Dioniso in Omero e nella poesia greca arcaica

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Dioniso in Omero e nella poesia greca arcaica

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G. AURELIO PRIVITERA

DIONISO IN OMERO E NELLA POESIA GRECA ARCAICA

EDIZIONI

DELL'ATENEO

Copyright © 1970, by Edizioni dell'Ateneo Roma, via Ruggero Bonghi, 11/B Printed in Italy

ad Anthos Ardizzoni

Indice generale

Premessa

9 11

I

DIONISO

NELLA

SOCIETÀ

MICENEA

E

ARISTO-

CRATICA

13

Il problema

14

Le saghe di resistenza

20

Dioniso nella società micenea e dei secoli bui

36

La politica dionisiaca dei tiranni

43

Vino e mania in Omero e a Sparta

44

Religione e mousiké

47

II

DIONISO IN OMERO

49

La tradizione erudita

53

L'episodio di Licurgo in Omero

81

Temi dionisiaci

91

III

DIONISO NELLA POESIA ARCAICA

93

Omero ed Esiodo

96

Vino e poesia in Archiloco

100

Le occasioni di Alceo

11O

Il dio di Anacreonte

8

Indice generale

120

L'entusiasmo di Pindaro

131

Laso e la melica dionisiaca fino a Bacchilide

141 151

IV

CONCLUSIONE

Indici

Premessa

Con questo studio sciolgo un debito contratto al 1° congresso internazionale di Micenologia (Roma 27.9 - 3.10 1967) dove, in una breve nota, sostenni che l'esistenza di Dioniso a Pilo implica un suo culto da parte dei Signori del luogo e impone di rivedere la tesi che il dio sia assente da Omero perché estraneo e inviso alle classi dominanti. Nel I capitolo condivido l'opinione che le saghe di resistenza hanno valore eminentemente rituale; esamino tre situazioni che mi paiono esemplari (Atene, Patrai, Lesbo) per concludere che durante i secoli bui il dio fu «comune»; interpreto la sua presenza a Sparta nel VII secolo e la politica dei tiranni nel VI come una conferma che egli, quando si formarono i poemi, doveva essere già venerato da tutti senza distinzione di classi. Nel II capitolo ricompongo le linee principali della tradizione erudita intorno ad una antica mousiké dionisiaca colta; difendo l'antichità e originarietà dell'episodio di Licurgo in Omero; tento di reperire nei luoghi di Omero, di Esiodo e degli inni i segni di una dizione formulare, con l'intento di evocare, in base ad elementi concreti anche se pallidissimi, la ipotizzata tradizione aedica dionisiaca anteriore ad Eumelo. Nel III capitolo, dopo un richiamo all'atteggiamento di Omero, di Esiodo e del Ciclo, passo in rassegna alcune menzioni più significative alla ricerca di una conferma. Nella conclusione enucleo dal materiale analizzato due tendenze: una aristocratica, tradizionale, condivisa da Omero, da Aloeo, da Teognide, e teorizzata da Pindaro, che pretende e persegue una rigorosa distinzione tra i vari generi poetici

Premessa

10

e confina Dioniso nella poesia dionisiaca; una non-aristocratica, di crisi, comune ad Esiodo, al Ciclo, ad Anacreonte e a Bacchilide, che include i contenuti dionisiaci nei generi poetici non dionisiaci e/o li trascura in quelli dionisiaci. Lo studio non è di storia della religione, ma di un filologo per i filologi 1• Non pretende di esaurire l'argomento, ma di stimolarne la trattazione. Le indicazioni bibliografiche complete, sia dei frammenti di autori antichi sia delle opere di moderni studiosi, si ricavano agevolmente dai due indici in fondo al volume. Le statistiche omeriche, nel II capitolo, sono attendibili nella misura in cui lo sono gli indici di concordanza esistenti: sono cioè approssimative. A Bruno Gentili, che ha incluso questa ricerca nel programma del Gruppo da lui diretto, il mio grazie più vivo e cordiale. Ad Anthos Ardizzoni, mio primo maestro e paterno mio amico, la mia riconoscenza affettuosa e perenne.

G. A. P. Roma, 30 luglio 1970

1

Problemi come in questo libro sono irrilevanti per lo storico della religione: per il quale, oltre tutto, un luogo di Omero o di Nonno testimonia Dioniso a pari titolo, come se il dio esistesse atemporalmente da qualche parte e non fosse ogni volta lì e allora S;:!condo gli orientamenti culturali di quella determinata società. I classicisti che trascurano la componente religiosa presente ovunque nella letteratura greca arcaica, perché pensano che gli storici della religione siano i più adatti a trattarla, hanno abdicato prima di trovarsi un erede: la conseguenza è che siamo fermi ancora a Wilamowitz.

I. DIONISO NELLA SOCIETA' MICENEA E ARISTOCRATICA

Il problema L'assenza di Dioniso dall'Iliade e dall'Odissea (e di assenza è lecito parlare, perché la sua menzione è sporadica e marginale) è stata spiegata variamente dagli studiosi. Schematicamente le diverse opinioni possono essere ricondotte a due posizioni fondamentali. Secondo alcuni significherebbe che il dio era quasi o del tutto ignoto ai Greci quando i poemi furono composti. Secondo altri il silenzio di Omero sarebbe voluto e si spiegherebbe con l'avversione verso la religione dionisiaca della società per cui egli cantava 1• Della prima ha fatto giustizia definitivamente la presenza di Dioniso nelle tavolette micenee 2• Questa stessa presenza permette di avviare la verifica della seconda: il dio si affermò davvero in Grecia dopo aver vinto aspre resistenze 1

Le due tesi sono combinate da U. von Wilamowitz-Moellendorff, De,, Glaube de, Hellenen Il, Basel-Stuttgart 31959 ( 11931-32), p. 60: Dioniso sarebbe penetrato in Grecia nell'VIII sec., mentre in Ionia, dove era noto da tempo, sarebbe stato rifiutato dalla società per cui Omero cantava. Quest'ultima opinione è condivisa anche da chi ammette che il dio fosse noto nel continente fin dalla fine del II millennio: cfr. L. Deubner, Attische Feste, Berlin 1932, p. 122: « Die Ritterkultur batte zu diesem Gott keine innere Beziehung ». Contra già F. Cassola, La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 19.57, p. 214: « Dioniso fu accolto non solo dalle plebi, ma anche dai grandi santuarii, in epoca ancora aristocratica». 2 PY Xa 102; PY Xb 1419. Sulle principali speculazioni fondate sulla presenza del dio a Pilo, cfr. M. Gérard-Rousseau, Les mentions religieuses dans les tablettes myceniennes, Roma 1968, p. 74 sgg. Importa qui sottolineare che il dubbio dei primi editori (M. VentrisJ. Chadwick, Documents in Mycenaean Greek, Cambridge 19.56, p. 127), che non si trattasse del dio, sembra definitivamente superato.

14

G. Aurelio Privitera

da parte delle classi superiori? rimase escluso veramente dalla tradizione « musicale » che da un punto di vista storico-culturale può essere considerata aulica e colta? Le saghe di resistenza L'opinione che Dioniso sia stato avversato dalle classi superiori è fondata, in buona parte, sulla interpretazione tendenziosa delle saghe · di Licurgo, di Boutes, di Perseo, delle Miniadi, delle Pretidi, delle Cadmeidi. Si è creduto a lungo che esse rispecchino, in qualche misura, degli eventi storici 3• L'Ottocento, che vide la Grecità attraverso gli schemi del classicismo e che ad ogni popolo soleva assegnare delle caratteristiche permanenti, vi scorse un riflesso della resistenza dei Greci ad una religione straniera, aliena dai loro costumi, dalla loro mentalità, dalla loro concezione della vita 4 • Successivamente, quando le lotte di classe indussero ad una valutazione più attenta delle componenti sociali, si sottolineò che le Miniadi, Penteo e gli altri protagonisti sono tutti di stirpe signorile, sono re o figli di re 5 • L'interpretazione classista è la più facile da confutare. È infatti evidente che la qualifica di coloro che si oppongono a Dioniso è un elemento avventizio, suggerito dalle concezioni sociali del tempo e del luogo in cui le saghe assunsero 3

In modo lapidario Wilamowitz, Glaube 3II, p. 65: « In diesen bekannten Geschichten steckt die Erinnerung an heftige Kampfe gegen die neue Religion ». 4 A questa tendenza non si sottrasse lo stesso E. Rohde, Psyche Il, Tiibingen 101925, p. 41 (« Dennoch liegt ein Kem geschichtlicher Wahrheit in diesen Erzahlungen » ), che pure aveva intuito la struttura rituale e il valore esemplare delle saghe (v. sotto, n. 7). 5 Si legga R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica fino ad Alessandro, Torino 1953, p. 79: « Ma qualcuno in Grecia guardò con disprezzo quell'orgiasmo barbarico, e osteggiò la sua propagazione; e furono specialmente le corti e le classi sociali più elevate, quelle che nel mito e nella leggenda risplendono nei nomi di una gloria regale ».

I.

Dioniso nella società micenea e aristocratica

1.5

la forma che manterranno poi nella tradizione. È sintomatico che in Attica, dove il ricordo della monarchia era più pallido, si raccontava che a resistere e ad essere punita era stata la massa dei cittadini, quando Pegaso introdusse il nuovo culto; lo stesso !cario, al quale Dioniso in cambio dell'ospitale accoglienza rivelò come produrre il vino, ha tutta l'aria di un libero coltivatore e coltivatori come lui sembrano i compagni che l'uccisero credendosi avvelenati dalla nuova bevanda 6 • Dalle saghe non si può ricavare alcuna indicazione della classe sociale che avrebbe osteggiato Dioniso e non si può neppure dedurre che una resistenza vi sia mai stata davvero. Giustamente W.F. Otto scriveva, già nel 1933, che esse si riferiscono non ad eventi storici fermi nel tempo, ma a ciò che sempre avviene quando Dioniso si manifesta, « also auf die ungeheure Wirkung seines Wesens und seiner Epiphanie ». Ma il primo passo lo aveva compiuto gà E. Rohde, mezzo secolo prima: « das sind Sagen von der Art der vorbildlichen Mythen, durch die einzelne Vorgange des Gottesdienstes ... ein Vorbild und rechtfertigende Erklarung an einem fiir geschichtlich wahr genommenen Vorgang der Sagenzeit gewinnen sollen » 7 • In Omero (Z 130 sgg.) Licurgo perseguita il folle Dioniso e le sue nutrici: il dio terrorizzato si getta in mare ed è accolto da Teti. Venuto in odio a tutti gli dei, Licurgo è punito con la cecità da Zeus e poi con la morte prematura. All'origine della doppia punizione furono probabilmente due versioni diverse. Gli eruditi tardi ne conobbero ancora di più: Licurgo fu colto da follia, sbranò il figlio e fu sbranato dai suoi cavalli (Apollod. III 5,7), o da pantere (Hyg. 6

Testimonianze in Roscher, Lex. Myth. II, 1890-94, s.v. Ikarios, col. 111 sgg. 7 W. F. Otto, Dionysos, Frankfurt a. M. 3 1960 ( 11933), p. 71 sg.; Rohde, Psyche 10II, p. 41, il quale però credeva che contenessero anche un nucleo storico (v. sopra, n. 4 ).

16

G. Aurelio Privitera

Fab. 132), oppure si fece a pezzi da sé (Serv. Aen. III 14). t evidente il tentativo di introdurre lo sparagmos e l'omofagia tipici della religione dionisiaca. La saga parallela del tracio Boutes (Licurgo è re degli E,ib. § 4) la calma. L'opinione di Tucidide, che le Antesterie derivino dalla madrepatria, è difesa da Deubner, Att. Feste, p. 122. Il per-

2 1965,

24

G. Aurelio Privitera

Non vi è dubbio che per Tucidide Dioniso Limneo e le Antesterie esistevano ad Atene prima della guerra troiana, cioè nell'età micenea. Antico per lui non era il tempio come edificio, ma il culto e la festa che erano connessi col tempio. Tra i suoi argomenti sono in primo piano quello topografico, il demografico e lo storico. Fondamentale e ulteriormente verificabile è quest'ultimo: che la festa sia antica non risulta soltanto dalla sua sincrona celebrazione presso Ateniesi e Ioni, ma dalla sua stessa struttura. Come è noto, il momento culminante e più significativo delle Antesterie era il matrimonio di Dioniso con la Basilinna, la moglie dell'Arconte-basileus, che aveva luogo il 12 di Antesterione nel Boukoleion, l'antico locale dove il magistrato aveva il suo ufficio. La spiegazione del rito è stata fornita con brevi e chiare parole da G. De Sanctis già anni fa: « è singolare come i critici non s'avvedano della remotissima antichità di questo rito, il quale, privo di senso quando la basilinna non era che la moglie di un magistrato annuo ed elettivo, aveva invece un significato profondo quando era la sposa del monarca ateniese, mirando a dare come putativo padre divino Dioniso ai nascituri eredi del trono, sicché essi ». E concludeva: « in a buon diritto si dicessero 61.oyEvei:c; sostanza può risalirsi pel culto di Dioniso nella penisola greca fin verso la metà del secondo millennio » 18• Il valore corso inverso è stato escogitato da chi vuole che il dio sia penetrato tardi nel continente. La colonizzazione della Ionia è questione complessa e dibattuta: cfr. V. R. d'A. Desborough, The last Mycenaeans and their successors, Oxford 1964 (p. 248 sgg. sulle tradizioni concernenti la guerra troiana, l'invasione dorica e le migrazioni in Ionia alla luce delle scoperte archeologiche); un breve bilancio in G. L. Huxley, The early Ionians, London 1966, p. 23 sgg. I reperti indicano che i primi insediamenti ionici a Mileto risalgono al J.100 a.C. circa. 18 G. De Sanctis, Storia dei Greci I, Firenze 1940, p. 296: « cioè mezzo millennio almeno prima del diffondersi delle orgie dionisiache iniziatosi a un dipresso circa il 700 a.C. ».

I.

Dioniso nella società micenea e aristocrutica

25

di quest'affermazione non è nella spiegazione del rito, che è opinabile 19, n1a nell'osservazione che il matrimonio risale al tempo in cui il marito della Basilinna rivestiva un ruolo superiore a quello d'età storica. Muovendo da questo presupposto è facile risalire fino all'800 a.e. come ad un terminus ante quem sufficientemente saldo. Secondo la tradizione lo stato ateniese nei tempi passati sarebbe stato retto da re prima ereditari e poi elettivi (Plat. Menex. 238 d). Su tale tradizione fu elaborata una storia del regime monarchico, con date e liste di re, che compare variamente atteggiata nel Marmor Parium e in altre fonti~: ai re ereditari sarebbero seguiti gli arconti, prima eletti a vita, poi per 10 anni e infine annualmente. La ricostruzione è priva di valore: molto più probabilmente l'autorità del Basileus da un certo momento in poi fu limitata sempre più dall'aristocrazia, che gli pose accanto prima un arconte, poi un polemarco e infine i tesmoteti. Nel 682/681(?) a.e., anno con cui inizia la lista degli arconti, il Basileus deve essere stato anch'egli un magistrato annuale 21• 19

Più probabilmente l'unione mirava ad assicurare la fecondità delle donne e la potenza dei loro mariti (cfr. anche Deubner, Att. Feste, p. 117). Si ricordi che i Rodi chiamavano à.vi>ECT"tl)pta6a.ç le ragazze in età da marito (Hesych. s.v.) e che Dioniso rese impotenti gli Ateniesi quando non lo accolsero convenientemente (cfr. schol. Aristoph. Ach. 243, che precisa 1ta.l6wv yEvfcrEwça.t·noç ò i>E6ç). A sua volta la fecondità tra gli uomini agiva positivamente sulla fertilità della natura. Gli stretti rapporti con Posidone di re mitici quali Erittonio, Eretteo, Egeo, Teseo, invalida ulteriormente l'ipotesi che la discendenza divina degli antichi re ateniesi fosse mediata da Dioniso. Ammenoché non si voglia supporre che Dioniso subentrò a Posidone come protettore della monarchia. 20 L'intricata tradizione è analizzata da G. De Sanctis, Atthis, Torino 2 1912, p. 77 sgg.; cfr. anche C. Hignett, A History of the Athenian Constitution, Oxford 1952, p. 38 sgg. 21 Per la data, cfr. T. J. Cadoux, Journ. Hell. Stud. 68, 1948, p. 88 sg. Che il Basileus nel 682/681 fosse solo un magistrato annuale è ipotesi verosimile di Hignett, Constitution, p. 45.

