Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici 8882121844, 9788882121846

678 164 1MB

Italian Pages 365 Year 2004

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici
 8882121844, 9788882121846

Citation preview

BIBLIOTECA DI “AUTOGRAFO” Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

fondata da Maria Corti

10

Edizione realizzata con il contributo di

Progetto di ricerca promosso dall’Archivio Letterario Lombardo per la Tradizione Manoscritta dell’Otto e Novecento, Pavia

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Amelia Rosselli

UNA SCRITTURA PLURALE SAGGI E INTERVENTI CRITICI a cura di Francesca Caputo

interlinea

edizioni

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Progetto di ricerca promosso dall’Archivio Letterario Lombardo per la Tradizione Manoscritta dell’Otto e Novecento, Pavia © Novara 2004 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, telefono 0321 612571 www.interlinea.com Stampato da Nuova Tipografia San Gaudenzio spa, Novara ISBN 88-8212-184-4 In copertina: disegno di Amelia Rosselli

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SOMMARIO

«Cercare la parola che esprima gli altri» (FRANCESCA CAPUTO) GLI ORIZZONTI DELLA POESIA Armonia di gravitazione Musica e pittura, dibattito su Dorazio La serie degli armonici Introduzione a “Spazi metrici” Spazi metrici Glossarietto esplicativo per “Variazioni belliche”

pag.

9

» » » » » »

27 35 45 59 63 69

»

79

»

81

»

85

SULLE PAGINE DEGLI ALTRI POESIA ITALIANA L’accusa di provincialismo turba troppo gli italiani [su Giuseppe Guglielmi]

Resiste agli esperimenti dell’avanguardia [su Angelo Maria Ripellino]

“Cara Milano” e poesie per Pavese [su Luciana Frezza, Franco Antonicelli, Folco Portinari, Carlo Betocchi]

“Dal balcone” e “L’angelo attento” [su Sergio Solmi, Antonio Barolini, lirici greci]

Sandro Penna “Metropolis” di Porta Wirrwarr [su Edoardo Sanguineti] Scipione panteistico Sonetti e stornelli [su Cetta Petrollo] Fort-da [su Sara Zanghì] Un’opera inedita di Calogero e la sua corrispondenza letteraria Stringersi all’osso dei propri pensieri [su Antonella Anedda]

POESIA STRANIERA La fatica di essere autentico [su Boris Pasternak]

» 89 » 93 » 97 » 99 » 101 » 105 » 107 » 109 » 125 » 129

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

6

Amore e nostalgia del mondo contadino [su Gyula Illyés] Forse il primo poeta d’America [su John Berryman] Canti e poesie della contestazione negra Poeti d’avanguardia ispano-americani Poesia d’élite nell’America d’oggi [su Robert Penn Warren, John Berryman, Robert Lowell, Allen Tate, Charles Olson, Sylvia Plath] Emily scrive al mondo [su Emily Dickinson] Sotto l’ala di Eliot [sui giovani poeti inglesi] Gregory il beat [su Gregory Corso] Canti onirici d’un poeta suicida [su John Berryman]

Le esperienze di Corso Joyce giovane poeta musicale [su James Joyce] Istinto di morte e istinto di piacere in Sylvia Plath Paul Evans NARRATIVA, TEATRO, SAGGISTICA La tragedia spagnola [su Thomas Kyd] Uno sfrenato supermaschio [su Alfred Jarry] Domande a bruciapelo a uno scrittore d’avanguardia [su Giordano Falzoni]

» » » »

131 135 137 139

» » » » » » » » »

141 163 165 167 169 171 173 175 181

» 189 » 191 » 195

Guideranno gli astronauti per telepatia? [su Leonid L. Vasiliev]

Il coltivatore del Maryland [su John Barth] Scrittore di nascosto [su Roberto Bazlen] Ma è poi possibile “educare al sesso”? [su Lamberto Borghi, Antonio Carbonaro, Ada Marchesini Gobetti, Cesare Musatti]

Ferlinghetti e l’America sotterranea Se il cantautore scrive [su Leonard Cohen] Gli sberleffi di Burroughs Lembi di Paradiso per Scott e Zelda [su Francis Scott e Zelda Fitzgerald]

Tragiche fantasie di un “sognatore” [su Jack Kerouac] Spara a zero contro la famiglia [su Christina Stead] Ha ottenuto un secolo dopo la fama che meritava [su Henry James]

Sesso, ebraicità e disperazione [su Philip Roth] Una recita all’aperto di Virginia Woolf Henry Miller sempre fra noi influenza anche la psicanalisi [su Norman O. Brown]

» 199 » 201 » 203 » » » »

205 207 211 213

» 215 » 217 » 219 » 221 » 223 » 225 » 227

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

UNA SCRITTURA PLURALE

7

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Padre e figlio, carteggio fra amore e rancore [su Luigi Amendola]

CULTURA E SOCIETÀ Vita e problemi alla base: le sezioni un tabù? L’America attraverso le riviste Avanguardia e tradizione nelle riviste Sindacato Scrittori? I traduttori si organizzano Nate insieme, sotto segni diversi Non avere fretta Incontro di poesia a Roma Si fa spesso spettacolo del poeta, ci si dimentica però della poesia La politica dei cento fiori Sceneggiatori nel cinema PARLARE DI SÉ Curriculum I Curriculum II Documento Pastiche per Ferruccio «Non mi chiedete troppo, mi sono perduta in un bosco», intervista a cura di Sandra Petrignani Intervista ad Amelia Rosselli, a cura di Giacinto Spagnoletti Partitura in versi, intervista a cura di Francesca Borrelli Amelia Rosselli. Intervista su Roma, a cura di Milo de Angelis e Isabella Vincentini

» 229 » » » » » » » »

233 239 243 247 251 253 257 259

» 263 » 265 » 271 » » » »

277 281 283 287

» 289 » 293 » 305 » 311

APPENDICE Storia di una malattia

» 317

Nota ai testi

» 327

Nota bibliografica

» 347

Indice dei nomi e dei periodici

» 355

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Devo l’idea di questo volume a Maria Corti, maestra e promotrice di ricerca: con il suo consueto slancio ed entusiasmo, mi aveva subito coinvolto nello studio delle carte di Amelia Rosselli giunte al Fondo Manoscritti di Pavia. Un riconoscente grazie a Renzo Cremante e Angelo Stella, cui devo preziosi consigli per l’impostazione e la revisione del lavoro. Ad Arturo Colombo sono grata per i saggi suggerimenti. Grazie per la collaborazione a Nicoletta Trotta, Sara D’Arienzo, Raffaella Zanaletti, Filippo Fornasier, Maria Mastronardi, Anna Ricci del Fondo Manoscritti, a Graziella Spampinato e, per le indicazioni fornitemi, ad Adriana Moltedo, destinataria dell’Introduzione a “Spazi metrici”. La catalogazione dei materiali rosselliani, che mi ha consentito di meglio esplorare il mondo dell’autrice e di organizzare con più consapevolezza il volume, è stata promossa e finanziata dall’Archivio Letterario Lombardo.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI» di Francesca Caputo

Non sono apolide. Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito con Emilio Lussu e Fausto Nitti dal confino a Lipari a cui era stato condannato per aver fatto scappare Turati. Mia madre lo aiutò a fuggire e quindi lo raggiunse a Parigi, mio padre fu poi ucciso con suo fratello [...]. La seconda guerra mondiale scacciò poi la mia famiglia (mia madre con me e miei due fratelli ancora bambini o appena ragazzi) dalla Francia. Aver imparato l’inglese, quindi, oltre al francese, è dovuto alla guerra, perché allora andammo in Inghilterra e da lì fuggimmo poi via Canada per gli Stati Uniti. [...] La definizione di cosmopolita risale a un saggio di Pasolini che accompagnava le mie prime pubblicazioni sul “Menabò” (1963), ma io rifiuto per noi quest’appellativo: siamo figli della seconda guerra mondiale. Quando sono tornata in Italia mi sono molto legata a Roma. Cosmopolita è chi sceglie 1 di esserlo. Noi non eravamo dei cosmopoliti; eravamo dei rifugiati.

La condizione di “rifugiata”, oltre a segnare in modo indelebile l’esperienza esistenziale di Amelia Rosselli,2 concorre al suo trilinguismo, alla sua formazione culturale irregolare, disordinata, policentrica, spesso da autodidatta, guidata da una curiosità e sensibilità prepotente per la dimensione creativo-artistica e insieme filosofico-formale: «il mio studio era musicale, formale, filosofico, letterario e perfino matematico. Ho anche fatto studi filologici, specialmente negli anni sessanta. Ma la mia non è stata una vita da studiosa».3 Studi elementari in Francia, ginnasiali e liceali in America, una doppia maturità (quella conseguita negli Stati Uniti non venne ritenuta valida in Europa e la Rosselli la rifece in Inghilterra,4 frequentando la Saint Paul’s School for Girls di Hammersmith),5 la rinuncia a un’istruzione universitaria, lo studio della musica – violino, pianoforte, organo, composizione – iniziato a sedici anni a Londra, proseguito a Firenze, Roma, Darmstadt.6 «Poi, come per istinto, smisi di suonare: ragioni di ordine fisiologico mi spingevano a dedicarmi a un lavoro creativo piuttosto che interpretativo».7 Alla metà degli anni sessanta risale anche l’abbandono della musica: musica e poesia, per lo stesso totalizzante rigore, sono sentite dalla Rosselli come inconciliabili («ho smesso: non si può fare poesia e musica. Entrambe sono discipline severe»)8 e, per motivi a sua detta fra il casuale e il pratico, la scelta definitiva cadde sulla poesia. Una scelta che diventerà via via sempre più esclusiva, una «pratica totale e totalita-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

10

FRANCESCA CAPUTO

ria»9 («non ho mai voluto legarmi con una vera famiglia, per non togliere attenzione e tempo alla poesia», «La poesia è al centro della mia vita»)10 condotta, in particolare nei primi anni, attraverso una estenuante ricerca linguistica, un faticoso sperimentare le sue tre lingue. La vicenda poetica della Rosselli si può scandire in tre periodi: gli anni dal 1952 al 1963, di intenso lavoro pressoché senza sbocchi editoriali, la seconda fase (1964-76) che vede l’uscita delle tre maggiori raccolte, e infine gli anni del silenzio creativo (interrotto soltanto da Impromptu, composto di getto nel 1979), durante i quali vengono recuperati e pubblicati, quasi a ritroso, testi concepiti nei decenni precedenti.11 Scrisse molto fra i ventidue e i trentatré anni: la sua prima raccolta poetica, Variazioni belliche, composta di due parti, Poesie (1959) e Variazioni (1960-1961), che uscirà nel 1964; gli scritti giovanili, accumulati proprio tra il 1952 e il 1963. Si trattava di poesie e prose, scritte nelle mie tre lingue (italiano, inglese, francese), che consideravo soltanto esercizi e ricerca stilistica. Le dieci parti si susseguono in ordine cronologico, in 12 modo che una lingua s’alterni all’altra indifferentemente

che verranno pubblicati da Guanda nel 1980 col titolo Primi scritti (1952-1963). E tarda fu anche la pubblicazione delle liriche inglesi Sleep (1953-1966), Garzanti 1992, tradotte da Emmanuela Tandello, dopo alcune anticipazioni su rivista e l’uscita della plaquette di venti poesie tradotte da Antonio Porta per Rossi & Spera di Roma nel 1989. Nel secondo momento escono, oltre a Variazioni belliche, Serie ospedaliera (1963-1965), nel 1969 da Alberto Mondadori, e Documento (1966-1973) da Garzanti nel 1976. Negli anni successivi, che vedono rarefarsi la sua vena creativa, oltre ai volumi già citati, verranno dati alle stampe testi esclusi dalle precedenti raccolte (Appunti sparsi e persi 1966-1977, AeliaLaelia 1983, raccoglie soprattutto poesie scartate da Documento), recuperi parziali (La libellula, Studio Editoriale 1985, include, oltre al poemetto eponimo, una selezione di Serie ospedaliera), un’antologia (Antologia poetica, curata da Giacinto Spagnoletti, Garzanti 1987). Alla musica e alla poesia si accompagna però un versante meno noto della sua ricerca, un’altra maniera, più prosaica, di «chiedersi come è fatto il mondo»:13 la Rosselli infatti pubblica interventi su autori e temi anche molto divaricati fra loro in modo non continuativo e sistematico, con qualche intensificazione a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, quando la sua fisionomia pubblica di scrittrice ha cominciato ad affermarsi. Sono “variazioni critiche” che si diramano in

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI»

11

più direzioni a testimoniare pluralità di interessi, curiosità, volontà di immergersi con slancio partecipativo nella vita culturale e di interrogare la realtà (sociale, politica, letteraria); scritti “bifronti”, lucidi e a volte irrisolti, in cui si intrecciano acutezza di giudizio, sbrigatività e qualche schematismo. Alla varietà di contenuti corrisponde un’altrettanto variegata tipologia testuale: la Rosselli si cimenta infatti con saggi, pagine introduttive a raccolte poetiche, conversazioni radiofoniche, articoli giornalistici di critica letteraria, dichiarazioni di poetica, interventi di taglio politico-militante. I testi qui raccolti consentono di aggiungere ulteriori tratti e sfumature al profilo di una autrice già sfaccettato e complesso, di mettere meglio a fuoco la sua concezione della realtà e dell’arte. Sono stati suddivisi in sezioni tematiche: pur nella diversità, occasionalità, a volte quasi casualità dei contributi si possono infatti rintracciare costanti di idee e argomenti. Nella prima parte sono stati riuniti i saggi che delineano l’orizzonte entro il quale si inserisce il fare poetico della Rosselli: la riflessione musicale, metrica, linguistica e grafico-pittorica. Oltre a più o meno brevi dichiarazioni di poetica o autocommenti e ai noti La serie degli armonici e Spazi metrici, si presentano due testi finora non segnalati nelle bibliografie rosselliane (la recensione a un volume di Lupi, uscita su “Il Diapason” nel 1950, a firma «Marion Rosselli», probabilmente il suo primo testo pubblicato, e un dibattito a più voci su musica, metrica e pittura proposto dalla rivista “Marcatré” nel 1965) e due inediti: un’Introduzione a “Spazi metrici” e un Glossarietto esplicativo per “Variazioni belliche” (finora apparso solo parzialmente in rivista), i cui dattiloscritti sono conservati presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. Sia Spazi metrici, sia il Glossarietto nascono in relazione al primo volume di poesia pubblicato dalla Rosselli, alla sua prima uscita editoriale autonoma, ed esprimono un’esigenza di chiarire ragioni e progetto del suo lavoro, di favorire un avvicinamento più consapevole dei lettori alla sua scrittura. Colpisce, nell’Introduzione a “Spazi metrici”, la scelta di definire quel denso scritto teorico con il suggestivo e sfuggente ossimoro «divulgativo e incomprensibile». Quasi a ribadire il bisogno di spiegare ad altri il senso e il metodo del proprio operare e nel contempo la difficoltà di riuscire a farlo fino in fondo, a riproporre una personalissima idea di poesia comunicativa e insieme enigmatica. La seconda parte raccoglie, soprattutto, interventi giornalistici (ma anche qualche saggio di più ampio respiro) su opere di poeti italiani e stranieri, di narratori, autori di teatro e saggisti, mentre la terza presenta scritti di “cultura e società”14: acute analisi e considerazioni di indole sindacale relative agli operatori della scrittura (traduttori, sce-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

12

FRANCESCA CAPUTO

neggiatori, poeti “ingaggiati” per letture pubbliche); un appassionato resoconto della vita di una sezione del Pci; puntuali descrizioni, attraverso lo strumento privilegiato delle riviste, di “climi” culturali e politici. Infine una sezione biobibliografica con parole d’autore: si propongono infatti due curriculum vitae inediti, stilati dalla stessa Rosselli, un suo testo su Roma e qualche intervista. In appendice, in un’ottica di documentazione delle tante corde della scrittura rosselliana, si riporta Storia di una malattia, pubblicata su “Nuovi Argomenti” nel 1977. Sono pagine che presentano il carattere di una confessione estrema e quasi potrebbero leggersi, più che come incandescente e perturbante referto biografico, come “prova di racconto”, trasfigurazione di una sofferta esperienza esistenziale con cui salvarsi da quella biografia. Amelia Rosselli avvia la sua collaborazione a quotidiani con un articolo su Pasternak, uscito il 4 dicembre 1966 sull’“Avanti!”15 Fra il 1967 e il 1970 si alterneranno sporadiche collaborazioni al quotidiano socialista, a “Paese Sera”, all’“Unità”; nel decennio successivo fra il 1975 e il 1976 scriverà alcuni pezzi per “La Stampa”16 (a cui era stata segnalata da Alberto Moravia) e ancora, dal 1978 al 1979, per “Paese Sera”. Suoi scritti compariranno inoltre, in modo molto saltuario, su altri periodici (da “Rinascita” a “Nuovi Argomenti”, da “La Fiera Letteraria” a “Poesia”). L’occasione che segna l’inizio della sua attività giornalistica viene raccontata al fratello John in una lettera del 10 dicembre 1966: era stata contattata dall’“Avanti!” che ogni domenica faceva presentare un importante autore del Novecento da uno scrittore contemporaneo. Con sua sorpresa, le era stato chiesto di scrivere su Breton; la Rosselli aveva invece controproposto Pasternak. Il cambiamento fu accettato e l’articolo apprezzato. «The essay I find slighty rhetorical: it was written “di getto” at around 3 at night: I’d never written for a paper before, so tried to be rather “divulgativa”». Questo giudizio a caldo ben individua l’impianto strutturale e la cifra espressiva che contraddistingueranno la sua scrittura giornalistica. Le recensioni hanno infatti una solida base informativa: le notizie sulla vita e sull’opera dell’autore, pressoché sempre presenti, sono a volte inserite ex abrupto, quasi si trattasse di un doveroso e imprescindibile servizio da rendere al lettore. Negli articoli su testi di autori stranieri non mancano osservazioni sulla qualità delle traduzioni, spesso accompagnate, per le opere inglesi, da sintetiche e incisive notazioni sulla differenza dei due sistemi linguistici: «l’italiano non può rendere le sottigliezze fonetiche e grammaticali del James, preparatorie ai virtuosismi d’un Joyce»;17 «ho curiosato tra le parole “difficili” o “raffi-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI»

13

nate” dell’inglese per vederne l’equivalenza nella traduzione. […] certo che l’italiano con le sue sonorità e grammatiche dure e squadrate e la traduzione non del tutto aderente, non restituiscono alla Woolf il suo bisbigliato fluire, l’eleganza e leggerezza della sua poeticissima prosa, dai ritmi inaspettati e dalle storture grammaticali di tanto in tanto sperimentate»;18 «il linguaggio è quasi del tutto monosillabico, frenato da polisillabi (l’inglese è lingua brusca anche se sottile) e […] nella traduzione forzatamente s’allungano i versi e s’inflatano le sonorità essendo l’italiano invece solitamente trisillabico e spesso polisillabico».19 Sono poi frequenti gli “appelli all’editore”, i commenti su iniziative o proposte editoriali intraprese o auspicabili per una migliore diffusione o comprensione di un autore o di un fenomeno culturale: «Vorremmo suggerire che a questo poeta [John Berryman] quasi scontroso nel suo isolarsi, venga in Italia data maggior attenzione, nel senso d’altri tentativi di pubblicazioni e traduzioni»;20 così come la Rosselli si augura che venga meglio conosciuta la letteratura magiara.21 È inoltre attenta in modo particolare alle edizioni economiche, veicolo fondamentale per una circolazione non solo elitaria dei testi: suggerisce infatti «la pubblicazione in piccoli volumi economici degli autori più significativi del Novecento sudamericano»;22 sollecita la traduzione di altre opere di Jarry – apprezzando l’iniziativa di Bompiani di pubblicare, in edizione economica, un libro «di raffinata origine storico-letteraria e appartenente sinora nei suoi significati e nelle sue intenzioni a ristretti gruppi di intellighenzia internazionale»23 – e propone l’edizione economica di Poesie da un soldo di Joyce.24 Non mancano, in una prospettiva molto orientata sul lettore, riferimenti al grado di leggibilità del testo, valutazioni positive sulla “popolarità”, la semplicità, in particolare della parola poetica: ad esempio Penna, i cui versi sono «facilissimi» e «così leggibili da ogni persona anche non colta», è per lei «il più socialista e popolare dei nostri poeti».25 Sul piano espressivo la prima lettura di questi testi restituisce un’impressione di ruvidezza: sono scritti incisivi e molto diretti, nei quali non si ricercano l’eleganza, il giro di frase suggestivo, raffinato. Il lessico è medio, anzi a volte la Rosselli sembra far ricorso a una fraseologia convenzionale, per quanto efficace ai fini dell’argomentazione («per scavare nell’ammasso di parole e di significati che riempiono questo libretto di sessantun pagine un qualsiasi contenuto globale o nuovo, dovremmo andare col binocolo»);26 vi sono anteposizioni piuttosto frequenti dell’aggettivo al sostantivo, del complemento di specificazione al termine specificato finalizzati a dare risalto alla parola, producendo un effetto di vigore, non tanto di preziosità; predilige coppie spesso sinonimiche. La zona più stilisticamente inquieta è quella della

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

14

FRANCESCA CAPUTO

sintassi: passi ellittici, soprattutto in apertura degli articoli, si alternano ad altri fortemente ipotattici, a costrutti ampi e poco lineari; frequente è l’uso dei due punti consecutivi per dare tensione e scandire il ragionamento. Raro, ma non assente, il ricorso a procedure di innalzamento letterario della pagina: ripetizioni enfatiche anche in forme retoricamente elaborate, per esempio un doppio poliptoto incorniciato da un’anadiplosi («La calma di Pasternak era invincibile, nascosta, nascosto anche tutto quello che poteva essere il suo tormento, tormentosissimo lavorio, tormentosissima preparazione alla calma»),27 allitterazioni («un cosmopolitismo soltanto apparente ma irritante, un fuoco e furia di parole “inutili”»,28 con bella dittologia); molto limitata la componente metaforica (significative alcune similitudini musicali: «[lo stile di James] si fa virtuosistico nel dialogo spesso preponderante, e ritmicamente sconvolgente quanto lo sono, per esempio, le ultime sonate di Beethoven»).29 «Credo però d’essere riuscita, tanto tempo fa nel 1954, d’evitare (come fosse la peste), la tipica scrittura detta “prosa poetica”, accettatissima in quel periodo», scriveva nella nota Esperimenti narrativi posta in calce a Diario ottuso. A una “prosa-prosa” non poetica, ma incandescente, «allarmante e intermittente»30, la Rosselli sembra aver affiancato, seguendo un criterio di radicalità e specificità, una prosa funzionale, “pratica”, comunicativa e diretta di critico e recensore. Da questa scrittura pratica emerge con sbrigativa limpidezza, rigore quasi etico, il giudizio critico, spesso severo e duro. Ma non semplicisticamente liquidatorio (non sembrano interessarle le stroncature): valutazioni negative dichiarate con franchezza (e vedremo che le reazioni della Rosselli sono vigorose soprattutto quando si toccano nervi scoperti, nuclei per lei cruciali della scrittura) non le impediscono apprezzamenti e riconoscimento di meriti. Fra le righe degli interventi su testi letterari si possono rintracciare una serie di motivi, di idola polemici che guidano la Rosselli nelle sue valutazioni. Messi a sistema ci tratteggiano la sua fisionomia non solo di critico ma anche di scrittore. Nell’indagare i testi altrui agiscono infatti da bussola i principi, i valori, le esperienze culturali a cui la Rosselli ha improntato la sua produzione creativa. È innanzi tutto particolarmente sensibile a cogliere all’interno di un testo i punti in cui l’autore tradisce la sua voce vera, la deforma, la piega a esigenze altre rispetto a quelle più intime dell’ispirazione poetica. Nota subito le crepe che si aprono in opere non pienamente autentiche. A proposito della raccolta La fortezza di Alvernia di Angelo Maria Ripellino,31 per esempio, nota come l’autore sia rimasto «assai influenzato da tonalità e modi non di sua invenzione ma tipicamente russi e slavi, cioè non del tutto autenticamente “suoi” nelle aspirazio-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI»

15

ni e nella rappresentazione anche se parziale del suo essere». A proposito della raccolta Dal balcone (1968) di Sergio Solmi32 ritiene Meno felici le poesie dedicate a tematiche cosiddette attuali, come quelle intitolate La scuola serale, L’astronauta: lì il discorso si fa più banale, come se l’autore, portato soprattutto a esprimere una sua vita interiore molto complessa e quasi incomunicabile, facesse artificiosamente sforzo su se stesso per ravvicinarsi ai tempi d’oggi, più estroversi e polemici. Troviamo non necessario questo sforzo nel caso di Solmi, ché rimane valido e attualissimo il suo canto chiuso ed esitante, e s’impoverisce il suo nostalgico creare, se forzato in direzioni a lui in fondo poco congeniali. [...] Forse con più coraggio l’autore dovrebbe essere se stesso.

Piuttosto sferzante è il giudizio sul libro Cambio di moneta di Folco Portinari:33 «La lingua è scettica, e a volte cinica, un poco goliardica: ciò toglie ad un protestare del resto più che legittimo qualità di vissuto e di necessario». Il monito a essere se stessi, a coltivare con rigore la propria ispirazione riecheggia forte in altri interventi. In primo luogo nell’efficace dichiarazione di poetica pubblicata sulla “Fiera Letteraria”:34 Raramente si sa che lo scrittore, e soprattutto il poeta, ha scopi ben precisi nello scrivere in un modo piuttosto che in un altro, e che questo suo stile, questo suo essere apparentemente soltanto se stesso, o tutto “natura”, è frutto di lunghi ragionamenti, di ricerche, di ideali covati a volte per anni, che in fine a volte si realizzano sì tramite “l’ispirazione” e l’inattesa illuminazione o sintesi, ma anche perché molto chiaramente l’autore se ne era consciamente e inconsciamente prefisso l’intenzione, la forma, lo scopo.

Parlando di Documento si dichiara soddisfatta perché «ho preso cura di non includere nel libro le poesie delle quali non ero pienamente certa, dove potesse mancare l’autenticità dell’ispirazione e dello slancio». Nel «rigoroso interrogarsi»35 della Rosselli sulla scrittura propria e altrui il richiamo all’autenticità, di per sé non inedito, colpisce per sistematicità e ricorrenza. Sono osservazioni da leggere tenendo presente l’oltranza con cui la Rosselli ha vissuto il suo essere poeta. Forte e suggestiva, a questo riguardo, una dichiarazione rilasciata in una intervista a Francesca Borrelli: «Per me scrivere serve, in un certo senso, a portare nuova ricchezza alla mia e alla altrui interiorità: sta anche in questo la valenza etica della poesia».36 In più il richiamo all’autenticità non si esaurisce in un semplice appello a un’intensità emotiva e sentimentale, ma si accompagna a un senso forte della progettualità della scrittura. In uno scritto più occasionale, in cui le viene chiesto un parere sulle prospettive della poesia negli anni ottanta,37 la Rosselli suggerisce ai giovani la sua linea di condotta:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

16

FRANCESCA CAPUTO

Io personalmente preferirei che i giovani aspettassero di avere qualcosa da dire nel senso proprio dei “valori qualitativi”, e che cioè pubblicassero meno spesso, meno presto, e attendessero l’esperienza approfondita prima di pubblicare brevi libri, parziali.

Questa insofferenza per il libro parziale e approssimativo, assemblato solo per ragioni editoriali, incapace di trasmettere a chi lo legge un senso pieno, risuona anche nella recensione a Benzina di Gregory Corso38 («Che sia “il più grande poeta d’America” così come ce lo propongono Allen Ginsberg e l’editore Guanda potrebbe convincere se il testo fosse più lungo, e denso di proposte non certamente diagnosticabili in settanta pagine»), così come in quella alla raccolta di racconti Johnny 23, di Burroughs39 («Alcuni diversi stili rintracciabili in questi racconti [...] fanno supporre che il libro sia stato messo su alla meglio semplicemente raccogliendo fogli sparsi o scritti in diversi periodi, in un unico libro non uniformemente impostato»). L’attenzione alla struttura, all’articolazione ricca e rigorosa di un libro è espressione diretta dell’inclinazione “poematica” della Rosselli, che costruisce i suoi testi con estrema consapevolezza, lasciandoli anche attendere a lungo prima della stampa (le discrepanze fra le date di stesura dei testi e di pubblicazione delle raccolte lo testimoniano). Strettamente legata al motivo dell’autenticità è la polemica contro, potremmo dire, un automatismo avanguardista, contro la ricezione impoverita e meccanica dell’arte di avanguardia. La presa di coscienza di una dimensione provinciale del contesto culturale italiano non deve indurre a un’assunzione indiscriminata di formule contenutistico-formali, che prescindano dalle reali esperienze di vita e di cultura del singolo autore. Il rischio altrimenti è accentuare quegli stessi difetti che si vorrebbero cancellare. Emblematico al proposito l’intervento L’accusa di provincialismo turba troppo gli italiani,40 sollecitato dalla raccolta Panglosse di Giuseppe Guglielmi: Più “provinciale” ancora che non quello che generalmente viene in tal modo definito ci sembra questo reperire idee e trovate originariamente nuovissime, e imitarle senza un coerente autointerrogarsi circa i nostri propri fini artistici, i nostri debiti con la società in cui viviamo, le nostre proprie caratteristiche sia culturali sia razziali.

E venendo più specificatamente a parlare dell’autore scrive:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI»

17

Noi crediamo che però Giuseppe Guglielmi [...] abbia talento da vendere [...] ma soltanto raramente nel suo libro ritroviamo [...] un rigoroso interrogarsi, interrogare perfino i propri strumenti di lavoro, un nostro distinguerci dai testi-base che tanta parte ebbero nella nostra formazione culturale [...] siamo convinti che l’autore avrebbe potuto e ancora potrebbe dare molto di sé non solo alla letteratura italiana ma anche a quella mondiale, se con più modesta e sagace mano, con meno precipitosa ansia di uscire dalla solitudine culturale in cui l’Italia si trovò per tanti anni, avesse guardato in se stesso e attorno. [...] vorremmo sperare e suggerire un più cauto e allo stesso tempo più avventuroso assimilare di culture straniere, e un più coraggioso staccarsi da esempi che non necessariamente corrispondono anche strutturalmente ai bisogni di oggi e del futuro.

Efficace l’accostamento ossimorico «cauto/avventuroso», a sottolineare l’esigenza, che è stata sempre della scrittrice, di percorrere strade personali e non tracciate prima, di non accontentarsi di consueti itinerari turistici, seppur esotici. Peraltro l’atteggiamento della Rosselli nei confronti della neoavanguardia, degli esponenti del Gruppo 63 è di moderata apertura e tiepido interesse. A proposito degli incontri del Gruppo 63, raccontava a Renato Minore in un’intervista:41 Stavo a sentire, tutto quel chiacchiericcio critico era un po’ pesante. Scoprivano Pound, Joyce e tanti altri che io avevo letto mille volte, che io avevo scoperto tanti anni prima, per via della mia formazione non italiana.

Nonostante le perplessità letterarie la Rosselli riconosce la capacità di aggregazione – di contro al tradizionale isolamento dello scrittore in Italia – e la conseguente efficacia delle strategie messe in atto dal Gruppo per acquisire visibilità e ottenere una «penetrazione culturale tramite traduzioni e impegni culturali non soltanto letterari»;42 non tace però il fatto che «molta dell’azione predisposta dal Gruppo sia sfociata in nuove burocratizzazioni del potere letterario».43 Il poeta più apprezzato è Antonio Porta «per la sua astrazione elegante». Stima peraltro che non la esime da esprimere riserve su Metropolis,44 così come dall’avanzare una serrata critica all’antologia Poeti ispano-americani contemporanei45 da lui curata insieme a Marcello Ravoni per Feltrinelli. Duro l’avvio: «Brutta l’abitudine da parte dei compilatori e redattori di antologie di pensare più ai fatti propri che non a quelli degli scrittori “acclusi” nelle antologie stesse». La selezione dei poeti, secondo la Rosselli, è stata condotta prevalentemente «per rafforzare le correnti letterarie di cui fanno parte in Italia» i curatori. «Si ammette di avere escluso certi poeti in quanto non veramente “di avanguardia”, come se,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

18

FRANCESCA CAPUTO

poi, la parola “avanguardia” avesse identico significato in ogni paese, in ogni epoca, in ogni “reame” letterario». Nello stesso articolo echeggia l’insofferenza nei confronti di una prassi critica volta a catalogare i poeti «alla svelta in scuole e correnti, tanto per essere sicuri di capirli meglio a lettura avvenuta». Emerge qui un altro motivo particolarmente caro alla Rosselli che pur sottolineando l’importante funzione divulgativo-informativa delle antologie poetiche, ricorda come mai sia riconoscibile «la significatività reale d’un poeta nelle antologie». Né antologie, né gruppi dunque incontrano il suo incondizionato favore. Interlocutorio ad esempio è l’interesse per l’«urgente e chiassosa scuola beat» – definita così nel testo della prima trasmissione radiofonica dedicata alla Poesia d’élite nell’America d’oggi – ed è percepibile un certo fastidio per la bagarre pubblicitario-editoriale che in Italia si sviluppa intorno al movimento. In realtà la sua attenzione critica e maggior sintonia sono rivolte soprattutto a «forti, solitarie personalità». In ambito americano, in particolare, John Berryman e Sylvia Plath: a entrambi dedica una puntata della trasmissione radiofonica, a Berryman46 due recensioni,47 a Sylvia Plath – di cui traduce anche testi poetici –48 un ampio saggio in risposta a un intervento di Rossana Rossanda.49 In ambito italiano sono oggetto di attente analisi in primo luogo Sandro Penna,50 che percorre un itinerario di scrittura originalmente tradizionale, all’insegna di una inimitabile limpidezza narrativa, e Lorenzo Calogero, «poeta antico-moderno»,51 accesamente metaforico. Non può non colpire il destino di morte per suicidio che, a eccezione di Penna, li accomuna alla stessa Rosselli: «Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi».52 Un’idea di poesia come esperienza totalizzante ed euristica, un attingere nel profondo al senso delle cose,53 in cui per la Rosselli l’eccezionalità della tensione esistenziale si coniuga all’originalità espressiva. Un’eccezionalità, una ricchezza culturale che per la Rosselli non comporta privilegi, né la induce a collocare l’artista su un piano di superiorità. A fianco di accese affermazioni sull’esclusività del fare poetico, altri interventi danno di scrittori e intellettuali un’immagine concreta e antielitaria: secondo una prospettiva d’impronta marxista, situano lo scrittore all’interno dei meccanismi produttivi dell’industria culturale, lo vedono come un lavoratore, parte di una realtà articolata e complessa in cui la vera struttura portante, la “base”, sono «tipografi; impiegati di case editrici; tagliaboschi per il ricavarsi di carta; operai in fabbriche di carta».54 In questi testi la Rosselli, prevalentemente in un’ottica economica non immune da qualche rigidità, ragiona anche di

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI»

19

problemi specifici legati alle figure professionali del traduttore e dello sceneggiatore (retribuzioni; necessità di organizzarsi in categoria o in cooperative di registi, sceneggiatori, tecnici; questione dei ghostwriters e dei traduttori non professionisti), così come sulla funzione e ordinamento interno del Sindacato Scrittori. La sua analisi procede con un’argomentazione serrata, spesso scandita per punti, dal piglio critico e duro, ma sempre contraddistinta da un’intenzione costruttiva. All’indagine sui “produttori”, la Rosselli affianca, in rapide ma ricorrenti considerazioni negli scritti critici o nelle interviste rilasciate, una riflessione sui destinatari della letteratura, da cui emerge un’idea di pubblico come mondo di lettori articolato su più livelli, e un’idea del “suo” pubblico, dei propri interlocutori ideali. All’insieme ristretto di «tecnici dell’espressione»,55 indirizzandosi esclusivamente ai quali lo scrittore rischia di chiudersi in una claustrofobica autoreferenzialità,56 la Rosselli contrappone una fascia stabile e forte di lettori, un pubblico medio, a cui auspica siano rivolti e giungano i prodotti artistici. Contemporaneamente però non si esime dall’esprimere forti riserve nei confronti dei gusti prevalenti di questo destinatario medio (necessariamente privilegiato in una società borghese di massa), che le paiono stereotipati e inautentici, tali da favorire opere di scarsa forza espressiva e originalità inventiva. Queste riserve sono tutt’uno con la critica rivolta al sistema editoriale che consolida quei gusti. Nei suoi scritti non mancano infatti appunti polemici indirizzati agli autori che troppo assecondano le esigenze del mercato: «il linguaggio [di Philip Roth] [...] a furia di ricerca del tono giusto per la vendita in forma di best seller, è di molto scaduto»;57 «E invece il romanzo Il gioco favorito, benché dedicato a un pubblico medio, ha i difetti sia del romanzo d’aspirazioni strettamente letterarie, sia di quello più commerciale».58 Ma nelle considerazioni della Rosselli si profila anche l’immagine di una terza fascia di pubblico, più larga, “di massa”, meno attrezzata, ancora troppo poco inserita nei meccanismi della circolazione letteraria, però importante, per ragioni culturali e insieme etico-politiche: Sappiamo tutti che oggi la letteratura non appartiene più soltanto alla borghesia o all’aristocrazia. Appartiene ai ceti medi e alle masse. Anche per la poesia si può dire la stessa cosa. E quindi il poeta deve fare i conti col pubblico che desidera avere. A meno che non si voglia ritornare ad arroccarsi sulla torre d’avorio, a scrivere per pochi principotti, per una borghesia compiaciu59 ta e schiavista. Ma ancora non c’è una grande divulgazione letteraria.

Nelle dichiarazioni esplicite della Rosselli sul suo fare poetico si può notare un cambiamento nel modo di considerare la rilevanza del

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

20

FRANCESCA CAPUTO

pubblico e la fisionomia dei lettori ideali. Si tratta di un percorso che prende il via da un’iniziale concezione molto “solitaria”: la poesia è scritta «per me sola»,60 per gli amici, per pochi «introversi» o per un pubblico solo immaginato: Per amare la poesia bisogna essere degli introversi, persone lontane dai gusti mondani e queste persone non sono mai molte. Se il pubblico è più vasto vuol dire che la poesia è andata incontro ai suoi gusti. È pericoloso pensare a un pubblico in carne e ossa: il pubblico del poeta è immaginario, vive nel suo im61 maginario.

In seguito però il destinatario della parola poetica assume una fisionomia più reale e diventa sempre più esplicita la tensione comunicativa della poesia, connessa alla funzione etica, di ricerca di verità. E non è certo estranea a questa svolta anche la stagione delle letture in pubblico a cui la Rosselli prende parte attiva e sulle quali riflette in più occasioni:62 La poesia sempre presuppone un interlocutore, anzi devo dire che qualche volta te lo vedi davanti agli occhi. In certi casi immagini il pubblico che vorresti, il pubblico che corrisponde alla qualità che stai cercando, al livello di comunicazione che vuoi raggiungere […] però non vorrei che il pubblico pensasse troppo al lato tecnico: considero un difetto cadere nell’incomprensibi63 lità, sia tecnica che contenutistica.

L’obiettivo della comunicazione si associa a quello del farsi interprete di emozioni e idee anche degli altri: Una volta, sbagliando, amavo usare un gergo per le persone istruite che avevano interesse per l’arte. Ora sto cercando, e lo dico esplicitamente, di tradurre quello che non può essere detto dall’illetterato, che possa essere letto dal non-scrittore, o dal facchino che non ha neanche il tempo di leggere il giornale. Sto cercando di tradurre certe sensazioni-pensieri in termini usuali, medi; più semplifico la mia lingua e più sono contenta. È molto difficile essere semplici in poesia. Non per questo credo di dover offrire per forza la mia poesia all’operaio.

Inoltre la Rosselli sembra prestare una nuova attenzione alla cooperazione e al coinvolgimento del pubblico: così come lei cerca «di sciogliere dei nodi che mi sono posta ascoltando chi mi sta attorno»64 («È poesia secondo me riuscire a trasmettere questa esperienza del reale collettivo»),65 a sua volta il lettore si fa interprete della parola del poeta, riveste un ruolo attivo, esercita la sua facoltà ermeneutica:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI»

21

Spesso accade che il pubblico capisca cose che io non credevo di esprimere. Io non obbligo il lettore a interpretare a mio modo le poesie, bensì vorrei sapere come le interpreta. Quando si fanno letture in pubblico, e ultimamente spesso, le reazioni psicologiche si percepiscono poco, solo qualche volta. Udire le reazioni del pubblico, sia psicologiche che emotive, è per me una forma di istruzione: è importante sapere cosa è reso chiaro, cosa pensa il pubblico. Non che io 66 mi debba fare servo del pubblico, ma non scrivo certo per non avere responso.

Sono dichiarazioni che sottolineano un forte senso della socialità, la condivisione, pur nella sua radicale diversità, dell’esperienza con gli altri: è sì la sua una voce solitaria, che rende una «testimonianza individuale»67 ma insieme si propone di «toccare gli altri»: L’esperienza è unica perché è anche di altre persone, non considero un individuo un isolato. Basta cercare la parola che esprima gli altri. Questo è un grosso problema: cos’è un poeta che tocca gli altri? È un poeta che esprime 68 anche gli altri.

1 «Ma la logica è il cibo degli artisti», intervista a cura di Paola Zacometti, in “Il Giornale di Napoli”, 12 maggio 1990. 2 In una lettera del 18 luglio 1946 indirizzata alla madre Marion, il fratello maggiore John Rosselli, commentando la necessità (e le difficoltà) dei continui spostamenti per la sorella (come di tutta la famiglia) scrive: «Questo essere “cittadini del mondo” è una gran bella cosa in teoria». Le carte di Amelia Rosselli sono conservate presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, che ne gestisce l’eredità letteraria. Il carteggio (prevalentemente lettere di e alla madre, di e al fratello John, dal 1946 al 1996), i materiali della sua attività, la corrispondenza editoriale, i libri delle sue raccolte poetiche (alcuni con sottolineature e qualche postilla autografa), sono stati donati in due fasi successive. Una prima, viva ancora Amelia Rosselli, nel settembre del 1989; il resto delle carte, per volontà dei familiari, subito dopo la morte. Si tratta di un ricco e vario corpus di dattiloscritti, fotocopie, ritagli di giornale, disegni e altri documenti (agende, fotografie...), giunto a Pavia in una trentina di cartellette, la maggior parte delle quali riportano brevi indicazioni stilate dalla stessa Rosselli. 3 Incontro con Amelia Rosselli, intervista a cura di Marina Camboni, in “DWF”, 29/1 (1996), gennaio-marzo (l’intervista è del 1981), p. 75. 4 I dubbi, le possibilità, le incertezze su dove completare la sua istruzione superiore, una volta ritornata in Italia nel 1946, sono testimoniati dalle lettere della madre Marion al figlio maggiore John, di John alla madre, di Amelia al fratello e viceversa. Il 29 agosto 1946 Amelia scrive a John che preferirebbe studiare e vivere in Inghilterra, ma suppone che questa scelta non sarebbe né «practical» né «cheap». Il fratello, in data 5 settembre 1946, dall’Inghilterra, scrivendo alla madre a proposito «dell’affare della scuola di Melina», vede la questione connessa al «solito problema di dove domiciliarsi definitivamente» e pensa che al momento sarebbe meglio per la sorella frequentare l’università in Italia. La madre invece comunicherà al figlio la sua decisione su Amelia con una lettera del 15 settembre 1946. Pur soffrendo per il distacco, intende mandarla in In-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

22

FRANCESCA CAPUTO

ghilterra: «Melina ha fatto enormi progressi da qualche tempo. Somiglia di più al babbo, s’interessa di tutto, mi aiuta molto. Mi fa pena separarmi da lei quando mi è diventata tanto una compagna vera. Ma sono sicura che è per il suo bene». 5 Sull’impostazione dell’insegnamento della letteratura alla Saint Paul’s School for Girls si veda EMMANUELA TANDELLO, Alle fonti del lapsus: pun, portmanteau, wordscape. Appunti sull’inglese letterario di Amelia Rosselli, in “Trasparenze”, 17-19 (2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto ed Emmanuela Tandello, pp. 180-181. 6 Sui nessi fra la poetica della Rosselli e l’avanguardia musicale postweberiana da lei frequentata a Darmstadt si veda PAOLO CAIROLI, Spazio metrico e serialismo musicale. L’azione dell’avanguardia postweberiana sulle concezioni poetiche di Amelia Rosselli, ibi, pp. 289-300. 7 Partitura in versi, intervista a cura di Francesca Borrelli, in “il manifesto”, 14 maggio 1992, cfr. qui p. 308. 8 Cuore, maestro di poesia, intervista a cura di Adele Cambria, in “Quotidiano Donna”, 20 marzo 1981. 9 BIANCAMARIA FRABOTTA, Una lettura di Documento, in Amelia Rosselli. Un’apolide alla ricerca del linguaggio universale, atti della giornata di studio (Firenze, Gabinetto Vieusseux, 29 maggio 1998), a cura di Stefano Giovannuzzi, in “Quaderni del Circolo Rosselli”, 17 (1999), p. 19. 10 Quando la vita cammina in versi, intervista a cura di Vilma Costantini, in “Wimbledon”, I (1990), 9, dicembre, pp. 40 e 43. 11 «Non di rado le opere restano pressoché invariate negli anni, mutano però di significato in rapporto stretto con la vicenda esistenziale dell’autrice e si ridislocano continuamente all’interno della galassia Rosselli: l’esito non coincide mai con quello che avrebbe dovuto, o potuto, essere nel progetto iniziale, tantomeno si sovrappone senza suscitare perplessità a una qualunque delle tappe precedenti. [...] Per la Rosselli così lunghi periodi di latenza non rappresentano niente di anomalo, ma in questo limbo la traiettoria delle singole opere si interseca creando un imprevedibile e mutevolissimo dedalo», STEFANO GIOVANNUZZI, La libellula: Amelia Rosselli e il poemetto, in Amelia Rosselli. Un’apolide..., pp. 45-46. 12 AMELIA ROSSELLI, Curriculum I, cfr. qui p. 281. 13 Non mi chiedete troppo, mi sono perduta in un bosco, intervista a cura di Sandra Petrignani, in “Il Messaggero”, 23 giugno 1978, cfr. qui p. 290. 14 Alcuni di questi, secondo una prassi già riscontrata per le raccolte poetiche, risultano concepiti e stesi molto prima della loro effettiva pubblicazione: è il caso dello scritto sugli autori di sceneggiature, degli anni settanta, pubblicato su “Autografo” nel 1990 o di quello sul Movimento Studentesco, pubblicato quasi dieci anni dopo la sua prima ideazione: una voce che con effetti quasi stranianti, a maggior ragione se ascoltata oggi, riemerge a distanza per restituire l’istantanea di una stagione politico-culturale. 15 Al fratello John, in una lettera da Roma, datata 1° gennaio 1967, la Rosselli racconta che Emilio Lussu aveva disapprovato la sua scelta di scrivere per l’“Avanti!”, «giornale di destra». E commenta «but I personally think that as long as I don’t write on fascist papers, literary subjects can be affrontati on any paper: especially as I tend to give them left-wing substance». 16 Il 19 marzo 1975, da Roma, al fratello John comunica che scriverà per “La Stampa” «about anglo-saxon literature (I don’t know whether only modern or also classical), with excellent pay» (si dice infatti stanca di essere «used and badly payed by left-wing papers»). In una lettera successiva, del 16 agosto 1975, precisa i termini effettivi della sua collaborazione: «The “Stampa” job turned out to be critical work not on anglosaxon literature, but on recent translations of literary and sociological works from En-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

«CERCARE LA PAROLA CHE ESPRIMA GLI ALTRI»

23

glish. The job is quite interesting and easy: they ask only one page and a half per article (two a month circa), and will pay about 60 000 an article!» 17 AMELIA ROSSELLI, Ha ottenuto un secolo dopo la fama che meritava, in “Paese Sera”, 1° ottobre 1978, cfr. qui p. 221. 18 EAD., Una recita all’aperto di Virginia Woolf, in “Paese Sera”, 29 ottobre 1978, cfr. qui p. 225. 19 EAD., Joyce giovane poeta musicale, in “Paese Sera”, 12 novembre 1978, cfr. qui p. 174. 20 EAD., Forse il primo poeta d’America, in “l’Unità”, 5 luglio 1969, cfr. qui p. 136. 21 EAD., Amore e nostalgia del mondo contadino, in “Paese Sera”, 28 gennaio 1968, cfr. qui pp. 131-133. 22 EAD., Poeti d’avanguardia ispano-americani, in “l’Unità”, 27 giugno 1970, cfr. qui p. 140. 23 EAD., Alfred Jarry. Uno sfrenato supermaschio, in “Paese Sera”, 14 luglio 1967, cfr. qui pp. 192-193. 24 EAD., Joyce giovane poeta..., cfr. qui p. 174. 25 EAD., Sandro Penna, in “l’Unità”, 1° luglio 1970 (cfr. qui pp. 93-96), poi, col titolo Per Sandro Penna, in “Nuovi Argomenti”, n.s., 20 (1970), ottobre-dicembre, pp. 247250: è una densa recensione a SANDRO PENNA, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970. 26 EAD., L’accusa di provincialismo turba troppo gli italiani, in “Paese Sera”, 1° settembre 1967, cfr. qui p. 80. 27 EAD., La fatica di essere autentico, in “Avanti!”, 4 dicembre 1966, cfr. qui p. 129. 28 EAD., Poeti d’avanguardia..., cfr. qui p. 140. 29 EAD., Ha ottenuto un secolo dopo..., cfr. qui p. 221. 30 Così ALFONSO BERARDINELLI, Prefazione a AMELIA ROSSELLI, Diario ottuso 19541968, Empiria, Roma 1996, p. 7. 31 AMELIA ROSSELLI, Resiste agli esperimenti dell’avanguardia, in “Paese Sera”, 15 settembre 1967, cfr. qui pp. 81-83. 32 EAD., “Dal balcone” e “L’angelo attento”, in “Paese Sera”, 28 aprile 1968, cfr. qui pp. 89-90. 33 EAD., “Cara Milano” e poesie per Pavese, in “Paese Sera”, 31 marzo 1968, cfr. qui p. 86. 34 EAD., Alla ricerca dell’adolescenza, in “La Fiera Letteraria”, 25 luglio 1968, cfr. qui p. 283. 35 EAD., L’accusa di provincialismo..., cfr. qui p. 80. 36 EAD., Partitura in versi, cfr. qui p. 307. 37 EAD., Non avere fretta, in “L’Ora”, 13 marzo 1980, cfr. qui p. 257. 38 EAD., Gregory il beat, in “La Stampa”, 13 maggio 1976, cfr. qui p. 167. 39 EAD., Gli sberleffi di Burroughs, in “La Stampa”, 15 agosto 1975, cfr. qui p. 213. 40 EAD., L’accusa di provincialismo..., cfr. qui p. 79. 41 Il dolore in una stanza, intervista a cura di Renato Minore, in “Il Messaggero”, 2 febbraio 1984. 42 AMELIA ROSSELLI, Sindacato Scrittori?, in “Nuovi Argomenti”, n.s., 16 (1969), ottobre-dicembre, pp. 223-226, cfr. qui p. 247. 43 Ibidem. 44 EAD., “Metropolis” di Porta, in “Rinascita”, 4 giugno 1971, cfr. qui pp. 97-98. Sul rapporto Porta-Rosselli, proprio prendendo lo spunto dalla recensione al volume Metropolis, si veda l’acuto intervento di NIVA LORENZINI, Amelia Rosselli e Antonio Porta: in margine a una recensione, in “Galleria”, XXXXVIII (1997), 1-2, gennaio-agosto, pp. 25-30. 45 AMELIA ROSSELLI, Poeti d’avanguardia..., cfr. qui p. 139. 46 Di lui disse che non gli erano appropriate le definizioni né di “ortodosso”, né “d’avanguardia”, «e questo perché operò isolatamente al di fuori delle correnti e scuole; a lui invece meglio s’attribuiscono le parole genialità, innovazione, sperimento», EAD., Poesia d’élite nell’America d’oggi, cfr. qui pp. 149-150.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

24

FRANCESCA CAPUTO

47 EAD., Forse il primo poeta..., cfr. qui pp. 135-136; EAD., Canti onirici d’un poeta suicida, in “Paese Sera”, 30 aprile 1978, cfr. qui pp. 169-170. 48 SYLVIA PLATH, Le muse inquietanti e altre poesie, a cura di Gabriella Morisco, traduzioni di Gabriella Morisco e Amelia Rosselli, Mondadori, Milano 1985. 49 AMELIA ROSSELLI, Istinto di morte e istinto di piacere (Risposta a Rossanda), in “Nuovi Argomenti”, n.s., 67-68 (1980), luglio-dicembre, pp. 175-180; intervento replicato con aggiunte e col titolo modificato Istinto di morte e istinto di piacere in Sylvia Plath, in “Poesia”, IV (1991), 44, ottobre, pp. 2-12, cfr. qui pp. 175-180. 50 EAD., Sandro Penna, cfr. qui pp. 93-96. 51 EAD., Un’opera inedita di Calogero e la sua corrispondenza letteraria, in “I Quaderni del Battello Ebbro”, II (1989), 2, aprile, pp. 31-42, cfr. qui p. 121. 52 Non mi chiedete troppo…, cfr. qui p. 290. 53 «La poesia ha fondamentalmente la pretesa della verità, e la puoi dire nel modo più bello. La poesia cerca la bellezza e la verità», Colloquio con Amelia Rosselli, intervista a cura di Cristiana Fischer, in “Azimut”, 21-22 (1986), p. 112. 54 AMELIA ROSSELLI, Sindacato Scrittori?, cfr. qui p. 249. 55 «A un pubblico medio però queste due ultime parti diranno ben poco, e infatti per impazienza è facile che le buttino nel cestino: l’autocritica a se stesso Porta la fa per i pochi amici, e i tecnici (cosiddetti) dell’espressione», EAD., “Metropolis” di Porta, cfr. qui p. 98; «Il problema del pubblico in Italia è grande: le masse non sono comprese dagli intellettuali, non le serviamo, la letteratura resta ancora un affare da persone colte, non esistono davvero romanzi leggibili da tutti. La società non sembra permettere un discorso più ampio; la poesia è considerata ancora un inutile passatempo: nella società italiana lo scrittore non ha senso, il suo titolo e il suo ruolo sociale non è riconosciuto, di conseguenza la scrittura non ha un reale contatto con la popolazione», Amelia Rosselli: poesia non necessariamente ascientifica, intervista a cura di Ambrogio Dolce, in “Idea”, XLIV (1988), 1-2, gennaio-febbraio, p. 45. 56 «Tra i Canti onirici e altre poesie vi sono capolavori linguistici ma il metodo metà eliotiano metà joyciano di esposizione, con tocchi beat ci fa pensare che l’eccesso d’introversione del poeta abbia il grosso difetto di rendersi inintellegibile al pubblico non soltanto medio», EAD., Canti onirici..., cfr. qui p. 169). 57 EAD., Sesso, ebraicità e disperazione, in “Paese Sera”, 15 ottobre 1978, cfr. qui p. 223. 58 EAD., Se il cantautore scrive, in “La Stampa”, 13 giugno 1975, cfr. qui p. 211. 59 La città come una noce protettiva, intervista a cura di Laura Detti, in “l’Unità”, 27 giugno 1993. 60 «Solo una volta mi è capitato di scrivere soltanto per me stessa e ho realizzato un poemetto brevissimo [La libellula] che è, ed è un difetto, aristocratico», nel volume miscellaneo Il poeta e la poesia, a cura di Nicola Merola, Liguori, Napoli 1986, p. 164. 61 Non mi chiedete troppo.., cfr. qui pp. 290-291. 62 Si vedano ad esempio gli interventi AMELIA ROSSELLI, Si fa spesso spettacolo del poeta, ci si dimentica però della poesia, in “Corriere della Sera”, 6 aprile 1983, cfr. qui p. 263 e EAD., Incontro di poesia a Roma, in “Tabella di marcia”, II (1981), 1, gennaio, pp. 229233, cfr. qui pp. 259-262. 63 Incontro con Amelia Rosselli, pp. 78-79. 64 Il poeta e la poesia, p. 166. 65 È possibile far poesia al femminile?, intervista a cura di Aurelio Andreoli, in “Paese Sera”, 28 agosto 1980. 66 Incontro con Amelia Rosselli, pp. 82 e 80. 67 AMELIA ROSSELLI, Non avere fretta, cfr. qui p. 257. 68 Incontro con Amelia Rosselli, p. 81.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

ARMONIA DI GRAVITAZIONE

L’opuscolo Armonia di gravitazione di Roberto Lupi (Edizioni De Santis, Roma 1946) suggerisce alcune riflessioni sul rinnovato interesse che si nota fra i competenti di musica a proposito delle scale naturali. È accennato in quest’opuscolo che le scale naturali e i loro rapporti verticali sono da ricercare non solo nell’arte, ma anche nella teoria musicale, universalizzando la materia nuova attraverso studi esatti di psicologia e acustica musicale. Alfredo Casella conferma tale necessità nella sua prefazione all’opuscolo: L’evoluzione dell’ultimo mezzo secolo ha determinato a poco a poco il crollo di quel sistema armonico che aveva sorretto la nostra arte per quattro secoli e che oggi appare irrimediabilmente superato.

Se nel comporre abbiamo infatti scartato le possibilità musicali delle sonorità dette “tradizionali” forse l’orecchio umano intuisce elementi musicali nuovi, cioè non derivanti solamente da una tecnica in parte artificiosa in quanto determinata da fattori diversi da quelli naturali e acustici. Pertanto lo studio delle scale naturali non è ancora approfondito e chiarificato; ancora non sono stati intraveduti i loro rapporti armonici più complessi. Gli strumenti attuali non possono esprimere questa specie di “alone” acustico ancora sconosciuto che ricerchiamo, ma nel comporre spesso lo si sostituisce con intuizioni parziali; si pensi ad esempio all’uso delle scale modali o primitive nella musica di Béla Bartók. Nella teoria invece possiamo in un primo momento accettare un insieme di principi stilistici solamente come conseguenza di uno sviluppo storico (per esempio teoria dodecafonica); più tardi cercheremo però di liberarcene quando essi si dimostrino incapaci di corrispondere alle nostre esigenze creative e pratiche. In questo senso ormai la quiete di una legittima ignoranza non ci è più permessa nei riguardi della teoria acustica musicale; in questo campo le nozioni più o meno sporadiche, senza concatenamento, dimostrano la loro insufficienza proprio attraverso questo «crollo del sistema armonico». A questo proposito il lavoro di Lupi richiede una critica dettagliata più che altro per il valore delle sue intenzioni. Sembra però che la

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

28

teoria di gravitazione stessa sia in gran parte prematura – formulata attraverso un troppo rapido passaggio dall’approfondimento teorico a quello pratico. Sembra che occorra invece collegare questo singolo elemento acustico della gravitazione, del centro tonale, con altri già stabiliti, nella speranza che a poco a poco sia possibile formare una specie di sintesi, come lo è stata, per esempio, il concretarsi della scala temperata nel Seicento. Per questo collegamento – e per uno studio comparato in rapporto alla teoria di gravitazione – sono da vedere principalmente le opere teoriche di Hindemith (The Craft of Musical Composition, Schott and Co., Londra, vol. 1) insieme a quelli della scuola dodecafonica (di Krˇenek, Schöenberg, Leibowitz). Il legame fra scienziato e compositore non sembra, come molti musicisti vorrebbero farci credere, del tutto disprezzabile. In questo senso Lupi scrive che nel comporre il solo alone di DO, con i tre accordi costituiti dagli armonici, è a nostra disposizione, e la rete armonica della nostra immaginazione non può essere fatta di altro materiale, all’infuori di questo.

Esatte sembrano anche queste due sue affermazioni: bisogna dunque trovare altri aloni che siano, o che possano esser messi in relazione con questo DO, e non già per mezzo di artefici, ma solamente per questa via naturale della posizione degli armonici. Questa nota, col suo alone, deve diventare il centro focale della nuova armonia. Quindi tale nota la chiameremo nota attrattiva, o nota tonale.

Però questa richiede discussione: passeremo ora a un altro ordine di considerazioni e precisamente a quelle che possono essere fatte sul movimento degli accordi. E per continuare nel raffronto con le sfere celesti, diremo che la cadenza è da intendersi come un aggirarsi di corpi armonici sempre nella stessa atmosfera, cioè nel mondo armonico di una stessa nota attrattiva o nota tonale, mentre la modulazione è la spinta centrifuga che li fa passare in altra atmosfera.

Non pare possibile, a questo punto dello studio, parlare di «come cadenzare e come modulare» nell’atmosfera degli armonici, oppure di come «muovere i primi passi nella composizione». Questo non solo per mancanza di una reale e completa comprensione degli elementi acustici, ma semplicemente perché le parole “modulazione”, “compo-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

29

sizione” hanno in questo caso un senso talmente derivato che è poco comprensibile la loro presenza in uno studio che tenda all’esattezza scientifica. Anche notando che nella teoria di gravitazione le definizioni di “cadenza” e “modulazione” non sono strettamente tradizionali, è però difficile intendere il senso e l’idea di movimento solamente in connessione agli accordi e al concetto di “risoluzione” statica (cadenza) e “spinta” dinamica (modulazione). Anche per ciò che riguarda i brani musicali basati sulla teoria di gravitazione e chiamati «all’antica, partimento, avvertendo tuttavia che il modo di trattarli è il più moderno che oggi possa essere concepito» è difficile giustificare non solo il loro criterio complessivo, cioè l’uso della cadenza e della modulazione, ma anche il metodo seguito nella realizzazione degli accordi. Oppure se Lupi ha intenzioni di chiarificare solamente certe possibilità latenti della teoria di gravitazione, sarebbe preferibile metterle in rapporto a uno stato naturale e non inquadrarle attraverso procedimenti sorti da una impostazione musicale diversa. Ammesso che esistano, come afferma Lupi, rapporti di più o meno tensione fra certe note, questi rapporti non sono però i soli che possano essere colti dal mezzo sonoro. Il concetto di attrazione del centro tonale non può essere considerato unico e basilare nella composizione. Anche il concetto di “alone” (inteso da Lupi come sonorità realizzata verticalmente attraverso la tensione degli armonici) è derivato da metodi anteriori. Da una parte Lupi tratta gli armonici in maniera puramente teorica, ma dall’altra ammette il valore artistico di un’armonia non solo basata sul concetto di attrazione ma anche su tradizioni formali. Nella teoria è necessario approfondire un dato fenomeno fino alle sue ultime conseguenze, ma molto spesso sembra che nell’attività pratica si possa intuire e realizzare da prima le “scoperte” dei teorici. I quali partono da un dato (per esempio la superimposizione degli armonici nel formare accordi) ormai accettato inconsciamente nella composizione, e spesso già elaborato fino alla sazietà. Per questo si può dire che l’attività scientifica nella musica abbia avuto finora solo valore analitico, o di chiarificazione storica; pare chiaro infatti che queste possibilità di rapporti fra diverse atmosfere armoniche hanno, e hanno sempre avuto, funzioni sottintese nella storia della tecnica musicale. Probabilmente rappresentano le cause determinanti delle nostre usanze armoniche classiche. In questo senso potrebbe essere oggetto di studio per i musicologi il rintracciare nelle armonie di gravitazione le cause che hanno creato la pratica armonica prima di Bach, per esempio, oppure la pratica della modulazione enarmonica, o perfino del tonalismo di Debussy.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

30

AMELIA ROSSELLI

Ma per ciò che riguarda il comporre attuale, Lupi non precisa per quali ragioni si debba dare una qualità unificatrice alla teoria di gravitazione. Tale qualità non sembra giustificata dalla sola indagine scientifica, non essendo, genericamente parlando, richiesta dalla volontà creatrice e dai problemi pratici dei compositori di oggi. Sono invece richiesti elementi formali che possano contrapporsi a quelli tonali in maniera più strettamente legata alla dialettica del comporre stesso. Nel secondo capitolo dell’opuscolo, Lupi rende note alcune interessanti informazioni e opinioni riguardanti gli armonici naturali: Non sono più da calcolarsi (il settimo e nono armonico), con tutte le dissonanze, quali generatori di moto, giacché per noi questo è dato della gravitazione.

Lupi conferma quello che Schöenberg ha spesso rilevato – cioè quanto è imprecisabile la nozione della dissonanza, appunto perché essa è creata dalla più o meno sensibile percezione, o coscienza interiore, degli armonici superiori. Vedi a questo proposito Leibowitz (Schöenberg et son école, 1947): Schöenberg ne craint plus d’utiliser n’importe quelle agrégation verticale. C’est ce qu’il appelle l’emancipation de la dissonance, qui devait de son côté contribuire à la suspension du système tonale.

A differenza di altri teorici, nel discutere gli armonici inferiori, Lupi presuppone nel capovolgere gli armonici superiori un contenuto non solo ipotetico. Qui invece non si trovano conferme di questo fenomeno da parte di altri autori; pare anzi che finora ne sia stata sempre «negata o messa in dubbio l’esistenza». Molti teorici si sono limitati a esporre la vecchia teoria delle aliquote e aliquanti di Zarlino, o parlano di vibrazioni simpatiche, o suppongono l’accordo minore (colto da Lupi attraverso l’inversione degli armonici) come il rovescio del maggiore (cioè gli stessi intervalli, ma disposti dall’acuto al grave), o considerano quest’accordo semplicemente come un offuscamento di quello maggiore (Hindemith). Lupi invece deriva gli aloni naturali, intorno a cui si inquadra la sua teoria, dagli armonici di inversione come da quelli superiori? Non è chiaro come da un’unica serie di armonici sia possibile ricavare diverse combinazioni armoniche dall’alto in basso quanto dal basso in alto. Ha rispondenza nell’acustica naturale questo procedimento o è semplicemente di formulazione e origine geometrica? In questo secondo caso allora troppo impegnative le conclusioni raggiunte nello stabilire una corrispondenza fra gli aloni naturali e gli armonici di inversione.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

31

Poi, cercando di conciliare due classiche antinomie – il maggiore e il minore – Lupi scrive che nelle due triadi naturali e di inversione «gli stessi intervalli non danno però all’udito la stessa impressione». Non risulta contraddittoria la “sensazione” minore con la costruzione dell’accordo di inversione? Pare che questa sensazione sia collegata unicamente alla doppia inversione, cioè al fatto che misuriamo accordi di inversione anche dal basso in alto. O si rinnega il principio di inversione, oppure si considera l’accordo derivato come identico in struttura a quello naturale. Seguendo gli armonici inferiori di RE, per esempio, si forma la triade maggiore 6/3: sol, re, si. Seguendo quelli naturali del fondamentale DO, si forma la triade 5/3: do, sol, mi. Tutti e due gli accordi contengono, leggendo in qualsiasi direzione, una quinta giusta e una sesta maggiore. Allo stesso tempo pare che nel formare accordi si debba dare più importanza all’ordine in cui si trovano gli armonici quando sottoposti a inversione oppure a questa specie di doppia inversione. Nel passato, poca discussione è stata dedicata alla pratica del rivolto e dell’estensione degli accordi; può darsi che sorgano da queste ricerche giustificazioni diverse da quelle utilitarie ed estetiche. Sempre a proposito della formazione degli accordi Lupi scrive: E come trarre gli accordi dalle armonie di inversione? Si formano, sempre partendo dalla fondamentale 1, unendo a essa ancora dall’alto in basso il 5° e 3° armonico per la triade, il 5°, 3°, 7° per la tetriade, e il 3°, 5°, 7°, 9° per la pentriade.

«Trarre» gli accordi sembra un’espressione poco definita anche se intesa come una proposizione del tutto teorica. Ammesso che si debba continuare, in queste ricerche, a considerare gli accordi dall’alto in basso, o dal basso in alto, sembra però poco logico il seguire gli armonici dall’alto in basso e poi rimaneggiarli in modo da poter costruire una triade parallela per struttura a quella maggiore. Lupi non stabilisce se questo procedimento sommario sia reso necessario dagli armonici stessi, o da preconcetti stilistici. Invece nel loro ordine originario gli armonici inferiori formerebbero l’accordo minore 6/3, che del resto nel suo uso finora è sembrato di più larga sonorità che non l’accordo del 5/3 minore. «Trarre» gli accordi nella pratica musicale attuale si esplica in questi tre atteggiamenti: o si continua a trattare gli accordi più o meno cromaticamente in modo tradizionale, dal basso in alto, oppure si spera nell’intuizione armonica proveniente da una più profonda consa-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

32

AMELIA ROSSELLI

pevolezza e realizzazione delle scale naturali, o si “organizzano” intervallo per intervallo i valori armonici conosciuti. Questo attraverso una specie di gioco pseudorazionale che apre scarse possibilità di futuri sviluppi in quanto è poi semplice negazione armonica analoga alla disintegrazione finale delle teorie classiche. Non è che non siano stati creati alcuni capolavori provenienti da tale atteggiamento. Però si ricorderà che questi sistemi erano originariamente intrinseci all’espressione dell’opera d’arte, e che dopo sono stati divulgati per facilitare la comprensione dell’opera stessa. Per questo, quando Leibowitz parla della «prise de conscience» storica come condizione della creazione artistica, si può accertare la sua indicazione, ma nel senso, per così dire, meno commemorativo. L’ultimo capitolo dell’opuscolo di Lupi ha un interesse più immediato. Lupi dice, a proposito della scala formata dagli armonici superiori: Tale scala, come altre già in uso, si differenzia da esse per la posizione dei semitoni, si mantiene inalterata tanto in ascesa quanto in discesa, pur dando senso di completezza, ha carattere di moto per aver le sue note un carattere risolutivo tonale e modale ubbidiente a null’altro che alle leggi di gravitazione; ha in sé la sensazione di maggiore e di minore, per cui sarà chiamata scala bimodale.

La linearità risultante dagli armonici naturali sembra infatti aver «carattere prettamente di moto». Per quanto detto prima a proposito della formazione dell’accordo minore, si potrebbe mettere in dubbio il carattere modale della scala – carattere poi superfluo al principio di gravitazione stesso. Lupi continua: Se una scala non è che la rappresentazione melodica delle armonie di una tonalità, il ravvicinamento per gradi congiunti delle note delle diverse scale dell’atmosfera di DO ci darà un’altra scala (cromatica questa) di 15 suoni (pentedecafonica) che sarà la rappresentazione melodica di tutta la atmosfera di DO, e che quindi tale nota tonale il DO; dunque una scala cromatica tonale (cromatismo tonale).

Sono da confrontare fra di loro le varie scale di questo genere esaminate dagli specialisti di acustica. Essendo queste “naturali” sono tutte formate mediante la serie degli armonici superiori. Non sono però discussi gli armonici inferiori né i possibili gradi di tensione esistente fra le loro armonie; la scala si forma attraverso l’esatta misura-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

33

zione dei rapporti fra le vibrazioni degli armonici non somiglianti. Risultano due specie di toni, rappresentati dai decimali 1,125 e 1,111 e in più due specie di semitoni: quello diatonico = 1,0666, e quello cromatico = 1,0416. La scala si esprime attraverso il rapporto del numero di vibrazioni degli armonici in proporzione all’origine: 1 - 9/8 - 5/4 - 4/3 - 3/2 - 5/3 - 15/8 / 2. I rapporti degli intervalli che intercedono fra due note contigue della scala sono: 1 - 9/8 - 16/15 - 9/8 - 16/15 - 2 (9/8 = tono maggiore, 10/9 = tono minore, 16/15 = semitono diatonico). Da queste sette note Lupi deriva 16 oscillazioni diverse. Così anche altri studiosi – i quali costruiscono la scala sul rapporto di vibrazione della quantità del primo grado con le note successive: 1 - 9/8 - 5/4 - 1/8 - 3/2 - 13/8 - 14/8 - 15/8 - 16/8. Ridotti a un comune denominatore si vede che il rapporto aumenta sempre di 1/8; risultano quindi sedici oscillazioni complete. Sarebbe di interesse conoscere in qual modo la scala pentadecafonica possa essere adattata alla voce e a nuovi strumenti, e quali misurazioni precise possa così assumere. (1950)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

MUSICA E PITTURA DIBATTITO SU DORAZIO

FALZONI – Trovo che c’è una straordinaria parentela tra le opere di Dorazio che sono esposte in questa mostra e la musica che abbiamo sentito, specialmente con quella di Gelmetti e con gli esperimenti di Grossi. Cioè io ho l’impressione che tanto Dorazio quanto questi musicisti lavorino sullo stesso tipo di materiale: in un lavoro di ricerca della poesia attraverso leggi fisiche, leggi oggettive. DORAZIO – Questa affinità io penso di sentirla, più che vederla come una intenzione. Ragioniamo ora al contrario: vedo quelle che non sono affinità, vedo le differenze. Per esempio, nella musica che abbiamo sentito mi sembra che ci sia una interpretazione o una disponibilità dello spazio, molto diversa da quella che è per un pittore. I suoni vengono articolati nello spazio con una maggiore libertà di quanto noi possiamo articolare i colori sulla tela. Però il problema di distribuire, di localizzare delle cariche emotive nello spazio mi pare che esista in questa musica, come nei quadri che cerco di fare io (e non solo io ma tanti altri pittori). Mi piacerebbe avere la possibilità di sentire questa musica mentre lavoro; questa sera mi è capitato di sentirla per la prima volta mentre vedevo i quadri che ho fatto. A un certo momento mi è parso di leggere nei quadri una affinità non nel senso illustrativo o didascalico, ma un’affinità di tipo problematico. Per esempio il pezzo di Gelmetti mi pare abbia una tensione così costante e così intensa che mi sembra tessuta come sono tessuti certi miei quadri. L’ultimo pezzo dello studio fonologico di Firenze, mi pare che sia una specie di inventario di suoni disponibili, come io faccio un inventario dei colori disponibili. Nel quadro poi questi colori non restano un inventario, ma vengono montati e tagliati. ROSSELLI – Io vorrei dire che in fondo questi quadri hanno anche un intento razionalistico, che non si trova in questa musica. Spesso noto invece che nella poesia contemporanea si possono ritrovare delle poesie che hanno molte affinità coi quadri, cioè poesie in forme quasi quadrate, o leggermente rettangolari, che ricordano questi quadri in quanto esse vogliono coprire l’intero spazio con una specie di geometrica confusione di colori, timbri vocalici, senza poi chiarire un senso centrale alla poesia, ma lasciando l’insieme parlare per sé. E mi pare che anche questi quadri lo facciano. DORAZIO – Io sono d’accordo con Amelia Rosselli. Bisognerebbe chiarire forse meglio che cosa intendiamo per affinità. L’affinità non è

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

36

AMELIA ROSSELLI

nell’aspetto esteriore ma è nell’ambizione che abbiamo e nella procedura che si adotta. Ora un’altra affinità che io trovo è forse nel rispetto di una certa dimensione entro la quale si opera. Mi sembra che queste composizioni musicali abbiano luogo in un certo tempo. Per esempio il pezzo di Gelmetti mi sembrava un pezzo nel quale i suoni erano distribuiti entro certi limiti. C’era un rispetto per lo spazio disponibile. Questo è un problema che a me interessa molto, perché io parto sempre da una certa dimensione della tela e il quadro cresce rispettando la tela sulla quale dipingo, come punto di partenza; cerco cioè di fare una cosa che sia conseguente a quel formato. Evidentemente la musica è più astratta della pittura, non so, forse perché l’orecchio è più all’erta, è più sveglio dell’occhio e non si può chiudere quando si vuole. A me sembra che lo spazio in queste composizioni musicali sia estremamente reversibile e libero, anzi io sono invidioso del modo come loro riescono a giocare con lo spazio; mentre noi pittori siamo un po’ meno liberi in questo senso. FALZONI – Ma nei tuoi quadri esiste una vibrazione del colore con cui ottieni lo stesso effetto spaziale. Quando, nei tuoi incroci, a un certo momento il colore vibra, canta, oppure si ottunde, allora tu raggiungi lo stesso effetto spaziale. DORAZIO – Io credo ci sia un problema comune di fondo, a parte le altre affinità di ordine stilistico, che è quello della chiarezza. Mi sembra che questa musica sia basata su una esigenza di chiarezza, di corrispondenza tra la tecnica, il risultato, e il significato soggettivo che l’ascoltatore può dare a questa musica. È chiara, non c’è misticismo, non c’è romanticismo, non c’è nessun mistero, come non c’è mistero nella pittura che cerco di fare io. GROSSI – Per quanto riguarda l’affinità, tra certa arte visiva e la musica che noi facciamo, credo che questa affinità sia soprattutto nella riduzione dei mezzi, nella concentrazione di ricerca di valori con un minor numero di mezzi possibile. Vedo che i quadri usano pochi colori; noi usiamo pochi suoni e cerchiamo di ottenere da essi tutti i valori che possono dare. Poi naturalmente ci sono le differenze sostanziali, proprie di ciascun mezzo e anche di ciascun metodo di lavoro. Per esempio nel caso di uno studio fonologico, non ci si preoccupa di sapere se una cosa è bella o brutta, ma di conoscerla, di sapere che cos’è. L’importante è che la cosa avvenga, che sia un avvenimento. È un po’ uno spirito di ricerca scientifica che mira ad avere una conoscenza del mondo sonoro, e approfittare di questa conoscenza per riceverne un arricchimento. Ritorno un momento ai “battimenti”, ad esempio, che avete ascoltato poco fa e dico che tra conoscere dieci battimenti e conoscerne cento c’è la sua differenza. Ora per conoscerli cosa si deve fare? Il

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

37

modo migliore è quello di avanzare con determinate regole nell’indagine. E per questo ci affidiamo a metodi matematici, che sono i più sicuri per procedere. A noi non importa se una certa cosa è catalogata in un certo modo o in un altro, a noi non importa andare a cercare quella che sembra più interessante, perché sono tutte interessanti per sé e per noi. Se questo avviene, è già un fatto interessante di per sé, come tante cose della vita, in fondo; tutta la vita intorno a noi è interessante. DORAZIO – Io trovo che l’osservazione sulla natura, direi, economica della tecnica è giustissima. Io mi preoccupo molto di vedere cosa succede se adopero tre colori invece di quattro. E anche l’atteggiamento di Grossi attorno alla bellezza, io lo condivido pienamente, perché quando faccio un quadro, non mi preoccupo mai di fare un quadro bello o brutto, ma di vedere cosa succede portando a termine una certa operazione, che io inizio con alcuni elementi che conosco, e che poi si estende un po’ quasi automaticamente e un po’ sotto controllo. BORTOLOTTO – Se fosse soltanto questo dovremmo confinare l’arte entro un ambito e uno spirito di ricerca. Ma l’arte non è ricerca soltanto, e mi scuso se riesumo un vecchio concetto, all’arte preme essenzialmente il risultato. FALZONI – Sì, ma qui c’è un problema di definizione dei termini: che cosa è arte e che cosa non lo è. Qui purtroppo si entra in un campo quanto mai vasto. BORTOLOTTO – Quanto mai vasto d’accordo. Ma resta il fatto che qui siamo in una galleria d’arte... allora perché non cambiamo tutto quanto? GELMETTI – Ma io sarei anche d’accordo nell’abolire, in arte, il titolo di “maestro” o altre cose del genere. Comunque mi pare che poco fa Dorazio abbia toccato un punto molto importante, quando diceva di partire da una certa dimensione, per operarvi all’interno. Personalmente questo mi interessa molto, perché in genere, sia per qualche circostanza occasionale che mi impone una certa durata, o per mia scelta io mi propongo appunto di operare all’interno di questa durata di tempo. In genere si tratta di ipotesi di lavoro di carattere non normativo, cioè da verificare o abbandonare sperimentalmente. E ogni volta i risultati non sono determinanti o normativi per il lavoro successivo. Sono soltanto dei risultati da classificare in sede metodologica. In quanto ad affinità tra pittura e musica direi che c’è proprio questo tipo di affinità di metodo di lavoro. BATTISTI – Io però vorrei ritornare all’osservazione di prima, attorno cioè a una sostanziale differenza nel significato del materiale usato. Il colore di Dorazio mi pare ancora legato al colorismo romano.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

38

AMELIA ROSSELLI

DORAZIO – Io voglio chiarire la definizione di tonale fatta da Battisti, che rigetto completamente. Io non mi ritengo affatto un pittore tonale. Secondo me la pittura tonale implica una scelta di valori che vengono articolati armonicamente. Io invece non cerco affatto di fare una pittura che coinvolga una distribuzione armonica di valori di luce, di chiari, scuri, ecc. Il valore luce dei miei quadri risulta dalla qualità spontanea del colore. Un pittore tonale forza il colore, vuole che funzioni in quel modo lì, mentre io lascio che i colori funzionino così come sono e cerco anzi, nei quadri più recenti, di limitarli a una serie molto ristretta e di modularli nella quantità, piuttosto che nella tonalità, diciamo. Cioè un blu più intenso, meno intenso, caldo o freddo, secondo la sua natura e il suo rapporto con i colori che gli capitano vicino. BATTISTI – Ho una diversa idea della pittura tonale, io intenderei soprattutto un fatto di raccordo, cioè tutti colori che si compongono l’uno con l’altro reciprocamente anche quando appaiono contrastanti. DORAZIO – Ma si compongono da soli. Io non modifico il colore, mentre un pittore tonale modifica il colore, lo adatta a quello che vuole fare e agli altri colori, mescolandolo e articolandolo sempre su effetti di luce-ombra. Direi che la pittura tonale è ancora una pittura illusionista al contrario di quello che intendo io che sarebbe piuttosto un realismo ottico. BATTISTI – Modifichi il colore per un fatto di raccordo. DORAZIO – Se vogliamo giudicare il risultato, piuttosto che il procedimento, che è quello che invece a me interessa. Qui forse è un punto di discussione interessante. GELMETTI – A me sembra che si possa fare un po’ lo stesso discorso che si faceva in musica, riguardo alla dissonanza e alla consonanza. La dissonanza e la consonanza avevano un senso nel quadro del sistema armonico tonale. Una volta usciti dal quadro di questo sistema, è un po’ difficile dire se alcuni di questi suoni sono consonanti o dissonanti, se tutti sono dissonanti oppure sono tutti consonanti. In realtà esistono dei suoni che hanno un certo numero di battimenti al loro interno, una certa ritmica, esistono dei suoni più aspri, altri meno aspri, se vogliamo fare una classificazione molto empirica. L’accordo ha senso solo nel quadro di una certa concezione di una organizzazione. ROSSELLI – Vedo che Dorazio è in fondo il pittore che più si avvicina a un mio sogno di adolescente: di dipingere analizzando prima di tutto gli spettri di luce e traendone conseguenze estremamente logiche. Io aspiro alla panmusica, alla musica di tutti, della terra e dell’universo, in cui non ci sia più una mano individuale che la regoli.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

39

BATTISTI – Tutto ciò mi pare sia molto diverso da quello che viene fuori dai quadri di Dorazio, che sono i più personali che si possano immaginare. Mentre in alcuni campi si può vedere una tendenza oggettiva, nel caso di Dorazio si giunge a una tendenza altamente soggettiva. Ti ho sentito addirittura parlare di bellezza... DORAZIO – Un momento, bisogna chiarire questo punto. Bellezza oggettiva, in questo senso sì. Io quando faccio un quadro non ci tengo affatto che il quadro sia un pezzo di autobiografia. Ci tengo moltissimo che il quadro diventi un oggetto, un quadro però, da non confondersi con una sedia, che sia significativo per sé e non nel senso che sia un oggetto anonimo come una sedia. Se questo quadro è anche bello, cioè se qualcuno estraneo lo trova bello, io non ho nulla in contrario. Per quadro poi intendo una superficie dipinta e articolata secondo un certo linguaggio che è la pittura, linguaggio che ha una sua particolare storia nella civiltà umana e che ha anche una sua particolare capacità comunicativa. È un linguaggio particolare, come la musica è un linguaggio particolare. GELMETTI – A proposito, mi viene in mente quanto ha detto prima Dorazio riguardo una certa invidia che prova per la libertà che noi abbiamo di articolare i suoni. In realtà io ho l’impressione esattamente opposta, perché purtroppo noi cominciamo dal momento X e dobbiamo terminare il pezzo al momento X1. Tu dici di non essere d’accordo, e che noi costruiamo degli oggetti sonori che sono assolutamente reversibili, ma questo è un altro discorso. Rimane il fatto che nel costruire l’oggetto sonoro lo si deve costruire in un certo modo, mentre il quadro lo possiamo leggere in tutte le direzioni che vogliamo. Il nastro lo possiamo mandare avanti e indietro, ma non dall’alto in basso e viceversa. ROSSELLI – C’è ora una cosa che mi interessa e che vorrei chiedere a Dorazio: perché tu non vai un pochino oltre? Perché non ti applichi scientificamente, nel limite del possibile, a un’analisi dello spettro della luce per trarne delle conclusioni? Perché in fondo il tuo dipingere è ancora estetico e pertanto non può portare materiali nuovi a pittori futuri. Se volessimo oggi, con gli spettri sonori, potremmo forse fare quasi un’analisi dalla quale risulterebbe che la vocale non è un suono ma un rumore, ma io non ho visto nessuno applicarsi alla ricerca dello spettro di luce. DORAZIO – L’osservatore del quadro trasforma senz’altro il quadro a suo piacere perché lo può leggere come vuole: può leggerlo da destra a sinistra e viceversa. Ora questa reversibilità di cui parlavamo prima della composizione musicale nel caso del quadro mi pare si possa scorgere nella direzione di lettura del quadro. Però questo non significa che un quadro si può capovolgere. Io penso che un quadro debba restare come

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

40

AMELIA ROSSELLI

è nato altrimenti cadremo in un equivoco che a me sembra molto grave. La domanda poi della Rosselli è molto interessante circa l’analisi spettrografica della luce. Si tratta di una ricerca scientifica che riguarda prima di tutto gli specialisti di ottica. Ci sono numerosi studi anche recentissimi sulla natura elettromagnetica del colore, sulla natura della percezione del colore. Nel caso della ricerca creativa di un pittore il problema è un po’ diverso, secondo me. Io non posso fare una ricerca soggettiva nel senso della percezione della luce; cioè posso fare una ricerca su quello che la luce fa a me quando la vedo tradotta in colori su di una tela. ROSSELLI – Io penso che si possa lavorare in collaborazione, come fanno i musicisti con gli scienziati. Di solito passano anni a studiare l’acustica musicale. Rinunciarci del tutto non mi pare giusto. DORAZIO – Ho avuto occasione di discutere diverse volte a New York col dottor Oster, che è un fisico che si occupa della percezione visiva e in modo particolare della deformazione della percezione visiva sotto l’effetto di sostanze allucinogene o eccitanti, oppure di stati psicotici o nevrotici. Questo signore faceva anche una ricerca sulle deformazioni che la percezione del colore può apportare alla percezione della forma. Un muro bianco ad esempio con uno spigolo è in un certo modo. Se noi lo dipingiamo di blu questo muro, si percepisce in un modo diverso. Il problema poi non è tanto sulla natura e sulla classificazione del “fenomeno luce”; a me interessa un altro fatto: qualificare i colori e anche capire come qualificarli, perché bisogna metterli su una tela. Questo è il problema importante: come farlo. Per il momento mi interessa di riuscire a fare e vedere una certa cosa. Poi può darsi che certi problemi riesca ad approfondirli e ad estenderli anche, in un senso più scientifico, però a me interessa il dato percettivo del colore oltre al dato puramente fisico. E voglio aggiungere anche che a me interessa qualificare così i colori, poi esporli e vedere che cosa succede. Io ho fatto delle prove anche con qualcuno che è stato con me a studio, persone poco al corrente della pittura: davanti a due rossi diversi ti dicono questo è marrone e questo è rosso. Noi stessi chiamiamo blu un colore, ma quanti blu ci sono e tutti diversi? E poi siamo abituati a vedere i colori sempre legati e dipendenti dal materiale a cui appartengono. Sarebbe interessante pensare e vedere il colore così com’è senza materia nella sua essenza luminosa e spaziale. ROSSELLI – Io trovo che, come nella musica, il problema della percezione nella pittura è completamente secondario, quasi senza importanza. Cioè si potrebbe completamente tralasciare, e concentrarsi completamente invece su quello che provoca la percezione, senza preoccuparsi dei suoi risultati, anzi lasciando questi risultati del tutto al caso.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

41

DORAZIO – Ma il problema della percezione non è un problema che io mi pongo a priori; è un problema che cade nel gioco appena io comincio a fare un quadro. Il problema io cerco di risolverlo adoperando me stesso come cavia: sono io che reagisco a certe cose e che faccio certe cose. Il problema è nel fare, e la soluzione la cerco facendo un quadro, quindi pongo il problema e cerco la soluzione allo stesso tempo. Non è un problema al di là del quadro, il problema è nel fare il quadro e quindi non c’è un problema della percezione da risolvere con una tecnica conosciuta. Io non ho una tecnica a disposizione che mi permetta di risolvere obiettivamente questo problema; mi devo creare questa tecnica. Mi spiego? Il problema sono io insomma. ROSSELLI – Ma allora si può dire che hai ancora dei problemi di espressione se rivolgi tutto a te stesso o al tuo pubblico. Se tu potessi lavorare del tutto oggettivamente infischiandotene completamente dei risultati, ma seguendo esclusivamente un filo logico, il risultato del tutto casuale potrebbe essere più ricco di possibilità. DORAZIO – Io non ho un problema di espressione. Ho solo un problema di tecnica: come mettere a fuoco il problema e come identificarlo e come affrontarlo. Non cerco di esprimermi ma cerco di mettere a fuoco un determinato problema che è la mia reazione di fronte a certe cose. GELMETTI – A me pare che stiate discutendo su due cose molto distinte. Amelia Rosselli parla di una ricerca strettamente scientifica i cui risultati potrebbero, se classificati, essere utili poi al pittore che voglia fare delle opere visive; mentre mi pare che Dorazio punti proprio su questo aspetto del fare, chiamandolo ancora artigianesco, in cui si esperimentano direttamente, usando se stessi come cavie, i risultati della percezione, ma risultati che sono già dei fatti psicologici. Mi sembra che sia un po’ questo il punto. FALZONI – Io vorrei dare una risposta sia a Gelmetti, che a Dorazio, ad Amelia Rosselli e a Bortolotto. Bisogna partire dalla constatazione che negli ultimi decenni il fine dell’arte è mutato molto rapidamente e frequentemente. Ora l’area nella quale ci troviamo adesso, con le ricerche ad esempio della Rosselli, di Dorazio, di Gelmetti e di Grossi, è quella dell’arte come strumento di conoscenza. Bisogna anche considerare che Dorazio è un pittore della sua generazione e che, siccome la storia dell’arte non salta mai le tappe, lui deve ancora affrontare questo problema su di un piano che potremmo chiamare artigianale. Ha la visione già degli sviluppi futuri, ma non si può sganciare dalla sua condizione, che è ancora, direi, una condizione, nel senso più nobile, artigiana. Invece Amelia Rosselli punta a una concezione dell’arte che sarà strumento di conoscenza in un modo più

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

42

AMELIA ROSSELLI

scientifico, ma sarà lo stesso arte. E anch’io penso che ci sarà un futuro in cui l’arte sarà conoscenza, non in senso artigianale, ma su di un piano di strumentazione più compiuta. DORAZIO – Mi pare che Falzoni abbia indovinato il senso del mio lavoro. Non solo artigianale, ma io direi addirittura manuale, perché la pittura è anche un lavoro fisico. Non è che la pittura sia una cosa che si faccia con le parole o con la testa. Si fa piano piano e per gradi e con le mani e con gli occhi. ROSSELLI – Strano a dirsi, io penso che sia il lavoro fatto in musica che in pittura e forse anche in letteratura, puntano a una visione inaspettatamente platonica dell’universo. Noi finiremo per non dipingere, per non scrivere, per non fare rumori e contemplare i numeri felicemente, pur avendo dietro le spalle una ricerca scientifica estremamente complessa, addirittura aristotelica. DORAZIO – Io vorrei aggiungere che quando ho detto che la musica è in certo modo più astratta della pittura, intendevo dire questo: un suono può avere delle qualità particolari, però resta sempre un suono, mentre una cosa dipinta, un oggetto vero, ha delle qualità di superficie, di consistenza, di densità che sono permanenti. L’oggetto che è esposto all’occhio in permanenza ha una presenza costante. C’è una diversità nel senso che l’occhio si può chiudere e aprire, l’orecchio rimane sempre aperto. ROSSELLI – Ma scusate, perché pensate sempre al quadro, alla tela? Possibile che la pittura debba fermarsi alla tela? Fate una cosa: andate per strada e guardate passare la gente. DORAZIO – Questo lo fa il cinema. È una esperienza del cinema ma anche i metronotte fanno questa esperienza. RUBINO – Io non posso fare altro che invidiarvi perché voi avete perso di vista per lo meno da due secoli la faccenda della utilitas. Io faccio l’architetto e ho sempre questo maledetto pensiero: l’acqua non deve entrare nelle case, la gente vi deve abitare, ecc. Per me la cosa importantissima, sia nel caso della musica di Gelmetti che delle opere di Dorazio, è la faccenda della comunicazione con il pubblico. Questa ritengo sia la base dell’arte sia del passato che odierna. Se voi dite, a un certo punto, vado in mezzo a una piazza e vedo passare delle persone, quella è una faccenda vostra soggettiva... FRANCO DI VITO – Io penso che quando noi stiamo di fronte a un quadro, dobbiamo affrontare un problema molto elementare, che è il problema del quantitativo. Cioè noi abbiamo a che fare con delle quantità e partiamo sempre da una classificazione di queste quantità, e dell’eventuale relazione che intercorre fra di esse. Il fatto qualitativo

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

43

è a posteriori. Noi non ce lo poniamo ma potrebbe scaturire dalla interrelazione di queste quantità. Il pittore ha a che fare con dei dati concreti, cioè un colore che occupa uno spazio o una estensione misurabile. Il problema della intensità rimanda al problema della classificazione dell’intensità. Allora bisognerebbe poter arrivare a classificare le diverse intensità, addirittura al livello della emissione d’onda. Cioè ogni colore ha uno spettro di emissione... FALZONI – Quindi si ritorna alla differenza tra lo scientifico e l’artigianale che si diceva prima. Cioè in pratica, mi sembra che la musica sentita questa sera sia fondata sopra una espressione scientifica, nel senso che debba giocare per forza con lunghezze d’onda, con giustapposizione di bande, ecc. Ora a me sembra che fino a che non si arriverà a quello che diceva prima la Rosselli, la pittura mantenga una base artigianale. Il tuo grado artigianale è appunto in questo, che ti servi ancora del pennello, della tela tirata, ecc. Ma sono pienamente convinto che non puoi uscirne fuori volgendoti a ricerche puramente scientifiche e matematiche, perché immagino che ti intristiresti in un modo tremendo. DORAZIO – Applicare delle nozioni di analisi matematica, questo non mi sogno neanche di farlo, perché faccio prima con le mani e giudico con l’occhio, non giudico con una formula... Anzi io direi che anche la ricerca matematica di un certo ordine diventa intuitiva. Bisogna distinguere qui la pittura come un linguaggio che assumendo una certa forma cambia la sua struttura interna e quindi assume un altro significato al di là della funzione fisica del quadro. Io non faccio un quadro grande per metterlo in una architettura. Non me ne importa niente, faccio un quadro grande per vedere che cosa succede se una certa quantità di blu con una certa quantità di rosso si stende su due metri invece che su venti centimetri. Io faccio un quadro per questa ragione. Per finire vorrei dire alcune cose sul modo con cui ho disposto i quadri in questa mostra. Io ho già allestito una mostra nel ’60 alla Biennale di Venezia che era presentata allo stesso modo. I quadri non sono accoppiati e messi in serie per una ragione compositiva. Sono accoppiati e messi così in continuità, per una ragione pratica. Facendo una mostra non intendevo esporre dei capolavori, ma dare piuttosto il senso del lavoro in corso. Invece esponendo dei quadri isolati, uno di qua e uno di là, si ha la sensazione di una cosa chiusa, di un’opera completa. Però ho già fatto due o tre quadri che vanno esposti insieme con determinate conseguenze cromatiche. (1965)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Grafico 1

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

LA SERIE DEGLI ARMONICI

Partendo dallo studio della teoria dodecafonica e da quello della musica di Bartók, ho tentato di introdurre ciò che si potrebbe chiamare un allargamento della teoria, in rapporto con la musica popolare, e in particolare con la costruzione di strumenti le cui scale differiscono da quella del pianoforte, poiché sono basate sulla realtà fisica e le leggi acustiche, mentre è noto che questo non è il caso nella scala temperata. A questo scopo, ho fatto costruire da una fabbrica italiana, la Farfisa, un piccolo pianoforte che riproduce ciò che comunemente viene chiamato la serie degli armonici, cioè gli armonici di una data nota bassa, fino al 64° armonico incluso: – e che comprende sei ottave, come risulta dal grafico n. 1. Nella costruzione di questo particolare strumento, la qualità e il timbro dei suoni prodotti furono considerati di secondaria importanza. La serie è distribuita lungo la tastiera, da sinistra a destra, come una scala.1 A mio parere, una grande parte della musica che non sia stata influenzata dalla scala temperata, segue la disposizione delle serie armoniche: nella costruzione di questo particolare strumento il 64° armonico fu scelto come punto d’arresto, gli armonici successivi sono però anch’essi distinguibili dall’orecchio umano e potrebbero venire utilizzati nella costruzione di strumenti ulteriori. Benché la formula di riproduzione all’ottava (x2), alla quinta (x3), alla terza (x5), e a tutti gli altri intervalli (x6, x7, x8, x9) rimanga valida per tutta la propagazione della serie, va notato che l’estensione degli intervalli diminuisce mentre gli intervalli stessi conservano la stessa apparenza di consecutività, e la stessa apparenza sulla tastiera. Due fattori convalidano la mia opinione che una grande parte della musica orientale, certi tipi di musica popolare e molte tradizioni di musica temperata, sono ispirati e istintivamente basati sulla serie degli armonici, che possiamo benissimo considerare un a priori o una forma ideale: primo, uno studio di questi generi di musica; secondo, il fatto che è stato provato che la voce, quando canti liberamente, segue questa scala con maggiore aderenza della scala temperata e delle scale pitagoriche (GIULIO ZAMBIASI, Intorno alla misura degli intervalli melodici, Fratelli Bocca, Torino 1901).

