mercato della traduzione non puo` non tenere conto di questo aspetto. Le traduzioni per l’editoria sono ancora pagate molto al di sotto delle tariffe ufficiali (£ 15.000-17.000 a cartella contro le £ 33.000, con maggiorazioni dipendenti dalla tecnicita` del testo, raccomandate dalla Associazione Italiana Traduttori e Interpreti-dati 1999). A questi compensi, e di solito con tempi di consegna ridotti al minimo, non e` possibile trovare un traduttore esperto che accetti il lavoro. Ed allora accade che lo si passa a qualcuno che conosce la lingua inglese e, pertanto, deve essere in grado di tradurre. La lingua economica e`, invece, piena di insidie derivanti in prevalenza dalla polisemia (tra lingua comune e lingua tecnica: rate, floor, house sono termini appartenti sia alla lingua comune sia al lessico specialistico con significati del tutto diversi); tra i diversi lessici specialistici (big bang e` un termine mutuato dalla fisica ma molto usato anche in ambito economico-finanziario), o all’interno dello stesso lessico economico (tax, che come avremo modo di vedere ha un duplice significato)18, e dalla presenza di una terminologia figurativa del tutto incline alle metafore, contrariamente a quanto spesso si crede (penso a tutta la terminologia derivante dalle aquisizioni e fusioni d’impresa: shark, white knight, poison pill, shark repellent, sono solo alcune delle denominazioni assunte dagli attori di 17

Si legga Venuti, cit.: «For although the past twenty years have seen the institution of translation centers and programs at British and American universities, as well as the founding of American Committees, associations and awards in literary organizations like the society of authors in London and the Pen American Center in New York, the fact remains that translators receive minimal recognition for their work – including translators of writing that is capable of generating publicity (because it is prize winning, controversial, censored)», p. 8. 18 Il caso ricorda l’esempio della Bassnett a proposito della complessita` traduttiva, anche in casi all’apparenza lineari: «As examples of some of the complexities involved in the inerlingual transaltion of what might seem to be uncontroversial items, consider the question of translating yes (...) into French (...). This task should seem at first glance straightforward (...). For yes standard dictionaries give: French: oui, si (...). It is immediately obvious that the existence of two terms in French involves a usage that does not exist in the other languages. Further investigation shows that whilst oui is the generally used term, si is used specifically in cases of contradiction, contention, and dissent. The English translation, therefore, must be minful of this rule when translating the English word that remains the same in all contexts.» (Bassnett Mc-Guire, cit., p.16)

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19 queste operazioni finanziarie, e dalle loro azioni) . Peraltro, Maurizio Gotti osserva che e` sempre piu` vistoso anche un processo di arricchimento del lessico comune a partire dalle microlingue. Essendo i linguaggi speciali la maggiore fonte di innovazione lessicale, si verifica sempre piu` frequentemente il passaggio da lingua speciale a lingua comune. Gotti cita ad esempio il termine bank, con il quale ormai denominiamo un qualsiasi «centro di raccolta e di deposito di materiali importanti», come blood bank, bone bank, ai quali aggiungerei data bank di ambito non medico ma informatico20. Il mercato editoriale e` anch’esso pieno di testi tradotti male – come avevamo gia` notato per i testi legati alle transazioni economiche – ma non e` possibile pretendere una maggiore professionalita` ai compensi correnti. E` per questo che spesso il traduttore e` cosı` irrilevante da non essere menzionato nemmeno nella seconda di copertina. Il traduttore della Storia dell’Economia di J.K. Galbraith, uno dei maggiori economisti dei nostri tempi un destino del genere lo meriterebbe di certo. La sua traduzione e` piena di imprecisioni. Concludo citandone una emblematica. Il termine tax corrisponde sia a tassa che a imposta. L’uomo comune spesso non conosce la differenza tra tasse e imposte e afferma di dover pagare le tasse quando cio` che paga sono imposte. Poco male: cio` che l’uomo comune sa e` che purtroppo deve pagare, qualsiasi cosa essa sia. Ma in una traduzione di un testo di economia non e` ammissibile confondere questi due termini come il nostro traduttore – che in questa mia relazione preferisco lasciare nell’anonimato – fa in tutto il testo: l’apice del dilettantismo viene raggiunto nell’Indice analitico, dove alla voce imposte scrive vedi tasse. Quanto alla traduzione vera e propria, basti per tutte questa frase cosı` tradotta:

19 Anche un traduttore esperto in economia e con una buona competenza in campo lessicale potrebbe trovare difficolta` nell’individuare un’equivalenza lessicale tra due lingue. I dizionari, per loro stessa natura, sono inadatti a stare al passo con l’evoluzione linguistica, specie in settori in rapida e continua evoluzione. In questa prospettiva occorre menzionare l’utile apporto delle banche dati terminologiche. Il loro principale vantaggio e` il continuo aggiornamento. Per di piu`, sono in genere costituite a partire dall’esperienza su campo di traduttori professionisti. La Logos, la maggiore azienda europea in campo traduttivo, ad esempio, offre a chiunque sia in rete, l’accesso alla sua banca dati, 7 milioni e 350 mila parole in 31 lingue. Non solo e` possibile consultare gratuitamente il piu` grande vocabolario del mondo, ma anche aggiornarlo di persona, avanzando suggerimenti di traduzioni alternative, oppure lanciando in rete la richiesta di un traducente: prima o poi qualcuno risolvera` il quesito (www.logos.it). 20 Maurizio Gotti, I linguaggi specialistici, La Nuova Italia, Firenze 1991 p. 56.

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«La tassa sulla proprieta`, anche se non e` amata, e` considerata socialmente superiore alla tassa sulle vendite e forse anche alla tassa sui redditi»21. Non occorre l’inglese per capire che le summenzionate tasse sono tutte imposte. Non occorre il testo inglese, ma un minimo di competenza in campo economico sı`, altrimenti lo studente imparera` da un simile manuale che quella sulla proprieta`, sulle vendite e sui redditi e` una tassa e non un’imposta a tutto danno della nostra lingua e della nostra cultura. A proposito, per chi non lo sapesse tra quanti mi ascoltano, una tassa e` «il compenso, talora inferiore al costo, pagato dal privato a un ente 22 pubblico per un servizio a lui reso dall’ente stesso dietro sua domanda» ; un’imposta e` un «tributo che gli enti pubblici impongono, senza corrispettivo di alcun servizio (diverso percio` da tassa) a tutti i cittadini che si trovano in determinate condizioni (...) e destinato a fornire agli enti pubblici stessi i mezzi per la produzione di quei servizi che non recano benefici particolari ai singoli, ma un vantaggio alla collettivita` nel suo insieme»23 Chiudo il mio intervento con questa provocazione lanciata a tutti noi che, alla conoscenza irrinunciabile di una lingua straniera intesa non come un repertorio lessicale, dobbiamo sempre accompagnare una umile e certosina documentazione e preparazione cognitiva, qualsiasi sia il campo specialistico al quale ci avviciniamo. Dietro una traduzione di un’opera di narrativa diamo per scontata una conoscenza dell’autore e dell’epoca. Deve essere lo stesso per la traduzione economica: una traduzione economica va preceduta da una accurata documentazione lessicale, ma anche culturale, adeguata alla varieta` tipologica dei testi economici, a tutto vantaggio della nostra lingua e della nostra cultura. Perche´ il procedimento traduttivo sia un arricchimento per la cultura d’arrivo, esso deve essere consapevole e di qualita`, cosı` da trasformare un’egemonia culturale in un processo comunicativo su una base di autentica parita`.

21 22 23

John K. Galbraith, Storia dell’economia, Rizzoli, Milano 1990 (1987), p. 190. Duro, cit., voce “tassa”. Duro, cit, voce “imposta”.

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WHO’S AFRAID OF OTHERNESS? FILM TRANSLATION AND THE FOREIGNIZING/DOMESTICATING DILEMMA di John Denton

One of the themes of the British film Priest (1994) is the clash between an older, radical priest (Matthew) in charge of a Liverpool Catholic parish and his new young conservative assistant priest (Greg). Soon after the new assistant arrives Father Matthew is surprised to find two newspapers at the breakfast table. In the Italian dubbed version (Il prete) the following dialogue ensues: M: G: M: G: M: G: M: G:

(indicando The Times) L’hai ordinato tu? Sı` Per tutti i giorni? Sı`. E` un problema? Due quotidiani e` un po’ eccessivo (indicando The Times) L’hai gia` letto quello? Non l’ho neanche toccato. Disprezzo Rupert Murdoch Lui invece ti ammira molto

The majority of the Italian audience probably attributed Matthew’s opposition to economic reasons: two daily newspapers would cost the parish too much. The reference to Rupert Murdoch (especially in 1994) would also have meant nothing to most of them. The British audience, seeing the two newspapers (The Guardian and The Times) were much more likely to have attributed Matthew’s attitude to political reasons, The Guardian being less conservative than The Times, which is owned by the media magnate Rupert Murdoch, who is not exactly popular in radical circles! In cognitive linguistics terms, we would say that most members of the Italian

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speech community do not have the relevant «frames» and «schemata» or sets of culturally embedded entities and stereotypical situations in their 1 encyclopedia , or, at least, that if they do have them they are more denotative than connotative. The film opens with the well known skyline of Liverpool and its neo Gothic Anglican and modern Catholic cathedrals; well known, that is, to British (and possibly other English speaking) viewers. The caption LIVERPOOL (quite unnecessary in the original film) does not appear as an addition to the Italian version explaining an unfamiliar skyline for the target viewers. Furthermore, British viewers live in a multi-denominational society, unlike Italians. Therefore when the two priests knock on the doors of a popular housing estate saying (in the Italian version) ‘‘Salve! Questa e` una famiglia cattolica?’’, the frequent rude remarks they receive as answers are more likely to lead Italian viewers to think that Liverpool is a rather un-Christian city, rather than that the family in question may well be protestant. The typical Irish funeral wake that takes place in a pub, the Irish accents and growing drunkenness contributing to the identification of the participants for British viewers, remains a mysterious, bizarre happening for the new target audience of the dubbed version. Difficulty of reception is caused by defective pre-established cultural knowledge schemata (including the visual element) of the average Italian viewer. An inseparable combination of linguistic and visual elements characterizes the filmic text or macro sign,2 presenting specific problems for the screen translator. Actually the term «translator» is rarely used in this context. Before reaching the new target audience the film product has gone through a more complex process, involving more people directly connected with its «translation» than, say, a novel or other written text. Since this paper is concerned specifically with the situation in Italy, the more costly 1

A clear account of these crucial psycholinguistic phenomena for discourse comprehension is provided in: Gillian Brown and George Yule, Discourse Analysis, Cambridge University Press, Cambridge 1983, pp. 236-56. Franz Po¨chhacker, Contrastive Frame Semantics for Translation: Problems and Prospects, in Christian Mair and Manfred Markus (eds.), New Departures in Contrastive Linguistics, Institut fu¨r Anglistik, Innsbruck 1992, pp. 131-42 is one of the few applications of related scenes and frames semantics to translation. 2 The importance of the multi faceted nature of film in semiotic terms is underlined in one of the first systematic studies of the phenomenon within the discipline of translation studies: Dirk Delabastita, Translation and mass-communication: film and T.V. translation as evidence of cultural dynamics, «Babel» 35, 4, 1989, pp. 193-218, and continued more recently in: Nicola Dusi and Siri Nergaard, Le doublage et le ‘‘recyclage’’: proble`mes discursifs et culturels entre des textes syncre´tiques, «Degre´s» 26, 95, 1998, pp, 1-36.

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and technically more complex process of dubbing, rather than subtitling will be considered here. Both methods of audiovisual transfer are in the process of becoming one of the key research areas in the field of translation studies.3 Beside the growing theoretical material, we now have some useful 3 In his article on dubbing and subtitling in the largest linguistics encyclopedia currently available Ian Mason, Dubbing and Subtitles, Film and Television, in R.E. Asher (ed) The Encyclopedia of Language and Linguistics, vol. 8, Pergamon, Oxford 1994, p.1069 wrote rather inaccurately "In translation studies, however, there has been a tendency to overlook these modes of translating and no large-scale empirical studies have been carried out". Actually, in the same year the first edition of a specialized bibliography edited by Yves Gambier contained 730 entries (admittedly not many of them large-scale), which is already a great advance over the very few entries on the subject in a general bibliography on translation published ten years before (Nino Briamonte, Saggio di bibliografia sui problemi storici, teorici e pratici della traduzione, Libreria Sapere, Napoli 1984). The second edition of the former specialized bibliography (Yves Gambier, (ed) Language Transfer and Audiovisual Communication. A bibliography, Second Edition, Centre for Translation and Interpreting, Turku 1997) contains 1,300 entries. Large-scale studies are appearing (e.g. Yves Gambier, (ed) Les transferts linguistiques dans les me´dias audiovisuels, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 1996, Henrik Gottlieb, Tekstning– Synkronbille dmedieoversaettelse, Center for Translation Studies and Lexicography, Copenhagen 1994, Thomas Herbst, Linguistische Aspekte der Synchronisation von Fernsehserien, Niemeyer, Tu¨bingen 1994, Anita Licari (ed), Eric Rohmer in lingua italiana, CLUEB, Bologna 1994, Georg-Michael Luyken et al. (eds), Overcoming Language Barriers in Television. Dubbing and Subtitling for the European Audience, European Institute for the Media, Manchester 1991, Candace Whitman-Linsen, Through the Dubbing Glass. The Synchronisation of American Motion Pictures into German, French and Spanish, Peter Lang, Frankfurt 1992) in addition to the rarer book length studies previously available (e.g. Istva`n Fodor, Film Dubbing– Phonetic, Semiotic, Esthetic and Psychological Aspects, Buske, Hamburg 1976, Otto Hesse-Quack, Der u¨bertragungsprozess bei der Synchronisation von Filmen. Eine interkulturelle Untersuchung, Reinhardt, Mu¨nchen/Basel 1969, Gabriele ToepserZiegert, Theorie und Praxis der Synchronisation. Dargestellt am Beispiel einer Fernsehserie, Regensberg, Mu¨nster 1978.) and hardly a month goes by without a conference being organized on audiovisual and now multimedial translation. Proceedings are being published regularly (e.g. Raffaella Baccolini, Rosa Maria Bollettieri Bosinelli and Laura Gavioli (eds), Il doppiaggio: trasposizioni linguistiche e culturali, CLUEB, Bologna 1994, Eleonora Di Fortunato and Mario Paolinelli (eds), La questione doppiaggio, AIDAC, Roma 1996, Yves Gambier (ed) Audiovisual Communication and Language Transfers, Special number of «Translatio. Nouvelles de la FIT-FIT Newsletter» 14, 3-4, 1995, Yves Gambier (ed), Translating for the Media, Centre for Translation and Interpreting. Turku 1998, Christine Heiss and Rosa Maria Bollettieri Bosinelli, Traduzione multimediale per il cinema, la televisione e la scena, CLUEB, Bologna 1996). The proceedings of conferences held in Genoa (1996), Trieste (1996), Misano Adriatico (1997), Forlı` (1998) and Berlin (1998) are in the press. More articulate and systematic information is also now available on the technical, professional aspects of the transfer process and its societal context (Josephine Dries, Dubbing and Subtitling: Guidelines for Publication and Distribution, The European Institute for the Media, Du¨sseldorf 1995 and Jan Ivarsson, Subtitling for the Media: A Handbook of an Art, Transedit, Stockholm 1991). An association of higher education institutes involved in training screen translators has also

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4 contributions from practitioners illustrating the stages through which a foreign film passes before being released on the Italian circuit. The Italian distributor places the film in the hands of a trusted professional (usually part of a cooperative studio) who passes the continuity script, faithfully transcribed from the actual dialogues heard on the screen, supplied by the source film company, to a translator who is asked to supply a «literal translation» which serves as the basis of the dubbing script, in which the most significant manipulations (not only of a technical nature, as will be shown later) take place. The dubbing director is responsible for choosing the most suitable voices for the parts and for the actual dubbing process itself, during which further changes are often introduced. The translator, dubbing script writer and dubbing director can be the same person or two or three different people. However, the person who bears greatest responsibility for the Italian dialogues heard by Italian viewers is the dubbing script writer (the initial translator of the «literal version» if he/she is different from the dubbing script writer is never mentioned in the credits). In the case of film translation technical aspects have often been foregrounded, emphasis being placed on the requirements of lip and intonational nuclear synchronization (in dubbing) and spatial and temporal limitations (in subtitling). The task of translation scholars studying film translation, just as in more traditional branches of the field, is to describe practice as exhaustively as possible, and attempt explanations for choices in a global strategical context from both internal and external viewpoints. In the transfer of audiovisual texts from one culture to another in the world of contemporary mass communications the external factors of the power relationship between practitioners and commissioners (distributors) and the interconnected element of audience reception are a crucial influence on translational decision making. In two recent books Lawrence Venuti5 opposes the fluent/domesticating trend that he identifies as the dominant current approach to transla-

been set up (in Lampeter, Wales). The author of this paper will publish a book in the series Translation Theories Explained (ed Anthony Pym) entitled Translating for the Screen. Audiovisual Translation Explained, for St. Jerome Press (Manchester) in late 1999. 4 Among the most significant are: Sylvie Depietri, Intervista a Gianni Galassi, in Licari (ed), Eric Rohmer, cit.pp. 115-136 and Sergio Jacquier, Prima era il silenzio. Traduzione e adattamento nel doppiaggio cinematografico e televisivo, in Enrico Arcaini (ed), La Traduzione. Saggi e documenti (II), Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1995, pp. 255-66. 5 Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility, Routledge, London 1995, and The Scandals of Translation, Routledge, London 1998.

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tion in Anglo-American culture. Consequently, he favours those translators who, flouting a long lasting tradition, were not afraid of highlighting cultural otherness. Admittedly in an audiovisual medium, domestication, at our present stage of technological development can hardly be applied to the visual element (unless scenes are actually cut out or subjected to very limited manipulation, as does happen). Target audiences will receive images, which are far from being as culturally universal as is often believed, as the case of the film discussed at the beginning of this paper shows. The translator/dubbing scriptwriter/subtitler, however, has no role to play in this process. Decisions on the quality and quantity of otherness maintenance or reduction will generally be related to the acoustically transmitted verbal signs. Expected low mass audience comprehension of cultural diversity has often been posited as the explanation for consistent reductionist translational strategies, in the Italian context. A foreignizing method, on the other hand, as in the case of the scene involving the newspapers in Priest runs the risk of greatly reducing mass audience comprehension in a film market where less clear cut distinctions are made in the distribution system between e´litist and mass audience products. It appears that the commercial interests of distributors do substantially favour ease of reception rather than more problematic, thought provoking translational visibility. Longer and more complex examples will now follow, taken from one of the most successful of British film comedies Four Weddings and a Funeral (GB 1993) directed by Mike Newell with a screenplay by the acclaimed TV comedy writer Richard Curtis6. At first sight the cultural specificity of a film centred on church weddings and a funeral, despite some liturgical and denominational divergences, would appear to be rather low for European audiences and the antics of a group of youngish members of the British upper class, though representing examples of culturally embedded stereotypes of varying degrees of culture specific intensity, should not be expected to present significant target version reception difficulties. Nevertheless, as we shall see, the Italian dubbed version (Quattro matrimoni e un funerale– dialoghi italiani: Simona Izzo, edizione italiana: Claudio Razzi, direttore del doppiaggio: Rossella Izzo) adopts a strikingly domesticating strategy. The first example is a close transcription taken directly from the source and target films, and not simply reproducing the printed script,7 clearly 6

The screenplay is available in book form: Richard Curtis, Four Weddings and a Funeral, Corgi, London 1994. 7 Abundant examples of this type of direct transcription can be found in Fabio Rossi’s

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showing the parts where the visibility of the speaker’s lips could have influenced translational choices. The best man Charles (Hugh Grant) is delivering his speech at the reception after the first wedding (of his friends Angus and Laura): Scene 24 (............) Charles: ladies and gentlemen / I’m sorry to drag you from your delicious desserts / er / there are just one or two / little things I feel I should say as best man // this is only the second time I’ve ever I’ve ever been a best man / I / I hope I did the job all right that time / the couple in question are at least still talking to me // u unfortunately they’re not / actually em / talking to each other / the the divorce came through a couple of months ago // but er I’m assured it had absolutely nothing to do with me / apparently Paula knew that Piers had slept with her younger sister before I mentioned it in the speech // the the fact that he’d / slept with her mother came as a surprise / but em / I think was incidental to the / nightmare of recrimination and em / violence that became their / two-day marriage / anyway enough of that / em my job today is to talk about Angus / and er there are no / skeletons in his cupboard / or so I thought // I I’ll come on to that in a minute / I I would just like to say this // em // I am / as ever / in er / bewildered awe / of of anyone who makes the kind of commitment that Angus and Laura have made today / I know I couldn’t do it / and er / I think it’s wonderful they can / so anyway back to back to Angus and those sheep // so ladies and gentlemen / if you’d em raise your glasses er / the adorable couple (plain text = off screen voice; italics = three-quarter shot; bold = close-up) (voce di Charles– Luca Ward) Scena 24 (voce fuori campo):discorso Charlie Charles: signore e signori / mi dispiace distrarvi dallo squisito dessert che avete davanti ma / come testimone dello sposo ritengo sia mio dovere fare brilliant new study of the language of the Italian cinema: Le parole dello schermo, Bulzoni, Roma 1999.

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un breve discorso // e` la seconda volta che mi trovo a far il testimone / spero di essere stato all’altezza della situazione la prima volta / la coppia in questione continua ancora a rivolgermi la parola // eh / purtroppo pero` / sı` c’e` un pero` / non parlano piu` tra di loro / il divorzio / e` stato pronunciato un paio di mesi fa // ah ma / mi hanno assicurato che io non c’entro nella maniera piu` assoluta / e evidentemente Paula sapeva che Piers era andato a letto con sua sorella Sybil / prima che io lo dicessi al pranzo di nozze // invece il fatto che / sia andato anche a letto con sua madre / e` stata proprio una sorpresa / ad ogni modo / credo che questa notizia non sia stata assolutamente la causa del terribile incubo di recriminazioni e / e violenze in cui si erano trasformate le quarantotto ore del loro matrimonio / ora basta con la malinconia / il mio compito oggi e` di parlare di Angus e / non ci sono / scheletri nel suo letto / o almeno cosı` pensavo // ne riparliamo piu` tardi / ora vorrei soltanto dire una cosa // em // io sono / sconcertato / e // profondamente invidioso / di chiunque sia capace di prendersi un impegno come quello che Angus e Laura si sono assunti oggi / io non credo che ci riuscirei e / e / a loro va tutta la mia ammirazione / e adesso parliamo un po’ di Angus e dei suoi segreti // come non detto / a questo punto signore e signori / inalziamo i nostri calici e / brindiamo agli sposi (testo normale = voce fuori campo; corsivo = piano americano; grassetto = primo piano) The considerable differences between the two versions appear to depend more on the dubbing script writer’s strategical option for otherness reduction and consequent ease of reception than technical constraints dictated by lip sync requirements, though examples of the latter are present. One example is the replacement of the idiomatic expression «there are no skeletons in his cupboard» by a more creative «non ci sono scheletri nel suo letto», when a close Italian equivalent is available («non ci sono scheletri nel suo armadio»). Here there is a close up of the side of Hugh Grant’s mouth, which may well have been the determining factor in the option for non literalness. The predominantly domesticating nature of the Italian version is illustrated by the introduction of the encouraging «Discorso, Charlie!» inserted just before Charles begins his speech. There is no need for this in the source film, since it is practically compulsory for the best man to make a speech at the reception. This is not necessarily the case at Italian weddings. Again, in cognitive linguistic terms, the conventional sequence of events or «script» of a wedding includes a speech by the best

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man in the British speech community. The introduction of the encouragement to speak in the Italian version also dictates a further change: «...there are just one or two / little things I feel I should say as best man...» becomes «...come testimone dello sposo ritengo sia mio dovere fare un breve discorso...» The slightly malicious reference to sheep at the end, where the speech breaks off, leaving things to the audience’s imagination is reduced to a more ordinary «segreti», though Charles’ audience’s «ba, ba» remains, and a live sheep jumps out of the car to be used for the married couple’s departure. Again elements of «strange» British humour have been ironed out. The actor dubbing Hugh Grant also uses a far more fluent style of delivery, considered more appropriate for a public speech in the target community, than the cultivated amateurish nonchalance of the English actor, whose delivery is characterized by fillers and hesitations, which are largely eliminated in the Italian version («u unfortunately they’re not / actually em / talking to each other / the the divorce came through a couple of months ago» «eh / purtroppo pero` / sı` c’e` un pero` / non parlano piu` tra di loro / il divorzio / e` stato pronunciato un paio di mesi fa »). The next scene chosen for analysis comes shortly after the same wedding reception, during which Charles met, and was strongly attracted by Carrie, a glamorous American (Andie Macdowell). Charles had booked to stay at «The Boatman». After changing his mind and deciding to stay at a country house belonging to an aristocratic friend, he found out that Carrie also had a room at the same country pub, so he changed his mind again and decided to stay at «The Boatman» after all. On entering he finds Carrie sitting in the lounge. Unfortunately another wedding guest, George, is also staying there and is after Carrie: 31. INT. RECEPTION. THE BOATMAN. NIGHT Scene 31 (..............) George: Ah, you here too? How are you? Charles: Hello...fine. George: You haven’t seen Carrie have you? Charles: Who? George: Carrie. American girl. Lovely legs. Wedding guest. Nice smell. Charles: No– sorry. George: Damn. Blast. I think I was in there. (.............. )

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George: I was at school with his brother Bufty– tremendous bloke. He was head of my house. Buggered me senseless. Still, taught me a thing or two about life. Where do you know him from? Charles: University. George: O splendid, splendid. Yes. I didn’t go myself...couldn’t see the point. You see, when you’re working the money markets, what use are the novels of Wordsworth going to be eh? (...............) George: O no– off you go– best of luck. Lucky bachelor me, I think I’ll have another search for that Katie creature. Charles: Carrie. George: That’s the one. Damn fine filly. I think I’m in there. Scene 31(..............) George: Ah– ma guarda che sorpresa. Come stai? Charles: Ah– ciao– sto bene, grazie. George: Hai visto Carrie per caso? Charles: Chi? George: Carrie. L’americana con quelle gambe chilometriche. Era al matrimonio, un vero schianto. Charles: No– mi dispiace. George: Che sfortuna. Peccato. Credevo fosse qui. (.............. ) George: Io andavo a scuola con il fratello di Angus, Bufty, un tipo allucinante. Era il piu` cattivo della classe. Ha tentato di inchiappettarmi un paio di volte. Comunque, mi ha insegnato a schivare i colpi nella vita. Tu, dove l’hai conosciuto? Charles: All’universita`. George: Ah, splendido, splendido. Eh, sı`. Io non sono andato all’universita`. Mi sembrava una perdita di tempo. Quando cominci a lavorare e ti piovono addosso i soldi, a che serve conoscere i sonetti di Shakespeare? (...............) George: No, no, figurati, il dovere ti chiama. In bocca al lupo. Che fortuna essere scapolo– non mi rimane altro che andarmene in giro a cercare quella Katie.

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Charles: Ma non era Carrie? George: Sı` e` uguale. Una fica pazzesca. Credo che me la faro`. To British audiences George represents the familiar stereotype of the matter-of-fact business man, with no cultural interests. He is a kind of (Thatcherite?) update of the old style Public school educated (sic) English gentleman, totally devoid of sex appeal, who sees mounting a horse and having sexual intercourse as simple prosaic satisfaction of natural urges and expects women to be as subject to his manipulation as stocks and shares or other commodities, all this expressed in a blunt, officers’ mess type language. The bluntness is partially communicated by the actor’s physical appearance, body language, lexical choices, syntax and clipped prosody. If we now look at the Italian dubbed version, we shall see that these features have been subjected to a high degree of domesticating manipulation. Translational intervention mostly concerns George’s speech style and cultural milieu. George’s references to Carrie are radically altered by the Italian adapter. The horse/animal metaphors («Nice smell» «Katie creature» «damn fine filly») disappear («un vero schianto» «quella Katie» «Una fica pazzesca»). The Italian George is thoroughly domesticated into a kind of primitive macho latino and there is no attempt to maintain the telegraphic presentation of Carrie, the Italian syntax being less marked («Carrie. American girl. Lovely legs. Wedding guest. Nice smell» «Carrie. L’americana con quelle gambe chilometriche. Era al matrimonio, un vero schianto»). Even greater contrasts are to be seen in George’s educational background and cultural attitudes. The source audience, either from direct experience, or, in the majority of cases, from second hand knowledge, are well acquainted with the British Public School system, its organization in boarding houses and the kind of sexual practices involving older and younger boys that are supposed to be common there. The humour in this scene comes from the matter-of-fact way in which teenage homosexuality is referred to with such disarming nonchalance. Italy does have private boarding schools, though comparisons are problematic. The Italian version abandons any reference to this type of private «collegio» and turns Bufty into a kind of same age sex maniac bully in an ordinary day school. Concerning George’s aversion to culture, the Italian version maintains the English cultural setting (Shakespeare is better known than Wordsworth), while removing the humourous element of self condemnation and showing that the character is simply not interested in wasting time on literature (he could have said «i romanzi di Shakespeare» for example).

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It may prove instructive to take a brief look at how the same extracts from the scene at «The Boatman» were treated by the German (Vier Hochzeiten und ein Todesfall) and French (4 mariages & 1 enterrement) 8 dubbing script writers: George: Charles: George: Charles: George: Charles: George:

Ach, Sie sind auch noch hier. Wie geht’s? Hallo...gut geht’s. Ja. Sie haben Carrie nacht gesehen, oder? Wen? Carrie. die Amerikanerin. Tolle Beine. Hochzeitsgast. Riecht gut. Nein, tut mir leid. Verdammt, so ein Mist. Ich glaube da hab’ich Chancen...

George: Ich war mit seinem Bruder Bufty im Internat. Toller Bursche, er war Tutor in meinem Haus. Er hat mich oft wahnsinnig flachgelegt. Trotzdem hat er mir was u¨ber’s Leben beigebracht. Woher kennen Sie ihn? Charles: Von der Uni. George: Ah, prima, prima, ja. Ich selbst war nicht auf der Uni. Hatte keinen Sinn fu¨r mich. Wissen Sie– Wenn man am Geldmarkt arbeitet, was nutzen einem da die Romane von Wordsworth. George: Gehen Sie ruhig, gehen Sie ruhig...alles Gute. (Charles: Danke, ja) Ich bin zum Glu¨ck Junggeselle. Ich glaube, ich seh’mich nochmal nach dieser Kathy-Maus um. Charles: Carrie. George: Ja, genau die. Verdammt niedlich die Kleine. Ich denke da hab’ich Chancen. George: Vous dormez la` vous aussi. C¸a gaze? Charles: Salut. Oui, c¸a va. George: Vous n’avez pas vu Carrie? Charles: Qui? George: Carrie...ame´ricaine, jolies jambes, une odeur excitante, elle e´tait au mariage.

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For a slightly more detailed comparison see: John Denton, Domestication vs Foreignizing: Humour, Cinema Translation and Culturally Embedded Stereotype Transfer in Fabrice Antoine and Mary Wood (eds), Humour, Culture, Traduction(s), «Ateliers» 19, Cahiers de la Maison de la Recherche, Universite´ Charles-de-Gaulle– Lille 3, 1999, pp. 45-53.

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Charles: Non, non...de´sole´... George: Merde, alors...c’est pas vrai. Je crois que j’avais le ticket. George: J’e´tais en pension avec son fre`re Bufty, un type e´pantant. Il e´tait chef de mon dortoir et il m’a bien encule´, le saligaud, on a beau dire c¸a apprend la vie. D’ou` tu le connais toi? Charles: L’universite´. George: Ah, bien, tre`s bien...oui. Moi, j’ai pas e´te´ en fac. Je n’en voyais pas l’utilite´. Je me suis dit que pour travailler a` la Bourse il n’e´tait pas ne´cessaire d’e´tudier les romans de Molie`re. George: Oui, bien sur, allez-y, allez-y. Bonne chance. (Charles: Merci)..c¸a a du bon d’eˆtre ce´libataire. Je vais a` la recherche de l’autre cre´ature, Catie. Charles: Carrie. George: C’est c¸a. Un joli petit lot. J’ai vraiment le ticket. The German and French versions maintain the boarding school element («Internat», «pension») and the age difference («Tutor», «chef de mon dortoir»), the German maintaining an incomprehensible (to German viewers) literal feature («Haus»). The description of the sexual act is unequivocal in the French version («il m’a bien encule´, le saligaud») but ambiguous in the German one. The German could be interpreted either as something like «he knocked me over» (i.e. bullied me) or «put me in a horizontal position» (!). On the cultural front the German version opts for risky literalness («die Romane von Wordsworth»– how many German viewers know that Wordsworth was really a poet?), the French one for domestication and ease of comprehension («les romans de Molie`re»). Along a foreignizing/domesticating cline, the German version favours the former while the French tends to favour the latter, though never going as far as the Italian version in the domesticating direction. Simona Izzo’s Italian version is certainly internally coherent but this is obtained by radical reduction of the cultural otherness of the source film. Here covert translation indeed ‘‘fulfills its illusory role almost perfectly’’.9 Ease of reception appears to be paramount for a mass audience. «Who’s afraid of otherness?» The answer would appear to be «film dubbing script 9 Jose´ Lambert, Translation or the Canonization of Otherness, in Andreas Poltermann (ed) Literaturkanon– Medienereignis- Kultureller Text, Schmidt, Berlin 1995, p. 176. Important considerations on otherness reduction are also to be found in: Peter Fawcett, Translating Film, in Geoffrey T. Harris (ed), On Translating French Literature and Film, Rodopi, Amsterdam 1996, pp. 65-88.

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writers», whose primary concern is the box office success of the product they deliver to the commissioning distributor, upon whom they depend for their livelihood.

TRADURRE VERSO L’ITALIANO di Graziano Benelli

Negli ultimi anni anche in Italia sono usciti diversi importanti studi di traduttologia, seguiti da ricerche nell’ambito della didattica della traduzione; sono apparse nuove riviste specificatamente dedicate alla traduzione e si sono moltiplicati i convegni su tale argomento. Anche nel nostro paese gli studi di traduttologia cominciano a non essere piu` una sorta di spazio libero (di luogo extraterritoriale) che il linguista e il critico letterario di tanto in tanto si prendevano il lusso d’invadere. Anche da noi la traduttologia, e piu` in generale la traduzione, si presenta ormai come una disciplina a se´, giovane ma autonoma. A tutto cio` purtroppo non corrisponde un sostanziale progresso qualitativo della prassi della traduzione e in particolare della traduzione editoriale. La maggior parte delle traduzioni, pubblicate dalle migliori case editrici italiane, continua a presentare troppe incomprensioni del testo di partenza, troppi faux sens, troppe soluzioni sbrigative e abborracciate, per non parlare della costante di una sintassi che rivela pesantemente la struttura linguistica del testo di partenza, dimostrando una sostanziale incapacita` traduttiva. Di questo problema pochi sembrano accorgersi; le case editrici sembrano ignorare che le traduzioni che pubblicano continuano a essere scadenti, il piu` delle volte addirittura pessime, testardamente calcate sulla lingua di partenza. E forse lo ignorano veramente, perche´ le varie redazioni editoriali non sono culturalmente attrezzate per valutare le traduzioni dei collaboratori. Il criterio di valutazione e` sostanzialmente estraneo alla forma della lingua italiana, direi alla stessa cultura italiana; la parola d’ordine sembra essere «tutto va bene purche´ si capisca il contenuto», un po’ come avviene per la lingua dei turisti. La cosa e` ben piu` grave in quanto si tratta

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di un fenomeno generalizzato; e non e` una posizione scandalistica, ma la constatazione, anche se profondamente amara, della situazione esistente. Basteranno pochi esempi per chiarire come, negli ultimi quarant’anni, la qualita` delle traduzioni editoriali non sia migliorata. Nel 1960 Einaudi pubblicava Memorie d’una ragazza per bene di Simone de Beauvoir, per la traduzione di Bruno Fonzi, traduzione che si segnala per una serie impressionante di calchi: «la maggior parte dei bambini [...] erano abbonati»; «un nugolo di bambini si impinzavano di gelati» (p. 50); in entrambi i casi Fonzi accorda il verbo col complemento di specificazione, come avviene in francese ma non in italiano. Piu` divertenti sono gli errori nella resa lessicale dovuti alla corrispondenza del significante ma non del significato; cosı` il segno francese confetti (coriandoli) viene tradotto con confetti, nonostante il contesto molto chiaro, che avrebbe dovuto mettere in allarme anche il meno esperto dei traduttori: «Mi ricordo che un martedı` grasso le nostre borse erano piene, anziche´ di confetti, di petali di rosa» (p. 50). Per non parlare della traduzione dell’avverbio di luogo en, che origina questo pasticcio: «anche i prı´ncipi e i miliardari erano separati dal vero mondo: la loro situazione eccezionale ne li escludeva» (p. 51). Consolera` Fonzi sapere che ancor oggi la traduzione di en avverbio o pronome personale continua a provocare incidenti gravi. E` il caso della versione del celebre romanzo di Marguerite Duras, Moderato cantabile, pubblicata da Feltrinelli nel 1986 e successivamente ristampata; nella prima pagina del libro possiamo leggere: «fu il solo ad accorgersi ch’era caduta la sera e ne ebbe un fremito» (p. 9). Ma Raffaella Pinna Venier, la traduttrice in questione, si rende colpevole di un reato peggiore; sostituisce lo stile essenziale e scarno della Duras, caratterizzato da brevi frasi principali, separate le une dalle altre dal punto, con uno stile paratattico, dove le frasi principali vengono riunite, grazie alla congiunzione e, in un solo periodo. Inutile dirlo, l’effetto e` devastante: il sintagma «L’enfant ne te´moigna aucune surprise. Il ne re´pondit toujours pas.» viene reso con un unico periodo: «Il bambino non mostro` alcuna sorpresa e continuo` a non rispondere.» (p. 10). Il lettore di questa traduzione viene cosı` messo di fronte a uno stile che e` completamente diverso da quello del testo originale; esattamente il contrario di come si dovrebbe operare nella traduzione letteraria. Va comunque detto che generalmente i segni d’interpunzione vengono calcati; esiste ancora la convinzione che la punteggiatura sia qualcosa di trascrivibile automaticamente e non di traducibile, poiche´ non e` un segno linguistico. Si dimentica che la punteggiatura fa parte di una determinata

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struttura linguistica e a questa ubbidisce; ogni lingua ha un proprio impiego della punteggiatura, direi una propria visione, e il traduttore non puo` non tenerne conto. Di queste riflessioni non c’e` traccia neppure nei libri tradotti di recente e pubblicati da editori meticolosi, come certamente lo e` Il Melangolo di Genova; l’Esegesi dei luoghi comuni (1993) di Le´on Bloy, tradotto da Gennaro Auletta e rivisto da Valeria Gianolio, calca continuamente la punteggiatura: «Infatti, di che cosa si tratta qui se non» (p. 25). «Aveva, ahime´! una compagna che rispondeva al nome di Raphae¨le» (p. 107). Cerchiamo allora di capire il malessere di cui e` vittima la traduzione verso l’italiano; anzitutto non dobbiamo nasconderci che la cultura universitaria ancor oggi tiene in bassissima considerazione la prassi della traduzione. Maggior credito ha la traduttologia, perche´ si tratta di una disciplina teorica, legata a una ricerca che in qualche modo si avvicina a quella della critica letteraria, che rimane la disciplina regina delle Facolta` umanistiche. Nell’universita` italiana solo nel 1982 sono apparsi i primi insegnamenti di ruolo di traduzione e tutti di seconda fascia; le pochissime cattedre di prima fascia risalgono addirittura a non piu` di sei anni fa. Si tratta comunque di insegnamenti confinati esclusivamente nelle due Scuole Interpreti a carattere universitario (Trieste e Forlı`); anzi, per ora le prime fasce sono presenti soltanto presso la Scuola di Trieste. Per quanto concerne i corsi di laurea breve istituiti recentemente presso alcuni Atenei, a causa dell’impossibilita` di attivare nuovi posti di ruolo, gli insegnamenti di traduzione vengono affidati a docenti di altre discipline, ai linguisti e agli storici della letteratura. Come dire che tutti (o quasi) possono insegnare la traduzione. Per quanto concerne il dottorato di ricerca, accanto ai diversi dottorati in Anglistica, Francesistica, ecc. sparsi per l’Italia, esiste un unico Dottorato in Scienza della Traduzione; la cosa e` ancora piu` assurda, dal momento che a tale dottorato fanno capo – almeno teoricamente – tutte le lingue straniere. Se la traduzione come disciplina universitaria sembra aver acquisito una propria autonomia, contemporaneamente le e` stato assegnato quel ruolo di cenerentola che fino a qualche tempo fa era proprio della lingua straniera. Ancor piu` in discredito e` la traduzione verso l’italiano, vittima di diversi equivoci, il primo dei quali risiede nella convinzione che tradurre verso l’italiano sia facilissimo, perche´ sarebbe sufficiente avere una conoscenza passiva della lingua del testo di partenza, mentre la conoscenza della lingua italiana si da` per scontata. Nel nostro ambiente domina la mentalita` che la vera traduzione – quella che esige rispetto – e` verso la lingua straniera.

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La conseguenza di tutto questo e` una scarsa attenzione per la traduzione verso l’italiano (version), a vantaggio della traduzione verso la lingua dell’Altro (the`me). Gli insegnamenti di traduzione verso l’italiano sono ritenuti secondari sia dai docenti, sia dagli studenti, le cui energie vengono destinate quasi esclusivamente all’apprendimento della lingua straniera. Questo accade sia nelle Facolta` e nei Corsi di laurea in Lingue e Letterature Straniere, sia presso le Scuole Interpreti universitarie, nonostante che i bandi dei prestigiosi concorsi presso la Comunita` Europea ribadiscano che i candidati a posti di traduttore possono concorrere soltanto per la traduzione verso la lingua madre. Ecco dunque spiegato il perche´ delle brutte traduzioni editoriali; poche sono le Facolta` in cui si insegna a tradurre verso l’italiano, e in quelle poche si continua a insegnare con una mentalita` inadeguata, prettamente scolastica. Le lezioni di traduzione verso la lingua madre hanno la stessa organizzazione di quelle verso la lingua straniera; e` un fenomeno non solo dell’universita` italiana, tant’e` vero che Ladmiral lo denunciava gia` nel suo celebre libro Traduire: the´ore`mes pour la traduction (Paris, Payot, 1979). A quasi vent’anni di distanza, si rende necessario ritornare su quelle indicazioni, discuterle, recepirle e aggiornarle. Ladmiral distingue fra «la traduction comme exercice pe´dagogique»1 e «la traduction proprement dite – ou, si l’on veut, traduction “traductionnelle”»2. La prima – la traduzione come esercizio scolastico – non puo` produrre dei traduttori, in quanto e` un aspetto dell’apprendimento della lingua straniera, anche quando si traduce verso l’italiano. In questo caso la traduzione serve esclusivamente per controllare se lo studente e` in grado di comprendere le strutture della lingua straniera. La traduzione propriamente detta, invece, non ubbidisce a una strategia pedagogica, perche´ il suo fine e` appunto se stessa: qui «le texte traduit est la raison de l’ope´ration traduisante»3, dal momento che si produce un testo che ha una propria autonomia, una propria vita nettamente distinta da quella del testo di partenza. Tale autonomia e` racchiusa nella sua funzione, che e` quella di dispensare il fruitore dalla lettura del testo originale. Ecco perche´ la traduzione «traductionnelle» «doit satisfaire a` un certain nombre d’exigences qui ne sont pas les crite`res pe´dagogiques»4.

1 2 3 4

Jean-Rene´ Ladmiral, Traduire: the´ore`mes pour la traduction, Gallimard, Paris 1994, p. 41. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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Non si tratta piu` di un controllo linguistico, ma della capacita` di produrre un testo autonomo, dunque responsabile sia verso il testo di partenza, sia verso il lettore virtuale. E` questa la traduzione cui devono tendere le Scuole Interpreti e Traduttori dell’Universita` italiana, se non vogliono ingannare i propri studenti e se non vogliono rinunciare alla propria specificita`. La traduzione pedagogica riguarda i docenti delle Facolta` di Lingue e Letterature Straniere e dei corsi di laurea analoghi, mentre i docenti di traduzione delle Scuole Interpreti dovranno orientarsi verso una pedagogia della traduzione, una pedagogia che formi dei traduttori «traductionnistes». Una cosa e` proporre esercizi di traduzione, altra cosa e` formare traduttori professionisti. Lungi dal pretendere di riformare la didattica della traduzione, colgo l’occasione per avanzare alcune ipotesi pragmatiche, al fine di confrontarle con i colleghi qui presenti. Per prima cosa bisogna mettere fine allo sterile dibattito su «Si puo` insegnare a tradurre?», dibattito che anche recentemente ha appassionato specialisti peraltro non disprezzabili5. E` necessario affermare una volta per tutte che insegnare a tradurre e` possibile, cosı` come e` possibile insegnare a scrivere e a comporre con eleganza. E` possibile insegnare anche la traduzione letteraria, e poco interessa sapere «si la traduction litte´raire est un art ou une science» o se piuttosto essa debba considerarsi, come afferma Franc¸oise Wuilmart, «un me´lange exact des deux»6. La Traduzione (tutta la traduzione) appartiene senz’altro alla Cultura e speriamo possa diventare presto patrimonio anche della cultura universitaria nel suo insieme. Insegnare la traduzione e` possibile se la si conosce dal punto di vista teorico e se la si pratica costantemente; e` possibile solo se chi insegna continua a imparare, esattamente come avviene per le altre discipline. Insomma, i docenti di traduzione verso l’italiano non devono sentirsi – come spesso avviene – esentati dalla ricerca, e neppure esentati dalla prassi traduttiva. Di qui l’esigenza di formare ricercatori e docenti, di fornire loro una qualificazione specifica; i concorsi universitari di traduzione devono assumere una fisionomia sempre piu` scientificamente marcata e devono smettere di diventare una sorta di rifugio per i naufraghi provenienti da altri raggruppamenti disciplinari. Insegnare a tradurre vuol dire soprattutto mettere in grado gli allievi di 5

Cfr. AA.VV., La traduction litte´raire, scientifique et technique, La Tilu, Paris 1991. Franc¸oise Wuilmart, Didactique de la traduction litte´raire, in AA.VV., La traduction litte´raire..., cit., p. 48. 6

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affrontare da soli problemi nuovi, diversi da quelli esaminati durante le lezioni. Questo e` possibile se si trasmette loro quell’insieme equilibrato e omogeneo di nozioni teoriche e di comportamenti pragmatici che mi piace indicare col nome di «mentalita` traduttiva», una sorta di forma mentis del traduttore, solo all’interno della quale puo` innestarsi quel particolare (originale) approccio metodologico proprio di ogni singolo traduttore. In secondo luogo bisogna convincersi dell’importanza della traduzione verso l’italiano per quanto riguarda l’occupazione dei nostri laureati; in un’Europa economicamente e culturalmente sempre piu` integrata, i nostri giovani troveranno spazio come traduttori soltanto se saranno altamente qualificati nella traduzione verso l’italiano. Il che non significa che non possano saltuariamente e eccezionalmente tradurre verso la lingua straniera; ma tutti gli specialisti in questo concordano: il traduttore professionista traduce verso la propria lingua da piu` lingue straniere. Su questo punto s’incentra gia` oggi la competitivita` del traduttore; deve tradurre dalle lingue europee di base, ma anche da almeno una delle lingue di quei paesi oggi economicamente emergenti. Inutile dirlo, in questo settore c’e` tutto da costruire, e il MURST non puo` pretendere che le nostre Facolta` lo facciano a costo zero. E` altresı` indispensabile affermare energicamente che una buona conoscenza della lingua straniera e una buona conoscenza della lingua italiana non producono automaticamente una buona traduzione. Certo, per tradurre bene non si puo` prescindere da queste conoscenze, ma e` necessario possedere un’ulteriore abilita`, quella per cosı` dire di smarcarsi dall’influenza della struttura sintattica della lingua di partenza, di liberarsi psicologicamente dall’autorita` che il testo originale emana, specie se si tratta di un testo letterario. Problema questo di cui tutti sono a conoscenza, ma che tuttavia e` rimasto sostanzialmente insoluto, come dimostra la maggior parte delle traduzioni verso l’italiano. Eppure gia` nel 1961 Luigi De Nardis, nell’Avvertenza alla sua esemplare traduzione dei Fiori del Male, affermava decisamente che «un’opera di traduzione e` prima di tutto una manifestazione di fedelta`, da parte del traduttore, alla propria lingua, alla propria modernita`, alla tradizione poetica su cui si e` educato e in cui vive»7. Parole sulle quali dobbiamo ulteriormente riflettere e che comunque dovremmo erigere a nostra guida. Bisogna confutare anche quel luogo comune che considera il critico 7 Luigi De Nardis, Avvertenza, in Charles Baudelaire, I Fiori del Male, Neri Pozza, Venezia 1961, poi Feltrinelli, Milano 1964, p. X-XI.

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letterario come il miglior traduttore dei testi dell’autore di cui e` specialista; e` un’equivalenza non sempre vera. Anche se una buona interpretazione del testo e` fondamentale per tradurre, la critica letteraria rimane pur sempre cosa diversa dalla traduzione. Si sprecano gli esempi di ottimi critici letterari che, una volta trasformatisi in traduttori, presentano testi insufficienti, contraddicendo talvolta le loro stesse teorie interpretative. Questo prova ancora una volta la specificita` della prassi della traduzione; nessuno oserebbe affermare che un bravo traduttore di Rimbaud e` automaticamente anche un bravo rimbaldiano: ma allora perche´ dovrebbe essere valido il contrario? Per far fronte a tali inconvenienti, occorre indagare con piu` sistematicita`, arrivando a formulare, per ogni lingua straniera, una sorta di Grammatica della traduzione, che consenta agli apprendisti traduttori di avere validi punti di riferimento relativamente alla traduzione di quelle strutture linguistiche che caratterizzano una data lingua, per non incorrere in quell’italiano da stranieri che e` la caratteristica per cosı` dire stilistica di tante traduzioni presenti nelle nostre librerie. Una didattica appropriata e` la sola che possa invertire questa tendenza; in questa direzione si muovono, anche se timidamente, alcuni recenti lavori, fra i quali il libro di Charles Barone, La grammatica francese e il tradurre. Morfologia, Firenze, Le Lettere, 1997. Qui l’analisi della grammatica francese viene condotta in stretto rapporto con quella italiana, in una dimensione d’indubbia utilita` per la problematica traduttiva. Oltre a proporre sintagmi espressamente costruiti al fine di rilevare le differenze morfologiche fra le due lingue (nell’ottica di quella pedagogia della traduzione auspicata da Ladmiral), Barone presenta brevi passi scelti dalle pagine piu` conosciute della letteratura francese, ai quali affianca la resa o le diverse rese in italiano. Cio` di cui si sente la mancanza e` l’approccio critico alla comparazione delle diverse traduzioni, che al contrario vengono presentate come testi autorevoli, come esempi da seguire, anche quando contengono imprecisioni, se non inconvenienti di maggior rilievo. Barone non coglie le imperfezioni delle diverse soluzioni di uno stesso problema traduttivo, partendo dal presupposto che tutto cio` che e` edito e` valido. Questo atteggiamento non aiuta l’apprendista traduttore a formarsi quel senso critico nei confronti del testo tradotto (da altri, ma anche da se stesso) che e` invece essenziale alla forma mentis del traduttore. Il fatto e` che il libro di Barone vuole essere onnicomprensivo, presentandosi sia come una grammatica della lingua francese, sia come un manuale di traduzione dal francese ma anche dall’italiano. Troppe finalita` diverse per uno stesso libro. E ancora una volta e` l’aspetto della traduzione verso l’italiano a restare sacrificato.

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E` indispensabile dunque rivedere sia il metodo d’insegnamento, sia le prove di accertamento degli esami di traduzione nelle nostre Scuole a livello universitario. Molti sono i danni provocati dalla traduzione a vista, il cui unico vantaggio consiste nel fatto che il docente non ha bisogno di preparare la lezione. La traduzione a vista appartiene all’interpretazione e non alla traduzione, la quale e` sempre scritta, in particolar modo quella letteraria. La differenza non e` di poco conto; se alcune espressioni sono consentite quando si parla, non lo sono quando si scrive, specialmente se cio` che si traduce viene pubblicato e diffuso. Nella traduzione a vista l’apprendista traduttore oscilla fra piu` versioni, si autocorregge, viene corretto dal docente e dai compagni, e alla fine ha spesso l’impressione che la traduzione sia una sorta di iper testo dove tutto o quasi e` consentito. Ne risulta una traduzione instabile, dove salta ogni punto di riferimento sintattico, per la difficolta` di seguire un testo orale, che appare e sparisce, si piega e si dispiega, sfuggendo di fatto al suo traduttore. Nella traduzione a vista l’attenzione e` tutt’al piu` rivolta al lessico, il cui tasso di difficolta` e` certamente di gran lunga minore di quello relativo alla traduzione della struttura sintattica. Nelle traduzioni editoriali gli errori imputabili a una non comprensione del lessico sono minimi (anche se generano gravi disastri), mentre notevole e` l’incomprensione della costruzione sintattica, e ancor piu` frequente l’incapacita` di una resa che rispetti l’equivalenza (e questo comporta disastri ancora maggiori). La lezione di traduzione verso l’italiano non dovra` trascurare quest’ultimo aspetto; dovra` mostrare, accanto alle difficolta` dell’equivalenza lessicale, anche quelle piu` complesse dell’equivalenza sintattica. Il docente deve essere in grado non solo di denunciare le carenze traduttive degli allievi, ma anche di saper spiegare puntualmente le ragioni di tali carenze e presentare loro le soluzioni adeguate. Anche le prove di accertamento vanno profondamente riviste. Attualmente gli esami di traduzione, presso le Scuole finalizzate alla laurea in traduzione, sono del tutto uguali agli esami di traduzione che si tengono nelle Facolta` di Lingue e Letterature Straniere, in Facolta` cioe` dove non ci si laurea in traduzione. L’esame tradizionale di traduzione nei corsi di laurea in Lingue e Letterature Straniere (un passo di una ventina di righe, dall’italiano verso la lingua straniera) serve per accertare se lo studente ha assimilato le strutture morfo-sintattiche della lingua straniera, e non per verificare la sua idoneita` a svolgere la professione di traduttore. In questo contesto la traduzione (the`me) e` una prova di lingua e non di traduzione, perche´ appartiene alla pedagogia della lingua straniera.