26

G. Aurelio Privi tera

È opinione diffusa che l'arconte sia stato affiancato al

Basileus dopo la metà dell'VIII sec. 22• La data, oltre a presupporre un'evoluzione costituzionale troppo rapida, urta contro la notizia (Aristot. Resp. Athen. 3,3) che gli arconti, entrando in carica, giuravano come al tempo di Acasto. Sono due circostanre che inducono ad alzare l'istituzione del~ l'arcontato. In ogni caso un matrimonio tra Dioniso e la Basilinna non può essere stato istituito durante l'VIII sec., ma molto prima, quando il monarca non soltanto aveva poteri pieni e riconosciuti, ma aveva anche un carattere divino, come sembra l'avesse nei tempi più antichi, se non inganna la circostanza che fino a Medonte, padre di Acasto, i re ateniesi sono quasi tutti delle divinità locali che ricevevano un culto ancora in età storica 23• L'intuizione che De Sanctis non ebbe, è che al tempo della monarchia Dioniso non fu soltanto una divinità delle plebi, come egli afferma poco dopo per spiegarne l'assenza in Omero; ma il dio della famiglia reale e della città; un dio comune, adatto a simboleggiare tutta la cittadinanza come di solito la rappresenta la magistratura suprema dello Stato: il dio delle Antesterie avrebbe potuto ricevere a buon diritto il titolo di Basileus, come a Trezene lo aveva Posidone che era protettore di quella città insieme ad Athena Poliada e 22

La data, in base a considerazioni differenti, in De Sanctis, Atthis 2, p. 154; Hignett, Constitution, p. 45. Probabilmente l'arconte, come vuole De Sanctis (p. 119 sgg.) fu creato per sgravare il re di determinate incombenze. L'osservazione di A. Ledl, Studien zur iilteren athenischen Verfassungsgeschichte, Heidelberg 1914, p. 256, che in tal caso sarebbe stato chiamato cosl à1tò -couµT) iipxaw, ha meno valore di quanto pensi Hignett (p. 42): egli stesso (p. 46) condivide l'opinione di De Sanctis (p. 137) che il passaggio dall'uno all'altro regime avvenne senza scosse violente. Ciò induce a distinguere tra una creazione molto antica dell'arconte, per dirigere un settore della vita pubblica, e un successivo potenziamento e ampliamento delle sue funzioni fino ad esautorare il Basileus. 23 Cfr. De Sanctis, Atthis2, p. 82 sgg.

I.

Dioniso nella società micenea e aristocratica

27

Steniada (Paus. II 30,6 ). Per il silenzio di Omero sarebbe stato più opportuno cercare una spiegazione diversa da quella tradizionale. La conferma che Dioniso ad Atene non fu un dio esclusivamente popolare, è fornita da due feste, le Teoinie e le Apaturie, che erano connesse strettamente con le genti (yivr}) e con le fratrie. Le Teoinie erano le Dionisie xa:tà. 611µ0V É\I Alµ\lat.i:; "t'CÌlEpCÌÉ1tt."t'EÌ..ovcrai., api.i>µ@ OEXtx"t'ÉcrcrapEç. Sulle loro funzioni accanto alla Basilinna, cfr. Ps. Demosth. Neaera (LIX) 73 sgg., che riporta (§ 78) il loro giuramento con alla fine la dichiarazione xat "t'CÌ0Eol\lt.a xat "t'CÌ'Io~a.xxEt.a. yEpapw "t'(¼> ~t.O\IVCTÉpE1. 6' &.µe11te1i:6e1 "t'1.th;vri.

Più oltre alla fine del colloquio con la moglie, Ettore tende le braccia verso Astianatte che spaventato:

467

1tpòc;x6À.1tovÈv~wvo1,0"t'1.M)vric; ÈxÀlvih) ta.xwv

In X 460 Andromaca corre sui bastioni µe11.va.61. CO'T) e alla vista di Ettore morto piange il destino del figlio, che soleva mangiare sulle ginocchia del padre e appena si addormentava 503 18

1

EU6EO"X Èv ÀÉX"t'pOI.O"I.V, ÈV ayxe1ll6EO"O"I. "t'I.M)VT)c;. -rt.~VTJè, ovviamente, parola di uso comune quanto può esserlo

il termine «madre». Ma come a noi « le Madri» richiamano subito alla memoria le creature goethiane (Faust 6173 sgg.), cosl ai Greci « le Nutrici» devono aver richiamato Dioniso e la mania. L'esempio più chiaro è Soph. o.e. 678 sgg. tv' 6 Baxxu~-rac; ciEt At.6vvCToc; ɵ~a"tEUEt.inlat.c;àµcpt.1t0À.wv 'tt.~vat.c;, dove son dette nutrici le ninfe di Colono che non avevano certo allevato il dio. Si sa che aggregati del genere finiscono per conglobare anche gli altri casi e le forme derivate del termine: non può dunque meravigliare che Tirteo (fr. 1 D., 10 Pr.) abbia usato il singolare -rt.~VTJ per designare, come sembra, la stessa madre di Dioniso, o che Teognide ( 1231 ), suggestionato dal rapporto Nutrici-Menadi, abbia detto che le µavlat.. Ma il caso più interesEros lo allevarono (-rt.i>T}v1JCTav-ro) sante è un indovinello attribuito a Simonide (fr. 69 D.): ... At.wvvCTot.o livax"t'oc;~ovcp6vovovx ÉbÉÀ.ovcn -rt.i>T}VELCTbat. bEpa1tov-ra(cfr. W. Schultz, R.E. I, 1914, s.v. Ratsel, col. 91 « R. von der Schmiede »), in cui il verbo -rt.i>T}VELO'bat. non ha alcuna giustificazione, ma è suggerito unicamente dalla menzione di Dioniso.

G. Aurelio Privi/era

62

L'episodio di X compie puntualmente l'incontro di Ettore e Andromaca in Z. Ma ambedue i luoghi sono collegati anche con'l'episodio di Licurgo. Andromaca è « simile a una pazza », poi esplicitamente « simile a una menade »; la nutrice è detta -rr.DT)VT} in questi passi e soltanto in essi (Il 4 x; mai nell'Odissea, che usa sempre -rpocpoc; riferendolo 15 x in formula ad Euriclea; uniche eccezioni -r 489 e ~ 289): nel passo di Licurgo ad essere « folle » è Dioniso le cui "t'r.t),ijva1. sono le Menadi, alle quali rassomiglia Andromaca. È proprio come se l'autore dopo aver utilizzato in misura ridottissima un componimento sui pathe di Dioniso, abbia continuato a subirne la suggestione nel disegnare la coppia Andromaca + nutrice e abbia cosi influenzato chi compose l'episodio complementare di X. Un altro esempio del genere è xaµat xa-rÉxEvav(v. 134), che è riecheggiato a v. 147 da cpulla -rà. µiv -r' iivEµoc; xaµa6r.c; XÉEr.:una rispondenza che è sottolineata dal movimento delle due immagini parallele (le nutrici sparpagliano a terra i thysthla sotto l'impeto di Licurgo, la selva le sue foglie sotto quello del vento) ed è provata dalla circostanza che xaµa6r.c;, xaµii~E, xaµal non sono uniti mai al verbo xtw, eccetto qui, in H 480 e 'I' 220, dove però si parla più ovviamente del vino « versato » e non di thysthla e di foglie « sparse a terra »; e in !:.. 526 = 181 xuv-ro xaµat XOÀ.a6Ec;,

Questa prospettiva non è indebolita, ma è rafforzata dai termini squisitamente« dionisiaci » che ricorrono nei vv. 134, 135: i)ucrl))..ae ~ou1tl1)~ sono hapax in Omero e ricompaiono sporadicamente in età ellenistica e romana. Malgrado la riesumazione, gli scoli non sanno con che cosa identificarli. La circostanza è tanto più sorprendente perché ambedue sono termini non anellenici, ma greci 19: ancora una volta la spiegazione più ovvia è che fossero tradizionali nella poesia dio19

Secondo H. Frisk, Gr. etymol. Worterb. s.v., itvatÀa. non ha nulla a che vedere con itvpcroc;(come è stato più volte ripetuto), ma

II.

Dioniso in Omero

63

n1s1aca e che gli oggetti corrispondenti avessero poi ricevuto, per tempo, una diversa denominazione. Letto controluce l'episodio di Licurgo rivela una padronanza perfetta della tecnica formulare. Le variazioni sono parecchie, ma sono contenute sempre entro limiti rigorosi. Secondo schemi formulari è organizzata spesso la seconda parte del verso: v. 134, ù1t' àv6pocp6vo1.o Auxovpyou ~ (ùcp')"Ex"t'opoc;àv6pocp6v01.o (Il. 8 x + 3 x a capo di verso).

v. 138, i>EotpEi:a.~wov"t'Ec; (anche in 6 805, E 122) atè:v l6v"t'Ec;(Il. 4 x, Od. 4 x).

~ i}Eot

v. 139, Kp6vou 1ta1.c;· où6' lip' E"t't.OT}V~ K. TC. àyxuÀ.oµirrEw (8 x nei poemi) con desinenza -Ew posteriore alle migrazioni ai; per ov6' lip' E"t't.611v (Il. 4 x, Od. 3 x) dr. anche ov -ri. µaÀ.a. 611v(Il. 2 x, Od. 1 x).

v. 140, 1téicr1. i>Eoi:crw (oltre 12 x nei poemi). Ancora più significativa è la collocazione di singole parole in sedi tradizionali. Oltre (v. 130) ù1.6c;e (v. 131) i}Eoi:crt.v 21, vanno considera ti: v. 133, 'T}yai>Eov, sempre in questa sede (Il. 4 x, Od. 6 x), preceduto anziché seguito dal nome della località. v. 134, xa.µa.l, normalmente tra 3° e 4° piede (Il. 17 x, Od. 4 x) e solo 2 x tra 1° e 2° piede come qui; si dà però il caso che quei due versi siano stereotipi (a 526 181 XVV"t'O xa.µa.t xoÀ.aoEc; · "t'Ò'V OÈcrx6i:oc;OCTO"E x&.Àu~E)e formulari nel secondo emistichio (Il. 10 x, assente dall'Odissea).

=

v. 137, 6E1.61.6-ra. (-Ec;,-a.e;)quasi sempre in enjambement con ihlw, rad. ihJo--, cfr. Hesych. i}uo-'tcxoEc; • vvµcpa~ 'tWÉc;, at ~vi}Eo~, xaL Baxxa.i.. 20 Webster, « Early and late », p. 35 sg. 21 Si veda sopra, p. 59 sg.

64

G. Aurelio Privitera

(Il. 5 x: 8 x, Od. 1 x: 2 x); similmente cade per lo più alla fine del 4° piede 'tp6µoc; (Il. 8 x: 12 x, Od. 1 x: 2 x), e sempre in fine di verso òµox'ì.:n (Il. 6 x, Od. 1 x òµoxÀal). Non sono poi rari i casi di emistichi che ricorrono identici anche altrove:

=

v. 136, 0É'tt.c; 6' u1tE6ÉçvpT)µuxii'> "ApyEoç L1t1to~6'"t'oto. 34 aì.a.ocrxomri Il. 3 x; àì.a.6c;Od. 3 x. Il vocabolo non compare nei Lirici e neanche in Esiodo: ma Th. 466 aì.a.ocrxo1ttT)Vè forse corruzione di àì.a.òv crxom1Jv nel cod. Paris. suppi. gr. 663. Del resto pare che lo stesso Aristarco leggesse aì.a.òc;uxo1ttT)Vin Omero: in N 10 è questa la lez. del Ven. A e del Pap. 60 (III-IV sec. d.C.). Per la questione cfr. M. L. West (Oxford 1966) ad Hes. Th.

II.

Dioniso in Omero

73

In Z 138-40 qualcosa è stato rimaneggiato: i)Eot ~E~a. l;wov"'C'Eçè formula esclusivamente odissiaca e stona con la patina iliadica dell'episodio; la doppia punizione riporta a due fonti diverse 35• Ma si pensi di ciò come si vuole. La discrepanza rimane: il poeta omerico non sunteggia Eumelo, perché l'Europia ignorava la fine prematura di Licurgo. In queste condizioni è inutile chiedersi quale dei due autori sia anteriore. Eumelo si può soltanto considerarlo un terminus ante quem non rispetto al poeta omerico, ma rispetto alle saghe di Licurgo e di Bellerofonte. Operò verso la metà del secolo VIII 36 : una poesia aedica dionisiaca (è questa che a noi interessa) esisteva dunque già prima. A conclusioni simili conduce anche Omero. L'attività di Mimnermo si svolse tra VII e VI sec., quella di Semonide qualche decennio prima. A quel tempo non si sapeva più chi fosse l'autore di Glauco e Diomede, ma lo si attribuiva al leggendario uomo di Chio: supporre che esisteva già nel466. Secondo Anecd. Gr. III, p. 1095 Bekker, &.ì..cx6c; sopravvisse in cipriota. Il termine 'tVq>À.6c;prima di Pindaro solo in Archi!. fr. 115 D., 201 T.; Hippon. fr. 29 D.; Semon. fr. 17 D. 35 La ripetizione {chiastica) del medesimo concetto nel giro di due versi (gli dei lo presero in odio e Zeus lo accecò; non visse a lungo perché venne in odio a tutti gli dei) è pesante, ma tipica di questo autore: basta leggere i vv. 145-51 con il gioco insistito di YEVETJ,q>uÀ.À.cx, ii'VopEc;,per rendersene conto. A dare veramente fastidio è l'hapax, la doppia punizione e il v. 138b. 36 Le date antiche sono parse alte a qualcuno (cfr. Bethe, R.E. VI, 1907, s.v. Eumelos, col. 1080): I'Europia sarebbe del 763 per Hieron. Euseb. Chron. ad 01. IV 2 (cfr. ad 01. IX 2 = 745 a.C., « Eumelus Corinthius versificator agnoscitur » ). Clemente Alessandrino (Strom. I 131,8, p. 82 St.) lo considera più vecchio di Archia, che fondò Siracusa nel 734. Al tempo di Pausania (IV 33,2) erano ritenuti autentici due esametri dattilici da un suo prosodio per il re Phintas di Messenia: in proposito e sulla cronologia v. ora C. M. Bowra, Class. Quart. 57, 1963, p. 145 sgg., al quale sembra probabile che Eumelo fosse di età matura nel 3° quarto del sec. VIII.

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l'VIII sec. non sembrerà azzardato a chi consideri quale ruolo esso giochi nella Diomedia. Si rifletta che in quel tempo la saga di Bellerofonte era ben nota ai Greci del continente: Esiodo cantava non soltanto Pegaso e la genealogia di Bellerofonte, ma anche la sua vittoria sulla Chimera; e gli artigiani greci, corinzi e non corinzi, raffiguravano nelle loro opere le imprese dell'eroe 37• Tra i Greci d'Asia era nota sicuramente da tempo: le tavolette con i « segni funesti», che sono un elemento essenziale dell'avventura di Bellerofonte, hanno riscontro soltanto nell'uso ittita di provvedere gli inviati presso una corte di credenziali scritte 38; la stessa figura del guerriero che emigra e fonda in terre lontane una nuova dinastia è d'epoca micenea e sub-micenea 39• Non può dunque meravigliare che Omero ne presupponga la conoscenza negli ascoltatori: egli stesso deve aver attinto a dei canti ampi e ben conosciuti su Bellerofonte e sui pathe di Dioniso, quelli stessi cui dovette ispirarsi anche Eumelo. L'esame dei luoghi omerici ed esiodei in cui ricorre il nome di Dioniso permette di muovere qualche passo verso tempi ancora più lontani: per ora basterà ribadire che una tradizione aedica dionisiaca è inequivocabilmente testimoniata verso la metà del sec. VIII. 37

Materiale in Malten, « Bellerophontes i., p. 148 sgg. I luoghi esiodei: Th. 281, 319 sgg.; fr. 43 a, 36 sgg. M. W. 38 F. J. Tritsch, « Bellerophon's letter », Atti e mem. 1° congr. internaz. di micenologia, Roma 1968, p. 1223 sgg. (p. 1230 « The information about Bellerophon's letter which the Homeric poets received, came to them from the Bronze Age and was handed down in Asia Minor » ). 39 F. Schachermeyr, Poseidon und die Entstehung des gr. Gotterglaubens, Bem 1950, p. 174 sgg. Per una rassegna delle tesi sull'origine (greca o asiana) della saga, v. E. Will, Korinthialea, Paris 1955, p. 145 sgg., che tenta (come Schachermeyr) una conciliazione.

II.

Dioniso in Omero

75

Il nome di Dioniso nell'esametro Il nome A,.6-vuaoc; ricorre soltanto nella Nekyia (À 325), che è un libro recenziore. Le altre quattro volte si legge sempre in Omero la forma più antica Au;,vuaoc;, davanti a cesura pentemimere o dopo cesura femminile:

1) Horn. S 325 Tl6è:Ai.wvuaov/ 2) » Z 132 3) » Z 135 4) » w 74

I

A1.wvuao1.o i:dh'}vac; / Ai.wvuaoc;6è: q>O~T)DElc; / A1.wvuao1.o6è: 6wpov .