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

46

AMELIA ROSSELLI

Sarebbe di grande interesse rappresentare graficamente una singola melodia la cui natura ci induca a credere che sia ispirata alla serie degli armonici, contrapponendola a un grafico del tipo di quello rappresentato sulla pagina seguente (grafico 2). I numeri 1-64 posti verticalmente sul lato sinistro rappresentano la serie quale appare sulla tastiera; il fondamentale è un tono di 40 vibrazioni, numero che successivamente rappresenta anche l’unità più piccola entro la serie. Il 64° armonico è di 2560 vibrazioni (64 × 40 v.) e segna il limite della tastiera. Sono stati scelti questi due estremi poiché l’estensione che essi abbracciano è l’estensione coperta generalmente da tutta la musica; comunque, un fondamentale di 80 vibrazioni, o di 16 o di qualsiasi altro numero intermedio potrebbe benissimo costituire il punto di partenza di serie praticabili. Nel grafico n. 2 le serie non sono state riportate come lo saranno nel grafico definitivo, cioè proporzionalmente: effettivamente, va ricordato che benché ogni nuovo tono aggiunto alla serie rappresenti un’aggiunta di 40 vibrazioni, gli intervalli tra tono e tono non sono mai identici (salvo che come numero di vibrazioni, e come posizione) e diminuiscono secondo il rapporto seguente: 2/1, 3/2, 4/3, 5/4, 6/5, 7/8... 64/63. Il fondamentale è considerato come punto di riferimento mobile, non fisso: può alzarsi a un qualsiasi punto della serie originaria, fissandosi sul 3°, 4°, 5° ecc. armonico, e da questo punto si forma una nuova serie per mezzo delle progressioni usuali che avrà come unità base 80 o 120 o 160 o 200 vibrazioni. Teoricamente, tutte le 64 note della serie originale possono servire come fondamentali nuovi; praticamente, vengono usate soltanto le prime 32, e le loro serie sono incomplete: alcune raggiungono il limite di 2560 vibrazioni unicamente al loro 2° armonico (serie con fondamentale di 1280 vibrazioni), altre al loro 8° (serie con fondamentale di 320 vibrazioni), ecc. La radicale della serie originaria, a 40 vibrazioni, può anche abbassarsi lungo le 64 note di una serie che necessariamente va considerata ipotetica, poiché in questo caso è situata molto al di sotto del limite inferiore del nostro udito, limite situato generalmente a 16 v. Nondimeno questa serie forma un insieme con la serie riprodotta entro i limiti dell’udito, poiché partecipa alla stessa progressione, e i suoi intervalli sono di proporzioni e grandezze identiche,2 benché la sua unità di crescita in termini di vibrazioni sia di 0,625 vibrazioni, e così anche il suo fondamentale (64 x 0,625 v. = 40 v.). Il 64° armonico di questa ipotetica coincide con il 1° della serie superiore; la sua dodicesima ottava, qualora si voglia seguirla, coinciderebbe con la sesta e ultima ottava della progressione 40 – 2560 v.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

47

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

Grafico 2

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

48

AMELIA ROSSELLI

Anche qui, teoricamente, il fondamentale può abbassarsi 64 volte, mentre in realtà lo fa soltanto 32 volte, lungo l’ottava superiore della serie ipotetica. Poiché una melodia tocca ripetutamente le intersecazioni che rappresentano gli armonici di una serie determinata, per esempio quelli situati sulla terza serie, e non tocca in maniera regolare e continua gli armonici delle altre serie situate più in alto o più in basso (questo non è visibile sul grafico n. 2 che rappresenta le coincidenze di altezze alle ottave, mentre invece sarà evidente sul grafico definitivo che indicherà le proporzioni degli intervalli), si dice che la melodia appartiene a questa serie, e che ha la nota di 120 vibrazioni come suo fondamentale e sua unità entro il sistema. Le 64 serie, 32 ascendenti e 32 discendenti, vengono chiamate modalità, il nome è scelto in rapporto alle antiche modalità greche, come anche a quelle orientali, con l’intenzione di una comprensione razionale di queste. Per quanto riguarda il ritmo della melodia, non credo che esso possa venire rappresentato nella maniera corrente, cioè metricamente. Il tempo e lo spazio, quali vengono rappresentati dal ritmo e dall’armonia, stanno, a mio modo di vedere, in una stretta correlazione; questo vale, se non altro, per la parte maggiore della musica orientale e popolare, in quanto questa possa veramente venire chiamata “naturale”.3 Una melodia che si trovi sulla serie 3 sarebbe necessariamente basata sull’unità ritmica simbolicamente identica all’unità fondamentale della serie 3, il cui sviluppo per acceleramento o rallentamento avverrebbe in modo inversamente proporzionale a quello secondo il quale vengono riprodotti e moltiplicati gli armonici della serie 3.4 Alzare il tono significherebbe implicitamente aumentare la velocità e viceversa (vedi grafico 3). Risulterebbe la necessità di trascrivere l’altezza del suono su un sistema di righe più complesso e preciso di quello del solito pentagramma (grafico 4 o 5 per esempio). In un brano di musica africana autentica, sono stata in grado di avvertire il passaggio da un’unità ritmica a un’altra, nel momento nel quale il passaggio da serie a serie, o da piano armonico a piano armonico, avveniva nella melodia o nell’armonica. Sarebbe necessario fare un’esatta rappresentazione di musiche orientali o popolari in contrapposizione al grafico che rappresenta l’intero sistema, benché non si tratti sicuramente di un problema facile: in ogni caso, vorrei far osservare che il sistema proposto è ispirato da quella musica per la quale esso intende offrire una teoria ed è forse in grado di riprodurla, ma che è stato concepito principalmente nella speranza di trovare una sintesi della tradi-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

49

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

Grafico 3

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

50

AMELIA ROSSELLI

Grafico 4

Grafico 5

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

51

zione musicale razionale e scritta dell’Occidente, e quella orale e istintiva dell’Oriente. In un tempo successivo, l’interpretazione disgregatrice, analitica, della musica, con le sue arbitrarie suddivisioni metriche e le sue formazioni artificiali di accordi, potrebbe cedere il posto a uno schema che riproduca quattro dimensioni in una continuità spazio-temporale; nel quale intensità, altezza, ritmo e timbro5 verrebbero derivati dalla serie degli armonici, determinandosi e producendosi a vicenda. Intervengono molti altri fattori qualora si cominci a considerare la possibilità di comporre su uno strumento capace di riprodurre o una serie, o il sistema intero. Alcuni degli interventi vanno considerati come “funzionali”, in quanto una delle loro note è il fondamentale o una trasposizione all’ottava del fondamentale, altri come non-funzionali o come variazioni di quelli funzionali. La trasposizione di melodie, volumi, timbri e perfino di ritmi, può venire effettuata sia a ottava, sia moltiplicando i valori originali per 3, 5, 7, 9 ecc., conservando in questo modo la qualità dei valori, non però la loro forma sulla tastiera, o ripetendo i valori successivamente sulla tastiera, in modo da conservare soltanto la forma, modificando invece la qualità, ecc. In considerazione dello studio di musiche a più voci, e allo scopo di scrivere armonie lineari complesse alla tastiera andrebbe aggiunta un’altra tastiera, col fondamentale all’estremità opposta, in modo che la seconda serie si trovi in opposizione con la prima, pur incontrandosi con questa all’ottesimo armonico nel caso che le due fondamentali fossero identiche, oppure in rapporto perfino non armonico se i due fondamentali non sono identici o non appartengono alla stessa serie.6 Anche qui, il fondamentale può salire e scendere, ed essere considerato mobile entro il sistema generato da esso stesso. Il contrasto di fondamentali alla radice delle due serie offrirebbe forme e incroci interessanti. Al momento ho a mia disposizione unicamente uno strumento solo, col quale è forse possibile effettuare qualche tentativo di composizione, benché riproduca soltanto una sola serie armonica, senza la possibilità di spostare il fondamentale in alto o in basso. Uno strumento più piccolo, che comprenda unicamente 32 armonici potrebbe venire costruito facilmente e sarebbe portabile. Lo strumento grande che riproduce tutto il sistema è in fase di studio. Nel caso che venisse costruito con mezzi elettronici, i quali sono per ora i più adatti a una “spostabilità” totale dei suoni su di una unica tastiera, risulterebbe dall’incrociarsi di due serie spostabili a fondamentali variabili una totalità matematica a nostra disposizione per ogni ulteriore tentativo d’organizzazione del suono.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

52

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

(nota 1964) Lo strumento progettato potrebbe essere considerato non essenziale dal punto di vista della composizione musicale che potrebbe derivarne: in effetti, quei suoni disposti sulle due tastiere possono essere ottenuti in uno studio elettronico normale: d’altra parte, non credo che sia secondario il considerare le serie “armoniche” nella loro forma stesa su tastiere; così anche la ripresa d’una concezione di lavoro manuale in vista d’ottenere altezze, timbri, intensità, e durate non è da rifiutarsi con tanta precipitazione. Questo considerando anche l’utilità pratica dello strumento per chi non si trovasse necessariamente nelle buone grazie dei dirigenti degli studi elettronici, per chi volesse il suo materiale elettronico a continua disposizione, e per chi desiderasse tramite il suo strumento rappresentarsi una sintesi dei mezzi in un certo senso “orchestrali”, tali quelli degli studi elettronici. Non menziono nel saggio il fatto che ciascuna delle note delle due tastiere produrrebbe suoni “puri”, o cioè sinus: ciò è ovviamente necessario se l’unità organizzativa è l’armonico, il quale, come sappiamo, crea timbri “complessi” solo se fuso con uno o più diversi armonici. Benché in questo saggio io abbia proposto serie che raggiungono soltanto il 64° armonico, non vi è nulla che ci impedisca, nel comporre per la serie armonica o nel costruire lo strumento stesso, di andare oltre questo limite sino a per esempio la decima ottava di un suono di 16 v.; raggiungendo perciò il 1024° armonico come limite massimo (16 384 v.). Il fondamentale potrebbe non soltanto scendere giù per la sua serie ipotetica subsonica, ma anche raggiungere approssimativamente 20 v. proiettando ancora le sue 10 ottave nella loro totalità; cioè, raggiungendo il nostro limite uditivo superiore, che è appena sopra le 20 000 v. (1024 × 20 v. = 20 480 v.). È evidente che, se il fondamentale supera le 20 vibrazioni, le sue serie si fermeranno alla nona ottava, o all’ottava, e via dicendo. Un altro punto che forse non è stato sufficientemente chiarito nel saggio è la possibilità di rialzare o abbassare il suono fondamentale di ciascuna serie in modo tale da formare “incroci” fra serie di tipo non armonico. Si potrebbe infatti rialzare l’altezza del fondamentale non soltanto moltiplicandolo per 2, 3, 4, 5 ecc., ma anche rialzandolo di 1, 2, 3, 4, 5 ecc. vibrazioni. Inoltre quando menziono intonazioni “intermedie” intendo parlare anche d’un rialzo frazionale (per esempio 2,45 v.): e quando parlo di «disegni, combinazioni, e permutazioni interessanti» da ottenersi tramite il confronto di due o più serie a fondamentali diversi, intendo menzionare anche quelle serie che hanno come punto di partenza numeri che non sono interi. In questa maniera serie

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

53

dai fondamentali contrastanti in altezza potrebbero produrre, nel collidere di due o più livelli, soltanto intervalli non-armonici di estensioni sempre varianti. Anche da notarsi è la possibilità di distinguere, nel comporre, quegli armonici che non sono né doppi né multipli degli armonici inferiori (cioè quelli che numericamente sono “primi”): foneticamente sono di particolare interesse; matematicamente, però, sono difficili da organizzare in quanto non producono disegni o combinazioni razionalmente riconoscibili. Sono intravedibili le vie da seguirsi per studi ulteriori aventi una base teorica allargata e verifiche sperimentali-musicali sicure. L’una è di riconsiderare la serie e la sua propagazione senza proporsi una struttura “chiusa”, cioè presupponendo, al contrario, una serie subsonica ipotetica infinitamente estensibile verso il basso, dalla quale deriverebbe una serie sonora che produrrebbe delle ottave molto più elevate della decima, fino a raggiungere il “suono bianco” (totalità degli impulsi). Inoltre, sono da assimilare a una simile sistematicità “aperta” o “chiusa” le perturbazioni energetiche minime, ritmiche o timbriche o spaziali ch’esse siano; tramite una analisi di genere atomista. Rimarrebbe da comprendere in quale maniera questo secondo atteggiamento assunto dinanzi all’“avvenimento” sonoro possa inglobarsi con quello più strettamente determinista.

(nota 1977) Il primo strumento a una tastiera, descritto nel primo dei due allegati, venne costruito a mie spese dalla ditta Farfisa nel 1953. La formulazione teorica era abbastanza chiara: dopo qualche studio più particolareggiato da parte degli ingegneri Petroncelli e Bianchi della ditta Farfisa, la costruzione venne intrapresa e terminata. Era mio intento proseguire il lavoro con questi due ingegneri, sia per la costruzione di strumenti a tastiere ridotte, sia per la costruzione dello strumento a due tastiere così come esso è descritto nelle due relazioni allegate (piccolo organo elettronico con fondamentali spostabili). La realizzazione di questo progetto sarebbe stata studiata prima nella sua impostazione di massima e poi nei dettagli, fornendo un preciso progetto di costruzione. L’ingegner Petroncelli, al quale pensavo affidare la realizzazione tecnica, aveva preparato una serie di studi accompagnati da calcoli matematici in relazione alla mia tesi, dedicati agli specialisti in elettroacustica e ingegneria.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

54

AMELIA ROSSELLI

Nel 1954 l’ingegner Petroncelli si trasferì da Ancona a Firenze, lavorando come ingegnere non più per la Farfisa, ma privatamente. I suoi nuovi impegni, mi disse, non gli lasciavano più tempo sufficiente per ulteriori studi del tipo di quelli progettati nel 1952-53 ad Ancona. Da parte mia desideravo per un periodo proseguire i miei studi di acustica da sola, e impostare la eventuale realizzazione dello strumento polifonico in senso più largo, riformulando alcuni degli elementi teorici, a base della tesi esposta nel primo dei due articoli allegati. Dopo un periodo di studi puramente teorici, incominciai di nuovo a considerare la possibilità di una eventuale realizzazione dello strumento a due tastiere, nuovamente progettato (vedi allegato 2 conclusione aggiunta nel 1964). Prima di intraprendere qualsiasi costruzione sarebbe consigliabile, però, il dedicarsi per qualche mese, o per un anno circa, a studi sperimentali di acustica. Come minimo indispensabile, per incominciare il lavoro si dimostrerebbero necessari i seguenti mezzi di ricerca: 1) strumenti di misurazione elettronica 1 amplificatore alta fedeltà 1 autoparlante G.E.C. 1 generatore di fondamentali 1 microfono a nastri 1 oscilloscopio 1 volmetro elettronico 1 microfono RCA 1 magnetofono 1 giradischi a riluttanza Ponte R.C. Resistenze e condensatori campioni e possibilmente: 1 oscillatore ultrasonico materiale per modifiche del generatore e del microfono per subsuoni e ultra-suoni 2) materiali vari a) corde di diverse dimensioni b) tubi di diverse dimensioni c) casse risonanti, piastre, membrane d) nastri magnetici 3) nastri e dischi “folklore” d’ogni paese; libri e riviste anche stranieri 4) eventuale trasformazione del laboratorio di acustica in camera acustica.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

55

Questo materiale servirebbe per la verifica non soltanto dell’intera tesi presentata già nel primo allegato, ma anche per la verifica di alcune mie ipotesi per ciò che riguarda particolarmente la microstruttura degli armonici nella serie naturale, quando gli armonici si espandono liberamente nell’aria, oppure quando alla serie stessa venga posto un “blocco” deformante d’intensità e altezza, sia per diretta interferenza sulla propagazione della serie o sul fondamentale della serie; sia per interferenza inerente agli strumenti musicali (corde, membrane ecc.) generatori del suono fondamentale e della sua serie di armonici naturali. Rimangono anche da studiare i fattori di decremento dell’intensità dei fondamentali e dei loro armonici, sia che essi vibrino liberamente, sia che venga loro posto un “blocco” artificiale, o strumentale. Mi proporrei inoltre di verificare alcune mie ipotesi per ciò che riguarda il tempo-intervallo occorrente tra gli armonici di una serie naturale, la quale anche in questo caso dovrà essere studiata nella sua propagazione “libera”, come nella sua propagazione “bloccata”. Dopo questo primo periodo di attività rimarrebbe ancora da studiarsi in via sperimentale approssimativa il variare dell’intensità e durata degli armonici in rapporto alla densità e pressione dell’aria; anche il problema della “direttività” degli armonici e delle onde sonore: secondariamente anche i “battimenti”, gli effetti di “interferenza”, gli effetti di “fusione” risultanti dalla quasi-contemporaneità di prorogazione degli armonici, e dalla fusione degli elementi sonori semplici in sensazioni complesse, operata dall’orecchio umano. Prima d’ogni realizzazione dello strumento progettato intenderei però operare solamente attraverso mezzi elettro-acustici, ma contemporaneamente confrontare ogni ricerca e risultato ottenuto con tali mezzi, tramite quelli ottenuti con misurazioni semplici, o “strumentali”; studiando perciò le proprietà del monocordo, di canne sonore di ogni specie, di membrane, timpani, piastre, e corde. Non è da escludersi lo studio di un progetto per la realizzazione di uno strumento a corde e tastiera il quale fonda i principi della costruzione del pianoforte e dell’arpa con quelli del monocordo e degli strumenti orientali. Per i primi mesi intenderei dunque limitarmi alle seguenti imprese: a) studiare le proprietà di fondamentali generali elettronicamente, e contemporaneamente le proprietà di fondamentali generati da materiali “grezzi”, cioè corde, tubi, ecc.; b) se dovesse risultare immediatamente necessario, costruire un monocordo identico nelle sue proporzioni a quelli adoperati dai Pitagorici e dai teorici del Seicento; questo in vista di conferme e studi. In un secondo momento al monocordo originario verrebbe applicato un

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

56

apparecchio elettronico molto semplice (monocordo di Blyth) per ulteriori precisazioni; c) dovesse ciò dimostrarsi di facile ed economica attuazione, tentare la trasformazione del primo strumento costruitomi dalla Farfisa (armonium ad ancie con unica tastiera a fondamentale fisso) in uno strumento elettronico a suoni sinus capace di riprodurre la serie degli armonici nella sua propagazione tipica. Questo strumento avrebbe fondamentali e serie spostabili (allegato 2); d) sono da prevedersi studi matematici ed eventualmente costruzione, in un programma estensivo, di strumenti ausiliari di minor mole (ad es. rallentatore magnetofono; metronomo con speciali misure di tempo).

1 Indicando con f0 la frequenza che si assume fondamentale, la frequenza di ogni suono di posizione n sarà: fn = f0 (volte) n. 2 L’intervallo 64/63, per esempio, benché si trovi a gradi di altezza differenti, e benché sia formulato per mezzo di unità base diverse

40 v.

0.625 v. (sei ottave più basso)

è lo stesso in ambedue le serie. 3 La considerazione di movimenti vibratori stabilisce un legame tra le progressioni armoniche delle serie e le progressioni ritmiche di un pendolo che, abbandonato a se stesso, produce spontaneamente esattamente lo stesso rapporto diminuente di oscillazioni quale si verifica nella propagazione del suono. 4 La frequenza è uguale all’inverso del periodo di oscillazione. 5 La variazione tra due o più timbri è dovuta all’ammontare maggiore o minore di armonici che, assieme al fondamentale, compongono la singola nota, nonché alla posizione degli armonici derivati da due o più fondamentali in un accordo. 6 Infatti, il 37° armonico di un fondamentale di per esempio 40 vibrazioni è di 1480 v. mentre il 37° armonico d’un fondamentale di 41 v. è di 1517 vibrazioni. Il loro rapporto è di 1/1,025 – rapporto dunque non armonico. Bibliografia ARISTOXENUS, Éléments Harmoniques, Pottier de Calaine, Paris 1871; VALENTINO BALDOVINO, Genesi e ritmica delle scale musicali, F. Bongiovanni, Parma 1938; J.M. BARBOUR, Equal Temperament – Its History from Ramis to Rameau – The Resistance of the Pythagorean Tuning System, Cornell University, 1932, 1933; BELA BARTÓK, Scritti sulla musica popolare, Einaudi, Torino 1955; LUCIANO BERIO, Ricerche ed attività dello studio di fonologia musicale di Radio Milano, WERNER MEYER-EPPLER, Fondamenti acusticomatematici della composizione elettrica dei suoni, in “Elettronica”, V (1956), 3, settem-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

57

bre, Edizioni Rai, Milano; SEVERINUS BOETHIUS, Pensieri sulla musica, Fussi, Firenze 1949; EUGÈNE BORREL, Précis de musicologie, (Les notes inégales dans l’ancienne musique française e De Lully a Rameau), Presses Universitaires de France, Vendome 1958; FERRUCCIO BUSONI, Scritti e pensieri sulla musica e Saggio di una nuova estetica musicale, Ricordi, Milano 1954; EDMOND COSTÈRE, Lois et styles des harmonies musicales, Presses Universitaires de France, Paris 1954; L. CONTURIE, Acoustique appliquée, Eyrolles, Paris 1955; CHARLES CULVER, Musical Acoustics, Mc Graw-Hill Book Co. Inc., New York-Toronto-London 1956; JEAN D’ALEMBERT, À propos du système de sauveur, in Éléments de musique théorique et pratique, tip. Bruyset, Lyon 1772; ALAIN DANIÉLOU, Traité de musicologie comparée, Hermann, Paris 1959; ID., Tableau comparatif des intervalles musicaux, Institut Français d’Indologie, Pondichéry 1941; MAURICE GANDILLOT, Essai sur la gamme, GauthierVillars, Paris 1906; VALDO GARULLI, Armonia e psicologia, Moscheni, Trieste 1935; ROMOLO GIRALDI, Elementi di acustica musicale, De Santis, Roma 1935; HERMANN HELMHOLTZ, Théorie physiologique de la musique, Masson, Paris 1868; PAUL HINDEMITH, Craft of Musical Composition, vol I (Theory), Scott & Co., London 1948; JAMES JEANS, Science and Music, Cambridge University Press, 1953; CHARLES LALO, Esquisse d’une esthétique musicale scientifique, Felix Alcan, 1908; GUSTAVO LAURO, Teoria delle oscillazioni ed acustica tecnica, Görlich, Milano 1956; GEORGES LECHALAS, Études esthétiques, Felix Alcan, Paris 1902; RENÉ LEIBOWITZ, Introduction à la musique de douze sons, L’Arche, Paris 1949; ROBERTO LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma 1946; CLARK MELVILLE, Proposed Key-board Musical Instruments, in “The Journal of the Acoustical Society of America”, 31 (1959), 4, p. 403; D.C. MILLER, The Science of Musical Sounds, Macmillan, London 1922; ABRAHAM MOLES, Les musiques expérimentales, Éditions du Cercle d’Art Contemporain-Fondation internationale, Paris-Zurich-Bruxelles, 1960; ID., The New Relationship between Music and Mathematics, in “Gravesaner Blätter”, VI (1962), 23-24, p. 104; HENRY MOORE, The Genetic Aspects of Consonance and Dissonance, in “The Psychological Monographs”, XVIII (1914), 73; FRIEDRICH WILHEM NIETZSCHE, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, Laterza, Bari 1919; OLSON AND BELAR, Electronic Music Synthesizer, in “The Journal of the Acoustical Society of America”, 27 (1955), 3, p. 595; GRACE OVERMYER, Julian Carrillo-Quarter Tones-and Less, in “American Mercury”, XII (1927), october, p. 20; SALVATORE PINTACUDA, Acustica musicale, U.T.E.S., Palermo 1950; L. POLETTI, Tavole di numeri primi entro limiti diversi, Hoepli, Milano 1920; HENRI POUSSEUR, Caso e musica, in “Incontri musicali”, 2 (1958), maggio; La nuova sensibilità musicale, in “Incontri musicali”, 4 (1960), settembre; D.E. RAVALICO, L’audio libro, Hoepli, Milano 1952; GÉZA REVESZ, Psicologia della musica, Editrice Universitaria, Firenze 1954; HUGO RIEMANN, Storia universale della musica, S.T.E.N., Torino 1927; PIETRO RIGHINI, Il suono e la teoria delle proporzioni, Bocca, Milano 1952, e Acustica musicale, edizioni RAI, 1960; PIERRE SCHAEFFER, La musique concrète, Presses Universitaires de France, Paris 1967; Vers une musique expérimentale, numero speciale di “La revue musicale”, n. 236, curato da P. Schaeffer, Richard Masse, Paris 1957; OTTAVIO TIBY, Acustica musicale e organologia degli strumenti musicali, Siciliane Ind. Riunite, Palermo 1933; F. WINCKEL, Vues nouvelles sur le monde des sons, Dunod, Paris 1960; A. WOOD, The Physical Basis of Music, Cambridge University Press, 1913; ENORE ZAFFIRI, Due scuole di musica elettronica in Italia, Silva, Milano 1968. Letture supplementari C. CHAVEZ, Toward a New Music: Music and Electricity, Norton & Co. Inc., New York 1937; ALAN DOUGLAS,The Electrical Production of Music, MacDonald, London 1957; HENRI POUSSEUR, La musica elettronica, Feltrinelli, Milano 1976; WALTER BRANCHI, Tecnologia della musica elettronica, Lerici, 1977.

(1987)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

INTRODUZIONE A “SPAZI METRICI”

Da giovanissima leggendo ogni sorta di poesie, qualvolta in inglese (classici e no), qualvolta in francese o in italiano, e leggendo molta prosa (Faulkner per esempio, o la poesia prosastica di Eliot), mi sono chiesta come uscire dalla banalità del solito verso libero, che allora mi pareva sgangherato, senza giustificazione storica, e soprattutto, esausto. Pur leggendo molto, e scrivendo molto, io in realtà studiavo, e intensamente, composizione musicale; già ai miei diciassette anni, trovandomi a Londra, conoscevo i problemi della musica moderna, e ne studiavo le varie nuove teorizzazioni (Bartók per la scuola ungherese, e la ricerca di diverse notazioni per i canti popolari – folk –, da trovarsi nel canto non “educato” al sistema temperato del Seicento-Settecento, dalle solite intonazioni definite da Leibniz e soprattutto da Bach). (Tanto ricco sembrava questo sistema che ancora oggi viene presupposto l’unico. In realtà già dagli anni della seconda guerra mondiale, in Austria, si formulavano sistemi detti “dodecafonici”, che intendevano allargare il campo della scrittura musicale, fuori dal tonale o dal modale). Nella scrittura poetica molti intuivano questo bisogno, e accennavano a versi lunghi, elastici, alludendo ad una forma classica ancora ignota; questo non volendo tornare a sterili forme neoclassiche, o, infatti, al cosiddetto verso libero già tanto sfruttato all’inizio del secolo dai surrealisti e dalla moda. Per tutti era possibile esprimersi in tal vago scandire, e pochi sapevano usare il verso libero (Neruda; Breton; Hopkins; Whitman) come forma inerente al loro discorso, e con eleganza prosastica e primariamente musicale. L’accenno a forme del passato, l’intuire forme fisse ma nuove, era comune a molti importanti poeti, ma il poeta raramente teorizza la sua forma anche se innovativa, anzi la “sente”, ma non vuole analizzarla, e rinnova il verso libero puntando a intuite forme e sognate metriche, che però uscissero da ogni schema neoclassico. Nella poesia di García Lorca, in quella di Dylan Thomas e di Gerard Manley Hopkins, e in molte poesie del tardo Ottocento (Lautréamont) e primo Novecento (surrealismo, imagismo) l’autore esce da simile dilemma, di solito semplicemente compromettendosi sia col classico sia con le estreme forme d’un verso “libero”, che al dunque è utile veicolo a nuovi contenuti e combinazioni

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

60

AMELIA ROSSELLI

metaforiche, ma debole nella sua monotonia, e malamente si distingueva dalla comune prosa. Che le mie ricerche in campo “folk”, ossia etnomusicologico, abbiano influito nella ricerca d’un versificare più stretto, più severo, e di formulazioni geometriche, è ovvio; pur scrivendo già dai diciassette anni prose e poesie in diverse lingue, come tentando nuove forme valide in qualsiasi lingua, non riuscii, dopo molti studi di matematica, fisica, e analisi logica, a formulare questo nuovo geometrismo, sino ai ventotto anni, e cioè all’aprirsi dei primi versi del poemetto La libellula (1958). Tanto complesso mi pareva il problema che avevo perfino correlazionato la questione metrica a problemi di fotografia spaziale, vivendo la poesia senza scriverla, e “filmando” mentalmente ed emozionalmente ogni realtà attorno. Come se il versificare potesse equivalere al sentire e pensare uno spazio visivo-emozionale attorno, quasi pensassi in forme approssimativamente cubiche, il sentire seguendo la vista in senso anche energetico. Troppo vago continua a farsi un discorso introduttivo a questo mio saggio già di per sé denso e difficile perché personalissimo e allo stesso tempo dogmatico. Ebbi occasione di spiegare i miei intenti nelle realizzazioni poetiche, quando portai il mio primo libro Variazioni belliche (1959-63) a Pier Paolo Pasolini, avendo già impegno di pubblicazione di ventiquattro poesie presso “Il Menabò” n. 6 di Vittorini e Calvino. Ricordo che mi riuscì impossibile chiarire i miei intenti, specie quelli che trattassero di metrica. Pasolini mi chiese di scrivere di ciò che tanto m’aveva impacciata nello spiegare. Tornata a casa, spaventata dal difficile impegno, descrissi in modo non troppo tecnico quello che in conversazione era impossibile precisare. Rendendomi conto della indifferenza che tanti portavano a simile tema o problema, condensai e alleggerii lo scritto esplicativo in modo da renderlo divulgativo e incomprensibile allo stesso tempo: cioè usai vocabolo in parte musicale, ed evitai la terminologia classica o scolastica, cercando d’esprimermi a semplice livello matematico, e a medio livello grammaticale e musicale. Credo che nessuno tra i critici e letterati e poeti, comprese quello scritto intitolato Spazi metrici del 1962; lo inclusi in fin di libro quando dovetti correggere le prime bozze, come mia breve postfazione. Anni più tardi i problemi descritti nel saggio furono segnalati da Mengaldo nella sua antologia mondadoriana del 1978. Noto che la poesia altrui spesso si riallaccia al sistema metrico là proposto, consciamente o no, non saprei. Credo di averci azzeccato e credo che sia valido il testo e anzi da ampliarsi nel caso che non sia compreso che da pochi poeti. Non si

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

61

tratta di “sistematizzazioni” grafiche ma di sensibilizzare il poeta ad altre discipline, quali quella dell’operatore cinematografico, la fisica moderna, l’aerodinamica. Io personalmente non mi sono mai sentita d’uscire dalla mia stessa sistematica metrica, e spero che per gli studiosi di metrica moderna, questo mio scritto possa essere di fondamentale aiuto nel futuro. 4 febbraio 1993

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SPAZI METRICI

Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho in realtà mai scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema. Definire la sillaba come suono è però inesatto: non vi sono “suoni” nelle lingue: la vocale o la consonante nelle classificazioni dell’acustica musicale si definiscono come “rumore”, e ciò è naturale, vista la complessità del nostro apparato fonetico-fisiologico, e il variare da persona a persona perfino delle grandezze delle corde vocali e delle cavità orali, in modo che mai sin ora sia stata raggiunta una classificazione fonetica altro che statistica. Comunque nel parlare di vocali generalmente noi intendiamo suoni, o anche colori, visto che a esse spesso addebitiamo le qualità “timbriche”; e nel parlare di consonanti o di raggruppamenti di consonanti, intendiamo non soltanto il loro aspetto grafico ma anche movimenti muscolari e “forme” mentali. Ma se, degli elementi individuabili nella musica e nella pittura spiccano, nel vocalizzare, soltanto i ritmi (durate o tempi) e i colori (timbri o forme), nello scrivere e nel leggere le cose vanno un poco diversamente: noi contemporaneamente pensiamo. In tal caso non solo ha suono (rumore) la parola; anzi a volte non ne ha affatto, e risuona soltanto come idea nella mente. La vocale e la consonante, poi, sono valori non necessariamente fonetici ma anche semplicemente grafici, o compositorii dell’idea scritta, o parola. Anche il timbro non si ode quando pensiamo, o leggiamo mentalmente, e le durate (sillabe) sono elastiche e imprecise, a seconda dello scandire del lettore, ed a seconda delle sue individuali dinamiche, ritmicità e velocità di pensiero. Anzi, nel leggere senza vocalizzare, a volte tutti gli elementi sonori scompaiono, e la frase anche poetica è solo senso logico o associativo, percepito con l’aiuto di una sottile sensibilità grafica e spaziale (spazi e forme sono silenzi e punti referenziali della mente). È così che trovandomi dinanzi a una materia sonora o logica o associativa nello scrivere, sinora classificata o astrattamente o fantasticamente, ma mai sistematicamente, mi si parla di “piedi” e di frasi, sen-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

64

AMELIA ROSSELLI

za dirmi cosa sia una vocale. Non solo: la lingua in cui scrivo di volta in volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica e associativa è certamente quella di molti popoli, e riflettibile in molte lingue. Ed è con queste preoccupazioni ch’io mi misi ad un certo punto della mia adolescenza a cercare le forme universali. Per trovare queste cercai da prima il mio (occidentale e razionale) elemento organizzativo minimo nello scrivere. E questo risultava chiaramente essere la “lettera”, sonora o no, timbrica o no, grafica o formale, simbolica e funzionale insieme. Questa lettera, sonora ma egualmente “rumore”, creava nodi fonetici (chl, str; sta, biv) non necessariamente sillabici, ed erano infatti soltanto forme funzionali o grafiche, e rumore. Per una classificazione non grafica o formale era necessario, nel cercare i fondi della forma poetica, parlare invece della sillaba, intesa non troppo scolasticamente, ma piuttosto come particella ritmica. Salendo su per questa materia ancora insignificante, incorrevo nella “parola” intera, intesa come definizione e senso, idea, pozzo della comunicazione. Generalmente la parola viene considerata sì come definizione di una realtà data, ma la si vede piuttosto come un “oggetto” da classificare e da sottoclassificare, e non come idea. Io invece (e qui forse farei bene ad avvertire che essendo il mio sperimentare e dedurre assai personali e in parte incomunicabili, ogni conclusione ch’io ne possa aver tratto è da prendersi davvero cum grano salis), avevo proprio altre idee in proposito, e consideravo perfino “il” e “la” e “come” come “idee”, e non meramente congiunzioni e precisazioni di un discorso esprimente una idea. Premettevo che il discorso intero indicasse il pensiero stesso, e cioè che la frase (con tutti i suoi coloriti funzionali) fosse una idea divenuta un poco più complessa e maneggiabile, e che il periodo fosse l’esposizione logica di una idea non statica come quella materializzatasi nella parola, ma piuttosto dinamica e “in divenire” e spesso anche inconscia. Volendo allargare la mia classificazione, inserivo l’ideogramma cinese tra la frase, e la parola, e traducevo il rullo cinese in delirante corso di pensiero occidentale. Più tardi presi ad osservare il mutare di questo delirio o rullo nel mio pensiero a seconda della situazione che il mio cervello affrontava ad ogni cantonata della vita, ad ogni spostamento spaziale o temporale della mia quotidiana pratica esperienza. Notavo strani addensamenti nella ritmicità del mio pensiero, strani arresti, strane coagulazioni e cambi di tempi, strani intervalli di riposo o assenza di azione; nuove fusioni sonore e ideali secondo il cambiare del tempo pratico, degli spazi grafici e degli spazi circondantimi continuamente e materialmente. Nel discorrere e nel sentire altre presenze mentali o psico-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

65

logiche assieme a me in uno spazio, il pensare diveniva più teso, più affaticato, quasi complementare a quello dell’interlocutore pur rinnovandosi o distruggendosi all’incontro con esso. Tentai di osservare ogni materialità esterna con la più completa minuziosità possibile entro un immediato lasso di tempo e di spazio sperimentale. Ad ogni spostamento del mio corpo aggiungevo tentando, un completo “quadro” dell’esistenza circondantemi; la mente doveva assimilare l’intero significato del quadro entro il tempo in cui essa vi permaneva, e fondervi la sua propria dinamicità interiore. Nello scrivere sino ad allora la mia complessità o completezza riguardo alla realtà era stata soggettivamente limitata: la realtà era mia, non anche degli altri: scrivevo versi liberi. In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero, a guisa di un momento di realtà nella mia mente, o partecipazione della mia mente ad una realtà, ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte. L’aspetto grafico del poema influenzava l’impressione logica più che non il mezzo o veicolo del mio pensiero cioè la parola o la frase o il periodo. Quanto alla metrica poi, essendo libera essa variava gentilmente a seconda dell’associazione o del mio piacere. Insofferente di disegni prestabiliti, prorompente da essi, si adattava ad un tempo strettamente psicologico musicale ed istintivo. Per caso volli rileggere poi i sonetti delle prime scuole italiane; affascinata dalla regolarità volli ritentare l’impossibile. Ripresi in mano le mie cinque classificazioni: lettera, sillaba, parola, frase, e periodo. Le inquadrai in un tempo-spazio assoluto. I miei versi poetici non poterono più scampare dall’universalità dello spazio unico: le lunghezze e i tempi dei versi erano prestabiliti, la mia unità organizzativa era definibile, i miei ritmi si adattavano non ad un mio volere soltanto ma allo spazio già deciso, e questo spazio era del tutto ricoperto di esperienze, realtà, oggetti, e sensazioni. Trasponendo la complessità ritmica della lingua parlata e pensata ma non scandita, tramite un numerosissimo variare di particelle timbriche e ritmiche entro un unico e limitato spazio tipico, la mia metrica se non regolare era almeno totale: tutti i ritmi possibili immaginabili riempivano minuziosamente il mio quadrato a profondità timbrica, la mia ritmica era musicale sino agli ultimi sperimenti del post-webernismo, la mia regolarità,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

66

AMELIA ROSSELLI

quando esistente, era contrastata da un formicolio di ritmi traducibili non in piedi o in misure lunghe o corte, ma in durate microscopiche appena appena annotabili, volendo, a matita su carta grafica millesimale. L’unità base del verso non era né la lettera, disgregatrice ed insignificante, né la sillaba, ritmica e mordace ma pur sempre senza idealità, ma piuttosto la parola intera, di qualsiasi genere indifferentemente, le parole essendo considerate tutte di egual valore e peso, tutte da manipolarsi come idee concrete ed astratte. Nello stendere il primo rigo del poema fissavo definitivamente la larghezza del quadro insieme spaziale e temporale; i versi susseguenti dovevano adattarsi a egual misura, a identica formulazione. Scrivendo passavo da verso a verso senza badare a una qualsiasi priorità di significato nelle parole poste in fin di riga come per caso. In realtà ad aiutarmi a misurare o terminare il mio rigo v’era sempre quel punto nascosto del limite destro del mio quadro, e su di esso poteva cadere, perciò chiudendo il rigo, o la parola intera, o un qualsiasi nesso ortografico anch’esso significante in quanto realmente esistente come tempo d’“attesa” sia nel parlare che nel pensare. Lo spazio vuoto tra parola e parola veniva considerato invece come non funzionale, e non era unità, e se per caso esso cadeva sul punto limite del quadro, veniva immediatamente seguito da altra parola, in modo da riempire del tutto lo spazio e chiudere il verso. Il quadro infatti era da ricoprirsi totalmente e la frase era da enunciarsi d’un fiato e senza silenzi e interruzioni; rispecchiando la realtà parlata e pensata, dove nel sonoro noi leghiamo le nostre parole e nel pensare non abbiamo interruzioni salvo quelle esplicative e logiche della punteggiatura. Pensavo infatti che la dinamica del pensiero e del sonoro si esaurisse generalmente in fin di frase o periodo o pensiero, e che l’emissione vocale e la scrittura seguissero dunque senza interruzioni questo suo nascere e rinascere. Nella lettura ad alta voce ciascuno dei versi era poi da fonetizzarsi entro identici limiti di tempo, corrispondenti questi agli eguali limiti di lunghezza o larghezza grafica previamente formulati dalla stesura del primo verso. Anche nel caso che un verso avesse contenuto più parole sillabe lettere e punteggiature che non un altro, il tempo complessivo della lettura di ciascun verso doveva rimanere per quanto possibile identico. Le lunghezze dei versi erano dunque approssimativamente eguali, e con esse i loro tempi di lettura; esse avevano come unità metrica e spaziale la parola e il nesso ortografico, e come forma contenente lo spazio o tempo grafico, quest’ultimo steso però non in maniera meccanica o del tutto visuale, ma presupposto nello scandire, e agente nello scrivere e nel pensare.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

67

Interrompevo il poema quando era esaurita la forza psichica e la significatività che mi spingeva a scrivere; cioè l’idea o l’esperienza o il ricordo o la fantasia che smuovevano il senso e lo spazio. Attribuivo agli spazi vuoti tra sezione e sezione del poema, il tempo trascorso o lo spazio percorso mentalmente nel trarre conclusioni logiche ed associative da aggiungersi ad una qualsiasi parte del poema. E infatti l’idea era logica; ma lo spazio non era infinito, bensì prestabilito, come se comprimesse l’idea o l’esperienza o il ricordo, trasformando le mie sillabe e i miei timbri (questi sparsi per il poema, a mo’ di rime non ritmiche) in associazioni dense e sottili; il sentimento rivissuto momentaneamente si affermava tramite qualche ritmo fisso. A volte, raramente, il ritmo fisso predominava ed ossessionava, ed in fine volli ritrovare anche la perfetta regolarità ritmica di questo sentimento, e non potendo, chiusi il libro al suo unico tentativo di astratto ordinamento, cioè l’ultima poesia. Nello scrivere a mano invece che a macchina non potevo, come m’accorsi immediatamente, stabilire spazi perfetti e lunghezze di versi almeno in formula eguali perfettamente, aventi l’idea o parola o nesso ortografico come unità funzionali e grafiche, salvo che volendo scrivere sulla carta a quadretti dei quaderni scolastici. Scrivendo a mano normalmente, potevo soltanto tentare di carpire istintivamente lo spaziotempo prestabilito nella formulazione del primo verso, e forse più tardi e artificiosamente, ridurre il tentativo ad una sua forma approssimata, riportata tramite stampa meccanica. Scrivendo a mano poi, si pensa con più lentezza; il pensiero deve aspettare la mano e viene interrotto, ed ha più senso il verso libero che rispecchia queste interruzioni, e questo isolarsi della parola e della frase. Ma scrivendo a macchina posso per un poco seguire un pensiero forse più veloce della luce. Scrivendo a mano forse dovrei scrivere prosa, per non tornare a forme libere: la prosa è forse infatti la più reale di tutte le forme, e non pretende definire le forme. Ma ritentare l’equilibrio del sonetto trecentesco è anch’esso un ideale reale. La realtà è così pesante che la mano si stanca, e nessuna forma la può contenere. La memoria corre allora alle più fantastiche imprese (spazi versi rime tempi). 1962 (1964)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLOSSARIETTO ESPLICATIVO PER “VARIAZIONI BELLICHE”

pag. 7 pag. 8 pag. 9 pag. 11

pag. 17

pag. 18

pag. 25 pag. 29

car (francese per “perché”: si ritrova spesso nella serie Poesie, come parola chiave) le riverberate vetra (ovvio arcaismo di chiusura) perleo (abbreviazione poetica per “perlaceo”) ricolte (da ricogliere; ant. o lett. per “raccogliere”) m’assiedo (fuso di “m’assido”, “m’insiedo”) per i valli = le valli (intercambio di generi, frequente in tutto il libro Variazioni belliche, del resto frequente, credo, nel parlato, nel letterario e probabilmente nei dialetti. Accentuo licenza poetica, e incertezza in fondo grammaticale, non solo mia) (lat. vallis o valles) “rubi” “i” = (abbreviazione poetica per “non li rubi i sentimentali cori, essi si rubano da sé”; cioè si sostituiscono “i” e “li” in forma pseudoarcaica o provenzalizzante) “pò” “i”/“O!” (= possa io: linguaggio allusivamente segreto, foneticamente riduttivo: disgregazione non necessariamente soltanto poundiana) (l’intera poesia s’inventa forme miste – fuse – e pseudoarcaiche; specie di lingua inventata da studenti di filologia). L’ultima riga torna però alla compresa favella che fa sì che l’amore resta. Direi che nelle righe precedenti siano riassunti stilismi “novi”, provenzalismi, spagnolismi, latinismi amorosi, con per es. anche le u meridionali o sarde) brimosi (allude a “brina”; “bruma” “brama”, associazioni verbali) affumicò miei occhi (contrazione anche popolare; in un certo senso anche inglesismo: obscured my eyes senza articolo) (viene ripreso, impercettibilmente, lo stile leopardiano o romantico italiano: o gran varietà del tutto!; io cangio colore; sì duro a partirsi; usata usanza; usati sensi, in parte ironicamente, per contrasto con furgoncino; il gran salame; lunga farina; e tu che ne capisci niente) vicissitudini (da “vissitudini”; “vicenda”; “vicinanze”: composto ironico)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

70

AMELIA ROSSELLI

pag. 30 lavatemi gli piedi… / le feroci accuse… / reclino capo: (riferimento a Cristo) gli piedi: forma arcaizzante, analfabeta reclinate le vostre accuse: inglesismo to decline per “rifiutare”; e = “piegare in senso contrario” (in italiano) vollei = “volli” ant. e lett. pag. 31 (ripresi alcuni temi rimbaudiani, vedi L’Éternité) spargo / tuoi piedi = spargo i tuoi piedi (solita abbreviazione poetica) per chi non ha il ventre piatto (allusione – incomprensibilmente indiretta – a chi “è incinta”) l’analisi (in senso generale è però anche analisi d’urina per diagnosticare stato interessante) ’l sole = “il sole” (abbreviazione poetica arcaizzante) pag. 32 cellula (allude anche a “cella”, o “cellule” = strutture minime organizzative Pci) pag. 35 sgragnatiture (onomatopea e fusione di “sgraffiature”; “sgranare”; allude anche a “sgramaticato”; “sgranocchiare”; “sgraziato”, “gragnolare”, “cader la gragnuola” = popol. per “grandine”) pag. 37 antico ereditaggio (fusione di “eredità” e “retaggio”) pag. 38 che ciangelli (fusione associativa: inglesismo to chancel = traballare con riferimento a “cancello”, “augelli”; anche da “cangiare”, “cianciare”) per Variazioni 1960-61 pag. 41 etmisfero (da “emisfero” e “atmosfera”, riducendo spazio a livello umano). Secondo me una fusione troppo astratta e dubbia. In una seconda edizione avrei preferito forse eliminare questa “fusione-associativa”, ma si ripete anche qua e là in altre poesie. pag. 46 tarda giacevo fra / dei conti in tasca (goffaggine tipicamente popolare, analfabeta-arcaica) la congenitale tendenza (“congenita” + “congenital”, inglese per congenita, + “genitale”: fusione dei tre in senso grottesco-allusivo) pag. 48 Dopo della gioia; dopo della fame; della noia; della notte; dell’inferno; dell’aria si alternano a invece: dopo il dono; dopo la pazienza; dopo l’inchiostro; dopo l’infinito; dopo i suoi versi. pag. 49 la mia fortitudine; il quadrato della certitudine (per me, forme antiretoriche) pag. 51 contro del magazziniere; contro del pourboire pag. 52 in preda a uno shock violentissimo (ortografia anglosassone)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA

71

pag. 55 (allusioni a personaggi e maiuscole del Barone rampante di Calvino, ma molto indiretto il clima fiabesco) pag. 64 (quà è sbaglio di stampa: = qua) (Lagrime in silenzio è sbaglio di stampa, sempre dell’editore = Lagrimo) pag. 65 (l’alternarsi di vocativo “O”, e “o” è volontario, come del resto anche in Poesie 1959); aquerella: (distorsione lett-popolaresca-ant.) pag. 66 (l’uso di maiuscola per Americani è licenza poetica e richiamo a poesia di pag. 55) pag. 69 il choc alla nuca (alternata l’ortografia all’italiana) Nelle castelle (solito rovesciamento al femminile, spesso per ragioni anche fonetiche, se non ironiche) pag. 71 contro / della rivolta inutile (da Mallarmé) pag. 72 imperterviava (invenzione da “imperversava + impervio + imperterrito”) “studiava piani e etmisfere” poi iterazione con variante “studiava piani e emisferi” reinvolgeva (latinismo) (decontrazione) pag. 76 da cui guidare (non ho nessuno da guidare e cui guidare fusi: accentuazione della contraddizione con “tramite cui, cioè essere guidata da”) pag. 78 cadevano / le mantellate (allusione a prigione femminile romana + mantellare = coprire con mantello, nascondere un vizio con false apparenze di virtù) pag. 83 dai miei cari sensi (da Rimbaud) seguire / il servizio d’un re (frase tipica dall’I king, libro divinatorio pre-taoista cinese) pag. 90 Che il tempo miserabile consumi me e tutte le mie tristezze vedi Campana: «Il tempo miserabile consumi / Me, la mia gioia e tutta la speranza» pag. 92 de la indifferenza (de la: lett. tosc. vedi Campana) pag. 93 infra; intra (latinismi) pag. 106 le vostre lamentela; gioco di vocabole (lett. fonet.) pag. 115 Il mio ombrella (“ombrello” è regionale; “ombrella” corrente) della platitudini (sbaglio di stampa: in realtà “delle”) pag. 116 la sua fallimenta (marcatura fonetica distruttiva di grammatica classica) pag. 130 valigia portata in mano (goffaggine da soldato inesperto) ribattere il prezzo del pane (fuso di ribassare e ribadire) pag. 142 Ho scritto: – il falegname nella / sua artiglieria piangeva (allusione a Campana: «Ho scritto: Si chiuse in una grotta / Ar-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

72

AMELIA ROSSELLI

senio fortissimo disegnatore / dipinse quadri piccoli e grotteschi») pag. 145 una sonaglia porporea (solita inversione di desinenza) Fuoriuscita / dalla prigionia il vento (fuoriuscita si riferisce ad autrice) pag.149 una olocausta le muscosa sempre aperta (desinenze femminili accentuate per ragioni d’equilibri fonetici oltre che lett.) pag. 152 la tua favola (il favolo...: fuso di favo + fagiolo ma alludente egualmente a “favola” o albero) pag. 159 L’ideale se ne va con voci infantili (estratto da Campana) pag. 164 (poesie scritte dal 1961) pag. 169 sparimenti (per “sparizioni”; rima parallela con “fallimenti”) pag. 171 (distico di chiusura è forse una delle chiavi filologiche; vedi anche pag. 10 in Poesie, 2° e 3° verso) (1994)

I numeri di pagina si riferiscono all’edizione Garzanti 1964 di Variazioni belliche. Per agevolare la lettura si riporta l’incipit dei singoli componimenti e il numero dei versi in cui figurano parole o sintagmi commentati dalla Rosselli. pag. 7 pag. 8 pag. 9 pag. 11 pag. 17 pag. 18 pag. 25 pag. 29 pag. 30 pag. 31 pag. 32 pag. 35 pag. 37 pag. 38 pag. 41 pag. 46 pag. 48 pag. 49 pag. 51 pag. 52 pag. 55

«Roberto, chiama la mamma, trastullantesi nel canapè», v. 8 «E l’albeggiare sarà», v. 2 «E poi si adatterà, alle mie cambiate contingenze, car», v. 16, v. 17 «Non da vicino ti guarderò in faccia, né da», v. 8 «Certe mie scarpe strette, sì vilmente mi causano torture», v. 4, vv. 6-7 «Cos’ha il mio cuore che batte sì soavemente», v. 8 «tu non sai quale oscuro precipizio», v. 2 «l’iddio che brucia tutto tra furgoncino e la pietà, il», vv. 1-2, v. 9, v. 10 «e cosa voleva quella folla dai miei sensi se non», vv. 5-7 «la mia fresca urina spargo», vv. 1-2, v. 4, v. 6 «sereno il suolo mi rendeva», v. 7 «i rapporti più armoniosi e i rapporti più dissonanti, tu povero», v. 13 «tu rubi da anni l’antico ereditaggio», v. 1 «o dio che ciangelli», v. 1 «Se nella notte sorgeva un dubbio su dell’essenza del mio», v. 4 «Contiamo infiniti morti! la danza è quasi finita! la morte», vv. 4-5, v. 17 «Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza» «Ma se la morte vinceva era la corrosione ad impedirmi di», v. 3, v. 9 «Contro del magazziniere si levava il grido dell’incoscienza», v. 1, v. 2 «In preda ad uno shock violentissimo, nella miseria», v. 1 «All’insegna del Duca di Buoninsegna, il duca guidava»

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI ORIZZONTI DELLA POESIA pag. 64 pag. 65 pag. 66 pag. 69 pag. 71 pag. 72 pag. 76 pag. 78 pag. 83 pag. 90 pag. 92 pag. 93 pag. 106 pag. 115 pag. 116 pag. 130 pag. 142 pag. 145 pag. 149 pag. 152 pag. 159 pag. 164 pag. 169 pag. 171

73

«Prendevo la spada e gridavo: fuori di quà cuorleone», v. 1, v. 6 «I bambini d’inferno crescevano sporadicamente, le», v. 2 «Il condominio pagava la sua parte di rancore ed accomodava», v. 7 «Ma in me coinvenivano montagne. Nella cella di tutte», v. 6, v. 11 «Combinata la rima volava l’albergo. Combattiamo contro», vv. 1-2 «Contro del re dell’universo gridavano anacoreta e», v. 15, v. 4, v. 6 «Dentro della preghiera rimava ancora il prete con la», v. 2 «Contro di ogni malattia svegliavo gli orologiai ma nulla», vv. 12-13 «Se io volevo fiorire sfiorivo. Se volevo cadevo. Era per l’estate che», vv. 3-4 «Che il tempo miserabile consumi me e tutte le mie tristezze», v. 1 «Non so se di tra le pietre spuntate de la indifferenza», v. 1 «Infra le fatiche de la mia giornata, s’arrovellavano», v. 1, v. 2 «Giocavo volentieri con l’invidia! Sentivo la nascita», v. 3 «La pazzia amorosa non è che una stella filante nel deserto», v. 20 «Era potentissima la sua gioia. Era davvero un peccato», v. 6 «Sul comignolo riposa la notte annegata nel suo proprio splendore», v. 4, v. 6 «I quattro contadini spostavano la rete, depositavano nella», vv. 2-3 «Contro ogni tentativo della sorte suonava una freccia imbiancata», vv. 8-9 «La stanchezza riposava su due guanciali e la notte era», v. 2, v. 7 «Se la parola altrui è fonte di disonore allora pianta», v. 2 «Il fratello della signora digiunava a poco prezzo», v. 4 «I tuoi occhi di ceramica, le tue membra lussuose» «Il tuo sorriso ambiguo curvava ogni mia speranza», v. 6 «Con tutta la candida presunzione della mia», vv. 5-6

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SULLE PAGINE DEGLI ALTRI

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

L’ACCUSA DI PROVINCIALISMO TURBA TROPPO GLI ITALIANI

La paura di essere tacciato di provincialismo ha fatto strage tra gli intellettuali della generazione di mezzo, e il nervosismo (un nervosismo tutto irrazionale) che ne scaturisce può ben dirsi una delle cause di tanti litigi o querele tra letterati. Ed anche a questa causa è da attribuire il vivace impegno delle nostre case editrici nel tradurre a ondate veloci i testi stranieri classici e dell’avanguardia internazionale. L’autore trentenne o quarantenne italiano però si dimostra non soddisfatto d’un semplice assorbire i testi nuovi e anche sconvolgenti, in vista di una lenta e sagace assimilazione, ma desidera anch’egli ripetere quasi in identico modo gli sperimenti dei linguisti stranieri, spesso producendo invece un’autentica “traduzione” o trasposizione di questi testi, in pasticcio adatto per il nostro pubblico ancora sorpreso e ignaro dei banchi di prova quali rappresentati dalle opere di Cummings, Pound, Eliot e Joyce, tutti vissuti e attivi tra il 1900 e il 1960 circa. Più “provinciale” ancora che non quello che generalmente viene in tal modo definito ci sembra questo reperire idee e trovate originariamente nuovissime, e imitarle senza un coerente autointerrogarsi circa i nostri propri fini artistici, i nostri debiti con la società in cui viviamo, le nostre proprie caratteristiche sia culturali sia razziali. Spesso testi di tipo pastiche quali quelli per esempio di Ezra Pound e a volte di Eliot, vengono mal compresi e digeriti (in quanto fra l’altro spesso letti in traduzioni); del tono leggero e ironico del Pound dei Cantos (1917-59) nulla viene carpito dai nostri rapaci traduttori-autori, e del clima culturale degli anni 190060 della cultura anglosassone si colgono soltanto i procedimenti linguistico-tecnici, isolandoli da un contesto dalle caratteristiche ben diverse da quelle italiane e anche internazionali odierne. La lingua italiana corrente o letteraria è pesante: la sua grammatica è squadrata, razionale, la sua fonetica sovraccarica; l’ideologia italiana è professorale: l’aureola cattedratica e classica difficilmente scompare dalle teste dei più spregiudicati scrittori d’avanguardia della nostra generazione. E infatti nel libro di Giuseppe Guglielmi, nato a Bari nel 1923 (Panglosse, edizioni Feltrinelli 1967), che include versi scritti dal 1953 al 1966, l’uso per esempio del latino frammisto col francese e l’inglese, o d’un italiano di derivazione ironicamente classica e letteraria, non raggiunge nemmeno lontanamente l’effetto che

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

80

AMELIA ROSSELLI

raggiunse con Pound originatore di tale procedimento, ma è spesso una volontà di dimostrarsi non solo colti e appartenenti alla “buona” società culturale, ma anche indifferenti a problemi che infatti non necessitano una così faticosa messa in scena. Pound derideva l’internazionalismo; a volte lo magnificava con un misticismo e con prove di erudizione che sono in ultima analisi di genere umoristico: il Guglielmi (ed anche altri poeti di più profondo mestiere e sentire, quale Sanguineti) dell’internazionalismo colgono piuttosto il lato snob, poliglotta e individualistico, a volte pedantesco; e credono di operare, con il fondervi la loro angosciata problematica individuale tipicamente “provinciale”, un rinnovarsi delle belle lettere italiane secondo loro stagnanti in quanto troppo lontane dagli schemi dell’avanguardia internazionale. In ogni pagina del libro del Guglielmi queste intenzioni sono chiare, questa ingenuità dinanzi a testi ben più sottili si rivela e la disgiunzione da strati di popolazione meno “preparati” linguisticamente viene anzi accentuata e non resa problematica. Noi crediamo che però Giuseppe Guglielmi (fratello del critico Angelo Guglielmi, uno dei portavoce del Gruppo 63) abbia talento da vendere, intelligenza fertile e agile, ma soltanto raramente nel suo libro ritroviamo quello di cui con tanta intensità la cultura italiana abbisogna: un rigoroso interrogarsi, interrogare perfino i propri strumenti di lavoro, un nostro distinguerci dai testi-base che tanta parte ebbero nella nostra formazione culturale. Poche sono le righe che sorprendono per la loro genuinità; per scavare nell’ammasso di parole e di significati che riempiono questo libretto di sessantun pagine un qualsiasi contenuto globale o nuovo, dovremmo andare col binocolo. Alcune, anzi parecchie poesie in cui il groviglio si placa (specie quelle giovanili, scritte in stile quietamente e sottilmente neoclassico), hanno charme e spesso profondità almeno latente; siamo convinti che l’autore avrebbe potuto e ancora potrebbe dare molto di sé non solo alla letteratura italiana ma a quella mondiale, se con più modesta e sagace mano, con meno precipitosa ansia di uscire dalla solitudine culturale in cui l’Italia si trovò per tanti anni, avesse guardato in se stesso e attorno. E nemmeno vorremmo del tutto biasimare il prodotto e le intenzioni del Guglielmi, in quanto le sue poesie anche se faticose hanno una loro particolare e a volte ancora valida verità; ma vorremmo sperare e suggerire un più cauto e allo stesso tempo più avventuroso assimilare di culture straniere, e un più coraggioso staccarsi da esempi che non necessariamente corrispondono anche strutturalmente ai bisogni di oggi e del futuro. (1967)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

RESISTE AGLI ESPERIMENTI DELL’AVANGUARDIA

Abbiamo sempre ammirato le intelligenti e sensitive traduzioni di Angelo Maria Ripellino, specializzato in testi slavi e saggista informatissimo (Storia della poesia ceca contemporanea, 1950; Il trucco e l’anima sul teatro russo moderno, 1965; e altro ancora) anche se un poco isolato nei suoi interessi, tanto da informarci minuziosamente di testi ancora non tradotti in Italia, e delle varie bagarres connesse ai testi e spesso sollevate in circostanze a noi però ignote (e perciò non verificabili né nei dati né nell’interpretazione di essi). Ma della sua produzione poetica sapevamo ben poco: letture a caso, in antologie, ci permettevano di intuire una produzione che infatti oggi si dimostra molto intensa e vasta, nel libro La fortezza d’Alvernia. Va subito precisato che questo testo fu ispirato e quasi generato da uno stato di estrema solitudine e depressione, connesso allo sfociare di una abbastanza lunga malattia che l’autore subì negli anni 1965-66, e che rese necessario il suo ricovero nel sanatorio di Dobris, vicino a Praga. Il tono infatti tormentato e depressivo delle poesie può ricollegarsi alla tetra esperienza del ricovero e della malattia; ma pensiamo che questo tono sia genericamente proprio dell’autore, anche perché nella seconda parte del libro vengono incluse poesie scritte invece dal 1961 al 1965 e dunque non durante la malattia, che hanno identico tono scoraggiato e senza speranza, tipico della prima parte intitolata La fortezza d’Alvernia. Eravamo sempre stati curiosi di sapere se a interprete e traduttore così fine e distaccato (vedere le apprezzatissime e musicalissime traduzioni da Pasternak) corrispondesse un poeta e una poetica in proprio, altrettanto complessi e limpidi. In parte siamo rimasti delusi, in quanto nello scrivere del Ripellino notiamo invece un impasto assai pesante, non solo musicalmente, ma anche tecnicamente, di immagini e allegorie un poco letterarie: le poesie, anche se coraggiosamente chiare nel contenuto, sono faticose da leggersi proprio perché quel sottile gusto fonetico e immaginifico delle traduzioni scade invece nel lavoro più creativo in eccesso smisurato e non assottigliato dalla fantasia, in pastosità verbale non controllata e un poco compiaciuta. Ed è chiaro, anche se noi non conosciamo la lingua originaria dei testi da cui Ripellino traduce, che l’autore è rimasto assai influenzato

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

82

AMELIA ROSSELLI

da tonalità e modi non di sua invenzione ma tipicamente russi e slavi, cioè non del tutto autenticamente “suoi” nelle aspirazioni e nella rappresentazione anche se parziale del suo essere. D’altra parte le sue poesie può dirsi che hanno grande ricchezza di invenzione, e sincerissima commozione, e intelligente fusione di tematiche personali con quelle puramente culturali (vedere riferimenti a musicisti jazz americani, ad autori e musicisti slavi, a Klee, Ernst, Mahler ecc. molto esplicitamente analizzati nella nota di Congedo posta in fin di libro). Un certo atteggiamento un poco fin siècle dell’autore dinanzi alla sua materia, cioè un certo tipo di sconforto in cui tutto tende al nulla (vedere per esempio versi ricorrenti nei loro significati, come «il mio desolato, derisibilissimo assolo»; «la malinconia ti vien dietro come un cane»; «amaro è il vedersi in sfacelo nel gorgo»; «su una desolata spiaggia baltica»; «di gialle immondizie e di sputacchiere»; «il suo universo di cartapesta»; «disperato chiacchierio degli uomini»; «piccoli fantocci allibiti» ecc.) può intuirsi che in parte è derivato dalla dimestichezza con la letteratura slava, ma sorprende anche che dai testi a volte così splendidamente vitali come quelli di Majakovskij e Pasternak l’autore abbia rattenuto così poca ammirazione per la vita anche nelle sue forme più atrocemente combattive. O è forse proprio quella sua dimestichezza con testi d’una civiltà più coraggiosa della nostra ad aver creato nell’autore come un profondo dissidio con l’ambiente socialculturale dell’Italia, e uno sconforto che trova sfogo solo in amare righe tendenti a esporre uno stato se non di nevrosi piuttosto di sfacelo e abbandono. Comunque a parte questo nostro disaccordo con alcuni aspetti della “vocalità” ripelliniana, rimaniamo convinti della qualità del suo esprimersi, della sincerità oggi tanto rara del suo sforzo, e anche della finezza di alcuni suoi profondi sentimenti che hanno sfociato in liriche di valore più che medio, di stile certamente non affettato, di lingua anche se secondo noi troppo pesante e sovralimentata, comunque fresca e ricca. Interessante la nota con la quale l’autore conclude il libro, autobiografica in gran parte, informativa culturalmente, ma un poco tendenziosa nei giudizi espressi riguardo alla propria produzione. Siamo del parere però che il critico ed esperto di lingue e letterature poteva in questa occasione lasciare più largo spazio al poeta, abbandonando ai lettori l’affascinante compito di penetrare nel groviglio denso dei suoi versi, ricavandone accostamenti a loro piacere. Ultima sorpresa del libro è il constatare che Ripellino quasi mai si lascia abbagliare da esperimenti avanguardistici tipicamente in uso

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

83

oggi tra alcuni poeti appena più giovani di lui, ed anzi ne rifugge quasi del tutto, benché informatissimo e spesso simpatizzante riguardo tali esperimenti. A prima lettura il libro La fortezza d’Alvernia, se non avessimo già conosciuto il suo autore per altri scritti e per la sua matura cultura, poteva sembrare lo scritto di un esordiente di notevole cultura ma isolato e forse arretrato nei suoi interessi e nel suo sentire. Avremmo consigliato un “purificare” dello stile, un uscire dall’isolamento e dalla tetraggine inutilmente, ché l’autore già fa ciò da sé... ma protesta comunque nell’appartarsi dei versi che egli mal volentieri pubblicava sinora. (1967)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

“CARA MILANO” E POESIE PER PAVESE

Annualmente alla stampa si presentano i cosiddetti “libri minori” di poeti o nuovi o minori, e di prosatori in miniatura: cioè libri di piccolo formato, di circa quaranta-sessanta pagine, con copertina modesta di cartone, e nessun preannuncio pubblicitario. E difficile rimane in sede critica darne avviso, in quanto questi libri per un verso non sono raggruppabili per genere e scuola, e per l’altro è giusto non scartarli automaticamente da programmi critici e di divulgazione; tra tanto materiale stampato non si sa mai dove possa crescere “l’erba del re”, cioè il libro di qualità, anche se dal formato ridotto e meno appariscente. Tre poeti, Luciana Frezza, Franco Antonicelli, Folco Portinari, hanno pubblicato negli anni 1967-68, con gli editori Neri Pozza, Scheiwiller, e Mondadori rispettivamente brevi raccolte di cui diamo qua breve rendiconto. I tre poeti, diversissimi uno dall’altro per atteggiamento, tipo di ricerca, attitudine, vanno studiati ed elencati criticamente come su schede, in quanto neanche confrontabili per intenzioni del versificare, o per qualità del risultato. Quarto ma non ultimo daremo notizia della ristampa del libretto di Carlo Betocchi L’anno di Caporetto: cinquanta pagine di prosa, scritte da poeta notissimo a tutti gli studiosi della poesia del Novecento italiano. Nel libro Cara Milano, l’autrice Luciana Frezza include una ventina di poesie degli anni 1960-66, di discreta eleganza e forbitezza, anche se non nuove nel contenuto e nella loro presentazione metrica. In queste poesie predomina sopra tutto l’elemento descrittivo, minuzioso e nostalgico, dei luoghi, delle persone. Qua e là spiccano alcuni versi assai originali per semplicità e finezza d’immagine, ma sembra mancare, anche se volontariamente, una visione più larga delle cose e dei fatti. Il tono prevalentemente prosastico porta però a volte a chiusure eccessivamente didattiche che non aggiungono alcunché alle poesie, le quali hanno livello letterario più alto negli scorci descrittivi più umili. Molto diverse le quaranta poesie brevi di Franco Antonicelli, nel libro Improvvisi; le poesie hanno infatti carattere di fresco improvviso, e soprattutto di diario, di “memorandum”: scritte dal 1948 al 1967, piuttosto intense e dolorose, con dediche a carattere del tutto interio-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

86

AMELIA ROSSELLI

re a Pavese, Anna Frank, Montale, Majakovskij, Pound, Caproni, e all’amico Leone Ginzburg. L’autore menziona nella breve introduzione di aver scritto questi versi «pensando e lavorando ad altro»: tuttavia anche se rapide annotazioni senza troppe pretese stilistiche, questi versi hanno un certo fulgore, e una chiara scorrevolezza che li rende interessanti. Varia anche è la tematica, in prevalenza politica. Più ampi i temi del discorso che nella poesia della Frezza. Con maggior impegno o pretese Folco Portinari si accinse a pubblicare il libro Cambio di moneta, di circa trenta poesie: lo sforzo stilistico è evidente, e l’impegno è non “privato” ma globale o anche sociologico. Il risultato però non sembra a noi di alto valore, anche perché difficilmente si saprebbe precisare perché chiamare “poesia” questa scrittura in cui il ritmo, lo stile, sono quelli propri della prosa più immediata, e in cui quei pochi giuochi grafici utilizzati quasi per drammatizzarne il senso sono di solito gratuiti e non significanti. Il tono è genericamente quello della protesta contro la civiltà moderna, la sua sconfortata umana condizione. La lingua è scettica, e a volte cinica, un poco goliardica: ciò toglie ad un protestare del resto più che legittimo qualità di vissuto e di necessario. Lo scrittore volle forse avvicinarsi per clima e vezzi linguistici ad alcuni poeti del Gruppo 63 (per esempio Pignotti, Guglielmi), ma il suo versificare e le sue intenzioni mancano della complessità di questi ultimi, e il suo “distruggere” miti e situazioni si rivela spesso arido, facile, impotente. Un articolo a parte meriterebbe il breve libro del poeta Betocchi, breve prosa in pochi capitoli, se non fosse che questo squisito testo (L’anno di Caporetto) già fu stampato su rivista nel 1931 (“Frontespizio”) e in formato di libro nel 1959. Ma in tutti i modi è valsa la pena il ristamparlo: non solo per la ricorrenza cinquantenaria di Caporetto, ma soprattutto per l’alto valore di scrittura esemplificato dal terso e attento libretto. Non sempre i poeti comprendono la prosa, e spesso anzi ne rifuggono: il Betocchi invece pensò giusto esercitarla regolarmente, per immettere forse più respiro e significanza alla sua versificazione. Raramente ci è stato dato di entusiasmarci tanto per così chiara, nitida, sentita e raffinata scrittura che pur decisamente facente uso di vocaboli e giri di frase meno usati e più “scritti” che parlati, non ha nulla del letterario o sovraccarico tipo di tanta prosa poetica. Anzi si direbbe piuttosto che la prosa del Betocchi sia fredda, calcolata, preziosa nel senso migliore della parola, se non fosse che per tutti i dodici brevi capitoli spira così autentica pietà e così vera tristezza, attribuibili soltanto a chi ricorda ciò che di pietoso e di doloroso egli ha nel passato vissuto. Si tratta di un resoconto della ritirata di Caporet-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

87

to, sotto la pioggia costante, nella stanchezza estrema e nell’umiliazione della sconfitta: questa parte centrale del breve libro è tornita da descrizioni della vita del soldato a quei tempi, riportandone minime, poetiche impressioni, che anche al lettore, per grande abilità del narratore, sembrano rimanere impresse nella mente per sempre. Lezione di stile e di sentire: scelta editoriale intelligente e feconda. (1968)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

“DAL BALCONE” E “L’ANGELO ATTENTO”

È dal 1933 che Sergio Solmi si è guadagnato un nome come poeta pubblicando Fine di stagione, poi incluso nella raccolta Poesie stampata da Mondadori nel 1950, e Levania e altre poesie pubblicato nel 1956. La poesia del Solmi è stata sinora considerata piuttosto come una sua attività collaterale a quella più ufficiale di critico e saggista; tuttavia i suoi versi vengono inclusi in antologie del Novecento, e menzionati in ogni studio critico e d’informazione sul Novecento italiano. Così quieta e poco innovatrice (apparentemente) la sua scrittura, che spesso viene considerata poesia prodotto di una riflessione critica e non creativa, e appartenente alla corrente intimistica e montaliana: come se di suo e da solo Solmi avesse voce troppo soffocata da potersi isolare nel senso di una creatività in se stessa significante. Ora è uscito il libro Dal balcone che include versi scritti tra il ’49 e il 63; e anche a questo libro è attribuibile forse una troppo forte influenza montaliana (vedere quasi imitativo il procedimento di aggiungere alle poesie delle note in fondo al libro, dove vengono precisati in stile prettamente montaliano i luoghi, gli eventi, minuziosamente giustificati dalla poesia, e , un poco inutilmente, al lettore). Ma in qualche modo la stilistica di Solmi affannosamente cerca una uscita dalle ristrettezze di un vocabolario letterarissimo (vedi l’uso di parole come per es. «ploro» per pianto, «occiduo» per occidentale, «scerpato» per spiantato): spesso i suoi versi sono come resi limpidi e raggianti da una poetica invece molto particolarmente sua: come un estatico amore per la natura, dove luce e colori di strade cittadine e dei campi sembrano commuoverlo più d’ogni cosa. Ed è in questa commozione che il linguaggio così tecnicamente e dottamente letterario prende vitalità e dà gusto al lettore per antichi più sottili verbi colti e oramai fuori uso corrente. Basta qualche verso scelto tra altri anch’essi fini e controllati, a dare prova di questa oggi rara capacità per il “bel verso”: ad esempio «Lunghi, assonnanti e sviscerati i gridi / degli ambulanti», oppure «preciso lo spigolo / dell’edificio l’ombra della luce / scomparisce», o «sospesi / in un mondo esitante, ombre gentili / assunte in un deliquescente eliso» sono versi che fanno trasalire il lettore per la loro pungente chiarezza. Meno felici le poesie dedicate a tematiche cosiddette attuali, come quelle intitolate La scuola serale, L’astronauta: lì il

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

90

AMELIA ROSSELLI

discorso si fa più banale, come se l’autore, portato soprattutto a esprimere una sua vita interiore molto complessa e quasi incomunicabile, facesse artificiosamente sforzo su se stesso per ravvicinarsi ai tempi d’oggi, più estroversi e polemici. Troviamo non necessario questo sforzo nel caso di Solmi, ché rimane valido e attualissimo il suo canto chiuso ed esitante, e s’impoverisce il suo nostalgico creare, se forzato in direzioni a lui in fondo poco congeniali. Nel pastiche finale intitolato A Giacomo Leopardi dove vocabolo e metrica sono con grande rispetto manipolati a discorso imitativo e un poco fatidico, anche è meno abile la mano dello scrittore, e viene rimpianto il suo più lineare e semplice versificare problemi tipici della sua generazione e il suo comprendere il mondo attorno nei suoi aspetti più delicati e sensibili. Forse con più coraggio l’autore dovrebbe essere se stesso, e dimenticare critiche di scuole e generazioni, per comporre altri versi splendidi come questi che riporto ancora, nel ricordare al pubblico la abilità del poeta: «Il blocco luminoso del delirio»; «ritrovarti in un paradiso del cuore»; «luminosa fiorita insonnia d’erbe». Quest’ultimo verso è quello che è il libro nei suoi momenti migliori, e ne esprime simbolicamente le qualità salienti. Il libro di Antonio Barolini L’angelo attento, Il meraviglioso giardino e altre poesie inedite anch’esso raccoglie poesie scritte in un lasso di tempo assai ampio (dal 1936 al 1966); di esso, e particolarmente nella prima parte, spicca un tono emotivo e quasi semplicistico che in altri poeti meno complessi potrebbe passare per ovvietà o cattivo gusto. Invece nel Barolini la sorpresa e lo charme del testo direi che è preponderantemente in questa capacità d’innocenza adulta, cosa rarissima oggi nei poeti, che poco si fidano di sentimenti primari o scoperti. È una ingenuità calcolata, scelta: e in ciò diremmo che sta il primo pregio di questo libro non chiassoso e non pretenzioso. Purtroppo nella seconda e più recente parte del libro questo tono fresco sembra venir meno, e messo in dubbio: la permanenza negli Stati Uniti, pur fornendo all’autore spunti e tecniche meno casalinghi e tipici, ha avuto l’effetto di complicare la tematica trasparente e inusualmente sana del giovane Barolini, e i temi scelti (ad es. A Goethe, Elegie di Croton, Apoteosi di Di Maggio, I colori dell’Hudson) a noi paiono sviluppati in modo letterariamente sì ingenuo, ma nel senso meno positivo della parola. Resta il fatto che a questi versi (specie quelli della prima parte) è doveroso porre attenzione: la tenerezza e appena appena ironica semplicità dei temi e del linguaggio suggeriscono nuovi moduli del far poesia, quasi una poesia popolare, che nessuno invece oggi credeva più affrontabili.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

91

Un articolo a parte meriterebbe la traduzione del recentemente scomparso Manara Valgimigli, di Saffo, Archiloco e gli altri lirici greci. Ad occhio un poco profano, le traduzioni sembrano duttili, di garbo e buon gusto: un confronto con le traduzioni di Quasimodo degli stessi testi rivela grandissime differenze nel metodo di traduzione al punto che a volte difficilmente sono riconoscibili due identiche liriche tradotte con metro ognun diverso, e con linguaggio più complesso, cauto e preciso, dal Valgimigli, e più libero e personale da parte di Quasimodo. Trattandosi di traduzioni prestiamo maggior fede alla impostazione del Valgimigli: ma la questione della traduzione di testi dal greco e dal latino è del resto talmente complessa e labirintica, che richiederebbe studio molto particolareggiato, e discussioni molto tecniche, prima di venir affrontata. Abbiamo menzionato il testo del Valgimigli anche perché ci è sembrato che forse maggiore attenzione andrebbe rivolta alla influenza che ha avuto su tutto il Novecento letterario italiano, e particolarmente sul primo cinquantennio del secolo, la pratica della lirica greca: tipico in questo è il testo sopra recensito del Solmi, nel quale l’autore nei suoi momenti linguisticamente e formalmente migliori, tocca certi tasti che a noi sembrano direttamente attribuibili a dimestichezza con testi classici e particolarmente tali quelli tradotti dal Valgimigli, dove così ricco alone di luce e spazio circonda le fragilissime liriche. (1968)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SANDRO PENNA

Possibile che un poeta non sappia scrivere altro che poesie d’amore? Che la poesia in se stessa non sia altro che vanificazione dell’amore, con le sue congiunte sublimazioni, compensazioni, proteste e denunce d’infelicità, d’insoddisfazioni (anche sessuali)? Che lo scrivere ormai sia cosa “da bambini”, di gente troppo legata a vanità tipiche di un ceto borghese, incapace infatti di cambiare il mondo? Ciò è quello che tutti gli scrittori oggi dicono, gettandosi nella lotta politica, purtroppo spesso ingenuamente, o portandovi egual dose di vanità personale, a cui lo stampare e lo scrivere li ha lungamente abituati. Eppure ad ogni inizio, ad ogni aprirsi d’animo allo scrivere versi, nulla di tutto questo era primario: lo scrivere era proprio di chi rivoluzionariamente era forzato ad una nascosta anche se quieta protesta, isolato e isolandosi da ogni compartecipazione ad un mondo nevrotico e borghese. E di questa primissima e forse primitiva innocenza pochissimo resta nelle “mezze età”, lo scrittore essendosi ormai abituato ad un meccanismo che lo forza a partecipare, anche se soltanto per salvarsi sul piano finanziario, e sociale. Raramente e soltanto tra i migliori, veri poeti si ritrova la primissima giustezza d’aspirazioni del tutto interiori, quando poi li avrà attanagliati la vicenda del pubblicare e venir compresi. Tra questi migliori e veri poeti si situa Sandro Penna. Ed è per questo che l’editore Garzanti ha quest’anno stampato una specie di opera omnia che è il testo Tutte le poesie di 349 pagine, in cui sono inclusi i cinque testi fondamentali del Penna (Poesie, 1927-36; Appunti, 1938-49; Una strana gioia di vivere, 1949-55; Croce e delizia, 1927-57; Giovanili ritrovate, 1927-36) e ben 34 inediti degli anni 1927-55. La pubblicazione è bella, sia nel formato, sia nelle equilibrate intenzioni. Il fatto che non si ristampassero le prime edizioni (Garzanti; Longanesi) e le molte poesie pubblicate in minuscole raccolte un po’ troppo introvabili e preziose, aveva danneggiato il poeta e il pubblico che ne era in tal modo allontanato. Con questa utile, necessarissima pubblicazione si ripropone, ora che Penna da più di dieci anni non scrive e non vuol scrivere, la domanda iniziale di questo articolo: e cioè: deve per forza la poesia esprimere soltanto amore-sesso in ogni sua forma trasformata o imbellita

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

94

AMELIA ROSSELLI

che sia? È vero che ad analisi attenta soltanto questo è il tema fondamentale di ogni poesia? Ha senso il compensare, il sublimare, o invece è così che viene elusa la vita, e che non si affrontano a fondo i problemi sublimati e “trattati” filologicamente, poeticamente? È la poesia soltanto una formulazione esibizionistica d’un dolore invece da risolversi socialmente e soprattutto rivoluzionariamente, nell’azione e nella realtà non scritta? Penna di tutti i poeti italiani del Novecento è quello che più ha osato e con maggior spudoratezza e ironia mettere a fuoco la questione. I suoi versi brevissimi sono tutti “sconci”, se considerati sublimazioni e denuncia. Il suo tema è sempre ma volontariamente, quello amoroso-sessuale. La sua poesia si salva sia per questa aperta e veritiera non-pretesa d’essere altro che quello che nel fondo è, sia per come una permeazione totale e continua d’una visuale socialista non restrittiva (anzi assai anarchica) scelta e vissuta fin nel fondo delle ossa e dell’animo. Ogni suo verso s’attacca a una realtà sempre basilare, sempre anche se indirettamente oscena, di tutti (e in questo innocentissima); e di questo tutti specialmente dei poveri, degli esclusi, dei compromessi, degli anonimi lavoratori, proletari e no, anzi più spesso tanto giovani da essere ancora in stadio pre-proletario, inconsci e come larve d’un socialismo che non sa parlare. La sua bisessualità, la sua omosessualità è per raro e prezioso caso ciò che lo porta a meglio conoscere una innocente e umile realtà: contrariamente a ciò che invece porta lo stesso atteggiamento nei versi di molti scrittori, a cui la loro particolare idiosincrasia o malattia porta invece il preziosismo, lo snobismo e spesso una buona dose di arrivismo. Tutto il contrario sono i versi del Penna: i suoi temi, monotonissimi e perciò più sinceramente e ossessionatamene personali, si riducono a uno solo: l’amare, l’essere riamato, il non esserlo, il ritrovarsi per questa vana ma intensa dinamica – solo come sempre ma con una ricchezza d’impressioni e di verità in più. Egli non ha mai preso sul serio se stesso e la poesia (o comunque la sua poesia): ha sempre saputo di essere fuori d’ogni cosa vivente in quanto utile, si è sempre dibattuto in questa angoscia di non riuscire del tutto a spezzare il cerchio magico e imprigionante che erano proprio quelle sue idiosincrasie, quelle sue personali particolarità, quella sua infatuazione di se stesso e degli altri. Ma accettando il suo male e sapendolo fruttuoso in versi più che non nella vita – ha voluto spogliare ogni sua poesia di predica, di serietà culturale o critica, di storia perfino. Il suo riprendere tradizioni quasi ormai buffonesche quali quelle delle rime alterne e baciate, del-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

95

le quartine, dello scandire frasi assurdamente marcite in antologie scolastiche, mischiandole a solari invenzioni e immagini – rendendo allo stesso tempo facilissimi i suoi versi e così leggibili da ogni persona anche non colta – lo fa il più socialista e popolare dei nostri poeti. La sua rinuncia quasi totale allo scrivere è la soluzione alla problematica in tal modo esposta, ed è l’atto onesto di chi non vuol farsi incastrare dalla letteratura, adatta ad uso scolastico e commemorativo. La sua libertà è questa: la sua non-politicità anche è questa: il suo socialismo, a cui egli perviene per le vie più storte immaginabili, è l’unico segno di rivoluzione autentica nelle file dei letterati anche abilissimi ma ciarlieri, che da anni si contestano la prerogativa d’un populismo e d’un comunismo ogni giorno vissuto. Quietamente, angosciosamente, vivacemente e umoristicamente Sandro Penna ha saputo scavalcare i generali della letteratura: e ancora perfino il suo silenzio di dieci anni è malizioso: non è totale silenzio: ogni tanto spuntano fuori foglietti impolveriti da qualche cassetto, gli editori si affannano a rintracciarli, Penna vi volge il dorso e si apparta – indifferente e vittorioso. Potremmo e dobbiamo aggiungere qua un minuscolo trattato d’interpretazione dei motivi penniani: notare quanto sia vero che se nello scrittore da angoscia e non-compromesso e solitudine – e cioè da superiorità in senso soltanto spirituale – nasce il verso-catarsi, la lucidità e serenità, così anche per il lettore l’angoscia si calma a lettura dei versi tranquilli e trasparenti di Penna. Ma v’è nel lettore probabilmente anche come un ritorno alla originaria angoscia e tristezza della vera motivazione dei versi di Penna. L’isolarsi e l’essere stato isolato da altri, il ritrovarsi più vittima che non leader, il riconoscere di questa nostra moderna realtà le tematiche più tragiche e gravi, quali sono la solitudine amorosa, la paralisi sociale e sessuale, l’infelicità costante, portano il lettore a lettura avvenuta a identificarsi coi mali del poeta, e a saperli insolvibili. E a sapere poi che lo scrivere versi o attuare arte rimarrà inconfutabile e ineliminabile in senso eterno – mai sarà tanto perfetta e limpida la vita da permetterci di vivervi senza un riepilogare, un contrattare, un esprimere in gioiose forme compensatorie – ciò che ci viene negato. Che poi io abbia da aggiungere alcune note sullo stile e sulla forma di Sandro Penna, è cosa molto usuale: diremo solo che non necessariamente le quartine, i distici e le trovate eleganti e musicali, sono l’aspetto principale e indimenticabile dell’arte del Penna: in certe sue poesie più ragionate e lunghe, v’è come un esplorare non del tutto risolto, anzi troppo poco risolto, di certi temi saggistici, raccontati, pro-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

96

AMELIA ROSSELLI

sastici, non illuminabili che strano a dirsi ricordano i temi e versi di Pavese. In ambedue gli scrittori un suicidio sociale, in ambedue una infelicità amorosa fondamentale, ma diversamente risolta. Per l’uno (Pavese) la rinuncia alla felicità; per l’altro (Penna) la ricerca coraggiosa e illusa dell’estasi saggia e provvidente. Finta la felicità di Penna, ed è fintamente ammessa. Razionalizzata l’infelicità di Pavese e proiettata impersonalmente negli altri. Quale dei due si sia poi più bruscamente “suicidato” è cosa imponderabile e “letterariamente” non pertinente. (1970)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

“METROPOLIS” DI PORTA

Pur avendo giurato di non occuparsi più di poesia, i poeti continuano a comporla, e i critici a sceglierla di tanto in tanto, a scopo di analisi e di insegnamento. L’autore Antonio Porta, qua al suo terzo libro di poesie, cinquanta pagine in tutto, Metropolis (Feltrinelli, Milano 1971, pp. 52, lire 900) non prova vergogna a disdegnare il concetto di “poesia” ispirata o suprema, e nei versi stessi distrugge ogni nostro concetto di armonia del verso, precludendo perfino una ironica distruzione della poesia, intesa come portatrice di verità o estasi pluririmate. Constata semplicemente che le parole esistono, che il raggrupparle in un senso o nell’altro è atto inevitabile e che tanto vale perciò approfondire tutto ciò che connette una parola all’altra, nel trascrivere frasi fatte, paroline di bambini, astrazioni logiche capovolte e spostate. Infatti nel risvolto, firmato dall’autore stesso, è lungamente spiegata la presa di posizione di Porta riguardo ai suoi versi, e le sue proprie intenzioni. Ma noi avevamo letto prima le cinquanta pagine, e poi, dopo, la spiegazione del loro presunto senso o scopo. E non combaciavano affatto le due diverse interpretazioni del fatto sonoro-tecnico, cioè quella del lettore fattosi “medio” per l’occasione, e dell’autore, fattosi critico in proprio per la presentazione del testo. Metropolis (che segue ai due Rapporti del 1966 e Cara del 1969) si divide in tre distinte parti: la prima, intitolata Quello che tutti pensano, è di gran lunga la più interessante in quanto sembrerebbe voler porgere querela sia ai testi precedenti del Porta, sia alle altre due parti susseguenti del libro. Il quasi meccanico ma finissimo elencare e imbrogliare frasi tipiche di oggi (in maggioranza di tipo sociologico, politico, con moduli “cinesi” da movimento studentesco milanese) in liste né sardoniche né emotive, ma semplicemente neutre, risveglia come un assopito senso di logica linguistica e politica, nel lettore oramai sommerso da slogan pubblicitari, sociologici, e da cantilena politica, quali vengono ogni giorno decantati non solo dagli studenti ma anche da studiosi, psicologi, sessuologi, economisti e filosofi. Il testo dunque ha un suo preciso fascino, e denota nell’autore un inaspettato prendere coscienza non solo dei mezzi linguistico-creativi ma anche di quelli politici d’oggi. Nelle seconde e terze parti del libro (La rose e Modelli) ci sembra che invece il Porta continui a esprimersi come nei primi due libri, ma-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

98

AMELIA ROSSELLI

gari con un tanto di chiarezza in più, e una vigilanza ancora più critica sulle scelte formali e poetiche. A un pubblico medio però queste due ultime parti diranno ben poco, e infatti per impazienza è facile che le buttino nel cestino: l’autocritica a se stesso Porta la fa per i pochi amici, e i tecnici (cosiddetti) dell’espressione (vedi Umberto Eco, scuole linguistiche sia filosofiche sia strutturalistiche o scientiste): poi anche per distruggere in qualche poeta meno colto, meno al corrente dei problemi posti prima dagli studiosi e poi dai poeti (specialmente del Gruppo 63), ogni velleità nei confronti d’uno “sgorgare”, naturale o pseudonaturale, di versi e volontà d’esprimersi liberamente. Qua tutto è calcolato, a volte semplificato al massimo: ma tutto il “buon gusto” al mondo (a cui Porta s’attiene!) non cancella l’impressione di già fatto, di già digerito. Siamo critici verso questo testo, proprio perché ci è sembrato uno dei migliori della stagione, e perché esso è provocante e di livello poetico e tecnico notevolissimo. Ma non è chiaro dove porti l’autodistruzione verbale che il poeta fa di se stesso: meglio forse il silenzio, l’attività politica reale. È ciò che sotto sotto suggeriva la parte Quello che tutti pensano. Anzi, a noi ignari di quale tipo di vita conduca il Porta a Milano, saltò in mente che avesse preso contatti con gruppi politici del movimento studentesco, che inevitabilmente affrontano un po’ similarmente il linguaggio dei politici tradizionalisti. Forse ci siamo sbagliati: forse il Porta ha semplicemente colto nell’aria una esigenza tra l’ironica e critica che è propria dei giovani d’oggi. (1971)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

WIRRWARR

Di Sanguineti poeta è sempre stata sottolineata l’aggettivazione “d’avanguardia”. Forse perché a prima occhiata i suoi versi (Triperuno del 1964 e ora Wirrwarr del 1972, ambedue dell’editoria Feltrinelli) si dimostrano indecifrabili graficamente, linguisticamente. Ma la loro indecifrabilità è del 50 per cento: a volte più, a volte meno: se ostinatamente il lettore prosegue nella lettura, può illudersi di avere inteso se non il senso netto dei versi, almeno il loro scopo. Che sarebbe, supponiamo, di rivelare il più onestamente possibile il corso del pensiero nella sua lotta col reale: un corso che è un fluire, una lotta che è un cozzare d’interiorità semiconscia col reale simbolicamente trascritto tramite parole-réclame, nomi propri e di luoghi, e nomenclature tecniche o sociofilosofiche. E questo cozzare poi è riportato così realisticamente da rappresentarsi tramite nomenclature e frasi in qualsiasi vocabolo e lingua (francese e tedesco in occasione d’un viaggio, latino nel primo libro più introiettato). Già come prima critica vorremmo chiedere: è l’autore sicuro che riproducendo codesto cosiddetto fluire del pensiero tramite la dilatazione e dilaniazione della punteggiatura e della fonetica, egli esponga realmente la realtà del pensiero interiore? Non sarà che invece egli sostituisce a questa ipotetica e mal afferrabile realtà una sorta di convenzione di essa, già lisa, tipicamente letteraria (vedere Cummings degli anni 1920-50, Pound degli anni 1915-60, l’esperienza lettrista negli anni 1920-40 a Parigi, la scuola di San Francisco 1950-70 ecc.)? Rimarrebbe di questa convenzione ripresa tardivamente una sola giustificazione: d’essere almeno un dilaniarsi “all’italiana”! Ma – mettendo da parte questa prima critica o querela – notiamo nei versi che hanno meno funzione di “materiale” quel che già ci colpì nel primo libro e cioè una profonda significatività e duttilità delle frasi e delle movenze, anche se queste non rappresentano un pensiero strutturato, ma piuttosto un pensiero parlato in sogno, quasi brado o affettivo. È come se il Sanguineti nel contrapporre un lettrismo strutturato a un parlottio naturale abbia voluto difendersi dal naturale, da quel suo essere troppo nudo o scabro. È come se temesse la propria nudità e sensibilità, ne temesse il già detto e già fatto a tal punto da in-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

100

AMELIA ROSSELLI

trappolarla in una tradizione fonetico-lettrista di tipo cosmopolita, ottenendo dal fondersi della femminea introversione col dotto autodistruggersi, il solito pastiche semicasuale di moda ormai da cinquant’anni in ogni paese dell’Occidente. In altri termini si potrebbe dire che l’autore non affronta il problema della comunicatività (se questa sia realizzabile nei versi, se sia possibile nel dialogo) ma che invece vi conduca un flirt, semiserio o anche tragico, ma utile al suo non impegnarsi nella totale negazione, o nella totale rivoluzione. Tecnicamente si tratta dunque – secondo me – d’una involuzione. Per molti altri versi invece d’un rarissimo talento che vuol nascondersi, posponendo ogni possibile sintesi. (1973)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SCIPIONE PANTEISTICO

Nato a Macerata il 25 febbraio 1904, nelle Marche, di famiglia borghese o piccolo borghese poi trasferitasi a Roma nel 1909, il pittore Scipione (nome d’arte: era di famiglia di marescialli di carabinieri) si chiamò in realtà Gino Bonichi, o spesso Scipione Bonichi. Per prima si dilettò di sport, ai quindici anni vincendo allo stadio romano un campionato di atletica leggera. Ne conseguì una polmonite, poi trasformatasi in tubercolosi: dovette farsi ricoverare in sanatorio già d’allora. Poi rimessosi lentamente, seguì i suoi interessi per lo sport. Ma già dall’adolescenza visitava monumenti, biblioteche: dieci anni di studio sui classici, sui capolavori nei musei, e nell’esercizio a mano (copie di antichi nelle chiese, e molti appunti davanti ai quadri e alle illustrazioni dei libri). V’è una intera cartella dei suoi disegni a testimoniare di questo suo arduo studio. Già nel 1929 era noto, ed è di questo periodo (1929-30) la sua attività più frenetica. Nel 1929 forse per ragioni di salute si era trasferito dal quartiere Prati (allora periferia di Roma) a Collepardo, vicino a Frosinone, in Ciociaria. Vi passò un’estate felicissima, e vi rimase per un intero anno: poi la sua famiglia (fratelli e madre) si trasferì a Monte Mario, ed è probabile che lo facesse anche per la sua salute da tempo gravemente compromessa. Molti hanno scritto di Scipione in quanto pittore; ed è anche stato esposto postumo nel 1954, coi suoi complessivamente 61 quadri e più di 35 disegni, alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Il suo nome, accanto a quello di Mafai, è sempre stato legato alla fondazione della Scuola Romana di pittura, specie dal 1930. Ma qua preferiamo parlare delle sue splendide dieci poesie, del suo diario, di un ammasso di lettere ad amici (a Mario Mafai, a Marino Mazzacurati, a Libero De Libero, a Enrico Falqui in ultimo), e anche delle sue Lettere a un Reverendo, scritte in grande parte dal sanatorio di San Pancrazio ad Arco nel Trentino dove purtroppo agonizzò, ad eccezione di brevi viaggi a Roma o a diverso sanatorio, per due anni – cioè dal 1931 al 1933, anno della sua morte a quasi trent’anni. In questo libro ricalchiamo il testo originariamente e faticosamente raccolto da Enrico Falqui in una edizione di A. Vallecchi editore, del 1943 a Firenze. Alla brevissima premessa di Falqui, con le sue poche ma

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

102

AMELIA ROSSELLI

precise note in appendice, sostituiamo un discorso appena un po’ più largo anche perché ha sempre sorpreso il fatto che la fama di Scipione pittore abbia a tal punto oscurato il suo lavoro letterario. Eppure già prima del 1942 fu altamente considerato da molti, come per esempio dall’editore Scheiwiller (vedi le due piccole edizioni di nove poesie intitolate Le civette gridano, sempre a cura di Falqui), e da Luciano Anceschi (vedi le quattro poesie in Antologia dei lirici nuovi del 1942). Ma Scipione buttava tutto nella pittura, anche se soltanto privatamente scriveva, e si chiedeva in ultimo (vedi in Lettere a Libero De Libero) se forse avrebbe piuttosto dovuto pubblicamente scrivere. Infatti tratteneva questi suoi versi, teneva diario in sanatorio, e corrispondenza dal linguaggio intenso coi suoi amici, e con un reverendo mai poi identificato, e per ultimo lasciò lettere proprio a Falqui, e a suo fratello carabiniere Goffredo. V’è, pubblicato anch’esso postumo, un breve saggio critico su Goya, sul mensile “Primato” del 1941, intitolato Appunto sulla pittura del Greco che Falqui rilevò per il suo libro del 1943 con Vallecchi, assieme al resto. Per continuare a descrivere la vita di Scipione a Roma e al sanatorio non bastano i testi che ripresentiamo: è da aggiungersi che conobbe Mario Mafai assai presto durante i suoi studi alla Scuola del Nudo dell’Accademia di Pittura, che però non frequentò regolarmente, fuori da questa disciplina. I suoi primi quadri vennero esposti in una mostra a palazzo Doria; poi nel 1927 in una collettiva di pittori romani alla Galleria di Bragaglia. Susseguentemente, cioè nel 1928, espose i quadri con Mafai, Ceracchini, e Di Cocco. Nel 1929 espose alla Mostra d’Arte Marinara, nel 1930 alla Sindacale del Lazio, poi nello stesso anno alla XIII Biennale di Venezia. Seguì una importante mostra assieme a Mafai nel 1930, alla Galleria d’Arte di Roma, e per ultimo, nel 1931, quadri e disegni furono esposti alla I Quadriennale d’Arte di Roma. A detta dei suoi amici Sinisgalli, Betocchi, Alfonso Gatto e Falqui stesso, nella pittura le sue simpatie personali erano benché di taglio grosso modo espressionistico, molto varie: dai greci a Tiepolo; Toledo del Greco; un particolare interesse per i disegni di Pascin; e poi Goya, Soutine, Rouault, Ensor, Chagall, De Chirico. Nelle letture, molto fitte, preferiva la Bibbia e in special modo l’Apocalisse, poi Góngora, Mallarmé, Rimbaud, Ungaretti, Barilli, D’Annunzio, Barrès, De Montherlant, Lautréamont. Lo si ricorda declamare i versi di Góngora dall’alto del Campidoglio di notte... Scrisse i suoi versi tra il 1928 e il 1930, e soltanto due delle dieci splendide, anzi esemplari poesie sono datate. Estate è del settembre 1928, e Solstizio è del 1930. In maggioranza i versi non recano alcuna altra indicazione. V’è qualche critico o amico che afferma che le poe-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

103

sie preludevano a qualche tema pittorico, ma non ve ne trovo traccia; anzi le sue poesie s’allontanano di gran lunga dall’esacerbata descrizione d’una Roma decadente e cattolica, impregnata di rossori mortuari e stravolti. La sua poesia è calma, candida, sensoria sì, quasi più dei quadri, ma in essa v’è una tranquillità non espressionistica che la rende del tutto individuale e difficilmente classificabile anche in questi moderni tempi. I dieci titoli per poesie di lunghezza media o più che media, sono quasi tutti apposti da Falqui, e forse anche da Anceschi che aiutò nel recuperarne alcune; estratti dai primi versi o dalla tematica centrale. Forse una qualche parte delle poesie è stata scritta in Ciociaria a Collepardo, quando nell’estate del 1929 vi ci sostò Scipione quasi in felice estasi: di estasi religiosa e di carne e di morte parlano le poesie senza che l’irrequietezza mistico-tragica, e disperatamente distruttiva, che è evidente nei quadri, traspaia. Intelligentemente scrisse della sua pittura Emilio Cecchi in un articolo apparso sul mensile “Circoli” del marzo 1935, due anni dopo la sua morte: Il suo metodo era di sfrenarsi. E se fu “surrealista” o cosa analoga, non lo fu come dilettante e un esteta, ma come agonizzante nei cui occhi si mescolano i segni della realtà... Non è una febbre comunque tragica. È un massacro, pieno di spenti sussulti, sguardi morituri.