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Purtroppo l’esame di traduzione verso l’italiano (version), nei corsi di laurea in Traduzione, ubbidisce alla stessa logica; e` allora comprensibile perche´ venga considerato quasi un’inezia, dal momento che – analogamente al the`me – accerta se lo studente comprende le strutture morfosintattiche della lingua straniera. Sta qui l’errore di fondo; l’esame di traduzione per chi si laurea in Traduzione deve accertare l’abilita` del tradurre, l’abilita` di produrre une «traduction traductionnelle», e non verificare la conoscenza della lingua straniera e ancora meno quella della lingua italiana. L’esame di traduzione per la laurea in Traduzione non puo` consistere in una ventina di righe, perche´ il traduttore professionista e` abilitato a tradurre interi libri; la sua preparazione va valutata su tale distanza. Oggi un compito di traduzione verso l’italiano con due errori e` considerato buono; come dire che illudiamo i nostri studenti, perche´ un traduttore di un libro non puo` permettersi di fare due errori per pagina; o almeno non dovrebbe essere consentito dal mondo editoriale. Bisognera` allora inventare specifiche prove di esame, affinche´ le abilita` richieste siano in stretto rapporto con la laurea che si rilascia. Se e` vero quanto scrive Emilio Mattioli sull’ultimo numero di «Testo a Fronte», e cioe` che, come «l’estetica non insegna a scrivere poesie [cosı`] la traduttologia non insegna a tradurre»8, e` pero` altrettanto vero che la traduttologia offre a chi traduce utilissimi punti di riferimento per le proprie opzioni. Su questo bisogna continuare a insistere anche a livello didattico, perche´ e` un aspetto tutt’altro che pacifico. Basti pensare che nella tabella che disciplina il piano di studi delle Scuole per Interpreti e Traduttori dell’Universita` italiana non c’e` traccia di insegnamenti che rimandino alla traduttologia, ne´ alla storia della traduzione, ne´ tanto meno alla critica della traduzione. Mi auguro che le nostre Scuole sappiano al piu` presto aggirare l’ostacolo, attivando almeno uno di questi insegnamenti come opzionale; ma e` pur vero che a tutt’oggi non e` stato fatto, e questo e` estremamente significativo, perche´ e` il segno della rimozione della teoria, in un ambiente dove tutto e` finalizzato (o dovrebbe esserlo) alla prassi traduttiva (con i risultati che abbiamo visto). La conoscenza dello stato della ricerca in questo settore e` indispensabile per la creazione di quella forma mentis di cui prima parlavo, nonche´ per liberarsi dall’autorita` del testo di partenza. Il traduttore «traductionniste» 8 Emilio Mattioli, Poetica ed ermeneutica della traduzione, in «Testo a Fronte», n. 17, ottobre 1997, p. 10.

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deve padroneggiare tutte le fasi della traduzione, deve sottomettere alla propria autorita` (alla propria competenza) il testo di partenza. Al pari del critico letterario, lo deve smontare per ricrearlo non gia` con l’analisi, ma con un materiale linguistico diverso. Come il critico produce un’analisi letteraria coerente e autonoma dai testi su cui si fonda, cosı` il traduttore professionista dovra` costruire un testo coerente e autonomo da quello di partenza, anche se a esso legato dal principio dell’equivalenza. La conoscenza delle nuove teorie traduttologiche, alla luce della propria esperienza traduttiva, apre nuovi orizzonti al traduttore, lo guida nella scelta delle soluzioni, rendendolo consapevole del proprio comportamento e confortandolo nelle proprie decisioni. In questo settore svolge un ruolo importante «Testo a Fronte», anche se la rivista non si pone problemi di didattica della traduttologia. Si pone invece in quest’ottica, anche se ancora con una certa timidezza, il recente volume prodotto dalla Scuola Interpreti dell’Universita` Trieste, Tradurre: un approccio multidisciplinare, che, come scrive Margherita Ulrych nella Premessa, «vuole offrire una proposta di organizzazione e strutturazione didattica per chi sia impegnato nell’insegnamento della teoria e della pratica della traduzione presso le Facolta` umanistiche e le Scuole a orientamento linguistico»9. E soprattutto incoraggiare i docenti di traduzione a spingersi oltre la prassi, a completarla didatticamente con l’aggiornamento teorico. Alla traduttologia si dovra` affiancare l’insegnamento della storia della traduzione (intesa come storia della prassi del tradurre). Ripercorrere la pratica della traduzione diacronicamente e` un ulteriore passo verso la conquista di una mentalita` traduttiva, perche´ produce – come ha scritto Michel Ballard – «chez les traducteurs une prise de conscience historique de l’activite´ qu’ils vont exercer. [...] L’histoire de la traduction nous enseigne non seulement la diversite´ des pratiques qui ont coexiste´ ou se sont succe´de´es mais aussi le fait que les traducteurs n’ont cesse´ d’e´crire, et donc de re´fle´chir, a` propos de leur pratique»10. Del resto Folena, nella premessa alla ristampa del suo celebre Volgarizzare e tradurre, osserva come si sia avuto, nell’ambito della traduttologia, «un’alluvione teorica, alla quale non hanno corrisposto adeguati approfondimenti storici»11. Da ultimo si dovra` insistere sull’importanza dell’insegnamento della

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Margherita Ulrych, in Premessa, AA. VV., Tradurre: un approccio multidisciplinare, Utet, Torino 1997, p. XIII. 10 Michel Ballard, Didactique de la traduction litte´raire, cit., p. 34. 11 Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, Einaudi, Torino 1991, p. VIII.

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critica della traduzione, che Mattioli afferma essere «esigenza attualissima in 12 questo ambito di ricerche» , innanzitutto per porre fine alla giustificazione di quello che lo stesso Mattioli chiama «arbitrio traduttivo». Una critica della traduzione, che operasse con serieta` e intelligenza, potrebbe per cosı` dire bonificare il mercato delle traduzioni in Italia, imponendo una linea di rigore alle redazioni editoriali. Uno strumento utile potrebbe essere la costituzione di un osservatorio sulle traduzioni italiane, che prendesse in esame mensilmente i libri tradotti, e che descrivesse dettagliatamente la qualita` della resa traduttiva, motivando il proprio giudizio. A livello d’insegnamento universitario, la critica della traduzione potrebbe colmare la mancanza di senso critico che e` propria dell’apprendista traduttore, sia nei confronti delle traduzioni gia` esistenti, sia verso il testo che egli ha prodotto. Su quest’ultimo aspetto converra` insistere; per ovviare ai calchi sintattici, e` necessario addestrare il futuro traduttore a una critica serrata della propria traduzione, che gli permetta di rielaborare il proprio testo in base alle leggi della lingua ricevente, nel rispetto ben inteso dello stile del testo di partenza. Cio` che non va confuso e` lo stile proprio di ciascun autore (parole) con l’aspetto sintattico tipico di ciascuna lingua (langue). Questa confusione generalmente porta a due gravi inconvenienti; il primo e` che il traduttore uniforma stilisticamente i testi che traduce, cancellando i tratti caratterizzanti del singolo autore. In secondo luogo l’uniformita` avviene attraverso una costruzione sintattica franco-italiana, anglo-italiana e cosı` via. Diventare lettore critico del proprio lavoro, mettendo per un momento in disparte il testo di partenza, e` un’altra delle abilita` indispensabili al traduttore professionista per migliorare la qualita` del suo prodotto. Tale capacita` critica si conquista attraverso una buona frequentazione delle varie traduzioni di uno stesso testo, analizzando il comportamento dei rispettivi traduttori e discutendo all’interno di appositi seminari i differenti esiti. In tal senso e` da segnalare, di Sergio Marroni, l’analisi della lingua delle traduzioni di Bel-Ami13, panorama diacronico delle traduzioni italiane del celebre romanzo di Maupassant. Oltre a mostrare l’evolversi del rapporto testo originale vs testo tradotto, Marroni analizza le differenti rese traduttive di alcune parti del discorso (pronomi in funzione di soggetto, verbo, congiunzioni, ecc.), mettendo anche in evidenza l’uso di procedimenti quali il 12

Emilio Mattioli, Poetica, cit., p. 10. Sergio Marroni, La lingua delle traduzioni di «Bel-Ami» (1887-1979), Bulzoni, Roma 1989. 13

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prestito, il calco e l’adattamento. Si tratta di un approccio linguisticocomparativo, che conduce alla stesura di un profilo critico delle traduzioni prese in esame. Un eccellente esempio di didattica della critica della traduzione e` fornito dal saggio di Gabriella Adamo, «Critique de traductions»: un’espe14 rienza didattica («Spleen» LXXVIII di Baudelaire) , che procede all’analisi comparativa di quattro traduzioni del testo baudelairiano, «non per stabilire una graduatoria di merito, ma [per] valutare quale fra queste differenti modalita` fosse meglio riuscita a eludere le insidie del tradurre poesia, e quale testo italiano fosse arrivato a produrre il «frisson», lo scatto di sensibilita`, la comunicazione del profondo che sono propri alla creazione poetica baudelairiana»15. Il libro di Gabriella Adamo, Traduzione e poetica dell’assenza, offre ulteriori saggi di critica della traduzione, anche dall’italiano verso il francese, come nel caso delle versioni del Conte di Carmagnola e dell’Adelchi, uscite in Francia nella prima meta` dell’Ottocento. Questi lavori non forniscono soltanto informazioni utili, ma si pongono come punto di riferimento per una didattica della critica della traduzione letteraria. Come afferma Berman in polemica con Meschonnic, «il ne faut pas se contenter d’un simple travail de destruction»16. Il critico della traduzione non dovra` individuare soltanto le strutture scorrette (ne´ tanto meno dovra` trasformarsi in un iper revisore); un’intelligente analisi critica lo portera` a evidenziare anche le soluzioni positive, sempre motivando la propria posizione. E` cosı` che si potranno di tanto in tanto scoprire «“des zones textuelles” que je qualifierai de miraculeuses, en ceci qu’on se trouve en pre´sence non seulement de passages visiblement acheve´s, mais d’une e´criture qui est une e´criture-de-traduction»17. Consolidare la traduttologia funzionale e pragmatica, rendere la prassi della traduzione in qualche modo scientifica, o almeno non lasciarla piu` nella precarieta` che ancora la contraddistingue: per raggiungere un tale obiettivo e` prioritario che i docenti di traduzione traductionnelle escano dall’isolamento in cui sono stati e si sono confinati. Forse non bastano i convegni, anche se sono sempre necessari; potrebbe essere di grande utilita`

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In G.A., Traduzione e poetica dell’assenza, Herder, Roma 1996, pp. 149-209. Ivi, p. 197. Antoine Berman, Pour une critique des traductions: John Donne, Gallimard, Paris 1995, p.

17. 17

Ivi, p. 66.

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organizzare una sorta di coordinamento nazionale permanente, riservato agli addetti ai lavori. Il coordinamento potrebbe farsi carico dei problemi didattici legati alla formazione dei traduttori professionisti, a prescindere dal corso di laurea dove tale preparazione avviene. Sarebbe un momento importante di confronto fra esperienze diverse, unite dalla consapevolezza delle difficolta` in cui oggi si trovano gli insegnamenti universitari di traduzione, in particolare di traduzione verso l’italiano.

TRANSLATION AND POSTCOLONIALISM di S. Bassnett

In questo mio intervento provero` a fare un lavoro di traduzione, tentando di presentare in italiano una conferenza che ho scritto in inglese. Da un po’ di tempo mi sto occupando del postcolonialismo, e quindi il titolo che ho scelto e` Translation and Postcolonialism. Iniziero` con una favola (in inglese comincerei dicendo Once upon a time, in italiano C’era una volta). C’era una volta un prete che intraprese un lungo viaggio in quelle terre che oggi vengono chiamate Brasile. Un giorno fu catturato da una tribu` di indiani, i Tupinamba, e fu ucciso in un rito sacrificale antropofago. Come sapete, il cannibalismo costituisce uno dei tabu` piu` potenti del mondo cristiano. Se poi ad essere mangiato e` un prete, il tabu` viene violato in maniera ancora piu` evidente. In questo caso gli indiani Tupinamba hanno mangiato un prete, ma il loro non e` stato un gesto privo di una logica coerente. Per essi, infatti, come si e` gia` verificato in alcuni casi, e forse tuttora accade ancora, l’atto di cannibalizzazione e` un atto di grande omaggio: il cannibalismo non si esercita sui nemici o sugli individui ai quali viene attribuita scarsa forza fisica o intellettuale, ma su persone delle quali si riconosce il valore; nel caso della nostra favola, inoltre, la vittima e` un prete missionario che aveva cercato di insegnare ai Tupinamba i principi della religione cristiana nella quale, simbolicamente, si mangia il corpo e si beve il sangue del Dio. L’atto di mangiare il missionario, allora, se visto come un atto di traduzione, sembra obbedire ad una logica perfettamente coerente. Ho scelto di iniziare raccontandovi questa favola perche´ oggi il cannibalismo sta diventando una metafora fondamentale per parlare della traduzione. In America Latina e in Brasile, ad esempio, molti studiosi e, soprattutto, molti traduttori preferiscono questa metafora, ed io vorrei cercare di spiegarne il perche´. Prima pero` devo accantonare un attimo questo episo-

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dio, che quattrocento anni fa ha suscitato tanto orrore nella chiesa europea, per soffermarmi su quello che accadeva negli anni venti in Brasile, quando un gruppo di scrittori e intellettuali cerco` di trovare un’immagine, una metafora che spiegasse in che senso la letteratura e la cultura brasiliane potessero essere diverse da quelle europee. Siamo di fronte a quello che e` il problema fondamentale per una colonia. Una colonia e` de facto una copia di un originale che e` altrove, l’Europa. Se riteniamo che l’Europa sia l’originale, perche´ e` da qui che sono partite le navi che hanno colonizzato l’India, il Brasile, la Colombia, dobbiamo anche ritenere che il problema di chi scrive nelle colonie e` quello di imitare l’originale. Questo problema e` stato altrettanto fondamentale nella storia della traduzione, percorsa tutta, come ben sappiamo, dalla questione del suo status. E` stato detto che la traduzione non ha lo stesso valore dell’originale in quanto, secondo questo linguaggio negativo, essa sarebbe un’imitazione che si limita a rispecchiare; celebre e` l’affermazione del poeta americano Robert Frost che diceva: «Poetry is what gets lost in translation», la poesia e` cio` che nella traduzione si perde. A lungo ci siamo fermati su questo aspetto e vorrei che noi europei imparassimo dagli studi che si compiono nelle ex-colonie a ripensare la traduzione, a rivalutarla e comprenderla per cio` che e` veramente. Questa rivalutazione implica necessariamente una riconsiderazione del potere dell’originale. Finora abbiamo pensato alla traduzione come a un atto in seguito al quale si verifica una perdita, mentre ripensare la traduzione significa riflettere non soltanto su cio` che viene perso, ma anche su cio` che viene guadagnato. Abbiamo bisogno, credo, di instaurare un «linguaggio del guadagno», che non siamo ancora riusciti ad elaborare, e la cui assenza ci vincola a una situazione di svantaggio che si manifesta in molti modi. Cio` che sto per riferirvi e` un semplice aneddoto, ma sintomatico di questa situazione. In Inghilterra, fino a poco tempo fa, una traduzione non veniva valutata come pubblicazione alla pari, ad esempio, con una monografia, e questo accade ancora in Italia. E` come se tradurre fosse un lavoro piu` indegno o facile, mentre i traduttori sanno che il loro e` un lavoro difficilissimo, che implica molti fattori: la capacita` di leggere con estrema attenzione quello che chiamo originale, ma anche la riscrittura del testo, per renderlo piu` godibile, poiche´ una traduzione che si legge come tale non funziona. Ritornando al problema dello status dell’originale, dovremmo ricordare che questo e` sorto in epoca abbastanza recente, sicuramente non nel Medio Evo o nel primo Rinascimento, ma e` un fenomeno che va direttamente collegato all’Illuminismo. Se ne avessimo il tempo, potremmo anche cer-

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care di capire come mai il concetto di originalita`, che nasce fra il Sei e il Settecento, acquista tanta importanza. Quello che mi preme sottolineare e` che l’idea che l’originale abbia un valore superiore a quello della traduzione si afferma nella coscienza europea nello stesso momento in cui iniziano i grandi viaggi di colonizzazione. Il nesso e` assolutamente evidente. Ho svolto degli studi al riguardo, analizzando alcuni scrittori del Seicento inglese, in particolare John Dryden, poeta, ma anche grandissimo traduttore. Proprio il linguaggio figurativo che Dryden utilizza, esemplifica le immagini della colonizzazione. Il traduttore, afferma Dryden, e` colui il quale «works on someone’s plantations. The translator grows and prunes the vine but cannot drink the wine», cioe` coltiva la vite, ma non ne puo` bere il vino. Moltissime sono le immagini che evocano l’inferiorita`, la mancanza di liberta` del traduttore ed e` curioso come Dryden, proprio nel suo lavoro di traduzione, peraltro straordinario, non obbedisse affatto ai precetti che indicava agli altri. Va precisato, a tal proposito, che chi studia la traduzione deve tener presente l’abisso che divide la teoria dalla pratica. Chi ha a che fare con la teoria, infatti, puo` non conoscere direttamente la pratica, o svolgerla per fini diversi. Vorrei ora tornare al cannibalismo. In India, in Brasile, a Hong Kong, in Canada, si stanno svolgendo studi di teoria della traduzione che mi hanno aperto gli occhi su concetti totalmente nuovi, sui quali noi in Europa non abbiamo mai riflettuto. Mi riferisco in particolare all’idea che l’atto di tradurre sia di per se´ un atto di violenza. Tenjansiun Immerangiana ha studiato la storia della traduzione dei testi indiani in inglese e, allo stesso tempo, ha esaminato anche il modo in cui veniva usata la traduzione nel processo stesso della colonizzazione. La sua prospettiva e` in qualche modo inquietante: la studiosa insiste nel sottolineare che la traduzione non e` mai un atto innocente, poiche´ sussiste sempre un rapporto di potere fra il traduttore, il lettore e l’autore del testo originale. E` qui che entrano in gioco la teorizzazione del postcolonialismo e la riflessione sui rapporti ineguali fra culture. Consideriamo, ad esempio, il caso del rapporto fra cultura indiana e cultura inglese durante il periodo della colonizzazione, cosı` come viene configurato in un’opera ormai famosa, Indian Minute, scritta nel 1835 da Lord Macaulay allo scopo di proporre ai colonizzati (gli indiani) i testi della cultura inglese come modelli di riferimento1. Macaulay affermava che le letterature dell’India e dei paesi arabi non valevano un solo scaffale di una buona biblioteca europea – «not worth one shelf of a good European 1

Il titolo completo e` Minute on Indian Education.

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library» – e che, dunque, le letterature non sono uguali. A questo punto dobbiamo cercare di capire cosa succede se alla presunta ideale uguaglianza su cui si fonda l’atto di traduzione fa riscontro una netta diseguaglianza fra due culture. Vorrei citare a tal proposito un passo tratto da un libro dello studioso Vincent Rafael, che discute della colonizzazione delle Filippine e del diverso rapporto nei confronti della traduzione fra il popolo Tagalog delle Filippine e gli spagnoli: For the Spaniards translation was always a matter of reducing the native language and culture to accessible objects [la traduzione era sempre un atto di riduzione; n.d.r.]. For the translation was a process less of internalizing colonial Christian conventions than of evading the totalizing grip by marking the differences between their language and interests and those of the Spaniards.

Abbiamo quindi due concetti molto diversi di traduzione nel periodo coloniale. La traduzione come strumento di neutralizzazione della diversita` (per gli spagnoli) in un momento di diffusione del colonialismo, e allo stesso tempo come strumento di difesa e affermazione della differenza, cosı` come viene usato dal popolo Tagalog, nel suo rifiuto di essere assorbito. Si tratta, dunque, di due concetti completamente diversi di traduzione, e sarebbe utile studiare – cosa che non e` stata ancora fatta finora – in che modo due concetti cosı` diversi si riflettessero nella pratica della traduzione stessa. Vorrei ritornare al problema dell’originalita` – una categoria, come abbiamo visto, sorta in tempi abbastanza recenti – per riferire quanto afferma Carlos Fuentes in un saggio in cui parla di un suo romanzo, Aura, nel quale utilizza testi tratti da diverse letterature europee e li riscrive. Fuentes afferma che l’originalita` e` una malattia: «Originality is a sickness, the sickness of a modernity that always aspires to see itself as something new». Fuentes dunque stabilisce un nesso fra modernita` e originalita`, laddove quest’ultima viene intesa come una malattia che spinge chi crede in essa a volersi vedere sempre «rifatto». Riflettendo ancora sull’America Latina, vorrei richiamare l’attenzione sul ruolo avuto nella colonizzazione spagnola da una figura potentissima, di cui parla anche Octavio Paz, quella di Malinche, l’amante di Cortes che faceva da interprete fra gli indigeni e gli spagnoli. Come sempre accade quando si affronta il problema della traduzione, il ruolo di Malinche puo` essere interpretato in due modi. Possiamo considerarla come la grande traduttrice e traditrice che tradı` il suo popolo aiutando i Conquistadores al

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loro arrivo, oppure, allo stesso tempo, come colei che cerco` di mediare fra due mondi complementari. Siamo in realta` di fronte a una figura estremamente complessa che mi piace presentare ai miei studenti, proprio perche´ l’ambiguita` della sua posizione mi sembra di grande importanza per riflettere sulla difficolta` di definire il ruolo del traduttore in un paese dove i nuovi arrivati (i colonizzatori) cercano di conquistare il potere assoluto. Quella di Malinche rimane una figura molto interessante per comprendere il problema della traduzione. Ritorniamo ancora alla metafora del cannibalismo, una metafora importante per il traduttore perche´ essa comprende non solo il concetto di sacrificio, ma anche quello di «digestione». Spesso i traduttori utilizzano questa metafora. Madame de Gourmet, ad esempio, gia` nel seicento parlava della sua opera di traduzione come di un atto di digestione. Il cannibalismo implica naturalmente anche una metamorfosi, e questa mi sembra una parola che stiamo perdendo di vista nella traduzione. Infatti anche quest’ultima necessariamente sottintende una metamorfosi, che non deve venir sempre considerata come una diminuzione o un impoverimento. Abbiamo anche detto che l’atto di cannibalismo per chi lo compie e` un atto di omaggio, ed e` in questo senso che i due grandi traduttori brasiliani Augusto e Araldo de Campos interpretano la traduzione: la possibilita` di rifare, di ricreare l’originale e quindi allo stesso tempo come un atto di omaggio e di liberazione dal potere dell’originale. Dietro tutto il lavoro che stanno svolgendo i colleghi indiani, canadesi, brasiliani, etc. c’e` sempre questa idea della liberta`; come dice Octavio Paz, il poeta fissa i segni linguistici in una forma perfetta che non puo` essere cambiata, e il dovere del traduttore e` di liberare i segni, di ricreare. La traduzione, quindi, diventa un atto di liberazione, un atto che possiamo definire di guerriglia. I De Campos, ad esempio, hanno tradotto il Faust di Goethe in un’edizione di quaranta pagine, scegliendo di offrire ai lettori brasiliani quello che poteva essere utile per loro. Ancora i de Campos hanno tradotto la poesia di Blake To a Sick Rose nella forma di una poesia concreta. Tutte queste strategie sono state adottate al fine di evitare che la traduzione venisse considerata una copia, qualcosa di minore rispetto all’originale. Prima di concludere e` necessario ricordare che nel mondo anglofono oggi si sta verificando un fenomeno molto particolare. Tutti sappiamo che l’inglese sta diventando una lingua globale, che tutti devono studiare. Ne consegue pero` che mentre un numero crescente di persone diventa bilingue o plurinlingue, il mondo anglofono diventa sempre piu` miseramente monolingue e sempre piu` monoculturale. Non e` un caso allora che, proprio a

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partire dall’inizio degli anni novanta, la metafora della traduzione sia stata usata da tanti critici decostruzionisti e postcoloniali inglesi, americani, australiani, etc. La centralita` assunta dalla metafora della traduzione e` dovuta al fatto che, come ci dice Homi Bhabha, essa ci aiutera` a superare il monoculturalismo e il monolinguismo, ed e` in diretto rapporto con la nozione di hybridity (ibridazione), ritenuta molto importante da questi 2 teorici . Chiudero` leggendovi una citazione da Homi Bhabha, di madre lingua inglese ma di cultura diversa, come oggi accade a molti nel mondo anglofono (ritorniamo qui a un problema cruciale della traduttologia, che e` quello del rapporto tra cultura e lingua; non basta conoscere la lingua, anzi spesso e` meno importante conoscere la lingua che certi aspetti della cultura dalla quale essa deriva). Homi Bhabha cerca di formulare quello che per lui e` lo spazio ideale per il mondo del postcolonialismo: We should remember that it is the inter [parola inventata, n.d.r. ], the cutting edge of translation and renegotiation, the in-between space that carries the meaning of culture.

Il significato di una cultura si esplica in questo spazio liminale. E` interessante vedere quanti studiosi e traduttori ritornino a questa idea della liminalita` perche´, per finire con il cannibalismo, soltanto in uno spazio liminale possiamo arrivare a comprendere perche´ i Tupinamba hanno visto l’atto del mangiare il prete come un atto di omaggio, un atto normale nella loro cultura, mentre in Europa e` stato interpretato come violazione del tabu` assoluto. Quindi, se vogliamo diventare traduttori, se vogliamo vivere in questo mondo del dopo colonialismo, dell’ibridazione, dobbiamo essere capaci di capire e valutare tutti e due questi momenti. (Revisione e note a cura di Maria Rosaria De Bueriis)

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Il termine inglese corrispondente all’italiano ibridazione dovrebbe essere hybridization, ma ho ritenuto opportuno lasciare, con la dovuta correzione dello spelling, il termine usato dall’autrice.

L’AUTOTRADUZIONE di Jacqueline Risset

Il tema che trattero` richiede un passo indietro rispetto a quello che ha detto Susan Basnett sulla traduzione come liberazione, come emergenza di uno spazio tra le lingue. Uno spazio creativo e di metamorfosi che mi e` particolarmente caro. Tuttavia, per parlare di autotraduzione, devo soffermarmi sulla la mia esperienza, e su questa costatazione di partenza: se la traduzione, come la concepiamo oggi, come la concepisce chi scrive e chi traduce oggi, si definisce come spazio di esplorazione e non piu` di sacrificio, come possibilita` di nuovi rapporti tra le lingue e non piu` di rifiuto o denegazione di Babele – il Medioevo evocava «la catastrofe di Babele» –, l’autotraduzione si presenta un po’ come il versante negativo della traduzione. In effetti, portare un testo proprio in una lingua diversa introduce ad un’esperienza desolante: alla rottura di quello che Dante chiamava «legame musaico», cioe` a dire la perdita della «dolcezza ed armonia» del testo originario, cosı` evocata nel Convivio: «E pero` sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si puo` de la sua loquela in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia».

Questo legame musaico – che nel Paradiso Dante definisce «latte delle Muse» – indica la creazione di una continuita`, l’invenzione di una temporalita` diversa, di una fluidita` che porta con se´ il lettore e che si puo` dire effetto necessario della poesia. Il primo gesto della traduzione e` quello di sciogliere cio` che il testo poetico ha legato – si direbbe oggi separare significante e significato. Si definira` cattiva traduzione quella che interrrompe con brutalita` evidente la continuita` poetica originaria: il lettore che gia` si riteneva all’interno del testo, si risveglia all’improvviso, e in questi

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momenti di brutale ricaduta sulla terra, esclama, tra se´ e se´: «Ah, si trattava soltanto di una traduzione!». L’autotraduzione inizia appunto con questa percezione della rottura del legame musaico, che chi si autotraduce sa, ricorda di aver creato. Si puo` intendere l’intensita` di questa delusione se si pensa alla definizione che Mallarme´ ha dato dell’atto poetico, e a quella, piu` recente, di un linguista psicanalista Ivan Fonagy, secondo il quale la poesia e` «motivazione e rimotivazione della lingua». In altri termini, la poesia abolisce cio` che i linguisti chiamano «arbitrarieta` del linguaggio» – il linguaggio non corrisponde direttamente alla cosa; ogni lingua sceglie vie diverse – e la scoperta di questa non-unicita`, di questa non necessita` puo` provocare un risveglio crudele. «Come? quella parola che per me era la realta` stessa ammette parole concorrenti, che non mi appartengono, che non riconosco?...». Eppure, grazie alla poesia, si puo` riuscire di nuovo, come nell’infanzia, ad avvertire questo rapporto di necessita`, miracolosamente ritrovato, restituito. Si tratta, e` evidente, di cio` che Platone chiamava il cratilismo – Cratilo, diversamente da Socrate, era convinto che ci fossero legami necessari tra le singole parole e le realta` designate – . Il compito della poesia potrebbe dirsi quello di assicurare (inventandone la possibilita`) questo legame «necessario» tra suono e senso, sicche´ accada di sentire, all’improvviso, di vivere in un mondo motivato, in un mondo in cui le cose rispondano alle cose, in cui le parole rispondano alle cose e viceversa. E` in effetti quanto avviene quando si crea una poesia. L’atto di tradursi equivale quindi a distruggere cio` che si era precedentemente creato, cioe` il senso della necessita`. Senso e suono appaiono di colpo corpi estranei, e il loro provvisorio avvicinamento un’operazione artificiale e fragile. In verita`, non e` il tradurre, non e` la traduzione ad essere crudele; e` piuttosto il fatto che in quell’occasione si e` posti di fronte all’inutilita` dello scrivere, di fronte alla natura temeraria dell’impresa che e`, dopo tutto, lo scrivere. Appare allora rassicurante l’affidarsi a qualcuno che traduce per voi; ancor piu` rassicurante se il testo viene tradotto in una lingua che non si conosce, perche` se ne trae l’impressione di ritrovare, di riavvicinare un mistero – Le myste`re dans les lettres, secondo Mallarme´... E in effetti e` proprio il mistero dell’adeguamento totale che l’autotraduzione interrompe. Eppure questa crudele esperienza ha un senso. Samuel Beckett, come e` noto, scrive i suoi primi romanzi in inglese. In seguito, trasferitosi in

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Francia, Beckett inizia a scrivere in francese. Ma poi, nell’ultima parte della sua vita, prende a ritradurre in inglese alcuni testi che precedentemente aveva scritto in francese. Operazione complessa e sorprendente; la si puo` comprendere soltanto se si ammette che cio` che interessava allora Beckett era di operare su uno spazio che si puo` definire spazio tra le lingue; fino ad intaccare una credenza, ingenua ma ben radicata, quella dell’autosufficienza delle lingue. In effetti, (e` gia` evidente nel primo periodo inglese) cio` che Beckett tenta di ritrovare all’interno della lingua materna e` precisamente la lingua straniera. In una lettera del 9 luglio 1937, indirizzata all’amico tedesco Axeel Kaun, dichiara: «Sta diventando per me sempre piu` difficile, addiritura insensato, scrivere in un inglese ufficiale. E, in misura sempre maggiore, la mia stessa lingua mi appare come un velo di cui sbarazzarsi per riuscire ad arrivare alle cose (o all’assenza di qualsiasi cosa) dietro di esso.»

Questo tentativo di sbarazzarsi del velo della lingua, Beckett lo proseguira` in seguito – in senso inverso – con il francese. Quel che egli cerca e` in qualche modo una babelizzazione volontaria, consapevole, attraverso una sorta di inquietudine che egli insinua nella lingua dei suoi personaggi. Inquietudine che non riguarda solo gli avvenimenti che essi raccontano e i sentimenti che li coinvolgono, ma il tessuto stesso, le certezze di base sulle quali poggiano le parole che usano. La scrittura che Beckett vuole e` quella capace di «strappare» la lingua, e si domanda se non vi sia «una qualche sacralita` paralizzante nella natura viziosa della parola che non si trova negli elementi delle altre arti». La duplice traduzione non ha per funzione ne´ per scopo di riuscire ad attingere ad una supposta «trasparenza» delle lingue, ma quello di toccare concretamente la differenza delle lingue, di modo che si arrivi a concepire una «traduzione senza originale», a inventare una vera «poetica della traduzione». L’io dell’Innommable dice: «Je suis tous ces mots, tous ces e´trangers» («Sono tutte queste parole, tutte queste persone straniere». L’esperienza di Joyce autotraduttore e` altrettanto sorprendente, ma in una prospettina diversa. Quando una prima volta si preoccupo` della traduzione di Finnegans Wake, fu quando venne in soccorso di un gruppo di traduttori francesi (tra i quali lo stesso Beckett, accanto a Valery Larbaud e a diversi altri), che avevano iniziato a tradurre due brani della sezione di Anna Livia Plurabella (uscirono ne «La Nouvelle Revue Franc¸aise», n. 212, 1931), e che ben presto avevano dato segni di scoraggiamento. Joyce si

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accosto` con qualche interesse, ma senza appassionarsi, e si ritrasse ben presto. Piu` tardi, nel 1938, mentre era ancora in Francia, fu egli stesso a decidere di tradurre in italiano gli stessi brani da Finnegans Wake, e chiese per questo aiuto al suo amico Nino Franck. In un secondo momento subentro` Ettore Settanni, il quale propose di cambiare alcune parole, che giudicava pericolose per una pubblicazione nell’Italia fascista dell’epoca. Entrambi tuttavia riconobbero che quella traduzione era interamente opera di Joyce (il quale, com’ e` noto, conosceva l’italiano al punto di praticare i dialetti e di parlare in famiglia, fino alla fine, in triestino). Come il resto di Finnegans Wake, i due brani di Anna Livia sono costellati di lingue straniere, anzi si possono definire un mosaico di lingue giustapposte, dove inglese, irlandese e gaelico (realta` interne alla lingua inglese) coesistono con tedesco, francese, latino, italiano, ecc.... E l’aspetto straordinario della versione italiana e` in questo che tale mosaico ne risulta eliminato, sostituito da una lingua italiana composita, da laboratorio, i cui effetti poetici rimandano a «padre Dante». Al punto che Joyce puo` essere detto discepolo, anzi il discepolo di Dante (diversamente da Petrarca, Dante non ha avuto discepoli). Ma Joyce cosa vedeva in Dante? Indubbiamente colui che aveva collegato in un linguaggio poetico unitario una varieta` straordinaria di linguaggi diversi, cioe` a dire i vari volgari. Ma non solo; Joyce imita Dante, quell’universo che Dante e`. Linguisticamente, attraverso Dante egli percepisce l’italiano come lingua eminentemente plurale. Non e` necessario ricorrere ad altre lingue, perche`, al di la` dell’esperienza dantesca ma nel prolungamento di essa, l’italiano contiene gia` le lingue straniere, e` a se stesso il proprio straniero. Oltre ai dialetti, il dialetto triestino in particolare, i due brani di traduzione italiana di Finnegans Wake contengono campioni di lingue diverse: la lingua di Dante, prima di tutto, la lingua dell’Opera, dei libretti d’Opera (che Joyce considerava quasi una lingua a se´), la lingua di D’Annunzio, che collocava tra i dialetti come un prezioso idiolecte. Inoltre appaiono nel testo, attraverso le parole dell’epoca, diverse allusioni alla realta` italiana (storica, politica, culturale) di quegli anni: cosı` il termine «gerarca» (censurata da Ettore Settanni nella versione pubblicata su «Panorama» nel 40, cosı` il nome Marc’Aurelio (il giornale satirico piu` famoso, sul quale scrivera` piu` tardi Federico Fellini), deformato comicamente in modo da farci entrare il raglio dell’asino – in «MarcOraglio» («Il MarcOraglio l’ha ben strombazzato»).

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Joyce manifesta in questo modo il desiderio – e anche la convinzione – di una traducibilita` totale: cioe` della possibilita` di trasportare tutte le lingue usate nell’originale all’interno di una sola che le contenga o le rispecchi tutte. Questo gesto equivale all’affermare la straordinaria eterogeneita`, la qualita` babelica dell’italiano – non si parla piu`, come si faceva al tempo di Dante, di «catastrofe babelica». L’autotraduzione prende per Joyce il senso di un esperimento linguistico, e allo stesso tempo di una sorta di proclama, che nessuno in quel momento comprende. Un proclama ironico: nel momento in cui il Duce vietava agli italiani le parole straniere, Joyce componeva un’ inno alla lingua italiana come lingua fatta di lingue straniere: una lingua che proponeva il contrario della omogeneita` ciceroniana cui aspirava la cultura di quel periodo. Si potrebbe addirittura sostenere che Joyce, in questo suo ultimo lavoro, rifa` l’esperienza di Dante al contrario: la` dove Dante crea una lingua nazionale, Joyce disfa` tutte le lingue. E lo fa portando alla luce il «fondo traduttivo» di ogni scrittura. In effetti l’autotraduzione, stratificata e contraddittoria, e` insieme interpretazione delle realta` linguistiche in gioco tra lingue diverse, e anche autointerpretazione. Joyce, Beckett, come ogni autotraduttore, non hanno scelta: non possono avere l’ingenuita` di credere di stabilire una equivalenza totale tra due lingue; devono compiere fino in fondo cio` che alcuni poeti del romanticismo tedesco, come Novalis e Schlegel, attribuivano alla traduzione in generale: la capacita` di entrare nel laboratorio dello scrittore, in quello spazio che precede e prepara l’opera. Quando si traduce l’opera di un’altro, questa operazione si fa necessariamente, perche` si deve capire, si devono porre domande al testo; ma anche compiere scelte che sono proprie dell’ interpretazione. Per mio conto, traducendo Dante, avevo notato che nei punti in cui Dante e` il piu` «polisemico» (espressione che usava lui stesso nell’ Epistola a Can Grande a proposito del Paradiso: Questa opera puo` dirsi «polisema») non si puo` lasciare una uguale pluralita` nel testo tradotto, pluralita` che equivalerebbe in questo caso a mantenere il senso nel vago; non v’e` scelta, non si ha diritto all’ambiguita`. E questo e` uno degli aspetti di maggior costrizione dell’atto di tradurre. Il traduttore non puo` essere vago; non ha il diritto di suscitare un flou poetico intorno alla sua traduzione. Tradurre e` scegliere, e` interpretare. Ad esempio, di fronte alle note – alle terribili note della Commedia, quelle che nelle edizoni italiane occupano piu` spazio del testo – mentre il lettore puo` contemplare e addizionare in qualche modo nella sua lettura le diverse interpretazioni, quella di Barbi, quella di Pietrobono, quella di Contini, ecc.., tutte molto

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interessanti, anche se si contraddicono, il traduttore e` costretto a scegliere una interpretazione; se non lo fa, nulla funziona nel testo, il passo perde il rapporto con il contesto. E` parte dei compiti del traduttore avvertire questa necessita` di scegliere, di entrare nel laboratorio; tanto da poter sostenere: «Quando Dante scriveva questo, intendeva questo»... Ma cosa autorizza un traduttore a presumere in tal modo? Probabilmente il fatto che egli instaura con l’autore una vicinanza altrimenti difficile ad ottenere; entra in un rapporto confidenziale con l’opera stessa; gli sembra di poterne afferrare la logica interna. Yves Bonnefoy (grande poeta e grande traduttore, di Shakespeare e di Yeats, in particolare), afferma che una delle difficolta` della traduzione consiste nel fatto che non si tratta di tradurre verso per verso, bensi di ritrovare, in ogni poesia una sorta di filo invisibile, che consiste in una «dimostrazione» che il testo fa, a diversi livelli contemporaneamente. Occorre non abbandonare, non perdere questo filo; occorre rimanere in quel luogo dove le cose si vengono elaborando e dove appare chiaro che potrebbero, da un momento all’altro, essere altre. Assaporare questa liberta` nel tradurre guarisce dal feticismo del testo. Quando si osserva un testo compiuto, definitivo, che ci comunica l’idea della necessita`, la nozione della necessita` assoluta – come in Shakespeare, in Dante, in Baudelaire – allora si ha la convinzione che non si puo` toccare nulla in quei versi. Mentre invece traducendo si e` costretti a toccare, si tocca l’attimo immediatamente precedente alla creazione, quello nel quale esistevano ancora diverse possibilita` (ed e` proprio in cio` l’interesse maggiore di questo strano esercizio). La passione che i traduttori mettono nel loro lavoro, viene proprio, mi sembra, da questi punti fuggevoli di coincidenza con l’attimo che precede. Nell’autotraduzione questi fenomeni assumono un rilievo particolare. In effetti, nella scrittura, generalmente, un testo finito e` veramente finito, non se ne parla piu`, si pensa al successivo. Ma quando si traduce un proprio testo si e` costretti a riaprire quella stanza abbandonata; e una volta aperta, occorre muoversi al suo interno, occorre rimetterne in gioco gli elementi. Ho fatto questa esperienza con Amour de loin, un mio libro di poesia, che ho tradotto in italiano – esperienza dolorosa e interessante. E` scritto nella prospettiva dei Troubadours, poetica che oggi, alla fine del ventesimo secolo, improvvisamente, ci e` diventata piu` vicina. Tracce di amor cortese appaiono in luoghi inaspettati, nei romanzi di Marguerite Duras, ad esempio, che sono ad esso molto vicini (nella problematica del desiderio amoroso, nel rapporto tra Eros e Impossibile, tra Eros e canto).

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Traducendo Amour de loin ho dovuto riimmergermi in questa problematica a partire da difficolta` molto concrete e a volte molto locali nel passare dal francese all’italiano, lingue che operano scelte diversissime. Nella traduzione mi sono trovata ad esempio, a dover affrontare quella che e` per me la presenza molto forte, incombente, delle preposizioni italiane. Esse hanno in effetti un’evidenza che le rende centrali all’interno della frase, mentre in francese, in qualche maniera, appaiono piu` lievi – «plus solubles dans l’air» (Verlaine) –. Dipende forse dal fatto che quando ci si rivolge ad una lingua che si conosce, ma che non e` la lingua materna, avviene una messa in evidenza molto piu` forte. Come se la lingua materna fosse, rispetto all’altra, meno visibile, piu` neutra; come se fosse possibile lavorarvi piu` liberamente. Mentre, invece, la lingua straniera si presenta allo stesso tempo, come una serie di norme rigide, e come portatrice di un’evidenza, con un aspetto di concretezza nelle singole parole, che risulta difficilissmo aggirare. Mi sono quindi trovata, nell’atto di tradurre, a dover attenuare e in certi casi cancellare alcune presenze, e cio` mi ha fatto percepire che quel che stavo facendo era anche una operazione sulla mia poesia; che la versione italiana non era estranea come poteva apparirmi; e che forse mi costringeva a andare piu` in la` di quanto non fossi andata nella versione francese. Qualche esempio. Nel testo originale, intitolato Paradise, Sur la terrasse dans le menu du grand hoˆtel pre`s de la mer

e` diventato in italiano, senza che io lo volessi, quasi da solo: Terrazza, menu del grand hotel vicino al mare

Le due preposizioni che operavano una localizzazione sono scomparse; rimane il luogo, senza che venga esplicitato il rapporto di relazione. Era in realta` proprio quello che volevo ottenere, e che non avevo forse avuto ancora il coraggio di fare in francese. Si danno anche casi quasi comici, quando ad esempio la preposizione italiana ha un senso, o introduce significazioni che non esistono nell’originale. Ad esempio, in Les phe´nome`nes d’amour, Avec rire et docilite´

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diviene Con riso e docilita`

In francese formano due righe estremamente brevi – impercettibilita` dei fenomeni amorosi; in italiano invece le ho dovute ridurre a una riga sola, perche´ l’espressione «con riso» poteva introdurre un equivoco, far immaginare anche, chi sa, anche pomodori... Ponendo in continuita` «Con riso e docilita`», si permette che il giusto senso prevalga. L’espressione «avec rire» collegata a docilite´, fenomeno di natura diversa, risulta insolita in francese; non lo e` in italiano, ma tenevo a questo rapporto di accompagnamento, che avec in francese, introduce in maniera piu` forte e per cosı` dire piu` attiva della preposizione italiana. Facendo di due versi uno solo, creo una figura psicologica fatta di queste due componenti viste come indissociabili, (il ridere e una sorta di sottomissione) e questa figura diventa emblematica della situazione di amore, del paradosso amoroso in se´, la cui definizione e` precisamente l’oggetto del libro. Esempi minuti ma che rivelano come l’autotraduzione, con le costrizioni e le scelte che impone, si realizza in realta` come una ripresa della scrittura, delle ragioni della scrittura, e quindi come una sua nuova tappa in fieri. Paul Vale´ry sosteneva che una poesia non e` mai veramente finita; e Yves Bonnefoy: «una poesia e` meno della poesia». L’autotraduzione aiuta a raggiungere non la fine ma l’operazione di compimento infinito che e` la scrittura, e da anche un senso piu` vivo e meno provocatorio alla frase di Borges: «Un testo e` l’insieme delle sue traduzioni». Nell’autotraduzione rimaneggiamenti, manipolazioni e mutilazioni sono consentiti. Puo` accadere ad esempio di togliere versi e di accorpare parole. Sempre in Amour de loin, la strofa: double mythe miroir reˆve re´percute´ tendre lecture des livres des signes

diviene mito duplice memoria tenera lettura dei libri segni

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E` scomparso un rigo e mancano due parole – miroir e reˆve – ambedue semanticamente cariche e centrali. Viene al loro posto una parola sola, «memoria». Sono state quindi espulse le parole che in italiano non sono correlate dall’aspetto fonico: in francese le parole mythe miroir si legano tra di loro grazie al fonema ripetuto mi – ; se nella versione italiana scrivessi doppio mito specchio, non sarebbe stabilito nessun rapporto fonico interno; specchio emergerebbe allora con una violenza, con un’evidenza non assimilabile nel verso, perche´ non assorbita dall’assonanza. Ho quindi abbandonato la traduzione di miroir e di reˆve e sostituito entrambi con memoria, che e` da sola, se vogliamo, specchio e sogno insieme. Nell’autotraduzione avvengono un’infinita` di operazioni di questo tipo, che sono operazioni «pratiche» e locali, ma che costituiscono anche, di per se´ riflessioni di poetica, nonche´ letture dell’insufficienza, dell’ incompiutezza di testi che si potevano credere finiti. Ma nel momento in cui si lavora – e questo e` il miracolo del lavoro poetico che la traduzione e` anch’essa – l’insoddisfazione, il senso di crudelta`, di inutilita` (la rottura del «legame musaico») si trasforma in una nuova gioia del farsi. Non solo si sopporta il pensiero di aver scritto una poesia incompiuta grazie a questa gioia del riflettere, del capire qualcosa di piu`, ma in cio` ci si scopre riportati, come per magia, a quell’istante della nascita, della creazione che si credeva scomparso, ormai spento. Invece si riapre e svela colori nuovi, forme inattese, pensieri inediti. Quel che Proust scrive ne Le Temps retrouve´ – che «la vraie vie est la litte´rature, la vie enfin e´claircie» – aiuta a chiarire che la traduzione e` intelligenza, espansione e nascita della scrittura, «Vita nuova».

Bibliografia di riferimento Beckett, S. 1949. Three dialogues with George Duthuit, in “Transition” 5. — — 1958. Fourteen letters to Alan Schneider, in “The Village Voice”. New York (19 mars 1958). Berman, A. 1981. L’epreuve de l’e´tranger. Paris: Gallimard. Bonnefoy, Y. 1989. 45 poe`mes de Yeats. Paris: Hermann. Fonagy, I. 1972, Bases pulsionnelles de la phonation, in “La Nouvelle Revue de Psychanalyse” (Janvier 1972). Joyce, J. 1962. Fragments de Anna Livia Plurabelle. Paris: Gallimard. 1978. Anna Livia Plurabella, in James Joyce, Scritti italiani. Milano: Mondadori. 1996. Anna Livia Plurabella, trad. di S. Beckett e altri. Torino: Einaudi.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

Risset, J. 1978. Joyce traduce Joyce, in James Joyce, Scritti italiani. Milano: Mondadori. — 1982. Traduire Dante, in Dante e´crivan. Paris: Seuil.

TRADURRE TEATRO (SHAKESPEARE): LA RESA LINGUISTICA E LA TRASMISSIONE DELL’ENERGIA di Alessandro Serpieri

La domanda iniziale che mi pare debba porsi il traduttore drammatico e` se esistano marche linguistiche, oltre che elementi strutturali e convenzioni di genere, che contraddistinguano in maniera specifica il dramma rispetto agli altri generi letterari. Se e` del tutto evidente il fatto che qualsiasi testo drammatico viene concepito dall’autore per essere recitato e non (o meglio non solo) per essere letto privatamente (a parte certi poemi drammatici romantici), piu` controversa e` la questione della specificita` del linguaggio drammatico rispetto agli altri linguaggi. C’e` chi avanza dubbi su tale specificita` sulla base di alcune sperimentazioni che, soprattutto in tempi recenti, hanno portato in scena testi non drammatici. Io, tuttavia, ritengo che testi poetici o narrativi, non concepiti originariamente per il teatro, debbano, per entrare in scena, essere sottoposti ad una piu` o meno esplicita drammatizzazione, che faccia sı` che le parole di cui si compongono prendano voce, e quindi nuovo senso, nella interpretazione dell’attore, nella intonazione che egli ne da`, nei riferimenti che egli ne fa con il suo corpo, e, quindi, che quelle parole trovino la loro situazione enunciazionale, articolandosi nello spazio-tempo scenico che le rendera` non solo letteratura, con la sua semantica espressiva e comunicativa, ma «azione parlata», come Pirandello definiva il dramma. E non tutti i testi non drammatici supereranno comunque la prova della scena. Susan Bassnett, che e` stata per anni una delle voci piu` autorevoli sulle problematiche teoriche della traduzione drammatica e ha condiviso per anni l’idea della specificita` del testo drammatico, sembra ora rivedere le sue posizioni in un saggio intitolato «Still Trapped in the Labyrinth: Further Reflections on Translation and Theatre» (in S. Bassnett & A. Lefevere,

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Constructing Cultures, Multilingual Matters, Clevedon 1998) si dice appunto persa nel labirinto, ma a me pare che la via d’uscita sia sempre quella che sembra avere smarrito. E cioe` quella della necessaria individuazione da parte del traduttore della articolazione scenica ‘‘nascosta’’ in vari modi nel testo drammatico, nel suo linguaggio apparentemente tutto letterario. Nello scrivere un dramma, qualsiasi autore ha in mente la propria rappresentazione, i modi con cui le parole che verga sulla pagina devono o possono essere dette, scandite, accompagnate da mimica e gestualita`, riferite a personaggi o oggetti o spazi scenici o addirittura al pubblico; e quindi le parole che scrive recano, per cosı` dire, tale intenzione inscritta nel loro corpo. Tale virtualita` teatrale del linguaggio drammaturgico, sia ben chiaro, non obblighera` registi e attori ad una sola attualizzazione scenica, fosse anche quella prescritta esplicitamente, con didascalie o interventi paratestuali, dall’autore (come nel caso di Pirandello o di Beckett). E tuttavia e` quella virtualita` scenica a caricare le parole drammatiche della energia che predispone il testo alle varie e indefinite messe in scena che da esso si potranno ricavare. Nel caso dei tragici greci, come di Shakespeare, tale virtualita` non ha alcun supporto prescrittivo, contenendo ben poche didascalie e non essendo confortata da alcuna dichiarazione paratestuale degli autori (ma si veda la lezione sul teatro che Amleto tiene agli attori nella seconda scena del terzo atto, lezione in cui significativamente insiste sulla giusta intonazione, sulla adeguata gestualita` e soprattutto sulla necessita` di adattare «il gesto alla parola, e la parola al gesto», correlando cosı` in modo inestricabile il linguaggio alla voce e al corpo dell’attore). Ma e` proprio in questa drammaturgia quasi priva di indicazioni sceniche che risulta paradossalmente piu` forte la predisposizione teatrale del linguaggio drammatico. Shakespeare, sembra, non aveva bisogno di indicare in didascalia l’azione scenica, perche´ sapeva implicitarla nelle battute dei personaggi. Molti critici e molti teatranti sono intervenuti negli anni, se non nei secoli, su questa virtualita` scenica dei suoi drammi. Si veda, per tutti, Peter Brook, che in Il teatro e il suo spazio avvertiva: «Siamo guardinghi: dietro ogni segno visibile sulla carta se ne cela uno invisibile, difficile da cogliere». Questo insieme di segni invisibili, costituisce lo «acting subtext» o «gestic text» (con riferimento al gestus di Brecht in quanto atteggiamento, fisico intonazionale mimico ecc., di ogni personaggio rispetto agli altri e alla scena), di cui i teorici del dramma e/o della traduzione drammatica parlano, o per evocarne vagamente la presenza quasi ectoplasmatica, o per cercare di definirne le peculiarita` linguistiche e semiotiche, oppure, come e` il caso negli

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ultimi tempi della Bassnett e di altri, per rimetterlo radicalmente in questione. Io sono convinto che, comunque lo si voglia chiamare, questo “testo scenico” inscritto nel testo drammatico, questa disposizione testuale del dramma alla propria rappresentazione, esista e sia indagabile a molti livelli, linguistici ed extralinguistici. La Bassnett ha perso fiducia nei concetti di “performability” (rappresentabilita`) e “speakability” (dicibilita`, pronunciabilita`) che il traduttore dovrebbe cogliere nel testo originale e rendere, per quanto possibile, nel suo testo. Li ritiene troppo vaghi e quindi inutili. A mio parere, e` una dichiarazione di sconfitta, teorica ed empirica, che riduce il compito del traduttore drammatico all’«ınterlingual transfer of a piece of writing», alla «trasposizione interlinguistica di un pezzo di scrittura», assimilato a qualsiasi altro testo letterario. La mia pratica di traduttore drammatico, soprattutto di Shakespeare, mi ha invece sempre confermato, grazie anche al contatto diretto con i teatranti, che il linguaggio del dramma e`, sı`, letteratura, ma una letteratura tutta particolare in quanto contiene un programma specifico, quello per cui le parole, tutte le parole – anche quelle apparentemente descrittive, anche quelle apparentemente narrative, anche quelle apparentemente solo liriche – devono essere dette e agite nel qui-ora della scena acquistando una pregnanza, sia semantica che pragmatica, che la pagina, se vista solo come scrittura letteraria, non manifesta. E si puo` far ricorso ad un grande linguista come Roman Jakobson per orientarsi meglio. Egli ci ha offerto una interessante categorizzazione dei vari tipi di traduzione che interessano l’incessante lavoro delle culture: di ogni cultura al suo interno e nei suoi rapporti con altre culture. Cfr. ‘‘Aspetti linguistici della traduzione’’ in Saggi di lingustica generale, Milano 1966. C’e` una traduzione endolinguistica che «consiste nella interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua»: e` l’operazione «traduttiva» di qualsiasi atto interpretativo, ermeneutico, critico, parafrastico (ed e` l’operazione che, nel modo piu` semplice e comune, tutti noi facciamo quando andiamo a consultare il dizionario della nostra lingua). C’e` poi la traduzione in senso proprio, interlinguistica, che «consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua». Infine, c’e` la traduzione intersemiotica, o trasmutazione, che «consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi non linguistici» (si veda l’esempio classico del semaforo che, con le sue luci di diverso colore, traduce messaggi linguistici). La distinzione di Jakobson ci consente di affrontare con chiarezza il problema specifico della traduzione drammatica. Se il dramma viene consi-

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derato correttamente nella sua peculiarita` di testo linguistico concepito e strutturato per la scena, quindi come linguaggio che e` predisposto per la voce dell’attore-personaggio che lo dice, e dicendolo lo agisce (ed e` questo il livello performativo), e con esso si riferisce ad altri personaggi e a spazi e a oggetti e talvolta allo stesso pubblico (ed e` questo il livello deittico), la traduzione del dramma si presenta come traduzione linguistica, che tuttavia deve tenere conto, in prima istanza, della virtualita` scenica del testo originale che va immessa nella lingua in cui lo si volge. La traduzione drammatica sara`, pertanto, traduzione interlinguistica, come tutte le altre traduzioni, ma anche traduzione delle virtualita` intersemiotiche cui puntano i dispositivi testuali dell’originale (da non considerarsi limitati solo alle didascalie), in quanto deve cercare di inscrivere nel suo linguaggio un progetto di trasposizione intersemiotica, consegnando cosı` agli operatori teatrali specifici – regista, attori ecc. – un testo gia` volto, rivolto, alla scena. Portero` solo qualche esempio di tale trasposizione intersemiotica: esempi di deissi ostensiva che il traduttore dovrebbe far salva. Nel primo, Macbeth, appena divenuto re dopo l’assassinio di Duncan (III.1) cosı` riflette desolatamente: «To be thus is nothing / But to be safely thus» («Essere cosı` e` nulla se non si e` con sicurezza cosı`»); Macbeth deve ostendersi nella sua appena conquistata ma precaria regalita`, con la corona regale in capo e forse con lo scettro in mano; il doppio deittico thus e` disposto nella figura del parallelismo, figura letteraria, certamente, la cui forza e` pero` in prima istanza teatrale e non va sciolta nella traduzione con un ridondante «Essere re e` nulla se non lo si e` in maniera sicura» o soluzioni simili, perche´ e` il cosı`, thus, che porta il personaggio a ostendersi, a riferirsi al proprio rango e a vanificarlo nel mostrarne la precarieta`. Nel secondo esempio, Polonio, dopo aver annunciato al re, in II.2, di aver scoperto la ragione della “follia” di Amleto, dichiara di esserne sicuro al punto da scommetterci la vita: «Take this from this if this be otherwise» («Spiccate questa da questo se questo sta in altro modo»). Anche qui il gioco linguistico del reiterato deittico this e` figura linguistica dell’ampollosita` retorica di Polonio, ma e` anche, e piu`, figura scenica che non va risolta in una parafrasi «Tagliate questa testa da questo busto se questo che vi dico non risultera` vero». Un esempio ancor piu` interessante e` costituito dalla battuta di Amleto alla fine della terza scena del quarto atto: «Come, sir, to draw toward an end with you». C’e` tutta la sua macabra ironia in queste parole dette mentre sta trascinando via il corpo di Polonio. Il senso della frase e` «per chiudere i conti con voi», «per portare fino in fondo il discorso con voi», e

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ancora oggi qualcuno traduce: «Avanti, signore, facciamola finita». Ma il senso puramente linguistico della frase contiene una sovradeterminazione scenica attivata dalla accezione letterale del verbo «to draw» (secondo un procedimento tipico di Amleto nello spiazzare il discorso dei suoi interlocutori: ad esempio, Polonio in II.2 aveva preso congedo da lui con una formula cerimoniale «I will most humbly take my leave of you» e Amleto aveva dirottato l’isotopia letteralizzando il verbo e replicando «You cannot, sir, take from me any thing that I will more willingly part withal – except my life») che va a descrivere l’azione che sta compiendo mentre dice queste parole. Sta trascinando via il corpo, come conferma tutto il contesto: una sua frase subito precedente «I’ll lug the guts into the neighbour room»; la didascalia finale registrata dall’In-folio «Exit Hamlet tugging in Polonius»; l’inizio della scena subito successiva in cui Gertrude, alla domanda del re su dove sia andato Amleto, risponde: «To draw apart the body he hath killed». La mia resa e` stata: «Venite, signore, per tirare fin in fondo il discorso con voi». La correlazione semiotica che mi pare di avere individuata e` cosı` fatta salva. Questi pochi esempi possono dare un’idea di quella che prima ho chiamato traduzione della virtualita` intersemiotica del testo drammatico. Riassumendo, nel caso del dramma, non si tratta di tradurre soltanto la lingua, gli enunciati, le parole, ma anche la loro funzionalita` pragmatica, la loro energia enunciazionale, e il loro ritmo e la loro sintassi, che obbediscono sempre a situazioni sceniche, a scambi e a influssi tra personaggi, con la parola che si traduce in gesto o movimento o espressione o riferimento, e cosı` via. Fu nel tradurre Amleto, la mia prima e certo arrischiata esperienza, e nell’assistere alle prove, che io scoprii come la parola lineare di qualsiasi testo scritto diventi a teatro una parola, per cosı` dire, quadrata, o meglio cubica, tridimensionale, rivolta cioe` in piu` direzioni e legata ad altri sistemi espressivi: il mimico, il gestuale, il prossemico e il cinesico (per quanto riguarda il corpo dell’attore), nonche´ il sovrasegmentale (per quanto riguarda la voce dell’attore, l’intonazione, i cambi di registro, il ritmo). Inoltre, seguendo ancora la categorizzazione di Jakobson, va detto che, necessariamente, come qualsiasi altro tipo di traduzione, anche la traduzione drammatica, interlinguistica e intersemiotica, dovra` essere preceduta e accompagnata da un lavoro endolinguistico, che non mi pare dover riguardare solo i fruitori della stessa lingua del testo originale (per esempio, i lettori di madrelingua inglese dei testi shakespeariani), ma anche i fruitori di altre lingue, quando essi si accingano ad uno studio linguistico-critico di quel testo, ed eventualmente alla sua traduzione. La traduzione endolingui-

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stica e` di competenza della filologia, della storia della lingua e della stilistica, in quanto e` volta a interpretare i segni linguistici testuali per mezzo di altri segni della stessa lingua (come dice Jakobson), nonche´, aggiungo, per mezzo di altri segni linguistici della lingua letteraria d’epoca e, anche, della lingua dell’autore in questione: segni che possono mettere in grado di apprezzare le sfumature d’uso dei segni testuali, le loro valenze specifiche in quel particolare contesto. Insomma, tutti e tre i tipi di traduzione individuati da Jakobson devono, a mio parere, essere affrontati dal traduttore drammatico, anche se il suo risultato finale, il suo prodotto, il suo nuovo testo, consistera`, all’apparenza, soltanto nella traduzione propriamente detta, quella interlinguistica. Nel suo nuovo scetticismo teorico, la Bassnett raccomanda invece al traduttore drammatico di preoccuparsi solo della traduzione interlinguistica in senso stretto, perche´, nelle sue parole, «Andare alla ricerca di strutture profonde e cercare di rendere il testo “rappresentabile” non e` la responsabilita` del traduttore.» Quella responsabilita` verrebbe dopo e sarebbe di esclusiva competenza dei teatranti. Ma cio` contraddice anche l’esperienza dei teatranti stessi, a cominciare da Strehler che ha scritto: «Nel caso di un testo in lingua straniera, la prima operazione critica non puo` non essere quella della traduzione. Mi sentirei di affermare che la grande parte del “lavoro critico” della regia, in questo caso, e` strettamente legato al problema della traduzione. I due atti costituiscono o dovrebbero costituire una unita` profonda [ ... ]. La traduzione [ ... ] implica una serie di scelte drammaturgiche di cui lo spettatore non puo` fare a meno come non puo` e non potrebbe farne a meno il traduttore» (Strehler, ‘‘Inscenare Shakespeare’’, in Shakespeare e Jonson, a cura di A. Lombardo, Roma 1979).