Sarebbe un errore spiegare le due collocazioni come le uniche possibili nell'esametro: per es. in Esiodo, Th. 947, Ai.wvucroc;è davanti a cesura eftemimere. E sarebbe parziale affermare con O'Neill 40 che le parole con un certo numero di sillabe e una determinata fisionomia metrica tendono sempre verso le stesse sedi: nel nostro caso ciò che interessa non è vedere in quali sedi ricorrano i vocaboli di misura v ___ , oppure v ___ v, e concludere che sogliono capitare rispeui,vamente davanti a cesura pentemimere o dopo cesura femminile; ma stabilire se nella fattispecie Au~-vuaoc;e A1.wvuao1.o, tendendo a collocarsi in quelle sedi, siano mai diventati pernio di un nesso formulare. La ricerca è disagevole per due ragioni: nessuna delle sequenze in cui leggiamo il nome è frequente, e il nome non è accompagnato in nessuna di esse dagli elementi tipici dei nessi formulari. La frequenza è destinata a rimanere un'incognita, perché, se- mai ci fu, si manifestò nella supposta poesia esametrica dionisiaca di cui Omero conserverebbe dei riflessi estremamente pallidi. Al secondo inconv_eniente è possibile ovviare, 40

E. G. O'Neill, « The localization of metrica! word-types in the greek hexameter: Homer, Hesiod, and the Alexandrians », Yale class. Studies 8, 1942, pp. 105-178.

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ma in misura limitata, allargando la ricerca ad Esiodo ed agli inni omerici. In Esiodo il nome ricorre quattro volte, sempre nelle stesse sedi come in Omero (eccetto una): 6wpa. .At.WV\JO"O\J / 7tOÀ.uyriDÉoç 5) Hes. Op. 614 / 6) » fr. 239 M.W. ora. At.WV\JO"Oç / 4t.WV\JO"OV 7tOÀ.Uyr}tlÉa. 7) » Th. 941

Accanto a questi vanno considerati gli altri luoghi simili degli in?ti: 8) R. Rom. VII 1 aµcpt At.WV\JO"OV/ 9) » » I 20 Dei nove luoghi (Omero+ Esiodo+ inni) i quattro del tipo bisillabo+nome davanti a pentemimere (1, 5, 6, 8) presentano una struttura uniforme; gli altri cinque (2, 3, 4, 7, 9) mostrano una varietà notevole che dal nesso pentasillabo + trisillabo (2) oscilla fino al nesso !inverso trisillabo+pentasillabo (9), ferma restando la sequenza metrica e la collocazione del nome dopo cesura femminile. È proprio come se, ricevuto un modello, sia Omero che Esiodo e gli « innografi» l'abbiano manipolato con calcolata libertà in modo da ottenere nuovi esiti senza che saltassero i contorni tradizionali. Un grado più in là e il nome sarà collocato in sede diversa: 6È .At.WV\JO"Oç ;a.V'tT)V'Apt.a6Vi)'V. 1O) Hes. Th. 94 7 XPVO"Ox6µi)ç

Ancora un passo e alla forma .At.wvuuoçverrà preferita l'altra più recente e più maneggevole A1.6vuuoç,che è nell'Odissea (nella Nekyia!) e che prevarrà negli inni: 11) Horn. À. 325

Al11 !v aµcp1.pv"t'11 Ai.ovvuou µa.p'tupl TIO"t.

12) R. Rom. VII 56

Épl~poµoç 6v dµt 6' Éyw .At.6VUO"Oç "t'ÉXEµ:{)"ti)p

II.

Dioniso in Omero

77

13)

»

»

XXVI 1

KLCrcrox6µ11v At.6vucrovlpl~poµov &pxoµ' àEloEw

14)

»

»

XIX 46

àt}àva'tOL, 'ltEplaÀ.À.a6' o Baxxnoc; At.6vucroc;

15)

»

»

XXVI 11 Kat crù µÈv ou'tw xaLpE 'ltoÀ.ucr'tacpu).'w At.6vucrE.

Ora, se la tendenza conduce verso un esito recenziore sempre più libero, sembra ragionevole e corretto postulare un modello sempre più rigido via via che si risale nel tempo oltre Esiodo e al di là di Omero. Una riprova fornisce la N ekyia ( 11), in cui appunto la forma recenziore At.6vucroc; tende verso la stessa sede{compatibilmente con la diversa sequenza metrica) in cui solitamente compariva la forma più antica ( dt.ovvcrou dopo cesura pentemimere ~ At.wvvcrot.o dopo cesura femminile). Perché questo? Forse perché parole di misura \...Jv __ tendono a collocarsi dopo cesura pentemimere? Assolutamente no: una tale posizione è anzi rarissima nel1'esametro da Omero agli Alessandrini 41• La ragione deve essere dunque un'altra: deve essere l'influenza di uno schema tradizionale; non certo l'influenza degli altri luoghi omerici (2, 3, 4 ), che erano troppo pochi per fungere in qualche modo da modello. Che all'origine fosse una formula, mostra il At.wvucrov 1t0Àuy11t}ta di Esiodo (7), che egli ripete altrove (5) in sede diversa e che Pindaro riprende (fr. 153 Sn. At.wvucroc; 1t0Àuyaih'}c;)e varia preziosamente (fr. 29,5 Sn. >tà.vAt.wvvcrou 'ltoÀuyat}Éa 'tt.µàv) 41

42 •

O'Neill, « Localization », p. 145: Il. 3,2%; Od.-; Hes. 3,5%; Arat. -; Callim. -; Ap. Rh. 0,9%; Theocr. 0,9%. 42 Nel secondo luogo esiodeo {5) il nesso è spostato dal 3° - 6° al 1° - 4° piede: sulla mobilità delle formule v. ora J. B. Hainsworth, The flexibility of the Homeric Formula, Oxford 1968, p. 29 sgg. Diversamente dal nom. (àu:.:.ivua-oc; TCo).uyl')ì}rJc;), gli altri casi richiedono la sinizesi: al gen. è necessaria la desinenza -ou che sembra sia

!;Jl

Di O:lf$-:B fr,~:.;.la ~a":l.a:VÌa~.a 6. Ll.:tàc _ Omero offre r-e-~::o~ e ~·'":.I ,r...az}:t:le: •



~-.r:u;

• • ~.J, ~ 011

Ha.

Corr.re quesri d'.Je. anche ii ~ ~ d:Je luoghi omerici '2 A :, L"Jcui compare &J»V&':l'.::.. s.0::mp.alesemenre formulari. 11 prototipo puo essere stato .l.:1.:JY~..: !n'rlX~ che ricorre doJX> cesura femminile in un componimento attribuito a Simo::i:de 'fr. 69 D. 14'• ma che è più antico di Archiloco, il qua.le con una semplice elisione lo ridusse a misura trocaica (•..r. --n . ...rx·,ax-::::çxa.1.:::-1 •. E!;~CU •~.:.~i: ~ ••~1.-~)• , J ., 11-T. , • w; A v...rr&:>i. E impossibile dire come da .l.v.JJV"~ i.. si arrivò a A. -:-.h;;,u;. Il confronto con Z 46, È-~~~ ~ (che e formulare, dr. A 429 È-~&~l.:: -r~. 'I' 760 ~ [-.,~,;,,.~,._~) rende suggestiva l'ipotesi che A~~i.o ~ stia alla confluenza di due formule equi\·alenti: ~V.JJYC:~:a.WLX-:~ È-.>~'~'Y:t.: -:~

Certo l'aspetto vetusto di Ai.wv-.>:r:>i.oèiw.x'toc; non assicura da solo che fossero antichi i componimenti in cui ricorpvva-ovl:EµO..T) "tÉXEx&.pµa. ~pO"tOLQ'l,V

17) Hes. Th. 940

18)

»

Ka.oµElT)o' &pa. ot l:EµH.T) "tÉxEcpa.l01.µovut6v

fr. 239 M.W. ola Aul>vva-oc; owx' avop&.a-1. x&.pµa.xa.t &xiloc;.

A parte il nome Ai.wvva-oc;(-ov), che cade in sede fissa (in 16 e 18 come in 5 e 8) e può essere considerato un relitto formulare 46, formulari sono anche l:EµO..T) "tÉXE( 16 e 17), x&.pµa ~po"to!a-1.v (16) e x&.pµa. xa.t &xiloc;(18). In quest'ultimo, che è una variazione del precedente, la valenza connotativa - oltre che dalla polarità semantica risulta proprio dal gioco combinato di richiamo e di rifiuto di due formule, quali xapµa. ~po"to'i:a-w{ 16; H. Ap. 25) e 45

Tyrt. fr. 1,1 D., 10 Pr . .dLWVVO"OL]o "t'dh'r.1T)v.L'integrazione, che è del Wilamowitz, è assicurata dalla menzione di Semele al v. 2. Il colorito omerico dell'elegia è fuori discussione, ma ciò non toglie che l'espressione possa essere giunta a Tirteo da altra tradizione. Che se poi giunse da Omero, allora abbiamo un utile terminus ante quem: Tirteo fiorl intorno al 640 a.C. (cfr. Prato, p. 1* dell'edizione). 46 Si rilegga sopra, p. 78 + n. 43.

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125; H. Ap. 306 = 352), tra loro ulteriormente aggregate nella memoria dal 'tÉXE che soleva precederle e che Esiodo (18) ha sostituito con av6p&.a1.,semanticamente identico al rimosso apo'tOLO'L'V. Su un prototipo formulare piuttosto produttivo è esemplato anche l:EµÉÀ.T}-cÉxE. Schematicamente lo si può definire come soggetto + 'tÉXE + oggetto = vù _ + u \.J +

1ti]µa apo'tOLO'l.'V (µ

-'-"'-"-~:

19) Horn. À. 287

IlT}pW 'tÉXE,Davµa apo'tOLO'I.

T) µw 'tÉXE,'7t1lµa apo'tOLO'l.'V 20) » µ 125 MalT} 'tÉXE xu61.µov 'Epµi]v 21) Hes. Th. 938 'tÒ'V "Epi.c; 'tÉXE 1tfiµa lm.6pxo1.c; 22) » Op. 804 A T}'tW 'tÉXE :x&.pµa apo'tOLO't. 23) H. Hom. III 25 T) ot 'tÉXE xa.À.À.t.µa'tÉX'VCl. 24) » » XXXI 5

L'elenco sarebbe più lungo se si includessero gli altri luoghi con identica struttura metrica e 'tÉXE in sede identica, ma con sintassi diversa ( per es. E 444 vuµq>T} 'tÉXE 'VT}tc; aµuµwv) . Ma sarebbe ugualmente un elenco sparuto rispetto ai moltissimi casi in cui ricorre questo stesso verbo e questa stessa configurazione semantica ( alicui) aliquis aliquem generavit, con fisionomia metrica totalmente diversa. Su questo sfondo l'omerico l:EµÉÀ.T}'tÉXE :x&.pµa apo'tOLO't.( con la variazione esiodea :x&.pµa xat a:xDoc;) spicca in completa solitudine: perché il soggetto che precede 'tÉXE non ha mai, come in questo caso, la misura u u - , né in Esiodo e negli inni e neanche nei poemi. Sarebbe però affrettato concludere che Omero abbia radicalmente innovato. Dal punto di vista della tecnica formulare i paralleli non mancano:

25) Horn. À. 254 26) Hes. Th. 53 27) 28)

»

»

»

»

IlEÀ.lT}'V'tÉXE xat NT}À.i}a Kpovl611 'tÉXE 1ta-cpt µ1.yEi:aa

411 'Exa.-cT}vi:ÉxE,'tT)'V 1tEpL1t&.v-cwv 907 X&.pt.'tac; 'tÉXE xaÀ.À.t.1taptiouc;.

II.

Dioniso in Omero

81

Un'innovazione ci fu comunque, anche se modesta. Assistiamo qui alla dilatazione di una struttura formulare che negli inni diventerà completa dissoluzione del prototipo:

H. Hom. XVII 3 xopuq>fic;·dxe 1t6-rv1.aA11611

29)

»

30)

»

XIX 35 i)aÀ.ep6v,'tÉXE 6' lv µEyap01.a1.v.

Ed ecco le conclusioni. I quattro emistichi omerici in cui ricorre la forma ~1.wvuaoc;sono variazioni di formule più antiche; variazioni che presentano una graduale tendenza a dissolvere il modello. Si tratta dunque di esiti recenziori di una tecnica compositiva che forse è ancora orale, e che al più tardi sarà stata contemporanea di Esiodo. Le formulemodello, che è lecito immaginare parecchio anteriori, dovettero contenere il nome di Dioniso: se questo è vero ( le apparenze sono a favore) si può ragionevolmente concludere che anche di questo dio gli aedi del IX-VIII sec. cantarono le gesta non meno degli altri dei e dei vari eroi. Non si deve infatti dimenticare che almeno in tre casi (Horn. Z 132, 135; Hes. Op. 614; fr. 239 M.W.) i versi esistevano già nella 2• metà del sec. VIII, o al più tardi nei primi anni del VII po'Voc;, 'ij'V '1t0"t'E0T}O'EÙc; EX Kpl)"t'T}c;Éc;"(OV'VÒ'V ,Ai)T}'VaW'VLEpaw'V -i'}yEµi'V, oùo' a1t6'VT}"t'O • 1tapoc;Oɵw "Ap"t'EµLc;EX"t'(J. Aln l'VaµcpLpU"t'TIALO'VUO'OV µa.p,:vptl}O'L.

Fedra e Procri e la bella Ariadne io vidi, la figlia del funesto Minosse, che un giorno Teseo portava da Creta al colle della sacra Atene. Ma non ne godette: a Dia battuta dal mare Artemide prima l'uccise, per le accuse di Dioniso.

Il v. 325 è oscuro per le misteriose ALo"Vvo-ovµa.p"t'vpla.L e mette in sospetto per la forma recenziore del nome 57• Potrebbe essere stato introdotto posteriormente per collegare Ariadne e Dioniso: si spiegherebbe cosi la lezione EO'XE( invece di EX"t'a.) letta dal grammatico Aristofane e tramandata da vari gruppi di codici ( b e f i j, secondo le sigle di Allen) e come varia lectio da Eustazio ( ad Zoe.). È probabile che il v. 325 originariamente mancasse: 57 3 1883,

K. F. Ameis - C. Hentze, Anhang zu Homers Odyssee II, Leipzig p. 113.

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88

a) Teseo portava con sé Ariadne che però era uccisa da Artemide prima che il viaggio finisse. Quando si aggiunse il verso, lx't'« fu sostituito da laxE: b) Ariadne sarebbe stata trattenuta da Artemide per indicazione di Dioniso. La nostra vulgata contamina le due tradizioni: a) Ariadne è uccisa da Artemide, b) per indicazione di Dioniso. EHminando il v. 325 viene a mancare ogni accenno alla coppia Dioniso-Ariadne in Omero 58• Colpiti da sospetto sono pure i luoghi esiodei in cui si parla di Ariadne: sia il fr. 298 M.W., di cui è dubbio l'autore (Esiodo o Cercope?); sia Th. 947 sgg., che nello scolio (Z) del Mutinense è atetizzato sino al v. 955. L'importanza del primo è limitata perché non lascia capire se vi si parlava di un incontro con Dioniso. Più importante è il secondo: « l'aureochiomato Dioniso fece sua tenera sposa la bionda Ariadne, figlia di Minosse, ed essa il Cronide gli rese immortale e senza vecchiaia ». La ragione dell'atetesi ('t'ovc; yà.p l; àµq>o't'Épw"VitEwv non trova conferma in nessuno yEvE«À.oyEtv«v't' 1tp6XE1.'t'«1.) dei versi: originariamente a dare fastidio deve essere stata la natura divina di Dioniso e di Eracle, del quale è parola subito dopo, nei vv. 950-55. È sintomatico che nello scolio (Z) sia atetizzato anche Th. 940-44, in cui si parla di Dioniso «immortale»: in proposito West (Th. 947-55) ricorda lo scolio (A) ad Hom. Z 131 (O'TlJlEI.OU"V't'«l 't'I.VEc;~'t'i. wc;1tEpLì>Eou't'oO .6.1.o"Vuaov ouxÀ.ÉyE't'«t.)in cui questo criterio è apertamente affermato. La deificazione di Eracle può essere un segno di recenziorità, quella di Dioniso no. I critici antichi partivano da un pregiudizio di cui occorre tener conto nell'esaminare i luoghi omerici ed esiodei su Dioniso: in una misura che è impossibile determinare, le testimonianze più antiche sono state alterate quanto basta perché a distanza di secoli il dio 58

~x"'C'a. è negli scoli e fu dunque nell'edizione di Aristarco: su tutta la questione dr. Wilamowitz, Glaube 31, p. 404.

II.

Dioniso in Omero

89

sembri recenziore in Grecia. La prospettiva è falsa e poteva essere corretta anche prima che si riuscissero a leggere le tavolette pilie col suo nome. Dal silenzio di Omero si sarebbe dovuto dedurre, tutt'al più, che Dioniso fu estraneo al ciclo troiano; non che lo fosse stato ad altri cicli e ad altre forme anch'esse auliche di poesia. Sarebbe bastato confrontare l'Iliade con l'Odissea per rendersi conto del poco peso che l'argumentum ex silentio ha in casi come questo, in cui si tratta di stabilire se gli aedi cantarono o meno certe divinità:

Ares Enyalios Hera Themis Teti Iris

Letho Niobe Ore

Iliade

Odissea

119 .X

14

X

7 1 1

X

3

X

8 X

120 3 42 39 12 2 3

X X X

X X

X X X X

Se possedessimo soltanto l'Odissea dovremmo concludere che Ares ed Hera furono divinità secondarie per il poeta; che egli seppe poco di Teti e Themis e nulla di Iris; che ai suoi tempi nessuno chiamò Ares col nome di Enyalios; che la saga di Niobe non si era formata e un culto delle Ore non esisteva ancora. Avremmo un'immagine notevolmente diversa, se non del pantheon ellenico, certo di quello della classe aristocratica. Il confronto con l'Iliade ci salva da un simile errore. Allo stesso modo la conoscenza della perduta poesia non-omerica ci avrebbe salvati dai vari pregiudizi intorno al posto di Dioniso nella società per cui gli aedi cantarono e nella poesia dei secoli IX e VIII.

