Scrivere e leggere nella città antica 9788843095827

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Scrivere e leggere nella città antica
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Scrivere e leggere nella città antica Guglielmo Cavallo

Carocci editore

@ Frecce

Al ricordo, vivente, di Armando Petrucci

Guglielmo Cavallo

Scrivere e leggere nella città antica

Carocci editore

@ Frecce

1'

edizione, novembre 2.019 2.019 by Carocci editore S.p.A., Roma

© copyright

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Impaginazione: Luca Paternoster, Urbino Finito di stampare nel novembre da Eurolit, Roma

2.019

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/ caroccieditore www.twitter.com/ caroccieditore

Indice

Premessa

9

I.

Uccelli famelici ad Atene

2..

Alessandria, la vivisezione, le infinite genti

39

3.

Rischio di crolli a Roma

75

4.

Un treno per Ravenna

127

5.

Costantinopoli: l'occhio dell'universo

197

Bibliografia

263

Indice dei nomi antichi

301

Indice delle testimonianze scritte

309

Il

Premessa

Questo volume è il risultato di molti anni di ricerca. I temi trattati si possono ritrovare sparsi in studi, da me compiuti dallo scorcio del secolo scorso, inerenti a quel rapporto tra le culture scritte greca e latina nel mondo antico e tardoantico sempre dominante nei miei interessi scientifici: dagli alfabetismi alla cultura grafica riverberata nei diversi supporti, dalla storia del libro a quella dei testi, dalle pratiche di scrittura e di lettura alle fasce sociali implicate in queste in maniere e a livelli diversi. Quegli studi qui compaiono ripensati alla luce di bibliografia più recente e di un più ampio uso di materiali; e pur se talora ripresi, sono stati rielaborati in combinazioni diverse. Nuove, inoltre, sono impostazione e prospettiva, giacché le culture scritte greca e latina, all'incrocio tra geografia e storia, sono considerate in funzione di cinque città antiche - Atene, Alessandria, Roma, Ravenna, Costantinopoli - che nel mondo antico e tardoantico sono state capofila e simbolo delle due operazioni cardine di quelle culture, lo scrivere e il leggere, da cui tutto il resto discende. Da questa impostazione su cinque capitoli-città consegue che, in ciascuno, diversi sono i temi individuati e trattati, le interpretazioni di questi, le scansioni degli argomenti, il numero e l'estensione delle suddivisioni interne. Si tratta, insomma, di un volume che vuol essere lungi da una riproposizione di studi precedenti, i quali, pur quando a tratti compaiono sullo sfondo, sono stati "rinnovati" da una visione prospettica di "poli di attrazione" e di morfologie urbane specifiche, da nuove esperienze e scoperte, da discussioni con amici e scolari, da ben accette critiche su particolari aspetti. O almeno, hoc erat in votis. Se si è riusciti nell'intento o meno, giudicheranno i lettori. Qualche avvertenza. Per quanto concerne i titoli dei testi classici e medievali, questi sono dati in italiano quando così noti e adoperati nella tradizione scolastica e negli strumenti quotidiani della comunicazione sociale, mentre sono in latino (o in versione latina se greci) ove si trat-

IO

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTA ANTICA

ti di titoli o citati correntemente in tal modo o noti solo nella didattica superiore e nella ricerca specialistica. Nei casi in cui le citazioni dei testi classici e medievali sono tratte da una precisa edizione, il riferimento completo a quest'ultima è dato solo e limitatamente alla prima volta nelle note bibliografiche, né è ripetuto nella Bibliografia generale. I papiri sono citati - salvo rare eccezioni - secondo le regole della Checklist o/Editions of Greek, Latin, Demotic, and Coptic Papyri, Ostraca, and Tablets, http:// www.papyri.info/ docs/ checklist. Le traduzioni in italiano delle citazioni sia dai testi classici e medievali sia da bibliografia in lingua straniera, ove non diversamente segnalato, sono mie o da me riconsiderate. Non mi restano che i doverosi ringraziamenti, che devono iniziare dalle biblioteche e dalle istituzioni che hanno dato liberamente il consenso alla pubblicazione delle immagini del repertorio inserito nel volume. Quanto a colleghi, amici e scolari che mi hanno "dato una mano" in modi vari, ho molti debiti. Ho da ringraziare per interventi, suggerimenti, materiali di studio Fabio Acerbi, Andrea Augenti, Lidia Buono, Felice Costabile, Paola Degni,Jean-Luc Fournet, Tino Licht, Silvia Orlandi, Rosa Otranto, Marco Petoletti, Maria Teresa Rodriquez, Eugenio Russo, Lorenzo Sardone, Raffaele Savigni, Antonio Stramaglia, Kirsten Wallenwein. Devo un ringraziamento a Carolina Del Bufalo per libri e articoli procuratimi con grande sollecitudine e in modi diversi tramite i servizi bibliotecari del Dipartimento di Storia, culture, religioni della Sapienza-Università di Roma. Singoli capitoli sono stati letti "in anteprima" da Daniele Bianconi, Paolo Fioretti, Oronzo Pecere e Filippo Ronconi con profitto da parte mia: a loro la mia più sincera gratitudine. Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza la collaborazione continua, convinta, intelligente e affettuosa di Lucio Del Corso e Laura Lulli, che dunque ringrazio profondamente. Il volume è dedicato ad Armando Petrucci, giacché contiene in trasparenza la nostra vita di quotidiano, di didattica, di letture, di confronto di idee vissuta per molti anni insieme nella "stanza della paleografia" della Sapienza: ricordo di un'amicizia che per me è stata anche esaltante esperienza scientifica.

I

Uccelli famelici ad Atene

1. In un noto passo degli Uccelli (12.86-12.89) Aristofane mostra gli ateniesi che - al pari di volatili che al risveglio si gettano voraci sul cibo - di primo mattino calano tutti insieme sulle bancarelle di papiri nutrendosi là stesso di ... decreti, psephismata, vale a dire, fuor di metafora, leggendoli o facendoseli leggere. Lettura significa alfabetismo. E dunque il passo invita a riflettere su quale sia stata la diffusione sociale delle pratiche del leggere (e dello scrivere) nell'Atene classica, tra gli ultimi anni del VI e il IV secolo a.C. Come sempre quando si tratta di alfabetismo nelle società antiche, la questione si presenta complessa, giacché non si possono stabilire cifre o statistiche. È da tener conto, inoltre, del dato non solo quantitativo ma anche qualitativo dell'alfabetismo. La capacità degli individui di leggere e scrivere - o soltanto di una delle due pratiche - si dimostra in ogni epoca assai disomogenea, giacché può andare da un alfabetismo forte e letterato, quello che permette di leggere e capire anche testi complessi e magari di scriverne, a uno minimo, ai limiti del!' analfabetismo, passando attraverso una serie di gradi qualitativamente intermedi, che tendono ora più verso l'alto ora più verso il basso e perciò difficilmente classificabili. In una società che adopera strumenti della cultura scritta coesistono, insomma, più alfabetismi. Ne consegue che, quando si parla di diffusione dell'alfabetismo, il dato quantitativo - peraltro impossibile da determinare su basi statistiche per il mondo antico, come si è accennato - si dimostra insufficiente da solo ai fini di una ricostruzione attendibile. Non è un caso che, per superare l'impasse, si ricorre a definizioni preliminari di alfabetismo le quali, poiché diverse, influiscono di conseguenza altrettanto diversamente su valutazioni e risultati. Operazione particolarmente scorretta per l'età antica è altresì prendere a modello - come pure si è fatto - definizioni odierne di alfabetismo, non solo per la diversità di usi e funzioni di quest'ultimo in situazioni storico-sociali di epoche lontane, ma anche

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SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

FIGURA 3 Cassaforte per conservare o trasportare oggetti (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 73ol1). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

ciii e anche libri (FIG. 3). Il termine più frequente per indicarli è kibotion e la loro funzione di solito si desume dal contesto iconografico di riferimento. Si può vedere un significativo esemplare nella cassetta a pareti lisce e coperchio aperto ai piedi del giovane, un neaniskos alle soglie dell'efebia, immerso nella lettura di un libro-rotolo, qual è raffigurato su una stele funeraria conservata a Grottaferrata e assegnata a un arco di tempo tra il 410 e il 390 circa a.C. (FIG. 4). La stele è di grande interesse anche perché costituisce nell'ambito della scultura funeraria l'attestazione figurativa più antica di una lettura solitaria, privata, come dimostra la presenza, tutta domestica, del cane accucciato sotto il sedile del lettore. Di solito, invece, nei rilievi sepolcrali e nella statuaria della Grecia classica rotoli e cassette librarie sono associati a figure che vogliono rappresentare il "buon cittadino" con un suo ruolo intellettuale e politico nella vita della polis. È piuttosto la pittura vascolare che a quell'epoca mostra libri e scene di lettura individuale, solitaria, a con-

UCCELLI FAMELICI AD ATENE

19

FIGURA 4 Stele funeraria di un giovane lettore (Grottaferrata, Museo dell'Abbazia di San Nilo). Da Ghisellini (2.007, fìg. 1)

ferma che cominciavano a formarsi raccolte di libri destinaci alla lettura privata: si ricordi il giovane Eutidemo. Nelle rappresentazioni teatrali non mancano figure come quelle di Dioniso, che rievoca il piacere della lettura in solitudine dell'Andromeda di Euripide (Aristofane, Rane, 52-54), o del personaggio evocato in una frammentaria commedia, il quale si propone di leggere tra sé e sé l'Arte culinaria di Filosseno in un luogo appartato (Platone comico, Faone, fr. VII, 189, 1-4 K.-A.). È forse pure da ricordare, a proposito di lettura individuale e privata, una testimonianza di particolare interesse che si presta a una suggestiva, pur se ipotetica, interpretazione. Si tratta di un ostrakon graffito, il coccio di un piatto - rivenuto nell 'Agora di Atene ( inv. P 4899) e riferibile intorno alla fine del IV secolo a.C. - il quale contiene una frammentaria "lista di spesa" per acquisti da farsi al mercato: tra piatti e pagnotte vi è segnato anche un rotolo di papiro. È difficile dire

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

2.0

HGURA 5

Hydria con raffigurazione di una donna seduca che sta leggendo (Londra, Bri-

tish Museum,

E190).