E tuttavia la stessa Bassnett alla fine del suo articolo sembra contraddire il suo scetticismo e trovare di nuovo una via d’uscita dal labirinto affermando che «il traduttore deve impegnarsi specificamente con i segni del testo: cimentarsi con le unita` deittiche, i ritmi discorsivi, le pause e i silenzi, i cambi di tono o di registro, i problemi dei moduli intonazionali: in breve, gli aspetti linguistici e paralinguistici del testo scritto che sono decodificabili e ricodificabili.»

Che e` esattamente cio` che afferisce allo «acting subtext» inscritto nel testo drammatico e precedentemente da lei licenziato come indefinibile. Scrivere-tradurre per il teatro significa, per me, imparare: 1) a mettere il

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linguaggio in situazione; 2) a conferirgli l’energia propulsiva di un’azione che si sviluppa soprattutto attraverso il linguaggio; 3) a far emergere nelle battute dei personaggi le ragioni esplicite o implicite (ideologiche) del loro incontrarsi e scontrarsi (dramma deriva dal greco drama, «azione», e comporta un agone, dal greco ago`n, «contesa», l’azione drammatica potendo svilupparsi solo da un contrasto); 4) a caratterizzare i personaggi e i loro rapporti attraverso le battute; 5) infine, o in prima istanza, a cogliere e a cercare di rendere la complessita` dei vari registri stilistici e retorici che compongono l’opera. Nel dramma tutto e` letteratura e allo stesso tempo tutto e` azione. A cominciare dalla struttura sintattica. Il dramma e` per sua natura pluridiscorsivo, oltre che talvolta plurilinguistico (per l’impiego di lingue speciali, come lo slang e le variabili dialettali, o per l’inserzione di sintagmi o frasi in altre lingue). La pluridiscorsivita` riguarda, in prima istanza, il componente sintattico delle modalita` linguistiche dei vari personaggi, i quali si muovono, si incontrano e si scontrano sulla pista di peculiari articolazioni discorsive. L’impegno del traduttore sara` allora quello di non omologare i personaggi sul piano sintattico, perche´ e` su quel piano che si dispiegano le loro competenze e tattiche grammaticali, retoriche e stilistiche, le presupposizioni ideologiche e gli atteggiamenti interattivi che li contraddistinguono nelle loro funzioni drammatiche. Le tattiche dell’argomentazione sono in buona misura d’ordine sintattico e dispongono i personaggi ad un dire, che serve, ad un tempo, alla caratterizzazione e all’azione, e ritma i discorsi nella loro recitabilita` scenica. Gli atti linguistici significano, oltre o prima ancora della loro pregnanza semantica, per il modo stesso della loro articolazione sintagmatica. Ad esempio, si veda, in Amleto, I.2, il primo discorso del re, che lo caratterizza gia` come personaggio, in se´ e per se´ – sospettoso, dubbioso – e nel suo rapporto con gli altri – tattico, indiretto, machiavellico –, e si configura, tramite volute cautelative, parallelismi, sospensioni e ritardi, come il discorso di un re illegittimo alla ricerca della legittimazione del suo potere: Though yet of Hamlet our dear brother’s death The memory be green, and that it us befitted To bear our hearts in grief, and our whole kingdom To be contracted in one brow of woe, Yet so far hath discretion fought with nature That we with wisest sorrow think of him Together with remembrance of ourselves.

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(Sebbene ancora della morte del nostro caro fratello Amleto la memoria sia verde, e a noi si convenisse di recare cordoglio nel nostro cuore e a tutto il nostro regno di star contratto in un’unica fronte di dolore, purtuttavia tanto la ragione ha combattuto con la natura che noi con piu` saggio dolore pensiamo a lui e, insieme, ci ricordiamo di noi stessi).

Questo primo periodo della sua lunghissima battuta iniziale si estende per sette versi; e per sette si sviluppera` il secondo, mentre il quinto durera` nove versi e il settimo addirittura tredici. La sua sintassi e` un’abilissima rete per manovrare il consenso della corte di cui e` diventato re da poco e con violenza, avendo ucciso il fratello. Qui e` quasi piu` importante la tattica del dire che non la semantica. Non converra`, allora, spezzare – come in tante traduzioni – le volute sintattiche in periodi e frasi piu` brevi, ne´ alterare l’ordine calcolato delle principali e delle subordinate. E pare opportuno, inoltre, salvare i parallelismi, gli iperbati, le inserzioni parentetiche. L’attore che faceva la parte di Claudio nel primo Amleto messo in scena da Lavia nel 1978 rimase interdetto di fronte a questi viluppi, ma poi, sollecitato dal regista, trovo` proprio in quegli snodi la sua presenza scenica e la sua caratterizzazione del personaggio. O si veda, nello stesso dramma, la sintassi ampollosa e pedagogica di Polonio, meno avvolgente sul piano tattico, ritmata in una declinazione ripetitiva di moduli, quale il modulo disgiuntivo, nella «lezione» di vita al figlio Laerte che sta per partire per Parigi, in I.3: ...Beware Of entrance to a quarrel, but being in, Bear’t that th’opposed may beware of thee. Give every man thy ear, but few thy voice. Take each man’s censure, but reserve thy judgement. (Guardati dall’attaccar briga, ma se ci sei dentro comportati in modo che l’avversario debba guardarsi da te. Concedi a tutti il tuo orecchio, ma a pochi la tua voce. Accetta l’opinione di ognuno, ma riservati il tuo giudizio).

Ben diversa e` invece la sintassi di Amleto, adeguata sempre all’interlocutore, estremamente mobile, spesso frammentaria, talvolta altisonante, mimetica e camaleontica, distruttiva e riduttiva, senza un centro: come appunto il personaggio, che in essa di volta in volta si atteggia senza trovare ne´ la fondazione dell’essere ne´ la strategia dell’esistere. E quella mobilita`

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sintattica, se resa nella traduzione, aiutera` l’attore personaggio a muovere il suo corpo e la sua voce in modi sempre diversi. Gli esempi potrebbero essere infiniti. Basti pensare ancora soltanto ai modi sintattici contrapposti di Iago e di Otello: l’uno attestato su modalita` disgiuntive, sospensive e negative, nonche´ colloquiali; l’altro su costruzioni discorsive di tipo assertivo, conservativo, epico, aulico. E chiaramente la sintassi si coniuga con la retorica. Spesso in un dramma si riscontrano degli assi retorici persistenti che ne costituiscono le macroarticolazioni profonde: si veda il gioco della litote e dell’iperbole in Otello, quello dell’ironia e della litote in Giulio Cesare e via dicendo. Il traduttore deve soppesare queste modalita` retoriche e cercare di renderle nel parlato, perche´ a teatro la retorica non serve solo e tanto al versante letterario, al gusto della frase in se´ e per se´, ma e` quasi sempre pertinente all’azione. Ma torniamo al problema della resa dell’energia. Il linguaggio nel dramma, e poi sulla scena, ne e` particolarmente carico. E lo e`, diciamo, per sottrazione del «pieno» linguistico, cioe` della piena autonomia semantica del testo espressivo e comunicativo quale si puo` trovare negli altri generi letterari. Quel «pieno» e` la grande tentazione di chiunque si trovi davanti ad una pagina bianca e si metta a scrivere. Bisogna togliere da quel pieno, in modo che dai «vuoti» rimasti – il testo drammatico e` troue´, bucato, forato). come dice suggestivamente la Ubersfeld (Lire le the´atre, Editions sociales, Paris, 1978) – emerga la correlazione funzionale degli altri codici scenici. Torno ora al punto della necessita` drammatica di togliere dal «pieno» linguistico-semantico e lasciare dei «vuoti». L’immagine del togliere e` ovviamente una semplificazione, che, pure, come tutte le semplificazioni, contiene del vero, e lo vedremo subito. Di fatto, il bravo drammaturgo concepisce il suo linguaggio come gia` troue´, e se ne potrebbero portare infiniti esempi, soprattutto mostrando come, ad esempio, Shakespeare drammatizza le sue fonti narrative, giocando, da una parte, su tagli di eventi, su allusioni, su compressioni (e cio` appartiene al principio fondamentale della economia drammatica rispetto alla espansione narrativa), e, dall’altra parte, lasciando interstizi o agganci linguistici che fanno potenzialmente interagire le battute con i codici scenici. Ma e` anche vero che lo stesso Shakespeare dovette imparare a togliere. Se impiego` ben tre drammi per mettere in scena il regno di Enrico VI, riuscı` poi, nel quarto dramma della sua prima tetralogia storica, Riccardo III, a stringere tutti gli eventi significativi di quel regno con formidabile concisione. All’inizio, inoltre, per esempio nel Tito Andronico, non sapeva resistere alle suggestioni delle sue

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letture classiche, soprattutto Ovidio, e immetteva moduli lirici, paragoni epici ecc., che avevano ben poca energia teatrale. In Romeo e Giulietta giocava ancora sul lirico, stavolta della tradizione sonettistica, ma riusciva in gran parte a rendere funzionale il gioco delle rime al dramma dell’amore trionfante e poi tragico. Ma, man mano che la sua competenza drammatica si confrontava sempre piu` con l’esperienza della scena, il suo linguaggio tendeva a farsi sempre piu` essenziale, ellittico nel senso di troue´, anche se e` vero che la vena letteraria rimase sempre in lui troppo forte perche´ potesse obbedire fin in fondo ad una rigorosa economia drammatica e gli fece comporre molti drammi che risultano troppo lunghi per la loro rappresentazione completa in quelle due, massimo tre, ore che costituivano allora la durata canonica degli spettacoli. Shakespeare, insomma, scriveva drammi che talvolta sapeva bene essere troppo lunghi e che avrebbero dovuto essere tagliati. Si concedeva dei lussi sul piano della estensione. E solo in testi come Macbeth, che con tutta probabilita` ci e` giunto esclusivamente nella sua versione teatrale, possiamo riscontrare una economia tale da impedire quasi qualsiasi taglio. Se, dunque, il drammaturgo toglie, anche il traduttore deve farlo. Il traduttore e` destinatario, lettore, mentre decodifica e interpreta il testo, ma diventa destinatore, autore, quando lo codifica nuovamente nella sua lingua: e` lettore e autore, sia pure di secondo grado. Ma e` essenziale che egli non si comporti «da lettore» anche nell’atto della scrittura. Un eccesso di «lettura» in questo senso rischia di diluire e quindi tradire il testo originale, sottraendogli energia, mentre vorrebbe rendergli giustizia esplicitandone le complessita` e le oscurita`. Scrive bene Robert de Beaugrande: «...e` essenziale preservare il significato potenziale di un testo durante la traduzione. In quanto lettore, il traduttore tende a completare il testo, riempiendone i vuoti [...] C’e` sempre il pericolo che il traduttore renda nella lingua d’arrivo non solo il significato potenziale del testo, ma anche le proprie aggiunte e le proprie reazioni [...] Il risultato e` quello di un testo privato del suo aspetto dinamico, in quanto il ruolo del lettore e` stato svolto preventivamente dal traduttore.» Factors in a Theory of Poetic Translation, Assen 1978.

Il pericolo dell’eccesso di lettura, e quindi di spiegazione o interpretazione parafrastica, da parte del traduttore, riguarda tutte le traduzioni, ma e` ancor piu` marcato nella traduzione drammatica, perche´, come gia` detto, nel dramma il significato potenziale, implicito, segreto, si affida anche, e forse soprattutto, alla convocazione piu` o meno dichiarata dei codici scenici che ne devono completare ed esaltare il senso.

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Dunque, come nella scrittura di primo grado, deve rimanere nella scrittura traduttiva una interazione di significati espliciti ed impliciti, di un «sapere» e un «non sapere», che investono poi quel meccanismo propulsivo del discorso che e` la suspense legata alla continua domanda che il testo drammatico, fatto di un continuo trascorrere di «presenti» scenici in quanto mimesi della vita reale, offre allo spettatore: che cosa sta per succedere dopo questo? Una domanda che e` essenziale, a mio parere, al farsi stesso del testo, nel senso che qualsiasi drammaturgo, pur avendo predisposto le linee generali dell’azione, scopre soltanto nella scrittura la forza linguistica dell’azione nel suo continuo svolgersi e profilare ad ogni momento, dopo ogni «ora», un «altro ora», o recuperare un «prima», ma sempre in funzione di cio` che verra` e, comunque, della totalita` dell’azione. Il traduttore, credo, dovrebbe mettersi, anche sotto questo punto di vista, nei panni dell’autore: e cioe` «sapere» tutta l’azione, e quindi tutto il testo, che va a tradurre, e tuttavia, anche, «non sapere», non ricordare ogni nesso, ogni microsvolgimento, dell’azione, in modo da poter scoprire e trasmettere l’energia propulsiva che, nello srotolarsi del testo durante il processo traduttivo, gli si presenta come sua necessita`, e strategia, interna. In tal modo, la conoscenza paradigmatica del testo puo` unirsi alla sua progressiva conoscenza sintagmatica, conducendo alla scoperta del suo dinamismo. Io conoscevo bene Amleto o Macbeth, prima di tradurli, ma nell’atto traduttivo tendevo volutamente a dimenticare tutti gli svolgimenti interni di quei testi, appunto per potermi «stupire» della loro progressione, per poter scoprire, nel volgerli nella mia lingua, quella energia che nessuna analisi e conoscenza paradigmatica o sommario di fabula puo` contenere in se´. In questa mia comunicazione, ho messo molta enfasi sull’energia del dramma, energia che si sprigiona da tutti i suoi atti linguistici, cioe` dall’interazione delle battute, e dalle emozioni e dagli eventi che da quelle battute si sviluppano, e voglio concludere su questo punto. E` energia dello spazio teatrale, dove la parola lineare sulla pagina diventa per cosı` dire quadrata o cubica, trovando riferimenti in molte direzioni. E` energia del tempo teatrale, l’energia del «continuo presente» degli atti linguistici, tramite cui sulla scena ogni riferimento al passato viene sempre riattualizzato nel «qui-ora» della situazione che trascorre, e ogni elemento passato e presente si proietta nel futuro che sara` realizzato in un nuovo presente. E` energia del corpo dell’attore, investito, osteso, riferito dalla parola che lo connota, che lo descrive, che gli serve come arma, che lo allontana e lo avvicina agli altri, che lo fa sporgere verso il pubblico.

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E`, infine o prima di tutto, energia dell’invenzione letteraria, stilistica, retorica, tematica, che tiene insieme tutte le fila dell’azione e rimarra` memorabile anche al di la` del palcoscenico per cui e` nata affidando il dramma al piacere della lettura. Non vorrei essere frainteso. Mettendo l’accento sulla specificita` teatrale del linguaggio drammatico, non vorrei infatti che si dimenticasse che ogni dramma viene scritto e poi eventualmente tradotto per la scena, ma nella scrittura sprigiona tutta la complessita` letteraria dei suoi livelli espressivi. E questo vale per Shakespeare, nella sua straordinaria grandezza di invenzione, ma vale anche per qualsiasi altro drammaturgo, la cui parola e` per la scena e tuttavia in quella non si esaurisce mai. Il paradosso del testo drammatico sta nel fatto che non e` mai «completato» se non nella resa scenica che ne attiva i codici teatrali inscritti o possibili, e dunque e` sempre meno dell’evento spettacolare; ma, nello stesso tempo, nessuna messinscena sara` mai pari alla complessita` dei suoi significati, e cio` mostra come il testo sia sempre piu` di tutti gli eventi spettacolari che ne sono stati tratti o se ne potranno trarre. Vorrei, infine, toccare ancora un altro punto, quello delle perdite e delle compensazioni del tradurre. Nel volgere in un’altra lingua testi drammatici complessi come quelli di Shakespeare, credo che una delle scelte preliminari, piu` o meno conscia o inconscia, sia quella di decidere dove e come perdere, e cosa scegliere di perdere. Che non significa non aver capito, con una attenta ricerca filologica e critica (testuale e macrotestuale), possibilmente l’intera complessita` del testo in oggetto. Ma significa capire e perdere, nell’atto della resa linguistica, cioe` scegliere e quindi sacrificare, fin dal livello minimo delle soluzioni lessicali, parte della ricchezza delle singole parole in quanto unita` culturali (enciclopediche e non solo dizionaristiche) della lingua da cui si traduce. Il traduttore opera, gia` a livello lessicale, per analisi semiche della singola parola (nonche´ della catena semantica, o isotopia, tra le parole), al fine di cercare di offrire un quasi equivalente nella propria lingua. Il quasi e` spesso ineliminabile, perche´ ogni parola ha in una lingua uno spettro di significati che non corrisponde mai del tutto con la parola apparentemente equivalente della lingua in cui si traduce. Inutile portare esempi; ma, cosı` a caso, si prenda il sostantivo death, «morte», che ha una diversa marca di genere (maschile e non femminile), una marca che spesso si ripercuote sul contesto (ad esempio in Riccardo II, nella lunga battuta del re sulla vanificazione del potere nella seconda scena del terzo atto, la morte prende la parte del re nella vuota circonferenza della corona: «... keeps Death his court», e puo` farlo, con una

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pregnanza non riproducibile nelle lingue neolatine). In molti casi, anche non cosı` estremi, l’equivalente possibile nella lingua di arrivo e`, allora, una sorta di resa a «near-letter quality», come si dice per le stampanti ad aghi che riproducono un grafema in modo apparentemente continuo ma di fatto trattiforme: una «near-letter quality» che risulta tanto piu` riuscita quanto piu` si sia stati capaci di immettere nel testo tradotto approssimazioni semiche rispetto alla costituzione semantica del testo originale. Ma anche le piu` convincenti approssimazioni potranno sı` offrire un congruente continuum nella traduzione, dimostrando la sua coerenza e coesione interna, ma, rispetto al testo di partenza, riveleranno necessariamente un andamento «discreto» a causa delle inevitabili perdite, o immissioni, semiche con cui vengono modificati certi tratti dell’ordito originale. Cio` sara` ancora piu` visibile, che non a livello locale, in quelle sovradeterminazioni di senso dovute a complessita` figurale, retorica, o a pluriisotopia semantica che si trovino in stretta connessione con il piano del significante, il piano intraducibile per eccellenza. Lı` una insistenza eccessiva sulla resa «near-letter quality», con immissione del piu` gran numero di tratti, puo` portare, nella lingua d’arrivo, a sovraccarichi incongrui e oscuri di senso, perche´ e` impossibile riprodurre in un’altra lingua il rapporto originario tra significante e significato. Insomma, se si vuole stringere troppo o, proseguendo nella metafora, infittire eccessivamente i tratti della traduzione «near-letter quality» (comprendendo il piu` possibile, come e` legittimo e auspicabile a livello critico), il testo riprodotto puo` rischiare di non funzionare piu` sul piano comunicativo (per ingorgo di significati: e questo e` l’opposto della traduzione parafrastica che, invece, dipana e commenta) e di costituire piuttosto una lettura critica mascherata ed ellittica, e non una nuova scrittura, quale deve essere la traduzione. Quando cio` avviene, il traduttore spesso si rende conto di dover tornare a stesure precedenti, meno ricche sul piano ermeneutico ma piu` chiare e funzionali sul piano espressivo e comunicativo. Come scriveva Dante nel Convivio, e` sempre impossibile armonizzare, nella lingua d’arrivo, le parole trasposte, pur con il massimo di fedelta`, dal testo originale secondo l’armonia che era lı`: «E pero` sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si puo` de la sua loquela in altra transmutare, senza rompere tutta dolcezza e armonia».

L’armonia irriproducibile e` quella del legame originario tra le parole, un

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legame che e` discreto, in quanto «musaico» o sintattico, ma anche cromatico, per coerenza, per coesione, grafica fonica e semantica. Il traduttore, in definitiva, si trova sempre costretto in quello spazio angusto che si da` tra la complessita` sempre piu` pressante del lavoro interpretativo e la semplificazione, e la perdita, cui deve spesso ricorrere nel momento traduttivo. Perdera` sempre e tuttavia la sua funzione non solo e` utile e indispensabile per la trasmigrazione dei testi da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, da un’epoca ad un’altra; la sua funzione puo` essere anche, pur se a prima vista cio` puo` sembrare un paradosso, rivivificante rispetto al testo originale. Che significa questo? Significa che il traduttore entra nel testo originale, lo investiga, lo palpa in tutte le sue connessure, e in tal modo puo` scoprirne sensi segreti che il lettore o critico in ambito monolinguistico non riesce piu` a percepire (perche´ certe espressioni testuali sono state acquisite in quella lingua secondo accezioni non necessariamente pertinenti in tutto e per tutto; perche´ interviene un certo automatismo di comprensione immediata che impedisce ulteriori esplorazioni del senso; perche´ il testo e` stato, fin dalle prime edizioni, normalizzato, e via dicendo). Le scoperte di tesori nascosti di senso che il traduttore puo` compiere conducono allora ad una rivitalizzazione del testo, ad una reimmissione di potenzialita` semantiche nel suo tessuto linguistico, e quindi ad un rinnovamento della sua energia segreta, o addirittura, se vogliamo, ad una sua liberazione dalla immodificabilita` che lo contraddistingue, come hanno gia` notato sia la Bassnett che la Risset nelle loro comunicazioni. La traduzione puo` comunque liberare energie che erano rimaste nascoste nel testo originale. E questo e` un gran compenso per la fatica che si fa, e giustamente oggi si e` parlato della traduzione non piu` come di un atto parassitario, piu` o meno passivo, piu` o meno noioso, piu` o meno sottovalutato e via dicendo. La traduzione e` importante non solo per la vita delle culture, ma anche perche´ e` un atto di creazione, che ha il diritto e il dovere di esistere. Lo scambio interlinguistico, che e` consustanziale al lavoro traduttivo, insieme alle perdite consente guadagni e offre una liberta` creativa, sia pure vigilata.

LE MANI SPORCHE di Angelo Morino

La mia formazione prima di studente e poi di giovane ricercatore ha coinciso – erano gli anni Settanta – col diffondersi dello strutturalismo, nei cui confronti ho a suo tempo professato un’adesione ortodossa; in seguito mi sono volto verso altre direzioni, non ho comunque mai voluto mettere da parte certi presupposti in base ai quali il mio occhio critico ha cominciato ad allenarsi. Tuttavia, negli ultimi tempi, che sono cambiati molto rispetto a quelli dei miei inizi, mi ritrovo spesso a seguire una tendenza particolarmente eversiva rispetto a quanto piu` mi avevano insegnato a fare negli anni Settanta. Intendo dire che, allora, fra i primi insegnamenti, c’era stata avvertenza affinche´ badassi a eliminare la soggettivita` dai miei discorsi e mi attenessi a considerazioni oggettive. Oggi, invece, devo prendere atto che indulgo sempre piu` alla soggettivita`, che mi lascio andare all’autobiografia, che propongo resoconti personali. Il fatto e` che, come dicevo prima, i tempi sono cambiati e che anch’io sono cambiato. Forse, semplicemente, invecchio e – invecchiando – mi ritrovo ad avere piu` cose da raccontare. Tutto questo, adesso qui in apertura, per sommi capi, e` detto nell’intento di introdurre un racconto disordinatamente condotto sul filo della memoria e, quindi, un racconto soggettivo, autobiografico, a proposito di un’attivita` che mi ha occupato a lungo e che e` l’attivita` del tradurre... Ho firmato la mia prima traduzione nel 1973, quando ero ancora uno studente universitario. Dal 1973 al 1998 – in questi venticinque anni – ho firmato un numero assai alto di traduzioni, piu` o meno un centinaio, principalmente dallo spagnolo, ma anche dal francese e, in rari casi, dal portoghese e dal catalano. Una volta, ci ho provato pure con l’inglese: un lungo romanzaccio che ho firmato con uno pseudonimo, su cui mi piace conservare il mistero. Ho cominciato a tradurre un po’ perche´ era un modo

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di guadagnare denaro senza che dovessi piegarmi alla costrizione di orari troppo rigidi e un po’ perche´ mi e` sempre piaciuto pasticciare con i libri e con il linguaggio. Volendo abbozzare definizioni, da quanto ho appena detto si puo` ricavare un primo abbozzo di definizione, che, sebbene parziale, mi sembra contenga del vero: un traduttore sarebbe uno a cui piace vivere senza orari troppo rigidi e pasticciare con i libri, con il linguaggio dei libri. Non fosse che, cosı` vivendo, si rischia spesso di lavorare sedici ore al giorno, ma – questo e` molto importante – senza rendersene conto. O, meglio, facendo un lavoro che si dimentica di considerare un lavoro e, cosı`, finendo per vivere una specie di passione nei confronti delle parole e delle frasi... Una volta, agli inizi della mia attivita` di traduttore, tenevo il conto dei libri che traducevo: ne ho tradotti dieci, ne ho tradotti sedici, ne ho tradotti ventuno, e via dicendo. Inoltre, quanto agli oggetti che i singoli libri rappresentano, mi piaceva tenerli allineati in un particolare scomparto della mia biblioteca, in file che si espandevano sempre piu`. E, se mi capitava di entrare in una libreria e di posare lo sguardo su un romanzo che avevo tradotto, ero preso da un moto di entusiasmo. Subito, mi viene da dire che, in modo confuso, mi congratulavo con me stesso. Ma piu` a fondo – adesso lo so – si trattava di un entusiasmo determinato dall’avere messo in circolazione un libro che prima non aveva esistenza, almeno nella lingua italiana. Come dire che l’avevo reso piu` accessibile, piu` alla portata degli altri: nel caso dei libri, i miei amori non sono mai stati segnati dalla gelosia. E, cosı` parlando, mi avvio lentamente verso un secondo abbozzo di definizione del traduttore, verso un abbozzo dai tratti un po’ piu` precisi dei primi... Pochi anni fa, ho pubblicato un libro – un libro mio – che raccoglie e riordina una serie di scritti critici con cui, nel corso degli anni, ho accompagnato testi della letteratura latinoamericana in genere tradotti da me. E sia detto come fra parentesi: la letteratura latinoamericana e` quella che piu` ho contribuito a diffondere in Italia, anche se non credo sia quella, fra le letterature, che amo di piu`. Nella premessa a questo mio libro, ci sono alcune righe nei cui confronti amici, colleghi e conoscenti hanno espresso stupore, esitando a credere che si tratti della verita`. In quelle righe si legge: «Sebbene i risultati della mia attivita` di traduttore apparissero piu` visibili – forse per la quantita` dei testi volti in italiano, forse per la notorieta` di alcuni autori cui il mio nome si ritrovava unito –, li ho quasi sempre considerati

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frutto di una fatica che mi sarei evitato volentieri. Li ritenevo utili solo a permettermi di articolare un discorso su argomenti che non fossero noti solo a una ristretta cerchia di studiosi. Molto spesso mi e` accaduto – per quanto inverosimile possa sembrare – di sottopormi alla fatica di volgere in italiano un determinato testo solo in vista del successivo piacere di accompagnarlo con uno scritto illustrativo, senza che il discorso si consumasse fra pochi interlocutori». Ebbene, tali righe corrispondono – parola per parola – alla verita`. Certo, mi e` accaduto di tradurre testi nei confronti dei quali c’era tutta la mia ammirazione. Comunque, nella maggioranza dei casi, per me tradurre e` stato piu` un dovere che un piacere... E mi spiego. Quando ho iniziato a occuparmi di letteratura latinoamericana, c’era ancora molto da fare. Chi mi aveva preceduto aveva lavorato in condizioni quasi pionieristiche. Inoltre, all’epoca, c’erano molti malintesi da correggere. Per esempio, mi riferisco al fatto che la letteratura latinoamericana veniva spesso recepita in Italia come un fenomeno privo di passato. Sembrava a molti che tutto fosse emerso a partire dal 1967: a partire dalla comparsa di Cent’anni di solitudine, il romanzo di Gabriel Garcı´a Ma´rquez. Alle spalle di Cent’anni di solitudine, qualche nome, qualche titolo: nulla di piu`. Ebbene, non mi sono mai piaciuti i discorsi che si consumano in un a`mbito specialistico, che circolano in cerchie ristrette. Nel caso della letteratura, sono sempre stato animato da entusiasmi e – come ho gia` indicato – i miei entusiasmi mi e` sempre piaciuto poterli condividere. Quindi, ho tradotto perche´ desideravo rendere accessibili testi che, non essendo ancora stati tradotti, il pubblico dei lettori italiani ignorava. Ed e` questo il senso che ora vedo nella mia attivita` di traduttore. Di piu`: e` questo il senso che ora penso debba esserci nell’attivita` stessa del tradurre. Perche´ un traduttore non e` solo uno che se ne sta tranquillo a casa sua, a godersi una bella liberta` rispetto agli orari, tutto preso dal suo pasticciare con i libri. E` anche questo, ma non e` solo questo... Venendo a contatto con giovani che hanno voglia di fare i traduttori – e sono molti –, ho notato che, secondo quanto loro immaginano, le cose funzionerebbero in questo modo. Uno se ne sta in casa, tranquillo, davanti allo schermo del computer, lavora nelle condizioni che ho descritto e, ad assicurare queste condizioni di lavoro, periodicamente arriva una telefonata – da Mondadori, da Rizzoli, da Sellerio – attraverso la quale viene affidato un nuovo libro da tradurre. Una situazione di questo genere non e` realistica e non lo e` perche´ manca di tutto quanto si colloca a monte dell’arrivo delle telefonate. Voglio dire che, se si vuole che arrivino le telefonate, bisogna

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prima essersi credibilmente proposti nei panni di un esperto della letteratura, con questo intendendo una persona che ha sviluppato una determinata sensibilita` nei confronti della letteratura. Un traduttore non e` soltanto un individuo preposto a far passare un testo da una lingua a un’altra lingua e – si badi bene – capace di farlo. Un traduttore sara` un individuo che, prima di tradurre, ha letto, ha letto molto e che, da questo leggere, ha saputo trarre un sapere sul linguaggio, sul linguaggio dei libri. E` questo il secondo abbozzo di definizione – quello dai tratti un po’ piu` precisi – che mi sento di proporre. Per essere un traduttore, occorre molta curiosita` nei confronti della letteratura, molto entusiasmo nel rendere partecipi gli altri dei propri amori, delle proprie passioni vissute leggendo. Occorre aver letto molto, essere stato un lettore instancabile e attento, possedere una sorta di vocazione al cosmopolitismo, a uscire dai confini, a sapere un po’ di piu` del normale, rispettabilissimo lettore... Negli ultimi tempi, mi capita abbastanza spesso di avere notizia di convegni sulla traduzione e, anche, di essere interpellato per esprimere il mio parere in merito. In genere, tendo a dire di no, perche´ sento di avere poco o nulla da dire su quanto ci si aspetta che io sappia: sul meccanismo del tradurre e delle strategie che l’atto di tradurre richiede. In genere, non vengo creduto, sicche´ rifiutare diventa molto faticoso e, questa volta, ho finito per accettare. Cosı` eccomi qui, a dar prova del poco o nulla che ho da dire in merito. Della traduzione letteraria si e` sempre parlato e si e` sempre dibattuto, ma sembra sia soprattutto in questi ultimi tempi che tale discorso, dopo anni di silenzio quasi totale – almeno in Italia –, tende a emergere con spicco. E, intanto, appaiono libri sul tradurre, si formulano e si riformulano teorie, si producono discorsi sempre piu` tecnici. Sui motivi di questo emergere non staro` adesso a indagare. Certo e` che, come stavo dicendo, non e` sempre stato cosı` e che cosı` non e` stato in tempi non lontani, proprio quando mi e` capitato di cominciare a tradurre. Ho ben presente un mio collega – un mio collega docente universitario, non un traduttore – il quale, anni fa, mi disse che, quanto a lui, non aveva tempo di «sporcarsi le mani a tradurre un libro». Questa frase – che mi e` rimasta impressa a fondo nella memoria – adesso non la cito con intenzione polemica nei confronti del collega che me la disse. La cito perche´ ritengo che, tutto sommato, al di la` del giudizio snobistico sul tradurre, questa frase esprime bene quel certo corpoacorpo con l’altra lingua che un traduttore e` tenuto ad affrontare...

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E` vero: tradurre significa sporcarsi le mani e, del resto, nella prospettiva che ho finora seguito, come sarebbe possibile non sporcarsele ritrovandosi a pasticciare con i libri? Quindi, si tratta di scendere nella materialita` di un testo, con la consapevolezza di compiere un’operazione in tutta umilta`: il traduttore non e` mai l’autore di un testo. Un traduttore deve collocarsi sempre alle spalle dell’autore, perche´ e` lı` per servirlo scrupolosamente, evitando ogni tendenza alla prevaricazione, a sovrapporsi in modo indebito, interpretando troppo, mettendosi in primo piano. Ed e` questo forse il motivo per cui un traduttore scrupoloso finisce per compiere un lavoro buio, che chi ha una concezione troppo alta della letteratura – una concezione troppo fredda, si potrebbe anche dire – potra` tuttalpiu` occuparsi del tradurre dal punto di vista teorico. Di certo, non scendera` a sporcarsi le mani, a lavorare sul linguaggio, affrontando quella dimensione artigianale grazie alla quale un testo letterario ha potuto essere scritto, divenire una realta` che richiede innanzitutto rispetto... La situazione e` nota, quasi un luogo comune: chi teorizza sul tradurre non traduce e chi traduce non teorizza sul tradurre. Nel caso della traduzione, esiste una frattura fra la teoria e la pratica: o si sta da una parte o si sta dall’altra. Si potrebbe anche metterla cosı`: chi teorizza evita di sporcarsi le mani passando alla pratica del tradurre e chi traduce si sporca troppo le mani per avere voglia di formulare teorie sulla propria attivita`. Si possono leggere ottimi libri su quell’atto che e` il tradurre, ma, quanto a me, sono pienamente convinto di una cosa: quei libri non sono di alcuna utilita` se qualcuno intende imparare a tradurre. Tutto questo sembrerebbe portarmi a dire che un traduttore non possiede un sapere sul tradurre. La qual cosa non e` vera... Personalmente, tradurre e` un’attivita` che mi ha stancato e che ormai non mi attrae molto. Nella mia biblioteca non ho piu`, da parecchio tempo, uno scomparto dove sistemare i libri che ho tradotto. Addirittura, evito di guardarli, perche´ in genere hanno finito per suscitare in me un senso quasi di ripugnanza. Qualche anno fa, sapevo di avere tradotto una settantina di libri, ma poi ho smesso di tenere il conto. Se entro in una libreria e lo sguardo mi cade su un libro che ho tradotto, non sento piu` entusiasmo e mi ritrovo a girarne alla larga. Traduco sempre di meno: ultimamente, lo faccio solo se mi viene offerto un compenso sostanzioso, che mi permetta di togliermi qualche capriccio, o se si tratta di un libro che mi ha davvero appassionato. Per qualche anno, continueranno a uscire libri tradotti da me,

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ma – a parte pochi casi – si tratta di libri tradotti gia` da tempo, che, per un motivo o per l’altro, sono rimasti fermi presso qualche casa editrice. Parlo di questa mia stanchezza perche´ so che non si tratta di una situazione personale. E, a questo proposito, mi viene naturale dedicare un ricordo a Floriana Bossi, ottima traduttrice dall’inglese, responsabile, fra l’altro, dell’Arancia meccanica di Anthony Burgess e dei racconti di Katherine Mansfield. Floriana Bossi – che oggi si dedica all’astrologia – smetteva di tradurre dopo molti anni dedicati a tale attivita`, proprio mentre io cominciavo a tradurre. Ricordo che mi parlo` di questa stanchezza e che me la preannuncio`, sebbene all’epoca io non avessi voluto crederci. Credo che la situazione possa essere riassunta cosı`: ci si stanca, ci si sporca troppo le mani, il corpoacorpo con l’altra lingua finisce per rivelarsi una fatica che uno non se la sente di sostenere all’infinito. Interviene una sensazione: di essersi dedicati a uno scialo, di aver compiuto una rinuncia su cui si preferisce non indagare troppo, di avere forse perso le proprie parole a favore delle parole altrui. Ma, volendo mantenere un po’ di ottimismo, una domanda da porsi rimane. Quanto al sapere accumulato, come descriverlo e, eventualmente, come trasmetterlo?... Mi e` accaduto di affrontare l’esperienza del tradurre dal punto di vista didattico e, di conseguenza, qualche idea sulla trasmissibilita` di questo sapere me la sono fatta. Innanzitutto, devo dire che non ritengo possibile una simile esperienza all’interno dell’attuale struttura universitaria. Mi e` accaduto di trovarmi davanti studenti che mi chiedevano una cosiddetta ‘‘tesi di traduzione’’. Ebbene, i risultati non sono mai stati soddisfacenti e non di rado si sono rivelati catastrofici. Al punto che, quanto alle tesi di traduzione, ho posto un veto: non intendo seguirne piu`, a meno che non si tratti di studenti che fin dall’inizio diano prova di essere particolarmente portati nei confronti di questo lavoro. L’altra esperienza didattica che sul tradurre mi e` accaduto di affrontare, e` stato – per tre anni – all’interno della SETL (Scuola Europea di Traduzione Letteraria), che periodicamente ha avuto sede a Torino, con grandi difficolta` organizzative ogni volta superate grazie all’entusiasmo mai venuto a meno della direttrice Magda Olivetti. Ed e` stata un’esperienza positiva, sebbene con questo io non intenda dire di essere riuscito a trasmettere un sapere sul tradurre indiscriminatamente a tutti gli studenti della SETL. E, qui, tocco un punto che mi prenderebbe troppo tempo sviluppare e che, allora, mi limito a indicare: il sapere sul tradurre non puo` essere trasmesso con gli stessi risultati a chiunque. Altrimenti detto, non chiunque puo` diventare un traduttore letterario,

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indipendentemente dal desiderio che si puo` avere di diventarlo. Occorre avere un certo rapporto col linguaggio che, se puo` essere coltivato, non puo` essere fatto nascere dal nulla... Comunque, agli studenti della SETL – un massimo di venti studenti per classe – ho sempre detto fin dall’inizio che, se avevano voglia di leggere libri sulla traduzione, scegliessero i migliori e li leggessero pure, ma consapevoli che quei libri non li avrebbero aiutati a tradurre bene. Inoltre, ho sempre raccomandato soprattutto After Babel di George Steiner, che, senza proporsi fini didattici, e` una bellissima riflessione sull’atto del tradurre. Quanto al lavoro svolto con gli studenti della SETL, e` consistito nel prendere in mano un testo mai tradotto, leggerlo dal principio alla fine, discuterne un po’ con l’obiettivo di individuare il registro o i registri linguistici caratterizzanti e, insieme, mettersi a tradurlo. Nel corso di questo lavoro in comune – che ogni settimana occupava due giornate di otto ore ciascuna nell’arco di un semestre –, i discorsi non erano mai dei discorsi alti, come quelli che vengono affrontati nei libri sulla traduzione. Bisognava parlare di cose minute, come possono essere l’uso delle ‘d’ eufoniche, degli apostrofi, delle preposizioni, di tutte quelle maledettissime parole italiane che terminano in ‘one’ e sono sempre pronte a creare brutte rime a tradimento, del passato remoto che nel Nord si perde sempre piu` finendo per parlare di un anno fa come se fossero trascorse solo poche ore. Bisognava imparare a usare il dizionario o, meglio, i dizionari. Bisognava riflettere sulla struttura della frase, sull’ordine delle parole, sulla punteggiatura. Insomma, bisognava stare lı` a sporcarsi le mani insieme. Bisognava rendersi conto che la lingua che parliamo – l’italiano – chiede di essere riscoperta nel suo lessico come nel suo funzionamento piu` minuto. E anche, a un livello piu` generale, bisognava imparare a usare la propria creativita` esclusivamente per metterla a servizio della creativita` dell’autore. L’ho detto molto spesso agli studenti della SETL: se avete voglia di scrivere un romanzo, scrivetelo, ma non mettetevi a tradurre con l’atteggiamento di chi sta scrivendo un romanzo, perche´ quello che state traducendo non e` il vostro romanzo... Tutto questo lavoro in gruppo rinvia – lo si capira` facilmente – all’idea della bottega artigianale, lı` dove un sapere fondato sul lavoro e un’esperienza fondata sulla pratica del lavoro possono essere trasmessi lentamente, nel tempo che intanto trascorre. Le aule universitarie non sono botteghe artigianali, non sono luoghi in cui sia possibile lavorare con ritmo quotidiano e all’interno di una cerchia ristretta. E` soprattutto questo il motivo

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per cui molto di rado una "tesi di traduzione" si risolve in un lavoro dai risultati soddisfacenti. Lo studente si presenta al docente senza trovarsi in possesso di una pratica del tradurre e, nei successivi incontri che tuttalpiu` si possono concordare una volta alla settimana nel tempo ristretto di un’ora, questa pratica del tradurre fatica a passare dall’uno all’altro. Nelle aule universitarie si puo` trasmettere un sapere e, sicuramente, questo sapere lo si trasmette. Ma e` un altro sapere rispetto a quello sul tradurre, perche´ le aule universitarie non sono botteghe artigianali ne´ credo abbiano mai avuto motivo di esserlo. Inoltre, bisogna dirlo: lı` trova spazio una concezione alta della letteratura, che tuttalpiu` e` il caso di sforzarsi per far sı` che non si raggeli troppo, che non si isoli rimanendo scissa dalla realta`... Quanto al tradurre e alla sua relativa pratica artigianale, occorrono luoghi diversi dalle aule universitarie, luoghi dove il sapere abbia agio di essere trasmesso con attenzione alla materialita` dei testi letterari, a quel loro essere fatti di un linguaggio che e` stato sottoposto a lavoro fin nelle sue piu` minute componenti. Non credo che, tranne casi sporadici, non ancora istituzionalizzati, simili luoghi abbiano trovato spazio intorno a noi. E, se qui mi interrogo sulla fisionomia che dovrebbero avere, e` solo perche´ sono consapevole dell’esistenza di una vasta richiesta in merito, soprattutto fra i giovani. Altrimenti, l’unica via puo` essere quella meno incoraggiante: quella di un’avventura solitaria, sul cui filo leggere e leggere fino a trarre un sapere sul linguaggio dei libri, fino a vivere una specie di passione nei confronti delle parole e delle frasi, confrontandovisi per riscoprirle e per riscoprirsi. E, intanto, mettersi a pasticciare con i libri, mirare a una competenza sempre maggiore, sporcarsi le mani in una prova di traduzione dopo l’altra, tutte affrontate senza che sia ancora arrivato il colpo di telefono risolutivo – da Mondadori, da Rizzoli, da Sellerio –, senza che il lavoro di trasportare un testo in un’altra lingua abbia assunto rassicuranti tratti contrattuali, senza che intervenga alcun sospetto del logorio cui per qualche oscuro motivo ci si sta destinando...