Più in là Carlo Betocchi su “Frontespizio” dell’agosto 1938 scrive invece delle poesie: Scipione mi serra addosso e io non posso scuotere la sua presenza; quello che Scipione esige da me è che io riconosca il diritto del suo canto, parola che non si può dire, su queste poesie senza pensare, invece, al pianto. [...] Pur resta a noi il domandarci quale fu il naturale pudore che indusse Scipione a trattenere lontani dal mondo questi suoi pochi versi; [...] è più facile attribuire a essi una confessione documentaria che quello legittimo ed angelico secondo il senso che egli ne poteva auspicare – della poesia. Allora ci consola il pensiero della prudenza di Scipione: restituiamogli questa pura prudenza.

Nel 1938 Leonardo Sinisgalli in Ricordo di Scipione sul mensile “Meridiano di Roma” n. 6, parla di «vena funebre più inquisitoria che romantica», il che s’addice infatti alla sua pittura, ma aggiunge: credette all’arte come a un’estasi. Era lettore fanatico della Apocalisse, dell’Inno a Caino di Ungaretti nell’originale versione francese, dei Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza, scritti profetici di Blake.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

104

AMELIA ROSSELLI

Più precisamente in quanto critico d’arte, e non letterato, Giuseppe Marchiori parla invece, in Scipione (Milano 1939) e in Disegni di S. (Bergamo 1944), di Scipione come: «ultimo figlio di Roma barocca e romantica» e aggiunge: «Scipione è ossessionato dall’idea di grandezza e di prestigio della Chiesa». Marchiori si chiede se vi sono significazioni allegoriche nei quadri, o eco inconscio del dannunzianesimo; e infatti solo nell’allegorismo di rado accennato ha la sua poesia, e a volte la sua prosa, accordo con la sua pittura, tanto più nota. Purtroppo il suo soggiorno a Collepardo, riportandolo a Roma, è felicità d’un anno; si riammala di tubercolosi, quasi non può più dipingere. Nell’autunno del 1931 si ricovera al sanatorio San Pancrazio ad Arco nel Trentino. Nel 1932 tenta la cura in una località del Voltellino. L’altitudine provoca emorragia. Si tratta di due anni d’agonia (1931-33), da cui nascono le Pagine di Diario (titolo di Falqui) scritte infatti ad Arco in Lombardia nordest, sopra il lago di Garda, vicino alle valli Giudicarie e alla valle Lagarina sotto Trento. Menziono il luogo con precisione, perché in alcune pagine vi sono straordinarie, e non necessariamente pittoriche, descrizioni dei luoghi. Il diario stesso inizia ai primi di marzo 1932 sino al giugno e oltre del 1933; del diario non vi sono date specifiche specie in ultimo. In Lettere a un Reverendo, la prima è senza data, e non è stato chiarito chi fosse il «Padre» a cui scriveva Scipione; ne seguono altre fino al 1933. Strano in una personalità così potente il forte senso di colpa per la malattia, l’anelare a una purezza che poi sarebbe la forzata rinuncia al lavoro, alle ambizioni. Dolce e sottomesso sottostante il carattere di Scipione, in queste sue lettere fedelmente cattoliche. Tra le lettere agli amici vi sono tre brani di lettera a Libero De Libero, e due a Marino Mazzacurati. Le lettere a Mafai, molto amichevoli e fraterne, sono tutte del 1932 da Arco. Per ultimo le lettere a Enrico Falqui sono da Arco nel 1931-32, poi da Roma dall’agosto all’ottobre 1932, poi seguono le molte ultime da Arco. Falqui stesso poi, si seppe dopo, vendeva qualche quadro o disegno per aiutarlo a mantenersi al sanatorio. Lettera finale, tutta ordine e famiglia, sino a sembrare artificiale, sarà la Lettera al fratello Goffredo, del 3 novembre 1933. La data di morte è attribuita al giorno 9 novembre 1933, ad Arco, nel Trentino. 10 novembre 1980 (1982)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SONETTI E STORNELLI

Una delle ultime quartine di questo libretto impegnato soprattutto formalmente, s’esprime: «Chiuso sonetto che su te conclude / [...] impronta delicata». Colpisce la parola «chiuso» sonetto: l’autrice, da quando scrive, ed è circa sette anni, ha quasi sempre preferito tornare a forme chiuse e neoclassiche, e specie nella quattordicesima poesia, l’ultima, v’insiste meglio del solito. Le poesie furono scritte tutte tra il 1977 e il 1984, e anche se non vengono presentate in ordine cronologico, si nota che le uniche eccezioni alla forma sonetto sono del 1983. La metrica si fa quasi libera riecheggiando sì il sonetto per compattezza, ma liberandosi da forme che devo dire rischiano a volte d’essere invece, stancamente, neoclassiche. Anche se poi è proprio la forma sonetto che ha costretto l’autrice ad aguzzare ingegno, e molto spesso sorprendere per astuto senso logico nel barocco fraseggiare. Ancora in una terza poesia v’è totale liberazione da ogni forma prestabilita, ed è del 1981, musicalissima e promettente: come se l’emozione si liberasse e vibrasse, il talento spazzasse via la costrizione, e che l’ingegno si riposasse per sentire di più. Interessanti alcune dediche indirette non solo a uomini ma spesso alla propria figlia di sette anni circa: la madre, e donna, comprende il rapporto con la figlia in modo modernamente civile: la figlia è donna quanto lei, e il dialogo è alla pari. Sposata, e lavoratrice anche (sei ore al giorno), a Cetta Petrollo rimane difficile fare più che accennare ad aperture sue nuove, verso sue nuove forme. Non ha molto tempo per scrivere; felice in famiglia, e felice al lavoro. D’altra parte la vocazione è autentica e resiste, per tre mesi a volte abbandona la precisione dei suoi impegni, per faticosamente scrivere poche poesie nuove, o riprendere vecchi abbozzi forzatamente abbandonati. Ora lo scrivere poco oggi è forse una virtù: la mia impressione è che le aperture alla sensibilità che nella sesta poesia s’accentuano sono da svilupparsi, visto che poi la forma sonetto sembra un poco soffocare. La verve nasce, in questo caso, nell’apertura al “libero” verso, oltre che in metafore a volte originalissime all’interno dei sonetti. Si nota che il ritmo predomina sulle rime, e che strano a dirsi esse vengono messe in ombra. Non so se questo sia un bene; tutt’altro succede abbandonando forme chiuse: la musicalità prorompe. Del resto il neoclassicismo così strettamente praticato non serve oggi a rin-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

106

AMELIA ROSSELLI

novare l’arte, ma potrebbe, nei tempi lunghi, portare a classicismi moderni: molto ardui da viversi, soffrirsi, rivelarsi tecnicamente. L’autrice è conscia di non volere chiudere nel “chiuso” del sonetto per sempre, ma offre al lettore questa prima pubblicazione, che è occasione di osservare un punto di partenza, un realizzare, che non solo è prettamente femminile (a volte femminista), ma fatica intellettuale un po’ inusuale. Il non lasciarsi andare, salvo qua e là, suppongo si tramuterà in un coraggioso anche se ostacolato scrivere in tante diverse direzioni, sperimentalmente se necessario, in cerca di sé e della forma. 29 gennaio 1985 (1985)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

FORT-DA

Delle sessanta poesie circa, incluse nel testo di Sara Zanghì, molte sono ottime e in parte pubblicate su riviste letterarie quali “Effe”, “Lettera”, “Materia”, “L’Ozio letterario”, “Galleria”, “Anterem” e nell’antologia Il volto la scena della stessa edizione Anterem, settembre 1985. Il libro contiene poesie scritte dal 1981 al 1986 non ordinate cronologicamente, ma divise in quattro parti secondo le tematiche indicate nei titoli. La sezione intitolata Oltre la porta dei venti include poesie apparentemente iniziali – perché l’autrice ha ricominciato a scrivere da cinque anni dopo un lungo periodo di militanza politica e femminista – ma rivelano un notevole impegno di scrittura. Interessanti i frammenti apposti sopra i titoli delle diverse parti. Sono estratti di sue precedenti poesie, non accette, salvo per quelle due-tre righe. Molto eleganti: mi hanno, strano a dirsi, ricordato e molto indirettamente, i versi di Montale. Nell’insieme il libro non ha le stretture concettuali di Montale; anzi è molto sonoro il verso, e nostalgico nei confronti d’uno spazio che è spesso quello siciliano, luogo natio della Zanghì che vi ha vissuto fino a trent’anni. Ora vive a Roma, e molto più felicemente attiva; ma tornano, malgrado il rifiuto d’una gioventù infelice in un ambiente allora restrittivo, atmosfera e amore di natura. Segnalerei, tra le più belle poesie, queste: Ricordo di Pier Paolo Pasolini; La Bambina settespiriti; Devi ricordare; e parecchie altre, specie della seconda parte e della quarta. La seconda parte che riguarda i suoi rapporti con la famiglia e l’ambiente siciliano, è molto intensa, con almeno sette poesie su tredici d’un interesse specifico e in qualche modo “diverso”. In fine, altre cinque, anche qualche volta brevissime, che spiccano. Da Viaggio oltre la porta dei venti, che è del 1982 e assai lunga, particolarmente colpiscono alcuni versi quali: «l’inferno ha la bellezza d’una recita. / È di scena la fame»; oppure «Schermano il viso con mano istoriata / e si parano dal malocchio dei vivi». Anche, sempre della stessa poesia: «Ma alla svolta / lo scirocco scompiglia la mia mente / e rido con la luna degli inganni». Più mordente hanno certi versi d’altre ulteriori poesie come «Uccisa, per un fantasma / forse, nei suoi occhi»; oppure «qualche eroe ti si aggirava nel petto»; e specie «Uno

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

108

sgomento mi inchiodava / appena il cielo a nord / si svuotava in trasparenza di ghiaccio», quest’ultima terzina da Sgomento. Vorrei segnalare più precisamente le pagine 25, 31, 32, 33, 40, 41, 67, 75 e, fra le più recenti, del 1986, L’Acanto. Il ricordo vede da lontano e osserva le chiare sfumature che hanno le viole al loro nascere (e poi scuriscono piano piano al sole, macule d’indaco nell’erba). Forse dovrebbero saperlo gli usurpatori dei campi che quanto vive è per la memoria degli esuli, per la mente e la mano che trasfigura l’acanto nei capitelli corinzi.

Bellissima tutta questa lunga poesia, come altre alle pp. 28, 35, 68, 76. È difficile dare quadro completo del libro perché ha poesie che a me sembrano eccezionali, e altre promettenti, di passaggio cosiddette, che portano a testi molto più completi e anche stilisticamente più abili. Nei primi libri che si danno alla stampa, v’è quel rischio, d’includere ciò che è solo un collegare tra loro punti di affermazione, come volendo dare storia di “come” si giunge a poesia. Più tardi, almeno per mia esperienza, vengono isolate meglio, dall’autore stesso, le poesie cardine, ed eliminate quelle incerte. Soggettivo come al solito questo mio giudizio, e lascio (come al solito) al lettore il comprenderne il senso e, prima di tutto, il piacere del testo. Roma, maggio 1986 (1986)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UN’OPERA INEDITA DI CALOGERO E LA SUA CORRISPONDENZA LETTERARIA

Due grossi volumi delle Opere poetiche di Lorenzo Calogero uscirono con Lerici (direzione letteraria Roberto Lerici) nel 1962 e nel 1966. Purtroppo nessuno di questi due volumi densissimi di grande e di facile poesia sono facilmente rintracciabili, salvo forse in qualche remainders di provincia. Senz’altro i critici e i letterati più avvertiti hanno comprato ambedue le opere in tempo; infatti il primo volume, che includeva la raccolta Come in dittici del 1954-55, e la raccolta sparsa finale riveduta dal curatore R. Lerici Quaderni di Villa Nuccia (1959-60), ebbe notevole successo di vendita e fu anche ristampato malgrado la sua mole (432 pagine) con eccellenti critiche per tutta l’Italia e anche all’estero tramite per esempio “The Literary Supplement” e “Die Welt” di Amburgo. Il volume secondo, un poco più breve, includeva le raccolte Ma questo del 1950-54 e Sogno più non ricordo del 1956-58. Evidentemente il presentatore Giuseppe Tedeschi e il curatore R. Lerici avevano inteso introdurre le opere più salienti per prime, e tentarono di presentarle “a ritroso”: ma dovettero rivedere le date in senso bibliografico, al secondo volume, visto che Calogero, morto nel 1961, aveva lasciato quaderni a non finire con varianti nelle ricopiature a mano e qualche volta anche in quelle dattiloscritte, che si contraddicevano tra di loro. Infatti Quaderni di Villa Nuccia è titolo di Roberto Lerici applicato alle ultime e significative poesie dell’autore, che s’era ammalato di nervi attorno al 1959, ed entrava e usciva a volte per lunghi periodi da una clinica infatti chiamata Villa Nuccia, presso Catanzaro. Scrisse dunque dal 1959 al 1961 Quaderni di Villa Nuccia, ma alcune poesie dovettero venire o scartate o tagliate per via delle cure di clinica un po’ frastornanti, che sconvolgevano lo stile del Calogero, malgrado la sua ripresa e ritorno a Melicuccà sopra Reggio Calabria, dove egli viveva da moltissimi anni. Come in dittici è opera del tutto integrale, così come lo è Sogno più non ricordo. Il secondo volume ebbe purtroppo divulgazione limitata perché la collana letteraria della Lerici chiuse i lavori poco dopo l’uscita del libro con le belle fotografie concernenti la vita difficile condotta dal medico poeta Calogero (campagne attorno a Melicuccà; fotografia di lui presumibilmente in viaggio in cerca d’editore; interno di sua casa poverissima, piena di libri, cicche, e solo qualche traccia di lavoro; fotografie di

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

110

AMELIA ROSSELLI

manoscritti autentici di scrittura difficile su quaderni scolastici a quadretti) rendevano l’idea complessiva che l’autore forse suicidatosi ai cinquantuno anni non fosse mai stato del tutto sano di mente. In disaccordo con questa tesi, pur rispettando la ricerca attenta fatta dai due curatori, vorrei far notare che il Calogero sia nella poesia, sia nelle sue lettere prima a Carlo Betocchi1 in gioventù, poi a Sinisgalli che lo scoprì, sia in quelle al capocollana della Mondadori, Vittorio Sereni, in quelle ultime a Giuseppe Tedeschi, mostrava una quasi continua lucidità, notevole per lo stile stranamente complesso anche dal punto vista sintattico. Nel trarre brani da queste molte lettere scritte nell’isolamento di paesini umbri o toscani (Campiglia d’Orcia, in collina, vicino Siena) o di solito calabresi (praticava attorno a Melicuccà dove finalmente si sistemò cercando di trovare altro tipo di lavoro tramite pubblicazioni su riviste letterarie note o con editori del nord), ho notato che complessivamente queste lettere formano una specie di estetica o introduzione al suo proprio lavoro, così come infatti il Calogero aveva tentato di fare capire a Sereni scrivendogli una lettera saggio di venti pagine attorno al 1960. Anche dalla sua introduzione al libro di poesie giovanili 1932-35, da lui stesso pubblicato in proprio tramite piccolissima editoria a Campiglia d’Orcia, Siena, nel 1956, ho tratto qualche passo per dare una complessiva immagine del suo pensiero sia poetico sia filosofico. E vorrei che l’autore stesso parlasse, tramite queste sue grate lettere a letterati lontani, riportando le sue stesse parole piuttosto che porre un mio personale punto di vista sovrastante a tanta difficile e apparentemente ambigua poesia così poco conosciuta malgrado l’iniziale successo. Solo ora molti giovani si chiedono quali formule vi fossero nascoste dietro a uno stile così nuovo non facilmente classificabile come di scuola “ermetica”, e quale fosse la reale ambizione d’un medico di provincia così disastrato nei suoi insuccessi presso gli editori e anche sul piano umano, ammalato, non sposato, isolato e apparentemente ammalato anche di nervi al punto di tentare due volte il suicidio, sia da giovane sia in fine. La serenità veramente abbagliante nei versi di questo meridionalissimo scrittore di cultura ben più che media, di provenienza borghese e cattolica, ribelle non agli affetti familiari ma forse all’ambiente letterario corrente, e anche alla Chiesa, ha incuriosito non solo i giovani ma anche altri poeti. Dalle lettere (Tematica della tecnica poetica): Bene ha fatto col ricordarmi che i motori coordinatori del mio canto dovrò cercarli nella ragione che lega cosa a cosa e non accostando cose per quel che di estremamente istintivo esse contengono.2

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

111

Come io intenda la manifestazione espressiva in rapporto alla verità. Essa può essere semplice numero (matematiche), formule di indagine scientifica propriamente detta (scienze fisiche) o come nel caso del presente libretto semplicemente immagini.3 Anche il pensiero deve venire inteso e traspare come un modo della tecnica [...]. Le sole cose che per me più valgono di uno scrittore sono gli estremi attraverso cui si muove il suo pensiero [...]. I suoi estremi sono quelli che potrebbero chiamarsi più infinito meno infinito, gli stessi elementi che prende il calcolo differenziato per determinare le sue leggi e le sue scoperte teoriche. [...] La pagina, l’immagine, la parola, il suono, la pausa le quali possono studiarsi come elementi della tecnica, una volta che si sia penetrati entro gli estremi entro cui si muovono, è ben altra cosa. Il calcolo infinitesimale [...] si muove tra un più o meno infinito che differisce di volta in volta per una particella puramente quantitativa. Gli estremi di una parola sono condizionati da estremi di un sentimento a volta a volta diversissimo e che sono quelli entro cui avviene il discorso. [...] Nessun realismo o neorealismo o altro del genere è possibile, in termini veramente poetici, senza l’immaginarietà originaria della parola. Se al realismo negli ordini più pratici della vita [...] non si può negare valore, tuttavia esso è la più specifica conseguenza della parola, la quale, rispetto a tutto il rimanente tessuto della vita, rimane sempre come un numero immaginario. [...] Viene spontaneo pensare che poesia tende a essere sempre più pensiero puro. [...] Ove notava che quando tendo a realizzare un’immagine, ne distolgo quasi apposta il lettore con altro verso in altra direzione, ammesso com’Ella dice nell’“Avvertimento”, che l’operazione che tento praticamente ha l’indeterminatezza di certe analisi portate sulle qualità sfuggenti, potrei giustificarmi che importa meno la direzione dei contenuti obiettivi delle immagini, quanto che l’indeterminatezza si muova sempre con minor attriti. Se l’indeterminatezza avvenisse attraverso passaggi talmente graduali, da essere quasi del tutto impercettibili, molto maggior numero [...] di direzioni diverse potrebbero entrare in qualsiasi composizioni poetica. [...] Si ricorderà che in altra mia Le dicevo che tutte le scienze fisiche e persino le scienze matematiche sono null’altro che costruzioni poetiche.4 [...] quella che sarebbe potuta essere la migliore delle mie poesie, e che in nessun caso avrei potuto trascrivere, mi è venuta in sogno in un’epoca in cui avevo 24 o 25 anni… Ritmo e pensiero sebbene avessero un’autonomia assoluta, perché si trattava di effettiva poesia [...] seguivano una misura fisica: la diversa lunghezza dei versi; si compenetravano in un’unica onda che si svolgeva per trapassi così insensibili che ne era impossibile il ricordo da svegli.5 La maggior specializzazione del linguaggio, più forte in poesia che in filosofia, specializzazione che contiene sottintesi e tacitamente tutti i nessi logici attraverso cui si realizza un discorso [...].

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

112

Aver messo in chiaro e in evidenza l’elemento che proviene dalla suggestività e che si attua con modi che mettono la suggestione in primo piano, con mezzo di coscienza e conoscenza. [...] (Bisognerebbe risalire a una lingua del tutto originaria o quanto più possibile originaria per potere avere un nesso evidente fra segno e contesto del discorso).6 Una poesia che procedesse da parole insignificanti fra loro nel discorso del tutto suggestivo e procedente per suggestioni extralogiche. Che ciò, poi, potrebbe essere origine di una nuova logica (non conosco nulla della logica simbolica, ma credo che non potrebbe trattare di questa) agente tutta per suggestioni, credo che non sarebbe una ipotesi del tutto azzardata [...]. Convinto, come sono, che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato.7 Io escludo che dentro i termini del linguaggio o di ciò che si realizza come linguaggio possano esserci cose sicuramente ed effettivamente opposte. [...] Sinisgalli? [...] le sue idee, in cui la poesia paragonava a un numero puramente immaginario, cui si legava (mi sembra) un numero reale. Per la poesia non valgono certamente le parole del Vangelo: chi non è con me è contro di me. Si può pertanto immaginare anche una poesia completamente neutrale, o quasi, di fronte agli scopi che la vita si prefigge. [...] Una nuova scienza, una scienza ultra matematica, una matematica della matematica che sarebbe null’altro che la poesia. [...] Sono pochi i versi in cui la vita viene a essere costretta dentro un nesso di parole che non permette facilmente variazioni.8

(Tematica dei contenuti filosofici): Non credere in alcuna filosofia sia pure la più ragionata (e per me la più coerente). [...] Per me è cosa di vitale importanza.9 Non posso dare alcun valore sicuro e significativo ad alcuna filosofia della pratica o che voglia tendere alla prassi, perché comunque la parola si muova sul suo unico possibile campo d’azione e di sviluppo è uno che se non rappresenta una vera teoria a questa certamente tende. Non so proprio immaginare altro uso e impiego della parola.10 Penso che la conoscenza che si avvicina alla pura contemplatività sia per se stessa una conoscenza di maggior valore e di grado più raffinato e più perfetto [...] e pure è la conoscenza che solo raramente, e sempre in maniera più difficile riesce a esprimersi palesemente, e ciò, forse perché essa è legata per la sua stessa natura a una deficienza dei mezzi espressivi e di condizioni che ne permettano l’estrinsecazione compresa perfino la memoria. [...] Versi che mi sembra rendano sia l’elemento straordinariamente individuale che quello appartenente a una collettività anonima e antichissima.11

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

113

Per chiarire i nessi che legano l’essere al fenomeno di esso che chiamiamo coscienza direi, per prendere i due casi più caratteristici, che maggiore è la distanza che lega il fenomeno amoroso alla coscienza che non quella che lega la medesima alla pura speculatività.12 Un mondo poetico fondamentale dell’uomo, il cui requisito fondamentale non sarebbe altro che il rispetto del sentimento umano, a partire, almeno, già da quanto c’insegna il mondo giuridico e le necessarie e fondamentali possibilità etiche. [...] Vocazione letteraria [...] quanto agiva e agisce quasi inconsciamente (il che ridurrebbe l’attività del letterato a quel che più vale di lui a una zona più o meno mistica). [...] Vocazione poetica potrei definire ciò che mi spinge a dare forma pura e concretezza (questa ultima potrebbe anche definirsi contenuto) [...] coincide più o meno direttamente con ciò che sentiamo di potere definire oggetto poetico vero e proprio [...] sarebbe null’altro, principalmente, che un oggetto puramente etico e impregnato dai requisiti dell’eticità, la quale non sarebbe altro che reciprocità pura [...]. Non credo [...] che sarebbe un’ipotesi assurda pensare che, dentro rapporti sempre più tesi l’eticità che si mette in evidenza, attraverso la conoscenza di zone sempre più vaste di zone cosmiche, diminuirebbe [...]. L’elemento etico è per se stesso indecifrabile e avvolto in zona e forma mistica [...] e variamente rappresentabile ed esprimibile attraverso [...] la suggestività, la quale, se massimamente presente ed evidente in poesia, è costante, sebbene molte volte del tutto latente, in ogni forma di speculatività. Uno degli oggetti della mia vera vocazione poetica: l’ammissione costante sebbene [...] tacitamente sottintesa di un’idea etica e poi di un oggetto etico e poi di una zona mistica in relazione costante sebbene preliminare, con tutti gli abbozzi di idee eticamente possibili e quindi, in un certo senso, oltreché con le loro possibilità contrarie con un circuito di possibilità mistiche, perché, almeno, non appartenenti alle possibilità puramente logiche dell’uomo se non nel senso di ciò che nettamente le precede [...] su quello che riguarda il prodotto di quello che promana dall’irradiazione mistica. Le dirò [...] che non ammetto che esista un pensiero che non si attui attraverso la tecnica che pertanto possa considerarsi non tecnico, compreso, s’intende, quello che entra nel tessuto della poesia, e che la poesia nient’altro è che una speciale tecnica dell’attività pensante, perché l’oggetto etico e l’irradiazione mistica rimangono in questo nascoste nel profondo della coscienza, ma vivi ed effettivamente operanti [...]. Il misticismo di cui parlo [...] è null’altro che un misticismo relativo che senza essere la pura e semplice contemplatività la sfiora semplicemente [...]. La poesia [...] è quasi del tutto immediatezza è quasi del tutto assenza del lavoro. E la fase preparatoria a questa immediatezza come sarebbe? Forse lavoro più di quanto ne richieda la scienza per attuarsi [...]. Comunque il poeta precedentemente al poetico che darebbe una qualsiasi ragione a quel quasi notato precedentemente quando non azzarda e gioca col caso sarebbe un quasi puro religioso. E ciò che costituisce il substrato di ogni religione, cioè Dio, sarebbe

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

114

AMELIA ROSSELLI

quanto di più lontano esista per l’uomo e a cui come è pericoloso pensare di avvicinarsi per le pessime suggestioni che da questo tentativo possono provenire, così, diventerebbe il più faticoso dei lavori.13 So anche che costa meno la verità che la menzogna o la quasi menzogna. [...] Se per filosofia intendiamo qualcosa che sia pure un’immagine (e che cosa potrebbe essere che non sia un’immagine?). Ti dirò, del resto, che ciò che più mi sgomenta dei Vangeli è ciò che può chiamarsi la fatalità del male, fatalità, questa, che metterebbe sempre in più serio imbarazzo la possibilità di conoscere se stesso. È certo, secondo me, che il poeta non conclude quasi mai nulla e che solo qualche volta conclude qualcosa, e sempre ben poco [...]. Tuttavia dirò una cosa, che credo della massima importanza per la poesia in genere, e cioè, che il problema della poesia non risiede tanto e solamente in quello che possiamo chiamare poesia scritta, quanto, e massimamente, nei problemi più urgenti per una sempre più equa giustizia sociale. Che cosa ha da fare, si potrebbe domandare, la poesia con la giustizia e con il senso della giustizia? Non intendo proprio riferirmi a quella che si può chiamare “poesia populista” che molto raramente, forse, riesce a essere vera ed effettiva poesia o a suggerire qualcosa che sia come la sostanza e il midollo della giustizia e del senso della giustizia. Il mistero della giustizia, potremmo dire, secondo il principio evangelico. Fra letteratura, filosofia e politica, la politica mi sembrerebbe la più interessante e più degna di rilievo, non fosse altro perché si occupa del maggior bene collettivo (intendo dire in senso economico), accessibile e comprensibile alla maggior parte degli uomini [...]. Se dovessi fare confessione circa le mie tendenze politiche dovrei, intanto, dire che mi sento dall’estrema destra orientato verso l’estrema sinistra [...]. Che voglio concludere con ciò che sono giusto? Credo, a tal riguardo che uno possa sentirsi tale a patto di non pensarci. Che voglio fare come si dice nei salmi: Chi si salverà, o Signore, dalla tua giustizia? [...] Comunque è molto difficile salvarsi dalla giustizia di chiunque. Subito dopo mi dice che ridurre la vita a verità è il compito più inquietante, già direi che la vita non si può ridurre mai completamente a verità. [...] Quali che siano le comodità materiali di cui si possa godere, per quel che riguarda la felicità sarebbe di somma importanza la libertà e la buona educazione. Ma chi dà o è disposto a dare simili cose? Naturalmente chi le ha. Ma oggi, come oggi, chi le ha? O io, e con me anche altri, dobbiamo dare credito di impartitrice di libertà e di buona educazione a chi sistematicamente non si è dimostrato all’altezza di questo compito, o chi per sistema crede di poter agire in questo senso? La letteratura, per quanto riesco a immaginare, è condizionata dal fatto che dà come contenuto obiettivo ciò che anche è vissuto come massimo senso etico interno [...]. Escluso i religiosi, su cui credo di non potermi pronunziare in alcun modo, i veri maestri e ammaestratori dei popoli sono e sono stati principalmente i poeti.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

115

La scienza misteriosa, a questo riguardo, per quanto possa essere effettivamente utile, potrebbe valere molto di meno. Le mie poesie poi, può darsi che siano prive della più elementare importanza come della più comune ed elementare analisi logica e grammaticale, comunque questa analisi logica e grammaticale possono essere intese in un senso del tutto personale.14

(Tematiche biografiche dell’autore): Sebbene nella mia poesia niente sia di confessato.15 La mia vita? Questa mi appare quanto mai sempre più complicata e che via via va complicandosi sempre più. Mi pare, talvolta, essa si realizzi per via di simboli del tutto enigmatici che, per me, prima non esistevano o mi sfuggivano completamente [...]. Sebbene non mi sia dedicato tutta la vita a scrivere versi e per molti, quasi moltissimi anni direi, mi sono occupato a fare il medico, vissuto, dentro la mia professione, quasi interamente, come se scrivessi versi. Ove mi si proponesse di essere felice collettivamente, credimi, non avrei nulla a che fare con tale felicità e son sicuro che rifiuterei. Se dovessi essere mai felice, vorrei ciò avvenisse in modo del tutto individuale a patto che la collettività fosse quasi del tutto nominalistica, non si dovesse sentire il peso della collettività come tale che come tale s’imponesse. D’altronde so che [...] gli altri uomini o, semplicemente essere umani, poiché possono essere compresi anche le donne, partecipano, poco o molto che sia di certi segreti (non sono semplicemente modi di vita) che a me rimangono del tutto sconosciuti [...]. Che anche il rapporto amoroso, fra uomo e donna, oggi come oggi [...] non so considerarlo altrimenti che come un rapporto puramente angelico [...]. Del resto un certo angelismo credo che debba esistere e sia esistito sempre in qualsiasi rapporto o relazione effettivamente amorosa. In me è esistito sempre un difetto della facoltà analitica che avrebbe dovuto mettermi sull’avviso di tante cose nella vita. Ma quella era impegnata in moltissime altre cose che, non dirò mi sembravano importanti, ma erano effettivamente importanti, per condurre una vita, sia pure, ai margini; ed ai margini effettivamente, estremi o no, era. Intanto io so che sono e sono stato da sempre uno schizofobico, un psicastenico ed un pauroso per eccellenza. [...] Quanto nella vita ho perduto. Ma c’è stato qualcheduno mai che nella vita ha guadagnato? Si potrebbe dire forse che nella vita ha guadagnato solo chi ha avuto. Ma questo ha avuto, non ha guadagnato. Si potrebbe ritornare a ripetere che può apparire di aver guadagnato solo perché ha avuto. Credimi che se un vero e perfetto disgraziato mi appaio io stesso, altri disgraziati mi appaiono tanti altri, i quali a non se ne accorgono o non lo dicono.16

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

116

AMELIA ROSSELLI

Bisogna dire che tutte le opere di Lorenzo Calogero furono primariamente pubblicate a proprie spese, sempre tramite la piccola casa editrice Maia di Campiglia d’Orcia presso Siena, dal 1956 in poi. Calogero ricavava cinquecento copie da ogni pubblicazione, che spesso doveva lui stesso ritirare dal mercato. Furono questi testi a essere spediti a Leonardo Sinisgalli che subito se ne interessò. Dal 1955 in poi Calogero e lui si scrissero e nel 1956 Sinisgalli scrisse per lui una prefazione per Come in dittici, sempre per le edizioni Maia. Malgrado ciò non vi fu alcuna attenzione della critica. Anche nel 1955 aveva tentato di stampare presso Einaudi, e con Vallecchi (tramite Betocchi con cui in gioventù aveva tenuto corrispondenza). Ed è proprio l’incontro per lettera con Sinisgalli, di cui ammira molto Furor mathematicus, a fare nascere in lui speranze per pubblicazioni non a pagamento. Nel 1956 lascia l’incarico ad interim nel senese, dove visse e scrisse soltanto per due anni, passa per Roma, s’incontra non solo con Sinisgalli ma anche con Giuseppe Tedeschi, con cui, come si vede sopra, anche ha una fitta corrispondenza. Nel 1959 inizia a scrivere poesie poi raccolte sotto il titolo Quaderni di Villa Nuccia da Roberto Lerici nel 1962, un anno dopo la sua morte. Direi che le abbia scritte circa tra il febbraio 1959 e il maggio 1960. È anche allora che scrive a Vittorio Sereni, da poco direttore generale della Mondadori, e riceve come risposta garbata e analitica, un “no possibilista” quanto alla pubblicazione delle sue migliori raccolte. Secondo Roberto Lerici, Calogero avrebbe scritto in tutto circa 10-15 000 versi; l’unico testo del Calogero non pubblicato sia dall’editore Maia sia dalla prima Lerici, la quale però intendeva più tardi presentare un terzo volume delle Opere poetiche di Lorenzo Calogero, è Avaro nel tuo pensiero. Parole del tempo fu come sappiamo pubblicato nel 1956 da Calogero stesso, si tratta di poesie scritte tra i ventidue e i venticinque anni, e perciò ancora informi. Nell’insieme considero ben più importante e interessante Avaro nel tuo pensiero scritto a Campiglia d’Orcia in quel che potrebbe essere un periodo brevissimo di circa undici giorni (16 ottobre 1955-27 ottobre 1955). Non è chiaro nel manoscritto se questo possa essere vero: al dunque Calogero scriveva raccolte di una media di 150 pagine nel giro di almeno un anno, se non due o tre. Forse che si tratti invece d’un ricordare quasi narrativamente, un’epoca di intensa esperienza, non di durata superiore ad undici giorni? Propendo per la prima ipotesi: si tratta di 133 poesie, alcune forse nei confronti d’altri scritti precedenti o posteriori, meno precise e controllate; quasi vi fosse trop-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

117

pa fretta nel riprendere stilemi tipici e propri, o troppa abitudine al cosiddetto “segno” o simbolo, frasi-simbolo reiteranti e tematiche in parte naturiste in parte amorose contenute non soltanto da rosa di “segni” ma da vocabolario in questa raccolta un poco monotono e più infittito di personale formulario che non nelle altre. Tuttavia, avendone scelte tredici per la rivista “Tabula” (n. 3-4, 1980), ho notato che mirando a scegliere le qualitativamente migliori e contenutisticamente più varie, il livello era altissimo. Perciò rendo il testo intero, non volendo pregiudiziare il lettore, ma avvertendo che le più note raccolte sopra menzionate hanno forse una unità di valore più costante. Sia per le tematiche di fondo, sia in alcuni casi nel rintracciare ciò che Calogero chiama «segni» (punti fissi del discorso, contenuti e in un vocabolo fisso, o in una frase tipica, o in detto quasi filosofico reiterante) è interessante riportarsi alle opere giovanili incluse in Parole del tempo. Il libretto di 234 pagine delle edizioni Maia include tre brevi raccolte, e cioè 25 poesie (1932-33), Poco suono (1933-35), Parole del tempo (1933-35). Non molto volentieri riporto intere poesie da questa raccolta complessiva a cui Calogero aggiunse una elegantemente scritta prefazione nel 1956; però in tutte e tre le raccolte incluse sono rintracciabili infatti le tematiche 1) filosofico-letterarie e 2) dei «segni» o simbolo usati quasi a modo di corolla al verso dilagante. A mo’ d’anticipo sui testi scritti ben quindici anni più tardi, spiccano segni, frasi e detti, che tanto vale riportare, per capire meglio poi il complesso linguaggio non più intimistico delle quattro lunghe raccolte scritte dal 1950 al 1960. Se le poesie di Parole del tempo ci sembrano ancora informi è perché in esse v’è come una ingenuità un poco provinciale, in cui la parola è un poco presa a prestito, il ritmo ancora non personale, i classici troppo ricordati. È piuttosto nelle tematiche che si ritrova il Calogero degli anni 1950-61; e ne cito alcune: (pagina 18) «Lievi ondeggiamenti di vetro dentro una foglia» (pagina 21) «Fatica / perigliosa all’anima inumana» (pagina 27) «Si sente che la vita è impostura» (pagina 28) «Ma su una sedia corrotta / stando noi taciti seduti» (pagina 213) «Gli uomini dormono in sogno pieno / rimirando con occhio stanco in sogno». L’ultimissima poesia, piuttosto lunga, intitolata Viaggi sotterranei benché scritta nel 1935 si riallaccia ad un paragrafo quasi visionario (da una lettera scritta in forma di saggio introduttivo, per Vittorio Sereni, datata 25 ottobre 1960): il passo è il seguente:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

118

Resteranno ancora parecchie cose che io non conosco e forse non conoscerò mai? E pure quello che ho appreso è veramente tanto, per cui il titolo che avevo pensato per un mio libro di poesie [...] avrebbe dovuto essere quello Città fantastica intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico, essendo intercomunicante in tutti i punti di essa, mi sembra in qualche modo di averla vissuta in altro modo in quest’ultimo periodo della mia vita. Pensando a quel titolo e pensando alla possibilità di una espressività intercomunicante [...] pensavo anche “quasi” ad una città del tutto notturna, dove ogni punto di essa fosse in relazione e comunicante con tutti gli altri. Non ho mai pensato di dare alcuna rappresentazione di tale città, convinto anche, come sono, che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato.

La poesia del 1935 intitolata Viaggi sotterranei include un passo che prepara almeno embrionalmente Città fantastica, già nella mente dello scrittore verso i venticinque anni: Un velo di cinta di una città immobile appare che si stende a perdita d’occhio. Abita ivi una folla di popoli uraganici fuorviati dall’abitazione loro, la cui eco profonda penetra per antri e caverne. Sono uomini senza alcuna evoluzione, senza alcuna nozione del tempo e dello spazio e della profonda notte che si stende continua su di loro. Soliloqui altissimi avvengono.

Quanto alle parole o frasi-«segni» che diventeranno ancora più evidenti e ripetuti nella raccolta Avaro nel tuo pensiero (1955), cioè d’uso più abituale o forse ostinato, anche essi sono rintracciabili nelle più note e già pubblicate raccolte Come in dittici, Ma questo... e Sogno più non ricordo, dove il loro ripetersi è però meno costante, e di tocco più leggero e allusivo. In Parole del tempo di quindici anni prima, dove lo stile e le intenzioni dell’autore sembrano non del tutto sicuri, le parole e frasi dette «segni» (o simboli consci del vocabolario) sono frequentemente le stesse di quelle delle susseguenti raccolte scritte tanto più tardi da fare pensare che non si possa parlare d’un inconscio uso di parole-chiave, anche se a prima lettura ciò può sembrare vero.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

119

Mi si dice, tramite un giovane medico calabrese che comincia a scrivere versi, che è d’uso vicino a Cosenza, per esempio, esprimersi a voce tramite alcuni simboli “quasi” concreti, accompagnando un discorso di poche parole monotone, cioè un discorso di non ampio vocabolario. Il Calogero di Parole del tempo si serve degli identici simboli-segno e frasi che userà poi nelle quattro lunghe raccolte del 1950-60. Ne riporto alcuni esempi: Segreti neri non veri angosciosi; sulla cima mossa dormente degli alberi; raggio sopra un ramo; tarde come carezze di capre; cigli del cielo; di nuvole biondo oro e viola; come un giro di vecchie danze; pallidi cieli; rose; volto chino; gemme; nell’altrui dolore; chiome; vene; luci... fievoli e vane; capricci; una torbida cosa fiorita sopra un triste viso serio; raggio; un moto... la disserra; pallidezza; silenzio non vano della terra; striscia nera; palpebra; un volto perduto in due; tenue com’è una sfera; nei muti suoi veli; sprizza la pupilla; sento la mia pupilla affogare; gli eventi hanno la faccia nel vuoto; ciglio dell’anima; immensità bianca; una coltrice rosa; cuspidi, pinnacoli ascendenti; come ruga trascorre una fronte; una rupe; corolla; nuvole di rosa; denso di rami; voce bruna; l’azzurro e il sereno; chiostra che si disegna sui monti; ombra bianca lunare; povere veste; palpebra; sonno; paese azzurro; vaghe conchiglie; la loro povera vita è vissuta; sogni che è mattina; di onda in onda; fievole stilla / di raggio di sole; ciglie dei monti; invisibile violenza; bianca ala; nastro azzurro; isole nivee; raggio tangenziale; velo mobile; funebri aiuole; cupole molli di aria; si disserra; echi; voluttuosi; umili pazienti occhi; i contorni e le cose.

In Avaro nel tuo pensiero i «segni» semantici si raffineranno; gli esempi abbondano, e ne do alcuni, visto che il lettore conoscendone l’ordine già da Parole del tempo, può benissimo districarsi da solo in tale boscaglia, e notarne l’usualità ripetitiva: curva vena aerea; lievemente è sulle vene glauca una / stanchezza bianca; nell’aria vana tenue; solo l’altrui dolore; morbida guancia; voglie vane; sono contro vetrate glabre; vene; mani; se desiderio e sogno; luce d’albero; una vetta d’alabastro; al cielo d’una vetta; luce rosea e rossa; in un tremito; una linea veloce e umida; tumido; nuda e muta; nel fondo umido; poro; ombra; tacita; plumbea; l’umile orizzonte; ombra densa di pensieri; le cose nel tuo sguardo; sotto umili tende; il vuoto; una luna coi pori falsi; nelle vene tue carnose; cime abbaglianti di alberi; una solida cosa; miti occhi teneri; onda cupa dell’aria; tenero tuo sonno; vano evento; il suo sonno che riposava; ultima linea vera; una lontana vena; una pura vena; un piccolo ritorno; al margine dei sogni; soffuso pallido di rosa; un tutto era d’aria; la quiete... delle... ciglia; per l’altrui dolore; gote; begli occhi; tenera tua bocca; umili di nuvole rosee; ora vago in trasparenza; parlò una mano glabra; su rose grigie e rosse; niveo era il tramonto; vani sogni; zolle umide e lisce; le sembianze nel nulla; campo nudo; occhi ora rivedo vuoti; in un

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

120

AMELIA ROSSELLI

poro socchiuso s’apriva una sfera; in se stessa riassorta; pallida guancia; favola fievole; pioggia tinnente; le tue mani modiche; gregge; frotto; coro; a schiera; vetro; guancia; sonno; sogno; sfera; glauca; indifeso; povero; fango; danza; lumi; luci; magico; riso; velocità.

Più interessante è l’uso di frasi “standard” quasi di popolare filosofica intenzione; per esempio: che in se stesso si serra; in questo va e viene; e perché una gioia non si rischiara più due volte; e con ordine un va e viene; fosse questo e quello; tutto riverso sono dentro un mio pensiero; un più e un meno; una scintilla in più e meno; trattenendo se stessa sempre; languiva sempre in se stesso, solo; come persone deste vive oppure morte; i corpi nostri o vivi o morti; nelle vene dell’altrui dolore; dei vivi e dei morti; era in due denso un tuo fiotto; questo e quello; in più o in meno; e perché un povero cuore non poteva dire sì due volte; così povera due volte d’amore.

La lingua invece originariamente “letteraria” dell’autore s’affina anch’essa, e origini greche e classiche sono chiare – in opposizione al «segno» – oggetto semplicistico, o punto di riferimento non solo fantasioso ma materico. La cultura di Calogero è profonda, le sue letture molte e includono tutti i moderni francesi soprattutto, con riferimenti a Kant, Croce, Heidegger, Wittgenstein e anche in particolare Borgese, Quasimodo e D’Annunzio. La lingua di fondo raffinatamente letteraria ha scelte neoclassiche che anche in questo caso s’identificano col vocabolo: vedi l’uso di forme antiche e letterarie quali: ceduo, pervinche, lacustri, elleno (da “esse”), albicanti, efelide, ecciduo, amarulento, sorgiva, origene, pruina, le prode, embrici, ambagi, mi riattempo, proclive, l’intercapedine, una chiostra, tegumenti, diaccia, l’incesso, un nembo, la selce, temperie, frotto, plaga, piaggia, lembo, erme, egivale, il marezzo, seriche.

Ma la poesia non è certo fatta di scelte semantiche “segnaletiche”, simboliche, o neoclassiche che siano: l’inusuale del linguaggio di Calogero è la sua plasticità, ed estrema attenzione ad una sintassi di logica indiretta, forse appresa attraverso gli studi di matematica durante il primo anno di ingegneria a Napoli, oppure tramite gli studi di filosofia moderna. La sua sintassi se nelle prose delle sue introduzioni o lettere a volte si confonde in tratti di sinuosità e durata eccessiva, nella poesia è completamente controllata. Essa sembra riecheggiare Leopardi, e a volte l’Ottocento tutto intero, ma è invece se non come si usa un po’ assurdamente dire oggi, postmoderna, almeno previdente e bastante a se stessa: cioè ri-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA ITALIANA

121

chiama alla fantasia come una formula segreta delle cose dei verbi e dei nomi, con alfabeto riecheggiante e musicalmente non ovvio. La sua metrica andrebbe studiata nel suo evadere ogni sistematicità, benché accentuativa. Non vi sono mai più di quattro o cinque versi in fila che si ripetano approssimativamente nel numero di sillabe e il continuo cangiare di larghezza d’onda, misura di verso, è voluto, calcolato e non afferrabile. La più sorprendente dote di questo poeta antico-moderno è la sua ricchezza violenta nella metafora, sempre azzardata. A volte parrebbe che sperimenti in senso surrealistico, ma codesta tecnica è da lui ammaestrata e perfettamente superata, essendo sperimentata quanto altre tecniche di difficile analisi, ma varie e consce. Ad esempio della ricchezza metaforica dell’autore riporto alcune immagini dedicate al banale tema della luna, periodicamente presente nei versi, come prova di rinnovamento: (da poesia 8): Ti siedi fra noi e sorridi; ma ora è la piccola sfera di più di un anno che ti rimanda alla rinfusa a quanto leggera sai confusa in ogni tua parola (da poesia 11): E perché gioia possano avere altri ora stai a vedere. Glauca e rotonda preme la luna la tua faccia rotonda e bruna, una città scomparsa sconosciuta di ossa e la mano tua con furia. (da poesia 14): in ogni muscolo contratto, come il ritmo del cadere delle veloci messi del grano o il tono della voce ch’era sulle trecce delle rocce protesa verso una stella e una luna che intravedeva solo se stessa. (da poesia 26): Tu eri glaciale alla luna tagliente del suo tempo

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

122

nel freddo sereno sempre intenso sempre uguale. (da poesia 29): e perché a tarda era non amava ardire tanto, cieca era una luna coi pori falsi lievemente smossi, dentro i suoi lineamenti... (da poesia 67): Tonda tanto spunta una luna come un calcolo del cielo diffusa nel mistero e come un piccolo viavai; e, perché nulla di te si sappia, ora battello era, ora un cristallo di pace su una nave sospinta sola sulla via dell’orlo dove timida e trepida tu vai. (da poesia 80): Raccoglieva onde una curva che agile non era, una risposta folle, e una luna che avevi alle tue spalle. (da poesia 85): Ma non ti frantumare. Pensa a una luna, alla natura come a tanti frammenti... (da poesia 102): ... silenzi dei dì e una patria non nuova già vedi, rincorri glauca e rotonda quando s’affaccia o tramonta una luna.

1 Corrispondenza dal 1° agosto 1935 al 13 giugno 1936 e dal 3 novembre 1955 al 31 gennaio 1956. 2 Dalla lettera a Carlo Betocchi, Melicuccà, Reggio Calabria 10 novembre 1935. 3 Premessa a Parole del tempo (1932-35), Campiglia l’Orcia, Siena 1956. 4 Dalle lettere a Leonardo Sinisgalli, Campiglia d’Orcia, Siena 1955. Si riferisce a Avvertimento al Lettore di L. Sinisgalli, che fu pubblicato come introduzione a Come in dittici, Maia, Siena 1956.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

UNA SCRITTURA PLURALE

123

5

Dalla lettera a Leonardo Sinisgalli, Melicuccà, Reggio Calabria 1956. Dalla lettera in forma di saggio a Vittorio Sereni, Melicuccà, Reggio Calabria 1960. 7 Ibidem. 8 Dalle lettere a Giuseppe Tedeschi, Melicuccà, Reggio Calabria 1960-61. 9 Dalla lettera a Carlo Betocchi, Melicuccà, Reggio Calabria 10 novembre 1935. 10 Dalla lettera a Carlo Betocchi, Melicuccà, Reggio Calabria 31 gennaio 1956. 11 Dalle lettere a Leonardo Sinisgalli, Melicuccà, Reggio Calabria 1956-60. 12 Ibidem. 13 Dalle lettere in forma di saggio a Vittorio Sereni, Melicuccà, Reggio Calabria 1960. 14 Dalle lettere a Giuseppe Tedeschi, Melicuccà, Reggio Calabria 1960-61. 15 Dalla lettera a Carlo Betocchi, Melicuccà, Reggio Calabria 13 giugno 1936. 16 Dalle lettere a Giuseppe Tedeschi, Melicuccà, Reggio Calabria 1960-61.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

6

(1989)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

STRINGERSI ALL’OSSO DEI PROPRI PENSIERI

In una nota di poetica, Antonella Anedda scriveva, poi realizzando la sua poesia in un libro intitolato Residenze invernali: Dovrà essere ampia e forte con il respiro del romanzo ma senza la sua finzione. Allora avanza nel territorio della poesia con la realtà e il rito, con oggetti d’uso, con gli arnesi del vivere: la brocca e la lampada, i legni dei letti, l’acqua versata della luce, il lenzuolo ben teso. Avanza tra le cose ben sapendo che quando dentro di te farà notte si potranno sollevare minacciose, irrigidite nella più gelida delle durate. Allora stringiti lentamente all’osso del tuo pensiero accettando che a lungo nulla e nessuno parli, che tutto il tuo essere resti inchiodato alla fissità e ciò che ruota intorno sia, indecifrabile.

Antonella Anedda è nata a Roma nel 1958, ma di genitori sardi; passava almeno tre mesi all’anno in Sardegna, o in Corsica, dalla nonna, a Venaco vicino a Corte. Imparò il dialetto sardo, cioè imparò a comprenderlo, ma non a parlarlo. La prima ambizione fu quella del romanzo, di lunga composizione; prima e contemporaneamente, scrisse alcuni brevi racconti, pubblicati su riviste laziali quali “Foreste Sommerse”, “Prato Pagano”, “Malavoglia” (parte del romanzo) e “Nuovi Argomenti” (poesie e racconti) – questo tra l’85 e l’89 circa. L’Anedda terminò il romanzo attorno all’87, non riuscì a pubblicarlo, non soltanto perché era sconosciuta, ma perché il lungo romanzo aveva stile invece serrato e severo, e richiedeva, non avendo intenzioni commerciali, lettura particolarmente attenta, e se ricordo bene, escludeva poeticità metaforica. Non era romanzo d’azione, ed escludeva anche la cosiddetta suspense. Fu però segnalato al Premio Calvino indetto dalla rivista “L’Indice”. Affaticata da scrittura prosastica, la Anedda tornò alla poesia, che permetteva una più spontanea espressività. E infatti spesso la sua poesia nasce da serrata prosa, e come sollievo. Comunque non è scritta di getto, come invece potrebbe apparire: l’autrice la lima e corregge a lungo. Residenze invernali apparve prima di tutto in forma di elegante cartella della Litografia Bulla, 1998; poemetto iniziato a Napoli, nel 1987, e terminato ad Ajaccio nell’estate ’88. La cartella stampata a Roma guadagnò stima, e il poemetto fu in parte pubblicato sulle riviste “La Tartaruga” e “Poesie ’90” (Parigi,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

126

traduzione di J.C. Vegliante). 1991 è il titolo del poemetto finale di due pagine, composto a Roma nel dicembre 1990: notevolissimo nella sua apertura: «In nessun luogo c’è bisogno di noi» e nella sua chiusa: Non ho parole cupe non cupe abbastanza. Il pino s’infossa nella notte a fatica decifro la memoria. [...] Di lato c’era come un recinto e lì duravano le cose.

Accenno a chiaro contenuto v’è soprattutto in questi versi finali, e molto chiaramente in Residenze invernali, dove scioltamente narrativa è la tematica dei malati in un ospedale. Maggiormente astratta la versificazione di Voci per alleati, rischiando il “gelo”, la “refrigerazione” delle immagini, poco significanti, anche se il linguaggio di tutto il libro è di notevole livello e originalità. Le sonorità corse o sarde non sono solo dialettali, sembrano sopraffare l’italiano classico, e solo della Anedda potrebbe essere tale linguaggio, tale asciutta e violenta espressività, molto serrata. Rare metafore estreme, majakovskijane e futuriste in mezzo a vocaboli emotivamente e oggettualmente femminili; vocabolo ricco, perfino letterario a volte, ma che ricorda di Lorenzo Calogero una limitazione: quella della ripetizione di alcune parole-segno. Tecnicamente dunque il libro è maturissimo; forse depressivo, a raggio ristretto, e si spera in un allargamento delle tematiche, cupe infatti e invernali, quanto le origini sarde dell’autrice. Nell’allargare tematiche (e, pur essendo ristrette come paiono, il verso è splendido), un rinnovarsi del vocabolario, o comunque un dettagliarsi. Ma mai predicare limiti a quasi-capolavori, immaginandone volumi secondo e terzo. Piuttosto penserei necessaria una ripresa della sua scrittura in prosa, meno intensa, e comunque una precisa attenzione al suo lavoro. (1992)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

LA FATICA DI ESSERE AUTENTICO

Pasternak Boris. La calma di Pasternak era invincibile, nascosta, nascosto anche tutto quello che poteva essere il suo tormento, tormentosissimo lavorio, tormentosissima preparazione alla calma, al vaso non rotto, alla poesia fatta, decisa in partenza, senza pretese eppure in un balzo scombussolando tutti i programmi, le poetiche pubbliche. Perché fu così libero d’esser solo? Mitezza forse, anche pudore, o forse perché ebbe esistenza agiata anche protetta. Tanto protetta da lasciargli il tempo di tormentarsi e di nasconderlo. Con quanta calma iniziare un poema «Amare gli altri è una pesante croce», oppure «Non agitarti, non piangere, non affaticare / le forze esauste e non affliggere il tuo cuore», altre volte invece «Di nuovo Chopin non cerca vantaggi». In Italia al momento rintracciabili sono tre diverse traduzioni (almeno a mia conoscenza) delle poesie sue; quella di Ripellino per Einaudi (splendida), quella di Mario Socrate nelle poesie incluse assieme e in fine al Dottor Zivago (Einaudi 1964) (col variare del traduttore nasce tutt’altra impressione del poeta: Ripellino ne dà un’idea scattante, precisa; Socrate lo fa sembrare stanco e saggio); e quella appena uscita (Poesie inedite, Rizzoli) di Zveteremich aiutato da Domenico Porzio. Quest’ultima traduzione preoccupa per la sua ambiguità (od era ambiguità del poeta?): certi lunghi poemi come per esempio Spektorskij restano in parte incomprensibili, forse volutamente, in ogni modo modernamente. Tradotto in inglese poi Pasternak ha tutt’altra faccia: a volte ne fanno un accademico. Che dire dunque di lui salvo quel che s’indovina? Grande, saggio, spaventato: sempre innamorato ma forzandosi a volte come nelle poesie “politiche” (Il luogotenente Schmidt) d’essere più ragionevole, meno sorpreso, partecipe ai fatti come se veramente gli fossero vicinissimi. Ma fu uno sforzo questo molto duro: innamorato anche della rivoluzione non volle glorificarsi decantandola, ma solo nominare un uomo, e in ogni sua precisione descriverlo come un uomo qualunque. Ed in ogni rivolta vedere il segno d’una normalità non necessariamente eroica; spesso atto di natura, o semplice onestà, necessità. Si sente che in lui la brutalità richiesta per infervorarsi non può soccorrerlo; egli ne è conscio sino all’esasperazione, non la nega o diniega esplicitamente: rifiuta di dubitare del tutto; ma si ritira alluci-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

130

AMELIA ROSSELLI

nato, riportandone soltanto il dato, il fatto, il carattere dell’uomo. Le poche ironie dei suoi versi sono tutte dolorose, quelle poche righe amare in realtà sorridono. Egli non è poeta facilmente analizzabile in senso sociologico-culturale: parlare di una sua prima giovanile aderenza ai movimenti futuristi, o postcubisti, non chiarisce il mistero della sua fecondissima originalità, del suo tastare ogni terreno ideologico con inaspettata libertà, singolarità. Di poesia in poesia sembrano rovesciarsi le “aderenze”: in un continuo sperimentare la realtà privata e pubblica deduce mille, diverse, a volte opposte verità. E la sua poetica, le sue poesie, sono obiettive e private insieme. Poeta anche dell’obiettivazione non scese però mai a patti col verso “macchinoso”, “fotografico”, automatico. E d’altra parte questioni sue private non rivelò mai completamente. Sorprendente è poi il leggere la sua prosa (non solo lo Zivago, ma anche per esempio l’autobiografia Salvacondotto): molto più cauta si fa la sua poesia nella prosa, in una ricerca del “banale” come punto alto e d’obbligo della vita. Invece nei versi egli è tutto “inedito”, con tematiche impensate, con un rovesciamento del banale per mostrarne i più patetici segreti. Fu un poeta che lavorò sistematicamente, correggendosi, rivedendosi, controllando ogni verso? Oppure scriveva di scatto, dopo notti insonni “balzando dal divano”? Difficile saperlo; dai suoi lucidi quadri non vuol trasparire alcuna descrizione dell’“artista”, vi fu in apparenza un diniego o una restrizione d’ogni “balzo” romantico; eppure il coraggio di Pasternak è proprio quello di non aver rifiutato di parlare delle emozioni, descrivendole come sorelle alla vita, accompagnatrici accette, descritte senza imbrogli, sfaccettature, nascondigli. E senza vergognarsene. Oggi amare, provare sentimenti, esprimerli, sembra imbarazzare i poeti. Le emozioni le crediamo doppie. Eppure Pasternak era convinto dell’unicità dei suoi sentimenti, ma certamente aveva frugato a lungo in se stesso per trovare quelli autentici. E se nessuna o quasi nessuna “visione della vita” o programma scaturisce dai suoi versi era forse perché gli sembrò bastare proprio questa fatica. «Con tutta la mia debolezza giuro di restare con voi» – verso sintomatico; rispecchia la sua modestia e la sua fedeltà, alla poesia come alla rivoluzione. (1966)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

AMORE E NOSTALGIA DEL MONDO CONTADINO

Poeta che a noi potrebbe sembrare troppo dolce, o facilmente lirico e sognatore; poeta che definiremmo (erroneamente) mancante di travaglio, e scarso nella pratica delle difficili durezze formali; o diremmo forse che la sua apparente semplicità è non soltanto fuori moda, ma capricciosa e in un certo senso salottiera. Ma questi giudizi sono giudizi tipici, e perciò in nessun modo obiettivi, in quanto dati piuttosto da una generazione di scrittori e poeti e artisti che per molti versi vuole reagire in senso opposto a tutto quello che ispirava la generazione precedente (nel caso di Illyés i motivi d’interesse e ispirazione sono soprattutto l’Ungheria suo paese natale, la situazione politica verificatasi sia durante l’ultima guerra, sia a liberazione avvenuta; i sentimenti personali più interiori; i suoi rapporti con il popolo e il ceto più strettamente contadino). Il modo, lo stile di Illyés nell’avvicinarsi a queste tematiche è soltanto apparentemente limpido e scorrevole nella forma: da alcuni lati la sua poesia ricorda quella di Pasternak, che è spesso dolce e sfuggente nel linguaggio e nella metrica; i cui contenuti anch’essi hanno qualcosa di non precisato. Ma mentre Pasternak rimane quello che era: uomo di origine borghese, di alto livello culturale e nella poesia benché musicalissimo comunque estremamente intellettuale e colto anche nel tentare di nasconderlo, Illyés rivela la sua origine povera e contadina, la sua schiettezza e concretezza campagnola, anche nelle più sottili poesie. Dalla bella traduzione di Umberto Albini si evidenziano nonostante i grandi ostacoli linguistici indovinabili dietro ogni traduzione di versi, una sorta di trasparenza dello spirito, un poco immischiarsi di congegni formali e teorici, un attenersi a decisioni fondamentali riguardanti sia la sua presa di posizione comunista sia il suo atteggiamento dinanzi al mondo “moderno” (di macchine e alta organizzazione): il poeta rimase sostanzialmente un nostalgico della pace e verità del mondo contadino dal quale proveniva, e sentiva come malsano ed estraneo questo nostro aspirare ad un mondo altamente industrializzato. Non è nuovo per noi questo atteggiamento: ha un che di illusorio che ci preoccupa e insieme attira. In Illyés era sinceramente autentico, e ancora oggi la sua analisi così fine, e la sua ribellione così cocciuta nei riguardi dell’oppressore politico e economico, potrebbero farci ri-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

132

AMELIA ROSSELLI

valutare proprio questa “semplicità”, che è invece travagliatissima esistenza. Gyula Illyés era poco conosciuto in Italia sino a questa pubblicazione dei suoi versi da parte di Vallecchi editore: gli specialisti leggevano qua e là qualche suo verso tradotto su riviste, incluso soprattutto in antologie della poesia ungherese; pochi sanno che fu inoltre romanziere, scrittore di drammi storici, saggista e noto autore di acuti reportages. Nacque nel 1902 figlio di poveri braccianti: riuscì a compiere studi regolari, emigrò a Vienna e Berlino, poi a Parigi, dove si guadagnò faticosamente la libertà agli studi superiori, facendo ogni sorta di lavoro manuale e insegnando privatamente. Conobbe Aragon, Eluard, Breton, Tzara, ed è forse in questi incontri rintracciabile l’origine di tanta finezza linguistica e immaginifica, benché non si possa dire che egli sia rimasto influenzato dal surrealismo più ufficiale e corrente. Tornò a Budapest nel 1926, fu uno degli esponenti culturali più in vista e inoltre si impegnò vivamente col movimento socialista e operò nella clandestinità nell’ultimo periodo della guerra. Poi deputato nel 1945 per il Partito Contadino, poi un ritiro volontario dalla vita pubblica: in questi ultimi anni ha ricevuto vari premi internazionali per la poesia e viene riconosciuto come il maggior poeta della lirica contemporanea ungherese. Vita movimentata, dai grandi contrasti: ambienti opposti: poverissimi e incolti nella sua terra natia in gioventù: poi all’altro estremo, l’avanguardia letteraria parigina. Ufficialità letteraria ungherese; attività politica in un paese comunista; clandestinità nei momenti più gravi delle persecuzioni naziste. Eppure la qualità delle poesie non muta: l’autore non cambia personaggio e non può farlo: il suo io rimane intatto e il tono elegiaco ma rarefatto è lo stesso in ogni poesia, che questa tratti di politica o di sentimenti personali e intimi, che tratti di musica (nella poesia Bartók) o di civiltà contadina. Sarebbe interessante conoscere gli altri scritti in prosa e per teatro dell’autore: sorprende soprattutto nei suoi versi non solo la versatilità della tematica, ma anche una inusuale perspicacia psicologica molto diversa dalla nostra che ha piuttosto carattere scettico e concreto, di analisi dei rapporti personali-individuali: la sua sembra preservare un che di mistico e tenero, che è ben lontano dalla nostra mentalità occupata dai dati, dalle parole e le loro ambigue significazioni, dal problema della “perduta innocenza”. Illyés non mette in dubbio i rapporti umani e la qualità di questi rapporti: osserva attentamente invece il suo “io”, la sua terra e il suo popolo, e assolutamente senza retorica ne coglie lati a noi del tutto sconosciuti.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

133

Aggiungiamo a queste insufficienti note il pensiero che troppo poco conosciuta è la letteratura magiara qua in Italia, e che di più se ne vorrebbe conoscere: per l’italiano medio è prezioso questo potersi affiancare a scrittori stranieri non soltanto del mondo occidentale; forse anzi l’italiano ha più legami con l’Europa orientale di quanto non pensi e sono più lontani da lui di quanto non sappia l’irrequietezza e il cinismo degli scrittori angloamericani e francesi, ai quali invece tante delle nostre traduzioni si appellano. (1968)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

FORSE IL PRIMO POETA D’AMERICA

Bella scelta editoriale quella di Einaudi, nello stampare nella collezione di poesia stile pocket-book l’ottimo poeta che è John Berryman (Omaggio a Mistress Bradstreet, traduzione di Sergio Perosa, 1969), americano fuori di ogni scuola corrente, eppure significativo e necessario forse più di ogni vivente poeta degli Stati Uniti. Il libretto comprende le cinquantasette poesie intitolate Omaggio a Mistress Bradstreet, specie di poemetto diviso infatti in cinquantasette parti; e ne dà attenta versione italiana e presentazione lo studioso Sergio Perosa. John Berryman, poeta a noi quasi del tutto sconosciuto anche perché i suoi molti testi non sono rintracciabili nelle librerie inglesi o americane nostrane, è nato a Oklahoma nel 1914, ed è da molti negli Stati Uniti considerato il loro primo poeta: tale da confrontarlo a Eliot per importanza, e a Hopkins e Yeats e Lowell, per lo studio delle sue origini. Ben sei volumi di sue poesie sono stati finora pubblicati negli Stati Uniti o in Inghilterra; Poems (Poesie) nel ’42, The Dispossessed (I diseredati) nel 1948, Homage to Mistress Bradstreet (Omaggio a Mistress Bradstreet) nel 1956 con illustrazioni di Ben Shahn, Short Poems (Poesie brevi) nel 1967, 115 Sonnets (115 sonetti) pure nel 1967, e His Toy, His Dream, His Rest (Il suo giocattolo, il suo sogno, il suo riposo) nel 1968. Foltissimo scrivere, di cui anche soltanto una parte, questa tradotta da Einaudi, già in se stessa illumina e sorprende per la sua notevole originalità ed evidente qualità. Soprattutto è originale di questo testo l’impostazione allo stesso tempo avanguardistica e non-avanguardistica, del tema, del linguaggio, dei problemi formali. Grosso modo la tematica volge attorno una specie di fantastico spirituale incontro del poeta-autore con una nota poetessa del Seicento coloniale americano; l’autore nell’introdurre il tema è presto e volontariamente coinvolto sino ad una quasi completa identificazione con il suo personaggio femminile: ne riporta le ansie, le ribellioni, la problematicità amorosa o sessuale, religiosa ed anche sociale; e i pensieri familiari; senza mai però cadere nell’astrazione soltanto storica il suo personaggio femminile, poeta anch’esso, sembra esprimere tramite un linguaggio che infatti a volte riecheggia quello solenne del Seicento angloamericano, una interiorità più emotiva che

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

136

AMELIA ROSSELLI

concettuale, piuttosto travagliata che distaccata. Stilisticamente poi i cinquantasette poemetti che quasi narrativamente riportano l’incontro dei due personaggi (autore e autrice) fusi in unica versificazione, hanno un che di estraneo alla civiltà anche soltanto letteraria di oggi; benché in parte influenzato dalla scuola beat nella scelta dei suoi vocaboli e nelle contorsioni grammaticali (questo però piuttosto nei più recenti lavori), mai l’autore imita o si aggrega ad un gruppo o ad una moda letteraria: ogni verso, ogni strofa nasce anzi come da un nulla culturale, e si rivela particolarmente personale e inconfondibile. Si potrebbe facilmente addebitare questa impressione di nuovo e di assolutamente individuale ai molto particolari e forse eccessivi accorgimenti tecnici di cui l’autore si serve nel plasmare la sua materia: inversioni, compressioni sintattiche, distorsioni linguistiche tutte portano a far come ribollire il drammatico colloquio-soliloquio entro forme del tutto chiuse e ostinatamente ripetute di poesia in poesia. Oltre a ciò abilissime e molto sensitive le sue scelte (quasi distruttive) delle immagini, rischiando semmai a volte di scivolare nell’incomprensibile, nel troppo interiorizzato. Domina sul testo non soltanto l’abilità formale e linguistica ma, soprattutto, l’intensità della vita vissuta, l’intuizione drammatica del mondo psichico-intellettuale femminile. Nuovo dunque il tema, storicizzato; nuovissimi gli accorgimenti tecnici, e solitaria l’insistenza dell’autore nell’imporsi forme chiuse e controllatissime. Profonda la sua cultura e ciò lo distingue da più artificiali o esaltati poeti dell’America di oggi. Nella introduzione al testo Sergio Perosa dimostra attentissima ricerca e comprensione dell’opera e dell’autore; la traduzione, difficilissima, non può attenersi del tutto al testo, anzi ne semplifica assai i momenti tecnici o musicali: serve piuttosto ad un confronto da parte del lettore, col testo in inglese, e a sé stante non può dare completa idea del testo originario. Ma è limpida e precisa, e rivela quanto lontane siano le forme linguistiche italiane da quelle inglesi, al punto a volte di non poter in alcun modo riprodurre esattamente i significati e i ritmi. Vorremmo suggerire che a questo poeta quasi scontroso nel suo isolarsi, venga in Italia data maggior attenzione, nel senso d’altri tentativi di pubblicazioni e traduzioni. Evidentemente meritati i premi Pulitzer e National Book Award ambedue assegnati a Berryman per la sua ultima opera del 1968. (1969)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CANTI E POESIE DELLA CONTESTAZIONE NEGRA

Difficile compito quello del redigere un’ennesima antologia di poesia contemporanea (Negri Usa – Nuove poesie e canti della contestazione negro-americana, a cura di Gianni Menarini, Sansoni Accademia, 1969), in questo caso specialmente, trattandosi di una raccolta di «nuove poesie e canti di contestazione negro-americana» in cui le poesie incluse sono tutte del dopoguerra, così come i canti popolari anonimi aggiunti in fine libro ad esemplificare una sorta di “base” poetica (canti politici del movimento pacifista, canti di protesta) alla quale molti dei poeti di questa antologia si sono originariamente ispirati. Difficile il compito soprattutto perché il distinguere tra poesia “di protesta” e poesia tout court è o può sembrare artificioso e velleitario: infatti di questo problema è fatta una intelligente analisi nella lunga introduzione al libro, che include anche una intervista con LeRoi Jones, e in cui viene dibattuta specialmente la posizione politico-poetica degli autori in quanto negri. E può sembrare pericolosa anche la distinzione tra poesia “negra” e altra poesia: Gianni Menarini, traduttore e compilatore-curatore del testo, avverte con chiarezza il rischio di creare con simili distinzioni una specie di razzismo alla rovescia, che egli però considera positivo. Ma è comunque certo che qua in Italia abbiamo molto bisogno di informazioni riguardo alla situazione politicosociale dei negri negli Stati Uniti e che questo fine informativo ben giustifica il distinguere tra poesia negra e bianca, tra status ribellecontestatario e status semplicemente “artistico”. A ciò aggiungiamo che parecchi dei poeti inclusi nell’antologia sono vicini al Black Power Movement (movimento politico dei negri in cui ogni forma di pacifica protesta è ormai considerata inutile o sorpassata e tramite il quale viene spinta ad oltranza l’idea di una difesa e di una aggressione politica anche violenta) ed hanno consciamente scelto di abbandonare ogni ambizione soltanto letteraria a favore di una attività politica costante, ed uno scrivere utilizzato spesso a fine sobillatorio. Non sempre però questa chiara decisione porta ad un livello di scrittura inusuale e distinto da quello medio delle generazioni beat e hippy statunitensi. A volte la tematica specialmente protestataria stancamente si ripete d’autore in autore: grande eccezione a questa “media” però sono gli autori LeRoi Jones (tra i capi del Black Power), Da-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

138

AMELIA ROSSELLI

vid Henderson, Langston Hughes, Bob Kaufman, Richard Wright. Di interesse anche A.B. Spellman, Ted Joans, George Bell, Audre Lorde, Ray Durem e parecchi altri, anche se ad uno scrivere che spicca soprattutto per la sua emotività e dirittezza (notare la forte influenza surrealista nei versi di Kaufman o di Bond) non sempre corrisponde un inventare nuove forme metriche, o una protesta altro che depressiva. Genericamente si potrebbe dire che nel suo complesso la poesia negra degli ultimi vent’anni rivela una evidente assimilazione della poesia underground americana, della metrica majakovskjiana, delle immagini sbrigliate nate col surrealismo francese: e che abbia forse una sua particolarità in una specie di quantitativo di vitalità superiore a quello dei poeti bianchi dell’ultimo ventennio americano o europeo. Ma che qualche vera innovazione o visione filosofica sorga dal lavoro dei poeti negri contestatori negli Stati Uniti, non credo che si possa dire salvo che in senso collettivo, ad eccezione probabilmente del già noto LeRoi Jones e di Bob Kaufman (tradotto soprattutto a Parigi). Interessantissima la lunga introduzione alla raccolta, e utili le testimonianze e i dialoghi inclusi. La traduzione in se stessa è abbastanza attenta, salvo per qualche errore dovuto più che altro a una non completa dimestichezza col “parlato americano”. Interessante anche il venire a sapere che in Italia già più di cinque antologie di poesia negra sono state presentate al pubblico e che negli Stati Uniti questo urgente confronto è stato proposto un quattro volte dal dopoguerra in poi. Dei trenta autori la maggioranza è sulla trentina: circa dieci (ad esempio Richard Wright, Langstone Hughes) sono della generazione precedente e nove sono donne. Da osservare che non strettamente contestatarie sono le poesie di Carl Yeargans e Audre Lorde, di cui sono inclusi versi anzi di natura introversa e intimista, con nessun accenno a problematiche razziali o sociali in genere. Le note, le fotografie, gli indici informativi sono di buon livello e di natura non troppo specialistica, cioè hanno carattere divulgativo. Così come i testi. (1969)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POETI D’AVANGUARDIA ISPANO-AMERICANI

Brutta l’abitudine da parte dei compilatori e redattori di antologie di pensare più ai fatti propri che non a quelli degli scrittori “acclusi” nelle antologie stesse. Volendo dire: se per esempio a Marcello Ravoni e Antonio Porta, che hanno curato le 567 pagine di Poeti ispanoamericani contemporanei, viene in mente di proporre questa antologia al loro editore Feltrinelli, è in gran parte per rafforzare le correnti letterarie di cui fanno parte in Italia, che scelgono di includere in detta antologia certi poeti e altri no. Vizio questo accettato bravamente anche da altri dell’ex Gruppo 63 (vedere Poesia del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969): ed anche promulgato nella introduzione al testo che qui vorremmo recensire. Cioè si ammette di avere escluso certi poeti in quanto non “veramente” “di avanguardia”, come se, poi, la parola “avanguardia” avesse identico significato in ogni paese, in ogni epoca, in ogni “reame” letterario. E poi è nell’introduzione stessa che anche si parla ogni due righe, invece che dei poeti, delle “scuole” a cui questi avrebbero appartenuto, come se queste avessero (nel loro alternarsi pressappoco ogni due anni) del tutto determinato le scelte letterarie-psichiche-politico-formali degli autori. Dubitiamo molto che ciò sia vero, anzi pensiamo questo essere vizio di certi critici che “prima” di leggere un poeta lo vogliono catalogare alla svelta in scuole e correnti, tanto per essere sicuri di capirlo meglio a lettura avvenuta. Ed è per ciò che noi, per meglio infiltrarci nel testo Poeti ispanoamericani contemporanei di Feltrinelli, abbiamo dovuto comprare ancora un altro testo (La letteratura ispano-americana dall’età precolombiana ai nostri giorni di Giuseppe Bellini, Sansoni Accademia) per meglio e meno superficialmente poter addentrarci nella prima antologia, che già in se stessa metteva in guardia, nelle due introduzioni, contro ogni deformazione interessata della presentazione di poeti a noi purtroppo in gran parte ignoti. Ed ora per passare alla sostanza del libro: le opere dei moltissimi autori sudamericani inclusi e benissimo tradotti da Antonio Porta (settantasei poeti dal primo Novecento ad oggi) propongono alcuni versi ciascuna che strano a dirsi in una così fitta e ingorda stampatura, danno effetto d’esser tutti uguali. Linguisticamente e nelle immagini

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

140

AMELIA ROSSELLI

(come al solito sempre fortissime, dando riprova della violenza dell’immaginazione poetica sudamericana) avviene ciò che in realtà non dovrebbe avvenire nella lettura dei poeti presi uno ad uno: come un “livellamento” di gusti e di talenti; un cosmopolitismo soltanto apparente ma irritante, un fuoco e furia di parole “inutili”. E falsa davvero è questa impressione, provocata forse anche dall’aspetto grafico uniforme del libro, dai troppi versi e troppi autori presentati, da un certo manierismo di scelta operata dai due redattori. Ma per poter parlare più a fondo sia dei singoli autori, sia della poesia sudamericana moderna in genere, sarebbe meglio infatti suggerire non soltanto La letteratura ispano-americana dall’età precolombiana ai nostri giorni per meglio addentrarsi nei versi complessi delle scuole sudamericane, e comprenderne le radici anche locali e storiche – ma anche la pubblicazione in piccoli volumi economici degli autori più significativi del Novecento sudamericano. Mai del resto è riconoscibile la significatività reale d’un poeta nelle antologie: e nemmeno è possibile indovinare obiettivamente quali di questi poeti hanno maggior sostanza e importanza. Che i curatori abbiano “voluto” infatti presentare una antologia che aspiri ad una specie di livellamento consumistico delle qualità poetiche di ciascun autore è probabilmente vero: con ciò tentando una “operazione” non snobistica e non carrieristica, cioè lasciando al gran pubblico il compito di indovinare i veri versi, separandoli dalla mischia. Ma l’“operazione” sembra ottenere l’effetto contrario: disinteresse e noia, confusione: che dal primiero livellamento possa poi nascere occasione di scelte più precise da parte dei critici del pubblico e degli editori è cosa che vorremmo sperare: indicando questo libro all’attenzione del pubblico, ma preavvertendo dei suoi difetti e della sua impostazione da “collezionisti”. (1970)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA D’ÉLITE NELL’AMERICA D’OGGI

Qualsiasi discorso che venga fatto oggi sulla poesia del Novecento americano, perna spesso per ragioni di sola convenienza editoriale sulla scuola beat di New York e San Francisco. Il richiamo a Pound e Joyce è ostinatamente monopolizzato da questa scuola: i cui lavori letterari, benché a volte vivacemente scioccanti, non sono poi di tale levatura da meritare – a parere nostro – una così univoca stima. Poeti non di quest’ultima generazione, ma piuttosto della generazione “di mezzo”, a volte detti ortodossi per contrapporli alla urgente e chiassosa scuola beat, sono i veri, discreti eredi di Pound, Joyce e anche E. Cummings e William Carlos Williams. Non si tratta di un gruppo o di una corrente, ma di forti, solitarie personalità ciascuna legata all’altra sia per contemporaneità, sia nel modo di vivere tipico del letterato isolato e colto. Tra di queste spiccano anzitutto tre autori: John Berryman, professore universitario, nato nel 1914 e morto suicida nel 1973; Robert Lowell, anch’esso professore di lettere, nato nel 1917 e morto nel 1979; Robert Penn Warren, critico e romanziere di successo oltre che poeta, nato nel 1905. A questi nomi s’accostano poeti di minor leva e incisività quale Charles Olson del 1910, decano della scuola beat ma in qualche modo vicino nella sua aristocraticità di stile al Berryman; Sylvia Plath morta suicida giovanissima nel 1963, seguace di Lowell specie nelle tematiche psicoanalitiche; e Allen Tate, vicino a R.P. Warren nelle tematiche sudiste. Ad accomunare i primi tre poeti v’è un linguaggio senza pretesa di facile divulgabilità. Del Berryman massimamente è tipico quasi un atteggiamento metafisico, che si rispecchia in ardui sperimenti linguistici e formali, in un esprimere con eleganza il non potere considerare la poesia altro che un verbo nascosto, da conscia élite. Da Cummings, Hopkins e i secentisti inglesi riceve l’atteggiamento concentrato di ricercatore. Nel Lowell invece l’isolamento si scioglie in parte: l’autore coraggiosamente insiste sull’“io” come perno del canto. Riscatterà quest’autobiografismo oggi fin troppo di moda con una obiettivazione dello stile che raggiunge per chiarezza quella dell’Eliot, e lo porterà a sviluppi stilisticamente colloquiali. Il Robert Warren, pur apparentemente irrigidendosi anch’egli in solitudine, troverà rinnovo nell’aggrapparsi a temi che nella poesia so-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

142

no nuovi: la storia della guerra civile, un meridionalismo agrario contrapposto alla accelerazione industriale del nord. In lui la realtà, più che non nel Berryman e nel Lowell, si esprime senza sublimazioni metafisiche o confessioni d’impotenza – ma in tutti e tre lo spirito d’élite è vivo, e l’uscita dalla torre d’avorio non è permessa. Vogliamo comparare, per illustrare questa graduale caduta dall’astrazione metafisica, alla realtà storica, alcune poesie di questi tre caposcuola: del Berryman tipicamente spezzato il ritmo di questa strofa tolta dal suo capolavoro Omaggio a Mistress Bradstreet del 1953: Pulviscolo agli occhi di Dio la pelle perlucida di Simon ronfante s’illuminò d’alba sprizzante quando schiusi gli occhi, tristi. John Cotton s’infiamma sul peccato di Boston – Sono trascinata, in devozioni che sembrano lo stanco sgocciolio d’un sogno smemorato. Donne sono impazzite a ventun anni. Atroce corrode l’ambizione.