Da CVA Londra, British Museum, 6,

III.

le., tav. 86, 3

a chi o per cosa potesse servire questo papiro, che tutto comunque lascia credere acquistato per uso privato come il resto della spesa: si poteva adoperarlo, infatti, come rotolo nel suo insieme o tagliarne parti per svariati impieghi. E tuttavia, se destinato ad accogliere un testo letterario o paraletterario, non si può escludere che questo vi fosse trascritto da un lettore a uso proprio. La pratica di acquistare rotoli di papiro non scritto da quanti volessero trascrivere da sé e a uso proprio certi testi non è sconosciuta all'Atene classica trovandosene, tra l'altro, testimonianza in Aristofane (Rane, 143-151). Insomma si è di fronte a una figura, quella del lettore-consumatore, che secoli più tardi, nel mondo greco-romano, avrà non poca fortuna. La pittura vascolare mostra numerose scene di lettura "a due" o "di gruppo", ove assai spesso a leggere è un solo personaggio mentre si svolge una recitazione o un'esibizione musicale cui gli altri assistono. In questi casi sembra trattarsi di una lettura simultanea all'ascolto: una situazione che richiama, sia pure alla lontana, l'uso odierno di leggere un libretto

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FIGURA 6 Dettaglio di un cratere con soggetti femminili (Monaco, Staacliche Ancikensammlungen, inv. 32.68; ricostruzione). Da Dubois-Maisonneuve (1817-34, tav. XLIII)

mentre si ascolta un'opera lirica. Queste scene di lettura sono caratterizzate da una massiccia presenza di donne, ma non mancano fanciulli, ed esse si configurano come intrattenimento all'interno di ambienti domestici. Quando, tuttavia, si vogliano mettere in relazione queste testimonianze indirette relative alla presenza del libro con le concrete pratiche di lettura, bisogna valutarne i limiti. In particolare, nelle scene vascolari che associano a cassette librarie, libri e letture numerose figure femminili - una volta escluse Muse, Sirene, Moire e altre donne mitiche o letterate - quella che emerge è una qualche istruzione nelle lettere, di certo limitata a poche fanciulle d'alto rango, la quale rientrava in una formazione che comprendeva musica e recitazione e in cui peraltro lo scrivere e il leggere forse avevano un ruolo secondario: non a caso vi compaiono talora anche tavolette, adoperate per il primo insegnamento/apprendimento dei segni grafici, o il quadro è spesso quello di una lettura femminile che viene effettuata per seguire una perfòrmance orale o musicale (FIG. 5). È quanto si desume anche da scene che associano esecuzione musicale e lettura e nelle quali sono rappresentate Muse, talora accompagnate da Apollo, o altre divinità femminili: scene che proiettano e ampliano in un universo mitico situazioni reali (FIG. 6). Dalle diverse testimonianze di lettura di testi letterari (o paraletterari) emerge che era praticata di certo una lettura a voce alta, la più diffusa e normale non soltanto nella Grecia classica ma nel corso di tutta l'antichità greco-romana; e anzi per lungo tempo si è ritenuto che la lettura sonora fosse l'unica in un'epoca in cui la scriptio continua, mancando di spazi tra le parole, ne avrebbe impedito una silenziosa. E invece anche questa modalità non mancava: pur se più rara, essa non era comunque ostacolata dalla mancanza di suddivisione delle parole e, del resto, è attestata dalle

2.2.

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

fonti. È da chiedersi perciò se può intendersi tacita o a fior di labbra la lettura individuale, solitaria, documentata da reperti archeologici e testi letterari. 4. Al V-IV secolo a.C. sono da riferire il primo insorgere di un commercio librario, il formarsi di biblioteche - si è già accennato - e la composizione di opere in prosa, soprattutto filosofiche e scientifiche, fondate in larga parte su letture libresche. Un commercio librario si desume da poche ma significative testimonianze: nelle fonti si incontrano, per esempio, le figure del bibliographos e del bibliopoles, il copista e il venditore di libri, ma forse senza una precisa distinzione di ruolo, o anche un personaggio che, nel frammento di una commedia di Eupoli, dà un appuntamento «lì dove sono in vendita libri» (fr. v, 32.7, 1 K.-A.): frammento riportato da Polluce (Ix, 47, ed. Bethe) che fa riferimento per la stessa epoca a bibliothekai nel senso di "banchi dei librai". Se già dal VI secolo a.C., dal tempo della tirannide di Pisistrato e dei pisistratidi, si possa parlare di un commercio librario in nuce, limitato ai poemi omerici, è difficile dire. L'ipotesi, infatti, è strettamente legata alla funzione - destinata a restare incerta - che si assegna alle statue dei cosiddetti "scribi dell'Acropoli", tre figure maschili fornite di supporti e strumenti scrittori, in cui si possono identificare bibliographoi addetti a una qualche produzione libraria ma senza che si possano escludere altre figure impegnate in operazioni di scrittura diverse (FIG. 7 ). A un commercio librario riporta anche la notizia che nell'orchestra dell'Agora si poteva comprare la Syngraphe del filosofo Anassagora per una dracma (Platone,Apologia, :z.6d-e). Dato il basso prezzo di vendita dell'opera, tanto più ove si pensi che questa doveva essere contenuta in due rotoli, la notizia è stata oggetto delle interpretazioni più diverse: si è pensato, tra l'altro, che si trattasse di copia di seconda mano o che per una dracma si potesse solo ascoltare la Syngraphe, letta dal bibliopoles davanti alla sua rivendita di libri, alla presenza di un piccolo uditorio. Comunque stiano le cose, non è dubbio che più fonti convergono nell'attestare nell'Agora dell'Atene classica un mercato di libri e, più latamente, di prodotti scritti. Passando alle biblioteche, alimentate nella più parte dei casi dal commercio librario, va osservato che esse inizialmente erano costituite di solito da non molti libri e solo private, appartenenti soprattutto a intellettuali e aristocratici facoltosi o riservate a seguaci di scuole filosofiche o mediche. Si ha notizia delle biblioteche di Alcibiade (Plutarco, Vita di Alcibiade, 7, 1-2.), di

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FIGURA 7

Statuetta di uno "scriba dell'Acropoli" (Atene, Museo dell'Acropoli, inv.

629). Da Payne, Young (1936, fig. II8, 3)

Euclide, arconte ateniese nel 403-402, e di Euripide (Ateneo, 1, 3a). Anche il meno famoso Eutidemo cercava di possedere quanti più libri fosse possibile ... ; e c'erano alcuni maestri di scuola che erano in possesso almeno dei libri omerici. A proposito della biblioteca di Euripide, tragediografo ritenuto "libresco", questi, secondo Eschilo, dai libri spremeva «succo di chiacchiere», ma al di là di tal maliziosa battuta inscenata da Aristofane (Rane, 943), si può essere certi che nella collezione di libri euripidea « avranno avuto un posto di rilievo "edizioni" librarie di tragedie e, forse, anche di commedie». È anzi da credere, più in generale, che «i singoli drammaturghi[ ... ] possedessero testi completi e/o parziali di opere teatrali di altri drammaturghi» (G. Mastro marco). Né può far meraviglia, del resto, che intellettuali e aristocratici facessero uso di libri in vari modi. Da passi di Senofonte (Memorabili, 1, 2, 56; 1, 6, 14) si sa che già all'epoca di Socrate e in ogni caso al tempo dello

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SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTA ANTICA

stesso Senofonte si leggevano libri «dei sapienti del passato» e se ne traevano e ricopiavano estratti. Questi ultimi erano mirati o a una più profonda appropriazione dei testi o alla composizione di opere in prosa. Soprattutto le opere di carattere scientifico e filosofico, infatti, sia per la comprensione sia per la redazione di teorie e idee richiedevano la lettura intensiva di un testo fissato nel libro, giacché non si prestavano alla recitazione o all'ascolto di una peifòrmance orale, a quell'epoca consueta per i testi di poesia o di teatro. E anche le opere storiografiche, pur se talora erano rese note mediante letture pubbliche, richiedevano una redazione in forma scritta, e dunque la conservazione in un libro, come custodi di sistemi politici e di avvenimenti affinché questi non fossero « resi vani dal trascorrere del tempo», come scrive Erodoto (1, 1). Nel IV secolo a.C. negli scritti in prosa assai frequenti sono allusioni, riferimenti, citazioni che gli autori fanno a opere e quindi a libri evidentemente letti. Una raccolta di libri eccezionalmente consistente era certo quella che costituiva la biblioteca di Aristotele (Ateneo, 1, 3a). Le sue poderose indagini nei più svariati campi del sapere, dalla poesia alla storiografia, dalla filosofia alla scienza, avevano di sicuro alla base quella che doveva essere una notevole collezione di libri, la quale fu ereditata dal suo scolaro Teofrasto passando poi da quest'ultimo a Neleo di Scepsi. Come Aristotele, anche altri maestri di scuole filosofiche o mediche costituirono raccolte di libri, ereditate poi dai loro discepoli e man mano arricchite con nuove opere. Queste biblioteche erano comunque riservate, come quelle private, chiuse perciò alla consultazione pubblica. Nei tempi più antichi, ancor prima del costituirsi di determinate scuole, la conservazione dei testi scritti era affidata al tempio, come l'opera di Eraclito depositata in quello di Artemide a Efeso. Fino a tutto il IV secolo a.C., insomma, è da escludere nel modo greco e nella stessa Atene l'esistenza di biblioteche pubbliche. Quando Licurgo, infatti, al fine di sottrarre le opere dei grandi tragediografi - Eschilo, Sofocle, Euripide - all' arbitrio degli interpreti che le recitavano e che potevano travisarle, decise di salvaguardarne il testo, dovette emanare una legge a che gli scritti "ufficiali" di quegli autori fossero depositati nel Metroon, l'archivio di Stato di Atene, istituzionalmente destinato alla sola conservazione degli atti pubblici. Nel caso dei libri greci più antichi, prima ancora che il rotolo di papiro ne divenisse il supporto normale, non è possibile conoscere su quale materiale fossero scritti. È più che probabile che i poemi omerici siano stati i primi testi messi per iscritto e forse in morfologie adatte alla recitazione, le quali man mano si sostituivano alla sola memoria. Ipotesi in tal senso non