III. DIONISO NELLA POESIA ARCAICA

Omero ed Esiodo Una conferma che Omero evitava di proposito la menzione di Dioniso è nell'ostinazione con cui egli tace, ogni qualvolta celebra il vino, il nome del dio che lo donò agli uomini. La conclusione che ne hanno tratto gli studiosi, a cominciare da K. O. Miiller (1848) fino a H. Jeanmaire (1951), è nota e fu già confutata da W.F. Otto (1933): i Greci del tempo non lo avrebbero conosciuto come dio del vino, ma avrebbero venerato un dio più antico: un dio, secondo Wilamowitz (1932), di nome Oineo 1• Sarebbe interessante sapere perché Omero non nomini neppure Oineo: Wilamowitz non ha riflettuto che il silenzio di Omero non vale solo per Dioniso, ma per ogni altro possibile dio. Ancora una volta bisogna convenire che ex silentio non si può dedurre l'inesistenza o l'ignoranza della cosa taciuta. La conclusione da trarre è un'altra: gli aedi omerici ebbero verso il vino un atteggiamento scevro da implicazioni religiose. Manca nei poemi un'espressione paragonabile a "111µ11-tepoç àx-tT}, usata in N 322 e 76 per indicare il grano. Mentre invece ricorre in Esiodo (Op. 614), che prescrive di « versare nei vasi, il sesto giorno, i don i di D i o n i s o gioioso ». Il vino in Omero è come se non fosse dono di un dio. La medesima osservazione vale per il grano: l'espressione "111µi)-tEpoç( tEpòç) àx-tT} che ricorre 1

Miiller, Kl. Schriften li, p. 28 sgg.; Jeanmaire, Dionysos, p. 22 sgg.; Otto, Dionysos3, p. 54 sg.; Wilamowitz, Glaube IP, p. 64 + n. 2.

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nelle Opere (32, 466, 597) tutte le volte che àxi:1i indica il grano, è sporadica e marginale in Omero. La considerazione del grano e del vino nella loro immediata utilità, la lode laica del vino (lùq>pwv,µtÀ.t.T)6TK, µtÀ.lq>pwv, i)6ùc;,eùi)vwp), che è laica anche quando se ne dice « divino » ( ite~Éa-1.oc;) il profumo, indicano che ad un certo livello sociale e in certi ambienti i mezzi fondamentali di sostentamento avevano perduto quella valenza sacrale che è presente invece in Esiodo. Invece di considerarne l'origine divina, gli aedi specularono sugli effetti del vino, definendone la pertinenza in occasione di rilievo per la società cavalleresca, come la battaglia e il simposio. · Alla madre che in una pausa della battaglia lo aveva invitato a ristorarsi col vino, che accresce il vigore all'uomo stanco, Ettore risponde che proprio il vigore e il valore egli teme di perdere bevendone (Z 264 sg.). Ecuba mostra di ignorare quello che ogni saggio guerriero conosceva. Il vigore e il valore indispensabili al combattente non li dà il vino, ma il cibo e il vino presi prima di scendere in campo. Non si può affrontare il nemico e tenergli testa vittoriosamente fino al tramonto senza essersi prima ristorati di cibo e di vino: lo ricorda il saggio Odisseo insistentemente ad Achille, smanioso di vendicare la morte di Patroclo (T 154-70). I due luoghi iliadici non si contraddicono l'un l'altro, ma si integrano in una visione unitaria, articolata secondo accorte distinzioni: basta sbagliare l'occasione, e il vino produce effetti contrari; basta superare la misura, nell'occasione anche giusta, e gli effetti sono nuovamente contrari. L'inimicizia tra Centauri e Lapiti non ci sarebbe mai stata, se il vino non avesse fatto impazzire il Centauro Euritione, che ne aveva bevuto a dismisura. Con queste. parole Antinoo ammonisce il falso mendicante, Odisseo, che aveva chiesto di partecipare alla gara dell'arco: « il vino dolce come il miele ti tenta, che a molti fa male, chi ne tracanni e beva senza misura » ( cp 293 sg.).

III.

Dionzso nella poesia arcaica

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La contrapposizione tra gli effetti positivi e negativi esiste, ovviamente, anche nell'epica non eroica, ma non risulta che abbia dato origine ad una casistica cosl matura. L'aspetto rilevante della concezione omerica è la netta prospettiva so: ciale. La società aristocratica ha valutato il vino in base agli effetti che produce sui rapporti del singolo con gli altri. Lo ha accettato nella misura in cui non sminuiva l' areté del singolo e la timé riconosciutagli dalla collettività nelle occasioni salienti della vita associata, in pace e in guerra. Rispetto a questa, la valutazione che compare in un luogo delle Eoiai esiodee (fr. 239 M.W.) è più povera di risonanze: « quali diede Dioniso agli uomini gioia e dolori. A chi ne beve troppo, il vino diventa violenza, gli lega piedi e mani, lingua e mente con ceppi invisibili, e lo coglie il molle sonno ». I tratti stilistici richiamano la lirica: identico non è soltanto il gusto di contestare un'espressione tradizionale (Dioniso è xapµa ~po"toi:O'win S 325) sviluppando la valenza di segno contrario e fissando il risultato in un ossimoro {xapµa x,xL !x¾>oc;);identica è pure l'attenzione per gli effetti fisiopsichici e la tendenza a collegarli in coppie di opposti (piedi e mani, lingua e senno, tracotanza e sonno) 2 • Ignoriamo se. sia un presentimento di nuove frontiere espressive o semplice adesione a un modello: per saperlo occorrerebbe conoscere la data del frammento. Ciò che per ora interessa è la scarsa sensibilità dell'autore per gli effetti di relazione. La tracotanza è l'unico tratto che colloca l'ubriaco tra gli altri uomini: per il resto egli è considerato nella sua solitudine. Questo ripiegarsi su se stessi ha come controparte una più attenta considerazione del rapporto con gli dei: nel momento stesso in cui si accinge a dirne gli effetti negativi, l'autore premette che il vino è un dono di Dioniso. 2 Esempi illustri offre Saffo: ot µtv ... cp~i:CT' ••• !-yw 6t (fr. 16 L.P.); "El)O(;••. -ylvxw1.xpov••• ISl)1Ct-tov (fr. 130 L.P.); i disturbi nel

fr. 31 L.P. (v. Quaderni Urbinati 8, 1969, p. 59 sgg.).

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Abbiamo, dunque, una situazione ben delineata. Da una parte l'atteggiamento dell'epos omerico: la larga disponibilità di vino, come di grano, nelle case signorili ha offuscato del tutto la sua valenza sacrale; il suo uso è regolato dall'ethos di gruppo; il trasgressore paga con il suo prestigio. Dall'altra l'atteggiamento di Esiodo: il valore economico del vino, come del grano, e la loro precaria disponibilità rafforzano, nelle Opere (614) il loro valore sacrale. Infine il luogo delle Eoiai (fr. 239 M.W.), come sviluppo non dell'atteggiamento signorile, ma di quello registrato da Esiodo: se la gioia che dà il vino è un dono di Dioniso, è suo dono anche il dolore che coglie chi ne abusa. All'autore non viene in mente che sta all'individuo non berne troppo. La concezione che egli ha dell'uomo è passiva: egli ne vede la debolezza di fronte al dio, anziché la responsabilità di fronte al gruppo. Per vedere integrate la concezione sociale e quella individuale del vino bisognerà attendere l'età del tardo arcaismo, quando la ristrutturazione sociale sarà un fatto quasi compiuto: portavoce ne sarà Anacreonte. Vino e poesia in Archiloco

Il silenzio su Dioniso fu un fatto esclusivo dell'epica eroica: di fronte ad Omero, che accenna appena al dio folle e alle Menadi, ma tace il dono del vino, stanno il diffuso racconto di Eumelo su Licurgo (fr. 10 Kinkel) e la particolareggiata narrazione, nelle Eoiai esiodee (frr. 130-133 M.W.), della follia che colse le Pretidi, in età da marito, per aver rifiutato i riti di Dioniso. La lirica ricordò soprattutto il dio del vino e speculò variamente sul potere della bevanda. Le differenti opinioni illuminano il carattere dei singoli poeti e le abitudini del loro ambiente: esse spiegano per quale via si giunse a concepire Dioniso come il dio dei nuovi tempi, capace di garantire un equilibrato rapporto tra società e individuo.

III.

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I frammenti di Tirteo e di Alcmane, che menzionano Dioniso o alludono al mondo dionisiaco, sono pochi e troppo mal ridotti, per cavarne più della generica indicazione che nell'aristocratica Sparta del VII sec. egli fu venerato dalle classi superiori 3 • Di gran lunga più significativo è il frammento in cui Archiloco si vanta di saper intonare il bel canto di Dioniso. Il contesto implica che egli sapesse comporre il ditirambo, quando il vino aveva folgorato il suo animo (fr. 77 D., 117T.): wç .ÀU.ùVVO"OI.'éiva.x'toç xa.À.ÒvÉ;&.p;m. µÉÀ.oç q>pÉva.ç. ot6a. 6d}vpa.µ~ovOLV~ 0"1J"(XEpa.uvw1"dç Perché so di Dioniso Signore intonare il bel canto, il ditirambo, quando il vino m'ha folgorato la mente.

La novità di questa concezione non va sottovalutata. Certo anche in Omero il vino era ispiratore di canti, ma in un senso notevolmente diverso. Dice Odisseo ad Eumeo (~ 463 sgg.): « il vino, folle, mi spinge, che fa cantare anche l'uomo più saggio e lo costringe a ridere di cuore e a danzare, e suscita parola che è meglio non detta ». Tra l'ispirazione che viene dalla Musa e il canto suscitato dal vino vi è in Omero una differenza sostanziale: come tra cosa sacra e profana. In Archiloco vi è identità: come la Musa ispira ogni altro canto, così il vino suscita il ditirambo, folgorando l'animo del poeta. La metafora presuppone il mito di Semele, assunta tra gli Olimpi dalla folgore di Zeus 4 ; e ha Tyrt. fr. 1 D., 10 Pr.; Alcm. frr. 7,14; 56; 63 P.: v. anche sopra, p. 43 sg. Dubbio il riferimento a Dioniso in Alcm. fr. 124 P.; utile, benché vago, il fr. 126 P. puytov auÀT]O"EµÉÀoc; -.ò KEp~rJO"Lov. 4 Come spiegherà Artemidoro (Onir. II 9, p. 94) chi è folgorato viene onorato come dio: immortale divenne appunto Semele, come canta Pindaro (Ol. II 25 sg.), perché folgorata da Zeus. Come il fulmine, anche il vino folgorando divinizza, rende i}Ei:oc; Archiloco nella stessa maniera in cui lo è l'aedo ispirato dalle Muse in Omero. 3

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radice nell'intuizione geniale, che ogni poesia è il prodotto di una istantanea illuminazione. Intorno ad essa, come intorno ad un asse, ruotano i vari elementi, espliciti o sottintesi e collegati tutti per analogia: (Musa) ispiraz. poeta canto

(Zeus) folgore (Semele) stato divino

A!.WVUO"O!.O Dioniso OLVClLCTl xev "Aq>ClLCT-rov li:y11v ~lq.. La protasi fu ricostruita da Wilamowitz, Hephaistos, 1895 = Kl. Schriften V 2, Berlin 1937, p. 7 sgg., in base al vaso François: « qualora avesse ricevuto in ricompensa Afrodite come sposa». 26 Et. Gen. B, p. 94 Miller; Et. Magnum 290,49 = Alc. fr. 349 e L.P. etç -rwv 6voxcit.6bwv, identificato da Lobel, AAK. MEAH, Oxford 1927, p. 53. Z7 Secondo una tradizione rifiutata già da Platone, Leg. II 672 b, Hera avrebbe fatto impazzire Dioniso. Sui rapporti tra le due divinità nel mito cfr. Jeanmaire, Dionysos, p. 198 sgg. 28 Treu, Alkaios2, p. 149 sg.; B. Snell, Festschrift E. Kapp, Hamburg 1958, p. 15 sgg. Allo stesso inno apparterrebbero, secondo Diehl, Et. Magnum 225,8 = Aie. fr. 9 b D. yf)...civ6' à.b&.vci-roL béoL; secondo Snell, schol. Horn. A 39 = Alc. fr. 381 L.P. 'Eppciq>tw-r',où ylip &vci;. 25

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esiste soltanto nell'immaginazione di alcuni: nello stesso poema eroico per eccellenza, nell'Iliade, Achille ed Ares sono odiosissimi ad Agamennone (A 176 sg.) e a Zeus (E 890 sg.) perché sempre hanno cara la contesa, le guerre e le battaglie. L'aristocratico Alceo continua a dichiarare bello morire in guerra (fr. 400 L.P.), ma poi guarda attonito i molti fratelli (di Paride) uccisi sui campi di Troia, le molte carcasse di carri nella polvere, i molti uomini calpestati e spenti (e ricorda come erano in vita: l'omerico iÀ.lxw1tEçriacquista fuori formula il suo spessore semantico): tanta desolazione a causa di una donna resa folle da Afrodite (fr. 283 L.P.). Questa sua commozione etica e fantastica è il segno di un atteggiamento, verso la guerra, complesso quanto in Omero. Ma vi è una differenza: dire che l'ebbrezza può più della forza è come proclamare che Dioniso è più forte di Ares. Omero aveva umiliato anch'egli Ares (E 846 sgg.): mai però fino a questo punto.

Il dio di Anacreonte In nessun poeta arcaico il nome di Dioniso ricorre con più frequenza che in Anacreonte: nessun altro l'ha concepito nella stessa maniera, non soltanto come signore del simposio ma anche come persuasore d'amore. Certamente il VI fu il secolo di Dioniso. A Corinto, Arione reinventava il ditirambo; a Sidone, Clistene assegnava al dio i cori tragici; ad Atene, Pisistrato organizzava le Grandi Dionisie e le gare drammatiche. Erano gli anni in cui il ditirambo si avviava a primeggiare ·tra tutti i canti corali come il vero erede dell'antica poesia eroica e mitologica. Anacreonte incontrò ovunque poeti che coltivavano il melos dionisiaco: alla corte di Ipparco incontrò o seppe di Laso, l'organizzatore dell'agone ditirambico ateniese, e del rivale di lui Simonide, cultore insigne e fortunato del ge-

I II.