RIVEDERE LE TRADUZIONI: RIPENSAMENTI E DISAGI DI UNO SGUARDO ALTRUI di Giovanna Mochi

Che «rivedere» una traduzione fatta da un altro sia un compito ingrato e` une delle tanti frasi fatte (ma le frasi «si fanno» sempre a partire da una indiscussa e perfin banale verita`) che capita spesso di sentire e di dire a proposito della traduzione, e soprattutto della traduzione di un testo letterario; ma e` proprio da questa banale osservazione sul «disagio della revisione» che vorrei partire per render conto – poiche´ questa e` la ragione della mia presenza qui – della mia esperienza, recente, relativamente breve e decisamente appassionante, come direttore di una collana di «classici della letteratura inglese» (con tutte le complicazioni relative a una definizione di «classico», nelle quali non e` pero` qui il caso di entrare). La collana Elsinore, della casa editrice Marsilio, presenta, accompagnate dal testo originale a fronte (oltre che da introduzione, commento e apparati biobibliografici), nuove traduzioni italiane di opere di vario genere (narrativo, poetico, drammatico) e di varie epoche, che per mille diverse ragioni ci sembra opportuno e significativo proporre – o riproporre in una nuova edizione – a quella indefinita e inafferabile entita`, probabilmente inesistente se non nelle fantasie desideranti di editori ottimisti, curatori innamorati e direttori di collana entusiasti, che e` il lettore italiano abbastanza colto, abbastanza curioso e soprattutto abbastanza sensibile al rapporto interlinguistico da lasciarsi catturare in quel gioco stimolante e talvolta un po’ sadico che e` il saltuario e casuale andirivieni dell’occhio, della mente e delle parole, tra il testo originale a destra – pieno e autosufficiente, perfetto e immobile nella sua identita` sempre uguale a se stessa – e, a sinistra, quel suo doppio mutevole e imperfetto, condannato comunque alla precarieta` e alla

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imprecisione, che e` la sua traduzione, o meglio quella traduzione, una delle tante possibili. E sono proprio io, nella organizzazione del lavoro che ci siamo dati, la prima a entrare in quel gioco e in quel rapporto delicatissimo tra l’originale e la traduzione, prima di consegnare alla casa editrice, e a nuove revisioni e convenzioni, un libro che ancora non e` il libro-oggetto che presto diventera`, ma un testo mobile e vivo, che porta materialmente impressi i segni e le cicatrici del suo farsi, e di quel primo incontro e di quella prima invadenza che e` appunto la mia revisione. Perche´ e` proprio da una sensazione di invadenza e di intrusione che nasce quel disagio cui facevo riferimento; e non parlo della occasionale, semplice e irrilevante segnalazione di una svista o di possibili misunderstandings, che l’autore della traduzione accoglie sempre con gratitudine e leggerezza (forse perche´ ho avuto finora il grande privilegio di lavorare in un clima di amicalita`, confidenza e buonumore), ma della inevitabile messa in gioco, nel momento in cui osservo (spio mi verrebbe da dire) la traduzione di un altro, del mio rapporto con l’originale, delle mie aspettative, strategie e associazioni, rispetto alle quali il linguaggio dell’altro rappresenta comunque uno scarto e una differenza. Tenere a bada questo mio desiderio di intrusione triangolare, rinunciare con discrezione alle mie aspettative, e rispettare il piu` possibile l’unicita` di quell’incontro e di quel dialogo tra due scritture che ha luogo nella traduzione letteraria, e` una delle cose che sto imparando a fare, grazie allo scambio e alla discussione con i miei colleghi traduttori che, pure in quel clima di disponibilita` di cui dicevo, mi segnalano ogni tanto con garbata fermezza il momento in cui e` loro la scelta, loro l’assunzione di responsabilita` e di autorita`. Questo significa, in altre parole, sperimentare concretamente e ad ogni passo (che e` cosa diversa dalla acquisizione teorica, che siamo ormai tutti pronti ad accogliere e condividere) quanto il terreno della traduzione sia mobile e precario, aperto a sfumature e possibilita` molteplici e diverse, e soprattutto quanto illusoria sia l’idea della «traduzione giusta», di un seppure ipotetico e irraggiungibile rispecchiamento del testo originale, della sua essenza e della sua «verita`». Traduttore/traditore, il fortunato gioco di parole che ci troviamo ogni tanto a ripetere, e` non solo una verita` scontata (come potrebbe essere diversamente?), ma un falso punto di partenza, perche´ l’idea del «tradimento», gia` perdente, presuppone, oltre che una indiscussa e incontaminata «purezza» dell’originale sulla quale la recente critica testuale avrebbe molto da dire, una ipotetica «fedelta`» della traduzione che tenderebbe alla corrispondenza perfetta e all’inverarsi metafisico di un testo

RIVEDERE LE TRADUZIONI: RIPENSAMENTI E DISAGI DI UNO SGUARDO ALTRUI

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nell’altro; e se e` vero che le Belle Infedeli (e` curiosa l’insistenza di questo linguaggio da feuilleton familiar-borghese) – libere, spavalde e coraggiose – sono spesso assai piu` seducenti delle aspiranti Fedeli, rinunciatarie e intimidite dalla propria statutaria inadeguatezza (fino alla mortificante ammissione della traduzione «di servizio» , la bruttina-fedele per eccellenza), rimane comunque l’idea di una verita` autonoma e di una pienezza di senso dell’originale, di fronte alla quale la traduzione, fedele o infedele che sia, e` sempre perdente. Ecco, direi che il disagio e il travaglio ( ma anche la gioia, l’eccitazione e la gratificazione, quasi sempre di un attimo) del tradurre, sta nel continuo attraversamento di questo spazio intermedio tra un irrinunciabile rapporto di corrispondenza con il testo che stiamo trasportando nella nostra lingua, nella nostra cultura e nel nostro tempo, e le esigenze e suggestioni altrettanto irrinunciabili di quella nostra lingua e di quel nostro tempo, nonche´ della nostra identita` di traduttore, di lettore, di critico e di interprete. Al di la` e al di qua di quello spartiacque ideale, sul quale solo in qualche momento felice ci e` dato di sostare compiaciuti e soddisfatti, stanno le sabbie mobili della traduzione, nelle quali ad ogni passo rischiamo di perdere: di perdere il contatto con il linguaggio dell’Altro, lontano e chiuso nelle sue oscurita`, nelle sue reticenze e nei suoi arcaismi, o di perdere il nostro linguaggio, alla ricerca di una trasparenza nella quale le nuove parole rinunciano alla loro vitalita`, al loro spessore e alla loro storia. La trasparenza, appunto: ecco un altro luogo comune che ho dovuto ripensare. Una buona traduzione, viene spesso detto, e` quella che «non sembra una traduzione», che riesce a nascondere il percorso faticoso e innaturale per cui una lingua si cambia in un’altra, e produce l’illusione dell’originale e della sua «naturalezza»; una scrittura scorrevole, fluida (termini spesso usati per lodare le traduzioni), senza quegli spigoli e quelle forzature linguistiche, lessicali e stilistiche che ne denuncerebbero la sua condizione di lingua derivata, presa a prestito, non originale. Se questo e` un comprensibile desiderio del lettore, che quella illusione cerca e pretende, credo pero` che la tendenza, pure comprensibile, ad assecondarlo in una lettura liscia, distesa e il piu` possibile inconsapevole del travaglio della traduzione, possa costituire un rischio non solo e non tanto per i traduttori, che di quel travaglio non possono e forse non vogliono nascondere completamente le tracce, ma soprattutto per coloro – editori, redattori e curatori di collana – che vedono il libro come prodotto finale, da consegnare nella confezione e nella forma piu` possibile seduttiva e accattivante a un destinatario al quale si tende a facilitare il compito, eliminando per lui

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gli inciampi e gli intoppi di una scrittura accidentata o di certe forzature della lingua che costituiscono appunto la traccia di quel percorso innaturale e inevitabilmente violento che e` la traduzione, in quanto ricomposizione e annullamento di una differenza e di una alterita`. Credo invece che di quella differenza e alterita`, di quel conflitto e di quella leggera violenza, qualcosa debba rimanere, qualcosa che infranga la superficie liscia e naturale della lingua d’arrivo forzandola talvolta in direzioni e ritmi a lei inusitati e magari non congeniali. Certo, l’equilibrio e` delicatissimo e il rischio dell’eccesso – di stridore, di oscurita`, di artificio – e` grande; un rischio certo piu` fastidioso e manifesto, ma non meno dannoso, di quello opposto, che e` invece il rischio di appiattimento e di normalizzazione verso una lingua che ammorbidisca, spieghi e chiarisca, attenuando i soprassalti della scrittura, le sue sorprese, le sue irrisolte ambiguita` e reticenze. Ricordo, tra i tanti piccoli episodi che mi hanno fatto riflettere in questo senso, il mio disagio – anzi, il mio dissenso – di fronte a un «muro lebbroso» che traduceva, nella versione di Alessandro Serpieri, il leprous wall di Conrad, in Falk (Marsilio, 1994): leprous, evidentemente, nel senso di «muro scalcinato, che perde le scaglie come la pelle di un lebbroso», significato raro, ma comunque registrato nei dizionari inglesi, che pero` non ha tale corrispondenza in italiano, dove suona quanto meno straniante, se non assurdo, incomprensibile, e probabilmente «brutto». Era uno di quei casi, per me, in cui il traduttore deve rinunciare alla ricchezza connotativa dell’originale ( qui, il senso di decadenza, malattia, repulsione di un luogo) in nome della chiarezza e dell’armonia della propria lingua. Il muro – Serpieri non ebbe dubbi – e` rimasto lebbroso, e senza alcuna nota esplicativa (quello delle «Note di traduzione» sarebbe un altro punto interessante da trattare: la tendenza, anche qui, e` quella di spiegare, risolvere dubbi e ambiguita`, addomesticare, rendere il Diverso riconoscibile e familiare – ma non sono piu` tanto sicura che questo sia il compito della traduzione). La mia proposta («scalcinato», «cadente» o non ricordo che altro) era chiaramente una normalizzazione, una sorta di svolgimento parafrastico della metafora originale, che azzera la presenza del traduttore rendendolo «invisibile» (per riprendere la figura portante del bel libro di Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility), ma rischia di azzerare anche la differenza culturale e linguistica del testo originale nonche´ la sua intrinseca estraneita` e imprevedibilita`, forse anche nei confronti di se stesso (particolarmente interessante il caso di Conrad, di madre lingua polacca: chi puo` dire quanto «straniero» e innaturale suonasse leprous anche al suo orecchio?). Ma non solo: queste strategie di normalizzazione e appianamento insite in certe traduzioni (e forse piu` ancora, lo ripeto per

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me, in certe «revisioni») rischiano, alla lunga, di non rendere un buon servizio al lettore, cullandolo in una lingua familiare e riconoscibile che non gli richiede sforzi, e nella illusione di un contatto facile e immediato con il testo originale. Le «belle traduzioni» spesso lodate dai recensori (quelle rare volte che se ne occupano) per la loro fluidita` e scorrevolezza forse dovrebbero insospettirci, e rammentarci le parole di Benjamin quando scriveva che «l’errore del traduttore e` di attenersi allo stadio contingente della propria lingua invece di lasciarlo potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera» (corsivo mio). Le «belle scorrevoli» sono pero` cosa affatto diversa dalle «belle infedeli» cui facevamo riferimento all’inizio, e alle quali vorrei dedicare qualche riflessione, perche´ anche queste mi hanno dato e mi danno da pensare, soprattutto quando costituiscono un precedente, autorevole e quindi imbarazzante, rispetto a nuove traduzioni di testi che per qualche ragione intenderemmo riproporre. Posso citare come esempio il caso di Vittorini, autore di «belle infedeli» per eccellenza, la cui presenza quantomeno imponente ci ha indotto a interrogarci sulla opportunita` di una nuova traduzione di un racconto di D.H. Lawrence, che e` poi stato La principessa, a cura di Serena Cenni (1993); ma potrei ugualmente riferirmi ad Anna Banti e alla sua traduzione di Jacob’s Room di Virginia Woolf, che Mirella Billi ha nuovamente tradotto per noi (La stanza di Jacob, 1994), o ad altri testi sui quali stiamo lavorando. Si tratta per lo piu` delle cosiddette «traduzioni d’autore» che, come e` noto, hanno costituito una via d’accesso grandiosa e privilegiata nella nostra lingua di grandissimi capolavori della letteratura inglese e americana del Novecento, e non solo. Veniamo quindi brevemente a Vittorini traduttore di Lawrence. Inversioni, alterazioni del ritmo mediante forme diverse di correlazione e trasformazioni significative nella punteggiatura, eliminazione di ripetizioni o, al contrario, introduzione di nuove iterazioni: sono, questi e altri, procedimenti assai frequenti nelle sue traduzioni, che portano fortemente impressi i segni della sua scrittura e del suo processo compositivo, nella direzione di una attualizzazione – e forse di una «vittorinizzazione» – del testo originale, che era del resto pienamente coerente con quanto egli stesso pensava a proposito del tradurre: «... se dall’assillo di riprodurre il movimento creativo dell’autore non nasce un movimento creativo che sia proprio del tradurre, l’opera tradotta non riuscira` a vivere come se fosse originale». Ma non vogliamo qui parlare delle traduzioni di Vittorini – o di Pavese – ne´ di quanto ( considerazioni peraltro assai importanti) esse abbiano contribuito a una trasformazione della prosa italiana; la domanda che ci poniamo e` se

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– o fino a che punto – una traduzione cosı` concepita, per quanto «bella» o addirittura «insuperabile» possa essere sentita da un nuovo traduttore intimidito da comprensibile «anxiety of influence», debba essere ritenuta un punto d’arrivo, una sorta di intoccabile «nuovo classico», o «nuovo originale», che renderebbe inopportuna, oltre che imprudente, una nuova prova e – poiche´ in questi termini inevitabilmente si pone – una nuova sfida. Io credo che, al di la` del fatto che le traduzioni, sempre e comunque, invecchiano (beata e irriproducibile l’eterna giovinezza dell’originale!), la «sfida», se cosı` la vogliamo chiamare, nei confronti di queste «belle infedeli» che sono le traduzioni d’autore sia un rischio da correre. Non tanto per i frequenti errori o travisamenti che esse contengono, ascrivibili a una conoscenza imperfetta della lingua straniera, imparata «eroicamente», senza strumenti e senza mezzi; questo e` un problema, certo, ma una revisione discreta e non invadente sarebbe forse sufficiente a risolverlo. Piu` importante mi sembra il fatto che, da alcuni decenni a questa parte, una articolatissima e densa riflessione teorico-critica sul testo letterario e sulla sua lettura-interpretazione ha sostanzialmente modificato, al di la` delle singole e pur divergenti tendenze o correnti, il nostro atteggiamento nei confronti del testo stesso, e in particolare della sua lettera, e quindi delle sue sfumature compositive, lessicali, sintattiche; abbiamo acquisito, insomma, una maggiore consapevolezza e quindi una maggiore sensibilita` e rispetto per il piano del significante, che non puo` non ripercuotersi sul nostro atteggiamento di traduttori, e di lettori di traduzioni. Ecco allora che la audace e avventurosa liberta` creativa di un Vittorini, che altera ritmi e nessi, interviene fortemente sulla punteggiatura, spezza, sposta e ricrea unita` di senso secondo un disegno compositivo e semantico del tutto affrancato dall’originale ci appare – o almeno appare a me – come esito di un momento felice, ma ormai inattuale, in cui la ricerca espressiva, per di piu` stimolata dalla scoperta di una letteratura e di una lingua nuova e in gran parte sconosciuta, si pone come prioritaria e autonoma nei confronti di un originale del quale si insegue, e magari con successo, lo Spirito assai piu` della Lettera. So bene di entrare in un terreno molto delicato, e del resto dei rischi di una aderenza eccessiva alla «lettera» – rischi di una lingua ingessata e costretta e alla fine, dunque, priva di «spirito» – abbiamo gia` parlato. E richiamarsi, al solito, al magico e fortunato «equilibrio» significa ben poco, se non una scommessa che si gioca volta per volta nella pratica quotidiana del tradurre. Resta il fatto che, quale che sia il nostro personale approccio critico-interpretativo, un diverso modo di accostarsi al testo letterario – piu`

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analitico, piu` sofisticato e mediato da una nuova consapevolezza teorica – comporta inevitabilmente anche un diverso modo di tradurre; e se la vitalita`, l’energia, l’audacia e la liberta` dei «maestri» e delle loro Belle Infedeli andrebbe comunque conservata come una lezione preziosa, quel tanto di inattuale e di datato insito in un rapporto con il testo originale di tipo empatico e immediato, ci «autorizza» e ci incoraggia a ri-tradurre quelle stesse opere, senza rinunciare a una qualche «bellezza», e cercando le nostre forme nuove, meno clamorose e piu` sottili, di «infedelta`». Il problema del che cosa tradurre (e quindi che cosa pubblicare), che si incontra e si intreccia in piu` modi con quello del come tradurre, aprirebbe uno spazio di riflessione molto articolato e complesso, dove entrano in gioco innumerevoli varianti, governate in gran parte dal caso (questo o quel testo in cui ci si imbatte, o che ci viene proposto), e poi da molti altri fattori, che vanno dal gusto e dall’affezione personale per certi autori e testi, alla loro adattabilita` al formato e allo spirito della collana e della casa editrice, alla loro presenza sul mercato e naturalmente – punto dolente e fonte di non poche delusioni – alla loro ipotizzabile «vendibilita`»; criterio, quest’ultimo, faticosamente e giustamente salvaguardato dagli editori nei confronti di entusiasmi e infatuazioni di stampo accademico-narcisistico da parte di coloro (di solito studiosi e professori – e io sono uno di loro) che, avendo «scoperto» o studiato o comunque incontrato appassionatamente un testo, tendono ostinatamente a vederlo come un possibile successo editoriale. Si tratta, ancora una volta, di questioni e di equilibri assai delicati; e` chiaro che la vendibilita` non deve essere un criterio esclusivo e neanche prioritario, e credo che un po’ di coraggio e di entusiasmo nel proporre anche testi commercialmente «difficili» paghi, alla fine, nella economia di una casa editrice e di una sua collana, conferendo fisionomia e riconoscibilita` ai suoi percorsi e ai suoi obbiettivi. Di questo entusiasmo voglio qui dare atto e ringraziare la casa editrice Marsilio, che piu` volte mi ha assecondato nelle mie piu` o meno giustificate infatuazioni; aiutandomi pero` in altri casi a ripensare e a valutare l’interesse e la possibile «fortuna», in piu` sensi, di una operazione editoriale. Credo di avere acquisito un salutare distacco, per esempio, da quel gusto amatoriale, tra l’antiquario e il collezionistico, per testi abbastanza sconosciuti, molto ricercati e magari mai tradotti, che e` tipico del neofita dell’editoria (quando non risponda naturalmente a uno specifico orientamento e progetto), e che approda alla pubblicazione di quelle operine raffinate ma spesso irrilevanti che vengono indicate con il lezioso e fastidiosissimo nome di «chicche». E il problema delle chicche non e` solo quello della loro scarsa vendibilita`, ma (e probabil-

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mente le due cose sono collegate) quello della loro distanza e chiusura o, per ritornare al nostro tema, potremmo dire della loro scarsa traducibilita`. Non in senso tecnico, naturalmente, ma in un senso assai piu` vasto e piu` difficile a definire, che ha a che fare con quella che Benjamin chiamava la sopravvivenza dell’originale, ossia con la sua capacita` di trasformarsi, di muoversi nel tempo, di acquistare sensi e risonanze inedite, di passare in lingue, tempi e culture diverse, di rispondere – e ogni volta in modo diverso – alle nostre domande e alle nostre aspettative. Traducibile e` dunque un linguaggio che contiene in se´ il mutamento delle parole e il rinnovarsi dei sensi, indipendentemente e al di la` della «verita`» di un ipotetico significato originale; cosı` come traducibili (e non «chicche») sono quelle storie nelle quali ritroviamo, e spesso con stupore, la nostra contemporaneita`. Imparare a riconoscere e ad apprezzare, negli originali, questo tipo di traducibilita` sarebbe un successo impagabile di un direttore di collana. Non ho ancora imparato, non e` detto che impari, ma forse sto migliorando; e questo grazie a quel dialogo/ascolto e quella interferenza con le traduzioni altrui (e ancor prima con le proposte di testi da tradurre) che, seppure in quel disagio di cui parlavo all’inizio, mi mette a confronto ogni volta con le domande circa i sensi, i modi e i motivi per cui quell’originale sembra portare (o non portare) con se´ i segni e le parole del nostro tempo e dei nostri linguaggi. Ancora un esempio, l’ultimo, dalla esperienza pratica della collana. Tra questi segni e parole del nostro tempo piu` recente c’e` indubbiamente una maggiore attenzione e sensibilita` verso il femminile, che intendo in una accezione molto ampia: scrittura – e lettura – di donne, scrittura su donne, personaggi temi e parole legate in mille modi diversi alla riflessione sul gender. Tutto questo comporta, tra l’altro, una ridefinizione del canone che e` anche, nel senso che indicavo poc’anzi, una ridefinizione del criterio di traducibilita`, per cui accadono, direi, sostanzialmente due cose: che appaiono «traducibili» oggi opere che non erano considerate tali qualche decina di anni fa (perche´ appunto relegate nella sfera piu` bassa del «femminile»: storie da donne, per donne, per lo piu` scritte da donne rimaste fuori da un canone legato a un’idea «alta» della letterarieta`); e che il modo di tradurre, in generale, risente piu` o meno consapevolmente di questa maggiore attenzione e sensibilita` a tematiche, parole, o perfino strutture grammaticali legate in qualche modo alla «differenza». Per il primo aspetto, ricordo lo splendido racconto La finestra della biblioteca di Margaret Oliphant, che e` stato per me, e per la collana, un

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regalo di cui sono grata a Maria Teresa Chialant, che ha avanzato e sostenuto con forza la sua proposta nonostante il pregiudizio di indiscutibili maestri, come Henry James e Virginia Woolf, nei confronti di questa scrittrice minore – contraddittoria, troppo prolifica, stilisticamente inadeguata e appesantita, nella scrittura come nella vita, da temi e problemi esistenziali, familiari ed economici prettamente «femminili». Ma La finestra della biblioteca e` un racconto perfetto, e fortemente innovativo proprio per il ruolo attivo che attribuisce allo sguardo – uno sguardo squisitamente femminile – nel penetrare e indagare quel territorio segreto e liminale che sta sulla soglia del visibile e di un vissuto quotidiano chiuso e limitato, appunto, dalle etichette e dai luoghi comuni del «femminile». In quanto all’altro aspetto di una nuova «traducibilita`», quello piu` legato al come della traduzione, mi piace concludere queste pagine con il ricordo di Silvano Sabbadini e della sua bellissima edizione di Lamia di John Keats, che mi ha suscitato, sulla traduzione e non solo, non poche delle riflessioni di cui ho cercato qui di dare conto. Studioso quant’altri mai lontano dalle mode, Sabbadini avrebbe certo accolto con ironico e giusto distacco la definizione della sua lettura di Lamia come «femminista»; ma non v’e` dubbio che, anche in questo come in molti altri sensi, si tratti di una lettura nuova del poemetto di Keats, e della figura della donna-serpente. Lamiaserpente, femme fatale, eterno femminino come seduzione travolgente e mortale, e illusione ingannevole e fatale nei confronti del reale, della ragione e della «Verita`»: questa, molto approssimativamente, la lettura critica tradizionale e canonica del poemetto, che Sabbadini legge invece come la messa in scena tragica di un processo di degradazione e alienazione dal se´, una feticizzazione in segni di entrambi gli amanti immessi e costretti – come l’amore stesso, come la poesia – in un circuito inevadibile di scambio e di mercificazione, del quale Lamia, appassionata e innamorata e infelice al pari di Licio, e` vittima struggente, con le sue spire, con i suoi colori, con la sua voce maliosa. Come passa, tutto questo, nella traduzione? Passa in molti modi sottili e appena percettibili: dall’attenzione che il traduttore pone alla scelta (diversa a seconda dei casi, ma non casuale) tra Serpente e Serpe, un maschile e un femminile che generalizzano il neutro, in inglese, Snake; alle leggere sfumature di senso, meno negative e meno stregonesche, che vengono attribuite ai molti termini paradigmatici (trammel up, mesh, entangle, ensnare, etc.) che costruiscono l’idea della trappola e dell’inganno teso da Lamia all’ingenuo Licio (avvolgere, per fare solo un esempio, anziche´ irretire); a leggere invenzioni «infedeli», come questa suggestiva allusione a un patrimonio tutto femminile di cultura, di linguaggi

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e di affetti che traduce l’inglese «woman’s lore», solitamente interpretato come «cose di donne», storie di donne seducenti, misteriose e probabilmente ingannevoli: Then from amaze into delight he fell to hear her whisper woman’s lore so well. Ed ecco la «bella infedele» di Sabbadini: Poi dall’incanto passo` alla delizia quando con perizia la sentı` sussurrare Quel che le donne dalle donne han saputo imparare.

SPLENDORE E MISERIA DELLA TEORIA IL CASO DELLA TRADUZIONE LETTERARIA di Stefano Manferlotti

1. Daro` inizio al mio contributo con una domanda provocatoria che potra` indurre i famigerati «addetti ai lavori» (fra i quali metto tranquillamente me stesso) a speculazioni il cui carattere esilarante o deprimente dipendera` dal temperamento di ognuno: quale ricaduta ha la riflessione teorica sull’attivita` del traduttore (letterario) piu` o meno professionista, individuabile come soggetto empirico operante nello spazio e nel tempo? La risposta e`: nessuna. Non risulta che Mario Bonfantini, prima di tradurre Rabelais, o Giulio de Angelis, prima di tradurre Joyce – tanto per citare cimenti di indubbia qualita` – abbiano avvertito il bisogno di compul1 sare Cicerone o Mounin. Ne´ si ha notizia che a studi teorici preliminari si siano dati l’Ettore Romagnoli traduttore dei classici greci antichi2 o il Vittorio Bodini patrono di Cervantes o il Roberto Calasso traduttore di Kraus.3 1

F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, trad. it. di M. Bonfantini, 2 voll., Einaudi, Torino 1953; J. Joyce, Ulisse, trad. it. Di G. de Angelis, Mondadori, Milano 1960. Quanto al titolo del mio intervento, ho tratto ispirazione dal noto saggio di Jose´ Ortega y Gasset, Miseria y esplendor de la traduccio´n (1937). 2 Penso all’intera raccolta di classici pubblicata in bella veste dall’editore bolognese Zanichelli a partire dagli anni ’20. 3 M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. it. di V. Bodini, 2 voll., Einaudi, Torino 1957; K. Kraus, Detti e contraddetti, trad. it. di R. Calasso, Adelphi, Milano 1982. Mi piace citare a questo punto, e a sostegno delle mie tesi, l’arguta frase di George Steiner che, evocando le figure di San Gerolamo e Lutero traduttori della Bibbia, parla di «artigiani irritati dal ronzio della teoria» (G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano 1994, nuova ed. accresciuta, p. 304. Il capitolo che contiene la frase si intitola non a caso «Le pretese della teoria». Rilevo, di passaggio e per restare in tema, l’ottima traduzione che del libro di Steiner fornisce Ruggero Bianchi).

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Ne consegue una seconda domanda: e`, questo, un male? Qui azzardero` una risposta che costituisce una meditata presa di posizione. Dal confronto con la nuda teoria, non rivestita di alcun abito pragmatico, il traduttore puo` ricavare benefici (mai decisivi, comunque) solo se una simile dialettica viene intesa nel senso di una piu` puntuale individuazione e dissezione analitica dei problemi che egli gia` affronta nella concretezza della sua attivita` professionale. In sintesi, e tangenzialmente all’argomentazione fin qui svolta: alla teoria della traduzione va riconosciuta una dignita` assoluta, purche´ la si veda come riflessione sul linguaggio in quanto tale, sui linguaggi storicamente definiti, sulla loro storia, sugli intrecci e contaminazioni determinati dall’incontro/scontro fra le lingue nel corso del tempo. E` tutto. Ogni altra pretesa nasce dal sofisma o dall’illusione. Il caso della traduzione letteraria e` particolarmente significativo. Qualche anno, o per meglio dire qualche decennio fa, alcuni, discettando di linguaggio letterario, diedero vita a due fazioni l’un contro l’altra armate: parlarono i primi di «scarto rispetto alla norma» come tratto distintivo dello stile letterario rispetto al cosiddetto «linguaggio comune»; replicarono i secondi che nulla va a distinguere, in linea teorica e di principio, il linguaggio comune da quello letterario: un’osservazione che, se fosse stata mantenuta nei limiti della logica e del buon senso, avrebbe potuto anche portare a riflessioni interessanti. Ma poi qualche spensierato del secondo gruppo, interpretando a modo suo istanze di per se´ gia` avventurose presentate da strutturalisti d’assalto, arrivo` a dire che cio` si estendeva anche al livello stilistico degli enunciati. A ben vedere, sostenevano questi non vedenti, fra l’eloquio di Donald Duck (al secolo italiano: Paperino) e quello di Henry Miller non vi sono differenze sostanziali o, almeno, non quegli abissi che vi aveva tracciati l’intellighenzia borghese.4 Esaminando piu` da vicino queste posizioni, si puo` rilevare che i primi dimenticavano, vistosamente, l’elementare e veneranda distinzione fra langue e parole, che alla luce dell’argomentazione fin qui svolta puo` essere cosı` riscritta: nell’ambito della comunicazione intesa come atto di intelligenza sociale, ciascun parlante compie in ogni momento della sua esistenza (tranne quando sogna o delira, ma temo che neanche di questo si possa esser certi) scelte espressive che potranno essere piu` o meno sofisticate ma

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L’intera questione e` ben ricostruita da Angelo Marchese nel suo Metodi e prove strutturali, Principato, Milano 1974, in cui contesta – fra l’altro – le istanze dei vari Guiraud, Henry, Rosiello, et alii, con argomentazioni (a dire il vero, meno radicali delle mie) che trovo convincenti ed alle quali mi associo.

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che individuano, per definizione, «scarti» rispetto ad un insieme di regolarita` differenziali; queste, a loro volta, sono il frutto di una sommatoria fra le potenzialita` insite nella lingua come sistema di relazioni complesse e cio` che si genera dalle loro attuazioni contingenti. Sfuggiva ai secondi, invece, che gli estensori delle storie disneyane e Henry Miller hanno in comune solo il materiale linguistico per cosı` dire «grezzo» e i tratti storico-sociali piu` vistosi della vita umana: fra loro vi e` la stessa differenza che si puo` cogliere fra un imbianchino e un pittore; o, se si vuole, fra il sarto da cui si veste la maggior parte delle comuni mortali e Valentino. Per quanto riguarda la letteratura, e` comunque il secondo drappello ad indurci a osservazioni piu` fertili, che ci consentiranno di avvicinarci finalmente al tema in discussione. Alla facile osservazione secondo cui nulla impedirebbe allo scrittore creativo (immaginiamo che continui ad essere il citato Henry Miller) di riprodurre mimeticamente la parlata di due camionisti (e cioe`, per via analogica rispetto al discorso fatto poc’anzi, l’eloquio di Donald Duck), si puo` subito replicare che gli studi sul realismo hanno ormai da tempo chiarito che non esiste una mimesi integrale, non solo perche´ ogni opera, in quanto finzione, si colloca di lato, di fronte, di sotto o di sopra alla realta` ma non la sostituisce – ne´, tanto meno, la incarna –, ma perche´ l’eventuale sezione governata da un mimetismo «radicale» acquista il suo senso solo in conseguenza dei rapporti che essa instaura con la struttura materiale e concettuale dell’opera specifica e quella del macrotesto in cui l’opera si inserisce. Alla definizione di tali significati dara` il suo contributo, non eludibile, anche tutto quanto circonda il testo, vale a dire: cio` che concorre a connotare l’autore empirico e il contesto in cui ha agito, cio` che ha letto e che puo` averlo influenzato, il rapporto che la sua opera intreccia con il canone letterario, con altri generi ed altri modelli del medesimo genere, con quanto viene individuato dalla natura e dai canali di trasmissione dei messaggi, dai rapporti con nemici e sodali, etc. etc. Da queste semplici osservazioni e` gia` possibile dedurre che il testo letterario si propone al traduttore come il piu` arduo ad affrontarsi, in virtu` di una complessita` di articolazione che a questo punto possiamo definire senza troppi timori genetica e che altri tipi di enunciati linguistici in tutta evidenza non possiedono. Cerchero` di definirla meglio, seguendo due percorsi che e` possibile condurre in parallelo solo perche´ lo impone la natura dimostrativa del mio intervento, ma che in realta` sono indissolubilmente intrecciati fra loro. Tratto peculiare della letteratura e`, fra gli altri, la sua generosita`. Potra`,

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la letteratura, non essere riflesso del mondo, ma di certo nel suo mondo accoglie tutto cio` che sia visibile o invisibile. Con semplici atti di cooptazione, la letteratura da` diritto di cittadinanza ad ogni cosa: sentimenti, oggetti materiali, paesaggi, sensazioni, voli della mente, stati della coscienza, ipotesi, galassie mai esplorate ed altri soli, ma anche a quant’altro fa corpo attorno al sostantivo «uomo», e cioe` tutte le arti, tutte le architetture, tutti i sistemi politici, tutte le professioni, tutte le religioni. Ognuno di noi ricorda il bel saggio di Auerbach su Rabelais e su quanto entra nella 5 capace bocca di Pantagruele . Ma la letteratura, se vogliamo continuare a servirci di un’immagine semanticamente vicina a quella dell’insigne filologo, ha un appetito ben piu` grande! Portare acqua a questo mulino non e` impresa ardua. Se vogliamo fermarci al Novecento, il sostegno piu` fermo ci viene offerto da Ulysses di Joyce, summa di un’intera civilta`, opera in cui idioletti e linguaggi specialistici di ogni specie, stili individuali e collettivi, trovano la loro ironica apoteosi, e cosı` la storia dell’Irlanda e dell’Europa, compresa quella letteraria, di cui il XIV episodio (Oxen of the sun) offre una sintesi quasi irritante nel suo virtuosismo mimetico. E non e` forse il celebrato incipit di Der Mann ohne Eigenshaften di Musil un precisissimo bollettino meteorologico, che a leggerlo appare fin troppo esteso, fino a quando la secca frase che lo chiude: «Era una bella giornata 6 d’agosto del 1913» non ne chiarisce la natura parodica? E le riflessioni dello sveviano Zeno Cosini, quale psicanalista non le sottoscriverebbe? Similmente, sarebbe impossibile cogliere i significati reconditi di The Theory and Practice of Oligarchical Collectivism, il documento della fantomatica «Confraternita», che nell’orwelliano 1984 leggiamo insieme al protagonista, e meno che mai cio` che si annida dietro le sinistre contrazioni del Newspeak, se non avessimo esperienza pregressa del «politichese» a cui si ispira il primo e del «cablese» che piu` di ogni altro modello informa il

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E. Auerbach, «Il mondo nella bocca di Pantagruele», in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1964, II, pp. 28-62. 6 ¨ ber dem Atlantik Converra` riportarne almeno le frasi di apertura e di chiusura: «U befand sich ein barometrisches Minimum; es wanderte ostwa¨rts, einem u¨ber Russland lagernden Maximum zu, und verriet noch nicht die Neigung, diesem no¨rdlich auszuweichen. [...] Mit einem Wort, das das Tatsa¨chliche recht gut bezeichnet, wenn es auch etwas altmodisch ist: Es war ein scho¨ner Augusttag des Jahres 1913.» (R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, Rowohlt, Berlin 1960, p. 9). Come si ricordera`, gran parte del romanzo apparve negli anni 1930-33. Il resto venne pubblicato postumo.

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7 secondo . I nomi di John Fowles, Peter Ackroyd, Antonia Susan Byatt, Graham Swift, Timothy Mo, Rose Tremain, Barry Unsworth (se vogliamo limitarci ad alcuni romanzieri inglesi contemporanei) sono sufficienti a ricordare altre pagine che parimenti assorbono cio` di cui palpitano il passato e il mondo in cui viviamo8. Il secondo percorso e` imposto dai modi in cui le diverse realta` subiscono questo processo di verbalizzazione integrale («What do you read, my lord?»...«Words, words, words», fa dire Shakespeare ad Amleto. Una delle piu` inquietanti definizioni della letteratura)9, vale a dire dalla combinazione degli elementi di cui si diceva prima, il cui esito e` dato da una fusione alchemica, sapiente e interamente consapevole di se´ (e` bene ribadire che ogni concezione medianica della letteratura va presa per quello che e`: una fola), che in quanto tale sa all’occorrenza applicarsi ai principi costitutivi del linguaggio, esaltandone le potenzialita`, sostanza sonora compresa. Di siffatta sovrapposizione offriro` ora un caso limite, citando un passo da Jacob’s Room, il romanzo che Virginia Woolf diede alle stampe nel 1922. E lo definisco «limite» non tanto per la perizia, davvero impressionante, dimostrata dall’autrice nello sciogliere e solidificare le parole come fossero cera, ma per il valore esemplare che il passo acquista – nell’ambito del discorso che vado qui conducendo – in quanto luogo retorico in cui la natura effettuale delle cose e le diverse proiezioni emotive che ad esse si accompagnano coesistono fino a diventare l’una l’interfaccia delle altre:

«The entire gamut of the view’s changes should have been known to her; its winter aspect, spring, summer and autumn; how storms came up from the sea; how the moors shuddered and brightened as the clouds went over; she should have noted the red spot where the villas were building; 7

Con «cablese» si indicano le convenzioni – in genere ingegnose contrazioni – utilizzate nei telegrammi, soprattutto da enti ed organizzazioni pubbliche (come l’esercito). Sul Newspeak e sul linguaggio del romanzo orwelliano, si puo` leggere il volume di W.F. Bolton, The Language of «1984». Orwell’s English and Ours, Blackwell-Deutsch, Oxford 1984. 8 Cito in particolare questi autori perche´ a loro si debbono interessanti contaminazioni di evi passati e trascorsi, che in qualche caso si spingono fino all’appropriazione linguistica. All’eta` vittoriana guardano Fowles (The French Lieutenant’s Woman, 1969), Ackroyd (soprattutto in Chatterton, 1987, e Dan Leno and the Limehouse Golem, 1994), Byatt (Possession, 1990), Swift (Ever After, 1992). L’imperialismo britannico di inizio ’800 e` ripreso col suo intero bagaglio linguistico in An Insular Possession (1986) di Mo. Alla Tremain si deve un romanzo-affresco dedicato alla Restaurazione (Restoration, 1989). Unsworth riprende addirittura il Medioevo in Morality Play (1995). Ma un elenco esauriente sarebbe ben piu` esteso. Naturalmente, qui non si fa alcun riferimento al valore estetico di queste opere. 9 W. Shakespeare, Hamlet, II, 2, 191-92.

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and the criss-cross of lines where the allotments were cut; and the diamond flash of little glass houses in the sun. Or, if details like this escaped her, she might have left her fancy play upon the gold tint of the sea at sunset, and thought how it lapped in coins of gold upon the shingle. Little pleasure boats shoved out into it; the black arm of the pier hoarded it up. The whole city was pink and gold; domed; mist-wreathed; resonant; strident. Banjoes strummed; the parade smelt of tar which stuck to the heels; goats suddenly cantered their carriages through crowds. It was observed how well the Corporation had laid out the flower-beds. Sometimes a straw hat was blown away. Tulips burnt in the sun. Numbers of sponge-bag trousers were stretched in rows. Purple bonnets fringed soft, pink, querulous faces on pillows in bath chairs. Triangular hoardings were wheeled along by men in white coats. Captain George Boase had caught a monster shark. One side of the triangular hoarding said so in red, blue and yellow letters; each line ended with three differently coloured notes of exclamation».10

La pagina, come si vede, rivela una padronanza assoluta della lingua inglese: il lessico, in particolare, e` scelto in modo da assecondare la progettualita` sinestetica dell’autrice e del narratore onnisciente, che a loro volta si situano per cosı` dire nella mente e negli occhi del personaggio che si lascia attrarre e prendere da simili viste. Accade cosı` che il ritmo delle tante asseverative, che si succedono come piccole onde, ed il suono stesso delle vocali e delle consonanti, fondendosi, facciano in modo che il mondo esterno e quelle che Proust chiamava «le intermittenze del cuore» vibrino, letteralmente, insieme. E` incontestabile che un compito gia` di per se´ arduo diverrebbe impossibile per chi volesse tradurre questo romanzo ignorando la poetica di una scrittrice fra le piu` raffinate e piu` consapevoli dei propri mezzi espressivi che, nel mentre mirava a recare sulla carta il carattere indistinto della materia (creata, direbbe Kafka, per essere all’uomo piu` di inciampo che di conforto), si sforzava anche di mostrare come in determinate epoche della storia umana l’interconnessione fra le arti diventi elemento di fondamentale importanza. Nel passo citato, e` la pittura – ed i modi della pittura protonovecentesca in specie – a rendere fitto d’ombre un paesaggio che pure dovrebbe possedere (almeno a giudicare dalla luce del sole che non di rado lo avvolge) nitidi contorni. Comunque sia, anche un’analisi cosı` parziale basta a mostrare come la doppia via alla quale prima facevo riferimento investa ogni discorso sulla 10

V. Woolf, Jakob’s Room, The Hogarth Press, London 1954, pp. 15-16.

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traduzione letteraria, perche´ va ad investire la stessa «istruzione formale» del traduttore. Nello stesso tempo, ci conferma nell’ipotesi che non si possano distribuire a chicchessia (se non da un punto di vista meramente burocratico, alla fine di corsi specifici) patenti di traduttore letterario. 2. Siamo cosı` entrati nel territorio delimitato da una serie di altre questioni: se sia possibile in assoluto insegnare a tradurre la letteratura; se sı`, a chi si possa insegnare, con quali metodi, con quali fini. Sappiamo bene che il mercato editoriale, ampio o ristretto che sia, non chiede certificazioni di sorta, facendo valere il criterio, empirico ma decisivo, che il valore di chi traduce si valuta sul campo. E` mia convinzione che la traduzione letteraria abbia, in sede di istruzione superiore e cioe` universitaria, un valore formativo indiscutibile, che non puo` pero` esser fatto coincidere sic et simpliciter con l’aspirazione a creare tanti traduttori professionisti quanti sono gli studenti. E questo non tanto perche´ si richiedano competenze linguistiche particolarmente elevate; per dir meglio, un’ottima conoscenza della lingua di partenza e di quella di arrivo per quanto si riferisce al livello morfologico e grammaticale e` requisito di fondo, per quanto non scontato: chiunque di noi ha modo di verificare nella pratica didattica quanto a pesare negativamente sia soprattutto la scarsa conoscenza che l’allievo ha della propria lingua. Qui, tuttavia, uno studio attento e capillare puo` riparare guasti anche di un certo rilievo. Se, pero`, torniamo a cio` che distingue l’opera letteraria da altri tipi di messaggi, e cioe` la strutturazione di universi possibili entro testi che per cosı` dire dialogano con se stessi, con altri testi e con l’intera storia dell’uomo, tanto passata quanto presente (e, nel caso della fantascienza e della letteratura avveniristica in genere, futura), edificati con finalita` soprattutto estetiche, comprendiamo come al traduttore letterario si chiedano numerose competenze in aggiunta a quella linguistica. Per dir meglio, il traduttore letterario deve possedere in via analogica le medesime competenze (sia pure ad un diverso livello, non dandosi in natura casi di metempsicosi o altre empatie) dello scrittore col quale si confronta, con la differenza – che purtroppo gioca tutta a suo sfavore – che le sue competenze debbono riguardare, come si diceva, almeno due realta` storicoculturali, considerate nella loro integrita` epistemica. Accanto a queste, va posta una qualita` fondamentale: la sensibilita` artistica, che non e` uno spiritello inafferrabile, ma la capacita` di sentire la lingua in tutte le sue potenzialita` espressive ed emotive; la capacita` di cogliere – per cosı` dire – il respiro del periodo, lo spessore immaginifico di una metafora, di una frase,

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di individuare anche quei momenti in cui il linguaggio viene sospinto a percorrere strade prima mai percorse. Sensibilita` artistica che non vuol dire capacita` artistica. La seconda appartiene solo allo scrittore creativo, di fronte al quale il traduttore deve assumere quell’umile atteggiamento ancillare che va richiesto a chi non ha ne´ pensato ne´ generato l’opera, ma se la ritrova davanti agli occhi nella sua compattezza, perfetta in quanto sottratta, almeno nei livelli di superficie, al tempo. Compito suo e` dar vita a qualcosa che sia un vivo riflesso dell’origi11 nale . Scopo nobilissimo, in virtu` del quale il traduttore «comune», «professionista», si trova anzi in posizione di vantaggio rispetto allo scrittore/traduttore, che per moto inerziale tende, se ci si passa l’immagine, ad apporre la sua griffe su tutto quanto traduce. Ha ragione Guido Ceronetti quando, nel chiudere la sua versione degli Epigrammi di Marziale, afferma: «Lettore, impara il latino! Invece di Ceronetti, leggerai Marziale». Chi di noi oserebbe, infatti, tradurre il poeta latino con la sua disinvoltura?: Un da-me-ri-no, Cotilo, dicono che sei. Lo sento dire: ma cos’e`, dimmi, un dame-rino? Un da-merino ha lo scriminatoio nel taschino, Sempre odora di rosa e gelsomino, Sussurra i canti arabi e i flamenchi, Le braccia rase muove in piu` cadenze, Tra le dame seduto e` tutto il dı´ E ai loro orecchi fa cı´-cı´-cı´-cı´; Ha un gran commercio di bigliettini, E` orripilato se tocca altrui polsini, Sa le cronache scandalose, e` a tutti i pranzi, E` laureato in genealogie equine. Cotilo, che dici mai? E` questo un rino-dame? 12 Damerino, mistero bello senza fine! 11

Steiner, nel gia` citato Dopo Babele, usa parole dalle quali ogni traduttore letterario puo` trarre motivo di grande conforto: «Vi sono traduzioni che sono atti supremi di esegesi critica, in cui la comprensione analitica, l’immaginazione storica, la competenza linguistica articolano una valutazione critica che e` al contempo un’esposizione assolutamente lucida e responsabile. Vi sono traduzioni che non soltanto rappresentano la vita integrale dell’originale, ma che la raffigurano arricchendo ed ampliando gli strumenti operativi della propria lingua. Infine – anche se si tratta di un caso assolutamente eccezionale – vi sono traduzioni che reintegrano, che raggiungono un equilibrio e una stabilita` di equita` radicale tra due opere, due lingue, due comunita` di esperienza storica e di sensibilita` contemporanea» (p. 483). 12 Marco Valerio Marziale, Epigrammi, trad. it. di G. Ceronetti, Einaudi, Torino 1979 (l’epigramma e` il LXIII del Libro III; la frase di Ceronetti e` a p. XVII). Gli anacronismi, i

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Ed allora. Essendo la traduzione atto interpretativo per eccellenza, sul piano della didattica avra` un duplice, ottimo fine: da un lato consentira` allo studente di conoscere meglio l’autore o gli autori in questione, perche´ l’esercitazione dovra` forzatamente identificarsi con un ingresso piu` o meno avveduto nel laboratorio concettuale, linguistico ed estetico dal quale e` sortita l’opera: quindi, la traduzione (naturalmente, quella che vede lo studente protagonista e non passivo ricettore di reperti antologici) come supporto e rafforzamento meditato del momento interpretativo. Dall’altro trasformera` lo studente in un soggetto vigile, piu` attento a captare tutto cio` che va a definire uno stile ed a distinguerlo da altri, tanto nella lingua propria quanto in quella appresa. Se poi per questa strada si paleseranno virtu` chiaramente definite o addirittura vocazioni, non si potra` che trarne motivo di soddisfazione.

funambolismi verbali e grafici (qui, la parola «damerino» variamente sezionata col tratto piccolo) giovano allo spirito caustico e barocco di Ceronetti e sono in buona sintonia con gli intenti blandamenti satirici di Marziale. Almeno finche´ certe liberta` non diventano dissonanze. Per fermarsi al lessico, nel Marziale di Ceronetti si riscontrano tutta una serie di stranezze: parole come harakiri, Speisekarte, dandy, retiros, niet, claque, tosan, disocupados, Achtung, cochon, blase´s... vengono impiegate con una frequenza di cui non si vede la necessita`. Con Marziale, tuttavia, Ceronetti e` quasi sempre a suo agio, e non di rado gli esiti sono di alto livello. Quando si tratta, pero`, di autori che basano il loro dettato su registri piu` articolati, il risultato appare meno convincente: penso a Catullo (con l’eccezione della magistrale traduzione del poemetto Attis) o a Giovenale, ai quali pure si e` applicato l’estro di Ceronetti. Per dirla chiaramente, troppe volte Catullo sembra Marziale, Marziale sembra Giovenale e tutti e tre sembrano Ceronetti. Quod erat demonstrandum.

LA FORZA DEL PENSIERO E I ˜ ORES: REMOTOS RUISEN IN MARGINE A UNA RECENTE TRADUZIONE ´ NGORA DEI SONETTI DI GO di Giulia Poggi

Non e` facile per me riflettere su di un’esperienza che mi ha a lungo coinvolto e da cui tuttora faccio una certa fatica a staccarmi. Un’esperienza che, per l’energia che ha comportato, per i rimpianti che ha lasciato (e che qui tentero` in minima nisura di motivare) e per il tipo di conoscenza che ha convogliato non esiterei a definire erotica. Se e` vero infatti che ogni traduzione e` un viaggio alla volta dell’altro, tanto piu` questo viaggio avra` bisogno di eros quanto piu` l’altro apparira` distante e sconosciuto. E sconosciuto Go´ngora lo e` davvero non solo per gli italiani, che appena a partire dalle versioni ungarettiane hanno cominciato a familiarizzarsi con le sue immagini e i suoi ritmi1, ma anche per gli stessi spagnoli che tuttora, per una forma curiosa di autocensura culturale, lo identificano con l’astrusita` e la freddezza espressive. Tuttavia non sono tanto questi pregiudizi a rendere ardua la resa della lirica gongorina nella nostra lingua quanto piuttosto la difficolta` – piu` spesso l’impossibilita` – a coniugare la sua struttura superficiale, affidata agli artifici del suono e della retorica, con quella profonda, articolata sulle coordinate logiche della sintassi. Dualismo, questo fra struttura superficiale e profonda, particolarmente evidente nel caso dei sonetti. Organismi minuscoli e compiuti, essi presen1 Sulle versioni gongorine di Ungaretti, cfr. Jose´ Pascual Buxo´, Ungaretti traductor de Go´ngora, Universidad del Zulia, Maracaibo 1968.

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tano, rispetto al modello italiano, un peculiare rafforzamento delle nervature argomentative che il traduttore deve sapere, prima di ogni altra cosa, scoprire e riconoscere. Dei duecentodiciotto sonetti che costituiscono il corpus dei gongorini, la maggior parte tende a risolvere la dialettica fra quartine e terzine propria del genere in ragione di un’argomentazione coerente e unitaria. Cio` che, se da un lato disegna il sonetto come una piccola porzione di pensiero, dall’altro ne fissa le coordinate attorno a parole chiave e figure retoriche portanti. E per dimostrare come il sonetto gongorino sia una piccola porzione di pensiero bastera` citare il celeberrimo e pluritradotto Mientras por competir con tu cabello (151) e il meno celebre (ma altrettanto tradotto) Urnas 2 plebeyas, tu´mulos reales (159) . Variazione sul tema classico e rinascimentale del «carpe diem» il primo, invito ascetico al raccoglimento il secondo, rappresentano ambedue, non solo la proiezione di motivi e tematiche controriformiste (la fuga del tempo, l’inutile bellezza, l’ineluttabilita` della morte), ma anche un saggio di poetica manierista la` dove per manierismo si intende, appunto, il sopravanzare del pensiero su di una griglia retorica che lo contiene. Una griglia che, se nel caso di Mientras por competir... si distribuisce su di una serie di correlazioni che attraversano l’intero sonetto, in quello di Urnas plebeyas... si attesta sulla ripetizione di una parola (memorias) che lo apre e lo chiude. Cosicche` mentre la riflessione del primo si configura come un imperativo racchiuso fra due temporali («Mientras...mientras...mientras...mientras...goza... antes que») quella del secondo si snoda come una duplice allocuzione evocante, nel giro di pochi versi, una densa raffigurazione infernale: Mientras por competir con tu cabello oro brun˜ido al sol relumbra en vano, mientras con menosprecio en medio el llano mira tu blanca frente el lilio bello; mientras a cada labio, por cogello, siguen ma´s ojos que al clavel temprano, y mientras triunfa con desde´n lozano del luciente cristal tu gentil cuello, goza cuello, cabello, labio y frente,

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Cito i sonetti secondo la numerazione dell’edizione che commento: L. de Go´ngora, I sonetti, a cura di G. Poggi, Salerno, Roma 1997; tutte le sottolineature, sia nei testi che nelle traduzioni, sono mie.

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antes que lo que fue en tu edad dorada oro, lilio, clavel, cristal luciente, no so´lo en plata o vı´ola troncada se vuelva, mas tu´ y ello juntamente en tierra, en humo, en sombra, en polvo, en nada. Urnas plebeyas, tu´mulos reales penetrad sin temor memorias mı´as por donde ya el verdugo de los dı´as con igual pie dio pasos desiguales. Revolved tantas sen˜as de mortales, desnudos huesos y cenizas frı´as a pesar de las vanas si no pı´as caras preservaciones orientales. Bajad luego al abismo, en cuyos senos blasfeman almas y en su prisio´n fuerte hierros se escuchan siempre y llanto eterno, si quere´is o memorias por lo menos con la muerte libraros de la muerte y el infierno vencer con el infierno.

Ambedue i sonetti sono attraversati da un movimento sintattico verticale, il quale a sua volta si incrocia con gli artifici orizzontali della ripetizione. E tale incrocio ho cercato di rispettare rendendo, nel primo caso la dissonanza dell’ultimo verso pentamembre rispetto alla griglia quadripartita del sonetto, nel secondo la duplice redditio finale: Finche´ per vincere sui tuoi capelli l’oro brunito splende al sole invano, finche´ sprezzante guarda in mezzo al piano la tua candida fronte il giglio bello, finche´ le labbra inseguono per coglierle piu` occhi che il garofano precoce, finche´ trionfa con sdegnosa luce sul lucido cristallo il tuo bel collo godi collo, capelli, labbra e fronte prima che quanto fu in giorni dorati oro, giglio, garofano, cristallo, non solo argento o viola reclinata divenga, ma tu insieme a tutto questo terra, polvere, fumo, ombra, piu` nulla. Urne plebee, tumuli reali, o mie memorie visitate impavide,

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la` dove gia` il boia dei giorni mosse difformi passi se con piede uguale. Frugate in tanti resti di mortali, ossa deserte e ceneri ormai fredde, malgrado le pietose eppure vane care degli orientali previdenze. Scendete poi all’abisso nei cui seni imprecano le anime e di ferri sempre s’ode rumore e pianto eterno, se volete o memorie perlomeno liberarvi con morte dalla morte e con l’inferno vincere l’inferno.

Insomma, volendo mantenere la struttura unitaria che salda i due sonetti il traduttore dovra`, nel primo rendere la suspence, la fuga di oggetti e colori protesa verso il finale, nel secondo il suo afflato, quasi direi l’accorata lamentazione che lo pervade e che cosı` bene colse Franco Fortini quando, nell’apprestarsi a tradurlo, parlo` della sua struttura sinuosa, come di un cobra3. Ebbene, la testa e la coda del cobra risiedono proprio nella sua parola chiave (memorias), oggetto non a caso, delle piu` diverse soluzioni. L’oscillazione semantica e di genere con cui i traduttori rendono l’astratto interlocutore del sonetto («memoria» in Ungaretti, Traverso, Greppi, «pensiero» in Fortini e Macrı´, «scrizio´ne» nel napoletano Ba`ino)4, ben riflette la sua concentrazione «morale» e al tempo stesso la sua difficile resa in ordine ai nessi sintattici che lo organizzano. Per quanto mi riguarda penso che la riduzione dal plurale al singolare (cosa che fanno, eccetto Ba`ino, tutti i traduttori ) non renda ragione dei controversi pensieri sulla morte che animano il testo il quale costituisce, fra l’altro, un rifacimento – quasi una traduzione – di un sonetto devozionale di Angelo Grillo, (dove l’autore si appella ai «pensier vaghi e infermi»5.)

3 Le osservazioni di Fortini che precedono la sua versione del sonetto sono contenute in Sonetto da Go´ngora, in «Paragone», 396, febbraio 1983, pp. 6-8. 4 Questa la provenienza delle versioni citate: Giuseppe Ungaretti, nel suo Vita d’un uomo, Da Go´ngora e da Mallarme´, Mondadori, Milano 1948, p. 301; Leone Traverso, in Luis de Go´ngora, Sonetti, Cederna, Milano, 1948 (ora ristampati con un’introduzione di Oreste Macrı` e una versione del sonetto in questione ad opera dello stesso per Passigli, Firenze 1993, p. 92 e p.116 ); Cesare Greppi in Luis de Go´ngora, Sonetti, introd. di F. Fortini, Mondadori, Milano 1985, p. 55; Franco Fortini, Sonetto da Go´ngora, cit, p. 7; Mariano Ba`ino, nel suo Onne ‘e terrra, Pironti, Napoli 1994, p. 79. 5 Cfr. Giulia Poggi, Un soneto de Go´ngora y su fuente italiana, in Estado actual de los estudios sobre el siglo de oro, Universidad de Salamanca, Salamanca 1993, 2 volls, II, pp. 787-93.

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Cosa sono infatti le memorias cui il poeta si rivolge? Il pensiero filosofico della morte o la sua presa di coscienza in ambito strettamente penitenziale? La sua celebrazione concreta (le scritture «ultime» come si evince dalla soluzione di Ba`ino) o il suo astratto ricordo? Di fronte a tali quesiti il traduttore e` costretto a scendere in profondita` nel testo senza farsi condizionare dalla sua veste sonora; oltrepassarla se necessario, consapevole che una resa conservativa del significato potra` entrare, per forze di cose, in conflitto col significante originario. E tuttavia non sempre la struttura sintattica e logica che tiene insieme il sonetto gongorino si rende evidente a prima vista, non sempre il suo andamento unitario, obbediente a quella legge aurea secondo cui il sonetto 6 si articola su di un solo concetto viene, ai fini della traduzione, percepito. A fronte del caso esaminato, in cui il raccordo fra quartine e terzine e` evidente, altri ve ne sono che si snodano secondo una ripresa sintattica trascurata dai traduttori. Non e` raro cosı` trovare ripristinata nelle versioni italiane di alcuni sonetti gongorini la frattura fra ottava e sestina proprio la` dove il cordovese l’aveva, attraverso un’intensificazione di strutture anaforiche, oppositive o comparative, annullata. Gia` altrove ho notato come, a proposito di una versione di Piero Chiara, la non individuazione di un nesso oppositivo si sia risolta in un indebito smembramento del sonetto7. Vorrei aggiungere a questo il caso dell’amoroso Gallardas plantas que con voz doliente (76) in cui, ancora una volta saldandosi ad una struttura allocutiva, il mito di Fetonte si fa portavoce di una lunga preghiera da parte dell’io lirico. Cardine di questa lunga preghiera e` la ripetuta formula votiva attraverso cui il poeta promette alle sorelle del figlio del sole refrigerio e frescura purche´ queste ultime piangano il suo pazzo ardimento amoroso: Gallardas plantas que con voz doliente al osado Faeton llorastes vivas, y ya sin invidiar palmas ni olivas,

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Cfr. Juan Dı´az de Rengifo, Arte poe´tica espan˜ola, Imprenta de M. A. Martı´n Viuda, Barcelona, 1759, p.95: «De ordinario [il sonetto] no lleva sino un solo concepto, y esse dispuesto de tal manera, que no sobre, ni falte nada». 7 Cfr. Giulia Poggi, Le acque e le pietre dei traduttori di Go´ngora, in Muratori di Babele, a cura di M. G. Profeti, F. Angeli, Milano 1989, pp. 187-218. La traduzione di Chiara esaminata e` quella del funebre 149 (Aljo´fares risuen˜os del Albı¨ela ) in cui lo scrittore non riconosce il duplice imperativo rivolto alle acque del fiume perche` queste ultime non si dolgano (no os duela) del ricordo della defunta ma solamente (os duela) del pastore rimasto sulla sponda a onorarne la scomparsa.

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muertas pode´is cen˜ir cualquiera frente, ası´ del rayo estivo al sol ardiente blanco coro de Nayades lascivas precie ma´s vuestras sombras fugitivas que verde margen de escondida fuente y ası´ bese (a pesar del seco estı´o) vuestros troncos ya un tiempo pies humanos el raudo cruso desde umbroso rı´o; que llore´is (pues llorar solo a vos toca locas empresas, ardimientos vanos) mi ardimiento en amar, mi empresa loca.

La traduzione di Mucchi che, pur conservando lo schema rimico del sonetto, ne trascura l’ossatura argomentativa rischia di far perdere completamente di vista il pensiero che lo ispira8. Si tratta infatti di una versione impressionistica che recepisce del testo gongorino solo sprazzi e frammenti di immagini. Immagini suggestive certo, cosı` come suggestivo e` il ritmo che il traduttore riesce a ricreare, ma pericolosamente staccate dal tronco dell’argomentazione: O rigogliose piante che Fetonte il temerario lamentaste vive, da morte gareggiar con palme e olive potreste, a coronar qualsiasi fronte, e mentre a questo sole, al raggio ardente, coro di bianche Naiadi lascive gradisce le vostre ombre fuggitive meglio che verde riva e ascosa fonte, lambisce (nell’arsura dell’estivo secco) i tronchi gia` un tempo piedi umani, corrente d’impetuoso e ondoso rivo. Piangete (perche` solo a voi s’addice piangere gli ardimenti pazzi e vani) il mio amoroso ardir, pazzo e infelice.