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sono mancate e sono stati invocati materiali diversi, dai supporti vegetali, in particolare tavolette lignee, alle pelli. Ma anche dei rotoli di papiro primitivi non è possibile ricostruire su fondamenti saldi né caratteristiche materiali né la capacità di capienza testuale poiché manca un numero adeguato di testimoni direttamente conservati: il già ricordato rotolo rinvenuto a Dafni o anche esemplari del tardo IV secolo a.C., quali il cosiddetto "papiro di Derveni" (P. Derveni) di contenuto orfico o il volumen recante il dramma I Persiani di Timoteo - ritrovato in Egitto ma impiegato ali' interno di un'enclave greca - sono del tutto insufficienti a restituire quali fossero, più in generale, tipologia e capienza dei primi rotoli. È possibile, tuttavia, che ad Atene, "capitale" letteraria della cultura prima di Alessandria, il rotolo abbia assunto trave IV secolo a.C., soprattutto nel corso di quest'ultimo, alcune caratteristiche concernenti il formato, l'estensione, il numero di righe scritte e, nel caso di opere in più libri, i criteri di organizzazione editoriale di questi in più volumina. In particolare, per quanto riguarda i formati, vale a dire l'altezza dei rotoli, questa nella pittura vascolare si dimostra varia, ma non si può dire in che misura le immagini dipinte rispecchino la realtà. Per l'estensione in lunghezza, è forse da credere che il volumen di contenuto poetico abbia assunto come unità di misura un libro omerico o un testo drammatico (tragedia, commedia), mentre per la prosa si ritiene che il rotolo abbia avuto un'estensione minore di quella, a noi nota, di età alessandrina. Ma forse - prima dell'attività filologica e delle pratiche editoriali (e artigianali) dell'Alessandria ellenistica - i volumina letterari nella Grecia classica assunsero tipologie varie per formati, estensione e altre caratteristiche: tipologie non riconducibili quindi a un qualche sistema normativo, ma adattate di volta in volta a un determinato genere letterario o a una funzione specifica. Del resto, anche più tardi, in età ellenistica o romana, vale a dire in periodi di produzione libraria "professionale" più stabile, non mancarono mai oscillazioni nella tipologia dei volumina. 5. Il Metroon, fondato verso la fine del v secolo a.C., porta il discorso sui documenti non epigrafici dell'Atene classica, di cui, tuttavia, nessuno si è conservato direttamente. Nonostante molto si è dibattuto sulla questione, non sembra dubbia una larga emanazione di testi documentari da parte di magistrati o funzionari pubblici nel corso dello svolgimento delle loro attività, così come più che probabile se ne deve ritenere la raccolta e la conservazione archivistica. E dunque si deve ammettere, di conseguenza, una produzione di documenti su materiali deperibili, legno o papiro. Anzi,

2.6

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTA ANTICA

nelle fonti letterarie questi documenti sono quelli più frequentemente richiamati, pur se il lessico con cui le diverse tipologie sono indicate, talora ambiguo, richiede un certo sforzo interpretativo. A questi materiali di legno o papiro connessi a pratiche dello scritto, ritenuti rari o negati da Rosalind Thomas, sono state dedicate più avvedute ricerche. Queste hanno rilevato, pur da punti di osservazione diversi, un impiego piuttosto ampio di documenti su materiali deperibili e un loro ruolo preciso non solo nell 'emanazione di leggi e decreti ma anche, più in generale, nelle procedure amministrative e giudiziarie di Atene almeno dalla fine del VI secolo a.C., in coincidenza con le riforme di Clistene, con una più decisa affermazione nel v. Al compito di scrivere documenti ufficiali erano preposti funzionari quali grammateis, hypogrammateis, antigrapheis, anagrapheis, logistai. Dei testi documentari non epigrafici non si conosce la configurazione perché, come si è accennato, essi sono andati perduti. Tutto lascia credere, tuttavia, che si trattasse fondamentalmente di tavolette di legno di varia consistenza e misura e di rotoli di papiro. Uno studio recente dovuto a Lucio Del Corso ha potuto rilevare che tavolette e papiri erano adoperati per usi e con funzioni differenti. Le prime, le tavolette - come in altre pratiche di scrittura del mondo antico - dovevano essere normalmente destinate ad accogliere stesure documentarie provvisorie o attività amministrative di varia specie: in particolare alcune testimonianze iconografiche su vasi mostrano figure di scribi che registrano tributi o rendicontazioni (FIG. 8). Non dovevano mancare, tuttavia, anche tavolette imbiancate e iscritte destinate all'esposizione temporanea: Demostene (2.4, 18), nel richiamare le procedure ateniesi relative alla presentazione di nuove leggi, riferisce che era prescritto esporre, dopo averle redatte, le proposte in pubblico davanti alle statue degli eroi eponimi, nel Ceramico, per ogni cittadino che volesse prenderne visione; e queste proposte erano evidentemente iscritte susanides, tavolette o tavole. I rotoli di papiro, invece, servivano per la trascrizione e la conservazione di documenti pubblici ritenuti definitivi. Una selezione di questi documenti veniva poi "trasferita" ed "esposta" in forma epigrafica. Si è già accennato, a questo proposito, che alcune epigrafi - quali inventari, rendiconti, liste - presentano una disposizione della scrittura e altri elementi che richiamano modi di scrivere su rotoli di papiro. La documentazione su materiali deperibili sembra fosse archiviata dapprima presso la sede in cui si riuniva il Consiglio della polis, il bouleuterion, mentre più tardi fu il Metroon, l'edificio adibito a vero e proprio archivio di Stato, a conservare documenti di tutti i tipi: decreti, rendiconti delle varie magistrature, liste anagrafiche,

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2.7

FIGURA 8 Dettaglio di un cratere che raffigura scribi al lavoro (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. H32.53). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

verbali giudiziari e più in generale atti pubblici pertinenti la vita della polis. Di altri testi epigrafici, i decreti, scritti stoichedon si dirà più oltre. Quanto alla lettura di questi documenti su materiali deperibili, al livello istituzionale si è potuto constatare, sul fondamento di diverse fonti, che ad Atene soprattutto leggi più antiche erano lette e consultate anche a distanza di tempo, tanto da dare origine in assemblea a proposte di nuove disposizioni a esse ispirate. Né mancano testimonianze relative a decreti che si rifacevano ad altri precedenti, evidentemente esaminati e presi a modello. Si trattava, in questi casi, di una consultazione di documenti da parte di organi istituzionali della polis, ma l'accesso agli archivi era di certo consentito anche a oratori e storiografi; né è da escludere che pure semplici cittadini - mediante il personale addetto al funzionamento del houleuterion o del Metroon - potessero prendere visione o ottenere copia di documenti di loro interesse. È molto probabile che leggi e decreti fossero recepiti mediante la consultazione di materiali d'archivio piuttosto che mediante la lettura di iscrizioni, operazione certamente più complessa; inoltre, mentre tutti, o quasi tutti, i documenti espressi dalla polis erano destinati alla conservazione archivistica, soltanto una selezione di essi era esposta in forma epigrafica. Una lettura di documenti su materiali deperibili era certo praticata da parte di privati cittadini anche in altro modo: nella metafora, già ricordata, di Aristofane gli ateniesi erano avi-

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SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

si istruissero, ma per la funzione del tutto marginale che occupavano nella vita pubblica. Nel caso particolare della lettura, la quale implica non soltanto l' anagnosis, il riconoscimento delle lettere, ma anche una comprensione dello scritto, ai limiti imposti dall'analfabetismo tout court se ne potevano aggiungere altri dovuti a quello che vorrei chiamare "analfabetismo cognitivo": vi erano (e vi sono) degli individui che, pur in grado "tecnicamente" di leggere, mancavano di un'attrezzatura mentale che permettesse loro di cogliere il senso dello scritto oltre qualche frase formulare o banale. Insomma, anche l'ossessiva presenza di iscrizioni nell'Atene dei secoli V-IV a.C. non significava che queste fossero largamente e direttamente lette e recepite, anche se certi dispositivi materiali e certe espressioni formulari potevano essere di ausilio alla lettura. E, tuttavia, pur se non vi fu alcun provvedimento mirato in favore di un incremento dell'alfabetismo da parte della democrazia ateniese, questa esigeva per il suo funzionamento competenze grafiche, prodotti scritti, pratiche di lettura e in generale una diffusione di cultura grafica più larga che in altre città greche. Fondata sulla trasparenza, la democrazia rendeva pubblica, con dispositivi grafico-materiali adeguati, la documentazione dei suoi atti, restando consapevole che se ne poteva acquisire il contenuto mediante, sì, la lettura diretta, ma anche in altri modi. Per Atene, e più in generale per la Grecia classica, statistiche quantitative in fatto di cultura scritta - peraltro ipotetiche, vaghe e incerte perché ricavate mediante metodi indiretti in mancanza di adeguate testimonianze direttamente conservatesi quali libri, rotoli documentari di papiro, tavolette inscritte - assai difficilmente possono restituire un quadro anche solo latamente attendibile. Già Moses I. Finley sottolineava «l'erroneità di molte discussioni odierne sull'istruzione antica che restringono il problema al numero e alla percentuale della popolazione libera (o almeno dei maschi liberi) che sapevano leggere e scrivere». In ultima analisi, in fatto di pratiche di lettura (e di scrittura) si deve superare una visione troppo rigida dei fenomeni e privilegiare, invece, i modi di circolazione dello scritto rispetto alle distinzioni di capacità e di livello, le diverse maniere di appropriazione dei testi rispetto alle divaricazioni educazionali e culturali. Si deve forse ammettere in certi casi che - attraverso vie tuttora meno note e oscure - vi fu una partecipazione corale di alfabetizzati, semialfabeti e analfabeti a episodi della cultura scritta. Fu questo il caso della democrazia ateniese? Piuttosto che dare una risposta vorrei proporre una riflessione traendo spunto da un'altra epoca, quella della Roma imperiale: era tanto distante

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per secoli e istituzioni dall'Atene democratica, ma comunque connotata da una società di dialogo, vale a dire da una diffusa comunicazione fondata sulla cultura scritta. Narra Svetonio ( Vita di Caligola, 41, 1) che Caligola impose vectigalia nova et inaudita, tributi nuovi e ignoti fino a quel momento, senza pubblicare la relativa legge, in modo che per ignoranza di quest'ultima accrescesse gli introiti statali grazie ai multa commissa, alle numerose infrazioni e conseguenti pene pecuniarie; jlagitante populo, chiedendoglielo il popolo, finalmente pubblicò la legge, sed et minutissimis litteris et angustissimo loco, uti ne cui describere liceret, ma la espose in caratteri minutissimi e in un luogo assai stretto, e quindi disagevole, affinché nessuno riuscisse a trarne copia e perciò a rispettarla. E dunque, se la democrazia ateniese metteva in atto dispositivi - perspicuità delle forme grafiche, impaginazione chiara, esposizione nei luoghi più frequentati della città - per rendere più fruibili e noti i suoi atti, Caligola pubblicava la legge, che voleva passasse inosservata, in caratteri assai minuti, scarsamente leggibili e in un luogo angusto e appartato perché nessuno la notasse o, avendola notata, non riuscisse a trascriverla e, ancor prima, a leggerla. Non interessa, ai fini della nostra riflessione, se il racconto di Svetonio è vero o falso. La scrittura reca in sé - ovvio, si dirà - una forte carica di ambiguità. Strumento di disponibilità delle informazioni e di controllo pubblico, essa può esserne anche mezzo di esclusione: dipende dall'uso politico che della scrittura e dei luoghi della comunicazione come spazio grafico fanno i poteri costituiti. E il mondo antico ne era consapevole.