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nere 29; ma già a Samo, alla corte di Policrate, conobbe o seppe di Ibico, che appunto in un ditirambo (fr. 296 P.) cantò dell'incontro di Elena con Menelao dopo la presa di Troia: Ibico s'era mosso a lungo nella tradizione stesicorea, e Stesicoro aveva riservato un posto non sporadico alle saghe dionisiache, ricantando sulla lira miti cari alla tradizione epica 30• Sono avvenimenti culturali che poterono certo influire su Anacreonte: né va dimenticato che Dioniso fu il dio archegeta della sua patria lontana, di Teo invasa dai Persiani, e che in nessun luogo la memoria delle cose perdute è più cara come nell'esilio 31• Si deve tuttavia convenire che queste circostanze possono spiegare la frequenza e lo spicco di Dioniso nei suoi versi, ma non il ruolo simbolico e programmatico che vi svolge. Perché è bene dirlo subito: Dioniso fu per lui un grande dio, ma fu soprattutto un grande simbolo. I suoi legami furono altri da quelli di Saffo con Afrodite: alla tremenda fiducia di Saffo, alla sua sacrale visione dell'amore, corrispose in Anacreonte un atteggiamento più riflesso e composto; un'attitudine a trascegliere laicamente, nella sfera dionisiaca, i valori più consoni al suo ideale di grazia e di raffinatezza. Dopo la cena, quando il pavimento della sala e le mani dei convitati erano di nuovo lindi, i fiori incoronavano il Anacreonte presso Ipparco: Ps. Plat. Hipparch. 228 c. Laso presso Ipparco: Herodt. VII 6,3. Laso e Simonide rivali: Aristoph. Vesp. 1410 sg., cfr. Privitera, Laso, p. 86 sgg. 30 Su Anacreonte a Samo e sull'influenza di Stesicoro su lbico dr. C. M. Bowra, Greek Lyric Poetry, Oxford 2 1961, pp. 272 sgg., 242 sgg. Il fr. 296 P. di Ibico è un ditirambo per schol. Eur. Andr. 631. Sulle saghe dionisiache in Stesicoro v. sopra, p. 86 sg. 31 V. sopra, p. 35 sg. n. 43. Teo fu invasa dai Persiani di Arpago intorno al 545 a.C.; gli esuli, tra cui Anacreonte, colonizzarono Abdera: dr. Herodt. I 168; Strab. XIV 1,30; W. Ruge, R.E. IX (1934) s.v. Teos, col. 545. 29

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loro capo e il servitore recava la coppa di mirra; il cratere traboccava di vino, dolce e odoroso, e nel mezzo fumava l'incenso; l'acqua fresca, dolce e pura, era pronta insieme a biondi pani, formaggio e miele; l'altare in mezzo era colmo di fiori, e canto e gioia invadevano la casa; in quei momenti, di cui Senofane (fr. 1 D.) ha colto la solennità negli oggetti e nei gesti, suggerendo con essi il sentimento sospeso di un'aspettazione e di un rito; in quei momenti, la prospettiva dei rapporti soleva perdere il suo rigore; un più vivace senso di solidarietà correva tra i partecipanti; il singolo rivelava ai compagni la sua indole; e il gruppo, guidato dal canto, si distaccava dal quotidiano e trasferiva in un tempo mitico. Questo costume, dai molteplici aspetti rituali, non aveva subito incrinature, in Grecia, da Omero ad Anacreonte: le aveva, invece, subite la società di cui era espressione. Il simposio era perciò diventato, durante il VI secolo, un . luogo di riflessione e un'occasione per verificare i vecchi valori e proporne di nuovi. Appunto nel simposio Senofane predicò di invocare dagli dei solo il successo nella rettitu. dine, di assentire all'uomo che si propone la virtù e di ripudiare come inutili le bellicose favole antiche. Il rifiuto del mondo mitico ed eroico segna la distanza percorsa in meno di un secolo. Il mito appare come una favola inutile, perché non è più sentito come modello dell'oggi: l'esperienza che il presente è profondamente diverso dal passato ha prodotto una frattura tra il tempo ciclico e il lineare. Senofane lo afferma esplicitamente (fr. 16 D.): « non furono gli dei a mostrare tutto fin dai primordi ai mortali; ma essi col tempo, cercando, vanno trovando di meglio » 32• 32

È superfluo ricordare che per Senofane gli dei e le azioni attri-

buite ad essi da Omero e da Esiodo erano pura invenzione (fr. 10 D.). La memoria che egli loda ha come oggetto, anziché le lotte mitiche e politiche, qualcosa di utile (fr. 1,20 sgg. D.): come ha scritto

II I.

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Riproporre nel simposio, come modelli, una concezione del mondo e un sistema di valori propri della classe cavalleresca, non avrebbe avuto più senso nella seconda metà del VI secolo: perché l'interlocutore era mutato e perché l'aristocrazia non era più la protagonista della vita cittadina. Dinanzi al veloce sgretolarsi della compagine tradizionale, i tiranni tentarono una restaurazione, su basi nuove, della coesione culturale: organizzando feste ed agoni, rivalutando tradizioni indigene e invitando poeti e intellettuali; i quali, nei simposi di corte, cantarono le loro odi e intrecciarono i loro discorsi, consapevoli di rivolgersi non soltanto ai loro ospiti, ma alla intera cittadinanza. Non diversamente da Senofane, anche Anacreonte rifiutò i valori eroici e l'epica che li celebrava: non li rifiutò in nome della sophia, ma di un interiore equilibrio, che si manifesta gioiosamente nel canto, nell'amore e nella compostezza simposiaca (fr. 56 G.): « non mi piace chi bevendo presso il cratere ricolmo narra la mischia e la guerra lacrimosa, ma chi canta l'amabile gioia unendo insieme i bei doni delle Muse e di Afrodite ». Affermazioni come queste suggerirono la schematica triade « vino, amore e canto » divulgata banalmente dalle Anacreontiche: ma basta ricollocarle nel momento storico e nel contesto biografico per coglierne il significato più profondo. Il VI secolo - come è noto - vide la lotta di individui, famiglie e classi sociali, il tramonto di antichi gruppi di potere e il sorgere di una nuova ricchezza; vide la violenza esplodere, spazzare un ordine antico e minacciare la stessa sostanza umana del tessuto sociale. Anacreonte ebbe in sorte di vivere ben addentro in questi sconvolgimenti: sperimentò l'esodo dei concittadini da Teo minacciata dai Persiani, l'esilio di Abdera e la logorante difesa contro i H. Frankel, Wege und Formen fruhgriechischen Denkens, Miinchen 2 1960, p. 341, « er war der erste Grieche, der die Idee des Fortschritts, in klarster Formulierung, aussprach ». 8

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Traci; visse alla corte di tiranni che fondavano il loro potere sulla persecuzione della parte avversa; assistette, circa cinquantenne, alla fine ignominiosa di Policrate (522 a.C.) e, pochi anni dopo, all'uccisione del suo nuovo ospite Ipparco (514 a.C.) 33. Ha radice anche in queste esperienze la sua convinzione che la misura e l'urbanità sono l'unica regola efficace dell'umana convivenza. Alla sophia polemicamente inarcata di un Senofane, preferl il potere suasivo della charis; al risentimento morale, il solvente del humour e dell'ironia 34 • Non fu disimpegno, scetticismo e distacco, ma fede in un ideale di cortesia, perseguito a tutti i livelli e proposto nel simposio, perché fosse fruito dai cittadini che nella corte del principe scorgevano un paradigma. Questo rapporto speculare tra simposio e società è delineato con sufficiente chiarezza nei frammenti: la mitezza e la temperanza sono fondamento sia dell'amore (egli ama Megiste perché è mite, e odia chi ha un carattere cupo e selvatico) 35, sia del convivio (non bisogna bere tra urla e strepiti come gli Sciti) 36, sia infine della vita politica di una città (fr. 348 P., 1 G.): Ti supplico, cacciatrice di cervi, bionda figlia di Zeus, di selvagge fiere, o Artemide, signora, tu che ora sulle correnti del Leteo una città di uomini forti lieta proteggi: perché di cittadini sei guida non immiti. 33

Bowra, Gr. Lyr. Poetry2, p. 269 sgg.: sulla collocazione cronologica dei frammenti e sui rapporti di Anacreonte con l'ambiente e il suo tempo. 34 Per una suggestiva caratterizzazione della personalità di Anacreonte si legga B. Gentili, Anacreon, Romae 1958, p. IX sgg. (p. XIII sgg. sulle implicazioni etiche della sua musa erotica e simposiaca e sull'importanza della componente dionisiaca). 35 Anacr. fr. 416 P., 99 G. 36 Anacr. fr. 356 b P., 33 G.

III.

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Mitezza non significa codardia: i Magneti hanno animo forte e Artemide non li domina, ma li protegge e guida lietamente, perché non sono selvaggi. L'opposizione non è scevra di una sua politica allusività 37 : una popolazione greca non la si può governare come una torma di fiere; che equivale in tutto all'esortazione a bere civilmente e non schiamazzando come barbari. L'analogia fra i tre livelli, erotico, simposiaco e civile, non sfuggi agli antichi: è di Massimo di Tiro (XXXVII 5 f, p. 432 Hob.) l'osservazione che Anacreonte ingentill la tirannide di Policrate con il fascino della sua poesia d'amore. Di questo mondo, fondato sulla temperanza e atteggiato secondo la charis e la habrotes, Dioniso doveva quasi necessariamente diventare l'arbitro e l'espressione simbolica, egli che era parso « amabile » già a Saffo (fr. 17 L.P.). L'originalità di Anacreonte è nel rigore con cui ha ridotto gli aspetti orgiastici difformi dal suo ideale fino a conciliarli con la temp~ranza 38• Ma ancora più originale la sua associazione del dio con Eros e Afrodite e il ruolo che gli ha assegnato di p~rsuasore d'amore. In Saffo, in Mimnermo o in Ibico, che pure subl a Samo l'influenza di Anacreonte, Dioniso non compare mai accanto ad Eros e Afrodite. Lo stesso Anacreonte nel papi37

A Magnesia dominava il satrapo Oroites e Policrate aveva mire sulla città (Herodt. III 123): Bowra, Gr. Lyr. Poetry2,p. 273 sg. pensa che sia stata questa l'occasione dell'ode. Ma il suo significato più vero è nell'opposizione tra due modi di governare: quello del despota che doma e l'altro della guida che protegge; l'uno necessario con le fiere e l'altro adatto a ci~tadini. 38 L'ossimoro wc; avu~plcr"'t'wc; (cod. liv ù~pLCT"'t't.Wc; corr. Pauw) avù. 611~-rE~acrcr«PTJCTW è programmatico (fr. 356 a P., 33 G.): il verbo denota il folleggiare delle Menadi o Bassaridi (fr. 411 b P., 32 G. ALovucroucravÀ.aLBacrcrapl6Ec;).La mediazione è osata tra termini estremi.

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raceo fr. 346/ 4 P., 65 G., sembra concepire Dioniso come un alleato contro l'amore: _ xa]>..t~, 6' l1tvxi:a.l1.~9[v vvv 6'] a.voptw ,:e xa.vaxu1ti:w, _vv ]. 4> 1tOÀ.À.i}v ocpellw ,:i} ]v xa.pw !xcpvywv "Epwi:a, àEU]VVO"E,1tct'V'ta.1tctO'I. 6eaµ[ WV ,:w]y XctÀ.E1tW'V 61.' 'Acppo6l'tTl[V. _ v] cptp01.l;t!v otvov /iyye[ 1. _v] cptp01.6' fJ6w[ p] ~a.cp~[ a~ov, xat] 6è xalt01. [ .. ]w[ _] xa.p1.ç, /ip,:[1.o]ç 6[v-~

Con fatica facevo a pugni. Ora respiro e quasi risorgo, ... molto debbo esser grato per aver fuggito Amore, o Dioniso, lungi ormai dai legami gravi per colpa di Afrodite .... porti il vino con l'anfora ... porti l'acqua bollente, e chiami..... .la grazia, adatto ... 39•

Il poeta ( se è lui la persona loquens) esprime a Dioniso la sua gratitudine per essere sfuggito ad Eros. L'immagìne iniziale ricorre anche nel fr. 396 P., 38 G., dove egli vuole gli si porti acqua vino e corone per « fare a pugni » con Eros. La differenza tra le due situazioni è apparente: in ambedue Anacreonte lotta con l'aiuto di Dioniso: egli sa, come poi Deianira (Soph. Trach. 441 sgg.), che sperare di vincere Eros con le proprie forze sarebbe da folli. Questa alternativa tra vino e amore, questa antitesi tra Dioniso ed Eros, contrasta apparentemente con la preghiera a Dioniso del fr. 357 P., 14 G.: O Signore, con cui Eros che doma e le Ninfe dagli occhi cerulei e la purpurea Afrodite 39

Testo e traduz. di Gentili (comm. a p. 202 sgg. della sua ediz.): incerto Dioniso a v. 5 (Page, ad frg. « omnia incertissima»). Il vino è comunque antitetico ad Eros nel fr . .386 P., 38 G., di cui appresso.

III.

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giocano insieme - tu abiti le cime alte dei monti ti supplico! benevolo vieni tu a noi e la mia preghiera ascolta, gradita: a Cleobulo sii buon consigliere, ch'egli accolga il mio amore, o Dioniso.

Ma a chi ben guardi, le due situazioni non sono affatto antitetiche, ma soltanto complementari. In questo caso Dioniso deve indurre Cleobulo a riamare, nel precedente aiuta il poeta a liberarsi di un amore non corrisposto. Ambedue le volte egli opera alla stessa maniera: scioglie la rete in cui è incappato l'innamorato o la resistenza opposta dal1'amato. Per ottenere l'uno e l'altro scopo Saffo pregava non Dioniso, ma Afrodite nella prima ode: « scioglimi dai gravi tormenti e quello che il mio cuore brama, compilo». Come Afrodite, anche Dioniso è in grado di liberare da un amore infelice o di far innamorare l'amato: la novità non è nella bivalenza del suo potere, ma nella sfera in cui si esplica, che è quella propria di Eros. Anacreonte ha qui sviluppato l'antica esperienza che il vino vince e dissolve: la sua concezione di Dioniso come liberatore e persuasore d,amore poggia su una fitta impalcatura di analogie tra il vino e l'amore, intrecciata con tale signorile sicurezza da rendere impossibile una puntuale identificazione dei suoi elementi. Alcuni sono tuttavia recuperabili. La comparazione mostra che nell'età arcaica talune caratterizzazioni, che sono parse scoperte spirituali e che furono conquiste espressive, furono ottenute per mezzo di trasposizioni analogiche: constatata l'omologia tra due segni iscritti in due costellazioni semantiche diverse, si speculò sulla possibilità di attribuire all'uno lo stesso corredo di relazioni dell'altro. Un esempio è l'analogia tra vino e canto in Archiloco. Per lo stesso motivo, perché causa anch,esso di oblioso godimento, si accostò l'amore al vino; ma con una sintoma-

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tica polarizzazione (negativo-positivo) invalsa con Esiodo e perseguita strenuamente dalla lirica: si ricordino le Muse esiodee (Th. 27 sg.) che sanno cose false e vere; il Dioniso esiodeo (fr. 239 M.W.) che è gioia e dolore; l'Eros di Saffo (fr. 130 L.P.) che è dolce e amaro. A) Vino e amore di segno negativo: a) il troppo vino lega con ceppi invisibili ( 6ut. ..• 6Eo-µoi:c; àcppaa--roun)piedi e mani, lingua e mente (Hes. fr. 239 M.W.; cfr. Alc. fr. 358 L.P.). b) l'amore non corrisposto è una rete senza scampo (à1ttlpova 6lx-rucx.)apprestata da Afrodite (lbyc. fr. 287 P.); è un nodo di ceppi gravosi ( 6ta-µwv ... xaÀE1twv, Anacr. fr. 346/ 4 P., 65 G.). B) Vino e amore di segno positivo: a) il vino, bevuto misuratamente, disperde gli affanni ( rt7t0tx"t'Evaw 6' l-yw (fr. 150 Sn.); si definisce µav"t'w cui non sfuggono i chiari segni (fr. 75, 13 Sn; v. sotto, p. 128). Si legga ora il cap. « The theory of Poetry » di C. M. Bowra, Pindar, Oxford 1964, p. 1 sgg. 50

51

III.

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La festa dionisiaca degli Olimpi è un messaggio: chi ne ha avuto la visione e sa intenderne il senso è in grado di iniziare un nuovo tipo di canto; perché sa che « anche » gli Olimpi soggiacciono al dio, e conosce « come » lo celebrano; sa della sua universale potenza, ed ha esperienza mitica degli effetti di questa potenza. Dopo O. Schroeder è costume citare a confronto il proemio della Pitica I 52• Diversamente da Dioniso, che desta ed eccita, la musica di Apollo assopisce e infonde una calma profonda: la folgore si smorza, l'aquila dorme sullo scettro di Zeus, Ares si rasserena colto da sopore. L'opposizione è scoperta e puntuale, ma non estensibile. Sarebbe un grave errore voler capire come Pindaro concepl Dioniso rovesciando la sua concezione di Apollo: premettendo un segno negativo ai valori della serie apollinea non si ottengono affatto quelli dionisiaci. Per Pindaro, come per i contemporanei, Dioniso non fu il contrario di Apollo: non significò disordine, dismi-, sura, tenebra, sordità poetica e musicale. Il suo culto a Delfi accanto ad Apollo indica complementarità 53• L'opposizione è orizzontale, non verticale: non elide, ma integra taluni aspetti fondamentali della realtà. Occorre tener salda questa 52

O. Schroeder, Pindars Pythien, Leipzig-Berlin 1922, pp. 4, 116 sg. 53 A Delfi, al tempo di Plutarco (De E ap. Delph. 389 c), erano dedicati a Dioniso i mesi invernali. Poiché l'inno omerico ad Apollo e il tempio degli Alcmeonidi ignorano il dio (il frontone occidentale gli fu dedicato nel IV sec. a.C.: cfr. Paus. X 19,4; F. Schober, R.E. Supplb. V, 1931, s.v. Delphoi, col. 116 sgg., specialm. coll. 120, 126 sgg.) l'equiparazione non risalirà oltre il VI sec.: comunque al tempo di Pindaro era ormai avvenuta, cfr. Aesch. fr. 86 Mette ò xura-Evç 'A1t6ÀÀwv,ò ~axx(E)L{ o0'}6µav·tLç; Eur. fr. 477 N2 • OÉO'TCO't'CXcpi).66acpvEBa.xxE, 1tauìv "A1toÀÀovEvÀvpE.Contro la tesi che Dioniso fosse a Delfi più antico dello stesso Apollo, cfr. P. Amandry, La mantique apollinienne à Delphes, Paris 1950, p. 196 sgg.; Defradas, Thèmes, p. 116 sgg.