Del Lowell, più flessibile umano ed emotivo il suo raccontarsi senza il supporto di altro che un linguaggio parlato: da Il delfino ultima sua opera: Ammalato* Mi sveglio ora per trovarmi solo da tempo, il sole lotta per rinunciare all’ascendenza – due elefanti si stanno dirigendo verso la mia testa. Sarebbe stato redenzione il non aver vissuto – nella malattia, mente e corpo potrebbero sposarsi se tramite depressione trovassi prospettiva – un paziente qualsiasi quasi si guadagna la bellezza, un castello, due macchine, vecchi servi lucenti in eredità, Alka Selzer sul suo vassoio di prima colazione – il pesce da tavola raggruppato nel laghetto. Nessuno di noi può o vuole dire la verità, pagare multe per eccessi di velocità, galleggiando sul fiume solitario verso l’aperta chiusa della senilità. Nella malattia a volte siamo abbastanza deboli da entrare in paradiso.

* Traduzioni redazionali di Amelia Rosselli marcate con stelletta [n.d.a.].

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

143

Del Warren concretissimo l’atteggiamento, anche se malinconicamente la realtà è rivissuta: vedi il brano tratto da La Storia fra le rocce: Sotto l’ombra del frumento maturo, presso il calcare piatto, s’attorciglierà il serpente, zannuto come il sole, udendo il passo del mietitore. Ma ci sono altri modi, dissero gli uomini scarni: in questi boschetti autunnali giacquero giovani morti – giubbe grigie, giubbe azzurre. Giovani s’inerpicarono, combatterono sui pendii. Tacchi infangarono la sorgente rocciosa. Difficile supporne la ragione, ricordando il sangue sui baffi neri al chiar di luna. Difficile supporne la ragione, e dopo tanto tempo: cade la mela, cade nella notte silenziosa.

Molti sono gli spunti per analisi che svilupperemo nelle trasmissioni seguenti. Più in là collegheremo brani dei tre poeti meno noti o più giovani, che ai tre maestri si riallacciarono o per ripresa di “filone” di ricerca, o per derivazione. Di passaggio resta da menzionare che l’autobiografismo del Lowell si ritrova anche nel Berryman; poi in ambedue i poeti v’è un singolare ritorno alla forma del sonetto, sfruttata come simbolo, o esempio del perfetto mandala, o come deferente dimostrazione di rispetto per i classici. Vedete quanto si differenziano i due modi nella stessa forma: del Berryman è: Sonetto 47* Per quanto su questi miei canti con il mio polso severo io sia duro a scendere, chi sa? Nessuno leggerà salvo che te: dunque dolcemente... ma la verità va ascoltata è l’unica parola, vicina o lontana, sparata nella nebbia. Doppiamente canto – lo devo – il tuo ultraquist collassando la sintassi ad un improvviso bisogno, ammorbidendo lo stridore dell’inglese per supplicare oh! – te, ovviamente, che tu non resista oltre. «Arturo dormiva allora a Caerlon sull’Usk...» Vedo, e tutta quella storia ritorna... rosso raso sui giunchi... la voce di mia madre all’imbrunire. Così striglio i tempi e gli uomini per rimpinzarti rara: «Bellissima appare Ceres con i suoi gialli capelli». Ancor più bella, assai, oh!, tu giaci filtrata.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

144

AMELIA ROSSELLI

L’incontro dapprima profano, la carnale descrizione d’una relazione extramaritale (il Berryman era di professione cattolica) vengono riportati in istile volontariamente tortuoso, e il virtuosismo lessicale lascia trasparire la gioia, specie nella bellezza del vocabolo. Il Lowell – più sciatto, più piatto – nella poesia Elisabetta* non si concede, così come nello stile, alcun sentimento altro che usuale, terreno, personale: Una inusuale maturazione del legno; se ti muovi anche di poco cadono schegge marcite a mo’ di segatura dalla vernice d’alluminio dei muri, che era una volta chiassosa e fresca, e ora s’è mutata in legno stagionato. Folate di grida esagerate dei gabbiani svaniscono nella nebbia... Pace, pace. Tutto il giorno le nostre parole erano come rampini arrugginiti – assenzio... Cara Riposo-del-Cuore abbandoniamo ogni discussione, il bere, il fumare, le pillole per la pressione, tre paia d’occhiali – inzuppati nel sudore della nostra duramente guadagnata supremazia, offrendo il nostro amore cuoiuto ad un bambino. Abbiamo cinquant’anni, e siamo liberi! Giovane, allora traballante sul margine vertiginoso della discrezione, non volevi alcunché salvo che essere vecchi, fare nulla, scrivere a macchina e pensare.

Il Warren elude personalismi di tipo psicoanalitico e raramente esce da una tematica o descrittiva o filosofico-storica. Eccezione fa questo brano poetico tolto dalla poesia Il ritorno: Ma, cuore tardivo, non hai voce per richiamare la tua immagine, l’immagine errabonda. L’albero, la foglia cadente, la corrente, e tutte le infedeli cose familiari rimarrebbero ancora senza voce. E lui, che come tanti altri aveva amato, avrebbe potuto prevederlo, poiché ben sapeva come un mondo sepolto, balenante, è perduto nel refolo dell’acqua o nella folata del vento; come la sua immagine, profonda e perfetta, minuscola negli occhi dell’amata, era stata obliata quando aveva volto il capo, o quando quegli occhi s’eran chiusi oltre ogni luce nel tenero accidente del sonno.

Vorremmo accennare anche alle problematiche più strettamente tecniche dei tre poeti: ad esempio ai modi stilistici e perfino grafici del Berryman; all’origine del colloquialismo nel Lowell. E inoltre ap-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

145

profondire quel sentire la Storia come primaria realtà, che è autentico e originale nel Warren. Alcune righe di ciascun autore esemplificano in breve spazio i tre diversi problemi. Del Berryman: Potrebbero supporre, perché io non volevo attaccarmi al tuo orecchio – se mai queste canzoni sono udite da altre orecchie – con “amore” e “amore”, io non t’amavo, ma appannavo la lussuria con strane immagini, calde non proprio sincere.

Del Lowell:* Il filo si spezzò, o tirarono i miei nodi – sono libero di raggiungere la fine del matrimonio sulle mie ginocchia. Il fango che abbiamo smosso affonda nel benessere.

Del Warren: Il riconoscimento della complicità è l’inizio dell’innocenza. Il riconoscimento della necessità è l’inizio della libertà. Il riconoscimento dell’indirizzo di compimento è la morte del sé. E la morte del sé è l’inizio dell’essere se stessi.

Lo stile vissuto e parlato del Lowell, assieme al suo atteggiamento detto “confessionale”, sono dal punto di vista contenutistico essenziali per il Novecento americano. Nel Berryman spicca principalmente la tecnica convulsa, controllata e nettamente all’avanguardia rispetto ad ogni corrente anglosassone o europea. Per il Warren invece è forse appropriata l’aggettivazione di poeta “ortodosso”. Il suo rifarsi a Auden, il suo scartare ogni accenno a rivoluzioni stilistiche di tipo surrealista o lettrista e la sua lentezza d’esplorazione in campo storico lo confermano. Ma questo suo volontario stringere i freni e il limitare la tematica in senso regionalistico, lo fa un poeta inaspettatamente non provinciale, atto a una cauta sintesi.

Robert Penn Warren Di Robert Penn Warren, nato nel Kentucky nel 1905, l’opera di poeta venne in parte trascurata dalla critica sino al 1957, anno in cui gli venne conferito il Premio Pulitzer, a cui seguì un’altra grossa premiazione

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

146

che è del 1970, e cioè la National Medal for Literature. Ciò era dovuto al suo avere abbandonato per un decennio lo scrivere in versi, dedicandosi al lavoro di novelliere che gli fruttò una rinomanza internazionale: noti anche in Europa sono i romanzi Tutti gli uomini del re e Corriere di notte. È anche autore di studi storici e reportages (vedi i temi La legalità della guerra civile e Segregazione: il conflitto interno del sud) che gli fruttarono remore e diffidenze di carattere politico-ideologico. Non nascose infatti, sinché visse nel sud, la propria ostilità verso «il liberalismo astrattamente ideologico del nord», e nei riguardi del problema razziale sosteneva il principio dell’integrazione graduale. Appoggiava ideali di vita fondati sui valori agrari in opposizione all’industrialismo livellatore e anonimo. Ciò in piena epoca rooseveltiana, cioè negli anni trenta, nel periodo in cui i letterati aderivano sia pur superficialmente al marxismo e alla letteratura di protesta. In quegli anni elaborava le teorie della “Nuova critica”, ponendo l’accento sullo studio intrinseco dei testi letterari. Nel secondo dopoguerra le sue posizioni specie in campo critico coincisero con quelle della “Nuova ortodossia” di quegli anni; il Lowell, già poeta influente, molto lo appoggiò e nel suo stile di scrittura rintracciò l’eredità di Faulkner e Melville. I suoi testi critici influenzarono grandemente l’insegnamento universitario. Le poesie giovanili – benché in quegli anni il Warren si dedicasse specialmente a letture storiche – accentuano piuttosto un profondo senso del luogo e della terra natia; è in un secondo tempo che un altrettanto profondo senso della storia sarà motivo dominante. Le sue forme dapprima abbastanza tradizionali esprimono motivi di abbandono e di morte, racchiudono messe di particolari geografici, ricreano il paesaggio fisico e morale del sud; più tardi il suo sforzarsi di realizzare un programma poetico di inclusività storico-riflessiva, di ammodernizzazione un poco esterna del verso, lo porteranno a una voluta “laidità” di linguaggio che a parer nostro inaridirà la sua ispirazione. Riportiamo qua tra le poesie del primo periodo (1923-43) due sequenze legate da temi ricorrenti tolte da Fattoria di montagna nel Kentucky. I Rimbrotto delle rocce Su di voi è ora il famelico equinozio, piccola gente ostinata dei colli, stagione dell’oscena luna, la cui attrazione turba la zolla, il coniglio, la volpe smagrita, smuove le acque, il torpido sangue del verro, la linfa acre del càrpine.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

147

Ma nulla di tenero coltivate fra le rocce. Son troppo vecchie sotto la pazza luna, rinunciano alla passione per la forza che serra l’eterna agonia del fuoco nella pietra. Fate come le pietre, allora, cessate di arare lo stanco campo di stoppie per il seme; non abbiano progenie i nudi armenti, avvizzisca l’orzo e la lucida euforbia. Istruite il cuore, uomini scarni, d’un luogo roccioso che anche la carne smagrita e l’osso febbrile mantenga la dolce sterilità della pietra. II Nell’ora in cui si spezzano le rocce Oltre il flagello e l’eucaristia della neve ancora la roccia torturata e riluttante riceve il sole e la pioggia offuscata. Questa è l’ora di separazione che conosciamo, avendo visto ergersi e passare sulle colline, caparbi e taciturni, uomini scarni, gli unici che figuravano, non come l’acqua o l’erba febbrile, affratellati alla pietra selvaggia. Le colline sono stanche, svaniti gli uomini scarni; le rocce sono colpite, e finalmente il gelo ne ha frantumato la base corrugata; gli atomi infranti sono ora portati dall’acqua scorrente nell’alta, profonda ombra degli abissi assoluti, in cui mai sopito si muove lo spirito che tenne il piede fra le rocce, serrò la mano stanca sull’aratro caparbio, avvinse la carne all’osso affamato, la gemma rossa al ramo carbonizzato e spezzato, tese i tendini amari della pietra.

Un brano della sequenza Farfalle sulla mappa, scelta da Il Messico è un paese straniero, introduce temi di luogo e situazione: Farfalle svolazzano sulla mappa del Messico, sulla giungla, su sonnolente, sonore montagne, sul cane sgargiante di morte di cui il sole fa brillare i riflessi, sulle strisce rosse che sono le autostrade dove andrai.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

148

Le autostrade son panoramiche, segnate come il destino in rosso e il cuore fedele nel petto fa le fusa come un gatto; mentre la lontananza sonnecchia e ammicca e cova il suo enorme decreto, farfalle sognano spirali attorno al fiore prezioso del tuo capo.

La storia come ingrediente distanziatore, e indagine filosofica o metafisica nella raccolta del 1957-60 dal titolo Tu, imperatori e altri, è tema principale. Il rapporto tra poesia e storia diviene problema professionale; l’insistenza negativa, il soffermarsi su particolari di morte, vanità e insignificanza, sono predominanti: da Nella turpitudine del Tempo: s.d.: Possiamo – oh, se solo potessimo – sapere ciò che sanno mignatta e procellaria, e la pietra, tutta la notte, anela divulgare? Se solo potessimo, allora potrebbe la stella che inclina all’aurora cantare al nostro orecchio, e di giorno sgambettare la gioia, e la forza come mani attendere nel buio, e fra la pietra e la voce del vento attendere il silenzio per farsi nostro canto: nell’ultimo reame del cuore solo gli anziani sono giovani.

Dalla raccolta Racconto del tempo del 1960-66 scegliamo un brano in cui un altro motivo del Warren, la tormentosa ricerca e definizione dell’identità personale, è l’unità di fondo: da Dracena: Il mondo ti si scaglia addosso come una locomotiva in un vecchio film. Si precipita fuori dallo schermo, ti è sopra, il ferro. Odi, in quel silenzio, il tuo cuore. Hai pensato che i titoli delle notizie non sono che immagini del tuo cuore? Alcuni studiano la compassione. Altri, confondendo la patologia personale con la logica della storia, si buttano dalla finestra. Alcuni camminano con Dio, altri lungo il fiume, al crepuscolo. Hai provato a star seduto coi bambini a narrare una storia che alla fine [fa ridere?

Sempre dalla stessa raccolta è questa breve, più concisa poesia: Il vento Il vento spira dallo Stretto, odoroso di ghiaccio. Odora di pesce e benzina bruciata. Un foglio di giornale

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

149

svolazza nel vento nella grande distanza di cemento che sanguinando scompare nella tenebra oltre i fari rossi. L’aria rabbrividisce, vibra come gelatina per il frastuono dei jet – oh, perché pensi di poter udire il fruscio infinitesimale del giornale che scivola sul cemento scuro, per sempre? Il vento mi infila le sue nocche nell’occhio. Per forza sgorgano lacrime.

Piuttosto che commentare personalmente il lavoro del Warren riportiamo alcuni brani dai suoi interessanti saggi sulla letteratura e sulla creatività in genere. Possiamo però per inciso notare che nel tentativo di collocarsi – sia ideologicamente sia tecnicamente – su posizioni intermedie di conciliazione fra poesia intellettualmente controllata e poesia lirica e soffusa, linguaggio letterario e colloquialismo quasi dialettale, nel Warren a volte l’apparato tradisce l’esiguità del motivo ed è sproporzionato alla resa effettiva. Cioè non v’è una perfetta fusione nella sintesi dei generi, spesso meglio espressi in saggistica, di cui diamo alcuni stralci: Nel valutare l’opera di un artista dobbiamo introdurre un altro criterio oltre a quello dell’intensità. Dobbiamo introdurre il criterio di area. Mentre il Sud si è impantanato nella storia – nel tempo – il Nord si è impantanato nella non-storia – nel non-tempo. La malattia del nostro tempo è la sensazione di essere separati dalla realtà. L’uomo sente che una partizione è scesa fra lui e la natura, fra lui e gli altri uomini, fra lui e il suo io. La poesia è [...] una danza su un alto filo teso sull’abisso [...] un punto strategico dello spirito [...]. Se fa qualcosa per noi, essa riconcilia, con la sua lettura simbolica dell’esperienza (giacché per sua natura è di per sé un mito dell’unità dell’essere), le meschinerie intimamente disgregatrici e distruttive che sorgono al livello superficiale su cui conduciamo gran parte della nostra vita.

John Berryman John Berryman, nato nel 1915, professore di letteratura morto suicida nel 1973, dei poeti che presentiamo in questo ciclo di trasmissioni è quello che meno facilmente s’inquadra criticamente. Né la definizione “ortodosso”, né quella d’“avanguardia” sono appropriate, e questo perché operò isolatamente al di fuori delle correnti e scuole; a lui in-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

150

vece meglio s’attribuiscono le parole genialità, innovazione, sperimento. Tipico di lui fu una tensione di costante evoluzione: di opera in opera il progredire tecnico è lampante, e la visione s’amplia e si complica, le sintesi stilistiche si fanno più audaci. Da giovane scrisse in stile sobrio, piano, in cui spiccava semmai un uso scaltrito e ambiguo dei pronomi. Questa particolarità di cui Berryman dice: «Je est un autre... Rimbaud può avermi indicato la via [...] potrei pretendere di saperne di più sull’amministrazione dei pronomi di ogni altro poeta vivente» diventa col tempo fulcro simbolico del suo scrivere: il suo “tu” è anche un “esso”; i personaggi femminili sono metafisicamente anche uomo e autore oltre che soggetto. Lo stile è dimesso per mascherare la presenza dell’io. Soprattutto in Omaggio a Mistress Bradstreet (del 1956) è data priorità a questo tipo di artificio tecnico: nel corso di cinquantasette strofe di otto versi a forma chiusa il tono deliberatamente emotivo viene raffrenato da una impostazione aulica o colta del verso, in cui la compostezza solenne, manieristica e artificiale, con versi e triplici livelli di significati, sintassi ellittica, distorsioni linguistiche, inversioni, spezzature di ritmo e perfino giochi grafici e pause musicali, trattengono un passionale misticismo di fondo. V’è un recupero del cosiddetto sprung rhythm (cioè forma contratta e sincopata del linguaggio) che era originariamente del poeta inglese Hopkins. L’influsso dei poeti metafisici inglesi dà un certo “decoro” sacerdotale: come quello del Cummings sul piano tecnico, e dello Hart Crane nella mirabile trasparenza delle immagini. L’autore dà maggiore rilevanza allo sviluppo del pensiero poetico, piuttosto che la descrizione o immediatezza: le strofe compongono un tutto che è definibile come poemetto narrativo-drammatico. Tema dominante del poemetto è l’incontro fantasticato dell’autore con una nota poetessa del Seicento quacchero americano; incontro d’identificazione emotiva, partecipazione, e perfino atemporalmente amoroso: da Omaggio a Mistress Bradstreet: I Tanto visse il Governatore tuo marito, e non ti sei mossa, inquieta, nell’attesa? Eri donna paziente. – Mi pare ancora che qui ti soffermi: nei ritagli di tempo, innanzi al fuoco, scrutavi in Quarles e Sylvester, gli occhi lucidi al Signore, tranquilli i bambini. «Simon...» Simon ascolterà mentre leggi un canto.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

151

II Fuori il Nuovo Mondo sverna in tenebra maestosa aria bianca sferza per foreste vergini, soffiano le volpi nelle tane. Certo stordito si sgomenta il cuore inglese. Dubito che Simon più di questa furia, questo mare, per i tuoi versi rinunci al suo rigore. Nelle mani l’uno dell’altro, noi cui importa, tralasciati da entrambi i nostri mondi. Rigida giaci, III miti mi guardano i tuoi occhi. Di grano ed aria è fatto il tuo corpo, muove. Lo evoco, vedi, d’oltre i secoli. Penso non resterai. Come indugiamo, sminuiti, nell’aria fra chi ci ama, implausibilmente visibili, per chi, un anno, anni, ad intervalli di tempo: o no; per uno a lungo estraneo: o no; baluginiamo e scompariamo. IV Franta la mascella, putrida di saggezza, si squarcia; poi non più. Morta la bocca, chi avverte la tua assenza? Mai non moriva il tuo signore, Simon, ah, sopravvissuto trent’anni... Butterata, gli occhi fissi a ponente sul ponte sparuto mi pare di trovarti, giovane. Vengo ad accertarmi, a rimanere con te, con il Governatore, Papà, Simon, gli uomini accalcati.

Se in Omaggio a Mistress Bradstreet oltre allo spiccato gusto artigianale della costruzione del verso (verse-making in inglese), v’è un recupero mistico-storico del passato americano, nell’opera precedente scritta negli anni quaranta ma pubblicata soltanto nel 1957, l’autore svolge invece un tema soltanto individuale e autobiografico. Il tema è quello di un adulterio estivo consumato. Nei 150 sonetti petrarcheschi v’è, in una tormentosa esercitazione letteraria, una definitiva appropriazione delle possibilità insite nella forma chiusa. Notevole la fusione di sentimenti petrarcheschi col realismo di sentimenti concreti (sensuali e sessuali), e, sul piano linguistico, la fusione del colto e dell’individuale: dai Sonetti:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

152

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Sonetto 19* Tu catapultasti in stanza, con la tua parlata allambiccata ma meravigliosa, e parlasti come una matta per ore, sbuffando e benedicendo; ci affascinasti, non t’avevo mai sentito parlare così, e sapevo – più umile e più fiero – che ogni volta disfi il mio kitkat solo per rintuzzarlo di quelle forze che sveli e sotterri; d’un tratto, tardi, allora meno, la tua migliore “offerta sacrificale” mi riprendeva con te. Non v’è gioco che non celi la verità!... Io brucio... sono guidato bruciante al mattatoio, la passione come uno staccio slaccia il mio sangue a cerchio che una sacerdotessa disdegna. «Il pentimento proprio non ti si addice» disse lui, giustamente; ma quel che egli criticava, e avrebbe potuto perdonare, mi scoteva, senza legge, vuoto, senza diritti. Sonetto 27* In una poesia del Cummings, molto tempo fa, la sua ragazza era la pioggia, ma cara tu sai la luce del sole che scende giù con l’aria blu, svegliando al seguito una scalata di sospiri come la iris da lutto i tuoi lucenti capelli fuori-da-ombra mi mancano da due settimane e sino al mezzodì. Quello che tu ecciti sei, sei me: come parassita della luce per una visione... di noi... Oh se la mia Syncrésis ti prende in giro, più breve di quella di Propertius in questa parafrasi di Pound – a cui devo tre lettere – allora, trapassami come un pettine: io sto fermo! e – sotto la tua disciplina muoio. Indubbiamente vi sono gli altri, mascherati però... Il largo cielo muto di stelle m’adombra sino a casa.

Davvero si può parlare di capolavori nel caso di Omaggio a Mistress Bradstreet e dei Sonetti: ma insoddisfatto d’una sua limitazione apparentemente scolastica il Berryman – molto tipicamente poeta d’élite – volle poi tentare il superamento dell’attuale dicotomia tra la poesia accademica e la poesia beat, tra ciò che viene chiamato il “cotto” e ciò che è “crudo”. Ne risultò una forzata simbiosi, un pastiche o burlesco di stili eliotiani (vedi Terra desolata) e stili volgarmente colloquiali o gergali. Il titolo di quest’opera è Il suo giocattolo, il suo sogno, il suo riposo, che segue alla parte introduttiva intitolata 77 canti di sogno: si tratta di una meditazione sulla situazione dell’uomo contem-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

153

poraneo, presentata attraverso un personaggio di nome Henry, americano bianco alle soglie della mezza età che parla di sé talvolta in prima persona, talvolta in seconda e terza. Un mondo in dissoluzione, la sua vittima e la sua disperazione che non fugge nel delirio e nell’urlo, ma si ispira a forme di protesta e di denuncia analoghe a quelle dei beat. Il tono, querulo e insofferente, è involontariamente autobiografico, e la tematica benché in apparenza allargata ai molti motivi della irrequietezza contemporanea, si restringe a un diarismo un poco ripetitivo: Canto del sonno n. 29* Si sedette, una volta, una cosa sul cuore di Henry una cosa così pesante, anche se avessi cent’anni e più, e piangendo, insonne, in tutto quel tempo Henry non poteva diventare qualcuno. Ricomincia sempre nelle orecchie di Henry una piccola tosse da qualche parte, un odore, uno scampanio. E poi v’è un’altra cosa che egli ha in mente come una faccia senese di cui mille anni non riuscirebbero a cancellare l’immobile profilato rimprovero. Orrendo, a occhi aperti, è presente, cieco. Tutte le campane dicono: troppo tardi. Questo non è per lacrimare; pensare. Ma mai ha Henry, come invece pensava, ammazzato qualcuno e smembrato il suo corpo e nascosto i pezzi, dove potessero essere trovati. Lo sa: li passò tutti in rivista, e non manca nessuno. Spesso li conta, all’alba. E nessuno mai è mancato.

Gli ultimi due libri del Berryman, del 1970 e 1972, intitolati Amore e fama e Delusioni ecc. sono opere meno essenziali di quelle riassuntive del primo periodo (1940-60), ne esasperano l’intimismo latente rinunciando a ogni obiettivazione tramite personaggi centrali o esterni: da Delusioni ecc.: Il re Davide balla* Conscio della gola arsa dell’esteso inferno del mondo, oh imperi scalpitanti, e il mio uno di loro, la carneficina che lì s’ingegna, del buono alle spalle, dinanzi a noi l’ambiguo

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

154

figli rivoltosi, un figlio trapassato, costretto a concepire tra ipocriti e di tra idolatori, deriso nell’abisso da una sua vacua moglie, con la ponderazione sia del sacerdozio sia dello Stato pesante in me, oh sì, e nel nero nonostante io danzo sino a spaccarmi la testa blu!

Robert Lowell Nato nel 1917 da una nota famiglia bostoniana, Robert Lowell si laureò non nella Nuova Inghilterra ma all’Università del Kenyon nel Tennessee: a questa esperienza attribuì più tardi un suo evadere dall’atmosfera intellettualmente restrittiva del Massachusetts. Si convertì al cattolicesimo nel 1940; ma perdette la fede negli anni maturi. Altre marcate influenze saranno la sua educazione ai classici, la poesia del XVII secolo, e soprattutto la vena colloquiale del Whitman e di William Carlos Williams a cui si terrà sempre vicino nel metro parlato e irregolare. Da lui ha origine la corrente dei critici chiamata “confessionale”, in cui l’autore come molti altri scrittori americani esprime e discute piuttosto l’esperienza personale che non quella “civilizzata”. Questo carattere autobiografico della scrittura sarà una sua costante – eccezione fatta per due raccolte del 1965 e del 1967 che lo porteranno poi nel 1970 a lavori di genere personale ma sorvegliatissimi nella forma, che sarà quella del sonetto. Del resto tutto il materiale dell’autore – in cui lo stile fluido ed elusivo confonderà mitologia classica, la tradizione nordica della pesca alla balena, linguaggio neogiacobino, monologhi, tratti di lettere ricevute, conversazioni riportate dal vivo, note a margine di libri, pensieri notturni, stati d’animo ciclici – viene continuamente controllato in modo che le poesie stesse risultino impersonali. Egli esprimerà, principalmente, la disillusione dell’animo: le possibilità abortite della vita, il dualismo dell’esperienza: l’uomo persona privata come tema centrale in un secolo di cultura massificata, l’imminenza del temporale e del provvisorio congiunto a un certo disinteresse per la Storia. Questo aderendo ad un linguaggio sciatto e gergale che non si riconcilia con la tradizione poliglotta di Ezra Pound e Eliot. Nelle Poesie giovanili 1938-1949 già s’esprime la rassegnazione di fronte alla promiscuità dell’esperienza. Della raccolta apportiamo una parte di Il sogno di Caterina:*

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

155

Deve essere stato venerdì. Potevo udire la dattilografa del piano di sopra tuonare e la birra che avevi portato in casse mi dava male alla testa: avevo sbattuto i cuscini fuori dal letto, stringevo insieme le ginocchia e ansavo. Il ricevitore telefonico penzolante raspava come qualcuno in un sogno che non può fermarsi a prendere fiato o a trovare logica finché le sue vittime piombano nel buio e tra le lenzuola. Devo aver dormito, ma ancora potevo udire mio padre che aveva trattenuto i tuoi colpevoli regali ma mi aveva tagliato i capelli. Bisbiglia che veramente non gliene importa nulla se sono la tua mantenuta per tutta la vita, o se rovino i tuoi due figli e tua moglie; ma il mio disonore lo fa bere. Naturalmente dirò alla corte la verità per il divorzio.

In Studi dal vivo, opera centrale dell’autore scritta tra il 1950 e il 1959, i problemi privati le umiliazioni i nodi psicologici e il passato familiare sono messi a nudo, come se fosse con l’aiuto di un terapista o analista. I temi della frustrazione e della colpa non localizzabile sono predominanti: vari stadi della sua vita sono studiati dall’infanzia alla mezza età: da Studi dal vivo: Navigando verso casa da Rapallo* La tua infermiera sapeva soltanto l’italiano, ma dopo venti minuti potevo già immaginarmi la tua ultima settimana, le lacrime scendevano giù per le mie gote... Quando dall’Italia m’imbarcai con il corpo di mia madre, l’intera costa del golfo di Genova irrompeva di focoso fiore. I folli pattini gialli e azzurri sfondando come martelli attraverso la scia spumante del nostro transoceanico, ricordavano i colori stonati della mia Ford. Nostra madre viaggiò prima classe nella stiva, la sua cassa nera e oro stile Risorgimento era come quella di Napoleone nei Invalides... Mentre i passeggeri s’abbronzavano sul Mediterraneo sulle seggiole a sdraio, il nostro cimitero di famiglia in Dunbarton si stendeva sotto alle White Mountains in un clima da sottozero. La terra del cimitero si trasformava in sasso –

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

156

tante erano state di mezzo inverno le sue morti. Cupo e buio presso i monticelli di neve accecanti il suo ruscello nero e i tronchi degli abeti erano lisci come alberi di nave. Una palizzata di ferro recintava di nero le coloniali lastre. Il solo essere “non-istorico” ad esserci venuto era nostro padre, ora interrato sotto la sua recente, non stagionata, scheggia di marmo venato di rosa. Perfino il latino del suo Lowell-motto: Occasionem cognosce sembrava troppo efficiente e spinto, qua dove il freddo bruciante illuminava le iscrizioni dei parenti di nostra madre: venti o trenta Winslows e Starks. Il gelo aveva dato un bordo da diamante ai loro nomi... In scrittura grandiloquente sulla bara di nostra madre, Lowell era stato compitato Lovel. Il cadavere era avviluppato come un panettone in carta metallica italiana. Marito e moglie* Addomesticati da Miltown, sdraiati sul letto di mia madre; il sole sorgente in colori di guerra ci tinge di rosso; in piena luce di giorno gli indorati stipiti del letto luccicano, abbandonati, quasi dionisiaci. Finalmente gli alberi sono verdi sulla Marlborough Street, il fiorame sulla nostra magnolia accende il mattino con il loro bianco assassino di cinque giorni. Ho tenuto la tua mano tutta la notte, come se tu avessi per una quarta volta affrontato il reame dei pazzi – il suo linguaggio frusto il suo occhio omicida – e m’avessi trascinato a casa ancora vivo... Oh mia Petite, la più chiara tra le creature di Dio, tutta fiato e nervi: tu avevi vent’anni, e io, con in mano un bicchiere il cuore in bocca, bevetti più dei Rahvs nel caldo di Greenwich Village, e svenni ai tuoi piedi – troppo spaurito e timido per farti la corte mentre lo stridente brio delle tue invettive scottava il Sud tradizionale. Ora, dodici anni più tardi, mi giri la schiena. Insonne, stringi il cuscino alle tue incavature come un bambino,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

157

la tua tirata all’antica – amorosa, rapida, impietosa – m’irrompe in testa come l’oceano Atlantico.

Dopo le raccolte Per i morti dell’Unione e Vicino all’oceano del 1965 e 1967 rispettivamente in cui il Lowell si allontana dal metodo confessionale, vi è un riapparire della tematica personale in metrica maggiormente restrittiva: quella del sonetto in cui però il verso è libero, senza rime, e oscilla tra forme parlate piatte e iperboli poetiche, tra concetti metafisici e chiacchierio. La sintassi e il metro sono spinti ai loro estremi, e spesso l’autore sfiora il disfacimento grammaticale. V’è come un tenersi in rischioso equilibrio tra il ristretto ordine della metrica e l’informe flusso del mondo esteriore. Da Quaderno d’appunti è questa poesia: Leggendomi* Come tanti, ero giustamente fiero di me e più che giusto giusto accendevo fiammiferi che facevano ribollire il mio sangue; imparavo a memoria i trucchi che mettevano a fuoco il fiume – ma in qualche modo non ho mai scritto qualcosa a cui tornare. Potrei forse supporre che sono finito, come i fiori di cera, e che mi sono guadagnato il mio verde sulle colline minori del Parnasso... Nessun favo è costruito senza una vespa che aggiunga cerchio a cerchio, cellula a cellula, la cera e il miele di un mausoleo – questa cupola rotonda prova che il suo costruttore è vivo; il cadavere dell’insetto vive imbalsamato nel miele, prega che il suo lavoro perituro resista a lungo quel tanto che l’orso dal dente dolce sconsacri questo aperto libro... la mia bara aperta.

Recentissimo è il libro Il delfino in cui l’autore ancora si attiene alla forma del sonetto, ma in cui la tematica è quella del Lowell residente in Inghilterra: per la prima volta l’autore non scrive del suo passato ma invece celebra il presente e il futuro; il tono è inusualmente gioioso, i paesaggi sono quelli di Londra e del Kent: da Il delfino: Estate tarda a Milgate* Un odore dolciastro di segatura, cera e olio soffia per la rifatta stanza da letto da poco stagionata; il sole nel firmamento arrossa un pavimento cartavetrato. La vecchiaia è un riconciliarsi con la noia,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

158

la mia verniciatura che si lamenta, io non morirò mai. Tuttora ricordo più cose che non quelle che tralascio: era una volta l’equivalente dell’eterno il rimanere fedele a quella mia altra amata persona – nella mela caduta s’aggirava un soffio di spiriti, la inabitabile roccia di granito luccicava nel Maine, ciascuna roccia era la nostra lastra tombale... seggo con la mia moglie che fissa il vento e con i miei figli... l’ostinato [cielo del Kent un imbratto di fungo. Negli anni temperati l’erba rimane verde fin dopo Capodanno – io, mia moglie, i nostri figli.

Allen Tate, Charles Olson, Sylvia Plath In occasione dell’ultima trasmissione sui poeti d’élite nel Novecento americano (intendendo dire per élite il poeta colto, non di gruppo o corrente e non pubblicizzato o industrializzato) vogliamo presentare alcuni poeti cosiddetti minori o comunque non salienti quanto il Berryman, il Warren e il Lowell oramai considerati figure principali nel panorama della letteratura americana. Abbiamo scelto per questo tre casi tra tanti altri, in qualche modo tipici di un legame indiretto con i poeti sopra menzionati. Per Allen Tate, il reciproco influenzamento tra lui e Warren è più che evidente: ambedue del Kentucky, ambedue presi da identiche tematiche (quelle sudiste e di certe forme di tradizionalismo), ambedue appartenenti a gruppi letterari del sud quali “I Fuggitivi” e “Gli Agrari” con l’intenzione di sprovincializzare il Sud senza rinchiudersi in una problematica di ordine regionale. In ambedue la difesa della civiltà agraria sommersa e soffocata dal Nord industriale. Per Charles Olson non di reciprocità si tratta ma piuttosto di parallelismo, di cauta contemporaneità nell’accostarsi al Berryman. La sua teoria del “verso proiettato” fu largamente discussa dopo il 1960 e infatti nei versi più recenti del Berryman una qualche traccia di influenzamento beat e olsoniano lo dimostrano. Ma Olson si formò individualmente e autonomamente, e soltanto in qualche peculiarità estremamente introversa dello stile sono ricavabili similitudini nei rispetti del suo quasi coetaneo Berryman. Il caso di Sylvia Plath (e di “caso” bisogna parlare, trattandosi d’una autrice che ha impegnato le sue forze creative in un resoconto poetico di tipo autobiografico in cui spesso la tematica del suicidio è discussa e descritta) dimostra invece una derivazione più evidente dal-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

159

l’autore Lowell: in ambedue il motivo del tentativo di suicidio è ricorrente, in ambedue un autobiografismo quasi assoluto, in ambedue un linguaggio scarno e diretto, senza complicazioni metriche o sperimentali altro che quelle nascostamente incorporate. Qualche nota biografica riguardante i nostri tre autori e qualche esemplificazione delle loro opere speriamo che rendano evidente questi diversi tipi di influenzamento reciproco. Allen Tate nacque nel 1899 e insieme a Ransom e Warren partecipò alla fondazione della rivista letteraria “I Fuggitivi”, nel tentativo di rinnovare la letteratura del Sud. Assieme a Warren nel 1930 fa parte del gruppo “Gli Agrari”, che discute in saggistica i problemi del Sud. Scrive biografie su Jackson e Jafferson Davis e importanti contributi saggistici (vedi Saggi reazionari sulla poesia e le idee del 1935). Si afferma come romanziere nel libro I padri del 1933. È considerato una delle migliori menti del movimento denominato “Nuova critica”. La sua è una poesia che non si abbandona mai al sentimento se non filtrandolo intellettualmente, nettamente antiromantica e storicistica con ricorso all’uso di metafore classiche e religiose. Tratta sempre di esperienze concrete; esprime un senso di prossimità alla morte; è legato al mito del Sud. È tecnicamente fortemente tradizionalista benché tenda ad alternare alcune poesie in forma discorsiva a quelle in forme elaborate con linguaggio e struttura sintattica a volte impenetrabili. Si pone in qualche modo sul versante opposto del simbolismo e della poesia pura. Da Mediterraneo del 1936 leggiamo: Mettiamoci un’altra volta a giacere presso la riva ansante dell’Oceano, dove dormono i nostri antenati, come se il Mare Noto fosse ancora largo un mese – urla l’Atlantide ma non è più impervia! Quale paese conquisteremo, quale terra incantevole snerverà la nostra conquista e darà una sede al nostro sangue? Abbiamo spaccato gli emisferi con mano incurante! Ora, dalle Colonne d’Ercole dilaghiamo verso ovest, verso ovest, finché la barbara acqua salata ci getti sulla stanca terra dove grano crinito, grassa fave, uve più dolci del moscato marciscono sulla vite: in quella terra siamo nati.

Più discorsiva è questa poesia dedicata al Warren:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

160

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

A un romantico Porti la testa impaziente troppo alta in aria, e cammini come se i morti assonnati non si fossero mai assopiti durante le più sublimi conversazioni in tante case veementi. Così volta, la tua testa volge gli occhi verso l’Ovest vagabondo; imponendo un animo ferreo a un petto d’Ozimandia e poiché il tuo sangue clamoroso batte un riposo instabile pensi che i morti si leveranno volti verso l’Ovest e favolosi: i morti sono quelli le cui menzogne furono porte di una stretta casa.

Soltanto un accurato confronto tra gli ultimi scritti del Berryman e la produzione di Charles Olson può far sospettare un reciproco influenzamento. Olson nato nel 1910 nel Massachusetts è noto piuttosto come l’ispiratore del gruppo delle Montagne Nere del Nord Carolina, corrente grosso modo beat e certamente tutt’altro che ortodossa nell’impostazione teorica. Olson è anche noto per un suo saggio intitolato Verso proiettato, scritto nel 1950 e largamente discusso negli Stati Uniti sino ad oggi. Egli vi espone una sua concezione della spazialità metrica, in cui in un tentativo dell’abolizione dell’io del poeta egli proietta nella pagina lo spazio circostante, la totalità del caos; considerando la poesia come «energia trasportata» e il verso come unità vettoriale nel campo della pagina. Si formò come antropologo; più tardi divenne rettore dell’Università delle Montagne Nere, ai cui originali corsi di studio parteciparono anche gli “Action painters” come De Koonig e Kline, poeti come LeRoi Jones e Creeley e musicisti quali John Cage. Il suo più noto libro di versi, oltre Distanze, è Maximus: poesie, scritto tra il 1953 e il 1960. In esso il linguaggio – raffinato e percettivo quanto quello del Berryman – si plasma in versi e strofe che non vengono considerate unità ritmiche ma hanno invece funzione dinamica e strutturale nel campo della pagina. Le metafore e immagini generano una sorta di reticolo animato; la poesia in se stessa non è spazio di separazione dalla realtà, ma diviene la realtà stessa in cui il mondo “si racconta” e “si agisce”. Lo Olson venne assai aiutato nello scontro con l’establishment letterario dall’affermazione della poesia beat ma benché ne venga consi-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

161

derato uno degli originatori la sua poesia lascia indovinare una formazione culturale più complessa e approfondita, di cui i precetti teoretici sono ardui. In ciò Berryman vi si accosta, oltre che in un certo tipo di rarefatta dissociazione linguistica. Da Maximus leggiamo alcuni brani, avendo cura di rendere vocalmente per quanto possibile la impostazione grafica: Canto I colorati dipinti di tutto il mangiabile: sozze cartoline postali E parole, parole, parole ovunque Né occhi od orecchi lasciati alla loro originale funzione (tutto devastato, alienato, oltraggiato, i sensi tutti e lo stesso pensiero, operaio dell’essere E quell’altro senso creato per offrire anche ai più disperati, a ognuno di noi, disperati, consolazione (lubrificata ottusa anche la canzone dei trams.

Della poesia femminile si è spesso supposto che ciò che ne definisse le proprietà di femminilità fosse l’esclusione di ogni sistematicità filosofica del costrutto lirico. Tipicamente femminile sarebbe dunque la poesia di Sylvia Plath, che nel suo sensitivo immaginare elude le architetture formali e i panorami cosiddetti “obiettivi”. Nata nel 1932, nel corso di una vita tristemente breve (morì suicida nel 1963) scrisse diverse brevi raccolte e un romanzo autobiografico. Questi sono la raccolta Il colosso, del 1960, seguita da Attraversando le acque e Alberi invernali seguito da Ariel che è del 1962; il romanzo La campana di vetro è del 1963. Come Lowell la Plath pone la vulnerabilità psicologica dell’autore al centro della poesia; di Lowell non ha la vasta curva tecnica o morale: ma nel suo verso (quasi del tutto dedicato alla rappresentazione dell’ossessione e della disorientazione personale) spiccano un linguaggio e una figurazione caustica e lirica assieme: innocenti e duri i contrasti tra le immagini pure e quelle invece “tolte dalla realtà”. Il tutto rimane originalissimo e per di più indica una rinun-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

162

cia volontaria, non inconscia, a più ovvie strutturazioni formali o di contenuto. Qua e là per la sua visionarietà il suo verso ricorda quello di Blake, e nella Emily Dickinson ha forse origine la sua musicalità molto letterale. Leggiamo una delle poesie tra le più belle, tratta da Ariel: La luna e il tasso* V’è la luce della mente, fredda e planetaria. Gli alberi della mente sono neri. La luce è blu. Le erbe scaricano i loro dolori ai miei piedi come se fossi Dio, punzecchiando le mie caviglie e mormorando della loro umiltà. Fumose, spiritate brume abitano in questo luogo separate dalla mia casa da una fila di lastre tombali. Io semplicemente non riesco a capire dove si possa andare. La luna non è certo una porta. È una faccia in se stessa, bianca come una nocca e terribilmente sconvolta porta dietro di sé il mare come un oscuro crimine; è quieta con lo o spalancato della completa disperazione. Io vivo qui. Di domenica per due volte le campane svegliano il cielo – otto grandi lingue riaffermano la Resurrezione. In fine, declamano cautamente i loro nomi. Il tasso punta in su. Ha una forma gotica. Gli occhi si levano in alto e trovano la luna. La luna è mia madre. Non è dolce come Maria. Dalle sue vesti blu si liberano piccoli pipistrelli e gufi. Come vorrei credere nella tenerezza – la faccia dell’effigie, addolcita dalle candele, china su di me particolarmente, i suoi occhi miti. Sono caduta molto in giù. I nuvoli fioriscono blu e mistici sulla faccia delle stelle. Nella chiesa, i santi saranno tutti vestiti di blu, galleggiando sui loro piedi delicati sopra i freddi banchi di chiesa, le loro mani e facce rigide di santità. La luna non vede nulla di tutto ciò. È pelata e selvaggia. E il messaggio del tasso è la nerezza – nerezza e silenzio. (1976)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

EMILY SCRIVE AL MONDO

Impossibile dire qualcosa di nuovo sulla Emily Dickinson, così com’è molto difficile definirne la personalità. Dai pochi documenti rintracciabili, la sua vita privata è insondabile: ben più drammatica è la lettura delle sue poesie, che sprizzano luce e vitalità da quei pori che sono le loro immagini, la loro definitiva religiosità. Dalle limitate tematiche delle sue molto chiaramente contenutistiche intenzioni, l’autrice trae infinite variazioni di quella che lei stessa chiamava «la sua lettera al mondo». Tra le idee base delle sue 1750 poesie spiccano quelle della permanenza (immortalità) e il processo fisico della corruzione e la morte, oltre che un pignolo amore della natura, e una volontà di disquisizione intellettuale-filosofica che le deriva probabilmente dal padre, insigne giurista del suo tempo. Inaspettatamente rare le poesie d’amore. Nell’acuta prefazione di Guido Errante, unico studioso italiano dei versi e delle lettere dickinsoniane, viene fatta menzione che il vocabolario della Dickinson è costituito da più di 7000 parole, che un paragone tra le concordanze dell’autrice e quelle di Keats, Emerson e Lanier, mostra che ci sono circa 2400 parole adoperate da lei, e non da altri, tra le quali prevalgono i termini tecnici e quelli d’origine anglosassone; 150 vocaboli non si trovano nei dizionari dell’epoca, e sono generalmente parole composte, o formate con prefissi e suffissi. Negli aggettivi la proporzione tra il concreto e l’astratto è di quattro a due; i verbi più frequenti esprimono qualità fisiche; i nomi astratti vengono spesso calati a rappresentare azioni concrete. Del sostantivo love, uno dei più usati da altri cento poeti inglesi e americani dal 1540 al 1940, ella non si serve che novanta volte; e il vocabolo occupa uno degli ultimi posti nella lista dei suoi preferiti. Non molto però si deduce da questa interessante analisi statistica riguardo al valore dell’opera. Che il lavoro (mai pubblicato in vita) si definisca “metafisico”, mediato dall’esperienza “trascendentalista” della precedente letteratura americana (Emerson, R. Browning, H.D. Thoreau) è ormai di comune dominio. Scrittori come la Sitwell, T.S. Eliot, Ezra Pound, Montale hanno tutti rimarcato questo dato, e vi si sono ancorati. La Dickinson è sembrata influenzare perfino nuovissimi poeti come la Sylvia Plath, e, previamente, gli imagisti inglesi.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

164

AMELIA ROSSELLI

Nata nel 1830 e morta nel 1886 in una piccola città vicino a Boston, di famiglia di discendenza inglese, e vissuta nel clima di rigido costume puritano caratteristico del New England, la Dickinson preservò sì la intensa religiosità dei padri, ma non accettò mai il conformismo chiesastico della loro classe e morale. La sua opera pullula di immagini originariamente tratte dalla Bibbia, ma i suoi ispiratori, tramite cui essa rifiuta la forma declamata dei romantici, e la retorica del Whitman suo contemporaneo, sono piuttosto Shakespeare e Keats. Le sue forme epigrammatiche, le frequenti ellissi, i suoi simboli e significati polivalenti (vedi uso di parole-simbolo quali circonferenza, ruota, antracite, Etrusco, Imalaia) si fondono con nomenclature di origine casalinga (soffitta, cantina, porta, lampada, orologio, armadio, carbone) (il carro di Elia è un vagone). Nomi di minerali, nomi geografici (Brasile, Tunisi, Domingo) assumono significanze amplificanti (la Dickinson fece pochissimi spostamenti dalla sua cittadina originaria Armherst). Questi pochi dati tecnici e quelli più poveramente biografici, con la loro assenza apparente di colorazioni emotive hanno stimolato l’editore Guanda a una pubblicazione filologicamente assai attenta. Alla normale punteggiatura affibbiata dagli studiosi o dagli eredi della Dickinson, viene sostituita quella originariamente atipica della Dickinson (l’uso di maiuscole anche a metà verso; la stesura prosastica interrotta da trattini). Il testo torna ad essere affaticante, ma lo spirito assolutamente autonomo della Dickinson risplende del suo originario intento d’indifferenza per il successo mondano. Di lei il concetto di poeta “uomo-microcosmo” ne esce se non trionfante, certamente gioiosamente consolante. (1976)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SOTTO L’ALA DI ELIOT

Con voce sì sottil e piana si esprime la poesia giovanile inglese che fino ad oggi non ne avevamo avuto notizia. Influenzata da quella avanguardistica americana, dalla musica e concezione “pop”, si presenta collettiva e quasi anonima (apparentemente) nella antologia Giovani poeti inglesi edita da Einaudi con traduzioni e introduzione di Renato Oliva. Sin troppo esauriente l’introduzione: saggistica al suo più alto livello informativo e critico: ma le poesie dei diciotto poeti “giovani” (sotto ai quarantacinque anni circa) se lette con attenzione con la speranza di trovare altro che l’urlo e la disperazione dei poeti beat americani, potrebbero anche deludere, tanto è quieto e riservato il loro protestare, tanto è inglese la loro ribellione al welfare state e alla vita piccolo borghese di cui gli autori sono consci protagonisti. Non che una veloce antologia possa realmente indicarci i diversi livelli di talento e d’importanza: anzi ha inevitabilmente il difetto di livellare i diversi scrittori ad un unico metro, di rendere la poesia collettiva quando originariamente era anzi prodotto di individui isolati. L’antologizzare è utile invece per le notizie approfondite riguardo il clima sociale in cui sono nate queste complessivamente “leggère” stesure di versi, musicalmente infatti più sottili (ma se lette in traduzione s’appesantiscono), e contenutisticamente ansiose di dire, dove forse non v’è più molto da dire. Raramente qualche poeta si lascia andare a puri giochi verbali, e in questo la giovanile poesia inglese si differenzia da estremismi cattedratici e ritardatari spesso di moda sia in America sia in Europa. Il non trovare poi molto da dire è confessione d’impotenza ed espressione di dubbio sul ruolo reale del poeta in una società dalle magliature così solide come quella inglese: predomina, stranamente, la parola e la tematica “sasso” (stone) nei diversi poeti provenienti dai diversi movimenti, gruppi, ed esperimenti. Viene ribadito un ormai assimilato bisogno di vocalizzazione della poesia letta in pubblico, a volte accompagnata da musiche e luci. Sul tutto volteggia la grigia ala del poeta Eliot: il suo tono disilluso pervade, e ha ovviamente costituito cesura e riapertura anche se esitante, per la generazione da lui figliata. Interessante notare che in una

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

166

AMELIA ROSSELLI

società almeno in parte socialista l’ansia di contenuto sussiste, ma v’è ammissione d’impotenza critica. Lo stesso si nota per la poesia giovanile russa, postpasternakiana. Un malinconico tono di fin di mondo, un ritirarsi appartati. Invece a Liverpool, in Scozia, a Londra (vedi i programmi all’Albert Hall degli anni sessanta) pare che le diverse avanguardie ancora facciano spettacolo. Da studiarsi più a fondo la lunga dettagliata introduzione di Renato Oliva, per ciò che riguarda la descrizione del clima sociale secondo lui non provinciale della poesia inglese d’oggi: i suoi diversi giudizi critici per i diciotto poeti lasciano un poco il tempo che trovano; al lettore il compito d’individuare tra di essi i suoi preferiti. (1976)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GREGORY IL BEAT

Di Gregory Corso non si sa molto, salvo che quando era giovane (nato a New York nel 1930) finì al riformatorio e passò poi tre anni in prigione. Lui stesso esita nel farne un mito, tanto che dei suoi scritti non resta traccia in volume salvo che per l’opera Benzina terminata ai ventotto anni. Poesie belle, oscillanti tra un versificare alla Ginsberg (urlo e sfogo, ma con eleganza) e un riprendere invece le più delicate qualità della poesia rimbaudiana, le brevi rime ispirate a interiori stati d’animo, in attesa di risposte meno polemiche. Che sia «il più grande poeta d’America» così come ce lo propongono Allen Ginsberg e l’editore Guanda potrebbe convincere se il testo fosse più lungo, e denso di proposte non certo diagnosticabili in settanta pagine. Il caso Corso è stato presentato dagli anni sessanta in poi in diverse antologie beat tradotte in Italia: ma fu il “caso beat” a delinearne artificialmente i contorni. Gregory Corso stesso sfugge e fugge; pare che ora, quarantenne, viva a Parigi, morendo di fame secondo Ginsberg. Precedentemente lo davano per vivo ad Atene, come giocatore d’azzardo. Ben altro vorremmo sapere di questo sottile poeta che ha il buon gusto di tacere quando la baraonda editoriale-pubblicitaria vuole fare di lui quel che ancora forse non è. È senz’altro il più lucido dei quattro notissimi se non nuovissimi: supera Kerouac, Burroughs e Ginsberg che lo scoprì, nella finezza della invenzione e nella classicità del suo spirito critico. Il suo vero ispiratore è piuttosto Hart Crane, poeta che in Italia andrebbe letto più a fondo assieme a Whitman, nel conoscere le origini dell’oramai spesso misinterpretato movimento beat. Che poesie non incluse in Benzina si trovino in svariate riviste e antologie statunitensi non fa credere che Corso abbia molto continuato a scrivere; esse non portano data oltre il 1962, e quelle non datate forse appartengono ad una nuova raccolta però nemmeno negli Stati Uniti nota al pubblico. Discrezione dell’autore? Silenzio sperimentatore? Quasi servirebbe, piuttosto che l’intervista apposta in fin di libro (anche questa non datata), una più approfondita nota biografica nel senso d’una analisi del tempo trascorso dopo il primo giovanile entusiastico scrivere. Non sempre si può chiudere con un suicidio; e a noi interesserebbe cono-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

168

AMELIA ROSSELLI

scere di Gregory Corso l’ideologia che lo fa tacere oppure scrivere, viaggiare oppure lavorare, immedesimarsi con la cultura europea oppure tornare alle sue origini difficili e povere. Invece il movimento beat, così come l’editoria ce lo propone, sembra sfocarne la figura: e giustamente delle settanta pagine poco si può dire salvo che là nasce un bel poeta, ancora non morto. (1976)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CANTI ONIRICI D’UN POETA SUICIDA

Di John Berryman ci entusiasmarono nel 1969 Omaggio a Mistress Bradstreet (Einaudi), poemetto pubblicato negli Usa nel 1953; ma dell’odierna pubblicazione Canti onirici e altre poesie sempre pubblicato da Einaudi ci interessa veramente solo una parte: quei sonetti tratti da I sonetti di Berryman che ancora tengono alla forma e all’autenticità del contenuto (in questo caso un adulterio). Tra i Canti onirici e altre poesie vi sono capolavori linguistici ma il metodo metà eliotiano metà joyciano di esposizione, con tocchi beat ci fa pensare che l’eccesso d’introversione del poeta abbia il grosso difetto di rendersi inintelligibile al pubblico non soltanto medio. Lo stesso Il suo trastullo, sogno, quiete anch’esso incluso nella raccolta è poesia che secondo Sergio Perosa, curatore del libro, «ha al centro una proiezione del poeta che conversa con il suo double o interlocutore, riflettendo i motivi di lacerazione e dislocazione d’animo e del mondo di oggi», con «linguaggio che mescola gergo e baby talk, slang nero e vaudeville». L’alto livello formale e architettonico di queste poesie non rendono l’interesse alla lettura che è mancante perché troppo dispersa fra troppi temi e “voci”. Poesie brevi e Canti della paura (poesie d’apprendistato) precedono Omaggio a Mistress Bradstreet e infatti nella raccolta del Perosa il salto di maniera è evidente: le poesie posteriori al 1953 s’affannarono a sembrare significanti, i mezzi tecnici tutti adoperati in maniera stravagante, ma secondo noi il risultato è meno originale e verace delle prime poesie del poemetto e dei sonetti. Tira un vento di artificialità letteraria che non giova né all’autore né al lettore. «Manieristico e idiosincratico, libresco e irritante, Berryman lo è senza dubbio», dice il Perosa, ma ne giustifica i difetti chiamando la scrittura berrymaniana «postmoderna». Si tratterebbe di un «verso parlante», influenzato in ciò dai poeti della Black Mountain e dai beat, “modello” di poesia per gli anni sessanta e settanta. Ma il postmoderno si ferma là: il Berryman si suicida nel 1972 e ad ognuno è lecito trarre le conclusioni che desidera da questo brusco venir meno del “postmoderno”. Con i 77 Canti onirici che sono del 1964 e Il suo trastullo, sogno, quiete che è del 1968 si prese però il Pulitzer Prize ma pensiamo che il

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

170

AMELIA ROSSELLI

premio gli fu assegnato per l’opera complessiva (Berryman è del 1914 e pubblicò sin dal 1940) che è densissima e tutto sommato tra quelle più valide dell’oltreoceano, anche se al lettore vien richiesto uno sforzo di documentazione letteraria quasi costante mentre legge (vedi le molte note ai testi). Difficile per il singolo dare un giudizio complessivo: sicuramente però l’Omaggio a Mistress Bradstreet, i sonetti (più di 300) volano ad altezze non raggiunte da altri poeti americani, sia dal punto di vista culturale sia da quello autenticamente creativo. Perfetta la traduzione del Perosa e molto densa la sua nota introduttiva anche se non ci trova sempre consenzienti. (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

LE ESPERIENZE DI CORSO

Di Gregory Corso sapevamo poco prima della quasi esauriente antologia della Fernanda Pivano per Feltrinelli riguardo alla generazione beat americana degli anni sessanta. Sembrava un “caso limite”; il più giovane del gruppo, il più estremo per esperienze (orfanotrofio, prigione). Qualche anno più tardi Guanda editore pubblicò Benzina, serie di poesie brevi di Corso, e ci sorpresero l’eleganza e la classicità di questi sottili versi d’ispirazione shelleyiana. Il testo Benzina è il più noto ed è del 1958; il libro che oggi Bompiani ci presenta in edizione economica include non soltanto Benzina ma anche The Vestal Lady on Brattle (La signora vestale su Brattle) del 1955 e Elegiac Feelings American (Sentimenti elegiaci americani) del 1970. Bellissimo il primo testo all’altezza di Benzina, secondo noi meno individuale e originale il terzo testo che ormai non è più quello di un enfant prodige o terrible ma di un uomo sulla quarantina. La metrica è quella whitmaniana oramai frusta e data per scontata, cioè il verso che diventa prosa e perfino paragrafo di stile conversazionale. Talmente a noia ci è venuta questa metrica che del resto potrebbe anche dirsi in parte ispirata a Hart Crane (Il ponte) che è con qualche sospetto che l’affrontiamo: eppure anche in questo genere Gregory Corso si dimostra tra i più bravi del gruppo beat superando perfino il suo maestro Allen Ginsberg. Una fantasia scatenata che non perde l’originale eleganza di tono. Quello che ci preoccupa di Corso è l’impossibilità da parte del lettore di cogliere un significato basilare, un voler dire, esprimere altro che momentanei stati d’animo. Per contenuto l’autore farfalleggia tra Berlino, Parigi, New York, Milano e Atene e al dunque nulla possiamo dedurre della sua particolare visione del mondo. Ad aiutarci a far ciò però sono gli appunti posti in fin di libro, come per esempio le interviste a se stesso umoristiche e blande; così anche l’introduzione della Pivano ci descrive l’uomo e da lì nasce un sospetto di “visione del mondo” che a dire il vero forse il Corso mai volette volontariamente precisare. V’è una nota del Ginsberg anche in fin di libro che di Corso dice: «È probabilmente il più grande poeta d’America, e muore di fame in Europa». Forse è vero che il Corso è il più grande poeta dell’America di oggi, ma non dimentichiamo il Berryman e la Sylvia Plath nel far conti così affrettati!

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

172

AMELIA ROSSELLI

Questa edizione così rappresentativa anche se non completa è di grande utilità nel conoscere a fondo il Corso: le ultime poesie datano 1970 e ci pare perciò un’edizione esauriente anche se tascabile. Difficile tradurre il Corso e il Gianni Menarini, curatore del libro, ci riesce magistralmente. La lingua originaria è per sua elasticità e complessità sintattica tra le più rare. (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

JOYCE GIOVANE POETA MUSICALE

Da sempre una delle mire della casa editrice Newton Compton è stata quella di proporre edizioni popolari a basso prezzo, scegliendo qua e là dal vasto repertorio politico, sociologico e letterario saggi isolati dal loro contesto antologico e poesie scelte da opere omnie. L’idea non è male: infatti dove trovare per esempio se non in una costosa antologia l’opera di Marx intitolata Miseria della filosofia se poi all’antologia capita di includere questo non lungo saggio? Lo stesso per la poesia; ne ha pubblicata molta, in gran parte scelta dal grosso delle diverse opere omnie. A me pare che l’iniziativa sia lodevole; ma ha il suo rovescio. Da diverse parti sento criticare la Newton Compton per le sue cattive traduzioni e una certa sua “pirateria” sul mercato o forse pel basso pagamento dei suoi curatori e traduttori. Da questa nuova traduzione dell’opera giovanile di James Joyce intitolata Musica da camera (1907) l’editore ha pensato bene confondere un po’ le acque intitolando la raccolta dei trentasei poemi diversamente: cioè intitolandola Poesie, cosicché il lettore sprovveduto possa credere d’avere in mano una piccola antologia delle poesie del Joyce. Invece il testo è uno solo, e fra quelli meno interessanti del Joyce anche se preziosissimo per chi volesse analizzare le fonti formali-linguistiche delle opere succedenti (i racconti Gente di Dublino; l’autobiografico Dedalus; il dramma Esuli; il noto romanzo Ulisse; Poesie da un soldo; e La veglia di Finnegan, 1939). È però dal 1967 che non vediamo poesie tradotte del Joyce: vi fu una edizione esauriente nel 1961, che passò negli Oscar della Mondadori raggiungendo addirittura 39 000 copie di vendita. Ma mancava il testo a fronte. Il principale rimprovero che si possa fare alla curatrice e traduttrice di Musica da camera è di tradurre troppo squadratamente, troppo letteralmente. Nella edizione Mondadori poeti noti quale Sanguineti, Giuliani, Wilcock e lo studioso Alberto Rossi presentavano delle assai belle e più musicali traduzioni. Ma l’introduzione della curatrice Marina Emo Capodilista e le sue note in fondo al libro sono intelligenti e mi trovano consenziente nella non-mitizzazione di questi esercizi letterari (pur bellissimi, finissimi e tecnicamente interessanti). L’autore aveva ventidue-ventiquattro anni quando scrisse questa serie di poemi

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

174

AMELIA ROSSELLI

pseudoelisabettiani, di stile alessandrino, musicali assai inspirandosi al Seicento inglese anche per un certo tipo di secca cantabilità ornamentata. Che vi sia il testo a fronte trovo utile, ora che gli italiani studiano soprattutto l’inglese invece che il francese. Sarebbe forse stato bene includere anche Poesie da un soldo, tredici poesie molto più mature e straordinarie, scritte venti anni più tardi: dopo tutto il Joyce scrisse soltanto circa cinquanta poesie in tutto, e le sue ultime sono certo le più sconcertanti per la loro concentrata dryness (secchezza) e delicatezza, che mi pare di capire abbiano influenzato sia il Beckett poeta sia la Sylvia Plath. Ma forse l’editore Newton Compton o un altro ci darà questo bellissimo testo in ancora un’altra edizione economica: badando però a trovare traduttore molto agguerrito! Perfino Montale vi si è provato (vedi Quaderno di traduzioni, Mondadori 1975). Le trentasei poesie di Musica da camera hanno come tema un amore immaginario e forse poi realizzato, poi decaduto. Il tema, così come la versificazione, è quasi del tutto artificiale e non intende confessare o accendere passioni. Interessante notare che il linguaggio è quasi del tutto monosillabico, frenato da polisillabi (l’inglese è lingua brusca anche se sottile) e che nella traduzione forzatamente s’allungano i versi e s’inflatano le sonorità essendo l’italiano invece solitamente trisillabico e spesso polisillabico. Acclusi sono due poemetti scritti per scherzo dal Joyce verso il 1902, che pur bruttini, rivelano il suo senso della satira. (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

ISTINTO DI MORTE E ISTINTO DI PIACERE IN SYLVIA PLATH

Addirittura truce fu il rapporto che Rossana Rossanda immaginava esistere fra la poetessa Sylvia Plath e sua madre recensendo il volume Lettere alla madre pubblicato nel 1979 da Guanda. Mi parve allora che la Rossanda tendesse a politicizzare la materia a tal punto da darne un’interpretazione violentemente aletteraria e deformata in parte da una sovrapposizione pseudofemminista e pseudopsicologica. Il suo articolo uscì su “L’Espresso” del 4 novembre 1979, corredato di belle e preziose fotografie, ma era fuorviante rispetto al soggetto di cui tentava una ironica se non crudele analisi: e cioè il rapporto madre-figlia nell’America postbellica. Meno fuorviante era però la sua vitalistica analisi se compresa in senso sociopolitico; sennonché si trattava di una figlia poetessa di genio, tra le migliori in assoluto di questo mezzo secolo in un Occidente travagliato da crisi “al femminile”, e di una madre accusata anzitutto in quanto americana, poi perché vi era di mezzo un suicidio (la Plath, che era nata nel 1932 a Boston, si tolse la vita nel 1963 a Londra), e infine perché madre e figlia erano di estrazione apparentemente “borghese” e tipicamente e conformisticamente in, mirando al successo (poverette, negli studi!) tra un college e l’altro (lo Smith nel Massachusetts e il Cambridge in Inghilterra). Chi era Sylvia Plath? E chi era sua madre? Di quest’ultima, Aurelia Schober, si sa soltanto che, d’origine piccolo borghese, dopo essere rimasta vedova, s’attenne alla sua passione per le lettere, pur sacrificandola in parte per metter su famiglia assieme a un tedesco polacco studioso di biologia e di psicologia sociale e meticoloso osservatore della vita delle api. Se sua figlia scrisse ben 700 lettere tra i diciotto e i trent’anni fu, come afferma Aurelia Schober, perché «non potevamo permetterci telefonate interurbane» e perché poi Sylvia «amava scrivere». Se la Rossanda analizzava lo spirito tipicamente ottimista e pseudocandido delle lettere di Sylvia alla madre, scritte in quel particolare stile che molte ragazze americane pensano essere doveroso per tirar su il morale delle loro madri rimaste sole, e specie in quelle lettere scritte tra i venti e i ventiquattro anni, è perché in un certo senso le «conviene» analizzare il rapporto madre-figlia in un sol senso: dimenticando che anzi, quando la Plath si sposa, lo stile delle lettere acquista a volte un tono più pacato e riflessivo e non più giubilare.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

176

AMELIA ROSSELLI

La Plath va studiata non per la sua cosiddetta tipicità di ragazza americana tutta successo, depressioni e relativi tentativi di suicidio (di moda anche qui in Europa), ma invece per la sua autodelimitata grandezza e per l’inusualità della sua poesia, tradotta in parte da Giovanni Giudici (Lady Lazarus e altre poesie, Mondadori 1978). La Rossanda, pur mettendo il dito sulla piaga per quanto riguarda l’infelice-felice giovinezza americana di Sylvia Plath (che si sforzava di nascondere la sua diversità di creatrice ed artista in ambienti che poco favorivano l’eccentricità del suo talento), non rileva che il romanzo semibiografico della Plath (La campana di vetro del 1961-63, trad. it. Mondadori 1968), scritto per ragioni purtroppo commerciali, fu nettamente ripudiato dalla poetessa stessa, che di questo avvertì la madre. E bene fece Aurelia Schober – insegnante di liceo, poi segretaria e stenodattilografa – a cercare, dopo la morte di Sylvia, di toglierlo dalla circolazione, non perché, come sostiene la Rossanda, vi sia (in un sol punto) risentimento della figlia nei suoi confronti, ma soprattutto perché l’ovvietà dello stile e dell’analisi biografica commercializzata è di tale discrepanza rispetto all’alto valore e all’invidiabile acutezza della poesia della Plath, da lasciare sbalorditi che l’autrice si sia così ingenuamente venduta per quei pochi soldi che un romanzo, al dunque neppure un grande best seller, poteva fruttarle. Nell’intero romanzo v’è soltanto una singola lunga sequenza di un qualche livello psicologico o letterario, ed è la precisa e onesta descrizione d’una crisi suicida meditata in parte inconsciamente da una giovane di diciannove anni durante una calda estate in un piccolo noioso paese dell’entroterra bostoniano. Il resto, soprattutto stilisticamente, è mediocre, e purtroppo, anziché studiare a fondo anche filologicamente la sorprendente limpidezza delle quattro raccolte della poetessa, è di moda in molti paesi studiarne la biografia (del resto artificiosa e come “specchiata” dalle lettere un po’ forzate e doverose alla madre, e dal romanzo scritto alla svelta per soldi e per ragioni di mercato). Ed è di moda anche studiarla in chiave pesantemente femminista, aggettivo al dunque non pertinente – salvo che indirettamente – alla tematica poetica della Plath (è la sua femminilità che spicca piuttosto nelle scelte semantiche, e nella “praticità” oggettuale e un po’ agghiacciante delle metafore). Analizzando ciascuna delle quattro raccolte di versi della Plath scritte tra il 1960 e il 1962, si noterà che non è nemmeno adatta la classificazione di comodo sovente data al suo lavoro, cioè quella di “confessionale”. E purtroppo, sia nelle edizioni mondadoriane, anche se non nel secondo volume (Le muse inquietanti, a cura di Gabriella Mo-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

177

risco, trad. di G. Morisco e A. Rosselli, Mondadori 1985), sia in altre raccolte parziali, sia su riviste femministe o meno, l’attenzione è tutta tesa verso quelle due o tre poesie delle circa cinquanta di ciascuna raccolta, che s’ispirano sul serio a dati autobiografici. Le più belle poesie della Plath sono invece proprio quelle in cui essa si trascende, e il suo piccolo io travagliato e casalingo (studi, premi, carriera, marito, figli, amiche) scompare deliberatamente, e per scelta conscia d’autore, dinanzi a temi ben più urgenti, e senza l’eterna “lagna” che ci ha a lungo oppressi sia nella poesia giovanile cosiddetta ribelle ma ripiegante sul “privato”, sia in certe proteste purtroppo risentitamente e quasi razzisticamente femministe. Fu proprio la madre Aurelia a opporsi pubblicamente allo sfruttamento della poesia di Sylvia fatto dai movimenti femministi dopo la sua morte negli Stati Uniti. Robert Lowell, il poeta fondatore dello stile “confessionale” presso cui la Plath brevemente studiò, supera anch’egli nei suoi anni maturi l’ormai frusto autobiografismo per una più attenta e universale riflessione (anche in questo caso dopo uno spostamento di residenza nel Kent, in Inghilterra). Una tematica che viene costantemente trascurata quando s’indaga sulle cause della tragica fine della Plath è quella del suo forse troppo ottimistico tentativo di conciliare una piena vita matrimoniale con l’attività creativa in senso esteso. Troppo persuasa era la Plath che famiglia e creazione artistica potessero coincidere: invece si scelse per compagno un mèntore più che un marito, l’oggi famoso poeta Ted Hughes. Dai miei conoscenti dell’ambiente letterario e universitario londinese ho appreso che il fallimento del matrimonio della Plath fu causato soprattutto, nella sua fase finale, da un intollerabile clima di competizione che pian piano s’era instaurato tra i due. Sia l’amico Alvarez (autore del saggio critico Il Dio selvaggio – Il suicidio come arte, Rizzoli 1971), sia Ted Hughes abbandonarono al dunque la Plath, l’uno in un modo, l’altro in un altro, quando essa mise in atto un secondo tentativo di suicidio. Che poi la ricerca artistica all’alto livello al quale la portò la Plath, e a una tale intensità, sia un rischio mortale di per sé, purtroppo ogni artista lo sa bene fin dall’inizio del suo vocazionale sperimentare con la vita; così come ogni donna sa che non sempre la vita matrimoniale, i mestieri di casa, i figli, il sostegno al marito (possibilmente non della stessa professione!) e l’indipendenza economica possono coincidere con la realizzazione piena d’una vocazione creativa. Potremmo studiare quanto ci pare l’adolescenza, le lettere e la biografia della Plath senza mai trovare altro che “specchi” doppi e deformanti. Parla più chiaro il suo verso, ed è più onesto. Che si smetta d’insistere sulle poe-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

178

AMELIA ROSSELLI

sie intitolate Papà, Lady Lazarus, Lesbo, Orlo, Morte & C., Tre donne (dramma per radio), che sono oramai da tutti scelte in una specie di tardiva frenesia per lo psicologico, l’orrido, il privato, la causa nascosta; e si ricordi invece che tutte le migliori poesie della Plath hanno anzi per titoli frasi o vocaboli poeticamente neutri o ambigui, come Il giardino del maniero, Cime tempestose, Autunno del ranocchio, I campi di Parliament Hill, La cornacchia nel tempo piovoso, Apprensioni, Mistica, Amnesiaco, Talidomide, Ariel, La luna e il tasso, Piccola fuga. Già dai titoli e nei loro temi sottintesi, s’indovinerebbe che la Plath è mistica e allo stesso tempo concreta nelle metafore, come nel suo secco musicale linguaggio, degna seguace di Shelley e Keats, o di Blake e della Dickinson, e che le sue origini piccolo borghesi non vanno derise per una manciata di lettere semiumoristiche, commoventi anzi per la stima e la gentilezza del rapporto che rivelano nei confronti di una madre abbastanza colta da comprenderne la generosità. Se proprio dobbiamo commentare in senso psicobiografico le lettere e la vita della Plath, possiamo soltanto aggiungere che non è certo la madre Aurelia che dev’essere ritenuta responsabile, come è stato più volte fatto, di quell’inevitabilmente riuscito suicidio del 1963. Questa “inevitabilità” si nota anche nel progressivo indurirsi, come pietre schegge, delle ultime poesie: come se la Plath stessa fosse consapevole di chiudere un suo problema di eccesso di vita, travasata e distillata sino alle essenze finali. La sua giovanile esperienza di psichiatri ed elettroshock del 1953 l’aveva spaventata anche se non danneggiata (vogliamo sperare) fisiologicamente. A Londra, nel 1963, sarebbero bastati una più autentica spinta ambientale, più soldi, “la volontà”, per sostituire all’antico e antiquato ospedale psichiatrico uno psicologo. Non dimentichiamo del resto che fondamentale (probabilmente) resta nella Plath il non chiarito problema del padre, perso quando lei aveva nove anni, e mai ritrovato in forma “sostitutiva”. E dunque, male o mai risolto psicologicamente quel suo problema di fondo, visto che il trauma infantile e poi adolescenziale (gli ospedali psichiatrici, gli elettroshock) ad esso aggiunto è un duplice trauma non risolvibile attraverso la “confessionalità” di quelle poche ma aspre poesie di intento riscattatorio, che infatti scadono molto qualitativamente e che sono “tracce” del trauma da affrontare. Problema che è poi anche meno risolvibile tramite un romanzo con finalità commerciali. Così, dalle lettere e dalla biografia d’una poetessa di tanto inusuale talento, forse una sola interpretazione è ricavabile: se accusando simbolicamente “la madre” si accusa in sua vece una società terapeuticamente ignorante e meccanicistica, e, quel che è peggio, incosciente nel suo matriarcato di stampo

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

179

capitalistico, lo si può ben fare: ma allora tanto vale farlo anche per l’Italia e l’Inghilterra, dove di certo si spererebbe che negli anni novanta l’influenza ambientale possa salvare in tempo, possa salvare anche dal suicidio e dalle sue attenzioni critiche così pubblicizzate (tanto per toccare finalmente il nesso specifico). Ma per cambiare tema e illustrare alcune delle più belle poesie della Plath, che ho menzionato sopra, vorrei presentarne qui cinque già pubblicate nel volume Le muse inquietanti di Mondadori, alle quali aggiungo altre cinque traduzioni inedite di poesie tratte dall’ancora poco noto volume dei Collected Poems curato da Ted Hughes per Faber & Faber (1981). Questo interessantissimo libro include tutte le poesie della Plath, comprese quelle scritte tra il 1956 e il 1963. Il volume, di 340 pagine, comprende nella sezione Juvenilia, cinquanta poesie scelte tra quelle che la Plath scrisse nei tre o quattro anni precedenti il 1956. Molte di queste furono composte come compiti scolastici assegnatile dal suo professore d’inglese allo Smith College, Alfred Young Fisher: in quasi tutti i casi, Sylvia sembra aver accettato i suggerimenti testuali del professore. Nel libro, infine, v’è un riferimento agli Uncollected juvenilia, circa novanta poesie giovanili inedite conservate nell’Archivio Sylvia Plath e nella Lilly Library dell’Università dell’Indiana; altre ancora, di cui il curatore Hughes fornisce però soltanto i titoli, si trovano presso il Sylvia Plath Estate, e sono tutte precedenti al 1956, quindi prima dei suoi ventiquattro anni. La grossa novità di Collected Poems, introdotto da Ted Hughes, è che tutte le poesie sono finalmente presentate in ordine cronologico, per quanto possibile (poiché non tutte le poesie portano la data). Il primo libro della Plath è però del 1960, e fu pubblicato dall’editore londinese W. Heinemann l’11 febbraio 1963. Attorno al Natale del 1962, la poetessa raccolse la maggior parte delle poesie, oggi conosciute come la raccolta Ariel in una sequenza accuratamente studiata. Si tratta di circa due anni e mezzo di lavoro, completato appena prima della sua morte, avvenuta l’11 febbraio 1963. Ariel, che fu poi pubblicato postumo nel 1965 da Faber & Faber, era un volume piuttosto diverso da quello che la Plath aveva progettato, almeno a detta del marito che ne curò l’edizione. Esso comprendeva diverse poesie (nove) che la Plath aveva continuato a scrivere nel 1963, benché lei stessa le considerasse parte di un eventuale terzo libro, e di diversa ispirazione rispetto a quelle scritte tra Il colosso del 1960 e quelle del 1960-62. Hughes considera l’antologia da lui curata un compromesso tra la pubblicazione di un grosso volume dell’intera produzione poetica di Sylvia e le singole opere, uscite tra il 1965

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

180

AMELIA ROSSELLI

(Ariel), il 1967 (The Colossus, ristampato integralmente da Faber & Faber) e il 1971 (Crossing the Water e Winter Trees). Le cinque poesie inedite da me tradotte e qui presentate sono tratte da Collected Poems del 1981, che sarà pubblicato fra un paio d’anni da Mondadori. (1980 e 1991)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PAUL EVANS

La prima volta che mi sono imbattuta nel poeta inglese Paul Evans fu leggendo una bella, anche se troppo densa, antologia: Giovani poeti inglesi. Era stata pubblicata da Einaudi addirittura nel 1976, e la traduzione di diciotto poeti si doveva a Renato Oliva, che ne fornì anche un’affascinante introduzione. Tra questi poeti non uno è divenuto un grosso nome almeno in Italia, tanto che non è apparso alcun libro intero di nessuno. L’introduzione a quella antologia classificava le molteplici tendenze della giovane poesia inglese in due categorie, quella orale e quella concepita per il tradizionale veicolo del libro: La poesia pop e underground, che voleva travalicare la pagina scritta ed essere comunicata e fruita immediatamente e collettivamente, è stata assorbita, dopo un breve periodo di noviziato sui mags ciclostilati e sulle rivistine pubblicate dalle numerose piccole case editrici nate in questi ultimi anni, dal tradizionale circuito editoriale: caso esemplare quello della antologia Children of Albion (1969) lanciata con successo dalla Penguin.

Oggi questa antologia, probabilmente ristampata varie volte, è introvabile, e nemmeno è stata tradotta in Italia: eppure rappresenta il punto di partenza di tutta la poesia underground, da cui si sono ispirati i cantanti rock di Liverpool e d’oltreoceano. In questa antologia figurava per la prima volta l’allora ventiquattrenne poeta Paul Evans, di Liverpool appunto. Purtroppo non ho modo di confrontare queste sue prime pubblicazioni con le poesie scelte da Renato Oliva per la sua antologia einaudiana: anzi, le tre poesie nemmeno lontanamente farebbero pensare ad una adesione al movimento pop e underground: tolte dal suo primo libro Love Heat (Fulcrum Press, 1969), testo del tutto introvabile oggi perfino nelle biblioteche pubbliche inglesi, e da February (ivi, 1972), sono tutte e tre misurate, ben costruite. Danno un rilevante peso a terzine e quartine, così alludendo al classico, e certamente non all’orale o al pop. Per la terza poesia forse, si scioglie un poco lo stile statico e quasi allusivo al neoclassico delle prime due. Rimane la serietà ma la poesia è lunghissima, elude la forma statica medio-breve, imposta graficamente l’alternarsi delle stanze sregolate, usa

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

182

AMELIA ROSSELLI

la conversazione, le citazioni, anche se ancora il suo linguaggio ha la serietà postuniversitaria, e anche una qualche complessità poundiana. Sulla scorta di queste indicative poesie, benché quasi tutta la produzione giovanile di Evans non fosse più sul mercato inglese, potei recuperare quel che considero il suo testo “centrale”, ossia della maturità (Evans è nato nel 1945): del resto oltre a questo testo intitolato Sweet Lucy, pubblicato nel 1983, rintracciabile è soltanto l’ultimo apparso con altra ancor più piccola casa editrice, la Arc Publications, dal titolo The Sofa Book, 1987. Rimane tuttora, nel leggere February del 1972, e altri testi di libri minori, l’impressione che il poeta non sia in realtà tanto facilmente classificabile come pop o underground; in lui è tipico, piuttosto, un abile alternarsi di stili secondo l’“occasione”. Si veda per esempio come da quello che sembrerebbe uno stile suo tipico (già evidente nella terza poesia da Love Heat, e ripetuto in February, e affinato in Sweet Lucy), l’autore evada verso vari stili non solo all’interno di Sweet Lucy, ma anche nell’ultima sua pubblicazione The Sofa Book: in modo meno impegnativo, sempre sottile, non classicistico e nemmeno lontanamente “orale”, pop ecc. Si tratta di cinquanta brevi poesie di cinque versi ciascuna, più difficili da tradursi in italiano perché dotate di un vocabolario ricco e scelto: anche se sempre la tematica di fondo è in realtà “di superficie”: una specie di stream of thought conscia, malinconica evasiva descrittiva, che pone per gioco retorico qualche problema di contenuto, per schivarlo poi, tornando ad un impressionismo linguistico abile, agile e raffinato, senz’ambizioni, soprattutto. Come lo scrivere fosse un divertimento del momento, e la lettura dovesse essere rapida, e vi fosse una rinuncia all’approfondimento, che però quelle prime poesie dell’antologia einaudiana non indicavano. Concluderei che la sua malinconia di fondo sia dovuta forse a questa rinuncia, in contrasto con l’agile vocabolario piuttosto sensibile e colto. La sua è una eleganza snob rispetto ai beat (Gregory Corso per esempio) e infatti non si ricollega (proprio per mancanza d’intensità) a Hart Crane, e ancora meno a Walt Whitman. Quanto all’intellettualismo di Pound, vorrebbe esserne seguace, ma salvando, rispetto al cosiddetto “eccesso” di cultura poundiano – divertito, mélangeur – un tanto di cantabilità, di semplificazione naturalista, e di giocosità però hollywoodiana. Da quale esempio parta Evans è infatti difficile dire: ricorda un certo tipo di poesia né americana né inglese (nessuna ispirazione da Eliot o Joyce), che forse è anche tipica della poesia divertita, italiana, tedesca o francese perfino. Rispetto a una Sylvia Plath non si sbilancia né si fa troppo individuare; rispetto ad altri poeti inglesi viventi della

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

183

linea pop è abile; rispetto a una buona media angloamericana recentissima, è forse, anzi, più personale. Gli manca poi nei confronti di autori “arrivati”, quali Ted Hughes o Philip Larkin, quella insistenza, quella ricerca della notorietà, quel costante virare in cerca del nuovo. Insomma rimane quello che era da giovane, se ne accontenta, e dà l’impressione di attuare un progetto: far passare la poesia in secondo piano, forse in quanto non redditizia, forse perché non trova un grosso pubblico, o forse perché così giudica debba essere. Del resto la sua fuga dal tragico è ciò che lo contraddistingue, e qui è la sua eleganza, anche la sua leggerezza; ma il suo essere distaccato quel tanto dal mondo, non sempre gli giova: in qualche racconto Scott Fitzgerald (anche sceneggiatore a Hollywood) potrebbe dirsi uno dei suoi maestri, ma quello di Fitzgerald è un tono leggero e superficiale, profondo e tragico; mentre è dell’inglese nordico affettato o no, il distacco divertito, che a noi latini giunge stridente, un poco adolescenziale o goliardico. Della corrente pop perciò dobbiamo definirlo, e questo in contrasto con la linea del Movement o del Group dei giovani arrabbiati, e più tardi dei poeti Philip Larkin, Kinsley Amis, Thomas Gunn, George Macbeth; che secondo Alfredo Alvarez «hanno propensione ad arenarsi in secche di un garbato o sommesso, se pur lucido, distacco dalla realtà; a rifugiarsi in una quieta, se pur a tratti dolente o percorsa da scatti autoironici, provincia intellettuale». Alvarez suggerisce che la loro poesia «non smette di fingere che la vita, nonostante siano cambiate certe distinzioni sociali, è sempre la stessa, che la gentility, il decoro e tutti gli altri totem sociali riusciranno alla fine a sopravvivere». Un altro critico, il Rosenthal, scrive della poesia inglese come «potenzialmente limitata, poco vigorosa, incapace di confrontarsi con quanto di duro, sconnesso e violento, c’è nella realtà». Secondo altri critici, come il Davies, se il dialogo dei poeti inglesi con quelli americani è fallito, «la colpa è degli inglesi che hanno sottovalutato la loro tradizione». Secondo Alan Brownjohn, «la reticenza inglese va difesa contro la brutale franchezza di tanta poesia americana». Per l’underground (pop) che fonde sincronicamente culture diverse, non esistono barriere di tempo e luogo, e quindi nemmeno il problema dei rapporti angloamericani, osserva Renato Oliva. Per Horovitz (cfr. Children of Albion), gli sperimentalisti di qua e di là dell’Atlantico, «anche se non proprio omogenei, sono uniti nell’azione di rottura contro l’accademia sclerotizzata, e le tecniche sorpassate». «Per qualche anno nessuno vorrà più delle poesie sui grandi temi», sentenziava Kingsley Amis nel 1955.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

184

AMELIA ROSSELLI

Del Movement e del Group sono Alan Brownjohn, Edward Lucie-Smith, Peter Porter, George Redgrove, oltre a Ted Hughes e Thom Gunn; questi ultimi due tradotti da Camillo Pennati nel 1968 e 1973. Philip Larkin è stato invece tradotto da Renato Oliva, già nel 1969. Tornando a Paul Evans, direi che ancora più estremo è il suo staccarsi, se non dalla realtà, dai “grandi temi”, e che anzi questo problema è in lui risolto senza confusione o senso di colpa, diversamente da Macbeth o Gunn o Hughes. Lui è specchio, specchio deformante e soggettivo, ma di “influenze” o competizioni sia con gli americani beat che con la grande tradizione letteraria inglese, non v’è ombra; v’è solo rifiuto. E nemmeno con la scuola confessional americana si misura: quasi volesse far credere al lettore che la poesia non sgorga da alcuna tradizione o contemporaneità letteraria, ma dal semplice languido vissuto. Di lui però è anche tipico l’affiancarsi a tutti quegli scrittori che hanno recentemente sfruttato le possibilità del surreale, come è accaduto ad altri scrittori pop e underground (scuola del Black Mountains, linea Pound-William Carlos Williams-Olson), Ginsberg e underground americano. Secondo il poeta inglese Jon Silkin «v’è una esperienza regionale del Nord, distante, per esempio, da quella gallese o da quella delle province occidentali». Secondo Oliva, «verso sud-ovest troviamo i poeti di Liverpool indissolubilmente legati alla loro città». Inoltre «si possono distinguere dei toni poetici regionali: quello più aspro e socialmente impegnato del Nord (la rabbia prepolitica o sottoproletaria di Tom Pickard o la scabra serietà di Jon Silkin) e quello (deliberatamente) ingenuo, spontaneistico, leggero di Liverpool». Continua Oliva: «La poesia regionale non è per nulla provinciale; al contrario essa ha contribuito a rompere l’insularismo culturale che impediva alla poesia inglese, cauta e compassata, di aprirsi alla sperimentazione. Oggi invece si guarda a Jarry, ai dadaisti, ai surrealisti, e alle forme di avanguardia più recenti». Per quanto concerne il formalismo qua e là classico di Evans, tipicamente liverpooliano per il resto, direi che possa essere stato ispirato da un isolato, Geoffrey Hill, del nord Inghilterra, anomalo tra le duetre tendenze della contemporanea poesia inglese: «il formalismo di Hill ha una caratteristica che gli impedisce di esaurirsi in un mero esercizio letterario: esso si pone in continua tensione con i contenuti amari che cristallizza: violenza e sangue, uso e abuso del potere, guerra e morte. La forma cristallina è esorcismo e autodifesa, filtro non di rado ironico» (Oliva).

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

POESIA STRANIERA

185

Secondo Dom Silvester Houédard citato da Horovitz «la poesia jazz tende all’equazione lettore-autore». Secondo Oliva i poeti dell’underground guardano alle celebrazioni rituali (dei grandi concerti rock), ai tentativi di costruire per qualche ora o per qualche giorno, una microsocietà alternativa. C’è una ragione per cui la poesia guarda con attenzione alla musica dei giovani. Quest’ultima ha sistematicamente sfruttato la forza potenziale della parola. I testi delle canzoni si sono appropriati delle funzioni della poesia. Non hanno, è vero, detto niente di nuovo, ma hanno recuperato rime e verso, lirismo e cantabilità, surrealismo e parlata popolare; e non si vergognano nemmeno di essere scopertamente sentimentali; e tentano la protesta politica. Vedi i testi di Dylan e dei Beatles, di Donovan e dei Rolling Stones, di Cohen, dei Who, dei Procol Harum, dei Doors e via via fino ai più recenti esempi di rock operas, pastiches di qualche valore letterario... La poesia, per non lasciarsi appropriare (mi pare che in Inghilterra sia stata la poesia underground e pop a imitare la musica e non viceversa) ha cominciato a crearsi un circuito alternativo: pubs, cantine, sale di periferia, o di provincia, rivistine artigianali indipendenti agl’inizi dai canali centralizzati e tecnologizzati, ha riscoperto il poeta-attore, addirittura il bardo («i bardi fecero una cosa mirabile; fornirono letteratura agli illetterati...») (cfr. Children of Albion).