Note bibliografiche 1.

Nonostante il significato preciso di alcuni termini del passo, qui citato, degli

Uccelli di Aristofane sia non poco discusso - cfr. almeno Nieddu (2.004, pp. 104-5) e Caroli (2.012.a, pp. 102.-4) -, l'interpretazione generale non è comunque dubbia. Riferimenti a questioni di alfabetismo in età moderna e contemporanea si possono reperire in Harris (1991, pp. 5-2.9 ). Sulla diffusione del!' alfabetismo nell'Atene classica l'importante articolo di Harvey (1966) era stato preceduto dai contributi di: Austin (1938), in cui l'incremento delle iscrizioni ad Atene nel

V

secolo a.C. è messo in re-

lazione con il sistema democratico; Meritt (1940), il quale vede un rapporto diretto era massiccia presenza di iscrizioni nell'Attica di quell'epoca e democrazia; Turner (2.004), un breve ma denso saggio in cui si discute una serie di testimonianze relative ad alfabetismo e circolazione libraria all'epoca considerata. Sempre sul problema

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

del rapporto tra diffusione dell'alfabetismo e sistema democratico ad Atene, cfr. soprattutto le importanti riflessioni di Musti (1986) e, più di recente, la messa a punto, con nuovi spunti di discussione, di Missiou (2.011). Sull'alfabetismo a Sparta, Creta e Corinto intorno alla medesima epoca, mi limito a segnalare: per Sparta, Millender (2.001); per Creta, Whitley (1997); per Corinto, Dow (1992.). I riferimenti al dibat-

tito sugli ostraka e sull'indole dei segni grafici che questi presentano sono tratti da Missiou (2.011, pp. 56-70). L'espressione «party-workers» è di Harvey (1966, p. 591). Sulla lettera dello schiavo qui ricordata (Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. II 1702.) e su altre lettere plumbee dall'Agora di Atene, cfr.: Jordan (2.000); Harris (2.004); Ceccarelli (2.013, pp. 44-6, cit. a p. 45; ma la valutazione della scrittura risale

sostanzialmente a Jordan, 2.000, p. 93). Sulle lamine plumbee del mar Nero, basti il rinvio a Vinogradov (1998) e a Ceccarelli (2.013, pp. 38-43). Il richiamo aJeffery è al suo importante volume degli anni Sessanta (cfr. Jeffery, 1961, p. 64). Una sintesi sulle lettere sia su piombo sia su ostraka e sul rapporto di queste con i livelli di alfabetismo può leggersi nel contributo di Dana (2.015). 2..

A mettere in rapporto il passo del Protagora di Platone con la tavoletta scolastica

qui ricordata - ora a Londra, British Library, Add. MS 34186 (1) - è stato Turner (1965). Scene di scuola dipinte sui vasi si possono osservare in Beck (1975). Sulle pra-

tiche scolastiche all'epoca qui considerata, mi limito a rimandare a Del Corso (2.003, pp. 49-61) e a Nieddu (2.004, pp. 32.-40). Sull'associazione didattica tra alfabetizzazione e mousike, cfr. ultimamente: Morgan (1999, pp. 49-51); Nieddu (2.004, pp. 40-3); e soprattutto Pébarthe (2.006). La citazione è tratta da Harvey (1966, p. 590 ). 3.

Su libri e lettura tra v e

IV

secolo a.C. nel mondo greco, e in Atene in partico-

lare, la bibliografia è abbondante. Mi limito a ricordare: Del Corso (2.003); Nieddu (2.004, pp. 53-12.0 ); Turner (2.004); Pinco (2.013). Sul papiro ritrovato ad Atene, rinvio a Pi:ihlmann, West (2.012.), in cui possono leggersi, insieme a un dettagliato resocon-

to dello scavo, le motivazioni dell'attribuzione cronologica del papiro. Sulle diverse interpretazioni del passo delle Rane di Aristofane, qui ricordato, cfr. Nieddu (2.004, p. 159 e note 106-107) e Mastromarco (2.012.). Più in generale, una raccolta e una discussione dei passi concernenti scrittura, libri e documenti nelle commedie di Aristofane si devono ad Anderson, Dix (2.014). Su casse e bauletti per la conservazione di libri, cfr. Briimmer (1985, pp. 101-4) e Coqueugniot (2.007 ). Sulla stele funeraria di Grottaferrata è imprescindibile Ghisellini (2.007 ), cui si rimanda anche per altri rilievi funerari del V-IV secolo a.C. con scene che sembrano ispirarsi alla pratica della lettura privata. Il frammento di Platone comico è in Poetae comici Graeci ( PCG ), ed. R. Kassel, C. Austin, voi. VII, Berlin-New York 1989. È merito di Caroli (2.016) l'aver attirato

OCCELLI FAMELICI AD ATENE

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l'attenzione sull 'ostrakon ateniese graffito. Sulla vendita di rotoli di papiro non scritti, rinvio a Mastromarco (1012., in particolare pp. 600-1). Sull'associazione nella pittura vascolare tra ligure femminili, libri e intrattenimento musicale abbondanti materiali sono stati raccolci e indagati da Vazaki (1003). Un'ampia raccolca di testimonianze - corredata di un ricco repertorio iconografico - su donne "dotte" mitiche o reali si deve a De Martino (1013): lavoro anche altrimenti utile per molce questioni inerenti alla circolazione libraria del v-rv secolo a.C. Su pratiche e modalità di lettura è sempre da consulcare Svenbro (1991). In particolare, sulla lettura silenziosa nella Grecia classica una buona messa a punto, con nuove osservazioni, si deve a Vatri (1011). 4-

Informazioni sul commercio librario e sulle ligure del bibliographos e bibliopoles

si possono reperire - olcre che in Del Corso (1003, pp. 13-5) - anche e soprattutto nei lavori di Caroli (10w; 1011a; 1012b): contributo, quest'ultimo, non limitato al solo contesto cronologico e geografico di riferimento. Il frammento di Eupoli è nella già ricordata edizione ed. E. Bethe, voi.

II,

PCG,

voi.

V,

Berlin-New York 1986, e in Pollucis Onomasticom,

Stuttgart 1967. In particolare, sui cosiddetti "scribi dell'Acropo-

li" e sul prezzo di vendita della Syngraphe di Anassagora cfr., rispettivamente, Caroli (1011; 1013). L'elenco dei primi possessori di biblioteche fornico da Ateneo comprende - olcre ali' arconte Euclide e a Euripide - anche personaggi di epoca più antica, ma si tratta di notizie vaghe e prive di fondamento: cfr. Ateneo, / deipnosofisti. I dotti a

banchetto, a cura di L. Canfora, voi. I, Roma 1001, p. 8 e nota 5. Le citazioni, qui riportate, sulle biblioteche dei drammaturghi sono da Mastromarco (1011, p. 601). Sulla biblioteca di Aristotele e le sue vicende successive, basti il rinvio a Canfora (1986, pp. 34-7, 59-66). Sul provvedimento di Licurgo relativo alla conservazione delle opere dei grandi tragediografi nel Metroon, cfr. Sickinger (1999, pp. 134-5). Una discussione delle primitive forme di messa per iscritto dei poemi omerici è reperibile in BrossinPillot (1017). Sul papiro di Derveni, conservato a Salonicco, Museo Archeologico, mi limito a rinviare al recente lavoro di Piano (1016). Il papiro di Timoteo è P. Berol. 9875. Per una possibile ricostruzione della tipologia dei più antichi rocoli greci, rinvio a Del Corso (1003, pp. 38-49) e a Corcella (1013). 5.

Una buona messa a punto di carattere generale sulla produzione e conservazio-

ne di documenti ad Atene si può leggere in Del Corso (1001). Sempre a proposito delle pratiche documentarie si fa riferimento ai lavori di Thomas (1991, pp. 118-57; 1994); ma per un più articolato e convincente punto di vista, cfr.: Boffo (1995; 1003); Faraguna (1997; 1011); Lazzarini (1997 ); Sickinger (1999, pp. 61-71); Missiou (1011, pp. 101-8). Sulla diversa funzione di papiro e tavolette negli usi documentari, cfr. Del Corso (1001, pp. 173-5). Su bouleuterion e Metroon come sedi di conservazione archi-

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

vistica e loro funzionamento, rinvio ancora una volta a Sickinger (1999, pp. 62.-159) e ultimamente a Coqueugniot (2.013a, pp. 14-6). Su documenti scritti su materiali deperibili e resi pubblici in forma epigrafica, cfr. Davies (2.003). Sui passi dalle commedie di Aristofane rinvio, ancora una volta, ad Anderson, Dix (2.014, pp. 77-86). 6.

Sulla stele come supporto autonomo delle iscrizioni pubbliche, cfr. Musti (1986,

p. 31). Il concetto di «programma di esposizione grafica» - inerente al rapporto tra scrittura e potere pubblico - si deve a Petrucci (1985, p. 89) ed è stato impiegato per l'Atene democratica da Musti (1986, pp. 2.7-31). Il concetto e l'espressione «politique d'affichage» si devono a Pébarthe (2.006, pp. 2.54-60, cit. a p. 2.56). Le ragioni, diverse da quella della pura informazione pubblica, che inducevano a erigere stelai in Atene e più latamente nell'antica Grecia sono discusse da Lewis (1992.). Sulle «formulae of disclosure», rinvio a Hedrick (1999, cit. da p. 387 ). Sui verbi greci che significano "leggere", cfr. Nieddu (2.004, pp. 53-70 ). Sul rapporto tra iscrizioni pubbliche e democrazia ateniese, cfr. Musti (1986, pp. 2.8-9, 41-5; 1995, pp. 73-4, da cui è tratta la citazione). 7.