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distinzione per capire la fede di Pindaro in Apollo e il suo entusiasmo per Dioniso. Noi non abbiamo motivo di credere a Wilamowitz quando afferma, a proposito della festa dionisiaca degli Olimpi: « Pindaro ~a anche rappresentare questa ebbrezza ... ma il suo cuore appartiene alla calma, alla 'Ha-vxltx e 'Apµovltx » 54• Wilamowitz propone un'alternativa psicologica ed etica che risente, suo malgrado, di un'opposizione troppo schematica e storicamente improbabile tra apollineo e dionisiaco: nessuna meraviglia se poi si legge in Schmid-Stahlin che questo dio fu per Pindaro « senza profonda importanza » 55• La realtà è notevolmente diversa. Pindaro avrebbe potuto evitare di comporre ditirambi, e invece ne scrisse due libri; avrebbe potuto concepirli come Bacchilide, e invece li volle dionisiaci: sia a livello tecnico-stilistico e dei contenuti, sia soprattutto a livello dell'ispirazione. Del mondo dionisiaco egli ha colto le manifestazioni essenziali e la legge che le governa. Ha colto il gioioso frastuono, la vitalità tumultuosa e guizzante, l'impeto incoercibile che anima le cose e gli esseri e ne esalta la natura più intima. Promovendo - con un'accorta rotazione della prospettiva - gli oggetti a protagonisti (i timpani e i crotali, le fiaccole e il fulmine, la lancia e l'egida) ha dato la misura della partecipazione totale: per virtù e in onore di Dioniso persino le cose inanimate sembrano animarsi e vivere di vita propria. Egli ha contemplato la scena con stupore. La successione rigorosamente paratattica dei periodi, introdotti anaforicamente da Év, richiama le movenze di una descrizione famosa di Saffo, quella del giardino nell'ostracon Florentinum 56• I contenuti caratterizzano diversamente la StimWilamowitz, Pind. 2 p. 344. 55 W. Schmid - O. Stiihlin, Geschichte Miinchen 1929, p. 578. 56 Sapph. fr. 2 L.P. 54

der gr. Literatur I, 1,

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mung, ma il rapporto del poeta col suo oggetto è identico: è un rapporto di contemplazione. È significativo che Pindaro abbia voluto richiamare la sua poetica e proclamarsi eletto delle Muse proprio in questo ditirambo e dopo aver descritto questa sua visione. In che senso egli è « araldo di sagge parole », di che .cosa ha avuto la rivelazione, se non della legge del dio? E che cosa essa esige, se non il libero dispiegamento dell'impulso vitale, senza che si travalichi il limite della propria natura? Rombano i timpani, i crotali crepitano, la fiaccola brucia, le Naiadi folleggiano, il fulmine spira fuoco, la lancia si agita, le serpi dell'egida sibilano, e Artemide avanza, sola come di consueto, con una torma di leoni che folleggiano anch'essi: esseri e oggetti manifestano pienamente se stessi. Ecco il modo di festeggiare degnamente Dioniso: manifestando pienamente se stessi. Non diversamente il poeta comporrà dei canti veramente dionisiaci se realizzerà le norme proprie del genere, e tra di esse quell'una che è comune a tutti i frammenti ditirambici di Pindaro: l'entusiasmo, tanto più puro quanto è più nitida e rigorosa la rappresentazione dell'energia latente nelle cose e negli esseri, nel momento in cui erompe e si rivela nella sua pienezza epifanica. Per Pindaro il rapporto tra poeta e ditirambo è come · tra Dioniso e le cose: come il dio in tutti gli esseri, così il poeta infonde nel canto l'entusiasmo dionisiaco. Solo che l'entusiasmo non è nel poeta: la soluzione dell'apparente aporia è perfettamente coerente con la concezione mistica che Pindaro ebbe dell'aedo quale interprete di visioni per grazia delle Muse. Nel Ditirambo II egli vede e interpreta la festa senza, ovviamente, parteciparvi ed essere a sua volta invasato: la vede e interpreta per grazia delle Muse che hanno destinato lui ad annunziarla agli Elleni. I valori di questo paradigma ritornano identici nel ditirambo per gli Ateniesi, l'altro di cui sia sopravvissuto un ampio frammento

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dell'inizio (fr. 75 + 83 Sn.). Pindaro vede la primavera fiorire e come un indovino (µa.v'tt.~)ne interpreta i segni: Guardate, Olimpi, al mio coro, largitegli l'inclita grazia, o dei che venite a questo centro della città frequentato e odoroso, nella sacra Atene, a questa agorà famosa e ricca di arte, per ricevervi 57 corone di viole e canti primaverili. Guardate me, che per volere di Zeus avanzo secondo, con lo splendore dei canti, verso il dio cinto d'edera (noi mortali lo chiamiamo Bromio, lo chiamiamo Eriboa) cantando il figlio di un padre supremo e di una donna cadmea. I segni evidenti non m'eludono in qualità d'indovino 58 quando - schiusasi la dimora delle Ore vestite di porpora germogli di nettare portano la primavera odorosa. Allora sulla terra immortale, allora si gettano ciocche amabili di viole, le rose si mischiano ai capelli, echeggiano voci di canti con gli auloi e i cori avanzano verso la diademata Semele.

La primavera è la stagione di Dioniso: al suo avvento, come nel proemio di Lucrezio all'avvento di Venere, la natura schiude i suoi germogli, pervasa da impeto inarrestabile. Compito del poeta è di esprimere questa ebbrezza che è nelle cose. I frammenti provano che a Pindaro riusci di realizzare questa sua poetica: i suoi ditirambi hanno un impeto gioioso, un pathos estatico ignoto agli epinici. Il ritmo sintattico è accellerato dalla fitta successione dei periodi, variamente brevi, allineati paratatticamente e collegati 57 Al

v. 6 « per ricevervi » traduce Àa.XE~vdi Usener (Àa.XELF, À«XE'tE cett. accolto da Snell). 58 Al v. 13 leggo con B. A. Groningen, Mnemosyne 8, 1955, p. 192 Éva.pyta. 't' lµ' Cl'tE (vEµÉw PE, VEµÉa. MV, 'tEµE 'tE F) µa.v-tt.v ov Àa.vi>a.vEL:con « segni evidenti » traduco tva.pyta.

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melodicamente e/o visivamente dalle anafore, dalle allitterazioni, dalla disposizione stessa dei membri. La struttura dei singoli segmenti è cangiante, l'aggettivazione spesso essenziale, le immagini rapide. Ogniqualvolta hanno attinenza con i sensi (soprattutto con la vista e l'udito, ma anche con l'olfatto) gli elementi tematici sono insistiti ossessivamente. Il movimento, i colori e la gamma turbinosa dei suoni nel Ditirambo II (danze tumultuose, fiaccole, fulmine che spira fuoco, rombi, crepitii, gemiti urlati, grida gioiose e fischiare di serpi), la penetrante vivezza dei colori e degli odori primaverili nel ditirambo per gli Ateniesi (germogli di nettare, rose e viole tra i capelli, intrecciate in corone, profuse a ciocche per terra), concorrono a ricreare quello stato di esaltazione che fa percepire gli oggetti più intensamente, sino allo stordimento allucinato ed estatico. Senza scivolare nel mimetismo descrittivo e senza infrangere gli stilemi della tradizione arcaica, Pindaro ha esplorato ed espresso una zona ineffabile dell'esperienza. Dioniso fu per Pindaro un grande dio, non meno di Apollo caro al suo cuore. Fu il dio della vitalità prorompente e gioiosa (Dith. II = fr. 70 b Sn.), colui che ispira la natura e la spinge a produrre i suoi fiori a primavera (fr. 75 Sn.) e i suoi frutti in autunno (fr. 153 Sn. « possa Dioniso accrescere il dono degli alberi, egli che dà tante gioie, sacra luce dell'autunno » ). Fu il dio che « scioglie il vincolo delle gravose afflizioni» (fr. 248 Sn.), colui che ha dato agli uomini, col suo frutto, « un vitale rimedio contro l'umana miseria » (Pae. IV = fr. 52 d, 25 sg. Sn.), lo stesso cantato da Alceo come regolatore dell'equilibrio esistenziale, il dio che nei simposi affratella e guida i commensali al di là del loro stato, verso i lidi dorati dell'illusione (fr. 124 a b Sn.): Trasibulo, questo carro di amabili canti a te l'invio, per dopo cena. Sia in comune un dolce pungolo ai commensali e al frutto di Dioniso ed alle coppe venute d'Atene. 9

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G. Aurelio Privitera Quando le afflizioni che prostrano gli uomini scompaiono via dal petto, indistintamente noi tutti navighiamo in un mare di dorata ricchezza verso una sponda illusoria. Allora il povero è ricco e i ricchi a loro volta eleveranno l'animo, saettati dall'arco vitineo.

A questo punto è inutile chiedersi - tanto ovvia è la risposta - come mai l'aristocratico poeta tebano, il difensore della tradizione ellenica, il devoto di Apollo e di Delfi 59 , poté concepire per Dioniso sentimenti di cosl vivo entusiasmo. Poté concepirli, perché Dioniso non era considerato affatto un dio delle plebi, recente e barbarico~: non lo era stato in passato e non lo fu certo al tempo di Pindaro, quando la stessa Delfi riconosceva e sosteneva il suo culto 61 • A chi lo consideri nel suo tempo, l'entusiasmo di Pindaro anziché inatteso apparirà come un atteggiamento scon~ tato. Coloro che lo hanno minimizzato, in nome delle sue convinzioni aristocratiche, non hanno compreso che proprio queste convinzioni lo esigono e spiegano: ad essi è sfuggito l'esempio dell'aristocratico Alceo, che già un secolo prima e nella periferica Lesbo aveva cantato l'Apollo di Delfi e la potenza liberatrice di Dioniso. 59

Deludente G. Nebel, Pindar und die Delphik, Stuttgart 1961. Più utile G. Méautis, Pindare le dorien, Neuchatel-Paris 1962, p. 23 sgg., il quale - come già J. Duchemin, Pindare poète et prophète, Paris 1955, p. 102 sg. - inclina a rivalutare l'importanza di Dioniso in Pindaro (p. 457 sgg.). (,o Fino a Pindaro nessun testo parla cosl di Dioniso. A declassarlo sono stati gli studiosi che hanno teorizzato la sua origine tracia, frigia e lidia. Sarebbe interessante scoprire donde traggono la convinzione che i Greci dei secoli precedenti considerassero Traci, Frigi e Lidi come popoli di cultura inferiore. In proposito consiglia prudenza lo studio di H. Schwabl, « Das Bild der fremden Welt bei den friihen Griechen », Grecs et Barbares, Vandoevres-Genève 1961, p. 3 sgg. 61 H. W. Parke -D. E. W. Wormell, The Delphic oracle I, Oxford 1956, p. 330 sgg.

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Laso e la melica dionisiaca fino a Bacchilide

Per capire nei suoi molteplici aspetti le idee di Pindaro sul ditirambo, occorrerebbe conoscere le vicende della melica dionisiaca tra gli ultimi decenni del VI sec. e i primi del V. Nelle condizioni attuali, senza un solo frammento dei ditirambi di Laso e di Simonide, qualunque discorso comporterà sempre un margine di genericità. L'esame dei luoghi di Aristosseno, di Clearco e di Dionisio di Alicarnasso che parlano del sigma nella melopea e/o dell'asigmatismo, dimostrano che Pindaro quando biasima, nel Ditirambo Il, il san che « prima usciva falso agli uomini di bocca» non intende affatto - come si è soliti credere schierarsi contro o a favore di Laso 62• In realtà, l'unica coincidenza tra i due, a proposito della sibilante, fu il comune fastidio per la disfonia del suono nel canto: Laso, anziché risolverla, tentò di reclamizzarla escludendo il sigma da alcune sue odi; Pindaro convenne con Laso che la disfonia era intollerabile e accolse, lodandola, la diversa pronunzia invalsa ai suoi tempi. Ovviamente, da un accenno come il suo non si può dedurre, come gli antichi biografi 63, che egli fu discepolo di Laso; e neanche, con alcuni moderni 64, che volle censurare lo stile del maestro: oltre tutto, nulla autorizza ad identificare col ditirambo di Laso l'ode che « prima strisciava rigida come una corda ». L'antica tradizione biografica ha senso in generale e a livello storico-culturale soltanto. Certamente Pindaro imparò dai poeti e musicisti del tempo, e tra essi anche da Laso 65: 62

G. A. Privitera, « L'asigmatismo di Laso e di Pindaro in Clearco fr. 88 Wehrli », Riv. cult. class. mediev. 6, 1964, p. 164 sgg. 63 Vita Thom. in Schol. Pind. I, p. 4, 12 sgg. Dr.; Eustath. Prooem. in schol. Pind. IH, p. 2%, 17 sgg.; p. 300, 1 sg. Dr. 64 e.g. Wilamowitz, Pind.2 p. 342; più prudente Pickard-Cambridge, Dith. Trag. Com.2 p. 24. 65 Discepolo di Agatocle o di Apollodoro: Vita Ambros. in Schol. Pind. I, p. 1, 12 Dr.; Eustath. Prooem. in schol. Pind. III, p. 300, 2

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ma aver condiviso qualche posizione dell'uno o dell'altro non significa che le condivise tutte. In un passo del De musica (1141 c), di derivazione quasi sicuramente aristossenica, Ps. Plutarco informa che Laso usò i ritmi tipici del ditirambo anche in altre odi ed ispirò la sua musica citarodica al polifonismo usuale nell'auletica. Nelle sue linee essenziali la notizia è degna di fede 66: l'accenno polemico di Fratina (fr. 708 P.) testimonia che tra VI e V secolo la musica auletica aveva acquistato realmente un ruolo inconsueto: che Laso l'abbia presa a modello delle sue composizioni citarodiche, è cosa del tutto credibile. Egli sarebbe stato, dunque, un precursore di quella corrente musicale, affermatasi con i ditirambografi del V secolo, sulla quale illumina Platone in un passo famoso delle Leggi (III, 700 be): prima - egli dice - non era permesso usare arbitrariamente una melodia al posto di un'altra; in seguito sorsero alcuni poeti, provvisti senza dubbio di talento, ma che non capivano nulla di leggi e di regole, i quali, presi da bacchica frenesia e guidati più del giusto dal puro piacere, mescolando threni a inni e peani a ditirambi e imitando l'aulodia nella citarodia, rovinarono la musica, non per cattiva volontà ma per ignoranza. È appunto contro questa tendenza a spogliare i vari generi della loro identità, che Pindaro intese reagire: egli volle restaurare e spiegare un costume antico, dicendo perché ogni canto deve avere una sua distinta fisionomia, perché e come debba essere dionisiaco il ditirambo, quale sia la sua destinazione e funzione, quale la sua origine storica e mitica. La sua posizione era nuova nella misura in cui lo è ogni restaurazione quando non si limita a copiare il passato, ma lo reinterpreta e lo propone consapevolmente come interlocutore ancora valido del presente. Dr. Discepolo addirittura di Simonide: Vita Thom. in Schol. Pind. I, p. 7, 13 Dr.; Eustath. Prooem. in schol. Pind. III, p. 297, 13 Dr. 66 Privitera, Laso, p. 73 sgg.

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egli dice nel & . 128 c Sn. - i peani per i figli di Latona dalla conocchia d'oro, e vi sono anche i canti che ispirano il ditirambo di Dioniso fiorente di corone d'edera». Il legame con l'uno o con l'altro dio ha una radice sacrale che sarebbe empietà disattendere. Il canto è un modo di nominare il dio e di invocarlo: Dithyrambos è nome sacro 67 e deriva (attraverso 61.MpuµfxL?) da lO~ ~liµµti « sciogli i punti», l'ingiunzione gridata da Zeus quando il feto cucito nella sua coscia fu maturo (frr. 85+86 Sn.). La sua prima destinazione fu cultuale: il ditirambo era il canto che accompagnavail bue al sacrificio (« dove apparvero le Grazie col canto di Dioniso, col ditirambo che spinge il bue? », Ol. XIII 18 sg.). La sua invenzione è collocabile (storicamente) a Corinto (ib.), ma (miticamente) anche a Tebe o a Nasso (schol. Ol. XIII 25 c): il ditirambo, in realtà, nacque dove si svolse la storia sacra del dio. La matrice religiosa di queste speculazioni è evidente: secondo Pindaro il ditirambo apparteneva alla sfera del sacro e doveva essere continuato secondo le antiche norme, rispettando il principio fondamentale della pertinenza. Si iscrive in questa cornice la sua convinzione che il poeta debba esprimere nel ditirambo l'entusiasmo che Dioniso infonde nelle cose e negli esseri, senza esserne egli stesso travolto: ai suoi occhi, come agli occhi poi di Platone, chi - come Laso tentava di attuare nella citarodia gli effetti cromatici e/ o enarmonici possibili nell'auletica agiva come se fosse stato in preda a un delirio 68• « Vi sono nella loro stagione -

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Prat. fr. 708,1.5 P.; Eur. Bacch. .526 sgg. Si legga anche Dionisio di Alicarnasso, De comp. verb. 19, p. 8.5 sg. U.R.: i seguaci di Filosseno, Timoteo e Teleste usavano nella stessa ode armonie diverse, dorica e frigia e lidia; passavano dal genere enarmonico al cromatico e al diatonico; trattavano i ritmi o v -i,~); con piena libertà (xa.-ià ~o>..ì.:i1vcl6,t.t1v lv,; 1.o u ,sa.~ invece anticamente aveva un ordine anche il ditirambo (~pa. 'YI -ioi'ç apxa.lo1.~"tE't'tX.'Yµtvor; iiv ml 6 61.tvpcxµ~or;).Dionisio alludeva 68

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Difendendo il ditirambo severo, Pindaro ne testimonia implicitamente l'antichità. Non diversamente Fratina (fr. 708 P.), una generazione prima, aveva rivendicato al proprio coro, che era accompagnato dalla cetra e cantava in armonia dorica, il diritto di inneggiare a Dioniso in concorrenza con un coro aulodico. Il canto di Fratina non era probabilmente un ditirambo 69 : ma qualunque cosa fosse, assicura che l'armonia e lo strumento ritenuti più tipicamente ellenici dall'aristocrazia e da tutta la tradizione storico-musicale, furono protagonisti della mousiké dionisiaca, forse prima ancora dell'armonia frigia e dell'aulos. Del resto, non è un caso che uno studioso di questi problemi, come H. Koller 70, abbia sostenuto che il ditirambo più antico fosse citarodico e che appunto per questo ne siano stati ritenuti inventori Arione di Metimna, tra i citarodi del suo tempo secondo a nessuno (Herodt. I 23 ), e Laso di Ermione, che sulla cetra tentò le prime innovazioni (Suda s.v. Aiio'oc;). Si giunge così, anche per questa via, alla conclusione ormai solita, che l'incompatibilità tra religione dionisiaca e aristocrazia, causa presunta dell'assenza del dio nei poemi omerici, non trova nelle testimonianze nessun solido e serio fondamento. Ma la battaglia di Pindaro non si esaurì nell'ambito dell'ethos musicale e stilistico: ad abolire l'identità del ditirambo contribuiva, ai suoi tempi, l'assenza sempre più frequente e completa di ogni riferimento dionisiaco. Sappiamo troppo poco della storia del « genere » per stabilire quando e perché la tendenza ebbe inizio. Di Laso, a parte l'inizio di un inno a Demetra (fr. 702 P.) non ci è conservato nulla: l'ode I centauri (fr. 704 P.) può essere stata un ditirambo, ma fu giudicata spuria già certo al ditirambo difeso da Pindaro come il solo antico e ortodosso. 69 F. Stoessl, R.E. XXII (1954) s.v. Pratinas, col. 1725 sgg. 70 H. Koller, Glotta 40, 1962, p. 183 sgg.; Musik und Dichtung im alten Griechenland, Bern-Miinchen 1963, p. 142 sgg.