Non riconoscendo la funzionalita` della duplice formula votiva (ası´...ası´, posta, oltretutto, in risolto anaforico), Mucchi finisce per smembrare il movimento che salda la prima alla seconda parte del sonetto restituendoci

8

La versione di Mucchi (pubblicata per la prima volta nel 1948) e` inserita, insieme a quella di altri due sonetti, nell’edizione cit. dell’antologia di Go´ngora tradotta da L. Traverso e curata da O. Macrı`, p. 113.

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in forma frammentaria un testo che invece, come ho cercato di suggerire nella mia versione, dovrebbe essere letto tutto d’un fiato: Gagliarde piante che con mesta voce vive piangeste l’audace Fetonte ed ora non seconde a palme e olive, morte potreste cingere ogni fronte, cosı` del sole estivo al raggio torrido bianco coro di Naiadi lascive apprezzi piu` le vostre fuggenti ombre che il verde bordo di fonte furtiva, e cosı` baci, nell’arida estate, i vostri tronchi – un tempo piedi umani la corrente di quest’ondoso rivo se piangerete, che´ soltanto piangere vi tocca vane gesta, ardue follie la mia follia, le mie gesta amorose.

Che poi all’origine della frammentazione di Mucchi stia un approccio volutamene asistematico, attento ai riflessi visivi del messaggio gongorino piu` che alla sua forma intima non fa altro che confermare l’impronta estetizzante con cui, nel secondo dopoguerra, e` stata affrontata la poesia del cordovese e spiegare perche` fino ad oggi il Go´ngora conosciuto in Italia sia piu` il poeta dei colori e delle immagini che quello del ritmo profondo9 e del pensiero. Eppure questo pensiero puo` leggersi molto bene non solo nella tendenza del sonetto gongorino a organizzarsi attorno a cardini sintattici, ma anche nella coesione semantica che lo caratterizza e che costituisce il secondo livello di comprensione cui il traduttore gongorino deve iniziarsi. Se e` vero infatti, come ricorda uno dei primi critici di Go´ngora10, che il sonetto e` paragonabile a una costruzione architettonica, il traduttore deve, una volta che ne ha scoperto i muri portanti, riuscire a penetrare nel suo interno, interno che, nel caso del poeta di Cordova, si organizza spesso attorno a un’idea centrale, a una parola chiave che va saputa riconoscere e restituire. Fondamentale ad esempio e` rispettare il poliptoton che chiude il

9 Sulla fedelta` della resa di Mucchi in ordine al ritmo del sonetto si esprime Benvenuto Terracini, Sul problema della traduzione, introd. di B. Mortara Garavelli, Serra e Riva Editori, Milano 1983, pp. 89-90. 10 Si tratta in realta` di una descrizione del sonetto compiuta da Schlegel che Ernst Brockhaus riporta nel suo Go´ngoras Sonettendichtung, Bochum 1935, (diss.), p. 7.

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65 sulla gelosia («Oh celo del favor verdugo eterno /vue´lvete al lugar triste donde estabas/ o al reino si alla´ cabes del espanto/ mas no cabra´s alla´, que pues ha tanto /que comes de ti mismo y no te acabas/mayor debes de ser que el mismo infierno») in modo da rendere l’idea di un sentimento abnorme, che non cabe, non entra da nessuna parte: O eterna giustiziera del favore o gelosia ritorna dove stavi, nel regno se ti accoglie, di spavento. Ma non ti accogliera` che se da tanto di te stessa ti nutri e mai ti estingui grande sarai piu` dello stesso inferno.

Cosı` come va saputa riconoscere la semantica del furto nel 9 dove il conte di Salinas viene celebrato per essersi sottratto (letteralmente «rubato») alla vita civile o, in tutt’altro contesto, nel 46, dove l’attacco si conferma qualche verso dopo a indicare l’ingannevole opera del pittore («Hurtas mi vulto, y cuanto ma´s le debe/..../belga gentil, prosigue el hurto noble/...»). Non sempre, tuttavia, la coerenza semantica del sonetto si esprime attraverso le figure della ripetizione: a volte essa si attesta su di un termine emergente o per la sua rilevanza fonica o per la sua pregnanza etimologica. E` il caso del cultismo occidental, attorno a cui si costruisce l’incipit del 164 («En este occidental, en este, o Licio/climate´rico lustro de tu vida/todo mal afirmado pie es caı´da/ toda fa´cil caı´da es precipicio/...») e che, riverberandosi nello zafiro soberano della sua chiusa (e cioe` l’oriente della rinascita, indicata dal chiarore della pietra di zaffiro), sembrerebbe indicare una circolarita` metaforica non piu` compresa fra le righe del testo ma affidata al contesto (quello biblico) che si indovina fuori di esso. E cio` per ribadire, da un lato la priorita` che il traduttore deve dare alle parole chiave del sonetto, dall’altro l’attenzione che egli deve prestare al lessico che lo intesse e che, calibrato su vari livelli, risponde di volta in volta a criteri di classicita`, letterarieta`, quotidianita`. La frequentazione dell’intero corpus dei sonetti (compresi i satirici e gli attribuiti, gran parte dei quali non e` stata mai resa in italiano) svela infatti la coesistenza in Go´ngora di repertori lessicali diversi e assai complessi, ciascuno dei quali richiede un diverso approccio di traduzione. Relativamente facile e` rendere un certo tipo di cultismi (al caso appena citato di occidental potremmo aggiungere quello di ostenta, esplendor ecc.), anche se spesso la loro somiglianza con l’italiano puo` ingannare, inducendo

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a una traduzione che nella nostra lingua suona piatta e priva delle implicazioni classiche contenute nell’originale. Come rendere ad esempio il sintagma varia imaginacio´n cui il poeta si rivolge per intessere un sonetto di sapore tassesco sulla fantasia (il 74)? Vario ha nello spagnolo aureo piu` di un significato, indicando ora mutevolezza e incostanza, ora multiformita`, ora differenza. Significati che ho cercato di sintetizzare nel sintagma «svariata fantasia», ma avrei potuto anche, saldandomi alla semantica aerea che intesse l’intero sonetto, risolvere con «mobile fantasia» oppure foscolianamente (ricalcando il «diverso esiglio» di Ulisse) con «diversa fantasia». Complesso anche il caso dei due cultismi che intessono la prima quartina del 99. Modulati su due particelle latine, essi suggeriscono l’idea di un simbolico concepimento con successivo parto, quasi che l’aurora, ossia la gioventu` della donna cantata avesse concepito (ad-mitio´) i suoi occhi, stelle che poi il mattino avrebbe «esposto» (ex-pondra´) come soli appena nati: Oro no rayo´ ası´ flamante grana como pu´rpurea vuestra edad de ahora las dos que admitio´ estrellas vuestra aurora y soles expondra´ vuestra man˜ana.

Al traduttore non resta che scegliere se mantenere i due latinismi in italiano (per esempio: «le due che ammise stelle vostra aurora/ e che soli esporra` il vostro mattino», con il rischio di un minimo slittamento di significato) o mutarli leggermente, ferma restando, come nella soluzione che ho adottato, la loro dialettica interna: Oro non illustro` fiammante grana come i purpurei vostri anni ora le stelle accolte dalla vostra aurora che soli mostrera` il mattino chiaro.

Meno problemi presenta a chi affronti i sonetti gongorini il lessico petrarchista. Abbondante negli amorosi e spesso formalizzato in sintagmi fissi, esso puo` essere reso alla lettera, quasi se ne dovesse indicare, denunciare la convenzionalita`. Tuttavia anche in questo caso, se relativamente facile e` rendere binomi lessicalizzati (quali «bella mano», «blanca mano» «blanco pie») oppure

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ossimori della voluptas dolendi («fieramente humano» «error galano», ecc.), meno facile e` trasporre in italiano voci di un petrarchismo di ritorno, fondato, e` vero, su di un codice convenzionale (e di cui il traduttore non solo puo`, ma deve indicare lo spessore letterario) ma anche su di una terminologia specifica e settoriale. Insistente ad esempio, sempre nei sonetti amorosi, la presenza del linguaggio tessile, spesso evocato per avviare paragoni celebranti la bellezza muliebre (come nel 99 in cui la giovane eta` della donna veniva paragonata alla grana, panno scarlatto bordato d’oro) o per suggellare immagini celesti (come nell’ 85, in cui le scie lasciate da Fetonte nel cielo sono chiamate cenefas, bordi cinerei evocanti la lunga striscia costellata di stelle in cui nella cartografia del tempo veniva raffigurato l’Eridano). Cosı` come nei funebri e` dato riscontrare una penetrazione del lessico giuridico (il pastore che piange la sposa perduta nel 149 e` un lacrimoso informante), politico, musicale. E senza andare piu` oltre con questa esemplificazione bastera` dire che il traduttore dei sonetti gongorini si trova spesso di fronte a un ibrido lessicale che dovra` rendere nelle sue gradazioni e nel suo specifico equilibrio, alternando forme letterarie a forme ispaniche, voci colte a spunti tradizionali e coloristici. Come rendere, ad esempio, il sintagma dulcemente zaharen˜a riferito alla bella scontrosa del 74? L’avverbio discende dalla piu` pura tradizione petrarchista mentre l’aggettivo, forgiato su di un termine arabo che rimanda a una qualita` attribuita agli uccelli selvatici, non trova un facile corrispettivo nella nostra lingua. Ne` particolarmente facile e` tradurre il clavel temprano del gia` citato Mientras por competir con tu cabello. Oggetto di numerose variazioni dalla prima generazione di traduttori gongorini («precoce garofano» nel primo Ungaretti; «garofano d’aprile» in Traverso; «mattutino garofano» in Mucchi 10); «primulo garofano» nel secondo Ungaretti) esso riflette una specificita` ispanica, tanto che l’anomalia del fiore nel contesto metrico del sonetto finisce per riverberarsi sull’aggettivo che lo accompagna e quest’ultimo provocare una serie di spostamenti (la trasformazione del ritmo da piano in sdrucciolo, la creazione di un enjambement assente nell’originale) che incidono profondamente sul suo equilibrio. E cio` e` tanto piu` significativo se si pensa al ruolo giocato dal lessico floreale, cosı` come da quello minerale, nella langue gongorina, langue in cui, e` bene ripeterlo, il codice petrarchista sussiste intrecciato a suggestioni di altro tipo e provenienza che spetta al traduttore riconoscere ma anche, ove lo ritenga opportuno, interpretare.

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Occorre infatti distinguere tra i casi in cui e` necessario rispettare, additare il petrarchismo come codice, da altri in cui esso, facendosi portavoce di una semantica della meraviglia e del desiderio, puo` essere assimilato ad esiti moderni. Non staro` qui a rimarcare quanto importante sia, a proposito della meraviglia, rispettare tutte le pause esclamative del sonetto, o i suoi incipit comparativi, oppure ancora il lessico visivo che con frequenza entra nelle sue giunture di senso; piuttosto mi interessa soffermarmi sulla valenza di termini che, come deseo, cuidado, ausencia se da un lato rafforzano il lato petrarchista del poeta di Cordova, dall’altro ne fanno un suo estremo – quasi ribelle – interprete. E cio` non tanto per la difficolta` di rendere in traduzione termini che, come deseo entrano spesso in conflitto con la misura dell’endecasillabo (conflitto non sanabile con scelte intermedie quali «desio» o «brama») quanto per il posto di rilievo che essi occupano nell’economia del sonetto, emergendo ad esempio, quasi a suggellarne l’intera rete semantica, dalla sua chiusa. Tale rilievo va segnalato con una resa forte che esca dalle convenzioni o, come nel caso del 34, faccia balzare in primo piano un vero e proprio sentimento di privazione: que el Betis hoy que en menos gruta cabe urna suya los te´rminos del mundo lagrimoso hara´ en tu ausencia grave. che´ oggi il Betis costretto in minor grotta fara` sua urna i confini del mondo piangendo la tua grave lontananza.

E tuttavia, questo excursus attraverso il Go´ngora cultista e petrarchista, sia pure di un petrarchismo inframezzato da spunti coloristici e quotidiani o, all’opposto, da sotterranee tensioni enfatiche di stati d’animo e sentimenti, non rende intera ragione dell’ampio spettro linguistico attorno a cui si articolano i suoi sonetti, ne` dei risvolti concettisti che si nascondono in molti di essi. Risvolti abbastanza trascurati finora, forse perche` la classica contrapposizione fra concettismo e culteranesimo ha indotto a tradurre piu` il poeta del frammento classico e della rivisitazione petrarchista che quello del witz, dell’acutezza, del duplice o triplice senso. Si tratta in realta` dello stesso poeta, solo che, mentre il primo trova una facile rispondenza in italiano, il secondo puo` essere tradotto solo a meta`

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proprio per la carica allusiva che comporta il suo impianto lessicale, per cio` insomma che esso lascia fuori dal testo e che solo in un contesto ispanico – e ispanico del secolo d’oro – puo` essere in profondita` e in tutte le sue articolazioni recepito. Non e` un caso allora che molti di questi sonetti di impianto concettista non siano mai stati affrontati dai traduttori, i quali hanno preferito attestarsi sulla soglia visibile della lirica gongorina dando ragione a quanti – come Cervantes o Gracia´n – additavano nella pratica del tradurre un residuo incolmabile. Incolmabile e` ad esempio l’ambiguita` semantica che percorre il sonetto 71, citato nell’Agudeza di Gracia´n, come prototipo di «argomento concet11 toso affidato alle disparita` delle circostanze» e tutto giocato su di una indistricabile rete di significati giuridici, musicali, metapoetici: Con diferencia tal, con gracia tanta aquel ruisen˜or llora que sospecho que tiene otros cien mil dentro del pecho que alternan su dolor por su garganta; y aun creo que el espı´ritu levanta – como en informacio´n de su derechoa escribir del cun˜ado el atroz hecho en las hojas de aquella verde planta. Ponga pues fin a las querellas que usa, pues ni quejarse, ni mudar estanza por pico ni por plumas se le veda; y llore solo aquel que su Medusa en piedra convertio´, porque no pueda ni publicar su mal, ni hacer mudanza.

La difficolta` di tradurre tale sonetto va di pari passo con quella di trovare in italiano termini che conservino l’ambiguita` semantica che esso suggerisce. Come rendere ad esempio il mudar estanza della sua chiusa mancando in italiano un termine che, come lo spagnolo estanza, coniughi il significato poetico di «strofa» con quello burocratico di «istanza» («essere di stanza», «fare istanza»)? Al traduttore non resta altro che attestarsi su uno solo dei campi semantici adombrati dal poeta, con il rischio di produrre, come nel 11

Cfr. il XXXVI capitolo dell’Acutezza e l’arte dell’ingegno di Baltasar Gracia´n, trad. di G. Poggi, coord. di B. Perin˜a´n, Aestetica, Palermo 1986, significativamente intitolato «Degli argomenti concettosi».

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caso della mia versione, una rima identica incongrua, perche` assente nel testo: Con tante variazioni, tanta grazia canta quell’usignolo che sospetto altri mille ne serri dentro al petto che si scambiano in gola la lagnanza; e credo che a tal punto il cuore innalzi come per denunciare un suo diritto scrivendo del cognato il gran misfatto sopra alle foglie di una verde pianta; ma ponga fine all’usato lamento che´ ne´ il lagnarsi ne´ il mutar di stanza dal becco e dalla piuma gli e` vietato; invece pianga chi la sua Medusa rese di pietra perche´ piu` non possa il suo dolore esporre, cambiar stanza.

Avrei potuto, volendo conservare la sfumatura giuridica della chiusa, rendere l’ultimo verso con «esporre il suo dolor, fare altra istanza»; ma anche in questo caso sarebbe andata persa una parte di significato e disattesa la complessita` del testo. Se poi tale complessita` risiede non nell’argomento concettoso del sonetto, non nelle sue sfumature letterarie, ma in un volontario ammiccamento del poeta nei confronti di un destinatario contiguo al testo, l’impresa si fa da difficile disperata. Come rendere, per additare il caso piu` evidente, l’accentuata, quasi ossessiva polisemia del termine ojo da cui prende spunto gran parte dei satirici e degli attribuiti? Rovescio di quella semantica delle lacrime che intesse il lato nobile della lirica gongorina, esso assume in quello basso tutta una gamma di sfumature scatologiche e sessuali che difficilmente possono trovare una resa credibile in italiano, a meno di non rompere la circolarita` metaforica che informa molti di questi sonetti oppure – cosa ancora piu` pericolosa trattandosi di testi allusivi – spiegarne la comicita`. E cio` perche` tradurrre tali sonetti significa prima di tutto conoscerne l’antefatto, poi svelarne il tessuto semantico e solo in ultima istanza, restituirne, se possibile, la pointe satirica. Dire, come nel 108, che il fiume Esgueva «como el ma´s notable de los rı´os/tiene llenos los ma´rgenes de ojos» significa confermare l’occasione che aveva portato il poeta a scrivere alcune letrillas scatologiche contro la corte, ma anche suggerire che que-

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st’ultima e` piena di omosessuali: «buchi» potremmo tradurre invece di «occhi», se non fosse che la semantica del vedere che percorre fin dal suo inizio tutto il sonetto («Oh que malquisto con Esgueva quedo», ossia letteralmente: «come sono mal visto dall’Esgueva») emerge con voluta chiarezza nella sua parte finale. Difficile anche rendere termini quali particular e canicular i quali, per un minimo scarto del significante italiano, perdono la carica arguta presente nella loro virtuale scomposizione (parti-colare non e` la stessa cosa che parti-cular), oppure poliptoton come servidor sirvio´/servidores del 177 o corrido/corras/corredor del 218, allusivi il primo di pratiche a sfondo scatologico (servidor e` il pitale) il secondo delle «corse» fatte da Lope de Vega per ottenere il posto di segretario (ma correr ha anche il significato, ahime´ trascurato nella mia versione, di «vergognarsi»). Vero e` che lo scontrarsi con queste punte estreme del linguaggio gongorino se da un lato fa affiorare i limiti contro cui si dibatte il traduttore, dall’altro lo mette a parte dei topoi satirici piu` visitati da Go´ngora, di una sorta di lessicalizzazione dell’osceno cui egli ha la possibilita` di attingere per svelare luoghi rimasti incompresi e assicurare, al tempo stesso, continuita` al suo lavoro. Fin qui dunque la parte logica del sonetto gongorino, il risvolto argomentativo e concettoso, il pensiero che lo attraversa e che si nasconde nelle pieghe dell’assetto linguistico, si distende lungo l’ossatura dell’intero testo, si raccoglie nei punti semantici di maggior rilievo. Pensiero di cui la retorica attraverso cui siamo stati abituati a leggere Go´ngora (simmetrie, chiasmi, bimembrazioni, correlazioni ) altro non e` che il riflesso piu` esterno, una conseguenza in cui il traduttore dovrebbe imbattersi con relativa spontaneita`, riuscendo a riconoscere, dietro allo schermo del significante, i tratti essenziali da quelli puramenti esornativi. I quali tratti sono in Go´ngora – ed e` questa la prima scoperta del viaggio di conoscenza attorno ai suoi sonetti – minimi, quasi nulli. Basata in gran parte sul principio della ripetizione, la retorica gongorina non ha infatti mai niente di gratuito o di estetizzante, per cui il traduttore dovra` ripetere la` dove il poeta ripete, elidere la` dove il poeta elide, variare la` dove il poeta varia. Operazioni che non sempre vengono propiziate, anzi piu` spesso intralciate dalla vicinanza fra le due lingue. Niente infatti come la versione di un testo affine (e doppiamente in questo caso, trattandosi di una forma metrica italiana, composta, perdipiu`, in una lingua «amica» della nostra) mette in luce il duplice movimento del traduttore, al quale e` dato discostarsi dal testo ma solo per tornarvi e scoprire che tutto in esso, e soprattutto quando si tratta di poesia, ha un suo precipuo significato.

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E tuttavia la scoperta del pensiero e della compattezza semantica (con i suoi risvolti concettisti) che soggiacciono al sonetto gongorino e` condizione necessaria ma non sufficiente per la sua traduzione se e` vero che, come suggerisce una possibile etimologia del termine sonetto, esso si configura come un piccolo, omogeneo sistema sonoro. E` questo l’altro versante su cui deve lavorare chiunque si cimenti nella traduzione di Go´ngora e, nel caso specifico, dei suoi sonetti. Minuscole porzioni di pensiero, ma al tempo stesso di suono, («piccoli suoni», appunto), essi fondano la loro bellezza sugli artifici retorici dell’argomentazione, ma anche su quelli musicali del ritmo, della misura metrica, della rima. Ingranaggi tutti che il traduttore puo` rendere solo in parte obbligato com’e`, in questo caso piu` che mai, a scegliere. Scegliere – ed e` stata la mia scelta – se conservare la misura dell’endecasillabo a scapito della rima, se cercare di rendere tutte e due (con il rischio di sacrificare, come si e` visto in certe versioni commentate, tratti importanti dal punto di vista sintattico e lessicale), se infine – come fece Ungaretti con il Polifemo – disattendere ambedue, in vista di una ricostruzione «moderna» ed ermetica del testo12. Quello che a mio parere un traduttore non deve mai fare (e tanto piu` trattandosi di un poeta della dificultad come Go´ngora) e` ricorrere a compromessi e soluzioni facili che finiscono per allontanarlo dal testo di partenza piu` di quanto farebbe se rinunciasse a ricostruirne la complessita`. Una complessita` costruita su minimi scarti e inflessioni che non serve mimare ricorrendo a improbabili troncamenti, («fe´ » «pie`», ecc. ) arcaismi dissonanti con il resto del tessuto linguistico («avea», «facea»), forzature morfologiche (come la soppressione dell’articolo davanti al possessivo, secondo un calco spagnolo). Neanche in questo caso, infatti, la relativa vicinanza fra lingua di partenza e lingua d’arrivo puo` essere d’aiuto, perche` di fronte ad alcune ricorrenze facilmente assimilabili all’italiano (come la frequentatissima rima pluma/espuma) altre se ne discostano, magari per una lettera o una sillaba soltanto. Quanto basta perche` il sistema si sgretoli e la tensione verso la perfezione lasci trapelare uno sforzo di aggiustamento che e` quanto piu` lontano possa esistere dall’originale. Insomma, non e` ricopiando in maniera sparsa e casuale gli elementi della langue gongorina, ne` adeguando quest’ultima a una vaga misura letteraria senza tempo che e` possibile rendere la peculiare sonorita` dei 12 Cfr., a proposito della traduzione ungarettiana del Polifemo, la prima parte dello studio di Buxo´, Ungaretti traductor... cit, pp. 22-54.

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sonetti, ma semmai trovando all’interno di essa dei punti di aggregazione fonica, inventandoli se necessario, tentando di ricostruire un sia pur labile sistema di corrispondenze che non pretenda di sovrapporsi a quello di partenza ma solo di suggerirne le coordinate portanti. Credo ad esempio che sia importante segnalare, anche la` dove il sistema rimico venga disatteso nella sua esattezza, la conclusione del sonetto, in modo da rimarcarne la chiusura logica (se e` vero che, come si legge in un trattato anonimo del seicento, il sonetto si apre con una chiave d’argento e si chiude con una chiave d’oro)13, cosı` come mi sembra importante sfruttare tutte le possibilita` di assonanze, allitterazioni e rime interne che lo scandiscono. E cio` per indicare che la sua musicalita` risiede non solo nella rima, ma anche nel ritmo peculiare dei suoi versi, ritmo che il traduttore dovrebbe cercare di accordare a quello della retorica e del pensiero che li governa. Naturalmente esistono dei casi in cui rispettare la rima non e` solo possibile, ma indispensabile. Penso al 162 (Tonante monsen˜or de cuando aca´), in cui il susseguirsi di rime esclusivamente tronche crea una griglia unitaria e sovrasignificante che ha il potere di commentare secondo un registro semiburlesco un aneddoto che burlesco non e` (la morte di un giovane 14 paggio fulminato) . Oppure al 179, in cui il susseguirsi di rime tronche e` ritagliato su di una voluta storpiatura di nomi volta a satireggiare l’incapacita` da parte di Lope de Vega di forgiare nu´meros. Si tratta comunque di casi marginali rispetto al sonetto tipo gongorino, la cui specificita` consiste, a mio parere, proprio in una dialettica estrema (e mi rendo conto di avere usato questa parola per la terza volta) fra suono, senso e ritmo. Quasi che, riandando all’origine di questa forma metrica, estranea in fondo alla tradizione lirica spagnola, Go´ngora intendesse evocarne le corde piu` soavi e dimenticate. E mi piace a questo proposito concludere citando le prime due quartine di un sonetto sul sonetto di Jorge Luis Borges: Vuelve a mirar los arduos borradores de aquel primer suen˜o innominado, 13

Si tratta di un dialogo sopra il sonetto compreso nel ms. 3906 della Biblioteca Nacional de Madrid e trascritto nella tesi di laurea di Francesca Dalle Pezze («Per una tipologia sintattica del sonetto aureo»), discussa presso la Facolta` di Lingue dell’Universita` di Verona nella sessione autunnale del 1998. 14 La fedelta` alle rime tronche (presente purtroppo solo a meta` nell’edizione da me curata) connota ad esempio la bella versione del sonetto di Cesare Greppi (in Sonetti, cit., p. 65).

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la pa´gina arbitraria en que ha mezclado tercetos y cuartetos pecadores. Lima con lenta pluma sus rigores y se detiene. Acaso le ha llegado del porvenir y de su horror sagrado un rumor de remotos ruisen˜ores15.

Ecco, il traduttore che si accinga a rendere in italiano i sonetti di Go´ngora dovra` fare i conti, oltre che con la forza del pensiero che li attraversa, con quest’anonimo estensore di sonetti raggiunto, dall’incalcolabile distanza del futuro, dal rumore di alcuni non identificati remotos ruisen˜ores. Pur sapendo che, per quanti sforzi faccia, non potra` mai essere annoverato fra di essi.

15

Dedicato a un «Poeta del siglo XIII» il sonetto fa parte della raccolta «El otro, el mismo», ora compresa nel II vol. delle Obras completas di Jorge Luis Borges, Emece´, Buenos Aires 1989, p. 255. Nel sonetto non si allude a nessun poeta in particolare, ma il sintagma horror sagrado e sopratttuto la menzione del rumor potrebbe ricalcare un analogo sintagma di Go´ngora (horror divino), poeta che l’argentino condanno`, fin dai primi suoi scritti, perche´ troppo sonoro e ruidoso.

NOTE IN MARGINE ALLA TRADUZIONE POETICA di Ida Porena

Ho scelto di non fare esempi pratici ma di proporvi alcune considerazioni sul mio modo di intendere la traduzione del testo poetico, o meglio lirico (l’unico genere di traduzione cui mi sono dedicata di tanto in tanto), riagganciandomi a un’esperienza particolare, per me di grande significato: la traduzione di una parte del West-o¨stlicher Divan di Goethe, condotta a fianco dell’amica carissima Ludovica Koch prematuramente scomparsa nel 1993. In qualche modo cosı`, anche la sua voce – tra le piu` preziose in Italia nell’ambito della traduzione e della ricerca letteraria – potra` ancora risuonare tra noi per quanti l’hanno conosciuta e per quelli che questa fortuna non hanno avuto. In quanto vi diro`, infatti, c’e` l’eco delle nostre conversazioni sull’argomento del tradurre e saro` felice se tutto questo riuscira` a suscitare anche in voi delle riflessioni. Cosa spinga a tradurre poesia, a compiere l’atto blasfemo e profanatorio di trasportare nella propria lingua l’oggetto letterario intraducibile per eccellenza e` la domanda che da sempre si pone, con minore o maggiore consapevolezza, chiunque pratichi letteratura, domanda destinata a molte risposte, nessuna soddisfacente. Molte delle cose che sentirete sono state dette, altre forse no, ma poiche´ ritengo che si possa diventare teorici solo della propria esperienza e` a questa che mi rivolgo e che vi propongo. Esiste ormai una nutrita teoria della traduzione, anche per quanto concerne il testo poetico, che esamina ogni aspetto di questa operazione ambigua e tenace, legata «after Babel» alla storia dell’uomo. Ma per quanto si scriva e si definisca nulla puo` spiegare compiutamente, o giustificare, una scelta che – nel caso del testo poetico – e` spia di motivi profondi che vanno ben al di la` di ogni teorizzazione. Se si escludono i casi di traduzione ‘passepartout’, fatte senza particolare adesione, per routine, e ci si sofferma su quelli intenzionalmente voluti

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e` possibile considerare questa rischiosa operazione da un’angolatura privilegiata. «… io credo che si traduca innanzitutto per se stessi, anche quando si finge di farlo con il movente della mediazione culturale dato, naturalmente, che il movente economico e` praticamente inesistente» scrive Ludovica Koch che aggiunge: «Non si traduce piu`… per il nobile scopo di far conoscere anche ad altri quello che gia` si conosce, ma per quello assai piu` egoistico di conoscere meglio quello che si pensa di avere appena cominciato a conoscere. La riscrittura della traduzione e` una lettura fatta per scritto: una seconda lettura che cerca di ritrovare la meraviglia e la curiosita` della prima. Rientra quindi a pieno titolo nella storia e nella teoria della lettura, e subito dopo nella storia e nella teoria della letteratura come incessante rilettura di se stessa (e d’ altro).» Approfondimento critico del testo dunque, appropriazione della parola scritta e sua traduzione a livello profondo, personale. La spinta ad accostare un testo in modo cosı` totale da provare la necessita` di tradurlo e` tuttavia un gesto molto complesso. E` contemporaneamente un atto conoscitivo e creativo, e` qualcosa di piu` e qualcosa di meno di una lettura. Di piu` perche´ in grado di penetrare a fondo nel processo costitutivo dell’opera, di entrare nei suoi cammini segreti dall’interno, come nessuna lettura, anche la piu` attenta, puo` fare. Di meno perche´ cerca di legittimare, trasportandola in un’altra lingua, una propria capacita` creativa, mutuata dall’originale, quasi sempre inferiore, salvo eccezioni, e in ogni caso sospetta. Questa operazione, il tradurre, tocca il suo punto di massimo rischio nel caso del testo poetico, in particolare di quello lirico. In chi traduce operano spinte conoscitive e creative nello stesso tempo e credo che, piu` o meno consciamente, un traduttore dovrebbe saperlo. Non serve infatti nascondersi modestamente dietro l’alibi del ‘testo a fronte’ e giustificare cosı` traduzioni il piu` delle volte scritte in una lingua poco credibile, lontana oltre che dall’originale anche dalla propria lingua madre: chi conosce la lingua del poeta non ha bisogno di leggerne la traduzione, chi la ignora dovrebbe trovare un equivalente in buon italiano, in grado di suscitare emozione. Gli unici cui il testo a fronte puo` servire sono coloro, pochi, che hanno bisogno di un ausilio per sostenere una loro conoscenza imperfetta della lingua originale. Ma giustifica questo caso una traduzione letterale e impoetica? Lascio volutamente aperta questa domanda a cui da secoli si danno risposte contraddittorie. Nella nostra lunga e profonda amicizia, nella nostra affettuosa consuetudine e nel lavoro in comune molte volte con Ludovica Koch abbiamo affrontato l’argomento del tradurre, che toccava ambedue molto da vicino.

NOTE IN MARGINE ALLA TRADUZIONE POETICA

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Anche se le nostre premesse teoriche erano molto simili, pure l’atteggiamento di Ludovica era completamente diverso dal mio, che e` pigro, non tende a entrare in terreni sconosciuti ma piuttosto a indugiare in ambiti noti, ad approfondire corrispondenze e affinita` e soprattutto limitato alla pratica di una sola lingua straniera: il tedesco. Il contrario per lei: la guidavano curiosita` e interesse per il nuovo, per la scoperta letteraria, un’inesauribile desiderio di conoscere, che nella traduzione vedeva avverarsi al massimo livello l’appropriazione e l’approfondimento del testo e dell’autore. Un atteggiamento attivo e aggressivo che la portava ad accostare autori e periodi molto lontani fra loro, grazie anche alla sua padronanza perfetta di numerose lingue, germaniche e no. Un atteggiamento critico e creativo a un tempo, che le ha permesso, con la pratica della traduzione, grandi operazioni letterarie che spaziano dal medioevo ai nostri giorni e hanno fatto scoprire, grazie appunto a un uso smagliante e sovrano della lingua attuale, la ricchezza di testi fin’ora studiati solo dal punto di vista filologico. Una sola volta il nostro comune interesse si e` concretato nella collaborazione pratica: la traduzione del West-o¨stlicher Divan di Goethe. L’avevo rifiutata proponendo al mio posto Ludovica Koch, l’unica persona che ritenevo in grado di affrontare la complessita` di quest’opera immane. Le cose sono andate diversamente, per la sua modestia e la sua abituale caparbieta`. Ho scelto cosı` di tradurre solo il Libro di Suleika, sempre molto dubbiosa per questa singolare e discutibile operazione. E` interessante notare come, pur partendo ambedue da identici presupposti ‘teorici’, ci si sia poi differenziate nella resa pratica proprio per i diversi atteggiamenti interni che ci spingevano all’operazione del tradurre. Piu` coraggiosa e aggressiva la sua traduzione, capace di andare veramente a fondo a queste premesse, piu` soggiogata la mia dal testo goethiano. Se l’insieme non e` poi troppo squilibrato si deve forse al fatto che il Buch Suleika e` nel Divan, in questo libro composito e volutamente disorganico, un insieme decisamente piu` omogeneo, un libro nel libro. Nell’introduzione Ludovica Koch aveva individuato con grande istinto il senso di tutto il Divan nel suo punto di fuga: «Un solo potente vortice sgretola e travolge passato e presente, si solleva, espande, precipita. E` il grande tema della polvere nel vento che percorre tutto il Divano» e «Oltre che un metodo di invenzione poetica, Goethe vede nella libera molteplicita` (il volo della polvere) la ragione stessa dell’esperienza e il principio di rinascita cercato». E ancora: «All’interno di ogni libro si delinea un ordine ascendente, fatto di rispecchiamenti, continuazioni, variazioni, risposte: che

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tende a farne un ciclo o, piu` spesso, si muove a spirale, come la polvere e la Storia… Affiora da un capo all’altro del Divano un’unita` fatta di mille fili incrociati: motivi, immagini, parole. Un’unita` non organica, non gerarchica, fragile e provvisoria, che ha il centro dappertutto e in nessun luogo.» In questa fuga il Libro di Suleika e` uno splendente punto di sosta. La tensione ossimorica delle coppie di opposti arresta qui il vortice del movimento, lo ferma in un equilibrio tanto piu` forte in quanto basato proprio su questa tensione. La foglia del Gingo, unita e divisa a un tempo, ne e` l’emblema. Un emblema in cui si fondono miracolosamente oriente e occidente, Hafez e Goethe, Atem e Suleika, Goethe e Marianne e per cui Suleika puo` esclamare dei propri versi «Wohl, daß sie dir nicht fremde scheinen:/ Sie sind Suleikas, sind die deinen!» (E` giusto che non ti sembrino estranei,/di Suleika sono, sono i tuoi!). Ma la scelta di tradurre il Buch Suleika nasceva in me, come ho detto, da un atteggiamento ‘pigro’, lontanissimo da quell’avventura del conoscere che animava Ludovica Koch. Quando ancora non mi interessavo di letteratura tedesca ma di musica non avevo letto il Divan, conoscevo pero` due Lieder di Schubert, Was bedeutet die Bewegung e Ach, um deine feuchten Schwingen e pensavo, come lo pensava Schubert, che fossero su testo di Goethe. Ero affascinata, specie dal primo, per l’impeto, la grazia inebriante e la fresca passionalita` che il musicista aveva trovato ed esaltato nel testo poetico, potenziando con la sua scrittura l’altra scrittura, sottolineando lo slancio unitario e il tono semplice di questi versi. I Lieder di Schubert avevano pero` acceso la mia curiosita` e mi avevano spinto a leggere il Divan. Era una lettura non corredata da note, si trattava di un vecchio libbricino fine secolo ad uso domestico. Trovavo queste due liriche piu` immediate di altre e mi piaceva immaginarle scritte di getto, in un estro di felicita` inventiva. Ma sono opera di Marianne von Willemer. E` singolare che Schubert abbia scelto proprio quelle e solo quelle dall’intero Divan (edizione del 1819), trascurandone altre per noi ricche di suggerimenti e cenni segreti, liriche inarrivabili nella loro conquistata semplicita` filtrata da infinita sapienza. Penso lo avesse attratto proprio il respiro di queste due poesie, e in particolare della prima, in cui la natura parla a Suleika, e` in sincronia totale col suo fervore amoroso, e` percorsa, in perfetta corrispondenza, da un brivido di attesa gioiosa e impaziente. Anche se la mimesi stilistica, che nel caso Marianne-Goethe raggiunge vertici tali da far pensare si sia realizzata qui la mimesi elettiva di Ottilie e di Eduard nelle Affinita` Elettive, pure le due liriche scelte da Schubert hanno un’impronta complessiva che sembra distaccarsi dal resto del libro: Marianne, con la lingua di

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Goethe, attratta demonicamente nel suo ambito, crea qualcosa di sottilmente diverso, piu` vicino forse al romanticismo schubertiano, svela una freschezza nuova e diretta, lontana da quella, piu` letteraria e mediata, che il suo maestro profonde nel libro. Tradurre il Buch Suleika era dunque per me saldare un antichissimo debito e allo stesso tempo rimanere in un ambito noto e familiare. E oggi e` ancora la musica a suggerire al mio pensiero, sostanzialmente analogico, alcune riflessioni sulla traduzione che cercano a posteriori di dare un senso a quel lavoro di traduzione poetica, non certo continuativo e tutt’altro che essenziale, che di quando in quando segna la mia attivita`, ipotesi e cenni che non hanno in alcun modo pretesa teorica. Mi piace credere infatti che nella sua infinita potenzialita` il testo contenga in se´ non solo la propria traduzione letteraria ma anche quella musicale, e se consideriamo un particolare aspetto della creativita` artistica, e cioe` il rapporto musica-testo, meglio ancora musica-testo poetico, l’analogia porta a suggestive ipotesi (penso in particolare modo alla liederistica). Le potenzialita` implicite di un testo poetico sono moltissime, tanto piu` forti quanto piu` la lirica predilige la funzione connotativa a quella denotativa e la lettura del musicista ne coglie, ampliandolo, il senso segreto, opera in modo ‘veggente’ nei confronti della parola facendo emergere dalla sua profondita` i significati di secondo, terzo e quarto livello, compie cioe` un vero e proprio atto interpretativo. La scelta del testo poetico avviene liberamente, per motivi che noi possiamo solo intuire e a cui ci e` dato forse di risalire durante e dopo l’ascolto, un’operazione alla cui base e` sempre una profonda empatia, un’Einfu¨hlug che rende l’atto di scelta gia` costitutivo della composizione. Il pezzo di musica diverra` quindi una prosecuzione, in altro ambito linguistico, del testo scelto e una sua amplificazione. Dal lavoro di interazione tra il testo letterario e quello musicale, dalle sfasature e dalle coincidenze dei due tempi, quello della lirica e quello della musica, risultera` la somma di due voci diverse che si fondono in un nuovo oggetto sonoro. Non piu` solo Goethe o solo Schubert ma Goethe-Schubert, non piu` solo Heine o solo Schumann ma Heine-Schumann e dato che la lettura di un testo e` soggettiva ma anche connotata culturalmente e storicamente, si spiega perche´ lo stesso testo abbia dato risultati cosı` diversi nella lettura di compositori di diversi. Il senso di questa analogia tra la composizione di Lieder e la traduzione del testo poetico e` evidente: a ben guardare, e in ambito infinitamente piu` modesto, anche all’origine di una traduzione di poesia opera da un lato la stessa spinta conoscitiva e critica, una sorta di desiderio di penetrare

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nell’originale e di proseguirne il senso, quasi si avvertisse la necessita` di scavare piu` a fondo, che non con una normale lettura, nel testo prediletto, e dall’altro una spinta creativa, di solito non dichiarata, inconscia, ma ugualmente presente. Sia l’operazione musicale che quella di traduzione agiscono infatti trasportando un testo poetico da un sistema linguistico in un altro. Ma a questo punto l’analogia finisce e fa emergere una differenza sostanziale. Nella traduzione poetica l’ambito linguistico, l’altra lingua cioe`, non e` certo per sua natura asemantico come si dice normalmente sia la musica, ma, al contrario, porta con se´ un denso alone di significazioni, spesso molto lontane dalla lingua originale. La traduzione quindi, pur muovendo nei casi felici, da motivazioni empatiche analoghe a quelle del musicista, e` in realta` inficiata alla base da quello che chiamerei ‘impaccio semantico’ e che rende cosı` improbabile l’operazione tarpandone spesso irrimediabilmente la resa. Cio` malgrado si azzarda sempre questa fatica e ancora oggi cerco di comprenderne le ragioni senza riuscirci. Posso solamente esporre qui alcune considerazioni pratiche del tutto contingenti e legate solamente al mio modo di intendere il lavoro di traduzione. Modificare, aggredendolo qualcosa che riteniamo perfetto e che amiamo nella sua splendida compiutezza e` un atto di paradossale superbia ma di altrettanto paradossale umilta`. Implica saper ascoltare in totale dedizione il potenziale comunicativo implicito nel testo che si tenta appunto di tradurre, di ‘trasportare’ cioe` in un’altra cultura, servendosi di un medium completamente diverso, che ha leggi sue proprie da rispettare. Se sono scontate nel tradurre la massima precisione e la penetrazione delle sfumature linguistiche originali, e` altrettanto importante cogliere il ‘timbro’ particolare del poeta, il senso che emerge da quell’insieme ritmico e semantico ben congegnato che abbiamo di fronte. Si tratta di esercitare un ascolto profondo che va ben oltre il testo stampato. Se per esempio una lirica e` strutturata sul silenzio, se i vuoti, il non detto sono l’alone in cui i versi si iscrivono, e` necessario restituire questi silenzi e questi vuoti, senza sovrapporgli il nostro rumore con un’eccessiva verbosita` e cercare cosı` di preservare il messaggio segreto di questo testo (penso a poeti come Trakl o Celan). Improprio sarebbe anche rendere termini del linguaggio basso, colloquiale con un lessico aulico e letterario o comunque desueto, e viceversa. E` altrettanto fondamentale, una volta afferrata la tecnica e il timbro particolari dell’autore, dimenticarsi l’originale, che e` e resta irripetibile, e riscrivere nella propria lingua il testo tradotto. Per fare questo si devono continuamente operare delle scelte e affrontare la frustrazione di inevitabili

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rinunce, ed e` necessario molto coraggio. Si tratta di compiere un gioco sottilissimo e consapevole con gli elementi che il testo tradotto puo` offrire per ottenere un nuovo oggetto poetico che abbia un autonomo diritto all’esistenza e che tragga dall’originale la spinta ulteriore verso un atto creativo di comunicazione. Solo cosı` puo` arrivare fino a noi, anche se inevitabilmente indebolita e impoverita, la voce lontana del poeta. In altri termini, la lirica di un autore straniero, perche´ raggiunga veramente un nuovo livello di comunicazione non deve sembrare tradotta ma ‘scritta’ nella propria lingua, deve cioe` leggersi ‘come se’ fosse composta, ancorche´ modestamente, nella propria lingua. Questo comporta, a mio avviso, come conseguenza logica, l’uso della lingua attuale e anche dei parametri compositivi propri della lirica a noi contemporanea. Prendiamo per es. un tipo particolare e molto frequente di oggetto poetico: l’originale, come nel caso del Divan, ci si presenta in forma rimata. Rima e ritmo sono agenti primari di significazione connotativa (si pensi al tono popolareggiante, falsamente ingenuo, di certa poesia romantica). Una traduzione che non mantenga in qualche modo questi elementi rinuncia a una parte consistente di significato. A me, oggi, sembra questo uno dei maggiori ostacoli nella traduzione di poesie, mentre non lo era affatto nel secolo scorso, quando scrivere versi significava tout court scrivere rime, non importa se buone o cattive. Oggi, a meno di non essere poeti che usino le rime per loro scelta e lo facciano quindi in modo autentico, rispondente a una loro necessita` interiore, non mi sembra abbia molto senso tradurre in rime improbabili o forzate che, inevitabilmente modellate su autori del passato e quindi fortemente connotate, rischiano di creare un ‘doppio’ scarsamente credibile dell’autore tradotto. E` questa una rinuncia programmatica e preliminare che richiede pero` un’estrema attenzione ritmica ‘altra’ da quella dell’originale, di cui si rifiuta coscientemente l’imitazione per non cadere nel finto ottocento o nel falso medioevo. Si giochera` piuttosto sulle assonanze o su eventuali rime interne, intervendo talora addirittura sulla compattezza strofica. Alla base di questo modo di procedere c’e` la convinzione, ormai largamente condivisa, che l’opera d’arte non e` un fatto unico, immobile, inattaccabile, secondo una concezione sacrale dell’arte che ne fa una cosa morta gelosamente conservata in teche preziose. Qualunque testo non e` dato una volta per tutte ma subisce infinite trasformazioni. Nel momento in cui il lettore vi si accosta agisce su di esso modificandolo. Qualunque intervento, della lettura, della traduzione, lo modifica e lo prosegue. La creativita` non e` solo dell’autore ma del testo stesso. Certo, una poesia e` e resta intraducibile se per traduzione si intende riproduzione

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di un originale che non puo` assolutamente venir riprodotto. Si traduce invece accogliendo in noi, con le nostre coordinate attuali, il testo. Lo si trasporta come nuovo oggetto, oltre che nella nostra lingua e nella nostra cultura anche, se non e` un testo contemporaneo, nella nostra epoca. In questo senso il tradurre e` un atto fondamentalmente critico e ogni traduzione sara` inevitabilmente legata al periodo e al tempo in cui la si scrive. Ogni volta che si traduce un testo, a distanza di anni, si possono avere soluzioni molto diverse. Per questo la validita` di una traduzione ha vita breve e tutto il discorso fatto fin qui si riferisce al momento attuale e non pretende di avere validita` teorica o normativa. Traducendo si riflette sul proprio lavoro e solo di questo si puo` rendere conto, si comunica cioe` un’esperienza personale in cui giocano la propria cultura, la propria sensibilita` e capacita`, le proprie idiosincrasie e i propri dubbi. Un’altra voce, che sostenesse cose del tutto diverse e probabilmente altrettanto valide, meriterebbe a sua volta attenzione e ci spingerebbe a ulteriori riflessioni in questo continuo incontrarsi, accennare e riconoscersi che e` il segreto dell’operazione letteraria, cui appartiene senza dubbio anche il tradurre.

* Questa conferenza apparira`, con titolo diverso e alcune varianti, anche nel volume «Scritti in onore di Ludovica Koch», Quaderni dell’I.U.O. – Sezione germanica, Napoli.

LA TRADUZIONE DELLE RIME SULLA MORTE DI LUDWIG FEUERBACH di Alberto Scarponi

Il poemetto di Feuerbach Reimverse auf den Tod (Rime sulla morte) venne pubblicato per la prima volta nel l830 come parte, priva di titolo, del suo trattato filosofico-teologico Pensieri su morte e immortalita`. In verita` il titolo intero del volume suonava: Pensieri su morte e immortalita` dalle carte di un pensatore, con un’appendice di epigrammi teologico-satirici, pubblicati da uno dei suoi amici. Questo titolo indicava una circostanza contestuale che era, gia` di per se´, un primo problema traduttivo: bisogna o no tener conto della storia di un testo per definire I’impianto della sua traduzione in un’altra lingua? Evidentemente, porsi tale domanda e` revocare in dubbio quella teoria della traduzione che assume il testo com «sacro» e, in quanto tale, lo fa prescindere dal contesto storico. Osservo che la mia affermazione e` neutra, per nulla aprioristicamente polemica. Accade infatti che fautore di questa teoria e` stato, per esempio, Walter Benjamin, un pensatore a me assai caro. Anche se, al momento di usarne le idee per accingermi a tradurre il poemetto di Feuerbach, avrei voluto alcune precisazioni di fronte a una sua frase come la seguente: «La versione interlineare del esto sacro e` l’archetipo 1 o l’ideale di ogni traduzione» . Precisazioni che pero` mi portavano piu` sul terreno di una filosofia del linguaggio, terreno per l’appunto scelto da Benjamin, che non su quello, a me necessario per operare, di una teoria della traduzione. Va notato, d’altra parte, che questo richiamo era del tutto giustificato, proprio perche` nel saggio citato Benjamin discute della traduzione dell’o1

Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino l960, p. 50.

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pera poetica (lo scritto era infatti una introduzione ai Tableaux parisiens di Baudelaire) che era appunto quanto andava chiarito preliminarmente davanti a un testo come quello di Feuerbach il quale, prima di tutto, si presentava in veste poetica, era un poemetto. Allora, secondo problema traduttivo: in che modo tradurre una poesia? Come un’opera destinata all’eternita`, quindi a se´, sacra, o come un testo fruibile, destinato a determinati lettori? E` la domanda cui Benjamin aveva risposto con quest’altra domanda: «Ma che cosa ‘‘dice’’ un’opera poetica? Che cosa comunica?». E si era poi risposto «Assai poco a chi la comprende. L’essenziale, in essa, non e` 2 comunicazione» . A questo punto, il traduttore aveva davanti a se´ due strade possibili: quella di «mediare» nella nuova lingua la comunicazione, cioe` l’inessenziale della poesia (Benjamin commentava: «ed e` questo infatti un segno di riconoscimento delle cattive traduzioni»), oppure scegliere I’altra via, quella di mettersi a poetare a sua volta (altro commento maligno di Benjamin: «Secondo contrassegno della cattiva traduzione. . . trasmissione imprecisa di un contenuto inessenziale»). Insomma un dilemma formale irrisolvibile. Davanti al poemetto di Feuerbach, inoltre, il dilemma si complicava ulteriormente, in quanto si trattava di un componimento poetico a contenuto filosofico, tanto da essere inserito in un trattato d’impronta fondamentalmente teologica. Allora, terzo quesito traduttivo: come va tradotto un testo filosofico? E poi: come si connettono il linguaggio filosofico e quello poetico in una traduzione per cosı` dire bifronte? Credo, a questo punto, di aver fatto il panorama delle questioni che mi si ponevano al momento di decidere che cosa fare. Dall’ambiente culturale venivano spinte a scegliere la via indicata da Benjamin: tendenzialmente, magari con una certa misura, puntare alla traduzione interlineare come sussidio alla lettura del testo originale a fronte. Per consiglio, andai a vedere come s’erano condotti i precedenti traduttori. Il primo se l’era cavata traducendo in prosa, puntando cioe` risolutamente al solo contenuto filosofico (alla comunicazione, per usare il linguaggio di Benjamin). Il secondo aveva scelto una sua strada; delucidata con le seguenti parole: «In tedesco i versi sono irregolari e a rima baciata. In italiano sono invece stati resi con l’endecasillabo sciolto, che tuttavia talvolta non esclude assonanze, rime e rime al mezzo. Si tratta di un metro 2

Ivi, p. 37.

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meno popolarescamente cantilenante, che ambienta il poema feuerbachiano – tradotto il piu` letteralmente possibile – in una dimensione piu` solenne e monumentale, sulla falsariga, si spera, dei nostri classici ottocen3 teschi» . Ecco, da queste parole emergeva un punto che era rimasto escluso nel discorso benaminjano: ogni traduzione in effetti e` un progetto culturale, una proposta di lettura che istituisce un rapporto tra noi, tra la nostra cultura, e il fatto culturale storico rappresentato dal testo in questione. Ne derivava per me, prima di tutto, il problema di capire il senso del poemetto feuerbachiano: che cosa voleva ‘‘dire’’ , per l’appunto, l’autore scrivendo e pubblicando quel poemetto? Interveniva cosı`, oltre al testo (sacro) e al lettore (di cui non bisognava tener conto) citati da Benjamin, un terzo personaggio nella commedia a lieto fine della traduzione (commedia perche` – lo dico subito – qui la storia finisce bene: tutte le traduzioni, a modo loro, vanno bene) e questo personaggio era l’autore (di cui evidentemente non bisognava parimenti tener conto, stando ai fautori della traduzione interlineare). Invece io ne tenni conto e scoprii cosı` che il titolo del libro era tutto vero, il trattato Pensieri su morte e immortalita` era effettivamente stato pubblicato a insaputa di Feuerbach «da uno dei suoi amici» e questi, non solo aveva giocato un brutto tiro all’autore (che a causa di questo libro perse per sempre la possibilita` di divenire professore all’universita` di Erlangen), ma letteralmente si era divertito a impasticciare: aveva infilato il poemetto, senza nessun titolo, piu` o meno a caso all’interno del trattato, cui aveva aggiunto gli epigrammi satirici annunciati nel titolo ma, senza avvertire, aumentandone il numero con altri epigrammi non di Feuerbach. Il quale Feuerbach, prima si industrio` vanamente a divulgare la notizia che lui quel libro, in quella forma, non lo riconosceva come suo, poi, dopo l7 anni, alla fine decise di dargli una forma appropriata collocando il poemetto, con il suo titolo, in appendice accanto agli epigrammi. In particolare, ne rivide la forma con il palese proposito di migliorare la versificazione, che nella prima versione era qua e la` assai approssimativa. Cioe` , Feuerbach curo` in particolare (fin dove gli riuscı`, perche` non era bravissimo) proprio quel metro popolarescamente cantilenante che non era piaciuto al precedente traduttore. Il primo distico, ad esempio, che nel l830 era costituito da endecasillabi, venne riportato alla misura del novenario. 3 Ludwig Feuerbach, Rime sulla morte, a cura di Luciano Parinetto, Mimesis, Milano l992, p. 8.

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In sostanza, mentre il trattato, la parte in prosa del libro, aveva tutta l’allure della dimostrazione filosofica (non per nulla Feuerbach la chiamo` «parte dimostrativa» e la difese come spirituale ed etica, contro le accuse di irreligiosita`) le parti in versi erano evidentemente destinate alla polemica culturale contro il pietismo e assumevano un tono, diciamo cosı`, goliardico e salottiero. Feuerbach stesso confesso` che tale polemica era «perlopiu` compilata in brutti versi» e che, esprimendo essa «la piu` appassionata indignazione, lo scherno piu` sfrenato», meritava davvero sul piano formale dei rimproveri. A dimostrazione del tono spigliato riportero` qui 3 epigrammi, nella mia traduzione: I pietisti Sapete! I pietisti non sono altro che i nauseabondi vermi In cui alla fine si e` disintegrato il corpo in decomposizione di Pietro. Proprio cosı`, tutto diverso Come possono dunque i pietisti generare bambini? Ah! Da loro e` lo Spirito Santo che ingravida la donna. La ragione dei razionalisti Quel che essi chiamano ragione e` soltanto esalazione bloccata del concime economico della filosofia kantiana.

Ma piu` ancora. Il curatore dell’edizione non autorizzata si era sentito peraltro autorizzato, a causa di questo tono delle parti in versi, a premettere al volume una «Umile preghiera» non sappiamo se di mano di Feuerbach, una «Umile preghiera al sapientissimo e onorevolissimo colto pubblico affinche` riceva la morte nell’Accademia delle Scienze». Questa preghiera diceva, sempre nella mia traduzione: O Signori colti e sapienti Io la morte Vi reco qua Affinche` abbia nei vostri ambienti Di dottore la dignita`. Non indegno allora direte Che a consiglio con Voi lei sieda. Ora dunque udite e saprete Quale scienza la morte possieda. Non c’e` medico sulla terra

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Che come lei azzecchi la cura; Qualunque malanno Vi afferra. Guarisce a fondo la natura. Non s’e` mai occupata e` vero Della cristiana teologia, Ma come lei nel mondo intero Nessuno sa filosofia. Orsu` dunque che apra le porte L’accademica gerarchia E al piu` presto faccia la morte Dottoressa in Filosofia.