Sullo stilestoichedon, cfr. - oltre alla classica opera di Austin (1938) - anche Musti

(1986, p. 31, da cui è tratta la citazione) e Del Corso (2.003, pp. 32.-8, 43-4). Il lavoro di Hedrick, di cui è qui ricordata una frase, è Hedrick (1993, p. 9). La questione sulla diversa diffusione di pratiche della cultura scritta tra Atene e Sparta è stata riaperta, con nuove prospettive, da Millender (2.011, pp. 149-59 ): lavoro che, nel ricostruire e ridisegnare una cultura scritta spartana, costituisce il superamento della visione di una città quasi analfabeta, quale presentata da lhomas (1989, pp. 2.0, 2.3, 94,131, 136-7, 144), da Harris (1991, pp. 75, 12.7-9) e da Thomas (1994, p. 37 ); più sfumati i giudizi di Cartledge (1978) e di Boring (1979 ), che anticipano Millender per certi aspetti. Sul rapporto intercorrente tra nomos-nemein-exegetes, rinvio a Svenbro (1991, pp. 109-2.1). Sulla circolazione non soltanto scritta ma anche orale dell'informazione pubblica, rinvio - tra i lavori di Thomas, di cui alcuni già ricordati - soprattutto a Thomas (1989 ), ma con l'avvertenza che nel volume si dà troppo rilievo alla cultura orale; cfr. anche Lewis (1992.). 8.

L'espressione «grands lecteurs» è di Pébarthe (2.006, p. 76), ma sui diversi usi

di scrittura e libro, cfr. anche, più in generale, ivi, pp. 56-110. La frase di Finley citata è tratta da Finley (1982., p. 12.0). L'approccio alle pratiche della cultura scritta, al quale si sono ispirate le conclusioni, è quello, pur se per altre epoche, di Chartier (1988, pp.

vn-xvm) e di Petrucci (1989, pp. 32.-3). Altri ragguagli sugli argomenti di questo capitolo si possono leggere in Cavallo (2.014).

2

Alessandria, la vivisezione, le infinite genti

Narra Cornelio Celso nel De medicina (pref., 2.3-2.6) che il metodo migliore per conoscere il corpo umano era ritenuto quello praticato ad Alessandria da Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Ceo: quello della vivisezione. Ai due scienziati a tal fine, infatti, i Tolomei consegnavano i criminali, traendoli dalle carceri, a che essi, mentre i corpi, vivi, ancora respiravano, vivisezionandoli, potessero osservarne sotto ogni aspetto gli organi sani, sì da acquisire conoscenze utili per risanare i malati. Il metodo, certo crudele, mostra quali vette raggiungeva nell'Alessandria ellenistica la cultura scientifica. E insieme a questa, tra il Museo e la celebre Biblioteca, si definiva anche un metodo filologico e si affinava una cultura letteraria. Dopo la conquista macedone dell'Egitto da parte di Alessandro Magno e la "fondazione" della città a opera di immigrati greci man mano più numerosi, questi vi introdussero la loro cultura nelle sue diverse forme: poesia, mitologia, storiografia, filosofia, scienza e arte. E furono Tolomeo I Soter, il primo sovrano macedone dell'Egitto, i suoi immediati successori, in particolare Tolomeo II Filadelfo, e i coloni greci, affiuiti nel territorio dal momento della conquista in poi, che vollero fare di Alessandria una città "greca" al fine di salvaguardare la loro identità ellenica. La fondazione del Museo e della Biblioteca, quali centri prestigiosi di ricerca e di dominio del sapere letterario e scientifico, fu parte integrante di questa politica. Ma nel suo trapiantarsi in Egitto, nel contesto di un regno e a contatto con le civiltà del Vicino Oriente antico, la cultura che venne a formarsi non fu, né poteva essere, un calco di quella della Grecia classica subendo, invece, trasformazioni profonde. Indicativo in tal senso, per avere una prima percezione della differenza tra cultura "classica" ed "ellenistica", può rivelarsi già solo il confronto tra due statue, qui assunte come modelli. La prima è la copia di età romana di una statua di Sofocle del 330 circa a.C. la quale mostra il drammaturgo in posizione eretta, un braccio quasi sostenuto 1.

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

FIGURA 10 Statua di Sofocle (Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano, inv. 9973). Da Brunn (1891, tav. 113)

dal drappeggio del mantello che fascia il busto, l'altro posato sul fianco, la testa girata un po' di lato, le labbra socchiuse, ai suoi piedi una capsa di libri nella specie di rotoli (FIG. IO). La posa è quella, in sostanza, dell'oratore ma anche del buon cittadino, impegnato politicamente, e, in quanto tale, nell'atto di parlare agli altri cittadini della polis. Nella città greca antica l'oratore, il filosofo, il poeta, l'autore di teatro, chiunque svolgesse un'attività intellettuale parlava sempre a un pubblico, direttamente o indirettamente, attraverso la sua voce o quella altrui, di un solista, di un coro, di una compagnia di teatro. Nella rappresentazione è questo rapporto con la polis che prevale, e perciò l'atteggiamento, il contegno da buon cittadino dell'intellettuale: contegno tutto ispirato alla dignità, alla tradizione della kalokagathia, la bellezza interiore, cui le stesse attività intellettuali devono sempre far riferimento al di là di qualsiasi distinzione. Non in una biblioteca pubblica, sconosciuta alla cultura della polis, avevano sede i saperi della città, ma nel discorso, nell'epica recitata, nella performance lirica, nello spettacolo teatrale, nel dialogo filosofico. Il libro - come si è visto -, pur

ALESSANDRIA, LA VIVISEZIONE, LE INFINITE GENTI

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FIGURA II Statua del cosiddetto "Cleante" (Londra, British Museum, inv. 848; calco). Da Zanker (1997, fig. 64)

abbastanza diffuso già nel V-IV secolo a.C., prima dell'età ellenistica era destinato, più che alla lettura, a fissare e conservare i testi in forma scritta e a fungere da sostegno di una voce lettrice o recitante accompagnata dalla musica; e le biblioteche erano soltanto private o riservate, possedute soprattutto da intellettuali o da scuole filosofiche. Quando si passi a considerare un'altra statua, quella del cosiddetto "Cleante" di poco meno di un secolo più avanti, 250 circa a.C., anch'essa rifatta in una copia più tarda, la figura del filosofo è seduta, in atteggiamento fortemente assorto, dimentica del mondo circostante; il corpo pare teso nello sforzo di pensare, le mani chiuse a pugno sembrano l'una, la sinistra, tormentare la veste, l'altra strofinare la guancia, le gambe sono incrociate ali' altezza dei piedi che paiono contrarsi nervosamente e premere l'uno contro l'altro (FIG. 11). È la rappresentazione dell'intellettuale di età ellenistica tutto isolato nella sua concentrazione mentale: un intellettuale che viveva rinchiuso in una scuola, in un museo, in una biblioteca, che non agiva più in sintonia con una polis che lo impegnava politicamente, ma,

42.

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

ripiegato su se stesso, operava invece nella vastità di un regno, al servizio di un sovrano, in ossequio alla sua regalità, nelle forme sia di adesione a un programma politico-culturale sia di lavoro scientifico, erudito, letterario, comunque inteso a dare lustro a quella regalità. L'attività intellettuale non era più nutrita dal sistema di valori della polis, ma da una quantità immensa di libri, dalla riflessione sui testi scritti del passato, dallo sterminato sapere che vi era contenuto e che l'intellettuale - un intellettuale ormai di mestiere e di Stato - doveva dominare, quasi controfigura del re che controllava aree geografiche e sudditi. Il dialogo diretto con la città, quale testimoniato nella polis, si era ormai interrotto. La produzione intellettuale - filosofica, scientifica, letteraria e più latamente culturale - era diventata ormai un fatto erudito: il che esasperava il dibattito e la rivalità tra intellettuali di formazione e di scuole diverse, ma talora anche ali' interno di una medesima cerchia dotta o di una medesima scuola. Le pratiche di pensiero e di studio, infatti, non erano più funzionali alla cultura di una polis e di una comunità di cittadini, ma all'indirizzo, sia questo filosofico-scientifico o filologico-letterario, di una particolare scuola che restava chiusa verso l'esterno. Nel caso di Alessandria era il Museo che rappresentava il recinto dell'intellettuale: un recinto separato dalla società urbana e dalla vita pubblica. Il Museo era fisicamente parte del quartiere regio, il Bruchion; ed esso comprendeva «un chiostro e un portico e un grande edificio», nel quale gli eruditi prendevano i pasti in comune; il denaro non era posseduto individualmente ma apparteneva alla comunità nel suo insieme, la quale aveva anche un sacerdote addetto al Museo (Strabone, 17, 1, 8). Il sapere circolava tutto tra queste mura, giacché gli eruditi che vi dimoravano non erano integrati nella dimensione sociale della città. Il Museo era connesso al palazzo, e la Biblioteca faceva parte del Museo. In quest'ultimo venivano « a confluire strumenti di lavoro, collezioni di animali, raccolte di libri»; e dentro il Museo vivevano «in koinonia gli scienziati e i letterati» (L. Canfora). Strutture, organizzazione, obiettivi e metodi del Museo replicavano in parte il modello del Liceo o Peripato di Atene, la scuola di Aristotele e di Teofrasto: anche qui vi erano un porticato e un giardino-esedra, i pasti venivano presi in comune, vi erano un santuario e un altare delle Muse. E quando Strabone (13, 1, 54) dice che Aristotele «fu il primo a mettere insieme una collezione libraria e insegnò ai re d'Egitto un ordine bibliotecario>>, altro non voleva significare che i Tolomei, con la costituzione della Biblioteca alessandrina, vollero fortemente riproporre i