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dagli Alessandrini 71• Poco più sappiamo di Simonicte. Egli stesso informa sulla sua 56a vittoria (fr. 79 D.), e di un'altra (o della stessa) ottenuta a 80 anni (fr. 77 D., del 476 a.C.). Di una produzione così vasta restano un titolo sicuro, Memnone (fr. 539 P.), e due possibili (la possibilità dipende dalla convinzione che ogni ode fornita di un titolo sia stata un ditirambo): Europa (fr. 562 P.), che parve un ditirambo già a Bergk 72, e Ka."t'Euxa.l(fr. 537 P.: Preces? Dirae ac devotiones? Propemptica?), in cui si narrava una storia connessa con Dioniso, quella delle Oinotropoi, le figlie di Anio che avevano ricevuto dal dio la facoltà di produrre a volontà vino, grano e olio 73• La mancanza di ogni riferimento notevole nei frammenti melici e negli epigrammi (148+88, nelle edizioni di Page + Bergk) non autorizzano a concludere che Dioniso gli fosse indifferente: a vietarlo è l'epigramma 148 B., per la vittoria di Antigene, sinceramente ed entusiasticamente dionisiaco nello stile e nei contenuti. La conclusione di Pickard-Cambridge 74, che il ditirambo di Simonide oltre a cantare un mito o una saga eroica accennava al dio« at some point in the poem » è credibile anche se non dimostrabile. Con Bacchilide si esce dal regno delle ombre e si entra in quello dei problemi. I quali poi tutti si riducono ad uno solo, che qui maggiormente interessa: le odi XV-XXSn., che il sillybos del Papiro Londinese indica come Dithyramboi, furono considerati tali dal poeta o dagli Alessandrini? Che equivale all'altro: fu Bacchilide a comporre ditirambi che ignoravano Dioniso? oppure furono gli Alessandrini ad attribuirglieli, riunendo sotto questo titolo anche odi di genere diverso? 71

Athen. X 455 b e; Privitera, Laso, p. 31 sg. Th. Bergk, Poetae Lyrici Graeci Hl, Lipsiae 1914, p. 399: Orazio l'avrebbe imitato in Carm. III 27. 73 G. Herzog-Hauser, R.E. XVII (1937) s.v. Oinotropoi, col. 2276 sgg. 74 Pickard-Cambridge, Dith. Trag. Com. 2 p. 17. 72

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Decidere nell'un senso o nell'altro è senza dubbio difficile: gli editori hanno qualche ragione a lasciare insoluta la questione evitando di rispondere in modo netto 75• Occorre tuttavia convenire che le apparenze sono a favore della prima ipotesi piuttosto che della seconda. Gli Alessandrini non avevano alcun motivo di classificare tra i ditirambi odi, come I giovani o Teseo di Bacchilide CXVII Sn.), che avrebbero potuto collocare tranquillamente tra i peani: la loro edizione distingueva infatti chiaramente tra i vari generi, perché comprendeva, oltre gli epinici e i ditirambi, anche inni peani prosodi parteni iporchemi ed encomi. Se ordinarono in un modo, piuttosto che in un altro, una ragione ci fu e va scoperta, o almeno ipotizzata. È noto che già nell'antichità erano sorti dei dubbi se considerare le odi del locrese Senocrito, un poeta più antico di Stesicoro, come peani o ditirambi. La questione, che è riferita da Ps. Plutarco (De mus. 1134 e), era derivata dal fatto che egli era poeta di saghe eroiche (T)pw~xwv ù~oittCTEwv ~payµa."ta. txovawv) e rimonta probabilmente fino al V sec., come lasciano credere due circostanze: 1) subito dopo, Ps. Plutarco cita come sua fonte, a proposito della cronologia di Senocrito, Glauco di Reggio, che operò verso la fine del V secolo; 2) Platone nella Repubblica (III 394 c) assicura che ai suoi tempi si intendeva per ditirambo un'ode in cui il poeta, anziché rappresentare i fatti, li narrava semplicemente egli stesso. Ma qualunque data si voglia immaginare, è comunque chiaro che i peani di Senocrito non dovevano essere molto diversi dai ditirambi di Bacchilide e del V secolo, di quelli 75

In B. Snell, Bacchylides, Lipsiae 1958, pp. 46*, 48*, 50*, l'incertezza diventa contraddizione sul luogo in cui il XVII fu cantato: a Delo (come peana) o alle Dionisie ateniesi {come ditirambo?). Per gli editori precedenti l'ode non era un vero ditirambo (F. G. Kenyon, Oxford 1897, p. 157 sg.) ma un peana (R. C. Jebb, Cambridge 1905, p. 223).

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cioè che Platone aveva in mente quando proponeva la partizione triadica della poesia in mimetica, come nel dramma; espositiva, come soprattutto nel ditirambo; e mista, come nell'epos. La circostanza può essere interpretata in due maniere: o nelle odi senocritee mancava ogni riferimento ad Apollo; oppure vi era, ma non bastava a caratterizzarle come peani. Occorre tener presente questa antica ambiguità per capire la polemica di Aristarco contro Callimaco a proposito cli un'ode di Bacchilide, che l'uno classificò come ditirambo perché narrava una storia, quella di Cassandra (fr. ** 23 Sn.), contro l'altro che l'aveva creduta un peana perché vi ricorreva l'efimnio ié tipico di quel canto 76 • Il caso della XVII ode di Bacchilide è identico. Essa non è capitata per caso tra i ditirambi, ma in base ad un criterio preciso, che è quello appunto di Aristarco. Gli studiosi che la ritengono un peana, perché finisce con l'invocazione ad Apollo, si comportano esattamente come Callimaco. Essi hanno dedotto dall'invocazione il genere letterario, anziché - come sarebbe stato più prudente - il destinatario della festa. In realtà l'ode XVII è l'esempio più antico di una tradizione testimoniata in numerose epigrafi dal 286 al 172 a.C.: la tradizione delia di organizzare cori (ditirambici) di giovani non soltanto alle Dionisie ma anche alle Apollonie 77• Appunto perché è un ditirambo l'ode narra di Teseo: il quale non aveva a che vedere con i Cei che l'avrebbero cantata, sì invece con Dioniso - tramite Ariadne - e con Delo. Ma d'altra parte, poiché è destinata ad una festa per Apollo, essa finisce con l'invocazione di questo dio e non di Dioniso 78• 16

Pap. Oxy. 2368; dr. Privitera, Laso, p. 28 sg. I.G. XI 2, 105-133; A. Brink, Inscriptiones Graecae ad choregiam pertinentes, Diss. Halle 1885-86, p. 187 sgg. Sulle due feste dr. Nilsson, Gr. Feste, pp. 144 sgg., 280 sgg. Sui ditirambi per Apollo, Pickard-Cambridge, Dith. Trag. Com.2 p. 3 sg. 78 Chiaro e lineare O. Werner, Simonides. Bakchylides. Gedichte, Miinchen 1969, p. 151: « Dass die Jugend (appena vede emergere 71

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Sarebbe un'imprudenza opporre che le iscrizioni sono d'età ellenistica: gare ditirambiche per Apollo sono testimoniate ad Atene fin dal V secolo, alle Targelie 79; esecuzioni ditirambiche sono sicure a Delo al tempo di Simonide, che per una festa nell'isola compose anch'egli un ditirambo, il Memnone (fr. 539 P.). Del resto, perché considerare la XVII ode come un caso limite? La XVI è dedicata anch'essa ad Apollo ed è un ditirambo 80; la XVIII può essere stata cantata essa pure in una festa apollinea, le Targelie, istituite secondo la tradizione da Teseo 81• Occorre convincersi una volta per tutte che l'indicazione del sillybos è corretta e che è corretto il metodo di Aristarco: il quale non giudicava anacronisticamente, ma come lo stesso Bacchilide. Contro questa disponibilità, che comprometteva la fisionomia dei vari canti e scardinava l'antica tradizione, Pindaro insorse col suo ditirambo dionisiaco. La sua posizione non fu diversa da quella degli aedi più antichi: i quali evitarono di mescolare i contenuti ed esclusero Dioniso dall'epos eroico non perché ignoto o inviso, ma perché altri erano i canti in cui il suo mito doveva essere più correttamente cantato. Inviso all'aristocrazia non fu il dio, ma la sua intrusione nella poesia non dionisiaca: ne è prova il comportamento dello stesso Pindaro, così entusiasta nei ditirambi, ma così attento ad ignorarlo in tutte le altre odi, ad eccezione di quei pochi epinici destinati a committenti tebani o legati per stirpe alla patria di Semele. Teseo dal mare) vor Freude einen Paian anstimmt, gibt dem Dichter Anlass zur Ausrufung Apollons, zu dessen Ehre der Dithyrambos von den Keern gesungen wird ». Su Ariadne, Teseo e i loro rapporti con Dioniso cfr. Studi Urbinati 39, 1965, p. 206 sgg. 79 Pickard-Cambridge, Dith. Trag. Com.2 p. 3 sg. 80 Non ne dubita neanche Snell, p. 48* dell'edizione, che opportunamente cita A. von Blumenthal, R.E. XVIII (1942) s.v. Paian, col. 2351, a proposito dei ditirambi per Apollo Pizio. 81 Jebb, p. 234 dell'edizione; Pickard-Cambridge, Dith. Trag. 2 Com • p. 28 sg.

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I pericoli intravisti da Pindaro furono presto confermati dall'evoluzione del genere in senso spettacolare, da cultuale che era all'origine: la sua disponibilità ne estenuò le caratteristiche e indeboll la fisionomia al punto che già con Bacchilide si configurava come pura narrazione di una saga eroica, come un canto che ignorava Dioniso o Io nominava soltanto secondariamente. E questo è tanto più significativo, se si riflette che Bacchilide sentl cordialmente il fascino del dio e cantò il vino, nell'encomio ad Alessandro figlio di Aminta, con entusiasmo non minore di Pindaro, associandolo - come Anacreonte - ad Afrodite 82: ... voglio inviare un'aurea piuma delle Muse ad Alessandro e un ornamento ai suoi simposi nelle eicadi quando la dolce violenza delle rapide coppe scalda l'animo delicato dei giovani, e infiamma i sensi la speranza di Cipride commista ai doni di Dioniso. Manda in alto agli uomini i pensieri: scioglie subito le mura alle città, ad ogni uomo par d'essere un monarca. D'oro e d'avorio risplendono le case, colme di grano sul mare scintillante portano le navi ricchezze immense dall'Egitto: cosl esalta il cuore di chi beve. 82

Bacchyl. fr. *20B Sn., vv. 3-16. L'imitazione da Pindaro è negata da B. Gentili, Bacchilide, Urbino 1958, p. 115 sgg., che invece sottolinea l'influenza di Anacreonte: l'accostamento Afrodite-Dioniso convalida ulteriormente la sua prospettiva. Tralascio di trattare la silloge teognidea che nomina il dio soltanto a v. 976, per dire che una volta morti non si possono più godere la musica e « i doni di Dioniso». Tanto silenzio, in versi che cantano cosi frequentemente il vino, è pari soltanto a quello di Omero: e come quello sarebbe sintomatico di una certa tradizione, se potessimo essere sicuri di quanto la silloge tramandi od escluda della produzione autentica di Teognide.

IV. CONCLUSIONE

Dinanzi ad affermazioni come quelle di Wilamowitz e di tanti, che Dioniso fosse estraneo alle classi aristocratiche, apparirà evidente, da quanto s'è venuto dicendo, che le testimonianze non giustificano, per la loro stessa frammentarietà, una convinzione tanto recisa; ma anzi suggeriscono, con maggiore legittimità, conclusioni diametralmente diverse. Che a Pilo micenea e nella Lesbo dei secoli bui il dio fosse venerato anche dai Signori, risulta con sufficiente chiarezza dalle tavolette in lineare B (PY Xa 102, Xb 1419) e dalle testimonianze di Alceo (fr. 129 L.P.) e di Saffo (fr. 17 L.P.). Che fosse un dio comune a tutto il popolo, è chiaro a Lesbo e si deduce dalle Antesterie ateniesi e dal suo culto come Aisymnetes a Patrai: le date mancano, ma la struttura dei riti non è affatto recente. Che il favore dei tiranni non implichi un carattere esclusivamente o prevalentemente popolare del suo culto, è confermato dal comportamento dell'aristocrazia spartana quale appare dalle menzioni di Tirteo (fr. 1 D., 10 Pr.) e soprattutto di Alcmane (frr. 7,56,63 P.). In queste condizioni continuare a ripetere che il dio manchi da Omero perché inviso alla classe cavalleresca, diventa addirittura grottesco. La sua assenza dai poemi non significa tout court assenza da qualunque epos, e soprattutto non significa che gli aristocratici non volessero sentir cantare le sue gesta e i suoi pathe. La sua menzione nell'Iliade, in Eumelo e in Esiodo, e la posizione del nome nell'esametro, dimostrano che già precedentemente esistette una poesia dionisiaca di fattura simile a quella epica e come essa destinata alle classi signorili. Speculare ulteriormente sulle sue forme sarebbe ozioso: è lecito comunque supporre che prooimia come gli inni omerici possono, già allora, aver cantato Dio-

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niso in forma diffusa. In proposito è istruttivo l'inno a Demetra, che ha ormai l'aspetto di un piccolo epos autonomo, canta una divinità anch'essa assente da Omero e risale, attraverso l'attuale redazione del VII secolo, ad un modello molto più antico 1• A loro volta gli accenni dei Lirici confermano i risultati raggiunti attraverso l'esame del materiale mitografico, eortologico, storico e letterario. Di tutte le testimonianze la più esplicita e significativa è quella di Pindaro, il quale difende e teorizza i valori di una tradizione cara alle classi aristocratiche e a quanti, come poi Damone e Platone, scorsero nella mousiké il veicolo e l'espressione di un ordine individuale, sociale e politico: del resto non è neanche un caso che Pindaro e Damone siano detti ambedue discepoli di Agatocle 2 • Questa tradizione non era affatto ostile a Dioniso: soltanto, prescriveva che fosse celebrato nei canti a lui destinati e lo escludeva dagli altri che non fossero adatti, per la loro stessa natura, ad esprimere compiutamente l'ethos dionisiaco. A questo principio si ispirò anche Omero, e si ispirarono Alceo, Teognide e Pindaro. Omero lo menzionò episodicamente nel passo su Licurgo (Z 130-40), Alceo ne cantò la potenza in un inno (fr. 349 L.P.): ambedue però lo trascurarono, le molte volte in cui cantarono le lodi del vino. Un'eccezione è il carme alcaico a Melanippo (fr. 38 L.P.), ma è un'eccezione che conferma la regola. L'aristocrazia lesbia del VII-VI secolo non era più quella per cui Omero cantava: quell'ordine era stato distrutto e il turbamento aveva investito, oltre quella politica, la sfera sociale e individuale. È in questa situazione di emergenza che il dio della crisi controllata, colui che la suscita e regola, spezza i con1

R. Bohme, Orpheus. Das Alter des Kitharoden, Berlin 1953, p. 61 sgg. (attesa per il 1970 è una edizione ampliata, Orpheus. Der Sanger und seine Zeit). 2 Pindaro direttamente (Schol. Pind. I, p. 1,11 sg. Dr.), Damone tramite Lamprocle (schol. Plat. Aie. I 118 e).