Dopo tali delucidazioni, a me non sembro` ne´ inopportuno ne´ irriverente tradurre le Rime sulla morte in distici di nove sillabe a rima baciata, riproducendo cosı` la aggressiva cantilena dell’originale (mentre lasciavo al lettore di decidere se gli eventuali zoppicamenti siano da attribuire a imperizia del traduttore o riproducano anch’essi il tono giovanilmente tranciante della scrittura di Feuerbach). Restava comunque l’irresolutezza di base, teorica, cosı` ben delineata da Benjamin e cosı` ben sostenuta dai miei amici poeti e traduttori di poesia. Allora, secondo il principio che le contraddizioni reali si vendicano se non vengono esplicitate, ho pensato di prendere il toro per le corna e ho pubblicato nel volumetto anche una traduzione interlineare accanto al testo originale. Fra le due traduzioni ho poi inserito una discussione, in forma di dialogo, sui vantaggi e gli svantaggi dei due tipi di traduzione. Fra i due interlocutori del dialogo, io credo abbia avuto la prevalenza quello che sosteneva la mia opinione, sottolineando la semantica della forma, vale a dire tutti i significati che un autore assegna alla forma espressiva da lui scelta e che dunque in una traduzione non possono essere tralasciati. Credo che nel dialogo ci sia questa prevalenza, ma nella realta` non ne sono sicuro.

TRADURRE BELLI IN RUSSO di Evgenij Solonovich

Quando mi capita di parlare della mia prassi di traduttore di poesia ripeto spesso le parole della poetessa Margherita Guidacci: «La sola regola che mi do` e` di non tradurre poesie che non vogliano essere tradotte da me (si 1 tratta della volonta` delle poesie; non mia e neppure dei loro stessi autori)» . Sara` una mia presunzione, ma ritengo anch’io di tradurre le poesie che scelgono me come traduttore. A queste poesie appartengono i sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli. Che cosa un traduttore di poesia offre al pubblico? Un surrogato camuffato da opera in versi? Un’imitazione, piu` o meno abile, dell’ originale? Una copia perfetta di quello? Ogni traduzione poetica contraddice la teoria. Tradurre poesia significa porsi sadicamente una lunga serie di problemi insuperabili, dando a priori ragione a coloro che hanno esposto e/o sostenuto l’idea dell’intraducibilita` della poesia. Per scoraggiare chi si azzarda a traslatare un componimento in versi, indipendentemente se questo sia un canto carnascialesco di Machiavelli, un osso di Montale o una filastrocca di Gianni Rodari, bastano le affermazioni dell’ americano Robert Frost («La poesia e` quello che e` intraducibile in un’ altra lingua»), o dell’ inglese Robert Graves («In fin dei conti bisogna riconoscere che ogni traduzione e` una bugia, molto cortese, ma pur sempre una bugia»), oppure dell’italiano Giuseppe Ungaretti e del russo Boris Pasternak, i quali, per esprimere ciascuno il proprio parere, hanno usato quasi le stesse parole: «E` a tal punto individuale e inimitabile la poesia ch’essa e` intraducibile» (Ungaretti) e «le traduzioni sono ineffettua-

1 Margherita Guidacci, Ode per un’urna greca, in Verso. Poesia e traduzione, Societa` Editrice Il lavoro editoriale, Ancona 1982, p. 18.

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bili perche` il piu` bello di un’opera letteraria e` nella sua inimitabilita`» (Pasternak). Da queste autorevoli asserzioni pessimistiche nasce inevitabilmente non meno autorevole giudizio che ogni traduzione poetica riuscita sia un’ eccezione. Un traduttore di poesia, consapevole delle limitate possibilita` ricreative del genere letterario da lui praticato e quindi della sconcertante scarsezza delle proprie possibilita`, e` in grado, meglio di qualsiasi altro, di valutare i risultati del suo lavoro, di caratterizzare i rischi che la trasposizione in altra lingua di un testo poetico comporta, di indicare su una pianta apposita i vicoli ciechi dai quali non e` del tutto impossibile trovare uscita. Cio` significa che ciascuno di noi, parlando da questa collettiva tribuna della sua esperienza individuale e citando le proprie traduzioni, ne sceglie i pezzi, secondo lui, piu` riusciti, piu` convincenti, come in realta` faro` anch’io vivisezionando la mia versione di uno dei sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli: La stiticheria2. Il problema pratico della traduzione di poesia non e` altro che un problema di scelte, lo sa ogni traduttore, ormai questa affermazione e` diventata un luogo comune. Tentero` quindi nella mia testimonianza di spiegare e – perche` no? – di giustificare postfactum alcune scelte da me applicate nel corso dell’operazione traduttiva, ritenendo che il vero e proprio processo traduttivo comprenda necessariamente una fase preliminare, importante per l’elaborazione di una strategia generale. Nel mio caso specifico la strategia generale si riduce a un solo punto: la scelta della lingua sostitutiva per il romanesco belliano. Parlo di un solo punto in quanto il problema della forma non si e` nemmeno posto: fin dalle prime traduzioni, dalle, in gran parte, insicure prove di principiante ho rispettato sempre la regola per cui la forma dell’originale e` sacrosanta. Ma anche se fossi solito elaborare, volta per volta, una regola per ogni singolo caso, in questo determinato caso non avrei rinunciato mai alla forma sonetto, dato che il sonetto, secondo la felice osservazione di Gadda, e` «l’elemento dell’opera» 3 di Belli . Dunque la forma sonetto, riproducendo nel testo d’arrivo non solo le rime del testo di partenza, «quattordici sonagli alternati» (la metafora e` di 4 Vigolo ), ma persino il loro schema: ABBA ABBA CDC DCD; scelta la forma sonetto, al traduttore non rimane altro che seguire il disegno metrico dell’originale, usando i pentametri giambici come tradizionale equivalente russo dell’endecasillabo. 2 3 4

Giuseppe Gioachino Belli, I sonetti, Mondadori, Milano 1952, vol. I, p. 209. Carlo Emilio Gadda, Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni, Adelfi, Milano 1982, p. 81. Giorgio Vigolo, Il genio del Belli, Il Saggiatore, Milano 1963, vol. I, p. 99.

TRADURRE BELLI IN RUSSO

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Ma riprendiamo il discorso sul linguaaggio sostitutivo per il dialetto, la peculiarita` principale dei sonetti romaneschi del Belli. Tradurre Belli in un dialetto come hanno fatto alcuni traduttori anglosassoni (Robert Garioch, per esempio)? No, non e` questa la via da seguire. Siccome i dialetti sono 5 dialetti di una data lingua , cercare per la versione in altra lingua delle satire belliane un dialetto di questa sarebbe sbagliato, tanto piu` che il dialetto di Belli, come l’ha giustamente caratterizzato in un’intervista alla Repubblica il poeta Franco Loi, e` il romanesco italianiggiante6. Contrario all’idea di trasmettere il romanesco belliano con qualsiasi tipo di dialetto o di vernacolo, condivido in pieno il ragionamento che fa, affrontando lo stesso problema, Francis Darbousset, uno dei traduttori francesi del poeta: «Si pone come postulato che tradurre il Belli deve significare universalizzarlo e non provincializzarlo. Pertanto va eliminata la traduzione in un qualsiasi dialetto, come va eliminato l’argot vero e proprio in quanto troppo ermetico. La traduzione deve essere intelligibile per tutti i francesi, anche se l’originale non e` totalmente trasparente per tutti gli italiani»7.

La mia prima scelta e` dunque la rinuncia al dialetto. Il componimento e` tradotto in russo letterario, avvivato dagli elementi popolari e colloquiali, senza manifesti inserzioni gergali, dato che sono poi rarissime nel canzoniere del poeta romano. Ho tradotto e pubblicato piu` di cinquanta sonetti del Belli. Il sonetto che ho privilegiato per voltarmi indietro a esaminare alcuni problemi tecnici sorti nel processo di trasformazione del testo di partenza in quello d’arrivo non e`, se non sbaglio, tra i piu` tradotti in varie lingue, eppure lo trovo altrettanto rappresentativo che le centinaia di indiscussi capolavori del Belli, ed e` Belli stesso che mi lascia la licenza di aprire il suo canzoniere quasi a casaccio quando scrive nella sua introduzione: «Ogni pagina e` il principio del libro: ogni pagina e` il fine8. Eccolo dunque, questo sonetto:

5

Cfr. Antoine Berman, Ho¨lderlin: il nazionale e lo straniero, in «Testo a fronte», n. 4, 1991, Milano, p. 21 («...i dialetti sono dialetti di questa lingua, essi non hanno senso, essenza dialettale se non nell’ambito di questa»). 6 Laura Lilli, Un poeta lumbard che ama Roma (intervista con Franco Loi), in «la Repubblica», 8 gennaio 1998. 7 Francis Darbousset, Per una traduzione mimetica, in G.G. Belli romano italiano ed europeo, Bonacci Editore, Roma 1985, p. 213. 8 Introduzione di G.G. Belli, in Belli, cit., vol. I, p. CLXXXV.».

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La stiticherı´a Rosa der frocio so’ ‘na bagatella De sei giorni e sei notte che nun caca. Io je l’ho detto: «Pija la triaca.» M’hai dato retta tu? Be`, accusı´ quella. Ma un giorno o l’antro l’hai da ve´de bella Quanno da oro se fara` tommaca. Allora quer zor Corna-de-lumaca Der marito je soffi a la barella. Io lo vedde jerzera a Sant’Ustacchio, Che stava sbattajanno der piu` e ‘r meno Sur un ciorcello e sur un mezz’abbacchio. Je fece: Eh, dico, o de paja o de fieno, Sibbe` che Rosa nun po` prenne un cacchio, Voi er budello lo volete pieno.

Dovendo analizzare la versione russa, effettuata cioe` in una lingua incomprensibile per la maggioranza dei colleghi che partecipano insieme a me al presente Convegno e sono costretti ad ascoltare quella specie di abracadabra rimata che io rifilo a loro, capisco l’indispensabilita` anche di una traduzione letterale del testo russo, frutto di consapevoli scelte, di razionali soluzioni, di improvvise trovate, di forzati compromessi, noti a chi traduce poesia. La traduzione letterale non manchera`. Ma prima la versione: Zapor U nemcevoj zˇeny, u bednoj Rozy, sest’ dnej uzˇe kak nacalsja zapor. Kastorki dat’ – i ves’ by razgovor: Procistilo by ot chorosej dozy. Ona, kak ty, – mol, ni za cto! i v sle¨zy. Tak i sidit bez stula do sich por, A muzene¨k, rogatyj zivode¨r, Ne vidit v etom nikakoj ugrozy. V traktire na moich glazach vcera Tarelku potrochov i polbarasˇka Umjal za razgovorom nemcura.

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Vidat’ i samomu-to bylo tjazko: Chvatilo by i na dvoich dobra, No ved’ zˇena ne mozet est’, bednjacˇka.

Nell’edizione mondadoriana a cura di Vigolo il sonetto e` seguito da venti note, tra quelle dell’ autore e quelle del curatore, che fungono da glossario aiutando a chi legge l’originale a capire che frocio vuol dire «tedesco», la triaca e` «teriaca», il ciorcello significa «fascio di viscere di bestie minute», o spiegano una locuzione idiomatica (je soffi a la barella), o suggeriscono un proverbio («O de paja o de fieno basta er corpo sii pieno» di cui o de paja o di fieno e` soltanto una parte), oppure si riferiscono a un toponimo (Sant’Ustacchio: «Piazza di S. Eustachio, presso il Panteon»). A differenza della prima stesura della traduzione che non e` il caso di riportare in questa sede, nella stesura definitiva e` tralasciato il toponimo Sant’Ustacchio, sostituito con un’ osteria anonima (traktir). Il motivo di questa omissione, o, per dire pane al pane e vino al vino, di questa perdita, e` semplice: evitare che il destinatario della versione, al quale non dice niente il nome dell’antica piazza romana, imbattutosi in un realia sconosciuto, in qualcosa che gli manca nel corredo d’informazione, si fermi, rischiando di perdere il filo, proprio all’inizio dello scioglimento, cioe` appena dopo quella che Ernest Hatch Wilkins ha definito, parlando dei sonetti di Giacomo da Lentino, «una forte pausa semantica»9. Probabilmente il marito della povera Rosa si abbuffava all’osteria del Falcone, famosa per il suo abbacchio, e se fosse cosı` e il nome dell’osteria venisse menzionato dall’autore del sonetto, non l’avrei forse tralasciato, tanto piu` che si sarebbe trattato del locale frequentato, durante la sua permanenza a Roma, da Gogol. In questo caso risulterebbe opportuna una corrispettiva nota con la citazione della testimonianza gogoliana: «Quanto a pranzare, non vado alla Lepre, ma dal Falcone, sai, quello vicino al Panteon? dove gli arrosti di montone farebbero, senza dubbio, concorrenza a quelli del Caucaso, il vitello e` piu` nutriente, e una certa crostata di ciliege e` capace di provocare per tre giorni la salivazione al piu` grande mangione10.»

9

Ernest Hatch Wilkins, L’invenzione del sonetto, in La metrica, il Mulino, Bologna 1972, p. 280. 10 Dalla lettera romana di Gogol ad A.S. Danilevskij del 31 dicembre 1838, in V. Veresaev, Gogol, v zizni, Moskva 1990, p. 226.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

L’omissione del toponimo e` una soluzione suggerita dalla materia del sonetto preso in esame, dalla densita` dei particolari che permette di sacrificarne consapevolmente qualcuno senza incidere sulla sostanza, sullo spirito del componimento nella sua nuova veste. La prassi, l’ esperienza di ciascuno di noi dimostra che noi traduttori, indipendemente se di prosa o di poesia, siamo spesso incoerenti e contraddiciamo noi stessi, costretti ogni volta a risolvere diversamente i medesimi problemi, effettuando nei simili casi scelte dissimili. Chi conosce le mie versioni dei sonetti romaneschi di Belli avrebbe il diritto di obiettare, dopo aver ascoltato pazientemente la mia argomentazione, che tutte le mie giustificazioni sono perlomeno gratuite e accusarmi di inconseguenza, 11 notando che nella versione di un altro sonetto, A Mmenicuccio scianca , l’osteria del Falcone e` rimasta, metaforicamente parlando, senza insegna, mentre e` nominata nell’originale: Dı` un po, ccompare, hai ggnente in condizione La ccugnata de Titta er chiodarolo? Be`, ssenti glieri si ccorco` a ffasciolo Lo sguattero dell’Oste der Farcone.

La mia risposta all’accusa del genere sarebbe questa: si, nell’A Mmenicuccio scianca l’osteria del Falcone e` nominata, ma siccome la sua menzione non e` accompagnata da nessuna informazione complimentare di valore connotativo, credo che tradotta con traktir (osteria) accentui il carattere familiare della scena, importantissimo per tutto il teatro belliano (l’assenza dell’articolo nella lingua russa fa pensare a una trattoria concreta del vicinato, a un locale sotto casa): Slychal, cego v traktire ucinila Svojacenica gvozdarja Luki? Traktirnogo slugu v svoi silki V dva sce¨ta, duraleja, zamanila. (Hai sentito cosa ha combinato nell’osteria 12 la cognata del chiodaiolo Luca ? Nel suo calappio quel scioccone dello sguattero dell’osteria ha attirato.)

11 12

Belli, cit., vol. I, p. 44. Il nome Titta dell’originale e` convertito nella traduzione in Luca per la rima.

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La scelta dell’ atteggiamento nei confronti dei toponimi belliani viene ogni volta determinata dalle circostanze: nel testo d’arrivo il toponimo puo` passare russificato (Konsul’skaja la` dove nel testo di partenza c’e` Conzolato 13 cioe` via del Consolato , oppure allargato per mezzo del commento implicito (Cimarskij dvorec la` dove nell’originale c’e` soltanto Scimarra14, «caserma nel palazzo Cimarra» come spiega la nota corrispettiva di Vigolo), oppure semplicemente traslitterato (Palacco F’jano). Sono sempre le circostanze, le situazioni obiettive che incidono sulle scelte, permettendomi, per esempio, di spostare il toponimo dal testo del sonetto al titolo, come ho fatto nel caso di Li bburattini15 con lo stesso Palazzo Fiano che mi avrebbe mangiato troppo spazio causando delle perdite incompensabili se l’avessi lasciato nel testo; cosı` il posto di Li bburattini ha preso nella mia versione un altro titolo, piu` lungo: Teatr marionetok v Palacco F’jano (d’altra parte, il titolo lungo non e` per un sonetto di Belli una rarita`), il che` mi ha dato la facolta` di omettere il toponimo nella prima quartina della versione: Ochota ot dusˇi poveselit’sja? Togda schodi na kukol chot’ by raz. Sama uvidisˇ, cto u nich za lica: Nosy, glaza – nu vrode kak u nas. (Hai voglia di divertirti da matta? Allora vai a vedere i burattini almeno una volta. Vedrai tu stessa che facce hanno: I nasi, gli occhi proprio come i nostri.)

Tra parentesi e` riportata la traduzione letterale inversa, dopo di che` vale la pena di riportare il modello: Checca, sei stata mai ar teatrino De bburattini in der Palazzo Fiano? Si vvedi, Checca mia, tienghino inzino Er naso com’ e nnoi, l’occhi e le mano.

Nel proposito di spiegare la logica del mio arbitrio di traduttore nei confronti dell’originale di La stiticheria sono partito dalla sestina del sonetto, nel primo verso della quale e` menzionata l’antica piazza romana, e 13 14 15

Ivi, vol. II, p. 1691. Ivi, vol. I, p. 205. Ivi, vol. I, p. 382.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

ora vale la pena di risalire all’inizio del testo d’arrivo per esporne ordinatamente qualche altro elemento caratteristico. L’esposizione va preceduta dalla traduzione inversa che e`, naturalmente, una traduzione letterale: La stitichezza Alla moglie del tedesco, alla povera Rosa, son gia` sei giorni che e` venuta la stitichezza. Darle l’olio ricino – e non se ne parlerebbe piu`: una buona dose l’avrebbe purgata. Lei come te, neanche per sogno! E subito a piangere. e cosı` sta finora senza defecare, e il marituccio, scorticatore cornuto, non vede in cio` nessun pericolo. Ieri nella trattoria sotto i miei occhi un piatto di budella e mezzo abbacchio s’e` sbafato chiaccherando il tedescume. Per lui stesso puo` darsi era faticoso: la roba sarebbe bastata per due, ma la moglie non puo` mangiare, poveraccia.

Sono consapevole del fatto che nemmeno la traduzione letterale possa rispecchiare precisamente, cioe` in tutti i particolari, il testo, venuto fuori alla fine del processo di ricostituzione poetica del sonetto belliano. Da qui la necessita` di alcune precisazioni. L’aggettivo nemceva del primo verso e` sicuramente piu` colloquiale del semplice costrutto genitivo fatto di sostantivo e preposizione (del tedesco) e come elemento espressivo non e` di meno del frocio. L’effetto comico del quarto verso nasce dalla combinazione di procistilo by che e` abbastanza volgare e della doza, voce che fino a pochi anni fa apparteneva esclusivamente alla lingua letterale; ritengo che grazie a questa contaminazione stilistica tutto il verso si inserisca bene nel contesto satirico grottesco del modello. La parola spregiativa nemcura (tedescume) e` specificata nei dizionari della lingua russa come appartenente al linguaggio popolare. Rogatyj zivode¨r (scorticatore cornuto) del settimo verso del testo d’arrivo al posto di zor Corna-de-Lumaca dell’originale non e` una semplice sostituzione equivalente, ma piuttosto una vera e propria compensazione anticipata di je soffi a la barella del verso successivo; scorticatore poi non sembra sia in contrasto con il vocabolario belliano che include il verbo scortica`, piu` volte usato dal poeta.

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La battuta popolare e il proverbio sono, nell’originale del sonetto in esame, quegli elementi espressivi che non puo` ignorare il traduttore se mira, ispirandosi all’ originale e creandone praticamente un altro, a raggiungere un discreto livello di adeguatezza della versione. L’indice di adeguatezza di una traduzione letteraria e` piu` un concetto qualitativo che quantitativo: non si misura esclusivamente con il numero di coincidenze verbali e sintattiche tra l’originale e il testo d’arrivo. Nella mia traduzione di La stiticheria c’e` un calembour assente nell’originale che da solo e` in grado di compensare una buona parte delle perdite inevitabili nel processo traduttivo. Si tratta di una trovata euristica (il termine appartiene, se non erro, al traduttologo russo V. Komissarov), ma siccome e` inutile cercarla, questa trovata, nella traduzione inversa che ho proposto sopra, merita pure essa una spiegazione. Il sesto verso della traduzione dice: tak i sidit bez stula do sich por, che, tradotto alla lettera, significa: e cosı` sta seduta senza sedia, cioe` per un italiano non significa niente. Sidet’ bez stula (star seduti senza sedia) vuol dire star senza defecare (dev’essere un calco del costrutto tedesco Sthul haben), ed e` il doppio senso a garantire al verso l’immediato effetto comico. Mentre sto riordinando per gli Atti del Convegno il testo del mio intervento, faccio fatica ad astenermi dall’apportare delle modifiche alla versione gia` tante volte ritoccata e altrettante volte considerata definitiva, dal sostituire con nuove scelte le scelte precedenti che appena ieri ritenevo le uniche possibili. La strategia generale rimane tuttavia invariabile. L’obbiettivo del traduttore non e` solo di ripetere, con tutti i mezzi a sua disposizione, il modello: l’obbiettivo del traduttore e` anche e soprattutto di presentare il modello come una parte integrale di tutta l’opera dell’autore, cioe` nel mio caso, dell’ intero canzoniere del Belli. Gli elementi che concorrono a questo fine sono propri del modello stesso, questo e` vero, ma chi ha detto che non si possono cercare anche in altri capolavori belliani che costituiscono insieme una struttura organica? Da tempo pubblicata, la traduzione vive ormai la sua vita autonoma, eppure l’originale non finisce tuttora di tentarmi, accennando alla possibilita` dei nuovi rischi, delle scelte inconsuete, delle soluzioni insolite, non cessa di rivelarmi delle sfumature che prima mi erano rimaste inavvertite. Quando uno di noi traduttori, riga per riga, verso per verso, cerca dei mezzi adeguati per riprodurre degnamente l’ arsenale espressivo dell’opera sulla trasposizione della quale sta lavorando, e` paragonabile a un direttore d’orchestra se questi condivide il ragionamento di Herbert von Karaian che ho letto da qualche parte in russo e che sono costretto percio` a citare nella mia traduzione dal russo in italiano:

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

«Ci sono direttori d’orchestra che dirigono le note, il canto, le indicazioni dinamiche, ma non la musica. Per dirigere sul serio bisogna dimenticare i segni delle note e saper creare un quadro unico con quei flussi dinamici che attraversano tutto lo spartito».

POESIA POSTMODERNA: L’INFINITA TRADUZIONE di Annalisa Goldoni

Si sa che poeti, ladri e bugiardi hanno un protettore in comune, il divino Ermete che ha rubato la lira di Apollo. Con pari perizia, i poeti rubano dal cielo o dall’inferno; si appropriano di linguaggi proibiti («here, only here, all felt things are permitted to speak» – qui, qui soltanto tutte le cose provate hanno permesso di parola, dice Robert Duncan) di verita` che la logica razionale respinge o ignora. In uno dei mille saggi dedicati alla metafora, Eco esordisce avvertendo che chi non ha il senso dell’umorismo non puo` capire le metafore, perche´ le prendera` alla lettera e si domandera` come possono stare insieme cose distanti costrette a convivere in modo insensato. I poeti invece usano a piene mani metafore, immagini e mettono insieme, «rimescolano», le cose, le parole, i casi piu` disparati. Insomma, come il romanticismo ebbe a definirla, la poesia e` un’avventura nell’ignoto e i poeti con la massima improntitudine pretendono di dire quello che non si puo` parafrasare (poiche´ la musica, sia pure di parole, non lo concede) senza distorsione e diminuzione del senso; approfittano del suono nel tempo, dello spazio nella pagina per tessere reti e ragnatele in cui avvolgono se stessi ed i lettori. Ladri in generale e ladri in particolare, poeti, narratori, drammaturghi, rubano dal cielo, dall’inferno e anche dalla terra, cioe` da altri poeti e da altri testi. Lo fanno continuamente, l’hanno sempre fatto e non si vede come potrebbero fare altrimenti. Un tempo si parlava di «fonti», di influenze esercitate da un maestro sugli epigoni; ora si parla piuttosto di intertestualita`, prendendo le mosse da una visione meno gerarchica dei rapporti. Ogni testo e` in una relazione potenzialmente infinita con altri testi, anche perche´ non sarebbe possibile costruire un testo se non ci fosse dietro una ricchezza enciclopedica, cosı` come nell’uso comune della lingua non potremmo dire

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

nulla se non avessimo esperienza di parole, enunciati, discorsi ascoltati e 1 praticati che costituiscono il patrimonio a cui attingiamo . Qualsiasi traduzione afferisce al campo dell’intertestualita`: ladra e bugiarda a fin di bene, per il piacere e la necessita` di chi legge e di chi traduce. Anche se, una volta completata, una traduzione puo` e deve stare in piedi da sola, e` pur vero che sotto il suo testo ce n’e` un altro; c’e` un’altra lingua di cui ha mantenuto poco o nulla: e` tanto se restano i nomi propri di persona, personaggio e/o citta`. Della lingua originale non resta quasi traccia, giacche´ la traduzione e` sempre una riscrittura, e come tale compare per esempio a pari merito con testi ad autore unico in un volume di saggi dedicato all’intertestualita` che s’intitola appunto Riscritture, accanto ad un saggio dedicato alla parodia, che e` anche parodia di un saggio. Nell’intervento dedicato alla traduzione si parla di scrittori-traduttori, quali Calvino, Landolfi, Eco, Fenoglio, che si mettono in competizione con l’autore originale2. Non e` questo il caso per i poeti di cui vado a parlare, o quanto meno il competere entra solo in piccola parte nel rapporto. Giunti al divino mare, il negro legno Prima varammo, albero ergemmo, e vele, E prendemmo le vittime, e nel cavo Legno le introducemmo: indi con molto Terrore, e pianto, v’entravam noi stessi. La dal crin crespo, e dal canoro labbro Dea veneranda un gonfiator di vela Vento in poppa mando` che fedelmente Ci accompagnava per l’ondosa via:

E` questo l’inizio del canto XI dell’Odissea nella versione di Ippolito Pindemonte3. 1

La bibliografia teoretica e critica dedicata all’intertestualita` e` ormai sterminata. Per un’agile introduzione all’argomento, a partire dai saggi fondanti di Bachtin e Kristeva, cfr. il cap. introduttivo al volume di Paola Montefoschi, L’imperfetto bibliotecario: esempi di intertestualita` nel Novecento, ESI, Napoli 1992. Per un ampio panorama di interventi e rassegna degli studi, vedi Percorsi intertestuali, a cura di Giovanni Bogliolo, Daniela De Agostini e Paola Desideri, Schena, Fasano 1997; in particolare, di quest’ultima, sono estremamente utili il testo e le note a Intertestualita` e aspetti intertestuali del racconto pubblicitario, pp. 343-76. 2 Simona di Bucci, Il gioco del rovescio: dalla traduzione alla scrittura, in Riscritture, a cura di Pina Gorgoni (Atti del Convegno CRS, 1991, Roma), Eurelle, Torino 1993. 3 Cito dalla versione di Pindemonte (1822), nella riedizione minuscola e nitida della Casa editrice Hoepli, Milano 1994. E` ovviamente una scelta di affetti: le cesure marcate, le rime

POESIA POSTMODERNA: L’INFINITA TRADUZIONE

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And then went down to the ship, Set keel to breakers, forth on the godly sea, and We set up mast and sail on that swart ship, Bore sheep aboard her, and our bodies also Heavy with weeping, and winds from sternward Bore us out onward with bellying canvas, Circe’s this craft, the trim-coifed goddess.

Pound inaugura i Cantos con un omaggio ad Omero4, non riprendendo l’inizio dell’Odissea, ma ponendosi al suo interno, forse il nucleo piu` antico, con la nekuia, la discesa nell’Ade di Odisseo, episodio in cui l’eroe, dietro suggerimento di Circe, va ad interrogare Tiresia sul proprio futuro. Come gli e` stato dettato, Odisseo non fa avvicinare nessuno al sangue delle vittime sacrificali finche´ Tiresia non abbia bevuto e vaticinato, nemmeno la madre Anticlea, che credeva ancora in vita. And Anticlea came, whom I beat off, and then Tiresias Theban, Holding his golden wand, knew me, and spoke first: «A second time? why? man of ill star, «Facing the sunless dead and his joyless region? «Stand from the fosse, leave me my bloody bever «For soothsay.»

Nel tradurre, Pound accentua l’isolamento dell’eroe: salta i versi 87-98 e poi i vv.131-153, taglia tutti i rami famigliari, tutti gli accenni a Penelope, a Telemaco, al padre Laerte, che Omero, com’e` suo uso, accuratamente cita. In tal modo l’incontro di Odisseo con la madre e` riportato nei termini piu` sintetici e oggettivi, senza investimenti emotivi percettibili e le poche parole a lei dedicate, in cui riassume una ventina di versi, (131-153: «And Anticlea came, whom I beat off …. and then Anticlea came») incorniciano la profezia di Tiresia, obiettivo della discesa nell’Ade, anch’essa profezia ridotta ai minimi termini:

interne, le accorte allitterazioni mi paiono piu` vicine al ritmo sostenuto della versione poundiana di quanto non siano altre traduzioni italiane dell’Odissea. 4 The Cantos of Ezra Pound, Faber & Faber, London 1960. Per un racconto critico delle metamorfosi attraversate dalla figura di Ulisse, vedi Piero Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Il Mulino, Bologna 1992; in particolare per Pound, pp. 28-9. Si noti che Pound mantiene il nome greco dell’eroe (salvo poi usare nomi latini per gli de`i, come Nettuno invece di Poseidone) mentre ha maggior fortuna Ulisse, come nel romanzo dell’amico Joyce (1922), in corso di scrittura negli stessi anni in cui esce A Draft of XXX Cantos.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

And I stepped back, And he strong with the blood, said then: «Odysseus Shalt return through spiteful Neptune, over dark seas, Lose all companions,»

L’inizio dei Cantos non e` solo una discesa agli inferi, come archetipico necessario viaggio di conoscenza e immersione in un’impresa che durera` tutta la vita, ma e` una traduzione di una traduzione: Pound come Vincenzo Monti, che aveva tradotto l’Iliade, puo` dirsi «traduttore dei traduttor d’Omero», poiche´ il testo su cui lavora non e` quello greco, ne´ una traduzione inglese, ma e` la versione latina rinascimentale di Andrea Divus del 1538; e` un dato che Pound dichiara e che ha appunto una precisa collocazione storica: («Lie quiet Divus. I mean, that is Andreas’ Divus. / In 5 officina Wecheli, 1538, out of Homer.») . Nel riproporre l’Odissea, Pound immette un’ulteriore manipolazione: impiega il ritmo dell’antico poema anglosassone The Seafarer, (composto tra l’VIII e l’XI secolo), ch’egli stesso aveva tradotto nel 1912. Innestato su quella di Odisseo, c’e` ora la figura del nocchiero (cui forse anche Melville penso` per Bulkington e/o per Achab), che solo di aspro mare vive e che appena tocca terra e` preso dal desiderio di ripartire: So that, but now my heart burst from my breastlock, My mood ‘mid the mere-flood, Over the whale’s acre, would wander wide. (Sicche´ il cuore mi si scatena in petto, la mente gia` ara le spume lontane, scorrazza pei solchi delle balene)6 5

«E’ proprio grazie alla sua cantabilita` che, pur stravolgendo alcune delle caratteristiche del latino classico, la lingua di Divus si mantiene fedele all’originale, decretando il successo della traduzione, allargando le possibilita` poetiche del latino stesso, e permettendo a un successore (Pound, nuovo Divus, Omero divino) di ‘tradurre’ la musicalita` di Omero in una nuova lingua». La citazione e` dal bel volume di Caterina Ricciardi, EIKONES: Ezra Pound e il Rinascimento, Liguori, Napoli 1991, p. 61, in cui fra l’altro si puo` seguire la complessa e affascinante gestazione dei primi Cantos. 6 The Seafarer, trad.it. di Mary de Rachewiltz (Il nocchiero) con traduz. inglese a fronte di E. Pound (1912) dall’originale anglosassone, in Pound, Opere scelte, a cura di M.de R., Mondadori, Milano 1970, pp.230-5. Cfr. Nemi D’Agostino: «Se da un lato e` probabile che essa (la Nekuia) vada intesa come la ‘ripetizione’ rituale, propiziatoria di un avvenimento mitico, eternamente valido, dall’altro lo stile contaminatorio, coi suoi elementi omerici, latini e anglosassoni vuole essere quasi l’incrostazione di tre fasi positive della storia umana. Il passo e` un ‘ideogramma’ ambiguo e polivalente. Puo` essere letto come un segno (discesa all’inferno) introduttivo al primo gruppo dei Canti, che sarebbero appunto l’equivalente della prima cantica della Commedia.» Ezra Pound, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1960, pp. 155-6.

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E` il processo di trasformazione che intende sottolineare, come gia` all’uscita dei primi tre Cantos aveva ben inteso William Carlos Williams nei termini che piu` si avvicinavano alla sua stessa nozione oggettuale della 7 lingua(e di una poesia come «una macchina fatta di parole») . Gli interventi operati sul testo omerico permettono a Pound di realizzare un palinsesto in cui convivono molti passaggi e molti autori, compreso, gia` nel progetto di partenza, il Dante dell’Inferno; in cui soprattutto il viaggio letterale e` gia` mediato da quello letterario, ed e` anche viaggio a ritroso in termini culturali e autobiografici. I morti che Pound interroghera` sono stati o diventeranno letteralmente parole d’arte, come in Omero nella narrazione di Odisseo («Tacque. I Feaci per l’oscura sala/ Stavansi muti e nel piacere assorti.»,Libro XII, vv. 436-37)8. «So that:», ricordiamo, e` la formula di «chiusura» del I dei Cantos, a proiezione verso il testo che segue, ma anche quale segnale di entrata nel ’900, dove non esiste piu` il punto fermo. Il poeta modernista si rivolge all’antico degli antichi, e interroga Omero quale depositario della piu` antica memoria letteraria occidentale, di un patrimonio comune; ma lo interroga anche come Odisseo interroga Tiresia, per conoscere il proprio futuro. Pound, del resto, si stava esercitando a conquistare una propria identita` poetica facendo il giro di quelle altrui, traducendo ed elaborando testi amati di molte origini: il titolo della raccolta Personae (1912) si rivolge al significato primo delle maschere che gli attori greci indossavano per amplificare la voce e per opporre uno schermo all’invidia degli dei, maschere che permettevano al pubblico di non confondere l’attore con il personaggio. Nella storia letteraria del ’900, pur discusso per le scelte interventiste e gli errori sparsi, Pound ha un ruolo determinante anche come traduttore (giustamente famosa nel bene e nel male e` per esempio la sua rielaborazione in Homage to Sextus Propertius) e teorico della traduzione, al punto che la voce «translation» nella altrimenti mirabile New Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, nella edizione rivista del 1995, e` quasi esclusivamente imperniata su di lui. L’obiettivo di Pound e` quello di trasmettere l’arte, mai quello di offrire una parafrasi inerte. Ne deriva l’assoluta attenzione alla lingua di arrivo, il rifiuto della sintagmatica, la tensione verso una ricostruzione dello spirito e dello stile originale che a loro volta conducono a una

7

William Carlos Williams, Excerpts from a Critical Sketch: A Draft of XXX Cantos by E.P, in Selected Essays, New Directions, New York 1969. 8 Per il ruolo affabulatorio di Odisseo, cfr. l’ormai classico Le re´cit primitif: l’Odysse´e, in Poe´tique de la Prose di Tzvetan Todorov, Seuil, Paris 1971, 1978, pp. 21-32.

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continua riflessione del traduttore sulla propria lingua, ad un confronto che permette di conoscerla, arricchirla e trasformarla. Nel parlare della propria traduzione dei sonetti di Guido Cavalcanti, Pound ricorda di averli dapprima accostati aiutandosi con la versione inglese di Dante Gabriele Rossetti e di essere stato sviato nella lettura dal linguaggio vittoriano del 9 traduttore . *** La ricerca di Pound entra in termini consistenti nella formazione di George Bowering, canadese nostro contemporaneo, poeta, romanziere, teorico e praticante del postmoderno e del baseball, anche se il modello che lo ha attratto alla poesia e` stato William Carlos Williams, per l’impulso che ha dato alla conquista di una dizione poetica inclusiva delle cadenze dell’oralita`. Spesso nella produzione di Bowering voci altrui hanno costituito il punto di partenza per un dialogo fecondo: confronta ad esempio la prima sezione di Delayed Mercy (1986), in cui ogni poesia viene introdotta da un verso o da un’allusione ad altro poeta, come e` segnalato doverosamente nelle singole dediche. Specialista del long poem, Bowering si appropria delle Elegie di Duino di Rilke – senza mai nominarlo – per le sue Kerrisdale Elegies10, il cui locus e in parte destinatario del poema e` il quartiere residenziale di Vancouver dove lo scrittore vive da tanti anni. Sovrappone dunque uno spazio ad un altro spazio, una lingua ad un’altra lingua, un’autolegia ad un’altra autoelegia. La prima fase del lavoro e` di ritraduzione, ma il testo originale tedesco in realta` e` gia` nello sfondo: Bowering confronta varie traduzioni inglesi e a mano che procede riscrive e rielabora; plasma, secondo il proprio stile e la 9 «Cio` che mi confuse non fu l’italiano ma la scorza di linguaggio inglese morto, il sedimento presente nel vocabolario di cui disponevo e di questo, e` sperabile, io mi liberai alcuni anni dopo. Non si puo` aggirare questa sorta di ostacolo. Ci vogliono sei o otto anni per educarsi nella propria arte, ed altri dieci per liberarsi da quella educazione. Ne´ uno puo` imparare l’inglese, uno puo` solo imparare una serie di diversi linguaggi inglesi. Rossetti si creo` il proprio linguaggio. Nel 1910 io non m’ero ancora fatto una lingua, non dico una lingua da usare, ma nemmeno una lingua in cui pensare.», Rapporti di Guido, in Pound, Opere scelte, cit, p.1086. 10 George Bowering, Kerrisdale Elegies, Coach Press, Toronto 1984; trad.it. con testo originale a fronte, Elegie di Kerrisdale, introd., trad. e cura di A. Goldoni, Empirı`a, Roma 1996. Per Rilke ho consultato la trad.it. di Enrico e Igea De Portu, Elegie duinesi, con testo orig. a fronte, introduz. e note di Alberto Destro, Einaudi, Torino 1978.

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propria esperienza, le parole, i versi dell’originale, come se lavorasse sulla base di un dizionario esistente, attingendovi, ma avvicinandolo sempre piu` a se stesso e alla cultura di cui e` critico partecipe. Rilke gli serve anche per affrontare l’avvicinarsi dei 50 anni; componendo un’altra voce insieme alla sua, puo` immettere quanto di se´ gli appare uncanny che e` qui la dimensione della decadenza, del patetico, che ha sempre esorcizzato con l’esercizio costante dell’ironia. Half the beautiful ones I have known are gone, what’s the hurry? On this street the school girls grow up and disappear into kitchens, A breeze shakes the blossoms from my cherry tree, there’s cat hair all over the rug. What happened to that smile that was on your face a minute ago? God, there goes another breath, and I go with it, I was further from my grave two stanzas back, I’m human. Will the universe notice my unattached molecules drifting thru? (Della bella gente che ho incontrato, meta` e` sparita:/ perche´ tanta fretta?/ In questa strada le ragazze di scuola/ crescono e spariscono in cucina,/ una brezza/ scuote via i boccioli dal ciliegio,/ ci sono peli di gatto per tutto lo stuoino./ Cos’e` accaduto/ a quel sorriso che ti stava in viso/ solo un minuto fa?/ Dio, ecco un altro respiro che se ne va,/ ed io con lui,/ ero piu` lontano dalla tomba/ due strofe fa, sono umano./ L’universo fara`/ caso alle mie molecole che vanno alla deriva?)

Non e` la prima volta che Bowering scrive un’autobiografia; quasi tutta la sua produzione si puo` leggere in questi termini: al limite puo` trattarsi di un’apparizione fugace, alla Hitchcock, ma piu` spesso si tratta di un’opera d’intarsio tra memoria fittizia e ricostruzione personale. Ogni nuovo libro (romanzo o poesia, il metodo non cambia) e` per lui un nuovo progetto: nell’assemblare i tempi del suo io (dei suoi io), aveva scelto per esempio in Autobiology (composta fra il 1970 e il 1971 – durata della composizione un anno esatto), la fisicita` propria e altrui come guida al rimembrare. Nel comporre le Elegie, Bowering mantiene la struttura in dieci sezioni,

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in quanto rimandi alla struttura delle Elegie rilkiane, ed altrettanto fa con i temi affrontati da Rilke, ma nel processo compositivo le nuove elegie diventano delle concrezioni di forma autonoma. Tre sono i movimenti: uno, di accoglimento della tradizione piu` cosmopolita, la cui presenza e` data da Rilke e da tanti altri componenti della «dead poets society». La loro identita` individuale e` per lo piu` «blurred» o smembrata nel corpo multiforme delle elegie, come accade per i romantici inglesi, per un’ode di Shelley o per un sonetto di Keats; mentre poeti francesi e francocanadesi, voci antiche e recenti (da Villon a He´bert), vengono citati in originale a fine di alcune sezioni; un secondo movimento, piu` interno e circostanziato comprende il contesto nordamericano in generale e vancouveriano in particolare, il cui unico nome dato e` Kerrisdale; il terzo movimento e` dato dalla voce autobiografica, che alterna i toni, va dal tragico al giocoso, sfiora anche l’autocompatimento, ma e` fondamentalmente ironica e ripercorre, proiettandosi nella morte della giovinezza, il senso del proprio esistere in relazione col non-io. In questo cerchio piu` interno i passi-passaggi s’incrociano e si sovrappongono cosı` come accade nel movimento del tempo memoriale. Nella V sezione, sostituendo i giocatori di baseball ai saltimbanchi di Rilke, con un’adesione vitale che rilkiana non e` di certo, vengono in essere delle sovrapposizioni del tutto casuali: per esempio la «D» che nelle elegie duinesi e` l’iniziale di Dasein o Dastehen (essere, stare) diventa la «D» del «diamante», che disegna il campo da baseball. Ma, come sappiamo, le coincidenze sono parte essenziale nella costruzione di poesia e offrono saldature altrimenti irrealizzabili. Confronta ancora, nella prima sequenza della VII Elegia, fra le tante coincidenze cercate e trovate, una interna alla lingua inglese che offre un’unica parola per fogli e foglie, come gia` aveva visto e proposto Walt Whitman, le cui Leaves of Grass (Fogli/e d’erba) sono attive presenze che attestano l’organicita` della poesia: No more love poems for you, dear old voice, you’ve outgrown them here on this street of leaves. (Non piu` poesie d’amore per te,/cara vecchia voce,/ hai passato l’eta`, qui su questa strada di foglie)

Uno dei grossi problemi che ho incontrato nel tradurre Bowering, e` stato nell’affrontare i pronomi personali: se «I» e` sempre l’io poetante, lo «he» delle Elegie puo` essere riferito a quell’io autobiografico, bambino,

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adolescente, giovane, che non c’e` piu`. E` sempre lui anche «il giovane eroe morto» delle ultime due elegie? Sı` e no, poiche´ l’autore guarda anche ad un se stesso virtuale e talora autoparodico; e «we», e` un noi-poeti, oppure e` un noi-autore-lettore, o solo un noi-vivi? Naturalmente il dilemma persistente e` con il pronome «you», che compare come interlocutore: interno o esterno? Singolare o plurale? A volte il dilemma non e` solubile. Nel chiedere lumi, Bowering mi ha confortato affermando che, poiche´ l’ambiguita` e` il suo mestiere, approva qualsiasi traduzione che la mantenga appieno. Quello che non sono riuscita a trasmettere come avrei voluto e` l’oralita`, il ritmo molto disinvolto del parlato, che nel poggiarsi sulla pagina si fa spazio diversificato. E` attraverso lo spazio che Bowering elabora il modello triadico di William Carlos Williams per creare un equivalente grafematico della misura originale. Ho cercato di rispettare il piu` possibile quella spaziatura per restituire quella misura. Ci sono molti privilegi nel tradurre un contemporaneo – e su questi vedi il racconto di Riccardo Duranti in questo volume sulla sua amicizia con Raymond Carver. Non ultimo di tali privilegi e` quello di poter chiedere interventi all’autore anche su un testo gia` pubblicato: leggendo insieme le bozze, l’autore ha apportato leggere variazioni nella lunghezza dei versi qua e la` per permettere loro di non restare imbrigliati nelle parentesi quadre che segnalano uno scarto spaziale; e mi ha dato inoltre licenza di accorpare piu` parole nella traduzione e magari far cadere qualche aggettivo. Avrebbe approvato questa decisione Pound che, nell’intervenire sulla prima stesura della Waste Land dell’amico T.S. Eliot, aveva buttato via in quantita` aggettivi ed avverbi, a suo parere (quasi) sempre superflui. *** Il primo volume di poesie pubblicato da Bowering e` dedicato a Robert Duncan: « – the man who teaches/people to listen». Nei primi anni ’60, a Vancouver, Duncan e` stato una presenza trasformatrice insieme a Robert Creeley, Charles Olson, Allen Ginsberg, a partire da un evento che mescolo` scrittori e studenti in un comune coinvolgimento creativo, il Festival dei Poeti alla University of British Columbia (1963). Ciascuno di loro stava lavorando ad una distinta via di ricerca; proprio tale molteplicita` concorse a mettere in atto l’ideologia della forma aperta come modalita` auspicata e praticabile. Di tutti, Duncan, gia` alla fine degli anni ’40 coinvolto nella San

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Francisco Renaissance, e` sempre stato considerato il piu` colto, troppo colto per alcuni, esoterico, ermetico, in una parola, elitario. Il cerchio dei riferimenti che entra nella sua scrittura e` sorprendentemente vasto, quasi poundiano. Non c’e` peraltro intenzione reale di esibire dottrina e indifferenza verso il lettore; o meglio, verso la lettrice, ch’egli ritiene di piu` complessa capacita` proiettiva. C’e` un rapportarsi positivo al patrimonio culturale esistente, un intento di usarlo per attivarne le implicazioni. Una sua raccolta, Derivations, (1969) esplicita appunto tale intento; e come ben specifica in un articolo Michael Bernstein, l’accento e` su «derivation», non su «deprivation»11. Nel lavorare alla maniera di Gertrude Stein, Duncan porta ad ulteriori esiti il gioco autoriflessivo della lingua; si veda ad esempio l’inizio del divertisse´ment di Several Poems. In Prose: Does this mean a meaning? . After Shakespeare there was pleasure in prose. . Shake: spear, spare or peer Il y a pas de pe`re. who is his peer. This pair. . Is there in an imitation any intimation? Of who wrote it. Of what right hand the hand left knows as doing? (Questo significa senso?/Dopo Shakespeare il piacere venne in prosa. /Scuoti: asta, basta o casta. Il y a pas de pe`re./chi gli e` pari. /Questo paio./C’e` in un’imitazione qualche indicazione?/ Di chi l’ha scritta. Di quale mano destra quella/ che resta sa che fa?)

Imitatore dunque? Direi apprendista permanente. Quasi mai propriamente traduttore, Duncan si e` posto spesso il senso dell’operazione e ne ha fatto una questione di principio, tanto da sospendere per lunghi anni l’amicizia fraterna con Robin Blaser discutendo la legittimita` della traduzione interpretativa che Blaser aveva realizzato con le Chime`res di Nerval12. La riscrittura piu` matura di Duncan e` nell’esecuzione dei Dante Etudes,

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Michael Andre´ Bernstein, Bringing It All Back Home, «Sagetrieb» 1, Fall 1982, I, 2, pp.176-89. 12 Robert Duncan, Returning to Les Chime`res of Ge´rard de Nerval, «Audit/Poetry», vol. IV, 3, 1967, pp. 42-64.

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13 che ho tradotto . In questo caso il furto e` palese, il rapporto col materiale precedente e` dichiarato gia` nel titolo. Nella premessa, Duncan spiega la scelta del termine e´tude quale affinita` d’intento con i musicisti romantici, che si erano posti in conversazione con la musica preesistente. In modo analogo Duncan dialoga con Dante citandolo ampiamente, chiosando in consenso o in dissenso, trascegliendo comunque quanto di Dante piu` gli preme, cioe` la sua passione linguistica e civile. Non e` preminente, in questa serie, la presenza della Divina Commedia, che pure era per lui una lettura amata a cui aveva dedicato il bel saggio The Sweetness and Greatness of the Divine Comedy (1965). In questa occasione – ma non si pensi ad una scrittura istantanea, perche´ la composizione copre l’arco di circa tre anni (1972-74) – il «little Dante book», come definisce il progetto all’inizio, mira in primo luogo al De Vulgari Eloquentia e poi si allarga al Convivio, al De Monarchia, alle Epistole, per concludersi con una poesia quasi verbatim composta da passi della Vita Nuova. L’americano di Robert Duncan e` una combinazione di raffinatezza scritturale e di flusso di parlato, con l’impiego sistematico di forme fonetiche contratte, come il participio passato in -d e -t anche dove lo spelling ufficiale usa -ed, oppure con la scelta di «thru» invece di «through»; di «delite» e «nite» per «delight» e «night». Non ci sono in italiano equivalenti per tali fonetismi, anche perche´ la nostra lingua non ha sviluppato grandi divaricazioni tra ortografia e pronuncia. La distanza della lingua di Duncan da quella quotidiana c’e` pero` visibile soprattutto nel lessico, molto piu` articolato del comune, ma anche negli affondi che compie quando si sofferma sui verbi con preposizioni che pure sono continuamente presenti nel parlato. Una sua peculiarita` che ha creato non pochi problemi di interpretazione e di traduzione e` la sintassi sincopata, con molte ellissi, con – e questo piu` di ogni altra cosa ha comportato perplessita` irrisolte – passaggi di soggetto, anacoluti che presentano la proiezione di un verso sull’altro, di un significato in mutazione, di un procedere oltre del pensiero. Si veda ad esempio in For the Sea Is God’s:

......Our song

13 Robert Duncan, Dante Etudes, (in prima edizione pubblicati con il titolo di Dante, The Institute of Further Studies, New York 1974), in Selected Poems, a cura di Robert Bertholf, New Directions, New York 1984; trad. it. con testo orig. a fronte, Empirı`a, Roma 1998, introd., trad. e cura di Annalisa Goldoni, con il saggio «Dolcezza e grandezza della DC», trad. di Marco Nieli.

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must lonely and transient rise a momentary swirling out or dancing wave upon wave from distant impulsations come all individualities; (Il nostro canto/deve levarsi solitario e transeunte/ l’aprirsi momentaneo di un vortice/ o la danza onda su onda/da impulsi lontani vengono/ tutte le individualita` – da: Perche´ il mare e` di Dio)

Nel tradurre, ho sempre tenuto davanti a me la massima del poeta H.W. Longfellow, il grande traduttore ottocentesco di Dante, secondo la quale il traduttore non puo` e non deve mai spiegare. Sarebbe stato possibile tuttavia ignorare la dimensione linguistica dantesca e tradurre «direttamente» dall’inglese delle traduzioni dei Temple Classics usate da Duncan? Forse. Ho ritenuto necessario assecondare la contemporaneita` del linguaggio duncaniano, anche per poterlo mettere a confronto con il volgare di Dante, ovviamente laddove mi son trovata a lavorare col Convivio o nelle occasioni in cui viene citata la Vita Nuova, sempre gia` in volgare nel testo. In tal modo, fra l’altro, vengono restituite ai lettori italiani quelle metamorfosi della lingua che in inglese non potevano emergere, ma che lo stesso Duncan, credo, avrebbe amato sentire. Ho mantenuto per esempio la dizione «Pronta Liberalitate» del Convivio (I, VIII), perche´ Duncan usa «Zealous Liberality», che non e` molto di oggi e che in ogni caso comprende i due significati di generosita` e di apertura ideologica che sono inclusi nel testo americano. Infine, una nota di precisazione alla traduzione di «And a Wisdom as Such» (Etude from the IV Treatise of the Convivio, chapts XVII and XXI). Anche se «wisdom» puo` significare tanto sapienza, quanto saggezza, ho fatto questa seconda scelta, perche´ il titolo e` una risposta di Duncan all’amico poeta Charles Olson che l’aveva accusato di amare troppo la sapienza in se´ e per se´, praticando una via sterile alla conoscenza («Against Wisdom as Such» era l’intervento di Olson). A distanza di anni quel monito restava bruciante e in questo caso, anche grazie a Dante, la sapienza si e` trasformata in quella saggezza che accoglie e offre, che trasmette il sapere e il sentire al di fuori di ogni superbia. Per le traduzioni dalle opere originariamente in latino, il De Vulgari Eloquentia, il De Monarchia e le Epistole, mi sono attenuta ad un registro comunque «nobile» quale risulta anche in Wicksteed (e nelle piccole modificazioni introdotte da Duncan), cercando pero` di evitare le preziosita` di alcune traduzioni italiane. Se Dante compare massicciamente nella serie poetica, Firenze non viene quasi mai nominata. L’elisione del nome proprio di luogo sposta

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automaticamente nella lettura il contesto al presente dell’autore. Le citazioni interne permettono pero` di ricostruire un ponte di senso analogico, specie per noi lettori italiani, cui Dante e` sempre in qualche misura famigliare e per i quali, nell’evocarlo, Firenze l’accompagna anche quando non e` detta. A maggior ragione questo avviene quando, nel ritradurre a mia volta, ho di norma restituito il testo dantesco in volgare, in tal modo lo scarto tra le due lingue italiane – l’italiano odierno e il volgare – mette direttamente in campo la pluralita` storica che ci viene offerta. Gli U.S.A. vengono sovrapposti a Firenze con le specificazioni, le dimensioni sociali e politiche del nostro presente, rivelando la continuita` nel discorso civile tra contesti cosı` distanti, come per esempio nel commento alla II Epistola: «In truth she breathes out poisonous fumes» night after night I turn on the flow, the flickering TV picture feed, to watch the news, the mind’s noose of violence, starved and assaulted bodies, of personality strut and show, the mounting images of crisis, the strain that eats away at the nation. («Invero esala dei fumi velenosi»/ notte dopo notte/apro il flusso, / la broda di tremolanti immagini TV,/ gli occhi al telegiornale, il cappio della violenza/ alla mente, corpi affamati e aggrediti,/ il tronfio spettacolo del personaggio in vista,/ le immagini della crisi in crescendo, la/ tensione che divora la nazione.)