ALESSANDRIA, LA VIVISEZIONE, LE INFINITE GENTI

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principi organizzativi della raccolta dei libri di Aristotele, nel cui trapianto ad Alessandria un ruolo non secondario avrebbe avuto Demetrio Falereo, il filosofo peripatetico che - lasciata Atene dopo la presa della città nel 307 a.C. da parte di Poliorcete e dopo un periodo di esilio a Tebe - aveva trovato rifugio nella capitale d'Egitto. Quanto questa notizia sia degna di fede non si può dire, ma emerge che nell'antichità era radicata la tradizione dello stretto rapporto tra le istituzioni tolemaiche e Aristotele e i suoi libri. La fondazione del Museo e della Biblioteca si poneva come parte integrante della politica dei Tolomei, i quali, mediante quel rapporto, volevano che Alessandria fosse una città greca e di cultura greca, la cui identità ellenica fosse sia salvaguardata ed esaltata da istituzioni culturali orgogliosamente isolate dal contesto emico egiziano circostante, sia altamente nobilitata dal prestigio del sapere rispetto agli altri regni ellenistici. La cooperazione tra scienziati che indagavano ogni ramo della natura e letterati-filologi che scandagliavano ogni piega dei testi letterari non poteva che rimandare, anch'essa, al Peripato. A ragione è stato scritto che «problemi, concetti e metodi della filologia alessandrina» trovavano «i loro corrispettivi e precedenti nella riflessione peripatetica» (F. Montana). Il rapporto tra scienza e filologia non era solo quello, già da più parti individuato, di un'attenzione filologica verso i testi scientifici o di una consultazione di libri di scienza a tutto campo (si pensi a figure quali Tolomeo Epitete, di cui si conosce il titolo di una monografia sulle ferite di Omero, o Bacchio di Tanagra, editore e autore di lessici e commentari di testi medici), ma si trattava, piuttosto, di un metodo inteso a recuperare, pur con certe distinzioni disciplinari, un'unitarietà tra ricerca filologicoletterararia e ricerca scientifica, accorciando la distanza tra piacere intellettuale della letteratura e sapere sperimentale. Si prendano le figure, di grande rilievo, di due tra i primi bibliotecari alessandrini, Apollonio Rodio ed Eratostene di Cirene. Il poema epico di Apollonia è intriso di "ingegneria" navale, di cognizioni astronomiche, di nozioni geografiche; e, d'altra parte, Eratostene, pur se poco si riesce a conoscere della sua opera, rivela comunque il gusto, proprio del filologo, per la parola rara e si serve della poesia per trasmettere dati scientifici. Tra le scuole del Peripato o anche dell'Accademia platonica di Atene e il Museo di Alessandria sono da ammettere, tuttavia, alcune sostanziali differenze. Le scuole ateniesi erano libere associazioni, pur se il Liceo godeva del sostegno dello stesso Alessandro, l'altro, il Museo, era invece una fondazione regia, insediata nel tempio delle Muse (cosa diversa da un

so

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

cui tavolette recano testi religiosi, letterari, storici, lessicali, matematici, medici e altri ancora, e persino testi con colofoni che, una volta indagati, molto potranno far conoscere delle pratiche scribali del Vicino Oriente. La biblioteca di tavolette di Sippar non è la sola scavata in Mesopotamia; altre e assai ricche ne sono state ritrovate. La più celebre di queste biblioteche è quella voluta nel VII secolo a.C. da Assurbanipal a Ninive, anch'essa istituita con l'ambizione di riunire tutti gli scritti della terra. D'altro canto, nell'Egitto faraonico non dovevano essere sconosciute biblioteche templari al più tardi, forse, dal II millennio a.C., quando sicura risulta un'organizzazione della cultura scritta. In ogni caso più tardi, in epoca tolemaica, il tempio di Oro a Edfu testimonia nel cuore dell'edificio un locale che, a quanto si ricava da un'epigrafe, era adibito a biblioteca, ove in contenitori posti a loro volta in nicchie venivano conservati libri nella specie di rotoli di papiro. Se quella di Edfu si può ricostruire come una collezione di libri modesta, la biblioteca di Elefantina doveva essere altrimenti ricca e varia, a quanto mostrano le migliaia di frammenti di rotoli di diverso contenuto (medicina, magia, testi letterari) ritrovati tra le rovine del sito e riferibili per la più parte ai secoli IX-VI a.C., qualcuno di contenuto anche di circa un millennio più antico. Ma sempre dall'Egitto faraonico viene un altro tipo di testimonianza sul quale si deve riflettere. Vi era una stretta interazione tra la "Casa della vita", la parte del tempio in cui si impartiva l'insegnamento della scrittura e si copiavano i manoscritti, e la "Casa dei libri", la biblioteca di conservazione. Il racconto di Berosso qui interessa, altresì, perché se ne possono rilevare alcune circostanze inerenti al costituirsi di una biblioteca: all' origine vi è il comando di un'autorità, in questo caso un'autorità divina, Crono; la biblioteca doveva essere universale, contenere tutti gli scritti dell'umanità, e di qualsiasi contenuto; il luogo del suo costituirsi era in pratica un tempio; la salvaguardia dei materiali ne implicava una conservazione sepolcrale. Da queste premesse, che nel racconto di Berosso nascondono reminiscenze inerenti alle origini delle immense collezioni bibliotecarie del Vicino Oriente di età più antica, non sconosciute allo stesso Egitto faraonico, nascevano le grandi biblioteche ellenistiche, di Alessandria, di Pergamo, di Antiochia, del tutto assenti nella Grecia di età classica. I sovrani ellenistici, insomma, sembrano aver recepito e trasformato nel senso della civiltà greca modelli ereditati dalle culture dei territori conquistati da Alessandro: biblioteche di tempio e di palazzo, pubbliche senza pubblico.

ALESSANDRIA, LA VIVISEZIONE, LE INFINITE GENTI

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Trapiantato ad Alessandria, il modello rappresentato dal Peripato e dalla biblioteca aristotelica era venuto a fondersi, infatti, con quello dei grandi giacimenti di testimonianze scritte delle civiltà del Vicino Oriente e dell'Egitto faraonico. Si ricordino Berosso che di sicuro ha in mente pratiche babilonesi più antiche e, per l'Egitto, la "Casa della vita" come istituzione culturale accanto alla "Casa dei libri" annessa al tempio: a questo proposito, il Museo e la Biblioteca di Alessandria si possono intendere come una ripresa ed esaltazione delle antiche "Casa della vita" e "Casa dei libri". In ogni caso nei regni ellenistici la fondazione della biblioteca di Stato discendeva da un atto di volontà sovrana, e i libri non potevano essere che libri del re; la raccolta doveva comprendere non una o più collezioni librarie specifiche ma tutti gli scritti dell'ecumene nota, in lingua greca o tradotti in quest'ultima; la Biblioteca stessa faceva parte di un complesso sacro, il tempio delle Muse ad Alessandria, o quello di Atena Poliade a Pergamo; e le opere che vi erano conservate risultavano precluse a un pubblico esterno, quasi fossero sepolte, ma - ed è qui che vi è forse l'aggancio più forte con il Peripato e più in generale con le biblioteche delle scuole filosofiche - queste opere erano a disposizione di una cerchia di dotti, degli interni del Museo: pratica che non sembra trovare riscontro preciso nelle tradizioni del Vicino Oriente, dove tempio e biblioteca non risultano aver accolto eruditi di Stato, ma che, tuttavia, si può ritenere adombrata nelle "Case della vita" e nella figura dello scriba dell'antico Egitto come erudito del tempio e del palazzo (FIG. 14). Del resto, anche scritti scientifici e letterari delle civiltà del Vicino Oriente non potevano che essere opera di dotti gravitanti intorno a un luogo sacro e a una corte. Alla colossale fame di libri fa riscontro in età ellenistica un' altrettanto colossale fame di documenti pubblici e privati quale l'Egitto tolemaico, grazie a circostanze di conservazione archeologica, rivela. Ne è testimonianza certa l'archivio di Zenone di Cauno, l'agente a servizio del dioiketes Apollonio, "ministro delle finanze" dell'amministrazione tolemaica. I papiri che vi erano conservati comprendevano documenti sia, in alto numero, ufficiali sia, per la più parte, privati (pur con l'avvertenza che, dati la posizione di Apollonio e il carattere della monarchia tolemaica, non vi era una distinzione netta tra le categorie "ufficiale" e "privata" o almeno non è facile da stabilire). Da questo archivio risulta che i Tolomei avevano creato in un arco di tempo piuttosto limitato una burocrazia greca folta e attiva, che provocava la produzione di un'eccezionale quantità di documenti, condizione necessaria per il funzionamento amministrativo-fiscale di una

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

52.

FIGURA 14

Il sacerdote Petamenofi ritratto come scriba (Il Cairo, Museo Egizio,

JE

37341). © Museo Egizio, Il Cairo

monarchia assoluta e di tipo patrimoniale. Di qui l'enorme accumulo di testimonianze scritte d'indole non solo bibliotecaria, libri, ma anche archivistica, documenti. Si pensi che gli uffici contabili del dioiketes Apollonia usarono nell'arco di tempo di circa un mese 434 rotoli di papiro (TAV. 2.a). Il dioiketes Apollonia e il suo agente Zenone che sovrintendevano a enormi quantità di documenti erano la faccia di una medaglia di cui l'altra era costituita da quanti, alle prese con quantità di libri altrettanto enormi, sovrintendevano alla biblioteca di Stato ellenistica. Questo incremento massiccio di pratiche documentarie riguardò, al pari dell'Egitto tolemaico, anche i regni ellenistici degli Attalidi e dei Seleucidi, fondati sullo stesso sistema. Seleuco I pare dicesse che, se la gente avesse saputo quanto era faticoso per un re scrivere e leggere tanti documenti, si sarebbe astenuta dal raccoglierne la corona se questa fosse