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Conclusione

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fini tra i generi poetici e appare nel canto come il liberatore dalla dura necessità, come il restauratore di una infranta totalità, come il solo capace di restituire l'equilibrio esistenziale e di reinserire il singolo nel gruppo. Coerente con questi medesimi principi è il silenzio della silloge teognidea, dalla quale Dioniso è assente malgrado le molte speculazioni sul vino 3 : l'atteggiamento, che può essere stato dello stesso Teognide, equivale ad un cieco e caparbio rifiuto della crisi che aveva investito i valori aristocratici e dilagava già nella sfera poetica, dissolvendo celermente la fisionomia tradizionale dei canti. Lo stesso Pindaro, che cantò entusiasticamente Dioniso nei ditirambi, lo nomina poi di rado negli epinici e per ragioni solamente patriottiche: un'eccezione è il carme per Trasibulo (fr. 124 ab Sn.), ma come l'ode alcaica per Melanippo è un'eccezione del tutto apparente. Rispetto a questa linea di comportamento, tradizionale e aristocratica, un'altra se ne sviluppò, più sensibile alle nuove istame etiche e sociali ed alla crisi dell'antico ordinamento 3

Ecco alcuni motivi sui quali la silloge teognidea insiste di più (è indicato solo il primo verso): ambivalenza del vino 211, 509, 873; rimedio contro gli affanni 879; effetti negativi 497, 501; vino e verità 499; vino e menzogna 643; vino e misura 841; galateo del vino 467, 627, 989; pietas e vino 757; carpe diem 1047; vino e canto 533; vino d'estate 1039. Vale la pena insistere sulle valenze religiose dei vv. 757-768: dopo aver augurato che Zeus protegga la città e che Apollo ispiri saggi pensieri, l'autore invita al canto e alle libagioni rituali; ad amabili discorsi e a considerare serenamente la guerra coi Medi; a comportarsi saggiamente e con animo lieto, allontanando il pensiero della vecchiaia e della morte. Questo stesso accostamento del vino e della morte, come aspetti antitetici, ritorna nei vv. 973-978, dove ricorre, semel! la formula doni di Dioniso. Viene in mente il fr. 346 L.P. di Alceo, dove il giorno che muore riinveste il vino dei suoi valori sacrali e lo fa apparire come un dono di Dioniso destinato a far obliare gli affanni. I due luoghi teognidei sono un pallido riflesso e una conferma che Dioniso era sentito da questa società come il dio che nei momenti critici dissolve col vino l'angoscia esistenziale.

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politico; più incline a superare i confini tra i generi poetici, pur di esprimere adeguatamente i nuovi contenuti; disposta a celebrare Dioniso al di fuori dei canti suoi propri. È perfettamente naturale che la poesia teogonica e catalogica esiodea e di ispirazione esiodea speculasse sugli effetti negativi del troppo vino (fr. 239 M.W.), accennasse a Semele e Dioniso (Th. 940 sgg.) o a Dioniso e Ariadne (Th. 947 sgg.); ricordasse la saga delle Pretidi (fr. 131 M.W.) e proclamasse discendente di Dioniso, attraverso Oinopion, quell'Euanthes che nell'Odissea (1. 197) è padre del sacerdote di Apollo, Marone, da cui ebbe il vino Odissea (fr. 238 M.W.). È naturale perché era questa, insieme a quella proemiale, la poesia in cui gli aedi celebravano le imprese degli altri dei e di Dioniso. Meno naturale la perifrasi « doni del gioioso Dioniso » con cui Esiodo indica il vino in un poema che non canta imprese di dei: la definizione non scandalizza perché è inserita in un contesto, come le Opere (613 sg.), vibrante di sentimento religioso e agitato da istanze etiche vivissime. Ma non per questo è lecito dimenticare che tale contesto è nuovo e rappresenta un segno di rottura; che è lontano dai moduli dell'epos sia eroico che teologico; e che grida ed esprime la crisi dei valori propri di quelle due sfere. La conquista di questa apertura espressiva ebbe effetti di lungo avvenire: iniziò allora, tra VIII e VII secolo, quell'atteggiamento, rispetto ai contenuti, che condusse alla loro libera mescolanza. Già Eumelo, nella stessa Europia in cui narrava di Licurgo e Dioniso (fr. 10 Kinkel), combinava, come nei Korinthiaka, storie di dei e di eroi per illustrare i tempi favolosi di Tebe e della sua patria Corinto 4 • Ma ancora più significativo è il caso dei Kypria che indirettamente, attraverso le Oinotropoi, imparentavano Dioniso con Apollo e lo inseri4

Huxley, Gr. Ep. Poetry, p. 60 sgg.

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vano addirittura nell'impresa troiana (fr. 17 Kinkel): Stafilo, figlio di Dioniso, generò Rhoi6 che si unl con Apollo; appena lo seppe il padre gettò in mare la ragazza in una cassa; ma essa giunse in Eubea e generò Anio, che Apollo portò a Delo e che ebbe da Dorippe tre figlie, le Oinotropoi Oin6 Sperm6 ed Elafs, alle quali Dioniso concesse di produrre a volontà vino grano e olio; ad Agamennone che navigava verso Troia, Anio predisse che avrebbero preso la città al decimo anno e lo invitò a rimanere presso di lui, per gli altri nove, promettendo che le figlie avrebbero nutrito l'esercito; (Agamennone non l'ascoltò), ma quando l'esercito fu preso dalla fame in Troade, inviò Palamede per condurre le Oinotropoi, le quali nutrirono l'esercito (e resero possibile la vittoria). È inutile stare a discutere se i Kypria siano o no posteriori all'Iliade. Ciò che importa è questa nuova apertura, che permette l'inclusione di saghe dionisiache non, genericamente, nell'epos eroico, ma nello stesso ciclo troiano. In questa prospettiva non meraviglierà più, ma apparirà come una conferma dei nuovi orientamenti, l'inserimento di accenni dionisiaci negli st~ssi poemi omerici (S 325, À 325, w 74 sg.); non meraviglierà lo spicco e il ruolo inusitato cli Dioniso in un poeta, come Anacreonte, vissuto in tempi e in ambienti scossi dalla crisi violenta che generò le tirannidi; non meraviglierà, infine, l'indifferenza di Bacchilide sull'opportunità di trascurare o ricordare Dioniso 5• La linea che attraverso Teognide e Alceo lega Pindaro a Omero, avrà un nuovo interprete nell'aristocratico Platone, il quale la trasfigurerà genialmente, sollecitato da eventi culturali più recenti e da interessi speculativi originali, in una dottrina generale della mousiké e del suo ruolo nella formazione dell'individuo e nell'organizzazione della società Lo trascura nei ditirambi, eccetto nel XIX (v. 48 sgg.), ma lo nomina negli epinici (frr. 9,98; 14 A, 5 Sn.). 5

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e dello Stato 6 • L'argomento supera i limiti di questo studio: ma non parrà fuori luogo, a conferma di quanto s'è detto, ricordare le parole da lui dettate negli ultimi anni di vita. All'inizio del II libro delle Leggi, l'Ateniese afferma che è compito dell'educatore orientare rettamente le prime sensazioni del bambino, il piacere e il dolore, in modo che egli ami oppure odi ciò che merita di essere amato o odiato. Ma siccome col passare degli anni l'educazione negli uomini si fiacca e corrompe, allora « gli dei - ed è questo il passo ( 65 3 c d) che interessa - pietosi del genere umano votato al dolore, istituirono come tregua dei loro travagli l'alternarsi delle feste per le divinità e come compagni di festa diedero ad essi le Muse, con Apollo Musagete, e Dioniso, affinché gli uomini ne fossero guidati e la loro educazione, durante il divertimento, fosse corretta per virtù divina». A Platone sono perfettamente chiari i livelli temporali che scandiscono alternamente la vita umana: il tempo storico e lineare del mutamento, e il tempo mitico e ciclico dell'identità. Il quotidiano e il festivo, nelle rispettive e antitetiche valenze profana e sacra, si configurano ai suoi occhi come un'opposizione di imperfetto e perfetto: nel suo vivere quotidiano l'uomo deteriora certe attitudini fondamentali che occorre restaurare e che vengono periodicamente restaurate nelle occasioni festive, per mezzo della choreia, la danza e il canto corale che è fondamento della retta edu. caz1one. È superfluo sottolineare l'importanza di questa concezione nella visione che Platone ha dello Stato. Ciò che interessa, ai nostri fini, è il ruolo che vi riveste Dioniso. La sua posizione, accanto alle Muse ed Apollo, non soltanto è pienamente paritetica, ma è assolutamente priva di quella polarità, a cui siamo abituati dal tempo di F. Nietzsche fino a E. Moutsopoulos, La musique dans l'reuvre de Platon, Paris 1959, pp. 198-226 e passim. 6

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W. F. Otto, tra apollineo e dionisiaco, tra olimpico e dionisiaco 7 • Dioniso indirizza anch'egli come educatore, dà egli pure agli uomini il senso del ritmo e dell'armonia, guida anch'egli i loro cori, non meno delle Muse e di Apollo. La sfera d'azione è unica e comporta dei momenti non antitetici, ma distinti e complementari. Secondo l'Ateniese, tutti i cittadini dovrebbero essere organizzati in cori, secondo l'età: prima dei trenta anni in cori di fanciulli e di giovani, sotto il patrocinio rispettivamente delle Muse e di Apollo; dai trenta ai sessanta in cori di adulti, sotto il patrocinio di Dioniso ( 664 c sgg.). Fanciulli e giovani - egli osserva - non hanno bisogno di essere stimolati: la loro tendenza al movimento e alla parola è incoercibile, la loro capacità di apprendere è pronta e viva, il loro entusiasmo è ardente. Ne hanno bisogno invece gli adulti, nei quali queste attitudini con l'età progressivamente si offuscano: risvegliarle si può con il vino. La teoria di Platone è parsa paradossale. Si è tentato di spiegarla osservando che il dio barbarico aveva subito in Grecia un processo di incivilimento; si è utilizzata la contrapposizione tra il dio delle orge e del vino ( favolosamente trasmutata in una doppia origine, traco-frigia e lidia, da Nilsson) 8 per sottolineare che Platone ha in mente il secondo; sono stati richiamati, più opportunamente ma superficialmente, gli agoni ditirambici e drammatici, che senza dubbio legano il dio alla mousiké 9 • Ma non s'è tenuto conto della tradizione aristocratica arcaica, e non s'è capito che la concezione di Dioniso come ispiratore di poesia musica e 7

F. Nietzsche, Die Geburt der Tragodie, 1872; Otto, Dionysos3, p. 182 sgg. 8 M. P. Nilsson, The Minoan-Mycenaean Religion, Lund 2 1950, p. 567 sgg.; contra Jeanmaire, Dionysos, p. 213 sgg. 9 G. R. Morrow, Plato's Cretan City, Princeton N. J. 1960, pp. 315 sg., 441 sgg. f'. merito di Morrow aver evitato il silenzio dei più, trattando con cura del posto di Dioniso nelle Leggi.

1.50

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danza, e del vino come veicolo e stimolo dell'ispirazione e della vitalità originaria, impone una verifica delle nostre idee su Dioniso. Perché è chiaro che il dio delle Leggi non è stato inventato dal nulla. Noi sappiamo che Platone restaurava, razionalizzandoli, elementi della tradizione erosi o dissacrati durante il V secolo. Nel suo discorso ricorrono, diversamente motivati, molti principi che erano stati espressi tra VIII e V secolo. Il suo ragionamento sugli effetti del vino ( Leg. I 649), che sulle prime rende felici, alimenta le speranze, dà il senso illusorio della potenza, scioglie dal timore e fa dire e agire liberamente e senza paura, ha i suoi precedenti da Omero (; 462-66) a Pindaro (fr. 124 ab Sn.). La sua affermazione che il vino mette a nudo la natura vera dell'uomo (ib. ) era già stata di Alceo ( fr. 333 L.P.). Erano ormai dei topoi, è vero! ma avevano avuto origine e acquistato significato all'interno dei simposi aristocratici. La sua concezione del vino come rimedio largito da Dioniso contro la dura vecchiaia ( Leg. II 666 b) ha le stesse valenze religiose vive in Alceo (fr. 346 L.P.) ed esplicite in Teognide (757-68 + 973-78). L'equiparazione di Dioniso alle Muse (ib. 653 d) era stata osata da Archiloco ( implicitamente, nel fr. 77 D., 117 T.) oltre i limiti consentiti dalla tradizione. :8 altamente significativo che Platone non ricalchi Archiloco, ma si accosti a Pindaro ( frr. 7O b + 75 Sn. ) , il quale derivava dalle Muse il canto e da Dioniso quella incoercibile vitalità che della poesia dionisiaca doveva essere il tema: non diversamente Platone (ib. 665-666) assegna al dio il ruolo di restituire ai vecchi, col vino, quella vitalità che possa equipararli nella choreia ai fanciulli e ai giovani. L'imbarazzo degli studiosi dinanzi al Dioniso delle Leggi deriva, come in altri casi, dalla solita opinione che tra religione dionisiaca e Weltanschauung aristocratica vi sia stata in Grecia un'incompatibilità assoluta e perenne. I tempi sono più che maturi perché si estirpi questo inerte pregiudizio e si rimedino gli innumerevoli guasti che esso fino ad oggi ha prodotto.

INDICI

Indice dei nomi Sono omessi gli autori citati nell'Indice dei luoghi e i nomi di secondaria importanza.

Achille: nell'Aithiopis e in Omero, 84 sgg., 105, 110 Afrodite: in Anacreonte e nei Lirici, 110 sgg., 139; amori con Ares nell'Odissea, 45 sg.; nella Diomedia, 65 sgg. Agatocle, maestro di Pindaro, 131, 144 Agranie 16 sg., 98 Aisymnetes, aisymneteia 29, 33, 36 Alcmena: in Omero ed Esiodo, 82; in Pindaro, 121 sg. Alessandrini: poeti, 75, 77; grammatici, 135 Alessandro Polistore 51 Androzione 50 Antesterie 22 sgg., 41 sg., 103, 143 Apaturie 27 sgg. Apollo: in Alceo, 106; in Omero ,(E), 65 sgg.; in Pindaro, 125; in Platone accanto a Dioniso, 146; destinatario di ditirambi, 138; Musagete, 100, 148; Patroo, 28 Apollodoro, maestro di Pindaro, 131 Apollonie, festa a Delo, 137 Apollonio Rodio 77 Arato 77 Archilocheion 100 Ares: nell'Odissea, v. Afrodite; nella Diomedia, 65 sgg.; frequenza in Omero, 89; in Alceo, 108 sgg. Ariadne: nella Nekyia, 87 sg.; in Esiodo, 146; rapporti con Teseo, 137 sg.; Ariadne-Afrodite a Cipro, 119

Arione di Metimna 38 sg., 110, 134 Aristarco grammatico 72, 83, 85, 88, 137 sg. Aristofane grammatico 83, 87 Aristonico grammatico 65 Aristosseno 131 Arktinos di Mileto 84 Artemide: e le Pretidi, 17 sg.; e Dioniso, 34; e Ariadne, 87 sg.; in Anacreonte, 114 sg.; in Pindaro, 124, 127; a Patrai come Laphria, 31; come Triklaria, 29 sgg. Athena 40 sgg., 65 sgg.; Pallade, 122, 124; Poliada e Steniada a Trezene, 26 sg., 41 Basilinna, sposata da Dioniso alle Antesterie, 24 sgg., 41 Bellerofonte: in Omero (Z), 54, 64, 84; in Eumelo, 70 sgg. Boutes 14, 16, 18 sg. Cadmeidi, Cadmo 14, 44, 121 sgg. Cariti, Grazie 98, 119, 133 Cercope 88 Choreia, menade ad Argo, 16 sg. Clearco 131 Clistene, tiranno di Sidone, 36 sgg., 110 Damone 144 Delfi 38 sg., 52, 106, 125, 130 Delo 42, 137 sg. Demetra 93, 121, 124 Diomede: in Omero (E+Z), 53 sgg. Dione: in Omero (E), 66 sgg.; madre di Dioniso in Euripide, 119

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Indice dei nomi

Dionisie 22; nei demi, 27; cittadine, 418 sg., 110 Dionisio di Alicamasso 131 Dioniso, passim; Aisymnetes (Antheus, Aroeus, Mesateus) a Patrai, 29 sgg., 143; Br~ mio, 123, 128; 6nµ601.oç, 36; 6nµo't'Eì.:fiç, 35; Dithyrambos, 133; Diwonusojo, 20 sg.; Eriboa, 128; Kemelios, 34 sg.; Limneo, 22, 24; Melanaigis, 18; Melpomeno, Musagete, 98; 1ta:tp