Lo scarto linguistico-storico non si avverte molto nell’originale inglese, poiche´ Duncan adotta per lo piu` – con qualche adattamento creativo – le traduzioni di Philip Wicksteed, che non usa un inglese antico (comunque irrecuperabile di fatto), ma un inglese standard di inizio ’900, con un registro alto non separato dalla lingua letteraria corrente; una lingua che comunque a Duncan non suona cosı` desueta come quella di Rossetti alle orecchie di Pound. Attraverso la traduzione di Wicksteed, Duncan ritorna all’italiano e al latino, come ci comunica in «A Hard Task in Truth»: «non tam de propria virtute confidens»(thank you, Jack Clarke, for sending me the Latin)». A tratti Duncan costruisce un’imagery dantesca che non e` possibile riconoscere come afferente ad un testo oppure ad un altro: usa per esempio l’immagine dell’aquila, che in Dante non e` cosı` frequente come si pense-

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rebbe, come mi si e` rivelato grazie all’amico dantista Rino Caputo, con una ricerca incrociata sulla LIZ (Letteratura Italiana Zanichelli in CD-ROM) e sul Dizionario dantesco; qui allude al «colmo della M» (Par.XVII, vv.106-9), che e` «l’aguglia»(termine non utilizzabile oggi, non tanto perche´ uscito dall’uso, ma perche´ assolutamente irriconoscibile, quindi muto): Letting the beat go, the eagle, we know, does not soar to the stars, he rides the boundaries of the air – but let the «eagle» soar to the stars! there where he’s «sent»! The stars are blazons then of a high glamor the mind beholds – less «real» for that? – (da «Letting the Beat Go») (Nel liberare il battito,/l’aquila, sappiamo, non si/ libra alle stelle, percorre/ i margini dell’aria – / ma lasciamo che l’«aquila»/ si libri alle stelle! la`/ dove e` «inviata»! Le stelle/ sono blasoni allora di un nobile fascino/ che la mente mira/ – per questo meno «reali»? –)

Invero, nel tradurre, ci si rende conto che coesistono altre convergenze: una di queste, segnalatami da Francesca Trusso, e` con «The Windhover» (Il falcone) di G.M.Hopkins (1877); si confronti la strofa centrale del testo di Hopkins con il testo di Duncan: Brute beauty and valour and act, oh, air, pride, plume, here Buckle! AND the fire that breaks from thee then, a billion Times told lovelier, more dangerous, O my chevalier!

Si tratta di inferenze che si insinuano nello scrivere e che si posano anche marginalmente facendo lievitare allusioni e significati che non sempre e` possibile offrire nella traduzione italiana. E al di la` di ogni riferimento ad altri testi, mi e` stato difficile mantenere la concentrazione semantica espressa da «soaring» librarsi, dove nella quasi omofonia con «sore», essere dolenti, il significato manifesto include il significato «tenue», cioe` il senso di struggimento esplicitato in «wingd hunger», alata fame: e allora le virgolette assumono un’importanza decisiva e dirigono la scelta. Cosı`, i versi che dicono: «The stars are blazons then. of a high glamor / the mind beholds»

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includono il fiammeggiare (blaze) quale coerente attributo delle stelle dentro al loro essere dei «blasoni». Il gioco e` inoltre autoironico: i «blasoni» alludono ad una aristocrazia fuori dalla storia ormai; «glamor» e` termine che si usa solo per la pubblicita` dei cosmetici, della biancheria intima e per irridere alle «stelle» laccate e scadenti del firmamento hollywoodiano. Ho comunque tradotto sempre «stars» con «stelle» (e mai con «astri»), oltre che per i motivi intuibili dalle accezioni appena dette, per una corrispondenza diretta in termini d’uso; inoltre verso le «stelle» converge letteralmente il moto di Dante-personaggio nella DC fino a congiungersi idealmente con il moto divino – le tre cantiche, sappiamo, si chiudono con: «stelle/stelle/stelle». Inoltre Duncan impiega «stars» anche al di fuori dei Dante Etudes, con intenzione alchemica. A maggior ragione qui e` necessario tener conto di tale intenzione, poiche´ Dante e` un’autorita` che soccorre la sua personale dichiarazione di poetica, secondo la quale la realta` della poesia e` nell’aspirare alla perfezione dell’essere universale, pur nella consapevolezza che mai puo` essere raggiunta e che forse nemmeno esiste al di fuori della mente. Ho cercato di recuperare parte del gioco di rimandi avvicinando nel titolo e nei primi versi «liberare» a «librarsi», consapevole anche di come Duncan ritenga indissolubile il legame tra il battere del cuore e degli altri ritmi naturali e il pieno dispiegarsi dell’immaginazione poetica. Nel costruire il testo scritto, Duncan usa lo spazio in modo molto attento; da` delle istruzioni per l’uso affinche´ vengano rispettati gli spazi fra le parole, fra i versi che egli ha misurato per poter riprodurre esattamente le proporzioni necessarie ai tempi e ai ritmi interni al testo stesso. L’impiego del verso libero, come lo abbiamo visto in Bowering e in Duncan apre a molte possibili soluzioni e fra l’altro introduce un ulteriore criterio di traduzione, quello spaziale, che deve tenere e dare conto dei semantismi percettivi.

TRADURRE RAYMOND CARVER di Riccardo Duranti

Tradurre e` un’attivita` ricca di paradossi che, come tutte le mediazioni, riserva non poche contraddizioni e anche non pochi aspetti frustranti – primo fra tutti, quello dell’inattingibilita` dell’aura creativa che emana dall’originale. Per fortuna, la necessita` di sanare le assurde fratture nel corpo del linguaggio, create dalle divaricazioni linguistiche e culturali, restituisce alla traduzione un’oggettiva dignita` di funzione, che e` intaccata soltanto dalle condizioni materiali in cui spesso e` costretta ad agire. Comunque non e` di questo di cui intendo parlare oggi, bensı` di un aspetto piu` soggettivo del fenomeno, e cioe` della fitta rete di rapporti – umani e letterari – che la traduzione puo` innescare e delle ripercussioni che questa trama di fatti, di emozioni, puo` avere a livello personale, ma non solo. Ieri, Angelo Morino ha aperto un po’ la strada per questo – che comincio a pensare sia una specie di recente tendenza dei traduttori italiani che sono arrivati a un punto di saturazione tale che abbandonano la traduzione. Ma, come ho detto, non e` su questo aspetto strettamente autobiografico che voglio intervenire, bensı` su un altro, non per cedere a un impulso confessionale, ma per portare una testimonianza che secondo me puo` aiutare a capire alcuni processi interiori – critici, creativi, psicologici, ecc... – messi in moto dalla traduzione. Questi processi, a loro volta, potrebbero aprire un campo di ricerca per gli studi teorici sulla traduzione – che mi sembra ogni tanto tendano a girare un po’ su se stessi, a raggiungere un po’ sempre le stesse conclusioni. Forse, considerare questo problema del rapporto interpersonale che a volte si crea nella traduzione o dei processi interiori del traduttore puo` servire anche agli studiosi teorici. Personalmente considero ormai questi aspetti relazionali profondi connessi alla traduzione l’unico antidoto a quell’usura del traduttore a cui accennava ieri Morino. Essi rappresentano infatti uno stimolo, l’unico stimolo irresisti-

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bile, non solo per l’approfondimento critico del testo – sono convinto che la mimesi prima interiore e poi esteriore, a cui e` costretto il traduttore sia il massimo livello di close reading di un testo che si puo` dare – ma anche per l’assunzione di autonomia creativa da parte del traduttore, superamento dei complessi che molto spesso fanno parte del suo bagaglio – complessi di inferiorita`, di solito. Il traduttore, dopo un intenso e logorante tirocinio nel paradossale ruolo di lettore attivo e scrittore passivo, puo` accumulare abbastanza strumenti e coraggio per spiccare il grande salto e scrivere autonomamente, proprio grazie a questa lezione della traduzione. Questo e`, in estrema sintesi, il percorso che la mia amicizia con Raymond Carver e l’esperienza di suo traduttore, in gran parte svolta dopo la sua morte, mi hanno portato a compiere. L’incontro con Carver e` stato in realta` un incontro di rimbalzo: non l’ho conosciuto perche´ traducevo lui o avevo intenzione di tradurlo, anzi proprio non lo conoscevo affatto, ma perche´ traducevo e conoscevo almeno epistolarmente Tess Gallagher – la sua compagna che in seguito e` diventata sua moglie – sin dall’inizio degli anni ’80. Tanto casuale e` stato questo incontro che nel ’79 avevo perso un’occasione di conoscerne direttamente l’opera quando una collega americana me ne aveva parlato come di uno scrittore molto promettente. Mi aveva fatto leggere un racconto e io l’avevo trovato in effetti nuovo, interessante. Poi pero` non ero riuscito a trovare altri testi suoi, e all’epoca mi occupavo piu` di poesia, quindi... avevo avuto questa occasione di incontrarlo almeno sulla pagina nel ’79 e me l’ero lasciata sfuggire. Casualmente, sei sette anni dopo mi trovavo in America e su invito della Gallagher – dopo anni di fitta corrispondenza appunto perche´ traducevo le sue poesie – sono andato a trovarla a Syracuse, dove insegnava. All’areoporto invece venne a prendermi quest’uomo – io avevo sentito parlare di un certo Ray, immaginavo fosse il suo compagno, ma non sapevo che era uno scrittore anche lui. All’inizio, l’incontro e` stato un po’ imbarazzante e imbarazzato da parte di tutti e due: eravamo entrambi timidi e guardinghi. Lui proprio perche´ non si fidava di questo italiano che scriveva sempre alla moglie e che ora l’andava addirittura a trovare a casa, evidentemente. Quindi mentre io mi trovavo di fronte uno scrittore che non avevo letto, i primi momenti sono stati un po’ impacciati. La situazione ricordava un po’ l’inizio del racconto "Cathedral", quando arriva il cieco. Poi, pero`, proprio attraverso la traduzione il rapporto si e` creato e l’imbarazzo si e` sciolto. Infatti, la prima cosa sua che Ray mi fece vedere fu la traduzione di Cattedrale che era appena uscita in Italia, nell ’84, da Mondadori, dicendo: «Ho questo libro e non so giudicare se la traduzione e` buona o no; perche´

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non mi da`i tu un parere?» Lı` per lı`, su due piedi, non conoscendo l’originale, sfogliai la traduzione che mi sembrava abbastanza adeguata anche se c’era qualcosa che non funzionava nel linguaggio – c’era stata una precisa scelta da parte del traduttore per un linguaggio, un dialetto, un registro padano, settentrionale che a me, romano, dava un po’ fastidio, ma comunque sembrava una buona traduzione. Glielo dissi e questo innesco` un discorso sul linguaggio, sulla scrittura, sulla traduzione che ci aiuto` un pochino a sciogliere quelle diffidenze, quei sospetti iniziali. Discutemmo molto nei giorni che passai a Syracuse, soprattutto costruimmo questa specie di fiducia, di amicizia, che superava abbastanza etichette, distanze, ruoli ecc... e derivava anche dal riconoscimento di una base comune di interessi e atteggiamenti analoghi, ma anche dal reciproco rispetto delle peculiarita` individuali. C’era forse, credo, dietro a questa amicizia una certa solidarieta` di classe: mi pareva che questo sentimento non fosse estraneo al nostro andare cosı` d’accordo. Tutti e tre a modo nostro vivevamo in un ambiente in cui avevamo fatto fatica, chi piu` e chi meno, a inserirci e al quale non aderivamo del tutto, mantenendo sempre ampie zone di diffidenza, di non aderenza, di distacco ironico. Una grossa scoperta fu proprio l’opera di Carver che avvenne in modo abbastanza originale, partendo dalla persona, piuttosto che dal testo – ripeto, al momento dell’incontro avevo letto soltanto quel racconto nel ’79 e quindi era anche abbastanza lontano – pero` conoscendolo e vivendo alcuni giorni insieme a lui, capii le qualita` di narratore di Carver. Era una persona estremamente timida, parlava con voce bassissima, anche se era un uomo massiccio, e c’era un netto contrasto tra l’aspetto imponente e la voce esitante, timida. Ma si trasformava, questa voce, quando raccontava un aneddoto o ascoltava – perche´ per essere buoni narratori bisogna essere anche buoni ascoltatori. Nel corso di questa interazione cosı` personale cominciai a rendermi conto di trovarmi dunque di fronte a un grande scrittore e a intuire che la sua grandezza non poteva essere scissa dalla sua apparente semplicita` di vita. Mi accorsi anche della sua fama e del ruolo che rivestiva nella comunita` degli scrittori americani. Ogni giorno il postino portava scatoloni di libri e di riviste: Ray stava mettendo insieme un’antologia di racconti e gli editori gli mandavano tonnellate di materiale. Ma c’erano anche delle cose contraddittorie, che non capivo bene: il ritratto che me ne aveva fatto la mia amica nel ’79 parlava di una specie di artista maledetto, con complessi di inferiorita` incredibili, con problemi di alcolismo ecc... e invece nell’incontro che avevo avuto con lui questi tratti

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mancavano del tutto. Nei pasti che consumavamo insieme, lui beveva sempre orange juice e coca-cola, mentre io e la moglie bevevamo vino o birra. Non sapevo bene la storia che c’era dietro al suo alcolismo portato alle estreme conseguenze e poi faticosamente recuperato – mi sembrava un po’ esagerato ed eccessivamente "puritano" il recupero dall’alcolismo per approdare alla totale astinenza. Solo in seguito, Tess mi spiego` come stavano le cose: pare che sia l’unica maniera di farlo, non ci sono vie di mezzo. Dopo questo incontro tornai in Italia e continuarono appunto i contatti epistolari e, soprattutto, la lettura sistematica dei suoi testi, dei suoi racconti, delle sue poesie. Pero` non li traducevo, erano gia` in traduzione, non intervenni in questo aspetto propriamente traduttivo. La prima occasione di tradurlo fu nel ’87 quando lui e Tess vennero in Italia. Tra l’altro, con quella ironia e l’atteggiamento anche irridente nei confronti del sistema che li caratterizzava, rovinarono un po’ i programmi dell’ufficio stampa della Garzanti, perche´ era previsto il lancio in Italia di un suo libro, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, – che, sia detto per inciso, rientrava tra l’altro nell’ambito di una campagna scientificamente preparata a tavolino per la promozione dei cosiddetti scrittori minimalisti con cui lui si vedeva, abbastanza inopinatamente da parte sua, associato: era considerato il padre dei minimalisti, l’esempio, l’iniziatore della corrente ecc... Ray rifiutava assolutamente questa etichetta, la riconosceva per quello che era, una specie di trovata pubblicitaria, parte quindi della campagna che era stata preparata per lanciarlo in Italia (visto che Cattedrale era passato completamente inosservato soltanto tre anni prima) e che prevedeva, tra l’altro, un incontro allo spazio Krizia di Milano, molto mondano, molto mediatico. Lui invece sconvolse tutti questi piani, scegliendo di cominciare il suo viaggio da Roma, con una funzione totalmente privata, per venire a trovare me e un altro amico, Gianfranco Palmery, che aveva a Roma. Io ne approfittai per fargli fare un reading all’Universita` dove insegno, pero` questo provoco` incredibili furie nei press-agents milanesi che cominciarono a tempestarmi di telefonate e di strane richieste, dicendo che avevo sforato il loro lancio, perche´ qualche giornalista si era accorto che sarebbe venuto a Roma prima, erano gia` usciti degli articoli sui giornali, eccetera. E infatti le prime interviste italiane sono state fatte all’Universita`, nel mio ufficio, invece che allo spazio Krizia. Ray e Tess si divertirono moltissimo, io un po’ meno... Era abbastanza interessante, c’era tutto questo mondo di cui ignoravo l’esistenza: ero inondato di telefonate, ma non sapevo neanche come si erano procurati il mio numero di telefono.... Comunque la visita ci fu e fu

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piacevole, anche se molto strana dal punto di vista turistico, perche´ sebbene fosse la prima volta che veniva a Roma, non gli interessava niente – io e gli altri amici eravamo disponibili a fargli da guida nella visita ai monumenti, ma l’unico posto dove chiese di essere accompagnato era la tomba di Keats e Shelley, al cimitero degli Inglesi alla piramide Cestia. Dopo lo portai anche alla Keats and Shelley House, che infatti gli piacque molto. Addirittura espresse l’intenzione di tornarci per lavorare, per studiare in quella biblioteca dall’atmosfera senz’altro molto particolare. Purtroppo non e` stato possibile per gli sviluppi successivi. In questa occasione, nel corso di una cena a casa di Gianfranco, che allora dirigeva una rivista che si chiamava Arsenale, lui ci diede le bozze di un racconto che sarebbe uscito di lı` a poco – eravamo in aprile e doveva uscire nel numero di giugno del New Yorker – che poi si e` rivelato l’ultimo racconto che ha scritto. E pensare che quando ce lo ha presentato, invece, noi lo avevamo visto come un specie di inizio di una nuova fase, di una nuova carriera, proprio di un nuovo stadio di sviluppo della sua scrittura. Il racconto era Errand – L’Incarico – e la novita` consisteva nel fatto che per la prima volta Carver usciva dai confini americani, dall’ambiente di falliti, alcolizzati, coppie in difficolta`, disoccupati ecc... che l’aveva reso famoso e scriveva invece su uno dei suoi miti letterari, Cecov, che lui riveriva in maniera assoluta, raccontandone gli ultimi anni di vita. Il momento culminante del racconto e` proprio la morte di Cecov in una stazione termale della Germania meridionale. Ricordo che sia io che il nostro amico trovammo entusiasmante leggere questo racconto cosı` diverso, anche se poi alla fine esso rientrava proprio nella tipica vena carveriana, con la presentazione del cameriere un po’ imbranato che accetta inconsapevolmente l’eredita` narrativa di Cecov, raccogliendo il tappo della bottiglia di champagne con cui molto stranamente lo scrittore agonizzante, la moglie e il medico che lo assisteva avevano brindato all’ineluttabilita` della morte. Dopo aver letto questo racconto fu interessante anche parlare con lui: c’erano delle correzioni nel racconto, le discutemmo, mi raccomando` di tenerne conto nella traduzione (eravamo d’accordo che l’avrei tradotto per Arsenale e sarebbe uscito in quell’autunno), di aspettare che uscisse l’edizione completa sul NewYorker perche´ ci potevano essere dei cambiamenti. Appresi dalla sua viva voce dell’esistenza di queste figure leggendarie del NewYorker che sono i fact checkers, ovvero dei redattori che controllano per esempio che i nomi, le vicende riportate all’interno dei racconti siano precisi, e che sono di una pignoleria unica perche´ avevano messo in dubbio – e sulla copia infatti c’erano dei punti interrogativi – il fatto che un

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cameriere d’albergo della Germania del primo novecento indossasse una giacca con gli alamari. Poi avevano scovato un’illustrazione dell’epoca che giustificava un’intuizione puramente visiva che aveva avuto Carver e avevano lasciato il dettaglio. Mentre invece non si erano accorti di una ben piu` vistosa, macroscopica svista geografica che l’autore aveva fatto, allontanandosi per la prima volta dai familiari paesaggi americani per avventurarsi in quelli mitteleuropei, per lui cosı` esotici: per esempio, dalla stazione termale di Badenweiler, a Nord-Ovest di Basilea, dove e` ambientato il finale del racconto, anche tenendo conto che nel 1904 l’aria era molto meno inquinata, piu` tersa, era estremamente difficile che all’orizzonte apparisse il profilo delle Alpi come diceva Carver – andammo a vedere su un atlante e scoprimmo che dovevano essere i Vosgi, con ogni probabilita`, le montagne che si vedevano all’orizzonte. Dopo il loro ritorno negli Stati Uniti riprendemmo la nostra corrispondenza, poi, proprio in coincidenza con l’uscita in Italia del racconto, seguı` un lungo silenzio. Da settembre a ottobre non seppi piu` niente, mentre prima ci scrivevamo almeno due volte al mese. All’improvviso, invece, mi arrivo` una cartolina in cui un altro comune amico, un poeta americano, Gregory Orr, mi informava che Ray era gravemente malato. Gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni che per uno strano scherzo del destino si era manifestato esattamente nella stessa maniera drammatica con la quale lui aveva descritto il manifestarsi della tubercolosi in Cecov. Poi varie altre telefonate, vari altri contatti – un’altalena di speranze e disperazioni – fino al giugno del 1988 in cui a sorpresa mi arrivo` una telefonata in cui Tess e Ray mi informarono che si erano sposati, che lui era molto contento perche´ era uscito il libro dei suoi racconti preferiti (Where I’m Calling From) e fu soltanto appunto quando – un’altra coincidenza – arrivo` il libro che mi aveva annunciato, contemporaneamente giunse la notizia della sua morte ai primi di agosto. E` da questo momento che e` cominciato veramente il mio rapporto di traduttore: quell’estate tradussi, insieme a un giornalista di Capri, Francesco Durante, il libro che, uscito prima da Pironti, e` stato di recente riedito da Minimum Fax – Voi non sapete che cos’e` l’Amore. Il fatto e` che a questo punto la traduzione aveva assunto un motore segreto: l’urgenza di recuperare, di ritrovare la voce che mi aveva talmente colpito – di trattenere la presenza di una persona cara, di ricostruire la quieta incandescenza della sua voce. Tra l’altro Jay McInerney – che e` l’unico minimalista che puo` ritenersi suo allievo, perche´ e` l’unico che ha effettivamente studiato con lui – ha descritto in un tributo postumo molto bello alcune delle qualita` di quella voce.

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Dopo questa prima esperienza di traduzione, che riguardava alcuni suoi racconti e un paio di saggi, riscoprii improvvisamente la sua poesia. Perche´ Carver e` famoso come narratore, come scrittore in prosa, ma in realta` secondo me e` altrettanto interessante come scrittore di poesia. La cosa abbastanza paradossale era che per gusti e per inclinazione, il tipo di poesia che lui scriveva – cosı` autobiografica, cosı` in presa diretta – in teoria non mi sarebbe dovuta piacere. Quando avevo preparato l’antologia, anni prima, avevo fatto indigestione di poesie americane confessionali di questo tipo e ne avevo ricavato una sorta di diffidenza. A una prima lettura le poesie di Carver sembrerebbero appartenere a questo genere. In realta` l’elemento che le riscatta da quello che a me pareva il peggiore dei difetti, era un’evidente necessita` di ciascuna poesia di seguire lungo linee diverse, un impulso narrativo interiore, improntato allo stesso principio di essenzialita` che caratterizza i racconti. Questo non vuol dire che sono poesie facili o istintive, solo che non sono appesantite da pensieri scuri, non sono caricate di pretese insostenibili, non sono surrettiziamente modellate su matrici preesistenti. Sono, appunto, poesie autentiche, secondo me. Fu proprio per superare questa resistenza e metterle alla prova che cominciai a tradurle. Riuscii cosı` man mano a sciogliere le mie riserve. Quando mi chiesero di tradurre le poesie del libro che e` uscito postumo, Il nuovo sentiero per la cascata, improvvisamente la resistenza si ripresento` sotto un’inedita veste: Ray aveva lavorato a questa raccolta subito prima della sua morte e all’inizio pensavo che non sarei mai riuscito a tradurle perche´ era troppo emozionante, troppo difficile ricostruire quella agonia. Mentre invece poi ho visto che traducendole c’e` stata proprio una specie di elaborazione del lutto che mi ha poi permesso di superare i dubbi e le esitazioni. Nel ciclostilato avete alcuni esempi di quelle traduzioni. Siccome il tempo stringe, voglio soltanto leggere un paio di queste poesie per mettere in rilievo due cose: una e` la costante presenza nel suo corpus poetico di un elemento autoreferenziale, una meta-poesia che nel corpus narrativo invece manca del tutto. Per esempio questa poesia, Sunday Night, che e` una poesia dei primi tempi, proprio di quando Carver aveva cominciato a scrivere sotto molte difficolta` pratiche, le stesse su cui ha scritto pagine indimenticabili sia nei racconti che in un saggio come ‘‘Fuochi’’. E` appunto una poesia secondo me programmatica, e da` un po’ il viatico a tutta questa serie di meta-poesie che lui scrive:

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Domenica Sera Metti a frutto le cose che ti circondano. Questa pioggerellina fuori dalla finestra, per esempio. La sigaretta che tengo tra le dita, questi piedi sul divano. Il suono del rock-and-roll sullo sfondo. La Ferrari rossa che ho in testa. La donna che si sbatte ubriaca in giro per la cucina… Mettici dentro tutto, mettilo a frutto.

Questa mi sembrava una poesia programmatica perche´ in nuce in essa sono concentrati anche tutti gli elementi della sua narrativa. Tra l’altro con l’interessante sdoppiamento tra prima e seconda persona che possiamo ritrovare anche in alcuni racconti. L’altra poesia che volevo leggere e` What the Doctor Said perche´ e` anch’essa un esempio di poesia estremamente personale, estremamente aderente alla realta` – e perdipiu` a una realta` terribile – ma proprio per questo illustra il procedimento con cui Carver riusciva a distaccarsene attraverso funzioni squisitamente poetiche e narrative, fino a raggiungere anche elementi paradossalmente e assurdamente comici, ironici. Cosa ha detto il dottore Ha detto che la situazione non e` buona ha detto che anzi e` brutta, molto brutta ha detto ne ho contati trentadue su un solo polmone prima di smettere di contarli allora io ho detto meno male non vorrei sapere quanti altri ce ne stanno oltre a quelli e lui ha detto lei e` religioso, s’inginocchia nelle radure del bosco si lascia andare a invocare aiuto quando arriva a una cascata con gli spruzzi che le colpiscono il viso e le braccia si ferma a chiedere comprensione in momenti del genere e io ho detto non ancora ma intendo cominciare a farlo subito lui ha detto mi dispiace veramente ha detto vorrei tanto darle notizie di tutto un altro genere e io ho detto Amen e lui ha detto qualche altra cosa che non ho capito bene e non sapendo cos’altro fare

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siccome non volevo che lui dovesse ripeterla e io digerire pure quella me lo sono guardato per un po’ e lui ha guardato me e a quel punto sono saltato su e ho stretto la mano di quest’uomo che mi aveva appena dato qualcosa che nessuno al mondo mi ha mai dato prima mi sa che l’ho pure ringraziato tanta e` la forza dell’abitudine

Questo e` dunque lo sforzo che ho compiuto nel tradurre Raymond Carver: quello di ritrovare una voce ormai abbastanza lontana, ma che sentivo vitale. E` appunto la voce che ho cercato di inseguire e in qualche modo recuperare, fermare nel tempo e trasferire nello spazio. Nell’indagare i processi mentali attraverso i quali ha luogo la traduzione, bisognerebbe tenere conto anche di fattori come quelli che ho cercato di delineare. A volte si traduce non soltanto per rendere disponibile ad altri un’esperienza, anche se, e` chiaro, e` necessario ci sia questa molla dietro, quella di comprendere, mimare, riprodurre, trasmettere e condividere delle emozioni, ma anche per esprimere un’esigenza personale, intima, che puo` arricchire e rendere piu` stimolante l’intero processo. Ecco, la testimonianza che volevo portare e` un po’ tutta qui. Spero serva a stimolare forse un nuovo campo di studio, di interesse, quello appunto della psicologia dei percorsi e delle motivazioni interiori del traduttore.

COSA SI TRADUCE QUANDO SI TRADUCE di Piero Falchetta

Con il pretesto dello Specchio delle imprese cavalleresche, e con largo anticipo sulle teorie e sulle opinioni dei giorni nostri, cosı` Miguel de Cervantes, nel Don Chisciotte, esprimeva per bocca dei suoi personaggi alcune idee sull’eterna questione della traduzione: «... noi avremmo perdonato al signor Capitano se non lo avesse portato in Ispagna [lo Specchio ] e non lo avesse volto in castigliano, perche´ gli ha tolto molto del suo valore originale, e lo stesso faranno tutti quelli che vorranno tradurre in altra lingua i libri di poesia; che´, per quanta cura ci mettano e per quanta abilita` dimostrino, non arriveranno mai al grado di perfezione che essi hanno nell’originale. Insomma, dico che questo libro e tutti gli altri che si troveranno, che trattano di queste imprese di Francia, debbano gettarsi o tenersi in deposito in un pozzo asciutto, finche´ si 1 decida con maggiore ponderazione che cosa convenga farne... »

Quel che piace immensamente e` soprattutto la proposta del pozzo asciutto, mentre per quel che riguarda la ponderazione, e` probabile che tale raccomandazione non incontrerebbe grande favore presso gli editori odierni. A parte cio`, il suggerimento di un’attesa che si prolunghi fino al termine di piu` meditate riflessioni ci e` sembrato un buon punto di avvio per la presentazione di due casi a nostro parere piuttosto interessanti. Si tratta di due casi estremi, e certo non esemplari, ma non per questo meno istruttivi; di essi ci eravamo occupati in anni passati, a distanza di tempo, ma e` soltanto con l’accostarli insieme al tema del nostro incontro – la traduzione – che si e` rivelata la sorte che in certo modo li accomuna e che li rende, da questo punto di vista, fertili di nuove suggestioni. 1

Traduzione di Letizia Falzone, Garzanti, Milano 1985; il passo citato e` al cap. VI.

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Pur trattandosi infatti di due opere del tutto diverse per quel che riguarda l’epoca nella quale furono composte, per il contenuto, il contesto storico e culturale, le aspirazioni e le capacita` di coloro che le crearono, esse appaiono accomunate, a ben guardare, da un singolare destino d’attesa – anche se non proprio dello stesso genere di quella auspicata da Cervantes. Queste due opere – delle quali svelero` tra breve titolo e autore – hanno potuto infatti trovare il pieno compimento dei loro intenti soltanto, o quanto meno soprattutto, grazie alla traduzione; nel primo dei due casi si tratta di un intento assolutamente palese, oltreche´ consueto (la pubblicazione), mentre nell’altro il passaggio alla traduzione pare coronare come una sorta di illuminante svelamento l’aspirazione piu` recondita e sfuggente del testo. In una giornata del novembre 1653, a Venezia, un ragazzo di appena quattordici anni saliva di nascosto su una tartana che era pronta a salpare per il Mediterraneo orientale. Il giovane clandestino fu scoperto soltanto il giorno seguente, quando la nave si trovava ormai in alto mare, e il ritorno al porto di partenza non dovette apparire abbastanza conveniente al capitano che la comandava. Cosı` il viaggio proseguı` verso Smirne. Con questo racconto avventuroso, e forse non del tutto veritiero, ha inizio la straordinaria vicenda del veneziano Nicolo` Manuzzi, figlio di una povera famiglia di operai, il quale, inseguendo il proprio spirito inquieto, abbandono` casa e patria per cercare altrove, e lontano, miglior fortuna. Un paio d’anni dopo la sua partenza, e al termine di numerose e interessanti vicende, egli approdo` a Surat, nell’India, dal qual paese non fece mai piu` ritorno, e dove morı` negli anni ’20 del secolo decimo ottavo. Uomo d’iniziativa, a dispetto della giovane eta`, dell’ignoranza delle lingue, della mancanza di studi e d’esperienza, egli fu per alcuni decenni al servizio della corte moghul, con incarichi piu` o meno prestigiosi e assai variati – artigliere, medico, diplomatico, consigliere – come si addice a ogni autentico avventuriero. A differenza di molti altri, e magari piu` noti avventurieri, egli non si limito` tuttavia alla vita d’azione; mise infatti mano, nell’ultima parte della sua esistenza e dopo essersi ritirato dagli incarichi pubblici in una grande casa nei pressi di Madras, a un’impresa quanto mai ambiziosa: raccontare in un unico libro2 la propria storia e quella politica e 2

I manoscritti che formano il corpus di scritti e di immagini relativi alla Storia del Mogol sono oggi conservati in alcune biblioteche europee; innanzitutto alla Marciana di Venezia (Ms. It. VI, 134 [8299], Ms. It. VI, 35 [5772], Ms. It. VI, 136 [8300], Ms. It. Z, 45 [4803-4804], Ms. It. VI, 345 [5926]), quindi alla Staatsbibliothek di Berlino (Ms. Phillips 1945, I-III), e

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militare del regno moghul, la vita di corte e le usanze indu`, la religione dei «gentili» e i conflitti tra Cappuccini e Gesuiti, e mille altre notizie che egli ebbe modo di raccogliere o delle quali venne a conoscenza dalle fonti orali e scritte piu` disparate alle quali pote´ avere accesso nel corso dei lunghi anni trascorsi in quel lontano paese. L’impresa si colloca a cavallo dei secoli XVII e XVIII, e consta di un numero impressionante di pagine scritte da una decina di mani in tre lingue diverse, italiana, portoghese e francese. L’impiego di piu` idiomi non e` pero` in questo caso il riflesso della cultura dell’autore, bensı` quello delle sue difficolta`. Delle quali ci permettiamo qui di approfittare a beneficio della nostra ipotesi. Abituato ormai da troppo tempo a non parlar piu` – se non nelle rare occasioni di incontro con i pochi, pochissimi italiani che capitavano a quell’epoca nelle Indie orientali – ne´ tantomeno a scrivere nella propria lingua materna (la quale non era neppure, e` bene ricordarlo, l’italiano, bensı` quella in uso, pubblico e privato, a Venezia), egli non sarebbe certo stato in grado di accingersi a un compito cosı` impegnativo con il solo supporto degli scarsi strumenti linguistici dei quali disponeva. Di fronte a tali difficolta` – che appaiono ben evidenti nel solo brano autografo dell’opera, la prefazione3 – Manuzzi penso` bene di servirsi dell’aiuto di alcuni «segretari», che senza dubbio lavorarono a piu` riprese alla redazione del testo. Ognuno di costoro scrisse nella propria lingua, adattando all’impronta – questa appare in fin dei conti l’ipotesi piu` probabile – il racconto orale dell’autore, il quale si doveva esprimere nella stessa sorta di gergo mistilingue del quale la prefazione da` buona idea. All’origine di quest’opera di immensa mole v’e` percio` una lunga affabulazione che tuttavia, a differenza di quella assai piu` celebre e nobile dei poemi omerici, non ha fino a oggi trovato una redazione definitiva. I passaggi che conducono da questa sorta di irraggiungibile Urtext alle diverse fasi della progressiva manifestazione del testo sono molteplici e assai complicati (vedi Tabella 1); nel loro insieme essi conducono comunque l’opera verso il solo approdo possibile, la traduzione. La Storia del Mogol fu scritta negli anni che vanno all’incirca dal 1698 al infine alla Bibliothe`que Nationale di Parigi (Ms. Od. 45 Re´s.); cfr. Mogol. Di Nicolo` Manuzzi veneziano. A cura di Piero Falchetta. Franco Maria Ricci, Milano 1986, 2 voll. 3 «Yl curiosi y benigno leitore me dare licencia de me udire cueste mie pratice. Fa molty any che o` comichato a fare cuesta mia opera per benefisio dy caminanty, mercanty y missionary, y anco me obligare molti amissi de la nasione fransesa di cuali o` reseputo molty favory y onory...»; Biblioteca Nazionale Marciana, Ms. It. VI, 134 [8299], f. 7r.

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1709; la compilazione non fu condotta senza soluzione di continuita`, ma si interruppe e riprese varie volte, per le ragioni che fra breve esporremo. Dei cinque libri che formano l’opera, i primi tre (plurilingui) furono infatti portati a compimento entro il 1700, e in breve tempo furono tradotti in portoghese – presumibilmente da una sola persona – in tre bei codici di grande formato. I tomi s’imbarcarono a Pondiche´ry nel 1701, e giunsero a Parigi – anziche´ alla natia Venezia, come avrebbe desiderato l’autore – nello stesso anno. Qui capitarono nelle mani del gesuita Franc¸ois Catrou, letterato e storico di una certa fama, il cui nome e` legato soprattutto alla pubblicazione del Journal de Tre´voux , da lui stesso fondato nel 1701. Catrou mise mano a quella gran messe di notizie, che sovente erano del tutto sconosciute in Europa, e da esse, dopo averle debitamente tradotte, ricavo` la sostanza per la composizione della sua Histoire ge´ne´rale de l’Empire du Mogol depuis sa fondation, che dichiarava sul frontespizio di essere basata Sur les me´moires de M. Manouchi ve´nitien, e che fu pubblicata a Parigi nel 1705. Il volume ebbe notevole fortuna, tanto che negli anni successivi se ne stamparono, oltre a diverse edizioni in lingua francese, la traduzione italiana (1731), e ben quattro edizioni della traduzione inglese, l’ultima delle quali fu pubblicata addirittura nel 1908. Abbiamo percio` finora, dal nostro interessato punto di vista, una situazione per la quale l’opera ha preso innanzitutto la forma della riscrittura e della traduzione in altre lingue di un testo che e` la traduzione portoghese di un originale plurilingue, il quale a sua volta altro non e` che una «traduzione» all’impronta – condotta da piu` persone – di un ipotetico Urtext orale. La singolarita` di una tale situazione non si esaurisce tuttavia a questo punto. Venuto infatti a conoscenza dell’impresa di Catrou, Manuzzi cerco` di correre ai ripari per evitare – ma era ormai troppo tardi – che la sua faticata opera gli venisse in tal modo sottratta, o meglio che la fama che poteva derivarne gli venisse usurpata. Nel febbraio 1705 invio` percio` a Venezia – accompagnati da una lettera addolorata e irata, con la quale supplicava la Repubblica di rendergli giustizia dando alle stampe l’originale – i tre tomi della minuta plurilingue che erano serviti per la traduzione portoghese, piu` un quarto libro, anch’esso plurilingue, che aveva nel frattempo composto con la stessa «tecnica» dei precedenti. Il Senato veneziano accolse degnamente la supplica, e incarico` un giurista portoghese dell’Universita` di Padova di «regolare» il testo, ovvero di tradurlo in italiano, cercando di conferirgli nel contempo maggiore

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uniformita` e dignita` di stile. Il lavoro di Stefano Cardeiraz, questo il nome del traduttore, e del di lui figlio Andrea, che collaboro` alla lunga redazione, si protrasse dal 1708 al 1712, e quindi nuovamente – a seguito dell’invio da parte di Manuzzi di un quinto libro della Storia, contenente anche la promessa di un ulteriore tomo che non fu invece mai composto – fino al 1713, anno in cui la prolungata fatica ebbe termine. Se queste fossero state circostanze meno inconsuete, la traduzione di Cardeiraz sarebbe con ogni probabilita` diventata l’editio princeps dell’opera, o quanto meno si disporrebbe oggi di un testo e´tabli al quale fare riferimento. La fortuna non assiste´ invece Manuzzi relativamente a quello che avrebbe dovuto essere il frutto piu` maturo della sua esperienza. Nonostante l’affacciarsi sulla scena di un possibile editore dalle ottime credenziali – il vulcanico e intraprendente padre Vincenzo Coronelli, cosmografo della Serenissima, editore e stampatore di innumerevoli volumi – i tomi del manoscritto fecero tristemente ritorno agli scaffali della Libreria di san Marco, dove attesero miglior sorte per quasi duecento anni. Il merito della loro riscoperta va attribuito tutto a Wlliam Irvine, un funzionario della corona britannica che si appassiono` all’affaire e che vi dedico` una decina d’anni di ricerche tanto ampie quanto scrupolose. Il risultato del suo lavoro e` raccolto in quattro volumi pubblicati a Londra nel 1907-084, che presentano l’esito delle sue investigazioni storiche e biografiche e che pubblicano finalmente la versione integrale della Storia del Mogol . Ma... Ma il lieto fine non e` tanto lieto quanto sembra. La traduzione inglese di Irvine non e` infatti basata sui codici inviati dall’India da Manuzzi, bensı` su quelli che contengono il testo tradotto in italiano e «regolato» da Cardeiraz. Come in un gioco di scatole cinesi abbiamo percio` la traduzione inglese di un testo che e` anch’esso traduzione, nonche´ riscrittura, di un originale plurilingue, che rinvia a sua volta a un’irraggiungibile matrice orale. Ora, dal momento che non esiste ancora, oggi, un’edizione integrale dei manoscritti composti sotto la diretta responsabilita` dell’autore5, si puo` tranquillamente affermare che la Storia del Mogol rappresenta un caso forse unico nella civilta` letteraria dell’Occidente. Il suo destino e` infatti quello di un’opera che il mondo ha potuto conoscere e leggere unicamente – fatta eccezione

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Storia do Mogor or Moghul India 1653-1708, by Niccolao Manucci, Venetian. Translated, with introduction and notes by W. Irvine, J. Murray, London 1907-08. 5 L’edizione del 1986 edita infatti soltanto la parte dell’opera originalmente scritta in italiano.

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per le poche decine di lettori che i manoscritti hanno avuto – grazie alle traduzioni, e che percio` il veicolo della traduzione e` esso stesso, in questo caso, il solo tramite di comunicazione con una creazione letteraria che le vicende della storia e il caso hanno frammentato e distribuito nel triangolo geografico Venezia-Berlino-Parigi – e che non e` percio` facilmente ricomponibile nell’originaria unita`. Per quanto non esemplare ed estrema possa apparire quest’intricata storia dei continui passaggi dell’opera da una lingua all’altra e da un contesto all’altro, essa induce in ogni caso un sentimento di riconoscente meraviglia nei confronti della letteratura in generale e dei suoi strumenti di espressione in particolare; giacche´ nel suo svolgimento frammentario e caotico non si riflette nient’altro che la biografia dell’autore, privo anch’egli, come il suo libro, di una lingua propria definitivamente conquistata. La traduzione – le innumerevoli traduzioni – della sua Storia ci appaiono cosı`, nel loro insieme, come il riflesso genuino e cangiante del suo sostanziale sradicamento e delle sue difficolta` ad approdare a una lingua pienamente formata e a una forma linguistica consolidata. Il secondo caso del quale ci occupiamo ci porta invece ai giorni nostri, e per la precisione al 1969. Usciva infatti in quell’anno, a Parigi, il romanzo di Georges Perec La Disparition6. L’opera, che non era accompagnata da alcun commento che introducesse il lettore alla singolare costruzione di quella narrazione, presentava alcune stranezze che si manifestavano fin nella veste tipografica; alcune pagine apparivano infatti stampate con l’inchiostro rosso, anziche´ con il nero, scorrendo l’indice si poteva notare che era saltato il quinto capitolo – e che si passava percio` dal quarto al sesto –, mentre la vicenda raccontata si rivelava quanto mai ingarbugliata, tanto da dare l’idea di un poliziesco mal riuscito. Le recensioni della prima ora non furono infatti molto lusinghiere nei confronti di Perec, e alcuni parlarono di un appannamento della sua vena creativa, dopo il grande successo di Les Choses (1965), che gli aveva meritato il prestigioso Prix Renaudot. Si trattava invece, com’e` ormai ben noto, di un libro che faceva della mancanza della lettera E – o meglio della sua scomparsa – l’argomento principale della trama nonche´ il motore primo della costruzione narrativa. Il romanzo, sotto l’apparenza di un plot che ricorda per molti aspetti quelli dei romanzi d’appendice del secolo scorso, e` infatti scritto senza che in esso 6

Georges Perec, La Disparition, Denoe¨l, Paris 1969.

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compaia mai per una sola volta la lettera E, mentre la vicenda insegue fino al termine la sfuggente scomparsa nel tentativo di nominarla. Non staremo qui a illustrare la complessita` dei motivi letterari e autobiografici che giustificano e danno sostanza a un gioco apparentemente vano, e che rischia di far apparire quest’opera come un mero esercizio di abilita` ai limiti del funambolismo, o poco piu`. Ci limiteremo invece ad analizzare alcune questioni relative al rapporto che intercorre fra un testo tanto particolare com’e` La Disparition e le sue traduzioni7 (vedi Tabella 2), in quanto dall’indagine intorno a tale rapporto risultano alcune inattese conseguenze che ci appaiono non del tutto irrilevanti per quella che potremmo qui definire, a uso e consumo soltanto nostro, epistemologia del testo. Per comporre le circa trecentoventi pagine del romanzo sottostando alla ferrea regola dell’esclusione della E, l’autore ha per forza di cose dovuto rinunciare piu` o meno a un terzo delle forme verbali che costituiscono, nel loro insieme, la lingua francese, depauperandola percio` in notevole misura di quella ricchezza lessicale dalla quale traiamo spesso, nel corso delle nostre letture francofone, non poco piacere. Se percio` poniamo: x = tutte le forme verbali del francese e y = tutte le forme verbali del francese contenenti la E il linguaggio del romanzo (L) potra` provvisoriamente essere definito dal seguente rapporto: L = x — y Tuttavia Perec non ha di sicuro impiegato tutte le forme verbali del francese non contenenti la E, per cui sara` necessario porre anche la seguente relazione: x- z = tutte le forme verbali del francese non contenenti la E ma non presenti nel romanzo. Il valore di tali rapporti dal punto di vista dell’elaborazione lipogrammatica del testo – lipogramma e` infatti chiamata la preventiva soppressione di una o piu` lettere in un qualsiasi scritto (ed e` del resto ben difficilmente 7

Queste, in ordine cronologico, le traduzioni del romanzo fino a oggi pubblicate: Anton Voyls Fortgang, herausgegeben und u¨bersetzt von Eugen Helmle´, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1986. A Void, translated by Gilbert Adair, Harvill, London 1994. La Scomparsa, traduzione e postfazione di Piero Falchetta, Guida editori, Napoli 1995. El Secuestro, traduccio´n de Marisol Arbue´s, Merce` Burrel, Marc Parayre, Hermes Salceda, Regina Vega, Editorial Anagrama, Barcelona 1997.

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immaginabile una simile procedura applicata al parlato spontaneo) – e` percio` definito da un quoziente – che nominiamo semplicemente A – il quale rappresenta il linguaggio del romanzo secondo la sua quantita` lessicale e lipogrammatica. La seguente formula riassume percio` in tal modo i passaggi che abbiamo ora veduto: L = [(x — y) — (x — z)] = A. Un quoziente di analogo valore ma dalle diverse proprieta` – che chiamiamo percio` B – risulta dal rapporto fra la versione originale e la traduzione spagnola. Con il lipogramma in E Perec ha infatti agito sulla lettera che presenta in francese il maggior coefficiente di ricorrenze, mentre nella lingua spagnola la frequenza piu` alta spetta alla A. Nel tentativo di mantenere alto il livello di difficolta`, e di conseguenza il valore della sfida letteraria e del gioco, i traduttori spagnoli del romanzo hanno percio` sostituito il lipogramma in A a quello in E. A causa della particolare costruzione dell’opera, e soprattutto per la complessa architettura di autoriferimenti che la caratterizza e la sostanzia dal punto di vista dello sviluppo narrativo, una simile sostituzione ha di frequente comportato la necessita` della riscrittura, nel tentativo di ricreare in A i giochi intra- e metatestuali inventati da Perec per la E. Il sistema dei rapporti originale/traduzione puo` percio` essere descritto dalla seguente relazione, del tutto omologa a quella impiegata per l’originale: L = [(x − y) — (x − z)] = B Per le traduzioni tedesca, inglese e italiana, le quali hanno mantenuto il lipogramma in E, ai valori x = tutte le forme verbali della lingua data x − y = tutte le forme verbali della lingua data contenenti la E x − z = tutte le forme verbali della lingua data non contenenti la E ma non impiegate in quanto estranee al campo semantico del testo da tradurre, bisognera` aggiungere anche x − α = tutte le forme verbali della lingua data non contenenti la E, coerenti con il testo da tradurre, ma non impiegate in quanto sostituite da forme omologhe (sinonimi, ecc.) e si otterra` percio` la seguente formula descrittiva: L = {(x − y) − [(x − z) − (x − α)]} = A − 1 nella quale, e` quel che importa notare, A − 1 possiede un coefficiente di quantita` lessicale e lipogrammatica minore di quello (A) definito per l’originale. Un breve esempio puo` meglio illustrare il significato di tale rapporto: se nell’originale ho la parola mauvais , questa potra` in linea di massima essere

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tradotta sia con cattivo che con malvagio, in quanto nessuna delle due contiene la E, ed esse appaiono coerenti con l’originale. Accade cioe` che quest’ultimo, scrivendo mauvais , ha determinato un dato non piu` mutabile, mentre la traduzione presenta a ogni passo diverse possibilita` di scelta; come conseguenza della scelta operata dal traduttore, alcune forme verbali per il resto non incompatibili con l’originale saranno escluse dal novero delle forme che andranno a costituire il linguaggio del romanzo tradotto. In altri termini, poiche´ A e` in certo senso un valore assoluto, in ogni traduzione il valore di L sara` necessariamente minore del valore di A. Supponiamo ora di dover ritradurre in francese la traduzione italiana (o quella inglese, o quella tedesca) del romanzo, e noteremo che ci si avvia verso una situazione paradossale. Dato infatti A − 1 = valore del linguaggio della traduzione italiana x − α = tutte le parole della lingua francese non contenenti la E, coerenti con il testo da tradurre, ma non impiegate in quanto sostituite da forme omologhe (sinonimi ecc.) il linguaggio della ri-traduzione (LR) potra` essere descritto cosı`: LR = (A − 1) − (x − α) = (A − 1) − 1 dove il coefficiente lessicale e lipogrammatico della ri-traduzione ha un valore minore di quello della traduzione, nella quale ha a sua volta un valore minore rispetto all’originale. Si tratta, come abbiamo detto, soltanto di un paradosso, la cui tenuta e` tutta da dimostrare. Ma poiche´ il romanzo del quale stiamo trattando si intitola La Scomparsa , questo supposto progressivo decrescere del valore di L da A ad A − 1, e ancora ad (A − 1) − 1 che accompagna il testo da una traduzione all’altra ci e` sembrato la perfetta attuazione della segreta cifra epistemologica del testo. Il racconto dei sovvertimenti provocati da una lingua monca svolto con lo strumento di un alfabeto monco provoca infatti nel romanzo la progressiva scomparsa di tutti i personaggi, mentre nel passaggio da una lingua all’altra il patrimonio lessicale delle diverse lingue pare avviarsi anch’esso, in ragione del decrescimento che abbiamo descritto, verso una non precisabile e alquanto minacciosa scomparsa. Questi sono gli imprevedibili effetti ai quali puo` portare la traduzione. E se nel caso della Storia del Mogol e` ad essa, e soltanto ad essa che l’opera ha potuto affidare la propria trasmissibilita`, in quello di Perec e de La Disparition e` nella traduzione, e soltanto nella traduzione che s’inverano quelle conseguenze alle quali l’autore aveva dato avvio componendo un romanzo tanto singolare.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

Tabella 1

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Tabella 2

Georges Perec, La Disparition L = [(x − y) − (x − z)] = A x − y = tutte le forme verbali della lingua francese non contenenti la E x − z = tutte le forme verbali della lingua francese non contenenti la E ma non impiegate nel romanzo Georges Perec, El Secuestro L = [(x − y) − (x − z)] = B x − y = tutte le forme verbali della lingua spagnola non contenenti la A x − z = tutte le forme verbali della lingua spagnola non contenenti la A ma non impiegate nella riscrittura del romanzo Georges Perec, Anton Voyls Fortgang A Void La Scomparsa L = {(x − y) − [(x − z) − (x − α)]} = A − 1 x − y = tutte le forme verbali della lingua tedesca (inglese, italiana) non contenenti la E x − z = tutte le forme verbali della lingua tedesca (inglese, italiana) non contenenti la E ma non impiegate in quanto estranee al campo semantico del testo da tradurre x − α = tutte le forme verbali della lingua tedesca (inglese, italiana) non contenenti la E, coerenti con il testo da tradurre, ma non impiegate in quanto sostituite da forme omologhe (sinonimi ecc.) Georges Perec, La Disparition (ri-traduzione francese della traduzione italiana) LR = (A − 1) − (x − α) = (A − 1) − 1 A − 1 = linguaggio della traduzione tedesca (inglese, italiana) x − α = tutte le forme verbali della lingua francese non contenenti la E, coerenti con il testo da tradurre, ma non impiegate in quanto sostituite da forme omologhe (sinonimi ecc.)

TRADUIRE DU FRANC ¸ AIS EN FRANC ¸ AIS di Jacques Jouet

Dans le Journal de Jules Renard, a` la date du 1er mars 1898, on peut lire cette phrase: «Mallarme´, intraduisible, meˆme en franc¸ais.» Dans La disparition de Georges Perec, on peut lire, au chapitre 10, six poe`mes qui sont des versions lipogrammatiques en E de poe`mes franc¸ais fameux. Dans l’ordre: «Bris marin» par Mallarmus; «Booz assoupi» par Victor Hugo; «Trois chansons par un fils adoptif du Commandant Aupick» («Sois soumis, mon chagrin», «Accords», «Nos chats»); «Vocalisations» par Arthur Rimbaud. Dans Oulipo La Litte´rature potentielle, 1973, deux de ces exemples sont dits «traductions lipogrammatiques de poe`mes bien connus». Dans l’Atlas de litte´rature potentielle, Paris, 1981, «Travaux et recherches», le chapitre «traductions», contenant des travaux cherchant surtout a` «traduire des textes a` l’inte´rieur d’une meˆme langue», conteste la hie´rarchie habituelle qui fait dominer la contrainte du sens. Il s’agit ici de mettre sur un meˆme plan de validite´ le choix de privile´gier le son, ou le sens, ou la prosodie, ou la syntaxe, ou le genre litte´raire, ou le lexique, ou une contrainte… Tout est valide, pour peu qu’on le de´cide. De toute fac¸on, dit Oskar Pastior, «l’identite´ est une tricherie». On peut bien programmer la perte, si l’on sait la circonscrire. Pourquoi, au reste, la traduction ne pourrait-elle pas recourir a` une chaıˆne de traductions partielles en reˆvant a` la re´sultante ide´ale de toutes celles-ci? C’est une activite´ importante du praticien de l’Oulipo que je suis parmi d’autres. Dans Poe`mes fondus, Paris, 1997, de Michelle Grangaud, on peut lire en sous-titre du recueil: «Traductions de franc¸ais en franc¸ais». Elle traduit des sonnets en haı¨kus par pre´le`vement de certains mots du texte, redispose´s

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dans un autre ordre. Et l’un de ses soucis est qu’on ne reconnaisse pas le texte source, surtout pas. Et elle parle pourtant de traduction. Dans sa premie`re traduction lipogrammatique en E (c’est-a`-dire qu’il postule une langue franc¸aise sans e: une langue n’est jamais tout a` fait une seule!) Georges Perec prend, de Mallarme´, le poe`me «Brise marine», qui devient «Bris marin». Il y a la` une sorte de provocation. On dirait que c’est une traduction a` la gomme: effacement pur et simple de deux lettres interdites. Je note que l’expression «a` la gomme» veut dire aussi en franc¸ais «pas se´rieux» ou «sans valeur». Or, meˆme si l’on veut conside´rer que la contrainte se´mantique de la traduction est mise au premier rang, voyons: le mot bris est contenu dans le mot brise et le lipogramme surfe sur le calembour presque invisible de Mallarme´. «Brise marine», on lit le vent, mais on ne lit pas force´ment le fait que cette brise va briser les navires. «Bris marin», on ne lit pas le vent, mais la tempeˆte oui. Le titre mallarme´en est doux et cache une catastrophe: il faut se me´fier du vent qui dort. Le titre pereco-mallarmussien annonce la catastrophe de`s le titre. On peut crier a` la trahison, si l’on a une position morale et re´ve´rencieuse. On peut au contraire conside´rer, ce qui e´videmment nous inte´resse a` l’Oulipo, qu’un texte, n’est jamais acheve´, et ce, au nom d’une certaine ide´e de la potentialite´. Lorsque vous allez chercher un mot dans un dictionnaire, vous trouvez ses potentialite´ s se´ mantiques, de´ finition, synonymes, par exemple… mais aussi ses compagnons a` meˆme queue (dictionnaire de rimes) a` meˆme graphie (homonymes) a` meˆme son (homophones) a` meˆme nombre de lettres (dictionnaire de mots croise´s) a` meˆme lettres (dictionnaire d’anagrammes)… Dans le dictionnaire des textes, c’est un peu la meˆme chose. «Brise marine» est doue´ de ses potentialite´s traduisantes: lipogramme, antonyme, en prose, en dialogue… c’est le champ des exercices de style, des variations ou des traductions, un cas particulier de ces traductions potentielles est la traduction d’une langue dans une autre langue, de l’italien en chinois, du turc en swahili… Je note encore que dans le cas de «Bris marin», le lecteur lit «Brise marine» comme en sous-texte, pour peu qu’il le connaisse: une bonne partie du plaisir pris au vers Las, la chair s’attristait. J’avais lu tous folios.

vient du fait que l’on reconnaıˆt, de´forme´, le vers La chair est triste, he´las! et j’ai lu tous les livres.