E, per concludere, sempre citando Renato Oliva: L’underground, in Inghilterra, ha avuto ben poco di sotterraneo e clandestino. Ha denunciato l’iniquità delle sovrastrutture ma non ha modificato le strutture della società che lo ha rapidamente riassorbito e neutralizzato, ed è quindi diventato a sua volta uno dei fenomeni sovrastrutturali della società borghese. (1991)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NARRATIVA, TEATRO, SAGGISTICA

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

LA TRAGEDIA SPAGNOLA

Molto interessante il libriccino recentemente pubblicato a cura della libreria Feltrinelli: La tragedia spagnola dramma in diciannove scene di Thomas Kyd (precursore degli elisabettiani) “tradotto ed elaborato” da Dacia Maraini e Enzo Siciliano. Pare scorretto il considerare il lavoro come traduzione o anche elaborazione: si tratta in realtà di una nuova versione, che si attiene all’originale inglese solo per quel che riguarda la struttura del dramma, la scelta di alcune tematiche basilari. Di traduzione non è affatto il caso di parlare: in nessun modo il testo italiano segue da vicino quel così ortodosso linguaggio metro e ritmo del linguaggio elisabettiano, anzi sembra essere intenzione dei due autori di trasformare del tutto quella lingua in parte sterile, quella atmosfera “rituale”, per trarne invece un dramma dalle caratteristiche tutte opposte: liriche e sognanti per le parti in versi (di Dacia Maraini) dure e quasi astratte nelle parti in prosa (queste però più vicine al testo in senso letterale). Piuttosto che di una traduzione o di una elaborazione sarebbe il caso di parlare invece di una reinvenzione. E nemmeno si può considerare il nuovo testo come prodotto “italianizzato” dell’originale: lo Spettro di Andrea, accompagnato dalla Vendetta si sintetizzano nella figura dell’Ombra di Andrea; alcuni personaggi secondari, quasi decorativi o funzionali nell’originale inglese, non vengono introdotti nella versione italiana, che tende a rendere solo il succo o l’essenza della problematica del dramma, tralasciandone le abitudine sceniche del periodo. Nel finale viene escluso il rituale funerale dell’eroe, con debiti commenti da parte di congiunti ed amici: e ad esso si sostituisce una misteriosa ultrascenica “voce di re” quasi simbolica. Infine a chiudere il dramma è di nuovo l’Ombra di Andrea, morto che non può riposare senza avere quasi provocato e conclusa l’azione dei vivi. Il dramma di Kyd, poi, che è scritto quasi tutto in terso verso decasillabico, viene scisso in parti parlate altre, scandite poeticamente. Notevolissimi i brani poetici assai lunghi attribuiti all’Ombra di Andrea, Jeronimo (il padre che impazzisce lucidamente per la morte del figlio), a sua moglie Isabella. Chi conosce i versi della Maraini (Crudeltà all’aria aperta, Feltrinelli) rimarrà sorpreso della subitanea rivoluzione apparentemente subita dall’autrice nell’ispirare questi lunghi monologhi in versi ai pochi spunti forniti dal Kyd. Dove Crudeltà

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

190

AMELIA ROSSELLI

all’aria aperta è tutto narcisistico, a volte brutale, non sognante e spesso crudo, è invece La tragedia spagnola estremamente sensibile, cantato, immedesimato. In Crudeltà all’aria aperta non v’è posto per la natura: nei monologhi di Isabella invece una nostalgia tutta femminile di pace e di un “naturalismo” della migliore specie trovano sbocco in versi realmente eccezionali. Nella prefazione di Enzo Siciliano si giustifica questa reinvenzione del testo originale parlando di uno «sfruttamento» e «manipolazione» del contenuto, dell’influenza che ebbe la lettura del Machiavelli sugli elisabettiani e sulla società borghese in crisi. Invece del testo italiano spicca sì quel “macchinare” cortigiano riconosciuto come tipico sia della società borghese sia del dramma elisabettiano; ma ogni machiavellismo è anzi misera scappatoia dall’insorgere delle passioni, e povero ripiego o substrato di personaggi interamente sparsi nei loro dolori, amori, nelle loro invidie e tristezze e disperazioni. Il testo italiano anzi riscopre il melodramma nella sua prima freschezza, e se il personaggio macchinoso nell’originale chiamato La Vendetta viene escluso come parte singolare, è anche perché la tematica della vendetta conscia e deliberata non entra più a far parte dell’azione: i delitti, le torture morali, i sotterfugi, le esasperazioni espresse dai personaggi (siano essi di genere eroico o malvagio) sono piuttosto manifestazione di una inabilità ad affrontare la vita che espressione di volontà di potenza o di dominio della vita. La tragedia spagnola della Maraini e di Siciliano è stata recitata al teatro Porcospino di via Belsiana: non condividiamo l’interpretazione, da parte del regista e dello scenografo, stile living theatre o anche pop. Il testo già così largamente differenziatosi dall’originale viene a perdere alcune delle sue ottime qualità letterarie: una terza “manipolazione” scenica applicata all’originale inglese sembra invece confondere le acque, e togliere all’unicità del prodotto letterario la sua originalità anche linguistica. Rimane difficile però poter suggerire quale sia la più adatta sistemazione scenica e di regia. (1967)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNO SFRENATO SUPERMASCHIO

Jarry, conosciuto in Italia più per le sue commedie (Ubu re, Ubu cornuto, Ubu incatenato ecc.) che non per il resto della sua produzione generalmente considerata “minore”, e comunque conosciuto solo dai ceti italiani più colti in quanto il suo teatro è stato finora pochissimo tradotto e rappresentato in Italia, viene oggi ripresentato in veste di romanziere dall’editore Bompiani e dal traduttore Giorgio Agamben col libro Il supermaschio (titolo originario Le surmâle, 1902). Al testo viene aggiunta una impegnativa presentazione dello stesso traduttore, posta in fine libro: questo supponiamo per lasciare al lettore anche impreparato la scelta e il diritto ad una fresca prima impressione dell’opera che tanto fresca e attuale ci sembra infatti da meritare nessuna imposizione interpretativa preparatoria alla lettura. E davvero il romanzo assale di sorpresa con i suoi contenuti scabrosi ed estremamente taglienti e ilari. La tematica principale è quella sessuale: viene descritto il progressivo svelarsi e trasformarsi di una personalità apparentemente e volutamente “media”, volutamente linfatica e salottiera, in fantascientifico e insieme molto letterario “supermaschio”, capace di inibite sfrenatezze sessuali, di prove di forza e di interessate transumanazioni. Ed è con uno spirito che può dirsi ben più che “moderno” che questa tematica viene affrontata: l’autore pur prevedendo quali sarebbero state in una eventuale società priva di inibizioni cultural-sessuali le conseguenze psicologiche e filosofiche d’un atteggiamento da supermaschio e insieme da superuomo, riesce a mantenere un distacco non solo ironico ma anche estremamente rigoroso e quasi scientifico, esprimendo inaspettatamente una ricchezza e comprensione di motivazioni emotive nell’analizzare il comportamento sia della donna sia dell’uomo “tipico” quando posti nell’insolita situazione di potere “superare i limiti umani” nella sessualità o nella tecnologia. Ciò infatti sorprende da parte di un personaggio quale Jarry noto piuttosto per una visione “assurda” e derisoria dei problemi che lo assillavano: per tutto il libro scorre una vena di tragicità filosofica che solo un’attenta lettura e una conoscenza un poco approfondita del personaggio Jarry può rilevare dietro a un linguaggio estremamente piano neutro e contemporaneamente di una comicità mai volgare.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

192

AMELIA ROSSELLI

Poco conosciuta è infatti la produzione di Alfred Jarry, nato in Bretagna nel 1873 e morto a Parigi nel 1907 dopo vita sfrenata e compromessa dall’alcol. Preferita è di solito la sua produzione teatrale in quanto più ambigua e da molti registi considerata occasione di libera interpretazione personale. Jarry in realtà scrisse altri romanzi (Messalina; L’amore in visita; L’amore assoluto; Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico) oltre a opere di poesia, appunti in forma di memoriali “almanacchi”; accompagnando spesso le sue pubblicazioni con disegni, incisioni e litografie: le sue opere complete, pubblicate in Francia nel 1948, constano di otto volumi. La commedia Ubu re venne rappresentata a Venezia nel 1945, e in altre occasioni da gruppi teatrali non ufficialmente riconosciuti; all’estero, a Praga, in Germania, e naturalmente, in Francia, il suo teatro desta meraviglia e curiosità anche se ancora mal digerito e di difficile interpretazione. A Roma nel febbraio di quest’anno una compagnia teatrale di Praga portò un suo rendimento dell’opera in lingua slava ai membri del Teatro Club, destando non poco interesse sia per l’autore sia per la particolare realizzazione a intonazione tipicamente e forse arbitrariamente “politica”. Ma è comunque da auspicarsi che questo scrittore più che bizzarro ma anche di grande significazione non solo letteraria venga tradotto al più presto e che venga approfondito il suo messaggio violento e caustico. È difficile giudicare la traduzione di Giorgio Agamben essendo non rintracciabile al momento il testo integrale in francese nelle librerie di Roma. Rimane però una impressione di una lieve goffaggine sintattica difficilmente spiegabile in quanto altri testi originari del Jarry presentano anzi una lingua scioltissima e quasi gergale. Il testo ha qua e là delle durezze che forse andrebbero attribuite piuttosto ad una nostra concezione dell’umorismo che non a quella di Jarry. Lascia dei dubbi che sulla copertina dell’edizione Bompiani si sia voluto porre l’immagine del Superman dei fumetti americani, quasi per collegare la concezione del Supermaschio (sessual-filosofica) di Jarry a quella tipicamente americana (scientista e pubblicitaria): commercialmente il ricollegarsi delle due immagini è di sicuro successo: filologicamente molto poco accettabile: storicamente è insieme stimolante e scorretto. Comunque non può essere che lodata l’iniziativa dell’editore e del traduttore-presentatore nell’aver voluto affrontare un testo così poco noto, e per la loro tempestività e finezza di scelta editoriale. Il libro benché di raffinata origine storico-letteraria e appartenente sinora nei suoi significati e nelle sue intenzioni a ristretti gruppi di intellighenzia

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

193

internazionale, essendo stato stampato in veste economica e divulgabile può dirsi non solo di sicuro successo in quanto tocca una tematica sessuale insieme allegra e di forte attrazione per il grosso pubblico, ma anche prezioso come documento di genialità “preveggente” (temi cibernetici, tecnologici) e di fine e insieme profondo umorismo. (1967)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

DOMANDE A BRUCIAPELO A UNO SCRITTORE D’AVANGUARDIA

Giordano Falzoni, nato nel 1925 da genitori lombardi, ebbe una formazione culturale piuttosto mista: compì gli studi a Firenze, ma fece in gioventù più d’un viaggio a Parigi, dove s’incontrò con André Breton e partecipò alle ricerche ed ai programmi dei surrealisti. Si laureò a Firenze in Storia dell’Arte, per poi trasferirsi a Roma nel 1950, dove da allora vive stabilmente, lavorando come traduttore, scrittore e pittore. E infatti la sua attività è multiforme; nello scrivere si dedica in particolare modo al teatro e alla regia, campi in cui l’ansia di liberazione dagli schemi astratti o convenzionali della letteratura più facilmente si trasfigura tramite uno sperimentalismo di marca francese e anche americana. Nel 1965 Rizzoli pubblicò il suo libro Teatro da camera; ma già le sue brevi commedie venivano rappresentate da gruppi isolati di attori, o sotto l’auspicio del Gruppo 63 e dei Novissimi e a volte anche tramite la sua propria iniziativa come organizzatore o regista (Gruppo Act a Roma e Palermo; Gruppo Once negli Stati Uniti). La sua attività di pittore, per il momento più limitata, nacque anch’essa sotto gli auspici di gruppi organizzati (in questo caso vedere la presentazione di Breton delle sue due mostre, una a Roma nel 1951, l’altra a Parigi nel 1954). Egli tuttora rimase molto legato alla scuola surrealista, di cui sta traducendo in Italia i testi fondamentali; è, inoltre, membro del Gruppo 63 sin dalla sua fondazione, e assai attivo nel propagare manifesti letterari umoristici e no, sia durante le sedute annuali del Gruppo 63, sia in forma scherzosa e privata. Ma poiché dalla sua attività siamo rimasti in certo modo colpiti, forse per la sua irruenza e singolarità (in Italia il surrealismo non ha mai preso piede nella sua originaria formulazione, ma ora, dopo tanti anni, viene dibattuto e “modernizzato”) vorremmo discutere un poco più a lungo sia del suo libro sia della sua attività in generale, di cui poca parte è nota al grande pubblico, anche perché dei suoi testi (brevissimi atti unici con umoristiche annotazioni preposte e postposte) solo una parte circola in forma stampata. Vorremmo anzi porre all’autore e pittore alcune domande, alle quali vorremmo un giorno vedere l’autore stesso dare risposta, o comunque vorremmo servissero non soltanto da introduzione ad una comprensione del suo operato, ma anche da soggetto per dibattito, in

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

196

AMELIA ROSSELLI

quanto i temi toccati dalle domande non si riferiscono soltanto agli scritti e ai quadri del Falzoni, ma richiamano alla mente problemi che in un certo qual modo vengono scartati o messi da parte dai letterati e dai critici, che forse li considerano non urgenti oppure troppo impegnativi per una discussione che invece noi vorremmo “di fondo”. Vorremmo domandare fino a che punto il rapporto del Falzoni con Breton e con il surrealismo parigino è stato determinante: intendendo chiedere se fu il movimento surrealista e la sua poetica e i suoi proponimenti anche sul piano non strettamente artistico a portare il Falzoni non solo a scrivere e dipingere ma anche a suggerirgli un tipo di vita molto diversa da quella che l’autore avrebbe scelto se non avesse avuto questo rapporto? Spesso è l’analisi psicologica (o freudiana o junghiana o d’altra scuola) a far mutare non solo tipo di vita, ma anche atteggiamento verso la vita: nel caso di Falzoni nel periodo 1945-46 (primo viaggio a Parigi) la permanenza in Italia può infatti aver servito come iniziazione a una problematica che in fondo i surrealisti intuirono soprattutto tramite la lettura di Freud. Nei due diversi campi della sua presenza espressiva l’autore non mostra una unitarietà di posizione: in pittura egli ancora segue un’impostazione kleeiana, con contaminazioni di genere art brut, e anche naïf: le correnti più moderne o contemporanee della pittura non sembrano influenzarlo; invece nello scrivere l’autore è molto chiaramente toccato dall’ultimo teatro francese (Beckett, Ionesco) e da quello americano d’avanguardia (Living Theatre ecc.) anche se in fondo ne capovolge del tutto la poetica (là dove il teatro francese è tetro e pessimista il Falzoni insiste non su motivi d’angoscia, ma su quelli giocondi, aerei, innocenti; là dove il teatro francese e anche quello americano protesta contro l’assurdo e lo pone in causa l’autore l’accetta quasi teneramente). Come spiega il Falzoni questa non unitarietà del suo lavoro nei due campi diversi? Facilmente si scorge nella produzione del Falzoni, e particolarmente nel suo libro Teatro da camera un atteggiamento, e anche una scrittura, semplificatorio, nell’accezione più positiva della parola. La sua lingua è piana, senza ingorghi e senza ironie, e i suoi significati vanno compresi come “dati”, come ovvii, e in fondo non impongono alcuno sforzo interpretativo al lettore o al pubblico in teatro: non vi è una pluralità di significati possibili nel suo dialogo, né è riducibile la sua teatralità ad un’unica interpretazione. Né, d’altro canto, si può parlare d’un fraseggiare ambiguo: la frase rimane quella che era in origine nella vita di ogni giorno: un dato, poeticissimo, né tragico né da deridersi né da glorificarsi. In questa semplicità sia linguistica sia di contenuto in qualche modo soltanto “specchiato” (molto umanamente, accettandone anche le

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NARRATIVA, TEATRO, SAGGISTICA

197

implicazioni emotive) è forse da ritrovarsi una sorta di nuovo populismo: le opere teatrali dell’autore sono realizzabili con un minimo di mezzi, una quasi completa libertà è lasciata ai registi eventuali e anche agli scenografi; il dialogo è adatto, proprio per quella sua semplicità e ovvietà, ad ogni tipo di pubblico, e non presuppone una cultura specifica né teatrale né letteraria. Però permane nel populismo del Falzoni una sorta di neutralità che non porta ad alcun impegno politico o filosofico; al massimo in alcune note, introduzioni, poscritti è evidente una gaia presa in giro quasi ammirativa della rettorica burocratica e anche letteraria: questo per spogliare ancora di più il testo di allusioni semantiche. Nello scrivere questi testi l’autore era conscio di una loro possibile divulgazione in teatri o teatrini diversi da quelli tipicamente intellettuali, di una possibile divulgazione dei suoi testi in ambienti anche popolari? O non è forse questa mia interpretazione un soggettivo travisamento delle intenzioni originarie dell’autore? Egli accetterebbe simile diversa interpretazione, con le sue eventuali conseguenze? La poetica surrealista e quella beat, dalle quali il Falzoni è stato molto influenzato, suggeriscono che non solo tramite l’arte è possibile un operare nella realtà, e un trasformarla. Spingono ambedue ad un qualsiasi tipo d’azione che coincida con i dettami tecnici e parafilosofici delle due scuole: quali sono i tipi d’azione che l’autore si prefigge (fuori dall’arte e dalle sue rappresentazioni), cioè in quale maniera specifica l’autore spera di poter agire sulla realtà oltre che tramite lo strumento “arte”? Sinora, per esempio, l’autore ha escluso un’attività strettamente politica (iscrizione ad un partito ecc.); questo escluderla si riconnette ad un suo atteggiamento “rispecchiante” o quasi passivo riscontrabile nei suoi scritti e anche nel suo dipingere, oppure è dovuto ad altre motivazioni ben precisate? Il tradurre in vita vissuta le scoperte e le finezze dell’arte è stato uno dei dettami del surrealismo; in qual modo l’autore si propone di tradurre la sua arte (e perciò la sua “persona”) in azione? A queste domande spesso non riceviamo risposta, e spesso gli scrittori e artisti in genere sembrano accontentarsi d’un loro operare tramite i mezzi riservati all’arte (stampa, mostre, teatro, ecc.) senza troppo porsi il problema della divulgabilità sia delle loro opere sia delle loro idee. Speriamo che invece con queste poche parole si risvegli non solo un dibattito della questione, ma anche un più proficuo operare da parte degli autori su vari piani. (1967)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GUIDERANNO GLI ASTRONAUTI PER TELEPATIA?

Molto diverso è questo libro sulla metapsichica, così come è stata metodicamente studiata in Russia negli ultimi cento anni, dai vari altri testi anche recentemente apparsi in Italia, in cui questo campo viene considerato piuttosto come un agglomerato di fatti inspiegabili e perciò utilizzatissimi nel tentare di dare prova dell’esistenza di una universale “magia”, in cui veggenza, lettura del pensiero, sogni premonitori, sdoppiamenti non possono essere compresi altro che come segnalazioni di una nostra quarta dimensione, di una nostra latente e sviluppabile atemporalità portante ad una rinata primitiva religiosità dinanzi all’ignoto. Il punto di vista di Leonid Vasiliev, scienziato russo e capo dell’Istituto del Cervello di Leningrado, è diametralmente opposto. Egli non concede alcunché alla nostra facile fantasia bisognosa di conforto, ed esamina ogni episodio di chiaroveggenza e di percezione extrasensoriale con l’acume e le armi dello scienziato: nel libro Metapsichica e scienza sovietica una buona metà del testo è dedicata all’ipnotismo; l’altra metà alla fenomenologia della suggestione, della premonizione e della telepatia. La razionalizzazione dell’inchiesta è totale e i dati (sogni: studi iniziati in ogni parte del mondo, sin dal Settecento: impostazione pavloviana e comunque storico-determinista) vengono analizzati con una pignoleria e un rigore che possono ben portare il lettore non precedentemente incuriosito dalla materia ad un leggero senso di noia. Ma troppo facile è oggi l’incantarsi di altri testi quali Universo proibito (Sugar, 1966) in cui gli stessi dati e gli stessi enigmi vengono invece presentati piuttosto per ragioni commerciali e per stuzzicare una moda che ha del resto già fatto tante vittime in tutto il mondo, specie tra il pubblico femminile. Vasiliev con il suo atteggiamento del tutto scettico e a-religioso, col suo attribuire ogni manifestazione insolita del pensiero e del sogno e del corpo a impulsi della corteccia cerebrale (sede della psiche), col suo ridurre le “invasioni” buddistiche e dei primi cristiani a processi inibitori del sistema nervoso centrale e ad autosuggestione, distrugge d’un colpo ogni illusione sulla reale obiettività delle capacità magiche. Benché nel libro venga escluso, secondo noi a torto, ogni riferimento a teorie psicoanalitiche occidentali (la tesi degli psicologi più informati è che nel caso per esempio della chiaroveggenza vi sia semplicemente

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

200

AMELIA ROSSELLI

una capacità particolare non alla lettura dell’inconscio del soggetto, comunque portatore almeno in parte del proprio futuro e presente sotto forma di immagini) l’accanimento del suo autore contro ogni atteggiamento puramente spiritualistico è netto e giustificabile e le sue conclusioni, impostate scientificamente, portano inevitabilmente a conseguenze molto più pratiche che non il nostro considerare gli stessi fenomeni sinora mal studiati, con occhio forse troppo interessato. Tra poco verrà applicata in Russia la tecnica della trasmissione del pensiero (frutto di nostri impulsi scientificamente definiti “ideomotori”) al campo della ricerca spaziale: invece che tramite complessissimi strumenti di bordo sarà telepaticamente che verranno diretti gli astronauti e i sommergibili. La grande anima mistica russa non è più: gli ultimi resti di una superstizione difficile a sradicare vengono con questo libro spazzati via e metodicamente trasformati in ricchezza a patrimonio teorico-culturale controllato e comprovato. (1968)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

IL COLTIVATORE DEL MARYLAND

Una via di mezzo tra il racconto di avventure e la satira scritto con intenzioni semiserie, fluttuante nel definirsi, tra i generi “allegoria morale” e “farsa” – più o meno è così che va descritto il libro Il coltivatore del Maryland di John Barth (Rizzoli, 1968, lire 5200, pp. 1025). Negli Stati Uniti questo volume di 1000 pagine ha portato fortuna e successo al suo autore nel 1960, e già qui in Italia minaccia la fama di best seller. Ma a noi pare piuttosto che il pubblico si sia lasciato impressionare non soltanto dalla reputazione dell’autore all’estero (Barth è considerato fra i due o tre migliori romanzieri americani), ma anche dalla “grossezza” del suo romanzo; grossezza uguale “grandezza”, sembra essere stato il pensiero del compratore, e invero v’è qualcosa di calcolato da parte dell’autore nel presentare un testo così gigantesco al pubblico medio: quasi avesse voluto crearsi una sua speciale e privata Divina commedia, il suo capolavoro stravolto, giudicando (evidentemente l’autore non fa fatica a scrivere) che “o la va o la spacca”, sul piano commerciale. Il testo, sotto questa veste di romanzo pseudo-storico, e d’incrocio imitativo del Tom Jones con il Don Chisciotte, altro non è in realtà che una specie di autobiografia fantastica, smossa sul piano della neutra descrizione di personaggi e di situazioni in genere abbastanza avvilenti. Al suo inizio il libro apre anzi quasi possentemente, e sorprende per l’agilità dello stile e per l’originalità della tematica: personaggio centrale è non un eroe d’armi o di favella, ma un poetastro mediocre in tutto: nel suo raro e banalissimo poetare, nel suo perenne infantilismo, nel suo disquisire a vuoto, nella sua pigrizia e generale tontaggine: e qua ben colta è la generale attitudine (o mancanza d’attitudine) dell’uomo cosiddetto di lettere, che sostituisce a un’aggressiva presa di coscienza della realtà, amabili o meno amabili versi e passatempi. Ma purtroppo aver scelto per eroe l’artista tipicamente mediocre, e il continuare a descrivere le sue disgrazie e ingenuità per ben 1000 pagine, non ha giovato al racconto: ben presto il lettore perde interesse a un personaggio in fondo così poco significante, e del resto alle avventure dell’eroe e ai significati che si supporrebbero da cogliersi o meno da così dettagliato resoconto di un ambiente e di una vita nulla aggiunge o riesce ad aggiungere l’autore: alla sua chiusura, ammesso che il let-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

202

AMELIA ROSSELLI

tore abbia avuto tempo e fantasia di seguire sul piano infatti soltanto fantasioso e per curiosità storica l’ammucchiarsi dei piccoli eventi londinesi e americani del Settecento-Ottocento, il libro lascia il suo lettore “vergine” di ogni deduzione sintetica da farsi a premio di tanta costanza. Al massimo potrebbe dedursi che l’autore abbia voluto gentilmente prendere in giro se stesso e gli artisti in generale, insomma recitare una sorta di mea culpa in chiave farsesca e in abiti settecenteschi per meglio camuffarne l’ovvietà. E si sa che al pubblico benpensante è sempre piaciuto sentire deridere artisti e letterati, commiserarne l’inadattabilità, l’incapacità pratica, farne figure mediocri e ridicole, proprio così come ha preferito l’autore. E da questo accordo tra visione (o autocritica) dell’autore e pubblico un poco inviperito è nato il best seller degli anni sessanta. Vorremmo ricordare però che John Barth ha al suo attivo lavori in stile di brevi romanzi o serie di racconti assai più originali: anzi il romanzo Fine della strada (anch’esso tradotto da Rizzoli) benché di sole 180-200 pagine e scritto con minori pretese e senza rifacimenti letterari storici, è secondo noi da considerarsi romanzo intelligente e pungente, e più difficile a scriversi per la sua tematica ben sviluppata, che non questo suo abile ma elefantesco chef-d’oeuvre. (1969)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SCRITTORE DI NASCOSTO

L’intelligenza non mancò mai a Roberto Bazlen, di cui la casa editrice Adelphi ha da pochi mesi dato saggio delle sue Lettere editoriali (1968) presentate da Sergio Solmi in forma discretissima e rispettosa, ad onore d’un uomo che durante la vita evita in ogni modo di pubblicare temendo pubblicità e conseguente autocompiacimento. Perché infatti Roberto Bazlen, detto Bobi dagli amici, pur dedicando la sua vita e il suo lavoro all’impegno culturale del mestiere di consulenza editoriale (lavorava per la Einaudi, poi per la Adelphi, di cui fu uno dei creatori, ciò almeno in senso ideologico), in segreto scriveva ed aveva anche per questo ancor più fortemente sviluppato le opinioni che in questo elegante libretto vengono presentate. Le lettere, scritte per motivi professionali di consiglio, appoggio, e chiarimento di ideologia critico-editoriale, assumono un tono spigliato e franco, e anche intimo, e non sono soltanto informazione distaccata o obiettiva, ad uso d’editore. Il tono delle lettere ricorda lo stesso tono usato modestamente ma con sferzature molto “opiniatre”, da Bobi con i suoi amici, di cui egli era a volte preziosa guida di coscienza pur senza darsene le arie o avendone la pretesa. Molti sono stati i giovani, oggi adulti per merito anche del Bazlen, che ricordano le lotte intellettuali sostenute con lui nella conversazione, e di come in senso del tutto positivo egli guidasse e appoggiasse le loro intelligenze troppo solitarie, con una dedizione assolutamente eccezionale. Identica è la dedizione espressa in queste lettere invece professionali: e colpisce anche la scelta delle “scelte” dei suggerimenti: a rivedere oggi quali furono gli autori proposti dal Bazlen, e con quale sottile democrazia egli proponesse autori notissimi all’estero quanto quelli ignoti, e di come abbia profeticamente previsto nella critica e nei suggerimenti, alcuni futuri successi editoriali, fa centro soprattutto questa sua abilità a distaccarsi dall’opinione comune, dalla, anche se intellettualissima, banale o poco autentica informazione letteraria. Pungenti sono tutti i suoi ritratti d’autore, e allo stesso tempo s’infiltra una umanità inaspettatamente umoristica davvero autentica, nel discutere dei libri e dei loro creatori o personaggi. Georges Bataille, Maurice Blanchot, John Cage, Paul Goodman, Robert Musil, Alain Robbe-Grillet sono tra gli autori proposti, già co-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

204

AMELIA ROSSELLI

nosciuti all’estero; ed un interessante, foltissimo numero di autori invece non ancora marchiati dalla fama vengono analizzati, senza snobismi e con cultura inusuale per gli anni 1950-65 che, grosso modo, vengono coperti da queste lettere. Questa inusualità pensiamo sia dovuta al fatto che il Bazlen era per metà triestino, e svizzero tedesco nell’altra, e che perciò egli conoscesse le lingue meglio di ogni altro avendo anche molto viaggiato e analizzato civiltà culturali contemporanee in modo anche un poco particolare data la sua non del tutto precisa appartenenza a una società o all’altra. Che poi il tono così acutamente analitico da sferzante a volte si tramuti nel libro in esasperazione di particolare specie è fatto che non può venir negato: ma pensiamo che questo suo, per esempio, leggero disprezzo della mentalità italiana, che a lui appariva carnale o senza spirito o capacità di sublimazione oltre che inconscia – cioè a volte rozza e banale – sia dovuta anche all’isolamento in cui viveva l’autore; un isolamento pesante anche se voluto da lui. Dunque per pudore o ritegno o altre particolari ragioni il Bobi non desiderava pubblicare i propri scritti in vita; ora la casa editrice Adelphi intende stampare, fra un anno, i seguenti scritti: quaderni di appunti, poesie, frammento di romanzo. Non soltanto gli amici attendono impazientemente che escano questi testi: tutto un pubblico è bene che ne riconosca e conosca i particolari ed anche educativi valori. (1969)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

MA È POI POSSIBILE “EDUCARE AL SESSO”?

Uno svilupperebbe una vera e propria sessuofobia a leggere il testo Educare al sesso (di Borghi, Carbonaro, Ada Marchesini Gobetti, Musatti, a cura di Mariadele Crocioni, La Nuova Italia) tanto è assurdamente noioso e pedante nel trattare una materia che ormai vien considerata abbastanza “allegra”. Causa principale di questo senso di noia e tedio è certamente il fatto che la Nuova Italia ha considerato la materia trattata nel libro come ottimo terreno su cui piantonare una specie di bandiera commercialmente ineccepibile: il titolo stesso del libro (Educare al sesso) chiama il pubblico medio a gran letteroni rossi (come se fosse poi possibile “educare” al sesso): il quale impreparato, conoscendo poco o nulla dei testi psicoanalitici e sociologici stampati e ristampati dai migliori editori italiani, s’aspetta chi sa quale rivelazione da questo libro più o meno paperback, più o meno economico (1000 lire). E purtroppo forte sarà la sua delusione: è chiaro che il testo è stato compilato alla svelta, cucendo insieme quattro diversi testi (pedagogici; sociologici; educativi e politici; psicologici) che perfino ad attenta lettura non fanno altro che riproporre e ridiscutere temi identici tra di loro, dando “soluzioni” non soltanto tutte eguali, ma, quel che è peggio, parecchio paternalistiche e antiquate. Non che poi le intenzioni dei quattro autori, presi singolarmente, non fossero state buone nella premessa e infatti anche nei “risultati”: è il presentare come libro a sé un 150 pagine di relazioni lette ad un congresso del “Comitato per l’affermazione dei diritti della donna” che è editorialmente poco onesto e scientificamente un po’ inutile. E poi, se a quanto pare il curatore del testo pensava che nel presentare relazioni un po’ generiche al pubblico egli realmente creava un testobase per il lettore medio, anche in questo non possiamo che dissentire: linguisticamente le quattro relazioni sono pesanti e involute; ideologicamente i problemi pedagogici menzionati sono noti a tutti ormai; ed a chi non fossero noti occorrerebbe un testo linguisticamente ben più semplice e limpido che non questo. Però resistendo al senso di ripetitiva monotonia che nasce dalla lettura di questo lavoro ad intonazione soprattutto sociologica, è vero che alcune informazioni e alcuni commenti risultano interessanti e in

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

206

AMELIA ROSSELLI

un certo qual modo riassuntivi. Specialmente nel testo di Borghi, e in quello di Carbonaro, una lettura sistematica dà frutti. Ma che vi sia anche un pizzico di conformismo ottocentesco nei testi presi nel loro insieme è anche vero: ogni conclusione, ogni informazione, viene utilizzata al fine di meglio guidare l’eventuale lettore adulto o adolescente a un pacifico adattarsi a regole e dettami sociali preesistenti: grosso modo l’unica critica un po’ polemica nel confronto dello status quo sociale sembra essere quella ai nidi d’infanzia, alle scuole materne, all’educazione scolastica in genere, specie a quella religiosa. Cioè si ricorda al lettore che nelle nostre scuole è completamente mancante una educazione sessuale, e che l’organismo familiare di oggi, benché rafforzato dalla presente situazione economica del paese, è meno capace e meno autorizzato ad una educazione di tipo patriarcale, per quanto riguarda la vita sessuale dei figli. Ciò è senz’altro vero e giusto: ma invece di questo libro raccomodato alla svelta per evidenti fini commerciali, non sarebbe meglio suggerire al lettore anche medio dei testi ben più interessanti quali per esempio Sociologia del sesso di Luigi De Marchi (Laterza, 1963) oppure Sessualità e lotta di classe di Reimut Reiche (Laterza, 1969)? Linguisticamente scorrevoli e ideologicamente originali e coraggiosi, questi testi, eventualmente accompagnati da testi piscoanalitici pedagogici o antropologici (vedere gli editori Astrolabio; Einaudi; Ubaldini; C.E. Giunti-G. Barbera Universitaria; vedere anche i tanti testi di divulgazione su temi psicoanalitici) servono assai più che non questo appiccicare relazioni congressuali insieme, in modo di per sempre allontanare l’incuriosito lettore da un interesse per una materia e per un problema ovviamente scottante e ovviamente assai importante. (1969)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

FERLINGHETTI E L’AMERICA SOTTERRANEA

In Italia, dal 1960 in poi, abbiamo avuto come una infatuazione per gli scrittori beat, la quale però è giusto dire che venne come preparata e assicurata, subito dopo la guerra, da un forte interessamento per le letture americane in genere. Furono Vittorini, Pavese ed alcuni altri a imporre la scioltezza culturale di una quasi ufficiale letteratura americana – traducendone i migliori testi nel tentativo di rompere con un certo tipo di pedanteria culturale nato anche dalla nostra situazione chiusa ad influenze straniere durante tutto il ventennio fascista. Che questo interessamento abbia preso in questo decennio pieghe un poco ingenuamente ammirative, è vero: antologie compilate in fretta, remore scolastiche che propugnano come unica soluzione stilisticocivile le gesta e i testi della scuola di San Francisco e di New York; esclusione da antologie e dai programmi editoriali di scrittori americani non tipicamente beat, non tipicamente protestatari e via dicendo. Utilissime sono state però le antologie a rinnovarci i temi e gli atteggiamenti; pigro però l’ambiente letterario di oggi, nel tentare una assimilazione critica dei nuovi autori americani, nel distinguersi da questi fratelli così precipitosamente consigliati ad esempio. E, tra le tante ragioni per cui ancora i giovanissimi credono d’ultima verità le scuole underground americane (ormai non tanto “sottosuolo” in quanto parecchi autori hanno poi trovato sistemazione più commerciale), vi è quella del semplice fatto che alcuni dei rappresentanti più in vista sono di lontana origine italiana (Corso, Ferlinghetti, Sorrentino, Lamantia) e rimescolano, del sangue dei nostri letterati, antiche speranze di scambi culturali editoriali e finanziari. Qui intendiamo parlare di uno di questi autori beat, d’origine lontanamente europea e considerato subito dopo Ginsberg, Burroughs, e il defunto Kerouac, caposcuola e ottimo scrittore e organizzatore di librerie e movimenti per la pace e case editrici a formato ridotto. Di Lawrence Ferlinghetti trattiamo in quanto proprio in questi mesi è uscita la difficile (ma piuttosto approssimativa) traduzione del suo unico romanzo Lei, scritto nel 1958, e considerato fra i tanti suoi scritti doppiamente interessante, proprio perché unico romanzo di un poeta (Einaudi, traduzione di Floriana Bossi, 1970). Ma in realtà è in molte direzioni che il linguaggio del Ferlinghetti si sposta: i primi testi sono del 1955: Quadri di un mondo andato – poesie;

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

208

AMELIA ROSSELLI

del 1958 il notissimo poema Coney Island della mente; del 1958 anche Un tentativo di descrizione del pranzo dato per promuovere la denuncia del presidente Eisenhower; del 1960 la stampa del romanzo-delirio Lei (New Directions, New York); del 1961 il Mille parole spaventose per Fidel Castro e Cominciando da San Francisco; così anche Il significato segreto delle cose a Berlino, le commedie Una ingiusta polemica con l’esistenza sono del 1963; Routines, commedie brevissime, sono del 1964 (ulteriori notizie bibliografiche non ci è stato possibile rintracciare; alcuni dei testi sopra menzionati non superano le trenta pagine, altri sono di normale lunghezza; la maggior parte dei testi sono poetici). In Italia è più facile trovare gli scritti di Ferlinghetti nelle antologie e nelle riviste letterarie, che non stampati per intero; comunque ultimamente Guanda pubblicò Coney Island della mente e il compendio delle commedie Tremila formiche rosse: l’autore ne ottenne riconoscimento su piano europeo, con la premiazione Etna-Taormina del 1968. Oggi Einaudi propone il romanzo Lei: di cui possiamo al dunque dire poche parole, se non vogliamo entrare in conflitto troppo personale con scuole e tendenze. Abilissimo e virtuosistico l’uso di un linguaggio in origine strettamente poetico (densità “incrociate” delle immagini; sottile sapienza fonica; ritmi frenetici e calcolati); il testo scorre e sorprende anche – in un poeta noto piuttosto per una turbolenta visione del mondo – il controllo vero del linguaggio. Libro sì delirante, ma volontariamente delirante e non perciò legato a schemi d’origine surrealista con i loro automatismi, il loro pescare dall’inconscio rapporti intra-immaginifici tra frasi e parole. Piuttosto un delirio talmente calcolato va attribuito a un’influenza direttamente joyciana, in ispecie per ciò che nel lontano 1921 Joyce risolveva nel suo ultimo capitolo di Ulisse (introiezione di linguaggio pensato e non scritto o parlato; ritmi accelerati di un pensiero che non conosce gli spazi vuoti rappresentati solitamente da virgole, punti e virgole ecc.; tematiche intimamente sessuali concrete). Ma è anche da Ezra Pound e da Henry Miller e perfino da Majakovskij (per la metrica) che il Ferlinghetti prende sul piano tecnico; e unico vero difetto a questo “prendere” tipico di tutta la generazione beat è la non ammissione delle fonti, del resto facilmente riscontrabili nel collegare origini di movimenti e di scuole. È come se, in un clima culturale statunitense ancora assai provinciale malgrado l’alto grado di diffusione dei libri, si preferisse far credere che il “gioco” e le innovazioni tecniche fossero strettamente americane: è come se un certo tipo di nazionalismo rinato offuscasse un po’ il senso di origine di certi temi e di certe letterature.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NARRATIVA, TEATRO, SAGGISTICA

209

Riportiamo qui la divertente nota biografica del Ferlinghetti, spesso riprodotta e tradotta – e tipica e interessante proprio in quanto riflette l’atteggiamento spirituale di tutta una generazione americana (anzi precisiamo che il Ferlinghetti ha forse avuto più occasione d’avvicinarsi all’Europa che non i Corso, i Kerouac, i Ginsberg, proprio in quanto ha vissuto in Francia, attivo nella Resistenza francese, laureato, negli intervalli di tempo, alla Sorbonne: il suo viaggiare lo ha reso più scaltro: ma non per questo la sua visione politica riesce di molto a superare i limiti di una educazione americana nella quale non vi è più posto per studi marxisti e impegni politici più concreti che non quelli anche francamente protestatari): Probabilmente nacque a New York verso il 1919 o giù di lì. Pare sia stato trasportato in Francia in fasce, vide le montagne bianche dell’Alsazia da un balcone, e tornò quindi negli Stati Uniti dopo, per distinguersi nelle scuole superiori per le sue straordinarie imprese nell’arte della flatulenza. Dopo di che la sua biografia non è troppo chiara. Pare tornasse in Francia durante la seconda guerra mondiale e che avesse rapporti clandestini con la Francia libera e con i partigiani norvegesi. Dopo la guerra forse ha scritto due romanzi non pubblicabili e una tesi di dottorato alla Sorbonne che avrebbe dovuto portare il titolo Histoire du pissoir dans la poèsie moderne. Pare abbastanza certo che arrivasse a San Francisco per via terra intorno al 1951, mettesse su una libreria e cominciasse a pubblicare la collana dei poeti tascabili… (1970)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SE IL CANTAUTORE SCRIVE

Di Leonard Cohen sono usciti sinora negli Stati Uniti ben sette libri tra cui due raccolte di poesie, ed egli ha fama di cantautore, che oltrepassa i confini del suo paese. Come scrittore è soltanto ora che viene reclamizzato in Europa benché fosse già uscito nel 1972 un suo romanzo intitolato Belli e perdenti, considerato uno dei migliori del dopoguerra americano. Ci attendevamo dunque qualcosa di più della solita opera commerciale (la scelta dei romanzi da tradurre in Italia viene effettuata sulla base del successo di vendite o meno del paese di origine). L’autore – musicista, poeta e romanziere – forse avrebbe travolto i limiti dello stile scolastico-tradizionale dell’élite europeizzata (i cosiddetti scrittori ortodossi), e contemporaneamente anche quelli della scuola beat americana, sperimentale fino a un certo punto, ma scucita nei contenuti… E invece il romanzo Il gioco favorito, benché dedicato a un pubblico medio, ha i difetti sia del romanzo d’aspirazioni strettamente letterarie, sia di quello più commerciale. I suoi temi stereotipati (famiglia benestante di ambiente ebraico; ricordi di infanzia e prime esperienze sessuali; primo anno di università; relazioni con diverse donne; dialogo con il migliore amico; vago clima di scurrilità e ribellione negli anni post-puberali; arrivo nella grande metropoli) vengono trattati con leggerezza e mediante tecniche grosso modo impressionistiche, in cui lo sforzo narrativo è minimo e il lampo di memoria è tutto. Qua e là affiorano pagine d’indubbia bellezza descrittiva; interessante anche la problematica religiosa (ebraica), però appena sfiorata. Ciò fa supporre che il Cohen se volesse potrebbe benissimo fornire opera originale e profonda; ma queste poche pagine sono scritte come per caso, e subito l’autore torna a più normali formule narrative, a temi sicuri, già catalogati. Ne viene fuori un romanzo confessionale e teatrale quel tanto da poter dire dell’autore che egli è un ribelle. A cosa si ribelli non è specificato: il Cohen mira a essere in pur dando mostra di essere out. Mira ad attrarre un pubblico giovanile sognatore e scontento, e allo stesso tempo a rassicurare con qualche guizzo tecnico l’ambiente letterario più ufficiale. Aggiunge alcuni melensi frammenti di poesie al testo,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

212

AMELIA ROSSELLI

che poco danno da sperare per la raccolta preannunciata dall’editore Rizzoli per l’autunno. Il gioco favorito è del lontano 1963. Varrebbe forse la pena scorrere gli altri romanzi non ancora tradotti: La scatola di spezie del mondo del 1961, Fiori per Hitler del 1964, Parassiti dei cieli del 1966. Questo per chiarire la propria impressione: dall’unico romanzo quest’anno sottoposto alla nostra attenzione dall’editore Longanesi non possiamo trarre altro giudizio se non quello che si tratta di un’abile messa in scena stilistica, e d’un banale impianto narrativo. Aggiungiamo a titolo d’informazione che l’autore è nato a Montreal nel 1934. Concludiamo riasserendo che il suo talento letterario è indubbio, ma manipolato in vista d’una facile digeribilità. (1975)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

GLI SBERLEFFI DI BURROUGHS

Brevi racconti stile neocapitalistico (una trentina), che non sai se ridere o piangere: ecco la “forma” del libro Johnny 23 di William Burroughs, autore di grido nato a St. Louis nel 1914 da una famiglia d’alta borghesia, laurea in Letteratura inglese ad Harvard, viaggi in Europa, studi di medicina a Vienna, quindici anni di esperienze con ogni genere di droga. Alcuni diversi stili rintracciabili in questi racconti (alcuni brevissimi, altri “sentiti”) fanno supporre che il libro stia stato messo su alla meglio semplicemente raccogliendo fogli sparsi o scritti in diversi periodi, in un unico libro non uniformemente impostato. Per tre quarti si tratta di abbastanza divertenti prese in giro di film o testi di fantascienza (personaggio ricorrente è lo scientologo) e a volte si sospetta che vi sia anche una parodia tecnicamente assai sottile degli stili e usi della Nouvelle Vague, dell’École du Regard, del decadentismo postbellico europeo (Genet, Céline). Quest’ultima impressione non è netta: perfino Camus, Hemingway, manuali Zen, il surrealismo alla Buñuel paiono ricalcati o ricordati come “genere”. Non sempre però il lettore si diverte: s’insinua il dubbio che, a parte gli ovvii collages composti di immagini tratte dai film western e pseudoscientifici, una parte dei racconti sia inconsciamente influenzata da correnti e mode letterarie, e non miri a divertire. Manca la serietà del pastiche sistematico dell’Ulisse di Joyce, che però è l’autore che ovviamente ha suggerito l’idea compositiva di fondo di Johnny 23 (così come per altri libri del Burroughs). L’umorismo smaccato di molti racconti non viene confermato in alcuni di genere soggettivo e chiaramente autobiografico, benché la tecnica di missage sia identica. Molto riusciti i brevissimi racconti pseudo soggetto cinematografico: notevole l’abilità tecnica del linguaggio e il ritmo così duramente neutro (vedi frasi come «La cinepresa prosegue incidendo la colonna sonora attraverso lavatoi e toelette»: «ogni linguaggio ha una cadenza o un ritmo particolari che si possono ridurre a una partitura musicale neutra»); in altri racconti lo scivolamento nel più tipico gergo hippy e off-Broadway o pseudo Genet dà risultati più ingenui e correnti. Si tratta di un’avanguardia in un certo senso un po’ castrata: l’attacco distruttivo al sistema che pare essere motivo dominante, risulta

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

214

AMELIA ROSSELLI

fiacco proprio perché l’autore non sceglie con chiarezza il suo binario o francamente umorista, o decisamente rinunciatario, o più dichiaratamente neutro. L’incertezza di interpretazione non è voluta dall’autore, e lo stile collage o pop di gran parte dei pseudo soggetti cinematografici non convince quando vengono toccati temi non soltanto biografici, ma evidentemente, sessuali o politico-letterari. Libro dunque non coraggioso, ma più che curioso divertente da sfogliare. L’ironia è di solito ben controllata anche se la sarcastica critica ai modi e usi dell’America del consumismo non riesce a comprenderne l’autore di cui la presenza qua e là ingombra addirittura in senso romantico le scene di questo libro. (1975)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

LEMBI DI PARADISO PER SCOTT E ZELDA

Lembi di paradiso interessa non solo in quanto raccoglie i racconti meno noti di Francis Scott Fitzgerald, ma anche perché nella raccolta di pezzi brevi pubblicati su settimanali di moda e d’élite, vengono inclusi dieci racconti della moglie Zelda, sinora conosciuta soltanto come protagonista di Tenera è la notte, e ricordata come ispiratrice di suo marito. Nei racconti del marito vi sono le tracce e gli spunti formativi dei futuri romanzi, e perciò non tutti vennero pubblicati nel periodo del suo maggior successo (1920-40): lo stile limpido, elegante e poco travagliato è riconoscibile, anche se meno sorvegliato e con tematiche forse scelte in vista della programmazione tipica dei settimanali presso cui il Fitzgerald arrivò a guadagnare somme assai forti (dai 400 ai 4000 dollari per racconto). Il suo lavoro perciò si struttura in modo a volte un poco ovvio, ma riesce ad eludere per esempio il tipico finale a lieto fine che le riviste “Esquire”, “Saturday Evening Post” e “College Humour” avrebbero voluto imporre. I racconti di Zelda Sayre Fitzgerald riescono anch’essi a volte sorprendenti, benché la tematica sia in parte simile a quella del marito. La vita condotta in apparente spensieratezza negli Stati Uniti e in Europa formò in ambedue un’impostazione débonnaire, alla moda, elegantemente tragica. Ma la sua strutturazione narrativa e linguistica è drasticamente diversa. V’è un sovrappiù d’immagini assai disparate e intense, che fa indovinare una vocazione piuttosto di poetessa che di narratrice. La coloritura emotiva è assai più disillusa di quanto non lo sia quella del marito, più abile e adattato ai vari ambienti descritti. V’è un rifiuto, marcatissimo, del tipo di vita a cui la coppia s’era abituata: come la nostalgia di una autenticità più fondamentale (Zelda era nata in Alabama) e un bisogno di approfondire tecniche di scrittura, che sembrerebbe sperimentale. Ma Zelda non fa in tempo: i dieci racconti pubblicati furono scritti nel corso o poco prima di un collasso nervoso che la trascinò ripetutamente in clinica (morrà nel 1948 nell’incendio di una clinica svizzera). Per pubblicare i suoi racconti deve improntare il nome del marito: ciò per esigenze finanziarie, e anche perché non era considerata scrittrice professionista. A volte alcuni paragrafi descrittivi risultano, per la densissima serie di volontariamente assurde immagini, faticosi

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

216

AMELIA ROSSELLI

ad una normale lettura a tempi medi. Questo difetto di impostazione, come ho spesso notato, è tipico di alcuni autori quando non è del tutto superata la fase iniziale dell’artigianalissima arte dello scrivere. Ma in quell’intensità iniziale di solito v’è tutto lo sviluppo futuro del non ancora smaliziato artista. Che quasi tutti i racconti trattino temi indirettamente femministi non dovrebbe troppo sorprendere, visto che anche il marito Francis Scott a volte indugiava in tale tematica; ma un senso di fallimento e delusione pervade le pagine di Zelda, in qualche modo meno impegnata sul piano mondano-economico, di quanto lo fosse il suo genialissimo e stilisticamente controllatissimo partner. (1976)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

TRAGICHE FANTASIE DI UN “SOGNATORE”

Non ancora spentasi l’ondata commerciale del fenomeno beat generation (Zen, avanguardia, droga, rivolta, sesso, jazz), quali prove rimangono che qualcosa di nuovo e del tutto originale è cresciuto dopo la splendida stagione dei “vecchi” Fitzgerald, Hemingway, Dos Passos, Faulkner e Miller? Si parla di rinascenza americana che si identifica con Kerouac, Burroughs, Ginsberg, Corso, e d’una opposizione alla “American way of life”, che è purtroppo anch’essa un’altra “American way of life” divulgatasi di rimbalzo, in modo spesso solo imitativo, ai quattro angoli del mondo. Ma, ad analizzare libro per libro, nemmeno quelli del solo Kerouac (morto bruciato per il bere e la droga all’età di quarantasette anni) sono definibili come un tutto unico. Portando alle ultime conseguenze il discorso di Miller, cioè sciogliendo il suo mito della libertà sessuale sfrenata e completa e aggredendo quell’altro suo mito, quello del libero e felice vagabondaggio nella miseria, Kerouac – a differenza di Miller – non teme d’apparire grottesco e tragico. Anzi, documenta questo suo apparire in un testo intitolato Libro dei sogni (tradotto da Sugar) che altro non è che «una raccolta di sogni annotati in fretta al risveglio, scritti spontaneamente, senza sosta, proprio come si svolgono i sogni». Polemizza però con gli psicoanalisti (da cui parte la pratica della trascrizione diretta dei sogni) commentando che il fatto che tutti a questo mondo sognano riunisce l’umanità intiera in un anonimo Sindacato segreto, e dimostra altresì che il mondo è davvero trascendente […] l’analisi dei sogni è solo spiegazione di cause e condizioni […], il freudismo è uno stupido sballato trafficare con cause e condizioni in luogo della misteriosa, essenziale permanenza dell’Essenza della Mente.

Dei suoi sogni trascritti fedelmente, salvo a volte per l’intervento intellettuale-stilistico deformante, dice che in essi «tutto è lugubre». Lugubre ne risulta anche la piuttosto monotona lettura. Della tematica di fondo, in mancanza di una analisi correttamente psicoanalitica, possiamo soltanto riferire ciò che qua e là traspare tra i sogni in senso significante: 1) la tematica di speranza o fine: «Un giorno rinascerò in

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

218

AMELIA ROSSELLI

quella grande città in un altro sistema mondiale, nel passato o nel futuro, dove l’unica montagna alta 5000 metri spicca contro il cielo azzurro»; 2) la tematica di metodo: «Il mio unico problema è come praticare quotidianamente l’Ottuplo Sentiero pur non vivendo in solitudine»; 3) la tematica ricorrente: «Io sono stanco di cercare di tenermi al passo con le conseguenze della beat generation»; 4) la tematica di chiusura (ultimo sogno): «Siamo tutti prigionieri dei comunisti […] sono stato sospettato di tendenze rivoluzionarie o almeno psicopatiche mentre giocavo nel “Campo Libero”». Mettiamo a confronto, con questo, altri libri di Jack Kerouac ovviamente più scorrevoli perché schiettamente narrativi, per esempio Sulla strada, I sotterranei, I vagabondi del Dharma. I sogni riportati nel Libro dei sogni servono quasi in senso filologico per chi volesse confrontare la invenzione autobiografica dei romanzi con la parziale esattezza della trascrizione delle immagini del sonno. Più tetri e tragici sono i sogni che non i romanzi, nei quali – forse per esigenza di lancio di una speranza, di un metodo, di un fine – il buio venne messo in cantina. (1976)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SPARA A ZERO CONTRO LA FAMIGLIA

Christina Stead nasce in Australia nel 1902. Sua madre muore poco dopo la sua nascita; il padre riprende moglie e lei diventa la maggiore di una numerosa famiglia. Il padre era un razionalista, un socialista moderato, un naturalista, ed era impiegato presso il Dipartimento della Riserva di Pesca. Da ragazzina nutriva un particolare interesse per i pesci, la storia naturale, Spencer, Darwin, Huxley... il mare... I fratellini mi davano molto da fare, ma nutrivo per loro un grande attaccamento e appena potevo raccontavo loro delle favole, in parte tratte da Grimm e da Andersen e in parte inventate da me.

Con scarne parole è qua riassunta la gioventù di Christina Stead, autrice di molti romanzi, uno dei quali, Sabba familiare, recentemente tradotto da Garzanti. Il libro è stato scritto venticinque anni fa ma ha trovato la sua fama tramite ristampe recenti in America, dove l’autrice è considerata tra i migliori romanzieri del genere realistico oggi sul mercato. I poeti Robert Lowell e Randall Jarrell appoggiano il libro decretandolo un capolavoro. Ci si chiede, leggendolo, se sia autobiografico o no: riesce difficile credere che questo romanzo tenebroso e particolareggiato nasca dalla sola fantasia; infatti nel leggere il breve paragrafo biografico riportato sopra si ha conferma che si tratta d’un lungo racconto molto esplicitamente biografico, in cui padre e matrigna figurano come personaggi chiave, e la figlia maggiore d’una prole composta di sei figli è davvero la Stead quand’era in adolescenza. Di tenebrosità si tratta in quanto la famiglia viene determinata in tutti i suoi cangiamenti e dialoghi, dal dissidio veemente tra padre e madre: due personaggi descritti con intento di svelare personalità opposte e incompatibili in perpetuo litigio. Litigi e dissidi a cui si adattano i figli con candore infantile oppure spirito non di adattamento ma di ribellione e finalmente odio da parte del personaggio anch’esso centrale, Louise, la figlia maggiore testimone di scenate violente, discorsi pavoneggianti o esasperati, crolli e suicidio finale della matrigna. Il padre viene studiato nel suo idealismo fatto soprattutto d’amor proprio e insensibilità da questa adolescente quasi conscia a cui tocca sopportare anche lo scatenarsi dei furori del-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

220

AMELIA ROSSELLI

la matrigna, dipinta senz’alcun velo riparatorio. Si tratta di un realismo cupo e pessimista, che abbonda in descrizioni minute di case sfasciate, disordine e caos, fallimenti e solitudini ridicolizzate in quanto piccolo borghesi (i parenti e i vicini). Le descrizioni di paesaggi abbondano, ma hanno un che di non soltanto amorevole ma di soffocato e abbandonato; gli ambienti sociali sono visti sempre nella loro luce peggiore, e la derisione di fondo è anche protesta verso il concetto di famiglia “cristiana”, dove tutto è detto e nulla mai si corregge anzi precipita verso un tentato omicidio e suicidio finali, senza speranza altra che quella del candore dell’infanzia mal nata, adattata alla meglio in situazioni che s’esasperano. Il titolo originale dell’opera che è L’uomo che amava i bambini accentra l’attenzione su Sam il padre, capace di rapporti piuttosto coi bambini che con gli adulti, perché con loro può nascondere perfino a se stesso la vanità dei suoi concetti. La madre isolata picchia i figli, rammaricandosi bestialmente della sua situazione di “donna sottoposta”. L’insensibilità del marito tutto preso dai suoi interessi e hobbies, e da un sentimentale vegliare sui figli che è possessività e sfogo alla sua grandiloquenza la disgustano: le sue origini medio-alto borghesi la portano a indebitarsi fino alla penuria e al disastro finale, il suicidio. Difficilmente descrivibile però è l’atmosfera del libro un po’ troppo ripetitivo ma appassionato e preciso: il clima emotivo è quello di una specie di “allegro feroce” tempestoso realizzato con duttilità di stile e fedeltà al vero spinta fino alla descrizione più minutamente attenta di eventi anche sordidi o patetici. Il libro prende emotivamente e commuove per la sua passionalità: in paesi anglosassoni viene considerato potenzialmente un classico della letteratura americana e forse fondatamente: soltanto negli Stati Uniti questo tipo di scrittura travolgente e fotografica s’è imposta. Il nostro realismo nei suoi confronti è meno bieco, più astratto, meno legato alla materia e qualcosa invero avremmo dunque da imparare da questa specie di romanzo-fiume che è Sabba familiare anche se solo per la sua veridicità del tutto aculturale cioè non determinata da stili e mode recenti. (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

HA OTTENUTO UN SECOLO DOPO LA FAMA CHE MERITAVA

Quel breve romanzo di Henry James intitolato Il carteggio Aspern è tra i suoi più noti, e anche di più facile lettura. Pubblicato per la prima volta nel 1888, è considerato tra i più vicini al grosso pubblico proprio per la sua non grave complicatezza di stile e per la sua tesa drammaticità di tipo “giallo” a sorpresa finale. Poco prima di esso erano apparsi La principessa Casamassima (1886) e I Bostoniani, e subito dopo una caterva di romanzi affascinanti ma laboriosi quali La musa tragica, L’età ingrata, Quel che sapeva Maisie, Gli ambasciatori, Le ali della colomba, Il giro di vite e quel singolare astruso romanzo che è La coppa d’oro (1904). L’anno 1890 chiude quel che dai critici è considerata la prima maniera del James; il suo stile ora viene portato a una perfezione linguistica introversa e tortuosamente istruttiva sul piano grammaticale (Eliot considerò James l’uomo più intelligente della sua generazione), e si fa virtuosistico nel dialogo spesso preponderante, e ritmicamente sconvolgente quanto lo sono, per esempio, le ultime sonate di Beethoven. Nei romanzi più brevi, o lunghi racconti quali Il carteggio Aspern, la sottigliezza di analisi a volte faticosa nei lunghi romanzi, si dipana e la lettura è piana e non tormentosa: la chiarezza della trama si adatta alle dimensioni veloci del romanzo ridotto, e i temi sono in un certo senso popolari, fattuali, ricchi di concretezza. Nel Carteggio Aspern le decifrazioni del testo possono essere molte ma sono tutte immediate, e lo studio d’ambiente (palazzi in rovina a Venezia; equivocità del narratore-protagonista; degradazione di una vecchia, forse l’ex amante di Byron o amica di Shelley) è abbastanza franco. Lo stesso si può dire d’altri brevi racconti del James quale il poco noto Nella gabbia, e Gli europei. Non poco del James è stato tradotto in Italia; Einaudi ci ripropone giustamente Il carteggio Aspern da tempo fuori circolazione. Del James si potrebbero consigliare altre ristampe e traduzioni anche dei saggi, dell’autobiografia, e delle introduzioni, e tentare l’ardua trasposizione degli ultimi romanzi (davvero di trasposizione si tratta: l’italiano non può rendere le sottigliezze fonetiche e grammaticali del James, preparatorie ai virtuosismi d’un Joyce). Ciò molto insegnerebbe ai nostri romanzieri tesi al successo commerciale.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

222

AMELIA ROSSELLI

Di successo Henry James ne ebbe poco; nato nel 1843 a New York di famiglia originariamente scozzese e irlandese, benestante, padre scrittore e teosofo, fratello filosofo pragmatista (William James), soggiorna in Francia, Svizzera, Germania, segue studi privati a casa o corsi estivi a Bonn e Parigi, s’iscrive al suo ritorno in patria alla facoltà di legge di Harvard, e lì comincia a scrivere saggi, novelle, recensioni pubblicandole su riviste autorevoli. Torna a Londra, s’innamora dell’Italia, si fa corrispondente per un giornale del Massachusetts. Se da un lato gli pare che gli Stati Uniti «possiedano tutti gli elementi di modernità eccetto la cultura», dall’altro è convinto che essere americani sia «un destino complesso, una delle responsabilità che comporta è quella del lottare contro una sopravvalutazione mitica dell’Europa». A Parigi conosce Maupassant, Turgenev al quale si lega di viva amicizia, e Flaubert, che ammira ma che gli sembra umanamente meno ricco. La nostalgia di un mondo meno scettico di quello francese, più affine alle sue origini puritane, lo riporta a Londra. Nel 1881 ricomincia il pellegrinaggio fra i due continenti, contingente alla morte prima della madre, poi del padre e del fratello. Poco più che quarantenne James tenta il teatro, ma dopo i primi gravi insuccessi, le sue commedie vengono regolarmente rifiutate dalle compagnie teatrali di Londra. È da questa deprimente esperienza che ha inizio il secondo periodo narrativo, influenzato dall’“economia” strutturale necessaria al drammaturgo e valida anche per il romanziere. In questo periodo l’autore si sente lontano dagli scrittori delle nuove generazioni, ma se il pubblico lo lasciò sempre privo di qualsiasi popolarità furono appunto i nuovi scrittori ad accoglierlo con stima. L’Europa offre al James quel mondo aristocratico che più era affine alla sua immaginazione, e di cui in patria lamentava la mancanza. Le radici americane (tradizione metafisica di una Emily Dickinson e di uno Hawthorne) rimarranno nella sua passione per la vita interiore. Per vent’anni non torna in America. All’inizio della prima guerra mondiale chiede e ottiene la cittadinanza britannica. Alla sua morte gli viene assegnato l’Ordine del Merito di Sua Maestà britannica. La sua fama fu lenta a diffondersi anche dopo la morte; questo dopoguerra ha visto però in America un suo pieno trionfo. Non un profeta dell’“arte per l’arte” ma grande romanziere essenzialmente realista, fuori d’ogni limite ovvio o tradizionale del termine. (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SESSO, EBRAICITÀ E DISPERAZIONE

Libro un po’ sgangherato questo settimo romanzo del notissimo autore americano Philip Roth, e non, secondo me, quell’“ideale seguito” al “capolavoro” Lamento di Portnoy, che annuncia l’editore Bompiani traduttore di quasi tutte le opere del Roth. Anche perché Il lamento di Portnoy (1969) non mi pare per niente qualcosa di eccezionale ma anzi un rifacimento in chiave farsesca di Henry Miller quando parla di sesso. Perfino il linguaggio, una volta così complesso e attraente come per esempio in Lasciarsi andare (1962) a furia di ricerca del tono giusto per la vendita in forma di best seller, è di molto scaduto e consiste pressappoco in un misto di termini del gergo pornografico, colloquialità, e terminologie yiddish. La descrizione di un uomo soffocato dalla sua famiglia ortodossamente ebraica, raccontata nella sua tipicità anche in Portnoy, con tanto di madre madre-madre e padre umiliato-possessivo, a cui l’autore reagisce buttandosi nella sfrenatezza libidinosa con ragazze shiksa (donna non ebrea), è in se stessa divertente sì, ma priva dell’eccezionalità poetica di un Miller. Inevitabilmente presente anche il tema dell’insegnante di lettere all’università, cioè il non ridicolizzato amore per la letteratura che porta il Roth a esprimere benissimo il rapporto allievo-insegnante, insegnante-campus (facoltà). V’è anche un capitolo dedicato ad una visita a Praga, sulle tracce dei luoghi di Kafka, che ha una sua serietà un po’ allucinata e commovente. Quando poi il professore trova la donna ideale a tirarlo fuori dalla sua crisi di impotenza e disperazione, altri capitoli un po’ zuccherosi ne descrivono la gioia. Quanto ai temi dunque Professore di desiderio non sembra averne di diversi dal suo solito, e diremo anche dal solito di molti romanzieri americani in cui sesso ed ebraicità e disperazione resi in chiave grottesco-comica (vedi Herzog oppure anche Il pianeta del signor Sammler di Saul Bellow) sembrano identificarsi con l’intellettualità autobiografica Usa. La «sfrenatezza linguistica» annunciata sul risvolto del libro non è altro che un’assimilazione dei gerghi in parte beat in parte borghesi riguardanti la perversità (cosiddetta) sessuale. Scompare da Lamento di Portnoy e da Professore di desiderio quel bel scrivere fitto fitto in uno stile tra il jamesiano e fitzgeraldiano di Lasciarsi andare che è libro giovanile ma certamente un capolavoro per sua de-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

224

AMELIA ROSSELLI

licatezza psicologica e per sua strutturazione da grande scrittore, in cui l’America delle università e degli amori e dell’ebraicità ortodossa si esplica con molta sottigliezza e fiato. Certamente Lasciarsi andare era un libro cosiddetto difficile, ed è sicuro che al mercato hanno meglio attecchito i libri susseguenti, dediti a un pubblico non eccezionale ma invece facile e medio. Il problema del Professore di desiderio ci pare, in questa civiltà comunque repressiva, un falso problema, così come viene infatti infine riassunto in una conversazione con uno scrittore dissidente a Praga. Dice il professore: «a volte mi chiedo se Il castello non sia dopotutto, collegato al blocco erotico di Kafka. E se il tema del romanzo non sia, a ogni livello, l’incapacità di raggiungere l’orgasmo»; risponde lo scrittore ceco: «beh, a ciascun cittadino inibito il suo Kafka». Dice ancora il professore: «ma poi che se ne fanno, i letterati, di tutti questi gran libri che leggono…»; risponde il ceco: «ci affondano i denti. Voglio dire, mordono i libri anziché la mano che li strangola». Ma in sintesi il professore dice più chiaramente al dissidente: «certo lei vive in un regime totalitario […] ma, se permette, io paragono la tirannia dei sensi, la loro fredda indifferenza e assoluto disprezzo per il benessere dello spirito, alla tirannia appunto di un regime dittatoriale. E può lanciare proclami e petizioni quanto le pare, può rivolgere i più vibranti e dignitosi e logici appelli […] senza ottenere alcuna risposta. O tutt’al più si sente ridere dietro». Philip Roth infatti ci ride dietro mentre si commisera. Perde la forma, si conquista un pubblico al dunque già addestrato alla pornografia letteraria, che è motivo a mio parere un po’ vecchiotto ormai. (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA RECITA ALL’APERTO DI VIRGINIA WOOLF

Una piuttosto acrobatica introduzione di F. Cordelli accompagna il libro Tra un atto e l’altro della Virginia Woolf, da lui curato e tradotto assieme a Francesca Wagner. Non sopportando volentieri le traduzioni in genere, ho letto il testo in lingua originale, e poi ho curiosato tra le parole “difficili” o “raffinate” dell’inglese per vederne l’equivalenza nella traduzione. Molto difficile dare un giudizio: certo che l’italiano con le sue sonorità e grammatiche dure e squadrate e la traduzione non del tutto aderente, non restituiscono alla Woolf il suo bisbigliato fluire, l’eleganza e leggerezza della sua poeticissima prosa, dai ritmi inaspettati e dalle storture grammaticali di tanto in tanto sperimentate (per il 1939 si tratta di anticipi). Ma al potenziale lettore dobbiamo parlare della trama e dell’impianto di quest’ultimo libro della V. Woolf prima della sua morte per suicidio nel 1941. E l’impianto è quasi banale: una rappresentazione all’aperto per un pubblico limitato, quello che in Inghilterra viene chiamato village pageant, cioè una rappresentazione teatrale di paese. Non è chiaro chi reciti, per la Woolf, se i suoi differenziatissimi personaggi del vicinato membri del pubblico, o il gruppo di dilettanti impegnato nella rappresentazione. O piuttosto, è chiaro che fra il pubblico, teatranti, e campagna v’è legame che è costantemente ansioso, contraddittorio. In tutto ciò niente di nuovo. Della Woolf confessiamo che ci ha sempre un po’ respinto lo spiritualismo psicologizzato, l’“altura” culturale però compensata da una lingua davvero mirabilmente sciolta e nuova. Il libro non pesa, non pressa: e anzi è tipicamente britannico nella sua problematica, nel suo contrapporre classe benestante e artisti: vita interiore esitante e a volte arida e conformista, a tradizioni locali lievemente ironizzate. Non si tratta certamente di un testamento pre-suicida, ma forse una vena d’amarezza dà a queste pagine una querulosità insolita per la Woolf, tutta intenta alle interiorità soffocate dei suoi diversissimi personaggi (membri del pubblico). Divertente e ingegnosa la “commedia” scritta a mo’ di parodia, con spruzzi di “talento” qua e là, che sarebbero quelli dell’autrice Miss La Trobe, figura d’artista severamente frustrata ed emarginata nell’apparentemente placido am-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

226

AMELIA ROSSELLI

biente puritano benestante e campagnolo di cui la Woolf ebbe una qualche conoscenza essendosi trasferita proprio negli anni della stesura del libro, a un’ora da Londra per via dei prevedibili (1940) bombardamenti tedeschi della città. (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

HERRY MILLER SEMPRE FRA NOI INFLUENZA ANCHE LA PSICANALISI

Per qualche ragione l’editore Adelphi ha aggiunto al titolo originale del libro La vita contro la morte di Norman O. Brown, il sottotitolo Il significato psicoanalitico della storia. Nell’originale, pubblicato nel 1959 dalla Wesleyan University negli Stati Uniti, il titolo rimaneva quello che in realtà era, cioè Life Against Death. Il lungo testo di 419 pagine fu stampato poi in Italia sempre dalla Adelphi nel 1964, e viene ristampato oggi in edizione riveduta. Il notissimo testo, uscito quasi contemporaneamente a quelli di Marcuse, è sotto sotto più che altro un abile riassunto delle tesi di Freud, documentato anche tramite libri di studiosi postfreudiani in gran parte americani o tedeschi. Infatti tra i molti e drammatici capitoli ve ne sono alcuni che trattano anche d’antropologia “relativistica”, e di conseguenze tipicamente protestanti e cioè “puritane” delle nevrosi moderne. La documentazione su Freud, e il conseguente compendio che ne risulta, sono esattissimi, e il libro perciò serve anche ai non addetti ai lavori, essendo assai completo nel riferirsi ai diversi problemi posti dalla scuola freudiana illustrati se non soltanto qua e là tramite edizioni economiche anche tramite una famosissima edizione riguardante specificatamente tutte le diverse opere di Sigmund Freud (Boringhieri, dodici volumi comprendenti saggi ed articoli scritti dal 1886 al 1938). Notiamo però che l’autore, forse perché è non specialista ma professore di lettere, ha tendenza a generalizzare proprio in modo tipicamente letterario; cioè quando non cita o riassume il pensiero freudiano o postfreudiano si confonde, passando da opinioni ortodosse a tutt’altre, per esempio a quelle grosso modo junghiane, o specificatamente modernistiche in senso milleriano (le opinioni dello scrittore Henry Miller hanno assai influenzato un paio di generazioni non soltanto americane). Però d’interessante v’è non come ci si aspetterebbe il capitolo intitolato Lo sporco denaro che vorrebbe trattare di marxismo e ne fa un pasticcio, ma un altro capitolo dedicato particolarmente a Lutero. Per chi non conosca a fondo gli scritti dell’importante riformista questo capitolo resta affascinante, e intelligente analitico. Quanto al sano rinascere degli istinti preannunciato sin dall’inizio dall’autore, cioè un rinascere un po’ mistico dello Es, un po’ di genere

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

228

AMELIA ROSSELLI

millenario, ci sembra ingenuo, del tutto incoerente, e purtroppo comunissimo tra tanta gente. Che poi il testo abbia a che fare con il sottotitolo aggiunto dalle edizioni Adelphi (Il significato psicanalitico della storia), non solo ci sembra un nonsenso, ma anche una stortura dei dati presentati nel grosso tomo, benché l’autore faccia sforzi di sembrare futuro filosofo e non soltanto un letterato dagli svariati studi. (1979)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PADRE E FIGLIO, CARTEGGIO FRA AMORE E RANCORE

Di Luigi Amendola avevo letto le non molte poesie pubblicate, del Premio Montale 1986. Lo conoscevo anche in quanto abilissimo direttore del foglio “Versicolori”, di redazione romana dal 1988 in poi, ed ex capocollana per la piccola editrice Ibn (Istituto Bibliografico Napoleone). Il suo lavoro come organizzatore di letture in pubblico, a Roma e fuori, ha portato molti poeti a conoscersi l’un l’altro, ad Agnone nel Molise, a Ciampino, a Napoli. Oggi si presenta come romanziere con un libro intitolato Carteggio del rancore, pubblicato lo scorso mese da Carlo Mancosu editore. Tra gli autori della nuova collana vi sono anche Vito Riviello con Qui abitava Pitagora (una testimonianza del fenomeno meridionale), e, prossimamente, di Carlo Levi, le Lettere d’amore e di vita. Carteggio del rancore è stato presentato a Napoli a Galassia Gutenberg, circa un mese fa, da Plinio Perilli, capocollana della Mancosu per i libri “2000 lire”, che portano titoli classici in formato ridotto. Direi che la presentazione abbia soverchiamente drammatizzato quello che non è affatto tipico dell’autore nel suo atteggiamento “a sorpresa” per quanto riguarda il sottotitolo del libro: Un ritratto paterno spietato come un insulto; anzi la qualità del libro è piuttosto nella sua dolcezza, nel suo autobiografismo, e che primeggia la persona dell’autore come figlio, sensibilissimo nella sua infelicità-felice, gioventù e adolescenza, nei rapporti con il suo ambiente e con suo padre. Lo stile stesso del libro è calcolato, benché non apparentemente e molto abilmente: la fraseologia è inusualmente elastica, lo stile narrativo sfoca di poesia, e la forte emotività è espressa con sincerità, certamente non con “rancore” o “spietatezza”. Di famiglia calabrese, Luigi Amendola si rivela più bravo nella narrativa fortemente personalistica proprio perché la sua esperienza della poesia lo fa conoscitore astuto, nella prosa, degli estremi della retorica e della piattezza. Il libro è stato classificato da Perilli romanzo-saggio, perché riflessivo e su tema classicamente freudiano, quello del rapporto padre-figlio. Ma il padre è menzionato molto di rado, e i drammi della crescita e dello sviluppo culturale riguardano non soltanto la conquista dell’indipendenza spirituale, ma soprattutto una problematica morale-religiosa

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

230

AMELIA ROSSELLI

molto inaspettata. Il padre e la sua famiglia sono cattolici, e lui del cattolicesimo preserva i forti affetti tradizionali, ma si stacca dal suo ambiente e dalla famiglia poco a poco, differenziandosi soprattutto tramite letture approfondite, tramite matrimonio paziente e felice, e tramite un rapporto rinnovato tra lui padre, e il suo giovanissimo figlio. Benché la tematica non mi sorprendesse in alcun modo, l’atteggiamento dell’autore rispetto all’autobiografico è franchissimo. Molto sottile stilista, costante nel ritmo dei lunghi periodi, nell’uso di certe densità poetiche inusuali nella prosa, che lo farebbero autore per i “pochi”, invece è soprattutto autore per i “molti”: non sottovaluta il pubblico a cui si rivolge, probabilmente di classe medio-piccola, e perciò anche di “massa”, pur ponendo qua e là problemi stilistici di soverchia densità poetica, credo apposta, e descrivendo una emotività in un certo senso passiva e contemplativa sul piano morale, quello per lui più importante; per esempio rispetto alle eccitazioni violente e no del movimento studentesco degli anni sessanta. L’unica vera guerra che avrei voluto combattere, la rivolta studentesca del ’68, non l’ho mai fatta. Ero troppo occupato ad ammirare i coetanei mentre confezionavano molotov, slogan e antidoti contro il fumo dei lacrimogeni, per potermi gettare nella mischia, poi c’era l’inibizione solita di un’educazione rigidamente cattolica che mi vietava di attentare alla pace sociale qualunque fosse. Rivendicavo il Tommaso d’Aquino della “resistenza attiva al tiranno” ed il Cristo che scaccia a malo modo i mercanti dal tempio. I tempi erano maturati, nel mio petto batteva un cuore rivoluzionario che prendeva a pulsare di autonoma intransigenza, ma conviveva con un’anima gonfia di pietà che non sapeva spiegarsi il connubio giustizia-violenza. Seguirono anni di turbamento, ma soprattutto sensi di colpa, non riuscivo ad aprirmi pienamente al materialismo e chiudermi definitivamente al cristianesimo; rimanevo una larva incompiuta, un grido soffocato. Il “grande salto” non lo feci mai.

Segue descrivendo la sua vita matrimoniale e lavorativa con flemma e pazienza, salvando dalla monotonia della situazione proprio questi suoi valori morali lentamente formatisi. Di grande appoggio non soltanto la famiglia che lui stesso si crea in opposizione a quella da cui proviene, ma soprattutto il suo amore per i libri, e le scelte creativamente inusuali, e generazionalmente di faticosa conquista. (1993)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

VITA E PROBLEMI ALLA BASE: LE SEZIONI UN TABÙ?

Vita di sezione: quasi un tabù oggi parlare delle sezioni comuniste, esservi attivi, partecipanti; e ciò purtroppo anche tra i membri votanti del partito. Perché? Non vorremmo fare troppe gaffes politiche nell’eleggere questo tema a problema pressante sia del partito, sia della popolazione italiana in genere. Perché le sezioni oggi non riscontrano più il successo di aderenti e di fama che circa quindici anni fa sembravano conquistare? In quale modo è diversa la vita di sezione oggi da quella degli anni passati? Cosa vien chiesto ai membri militanti del partito tramite l’attività delle sezioni, cioè della base? Forse nell’aderire alla protesta cecoslovacca e a quella studentesca e a quella più genericamente chiamata “contestazione” il Partito oggi vuol anche fare (ma non del tutto consciamente) una autocritica alle sue strutture, al loro mancato o non mancato funzionamento: in una parola forse inconsciamente il Partito nell’appoggiare la Cecoslovacchia in pieno ha voluto dire anche che era tempo per noi di “ lavarci i propri panni in casa”: nel porre a modello la rinnovata vita politica del “nuovo corso” ha proiettato su di una situazione esterna ed “estera” un ideale che andrebbe realizzato più a fondo qua in Italia. E del resto il Pci ammira ed appoggia in egual misura il tipo di vita collettiva e politica fieramente formulata dai cubani e dal Che e da Fidel Castro nei loro scritti: così come, per esempio, la appoggiano e la ammirano grandemente i giovani e, molto spesso senza poterlo formulare per iscritto precisamente, a voce, il popolo. Ed è per questo che ci sembra che oggi sia urgente parlare della vita di partito della sua esplicazione più immediata, più doverosa, più vicina alla base e partecipe ai suoi problemi. Nell’iscriversi al Pci è generalmente parere invece, da parte degli intellettuali, che sia sufficiente l’iscrizione stessa, l’essere in possesso di una simbolica tessera per dirsi “comunisti”: e con ciò lavarsi la coscienza dai mali borghesi intellettuali. Al massimo la loro partecipazione alla vita della sezione di quartiere o paese è di breve durata, o si esplica a intermittenze, finché prima o poi l’eccesso di “impegni” di “lavoro” diurno (tra l’altro borghese in quanto apolitico per la maggior parte) soffochi il più generoso e interessante lavorare collettivamente, a volte fino a tarda sera,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

234

AMELIA ROSSELLI

delle sezioni. Altre volte invece è un non troppo bene specificato reprimersi di aspirazioni personali od organizzative, in seno a questo raggruppamento politico che è la sezione, a purtroppo allontanare l’iscritto il quale tuttavia continua a votare per il Pci ogni cinque anni, e lascia ogni ulteriore attività politica all’improvvisazione o alla critica ufficiale o a quella di caffè. Del resto dobbiamo ammettere che questo abbastanza tipico comportamento da parte del borghese iscritto o dell’intellettuale riguardo alle sezioni, è condiviso da una parte della base, per motivazioni non sempre diverse o di diverso carattere. Però forse nell’operaio è più forte fortunatamente, un sorvolare sulle critiche operative e organizzative più spicciole, che sono infatti da farsi ai metodi politici nelle sezioni, e un conservare una specie di dignitosa fedeltà alle organizzazioni base. Possono eventualmente mollare il lavoro più tranquillo e monotono (quale la vendita dell’“Unità”, la raccolta dei fondi) ma tenersi eternamente a disposizione per imprese meno facili e allo stesso tempo più responsabilizzanti. Ed è qua che credo sia il punto: la critica da farsi al tipo di vita di sezione molto comune alle varie regioni e città d’Italia è soprattutto quella che comporta una analisi delle ragioni per cui non con sufficiente entusiasmo o ostinazione i membri del partito si impegnano nei loro vari quartieri o paesi. E bisognerebbe enumerare queste ragioni, e capire i torti di una parte come dell’altra. È inutile il dire oggi che le strutture partitiche sono ormai definitivamente tramontate, e che l’operare politico debba farsi tramite di nuove strutture o per ragioni cosiddette spontanee, quando non si è analizzata la causa dello scoraggiamento, né si è cercato di dire molto più che non quello che gira di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, riguardo a questa “struttura”. Prima di tutto vorrei menzionare che nell’iscriversi al Pci, sarebbe da notarsi con più attenzione e anche severità, quella che è formalmente considerata una condizione dell’appartenenza al Pci: cioè la necessaria e inequivocabile partecipazione alle attività varie e multiple della sezione. Ciò viene addirittura stampato sul retro della tessera del partito, ma non sembriamo prendere molto sul serio questa condizione e affermazione, come se la tessera fosse infatti soltanto simbolo di uno stato d’animo “spirituale”, e non un impegno concreto di lavoro. Non mi stupirebbe che questo atteggiamento eccessivamente simbolico-spirituale ed edonistico, nei riguardi del lavoro politico, fosse di derivazione cristiana o comunque teologica in genere. Secondo punto: è inutile che a ogni occasione ripetiamo che il partito si basa sulle masse e si fa in grande parte determinare dalle giuste

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

235

esigenze di base, se ciò non viene messo in atto ogni giorno tramite la infatti simbolica e allo stesso tempo attiva partecipazione alle riunioni della base (non soltanto sindacali!). E dove meglio esplicare questo urgente bisogno di una connessione con la base, o di un incontro tra classi culturalmente ed economicamente lontane ed estranee, se non tramite strutture quali quelle di sezione, che dopo tutto hanno a loro attivo decenni di esperienza nell’organizzare discussioni, progettare manifestazioni, realizzare imprese quali quelle dei Circoli culturali, assistenziali, ricreativi. E poi perché lasciare (e secondo me disonorevolmente) alla base il faticoso e spesso tormentoso compito della ricerca di finanziamenti dei giornali e delle riviste comuniste, della raccolta dei fondi in genere, della divulgazione dei testi, o, come quest’ultimo anno, della raccolta del vestiario per i terremotati siciliani, o del semplice ma snervante attaccare manifesti sino alle tre di notte? Non era forse nato il comunismo in difesa proprio di questa base già sfruttata? Non sarebbe dunque il caso di invertire le parti, per far questo pesante e a volte irritante lavoro manuale o spicciolo proprio ai membri di provenienza borghese del resto meno “usati” fisicamente nel lavoro normale di ogni giorno tipico di questa nostra società neocapitalistica? E, nel capovolgere così le parti, dare maggiori responsabilità organizzative proprio ai membri della base, che ammettono a volte di sentirsi un poco umiliati nel dover spazzare pavimenti di sezioni, centri culturali ecc. Per lavori organizzativi essi sono invece spesso più adatti, proprio per questa loro pratica del mondo concreto, e meno polemici e minuziosi nell’ideare moti e manifestazioni. Allo stesso tempo conoscono a fondo, generalmente, la popolazione dei loro quartieri e paesi: sanno interpretare con maggiore specificità i bisogni anche culturali della loro propria gente. E certamente sarebbe il caso di dare alla base più occasione di incontrarsi col mondo non solamente politico ma anche culturale delle sinistre, proprio per rinnovare anche se elementarmente, una condizione d’essere del nostro mondo culturale che è ovviamente stagnante. Difetto della base è però, se interpretato bene, un certo clima tipico dei rioni popolari romani, una passionalità apolitica che sfocerebbe volentieri in violenza politica non organizzata. Ma ad analizzare questa passionalità che del resto contiene in sé un nascosto calcolo politico, si osserva che è frutto come di una reazione a quel che il popolo politicizzato sente spesso come un abbandono da parte della direzione del partito. Rischiamo a volte di lasciar confondere quella che è la élite politica e culturale del partito con una non meglio identificata élite burocratica e addirittura sociale: ci manca poco a volte che gli ope-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

236

AMELIA ROSSELLI

rai ed il sottoproletariato considerino le strutture dirigenti del partito come borghesia disgiunta dai loro modi di vedere e dai loro interessi. La colpa è chiaramente non da attribuirsi a questa base che si sente isolata anche nei poteri decisionali (il voto non basta a garantire un vero incrociarsi degli interessi della base con quelli della direzione, e la parola “élite” politica o culturale che sia, ha sempre avuto odor di muffa, se non interpretata meno meccanicisticamente): la colpa è infatti delle strutture un poco arretrate del partito, e del disgiungersi degli intellettuali anche più preparati e d’esperienza, dalla base che fra l’altro ha poche occasioni di “prepararsi” e di fare esperienze politiche e culturali fuori del proprio paese o ceto. Come porre rimedio a questa situazione un poco sterile e ferma che spesso ha scoraggiato tante persone dall’iscriversi e dato (secondo me falsamente) reputazione di “burocrazia” al partito? I suggerimenti possono essere tanti, e sarebbero benvenuti, e da prendersi molto attentamente in considerazione. Da notarsi, tra i vari problemi non risolti in seno alle sezioni, il fatto che non v’è quasi alcun contatto di alcuna specie tra diverse sezioni delle stesse città; che ognuna opera separatamente dalle altre, salvo che per quelle più meccaniche e direttive quali la raccolta dei fondi e la divulgazione dei giornali e la formazione di servizi d’ordine nelle manifestazioni ecc. Eppure molto positivo soprattutto per il comunista militante di origine borghese, è il potersi incontrare in seno alla sezione, con uomini e donne di tutte le età e di diversissimo ceto dal suo. In alcuni quartieri di Roma (e in quelli più popolari soprattutto) si ha spesso l’esperienza, anche vivendovi a lungo, di non poter entrare veramente in contatto con il popolo più minuto che inevitabilmente considera l’estraneo come cliente da tenersi a più o meno rispettosa distanza, come se separato da un muro di vetro. Nel lavoro comune delle sezioni per prima cosa v’è questo più diretto e umano incontro, giustificato dai comuni ideali, e dai problemi pratici e spirituali da risolversi e da discutersi insieme. Preziosa inoltre è la conoscenza che se ne ricava dei diversi modi di affrontare non solo la realtà in genere (ed è risaputo: perfino linguisticamente la realtà s’interpreta secondo il proprio ceto) ma anche i minuti pratici problemi del mondo. In alcune sezioni, dove peraltro non frequentavano giovani o membri del Movimento Studentesco, ultimamente si notava per esempio una metodologia che partiva dritta dal popolo: cioè quella in cui la sezione, e la sua direzione, il suo segretario, avevano piuttosto funzione di coordinamento delle varie multifacce operazioni dei singoli membri o gruppi di membri: non più si facevano riunioni aprioristi-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

237

che per dibattere questo o quel problema organizzativo: anzi si tendeva a lasciare ai singoli membri e gruppi maggiori responsabilità, poteri decisionali e di ideazione, per poi in un secondo momento discutere in riunioni di tipo amministrativo i progetti già determinati dei singoli. Ne risultò, secondo me, una raddoppiata attività: non solo: la popolazione non iscritta s’interessò di queste varie iniziative in corso, proprio perché il clima era maggiormente creativo e rispettoso delle capacità d’ognuno. Ultimo problema, ma non certamente minore: abituarsi a una maggiore franchezza politica nel seno delle strutture del partito: non è per una eccessiva “burocratizzazione” di queste strutture o per un cosiddetto “arrivismo” dei gruppi dirigenti, che questa franchezza spesso manca. Direi piuttosto che il suo mancare è in parte una eredità del fascismo (la paura di svelare i propri pensieri, la propria vita emotiva, la propria problematica politico-intellettuale) e in parte dovuta ad una specie di timidezza propria delle classi sfruttate, che non sanno di avere poteri mentali e di carattere già sviluppati anche se in modo molto particolare e tipico della loro situazione sociale. Noi non dobbiamo accentuare queste paure, queste timidezze e questi calcoli inconsci in seno al Partito. Tutto va detto e ascoltato e dibattuto con la massima lealtà. Le sanzioni, come simbolo non d’un “bullone” strutturale di minor importanza e funzionalità, ma invece da considerarsi come un raggruppamento organizzativo della massima importanza sia simbolica sia effettiva, vanno appoggiate e aiutate. Se per esempio in un quartiere o paese di campagna dovesse verificarsi il caso che una data sezione sembra mancare di iniziative, sembra non cogliere successi nel lavoro o nella sua semplice “reputazione”, le cause vanno assolutamente studiate, ed i rimedi posti non da lontano o “dall’alto” ma con l’approvazione e partecipazione di tutti i membri della sezione. Non necessariamente dunque le strutture partitiche sono in procinto di trasformarsi in altre forme o modi: non necessariamente queste strutture sono irrimediabilmente invecchiate: vanno anzi rinnovate, e considerate preziose e perciò rispettate con la massima alacrità, modestia e comprensione della loro vera funzione. Troppo comodo contare soltanto sull’aumento dei voti; più consci e forti possono essere i nostri membri di base, rendendo a loro quello spazio di opinione e azione che è spesso mancato. (1968)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

L’AMERICA ATTRAVERSO LE RIVISTE

Negli Stati Uniti vi sono grosso modo tre specie di riviste cosiddette letterarie: quelle di sapore ormai classico per la loro notorietà e la loro impostazione finanziaria e pratica; quelle di estrema avanguardia, i cui ingranaggi pratici e finanziari sono molto più fragili e rischiosi, ma di cui il materiale di discussione e letterario è assai più avventuroso e apparentemente, a volte, “inutile” (ma vedremo che questo “apparire inutile” è impressione sbagliata), e poi quelle in realtà non specificatamente letterarie, ma che per motivi di prestigio abbinano a una rivista genericamente di attualità o di divertimento qualche pagina dedicata alla letteratura. Al giorno d’oggi tipiche del primo genere sono le riviste al cui finanziamento provvedono con pochissimo rischio le università dei vari stati americani: queste riviste nascono di solito come riviste degli studenti, e vengono protette e sorvegliate dalla direzione delle università che considerano l’aver una rivista accoppiata ai corsi quasi un creare un corso in più, dando così occasione agli studenti di fare anche esperienza di tipografia e lavoro redazionale. E quando una rivista lentamente si espande, accettando per motivi di prestigio testi non propriamente studenteschi, quali quelli di un autore già noto nel mondo commerciale e letterario, o anche traduzioni, ciò è infatti visto di buon occhio dal board (consiglio) amministrativo del college, il quale si preoccupa di dare sempre maggior credito e prestigio all’università appoggiando sia finanziariamente che moralmente ogni attività non strettamente collegata ai corsi regolari. Il crearsi di una buona e solida rivista letteraria che eventualmente possa meritarsi un posto nell’olimpo puramente commerciale-letterario è fonte di “credito” e di rinomanza per la scuola – quasi si trattasse, e per motivi paralleli, di una squadra di calcio universitaria. Del resto poi le università, quasi sempre ben finanziate anche tramite donazioni private, hanno già a loro disposizione tutto l’impianto tipografico, e le spese sono in realtà minime: possono aumentare col tempo se la rivista comincia ad avere impostazione pratica e artistica di livello più che medio, ma in realtà le riviste letterarie nate per organizzazione e per finanziamenti dalle università dei singoli stati sono quelle che meno hanno da temere crolli finanziari subitanei, e sono anche quelle che hanno meno da impostare commercialmente la

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

240

AMELIA ROSSELLI

loro distribuzione e il loro “genere”. E, tra le molte, moltissime riviste letterarie che nascono oppure muoiono negli Stati Uniti, sono infatti le più resistenti nel tempo e hanno maggior nome – però sono le meno avventurose e coraggiose (qualche controllo per esempio sui testi cosiddetti “pornografici” viene senz’altro imposto agli studenti dai direttori e dai professori). E si potrebbe aggiungere che sono forzatamente d’élite in quanto infatti hanno pochissime preoccupazioni finanziarie o di nuovo genere di divulgazione: il loro mercato è lì; già fatto per tradizione: i loro lettori sono i graduates (laureati), o gli undergraduates (studenti), che più tardi infatti diverranno letterati e professionisti della letteratura e dell’arte in genere. A titolo d’informazione e di cronaca enumeriamo qua le riviste letterarie americane più tipicamente di questo primo genere: si noterà che anche nel titolo della rivista (generalmente trimestrale) sono nominati la regione o lo Stato a cui appartiene l’università. Tra le più note sono “The Yale Review”, “The Hudson Review”, “The Virginia Quarterly Review”, “Partisan Review”, “The Texas Quarterly”, “The Sewanee Review”, “ The Southern Review”, “ The New England Quarterly”, “The Literary Review”, “The Berkeley Review”. Ed è solo in via eccezionale che qualche rivista prende impostazione maggiormente internazionale o comunque commerciale in quanto un editore finanzia e organizza la sua regolare pubblicazione e divulgazione. Tipiche di questo genere sono per esempio la però notissima “Evergreen Review” (Grove Press), “Poetry”, “The Transatlantic Review” e la “Kenyon Review”. Però in ultima analisi queste riviste, a eccezione della avanguardistica “Evergreen Review”, per valore e per impostazione e perfino per aspetto grafico si rassomigliano assai, e difficilmente ad occhio profano si rende distinguibile l’origine universitaria da una più propriamente editoriale in senso stretto: in ambedue i casi lo scopo è quello piuttosto del “prestigio”, dell’approfondimento di temi non troppo consueti, di un permettere a testi non già lanciati di saggiare un pubblico o di essere saggiati da esso. Eccezione a questa generalizzazione sono le riviste dette “d’avanguardia” americana: nate per polemica con le riviste più note ed established, in polemica con il mondo intero, e in polemica con quel certo sapore un poco stantio delle tradizioni universitarie ed editoriali americane. Pochissime sono rintracciabili in Italia: nessuna di esse è ritrovabile negli enti culturali americani (quali l’Usis) in cui invece le più note riviste di origine universitaria sono quasi tutte esposte. Il loro linguaggio non è affatto cauto, le tematiche preferite sono per esempio la droga, il sesso, il fallimento individuale-sociale, la distruzione dei miti

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

241

ideologici e culturali, il rinnovamento delle arti in senso drastico o anche distruttorio, la polemica ironica e rapida. E rapida è anche l’esistenza di queste meno note riviste: finanziamenti instabili, durata massima e media di un anno, impossibilità di pagarsi una buona distribuzione: divulgazione tramite mezzi assai originali quali carta e metodi di stampa economicissima, nessuna pretesa di ufficialità, clientela di “affezionati” più che di specialisti ben paganti, giro hippy, beat, new left, psychedelic, seguite piuttosto dai non universitari, o comunque soltanto da quegli universitari già in ribellione nei confronti di una letteratura più stanca e statica. Da simile piattaforma però a volte sono nati autori divenuti poi commerciabili: per esempio la scuola della “City Lights Books” di Chicago, facendo capo a una piccola libreria con economicissima tipografia e originali metodi di distribuzione, è ora accolta in riviste di origine universitaria e pubblicata su larga scala dagli editori anche all’estero (gli autori Ginsberg, Ferlinghetti, Olson, Kerouac, Corso hanno loro stessi divulgato e stampato i loro primi testi in origine considerati “quasi” inutili e non commercializzabili). Sarebbe bene che in Italia venissero meglio seguite queste riviste in apparenza troppo fragili per essere da noi prese sul serio: in esse è ritrovabile un clima e un esprimersi tipico di tutta una generazione di artisti e di giovani. Al momento “Angel Hair”, “Boss”, “Psychedelic Rewiev”, “Contact”, “Rampart”, “Fuck You”, “Oracle” sono tra le riviste più ricercate e di maggior interesse, ma in questo caso è meglio tenersi costantemente informati di ogni nuova nascita e morte di movimento o artistico o di opinione, per meglio districarsi tra le appena nate o morte riviste dette solo underground (sottosuolo). Ultimo genere di rivista tra i tre generi sopra delineati sarebbe quello non propriamente letterario ma piuttosto di attualità politica e di discussione generale quale è rappresentato per esempio dal settimanale “The New Yorker” (notissimo e di sapore tipicamente intellettuale-newyorkese benché anche divulgativo). In esso scrivono infatti le “teste d’uovo” però meglio patrocinate: assieme ai fumetti e agli annunci pubblicitari vengono inclusi brevi racconti e rubriche di critica letteraria, teatrale e artistica in genere. Uno scrittore, generalmente non molto ben pagato per il suo racconto o saggio o per la sua serie di poesie nelle normali riviste di origine universitaria, viene in questo tipo di rivista pagato anzi benissimo: la redazione però tende ad accogliere piuttosto un certo stile di scrittura che un altro (cioè non tenta nemmeno di dare un panorama delle nuove scritture confacente allo stile “disinvolto” della rivista stessa). A volte è uno scrittore notissimo quale Norman Miller a pubblicare a puntate il suo romanzo

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

242

AMELIA ROSSELLI

d’avanguardia sulla rivista di lusso quale “Esquire” o “Playboy”: alla rivista di intellettuale ma di attualità quale “The New Yorker” conviene un nome forte anche se lievemente di scandalo, sempre per i soliti motivi di prestigio. È chiaro che queste riviste essendo finanziariamente molto ben impiantate, e lette settimanalmente da un grossissimo pubblico, l’autore può preferire, anche se non spesso, il pubblicare un nuovo racconto o romanzo a puntate con esse che inoltre pagano benissimo, piuttosto che con le riviste lette da ristretti gruppi di intenditori o di “ ribelli”. Ci sono state segnalate alcune riviste che in un certo qual modo non rientrano in questa generica ma abbastanza accurata classificazione: come per esempio la “Tulane Review” (New Orleans University), che si occupa soltanto di teatro e pubblica soltanto testi teatrali (l’unica del genere negli Usa); altre riviste come la già menzionata “Transatlantic Review” e nel passato “Art and Literature” sono considerate internazionali perché spedite e comprate anche in Europa. Anzi “Art and Literature” aveva la redazione a Parigi e i testi inclusi erano sia inglesi sia americani; inoltre molti autori stranieri quali Montale, Ungaretti, vi venivano tradotti in inglese; ma direi che il clima culturale rispecchiato in queste due o tre riviste sia piuttosto europeo che non tipicamente statunitense. (1968)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

AVANGUARDIA E TRADIZIONE NELLE RIVISTE

Mentre si fa più intenso, in Italia, il dibattito sulla funzione delle riviste letterarie e culturali, non è inutile fornire un panorama, sia pure sommario, delle analoghe pubblicazioni in Europa, in particolare in Inghilterra e in Francia. In Gran Bretagna oltre ai notissimi e oramai tradizionali settimanali stampati in forma di supplementi di giornali (quali “Times Literary Supplement”) o di foglio di informazione d’attualità politica e culturale (“New Statesman”, “The Spectator” e “Punch”) sono ottenibili e lette da molti le riviste trimestrali e bimestrali, quali “London Magazine”, “The Poetry Review”, “The Critical Quarterly”, “Encounter”, “Circuit”, “Ambit” (tutte stampate a Londra); inoltre anche le riviste “Unicorn” (redazione a Bath), “Priapus 15” (Berhamstead), “Breakthru” (Haywards Heath, nel Sussex), “Blackwood’s Magazine” (Edinburgh) e altre riviste minori meno divulgate in quanto pubblicate in Irlanda (per esempio “The Honest Ulsterman”) o a Manchester (“Stanza”) o in piccole città o paesi della provincia (per esempio “Concentrate”, “Grosseteste Review” ecc). È da dedurre già da queste prime informazioni che grosso modo la cultura letteraria quale viene espressa più liberamente e specificatamente dalle riviste letterarie, in Inghilterra subisce un accentramento significativo, in quanto le più note e divulgate riviste vengono pubblicate a Londra. Però è da segnalare che la nuova corrente letteraria quale quella ispiratasi, per atteggiamento populista, alla musica e alle parole delle canzoni hippy e anche commerciali dei Beatles si è radicata nel nord Inghilterra (the Liverpool poets) dove invece sinora la vita culturale era assai ridotta. Da menzionare altre due riviste non strettamente inglesi in quanto le loro redazioni sono americane, e l’impostazione è conseguentemente di genere internazionale, quali “The Paris Review” e la psichedelica “International Times”, ambedue con redazioni a Londra. Meno sistematicamente possono venir fatte distinzioni d’ordine finanziario, nel tentare di dare un panorama secondo il “tipo” o “scuola” di rivista, che non in America: in Gran Bretagna le riviste letterarie hanno appoggi di solito privati o editoriali. Molto similmente invece può venir fatta la distinzione tra “avanguardia” dell’underground e “ufficialità” di genere più scolastico: anzi

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

244

AMELIA ROSSELLI

è da dirsi che lo scolasticismo inglese è più accentuato di quello americano e assai più ristretto a studi particolari. Ciò viene rispecchiato negli enti culturali all’estero (per esempio il British Institute di Roma) dove le riviste avanguardistiche e le riviste con redazione in provincia sono tutte escluse dalla catalogazione. E sarebbe anche da notare il fatto che alcune riviste considerate sociologiche o politiche quali “New Society” (Londra), “Back Dwarf” (sinistra trotskista-anarchica) e “New Left Review” (la più importante rivista di studi marxisti a Londra) in realtà grandemente influenzano quelle considerate letterarie: prima di tutto perché esse stesse riflettono un clima culturale inglese oramai intelligentemente non specialistico, e anche perché la poesia, “l’arte” in genere, in molte nazioni del capitalismo avanzato, tramite le nuove generazioni tende sempre di più a fondere le tematiche personali psicologiche con quelle sociali o anche genericamente filosofiche. Totalmente mancanti però dalla mostra di riviste anche sociologiche del British Institute sono queste tre riviste sopra menzionate. Per la Francia, la cui cultura ci è generalmente più vicina e con la quale anche per ragioni linguistiche e geografiche abbiamo maggior scambio letterario-politico, le riviste d’attualità e letterarie, dal settimanale “Figaro Littéraire” al mensile “Paris-Match” ai settimanali “Nuovelles Littéraires” e “Les Lettres Françaises” ci sono assai note. Notissime anche le riviste “Les Temps Modernes” (direttore J.P. Sartre), “La Nouvelle Revue Française” (editore Gallimard), “Esprit” (che ha impostazione cattolica), tutte mensili e con redazione a Parigi. “La Revue des Deux Mondes” (in parte parastatale e letteraria storica e scientifica), “La Revue des Littératures Comparée” (anch’essa parastatale negli studi specialistici), “La Table Ronde” (bimestrale di discussioni pseudopolitiche con segnalazioni letterarie), “Le Crapouillot” (trimestrale avanguardistico e politico) sono anch’esse pubblicate a Parigi, e influenzano il dibattito generale. Le riviste meno note quali “La Quinzaine” (foglio quindicinale d’avanguardia politico-letteraria) cominciano a fare qualche apparizione nelle librerie di Roma e Milano. In “Tel Quel” (che esce anche in italiano), “Cahiers du Sud” (con redazione a Marsiglia), “Planète”, “Plexus”, “Approches”, “Bételgeuse” (poesia) e nei trimestrali “Le Pont de l’Epée” (poesia) che fa capo a una libreria di Parigi e “Opus international” (avanguardia artistico-politica) si esprime tutta una generazione di letterati e politici. Redazionalmente e finanziariamente le riviste letterarie (e per ragioni di spazio non ci è stato possibile segnalarle tutte) si può dire che siano strutturate un poco come le nostre qua in Italia, con raggruppamen-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

245

ti di tendenza assai marcati, con finanziamenti per la maggior parte privati o di gruppi editoriali (vedi le case editrici Larousse, Gallimard, du Seuil, Editions de Minuit, ecc.). Anche in Francia come in Inghilterra è fortissimo l’influsso centralizzatore della capitale (redazioni per la maggior parte a Parigi), quasi ad indicarla unica patria dei suoi intellettuali. (1969)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SINDACATO SCRITTORI?