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stata gettata via (Plutarco, Moralia, 51, 11). È assai probabile che Seleuco I scrivesse e leggesse meno documenti di quanti ne rivendicasse, giacché vi era un'amministrazione pubblica e privata addetta a quei compiti. Ma va comunque ricordato che a Seleucia sul Tigri scavi archeologici hanno portato alla luce un edificio destinato, fin dal momento della sua costruzione, al deposito, alla conservazione archivistica e talora anche alla sigillatura di documenti pubblici e privati: un edificio né palaziale né templare ma di Stato e più latamente cittadino. E proprio i sigilli di argilla - conservatisi grazie a tal materiale nonostante l'incendio che dopo il 155-154 a.C. distrusse tutta la documentazione di papiro o, soprattutto, di pergamena - dimostrano quanto massiccia fosse la produzione documentaria nel regno seleucide. Furono rinvenuti, infatti, 2.5.000 sigilli, spesso con tracce della materia scrittoria cui erano stati apposti, provenienti dagli archivi di Seleucia e che fanno intravedere una grande varietà di documenti, con l'avvertenza, tuttavia, che «la distinzione tra sigilli pubblici e privati non è sempre chiara» (A. Invernizzi). La Mesopotamia dei Seleucidi, dunque, conferma quanto si è già potuto constatare per l'Egitto dei Tolomei: nella massa di documenti pubblici e privati depositati e conservati negli archivi ellenistici la differenza tra gli uni e gli altri era ambigua o comunque difficile da stabilire. Si è detto come già nella Grecia classica, e in particolare nell'.Atene del v e IV secolo a.C., si fosse aperta in qualche modo la strada alla produzione di documenti scritti su materiali deperibili. E, tuttavia, nella cittàStato greca, qual era la polis, la documentazione ufficiale era largamente anche di tipo epigrafico giacché - pur dovendosi ammettere la presenza di funzionari addetti alla stesura di documenti lignei o papiracei - mancava comunque una burocrazia operosa ed efficiente, senza la quale un'attività intensa di registrazione documentale non poteva essere svolta. E, dunque, anche il modello sia della straordinaria proliferazione di documenti sia di modi massicci di archiviazione si deve credere venisse alle monarchie ellenistiche, ancora una volta, dal Vicino Oriente e dall'Egitto faraonico, dove forme di registrazione scritta e di conservazione archivistica di portata rilevante erano da lungo tempo in uso. Nessun riscontro poteva trovare questa realtà in quella, altrimenti limitata, degli archivi del bouleuterion o del Metroon ad Atene. Nel passaggio dalle città-Stato greche ai regni ellenistici le testimonianze scritte sia librarie sia documentarie seguivano uno stesso percorso: da una fruizione "aperta" o "libera" a una "chiusa" o "controllata", non di-

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versamente dalle pratiche intellettuali. Nell'Atene di Socrate e di Platone ogni logos, una volta scritto in forma di libro-rotolo, poteva dirigersi, rotolarsi da ogni parte (Platone, Fedro, 275d), vale a dire incontrare chiunque volesse leggerlo, e il documento, su materiale deperibile o su pietra, era liberamente offerto a beneficio di tutti; nel mondo ellenistico, invece, non solo per un processo di trasformazione insito già nelle pratiche della cultura scritta del IV secolo a.C., ma soprattutto sotto l'influenza di tradizioni delle civiltà conquistate da Alessandro, libri e documenti si accrescevano a dismisura ma erano destinati a una conservazione gestita direttamente o indirettamente dallo Stato che ne consentiva solo una fruizione esclusiva. Istruttivo si rivela un confronto tra Egitto tolemaico e Grecia classica, Atene in particolare, per quanto concerne l'esposizione epigrafica. Anche se in Egitto si è di fronte a un materiale meno abbondante forse per più gravi perdite o per massiccio reimpiego di pietra, iscrizioni pubbliche - prostagmata regi, soprattutto - e private sono ben attestate; si dimostra adottato lo stile stoichedon di ispirazione attica, pur se talora in forme meno rigorose; è ripreso, in particolare per i testi ufficiali, il layout delle epigrafi di età classica. Stile stoichedico e relativo layout sono peraltro riproposti, per una deliberata scelta "ideologica" della monarchia tolemaica, fino a un'epoca in cui quelle caratteristiche nel loro originario contesto greco-attico erano quasi scomparse. Ma mentre nella civiltà della polis le iscrizioni avevano carattere celebrativo o testimoniavano la trasparenza del sistema democratico, nell'Egitto ellenistico esse erano funzionali al potere regio, al dominio del sovrano sui sudditi. 5. A quest'epoca, si sa, il libro era in forma di rotolo, nel quale il testo si presentava disposto in colonne di scrittura che si susseguivano per tutta la sua lunghezza. Ma dei libri conservati in grandi biblioteche come quelle di Alessandria e di Pergamo non possediamo testimoni certi. Come rappresentarceli? È da dire, innanzi tutto, che la fame di libri dei sovrani ellenistici faceva sì che nelle grandi biblioteche confluissero esemplari di data diversa, più antichi o recenti o coevi, e dalle origini più diverse: si pensi già solo al "fondo delle navi" della Biblioteca di Alessandria, così detto perché vi si trovavano libri recati dalle navi che giungevano nel porto della città e che erano requisiti e sostituiti da copie che ne venivano tratte, mentre gli originali restavano ai Tolomei; o si pensi, ancora, alla copia ufficiale dei grandi drammaturghi custodita nel Metroon ad Atene, presa in prestito e mai restituita dagli stessi Tolomei, secondo quanto riferisce Galeno ( Com-

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mento al III libro delle epidemie di Ippocrate, xvna, 607, 4-17 ). E dunque la caratteristica generale di queste biblioteche non poteva essere che quella di una forte disomogeneità. Importava, infatti, soltanto tesaurizzare la memoria del mondo attraverso libri "originali~ venuti magari da lontano, e che proprio per questo costituivano segno tangibile di un dominio sul sapere universale. Quanto ai libri prodotti in area greco-egizia e nella stessa Alessandria è verosimile che il lavorio su libri e testi che vi si svolgeva abbia prodotto anche alcune norme o almeno convenzioni nella manifattura libraria. Quel che comunque par certo è che alcune di quelle norme o convenzioni siano state ereditate dalla Grecia classica, da Atene in particolare, e quindi in qualche misura riprese o modificate. Gli scavi nella chora, la provincia egiziana - da Alessandria nessun reperto librario sicuro è pervenuto -, hanno restituito frammenti di un cospicuo numero di rotoli di età ellenistica (o, per l'Egitto, tolemaica; FIG. 15), tra i quali, tuttavia, alcuni dei più antichi potrebbero essere di origine non egiziana, giunti verosimilmente con la prima generazione di coloni greci. In ogni caso da questi rotoli risultano caratteristiche tecniche piuttosto fluide. Si possono solo enucleare quelle più ricorrenti, ma con l'avvertenza che non si vuole delinearne alcuna tipologia precisa. La strutturazione tecnica dei volumina - dimensioni, mise en colonne del testo, paratesto - era legata all'opera che vi si scriveva, al rango della committenza, pubblica o privata, a pratiche individuali, all'uso e/o al modo di conservazione previsto. La questione, insomma, non è solo tecnica ma anche socioculturale in un orizzonte, come quello ellenistico, non circoscritto, diversamente dalla polis. Con questa premessa, se si guarda all'estensione del rotolo, questa oscillava entro certi estremi, peraltro ampi e con eccezioni: in genere, all'incirca tra i 3,50 metri per la poesia, e tra i 2-2,50 e i 14-16 per la prosa. Queste oscillazioni erano correlate non solo, come è ovvio, ali' indole e alla quantità di testo, ma anche al formato, vale a dire all'altezza, del rotolo. Quest'ultimo in età ellenistica era tenuto per lo più su un'altezza di 17 centimetri, tra un massimo all'incirca di 21 e un minimo di 4-5, tanto che di un rotolo di quest'ultimo tipo, contenente una raccolta di epigrammi, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf osservava che il formato era « adatto per un libro di poesia che una signora elegante poteva rapidamente nascondere nel seno». Ne conseguiva che anche una pari quantità di scritto di un medesimo testo poteva occupare rotoli di estensione diversa perché diverso ne era il formato e, di conseguenza, la tipologia

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FIGURA 15 Frammento di un rotolo tolemaico dell'Odissea (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana; PSI VIII 979 ). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

della mise en colonne, la quale regolava il rapporto tra spazio scritto e non scritto. Né va dimenticato che anche il carattere della scrittura poteva influire, sempre a parità di testo, sull'estensione del rotolo. Strettamente correlata a questi aspetti era la distribuzione delle opere in rotoli. Nessun dato certo si può documentare o ricostruire fino a tutto il IV secolo a.C. Solo dal III in avanti si possono rilevare - e forse alla stessa epoca furono stabilite - certe convenzioni librarie, come testimoniano materiali rinvenuti negli scavi papirologici della chora. L'equivalenza rotolo-opera valeva se quest'ultima poteva essere contenuta in un'estensione anche ampia ma pur sempre entro certi limiti; altrimenti, se l'opera era contenuta in più libri, essa era distribuita in più libri-rotoli; o anche, nel caso di uno scritto molto esteso o di un libro particolarmente ampio all'interno di un'opera, si poteva suddividerne il contenuto in due tomi-

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rotoli. Viceversa, se brevi, più scritti di un autore o più libri di un'opera 0 anche sillogi potevano essere aggregati in un unico rotolo in modo che questo non risultasse eccessivamente corto. I libri di origine greco-egizia erano normalmente di papiro, ricavato dall'omonima pianta locale e nilotica; ma libri di altra origine non si può escludere fossero anche o solo di pergamena, la materia scrittoria ricavata da animali e in uso da tempo nel mondo mediterraneo, ma che nell'antichità si volle ritenere "inventata" a Pergamo, quando i Tolomei, per contrastare la concorrenza della biblioteca degli Attalidi, pare abbiano vietato l'esportazione del papiro in quella città, a quanto riferisce Plinio il Vecchio ( 13, 70 ). La conservazione archeologica assai diseguale dei materiali - ricca per l'Egitto, rara o inesistente per altri siti - falsa la prospettiva. Un'idea di quelli che dovevano essere gli antichi rotoli di pergamena si può avere non solo dai più tardi materiali di contenuto biblico di Qumran, ma anche, proprio per il III-II secolo a.C., da un frammento dipieceteatrale da Ai Khanum, in Battriana, ricostruita sul fondamento di un'impronta e ritenuta in origine di pergamena. Di data più tarda - inizio II secolo d.C. - ma assai significativa per la tipologia libraria che rivela è la parte di un rotolo membranaceo dal Simposio di Senofonte ritrovato ad Antinoe, ma per il quale si è ritenuta verosimile - pur se del tutto ipotetica - un'origine mesopotamica. Insomma, la manifattura libraria di età ellenistica (e anche oltre) si deve ritenere più varia e articolata di quella riverberata dai materiali riemersi nella chora egiziana, anche se manca una documentazione adeguata per asseverarne o definirne "particolaristico" il carattere bibliologico. Analogo discorso vale per la complessità del quadro grafico. Se la cifra comune per la produzione sia libraria sia documentaria pare l'assenza di scritture territoriali a favore del carattere "transregionale" non solo di soluzioni grafiche ma anche di tipologie di mise en texte, sono comunque da rimarcare anche certe distinzioni. Le scritture calligrafiche a uso librario, secondo determinate scansioni cronologiche, erano diffuse in tutto il mondo ellenistico (e greco-romano) senza sostanziali differenze giacché proprie di volumina prodotti per e letti da élites colte che erano ovunque le stesse. E invece nell'ambito delle forme grafiche documentarie, corsive o cancelleresche, al di là di certi caratteri evolutivi "transregionali" comuni, si enucleano talvolta caratteristiche locali di qualità o di stilemi, ora effimere ora più durature, traguardate, soprattutto nel caso di scritture cancelleresche, a rendere queste ultime "riconoscibili" perché ufficiali. Insomma, unità o particolarismo grafico sono da vedere in una prospettiva