TRADUIRE DU FRANC¸AIS EN FRANC¸AIS

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Il n’est pas exclu qu’on lise La disparition comme si le texte e´tait la traduction d’un texte qui, en amont, est e´crit dans un franc¸ais de 26 lettres et non de 25. De`s que Perec de´forme des expressions fige´es, c’est manifeste et droˆle: «Puis chacun d’aplatir un sanglot sous son cil» (p.211) ne peut eˆtre lu sans faire la re´troversion vers l’e´nonce´ «e´craser une larme». Je risque donc une premie`re de´finition: traduire, c’est mettre un texte dans un nouvel e´tat (ni tout a` fait le meˆme, ni tout a` fait un autre) qui e´tait pre´sent en lui potentiellement. La traduction d’un texte est un manuscrit en aval. Du point de vue de la potentialite´, un texte ne peut pas eˆtre fini. Le sche´ma potentiel de ce qu’est un texte serait alors le suivant: en amont le manuscrit, la gene`se

ici, maintenant le texte

en aval les traductions, la poste´rite´ cre´ative

La traduction de beaucoup de textes oulipiens permet e´videmment de poser de fac¸on particulie`rement aigue¨ les proble`mes formels de la traduction. Si ces textes sont e´crits selon une contrainte forte, par exemple le lipogramme, et si le lipogramme intervient dans le texte comme «sens formel» (ainsi, dans La Disparition de Georges Perec, l’amputation d’une lettre au corps de la langue est clairement une me´taphore formelle de l’amputation biographique de l’auteur) il serait imprudent de ne pas traduire le livre selon la contrainte du lipogramme dans telle ou telle langue d’arrive´e. C’est d’ailleurs ce qui a e´te´ fait en anglais, en allemand, en italien… Mais ce n’est pas tre`s diffe´rent lorsqu’on traduit Baudelaire. Si l’on traduit en prose les poe`mes versifie´s de Baudelaire, comment, sauf a` traduire en vers les poe`mes en prose, rendre compte du conflit formel, qui est une part de la pense´e baudelairienne, entre le vers classique franc¸ais et la recherche, qu’il affirme comme moderne, d’une phrase de prose plus libre et malle´able? Et prenons bien garde que l’exigence se´mantique (qui est a` juste titre si che`re aux traducteurs meˆme s’ils en exage`rent pafois l’importance) garde sa pertinence. Elle vient en quelque sorte ve´rifier les capacite´s d’une contrainte: si une contrainte, en re´duisant le mate´riau de langage e´tend le potentiel se´mantique en emmenant l’auteur vers des terres inconnues (c’est le pouvoir centrifuge de la contrainte), l’exigence se´mantique de la traduc-

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tion prouve que je peux aussi la faire servir, cette contrainte, de fac¸on centripe`te, «accomplir juste ce que (j’ai) projete´ de faire» pour reprendre les mots de Baudelaire, encore. («A` Arse`ne Houssaye, pre´face aux Petits poe¨mes en prose.) Justement, il y a quelque ironie dans l’histoire du poe`me en prose et du vers libre en langue franc¸aise. Si certains des poe`tes (et non des moindres) de la deuxie`me moitie´ du XIXe sie`cle se sont autorise´s cette agression contre le vers classique, c’est pour beaucoup graˆce a` l’expe´rience de quelques traductions. Quand, a` la fin du XVIIIe sie`cle et au de´but du XIXe furent traduits nombre de poe`mes «exotiques» par des voyageurs, des orientalistes… ceux-ci ope´re`rent le plus souvent en vers non compte´s, non rime´s, et un Chateaubriand (Les chansons indiennes d’Atala ) et un Me´rime´e (La Guzla) les ont imite´s, et Victor Hugo (dans les notes des Orientales) a de´clare´ que ce type de traduction e´tait excellent! Ainsi le vers libre et le poe`me en prose sont un peu ne´s de traductions qui avaient ne´glige´ de traduire des prosodies particulie`res! On voit que parfois les traducteurs e´crivent de la litte´rature, meˆme sans le savoir. Cette re´flexion sur la traduction d’une langue dans la meˆme langue n’est pas une agression contre la traduction d’une langue dans une autre, bien au contraire. J’aime la traduction, avec ses de´fis, ses re´ussites et ses pertes. Je pense aussi qu’on n’e´crit jamais dans une seule langue. Ce qui est une autre fac¸on d’affirmer qu’e´crire est toujours un peu traduire. Le monolinguisme (comme la monose´mie) est une lubie des monothe´ismes de´sastreux: la pluralite´ des langues a` Babel regarde´e comme une punition; l’identite´ des traductions dans la le´gende des Septante regarde´e comme un miracle positif; une langue unique (latin, anglais?) regarde´e comme garant d’une meilleure compre´hension entre les peuples… Tiens, pour finir de protester et preˆcher d’exemple, je vais composer un poe`me en «frantaliano». Il est entre deux langues. Il est dans deux langues. Il comporte un seul mot avec un signe de ponctuation forte: Donne! *

APPENDICE Antologia di testi scelti e letti da Giuseppe Gentile

William Shakespeare, Amleto,

(atto III, scena seconda)

AMLETO Dı` la battuta, ti prego, come te l’ho recitata io, con agilita` di lingua; ma se la declami come fanno molti dei nostri attori, preferirei che fosse il banditore cittadino a dire i miei versi. E non segare troppo l’aria con la mano, cosı`; tratta tutto con misura; poiche´ nel torrente stesso, nella tempesta, e potrei dire, nel turbine, della tua passione, devi ottenere e produrre una moderazione che le dia scioltezza. Oh, mi offende fin in fondo all’anima udire un tizio esagitato e imparruccato strappare a brandelli una passione, farne stracci, per spaccare l’orecchio di quelli in piedi in platea, che, per la maggior parte, non capiscono altro che incomprensibili pantomime e rumori. Un tizio cosı` lo farei frustare. [...] Non essere nemmeno troppo controllato, ma lascia che il tuo giudizio ti sia tutore. Adatta il gesto alla parola, e la parola al gesto, con questa particolare avvertenza, di non superare la misura naturale. Perche´ qualsiasi cosa, esagerata in tal modo, e` lontana dallo scopo del teatro, il cui fine, sia all’origine come ora, era, ed e`, di reggere, per cosı` dire, lo specchio alla natura, di mostrare alla virtu` il suo vero volto, al vizio la sua vera immagine, e all’eta` stessa e al corpo dell’epoca la sua forma come in un calco.

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Alejandro Duque Amusco OFELIA Sconforto e` il mio nome. Non chiamatemi, lasciatemi. (Spazza il vuoto un letto di foglie morte.) Sento allontanarsi i giardini pensili dell’amore.

William Shakespeare Sonetto 71 Piu` a lungo non piangermi, quando saro` morto, del tempo che udrai la tetra lugubre campana avvertire il mondo che io sono fuggito da questo vile mondo ad abitare con i piu` vili vermi. Anzi, se leggerai questi versi, non ricordare la mano che li scrisse, perche´ io ti amo tanto che dai tuoi dolci pensieri vorrei esser dimenticato, se pensare a me allora dovesse addolorarti. Oh se, dico, il tuo sguardo cadra` su questi versi, quando io, forse, saro` mescolato con l’argilla, non arrivar nemmeno a ripetere il povero mio nome, ma lascia il tuo amore finire con la mia stessa vita; perche´ il saggio mondo non guardi dentro al tuo lamento e non ti schernisca per me dopo che me ne saro` andato.

APPENDICE

Sonetto 74 Ma datti pace quando quel crudele arresto senza alcuna cauzione mi portera` via; la mia vita ha qualche diritto su questa poesia, che sempre con te restera` a mia memoria. Quando la rileggerai, rivedrai la parte di me che fu consacrata a te: la terra puo` ricever solo terra, cio` che le e` dovuto, ma il mio spirito e` tuo, ed e` di me la miglior parte. Allora non avrai perduto che la feccia della vita, la preda dei vermi, il mio corpo morto, il vigliacco bottino del coltello di uno sciagurato, troppo vile per esser da te ricordato. Il valore di quel corpo e` cio` che esso contiene, e cio` e` questa poesia, e questa con te rimane.

Sonetto 73 Quel tempo dell’anno tu puoi vedere in me, quando gialle foglie, o nessuna, o poche, pendono dai rami tremanti contro il freddo, nudi cori in rovina, dove prima cantavano i dolci uccelli. In me vedi il crepuscolo di un giorno, come dopo il tramonto impallidisce ad occidente, e che ben presto si porta via la nera notte, secondo volto della morte che sigilla tutto nel riposo. In me vedi il baluginare di un fuoco, che giace sulle ceneri della sua giovinezza come sul letto di morte sul quale deve spirare, consumato da cio` di cui si era nutrito. Questo tu percepisci, che fa il tuo amore piu` forte, cosı` da amare appieno chi devi lasciare presto.

William Shakespeare, Riccardo II (atto III, scena terza) RICCARDO Che cosa deve fare ora il re? Deve sottomettersi? Il re lo fara`. Deve essere deposto?

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Il re si rassegnera`. Deve perdere il nome di re? In nome di Dio, che se ne vada. Scambiero` i miei gioielli per un rosario, il mio sfarzoso palazzo per un eremo, le mie vesti sgargianti per un saio da mendicante, le mie coppe cesellate per un piatto di legno, il mio scettro per un bastone di pellegrino, i miei sudditi per un paio di santini intagliati, e il mio vasto regno per una piccola tomba, una piccola piccola tomba, una tomba oscura, oppure mi faro` seppellire sulla strada maestra del re, qualche strada di traffico intenso, dove i piedi dei sudditi possano calpestare ogni momento la testa del loro sovrano; mi calpestano il cuore ora che sono vivo, e, una volta sepolto, perche´ non la testa? Aumerle, tu piangi, cugino dal cuore tenero, ma noi faremo tempesta delle nostre lacrime disprezzate, e quelle e i nostri sospiri spianeranno il grano estivo e porteranno carestia a questa terra in rivolta. Oppure ci metteremo a scherzare con i nostri dolori e inventeremo una gara su come versare lacrime, come farle cadere sempre nello stesso punto fino a che non ci abbiano scavato un paio di fosse nella terra, e lı` deposti... Qui giacciono due parenti che si scavarono la fossa col pianto degli occhi! Il nostro male non finirebbe in bene? Bene, bene, vedo che sto dicendo parole vane, e tu ridi di me. Potentissimo principe, Lord Northumberland, cosa dice Re Bolingbroke? Si degna Sua Maesta` di dar licenza di vivere a Riccardo finche´ Riccardo muoia? Basta che tu ti inchini, e Bolingbroke dice “Si”.

Jacqueline Risset Primo momento C’e` un momento che dice «sono il primo» ma non c’e` un primo momento

APPENDICE

T’ho visto, sı´, una mattina, volto, dolcezza distratta, e la folla come a distanza luce d’inverno il saluto tra gli altri E da quell’istante stupore desiderio di fuga Ma gia` da lı´, gia` da prima ci si parlava al telefono si rideva al telefono patto concluso nelle voci prima che dall’occhio A primavera io viaggio ma sei tu sei tu che muovi veloce ritrovata presenza cosı` forte in ogni citta` di primavera : New York fiore di ciliegio malva glicine a Roma ippocastani a Parigi fiori misteriosi Genova: bianche ninfee nei bacini tu gia` sei qui gia` la voce chi? dissoluzione del tu dell’io nebbia d’angoscia

e d’un tratto riprende la musica ancor piu` forte essenza della musica: ripresa trionfante

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silenziosa di presenza Il nuovo tu si insedia riempie gia` i pronomi nelle vecchie poesie

Il toccare Non mi hai toccato ancora amor passa per gli occhi e scende nel cuore amor di lontano ci esercita e perfeziona ma chi potrebbe ora toccarmi se non tu? Passeggio nell’aria nel bosco sacro color di brina nell’aureola

Amor che ne la mente mi ragiona ma la musica e` lontana ancora su questa spiaggia andiamo piu` in su e corriamo presto in Paradiso per cantare Amor ...mi risuoni...

APPENDICE

Gran vento quest’anno il vento muove scuote l’aria attorno al corpo che pensa soffio dolce di mare o d’oceano anche di notte a Parigi grandi soffi tiepidi qui sulla piazza in festa di colpo percorsa da un colpo di sofferenza di assenza french freisia dove dove sei? quest’anno il vento raggiunge l’anima e lei finalmente pronta a partire gia` partita pronta a cadere in terra d’emozione viva a morire di essere in vita

Cominciamento Il riposo nel treno testa appoggiata alla testa sotto la mano la stoffa sottile che copre la coscia nella carrozza mobile baci rapidi angosciati infantili di partenza

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nel cominciamento cosı` lento stupito

e tu verso ovest in questo momento nel sole che qui scompare sei nell’oro splendente io nella notte gia` tu guardi il fiume che brilla, in schegge di luce ed io scrivo di te nella notte che scende sulla carta bianca

L’amore e` dunque questo: impercettibile tratto in salita — che chiede? intonazione di richiesta stupita in cui tutto s’ingolfa sottile intervallo che dice: tutto cambia ogni cellula mossa : una vocale detta un po’ piu` in alto nella voce – un soffio –

Presagi Va e vieni durante il giorno ridendo e –

APPENDICE

chiamando attraverso informi presagi il leone ruggisce tu resti in silenzio sul letto e alla finestra guardando il vento nell’albero si ha un poco paura

Alejandro Duque Amusco Leggendo la Commedia Selve oscure, fiere feroci. Dante, con la sua ferma guida, seguı` un cammino che e` ascensione e meta di amore e sofferenza, fino al verziere dagli acuti verdi, dove e` soave il guardare, la luce non inganna, e una Rosa e` l’Occhio immortale dell’Universo. Ma oggi che le ombre protettrici si allontanarono, salparono nella notte, e vogano tra il niente e il ricordo di mai, quando ti sveglierai dal tuo lungo sonno troverai all’altra sponda del fiume da cui non si ritorna la mano del poeta che accompagna, gli occhi di Beatrice, il savio e dolce lome di Matelda? Il cerchio ad altro abisso d’oscuro si spalanca. Sotto un’immensa assenza, solo stelle.

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Georg Trakl In un vecchio album di ricordi Sempre ritorni tu, malinconia, Dolcezza dell’anima solitaria. Ardendo si consuma un giorno d’oro. Umile si piega al dolore il sofferente Che d’armonie risuona e di morbida follia. Guarda! Fa scuro ormai. Torna ancora la notte e geme un mortale E un altro divide la sua pena. Rabbrividendo sotto stelle autunnali Ogni anno di piu` si china il capo.

I topi Bianca luna d’autunno nel cortile. Dal tetto cadono ombre strane. Silenzio sta nelle finestre vuote; Ed ecco piano venir fuori i topi E sgusciano squittendo qua e la` E li segue un odore ripugnante Dalla latrina che la spettrale luce Della luna fa rabbrividire E schiamazzano pazzi d’ingordigia E invadono la casa e i granai, Ricolmi di frutta e di frumento. Gelidi venti piangono nel buio.

APPENDICE

Canto della sera Se andiamo a sera per sentieri oscuri, Incontriamo i nostri visi smorti. Se abbiamo sete, Beviamo le acque bianche dello stagno, La dolcezza della nostra infanzia triste. Ombre, riposiamo sotto il sambuco Guardiamo i grigi gabbiani. Nubi di primavera incombono sulla citta` buia Che tace piu` nobile e`ra di chiostri. Quando presi le tue mani scarne Levasti piano gli occhi tondi, Molto tempo fa. Ma quando oscura armonia visita l’anima Appari tu, bianca, nel paesaggio autunnale dell’amico.

Al fanciullo Elis Elis, quando il merlo chiama nel bosco nero, Questo e` il tuo tramonto. Le tue labbra bevono la frescura dell’azzurra sorgente. Lascia se la fronte ti sanguina lieve Leggende piu` antiche E l’oscuro significato dei voli. Ma entri con molli passi nella notte Che pende folta di grappoli purpurei E piu` bello muovi le braccia nell’azzurro. Un roveto risuona Dove sono i tuoi occhi lunari. Oh, da quanto, Elis, da quanto tu sei morto.

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Il tuo corpo e` un giacinto In cui un monaco immerge le ceree dita. Una caverna nera e` il nostro silenzio, Ne esce talora mite un animale E lento cala le palpebre pesanti. Sulle tue tempie goccia rugiada nera, L’ultimo oro di consunte stelle.

Alejandro Duque Amusco Una rosa nera per Georg Trakl Fango nero. Landa sotto un cielo di sanguinanti ceneri dove trascorre ardente il plenilunio. Prigionia. Si desta il bosco ebbro del desiderio e la sorella accarezza quell’oro sontuoso tra ermellini e lacrime. Oh stella fredda di penombra rosa. Il vento e` un sussurro dell’ieri, spauracchio che tiene lontani i ricordi, e passa. Sempre passa, e non torna. Il vento... E` l’amico delle anime che dispoglio` l’autunno? Con timore la fronte pensierosa riconosce lo scheletro muto delle foglie.

Luis de Go´ngora Sonetto 57 Il sole tramontava e la mia ninfa, di fiori depredando il verde piano, quanti ne recideva con la mano tanti il candido piede suscitava. Il vento trascorrendo le increspava con errore cortese l’oro fino,

APPENDICE

come d’altero pioppo il verde ramo freme, quando rosseggia il giorno nuovo. Ma non appena le sue tempie cinse di variopinte spoglie del suo grembo - confine a separare oro da neve la sua ghirlanda, giuro, piu` rifulse, benche´ di fiori fosse, non di stelle, dell’altra, in cielo, a nove luci ardente.

Sonetto 72 La dolce bocca che a gustare invita un umore tra perle distillato, e a non rimpiangere il liquore sacro che a Giove mesce il giovinetto d’Ida, amanti non toccate se la vita v’e` cara, che´ fra un labbro e l’altro acceso Amore sta, del suo veleno armato, come tra i fiori serpe che s’annida. Non v’ingannino rose che all’Aurora direste che, imperlate ed odorose, siano cadute dal purpureo seno: pomi sono di Tantalo, e non rose, presto fuggenti da chi ora invitano, e solo resta, d’Amore, il veleno.

Sonetto 137 In morte di don˜a Guiomar De Sa, moglie di Juan Fernandez De Espinosa Pallida, lo splendore un dı´ purpureo al suo elemento rende casta rosa, che in pianta dolce un tempo, se spinosa, fu gloria al sole, fu lusinga al vento. La stessa che spiro` soave fragranza fresca, spira appassita e ancora bella: non giace, no, per terra, ma riposa, negandole anche il fato violenza. Di lei le foglie, non l’olezzo piange

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dissolte il patrio Betis, foglie belle che in polvere il materno Tago indora. Ora in campi novelli gia` e` di quelle rose che illustra una migliore aurora le cui perle caduche sono stelle.

Sonetto 151 Finche´ per vincere sui tuoi capelli l’oro brunito splende al sole invano, finche´ sprezzante guarda in mezzo al piano la tua candida fronte il giglio bello, finche´ le labbra inseguono, per coglierle, piu` occhi che il garofano precoce, finche´ trionfa con sdegnosa luce sul lucido cristallo il tuo bel collo, godi collo, capelli, labbra e fronte prima che quanto fu in giorni dorati oro, giglio, garofano, cristallo, non solo argento o viola reclinata divenga, ma tu insieme a tutto questo terra, polvere, fumo, ombra, piu` nulla.

Jaime Gil de Biedma Vi ricordate. Gli anni aurorali tranquilli come il tempo, pura infanzia vagamente visitata dal mondo. La notte materna ancora proteggeva. Venivamo dal sonno e un calore, un sapore come di notte originaria s’attardava sulle nostre labbra, facendo lieve, umido il giorno. Ma a volte qualcosa ci sollecitava. Il corpo, e il ritorno dell’estate, la sera stessa, troppo vasta.

APPENDICE

In quale mattino, vi ricordate, volemmo affacciarci al periglioso pozzo al limite del parco? Durava quieta l’acqua, come uno sguardo nel cui fondo vedemmo il nostro volto. E ricadde sul mondo improvviso un silenzio, lasciandoci turbati.

D’ora in avanti Come alla fine d’un sogno, non saprei dire in che momento accadde. Chiamavano. Qualcosa, che era gia` cominciato, non ammetteva indugio. Mi sentii estraneo al principio, lo riconosco — tanti anni passati come se sulla luna... Dire con esattezza cosa cercavo, la mia speranza qual’era, non posso dirlo ora perche´ in un istante determinato tutto vacillo`: chiamavano. E mi sentii vicino. Un po’ d’aria pura, una cosa cosı` naturale come un rumore e` piu` forte se l’odi all’improvviso. Ma ormai d’ora in avanti sara` sempre cosı`. Perche´ improvvisamente la misura e` colma e non c’e` piu` tempo. Ogni mattina reca, come dice Auden, verbi irregolari, che e` necessario apprendere, o decisioni penose e che saranno sottoposte a prova. Ancora C’e` chi conta su di me. Amici miei, o meglio: compagni, che hanno bisogno, amano le stesse cose che io amo e amano anche me proprio come io mi amo.

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Ed e` per questo che a mala pena riesco a ricordare che ne e` stato di tanti anni della mia vita, e dove andavo quando mi son svegliato e non mi son trovato solo.

De vita beata In un vecchio paese inefficiente, un po’ come la Spagna tra due guerre civili, in un villaggio sul mare, possedere una casa e pochi beni e nessuna memoria. Non leggere, non soffrire, non scrivere, non pagare conti, e vivere come un nobile in rovina tra le rovine della mia intelligenza.

Juana Ine´s de la Cruz Nella morte dell’eccellentissima signora marchesa di Mancera Della belta` di Laura innamorati i cieli, la rapirono in congiura, che´ non poteva quella luce pura rischiarar lidi tanto sventurati; o perche´ noi mortali, abbacinati dal suo corpo di bella architettura, stupefatti al veder quella figura, non si pensasse di essere beati. Nacque dove l’oriente il rosso velo distende quando nasce l’astro biondo, e morı` dove, con ardente anelo, da` sepolcro alla luce il mar profondo: che´ dovette il suo volo in tutto il cielo girare come il sole intorno al mondo.

APPENDICE

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Tenta di smentire gli elogi che a un ritratto della poetessa rivolse la verita`, che chiama passione Questo, che vedi, inganno colorito, che dell’arte ostentando gli splendori, con falsi sillogismi di colori e` un inganno dai sensi percepito; questo, in cui la lusinga ha persistito a sottrarre degli anni i grandi orrori, e vincendo del tempo i bui rigori, trionfar su oblio e vecchiezza riverito: e` un artificio vano ed accurato, e` un fiore esposto al vento piu` inclemente, e` un inutile scudo contro il fato, e` una premura errata e inconsistente, e` un affanno caduco e, ben guardato, e` cadavere, e` polvere, e` ombra, e` niente.

In cui allontana un dubbio con la retorica del pianto Oggi, mio bene, quando ti parlavo, poiche´ negli occhi e gesti tuoi vedevo che con parole non ti persuadevo, che il cuore mio vedessi mi auguravo; e amor, che i miei intenti soccorreva, riuscı` in quel che impossibile sembrava: perche´ nel pianto, che il dolor versava, il mio cuore disfatto si scioglieva. Basti cosi, con queste asprezze basti: non ti cruccino piu` sospetti insani, ne´ vile dubbio la tua quiete guasti con ombre sciocche, con indizi vani, che´ in fluido umor vedesti e gia` toccasti disfatto il cuore mio fra le tue mani.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

Raymond Carver Cosa ha detto il dottore Ha detto che la situazione non e` buona ha detto che anzi e` brutta, molto brutta ha detto ne ho contati trentadue su un solo polmone prima di smettere di contarli allora io ho detto meno male non vorrei sapere quanti altri ce ne stanno oltre a quelli e lui ha detto lei e` religioso s’inginocchia nelle radure del bosco si lascia andare a invocare aiuto quando arriva a una cascata con gli spruzzi che le colpiscono il viso e le braccia si ferma a chiedere comprensione in momenti del genere e io ho detto non ancora ma intendo cominciare subito lui ha detto mi dispiace veramente ha detto vorrei tanto darle notizie di tutto un altro genere e io ho detto Amen e lui ha detto qualche altra cosa che non ho capito e non sapendo cos’altro fare siccome non volevo che lui dovesse ripeterla e io digerire pure quella me lo sono soltanto guardato per un po’ e lui ha guardato me e a quel punto sono saltato in piedi e ho stretto la mano di quest’uomo che mi aveva [appena dato qualcosa che nessuno al mondo mi aveva mai dato prima mi sa che l’ho pure ringraziato tanta e` la forza dell’abitudine

Felicita` Talmente presto che fuori e` ancora quasi buio. Sto alla finestra con il caffe` e le solite cose della mattina presto che passano per pensieri. A un tratto vedo il ragazzo e il suo amico venire su per la strada per consegnare il giornale. Portano il berretto e il maglione e uno la borsa a tracolla. Sono cosı` felici che non dicono niente, questi ragazzi.

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APPENDICE

Mi sa che se potessero, si prenderebbero sottobraccio. Il mattino e` appena sorto e stanno facendo questa cosa insieme. Avanzano lentamente. Il mattino si fa piu` luminoso, anche se la luna pende ancora pallida sul mare. Una tale bellezza che per un attimo la morte e l’ambizione, perfino l’amore, non riescono a intaccarla. Felicita`. Arriva inaspettata. E va al di la`, davvero, di qualsiasi chiacchiera mattutina sull’argomento.

Robert Duncan Il fuoco salto

pietra

mano

foglia

ombra

sole

giorno

scroscio

moneta

luce

corrente

pesce

primo

allentare

sotto

barca

porto

cerchio

vecchio

terra

bronzo

buio

muro

tremolio

nuovo

odore

gorgoglio

vicino

bagnato

verde

ora

sorgere

piede

caldo

stretta

fresco

sangue

disco

orizzonte

fiamma

Il giorno alla finestra la pioggia alla finestra la notte e la stella alla finestra Conosci l’antica lingua?

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

Non conosco l’antica lingua. Conosci la lingua dell’antico credo?

Dal bosco che credevamo in fiamme i nostri spiriti animali fuggono, cercando ovunque rifugio, come fosse nell’Eden, in questo panico

giacciono il leone e l’agnello, la quaglia non cura l’aquila in fuga davanti alle alte fiamme che aeree vanno. Vediamo infine il cervo dal volto d’uomo e la sua compagna gentile; il cinghiale selvatico anch’esso offre un volto umano. Nei loro visi non il terrore si mostra ma un filosofo dolore. Il bue e` furia e paura, la spessa lingua sbava e vien fuori ansimante a comporre la faccia gorgonia. (Questo e` il grande dipinto di Piero di Cosimo Un incendio nella foresta datato 1490-1500, conservato nell’Ashmolean Museum di Oxford) Eredita lo sfumato di Leonardo da Vinci c’e` un ammorbidirsi dei contorni, il colore si scioglie. Un bagliore agli antichi confini crea la magia che Pletone, Ficino, Pico della Mirandola approntarono,

APPENDICE

che rivive nel canto di David. Saul l’udı` nell’ira fiammeggiante, musica che Orfeo primo suono`, corde e melodie dell’incanto che lega i molti in lotta nei contrasti di una sola mente: “Poiche´, dato che suono e canto sorgono dalla cognizione della mente, e dall’impeto della fantasia, e dal sentire del cuore, e, insieme con l’aria che hanno spezzato e temperato, colpiscono lo spirito ariele dell’ascoltatore, che e` la giunzione dell’anima e del corpo, essi agevolmente muovono la fantasia, toccano il cuore e penetrano nei profondi recessi della mente” Dı` Piero di Cosimo

confini

di piuma, pelo, foglia dovefinanche le Furie uccelli sono e sfocano

le Eumenidi in armonie piu` alte:

i suoi animali, entrando in un campo fatato alla luce della sua visione, immobilita`, hanno per se´ pascoli e radure di sogno. Le fiamme, il fumo.

Quel singolare

nitido punto focale in un bagliore

la visione

possiede nell’Anima Mundi.

Laddove nel Nord (1500) esposto nella miniatura di Bosch: L’Inferno scatena

una musica stridente.

I volti dei traditi ghignano, fiacchi, in lode lurida, chiudono in voluttuoso tormento,

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

schiavi della paura,

avidamente

seguono le notizie: terremoti, eruzioni, automobili in fiamme, amanti infuriati, guerre contro il comunismo, eroinomani, incursioni poliziesche, tumulti razziali... presi dalla lascivia animi di questo vano suono. E noi vediamo infine i volti del male apertamente sopra di noi, estrusioni bestiali che nessun vero volto di animale conosce. Ci son ratti, serpenti, rospi, ci dice Bo¨hme, che sono creature del Demonio. C’e` una mimica umana del Demonio, del Demonio una chimica. Il Cristo chiude gli occhi, portando la croce come sognasse.

E` il Suo regno

non di questo mondo, ma un sogno dell’Anima Mundi, quella che infonde l’Anima nel Mondo? Lo sfumato del pittore dona al Suo volto immobilita` pastorale al centro del terrore, dolore che ha un’eco nel volto del cervo che vedemmo prima. Intorno a Lui, come a sommergere la dolce musica, Satana guata da volti d’uomini: l’idiota sogghigno di Eisenhower, di Nixon le nere fauci, il lampo furtivo negli occhi di Goldwater, o

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lo sguardo di Stevenson che mente alle N.U. perche´ la nostra Nazione salvi la faccia Ilsuo volto si moltiplica dai tempi di Roosevelt, Stalin, Churchill, Hitler, Mussolini; dal sogno di Oppenheimer, Fermi, Teller, Vannevar Bush, che rimuginano le formule dell’incubo — per vincere la guerra! inevitabile



a Los Alamos

tramano l’olocausto di Hiroshima. Teller apertamente per l’Anticristo sprazzi del male che vediamo nel potere di questo mondo, “Nel Nord e nell’Est, sciami di facce molli, vermi d’ufficio, redattori mantenuti, impiegati, addetti di diecimila funzionari e dei loro partiti, consci di nulla fuor che del mangiare e del bere della politica -- ignari dei princı`pi... Nel Sud, non c’e` fine ai ribaldi, ai palloni gonfiati, banderuole, gente da melodramma, che strilla senta sosta, in falsetto, un fastidio per Questi Stati che sono i loro come di chiunque altro...e con il piu` incredibile successo, dopo aver sparato, baruffato, urlato e minacciato l’America per questi ultimi vent’anni, ottengono un lungo corteo di vigliacche concessioni, e ancora non alla fine ma piuttosto all’inizio. Lo schema segreto che accarezzano e` quello di dissolvere l’unione di Questi Stati... » (Whitman, 1856) volti di Principi, Papi, Primi Usurai, Presidenti, Capi di Bande di qualsivoglia Club, Nazione, Legione, s’incontrano per cospirare, coartare, stroncare Ora, la Citta`, impoverita, enfia, sogna di nuovo le grandi pestilenze — tifo, sifilide, i bubboni neri epidemie, pazzie. Il mio nome e` Legione e in ogni nazione mi moltiplico.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

Su quelle che sarebbero Grandi Nazioni Grandi Mali. Stanno bruciando i boschi, la boscaglia, i campi d’erba rasi; i loro suburbi del profitto si spandono. La terra di Pan, la campagna pagana, con loro sarebbe desolata. fresco

verde

tremolio

cerchio

pesce

sole

stretta

bagnato

muro

porto

corrente

ombra

caldo

vicino

buio

barca

luce

foglia

piede

gorgoglio

bronzo

sotto

moneta

mano

sorgere

odore

terra

allentare

scroscio

pietra

ora

nuovo

vecchio

primo

giorno

salto

APPENDICE

— — — — —

— — —

— — —





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William Shakespeare, Amleto (atto III, scena seconda), trad. di Alessandro Serpieri, Marsilio, 1997. Alejandro Duque Amusco, “Ofelia” in Donde rompe la noche, Visor,1994, (trad. inedita di Giuseppe Gentile). William Shakespeare, Sonetti (nn.71, 74, 73), trad. di Alessandro Serpieri, Rizzoli, 1991. William Shakespeare, Riccardo II (atto III, scena terza), trad. inedita di Alessandro Serpieri. Jacqueline Risset, “Primo momento”, (“A primavera io viaggio”), (“e d’un tratto riprende la musica”), “Il toccare”, (“Amor che ne la mente mi ragiona”), “Gran vento”, “Cominciamento”, (“e tu verso ovest in questo momento”), (“L’amore e` dunque questo”), “Presagi” in Amor di lontano, versione italiana dell’Autrice, Einaudi, 1993. Alejandro Duque Amusco, “Leggendo la Commedia” in Suen˜o en el fuego, Renacimiento, 1989, (trad. inedita di Giuseppe Gentile). Georg Trakl, “In un vecchio album di ricordi”, “I topi”, “Canto della sera”, “Al fanciullo Elis” in Poesie, trad. di Ida Porena, Einaudi, 1979. Alejandro Duque Amusco, “Una rosa nera per Georg Trakl”, trad. di Giuseppe Gentile in “Versodove. Rivista di letteratura”, Anno III, numero 9/10, 1998. Luis de Go´ngora, I sonetti (nn. 57, 72, 137, 151), trad. di Giulia Poggi, Salerno Editrice, 1997. Jaime Gil de Biedma, (“Vi ricordate. Gli anni aurorali”), “D’ora in avanti”, “De vita beata” in Le persone del verbo, trad. di Giovanna Calabro`, Liguori, 2000. Juana Ine´s de la Cruz, “Nella morte dell’eccellentissima signora marchesa di Mancera”, “Tenta di smentire gli elogi che a un ritratto della poetessa rivolse la verita`, che chiama passione”, “In cui allontana un dubbio con la retorica del pianto” in Versi d’amore e di circostanza, trad. di Angelo Morino, Einaudi, 1995. Raymond Carver, “Cosa ha detto il dottore” in Il nuovo sentiero per la cascata; “Felicita`” in Racconti in forma di poesia, trad. di Riccardo Duranti, Edizioni minimum fax, 1997/2001; 1999. Robert Duncan, “Il fuoco”, trad. di Annalisa Goldoni in Black Mountain. Poesia e Poetica, a cura di A. Goldoni e M. Morbiducci, La Goliardica, 1987.

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

Commento sonoro: Johann Sebastian Bach, “Pre´lude” dalla Suite per violoncello solo n. 1 in sol maggiore BWV 1007, violoncello Yo-Yo Ma, Sony, 1997. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.

W. Shakespeare, Amleto (atto III, scena seconda) A. Duque Amusco, “Ofelia” W. Shakespeare, Sonetto 71 Sonetto 74 Sonetto 73 W. Shakespeare, Riccardo II (atto III, scena terza) J. Risset, “Primo momento” (“A primavera io viaggio”) (“e d’un tratto riprende la musica”) “Il toccare” (“Amor che ne la mente mi ragiona”) “Gran vento” “Cominciamento” (“e tu verso ovest in questo momento”) (“L’amore e` dunque questo”) “Presagi” A. Duque Amusco, “Leggendo la Commedia” G. Trakl, “In un vecchio album di ricordi” “I topi” “Canto della sera” “Al fanciullo Elis” A. Duque Amusco, “Una rosa nera per Georg Trakl” Luis de Go´ngora, Sonetto 52 Sonetto 72 Sonetto 137 Sonetto 151 J. Gil de Biedma, (Vi ricordate. Gli anni aurorali) D’ora in avanti De vita beata Juana Ine´s de la Cruz, “Nella morte dell’eccellentissima signora marchesa di Mancera” “Tenta di smentire gli elogi che a un ritratto della poetessa rivolse la verita`, che chiama passione”

APPENDICE

32.

“In cui allontana un dubbio con la retorica del pianto”

33. 34. 35.

R. Carver, “Cosa ha detto il dottore” “Felicita`” R. Duncan, “Il fuoco”

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GLI AUTORI

ENRICO ARCAINI, professore di Glottologia a Bologna fino al 1980, e` attualmente titolare della cattedra di Linguistica applicata presso l’Universita` di Roma Tre, dove si occupa di analisi comparativa, traduttologia e traduzione. E` direttore di «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata» (SILTA). Fra i suoi lavori a ricordiamo: Principi di Linguistica applicata (Il Mulino 1967), 2 ed. 1972 (trad.fr. Principes de Linguistique Applique´e, Payot 1972); L’educazione linguistica come strumento e come fine (Feltrinelli 1978); Analisi linguistica e traduzione, (Patron 1986), nuova edizione ampliata 1991; Italiano e francese: Un’analisi comparativa (Paravia Scriptorium 2000). SUSAN BASSNETT vice-rettore dell’Universita` di Warwick (G.B.) e` professore del Centre for British and Comparative Studies, da lei fondato negli anni ’80. E` autrice di piu` di venti volumi, fra cui Translation Studies (1980), divenuto il piu` importante libro di testo nel campo degli studi sulla traduzione. Le sue pubblicazioni piu` recenti comprendono: Comparative Literature: a critical introduction (1993), Studying British Culture: an introduction (1997), Contructing Cultures (1998) – scritto con Andre´ Lefevere – e Postcolonial Translation (1999), coedito con Harish Trivedi. Scrive regolarmente per The Indipendent. GRAZIANO BENELLI e` professore ordinario di Traduzione letteraria dal francese in italiano presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Universita` di Trieste. Si e` interessato di letteratura francese e francofona, pubblicando fra l’altro monografie su Barthes, sulla Nouvelle Critique, su Maeterlink, Ce´saire e Senghor. Ha tradotto diversi autori francofoni nonche´ alcuni classici francesi; ha prodotto saggi sulla storia della traduzione in Francia. ` e` professore ordinario di Lingua e Letteratura spagnola GIOVANNA CALABRO presso la Facolta` di Lingue dell’Universita` di Salerno. Dal 1996 al 2000 e` stata Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari. Si e` occupata di romanzo barocco, di narrativa del ’900 e di poesia contemporanea. Ha tradotto un’antologia di poeti contemporanei, La rosa necessaria (Feltrinelli, Milano 1980), ha curato l’edizione e traduzione in italiano del Quijote apocrifo di Alonso Ferna´ndez

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

de Avellaneda (Guida, Napoli 1984), ha tradotto l’opera completa in versi, Le persone del verbo, di Jaime Gil de Biedma (Liguori, Napoli 2000). EMILIO D’AGOSTINO e` professore straordinario di Linguistica generale presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Universita` di Salerno. Ha dedicato la sua attivita` di ricerca alla descrizione formale dell’italiano all’interno del progetto Lessico-grammatica della Lingua Italiana. Ha pubblicato diversi saggi e volumi, tra i quali Analisi del discorso. Metodi descrittivi dell’italiano d’uso, Napoli 1992; Sociolinguistica computazionale. Un’applicazione descrittiva al corpus del L.I.P., Salerno 1993. Per cio` che concerne le attivita` sperimentali dell’ex Polo D.S.N. dell’Universita` di Salerno ha curato la pubblicazione del volume Studi di lessico – grammatica delle lingue europee, Napoli 1992 e Tra sintassi e semantica. Descrizioni e metodi di elaborazione automatica della lingua d’uso, Napoli 1995. Recentemente ha pubblicato Le forme del parlare, Napoli 2000. JOHN DENTON insegna Lingua inglese presso l’Universita` di Firenze. E` coautore del manuale universitario Translation revisited – Ritorno alla traduzione (Firenze 1985/92). Ha pubblicato numerosi articoli su storia della lingua inglese, analisi contrastiva italiano/inglese, storia della traduzione, traduzione nei mass-media. Ha collaborato a Translators trough the History, a cura di Jean Delisle e Judith Wordsworth (Amsterdam/Ottawa 1995), Encyclopedia of Literary Translation into English, a cura di Oliver Classe (London 2000), Ein internationales Handbuch zur U¨bersetzungsforschung (De Gruyter, Berlin in corso di stampa). Ha in preparazione il volume Translating for the Screen. Audiovisual translation explained (St Jerome Press, Manchester) BRUNA DI SABATO e` docente di Lingua Inglese presso l’Universita` di Salerno. Si occupa di lingue speciali e piu` in particolare di lessico e di traduzione nell’ambito dell’inglese dell’economia. E` autrice di numerose monografie e saggi fra cui: Per tradurre, E.S.I., Napoli 1993; English for Finance, E.S.I., Napoli 1996; Una lingua in viaggio. Incontri, percorsi e mete dell’inglese d’oggi, Liguori, Napoli 2000. Ha collaborato alla redazione di alcuni dizionari, tra cui Language and Business, Zanichelli, Bologna 1993 e Grande dizionario inglese-italiano e italiano-inglese, Hoepli, Milano 1999. GABRIELLA DOZIN napoletana di nascita, ha vissuto in Spagna, Francia, Svizzera. Laureata in Scienze Politiche presso l’Universita` di Napoli, ha conseguito il Diplome de Interpre`te de Confe´rence presso l’Universita` di Ginevra. Gia` ordinaria di Lingua francese presso gli Istituti Tecnici Commerciali e docente alla Scuola Superiore per Interpreti e traduttori di Napoli, svolge attualmente l’attivita` di Interprete di Conferenza. Ha fatto parte del Consiglio Direttivo dell’A.I.T.I.Campania ed e` membro dell’A.I.I.C.

GLI AUTORI

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RICCARDO DURANTI insegna Lingua e Letteratura inglese presso la Facolta` di Scienze Umanistiche dell’Universita` di Roma “La Sapienza”. Per la sua attivita` di traduttore nel 1996 gli e` stato conferito il Premio Nazionale per la traduzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. E` attualmente impegnato nella traduzione delle opere complete di Raymond Carver per la casa editrice Minimum Fax di Roma. Oltre a numerosi saggi e traduzioni ha pubblicato quattro libri di poesia e ha in corso di pubblicazione, in Inghilterra, Behind the Tapestry, un romanzo scritto a quattro mani con Annamaria Crowe Serrano, basato sulla vita di Thomas Shelton, primo traduttore europeo di Cervantes. ANNIBALE ELIA, professore ordinario di Sociolinguistica presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Universita` di Salerno, ha consacrato la sua attivita` di ricerca alla costituzione di una rete europea di centri di ricerca (Relex) per la costituzione dei lessici-grammatica delle lingue europee. Ha pubblicato: Lessico e strutture sintattiche dell’italiano, Napoli 1981, Le Verbe Italien. Les completives dans les phrases a un complement, Fasano 1984, e numerosi saggi tra cui Per filo e per segno: la struttura degli avverbi composti, Napoli 1995, Elogio dell’imperfezione. Spunti di discussione su macchine intelligenti e lingue perfette, Munster 1996. E` stato responsabile di vari progetti di ricerca internazionali. PIERO FALCHETTA e` responsabile dell’Ufficio Carte Geografiche della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Nel campo degli studi letterari ha tra l’altro pubblicato Oculus Pudens. Venti anni di poesia di Andrea Zanzotto (Francisci, Abano 1983) e ha curato l’edizione del manoscritto seicentesco di Mogol, di Nicolo` Manuzzi (Franco Maria Ricci, Milano 1986, 2 voll.). Ha inoltre curato la traduzione e edizione di La scomparsa di Georges Perec (Guida, Napoli 1995), con la quale ha vinto il premio Monselice per la traduzione. STEFANO GENSINI (Firenze 1953) e` professore ordinario di Filosofia del linguaggio presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Si occupa di storia del pensiero linguistico, di semiotica generale, di temi sociolinguistici italiani. Fra i suoi libri, Linguistica leopardiana (Il Mulino 1984), Volgar favella (La Nuova Italia 1993), Manuale della comunicazione (Carocci 1999), De linguis in universum. On Leibniz’s ideas on language (Nodus Publikationen 2000). GIUSEPPE GENTILE, insegna Lingua e Letteratura spagnola moderna e contemporanea presso la Facolta` di Lingue dell’Universita` di Salerno. Si e` occupato essenzialmente di poesia e di teatro moderno, scrivendo su Garcı´a Lorca, Bergamı´n, Simo´n. Numerose le sue traduzioni di poeti contemporanei: Angel Gonza´lez, Ana Rossetti, Cesar Simo´n, Alejandro Duque Amusco. Cofondatore del Teatrogruppo di Salerno, ha preso parte a vari spettacoli, rassegne e festival di teatro. ANNALISA GOLDONI insegna Lingue e Letterature Angloamericane presso

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

l’Universita` ‘G. D’Annunzio’ di Pescara. Si e` occupata prevalentemente di romanticismo e contemporaneita`, affrontando i temi della fisicita` e della comunicazione non verbale. Ha tradotto e curato le Kerrisdale Elegies di George Bowering (1996) e i Dante Etudes di Robert Duncan (1998). Ha in corso una ricerca interdisciplinare sulla censura. JACQUES JOUET, poeta, narratore, drammmaturgo, saggista, nato nel 1947 a Viry – Chaˆtillon. Come narratore e` autore di romanzi, Le directeur du Muse´e des Cadeaux des Chefs d’Etat de l’Etranger (Seuil, 1994), La montagne R (Seuil, 1996, trad. italiana Tarara, 1998) e di racconti, fra cui: Actes de la machine ronda (Julliard, 1994). Tra i libri di poesia: 107 ames (Seghers, 1991), Le Chantier (Limon, 1993), Navet, linge, oeil-de vieux (P.O.L. 1998). Delle sue pie`ces teatrali, numerose sono state messe in scena da Catherine Daste´, La sce`ne est sur la sce`ne, the´atre I (Limon, 1994), Morceaux de the´atre, the´atre II (Limon, 1997). E` autore di un saggio su Queneau (La Manifacture, 1988). Dal 1983 e` membro dell’Oulipo (Ouvroir de Litte´rature Potentielle fondato da Franc¸ois Le Lionnais e Raymond Queneau). E` coautore insieme con Dorotea Felman della traduzione dal polacco de La noce di Stanislaw Wyspianski, pie`ce teatrale rappresentata al Theatre des Amandiers di Nanterre nel 1996. JEAN RENE´ LADMIRAL, germanista, linguista e filosofo, insegna traduttologia, filosofia, traduzione all’Universita` di Paris X – Nanterre, dove dirige il C.E.R.T. (Centre d’E´tudes et de Recherches en Traduction), e al I.S.I.T. (Institut Superieur d’Interpretation et de Traduction) di Parigi. Come traduttore si e` specializzato soprattutto alla filosofia tedesca, traducendo Ju¨rgen Habermas, La Scuola di Francoforte, Kant, Nietzsche e altri. Oltre ai saggi sulla filosofia tedesca e la didattica delle lingue, la sua ricerca si e` rivolta principalmente alla traduzione. Assai numerosi i suoi lavori sulla traduzione tra cui il volume, recentemente ripubblicato, Traduire: the´ore`mes pour la traduction, Gallimard, Paris 1994 (coll. Tel, n. 246). In collaborazione con Edmond Marc Lipiansky: La communication interculturelle, Armand Colin, Paris 1989 (ried. 1991 e 1995). STEFANO MANFERLOTTI insegna Lingua e Letteratura inglese presso la Facolta` di Lettere e Filosofia dell’Universita` di Napoli Federico II. Ha pubblicato i volumi George Orwell (La Nuova Italia, Firenze 1979), Anti-utopia. Huxley, Orwell, Burgess (Sellerio, Palermo 1984), Invito alla lettura di Aldous Huxley (Mursia, Milano 1987), Dopo l’Impero. Romanzo ed etnia in Gran Bretagna (Liguori, Napoli 1995), Tradurre dall’inglese. Avviamento alla traduzione letteraria (Liguori, Napoli 1996), James Joyce (Rubbettino, Catanzaro 1997), Grammatica della lingua inglese (con Mary Rogers Liguori, Napoli 1999). Intensa la sua attivita` di traduttore. Nel 1983 la sua versione de Il mistero di Edwin Drood di Dickens e` stata insignita del Premio Monselice.

GLI AUTORI

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GIOVANNA MOCHI insegna Lingua e Letteratura inglese presso l’Universita` di Siena. Ha lavorato e pubblicato su Henry James, R.L. Stevenson, Ford Madox Ford, sulla poesia romantica inglese, sul teatro shakespeariano. Ha tradotto James e Stevenson; dirige la collana di classici inglesi con testo a fronte Elsinore della casa editrice Marsilio. ANGELO MORINO insegna Lingue e Letterature ispanoamericane presso la Facolta` di Lingue dell’Universita` di Torino. Ha pubblicato La donna marina (Sellerio, Palermo 1984), Case d’America (ivi, 1985), Non toccare la donna bianca (ivi, 1996), Il cinese e Marguerite (ivi, 1997), Il libro di cucina di Juana Ine´s de la Cruz (ivi, 1999). GIULIA POGGI, ordinaria di Lingua e Letteratura spagnola presso la Facolta` di Lettere e Filosofia dell’Universita` degli Studi di Siena, si e` occupata di letteratura del Siglo de oro e in particolare di Go´ngora, di cui ha curato la prima traduzione integrale dei sonetti (Salerno, Roma 1997). Ha tradotto inoltre l’Agudeza y arte de ingenio di Baltasar Gracia´n (Aesthetica, Palermo 1986), il teatro di Tirso de Molina (Garzanti, Milano 1991), la saggistica giovanile di J.L. Borges. IDA PORENA, germanista, ha insegnato Lingua e Letteratura tedesca a Napoli, (I.U.O.) e all’Universita` de L’Aquila (Facolta` di Lettere); saggista e traduttrice, si e` occupata principalmente della lirica e della letteratura tedesca di Otto e Novecento. Numerosi saggi e un libro (La verita` dell’immagine, Roma 1998) sono frutto dei suoi studi su G. Trakl, di cui ha tradotto anche le liriche (Roma, 1963, Torino, 1979 e 1997). Altri lavori riguardano l’opera di Th. Mann e di P. Celan. Ha tradotto inoltre le liriche di N. Sachs (Torino 1966 e 1971), i Poeti del romanticismo tedesco (Milano 1995) e, con L.Koch, parte del West-o¨stlicher Divan di Goethe (Milano 1990). JACQUELINE RISSET, poeta e critico, e` ordinario di Lingua e Letteratura francese alla III Universita` di Roma. Oltre a una folta produzione saggistica e poetica (L’anagramme du de´sir, Fourbis, 1995; Puissances du sommeil, Seuil, 1997; Les instants, Farrago, 2000, ecc.), ha tradotto: in italiano, I Poeti di Tel Quel, Einaudi, Torino 1971; F. Ponge, Il partito preso delle cose, Einaudi, Torino 1978; J. Risset, Amor di lontano, Einaudi, Torino 1993; in francese, Dante, La Divine Comedie, Flammarion 1986-90; N. Machiavelli, Le Prince, Actes – Sud 2001; e inoltre N. Balestrini, Tristan, Seuil 1975, L. Romano, Tout au bout de la mer, Hachette 1998; e testi di Belli, Zanzotto, Sanguineti ecc. ALBERTO SCARPONI ha tradotto in particolare gli scritti dell’ultimo Luka´cs tra cui i tre volumi dell’Ontologia dell’essere sociale (1976-81), l’autobiografia filosofica Pensiero vissuto (1983) e altro. In campo letterario ha tradotto: Fenic? ka e Dissolutezza di Lou Andreas Salome´ (1987), i racconti di Franz Wedekind Fuochi d’artificio

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TEORIA, DIDATTICA E PRASSI DELLA TRADUZIONE

(1988), la pie`ce teatrale di Bertolt Brecht La vita reale di Jakob Geherda (inedita in Italia) messa in scena da Rita Tamburi, Stienz di Hans Gunter Michelsen e Medea di Hans Henny Jahnn. E` stato per oltre un decennio caporedattore di «Critica marxista»; oggi e` redattore letterario del trimestrale «Lettera internazionale». E` stato dal 1991 al 1998 segretario generale del Sindacato nazionale Scrittori, dirigendone la rivista «Produzione e cultura». Ha pubblicato nel 1998 la traduzione del poemetto di Ludwig Feuerbach Reimverse uber den Tod (Versi rimati sopra la morte). EVGENIJ SOLONOVICH insegna Traduzione letteraria all’Istituto Universitario M. Gor’kij di Mosca. Poeta e traduttore di poesia italiana, tra cui: il Canzoniere di F. Petrarca, l’Orlando Furioso di L. Ariosto, i sonetti di G.G. Belli. ADRIANA VILLAMENA e` interprete di conferenze per italiano, inglese e francese. Ha insegnato presso la Scuola Superiore Interpreti e Traduttori di Napoli. Insegna attualmente presso la SSLMIT di Forlı` (Universita` di Bologna) ed e` Direttore didattico-scientifico del I Master in Interpretazione di conferenze presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Fa parte del Consiglio Direttivo dell’A.I.T.I. sezione Campania.

Linguistica e linguaggi

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S. Manferlotti, Tradurre dall’inglese. Avviamento alla traduzione letteraria M.L. Wardle, Avviamento alla traduzione inglese-italiano italiano-inglese S. La Rana, La didattica dell’inglese: origine e sviluppo Z.M. Steinhauer, Reading the Issues. Current Topics in Modern Society G. Formichi, M. Nuzzo, M.A. Luque, Gramática esencial de español para italianos M.R. Ansalone, P. Félix, I francesismi in italiano. Repertori lessicografici e ricerche sul capo A. Mauger, Traduire... traduire... Le Français des affaires L. Landolfi, M. Sanniti di Baja, I bambini e la lingua straniera. Percorsi didattici nella Scuola Italiana C. Pennarola, La publudicità nella stampa inglese. Invenzione e deviazione del linguaggio pubblicitario J. Podeur, Nomi in azione. Il nome proprio nelle traduzioni dall’italiano al francese e dal francese all’italiano B. Di Sabato, Un alingua in viaggio. Incontri, percorsi e mete dell’inglese di oggi A.R. Tamponi, E. Flamini, Lingue straniere e multimedialità. Nuovi scenari educativi G. Calabrò (a cura di), Teoria, didattica e prassi della traduzione M. Cennamo, R. Sornicola, L. Spina, V. Viparelli, Ricerche linguistiche tra antico e moderno A. Varvaro, Linguistica romanza. Corso introduttivo G. Berruto, M. Berretta, Lezioni di sociolinguistica e linguistica applicata M. Petrone, Esercizi di pronunzia francese G. Calabrò (a cura di), Le lingue dello straniero. Atti del convegno su “Le lingue dello straniero” – Fisciano, 6-7 aprile 2000 R. Rutelli, Semiotica (e)semplificata V. Viparelli (a cura di), Tra strategie retoriche e generi letterari. Dieci studi di letteratura latina C. Pennarola, Nonsense in Advertising. Deviascion in English Print Ads M. Foschi Albert, M. Hepp, Manuale di storia della lingua tedesca G. Berruto, Nozioni di linguistica generale

24. J. Podeur, L’æil écoute. Méthode de prononciation du français 25. S. Laviosa, Linking Wor(l)ds. Lexis and Grammar for Translation 26. J.E. Crockett, English for students of Sociology. How to face the “Prova tecnica di lingua inglese” 27. J. Podeur, Jeux de traduction. Giochi di traduzione 28. C. Giovanardi, L’italiano da scrivere. Strutture, risposte, proposte 29. C. Giovanardi, E. De Roberto, L’italiano da scrivere. Strutture, risposte, proposte. Eserciziario 30. F. Benozzo, Etnofilologia. Un’introduzione 31. D. Stewart, Translating Tourist Texts from Italian to English as a Foreign Language