Vien detto a volte che se uno scrittore vuol “spiccare” nel mondo editoriale, letterario o commerciale, è bene che si isoli il più possibile non soltanto dai suoi simili, ma anche dai suoi colleghi di lavoro, cioè dagli altri scrittori. Ciò è assai vero; e che il commento venga da parte di uno studente assai attivo politicamente è anche assai significativo. Per le categorie di diretto significato economico o pratico, ripeteva lo studente, l’unione fa sì la forza e i metodi sindacali o parziali di difesa sono i più indicati nel tentativo di migliorarne le condizioni di lavoro e di “situazione”. Ed egli aggiungeva che considerava probabilmente inutili i vari tentativi fatti sinora da parte degli scrittori ad una difesa dei loro diritti economici e sociali: più solo era uno scrittore, più in alto salivano le sue “quotazioni” sul mercato editoriale; e più serrata si faceva la competizione anche sul piano della qualità letteraria dei suoi prodotti: essendo pochi gli amici, moltissimi i nemici. Essendo la sua guerra privata in tal modo ben più intensa, le sue ascese e le sue cadute prendono toni sovente (anche se apparentemente) assai drammatici. A primo acchito questa analisi può colpire per la sua acutezza; a ciò si aggiunge che di solito viene insegnato che lo “spirito” è “solo”; che l’artista, anzi “l’uomo” in generale, è solo ecc. Aggiungendo infine che in questa “giungla” che è il mondo chi fa per sé fa sempre meglio che per tre. Purtroppo sinora in Italia ed anche altrove ciò è abbastanza vero: al massimo lo scrittore si isola in compagnia di una clique, oppure partecipa a un ambiente, a lui più o meno congeniale. I raggruppamenti di scrittori quali quello del Gruppo 63 (fondato tramite la spinta economica della casa editrice Feltrinelli) intesero dire il contrario: almeno su d’un piano di tattica editoriale, di penetrazione culturale tramite traduzioni e impegni culturali non soltanto letterari, si poté vedere che qualche risultato dava il consolidarsi d’una specie di équipe intorno a dei punti fermi di polemica e azione. Che poi molta dell’azione predisposta dal Gruppo sia sfociata in nuove burocratizzazioni del potere letterario, credo si sia in parte compensato tramite attività almeno teoriche sul piano politico. Non a caso i membri del Movimento Studentesco s’incuriosivano, anche se a posteriori, dei metodi e mezzi suggeriti dal Gruppo.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

248

AMELIA ROSSELLI

Su d’un piano regolamentabile s’instaurò il Sindacato Scrittori nel dopoguerra. Non stando qua a troppo elencare e analizzare l’intera storia del Sindacato, coi suoi moventi, le sue articolazioni e il suo fallimento pressoché totale sul piano pratico – vorremmo invece punto per punto elencare le critiche basilari che vengono fatte a questo organismo, e spiegare perché soltanto a pochissimi scrittori il Sindacato Scrittori abbia giovato o possa aver interessato anche soltanto teoricamente. 1) Condizione per l’ammissione nel Sindacato sarebbe l’aver pubblicato almeno un libro «tramite riconosciuto editore», e il documentare una «attività continuativa» in campo letterario (per esempio articoli su riviste e giornali, insegnamento, pubblicistica ecc.). Già la parola «riconosciuto» nella sua cautela indica un filtrare gli aspiranti membri del Sindacato tramite una concezione di “potere” (potere delle case editrici più conosciute sul piano economico) di stretta derivanza non soltanto commerciale ma anche capitalistica. Dunque ci pare poco democratica già la prima impostazione basilare e condizionante del Sindacato. 2) Molti membri del Sindacato, avendo a una certa età raggiunto le così dette posizioni invidiabili non soltanto nel lavoro creativo ma anche sul piano del guadagno regolare all’interno delle case editrici (agendo o come consulenti editoriali, o come membri di redazioni di giornali, riviste o altro) istintivamente tendono a difendere non tanto gli interessi degli scrittori e degli scrittori esordienti in particolare, quanto quelli delle case editrici, anche se non sempre del tutto conscia è questa loro manipolazione. Lo stesso si può dire per quegli scrittori infiltratisi nelle posizioni “chiave” dei programmi radiotelevisivi. I lavori cosiddetti “extra” degli scrittori sono a un certo punto della loro confusa ma necessaria “carriera”, molto più redditizi che non quel loro scrivere testi per cui le editorie danno in media un 12% d’interessi sulle vendite, e per cui gli anticipi versati sono totalmente a discrezione degli editori. Qualche scrittore guadagna soprattutto tramite attività professionistiche del tutto staccate dal mondo letterario-culturale (tra gli scrittori d’oggi in Italia vi sono ingegneri, architetti, mercanti d’arte, fotografi) – soluzione che può sembrare ideale ma che crea grossi problemi di interiore scissione d’interessi; ed è del resto sempre meno accettabile allo scrittore stesso, a causa dell’alto grado di specializzazione e dedizione richiesto oggi non solo per le professioni ma anche per le arti. Ultimamente alcuni scrittori membri o ex membri del Sindacato si sono riuniti per discutere queste critiche e tentare un correggersi della

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

249

situazione soltanto in parte sopra descritta. Si è giunti ad un accordo per quanto riguarda alcune proposte da farsi sia all’interno del Sindacato, sia tramite la stampa e le eventuali riunioni allargate a scrittori e aspiranti scrittori simpatizzanti. Si richiederebbe, per esempio: 1) un rafforzarsi del Sindacato nei confronti degli editori, nel senso sia d’un eventuale controllo sulle vendite (è molto raro che un editore, nei resoconti annuali riporti l’intero numero delle copie vendute – di solito, e ciò è risaputo, il numero subisce diminuzioni). Questo controllo sulle vendite potrebbe realizzarsi per esempio tramite un controllo da parte del Sindacato sui rendiconti dei venditori, cioè i librai, i quali “dipendono” dagli editori ma non hanno obblighi nei confronti dell’“operatore culturale” che è lo scrittore; 2) assicurare a tutti gli aspiranti scrittori dei “contratti-tipo” con gli editori; in modo che almeno alla media corrisponda il contratto individuale. Infatti non sempre l’editore propone un contratto accettabile allo scrittore, ma questi, date le circostanze, se vuol pubblicare è forzato ad accettarlo. Chiedere un minimo di 12% sulle vendite. Escludere dai poteri decisionali dell’editore, nel caso di dispute contrattuali, qualsiasi riferimento a posizioni politiche; 3) tutelare sia contrattualmente sia ideologicamente i rapporti lavorativi con la Rai-tv; in modo che diventino impermissibili i lavori ghost (cioè non legalmente chiariti) presso le editorie, i giornali; cioè in modo da eliminare lo sfruttamento degli scrittori nelle loro eventuali attività secondarie di critico, consulente, traduttore; 4) ultimo ma non perciò secondario: promozione di eventuali cooperative editoriali tramite prestiti e dibattiti alla Camera per quanto riguarda eventuali agevolazioni fiscali. Non necessariamente lo scrittore deve per il futuro mirare a pubblicare con il noto editore (di cui per esempio può perfino disapprovare l’impostazione culturale); suggerire ed appoggiare eventuali piccole cooperative editoriali anche modestissime, a carico degli scrittori stessi (vedere i tentativi cooperativistici degli scrittori di sinistra in Francia; le pubblicazioni underground in America). Che un Sindacato Scrittori abbia soprattutto a tutelare, cioè difendere, le rivendicazioni economiche e situazionali dei suoi membri, è cosa ovvia: dubito molto che in sede ideologica sia possibile utilizzare il Sindacato, in modo da trovare tutti i suoi membri uniti e d’accordo. L’accordo reale è nel riconoscere allo scrittore una funzione di base rispetto al datore di lavoro e il padrone. Ricordare però che lo “scrittore”, e anche “l’operatore culturale”, sono delle figure intermedie, sono cioè rispetto alla vera base (tipografi; impiegati di case editrici; tagliaboschi per il ricavarsi di carta; operai in fabbriche di carta; operai per la costruzione di strumenti tipografici, di macchine da scrivere, di

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

250

AMELIA ROSSELLI

matite, penne) soltanto delle figure intermediarie tra grosso pubblico e padronato editoriale, e non possono in realtà chiamarsi “base” rispetto al padronato, con cui collaborano. Che poi in questa collaborazione essi siano volenti o nolenti classificabili sia per estrazione, sia per tipo di attività, come appartenenti alla borghesia, è un fatto che dovrebbe spingerli a posizioni sindacali più attente e meno idealistiche. Che il loro ricavato economico sia più basso a volte che non quello della base (tipografi; impiegati; tagliaboschi ecc.) è anche vero, ma ciò non determina la loro posizione economica visto che essi per sopravvivere hanno quasi sempre un secondo mestiere abbastanza redditizio. Al dunque poi un Sindacato di “operatori culturali” dovrebbe fondersi con quello giornalistico, per esempio, e con tutti gli altri sindacati tipicamente intermediari; ricordare però che tal tipo di Sindacato vien creato e promosso sottilmente dal padronato; e in ciò sta il suo principale difetto che vorremmo avere almeno in parte individuato in questo articolo. E – tanto per chiudere – forse sarebbe bene dire subito che l’attività di “scrittore” (essendo non primaria ma secondaria rispetto alla attività di “operatore culturale” in quanto soprattutto tramite il lavoro di “operatore culturale” può mantenersi lo scrittore) è davvero quella del “solitario”, e che i suoi rapporti con le editorie e gli enti statali e no sono per questo del tutto personali (secondo il suo grado di successo, reputazione, utilità anche soltanto commerciale). Che poi il Sindacato Scrittori tenti una mediazione con enti ed editorie (visto che la SIAE non la tenta) su d’un piano legale e contrattuale – soprattutto per avvertire le giovani generazioni e proteggerle da eventuali abusi – è più che coerente. Possiamo soltanto auspicare che il Sindacato diventi davvero efficiente, riveda i suoi regolamenti, e che venga frequentato non da gruppi d’autori, ma da ogni autore esordiente o no. Che pochissimi membri frequentassero sinora le sue riunioni credo fosse dovuto a varie cause: 1) la sua reputazione di inutilità; 2) disinteresse da parte degli autori più “arrivati” per le quotazioni economiche e contrattuali; 3) scarsa divulgazione di notizie sul piano pratico: il Bollettino del Sindacato, pubblicato ogni due mesi e autofinanziato, rassomiglia piuttosto ad una qualsiasi rivista letteraria, e le notizie precise riguardo Statuto Cassa, Statuto Sindacato, giurie dei premi, andamento delle riunioni, sono scarsissime. Si vorrebbe suggerire invece un Bollettino di minor costo produttivo, anche di poche pagine ciclostampate, che però dia ogni possibile notizia sindacale ed editoriale e legale. (1969)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

I TRADUTTORI SI ORGANIZZANO

Quali sono i problemi di lavoro di quella “categoria d’una categoria” che è la professione (o attività) di traduttore? Al convegno del Sindacato nazionale scrittori (Sns) tenuto a Roma in dicembre, vari interventi dimostrarono quanto era urgente l’organizzarsi per difendersi dalla categoria “traduttori”: ed è da anni, infatti, che da ogni parte nell’ambiente letterario s’elevano (generalmente in modo privatissimo) proteste e querele da parte di chi come mestiere ha sfortunatamente scelto quello del traduttore. Dall’analisi della situazione lavorativa dei traduttori professionistici (cioè con paga mensile, e contratti “in esclusiva”) e di quelli occasionali (ingaggiati a volte dietro contratto a volte no, e comunque pagati a “cottimo”, cioè libro per libro), è da trarsi la solita lezione. Il cosiddetto sottobosco lavorativo rappresentato da traduttori non sotto contratto quali gli studenti e i traduttori occasionali in genere (saggistica; libri gialli ecc.) sembra determinare un abbassamento delle tariffe in quanto l’essere pagati un 600-900 lire a pagina contribuisce a rendere inutile la protesta dei traduttori di professione, o dei traduttori occasionali maggiormente qualificati in campo letterario. È rarissimo il pagamento di 2000 lire a cartella, il quale dovrebbe essere anzi quello medio. V’è una mancanza di protezione di tipo contrattuale (interruzioni di lavoro per motivi di salute; scelta dei testi del tutto in mano agli editori; rifacimento di traduzioni che arriva a anche alle tre-quattro revisioni senza che il traduttore possa insistere sulla propria scelta stilistica; paga bassissima, sia nel caso della traduzione occasionale sia in quella a paga mensile; pagamenti “a cottimo” a ritmi impossibili; trattamento preferenziale dovuto spesso a una forma di sfruttamento snobistico-commerciale, cioè paghe più alte ai “nomi” più grossi in campo letterario). Tramite il Sindacato Scrittori, il quale (in vista della prossima sua assemblea generale) va proponendo revisioni e ristrutturazioni del suo Statuto in modo da includere nel Sindacato anche i traduttori, si spera di poter forzare gli editori ad un trattamento maggiormente equiparato con tariffe rialzate ad un livello più giusto, e diritti letterari (siccome è di letteratura che stiamo parlando: il tradurre è sempre una forma di

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

252

AMELIA ROSSELLI

lavoro artistico, e richiede buona cultura) maggiormente protetti. Troppo vien lasciato al caso nel campo lavorativo dei traduttori; e soltanto una chiarificazione sul piano contrattuale e sindacale può eliminare sia lo sfruttamento tramite il cosiddetto “sottobosco” (a paghe bassissime) sia quello tramite contratti duri e irreversibili. (1970)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NATE INSIEME, SOTTO SEGNI DIVERSI

Da qualche tempo nascono, nel piccolo regno della letteratura, nuove riviste assai diverse fra loro sia in senso strutturale che contenutistico. Ho scelto quasi a caso, tre riviste ideate nello spazio dell’anno 1979, ma che sono tuttavia abbastanza tipiche del lavoro culturale che si fa non solo a Roma o a Milano ma nelle varie regioni italiane. Esempio di una rivista ben appoggiata finanziariamente può essere “Tabula”, di cui il primo numero uscito nel gennaio-marzo ’79 arrivava a ben 244 pagine. I suoi finanziamenti, come raramente accade da parecchio tempo, sono garantiti dalla società editoriale Sinted di Milano (presidente Ludovico Jucker) che ne assicura la regolarità distributiva per almeno due anni. “Tabula”, pur avendo ufficio di redazione e amministrazione a Milano, ha come direttore letterario Aldo Rosselli, romanziere e saggista che ha abitato parecchio a Milano ma oggi vive stabilmente a Roma. Tra i redattori milanesi vi sono Giovanni Raboni (poeta e consulente di diverse case editrici milanesi), e Antonio Porta (con forti legami direzionali presso la casa editrice Feltrinelli). Si equilibra questo “potenziale” editoriale tramite scelta nell’insieme asistematica di altri redattori, la preponderanza dei quali sono professori di una disciplina o di un’altra. Tutto sommato perciò non si può attribuire a queste scelte redazionali un indirizzo politico molto chiaro, ma è ovvio che essendo ufficio amministrativo e tipografia a Milano, la “linea” letteraria, al dunque, risulta piuttosto centro-nordica. “Tabula” è uscita nei primi mesi del 1979 con molti fondi e idea di graduale sviluppo in senso grafico e di precisazione d’intenti. Nel primo numero della rivista sono documentati un convegno tenuto a Milano dal tema Le riviste culturali dell’ultimo decennio; e, tra gli scritti presentati, un interessante studio condotto da Laura Fortini, intitolato Breve rassegna delle riviste culturali: bibliografia, che copre tutte le venti regioni sud-nord. Nel secondo numero di “Tabula”, i testi narrativi sono predominanti rispetto ai saggistici. Tra i testi poetici spicca quello del mozambicano José Craveirinha, repêchage effettuato dalla Joyce Lussu già nel 1966, nei suoi vari lavori di traduzione di poeti del Terzo Mondo. Inusuale il testo e inusuale la traduzione. Allo stato attuale si è deciso, nel terzo numero di “Tabula” che uscirà verso fine gennaio, di ridurre il numero di pagine a circa 200

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

254

AMELIA ROSSELLI

pur restando fisso il prezzo di circa 5000 lire a numero, con distribuzione e impaginazione ancora da perfezionarsi. Dai primi due numeri della rivista si nota la tendenza a variare le tematiche cosiddette “centrali” e ad abbinarle a testi poetici, narrativi e saggistici. Anche “Autobus” (rivista diretta da Giorgio Manacorda e Giuseppe Conte) è trimestrale ma solo teoricamente. I fondi sembrano infatti piuttosto incerti. Il primo numero, di letteratura e teatro, è uscito nell’estate del 1979, finanziato dall’assessorato di Cosenza, e in minor parte, dall’associazione culturale Beat ’72. Per la direzione, redazione e pubblicità, sono invece responsabili le edizioni Lerici. Notevole il lavoro del grafico, come si nota anche dalla copertina elegante dei primi due numeri. La rivista non supera le 140 pagine e costa 2000 lire a numero. Costi di carta e copertina, nonostante la buona apparenza, sono ridotti al minimo. Nel primo numero vengono alternati autori giovani a qualche anziano; tra i poeti giovani o di mezz’età spicca, come al solito, C. Viviani. Il secondo numero presenta una interessante esposizione di una specie di programma editoriale dei due direttori: Giuseppe Conte lo espone in una poesia tendente al contenutismo, e Giorgio Manacorda con un saggio analitico. Anche “Autobus” lascia spazio ad eventuali inserzioni pubblicitarie: nel secondo numero vi è l’intelligente contrapposizione tra la tendenza modernistica del finanziatore-organizzatore Beat ’72 e le pagine pubblicitarie dell’Ente teatrale italiano. Molto recentemente è nata una piccola rivista di poesia con strutturazione ben diversa. Si tratta di una piccola cooperativa di quasi tutti giovani (età media ventisei anni) condotta da Vincenzo Cerami, romanziere abbastanza noto ma ancora giovane come poeta. Vi sono nove redattori autopubblicatisi nel primo numero della rivista intitolata “I tre giganti”, che si autofinanziano pagando – tra impaginazione tipografia e carta – un 50 000 lire a testa. La rivista conta circa trentacinque pagine e circolerà per ora soltanto a Roma. Nei numeri successivi (trimestrali di poesia) forse vi sarà una redazione allargata, con predominanza d’autori giovani alcuni dei quali ancora inediti. Il titolo “I tre giganti” è tratto da una novellina scandinava riportata da Gramsci nelle Lettere dal carcere per i suoi figli, che viene citata in ultima pagina. In questo numero il commento introduttivo è formulato dagli stessi poeti, con riferimento a Gramsci che è anche il tema fondamentale dei nove poemi brevi e lunghi. Tra i giovani autori ve ne sono due che spiccano in modo particolare; si veda, per esempio, la poesia Ogni definizione è necessaria di Antonio De Simone, e la ben più breve e concisa poesia d’apertura di Alberto Toni. Anche da

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

255

notare per il suo indirizzo politico-poetico l’autore P. Repetti nelle ultime cinque stanze della poesia Gramsci. V’è però qualcosa di non del tutto convincente nel contenuto introduttivo concertato anch’esso in senso cooperativistico: se analizzato linguisticamente, tende a contraddirsi. Comunque ogni prossimo numero della piccola rivista appena nata avrà un tema centrale diverso, e non sarà necessariamente programmato attorno a una figura come quella di Gramsci, poi riferita indirettamente, come mostrano alcuni testi, anche a Pasolini. Quanto al livello medio di scrittura poetica, è interessante e sembra riaccender un nuovo dibattito in senso neorealista. (1980)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NON AVERE FRETTA

Non penso che si possa parlare di “prospettive” riguardo alla poesia in genere salvo, naturalmente, in senso commerciale. Quanto alla «nascita di una linea di tendenza», non credo molto nella poesia non orale ma collettivizzata, anzi penso proprio che è negli anni settanta che fu eccessivamente accentuato questo tipo di fraseologia. Che il repertorio sia stato eccessivamente eclettico è difficile accertare: bisognerebbe seguire il mercato della poesia nascente (dei giovani) e morente (degli anziani), con metodi addirittura da sondaggio sociologico, ciò che è difficile fare in ogni caso, perché poeti nascosti e non ancora pubblicati, vi sono sempre stati. C’è poi chi si riserva di pubblicare non da giovane, o di non pubblicare affatto. Che possa però «nascere… una realtà poetica» (immagine non realistica) qualitativamente migliore negli anni ottanta, è auspicabile: del resto la poesia è quasi sempre testimonianza individuale, e perfino negli anni settanta testi come Il nome (breve canto dedicato a Rosa Luxemburg, di Gino Scartaghiande, laureando in Medicina e meridionale, pubblicato tramite la Cooperativa Scrittori) hanno sorpassato l’individuale, tramite ispirazione anche generazionale. La poesia comunque ha i suoi cinquantenni, quarantenni e settantenni. Vedere per esempio Caproni, Xenia di Montale, Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini e Antonio Porta, tutt’altro che privati o privi di valori qualitativi negli anni settanta. Sembra però mancare tra i giovani (da quanto io come singola scrittrice possa giudicare) una personalità poetica predominante. Più facile che salti fuori, negli anni ottanta, un repêchage per esempio, di Lorenzo Calogero morto suicida nel ’61. Io personalmente preferirei che i giovani aspettassero di avere qualcosa da dire nel senso proprio dei “valori qualitativi”, e che cioè pubblicassero meno spesso, meno presto, e attendessero l’esperienza approfondita prima di pubblicare brevi libri, parziali – anche se felicemente divulgative – riviste politicizzate o no. (1980)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

INCONTRO DI POESIA A ROMA

Anche a Roma le letture in pubblico, specie di poesia, si moltiplicano. Ve ne furono alcune, come prima proposta, nel 1967 al teatro Porcospino (lessero Pasolini, la Maraini, Antonio Porta, Amelia Rosselli) e, per esempio, al centro culturale di Monteverde Vecchio del Pci, assieme a rade letture in alcune “cantine”. Il pubblico allora era relativamente folto, e richiamato dagli autori-organizzatori per vie private, e né le organizzazioni ricreative del comune né i giornali s’impegnarono in senso pubblicitario-finanziario. La moda cadde quasi immediatamente, nel giro d’un anno circa, e ad essa si sostituì molto più estesa e qualitativamente più dubbia, quella del teatro “in cantina”. Oppure alcuni partiti di sinistra s’impegnarono poi assieme all’Arci, per esempio, a Centocelle e tramite Circoli Culturali finanziari e reclamizzati, in difficili esperimenti teatrali-culturali (commedie, jazz, teatro all’aperto) per i vari quartieri periferici. Ma di lettura di poesia in pubblico non si parlò più, forse perché allora la poesia era ancora da guardarsi come fenomeno élitario, oppure perché si concentrarono nel periodo 1970-75 gli sforzi di riavvicinamento dello scrittore al pubblico, e sul costruirsi di cooperative editoriali in piccolo e in grande. Già nel 1969 il Sindacato Nazionale Scrittori proponeva una decentralizzazione del suo stesso ordinato, toccando tutte le regioni, per quanto riguardasse la facoltà d’iscrizione, e di discussione dei problemi dello scrittore nei confronti degli editori, della pubblicità distributiva possibilmente ottenuta anche tramite cooperative di scrittori. Ed era forse tramite il Movimento Studentesco, anche, che nacque tale democratizzazione almeno degli intenti, per quanto riguardasse rapporto scrittore-pubblico, o scrittore-editore. Gli studenti infatti, ed anche i centri culturali partitici degli anni sessanta, si riunivano e si pubblicavano strutturandosi quasi spontaneamente, con largo uso di ciclostile, più tardi dell’offset. Molte delle cooperative editoriali aventi intenzione di pubblicare opere anche poetiche e non solo narrative, o a volte scientifiche o sociologiche, ebbero corta vita, in parte per l’aumentato costo della carta, in parte perché gli appoggi editoriali o piuttosto distributivi essendo privati, vennero meno, anche se molto del lavoro manuale si faceva tramite i membri delle cooperative stesse (vedi Cooperativa 10, op-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

260

AMELIA ROSSELLI

pure le Edizioni MCE, e, fuori Roma l’attività di Roberto Roversi a Bologna, gli Scritti di Rivolta Femminile a Milano). Resistette più a lungo la cosiddetta Cooperativa Scrittori, discretamente finanziata in quanto la distribuzione era originariamente della casa editrice Feltrinelli; del resto i componenti del comitato cooperativistico erano gli eredi, e questo quasi direttamente, del Gruppo 63, che tra i primi aveva tenuto sedute di letture poetiche, narrative e critiche a Palermo, a Reggio Emilia, a la Spezia e a Fano. Questo anche perché all’estero s’erano previamente suggerite letture e discussioni semipubbliche, specialmente in Germania (Gruppo ’47, tra altri). Da pochi anni, forse due, nascono convegni di lettura di poesia, prima all’estero; e hanno avuto qua e là piglio internazionale: in Olanda, poi a Genova, poi finalmente nel 1979 d’estate a Castelporziano. In quel caso furono impegnati l’Assessorato Culturale di Roma e l’associazione Beat ’72 nell’organizzazione, nel finanziamento, nel pubblicizzare poeti famosi come Evtusˇenko, Ginsberg, Burroughs, Jean Pierre Faye, Gregory Corso, assieme agli italiani Antonio Porta, Dario Bellezza, Amelia Rosselli, Maria Luisa Spaziani e molti altri sia italiani sia austriaci, inglesi, francesi, eccetera. L’effetto fu perfino calcolato: su tutti i giornali l’enorme e divertente chiassata di tre giorni su spiaggia vicina a Roma fu discussa. Il pubblico era infine “di massa”. S’ingelosirono perfino gli assessorati genovesi, o nordici in genere, che ripeterono convegni internazionali in altro stile, e con maggiori mezzi anche recentemente. Nel frattempo pullulavano incontri poeta-pubblico su piccola scala, e per parlare della sola Roma si dovrebbe menzionare che non soltanto al teatro Prado vicino a via del Governo Vecchio s’alternarono per settimane dinanzi a pubblico non piccolo ma comunque limitato, letture di poeti importanti quali Sinisgalli e Caproni, a quelle di giovani poeti di poca esperienza. A Velletri, a Frascati, a Radio Città Futura, a Radio Blu, alla Trattoria dello Studente del Testaccio e tramite l’Arci, o tramite perfino l’Aied, si svolsero letture di poeti anche all’aria aperta. S’impegnarono anche Comuni quali per esempio quello di Forlì, combinando con una piccola editoria veneta, oppure, in modo più dilettantesco, Centri Culturali come quello d’Istria. Raramente poteva darsi cachet ai poeti, salvo che per lo spostamento e il pernottamento. Quest’anno in reazione all’effetto “shock” del Festival Internazionale di Castelporziano dove un pubblico ironico e critico s’era comunque un poco divertito, ad un gruppo di poeti quasi tutti d’origine proletaria, chiamato La tigre nel corridoio (libro-gruppo contenente lettere e minibiografie umoristiche assieme a poesie inedite, pubblica-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

261

to in proprio), è stata “appaltata” l’organizzazione d’un nuovo Incontro con i poeti, però locale, mirante a pubblico esteso, superando le 200 o 300 presenze, anzi con teatro con capacità di circa 600 posti. Com’è nata l’impresa? Pare che gli studenti fuori sede ospitati alla Casa dello Studente o al Civis di Ponte Milvio, essendo spesso tra i più emarginati quanto a mezzi finanziari e occasioni culturali (buona parte di essi meridionali), abbiano fatto pressione tramite l’Opera Universitaria per un nuovo avvenimento culturale a loro portata. L’Opera Universitaria ha stanziato finalmente un 5 milioni al gruppo di otto poeti della Tigre nel corridoio, che per circa sei mesi hanno discusso la modalità d’organizzazione tramite i circoli universitari dell’Arci, di cui è segretario provinciale Mario Pisani. Sono stati anch’essi patrocinati dall’assessore alla Cultura Nicolini. La parola “appalto” usata nel passato anche per l’associazione Beat ’72 in rapporto all’assessorato del Comune, non ci pare adatta; infatti formalmente viene usata la frase “dare l’incarico”, e non certo vengono pagati né associazione né gruppo, che però s’ingegnano a portare idee nuove e nomi nuovi ai realizzatori dell’Arci. Interessante notare che sui 5 milioni stanziati per la lettura concentrata nello spazio di due week-end in maggio (per precisione i giorni 17 e 18 maggio, e 23, 24 e 25 maggio) una buona parte è andata, per necessità, all’affitto di strumenti d’amplificazione, e per spese di pubblicità. Per esempio i soli manifesti e programmi hanno portato via circa 1 milione. Si è deciso di chiedere biglietto d’entrata, magari basso, e v’è stata possibilità d’abbonamento alle cinque serate (3000 lire). Il cachet al poeta è stato al dunque ridotto al minimo, visto che solo uno dei trenta poeti che hanno letto proveniva da fuori Roma. Al Festival di Castelporziano per gli italiani il cachet era di 100 000 lire a lettura: quest’anno i pochi nomi cosiddetti “grossi” essendo metodicamente inseriti tra quelli giovani e in misura attenta, il cachet è stato dimezzato. Ma si tende a fare capire al pubblico che l’audizione di sei-sette poeti per sera va fruita e responsabilizzata, proprio tramite sia il pagamento di biglietto sia il cachet. È noto che continuano a formarsi imprese minori di letture private un po’ qua e un po’ là a Roma, e naturalmente non v’è pagamento. Lo sforzo organizzativo dell’Arci, benché solo in parte parallelamente amplificato tramite annunci su giornali non strettamente legati a questa organizzazione, s’è rivolto ad un ampio pubblico, non soltanto di studenti o di amanti della poesia: si è cercato di portare anche la popolazione del quartiere di San Lorenzo, dove ha sede il teatro interno della Casa dello Studente: a tal fine i manifesti e programmi

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

262

AMELIA ROSSELLI

stampati dall’Arci hanno avuto una divulgazione il più possibile capillare. Il concetto di “massa” d’ascoltatori è ancora vago, non include (com’è noto) il proletariato, che di solito s’astiene da simili manifestazioni culturali, anche se ben progettate. Vi sono stati intermezzi musicali, per riposare il pubblico fra una lettura e l’altra. Infatti per ogni serata erano previste le letture in media di ben sei poeti, ciascuno col suo piglio, la sua specifica cultura. Sono anche stati invitati poeti non programmati, a leggere a scena aperta, un po’ casualmente, e provenienti dalla platea stessa. A letture semplici si sono alternate letture accompagnate da strumenti musicali diversi (chitarra, flauto, pianoforte, percussioni). (1981)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SI FA SPESSO SPETTACOLO DEL POETA, CI SI DIMENTICA PERÒ DELLA POESIA

Un pubblico immaginato v’è sempre, nello scrivere versi. Il primo pubblico, negli anni di studio, è il libro, sono i pochi amici. Nel sentire, più tardi, lo scrivere non soltanto come vocazione e piacere, ma anche come professione, il pubblico diviene il non già pubblicato, il vagamente previsto, visualizzato prima e durante lo scrivere. Nel verificare poi, dopo avere scritto anche per vent’anni, quale sia il vero pubblico se non quello dei compratori di libri e premiatori di versi, si può provare delusione: si era scritto per tutti, per l’illetterato come per il “principe”. Fuori di una borghesia colta o meno, è raro trovare un’immediata rispondenza, qualcosa d’uguale alla massa dei fruitori originariamente fantasticata. Il pubblico è di categoria, giovane e accademico, appassionato e divertito, e si ha a volte la sensazione che la lettura di versi faccia invece solo spettacolo del poeta e non della poesia. Gli editori vendono meno malgrado i nostri sforzi alla divulgazione: anzi, per ragioni strette al mercato, lasciano a questo nuovo e costruito mass-media la poesia. Scritta nella solitudine, così come sino agli anni settanta quasi sempre è stato. Perché non scrivere per la pubblica lettura? Perché non memorizzare i propri versi e da questo servizio fare nuova professione di partecipazione al sociale? Così si è tentato ma dimenticando il tipico ermetismo della poesia italiana di questo secolo e tralasciando l’impegno didattico e perfino politico. Da prima leggere pubblicamente allo scrittore serviva come esercizio di comunicazione espressiva, dunque in senso musicale-teatrale. Ma il verso rifiuta il pubblico borghese e diviene invece una domanda del mercato. Purtroppo è sempre mancata una definizione della professionalità dello scrittore, e la sua funzione è sempre stata o sminuita o mistificata: non ci sono nemmeno i metri economici per valutare la sua cosiddetta professionalità. Questo per l’Europa occidentale: insistere sulla professionalità dello scrittore in tutte le sue scelte e funzioni sociali, ci riconcilierebbe con l’impegno preso fin da giovani. Troppo romantico e astratto, il concetto del poeta come tale. Perché non chiedere al pubblico stesso, poi, un giudizio sulla lettura in pubblico e la sua utilità, invece che al critico e allo scrittore? (1983)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

LA POLITICA DEI CENTO FIORI

Questo breve saggio informativo, del 1974, venne scritto originariamente in forma di recensione, ma intenderebbe essere insieme riassunto d’un libro e tesi politica. Cioè vi si analizzano delle forme politiche tipiche di dieci anni della vita politico-sociale in Italia, dei movimenti extraparlamentari e del Movimento Studentesco. Che poi oggidì il Movimento Studentesco abbia assunto forme già parecchio differenziate politicamente (vedere anche fattore geografico: Movimento Studentesco a Milano prende colorazioni ben diverse da quello per esempio romano o calabrese) e che anche i movimenti extraparlamentari o rivedono le loro posizioni o tentino un riallacciarsi a organismi più larghi quali quelli partitici (specialmente tramite le federazioni giovanili dei partiti di sinistra) o sindacali, è fattore che non mi sento di analizzare ulteriormente, anche perché in una realtà politica fluida come quella di oggi in Italia, l’analisi andrebbe condotta ogni due anni o perfino ogni sei mesi! Che però questo continuo dissociarsi per poi riassociarsi diversamente, tipico dei “gruppi” e dei “movimenti” sia elemento già caratteristico della storia dell’extraparlamentarismo politico, è fatto che risulta nella lettura di questo testo e nell’analisi degli anni 1960-70: come ex membro d’un partito politico considero non necessario questo lavorio costante e a volte dilettantistico: come “osservatore” vi ritrovo motivi romantici e resistenziali che non vanno del tutto disprezzati. Che i partiti oggi abbiano meglio compreso il significato di questo fluttuare e di questo sbriciolarsi delle correnti extraparlamentari, considerandolo a volte utile come pungolo d’opinione tra i giovani, è vero: che sia da riconoscersi anche però che lo spreco di tempo, denaro e lavoro insito in questo tipo di attività è frutto d’opinioni non sempre approfondite – e di forme di individualismo quasi esibizionistico tipiche dei ceti sociali medi quali quelli studenteschi o extraparlamentari in Italia – è anche vero. Strano che a libro così denso di dati e di particolari (Storia del Movimento Studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia di Walter Tobagi, Sugar, 1970) venga aggiunto, al termine di circa 150 pagine, un brevissimo e abile Dizionarietto di tutt’altro stile e intenti. Intenti meritevolmente divulgativi: stile “cinese” nel dare definizioni concise e pratiche di una terminologia che da decenni è d’uso tra gli intellettuali

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

266

AMELIA ROSSELLI

politicizzati, mentre è poco abituale tra i meno colti proletari d’ogni partito di sinistra. Di molto dunque contrastano queste veloci definizioni di “bordighismo”, “codismo”, “entrismo”, “massimalismo”, “settarismo”, eccetera, col tono del libro in sé, tutt’altro che semplice. Ma la sua complicazione non sta nello stile, che anzi è sbrigativo e diretto: sta piuttosto nella sua materia, che è imbrogliata, in apparenza caotica, e comunque multifacciata. All’autore possiamo rimproverare al massimo d’essersi lasciato influenzare, sul piano espositivo e formale, proprio dalla caoticità apparente della sua materia: d’aver nella esposizione dei fatti un po’ peccato di “confusionismo”: anteponendo o posponendo avvenimenti e dati in realtà facilmente inquadrabili nello spazio dei dieci anni (circa dal 1960 al 1970) coperti dal libro. E accentua questo senso di disordine il non aver aggiunto al testo un indice particolareggiato, che enumerasse cognomi, gruppi, partiti, leghe, movimenti, federazioni, giornali, settimanali, quindicinali, eventi principali eccetera. D’un testo di per se steso vivace e chiaro proponiamo dunque un piccolo “indice” o piuttosto un veloce “catalogo” di movimenti, giornali, gruppi, partiti, ecc. che negli anni recenti hanno molto influenzato l’ideologia del Movimento Studentesco, e dato filo da torcere al Pci, da essi considerato, com’è ben noto, revisionista e affetto da parlamentarismo e opportunismo. Dalla attenta lettura di questo informatissimo libro del Tobagi, ci pare che i vari movimenti o estremisti o comunque “a sinistra” del Pci, che abbiano contribuito in parte a una rivalutazione di certi temi, siano circa quattro o cinque da definirsi come “tronconi”, o “linee” ideologiche: 1) il troncone bordighista, e quello trotzkista; 2) operaista; 3) marxista-leninista; 4) maoista; 5) Movimento Studentesco. Senza dubbio il catalogare “linee” che nella realtà si sono spesso fuse o comunque reciprocamente influenzate, può avere sapore di eccessiva storicizzazione di fermenti politici ancora attivi. E perciò elenchiamo anche quei giornali e quella pubblicistica e quelle persone che li rappresentano. Dei trotzkisti nel 1962 è il giornale “Bandiera rossa”, fondato da P. Leone, staccatosi però dalla Quarta Internazionale, ricollegandosi come trotzkista dissidente al Partito Comunista Rivoluzionario guidato da Posadas assieme ai gruppi operai nel Sudamerica. Non diversissima l’impostazione originaria della rivista “Falce e martello” con la sua politica “entrista” all’interno del Pci attorno al 1963, formulata da A. Brandirali. È anche nel 1963 che i bordighisti con la loro polemica che dura da quasi cinquant’anni (e cioè dalla rottura con Gramsci e To-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

267

gliatti nel 1926) s’organizzano tramite il Partito Comunista Internazionalista, e s’attornano ai giornali “Il Programma Comunista” e “Battaglia Comunista”. Ma già negli anni 1961-62 si pubblicava il giornale operaista intitolato “Quaderni rossi”, di R. Panzieri. Seguirono “Classe operaia” che ebbe vita sino al 1967 e instaurò i Cub (Comitati Unitari di Base) nelle fabbriche. Dal 1965 in poi le pubblicazioni delle riviste-giornali settimanali o quindicinali, intitolate “La Classe” e “Potere Operaio”: per influenza del Movimento Studentesco che partecipa alle lotte la loro impostazione è anche di tipo “spontaneista”. Da fazioni dissenzienti nasce il “Circolo Marx” a Pisa, attorno al 1968. Il lavoro di “Potere Operaio” si riversa anche sulla pubblicazione del 1969 intitolata “Lotta Continua”. È però a Torino che agli operaisti è dato maggior spazio d’azione, in quanto la Fiat nelle recenti lotte d’autunno appoggiava piuttosto i cosiddetti “sindacati gialli” (e cioè corporativisti e padronali di destra) a danno di quelli grandi e confederali. Nettamente contrapposto sia ai gruppi operaisti sia a quelli bordighisti e trotzkisti del 1962-65 è il filone “cinese”, che negli anni successivi, tramite le divulgatissime pubblicazioni degli scritti di Mao TseTung, amplificherà le tesi della Rivoluzione Culturale. Le prime pubblicazioni marxiste-leniniste di tipo “cinese” in Italia furono quelle divulgate e tradotte dal Partito Comunista Cinese (Pcc) e dal Partito di Lavoro d’Albania. I 25 punti (1963) e l’opuscolo Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi (tratto dal giornale cinese “Il Quotidiano del Popolo” nel 1963) prepararono il terreno; dal 1963 anche la fondazione da parte della milanese Maria Regis, delle Edizioni Oriente, che divulgano documenti del Pcc, libri e lavori teoretici. Attorno al giornale “Azione Comunista” confluiscono gruppi marxisti-leninisti che avevano previamente aderito ai “25 punti” del Pcc, inoltre la casa editrice Lingue Estere di Pechino divulga, ad inizio della rivoluzione culturale in Cina, la Circolare del Comitato Centrale Pcc (16 maggio 1966); e da allora proseguirà in una sua abbastanza intensa campagna pubblicistica dei testi tradotti in italiano. Nasceranno poi la Federazione Marxista-Leninista nel 1966, e l’Avanguardia Proletaria Maoista nel 1968, di cui il giornale “Rivoluzione proletaria”; non vi parteciperà A. Brandirali (già presente nella federazione Pci di Milano, e nelle pubblicazioni dissenzienti quali “Falce e martello” e “Il Confronto”): è dell’estate del 1968 il fondersi sotto la sua guida della Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti più brevemente denominata L’Unione. Strettissima e rigorosa la sua struttura partitica, con organo ufficiale intitolato “Servire il popolo”:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

268

AMELIA ROSSELLI

vi si aggregano marxisti-leninisti e maoisti, benché nel programma dell’Unione vi sia un negare ogni validità ai vari gruppi “m-l” nati prima del 1964, cioè prima della Rivoluzione Culturale in Cina. V’affluiscono anche studenti, cosiddetti “cani sciolti”, senza esperienza di lavoro di partito o delusi dal progressivo disgregarsi dei gruppi e partiti estremisti quali il Partito Comunista d’Italia (Pcd’I). Recentemente l’Unione tenta collegamenti coi gruppi del “Manifesto”, e ancor più recentemente, malgrado un subitaneo crollo di iscritti e di prestigio, s’unisce in forza a ciò che resta dopo varie rotture e scissioni, del Partito Comunista d’Italia. Il Pc d’I aveva rappresentato dal 1966 in poi il punto d’incontro di ogni gruppo dissenziente rispetto al Pci. Ad esso soprattutto va riferita la definizione “marxista-leninista” con qualche nettezza. È però dal 1962 il primo raggrupparsi di centri “m-l” italiani, attorno a un giornale intitolato “Viva il Leninismo” (il titolo è quello del primissimo opuscolo cinese sul dissenso con l’Urss), pubblicato a Padova. Del 1964 la nascita del quindicinale “Nuova Unità”, che sia nella sua prima serie sia nella sua seconda serie di pubblicazioni costituisce un punto di riferimento per tutti i “m-l” italiani. Il giornale collega i gruppi sparsi, vuole chiarire la linea marxista-leninista, professa simpatie per la “linea Secchia”. Chiude i lavori dopo un solo anno di pubblicazioni, ma dopo pochi mesi si ricostituisce nella sue seconda serie settimanale (comprabile a Pechino e Tirana più facilmente che non a Roma) attorno a cui negli anni 1964-65 viene costruito un movimento marxista-leninista che volgerà poi nella formazione del Partito Comunista d’Italia nel 1966. Scindendosene nel frattempo esce “Il Comunista”, giornale “m-l” dissenziente, che ha anche l’appoggio della Lega della Gioventù Comunista, previamente legato al gruppo “Nuova Unità”. Anche il suo lavoro e gruppo confluirono nel Partito Comunista d’Italia capeggiato da Dinucci, così come “Tribuna rossa” del 1967 e “Lavoro Politico” stampato sino al 1968 a Trento. Altri gruppi minoritari quali quelli accentrati attorno al giornale senza fissa periodicità “Voce rivoluzionaria” (a cura dei dirigenti della Organizzazione Comunista Italiana); “Il Bolscevico” del 1969-70 a Firenze; “Lotta di Lunga Durata” d’un gruppo secessionista napoletano; “Gioventù Rivoluzionaria” della Lega Marxista-Leninista; e “Rivoluzione proletaria” del 1966, confluiranno nella Federazione Marxista-Leninista del 1966. La Oci (Organizzazione Comunista Italiana) nel 1969 dopo un anno di esistenza proporrà per un verso il suo stesso scioglimento suggerendo un ritorno alla libertà del Movimento Studentesco; e per un altro verso il non scioglimento proseguendo con la pubblicazione del giornale “Voce Rivoluzionaria”.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

269

Da allora, sia dalla spaccatura del Pcd’I in linea nera (verticista) e linea rossa (assembleare) che ne distruggerà praticamente l’efficacia, sia per l’influenza dell’ormai prepotente e più informale Movimento Studentesco, l’attività dei gruppi marxisti-leninisti varrà assorbita piuttosto da “gruppi di studio” quali la Sinistra Universitaria napoletana, il Circolo Lenin di Puglia e la Sinistra Leninista e il Comitato Marxista-Leninista romani, di cui diverse pubblicazioni si sono messe in luce: ma in realtà saranno a centinaia i gruppi a sorgere senza leader o linea marxista-leninista globalmente definibile, che influenzeranno il Movimento Studentesco, e, più indirettamente, l’Unione e il Pcd’I. Di questi ultimi due anni è l’usanza della distribuzione non formalizzata di ciclostili non poi recuperabili in depositi o magazzini; i centri, gruppi e circoli si moltiplicheranno, e la documentazione si farà meno precisabile. Per questa via originariamente sorse il Movimento Studentesco attorno al 1967 a Pisa e a Milano: spinto ad una sua formazione sia dalle pubblicazioni “Terzo Mondo” della casa editrice Feltrinelli (Marcuse, Rudi Dutschke, Martinet, Carmichael) sia da un divulgarsi di tipo consumistico dei detti e delle gesta del Che, del Torres, di Mao, Lin Piao, Lenin. Attorno al Ms ruotano riviste anche letterarie quali “Quaderni piacentini” (nata però nel 1962), “Quindici” (nata nel 1968 dal Gruppo 63), “Che fare” (del 1967), “il manifesto” (1969) e “Compagno” (1970): “Nuovo Impegno”, “Giovane Critica”, “Classe e Stato”, “Contropiano”, “Critica Sociale”, “Monthly Review” (tradotta), “Sette Giorni”, “Le Guardie Rosse” sono altre pubblicazioni di non grosso pubblico ma rappresentative del clima politico giovanile degli anni 1967-70. Recentemente la pubblicazione del documento d’assemblea all’Università Statale di Milano (La situazione attuale e i compiti politici del Movimento Studentesco, Sapere Edizioni, Milano 1969) e il nascere di diverse piccole cooperative editoriali senza fini di lucro all’interno delle università, ha in qualche modo precisato il discorso e il programma di un Movimento Studentesco la cui forza sta però anche in una concezione piuttosto “cubana” e informale dell’azione politica. In esso confluiscono i “cani sciolti” delusi dal Pcd’I o dalla Unione o dai vari raggruppamenti operaisti e marxisti-leninisti; a esso anche confluiscono membri del Pci, Psiup, delle Acli, delle federazioni giovanili del Psi e perfino del Pri, ed è questo lato meno prevedibilmente scissionistico e frazionistico del Movimento Studentesco (sia a Milano sia a Roma o ad altri centri non collegati tra di loro) che ci sembra che l’autore Walter Tobagi sottovaluti nel fare il punto sulla situazione politica degli anni settanta. Inaspettata fu infatti la ripre-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

270

AMELIA ROSSELLI

sa dei sindacati uniti nell’autunno 1969, inaspettata e sottovalutata la capacità d’assorbimento delle linee giovanili anti-riformiste, da parte del Pci del Psiup e perfino del Psi. L’operaismo poi confessa una sua non-indipendenza dalle strutture sindacali classiche, pur ripristinandone una impostazione ormai maggiormente indipendente nei confronti dei partiti ufficiali, e maggiormente aggressiva in quanto non più strutturabile soltanto in senso economicistico o tradeunionistico. Ma molto sottovalutato ci sembra il ruolo tenuto dal Pci rispetto ai vari movimenti marxisti-leninisti o cinesi, in tutti i dieci anni descritti così minuziosamente dal Tobagi. Soltanto i punti di vista “antiriformisti” e “antirevisionisti” vengono analizzati senza alcun cenno ad argomenti provenienti “da altra campana”. Ed è per questo che, a mo’ di critica, semplicemente abbiamo elencato oltre che giornali, gruppi, tendenze, anche i partiti, le organizzazioni, le leghe, le federazioni e i movimenti, che parallelamente al lavoro politico-pubblicistico già descritto si creavano e disfacevano negli anni 1960-70. Ci sembra che questo elenco metta ben a nudo la quasi assurda ed eccessiva proliferazione di organismi politici di un genere o un altro, di cui l’intenzione era non quella di una breve vita di men di un anno in media, ma piuttosto di stabilizzazione e guida e collegamento dei gruppi delle “nuove sinistre”, e di penetrazione nei ceti proletari per ora rimasti invece in gran parte indifferenti. L’elenco completato nei dettagli includerebbe ben dodici o tredici organismi del genere; l’elenco dei settimanali, quindicinali, delle riviste verrebbe a contare almeno cinquanta diverse pubblicazioni, il che ad occhio profano o no, senza altro sembra eccessivo e di spreco. Né il libro del Tobagi sembra rimproverare ai gruppi e partiti che egli descrive questa dispersività un po’ egocentrica, ma spesso l’autore rivolge alla sua materia brevi frasi ironiche “stangate” rivelando un senso di proporzioni che speriamo verrà assimilato dal lettore, ansioso anch’esso di comprendere il perché e il come delle politiche “dei cento fiori”, assolte soprattutto dai ceti medi giovanili italiani. (1986)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

SCENEGGIATORI NEL CINEMA

Lo scrivere un articolo informativo sulla situazione lavorativa degli sceneggiatori del cinema considerata come categoria paraletteraria può sembrare superfluo, specialmente se si considera il fatto che proprio questa categoria ha reputazione d’essere tra le più fortunate in quanto a guadagni e “potere” espressivo. Ed è anche vero che il suo mezzo espressivo, cioè il cinema con il suo alto grado di divulgazione, di capacità di influenzamento ideologico, e di facile propagazione di notizie di punti di vista, è disciplina tra le più potenti e oggi significative. E questo suo potere, racchiuso tra le mani di pochi (produttori, registi, sceneggiatori), preoccupa per un verso (il messaggio cinematografico essendo stato sinora determinato piuttosto da finanziatori anche stranieri e in gran parte americani) e per l’altro interessa, assai, proprio perché potenzialmente popolare o comunque di massa. Ma ad esame particolareggiato della strutturazione finanziario-culturale del cinema in Italia, ci si accorge ben presto che perfino questo suo potere di divulgazione è manovrato non solo dallo Stato (elargizioni tramite il ministero del Turismo e dello Spettacolo, ora in mano ai democristiani: premiazioni a documentari tramite apposite commissioni dello stesso ministero, spesso a loro volta “manovrate” da case di produzione). Gli enti distributivi del cinema poi sono in gran parte di genere privatistico, ed hanno una loro determinazione sempre capitalistica in quanto controllati a loro volta da “catene” di sale di spettatori in mano ad esercenti dal potere finanziario a volte addirittura superiore a quello dei produttori (vedi per esempio l’esercente Amati a Roma; Gadolla a Genova). In questo caos apparentemente informe si attua il lavoro dello sceneggiatore, di solito originariamente scrittore di romanzi o lavori teatrali, bisognoso di maggiori guadagni che non quelli generalmente offertigli dalla letteratura in senso stretto. Da questo bisogno urgente di racimolare 200-300 000 lire mensili necessarie ad una vita familiare di genere borghese-medio, tipica dell’artista e dello scrittore, nasce il compromesso con case di produzione cinematografiche capitalistiche, che assumono scrittori in veste di sceneggiatori ghost, ciò che nel gergo cinematografico e anche radio-televisivo si chiama il lavoro “negro”, cioè non ufficialmente dichiarato in quanto lo sceneggiatore-ne-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

272

AMELIA ROSSELLI

gro scrive soggetti e trattamenti (cioè rielaborazioni di soggetti o di romanzi o di sceneggiature) per conto d’altri sceneggiatori di maggior nome e fortuna. Abbiamo visto perfino scrittori di sinistra piegarsi inizialmente a questo mercato delle menti, stendendo soggetti e sceneggiature per film “di genere” commercialissimi quali quelli “per la gioventù”, o di “terrore”; un po’ per curiosità ma generalmente per il solo guadagno prevedibilmente superiore, dopo qualche anno di tirocinio, a quelli più puramente letterari. E infatti dopo questo iniziale compromesso morale, lo sceneggiatore “negro” passa ad un’ufficialità dichiarata sia nei rendiconti dei produttori, sia nelle intestazioni iniziali dei film. Lavora in gruppi di due o tre o più sceneggiatori professionisti, e a volte può considerarsi unico tra tanti scrittori di soggetti di riduzioni e di sceneggiature e di testi “parlati” (come nel caso dei documentari), ad essere in qualche modo autonomo per valutazione sul mercato degli operatori culturali della industria cinematografica. In questo caso, salito in cima alla scala di valori ideologico-pratici delle case di produzione, arriva a guadagnare perfino una trentina di milioni a sceneggiatura, e a partecipare alla stesura di due, tre o più sceneggiature all’anno per diversi enti o case di produzioni. E non sempre gli è necessaria questa dura scalata di in media dieci anni: a volte così “grosso” è il nome d’uno scrittore che egli può quasi immediatamente pretendere fortissime somme sia per brevi soggetti di cinque-trenta pagine, sia per sceneggiature e soggetti di complessivamente circa 100-300 pagine tra dialoghi e segnalazioni d’azione o d’impostazione dell’immagine. Ma vogliamo ricordare che tali grosse cifre molto molto raramente vengono offerte a sceneggiatori-soggettisti, o gruppi di sceneggiatori – specialmente oggi che v’è una crisi di finanziamenti nel cinema sia italiano che americano (inflazione del dollaro). Di solito lo sceneggiatore di mestiere può aspirare a un 500 000 lire a sceneggiatura, montando poi questa scala di valori all’interno della produttività cinematografica, sino a raggiungere in media i 4 o 5 milioni a testo. Difficilmente uno sceneggiatore di grido o medio o principiante rivelerà le sue paghe, che tiene nascoste sia all’occhio dell’eventuale concorrente, sia a quello dell’ufficio tasse. E soltanto in rari casi qualche sceneggiatore di superiori forze metterà i suoi guadagni a disposizione di consorzi produttivistici privati, per la realizzazione di altri film non determinati necessariamente da capitali americani. Lo sceneggiatore medio sinora ha sempre sganciato le sue responsabilità culturali-politiche dal suo personale problema di guadagno e di rino-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CULTURA E SOCIETÀ

273

manza – e qua sta il quid negativo se vogliamo affrontare il problema della difesa dei diritti salariali e contrattuali e previdenziali, dello sceneggiatore medio o principiante. La sua è una categoria non molto strettamente definibile, che anzi tiene molto alla sua “libertà” un po’ anarcoide e compromessa col capitale. In risposta alla veramente sparuta protesta di sceneggiatori e soggettisti allarmati dalla crisi del cinema in Italia (riduzione di finanziamenti), il Pci e la Fils (Federazione Italiana Lavoratori dello Spettacolo) hanno offerto due diverse soluzioni. Una, di genere piuttosto culturale che non politica, è quella presentata dalla sezione culturale del Pci, e stampata in apposito opuscolo (La crisi del cinema, Roma 1970). Si suggeriscono circuiti di distribuzione “alternativi”, contrapposti a quelli ovviamente commerciali in cui un biglietto d’entrata viene a costare fino a 2000 lire a proiezione. Si propongono consorzi e cooperative di registi e sceneggiatori e tecnici, capaci di eliminare indirettamente la figura del produttore e di sostituire al cinema più bassamente acquiescente e dispersivo un atteggiamento documentaristico, senz’altro necessario all’educazione civile e politica degli italiani. Allo stesso tempo si invocano provvedimenti legali e parastatali, che permetterebbero un più libero e non compromesso cinema anche politico. Varie cooperative, quali la Cooperativa 2000, Film Z, la 0 Cinematografica, la 21 Marzo, la Unitelefilm, sorgono per la produzione di film girati in economia, e documentari sia per la tv sia per i circuiti alternativi (case di cultura, federazioni, sezioni, cinema di periferia e di provincia, cinema comunali, cinema centrali per sconti Arci ecc.). Esperimento per ora limitato, soprattutto perché sono pochissimi i registi o giovani o arrivati disposti a rinunciare alle eventuali ricchezze di imprese capitalistiche. Nella direzione meno commerciale ossia nella progettazione di film che per soggetto e stile non rientrino nelle produzioni strettamente commerciali, v’è tra alcuni giovani un interesse ovviamente non in senso finanziario: si tende cioè a produrre documentari e film in strettissima economia, con il regista che è contemporaneamente sceneggiatore (vedere esempio di Pasolini con Accattone), e gli attori non più scelti con i criteri divistici sui quali tanto puntano le grosse case di produzione e il pubblico medio ma invece tratti dalla strada con poche pretese sia di carriera che di pagamento. E infine, tra i giovani oggi v’è anche un rifiuto del film nel suo senso romanzesco, inventato, di opera della fantasia. Soltanto i documentari tratti a volte direttamente dal vero (vedere alcuni documentari girati “a mano” durante le lotte studentesche) hanno, per loro, senso e utilità soprattutto politica.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

274

AMELIA ROSSELLI

Che la Fils-Cgil possa un giorno influire anche sulle scelte dei produttori e dei distributori, con la lotta organizzata dalle “masse” (ad esempio gli operai negli studi, le comparse, il personale per il mantenimento delle sale cinematografiche) addette ai lavori delle case produttrici, è più che auspicabile – e a noi sembra addirittura urgente. Soprattutto perché le cosiddette categorie dei registi, soggettisti, sceneggiatori, tecnici e operatori, sono invece spinti da interessi concreti a compromettersi con le sovrastrutture degli apparati cinematografici, coi loro produttori, distributori, e le loro tattiche para-monopolistiche, che oggi frenano la spinta ad una conoscenza non fantasticata o da fiaba quale è invece quella del film. (1990)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CURRICULUM I

Nata a Parigi nel 1930 di padre italiano (Carlo Rosselli) e madre inglese. Dal 1939 al 1946 vive prima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti, dove compie gli studi liceali. Prosegue gli studi a Londra e a Firenze (composizione, strumenti) sino al 1950; si trasferisce a Roma nel 1950, dove continua gli studi musicali e letterari, pur lavorando come traduttrice dall’italiano all’inglese per le Edizioni Comunità. Ha lavorato anche come consulente per Bompiani Editore, e si occupa tuttora di consulenza e traduzioni (dall’inglese e dal francese) per editori e per la Rai. Sua attività principale è però quella creativa, in campo letterario (poesia e saggistica) e in campo musicale (interprete; saggista). Scrive articoli di critica letteraria per giornali e riviste. È iscritta al Pci dal 1958 (sezione Trastevere).

Attività e pubblicazioni in campo musicale 1950-51 articoli per la rivista “Il Diapason” 1954 saggio sulla teoria musicale contemporanea per la rivista “Civiltà delle Macchine” 1954 costruzione di strumento musicale sperimentale (ditta Farfisa) 1959-60 segue corsi di composizione a Darmstadt (Germania); conferenza su problemi di teoria musicale contemporanea 1960 musica per documentari 1962 musica per teatro come interprete e compositrice (recite di Majakovskij e Esenin) 1960-65 interprete di musiche contemporanee 1967 saggio sulla teoria musicale per la rivista “Nuovi Argomenti” (giugno).

Attività e pubblicazioni in campo letterario dal 1963 pubblica su riviste letterarie, soprattutto poesie (“Il Menabò”, “il verri”, “Palatina”, “Nuovi Argomenti”, “Marcatré”, “Lea-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

278

AMELIA ROSSELLI

der” “Nuova Sinistra”, “Antologia Gruppo 63”, “Poesia e Critica”, “Galleria”, “Malebolge”, “Art and Literature” (Parigi), “London Times Literary Review” (Londra) ecc. 1964 pubblica il libro di poesie Variazioni belliche con saggio sulla metrica aggiunto (Garzanti Editore) 1967 o ’68 altro libro di poesie in italiano intitolato Serie ospedaliera da pubblicarsi probabilmente con Garzanti o Feltrinelli Editore 1967 libro di versi in inglese con traduzione a fronte da pubblicarsi con Sampietro Editore 1963-67 letture pubbliche e discussioni alle riunioni del Gruppo 63 1967 letture pubbliche in sedi romane (case editrice Nuova Italia; teatro Porcospino, Club Dionisio) 1966-67 prepara quarto libro di versi; il terzo è in inglese ed è in parte inedito. Ha scritto articoli di critica letteraria per l’“Avanti!” e per la rivista “Marcatré” (Pasternak; José Craveirinha; traduzione ed elaborazione di La tragedia spagnola di Kyd ecc.). Vedi ad esempio edizione del 4 dicembre 1966 dell’“Avanti!”, o del 12 gennaio 1967.

Suggerimenti per eventuali articoli critici Libro di versi I rapporti di Antonio Porta, pubblicato da Feltrinelli nel 1966. Il libro è uscito da un anno ma non è stato recensito dai giornali di sinistra; del Gruppo 63 Porta è a mio avviso l’unico che si stacchi, per originalità d’intenti poetici e autenticità di linguaggio, dalla comune presa di posizione estetico-filosofica dei membri del Gruppo 63. Il libro è di valore anche se in alcuni suoi aspetti andrebbe criticato. La triangolazione Sanguineti-Balestrini-Giuliani all’interno e fuori del Gruppo 63 viene troppo accentuata; andrebbero sostenuti altri autori più singolari e meno polemici pubblicamente. Libro di versi Le distanze tradotto dall’americano da Pagliarani. L’autore è Charles Olson, capo gruppo dei poeti beat americani e senz’altro il migliore di loro, anche se in Italia è meno conosciuto di Ginzberg, Ferlinghetti, Mailer ecc. Editore Rizzoli 1967. Libro di versi Cantico a un Dio di catrame, autore José Craveirinha, traduzione e introduzione di Joyce Lussu. Il libro non è stato molto recensito. L’autore è africano ed è tuttora in prigione per attività politiche di sinistra. Il testo è di altissimo valore letterario; il poeta è da considerarsi tra i migliori viventi. Lerici Editore 1967.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

279

Libro di commedie Teatro da camera di Giordano Falzoni, pubblicato da Rizzoli nel 1966. Le brevi commedie incluse sono originalissime e di nuovo umorismo. Solo un brevissimo articolo è stato pubblicato dal “Paese Sera”; l’autore riscuote invece un meritato successo e non è necessariamente da considerarsi “avanguardista” nel senso banale del termine. Parecchie delle sue brevi commedie vengono recitate in varie città d’Italia e alla Rai. Informarsi anche del resto della sua produzione. Libro di versi Poesie tradotto di Zveteremich. Autrice Marina Cˇvetaeva, contemporanea di Pasternak e Majakovskij e considerata anche in Russia come poeta di grande forza. L’editore è Rizzoli, 1967 (aprile). Libro di critica letteraria Una teoria della prosa di Viktor Sˇklovskij, De Donato Editore 1966. Scuola formalista russa del 1920. Testo fondamentale, ripreso dalla scuola strutturalista d’oggi ma comunque amalgamabile a ben più vasto atteggiamento critico. Scrivere articolo sulla nuova usanza (per l’Italia) di organizzare letture in pubblico di versi; quest’usanza richiama parecchio pubblico ed è stata ripresa anche dalla Casa della Cultura a Roma. Generalmente gli autori stessi leggono le proprie poesie e alla lettura segue un dibattito, con partecipazione del pubblico. Si tratta di una forma di divulgazione della poesia, che andrebbe allargata a strati anche in parte popolari, ed è senz’altro utile ai poeti nel tentativo d’uscire da una situazione d’isolamento anche sociale. Scrivere articolo sull’avanguardia letteraria in generale, o italiana o internazionale, riassumendone le varie posizioni, menzionando gli autori migliori (non necessariamente quelli più noti) e comunque impostando l’articolo molto criticamente. Fare lo stesso per l’avanguardia musicale, ed i suoi concerti in Italia o anche solo a Roma, riassumendone l’attività in senso anche storico. Scrivere articolo sui sindacati letterari, e sui sindacati musicali (a cui appartengo) riassumendone l’attività e criticandone gli aspetti mondani o comunque poco pratici. Raccogliere informazione sui fondi, la loro derivazione, la loro amministrazione, gli statuti ecc. Analizzare impostazione inevitabilmente anche politica dei sindacati per artisti. Parlare delle casse assistenza malattie, il loro operare. Scrivere articolo sulla teoria musicale contemporanea (composizione, costruzione di strumenti musicali ecc.); il tema è poco noto e viene non abbastanza sviluppato dai critici musicali che hanno invece impostazione più storico-letteraria che storico-tecnica o teorica. Impostare l’articolo in modo divulgativo trattando della tradizione teori-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

280

AMELIA ROSSELLI

ca nei suoi rapporti con quella moderna. Menzionare i testi più noti, sia moderni che antichi. Scrivere articolo sulla situazione dei giovani letterati, o dei giovani musicisti o compositori, in Italia e all’estero: per ciò che riguarda difficoltà finanziarie-pratiche di pubblicazione, di studio, di esecuzioni e di rapporto col più largo pubblico. Scrivere articolo sulla scuola formalista russa del 1915-30. I testi sono soltanto in piccola parte rintracciabili in Italia (Sˇklovskij) ma cominciano ad interessare (prossime traduzioni di saggi della scuola, su “Nuovi Argomenti”, ecc.). Radunare i testi-base pubblicati in gran parte in Francia, ed esprimere giudizio sintetico, slacciando l’interesse per questa scuola da quelli soltanto “strutturalisti” e avanguardistici.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

CURRICULUM II

Tra i miei ventidue e trentatré anni scrissi molto, e studiai anche problemi di metrica, oltre quelli di etnomusicologia: pubblicazioni etnomusicologiche: “Il Diapason”, n. 8-9; n. 11-12 “Civiltà delle Macchine”, marzo 1954 (tesi divulgativa riguardante musiche del Terzo Mondo e orientali). pubblicazioni letterarie: soltanto nel 1980 raccolsi tutti gli scritti giovanili accumulati proprio tra il 1952 e 1963. Si trattava di poesie e prose, scritte nelle mie tre lingue (italiano, inglese, francese), che consideravo soltanto esercizi e ricerca stilistica. Le dieci parti si susseguono in ordine cronologico, in modo che una lingua s’alterni all’altra indifferentemente. Questi testi o poetici o narrativi, o estetici, furono poi pubblicati dall’editore Guanda nel 1980, e furono intitolati: Primi scritti (1952-1963), Guanda 1980 (esaurito). Nel 1963 Elio Vittorini mi chiese di scegliere ventiquattro poesie tratte da Variazioni belliche, da pubblicarsi sul “Menabò” n. 6. Pasolini vi appose una postfazione. L’anno seguente suggerì il testo intero all’editore Garzanti. È oggi e da parecchio esaurito. Contiene una mia tesi, intitolata Spazi metrici, in fondo al libro. Serie ospedaliera (poesie) fu invece pubblicato da Alberto Mondadori fuori collana, nel 1969. Prese il Premio Argentario 1969 all’unanimità. Documento (1966-1973) fu suggerito a Garzanti da Attilio Bertolucci, e uscì nel 1976. Prese due premi: il Premio Indizi nel 1977, e il Premio Pier Paolo Pasolini al Campidoglio di Roma nel 1980. Impromptu è, benché in forma di plaquette, con presentazione di Giovanni Giudici, un breve poemetto assai denso, e perciò, in quanto salto stilistico, per me quasi come un libro a sé. Fu pubblicato dall’editore San Marco dei Giustiniani di Genova. Uscì nel 1981, con litografia di Piero Guccione; assieme a Primi scritti (1952-1963), pubblicato da Guanda nel 1980, prese il Premio Luigi Russo nel 1981. Appunti sparsi e persi (1966-1977) edito dalla Cooperativa Editoriale AeliaLaelia di Reggio Emilia, uscì nel 1983. Consta di ottantasei poesie e molte ultime pagine dedicate a brevi appunti trascritti in corsivo.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

282

AMELIA ROSSELLI

La libellula pubblicato da SE editore (Studio Editoriale) nel 1985 è ristampa parziale del secondo libro Serie ospedaliera. Cioè ristampa tutta la prima parte che è in forma di lungo poemetto intitolato appunto La libellula; della seconda parte, l’editore scelse circa un terzo delle poesie. Il libro si trova nella collana classica intitolata “Piccola enciclopedia”, e credo non sia del tutto esaurito. Aggiunsi, nella ristampa, alcune note esplicative, riguardanti il poemetto La libellula, data al Saggiatore nel 1969 per uso meramente privato. Antologia poetica curata da Giacinto Spagnoletti, uscì nel 1987 presso Garzanti. Include buona parte di Variazioni belliche, di Serie ospedaliera e degli altri libri in italiano, in quantità decrescente. Ristampa il saggio Spazi metrici, e acclude delle prose pubblicate sulla rivista romana “Autobus”. Quello stesso anno prese il Premio Cittadella, e due altri premi l’anno susseguente: il Premio Fondi, e il Premio Chianciano. Proprio nello stesso anno pubblicai l’intera tesi etnomusicologica, per cui avevo studiato composizione anche a Londra, Darmstadt e Parigi, sulla rivista di Luciano Anceschi “il verri”, marzo-giugno 1987. Include la prima parte divulgativa del 1954, prosegue sino al 1964 e conclude nel 1977, con aggiunta di lunga bibliografia. “il verri” già da molto usciva in forma antologica, e in quel numero dedicò i vari saggi di solito letterari, alle “poetiche”. Sleep – Sonno è plaquette uscita presso l’editore Rossi & Spera di Roma e preannuncia il testo intero che spero potere eventualmente pubblicare nella collana economica “I Garzanti poesia”. La plaquette è della collana erotico-amorosa dell’editore Rossi & Spera, consta di cinquantatré pagine, e porta venti poesie scelte dal libro che data 1953-66. Le traduzioni a fronte sono di Antonio Porta; i disegni (quattro) di Lorenzo Tornabuoni. La plaquette uscì nel febbraio 1989. Sta per uscire presso l’editore IBN (Istituto Bibliografico Napoleone) di Roma un’altra plaquette, che include tre brevi mie prose: Prime prose italiane, 1954; Nota, 1967-68; Diario ottuso, del 1968. Nota uscì sia su “Autobus”, n. 0-1 sia nell’Antologia poetica; Prime prose italiane sull’ormai esaurito Primi scritti italiani di Guanda (1980); Diario ottuso, lungo racconto, è pressappoco inedito, salvo una sua underground pubblicazione sulla non autorizzata rivista romana “Braci”, n. 7. L’intera plaquette trae il suo titolo da questo lungo racconto: avrà prefazione breve di Berardinelli, e include anche una mia brevissima postfazione.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

DOCUMENTO

Cos’ho voluto fare scrivendo poesie? Perché le ho volute scrivere? Scrivere un articolo critico su se stessi e il proprio lavoro è ambiguo, forse pretenzioso, ma forse anche utile. Raramente si sa che lo scrittore, e soprattutto il poeta, ha scopi ben precisi nello scrivere in un modo piuttosto che in un altro, e che questo suo stile, questo suo essere apparentemente soltanto se stesso, o tutto “natura”, è frutto di lunghi ragionamenti, di ricerche, di ideali covati a volte per anni, che in fine a volte si realizzano sì tramite “l’ispirazione” e l’inattesa illuminazione o sintesi, ma anche perché molto chiaramente l’autore se ne era consciamente e inconsciamente prefisso l’intenzione, la forma, lo scopo. Ho voluto in un primo libro (Variazioni belliche) esprimere il nascere e morire di una passionalità da principio imbrigliata e contorta, e poi sfociata in lotta e denuncia: solo verso le ultime pagine il libro si placa in alcune poesie meno violente e più trasparenti. Ho voluto nell’appendice al libro descrivere minuziosamente e quasi scientificamente il raggiungimento (mezzo e metodi) di una forma metrica agognata da anni; le poesie introduttorie alla parte centrale del libro esprimono una problematica anche religiosa che nel suo deludersi porta alla libertà della passione e della denuncia. Tecnicamente, o linguisticamente, il libro aveva nella sua primissima stesura intenzioni quasi chiare, ma essendo un libro tipicamente giovanile, questa chiarezza s’imbrogliò strada facendo... Furono molti i ripensamenti al momento di pubblicare, e troppi i dubbi nel rileggere il libro, che, stampato, sembrava non mi appartenesse più. Vorrei infatti un giorno farne una ristampa, scegliendo con cura le poesie più vere, e correggendone alcune stonature stilistiche. Avevo già prima di Variazioni belliche scritto il lungo poema La libellula, sentendo nessuna responsabilità di dovere eventualmente pubblicarlo, e perciò poco preoccupandomi di un suo eventuale pubblico colto o letterario: fantasticavo invece una folla immaginaria, alla quale rivolgevo quel canto. Quattro anni più tardi (La libellula fu scritto nel 1958) volendo finalmente stampare quel lavoro troppo lungo e fiorito, ne eliminai gli eccessi, in vista di una purificazione e nettezza dei contenuti, e in vista di un pubblico probabilmente spazientito e cercante risposte, non le solite problematizzazioni delle nostre ri-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

284

AMELIA ROSSELLI

spettabilissime nevrosi. Credo che la non intenzionalità dello scritto, e la conseguente severità nel rivederlo e correggerlo, abbiano contribuito a renderlo un lavoro migliore degli altri miei, più calcolati e sofferti. Ma non è da dimenticarsi che da cinque anni rimuginavo un poema di quel genere, e che da forse dieci anni mi rompevo la testa nel tentare varie possibili formulazioni metriche, mai abbastanza rigorose, dal mio punto di vista, da potersi considerare come “sistemi” non solo metrici ma anche o quasi filosofici, e storicamente “necessari”, inevitabili: appena intuito improvvisamente questo “sistema”, il fiume delle parole sfociò in canto a me molto naturale e sintetizzante anni di esperienze penose e non penose, per il quale però in un certo senso non mi sento nemmeno volontariamente responsabile. Molto diversa è la seconda parte del libro Serie ospedaliera scritto qualche anno dopo la prima raccolta di versi del 1958-62; da opporsi alla prima parte composta di quel lungo fluido canto mai più ripetibile, scrissi circa ottanta poesie, di natura cauta, e, credo, estremamente interiore. Una grave malattia che allora sembrava non definitivamente curabile mi minava, ed era soltanto a prezzo di grande fatica che potevo leggere, scrivere, studiare: in più per resistere alla debolezza e per sopravvivere in qualche modo creativamente, dovevo isolarmi e condurre una vita sistematicamente privata, interiorizzata, priva di contatti: le poesie rispecchiano questa melanconica privazione di vita, ma credo e spero anche un rigore linguistico più accurato, e un riconoscere con maggiore umiltà i molti debiti culturali (non solo i soliti Rimbaud, Kafka, Campana, Montale!) nei confronti di una generazione di scrittori considerati o “minori” o sorpassati (Saba, l’ermetismo, Mallarmé, Verlaine, Rilke, ecc.). La serie di poesie è «ospedaliera» in quanto anche rassegnata a un ritornare criticamente sui propri passi, in quanto non più bellicosa nei confronti di sentimenti e intuizioni anche più rari o rarefatti. Le ottanta poesie non sono secondo me definibili secondo un criterio formale unitario: le prime si muovono non a passo di fanfara, ma come esitanti anche formalmente; altre esprimono una rauca desolazione accettata, e, quasi in sordina, le ultime trovano spazio e consolazione nel nascere di una debole speranza: il riscoprire una natura (boschi e rocce dell’alto Abruzzo) se non benigna almeno protettiva; all’ultimo istante il riconoscere che quel folle sognare a occhi aperti proprio della gioventù era ancora in qualche modo rivificabile. In gioventù scrivevo in francese a volte, e spessissimo in inglese: quel produrre era ancora postromantico o allucinato, anche se ciò in modo addirittura minuziosamente sistematico. In questo terzo libro

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

285

(Documento, da cui ho tratto le otto poesie qui stampate) ho voluto ritrovare (pur basandomi sempre sulla formulazione metrica definita nel 1958 e da allora conseguita) la follia, il coraggio e forse anche misticismo di quegli anni adolescenziali: razionalizzandoli sino alle ultime conseguenze. Spesso i risultati sono violenti, i contenuti sono dei veri e propri gridi: ma credo che non vi sia più disperazione e che lo scopo del libro (un equilibrio tra forma del tutto controllata e voluta, e contenuto indotto e dedotto mai automaticamente e tramite l’inconscio o per provocazioni solo letterarie) sia nell’insieme raggiunto; soprattutto (e questo doverosamente lo devo ammettere) perché ho preso cura di non includere nel libro le poesie delle quali non ero pienamente certa, dove potesse mancare l’autenticità dell’ispirazione e dello slancio. Intendo produrre un libro in un certo senso statico, sintetico, forse gelido ed esplosivo insieme: insomma il libro della “maturità raggiunta” almeno per quanto riguarda un certo mio tipo di problematica umana e formale. Che io stia qua parlando di moventi e risultati in parte illusori, credo sia inevitabile: l’autore non è necessariamente il miglior giudice del suo lavoro: ma forse meglio di ogni altro sa cosa avrebbe desiderato dare, fare. E nello spiegarlo pur peccando d’immodestia in questo modo alzando la voce (le intenzioni di una poetica forse dovrebbero restare segrete e da decifrarsi come messaggio segreto, come un gioco?) e pur rischiando, nel perdere la segretezza delle intenzioni, di non più sentire urgenza di poesia (quasi fosse un gioco il rivelarsi) potrà lo scrittore forse vivere più liberato da carta e stampa: potrà porsi diversi e freschi problemi di comunicazione dell’indicibile, con ciò evitando di cadere nel mestiere e nella compiacenza. (1968)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PASTICHE PER FERRUCCIO

Io non ho inediti, dal dicembre ’79 non scrivo, però dal libro Documento pubblicato nel ’76 ho molti scartati inediti, alcuni dei quali abbastanza buoni, anche perché il libro originariamente era troppo lungo per una pubblicazione a prezzo medio, e li sto rivedendo ogni tanto e li pubblico un pochino su riviste varie. Fra queste poesie scartate ve ne è una chiamata Pastiche per Ferruccio; è addirittura del marzo ’68. Documento fu scritto fra il ’66 e il ’73, in sette anni, e fu molto lavorato, certe poesie poi le limavo, altre venivano di getto. Ero a Campagnano paese, non lontano da Roma, ero ospitata in un piccolo appartamento mentre pioveva, da un certo Ferruccio Nuzzo, laureato in matematica ma che si occupa di musicologia, credo per la Rai-tv. Devo dire che la poesia, non so se in un secondo tempo o contemporaneamente, era anche dedicata a Ferruccio Parri, che non l’ha mai vista; è morto recentemente. Potrei parlare un pochino del problema della metrica e del contenuto, ma forse è meglio farlo dopo la lettura del testo stesso. È una poesia di media lunghezza, dunque non dovrebbe troppo affaticare, anche se non facilissima. Pastiche per Ferruccio Come se da tanta autobiografia, nascesse il parto delizioso, delle cose friabili se dal riottoso incontro con la specie tutto ciò che è imperfetto e colpevole voglio io recitare, fallimentare realtà o paura dell’ordine, con fusione soffusa d’amore poter restituire ai miei persi soldati l’impero intero del vivere!

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

288

Vorrei che mi si salutasse con gran fragore o che un attonito silenzio fatto di stupore corrugasse la fronte a quei bifolchi.

La poesia è un po’ sottile e non a tutti riesce chiara, posso solo dire che il libro Documento non poteva includere questa poesia che è laterale al senso del libro stesso. L’ho buttata giù così, e poi l’ho riveduta più tardi. Quanto a metrica disobbedisce alla metrica centrale, al sistema metrico predominante nel libro e nei due libri che avevo scritto prima, disobbedisce metodicamente a questo sistema metrico, e si vede, anche graficamente. Non ho molto da dire; i «bifolchi» naturalmente sono trattati con tenerezza e allo stesso tempo con autocritica. Precedentemente a questa poesia vi è una poesia che sul piano metrico era obbedientissima al mio programma metrico, potrei leggerla per far capire fino a che punto quella susseguente, Pastiche per Ferruccio, vi disobbedisca. Non si collegano in realtà, ma tutte le poesie in quel libro sono collegate dall’ordine cronologico; 21 marzo ’68 per Pastiche per Ferruccio e 8 febbraio ’68 per questa poesia che la precede. Se la leggessi si noterebbe fino a che punto la metrica ha una sua predeterminazione calcolata da me. Qui c’è un ordine regolare mentre nell’altra poesia vi è un contenuto strisciante che non tutti comprendono. Semplicemente interrotti i versi come per la prima riga, e appositamente per ragioni grafiche, interrotti tre versi alla terza stanza, e il primo verso della quinta stanza; ma non è che lo spazio non sia identico, è concepito come spazio cubico ed energetico. (1986)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NON MI CHIEDETE TROPPO, MI SONO PERDUTA IN UN BOSCO intervista a cura di Sandra Petrignani

«Sono persa, come in un bosco». Così dice oggi Amelia Rosselli, che Franco Fortini, al convegno sulla poesia tenutosi a Milano in aprile, ha indicato come la voce poetica più alta della generazione postmontaliana. L’ingrato mercato della poesia (la bruttezza dell’espressione è di per sé sufficiente a sottolineare l’ossimoro) e un rispetto rigoroso e assoluto per il suo lavoro, che non doveva essere contaminato da altro, hanno negato alla Rosselli la facile fama di cui una calcolata mondanità è generosa distributrice. Come per Penna e per Beckett, la sua vita è segnata dalla scelta fondamentale e disperata dell’isolamento, dal testardo non vivere d’altro che della propria poesia, ma nel senso di una necessità assoluta, come dell’aria che si respira. E se quest’aria viene a mancare, anche solo temporaneamente, non resta niente al di fuori dello sbigottito smarrimento di quella frase: «sono persa, come in un bosco». Al margine del bosco c’è una vita di quarantotto anni, tre libri di poesie, lunghi periodi in altri paesi, una complicata rete di persecuzioni. Riassumo rapidamente. Figlia di Carlo Rosselli, raggiunto e ucciso in Francia nel ’37 da sicari fascisti, Amelia è nata nel 1930 a Parigi. Dopo la morte del padre passò in Svizzera, in Inghilterra e, finalmente, in America, dove rimase fino al ’46, anno in cui tornò in Italia. Si era dedicata presto a studi musicali imparando a suonare il violino, il pianoforte e l’organo e impegnandosi in una lunga ricerca sulla musica non temperata. «Mi resi conto però di non poter seguire con serietà più di un’arte, e a ventinove anni mi dedicai esclusivamente alla letteratura. Adesso non ho più neanche uno strumento». L’esordio ufficiale come poeta risale al 63, quando Pasolini presentò alcune poesie sul sesto numero del “Menabò”; l’anno successivo Garzanti pubblicava la prima raccolta completa di versi scritti fra il ’59 e il ’61, con il titolo Variazioni belliche, cui seguì nel ’69 Serie ospedaliera (edito dal Saggiatore) e nel ’76 Documento (Garzanti), che raccoglie poesie scritte fra il ’66 e il ’73. Dopo questa data la voce di Amelia Rosselli ha taciuto lasciandola perduta nello smarrimento e nel «bosco».

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

290

AMELIA ROSSELLI

«Non pensavo di vivere a lungo», dice, «credevo romanticamente di bruciarmi entro i quarant’anni al fuoco di un rischio troppo grosso, quale è stato la scelta della mia vita. La scelta della poesia come l’ho vissuta, voluta, io. Quasi spaccavo la macchina a volte per l’intensità con cui scrivevo. Ora mi trovo ad affrontare una seconda metà dell’esistenza a cui sono completamente impreparata e che m’interessa fino a un certo punto. La poesia non si addice alla vita normale, quella di tutti i giorni. Ora mi dibatto nella realtà, la osservo con altri occhi. Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi. È come se lo scrivere dovesse essere legato a una visione adolescenziale del mondo, e quando si raggiunge la cosiddetta maturità il desiderio di scrivere viene meno. È una tesi possibile». Non tutti i poeti si uccidono o smettono di scrivere... «Certo, c’è Majakovskij e c’è Pasternak. V’è il poeta della saggezza e il poeta della ricerca, v’è il poeta della scoperta, quello del rinnovamento, quello dell’innovamento...». E tu? «Della ricerca. E quando non c’è qualcosa di assolutamente nuovo da dire, il poeta della ricerca non scrive. Non mi riconosco più scrittrice da cinque anni. Non sento di avere talento, ora. È come non riuscire a parlare una lingua. È terribile». Sei dunque in attesa che il talento ritorni? «No, non sono neanche in attesa. Continuo a leggere, a studiare. Qualche volta scrivo ma butto tutto. Mi lascio vivere e sono stanca e insoddisfatta. Non so in che direzione andare». Che cos’è il talento, come si può riconoscerlo? È una sensazione. Il sapere che non si sta perdendo tempo quando si scrive. Ma non bisogna fare troppe domande ai poeti, loro stessi non sanno perché hanno scritto». Si parla oggi di una maggior attenzione del pubblico alla poesia e ogni giorno aumentano le pubblicazioni di nuovi poeti. È il segno di un fiorire di talenti? «II livello poetico è in generale alto, ma si stenta a riconoscere una personalità di rilievo. Pubblicare non è molto difficile oggi. Direi che negli ultimi anni si è parlato molto di poesia, si è discusso molto sulla poesia. Non vuol dire che si faccia poesia. E quanto a un pubblico più numeroso, ho i miei dubbi. Per amare la poesia bisogna essere degli introversi, persone lontane dai gusti mondani e queste persone non sono mai molte. Se il pubblico è più vasto vuol dire che la poesia è andata incontro ai suoi gusti. È pericoloso pensare a un pubblico in car-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

291

ne ed ossa, presente; il pubblico del poeta è immaginario, vive nel suo immaginario». È la posterità? «Si scrive soprattutto per la posterità, quando si scrive bene. Il pubblico dei posteri è inimmaginabile e così i suoi gusti». E dai contemporanei la tua poesia è stata apprezzata quanto desideravi? «Ho avuto più di quanto mi aspettassi, o per lo meno di quanto mi aspettavo. E ora che non riesco a scrivere, mi sorprende e fa piacere vedere che la poesia continua ad avere significato per gli altri quando lo perde per il suo autore. Si vede che non ho perso il mio tempo. Ma non è del passato che ho rimpianti, è il presente che mi preoccupa». Cosa ti preoccupa di più del tuo presente? «In questo momento l’incapacità di guadagnarmi da vivere. La mia è sempre stata una vita balorda. L’indipendenza di cui parlano le donne oggi non sono mai stata brava a costruirmela. Sono sempre stata sola, anche nei momenti più critici, anche quando ho avuto delle brutte malattie ma aiutata dagli amici, lavorando sodo di tanto in tanto per i giornali. Ho avuto un’eredità. Ma tutto lasciato al caso e nella più assoluta precarietà. Prima non me ne preoccupavo, anzi ne gioivo. Ora mi pesa. Prima avevo la poesia. Ho scelto di non sposarmi per non distrarmi da lei. Ma ora che la scrittura mi ha abbandonata non ho più nulla». Se tornassi indietro faresti scelte diverse? «Non ho rimpianti. La mia vita non poteva essere differente da quella che è stata. Si è solo esaurita. Ora potrei chiuderla tranquillamente. A meno di non trovare finalmente una sintesi fra la poesia e la quotidianità. E mi riferisco alla lavatrice che si rompe, per esempio. Per me è un evento drammatico». Sei religiosa? «Da giovane sono stata addirittura mistica, ora non sono religiosa». Ma un poeta può non essere mistico? «No, dici bene. Lo è». Quale poeta ti e più caro? «Campana, naturalmente. Poi Penna, Montale. Non sono gusti originali». A cosa stai pensando in questo momento? «Al pubblico immaginario di cui parlavamo prima, ma non chiedermi di descriverlo. Non riesco a figurarmelo. Non bisogna chiedere troppo ai poeti». (1978)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

INTERVISTA AD AMELIA ROSSELLI Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

a cura di Giacinto Spagnoletti

Cominciamo con un dato anagrafico. Sei nata a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli e da Marion Cave, inglese di lontana origine irlandese. Quali ricordi hai della tua prima infanzia? «Mio padre era esule a Parigi dal 1929, dopo aver organizzato la fuga di Turati, assieme a Pertini e Adriano Olivetti. Rosselli era già noto come antifascista, seguace di Salvemini e professore di Scienze Politiche. Dal ’36 guidò la Brigata Giustizia e Libertà a favore della Repubblica spagnola, dirigeva il movimento omonimo e di esso il giornale di resistenza al fascismo “Giustizia e Libertà”, avendo contatti in Italia, in Inghilterra e altrove. Dopo il suo assassinio, e del fratello Nello, perpetrato in Francia per ordine di Mussolini e di Ciano, noi restammo ancora due o tre anni nella capitale francese. Ho delle immagini nella mente. Ricordo mio padre come persona serena, affettuosa, e mia madre, un po’ sfuggente, preoccupata. I nostri rapporti – parlo di me e di Andrea, che era il minore dei miei due fratelli – con i genitori erano un po’ evanescenti. Non bisognava turbare i bambini, parlando dei pericoli che incombevano. Ma a tavola, quando discorrevano tra loro, qualcosa si intuiva. Di mio padre, a parte l’affetto, resta in me un senso di non corporeità. Quando partì per la Spagna nel ’36, io avevo appena sei anni, per cui non ricordo molto». Come avesti notizia della sua morte? «Mia madre chiamò Andrea e me. Non so se già avesse parlato con Giovanni Giacomo (John), il fratello maggiore, suppongo di sì. Di circa due anni maggiore di me, egli era già molto maturo. Ci chiamò in camera sua. Lei era a letto, ricordo, con un’aria abbattuta, di donna provata. Ma fondamentalmente era calma. Ci domandò: “Sapete cosa vuol dire la parola assassinio?”» E voi? «Rispondemmo di sì, poi tutto quel che ricordo è che tornammo insieme nella nostra stanza; sembravamo quasi gemellini, anche se diversi di carattere. Lui aveva sei anni, io sette. Poi non ricordo molto. Non potemmo vedere per parecchio nostra madre che si era aggravata, soffriva di cuore fin da giovane». Riprendesti gli studi? «Sì, sempre a Parigi, dai sei ai dieci anni. Si parlava francese anche in casa, tranne che con mio padre, fedele all’italiano. Quando arrivava

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

294

AMELIA ROSSELLI

lo zio Nello, si parlava sempre in italiano; l’inglese l’ho dovuto imparare dopo». Fu nel ’40 che andasti in Inghilterra? «Nel ’40, dopo l’invasione della Francia da parte dei nazisti, per poter fuggire in Inghilterra, tutti e tre noi figli (Giovanni, Andrea ed io) fummo acclusi al passaporto di mia madre, e cioè naturalizzati inglesi. Trascorremmo un certo periodo in Inghilterra, in campagna, perché Londra era poco sicura. A Londra feci una esperienza dell’allarme, ma era stata una prova. Io mi persi nell’albergo, ritrovai mia madre e mio fratello nel metro, dopo aver cercato a lungo l’uscita per i corridoi dell’albergo. Ricordo mia madre sollevatissima nel rivedermi. Poi venne la decisione di lasciare l’Inghilterra. Fummo imbarcati su una nave con convoglio, d’inverno, e ci raggiunsero mia nonna (Amelia Rosselli, veneziana), mia zia Maria, moglie di Nello, e i suoi quattro giovanissimi figli che erano vissuti prima a Firenze. Si doveva giungere a New York, via Canada. Il viaggio fu pericoloso e tempestoso. Arrivammo a Montreal e proseguimmo per New York. Più in là ci stabilimmo in un paese distante un’ora dalla metropoli. Feci gli studi ginnasiali e liceali sino a quindici anni, seguendo per ultimo dei corsi estivi in vista del mio ritorno in Italia, che avvenne nel 1946. Vidi il Vermont d’estate e conobbi gli ambienti quaccheri (camps di vacanza e di addestramento); e lavorai anche nei campi. Nel Vermont imparai a buttar giù alberi, a costruire un ponte su un fiume, ad andare a cavallo, ad arrampicarmi sulle montagne con sacchi pesantissimi, a dormire nel sacco a pelo. Tutto questo intorno ai dodici-tredici anni. In un altro luogo (Stato di New York) imparai a raccogliere il fieno, a pulire i cavalli, a mungere le vacche, a dipingere i grandi granai di legno, rosso cupo con gli orli bianchi. Amavo il lavoro dei campi; e stavo anche bene in un ambiente quacchero come quello. Non mi ricordo di aver avuto vere e proprie malattie, ero forte, solo piuttosto magra e un po’ anemica». Riprendesti dunque gli studi in America, e a quale livello? «Li accelerai per quanto potei, in modo da prendere la maturità a quindici anni. Purtroppo mia madre fu colpita da un embolo, e l’intera famiglia, mia nonna, mia zia e i quattro cugini, più noi tre ragazzi, dovemmo aspettare che guarisse o fosse in grado di camminare per ripartire alla volta dell’Italia. A sedici anni, dunque, raggiunsi Firenze, e qui ci furono delle complicazioni. Gli studi che avevo fatto non erano equiparabili, fu una grossa delusione per me. Volevano che studiassi con i tredicenni, io rifiutai e mio fratello Andrea anche. A Firenze vissi qualche mese, mi trasferii a Londra per riprendere gli studi, che non erano risultati validi in Italia. Vissi presso amici e in camere ammobi-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

295

liate, frequentando la Saint Paul’s girls’ School per un anno, ridando gli esami di maturità a un livello più alto. Conobbi mio nonno, quello di parte materna, di origine inglese, ma non ricco come invece la famiglia di mio padre». Cominciò in quel periodo la tua educazione musicale? «Proprio a Londra; in America non ne avevo avuto che una generica preparazione a scuola (solfeggio e canto): poi mia madre che mi aveva seguito come poteva, a causa della sua malattia, ogni sera ci lasciava ascoltare un’ora di musica classica alla radio. A Londra iniziai lo studio del violino e del pianoforte, e quello di composizione. In quegli stessi anni vissi anche l’esperienza del laburismo inglese, e frequentai moltissimi concerti, e il teatro. Ero appassionata tanto di letteratura che di musica. A scuola avevo un’insegnante di letteratura straordinaria. Purtroppo non ne ricordo più il nome. C’era una biblioteca scolastica notevole; in classe si leggeva Shakespeare, si recitava». Non allacciasti in quei due anni dei rapporti intellettuali? «No, rimasi molto sola. Mia madre era molto malata, ma quasi non me ne rendevo conto, era stata sempre male. Quando tornò al clima inglese, che da giovane le era stato sconsigliato, mi dissero che si era ammalata di idropisia. Diedi esami di maturità con risultati medi. Dopo, avrei potuto iscrivermi a Scienze Politiche, mia madre ci sperava, ma ero consapevole di un certo indebolimento della memoria; e allora scelsi di studiare musica e composizione. Mia madre ne rimase dispiaciuta, in casa non avevamo molto di che vivere, era preoccupatissima e sapeva di avvicinarsi alla morte». Il tuo periodo inglese finì, se non sbaglio, nel ’48. «Sì, nella primavera del ’48 tornai a Firenze in vacanza presso mia nonna (casa Rosselli era in via Giuseppe Giusti), e scrissi a mia madre, chiedendole di rimanere per qualche tempo in Italia. Risentivo anch’io del clima inglese. Ero ancora a Firenze quando, di colpo, lei disgraziatamente morì. Era il mese di ottobre. Avevo allora diciannove anni. Dovetti così trovarmi un lavoro. Credo che fu mia nonna Amelia a mettersi in contatto con le Edizioni di Comunità, e io cominciai a tradurre, lavorando mezza giornata, a Roma. Trovai alloggio in una casa non distante da quella di Ernesto e Ada Rossi. Cominciò per me una nuova vita. Ma fui presto in preda a un forte esaurimento nervoso. Forse perché facevo troppo. Oltre le traduzioni, prendevo lezioni di composizione da Guido Turchi, consigliatomi da Dallapiccola e Petrassi. Insomma ero intensamente impegnata. Fui visitata dallo psicanalista Perrotti, di scuola freudiana. Mi disse che tutto sommato stavo bene. Potei andare a Venezia a seguire il primo congresso partigiano».

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

296

AMELIA ROSSELLI

Allora la poesia non ti interessava molto? «Dominava la musica. Studiavo per conto mio le lingue, filosofia, letteratura e anche matematica. Gli studi privati di composizione sfociarono poi in studi di teoria musicale (etnomusicologia). Anni dopo pubblicai i primi saggi su “Diapason” (1952-53) e “Civiltà delle macchine” (1954), con l’aiuto di Leonardo Sinisgalli. “Il verri”, tramite Luciano Anceschi, pubblicherà l’intero lavoro, costatomi quattordici anni di ricerche in biblioteche italiane, francesi e inglesi. A Darmstadt, presso Francoforte, avevo anche approfondito studi di composizione, nei corsi estivi (1959-60). Frequentai anche gli studi elettronici della Rai, partendo però da tradizioni bartokiane, e studiando, per esempio, al Musée de l’Homme di Parigi, musiche non temperate del Terzo Mondo e orientali. Detti spiegazione del sottostante “sistema” intuibile e analizzabile, seguito istintivamente dai musicisti non influenzati dal razionalismo leibnitziano del Sei-Settecento». Avevi degli amici fra gli artisti italiani? «Naturalmente. Oltre Guido Turchi, Roman Vlad e Dallapiccola; fra i pittori Afro e Guttuso. Rocco Scotellaro mi fece conoscere Carlo Levi». Se mi permetti, fermiamoci un momento sopra i tuoi rapporti con Scotellaro. «Lo conobbi a quel congresso dei partigiani a cui accennavo. Ero seduta nelle ultime file della sala, e ad un certo momento si avvicinò un giovane simpaticissimo. Quando seppe che ero la figlia di Carlo Rosselli, sorpreso e interessato, si mostrò sempre più attento a me. Diventammo amici, ma proprio amici come fratello e sorella. In Diario ottuso, una prosa da me pubblicata recentemente sulla rivista “Braci”, parlo del nostro incontro, rievocando vari momenti della mia giovinezza. Quando conobbi Rocco avevo vent’anni e lui morì tre anni dopo. La nostra fu un’amicizia intensa, molto ricca e naturale, priva di forzature. Mi invitò al suo paese in Lucania (Tricarico), dove stetti una settimana sua ospite, e conobbi sua madre. Lui aveva già subito quell’ingiusta condanna (un pretesto qualsiasi per scoraggiarlo dal fare il sindaco socialista). Uscì dal Partito Socialista, e trovò un impiego a Portici, presso l’Istituto d’Agraria della Cassa per il Mezzogiorno. Quando Rocco passava da Roma, mi telefonava sempre, insomma era il mio migliore amico: sono quelle cose di gioventù che non si ripetono. Era un uomo assai maturo, e senza che me ne accorgessi, mi formava. Non esagero dicendo che era un essere eccezionale. Io avevo proprio in quel tempo cominciato a scrivere. E si parlava naturalmente anche di poesia. Discorreva volentieri

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

297

dei suoi problemi, quelli espressi nel libro Contadini del Sud. E con lui c’era abbastanza spesso Carlo Levi, che era stato molto amico di mio padre». Quale idea ti facesti della poesia di Scotellaro? «Mi mostrava raramente ciò che scriveva, ma mi dedicò anche una o due poesie. A me interessava però ciò a cui stava lavorando, Contadini del Sud, un libro in prosa che sicuramente mi ha molto influenzato. Anche le poesie le conobbi meglio dopo la sua morte, le ho rilette di recente. Mi paiono piuttosto gracili; aveva più forza nella prosa. Dopo l’amicizia di Scotellaro, non posso non ricordare la premura di Niccolò Gallo, la sua partecipazione, l’interessamento perché io pubblicassi Variazioni belliche da Mondadori. Si poteva far uscire il libro, ma mi fu chiesto un concorso finanziario, e io rifiutai per principio. Non potevo permettermi di fare la dilettante». Il fatto di non poter pubblicare Variazioni belliche non ebbe su di te delle conseguenze? «Me ne infischiai completamente, mandai il dattiloscritto a quattro editori senza alcuna nota biografica, non conoscendo nessuno... Devo dire che, avendo avuto molti incontri con Bobi Bazlen egli – scettico riguardo alla “ricerca della gloria” – non mi spinse affatto a venir fuori. Dopotutto per studiare, potevo contare sul mio lavoro di traduttrice. Lavorai per alcuni editori, con Bompiani ho fatto anche un po’ di consulenza; sono stata a una scuola per interpreti, sempre continuando gli studi musicali. Ma sempre tornavo alla letteratura, perché non potevo evitarla. Poi, quando ebbi pubblicato sul “Menabò” di Vittorini alcune delle poesie da Variazioni belliche, con la calda presentazione di Pasolini, trovai lavoro come pubblicista in diversi giornali, di sinistra la maggior parte. Scrissi alcuni saggi semipolitici, direi piuttosto di genere sociologico, e pubblicai, a parte le poesie, vari altri scritti in prosa e qualcuno di critica». Veniamo, dunque, alla tua poesia. Cos’hai voluto fare? «Cos’ho voluto fare scrivendo poesie? Perché le ho voluto scrivere? Raramente si sa che lo scrittore, e soprattutto il poeta, ha scopi ben precisi nello scrivere in un modo piuttosto che in un altro; e che questo suo stile, questo suo essere apparentemente soltanto se stesso, o tutto “natura”, è frutto di lunghi ragionamenti, di ricerche, di ideali covati a volte per anni, che alla fine a volte si realizzano sì tramite l’“ispirazione” e l’inattesa illuminazione o sintesi, ma anche perché molto chiaramente l’autore se ne era consciamente e inconsciamente prefissato l’intenzione, lo scopo». E la metrica?

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

298

AMELIA ROSSELLI

«Sono poesie in cosiddetto verso libero, tendenti però al verso chiuso, di cui mi occupo nella seconda parte intitolata Variazioni. Le Variazioni, con data 1960-61, hanno metrica chiusa, di cui descrivo la nascita nell’allegato in fondo al libro, un saggio intitolato Spazi metrici, che è del ’62. Le Poesie ’59 potrebbero considerarsi un programma poetico: per alcune bastava che suonassi un preludio o di Bach o di Chopin per reinterpretarlo quasi subito dopo in forma poetica. Altre poesie sembrano rimanere soltanto programma, quasi definitivo. Alludono anche al verso chiuso, forma usata nel 1958 in precedenti manoscritti (La libellula), e in Variazioni resa più dinamica e come se realizzassi, non soltanto energicamente, la forma-cubo. Comunque le poesie, tanto della prima quanto della seconda parte (specialmente), si susseguono in ordine cronologico; hanno piglio narrativo specie quelle della seconda parte. Al chiarimento linguistico-formale delle ultime si chiude il libro, come se la tematica pericolosamente nuova e a volte politica necessitasse trasparenza. L’ispiratore sottinteso delle Variazioni è Kafka, e l’intento a volte è prosastico». Fermiamoci un momento sul tema. «Ho voluto esprimere il nascere e morire di una passionalità da principio imbrigliata e contorta, e poi sfociata in lotta e denuncia; solo verso le ultime pagine il libro si placa e le poesie diventano meno violente, più trasparenti. C’è anche nella parte centrale una problematica religiosa che, al momento della delusione, sfocia in libertà dalla passione». E La libellula, oggi ristampata, che reca la data del 1958? Il sottotitolo è Panegirico della libertà... «Oggi m’accorgo che il sottotitolo di questo lungo poemetto non ha l’ironia che intendevo metterci. Credo però che il testo sia chiaro in questo senso: faccio notare che ben dieci volte vi sono allusioni e versi di Rimbaud, Montale, Scipione, e soprattutto Campana; che nel suo distendersi in forma forse barocca non fa uso di lapsus, in Variazioni belliche erano semplici invenzioni bilingue (o perfino trilingue). Di lapsus parlò per primo Pasolini, come sai. Ma, a mio avviso, il lapsus sarebbe dimenticanza mnemonica, mentre l’invenzione linguistica è di solito conscia. Devo anche aggiungere che da cinque anni io rimuginavo un poema di quel genere, e che da circa dieci anni mi rompevo la testa nel tentare varie possibili formulazioni metriche, mai abbastanza rigorose dal mio punto di vista, da potersi considerare come “sistemi” non solo metrici ma anche o quasi filosofico-scientifici e storicamente “necessari”, inevitabili. Appena intuito improvvisamente questo “sistema”, il fiume delle parole sfociò in canto a me molto naturale e sintetizzante anni di esperienze penose e non penose».

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

299

Parliamo dei libri successivi. «Molto diversa è la seconda parte di Serie ospedaliera, scritta qualche anno dopo. Da opporsi alla prima parte composta di quel lungo fluido canto mai più ripetibile. Ottantotto poesie, di tono cauto e, credo, estremamente interiore. Una grave malattia che allora sembrava non definitivamente curabile mi minava (era il morbo di Parkinson, diagnosticato piuttosto tardi, verso i trentanove anni). Mai una tale malattia mi avrebbe consentito il lavoro di organista, offertomi da un insegnante. Soltanto a prezzo di gravi fatiche potevo leggere o scrivere, e naturalmente studiare. In più, per resistere alla debolezza e per sopravvivere in qualche modo creativamente, dovevo isolarmi e condurre una vita sistematicamente privata, interiorizzata, priva di contatti. Le poesie rispecchiano questa melanconica privazione di vita, ma credo e spero anche un rigore linguistico maggiore, e un riconoscere con maggiore umiltà i molti debiti culturali (non solo verso i soliti Rimbaud, Kafka, Campana, Montale), nei confronti di scrittori considerati o “minori” o sorpassati (Saba, gli ermetici, Mallarmé, Verlaine, Rilke ecc.). La serie di poesia è “ospedaliera” in quanto anche rassegnata a un ritornare criticamente sui propri passi, in quanto non più bellicosa nei confronti di sentimenti e intuizioni anche più rari o rarefatti». Il paesaggio ha un rilievo in questo tuo ritorno critico? «Certo. Il riscoprire una natura (boschi e rocce dell’alto Abruzzo), se non benigna almeno protettiva, ha contato molto: il riconoscere all’ultimo istante che quel folle sognare a occhi aperti, proprio della gioventù, era in qualche modo rivivificabile». Quale lingua, fra quelle adoperate, preferisci? «In gioventù, come sai, scrivevo in francese a volte e spessissimo in inglese: quell’esprimersi era ancora post-romantico o metodicamente allucinato, anche se in qualche modo sistematico, minuzioso. Documento ha significato per me ritrovare – pur basandomi sempre sulla formulazione metrica definitiva nel ’58 – il coraggio e forse anche il misticismo di quegli anni adolescenziali: razionalizzandoli fino alle ultime conseguenze. Spesso i risultati sono violenti, i contenuti sono dei veri e propri gridi; ma credo non vi sia più disperazione, e che lo scopo del libro (un equilibrio tra forma del tutto controllata e voluta, e contenuto indotto e dedotto mai automaticamente e tramite l’inconscio, o per provocazioni soltanto letterarie) sia nell’insieme raggiunto». Hai scartato nei tuoi libri poesie di cui non eri troppo sicura? «Naturalmente. Specie quelle dove mancava l’autenticità dell’ispirazione o dello slancio. Per me i libri sono in un certo senso fatti estremi, sintetici».

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

300

AMELIA ROSSELLI

Il tuo rapporto con Pasolini diventò anche d’amicizia, oltrecché letterario. «Non l’ho molto frequentato. Lui era sempre un po’ timido, molto riservato. Quando lo vedevo, parlavamo a lungo, però. Dopo Accattone rimasi molto impressionata dal suo talento, o genio. Prima, devo dire, non avevo neppure letto la sua poesia; e in più lui aveva la vocazione didattica, e sentendomi parlare dei problemi metrici inerenti al mio lavoro, mi suggerì di scrivere quel breve saggio di cui ho parlato, messo in calce a Variazioni belliche. Riusciva ad ispirare una “miglior prosa”, come dire, ed ero tanto preoccupata di non saperla ben fare che quando tornai a casa il mio impegno fu superiore a quello che avrei raggiunto per conto mio. Gli portai anche il secondo libro perché desideravo il suo giudizio. Perciò venni derisa da alcuni, perché ormai c’era stato il Gruppo 63, e durava quest’assurda guerra». Come fosti cooptata dal Gruppo stesso? «Mi invitarono a partecipare alle loro riunioni. Credo tramite Falzoni, pittore e poeta surrealista. Ma mi preoccupai di non entrare in polemiche ufficiali o ufficiose. Mi interessavo a loro, ma anche ci pensavo su. Difatti una leggera presa in giro l’ho fatta in certe poesie allusive del mio volume Primi scritti. L’unico poeta al quale mi sentii vicina, e che mi influenzò, fu Antonio Porta. I suoi primi libri mi piacevano, m’incuriosiva la sua astrazione elegante». Di quali autori hai sentito una più forte influenza? «In realtà di molti. Fra gli italiani leggevo Dante e Michelangelo, molto Leopardi. Di Dante ho letto attentamente anche le opere giovanili o minori. Per i moderni, oltre ai francesi che ho citato e a Kafka, devo ricordare innanzitutto Campana e Montale, Pavese e Penna. Pavese ha esercitato su di me un’influenza, nel senso di farmi avvertire la rottura con l’esperienza ermetica. Una forte influenza». Come nacque il tuo amore per Scipione? «Per puro caso. Trovai in una bancarella l’edizione dei suoi scritti, curata da Falqui nel ’43. E quelle sue dieci poesie sono indimenticabili. Recentemente le ho rilette in pubblico. Anche il suo Diario possiede un’intelligenza particolare, e una grande eleganza stilistica. Quando non può più dipingere, cerca di dare l’immagine tramite la scrittura. Altro poeta che non posso non ricordare è Lorenzo Calogero, di cui oggi, tranne gli specialisti e i poeti, nessuno sa dir niente». Quando ti fermasti a Roma definitivamente, cominciasti delle cure psicanalitiche sistematiche? «Per suggerimento di Bazlen andai da Ernst Bernhard, che praticava a Roma psicoterapia junghiana. Tedesco ebreo, aveva una calma

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

301

eccezionale nei suoi rapporti con i pazienti, rapporti, occorre dirlo, non legalizzati dalla psichiatria ordinaria. Egli riuscì a farmi ricordare l’infanzia che avevo dimenticata, dopo lo shock subito dalla morte di mia madre. Bisogna aggiungere che era ostile alla mia iscrizione al Pci, me la proibiva, aveva degli scatti di paura per me, affettuoso com’era per carattere. Molto più tardi, dopo dissidi, mi consigliai con la scuola freudiana, tra cui il Bellanova. Egli provvide a un’analisi “di appoggio” per alcuni mesi. Alla fine diagnosticò: “Lei ha soltanto una leggera nevrosi”». Torniamo alla poesia. Dopo Documento ci furono i Primi Scritti... «Quel volume, con le date 1952-63, lo pubblicai con l’idea di spiegare la mia formazione giovanile trilingue, che dai miei ventidue anni al 1963, tramite la prosa ed esercitazioni poetiche, tentava di raggiungere una certezza d’innovazione stilistica e linguistica. Anche qui i “pezzi” hanno date apposte, e così ricordano il lento decidersi per una lingua o l’altra, e per una ispirazione, piuttosto che il riecheggiare prose e poesie baudelairiane-rimbaudiane o joyciane in francese e inglese. Direi che Le chinois à Rome è, però, anche se montaliano e joyciano nel suo virtuosismo, punto di rifiuto dell’esercizio, ed anche estetica, come infatti una delle sue parti spiega con il sottotitolo Estéthique jeune. Il lavoro è del 1955-56. Il libro si chiude con una serie di poesie dedicate a membri del Gruppo 63, collage o vere poesie che siano, sempre del tutto ironiche e anzi critiche. La plaquette Impromptu, poemetto scritto nel dicembre del ’79 – e qui ci avviciniamo ai tempi attuali –, nasce dal mio vagheggiare, sin dalla fine della stesura di Documento, un alleggerimento quasi di tipo pascoliano del mio scrivere. Purtroppo dovetti interrompere quasi del tutto ogni scrittura creativa dal ’73 al ’79, poi anche sino a oggi. Le ragioni le conosci. Vengo svegliata troppo presto. Così comincia la mia giornata normalmente. Non dormo abbastanza. Di solito mi sono necessarie otto ore; e invece dormo una media di cinque ore; al massimo sei. Mi sveglio alle sei, alle sette. Con le noie che avevo prima dalla Cia e ora pare anche da Cosa Nostra (o gente buttata fuori dalla Cia), non riesco a vivere come vorrei. Spero che un giorno queste “noie” termineranno. Così sono obbligata all’attività pratica, perché posso leggere qua e là solo qualche articolo su un giornale. M’è capitato di leggere un libro, facevano di tutto per non lasciarmi leggere, e ultimamente m’era impossibile proseguire per più di quindici minuti. La mia giornata prende l’avvio dalla casa. La pulisco e cerco di difendermi da ogni attacco per non cadere in miseria. E allora siano benvenute le “letture” che mi portano fuori Roma, anche se costano fatica fisica. Non è che mi di-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

302

AMELIA ROSSELLI

spiaccia; dispiace leggere se stessi. Interessa leggere qualcosa che si è appena scritto per provarne il risultato sugli altri. Leggere cose che attualmente non mi rappresentano finisce in routine, ma pazienza. Ho fatto di tutto per difendermi dagli attacchi, ho compilato un dossier per il governo e poi per l’Onu: sono troppe le cose che nemmeno vorrei sapere. E so cose orrende. Preservare il buon umore e gli amici è quello che cerco di fare, per non perdere la testa. Questa condizione dura da quasi una ventina d’anni. Appena cesserà, sono certa di tornare alla vita di tutti i giorni, e i miei rapporti si semplificheranno». Hai pubblicato anche Appunti sparsi e persi, compresi fra gli anni 1966-1977... «Molte delle ottantasei poesie incluse semplicemente non trovavano spazio in Documento e perciò furono trattenute e pubblicate poi su riviste. Alcune richiedevano revisione, tagli, estrapolazioni. Gli appunti, invece, erano per contrasto scritti molto velocemente a mano, oppure erano in se stessi quel che rimaneva di una poesia buttata. Di quegli anni c’è forse una tonalità depressiva da notare, nel complesso». Il tuo giudizio sulla società intellettuale italiana è mutato rispetto a quello di ieri? «Intorno ai trent’anni decisi di non molto frequentare, e anzi per nulla, ambienti artistici e letterari. Avevo, come ho detto, dei principi socialisti ben precisi. Dovevo conoscere meglio l’Italia, e i salotti letterari non mi servivano granché. Ma che la società di oggi sia cambiata, non c’è dubbio. Ho problemi tanto diversi da quelli che si discutono nei salotti o fra i giovani; e, sì, mi fa piacere che vengano da me giovani scrittori, che mi mandino i loro libri, è un aiuto per tenermi in contatto con la realtà degli altri; ma finisce sempre che a un certo punto si perde la pazienza, non con gli amici ma riflettendo alla mia personale situazione, e comincio a raccontarla. Ed è quello che preferirei non fare; dunque evito un po’ le persone, salvo se sono molto forti, se sanno scherzare e acquietarmi. Non è che io non abbia intorno a me un ambiente, ma trovo difficile descriverlo obiettivamente, per le ragioni che ho detto». Io mi riferivo anche alla differenza tra un passato e un presente soggetto agli abusi della commercializzazione, della pubblicità ossessionante. «Il mass media imposto lo trovo un po’ ridicolo, cerco di non farmi far fessa. Al di là di questa situazione, vedo un allargamento costante della cultura, essa si spande; la grossa borghesia non comanda più culturalmente, almeno non quanto prima; e c’è gente che s’interessa ai buoni libri. Non mi dispiace il tentativo di divulgazione messo in opera, questo è il lato positivo dei mass media. Non credo, in

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

303

ogni caso, che si possa tornare indietro. Muteranno le mode o l’imposizione straniera perché l’Italia succhia mode. Ma non si potrà tornare a un mondo culturale solo per uso e consumo degli eletti». E che ne pensi dell’interesse attuale intorno alla poesia? «Perfino alcune canzonette sono migliori di quelle di ieri. Oggi poi noto per la poesia una spontanea adesione, nel senso che, al di là della pubblicità editoriale, si può sperare nell’attenzione di alcuni. Ho, di solito, abitato al centro storico, e posso notare qualcosa. Osservo, ad esempio, degli artigiani, dei baristi che leggono poesie, che s’interessano alle nostre questioni. Con loro puoi avere delle conversazioni interessanti». Il tuo scendere col paracadute e trovarti in un paese del tutto nuovo per te, come l’Italia, non è stato un modo di riconquistare tuo padre? «Infatti, è stata da prima una fatica inconscia. Poi, nelle biblioteche, leggevo per ricostruire la figura di mio padre, quasi totalmente da me dimenticata. La prima analisi dei primi otto mesi mi ha aiutato a ricostruire l’infanzia e a ricordare mio padre. Anche l’adolescenza, perché la morte di mia madre me l’aveva stroncata». La tua poesia, così, è servita poi anche a questo? «Forse». (1987)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARTITURA IN VERSI Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

intervista a cura di Francesca Borrelli

Noi non possiamo dire, naturalmente, come scorra il tempo di Amelia Rosselli, a quale privato esercizio lei sottoponga la sua memoria, a quale ordine mentale obbediscano i lunghi intervalli che si succedono al repentino affacciarsi della scrittura; perché è accaduto che essa le si sia talvolta negata, ostinatamente e per lunghi anni, per poi imporsi come una necessità improvvisa e non più rimandabile, e scomparire di nuovo, come una virtualità mortificata dalle quotidiane asperità. Tuttavia, al suo nome è legata una sorta di esasperazione di tutto ciò che il tempo ha di ineffabile, di equivoco; è una sorta di falso movimento quello che si lega alla sua figura nel tempo, oppure – ed è lo stesso – di falsa immobilità. E non solo perché succede che ci arrivino oggi versi di Amelia Rosselli provenienti da lontananze di decenni, ma perché lei stessa ricompare in pubbliche letture come se, a distanza di anni, il tempo non l’avesse piegata al suo cammino e la sua personale disobbedienza all’odioso fluire degli anni le avesse conquistato imprevedibili risorgenze stagionali. Anche i suoi ricordi, che sembra lei non voglia negare a chi l’ascolta, procedono con un moto trasversale, nessuna sequenza regge al continuo intersecarsi di materiali portati dalla memoria, ed è dunque una disarmonia prestabilita quella che lei ci offre. Amelia Rosselli è seduta su una vecchia poltrona nella sua mansarda romana, sottrarsi al dato biografico è quasi impossibile persino per lei che così tenacemente deve difendere ricordi segnati dall’assassinio del padre e dello zio antifascisti ammazzati per ordine di Mussolini e di Ciano. Ma per quanto si vorrebbe lasciarla lontano, quella tragedia torna a motivare non soltanto la sua vita, ma tutta l’opera; perché certo essa pretende lo statuto di oggettività che le è proprio e parla la lingua autoreferenziale della poesia; ma, intanto, pone subito una domanda a proposito del trilinguismo nel quale si esprime. Forse la prima singolarità che si impone al lettore di Amelia Rosselli è quel suo passare dall’inglese, all’italiano al francese, lingue indifferentemente evocabili dal pensiero, che le possiede e le manovra dalla prima adolescenza. Il suo ultimo libro è uscito da poco, ma sono versi scritti tra il ’53 e il ’66, in inglese, ora tradotti per Garzanti da Emmanuela Tandello. È una lingua alta, nutrita di letture di classici; lasciamo che sia l’autrice a parlarcene.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

306

AMELIA ROSSELLI

«Lo credevo un misto di inglese e di americano», ci dice, «ma rivedendo il libro ho scoperto che è molto più legato alla lingua inglese nella quale leggevo a quel tempo; inoltre ci sono dentro i ricordi indelebili del teatro shakespeariano: ho visto Laurence Olivier recitare Amleto, Otello, Re Lear, e non posso dimenticare Alec Guinness nella sua interpretazione tutta diversa di Amleto». A chiunque prenda in mano il libro non possono sfuggire le connotazioni elisabettiane del lessico, della sintassi, della grafia nell’impiego delle maiuscole; persino l’intento appare chiaramente parodistico. È così? «Eccome; c’è una presa in giro del teatro shakespeariano che si esprime, per esempio, attraverso una delle voci parlanti, quella del fool che si burla del re e delle sue corti. Ma poi, seguendo l’ordine cronologico nel quale è organizzata l’antologia, ci si accorge che, senza cessare di fare il verso alla lingua elisabettiana, e senza abbandonare del tutto il registro pseudometafisico, le poesie scritte intorno al ’65 esprimono un rapporto con l’uomo molto più concreto, e assumono connotazioni più sessuate». E quel titolo di una sola parola, Sleep, da cosa viene? «Vuol dire sonno, e credo di averlo scelto da un famoso soliloquio di Amleto. Ma sleep ha anche una valenza ironica, perché quel che si esprime in quelle poesie è soggetto a una attività frenetica. Inoltre, la parola sleep, con la sua doppia e ha una alta densità femminile, il suo suono include in qualche modo sogno e sogni. E per ultimo, allude a una ragione autobiografica: a quel tempo soffrivo di insonnie feroci, dunque il sonno per me era un miraggio». Certo, viene da chiedersi cosa porta alla scrittura possedere interamente tre lingue, alternare nei diversi idiomi il flusso del pensiero... «È un problema; sospetto che se si pensa in tre lingue vuol dire che non ci si è ancora risolti a decidere dove si vuole vivere; fin dall’infanzia sono stata piuttosto vagante e ho avuto più di una esitazione su dove fermarmi». L’Italia, infatti, rappresentò per Amelia Rosselli una residenza occasionale; avrebbe potuto fermarsi altrove, in Inghilterra, per esempio, dove vivevano i fratelli, o a Parigi, dove è nata e ha trascorso parte dell’infanzia. «Con l’entrata dei nazisti in Francia dovemmo scappare; approdammo in Inghilterra, e dopo i primi allarmi dei bombardamenti a Londra, raggiungemmo gli Stati Uniti in nave. I tre anni che passai accanto a mia madre furono il mio periodo più felice; stavamo a Larchmont, un paese di pendolari vicino New York; non lontano da noi abitavano Fermi, Toscanini, Salvemini, che al sabato veniva a trovare mia

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

307

nonna: era la società Mazzini, sede di molte riunioni di antifascisti, che da New York indicava i luoghi relativamente sicuri dove sfollare. Durante il periodo del ginnasio e del liceo, d’estate andavamo a lavorare nei campi; ce n’era bisogno anche in America durante la guerra. Una volta fui mandata con tutti i miei cugini nel Vermont, in un campo quacchero; là, imparammo ad andare a cavallo, a fare lavori pesanti, a tagliare gli alberi, e mungere le vacche. Poi, la domenica andavamo a riposarci nei boschi, e chi voleva si alzava e proponeva una discussione su temi che gli stavano a cuore». Sono ricordi straordinari, cui il pensiero ritorna nella lingua che, di luogo in luogo, consegnò un senso alle diverse stagioni dell’esistenza. Forse ha con tutto ciò qualche relazione una frase che Amelia Rosselli disse, non molto tempo fa, nel corso di una bellissima trasmissione radiofonica a lei dedicata, e condotta da Gabriella Caramore: in quella occasione – glielo ricordiamo – lei parlò di un suo tentativo di salvare dallo spreco e dall’esaurimento il nostro flusso interiore di pensieri... «Sì, ricordo che lo dissi per rispondere a Zanzotto che parlava del corpo a corpo con la realtà che si trova nella mia poesia: lo diceva molto bene, ed è vero, nei miei versi c’è anche questo. Ma sotto sotto abbiamo tutti paura di sprecare la nostra interiorità. Da un punto di vista tecnico, la descrizione psicologica del flusso di pensiero non mi interessa affatto; e tuttavia, nella vita è quel che ci salva. Per me scrivere serve, in un certo senso, a portare nuova ricchezza alla mia e alla altrui interiorità: sta anche in questo la valenza etica della poesia». Uno tra i tanti luoghi comuni della critica su Amelia Rosselli ha individuato nei lapsus una componente quasi organica alla sua poesia. Alcuni esempi tornano anche nei versi dell’ultimo libro, e tuttavia il rimando freudiano è spesso improprio; perché non di errore involontario si tratta quanto, piuttosto, di sovrapposizioni delle diverse lingue. Chiediamo ancora che sia l’autrice a commentarci questi suoi ritorni di lapsus. «Il primo a parlarne fu Pasolini in un saggio scritto come postfazione alle mie prime poesie, pubblicate da Vittorini sul “Menabò” n. 6 del 63. Io gli avevo consegnato un mio personale glossario, spiegandogli il perché di queste fusioni di parole, di questi giochi linguistici. Ma, più tardi, ci si ostinò a parlare dei miei lapsus anche se non ce n’erano più. Per esempio, già nel mio terzo libro se ne trova uno solo, mnemonico, quando per nominare l’albero di una nave uso un inglesismo e dunque lo chiamo “masto” da mast. Ma, molto più spesso non si tratta che di invenzioni di parole, incroci di lingue, di slang o anche di grafismi, che portano chiaro l’influsso di Cummings e di Hopkins, autori che a quel tempo leggevo molto».

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

308

AMELIA ROSSELLI

Proprio in margine alle poesie pubblicate su “Menabò”, che andranno poi a far parte della raccolta Variazioni belliche, una nota biografica presenta la Rosselli dicendo che «Svolge professione, come teorica e compositrice, di musicista». Fu dunque questa la sua prima inclinazione, e chiunque si sia accostato, anche solo occasionalmente ai suoi versi, sa quanto l’educazione musicale abbia occupato una parte fondamentale del tempo e della passione della futura poetessa. «La mia scelta musicale», ci dice, «sembrava una follia, perché la mia famiglia era rimasta senza soldi e mio padre, che all’origine ne aveva, aveva deciso di spendere tutto per finanziare Giustizia e Libertà e l’attività clandestina. Cominciai a suonare il violino a Londra, a sedici anni, poi continuai a Firenze, dove studiai anche il pianoforte. Ma lo strumento al quale avrei potuto dedicarmi in modo professionale era l’organo; adoravo la musica del Cinque-Seicento, prendevo lezioni private a Roma. Poi, come per istinto, smisi di suonare: ragioni di ordine fisiologico mi spingevano a dedicarmi a un lavoro creativo piuttosto che interpretativo. Andai a Darmstadt, come usavano fare i giovani compositori, dove insegnavano, tra gli altri, Stockhausen, Boulez e Tudor, il pianista di John Cage, che in seguito mi chiamò a lavorare con lui a uno spettacolo al Sistina al quale collaborava anche Merce Cunningham. Io mi esprimevo tramite una gestualità improvvisata, e a un certo punto mi misi a cantare un canto gregoriano; finché qualcuno dal pubblico gridò: “Amen”. A Cage non fece per nulla piacere. Una volta a Darmstadt mi era stato dato un lavoro sulla sua musica e io passai cinque nottate a capovolgerne le tesi: a forza di fare grafici ebbi una “allucinazione sonora”, arrivai a sentirmi dentro tutta la partitura di Cage. E mi presi un enorme spavento». C’è almeno uno studio di etnomusicologia che rimarrà nella storia delle pubblicazioni di Amelia Rosselli a pari diritto della sua poesia: è il frutto di quattordici anni di ricerche in Italia, in Francia e a Londra. «Volevo studiare quali erano le vere sottostrutture, non ancora trascritte o analizzate, dei canti e degli strumenti del Terzo Mondo e di quello orientale, dove il sistema temperato non ha avuto influsso. È un lavoro di taglio strutturalistico, che si basa su una rivalutazione della musica folk di ascendenze sia africane che orientali». Ci sono delle poesie che metterebbe in una relazione diretta con i suoi studi musicali? «Sì, mi è capitato, mentre scrivevo Variazioni belliche, di suonare Bach e Chopin e poi di girarmi direttamente dal pianoforte al tavolo di lavoro; certo, non voglio dire che trascrivessi direttamente dalla

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

309

musica, tuttavia è indubbio che lo studio dell’armonia, e soprattutto del contrappunto, si traduce in un movimento interno ai versi». E ora, dopo tanto silenzio, riprenderà ancora una volta a scrivere Amelia Rosselli? «Come posso prevederlo; mi è già capitato di non scrivere nulla per sei anni, poi d’un colpo è venuto fuori il poemetto Impromptu. Lo accompagnai a un salto stilistico e lì ricominciai a parlare di politica, se pure in modo larvato. Ero iscritta al Pci dai ventotto anni, facevo lavoro di base; in quei versi si alternano nettissime sentenze politiche e frasi a bella posta censuranti». Sono versi particolarmente adatti a lasciarsi ricordare: Difendo i lavoratori difendo il loro pane a denti stretti caccio il cane da questa mia mansarda piena d’impenetrabili libri buoni per una vendemmia che sarà tutta l’ultima opera vostra se non mi salvate da queste strette, stretta la misura combatte il soldo e non v’è sole ch’appartenga al popolo.

«Certo», conclude con noi Amelia Rosselli, «se non riesco a scrivere mi sento molto più malinconica, spero di ricominciare. Me ne verrebbe una serenità che non ho». A presto, dunque: è insieme una speranza e un augurio. (1992)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

AMELIA ROSSELLI INTERVISTA SU ROMA a cura di Milo de Angelis e Isabella Vincentini

I Inconsciamente Roma e il clima romano, letterario e artistico in genere, possono avere ispirato il mio ritorno alle letture elisabettiane e il mio attaccamento al barocco, che è anche del Cinquecento e Seicento inglese letterario (questo per quanto riguarda Sleep, Garzanti, 1992). In Prime prose italiane (1954) vi è uno scritto brevissimo su Roma, che descrive una mia passeggiata vicino al fiume, quando abitavo a Trastevere. Lì ho tentato, in poche pagine, di dare l’atmosfera non del Tevere, ma di cosa era Roma per me. II Ho conosciuto molti quartieri semplicemente cambiando camere in affitto: gli avvisi li pescavo sul “Messaggero”, vivevo presso una famiglia, talvolta con un pasto al giorno, talaltra con l’ingresso separato; per lo più erano posti poco salubri, dove non c’era il riscaldamento. Ero stata pratica di camere in affitto a Londra (’46-’48), ma il girovagare dal ’49 al ’54 da una stanza in affitto a un’altra mi ha fatto conoscere Roma da tutte le parti possibili, tranne la periferia. Il ricordo più felice l’ho di un anno in una camera da 7000 lire al mese, una stanzetta celeste chiaro con soffitto alto e bianco, in via della Vite, dietro alle Poste Centrali. Avevo un impiego di mezza giornata e studiavo composizione privatamente. Allora mi colpiva il calore umano dell’ambiente artistico; oggi ancora vivo a Roma, in una specie di fango esaltato. Quando abitavo in via del Cardello, dalle parti di via Cavour, sul lato sinistro di via dei Fori Imperiali, mi comprai una bicicletta e visitai musei per quattro mesi – una sorta di vacanza culturale. Mi trovavo in un quartiere per me accettabile, che più tardi mi ispirò l’idea di comprare una casa a Trastevere. Trapiantata da troppi paesi a Roma, ho cambiato sette camere in affitto, visitando sette diversi quartieri. Per esempio ho avuto una stanza in viale Liegi, un viale allora polveroso, triste molto e gente triste. Mi piaceva la Roma povera dei vicoli, le viuzze, le stradine del quartiere Monti. Camminavo fino alla Biblioteca Nazionale, che allora si trovava vicino a piazza Venezia; ricordo quel piacevole camminare contemplando le rovine romane e, soprattutto, le due chiese quasi gemelle del Bernini.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

312

AMELIA ROSSELLI

III Ho capito l’Italia forse meglio a Roma che non a Firenze, ma ho amato le campagne fiorentine molto più di quelle romane, un po’ schiacciate. IV Verso il ’53-’54 cercavo una casa con una grande stanza tipo studio più una camera da letto, perché desideravo allontanarmi dall’ambiente dispersivo di via del Babuino. Il Trastevere misero del ’54 aveva un’aria di paese e bisognava attraversare il ponte per entrare in città. Non era allora quartiere per studenti, né per ricchi. Non era ambiente artistico, ma di gente dolcissima, ed ancora oggi che abito in via del Corallo preferisco i vicoli. Il Trastevere offriva molto con le sue case per me allora bellissime: affittai una cinepresa, fissando il limite aereopoetico del visuale. Mi interessavano i problemi di spazio legati ai problemi di scrittura: l’inquadratura non fotografica ma mentale, spaziale, dinamica; una visione architettonico-geometrica. Poi ho abbandonato la cinepresa e anche la fotografia e ho continuato con la poesia, e i problemi di architettura dinamica sono divenuti i problemi di Spazi metrici: Nello stendere il primo rigo del poema fissavo definitivamente la larghezza del quadro insieme spaziale e temporale; i versi susseguenti dovevano adattarsi a egual misura, a identica formulazione. [...] Lo spazio vuoto tra parola e parola veniva considerato invece come non funzionale, e non era unità, e se per caso esso cadeva sul punto limite del quadro, veniva immediatamente seguito da altra parola, in modo da riempire del tutto lo spazio e chiudere il verso. Il quadro infatti era da ricoprirsi totalmente e la frase era da enunciarsi d’un fiato e senza silenzi ed interruzioni: rispecchiando la realtà parlata e pensata, dove nel sonoro noi leghiamo le nostre parole e nel pensare non abbiamo interruzioni salvo quelle esplicative e logiche della punteggiatura.

Trattavo un problema di spazio-energia, non un concentrarsi, ma un inglobare le cose attorno, ispirandomi a una specie di postcubismo. Riuscii nel ’62 a pubblicare questa tesi sulla metrica nella Postfazione a Variazioni belliche, che è il frutto di queste iniziali ricerche. Fu la metrica classica studiata in biblioteca e l’esperienza della ripresa a portarmi più tardi a una poesia apparentemente tridimensionale su carta, e tutt’altro sul piano dinamico. In Documento vi sono almeno due poesie che hanno per sfondo Roma: [La notte era una splendida canna di giunco] e [Conversazioni mol-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

PARLARE DI SÉ

313

to sfaticate]. La prima la scrissi quando vivevo presso largo di Porta Cavalleggeri: ogni tanto facevo qualche camminata verso Borgo Pio attraversando piazza San Pietro, e la poesia è il frutto di una di queste passeggiate immaginate come notturne. Ero molto impressionata dalla folla di statue barocche che si trovano attorno alla cupola di San Pietro, come d’altra parte mi ha sempre colpito la visione notturna delle due chiesette di piazza del Popolo (un famoso tema del pittore Scipione), e le loro statue barocche che qualcuno mi ha detto rappresentare delle anonime suore. Per me erano tutte angeli, angeli barocchi tra cielo e terra, ma non precisamente gli «angioli indovinati tra le colonne vertebrate», che sono invece puramente spirituali. Per la seconda poesia: abitavo allora a Trastevere, e avevo affittato una stanza a Dario Bellezza, che era molto amico di Sandro Penna. Dovevamo incontrarci con Sandro Penna a piazza Navona per conoscere Danilo Dolci. Era sera, ed estate, e la poesia descrive questo «sfaticato», o scoraggiato, discorrere romano. (1992)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

APPENDICE

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

STORIA DI UNA MALATTIA

Da dove partano certi attacchi a volte resta un mistero, o un mezzo mistero; ne seguono ipotesi a dozzine, alcune probabili alcune scartabili. Ma in questo caso (di cui intendo dare descrizione) fu un medico ad avere il coraggio d’accusare e specificare “l’origine del male”. Questo nel 1975; le “noie” duravano dal 1969, il male si fece specifico nel 1971, “la malattia” si fece acuta nel 1974 e peggiorarono le condizioni nel 1976-77. Poi vi fu un brusco calo della febbre. La malattia era la Cia, il suo corrosivo o punto d’attacco il Sid o l’Ufficio Politico o ambedue. La cura fu lunga e costosa, e vi sono ricadute. Agli inizi si trattava di poca roba: qualche cappuccino servitomi drogato ai bar del Trastevere, ma ripetutamente. Girava voce che qualche cameriere era informatore, e si vede che il caffè drogato oltre che farti battere i denti al ritorno a casa, serviva per fare “parlare”, chiacchierare o esplodere. Dai tabaccai metà delle sigarette erano drogate. Benché iscritta al Pci frequentavo uno studente di simpatie extraparlamentari. Non nascondevamo la nostra amicizia, anche se le opinioni in certi punti divergevano. Io non partecipavo a manifestazioni violente (allora si trattava soltanto di lanci di sassi), ma ne “osservavo” qualcuna. Lo studente invece si prese una bastonatura in un vagone di celerini. Il giorno dopo (sempre seduti al bar) ci sentimmo dire: «Questi due stanno sempre insieme». Parlavano il capo dell’Ufficio Politico e il suo vice osservandoci. Non molto impressionata ci badai poco. Intanto i telefoni saltavano, le conversazioni telefoniche erano ascoltate e si udivano addirittura reazioni psicologiche di divertimento o minaccia, nel sottofondo senza brusio di telefoni controllati a nastro. Un giovane carabiniere si mise d’accordo con un mio inquilino (affittavo una terza stanza) nel porre una dose un po’ gigantesca di droga nei miei cibi. Forte della sua autorità si era fatto fare una copia delle chiavi di casa accordandosi col fabbro. Il portiere dello stabile anche lui faceva stranezze; non era chiaro se da parte sua erano accordi con la polizia o di tipo politico o del tutto privati. Dovetti traslocare, affittando la casa e passando a quartiere e appartamento più appartati e economici. Questo nel 1971. Lì veramente cominciarono le noie. Dopo circa una settimana di beato silenzio in un appartamento su cortile interno, cominciai a no-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

318

AMELIA ROSSELLI

tare che venivo “auscultata”, cioè ascoltata. Nell’aria, in casa, v’erano strani rimbombi e come delle lontane conversazioni. Finsi di niente, e mi misi in ascolto (anch’io). Troppo pericoloso parlarne a qualcuno, rischiavo di passare per matta. Non m’era chiaro se si trattava del vicino di casa essendo le mura leggerissime, o di qualche aggeggio piazzato in casa. Col tempo mi confidai con qualche amico: spostammo addirittura l’apparecchio televisivo in giardino, sotto tela gommata, nel caso che udibilità, e quel che oramai si chiariva essere addirittura visibilità, dipendessero da antenna e scatola. Nel frattempo solite noie dal nuovo portiere e vicino di casa che pare volesse comprare l’appartamentino mio accanto al suo, e essendo di destra non esitava a spargere voci d’ogni tipo sul mio conto, a codesto fine. Ma questi mi parvero mali minori. Una notte mi svegliai soffocando, e sentii come la stanza piena d’onde elettromagnetiche, e me con le gambe addormentate e formicolanti. Forse un aumento di corrente durante il programma televisivo della sera prima, e un accumularsi d’onde nella stanza chiusa? Sospettai invece che qualcuno fosse andato nella cabina dello stabile, a rialzare la corrente. Solo il portiere ed operai Enel avevano autorizzazione ad entrarvi. Nel quartiere (Cavalleggeri) nel frattempo venivano sparse voci diffamanti sul mio conto, riguardo al mio essere “schizofrenica”, “estremista”, “idiota”, “encefalitica” (sono leggermente spastica), “drogata” e sessualmente “deviata” o maniaca. Io sapendo d’essere vista in casa anzi non avevo vita sessuale. I negozianti della zona mi ripetevano in bene e in male, cioè a volte scherzando a volte insultando, le dicerie che evidentemente la polizia metteva in giro. Si trattava a volte, pare, di poliziotti che non mostravano tessera e perciò, supponevo, potevano essere fascisti. I tabaccai si spaventavano se entravo in bottega, temendo bombe fasciste alle mie spalle. Intanto ricominciava lo scherzo delle sostanze drogate, o peggio, d’acidi quali la varechina, nelle zuppe di pasta e ceci, nel vermuth al bar, perfino negli spaghetti. Cominciai a mangiare sempre a casa, anche perché una qualsiasi protesta da parte mia provocava botte a valanghe o urlate spaventose. Intanto avevo da preoccuparmi d’un avvocato di cosiddetta “fiducia” che tratteneva ogni mio soldo, furbamente non pagando le bollette che non riuscivo a coprire, e nemmeno il secondo anno di tasse sulla casa. Non riuscivo a fargli pagare i pesanti conti medici, né a farmi restituire le bollette da me speditegli. Rimasi senza luce per quattro mesi, a piano terreno dunque buio, arrangiandomi con candele e lampade a petrolio. Arrivarono per il sequestro dei mobili. Intanto trattenevo le rare lettere di risposta dell’avvocato e fotocopiavo le mie di protesta a lui. Un

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

APPENDICE

319

ufficiale tributario intelligente consigliò ch’io smettessi di “trattare” con codesto avvocato tramite altri, e che lo denunciassi. Inoltrai un minuzioso fascicolo di piccole prove accumulatesi. Il giudice sospettò davvero un imbroglio, anche se politicamente rimaneva “al di sopra delle parti”. Seppi in quell’occasione che il suddetto avvocato era stato sospeso dal Pci in attesa di chiarimenti, e che si trattava inoltre del figlio del vice segretario dell’Msi. La sua posizione era davvero poco chiara! Si sospettò che avesse tentato di farmi passare per pazza o drogata per in qualche modo eventualmente appropriarsi dell’appartamento di mia proprietà. Scoprimmo in un secondo conto corrente sempre a nome suo alcune somme mandate regolarmente da un amico di mio padre in America, per mie spese mediche. La somma risultò integra e perciò di ruberie vere e proprie nessuna prova era fornibile. Entrata dunque in possesso dei miei denari (meno d’un milione) mi amministrai abbastanza saggiamente da sola. Continuavo l’attività politica di base nelle sezioni di base del Pci, ma dovetti diminuirla e poi sospenderla, presa dal lavoro letterario e da problemi urgenti di guadagno. S’era chiarita una diagnosi in sospeso da moltissimi anni, riguardo al mio stato di salute generale. Il neuropsichiatra Marcello Nardini dell’Università di Roma poi trasferitosi al Policlinico di Siena, aveva consegnato certificato di completa sanità mentale, e poi diagnosi di lesione a sistema extrapiramidale (curandomi perciò di morbo di Parkinson tramite pillole antispastiche). Cosa di cui chiunque “ascoltasse” e “vedesse” in casa mia o fuori era perfettamente al corrente sin dal 1971. Ogni due o tre mesi o vedevo il medico a Siena per cambio di medicinali, o dietro suo suggerimento mi tenevo in contatto tramite interurbana ricevendo per posta le nuove ricette. Molte visite dall’ortopedico di Roma risolsero anche loro una parte della spasticità e del dolore osseo-muscolare. Seguirono incidenti vari con macchine chiaramente d’origine fascista. Ebbi diverse cadute dal motorino, con traumi cranici relativi. La casa era precedentemente stata messa sottosopra in cerca di droghe, che ovviamente non ho mai comprato né consumato di mia volontà. Essendosi chiarita parzialmente la mia reputazione nel quartiere, ed essendo diminuite in intensità le “voci” maschili udibili in casa pensai d’avere finalmente un periodo di tranquillità. Per contenuto il parlottare tra di loro di queste voci maschili, che a questo punto supponevo dell’Ufficio Politico o di derivazione simile, era nell’insieme non minaccioso. Pensavo addirittura si trattasse d’una forma di protezione, dati i tempi e a causa del mio cognome Rosselli. Ma attorno al 1973 subentrarono nuove voci, alcune maschili alcune femminili, di cui il parlato era americano anche se gli accenti non tipici,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

320

AMELIA ROSSELLI

ma d’inglese neutro. Iniziò un dialogo a dir poco assurdo se non grottesco: io sperando che si trattasse di scienziati sociologi o psichiatri o comunque aspettando di determinarne l’origine. Cominciarono con commenti per metà apparentemente umoristici, tanto da fare poi pensare che si trattasse d’una compagnia d’attori disoccupati. Questo frammisto però a minacce. Al mio chiedere «cosa fate qui» ebbi risposta «non siamo qui per farti piacere». Notte e giorno veniva ripetuta la parola good (bene), in maniera che a me da prima pareva soltanto ridicola ma che in realtà serviva ad interrompere ogni mia forma di pensiero continuato, e che secondo me era una specie di parodia d’una parola d’ordine forse d’uso tra i servizi segreti in genere. Tra le sei-sette voci distinguibili in quanto sempre eguali a se stesse ne spiccavano all’inizio due di donne, una delle quali piuttosto giovane. Compresi più tardi che si trattava di persone drogate: pare che tramite l’uso di certe droghe pesanti sia possibile la lettura del pensiero, abbastanza esatta anche se si tratta di lettura degli strati consci, superiori, del pensiero immediato. Queste due donne si davano un daffare impressionante nel ripetermi, già prima ch’io finissi di “pensare” una frase, le sue prime parole in modo da rendere una qualsiasi interiorità o privacy di opinioni o analisi impossibile. Anche quando mi svegliavo di notte udivo commenti ironici, continuava ossessivamente la lettura di pensiero ripetuta. Si credeva in questa maniera di rendermi o incapace o non autonoma e di comunque ridurmi a specie di manichino ai loro ordini. Ad alta voce però esprimevo le mie opinioni politiche abbastanza chiaramente, e accusai loro d’essere della “Goodyear Co.” ossia delle Sette Sorelle. Finsero d’essere offesissimi. Non m’accorsi dapprima che venivano usati mezzi suppongo elettromagnetici per rendere tesissimi i muscoli, con conseguente ipertensione anche di pensiero: ne seguiva un mio parlottio continuo, difficilmente controllabile; con parziali scoppi di rabbia. La stanchezza era continua ma incomprensibile. Col tempo imparai a parlottare sottovoce e tra i denti per non udire i loro commenti e tentativi al dunque piuttosto ingenui di schizofrenicamente scindere il pensiero e forzare la volontà. M’accorsi poi, tramite i loro commenti per nulla indiretti, che “vedevano” anche fuori casa oltre che udivano. Con gli amici che oramai raramente visitavo ero piuttosto riservata, in attesa di chiarire la situazione. Tentarono di “confondere le idee” con varie personificazioni, fra le quali quella di Richard Burton. Avrei dovuto credere che si trattasse proprio di lui e di un suo gruppo cineastico... Partii nell’estate del 1975 per Malta con tre giovani amici, in vacanza. Non vi furono grandi violenze psicologiche o fisiche là, ma certamente potevo, volendo, conversare con questi strani “pazzi”, ed ero

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

APPENDICE

321

chiaramente vista nella stanza d’albergo e fuori, anche là. Sulla via di ritorno in una stanza d’albergo di Paola in Calabria udii chiaramente parlare tra di loro due italiani, che confesso immaginavo carabinieri mafiosi dell’Ufficio Politico, preoccupati della loro sorte se saltava fuori che «m’innamoravo di Burton». Col tempo cominciai a capire che la situazione si faceva grave. Ogni mio tentativo di dialogo con questi americani era seguito da espressioni di completo cinismo da parte loro: nel gruppo poi v’erano alcuni che parevano assai troppo giovani o brutali per un qualsiasi posto di responsabilità, cosicché invece di continuare a rivolgermi a loro decisi d’inoltrare una denuncia, in quale loco non mi era ben chiaro. Avvisai codesto gruppo oramai scalmanato: mi si minacciò di morte se li denunciavo. Stesi un rapporto che portai al più vicino posto di polizia. Questo dopo aver già steso un rapporto a Servadio della scuola freudiana, che conoscevo e di cui pensavo potermi fidare. Questo mio primo rapporto venne più tardi da lui inoltrato alla magistratura di Genova, senza alcun risultato ch’io sappia. Al posto di polizia di piazza Cavour mi si consigliò di passare il caso all’Interpol; all’Interpol, avendo io arguito che la polizia italiana fosse coinvolta, mi si mandò alla Questura Centrale, poi all’Ufficio Stranieri della Mobile. Alla Questura sentii commenti di un paio di poliziotti riguardanti «il giardino di Lezzi», che sarebbe stata la mia casa dove ovviamente ero vista anche nuda. Il nome Lezzi è quello di un neuropsichiatra di una clinica privata romana che nel passato (1958) aveva fatto gravi pasticci con un vero e proprio “rapimento” politico tramite autoambulanza, e una cura di sonno sbagliatissima impostami illegalmente che allora provocò stato di coma meningitico. All’Ufficio Stranieri della Mobile ebbi breve colloquio con un non meglio identificato ufficiale giudiziario. Dopo lettura del mio rapporto al dunque piuttosto dettagliato mi chiese: «Perché, non può sopportarlo?» Sbalordita risposi: «Ma io devo lavorare!» A questo punto l’ufficiale consigliò di «prendersi un avvocato». Evidentemente andai da un’avvocatessa di sinistra: al ritorno dalla Questura avevo subito infatti un attacco da una macchina mentre passavo di notte per le Mura Gianicolensi in motorino: il tentativo di creare un incidente era talmente palese (la macchina mi parve guidata in questo caso da un italiano) che pensai meglio riferire tutto all’avvocatessa la quale si allarmò e fece fotocopie delle fotocopie del rapporto originario che le avevo dato in lettura. Da quel punto in poi s’accentuarono i “trattamenti” psicologici e fisici del gruppo americano: le poche voci italiane che udivo sembravano anzi appoggiare un mio resistere alla fatica, con incitamenti tramite la

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

322

AMELIA ROSSELLI

parola “brava” usata ripetutamente anche se non a vanvera. Macchine scalcagnate di marca americana con tipi un po’ loschi dal fisico infatti americano a volte m’attendevano al portone o infastidivano per strada. Ma a ciò ero ormai abituata. S’intensificò grossolanamente il piazzare veleni e droghe in bevande nei bar; in una occasione mi si annunciò (in italiano, questa volta) che era stato piazzato il chinino, e infatti cominciarono severi crampi che durarono due o tre giorni. Con l’intensificarsi dell’uso d’onde che io tecnicamente posso soltanto definire elettromagnetiche, avvertii il neurologo di Siena della situazione, tenendomi in contatto con lui periodicamente e scrivendo a volte lettere particolareggiate sulla situazione. Il neurologo prescriveva anche ricostituenti per trauma cranico cronico, essendo la testa oramai dolorante e infiammata, con forte perdita di capelli ecc. Si udì tra gli americani menzionare l’uso del radar sulla testa, e tra molte minacce di stile mafioso (in un italiano di stile fascistico), notavo rialzarsi e abbassarsi a punta la cima del cranio (la calotta), a volte molto dolorosamente. Assieme all’avvocatessa Remidi inoltrai denuncia e rapporto alla segreteria del presidente della Repubblica Leone, supponendo la questione di dominio esecutivo (Sid, Servizi di Difesa ecc.); il tutto senza risultato. Inoltrai col tempo protesta all’Ambasciata Americana di Roma. Previamente aveva fatto rapporto scritto al Consolato inglese (ho doppia cittadinanza, essendo italiana di padre ma naturalizzata durante la guerra da mia madre originariamente inglese), avvertendo dell’uso abusivo e costante che questi americani facevano del nome di Richard Burton, e perfino del personale del Consolato Britannico. Proprio prima di portare protesta all’Ambasciata Americana venni come al solito gravemente minacciata: questa volta mi si era piazzata una dose veramente forte di forse oppio, fra i miei cibi o medicinali. Arrivai all’Ambasciata mezza morta, parlai brevemente col vice console menzionando nel rapporto scritto il fatto d’aver denunziato il caso sia alla segreteria di Leone sia al Consolato Britannico e la Questura. Mi disse che se ne sarebbe occupato. Passarono settimane senza alcun cenno; ad un mio susseguente ritorno all’Ambasciata fu evitata ogni spiegazione, addebitando alla magistratura italiana ogni responsabilità. Il neurologo Nardini allora perse la pazienza e accusò chiaramente la Cia, in via privata tramite interurbana. Da un avvocato passai ad un altro, poi al gruppo di Magistratura Democratica. In riguardo ebbi un breve colloquio con Giovanni Berlinguer. Alla fine dell’estate del 1976 misi il caso nelle mani di Umberto Terracini senatore, e Sandro Pertini allora presidente della Camera, per i quali stesi un ancora più dettagliato rapporto essendosi molto specificato il “trattamento”

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

APPENDICE

323

americano, con incursioni molteplici in casa piazzando veleni e droghe in cibi e medicinali, e ovvissimi aumenti di corrente elettrica suppongo tramite la cabina Enel, che si facevano sentire in modo tale che per esempio nell’aprire il televisore si sprigionavano onde in faccia anche da parecchi metri. I fili elettrici normalmente d’uso in case private sprigionavano anch’essi un eccesso di corrente tale da ridurre le gambe a colorazione bluastra e bianca. Malgrado avessi cambiato la serratura l’appartamento, essendo a piano terreno in abitato con purtroppo doppia entrata principale una delle quali non protetta da portierato, l’entrata e uscita da casa mia veniva perfino osservata dal vicinato, che credeva trattarsi di persone a me amiche. Non trovai nessuno che stesse di guardia quando uscivo per fare la spesa. Evitavo il peggio delle “onde magnetiche” uscendo in motorino; le diverse velocità possibili su un mezzo simile rendevano più difficile la localizzazione, ma i commenti di ordine ossessivoironico si susseguivano anche durante la guida e rendevano la marcia un poco pericolosa. Ebbi inoltre un due o tre cadute un poco rovinose, e incidenti semi-politici in centro, non di chiara origine anzi sospetti. Con il freddo d’inverno poi divenne quasi impossibile usare questo mezzo di difesa istintiva. Tutti i miei vestiti vennero un giorno spruzzati d’acidi; ci vollero molti giorni di lavaggio e tintoria per salvarne il grosso. Trattenni per un periodo tutti i cibi che avevo trovato o drogati o avvelenati, per mostrarli ad un medico sperando di provare il caso tramite analisi di laboratorio. Mi si consigliò di buttare tutto quanto. Comunque nell’autunno del 1976 le cose cominciarono ad andare per il meglio tramite l’intervento di Terracini e della segreteria particolare di Sandro Pertini. Dopo qualche mese venne eliminato l’uso del radar; le violenze diminuirono e soltanto sporadicamente s’infiltravano veleni in casa. Io del resto nascondevo liquidi e polveri dietro i libri e compravo soprattutto cibi in scatola. Credo che la violenza d’onda e simili usanze diminuissero non fino alla completa estinzione ma che comunque divenissero più tollerabili. Continuava purtroppo una più pacata violenza psicologica, con la solita visibilità e udibilità. Del resto avevo a quel punto ripreso a vedere alcuni amici e avvisavo di solito del fatto. Per varie ragioni partii per l’Inghilterra. Stanchissima, avevo perso, a dire il vero, fiducia che si potesse del tutto eliminare l’intervento apparentemente politico-spionistico americo-italiano che mi preoccupava. Pensai di trasferirmi definitivamente a Londra con vendita d’appartamento e ricompera a Londra. Riimpiantare il proprio lavoro letterario a Londra non sembrava impossibile. M’illudevo forse che co-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

324

AMELIA ROSSELLI

me cittadina inglese (il governo inglese non può dare protezione ai suoi sudditi anche soltanto naturalizzati salvo che su terreno nazionale) sarei stata vittima ben più temibile per la Cia, e che questa organizzazione non avrebbe osato infastidirmi in Inghilterra. Tutt’altro: appena messo piede su suolo inglese ricevetti insulti e minacce di tipo «la butteremo fuori d’Inghilterra», sempre dal solito gruppo Cia. I “trattamenti” anzi andarono intensificandosi gravemente, e ne ricavai strappi muscolari dolorosissimi, anche perché i mezzi di “tiraggio” elettromagnetico lavoravano proprio sui punti deboli dell’organismo, cioè su quella parziale spasticità muscolare derivante dalla lesione extrapiramidale e comunque dal caso grosso modo classificabile come morbo di Parkinson. Mi feci quasi immediatamente visitare da ospedale nazionale, con scarsissimo risultato. Anzi a quanto pare non una sola mia parola venne creduta riguardo alla Cia, e mi si classificò probabilmente schizofrenica. Mi tenni lontana dai medici. Vi furono un paio d’incursioni nella nuova casa sempre da parte della Cia, con relativo piazzamento di acidi, addirittura nel fondo della vasca da bagno e nelle scarpe oltre che nei medicinali. Il portiere dello stabile però notò che qualcuno era entrato tramite la cantina (vivevo ad un quinto piano), ed un giovane avvocato mi consigliò di avvisare il Cid, cioè una branca della polizia specializzata in casi di criminalità più grave ed estesa. Ebbi colloquio con una giovane detective, la quale però sembrava pensare che «non v’era più fascismo»: aggiunse che se ne sarebbero occupati per quanto possibile. Difatti la Cia non osò più continuare col sistema d’incursioni in casa, e nelle trattorie non avevo noie. Qualche piccolo incidente abbastanza ovvio vi fu per strada per infastidirmi, facilmente identificabile. Del resto notai che il Servizio Segreto inglese si era posto ora chiaramente anch’esso in ascolto: lo strano era che anche gli italiani (gruppo Sid?) continuavano la loro vigilanza. Ambedue i gruppi direi fossero disgustati dall’andamento delle cose, ma non riuscivano ad impedire l’aumentato trattamento oramai ovviamente definibile come tortura. Portai una lettera allo Home Office e al Foreign Office, con solita relazione, dando i dati circa l’intervento governativo della presidenza della Camera italiana. Mi si rispose di visitare l’Ufficio Medico del rione, per consigli. Riscrissi, telefonai, e dalla risposta compresi che forse del caso si stavano già occupando dopo una iniziale esitazione. Non mi venne suggerito di tenere segreta l’intera faccenda, ma dedussi che fosse consigliabile farlo. Dopo qualche mese esausta andai da un medico generico privato chiedendo tranquillanti anche per aiutare a distendere i muscoli. Par-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

APPENDICE

325

lai eventualmente dell’affare Cia col medico abbastanza intelligente. Visitai dietro suo consiglio un notissimo neurologo prof. Dally, al quale esposi il caso. Il medico generico aveva menzionato che in simili casi il Dally era intervenuto presso la Croce Rossa Internazionale. Il prof. Dally disse che era a conoscenza di circa cinque o sei casi simili, e che ogni protesta alla Croce Rossa Internazionale di Ginevra era inutile, perché «non osavano» denunciare o opporsi. Verso dicembre del 1976 veramente troppo esausta anche spicologicamente oltre che fisicamente (la Cia “pressurizzava” anche il cuore, portandolo a quasi collassi) chiesi il ricovero in ospedale, minacciando in caso contrario il suicidio. Pensavo in realtà che il passaggio ad ospedale avrebbe o obbligato le autorità ad intervenire, o scoraggiato la Cia. Del resto i “trattamenti” avevano come scopo principale, non riuscendone altri, quello dell’incidente casuale o del suicidio inspiegabile. M’accorsi purtroppo d’essere stata accolta in un ospedale psichiatrico in cui però lavorava il prof. Dally. Con mio grande sollievo non dovevo provvedere alla cucina, almeno, e i cibi erano buoni e il trattamento infermieristico ottimo. Come per gli altri pazienti però mi s’imbottiva di calmanti, che per casi di leggera spasticità di tipo parkinsoniano sono spesso controindicati. Al dunque, benché io rimanessi calma ma estremamente scoraggiata, venne suggerito il trattamento elettroshock, così com’era d’uso per quasi tutti gli altri pazienti in corsia. In Inghilterra essendo questa cura facoltativa, il paziente è libero di rifiutarla. Così feci, e anzi mi dimisi di mia volontà dall’ospedale. Ma le torture Cia continuavano e io temetti addirittura di non avere la forza di trattenermi dal suicidio. Rientrai in ospedale, accettai il trattamento Edc (elettroshock) sapendo che in Inghilterra veniva adoperato con cautela senza abusi sia in numero sia di metodo. Ne vennero fatti cinque o sei, le mie condizioni di scoraggiamento e stanchezza non cambiarono; dopo il secondo elettroshock cominciarono dolori nuovi alle tempie e al retro della testa, che da allora non sono diminuiti e che sono probabilmente attribuibili a spostamenti delle vertebre. Rimasi tre mesi nell’ospedale; la Cia infatti diminuì l’intensità sia vocale sia elettromagnetica delle torture, circa un mese dopo il mio ricovero. Udii addirittura uno del gruppo Cia menzionare ad una delle donne più scalmanate che avevano “ordini” di ritirarsi. Non sto a menzionare lo stato di stanchezza che permane dopo un tre anni di simili esperienze; riuscii a superarlo in parte frequentando un ospedale “diurno” di assistenza sociale, noiosissimo ma mia specie di copertura temporanea ai mille dubbi corrosivi che oramai anche dopo l’interruzione dei mezzi di tortura, preoccupano la vittima. In

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

326

AMELIA ROSSELLI

questo centro d’assistenza sociale di tipo psichiatrico menzionai sia ai pazienti sia ai medici assistenziali le cause dell’eccesso di malinconia, ma veniva consigliata piuttosto una ripresa del lavoro redditizio, che non un approfondimento politico della questione. Del resto anche lì i medici mostrarono di non credere alla mia versione realistica riguardo alla Cia, supponendola frutto di squilibrio. Qualche dubbio passò per la loro testa senz’altro, ma il caso era secondo loro piuttosto medico e non altro. Io non presi i medicinali che venivano ordinati e poco a poco mi staccai da questo centro assistenziale anche perché avevo oramai preso la decisione di ritornare in Italia, rivendendo l’appartamento acquistato a Londra. Il trattamento Cia s’era interrotto a marzo del 1977 qualche tempo dopo le elezioni di Carter. Il Servizio Segreto inglese aveva previamente denunciato il caso alla Commissione dei Diritti dell’Uomo dell’Onu. Non so se fosse conseguentemente alle elezioni di Carter o per via di questa denuncia all’Onu, che le torture d’ogni tipo vennero sospese. Il mio ritorno a Roma era abbastanza fiducioso. Purtroppo in agosto sono riprese le solite vocalità Cia, cioè è ripresa la visibilità e udibilità, il commentario e tutto. Si tratta dell’identico gruppo di prima, meno sicuro del suo avvenire. Sono perfino ricominciati i “trattamenti” elettromagnetici e si potrebbe prevedere che aumentino in intensità. Ho nel giro di dieci giorni inoltrato rapporto riassuntivo alla presidenza della Camera, e sono in attesa di notizie. 16 settembre 1977 (1977)

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NOTA AI TESTI

Data la varietà delle sedi di pubblicazione dei saggi e degli articoli e l’ampiezza dell’arco cronologico testimoniato, si sono operati sui testi alcuni interventi di uniformità grafica e si è talvolta agito sulla punteggiatura per renderla più perspicua. Si è normalizzato l’uso delle maiuscole nei titoli (la Rosselli, secondo la prassi inglese, tende infatti a utilizzare l’iniziale maiuscola per tutti i sostantivi e i verbi presenti in un titolo). Si è mantenuto invece l’uso, frequente in molti contributi, di corsivare singole parole, spesso le negazioni, per darne una sottolineatura enfatica, e il ricorso sistematico, attestato anche da alcuni dattiloscritti, della d eufonica. Si sono infine riportati minimi interventi correttorii, scritti talvolta “a posteriori” dalla Rosselli sui ritagli di suoi articoli conservati presso il Fondo Manoscritti pavese (inserimento di una parola o riga saltata, correzioni di refusi). Solo in rari casi, per risolvere passi dubbi, si è potuto ricorrere a un testo originale dattiloscritto, perché tranne qualche eccezione (segnalata nella Nota ai testi), non se ne ha copia. In calce agli interventi viene riportata, fra parentesi, la data di prima pubblicazione. Le datazioni d’autore di fine stesura del testo sono indicate invece senza parentesi.

Armonia di gravitazione Recensione a ROBERTO LUPI, Armonia di gravitazione, in “Il Diapason”, I (1950), 8-9, agosto-settembre, pp. 24-29. L’articolo è firmato «Marion Rosselli» (in questo scritto, come nella pubblicazione della prima parte di La serie degli armonici, la scrittrice adotta il nome proprio della madre). Presso il Fondo Manoscritti sono conservati nove fogli dattiloscritti (sigla d’archivio CV.2) che testimoniano una stesura precedente del testo. Sul primo foglio sono elencate «quattro premesse del comporre» («studio di movimento», «studio dell’orecchio musicale», «studio nel creare unità», «studio storico»), cui segue un’analisi, capitolo per capitolo, del testo di Lupi. Sul recto dell’ultimo foglio vi sono due note manoscritte: «Copia originaria di studio di Roberto Lupi, per Turchi; poi trasformata in articolo poi “Il Diapason”, n. 89 – 1950»; «Non si tratta di un saggio ma di una critica di uso solo tecnico, non divulgativo. Per questo il tono troppo formale e pretenzioso dovrà essere scusato. / Le quattro premesse sono intese come piattaforma della critica. Risultano vaghezze troppo evidenti? Hanno forse un senso concreto solo per un musicista o compositore».

Musica e pittura. Dibattito su Dorazio PIERO DORAZIO, GIORDANO FALZONI, PIETRO GROSSI, VITTORIO GELMETTI, LUCIANO RUBINO, AMELIA ROSSELLI, MARIO BORTOLOTTO, EUGENIO BATTISTI, FRANCO DI VITO, Musica e pittura, dibattito su Dorazio, in “Marcatré”,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

328

AMELIA ROSSELLI

16-17-18 (1965), luglio-agosto-settembre, pp. 225-230. L’articolo è accompagnato dalle riproduzioni di due quadri di Piero Dorazio, St. Peter’s Dream (1964) e Un peso deslubrador (1964). Al dibattito partecipano, oltre allo stesso pittore Piero Dorazio (firmatario con Pietro Consagra e Giulio Turcato del manifesto della pittura astratta italiana Forma Uno), lo scrittore, pittore e regista Giordano Falzoni (cui la Rosselli dedica un intervento, cfr. qui pp. 195-197), i compositori Pietro Grossi (che si occupò di musica elettronica, di computer music ed elaborò il concetto di Homeart) e Vittorio Gelmetti (anch’esso inizialmente attratto dalla musica elettronica, poi dalla «musica fabbricata con la musica» usando «brandelli di discorsi musicali e macerie di architetture sonore», autore di famose colonne sonore, fra cui ad esempio Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, vivace critico e promotore della musica contemporanea), l’architetto Luciano Rubino, lo storico e critico musicale Mario Bortolotto, lo storico e critico dell’arte, direttore di “Marcatré”, Eugenio Battisti.

La serie degli armonici (1953-1977) Il testo nella sua forma definitiva e completa viene pubblicato su “il verri”, VIII serie (1987), 1-2, marzo-giugno, pp. 166-183. La prima parte era già uscita su “Civiltà delle macchine”, II (1954), 2, pp. 43-45 e in una versione leggermente scorciata, col titolo Nuovi esperimenti musicali con un nuovo strumento, su “Il Diapason”, IV (1954), 11-12, pp. 12-14, in entrambi i casi a firma «Marion Rosselli». Il testo comparso su “Civiltà delle macchine” è sostanzialmente identico a quello del “verri”, eccezion fatta per il paragrafo finale («Nel caso […] tentativo d’organizzazione del suono», cfr. qui p. 51) che sostituisce una singolare dichiarazione di disponibilità (omessa anche dal testo di “Diapason”): «Non so se quest’esposizione è sufficientemente chiara e particolareggiata; se qualcuno dovesse desiderare maggiori particolari, sarò ben contenta di dargli tutte le informazioni di cui dispongo, ed eventualmente mostrargli o fornirgli un modello dello strumento».

Introduzione a “Spazi metrici” Testo inedito, conservato al Fondo Manoscritti di Pavia. Sono tre fogli, fotocopie di un dattiloscritto con qualche intervento manoscritto (sigla d’archivio ISM). Sul margine superiore del foglio 1 vi è l’indicazione autografa «Introduzione a Spazi metrici / per Marcello Baraghini / per Adriana Moltedo / Stampa Alternativa / libri 1000 lire»; il f. 3 è firmato e datato in calce «4 febbraio, 1993». Sul f. 3v vi è la notazione manoscritta «“collanina” / 1° cofanetto cm 10,5 × 15 / contenente 10 libricini / e successivi». Come risulta infatti dalla corrispondenza editoriale la Rosselli aveva aderito a un’iniziativa promossa da Adriana Moltedo per conto di Stampa Alternativa, consistente – come si legge in una lettera non datata di Marcello Baraghini – nel «formare una collana d’autrici famose […] la prima uscita della “collanina” potrebbe essere composta da un cofanetto della dimensione di cm 10,5 × 15, contenente 10

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

329

libricini, ciascuno di circa 12 cartelle dattiloscritte […] fino a un massimo di 64 cartelle». In calce alla lettera vi è un appunto autografo della Rosselli: «Vorrei poter correggere le bozze dell’intero libricino. Grazie e saluti e auguri / Amelia Rosselli / 6 febbraio 1993». L’iniziativa della Moltedo si concretizzerà nel 1994 con il cofanetto Parole di donne contenente cinque volumi (testi di Dacia Maraini, Susanna Tamaro, Giacoma Limentani, Ippolita Avalli, Rosetta Loy): il contributo della Rosselli era destinato a una analoga raccolta, sempre curata da Adriana Moltedo, che prevedeva l’inclusione di testi di Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese e Lalla Romano. Il testo è stato anticipato sulla rivista “Trasparenze”, 17-19 (2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 11-13.

Spazi metrici Saggio pubblicato in appendice a Variazioni belliche, Garzanti, Milano 1964, riproposto anche nelle due successive edizioni del volume: Variazioni belliche, a cura di Plinio Perilli, Fondazione Piazzolla, Roma 1995; Le poesie, a cura di Emmanuela Tandello, Garzanti, Milano 1997. La genesi del saggio risale a una conversazione con Pier Paolo Pasolini, come risulta dall’Introduzione a “Spazi metrici” e da alcune interviste. Ad esempio, a una domanda di Ambrogio Dolce – nell’intervista a sua cura, Amelia Rosselli: poesia non necessariamente ascientifica, in “Idea”, XLIV (1988), 12, gennaio-febbraio, pp. 37-44 – sull’influsso degli studi di etnomusicologia sulla formazione della teoria di Spazi metrici, la Rosselli risponde: Non si tratta di un influsso. Le due discipline hanno lo stesso atteggiamento verso la realtà: trovare i sottostrati reali della forma che neghiamo per esempio al folk cosiddetto e alla musica del Terzo Mondo. Si sa qualcosa della musica orientale perché era sistematica e qualche volta scritta o tradizionalmente passata di musicista in musicista, ma certe musiche semplicemente orali del Terzo Mondo non sono state oggetto di uno studio di sottostrutturazione, che secondo me, c’è. Io cercavo di parlarne con Pasolini, lui, non avendo studiato musica, non capiva quello che gli spiegavo circa una metrica sistematica chiusa e non neoclassica o possibilmente di un nuovo neoclassicismo, non capiva, m’ha detto con molta modestia: perché non mi scrivi un saggio in questione? Ed ecco Spazi metrici, in cui ho cominciato a lavorare più tecnicamente. […] Spazi metrici è puramente divulgativo, quasi un compitino ispirato da Pasolini, vi ho spiegato il sistema metrico che uso quasi sempre da allora in poi.

Sempre a proposito del saggio, nella stessa intervista, la Rosselli racconta che fino all’uscita dell’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, «nessun critico si è accorto dei miei Spazi metrici, ora mi chiedono di parlarne, di spiegare; parlo di ciò senza voler applicare un dogma ma come un’apertura al futuro; che la scienza sia in tutte le discipline anche artistiche è un mio parere, ma se lo dico a un poeta si spaventa subito, vuole la sua libertà creativa, punto e basta».

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

330

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Glossarietto esplicativo per “Variazioni belliche” Parzialmente edito in appendice a SALVATORE RITROVATO, Il “Glossarietto esplicativo” di Amelia Rosselli per “Variazioni belliche”, in “Profili letterari”, IV (1994), 5, giugno, pp. 101-107 (il testo del Glossarietto è alle pagine 105-107). Al Fondo Manoscritti si conservano due copie del testo: la prima (sigla d’archivio GE.1) consta di quattro fogli dattiloscritti, con numerazione d’autore 1-4. Sul margine superiore destro del foglio 1 vi è la nota manoscritta a matita «vedere con libro (1963) inedito», in calce vi è l’indicazione manoscritta «completamente inedito». La seconda copia (GE.2) consta di quattro fogli, fotocopie di un dattiloscritto (il testo è identico a GE.1) con qualche intervento autografo a matita. Identiche a GE.1 le notazioni manoscritte sul foglio 1. Sul foglio 4r nota manoscritta a matita «dato a Tandello Emanuela e spedito a “Profili letterari” / 3a fotocopia a Foggia / 2/9/92». Come si legge nella presentazione di Salvatore Ritrovato che riporta un passo da una lettera di accompagnamento della Rosselli, il Glossarietto fu dato nel 1961 a Pasolini insieme al manoscritto di Variazioni belliche «con raccomandazione che non fosse pubblicato, cioè che fosse d’uso privato» e si collega alla stesura del saggio Spazi metrici, terminato nel 1962. Il testo è stato anticipato sulla rivista “Trasparenze”, 17-19 (2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 15-22.

L’accusa di provincialismo turba troppo gli italiani Recensione a GIUSEPPE GUGLIELMI, Panglosse, Feltrinelli, Milano 1967, in “Paese Sera”, 1° settembre 1967.

Resiste agli esperimenti dell’avanguardia Recensione a ANGELO MARIA RIPELLINO, La fortezza d’Alvernia, Rizzoli, Milano 1967, in “Paese Sera”, 15 settembre 1967.

“Cara Milano” e poesie per Pavese Recensione a LUCIANA FREZZA, Cara Milano, Neri Pozza, Vicenza 1967, FRANCO ANTONICELLI, Improvvisi, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1967, FOLCO PORTINARI, Cambio di moneta, Mondadori, Milano 1967 e alla ristampa di CARLO BETOCCHI, L’anno di Caporetto, Il Saggiatore, Milano 1967, in “Paese Sera”, 31 marzo 1968.

“Dal balcone” e “L’angelo attento” Recensione a SERGIO SOLMI, Dal balcone, Mondadori, Milano 1968, ANTONIO BAROLINI, L’angelo attento, Il meraviglioso giardino e altre poesie inedite, Feltrinelli, Milano 1968, Saffo, Archiloco e altri lirici greci, trad. di Manara Valgimigli, Mondadori, Milano 1968, in “Paese Sera”, 28 aprile 1968.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

UNA SCRITTURA PLURALE

331

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Sandro Penna Recensione a SANDRO PENNA, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970, in “l’Unità”, 1° luglio 1970. Il testo viene riproposto col titolo Per Sandro Penna in “Nuovi Argomenti”, n.s., 20 (1970), ottobre-dicembre, pp. 247-250. L’articolo è stato poi ristampato in “Trasparenze”, 17-19 (2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 5-8. Nel Fondo Manoscritti di Pavia sono conservati tre fogli dattiloscritti (sigla d’archivio SaPe.1), con interventi manoscritti della Rosselli, che riportano note biobibliografiche sul poeta e una selezione di giudizi critici.

“Metropolis” di Porta Recensione a ANTONIO PORTA, Metropolis, Feltrinelli, Milano 1971, in “Rinascita”, 4 giugno 1971. Il testo è stato ristampato in “Trasparenze”, 17-19 (2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 9-10.

Wirrwarr Recensione a EDOARDO SANGUINETI, Wirrwarr, Feltrinelli, Milano 1972, in “il verri”, V serie (1973), 1, marzo, pp. 177-178.

Scipione panteistico Prefazione a SCIPIONE, Carte Segrete, nota di Paolo Fossati, Einaudi, Torino 1982, pp. V-IX. Su questo testo si veda l’articolo di EMMANUELA TANDELLO, Un discorso appena un po’ più largo, in “Trasparenze”, 17-19 (2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 193-207. Presso il Fondo Manoscritti sono conservati vari materiali di lavoro (sigla d’archivio Sc.1-Sc.11): appunti manoscritti sulla vita, elenco delle pubblicazioni, sintesi dell’intervento La seconda quadriennale d’arte nazionale di Emilio Cecchi, in “Circoli”, V (1935), 1, pp. 74-83 e dell’articolo su Scipione di Carlo Betocchi uscito su “Frontespizio”, X (1938), 8, citati nella prefazione, e tre stesure con minime varianti del testo della prefazione. Vi sono inoltre undici fotocopie tratte dall’edizione Vallecchi del 1943 di Carte segrete, che riportano nove poesie di Scipione, contrassegnate con una o due “X” oppure affiancate dall’indicazione manoscritta «escludere». La prima poesia, Estate, contraddistinta con “XX”, reca accanto al titolo la nota autografa «(tematica centrale)» e la segnalazione «assenza di enjambement con due eccezioni»; la seconda, Il giorno è andato lontano, è invece da «escludere»; sul foglio di Solstizio ritorna l’appunto «(tematica centrale)»; [Tutto ci abbandona] è rimarcata con una “X”; [Le nubi sono sospese nell’aria] è ancora da «escludere»; [Sento gli strilli degli angioli] riporta l’indicazione «(disegno)» e “XX”; nella poesia [Nessuno ti aspetta] sono riquadrati alcuni versi e a fianco vi è la nota «quadro»; pulita è la fotocopia di [Andavo ad appostarmi]; [Coro d’estate] presenta ancora la notazione «(tematica centrale)» ed «escludere»; infine [Alla calata del sole una pecora] è contrassegnata con “XX”.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

332

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Sonetti e stornelli Introduzione a CETTA PETROLLO, Sonetti e stornelli, Tam Tam, Torino 1985, pp. 3-5.

Fort-da Prefazione a SARA ZANGHÌ, Fort-da, Il lavoro editoriale, Ancona 1986, pp. 5-6. Alla memoria della Rosselli la Zanghì dedica la lirica [Al caffè liberty mentre Amelia], pubblicata su “Galleria”, XXXXVIII (1997), 1-2, gennaio-agosto, numero monografico su Amelia Rosselli, a cura di Daniela Attanasio e Emmanuela Tandello, p. 193.

Un’opera inedita di Calogero e la sua corrispondenza letteraria Il testo esce su “I Quaderni del Battello Ebbro”, II (1989), 2, aprile, a cura di Loretto Rafanelli, pp. 31-43, in una versione in parte modificata rispetto alla prima uscita sul numero speciale dedicato a Lorenzo Calogero di “La Provincia di Catanzaro”, II (1983), 4, luglio-agosto. È il frutto di un interesse costante della Rosselli per questo tormentato e misconosciuto poeta calabrese (che, ricoverato più volte in una clinica per malattie nervose di Catanzaro, morì, forse suicida, nel 1961), testimoniato anche da alcune lettere al fratello John, da materiali di lavoro conservati al Fondo Manoscritti di Pavia, da una presentazione e selezione di testi per la rivista “Tabula”. Nel 1966, anno dell’uscita del secondo volume postumo di Calogero (Opere poetiche II. Ma questo. Sogno più non ricordo, a cura di Roberto Lerici, Lerici, Milano 1966), scrive infatti in una lettera del 22 febbraio 1966: «Also I’m reading a poet discovered only after his death here in Italy – called Calogero – most unusual writing, for one living completely isolated from public literary life (beato lui) in a little Calabrese town». Nel 1979 lavora alla preparazione di un terzo volume delle poesie di Calogero (lettera del 7 giugno 1979), preannunciato anche su “Tabula”, che non vedrà mai la luce. Sulla rivista invece, diretta dal cugino Aldo Rosselli, del cui comitato di redazione fa parte (con Alberto Boatto, Renzo Paris, Giuseppe Pontiggia, Antonio Porta, Giovanni Raboni, Antonio Tabucchi, Stefano Zecchi), seleziona alcune poesie: sul n. 3-4, marzo 1980, alle pp. 21-37, precedute da una sua breve nota biobibliografica (in cui i versi di Calogero sono definiti «straordinariamente insoliti») usciranno tredici testi tratti dalla raccolta Avaro nel tuo pensiero, del 1955 (Decaduto ogni giorno, Sento capricciosi eventi, Tu potevi non chiamarmi, È permanentemente vero, Cadono vani sogni, Sono arsi i movimenti, Quali beati lampi, Forse perché partecipi di un modo esatto, Roso il sangue, una verbena ecc. ecc., A tardo strazio la notte era, Mi conviene sotto archi). Poco prima (il 5 ottobre 1979) aveva scritto al fratello: «It’s interesting enough scovare young poets, and also bring out not well know poets such as Calogero or Craveirinha so as to lance them». Prima delle poesie di Calogero, su “Tabula”, I (1979), 2, aprile-giugno, pp. 168-180, infatti aveva presentato e scelto alcuni testi tratti dal volume Cantico a un dio di catrame del poe-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

333

ta mozambicano José Craveirinha, curato e tradotto da Joyce Lussu (Lerici, Milano 1966); mentre su “Tabula”, III (1981), 5, maggio, pp. 104-108, introduce un poemetto, L’accordo difficile, dallo stile «quasi contratto surrealista e allo stesso tempo realista», del giovane poeta romano Alberto Toni. Riunite in una cartelletta dall’intestazione autografa «Calogero Lorenzo / 2 prefazioni / lettere / 2 poesie fotocopia ecc. / poesie della Bachmann» al Fondo pavese (sigla d’archivio LC.1-9) sono conservati appunti manoscritti (su dati biobibliografici del poeta), fotocopie (di pagine del secondo volume Lerici delle Opere poetiche di Calogero, di articoli di Mario Luzi, Leonardo Sinisgalli, Eugenio Montale pubblicati sul numero speciale già citato della “Provincia di Catanzaro”), il dattiloscritto del saggio su Calogero, il cui primo foglio reca l’indicazione ms. «Amelia Rosselli / prefazione al terzo volume delle opere poetiche di Lorenzo Calogero / include la raccolta inedita “Avaro nel tuo pensiero” e brani tratti dalle sue lettere, a mo’ d’estetica o poetica» alla quale, a matita aggiunge «per Raboni / poi abbreviata / poi per Mancosu per “La Provincia di Catanzaro” bimestrale Anno II numero 4». E la parola «prefazione» viene fatta precedere da un «ex» stilato a matita. Sul foglio 2 (ma I nella num. d’A.) vi era infatti scritto «Per Lerici Editore (dicembre 1979)». Venuta meno quindi la possibilità di pubblicare il volume da Lerici prima, da Guanda poi, la Rosselli riduce la sua introduzione a saggio per il numero monografico su Calogero.

Stringersi all’osso dei propri pensieri Recensione a ANTONELLA ANEDDA, Residenze invernali, Crocetti, Milano 1992, in “il manifesto”, 8 maggio 1992. Alla Rosselli l’Anedda dedica l’intensa lirica Per un nuovo inverno, scritta nella morte di A.R. e pubblicata con il titolo Per un felice inverno nella plaquette stampata a mano in novanta copie da Meri Gorni (En plein, Milano 1997). La poesia è stata riproposta su “Galleria”, XXXXVIII (1997), 1-2, gennaio-agosto, numero monografico su Amelia Rosselli, a cura di Daniela Attanasio e Emmanuela Tandello, pp. 171-172, e ora è raccolta in Notti di pace occidentale, Donzelli, Roma 1999. Su questo testo e sul rapporto fra le due poetesse si veda Antonella e Amelia. Lettura di “Per un nuovo inverno” dell’Anedda in ROBERTO GALAVERNI, Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei, Fazi, Roma 2002, pp. 241-254.

La fatica di essere autentico Intervento su Boris Pasternak, in “Avanti!”, 4 dicembre 1966. Sulla proposta di collaborare all’inserto domenicale del quotidiano socialista, si veda l’introduzione, cfr. qui p. 12. L’articolo è accompagnato, col titolo complessivo Dieci pagine di Pasternak scelte da Rosselli, da alcune poesie nella traduzione di Angelo Maria Ripellino (Febbraio, Tre varianti, Marburgo, da Il luogotenente Schmidt, parte prima e parte terza), un passo tratto dal poema Spektorskij, nella traduzione di Piero Zveteremich, da due poesie tratte da Il dottor Zivago (Amleto e Dichiarazione), nella traduzione di Mario Socrate.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

334

AMELIA ROSSELLI

La «calma» del poeta russo, motivo su cui si apre l’articolo, ritorna anche in altre dichiarazioni della Rosselli: «In seguito, poco a poco, iniziai a calmare le immagini [si sta riferendo a La libellula]. Anche perché cominciò a interessarmi molto Pasternak, per esempio. Io lo conoscevo nelle traduzioni di Ripellino. Mi ha molto interessato la sua calma, il suo dire con apparente facilità cose assai complesse» [Nel linguaggio dinamico della realtà. Conversazione con Amelia Rosselli, in “Clandestino”, I (1997), pp. 9-13; l’intervista, a cura di Giovanni Salviati, è del 1991]; «Negli anni ho sempre più apprezzato la calma e la lucidità di certe poesie di Pasternak» (Amelia Rosselli sulle palafitte, intervista a cura di Paolo Di Stefano, in “la Repubblica”, 22 febbraio 1992).

Amore e nostalgia del mondo contadino Recensione a GYULA ILLYÉS, Poesie, a cura di Umberto Albini, Vallecchi, Firenze 1967, in “Paese Sera”, 28 gennaio 1968.

Forse il primo poeta d’America Recensione a JOHN BERRYMAN, Omaggio a Mistress Bradstreet, traduzione di Sergio Perosa, Einaudi, Torino 1969, in “l’Unità”, 5 luglio 1969.

Canti e poesie della contestazione negra Recensione a Negri Usa – Nuove poesie e canti della contestazione negro-americana, introduzioni critiche e traduzioni di Gianni Menarini, Accademia, Milano 1969, in “l’Unità”, 9 agosto 1969.

Poeti d’avanguardia ispano-americani Recensione a Poeti ispano-americani contemporanei, a cura di Marcello Ravoni e Antonio Porta, Feltrinelli, Milano 1970, in “l’Unità”, 27 giugno 1970.

Poesia d’élite nell’America d’oggi Testo di cinque trasmissioni radiofoniche sulla poesia americana, conservato presso il Fondo Manoscritti di Pavia (catalogazione d’archivio RAI.1a-e). Sono trentanove fogli dattiloscritti, riuniti in cinque fascicoletti: il primo foglio riporta una notazione autografa a matita («consegnato marzo 1975 / pagato 3 mesi dopo / nov.-dic.1975 / lettura 3° programma»). Sul primo foglio di ogni fascicoletto compare il titolo del programma: «Poesia nel mondo / Poesia d’élite nell’America d’oggi. A cura di Amelia Rosselli». Il primo fascicolo reca l’intestazione «I trasmissione», con la nota manoscritta «riassunto introduttivo»; il secondo «II trasmissione. Robert Penn Warren», il terzo «III trasmissione. John Berryman», il quarto «IV trasmissione. Robert Lowell», il quinto «V trasmissione. Allen Tate, Charles Olson, Sylvia Plath».

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

335

In calce al testo di ogni trasmissione la Rosselli annota le indicazioni bibliografiche relative alle liriche già citate. Così, rispettivamente, le poesie di John Berryman (tradotte da Amelia Rosselli e Sergio Perosa) sono tratte da Omaggio a Mistress Bradstreet, traduzione di Sergio Perosa, Einaudi, Torino 1964; 77 Dream Songs, Ferrar, Straus and Giroux, New York 1964; Berryman’s Sonnets, ivi, 1967; Delusions, etc. of John Berryman, ivi, 1972; i testi di Robert Penn Warren sono tratti da Racconto del tempo e altre poesie 1923-1971, introduzione e traduzione di Sergio Perosa, Einaudi, Torino 1971; quelli di Robert Lowell (tradotti da Amelia Rosselli) da Robert Lowell’s Poems – A Selection, edited with an introduction and notes by Jonathan Raban, Faber & Faber, London-Boston 1974; per Allen Tate la Rosselli ricorre alla raccolta Ode ai caduti confederati e altre poesie, traduzione e introduzione di Alfredo Rizzardi, Mondadori, Milano 1970; per Charles Olson al volume Maximus: poesie, a cura di Silvano Sabbadini, ivi, 1972. Infine l’unico testo di Sylvia Plath riportato, tradotto dalla stessa Rosselli, è tratto da Ariel, Faber & Faber, London 1965. Il programma Poesia nel mondo andava in onda sul terzo canale della radio, la domenica sera, dalle ore 20,45 alle ore 21,00 (cicli precedenti avevano affrontato ad esempio la poesia araba dal VI al XII secolo, i “medici in Parnaso”, a cura di Stefano Jacomuzzi, la poesia della Svizzera Romanda). La serie curata dalla Rosselli viene trasmessa dall’8 febbraio 1976 al 7 marzo con i seguenti titoli: Tre capiscuola (8 febbraio 1976); Robert Penn Warren, poeta e narratore (15 febbraio 1976), John Berryman, poeta controcorrente (22 febbraio 1976), La vena colloquiale di Robert Lowell (29 febbraio 1976), Tre poeti minori: Allen Tate, Charles Olson, Sylvia Plath (7 marzo 1976).

Emily scrive al mondo Recensione a EMILY DICKINSON, Poesie, versione dal testo critico e saggio introduttivo di Guido Errante, Guanda, Parma 1975, in “La Stampa”, 6 febbraio 1976. Della Dickinson la Rosselli, su sollecitazione di Marisa Bulgheroni, curatrice del volume Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, tradurrà dieci poesie, poste in chiusura nella sezione Versioni d’autore, accanto a traduzioni di Cristina Campo, Annalisa Cima ed Eugenio Montale, Giovanni Giudici, Mario Luzi, Eugenio Montale (sono le numero 430, 443, 505, 520, 601, 632, 945, 963, 1651, 1705, alle pp. 1660-1667). Fra le carte rosselliane del Fondo Manoscritti di Pavia è conservata una fotocopia integrale del volume del 1975 curato da Guido Errante, con qualche sottolineatura e postilla autografa a matita. Inoltre vi sono fotocopie di alcuni testi della Dickinson tratte da varie edizioni italiane (Poesie, a cura di Margherita Guidacci, Rizzoli, Milano 1979; Le stanze d’alabastro, a cura di Nadia Campana, Feltrinelli, Milano 1983; Silenzi, a cura di Barbara Lanati, ivi, 1986) utilizzati come materiali di lavoro e confronto, e dieci fogli dattiloscritti, con alcune correzioni autografe, che riportano le traduzioni confluite nel volume mondadoriano. Il testo della recensione e le poesie tradotte sono state presentate in “Trasparenze”, 17-19 (2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 27-35.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

336

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Sotto l’ala di Eliot Recensione a Giovani poeti inglesi, traduzione e introduzione di Renato Oliva, Einaudi, Torino 1976, in “La Stampa”, 7 aprile 1976.

Gregory il beat Recensione a GREGORY CORSO, Benzina, a cura di Gianni Menarini, introduzione di Allen Ginsberg, Guanda, Parma 1969, in “La Stampa”, 13 maggio 1976.

Canti onirici d’un poeta suicida Recensione a JOHN BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie, a cura di Sergio Perosa, Einaudi, Torino 1978, in “Paese Sera”, 30 aprile 1978.

Le esperienze di Corso Recensione a GREGORY CORSO, Poesie, cura, introduzione e traduzione di Gianni Menarini, prefazione di Fernanda Pivano, Bompiani, Milano 1978, in “Paese Sera”, 30 luglio 1978.

Joyce giovane poeta musicale Recensione a JAMES JOYCE, Poesie, a cura di Marina Emo Capodilista, Newton Compton, Milano 1978, in “Paese sera”, 12 novembre 1978.

Istinto di morte e istinto di piacere in Sylvia Plath Saggio pubblicato in “Poesia”, IV (1991), 44, ottobre, pp. 2-12, con alcuni interventi rispetto alla prima versione intitolata Istinto di morte e istinto di piacere (Risposta a Rossanda), apparsa in “Nuovi Argomenti”, n.s., 67-68 (1980), luglio-dicembre, pp. 175-180, con data «8 dicembre 1979». L’intervento è suscitato dalla recensione di Rossana Rossanda al volume Lettere alla madre, a cura di Marta Fabiani, Guanda, Milano 1979, apparsa col titolo Felice da morire in “L’Espresso”, 4 novembre 1979, pp. 86-92, accompagnata da una selezione di alcune lettere della Plath. Il tono della recensione è dolorosamente caustico, e senza appello è il giudizio su Aurelia Schober, madre della poetessa e curatrice dell’edizione originale dell’epistolario. Secondo la Rossanda la Schober ha pubblicato le lettere come prova a proprio discarico, dopo l’uscita del romanzo autobiografico della Plath, La campana di vetro, in cui comparivano alcuni duri passaggi nei suoi confronti:

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

337

Aurelia aveva con buon senso e fermezza trionfato, e la sua vita per procura le era di nuovo garantita. Le lettere di Sylvia restaurata sono là a somigliare, ogni giorno di più, a quel che doveva essere una figlia americana che si accinge ad alti destini letterari, ma non dimentica di essere una brava donna di casa oltre che una giovane riconoscente ai molti benefattori. «Mamma è divino! Mamma, tieniti forte!» e giù una pioggia di meravigliosi eventi, una poesia accettata, un party stupendo, un ragazzo magnifico, un concorso vinto, nientemeno che l’invito in Inghilterra a Cambridge, e poi un meraviglioso innamorato e marito, il poeta Ted Hughes, che oltre ad adorare le sue poesie la tira giù dal letto prima dell’alba per mostrarle come si svegliano, nell’incantevole notte, i gufi e i topiragno. […] Aurelia si batterà a lungo […] per impedire che La campana di vetro sia stampato in America. Ma non ci riesce. Non le resta altro che chiamare Sylvia a testimoniare per lei, Aurelia, e contro se stessa. Che cosa è la pubblicazione di questo epistolario, se non la testimonianza, irrefragabile come un mattinale dei carabinieri, che Sylvia era stata una perfetta intellettuale e sposa americana, che aveva avuto in lei, come scrive quasi in testa a ogni lettera, «la più meravigliosa delle madri», ma era malauguratamente incline a manie depressive […]. Difficile leggere questo volume, monumento del rapporto madre-figlia, senza orrore. E anche pena. Marta Fabiani si rammarica che manchi qualsiasi lettera della madre a Sylvia, l’altra parte del flusso di corrispondenza. Ma è facilmente immaginabile che cosa dovessero essere le lettere mancanti: corri, ragazza, corri. Lo devi alla mamma. Una sola volta Sylvia, quasi in salvo dall’altra parte dell’Atlantico, le grida: «Smettila di dirmi che devo aver il coraggio di fare questo e quello». La povera Aurelia, già liquidata dal duplice tradimento della sua bambina, non poteva decentemente testimoniare contro di sé.

Su questi passaggi si concentrerà la confutazione della Rosselli, che metterà in risalto aspetti nei confronti dei quali è particolarmente sensibile. Così è attenta a rimarcare non la «tipicità di ragazza americana» della Plath, ma l’«inusualità» di poetessa di genio; condivide il tentativo di Aurelia Schober di togliere dalla circolazione il romanzo «semibiografico» della figlia ai fini di tutelare la validità stilistico-espressiva dell’opera di Sylvia, involgarita dalle compromissioni con il mercato. Nella versione rivista per “Poesia” la Rosselli smorza alcune espressioni relative all’articolo della Rossanda (definito «arrabbiato» nella prima stesura); elimina un passo piuttosto polemico nei confronti di Ted Hughes, marito della poetessa americana; aggiunge una parte finale sui Collected Poems. Al saggio si accompagnava la traduzione di alcune liriche (Frog Autumn, Metaphors, The Moon and the Yew Tree, Apprehensions, Mystic) già comparse nell’antologia della Plath Le muse inquietanti e altre poesie, a cura di Gabriella Morisco, traduzione di Gabriella Morisco e Amelia Rosselli, Mondadori, Milano 1985, e quella di altri cinque testi poetici tratti dai Collected Poems (April 18, Whiteness I Remember, Leaving Early, The Rival, Kindness). Le poesie della Plath tradotte dalla Rosselli nel volume mondadoriano, oltre a quelle pubblicate sul numero di “Poesia”, sono Black Rook in Rainy Weather, The Manor Garden, Parliament Hill Fields, Morning Song, Wuthering Heights, Little Fugue, Amnesiac, Ariel, Thalidomide (la lirica Metaphors, nell’antologia tradotta dalla Morisco, sul numero della rivista viene proposta dalla Rosselli in una sua traduzione). Il testo è stato riproposto in “Galleria”, XXXXVIII (1997), 1-2, gennaioagosto, numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Daniela Attanasio e Emmanuela Tandello, pp. 204-209 e in “Trasparenze”, 17-19

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

338

AMELIA ROSSELLI

(2003), numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 11-13, insieme alle traduzioni di dodici poesie della Plath tratte dal volume Le muse inquietanti e altre poesie.

Dialogo fra un poeta e una musa Introduzione a PAUL EVANS, Dialogo di un poeta e una musa, a cura di Amelia Rosselli, Fondazione Piazzolla, Roma 1991, pp. 9-14.

La tragedia spagnola Recensione a THOMAS KYD, La tragedia spagnola, tradotta ed elaborata da Dacia Maraini e Enzo Siciliano, Feltrinelli, Milano 1966, in “Avanti!”, 12 gennaio 1967.

Alfred Jarry. Uno sfrenato supermaschio Recensione a ALFRED JARRY, Il supermaschio, introduzione e traduzione di Giorgio Agamben, Bompiani, Milano 1967, in “Paese Sera”, 14 luglio 1967.

Domande a bruciapelo a uno scrittore d’avanguardia Intervento sull’attività del traduttore, pittore, scrittore, regista Giordano Falzoni e sul suo libro Teatro da camera, Rizzoli, Milano 1965, in “Avanti!”, 28 luglio 1967.

Guideranno gli astronauti per telepatia? Recensione a LEONID L. VASILIEV, Metapsichica e scienza sovietica, traduzione di Aline Dubrowskij, Bompiani, Milano 1967, in “Paese Sera”, 25 febbraio 1968.

Il coltivatore del Maryland Recensione a JOHN BARTH, Il coltivatore del Maryland, traduzione di Luciano Bianciardi, Rizzoli, Milano 1968, in “l’Unità”, 7 gennaio 1969. Nell’edizione milanese del 14 gennaio l’articolo compare nella stessa versione, ma con il titolo mutato (Tra Tom Jones e Don Chisciotte).

Scrittore di nascosto Recensione a ROBERTO BAZLEN, Lettere editoriali, con una nota di Sergio Solmi, Adelphi, Milano 1968, in “l’Unità”, 2 aprile 1969.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

UNA SCRITTURA PLURALE

339

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Ma è poi possibile “educare al sesso”? Recensione al volume miscellaneo LAMBERTO BORGHI, ANTONIO CARBONARO, ADA MARCHESINI GOBETTI, CESARE MUSATTI, Educare al sesso, a cura di Mariadele Crocioni, La Nuova Italia, Firenze 1969, in “Paese Sera”, 1° novembre 1969.

Ferlinghetti e l’America sotterranea Recensione a LAWRENCE FERLINGHETTI, Lei, traduzione di Floriana Bossi, Einaudi, Torino 1970, in “l’Unità”, 23 maggio 1970.

Se il cantautore scrive Recensione a LEONARD COHEN, Il gioco favorito, traduzione a cura di Anna Chiavatti e Francesca Valente, Longanesi, Milano 1975, in “La Stampa”, 13 giugno 1975.

Gli sberleffi di Burroughs Recensione a WILLIAM S. BURROUGHS, Johnny 23, traduzione di Maria Gallone e Giulio Saponaro, Sugar, Milano 1975, in “La Stampa”, 15 agosto 1975.

Lembi di paradiso per Scott e Zelda Recensione a FRANCIS SCOTT & ZELDA FITZGERALD, Lembi di paradiso, a cura di Matthew J. Bruccoli in collaborazione con Scottie Fitzgerald Smith, traduzioni di Vincenzo Mantovani e Bruno Oddera, Mondadori, Milano 1975, in “La Stampa”, 23 gennaio 1976.

Tragiche fantasie di un “sognatore” Recensione a JACK KEROUAC, Libro dei sogni, traduzione di Vincenzo Mantovani, Sugar, Milano 1976, in “La Stampa”, 23 aprile 1976.

Spara a zero contro la famiglia Recensione a CHRISTINA STEAD, Sabba familiare, traduzione di Floriana Bossi, Garzanti, Milano 1978, in “Paese Sera”, 2 luglio 1978.

Ha ottenuto un secolo dopo la fama che meritava Recensione a HENRY JAMES, Il carteggio Aspern, introduzione di Claudio Gorlier, traduzione di Maria Luisa Agosti Castellani, Einaudi, Torino 1978, in “Paese Sera”, 1° ottobre 1978.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

340

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Sesso, ebraicità e disperazione Recensione a PHILIP ROTH, Professore di desiderio, traduzione di Pier Francesco Paolini, Bompiani, Milano 1978, in “Paese Sera”, 15 ottobre 1978.

Una recita all’aperto di Virginia Woolf Recensione a VIRGINIA WOOLF, Tra un atto e l’altro, a cura di Franco Cordelli, traduzione di Francesca Wagner e Franco Cordelli, Guanda, Milano 1978, in “Paese Sera”, 29 ottobre 1978.

Henry Miller sempre fra noi influenza anche la psicanalisi Recensione a NORMAN O. BROWN, La vita contro la morte. Il significato psicanalitico della storia, traduzione di Silvia Besana Giacomoni, Adelphi, Milano 1978, in “Paese Sera”, 18 marzo 1979.

Padre e figlio, carteggio fra amore e rancore Recensione a LUIGI AMENDOLA, Carteggio del rancore, prefazione di Dacia Maraini, Mancosu, Roma 1993, in “l’Unità”, 21 marzo 1993.

Vita e problemi alla base: le sezioni un tabù? Intervento pubblicato in “l’Unità”, 8 dicembre 1968, in occasione del XII congresso del Pci. L’iscrizione al Partito Comunista della Rosselli risale al 1958: «Ero a Roma e la mia condizione piccolo-borghese non mi permetteva di avere contatti con il proletariato. Per questo ho cominciato a fare un faticoso lavoro di base prima alla sezione di Trastevere, poi a via dei Giubbonari» (Amelia Rosselli: in nome del padre, intervista a cura di Paolo Di Stefano, in “Corriere della Sera”, 11 giugno 1994); «trovavo insensato l’isolamento salottiero o borghese della letteratura. Sotto sotto scoprii che avevo l’ansia di mio padre» (Amelia Rosselli sulle palafitte, intervista a cura di Paolo Di Stefano, in “la Repubblica”, 22 febbraio 1992). Questa tensione a una partecipazione politica e a una condivisione di esperienze di vita, anche negli aspetti più pratici e concreti, le fanno così descrivere al fratello, in una lettera di pochi mesi prima dell’articolo, il suo impegno in sezione: «Lots of extra works for PC: pulting up centro assistenziale in Trastevere, telephoning, sweaping floors, dusting books, etc... It’s my way of participating politically» (lettera del 18 aprile 1968).

L’America attraverso le riviste Intervento pubblicato in “l’Unità”, 17 dicembre 1968.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

UNA SCRITTURA PLURALE

341

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Avanguardia e tradizione nelle riviste Intervento pubblicato in “l’Unità”, edizione milanese, 29 marzo 1969; il 26 marzo lo stesso articolo, con titolo leggermente modificato (L“avanguardia” e la “tradizione” nelle riviste) e privo del paragrafo iniziale era comparso sull’edizione romana.

Sindacato Scrittori? Intervento pubblicato in “Nuovi Argomenti”, n.s., 16 (1969), ottobre-dicembre, pp. 223-226.

I traduttori si organizzano Intervento pubblicato in “l’Unità”, 5 maggio 1970.

Nate insieme, sotto segni diversi Intervento sulle riviste “Autobus”, “Tabula”, “I tre giganti”, pubblicato in “Rinascita”, 18 gennaio 1980, p. 22.

Non avere fretta Breve giudizio pubblicato in “L’Ora”, 13 marzo 1980, in risposta alla domanda «È possibile ipotizzare una linea di tendenza poetica che, per i suoi valori qualitativi possa andare al di là della semplice testimonianza individuale?» Oltre alla Rosselli vengono interpellati Dario Bellezza, Pietro Mazzamuto, Filippo Bettini e Edoardo Sanguineti.

Incontro di poesia a Roma Intervento sulla lettura di poesie in pubblico, in “Tabella di marcia”, II (1981), 1, gennaio, pp. 229-233. Il testo è indicativo dell’attenzione agli aspetti pratici, economici, organizzativi del fenomeno, e alla fruizione della parola poetica da parte di un largo pubblico. Su di essi la Rosselli torna anche sollecitata da frequenti domande nelle interviste. Le sue sono risposte dirette, obiettive sul ruolo dei poeti, senza nessuna volontà di nascondere le difficoltà che incontrano, ma anche senza commiserazione o atteggiamenti sprezzanti o viceversa entusiastici nei confronti dei partecipanti e dei promotori. Altrettanto sincere e prive di enfasi sono le risposte che la riguardano direttamente: D’altro canto il poeta oggi è un po’ superfluo. Pubblichiamo con difficoltà, ma ci chiamano le province, gli assessorati. Dove risparmia l’editore, non risparmia il comune. C’è un po’ di curiosità, ma anche di superficialità. Si chiede più spettacolo alla poesia. Ma la poesia non è per la scena.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

342

AMELIA ROSSELLI

Ma allora perché si esibisce? Da un po’ di tempo ho queste richieste. È un po’ scomodo. D’altro canto la fama poetica è una facciata. È per mille, duemila persone. Io accetto unicamente per il cachet. Sa, in giro c’è poco lavoro di curatela, di traduzioni. E poi si vedono posti che non conosci, si rivedono posti che ami. Io ho letto a Matera, Catania, Ragusa: a marzo leggerò ad Arezzo (Il dolore in una stanza, intervista a cura di Renato Minore, in “Il Messaggero”, 2 febbraio 1984). Non mi dispiace leggere poesia. È un mestiere come un altro da imparare. Ma non si può scherzare su questo. La poesia è frutto di riflessione, di anni e anni di fatica, se vale qualcosa (È possibile far poesia al femminile?, intervista a cura di Aurelio Andreoli, in “Paese Sera”, 28 agosto 1980).

Si fa spesso spettacolo del poeta, ci si dimentica pero’ della poesia Breve intervento sulle letture pubbliche di poesia, in “Corriere della Sera” (ediz. romana), 6 aprile 1983, a cura di Antonio Debenedetti. Oltre alla Rosselli vengono interpellati Nico Orengo e Sandra Petrignani.

La politica dei cento fiori Intervento pubblicato in “Michelangelo”, XI (1986), 55.

Sceneggiatori nel cinema Intervento pubblicato in “Autografo”, n.s., VII (1990), 21, ottobre, pp. 3-7, con una breve introduzione di Maria Antonietta Grignani.

Curriculum I e II Due testi inediti, conservati al Fondo Manoscritti di Pavia. Il primo (sigla d’archivio NBB.1) consta di quattro fogli dattiloscritti, con numerazione d’autore; reca l’indicazione manoscritta a matita «A Rago – per Unità o Paese Sera come eventuale critico», a penna invece la data «27/4/67». Si tratta quindi presumibilmente di un curriculum inviato a Michele Rago, collaboratore abituale delle pagine culturali dell’“Unità”. Fra le proposte di recensioni ve ne sono alcune che, anche più tardi, diventeranno effettivi articoli (su Giordano Falzoni, ad esempio, o sulle letture pubbliche di poesia o il Sindacato Scrittori), altre segnalano l’interesse per autori che si concretizzerà con interventi o su altre opere (di Antonio Porta la Rosselli non recensirà, come qui prospettato, I rapporti, ma Metropolis) o in forme diverse dalla recensione (di José Craveirinha selezionerà alcune liriche da proporre ai lettori di “Tabula”, di Charles Olson parlerà in una delle trasmissioni radiofoniche dedicate alla poesia americana). Il secondo testo (sigla d’archivio NBB.8) riproduce due fogli dattiloscritti, senza indicazione di data e destinatario, stilati fra il 1989 e il 1990 (si menziona la plaquette di Sleep, tradotta da Antonio Porta, pubblica-

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

343

ta nel febbraio 1989, viene data in uscita la riedizione di Diario ottuso per l’Istituto Bibliografico Napoleone che sarà stampato nel 1990). Oltre ai due testi riprodotti, fra le carte del Fondo Rosselli sono conservate altre versioni (sigla d’archivio NBB.1-9), stese in anni diversi, di note biografiche più o meno estese, elenchi delle pubblicazioni in volume e su periodici, elenchi degli interventi critici sull’opera della Rosselli.

Documento Intervento comparso, con alcuni tagli redazionali e il titolo Alla ricerca dell’adolescenza, in “La Fiera Letteraria”, 25 luglio 1968. Si è riprodotto qui il testo nella sua integrità attenendosi al dattiloscritto conservato al Fondo pavese (sigla d’archivio S.1) che riporta la notazione manoscritta sul margine superiore «originale / di appunti / per Fiera Letteraria / 3-68» e la segnalazione dei tagli effettuati dalla rivista. Si è restaurato il titolo Documento che la Rosselli avrebbe preferito, come risulta dalla rettifica inviata il 2 agosto 1969 alla “Fiera Letteraria”, di cui si conserva copia al Fondo (sigla d’archivio AFiLe.1bis): Vi prego, in base all’articolo 8 sulla Stampa, di pubblicare la seguente rettifica riguardo alle due pagine (prosa e poesie) apparse sul numero 30 de “La Fiera Letteraria” (giovedì, 25 luglio 1968): Sono stati omessi dall’articolo critico da me firmato nel manoscritto consegnato tramite il Sig. Garboli, e dietro richiesta de “La Fiera Letteraria”, le seguenti frasi: riguardo ai miei commenti sul mio libro Variazioni belliche (Garzanti 1964), aggiunsi, dopo il brano «il libro aveva nella sua primissima stesura intenzioni quasi chiare, ma essendo un libro tipicamente giovanile, questa chiarezza s’imbrogliò strada facendo» due intere frasi, “tagliate” dalla redazione: «Furono molti i ripensamenti al momento di stampare, e troppi i dubbi nel rileggere il libro, che, stampato, sembrava non mi appartenesse più. Vorrei infatti un giorno farne una ristampa, scegliendo con cura le poesie più vere, e correggendone alcune stonature stilistiche»; riguardo ai miei commenti sul libro Documento (inedito), e da cui trassi le 8 poesie spedite a “La Fiera” (che purtroppo hanno subìto alcune brutte manipolazioni grafiche e tipografiche), subito dopo l’ultimo paragrafo stampato da “La Fiera”, avevo invece aggiunto un paragrafo finale, che è stato anch’esso, eliminato senza preavviso o mio consenso. Dopo la frase finale «Intendo produrre un libro in un certo senso statico e sintetico, forse gelido e esplosivo insieme: insomma il libro della “maturità raggiunta” almeno per quanto riguarda un certo mio tipo di problematica umana e formale», seguiva «Che io stia qua parlando di moventi e risultanti in parte illusori, credo sia inevitabile: l’autore non è necessariamente il migliore giudice del suo lavoro: ma forse meglio di ogni altro sa cosa avrebbe desiderato dare, fare. E nello spiegarlo pur peccando d’immodestia in questo modo alzando la voce (le intenzioni di una poetica forse dovrebbero restare segrete e da decifrarsi come messaggio segreto, come un gioco?) e pur rischiando, nel perdere la segretezza delle intenzioni, di non più sentire urgenza di poesia (quasi fosse un gioco il rivelarsi), potrà forse vivere più liberato da carta e stampa: potrà porsi diversi e freschi problemi di comunicazione dell’indicibile, con ciò evitando di cadere nel mestiere e nella compiacenza». Aggiungo che avendo autorizzato solo una fotografia da stamparsi assieme ai miei scritti, non trovo civile e di buon gusto il pubblicarne invece a suo luogo, senza mio consenso, tre altre di cui non apprezzo affatto la qualità.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

344

AMELIA ROSSELLI

Inoltre, dichiaro di non approvare nemmeno il titolo apposto dalla redazione, ai miei scritti. Se mi si fosse consultata a riguardo, avrei suggerito di apporre il titolo “Documento”, che è quello del libro da cui sono tratte le poesie che mi avevate chiesto. Amelia Rosselli.

Parte delle osservazioni contenute nell’intervento sulle raccolte poetiche edite sino ad allora verranno, con un montaggio diverso, riprese letteralmente nell’intervista di Giancinto Spagnoletti posta in chiusura ad Antologia poetica (cfr. qui pp. 297-299), a testimonianza del rilievo a esse riconosciuto dalla Rosselli. Il testo Alla ricerca dell’adolescenza è stato riproposto in “Galleria”, XXXXVIII (1997), 1-2, gennaio-agosto, numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Daniela Attanasio e Emmanuela Tandello, pp. 210-212.

Pastiche per Ferruccio Autocommento della poesia Pastiche per Ferruccio pubblicato in Il poeta e la poesia. Poesie e commenti di Accrocca, Bellezza, Betocchi, Bigongiari, Caproni, Cucchi, Erba, Giuliani, Guidacci, Luzi, Memmo, Pagliarani, Parronchi, Pignotti, Porta, Raboni, Ramat, Risi, Rosselli, Sanguineti, Sereni, Spaziani, Turoldo, Zeichen, atti del convegno (Roma, Università La Sapienza, 8-10 febbraio 1982, diretto da Mario Petrucciani e Giuseppe E. Sansone), a cura di Nicola Merola, Liguori, Napoli 1986, pp. 153-154. Nello stesso volume viene riprodotto il dibattito successivo a ogni seduta di letture; due gli interventi della Rosselli, rispettivamente alle pagine 164 e 166, l’uno relativo al pubblico, l’altro alla funzione della poesia: Rosselli. Io vorrei dire che il pubblico che ci ascolta oggi non è certo quella massa di persone o quel giro di persone che ci ispirava prima di scrivere, cioè ci ritroviamo delle generazioni che hanno bisogno di chiedersi che cosa ci è successo e perché abbiamo scritto. Io non posso dire di aver scritto senza immaginare, almeno, un gruppo di simpatizzanti a cui rispondere sui loro problemi, oppure una specie di massa immaginaria dinanzi agli occhi mentre scrivevo. Solo una volta mi è capitato di scrivere soltanto per me stessa ed ho realizzato un poemetto brevissimo che è, ed è un difetto, aristocratico, volendo contraddirmi, avendo sempre scritto cercando di scrivere per una specie ideale media di persone. Ma intanto sono passati venti anni ed ora noi cominciamo ad essere divulgati, sia a voce, sia tramite editoria e non c’è più la stessa corrispondenza, i problemi posti o dagli stretti amici o dall’ambiente non sono quelli di oggi, quindi parliamo fuori tempo. Rosselli. Penserei che tutte le arti al dunque sono vocazionali e realizzazione di se stesse. Se proprio dobbiamo parlare del poeta come essere sociale, direi che la sua “missione” approssimativamente sia proprio quella a rovescio, della raccolta dei nodi di cui parlava Sanguineti e del tentativo di scioglierli, cioè la sua è una ricerca della verità, come poteva essere quella di un filosofo del primo Novecento o Ottocento, come lo può essere quella di un pittore, di un musicista, ma il mezzo è quello delle parole; abbiamo cambiato il mezzo ma cercato la verità, cercato i nodi e qualche volta siamo riusciti a risolverli ed a sciogliere il nodo.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

345

Se il pubblico cerca la poesia qualche cosa chiede: delle risposte qua e là; o ha una vocazione in se stesso alla poesia senza ancora riuscire a fruire del tutto, altrimenti non comprenderebbe i libri. Io sento, quando scrivo, che sto sciogliendo dei nodi che mi sono posta ascoltando chi mi sta attorno, ascoltando e osservando, come qualsiasi altro artista.

La poesia, “scartata” da Documento, è stata poi inclusa in Appunti sparsi e persi, AeliaLaelia, Parma 1983, all’epoca del convegno quindi ancora inedita.

Interviste Le interviste o i colloqui con Amelia Rosselli si distribuiscono in un arco di tempo compreso fra la fine degli anni settanta e i primi anni novanta, in coincidenza spesso, come prassi editorial-giornalistica vuole, con le uscite dei suoi libri o con sue performance, partecipazioni a festival o letture pubbliche di poesia. Non numerose, consentono però di attraversare i momenti cruciali della sua biografia e della sua formazione (l’assassinio del padre, l’infanzia e l’adolescenza trascorse fra Italia, Francia, Stati Uniti, l’amicizia con Rocco Scotellaro, gli incontri con Pasolini e il Gruppo 63, la malattia, l’avvicinamento alla psicanalisi, la sua iscrizione al Pci, le sue letture e preferenze – Shakespeare, Kafka, Rimbaud, Pasternak, Montale, Plath, Pavese, Saba, Calogero...), i nuclei focali del suo agire creativo (il rapporto con la musica, con le sue tre lingue, la centralità della ricerca e della riflessione sulla metrica, l’esclusività del fare poesia). Si sono scelti una testimonianza degli anni settanta, in cui si legge il disorientamento esistenziale e creativo che in quegli anni la Rosselli stava attraversando, l’intervista di Giacinto Spagnoletti, in cui vengono con sistematicità ricostruite le sue coordinate biobibliografiche, un colloquio degli anni novanta dedicato all’ultima sua raccolta poetica e alla sua esperienza musicale, e infine un intenso quadro del suo rapporto con Roma. SANDRA PETRIGNANI, Non mi chiedete troppo, mi sono perduta in un bosco, in “Il Messaggero”, 23 giugno 1978. GIACINTO SPAGNOLETTI, Intervista ad Amelia Rosselli, in AMELIA ROSSELLI, Antologia poetica, Garzanti, Milano 1987, pp. 149-163. FRANCESCA BORRELLI, Partitura in versi, in “il manifesto”, 14 maggio 1992. Intervista su Roma, in “Poesia”, V (1992), 53, luglio-agosto, pp. 29-32. L’intervento della Rosselli si inserisce nell’ambito di Le città dei poeti. Roma, a cura di Milo de Angelis e Isabella Vincentini, ed è accompagnato dalle due liriche citate nell’ultimo paragrafo [La notte era una splendida canna di giunco] e [Conversazioni molto sfaticate] (da Documento) e da alcune istantanee su Roma tratte da Primi scritti. Sullo stesso numero compaiono anche gli interventi di Dario Bellezza, Biancamaria Frabotta, Valerio Magrelli, Giovanna Sicari. Il rapporto della Rosselli con Roma emerge in particolare anche nell’intervista di LAURA DETTI, La città come una noce protettiva, in “l’Unità”, 27 giugno 1993.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

346

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Appendice. Storia di una malattia Scritto pubblicato su “Nuovi Argomenti”, n.s., 56 (1977), ottobre-dicembre, pp. 185-196, con una brevissima avvertenza («Pubblichiamo volentieri questo testo di Amelia Rosselli a testimonianza di un’insolita esperienza esistenziale»). Storia di una malattia ripercorre un vissuto angoscioso e paralizzante, la drammatica esperienza di persecuzione di cui la Rosselli si sentì sempre vittima, in particolare dal 1973 al 1979, i cui contraccolpi si colgono nel senso di smarrimento descritto nell’intervista di Sandra Petrignani (cfr. qui pp. 289291) e vengono richiamati in quella di Spagnoletti (cfr. qui a pp. 301-302). Le parole che meglio possono avvicinarci a questo testo e illuminarlo sono forse quelle, affettuose e penetranti, dedicate alla cugina da Aldo Rosselli, nel capitolo XII del suo romanzo-testimonianza Prove tecniche di follia (Empiria, Roma 2000). Dietro a Storia di una malattia si può sentire infatti l’eco di narrazioni più volte ripetute: Più implausibile, atroce, inaccettabile era il suo racconto, più poteva sembrare che il visitatore di turno stesse inoltrandosi in un giallo dai contorni circonvoluti, nel nero di un congegno horror dove però persistevano spezzoni di quotidianità, addirittura familiarità. / E nello svolgersi del suo interminabile plot esistenziale, presentato ora come una confessione affannosa, indicibile, ora come un soffocato grido d’incredulità pure da parte di chi dipana terrificanti momenti di implausibilità, blocchi di pura sofferenza presentati come i racconti di un orrore quotidiano, minimale (non dissimili, ad esempio, dalla prosa ingannatrice, crudelmente verosimigliante in un segno di minimalità che contraddistingue i vortici di domestico orrore di un maestro di pacata anomia che era Patricia Highsmith), Amelia coinvolgeva l’ascoltatore ignaro o renitente in una forzata ma anche soave accettazione (pp. 72-73).

I termini «giallo», «congegno horror», «plot esistenziale», il riferimento alla Highsmith, che Aldo Rosselli utilizza per delineare i ricorrenti racconti orali di Amelia, ne suggeriscono una curvatura finzionale percepibile anche nella versione scritta.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

NOTA BIBLIOGRAFICA

La presente nota riporta la produzione critica e pubblicistica e le interviste; per quel che riguarda invece la produzione poetica, ci si limita alle edizioni in volume autonomo. I testi sono elencati in ordine cronologico, in modo da consentire di cogliere lo sviluppo e i silenzi dell’attività saggistica di Amelia Rosselli. Per una informazione più complessiva sull’opera poetica e la fortuna critica dell’autrice si rimanda alle rassegne uscite su due numeri monografici di rivista a lei dedicati: Bibliografia rosselliana, in “Galleria”, XXXXVIII (1997), 1-2, gennaio-agosto, a cura di Daniela Attanasio e Emmanuela Tandello, pp. 213-224 e FRANCESCO CARBOGNIN, Bibliografia rosselliana, in “Trasparenze”, 17-19 (2003), a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello, pp. 361-381. TESTI 1950 Recensione a ROBERTO LUPI, Armonia di gravitazione, in “Il Diapason”, I, 8-9, agosto-settembre, pp. 24-29. L’articolo è firmato «Marion Rosselli». 1954 La serie degli armonici, in “Civiltà delle macchine”, II, 2, pp. 43-45. Il saggio è firmato «Marion Rosselli». Nuovi esperimenti musicali con un nuovo strumento, in “Il Diapason”, IV, 1112, pp. 12-14. Il saggio è firmato «Marion Rosselli». 1964 Variazioni belliche, Garzanti, Milano. Spazi metrici, in appendice a Variazioni belliche, Garzanti, Milano, pp. 181-186. 1965 PIERO DORAZIO, GIORDANO FALZONI, PIETRO GROSSI, VITTORIO GELMETTI, LUCIANO RUBINO, AMELIA ROSSELLI, MARIO BORTOLOTTO, EUGENIO BATTISTI, FRANCO DI VITO, Musica e pittura, dibattito su Dorazio, in “Marcatré”, 16-17-18, luglio-agosto-settembre, pp. 225-230. 1966 La fatica di essere autentico, in “Avanti!”, 4 dicembre [su Boris Pasternak].

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

348

1967 La tragedia spagnola, in “Avanti!”, 12 gennaio [recensione a THOMAS KYD, La tragedia spagnola].

Alfred Jarry. Uno sfrenato supermaschio, in “Paese Sera”, 14 luglio [recensione a ALFRED JARRY, Il supermaschio].

Domande a bruciapelo a uno scrittore d’avanguardia, in “Avanti!”, 28 luglio [su Giordano Falzoni].

L’accusa di provincialismo turba troppo gli italiani, in “Paese Sera”, 1° settembre [recensione a GIUSEPPE GUGLIELMI, Panglosse]. Resiste agli esperimenti dell’avanguardia, in “Paese Sera”, 15 settembre [recensione a ANGELO MARIA RIPELLINO, La fortezza d’Alvernia].

1968 Amore e nostalgia del mondo contadino, in “Paese Sera”, 28 gennaio [recensione a GYULA ILLYÉS, Poesie].

Guideranno gli astronauti per telepatia?, in “Paese Sera”, 25 febbraio [recensione a LEONID L. VASILIEV, Metapsichica e scienza sovietica].

“Cara Milano” e poesie per Pavese, in “Paese Sera”, 31 marzo [recensione a LUFREZZA, Cara Milano; FRANCO ANTONICELLI, Improvvisi; FOLCO PORTINARI, Cambio di moneta; ristampa di CARLO BETOCCHI, L’anno di Caporetto]. “Dal balcone” e “L’angelo attento”, in “Paese Sera”, 28 aprile [recensione a SERGIO SOLMI, Dal balcone; ANTONIO BAROLINI, L’angelo attento, Il meraviglioso giardino e altre poesie inedite; Saffo, Archiloco e altri lirici greci, trad. di Manara Valgimigli]. CIANA

Alla ricerca dell’adolescenza, in “La Fiera Letteraria”, 25 luglio. Vita e problemi alla base: le sezioni un tabù?, in “l’Unità”, 8 dicembre. L’America attraverso le riviste, in “l’Unità”, 17 dicembre. 1969 Serie ospedaliera, Il Saggiatore, Milano. Il coltivatore del Maryland, in “l’Unità”, 7 gennaio [recensione a JOHN BARTH, Il coltivatore del Maryland].

Avanguardia e tradizione nelle riviste, in “l’Unità”, 26 marzo [su riviste letterarie inglesi e francesi].

Scrittore di nascosto, in “l’Unità”, 2 aprile [recensione a ROBERTO BAZLEN, Lettere editoriali].

Forse il primo poeta d’America, in “l’Unità”, 5 luglio [recensione a JOHN BERRYMAN,

Omaggio a Mistress Bradstreet].

Canti e poesie della contestazione negra, in “l’Unità”, 9 agosto [recensione a Negri Usa – Nuove poesie e canti della contestazione negro-americana, a cura di Gianni Menarini]. Ma è poi possibile “educare al sesso”?, in “Paese Sera”, 1° novembre [recensione a LAMBERTO BORGHI, ANTONIO CARBONARO, ADA MARCHESINI GOBETTI, CESARE MUSATTI, Educare al sesso, a cura di Mariadele Crocioni].

Sindacato Scrittori?, in “Nuovi Argomenti”, n.s., 16, ottobre-dicembre, pp. 223-226. 1970 I traduttori si organizzano, in “l’Unità”, 5 maggio.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

UNA SCRITTURA PLURALE

349

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Ferlinghetti e l’America sotterranea, in “l’Unità”, 23 maggio [recensione a LAWRENCE

FERLINGHETTI, Lei].

Poeti d’avanguardia ispano-americani, in “l’Unità”, 27 giugno [recensione a Poeti ispano-americani contemporanei, a cura di Marcello Ravoni e Antonio Porta].

Sandro Penna, in “l’Unità”, 1° luglio [recensione a SANDRO PENNA, Tutte le poesie], poi in “Nuovi Argomenti”, n.s., 20, ottobre-dicembre, pp. 247-250, col titolo Per Sandro Penna. 1971 “Metropolis” di Porta, in “Rinascita”, 4 giugno [recensione a ANTONIO PORTA, Metropolis].

1973 Wirrwarr, in “il verri”, V serie, 1, marzo, pp. 177-178 [recensione a EDOARDO SANGUINETI,

Wirrwarr].

1975 Se il cantautore scrive, in “La Stampa”, 13 giugno [recensione a LEONARD COHEN, Il gioco favorito].

Gli sberleffi di Burroughs, in “La Stampa”, 15 agosto [recensione a WILLIAM S. BURROUGHS, Johnny 23].

1976 Documento, Garzanti, Milano. Lembi di paradiso per Scott e Zelda, in “La Stampa”, 23 gennaio [recensione a FRANCIS SCOTT & ZELDA FITZGERALD, Lembi di Paradiso].

Emily scrive al mondo, in “La Stampa”, 6 febbraio [recensione a EMILY DICKINSON, Poesie].

Sotto l’ala di Eliot, in “La Stampa”, 7 aprile [recensione a Giovani poeti inglesi, traduzione e introduzione di Renato Oliva].

Tragiche fantasie di un “sognatore”, in “La Stampa”, 23 aprile [recensione a JACK KEROUAC, Libro dei sogni].

Gregory il beat, in “La Stampa”, 13 maggio [recensione a GREGORY CORSO, Benzina]. 1977 Storia di una malattia, in “Nuovi Argomenti”, n.s., 56, ottobre-dicembre, pp. 185-196. 1978 Canti onirici d’un poeta suicida, in “Paese Sera”, 30 aprile [recensione a JOHN BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie].

Spara a zero contro la famiglia, in “Paese Sera”, 2 luglio [recensione a CHRISTINA STEAD, Sabba familiare].

Le esperienze di Corso, in “Paese Sera”, 30 luglio [recensione a GREGORY CORSO, Poesie].

Ha ottenuto un secolo dopo la fama che meritava, in “Paese Sera”, 1° ottobre [recensione a HENRY JAMES, Il carteggio Aspern].

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

AMELIA ROSSELLI

350

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Sesso, ebraicità e disperazione, in “Paese Sera”, 15 ottobre [recensione a PHILIP ROTH, Professore di desiderio].

Una recita all’aperto di Virginia Woolf, in “Paese Sera”, 29 ottobre [recensione a VIRGINIA WOOLF, Tra un atto e l’altro].

Joyce giovane poeta musicale, in “Paese Sera”, 12 novembre [recensione a JAMES JOYCE, Poesie].

1979 Henry Miller sempre fra noi influenza anche la psicanalisi, in “Paese Sera”, 18 marzo [recensione a NORMAN O. BROWN, La vita contro la morte. Il significato psicanalitico della storia].

Nota a una selezione di poesie di José Craveirinha [da Cantico per un Dio di catrame], in “Tabula”, I, 2, aprile-giugno, p. 168. 1980 Primi scritti (1952-1963), Guanda, Milano. Nate insieme, sotto segni diversi, in “Rinascita”, 18 gennaio, p. 22. Non avere fretta, in “L’Ora”, 13 marzo. Istinto di morte e istinto di piacere (Risposta a Rossanda), in “Nuovi Argomenti”, n.s., 67-68, luglio-dicembre, pp. 175-180 [su Sylvia Plath]. Nota a una selezione di poesie di Lorenzo Calogero (da Avaro nel tuo pensiero), in “Tabula”, II, 3-4, marzo, p. 21. 1981 Impromptu, San Marco dei Giustiniani, Genova. Incontro di poesia a Roma, in “Tabella di marcia”, II, 1, gennaio, pp. 229-233. Nota di presentazione a ALBERTO TONI, L’accordo difficile, in “Tabula”, III, 5, maggio, p. 104. 1982 Scipione panteistico, in SCIPIONE, Carte segrete, prefazione di Amelia Rosselli, nota di Paolo Fossati, Einaudi, Torino, pp. V-IX. 1983 Appunti sparsi e persi (1966-1977), Aelia Laelia, Reggio Emilia. Si fa spesso spettacolo del poeta, ci si dimentica però della poesia, in “Corriere della Sera” (ediz. romana), 6 aprile (a cura di Antonio Debenedetti). 1985 La libellula, Studio Editoriale, Milano. Introduzione a CETTA PETROLLO, Sonetti e stornelli, Tam Tam, Torino, pp. 3-5. 1986 La politica dei cento fiori, in “Michelangelo”, XI, 55. Pastiche per Ferruccio, in Il poeta e la poesia. Poesie e commenti di Accrocca, Bellezza, Betocchi, Bigongiari, Caproni, Cucchi, Erba, Giuliani, Guidacci, Luzi, Memmo, Pagliarani, Parronchi, Pignotti, Porta, Raboni, Ramat, Risi, Rosselli,

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

351

Sanguineti, Sereni, Spaziani, Turoldo, Zeichen, atti del convegno (Roma, Università La Sapienza, 8-10 febbraio 1982, diretto da Mario Petrucciani e Giuseppe E. Sansone), a cura di Nicola Merola, Liguori, Napoli, pp. 153-154. Prefazione a SARA ZANGHÌ, Fort-da, Il lavoro editoriale, Ancona, pp. 5-6. 1987 Antologia poetica, a cura di Giacinto Spagnoletti, con un saggio di Giovanni Giudici, Garzanti, Milano. La serie degli armonici (1953-1977), in “il verri”, VIII serie, 1-2, marzo-giugno, pp. 166-183. 1989 Sonno-Sleep (1953-1966), traduzione di Antonio Porta, Rossi e Spera, Roma. Un’opera inedita di Calogero e la sua corrispondenza letteraria, in “I Quaderni del Battello Ebbro”, II, 2, aprile, pp. 31-43. 1990 Diario ottuso (1954-1968), prefazione di Alfonso Berardinelli, con una nota di Daniela Attanasio, Empiria, Roma. Sceneggiatori nel cinema, in “Autografo”, n.s., VII, 21, ottobre, pp. 3-7. 1991 Introduzione a PAUL EVANS, Dialogo di un poeta e una musa, a cura di Amelia Rosselli, Fondazione Piazzolla, Roma, pp. 9-14. Istinto di morte e istinto di piacere in Silvya Plath, in “Poesia”, IV, 44, ottobre, pp. 2-12. 1992 Sleep. Poesie in inglese, traduzione italiana e postfazione di Emmanuela Tandello, Garzanti, Milano. Stringersi all’osso dei propri pensieri, in “il manifesto”, 8 maggio [recensione a ANTONELLA ANEDDA, Residenze invernali].

1993 Impromptu, introduzione di Antonella Anedda (con lettura di Amelia Rosselli incisa su cassetta), Mancosu, Roma. Padre e figlio, carteggio fra amore e rancore, in “l’Unità”, 21 marzo [recensione a LUIGI AMENDOLA, Carteggio del rancore].

1994 Glossarietto esplicativo per “Variazioni belliche”, parzialmente edito in appendice a SALVATORE RITROVATO, Il “Glossarietto esplicativo” di Amelia Rosselli per “Variazioni belliche”, in “Profili letterari”, IV, 5, giugno, pp. 101-107. 1995 Variazioni belliche, a cura di Plinio Perilli, con ristampa del saggio di Pier Paolo Pasolini, Fondazione Piazzolla, Roma.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

352

AMELIA ROSSELLI

1996 Diario ottuso, prefazione di Alfonso Berardinelli, con una nota di Daniela Attanasio, Empiria, Roma. La libellula, con uno scritto di Pier Paolo Pasolini, Studio Editoriale, Milano. 1997 Appunti sparsi e persi (1966-1977), Empiria, Roma. Le poesie, a cura di Emmanuela Tandello, prefazione di Giovanni Giudici, Garzanti, Milano. 2003 Impromptu, introduzione di Giovanni Giudici, con una lettera inedita di Amelia Rosselli all’editore e lettura di Amelia Rosselli su cd, San Marco dei Giustiniani, Genova. INTERVISTE 1964 ADOLFO CHIESA, Amelia Rosselli, in “Paese Sera”, 3 gennaio. 1976 DACIA MARAINI, Sola contro il mondo, in “Paese Sera”, 2 luglio. 1977 GABRIELLA SICA, La poesia oggi non ha un ruolo, è un piacere strettamente privato, in “Avanti!”, 19 giugno. ELIO PECORA, Uomini, cose, poesia, in “La Voce Repubblicana”, 16 settembre, ripubblicato col titolo Un incontro con Amelia Rosselli in “Galleria”, XXXXVIII (1997), 1-2, gennaio-agosto, numero monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Daniela Attanasio e Emmanuela Tandello, pp. 150-154. 1978 SANDRA PETRIGNANI, Non mi chiedete troppo, mi sono perduta in un bosco, in “Il Messaggero”, 23 giugno. 1979 LICIA LIOTTA, Amelia Rosselli: la parola e la musica, in “L’Informatore Librario”, IX, 8-9, agosto-settembre, pp. 7-9. 1980 AURELIO ANDREOLI, È possibile far poesia al femminile?, in “Paese Sera”, 28 agosto. ANNA ANGRISANI, Amelia Rosselli, in L’alba è nuova. Braccianti, poeti, sociologi, politici... intervistati su Rocco Scotellaro, Galzerano, Casalvelino Scalo, pp. 118-123. 1981 ADELE CAMBRIA, Cuore, maestro di poesia, in “Quotidiano Donna”, 20 marzo.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE

353

1984 RENATO MINORE, Il dolore in una stanza, in “Il Messaggero”, 2 febbraio. 1986 CRISTIANA FISCHER, Colloquio con Amelia Rosselli, in “Azimut”, 21-22, p. 112. 1987 ALBERTO TONI, “La mia Libellula torna a volare”, in “Paese Sera”, 19 marzo. SILVIO PERRELLA, Nella poesia per fuggire gli addii, in “Il Mattino”, 11 novembre. CETTI ADDAMO, La persecuzione del nome Rosselli, in “La Sicilia”, 21 dicembre. GIACINTO SPAGNOLETTI, Intervista ad Amelia Rosselli, in AMELIA ROSSELLI, Antologia poetica, Garzanti, Milano, pp. 149-163. 1988 AMBROGIO DOLCE, Amelia Rosselli: poesia non necessariamente ascientifica, in “Idea”, XLIV, 1-2, gennaio-febbraio, pp. 37-45. 1990 MARCO CAPORALI, Intervista ad Amelia Rosselli, in “Poesia”, III, 28, aprile, pp. 8-9. PAOLA ZACOMETTI, Amelia Rosselli: “Ma la logica è il cibo degli artisti”, in “Il Giornale di Napoli”, 12 maggio. LUIGI AMENDOLA, Il diario dell’inconscio, in “l’Unità”, 18 novembre. VILMA COSTANTINI, Quando la vita cammina in versi, in “Wimbledon”, I, 9, dicembre, p. 40 e 43. 1992 PAOLO DI STEFANO, Amelia Rosselli sulle palafitte, in “la Repubblica”, 22 febbraio. FRANCESCA BORRELLI, Partitura in versi, in “il manifesto”, 14 maggio. Intervista su Roma, a cura di Milo de Angelis e Isabella Vincentini, in “Poesia”, V, 53, luglio-agosto, pp. 29-32. 1993 LAURA DETTI, La città come una noce protettiva, in “l’Unità”, 27 giugno. 1994 PAOLO DI STEFANO, Amelia Rosselli: in nome del padre, in “Corriere della Sera”, 11 giugno. 1995 PLINIO PERILLI, Intervista con l’Autrice, in AMELIA ROSSELLI, Variazioni belliche, Fondazione Piazzolla, Roma, pp. 212-218.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

354

AMELIA ROSSELLI

1996 MARINA CAMBONI, Incontro con Amelia Rosselli, in “DWF”, 29/1, gennaiomarzo, pp. 64-83. 1997 GIOVANNI SALVIATI, Nel linguaggio dinamico della realtà. Conversazione con Amelia Rosselli, in “Clandestino”, X, 1, pp. 9-13. 1999 MARIELLA BETTARINI, Per un’intervista inedita ad Amelia Rosselli, in Amelia Rosselli. Un’apolide alla ricerca del linguaggio universale, atti della giornata di studio (Firenze, Gabinetto Vieusseux, 29 maggio 1998), in “Quaderni del Circolo Rosselli”, 17, a cura di Stefano Giovannuzzi, pp. 82-86.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

INDICE DEI NOMI E DEI PERIODICI

Accrocca Elio Filippo 344, 350 Addamo Cetti 353 Afro (Afro Basaldella) 296 Agamben Giorgio 191, 192, 338 Agosti Castellani Maria Luisa 339 Albini Umberto 131, 334 Alembert Jean Le Rond D’ 57 Alvarez Alfred 177, 183 Amati (Esercente cinematografico) 271 “Ambit” 243 Amendola Luigi 229-230, 340, 351, 353 “American Mercury” (The) 57 Amis Kingsley 183 Anceschi Luciano 102, 103, 282, 296 Andersen Hans Christian 219 Andreoli Aurelio 24n, 342, 352 Anedda Antonella 125-126, 333, 351 “Angel Hair” 241 Angrisani Anna 352 “Anterem” 107 “Antologia Gruppo 63” 278 Antonicelli Franco 85, 330, 348 Antonioni Michelangelo 328 “Approches” 244 Aragon Louis 132 Archiloco 91, 330, 348 Aristoxenus 56 “Art and Literature” 242, 278 Attanasio Daniela 332, 333, 337, 344, 347, 351, 352 Auden Wystan Hugh 145 “Autobus” 254, 282, 341 “Autografo” 22n, 342, 351 Avalli Ippolita 329 “Avanti!” 12, 22n, 23n, 278, 333, 338, 347, 348, 352 “Azimut” 24n, 353 “Azione Comunista” 267 Bach Johann Sebastian 29, 59, 298, 308 Bachmann Ingeborg 333 “Back Dwarf” 244 Baldovino Valentino 56 Balestrini Nanni 278 “Bandiera rossa” 266 Baraghini Marcello 328 Barbour James Murray 56 Barilli Bruno 102

Barolini Antonio 90, 330, 348 Barrès Maurice 102 Barth John 201-202, 338, 348 Bartók Béla 27, 45, 56, 59, 132 Bataille Georges 203 “Battaglia Comunista” 267 Battisti Eugenio 37, 38, 39, 327, 328, 347 Bazlen Roberto 203-204, 297, 300, 338, 348 Beatles 185, 243 Beckett Samuel 174, 196, 289 Beethoven Ludwig van 14, 221 Belar Herbert 57 Bell George 138 Bellanova Piero 301 Bellezza Dario 260, 313, 341, 344, 345, 350 Bellini Giuseppe 139 Bellow Saul 223 Berardinelli Alfonso 23n, 282, 351, 352 Berio Luciano 56 “Berkeley Review” (The) 240 Berlinguer Giovanni 322 Bernhard Ernst 300 Bernini Gian Lorenzo 311 Berryman John 13, 18, 135-136, 141, 142, 143, 144, 145, 149-154, 158, 160, 161, 169-170, 171, 334, 335, 336, 348, 349 Bertolucci Attilio 281 Besana Giacomoni Silvia 340 “Bételgeuse” 244 Betocchi Carlo 85, 86, 102, 103, 110, 116, 122n, 123n, 330, 331, 344, 348, 350 Bettarini Mariella 354 Bettini Filippo 341 Bianchi (Ingegnere) 53 Bianciardi Luciano 338 Bigongiari Piero 344, 350 “Blackwood’s Magazine” 243 Blake William 103, 162, 178 Blanchot Maurice 203 Boatto Alberto 332 Boethius Anicius Manlius Torquatus Severinus 57 “Bolscevico” (Il) 268 Bonaparte Napoleone 155 Bond Julian 138 Bonichi Goffredo 102, 104 Borgese Giuseppe Antonio 120

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

356 Borghi Lamberto 205, 206, 339, 348 Borrel Eugène 57 Borrelli Francesca 15, 22n, 305, 345, 353 Bortolotto Mario 37, 41, 327, 328, 347 “Boss” 241 Bossi Floriana 207, 339 Boulez Pierre 308 Bradstreet Anne 135, 142, 150, 151, 152, 169, 170 Bradstreet Simon 142, 150, 151 “Braci” 282, 296 Bragaglia Anton Giulio 102 Branchi Walter 57 Brandirali Aldo 266, 267 “Breakthru” 243 Breton André 12, 59, 132, 195, 196 Breton André 132 Brown Norman O. 227-228, 340, 350 Browning Robert 163 Brownjohn Alan 183, 184 Bruccoli Matthew J. 339 Buñuel Luis 213 Buonarroti Michelangelo 300 Burroughs William Seward 16, 23n, 167, 207, 213-214, 217, 260, 339, 349 Burton Richard 320, 321, 322 Busoni Ferruccio 57 Byron George Gordon 221 Cage John 160, 308 “Cahiers du Sud” 244 Cairoli Paolo 22n Calogero Lorenzo 18, 24n, 109-123, 126, 257, 300, 332, 333, 345, 350, 351 Calvino Italo 60, 71, 125 Camboni Marina 21n, 354 Cambria Adele 22n, 352 Campana Dino 71, 72, 284, 298, 299, 300 Campana Nadia 335 Campo Cristina (Vittoria Guerrini) 335 Camus Albert 213 Caporali Marco 353 Caproni Giorgio 86, 257, 260, 344, 350 Caramore Gabriella 307 Carbognin Francesco 347 Carbonaro Antonio 205, 206, 339, 348 Carmichael Stokely 269 Carrillo Julián 57 Carter James Earl (Jimmy) 326 Casella Alfredo 27 Castro Fidel 208, 233 Cave Rosselli Marion 21n, 293 Cecchi Emilio 103, 331

AMELIA ROSSELLI Céline Louis-Ferdinand (Louis-Ferdinand Destouches) 213 Ceracchini Gisberto 102 Cerami Vincenzo 254 Chagall Marc 102 Chavez Carlos 57 “Che fare” 269 Chiavatti Anna 339 Chiesa Adolfo 352 Chopin Fryderyk Franciszek 129, 298, 308 Ciano Galeazzo 293, 305 Cima Annalisa 335 “Circoli” 103, 331 “Circuit” 243 “Civiltà delle Macchine” 277, 281, 296, 328, 347 “Clandestino” 334, 354 “Classe” (La) 267 “Classe e Stato” 269 “Classe operaia” 267 Cohen Leonard 185, 211-212, 339, 349 “College Humour” 215 “Compagno” 269 “Comunista” (Il) 268 “Concentrate” 243 “Confronto” (Il) 267 Consagra Pietro 328 “Contact” 241 Conte Giuseppe 254 “Contropiano” 269 Conturie Leon 57 Cordelli Franco 225, 340 “Corriere della Sera” 24n, 340, 342, 350, 353 Corso Gregory 16, 23n, 167-168, 171-172, 182, 207, 209, 217, 241, 260, 336, 349 Costantini Vilma 22n, 353 Costère Edmond 57 Crane Harold Hart 150, 167, 171, 182 “Crapouillot” (Le) 244 Craveirinha José 253, 278, 332, 333, 342, 350 Creeley Robert 160 “Critica Sociale” 269 “Critical Quarterly” (The) 243 Croce Benedetto 120 Crocioni Mariadele 205, 339 Cucchi Maurizio 344, 350 Culver Charles A. 57 Cummings Edward Estlin 79, 99, 141, 150, 152, 307 Cunningham Merce 308 Cˇvetaeva Marina Ivanovna 279

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE Dallapiccola Luigi 295, 296 Dally (Professore) 325 Daniélou Alain 57 D’Annunzio Gabriele 102, 120 Dante Alighieri 300 Darwin Charles 219 Davies Hugh Sykes 183 Davis Jefferson 159 De Angelis Milo 311, 345, 353 Debenedetti Antonio 342 Debussy Claude 29 De Chirico Giorgio 102 De Koonig Willem 160 De Libero Libero 101, 102, 104 De Marchi Luigi 206 De Simone Antonio 254 Detti Laura 24n, 345, 353 Devoto Giorgio 22n, 329, 330, 331, 335, 338, 347 “Diapason” (Il) 11, 277, 281, 296, 327, 328, 347 Dickinson Emily Elisabeth 162, 163-164, 178, 222, 335, 349 Di Cocco Francesco Alessandro 102 Di Maggio Joe 90 Di Stefano Paolo 334, 340, 353 Di Vito Franco 42, 327, 347 Dolce Ambrogio 24n, 329, 353 Dolci Danilo 313 Donovan Leitch 185 Doors 185 Dorazio Piero 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 327, 328, 347 Dos Passos John Roderigo 217 Douglas Alan 57 Dubrowskij Aline 338 Durem Ray 138 Dutschke Rudi 269 “DWF” 21n, 354 Dylan Bob 185 Eco Umberto 98 “Effe” 107 Eisenhower Dwight D. 208 “Elettronica” 56 Eliot Thomas Stearns 59, 79, 135, 141, 154, 163, 165-166, 182, 221, 336, 349 Eluard Paul 132 Emerson Ralph Waldo 163 Emo Capodilista Marina 173, 336 “Encounter” 243 Ensor James 102 Erba Luciano 344, 350

357 Ernst Max 82 Errante Guido 163, 335 Esenin Sergej Aleksandrovicˇ 277 “Espresso” (L’) 175, 336 “Esprit” 244 “Esquire” 215, 242 Evans Paul 181-185, 338, 351 “Evergreen Review” 240 Evtusˇenko Evgenij Aleksandrovicˇ 260 Fabiani Marta 336, 337 “Falce e martello” 266, 267 Falqui Enrico 101, 102, 103, 104, 300 Falzoni Giordano 35, 36, 37, 41, 42, 43, 195-197, 279, 300, 327, 328, 338, 342, 347, 348 Faulkner William 59, 146, 217 Faye Jean-Pierre 260 Ferlinghetti Lawrence 207-209, 241, 278, 339, 349 Fermi Enrico 306 “Fiera Letteraria” (La) 12, 15, 23n, 343, 348 “Figaro Littéraire” (Le) 244 Fischer Cristiana 24n, 353 Fisher Alfred Young 179 Fitzgeral Francis Scott Key 183, 215-216, 217, 339, 349 Fitzgerald Sayre Zelda 215-216, 339, 349 Fitzgerald Smith Scottie 339 Flaubert Gustave 222 “Foreste Sommerse” 125 Fortini Franco 289 Fortini Laura 253 Fossati Paolo 331, 350 Frabotta Biancamaria 22n, 345 Frank Anna 86 Freud Sigmund 196, 227 Frezza Luciana 85, 86, 330, 348 “Frontespizio” 86, 103, 331 “Fuck You” 241 “Fuggitivi” (I) 159 Gadolla (Esercente cinematografico) 271 Galaverni Roberto 333 “Galleria” 23n, 107, 278, 332, 333, 337, 344, 347, 352 Gallo Niccolò 297 Gallone Maria 339 Gandillot Maurice 57 Garboli Cesare 343 García Lorca Federico 59 Garulli Valdo 57 Gatto Alfonso 102

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

358 Gelmetti Vittorio 35, 36, 37, 38, 39, 41, 42, 327, 328, 347 Genet Jean 213 Ginsberg Allen 16, 167, 171, 184, 207, 209, 217, 241, 260, 278, 336 Ginzburg Leone 86 Ginzburg Natalia 329 “Giornale di Napoli” (Il) 21n, 353 “Giovane Critica” 269 Giovannuzzi Stefano 22n, 354 “Gioventù Rivoluzionaria” 268 Giraldi Romolo 57 Giudici Giovanni 176, 281, 335, 351, 352 Giuliani Alfredo 173, 278, 344, 350 Goethe Johann Wolfgang 90 Góngora y Argote Luis de 102 Goodman Paul 203 Gorlier Claudio 339 Goya Francisco 102 Gramsci Antonio 254, 255, 266 “Gravesaner Blätter” 57 Greco El (Domenikos Theotocopoulos) 102 Grignani Maria Antonietta 342 Grimm Jakob Ludwig Karl e Wilhelm Karl 219 “Grosseteste Review” 243 Grossi Pietro 35, 36, 37, 41, 327, 328, 347 “Guardie Rosse” (Le) 269 Guccione Piero 281 Guevara Ernesto, detto Che 233, 269 Guglielmi Angelo 80, 86 Guglielmi Giuseppe 16, 17, 79-80, 330, 348 Guidacci Margherita 335, 344, 350 Guinness Alec 306 Gunn Thomas 183, 184 Guttuso Renato 296 Hawthorne Nathaniel 222 Heidegger Martin 120 Helmholtz Hermann von 57 Hemingway Ernest Miller 213, 217 Henderson David 138 Highsmith Patricia 346 Hill Geoffrey 184 Hindemith Paul 28, 30, 57 Hitler Adolf 212 “Honest Ulsterman” (The) 243 Hopkins Gerard Manley 59, 135, 141, 150, 307 Horovitz Michael 183, 185 Houédard Dom Silvester 185 “Hudson Review” (The) 240 Hughes Langston 138

AMELIA ROSSELLI Hughes Ted 177, 179, 183, 184, 337 Huxley Thomas Henry 219 “Idea” 24n, 329, 353 Illyés Gyula 131-133, 334, 348 “Incontri musicali” 57 “Indice” (L’) 125 “Informatore Librario” (L’) 352 “International Times” 243 Ionesco Eugène 196 Jackson Thomas Jonathan (Stonewall) 159 Jacomuzzi Stefano 335 James Henry 12, 14, 221-222, 339, 349 James William 222 Jarrell Randall 219 Jarry Alfred 13, 23n, 184, 191-193, 338, 348 Jeans James Hopwood 57 Joans Ted 138 Jones LeRoi 137, 138, 160 “Journal of the Acoustical Society of America” (The) 57 Joyce James 12, 13, 17, 23n, 79, 141, 173174, 182, 208, 213, 221, 336, 350 Jucker Ludovico 253 Kafka Franz 223, 224, 284, 298, 299, 300, 345 Kant Immanuel 120 Kaufman Bob 138 Keats John 163, 164, 178 “Kenyon Review” 240 Kerouac Jack (John) 167, 207, 209, 217218, 241, 339, 349 Klee Paul 82, 196 Kline Franz Josef 160 Krˇenek Ernst 28 Kyd Thomas 189-190, 278, 338, 348 Lalo Charles 57 Lamantia Philip 207 Lanati Barbara 335 Lanier Sidney 163 Larkin Philip 183, 184 Lauro Gustavo 57 Lautréamont comte de (Isidore Lucien Ducasse) 59, 102 “Lavoro Politico” 268 “Leader” 277 Lechalas Georges 57 Leibniz Gottfried Wilhelm 59 Leibowitz René 28, 30, 32, 57 Lenin Nikolaj (Vladimir Il’icˇ Uljanov) 269 Leone Giovanni 322 Leone Pietro 266

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

UNA SCRITTURA PLURALE Leopardi Giacomo 90, 120, 300 Lerici Roberto 109, 116, 332 “Lettera” 107 “Lettres Françaises” (Les) 244 Levi Carlo 229, 296, 297 Lezzi (Professore) 321 Limentani Giacoma 329 Lin Piao 269 Liotta Licia 352 “Literary Review” (The) 240 “Literary Supplement” (The) 109 “London Magazine” 243 “London Times Literary Review” 278 Lorde Audre 138 Lorenzini Niva 23n “Lotta Continua” 267 “Lotta di Lunga Durata” 268 Lowell Robert 135, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 154-158, 159, 161, 177, 219, 334, 335 Loy Rosetta 329 Lucie-Smith Edward 184 Lully Jean Baptiste 57 Lupi Roberto 11, 27-33, 57, 327, 347 Lussu Emilio 9, 22n Lussu Joyce 253, 278, 333 Lutero Martino 227 Luxemburg Rosa 257 Luzi Mario 333, 335, 344, 350 Macbeth George 183, 184 Machiavelli Niccolò 190 Mafai Mario 101, 102, 104 Magrelli Velerio 345 Mahler Gustav 82 Mailer Norman 278 Majakovskij Vladimir Vladimirovicˇ 82, 86, 208, 277, 279, 290 “Malavoglia” 125 “Malebolge” 278 Mallarmé Stéphane 71, 102, 284, 299 Manacorda Giorgio 254 Mancosu Carlo 333 “manifesto” (il) 22n, 268, 269, 333, 345, 351, 353 Mantovani Vincenzo 339 Mao Tse-Tung 267, 269 Maraini Dacia 189, 190, 259, 329, 338, 340, 352 “Marcatré” 11, 277, 278, 327, 347 Marchesini Gobetti Ada 205, 339, 348 Marchiori Giuseppe 104 Marcuse Herbert 227, 269

359 Martinet Gille 269 Marx Karl Heinrich 173, 267 “Materia” 107 “Mattino” (Il) 353 Maupassant Guy de 222 Mazzacurati Marino 101, 104 Mazzamuto Pietro 341 Mazzini Giuseppe 307 Melville Clark 57 Melville Herman 146 Memmo Francesco Paolo 344, 350 “Menabò” (Il) 9, 60, 277, 281, 289, 297, 307, 308 Menarini Gianni 137, 172, 334, 336, 348 Mengaldo Pier Vincenzo 60, 329 “Meridiano di Roma” 103 Merola Nicola 24n, 344, 351 “Messaggero” (Il) 22n, 23n, 311, 342, 345, 352, 353 Meyer Eppler Werner 56 “Michelangelo” 342, 350 Miller Dayton Clarence 57 Miller Henry 208, 217, 223, 227, 340, 350 Miller Norman 241 Minore Renato 17, 23n, 342, 353 Moles Abraham Antoine 57 Moltedo Adriana 328, 329 Montale Eugenio 86, 107, 163, 174, 229, 242, 257, 284, 291, 298, 299, 300, 333, 335, 345 Montherlant Henry de 102 “Monthly Review” 269 Moore Henry Thomas 57 Morante Elsa 329 Morisco Gabriella 24n, 176, 177, 337 Musatti Cesare 205, 339, 348 Musil Robert 203 Mussolini Benito 293, 305 Nardini Marcello 319, 322 Neruda Pablo 59 “New England Quarterly” (The) 240 “New Left Review” 244 “New Society” 244 “New Statesman” 243 “New Yorker” (The) 241, 242 Nicolini Renato 261 Nietzsche Friedrich 57 Nitti Fausto 9 “Nouvelle Revue Française” (La) 244 “Nouvelles Littéraires” 244 “Nuova Sinistra” 278 “Nuova Unità” 268

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

360 “Nuovi Argomenti” 12, 23n, 24n, 125, 277, 280, 331, 336, 341, 346, 348, 349, 350 “Nuovo Impegno” 269 Nuzzo Ferruccio 287 Oddera Bruno 339 Oliva Renato 165, 166, 181, 183, 184, 185, 336, 349 Olivetti Adriano 293 Olivier Laurence 306 Olson Charles 141, 158, 160, 184, 241, 278, 334, 335, 342 Olson Harry F. 57 “Opus international” 244 “Ora” (L’) 341, 350 “Oracle” 241 Orengo Nico 342 Ortese Anna Maria 329 Oster Gerald 40 Overmyer Grace 57 “Ozio letterario” (L’) 107 “Paese Sera” 12, 23n, 24n, 279, 330, 334, 336, 338, 339, 340, 342, 348, 349, 350, 352, 353 Pagliarani Elio 278, 344, 350 “Palatina” 277 Panzieri Raniero 267 Paolini Pier Francesco 340 Paris Renzo 332 “Paris-Match” 244 “Paris Review” (The) 243 Parri Ferruccio 287 Parronchi Alessandro 344, 350 “Partisan Review” 240 Pascin Jules (Julius Mordecai Pincas) 102 Pasolini Pier Paolo 9, 60, 107, 255, 257, 259, 273, 281, 289, 297, 298, 300, 307, 329, 330, 345, 351, 352 Pasternak Boris 12, 14, 81, 82, 129-130, 131, 278, 279, 290, 333, 334, 345, 347 Pavese Cesare 23n, 85, 86, 96, 207, 300, 330, 345, 348 Pecora Elio 352 Penna Sandro 13, 18, 23n, 24n, 93-96, 257, 289, 291, 300, 313, 331, 349 Pennati Camillo 184 Perilli Plinio 229, 329, 351, 353 Perosa Sergio 135, 136, 169, 170, 334, 335, 336 Perrella Silvio 353 Perrotti Nicola 295 Pertini Sandro 293, 322, 323 Petrassi Goffredo 295

AMELIA ROSSELLI Petrignani Sandra 22n, 289, 342, 345, 346, 352 Petrollo Cetta 105-106, 332, 350 Petroncelli C. (Ingegnere) 53, 54 Petrucciani Mario 344, 351 Pickard Tom 184 Pignotti Lamberto 86, 344, 350 Pintacuda Salvatore 57 Pisani Mario 261 “Pitagora” 229 Pivano Fernanda 171, 336 “Planète” 244 Plath Sylvia 18, 24n, 141, 158, 161, 163, 171, 174, 175-180, 182, 334, 335, 336, 337, 338, 345, 350, 351 “Playboy” 242 “Plexus” 244 “Poesia” 12, 24n, 336, 337, 345, 351, 353 “Poesia e Critica” 278 “Poesie ’90” 125 “Poetry” 240 “Poetry Review” (The) 243 Poletti Luigi 57 “Pont de l’Epée” (Le) 244 Pontiggia Giuseppe 332 Porta Antonio (Leo Paolazzi) 10, 17, 23n, 24n, 97-98, 139, 253, 257, 259, 260, 278, 282, 300, 331, 332, 334, 342, 344, 349, 350, 351 Porter Peter 184 Portinari Folco 15, 85, 86, 330, 348 Porzio Domenico 129 Posadas Juan 266 “Potere Operaio” 267 Pound Ezra 17, 79, 80, 86, 99, 141, 152, 154, 163, 182, 184, 208 Pousseur Henri 57 “Prato Pagano” 125 “Priapus 15” 243 “Primato” 102 Procol Harum 185 “Profili letterari” 330, 351 “Programma Comunista” (Il) 267 “Provincia di Catanzaro” (La) 332, 333 “Psychedelic Review” 241 “Psycological Monographs” (The) 57 “Punch” 243 “Quaderni del Battello Ebbro” (I) 24n, 332, 351 “Quaderni del Circolo Rosselli” 22n, 354 “Quaderni piacentini” 269 “Quaderni rossi” 267

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Quasimodo Salvatore 91, 120 “Quindici” 269 “Quinzaine” (La) 244 “Quotidiano del Popolo” (Il) 267 “Quotidiano Donna” 22n, 352 Raban Jonathan 335 Raboni Giovanni 253, 332, 333, 344, 350 Rafanelli Loretto 332 Rago Michele 342 Ramat Silvio 344, 350 Rameau Jean-Philippe 56, 57 Ramos de Pareja (Ramis de Pareia), Bartolome (Bartolomeo) 56 “Rampart” 241 Ransom John Crowe 159 Ravalico Domenico Eugenio 57 Ravoni Marcello 17, 139, 334, 349 Redgrove George 184 Regis Maria 267 Reiche Reimut 206 Remidi (Avvocatessa) 322 Repetti Paolo 255 “Repubblica” (la) 334, 340, 353 Revesz Géza 57 “Revue des Deux Mondes” (La) 244 “Revue des Littératures Comparée” (La) 244 “Revue musicale” (La) 57 Riemann Hugo 57 Righini Pietro 57 Rilke Rainer Maria 284, 299 Rimbaud Jean-Arthur 71, 102, 150, 284, 298, 299, 345 “Rinascita” 12, 23n, 331, 349, 350 Ripellino Angelo Maria 14, 81-83, 129, 330, 333, 334, 348 Risi Nelo 344, 350 Ritrovato Salvatore 330, 351 Riviello Vito 229 “Rivoluzione proletaria” 267, 268 Rizzardi Alfredo 335 Robbe-Grillet Alain 203 Rolling Stones 185 Romano Lalla 329 Rosenthal Macha Louis 183 Rossanda Rossana 18, 24n, 175, 176, 336, 337, 350 Rosselli Aldo 253, 332, 346 Rosselli Andrea 293, 294 Rosselli Carlo 277, 289, 293, 296 Rosselli Giovanni Giacomo (John) 12, 21n, 22n, 293, 294, 332

Rosselli Nello 293, 294 Rosselli Pincherle Moravia Amelia 294, 295 Rosselli Todesco Maria Vittoria 294 Rossi Ada 295 Rossi Alberto 173 Rossi Ernesto 295 Roth Philip 19, 223-224, 340, 350 Rouault Georges 102 Roversi Roberto 260 Rubino Luciano 42, 327, 328, 347 Russo Luigi 281 Saba Umberto 284, 299, 345 Sabbadini Silvano 335 Saffo 91, 330, 348 Salvemini Gaetano 293, 306 Salviati Giovanni 334, 354 Sanguineti Edoardo 80, 99-100, 139, 173, 278, 331, 341, 344, 349, 351 Sansone Giuseppe E. 344, 351 Saponaro Giulio 339 “Saturday Evening Post” 215 Scartaghiande Gino 257 Schaeffer Pierre 57 Schober Aurelia 175, 176, 177, 178, 336, 337 Schöenberg Arnold 28, 30 Scipione (Gino Bonichi) 101-104, 298, 300, 331, 350 Scotellaro Rocco 296, 297, 345, 352 Secchia Pietro 268 Sereni Vittorio 110, 116, 117, 123n, 344, 351 Servadio Emilio 321 “Servire il popolo” 267 “Sette Giorni” 269 “Sewanee Review” (The) 240 Shahn Ben 135 Shakespeare William 164, 295, 345 Shelley Percy Bysshe 178, 221 Sˇ klovskij Viktor Borisovicˇ 279, 280 Sica Gabriella 352 Sicari Giovanna 345 “Sicilia” (La) 353 Siciliano Enzo 189, 190, 338 Silkin Jon 184 Sinisgalli Leonardo 102, 103, 110, 112, 116, 122n, 123n, 260, 296, 333 Sitwell Edith 163 Socrate Mario 129, 333 Solmi Sergio 15, 89, 90, 91, 203, 330, 338, 348 Sorrentino Gilbert 207 “Southern Review” (The) 240

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

362 Soutine Chaïm 102 Spagnoletti Giacinto 10, 282, 293, 344, 345, 346, 351, 353 Spaziani Maria Luisa 260, 344, 351 “Spectator” (The) 243 Spellman A.B. 138 Spencer Herbert 219 “Stampa” (La) 12, 22n, 23n, 24n, 335, 336, 339, 349 “Stanza” 243 Stead Christina 219-220, 339, 349 Stockhausen Karlheinz 308 “Tabella di marcia” 24n, 341, 350 “Table Ronde” (La) 244 Tabucchi Antonio 332 “Tabula” 117, 253, 332, 333, 341, 342, 350 Tamaro Susanna 329 Tandello Emmanuela 10, 22n, 305, 329, 330, 331, 332, 333, 335, 337, 338, 344, 347, 351, 352 “Tartaruga” (La) 125 Tate John Orley Allen 141, 158, 159, 334, 335 Tedeschi Giuseppe 109, 110, 116, 123n “Tel Quel” 244 “Temps Modernes” (Les) 244 Terracini Umberto 322, 323 “Texas Quarterly” (The) 240 Thomas Dylan Marlais 59 Thoreau Henry David 163 Tiby Ottavio 57 Tiepolo Giovanni Battista 102 “Times Literary Supplement” 243 Tobagi Walter 265, 266, 269, 270 Togliatti Palmiro 267 Tommaso d’Aquino 230 Toni Alberto 254, 333, 350, 353 Tornabuoni Lorenzo 282 Torres Camilo 269 Toscanini Arturo 306 “Transatlantic Review” (The) 240, 242 “Trasparenze” 22n, 329, 330, 331, 335, 337, 347 “Tre giganti” (I) 254, 341 “Tribuna rossa” 268 Tudor David 308 “Tulane Review” 242 Turati Filippo 9, 293 Turcato Giulio 328 Turchi Guido 295, 296, 327

AMELIA ROSSELLI Turgenev Ivan Sergeevicˇ 222 Turoldo David Maria 344, 351 Tzara Tristan 132 Ungaretti Giuseppe 102, 103, 242 “Unicorn” 243 “Unità” (l’) 12, 23n, 24n, 234, 331, 334, 338, 339, 340, 341, 342, 345, 348, 349, 351, 353 Valente Francesca 339 Valgimigli Manara 91, 330, 348 Vasiliev Leonid L. 199-200, 338, 348 Vegliante Jean-Charles 126 Verlaine Paul 284, 299 “verri” (il) 277, 282, 296, 328, 331, 349, 351 “Versicolori” 229 Vincentini Isabella 312, 345, 353 “Virginia Quarterly Review” (The) 240 Vittorini Elio 60, 207, 281, 297, 307 “Viva il Leninismo” 268 Viviani Cesare 254 Vlad Roman 296 “Voce Repubblicana” (La) 352 “Voce Rivoluzionaria” 268 Wagner Francesca 225, 340 Warren Robert Penn 141, 143, 144, 145149, 158, 159, 334, 335 “Welt” (Die) 109 Whitman Walt 59, 154, 164, 167, 182 Who 185 Wilcock Juan Rodolfo 173 Williams William Carlos 141, 154, 184 “Wimbledon” 22n, 353 Winckel Fritz 57 Wittgenstein Ludwig 120 Wood Alexander 57 Woolf Virginia 13, 23n, 225-226, 340, 350 Wright Richard 138 “Yale Review” (The) 240 YeatsWilliam Butler 135 Yergans Carl 138 Zacometti Paola 21n, 353 Zaffiri Enore 57 Zambiasi Giulio 45 Zanghì Sara 107-108, 332, 351 Zanzotto Andrea 307 Zarlino Gioseffo 30 Zecchi Stefano 332 Zeichen Valentino 344, 351 Zveteremich Pietro 129, 279, 333

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Per me scrivere serve, in un certo senso, a portare nuova ricchezza alla mia e alla altrui interiorità: sta anche in questo la valenza etica della poesia

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

Biblioteca di “Autografo” Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 23/09/2018

collana fondata e diretta da Maria Corti

1. ROBERTO REBORA, Della voce umana e poesie inedite, a cura di Nicoletta Trotta, presentazione di Renata Lollo, 1998, pp. 96, euro 9,30. 2. Guido Morselli: i percorsi sommersi. Inediti, immagini, documenti, a cura di Elena Borsa e Sara D’Arienzo, presentazione di Angelo Stella, 1999, pp. VIII+192, euro 15,49. 3. EUGENIO MONTALE, Poesia Travestita, a cura di Maria Corti e Maria Antonietta Terzoli, 1999, pp. 80, euro 15,49. 4. CLELIA MARTIGNONI, CINZIA LUCCHELLI, ELISABETTA CAMMARATA, La scrittura infinita di Alberto Arbasino. Studi su Fratelli d’Italia, con un testo di Alberto Arbasino, 1999, pp. 128, euro 15,49. 5. ANNALISA CIMA, Hai ripiegato l’ultima pagina. Pensieri per Vanni Scheiwiller, presentazione di Maria Corti, 2000, pp. 64, euro 10,33. 6. MARIA ANTONIETTA GRIGNANI, La costanza della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento, con autografi inediti, 2002, pp. 192, euro 20. 7. JURIJ MICHAJLOVICˇ LOTMAN, Non-memorie, a cura di Silvia Burini e Alessandro Niero, presentazione di Maria Corti, 2001, pp. 128, euro 15,49. 8. MARIAROSA BRICCHI, Manganelli e la menzogna. Notizie su Hilarotragoedia con testi inediti, 2002, pp. 112, euro 15. 9. MARIA CORTI, Un ponte tra latino e italiano, presentazione di Angelo Stella, 2002, pp. 64, euro 10. 10. AMELIA ROSSELLI, Una scrittura plurale, a cura di Francesca Caputo, 2004, pp. 368, euro 20.

interlinea

edizioni

via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571, fax 0321 612636 www.interlinea.com

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.