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non tanto o non soltanto territoriale ma anche socioculturale (aristocratica, burocratica). In Egitto l'archivio di Zenone mostra nella documentazione ufficiale emanata da Alessandria scritture di stile assai più alto e ricercato rispetto a quelle originarie della chora magari di carattere privato. Differenze di qualità grafica, pur se non di struttura, possono ugualmente aver caratterizzato la produzione libraria alessandrina perché destinata, più che altrove, a lettori d'élite. Forse perciò è da credere originario di Alessandria, piuttosto che della chora, un rotolo della Chioma di Berenice di Callimaco riferibile al pieno I secolo a.C. (TAV. 2.b); quel che ne rimane, infatti, «per quanto frastagliato e mal ridotto, rivela, tuttavia, l'edizione di stile e di lusso: ce l'attestano gli ampi spazi interlinei, la regolarità e la sobria eleganza della scrittura, la correttezza dello scriba» (M. Norsa). 6. La biblioteca ellenistica di fondazione sovrana era una biblioteca non solo universale ma razionale: una biblioteca nella quale i libri sono disposti secondo un "ordine". Narra Vitruvio (7, pref., 4-7) che, quando Aristofane di Bisanzio volle smascherare il plagio di un poetastro, trasse fuori dalla Biblioteca di Alessandria una grande quantità di libri che contenevano le opere plagiate ricordando la loro collocazione, giacché questa evidentemente rispondeva a precisi criteri, e Aristofane aveva a sua volta letto quei libri ex ordine. Non diversamente nell'archivio di Zenone i documenti venivano classificati e a essi veniva dato un ordine secondo determinate tipologie. La syntaxis aristotelica, l'ordinamento bibliotecario come ordinamento dei saperi traguardato alla ricerca, si è trasformata nella monarchia dei Tolomei (e, più in generale, nelle monarchie ellenistiche) nell'ordine di una biblioteca universale di saperi, anche del sapere "straniero". A quanto è stato scritto da Christian Jacob per l'Egitto tolemaico e Alessandria - ma il concetto è vero anche per altri regni e altre corti - «i nuovi sovrani vogliono affermare il primato della lingua e della cultura greca, dotare la loro capitale d'una memoria e di radici artificiali, compensare la sua marginalità geografica con una centralità simbolica». Si tratta di un fatto sconosciuto alla cultura della polis sia perché a prevalere è una fruizione collettiva della produzione letteraria o documentaria nelle sue diverse forme, sia perché manca qualsiasi strategia pubblica di una conservazione dello scritto ordinata e sistematica (la stessa biblioteca di Aristotele è in sostanza privata). Quest'ordine significa anche distinzione, fatto anche questo direttamente correlato a tendenze della cultura ellenistica nel suo complesso, come si è già visto.

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Le cifre di volumina conservati nelle biblioteche di maggiore spicco, Alessandria e Pergamo, quali sono tramandate da certe fonti, sono da prendere con cautela (peraltro, nella trasmissione testuale sono proprio le cifre che si corrompono più facilmente). Di certo quelle biblioteche possedevano collezioni librarie di grande consistenza; e, tuttavia, non si deve credere che esse occupassero spazi molto vasti. I più antichi sistemi di conservazione di testimonianze scritte, quali si conoscono dal Vicino Oriente, prevedevano una conservazione intensiva, una forte concentrazione di materiali in ambienti piuttosto ristretti. Gli scavi di Pergamo hanno rivelato che la biblioteca fondata da Attalo I (241-197 a.C.), nella quale si ergeva su un alto podio la statua di Atena Poliade, gravitava incorno a una sala (13,53 x 16,85 metri) decorata su tre lati verosimilmente con statue di vari autori, tra i quali - a quanto risulta da iscrizioni conservate - almeno Alceo, Erodoto e Timoteo di Mileto, ma questa sala doveva essere destinata a riunioni conviviali e dotte degli interni; vi era poi un porticato, sempre a uso interno; e quindi tre stanze-magazzini non ampie, e comunque meno grandi della sala decorata, nelle quali erano collocati i libri. La biblioteca di Ai Khanum in Battriana consisteva di una stanzacorridoio (18,40 x 4,55 metri) che fungeva anche da tesoreria. Di Alessandria mancano testimonianze archeologiche orientative, ma la notizia di Strabone relativa al Museo fa riferimento a una sala, un oikos - quale trova riscontro a Pergamo - in cui i dotti prendevano i pasti in comune. I libri perciò erano conservati in stanze-magazzini. Se la Biblioteca di Alessandria, da Eronda a Strabone, non viene mai ricordata tra le meraviglie architettoniche della città, dipende non solo dalla circostanza che essa rimane sottintesa nel complesso del palazzo/Museo di cui faceva parte, ma anche dal suo configurarsi come una semplice serie di vani nei quali migliaia di libri venivano stipati. In queste stanze-magazzini i libri erano certamente disposti in nicchie o nidi, secondo un sistema di conservazione già attestato nelle biblioteche di tavolette del Vicino Oriente (le nicchie rinvenute a Sippar, 56 in una stanza di 4,40 x 2,70 metri, si dimostrano alte 17 centimetri, larghe 30 e profonde 70 ). È da chiedersi se non abbia influito su certe maniere di conservazione anche la distinzione - quale attestata almeno per la Biblioteca di Alessandria - tra rocoli amigheis e symmigheis, vale a dire rocoli contenenti ciascuno un'opera compiuta, e rotoli che concorrevano insieme a formare un'opera ripartita in più libri. I rocoli symmigheis erano forse posti in contenitori (ad Ai Khanum si sono trovati vasi di argilla aventi

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più complessa, se e in che misura le monarchie ellenistiche, la tolemaica in particolare, abbiano programmaticamente mirato a un'organizzazione della cultura. Di sicuro queste monarchie vollero ammantare le loro corti del prestigio del sapere. I Tolomei si circondano di libri, di eruditi, di letterati - da Filita di Coo a Zenodoto, da Aristofane di Bisanzio ad Aristarco di Samotracia, da Eratostene a Euclide, da Apollonio Rodio a Callimaco - e si fanno celebrare dai poeti per virtù guerresche, saggezza e liberalità; e anche le corti di Pergamo o del Ponto, si trattasse o meno di emulazione, sono colte, e i loro re si circondano di dotti e di biblioteche. I Tolomei affidano i loro figli ai grandi eruditi del Museo sulle orme di Filippo di Macedonia, che aveva voluto Aristotele come maestro di Alessandro; e gli stessi Tolomei incrementano le scienze quando esse possono servire a gestire, a difendere, a perpetuare il potere; colte sono le donne della corte tolemaica come Arsinoe II e Berenice, alla quale Callimaco dedica l 'Aition che ne trasforma la chioma in astro; e Cleopatra, cui pare che Antonio abbia offerto in dono i libri della biblioteca di Pergamo (Plutarco, Vita di Antonio, 58, 9 ), rappresenta l'ultimo bagliore di questo firmamento. Quel che risulta dalle relazioni tra le corti e gli intellettuali è un organico consenso: l'intellettuale dà lustro al sovrano e alla sua corte con la sua attività filologica, letteraria e scientifica, e il re non solo lo affranca dai bisogni, ma gli mette a disposizione tutti gli strumenti di lavoro, dagli uomini vivi per la dissezione anatomica alle raccolte naturalistiche e ai libri. Fu questa l'Alessandria che entrò nel mito, il quale resse e continuò soprattutto attraverso l'immaginario collettivo. La filologia e la scienza alessandrina affascinarono tutta la tradizione erudita posteriore, romana, bizantina e araba; e l'immagine stessa di Alessandria, con i suoi monumenti grandiosi, venne a legarsi alle figure celebri della Biblioteca e del Museo. Nel IV secolo d.C. così scriveva Ammiano Marcellino (2.2., 16, 7, 12., 15): Alessandria è il fiore di tutte le città ed è illustre per molti e splendidi monumenti dovuti al genio del suo grandissimo fondatore [... ] . Si aggiungono a queste opere templi che si spingono al cielo con alti fastigi, fra i quali spicca il Serapeo che, sebbene sia rimpicciolito dalle mie povere parole, tuttavia è così adorno di atri, con amplissimi colonnati, di statue che sembrano vive, e d'opere d'arte d'ogni genere, che nulla vi è sulla terra di più fastoso all'infuori del Campidoglio, di cui va in eterno superba la venerabile Roma. In esso ebbero sede biblioteche di valore inestimabile [... ]. Alessandria stessa non crebbe a poco a poco come le altre città, ma già ai suoi primi inizi raggiunse un'ampia estensione [... ]. Di qui

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vennero Aristarco, famoso nelle spinose questioni grammaticali [... ] e molcissimi altri scrittori in molci rami degli studi letterari, fra i quali si distinse particolarmente Didimo Calcentero, degno d'essere ricordato per le sue conoscenze in vari campi dello scibile.

A mantenere in vita quel mito furono, d'altro canto, testi assai noti alla cristianità come la Lettera di Aristea, con la messa in scena di Tolomeo Filadelfo, Demetrio Falereo, la biblioteca universale, gli antecedenti della traduzione della Bibbia dei Settanta. «Alessandria è e ha la reputazione di essere, sia ieri che oggi, il laboratorio di ogni forma di cultura»: con queste parole uno dei grandi Padri della Chiesa, Gregorio di Nazianzo (Discorsi, 7, 6), elogiava la città nel 368 d.C. Un bilancio, al di là del mito, tuttavia, deve tener presenti, ugualmente, luci e ombre. Fuori del palazzo, gli Stati ellenistici nessuna strategia misero in atto per una qualsiasi diffusione o organizzazione della cultura. Vi furono scuole superiori sovvenzionate forse dai sovrani (ma si ha notizia solo che gli Attalidi si preoccuparono dell'istruzione elementare) e certo dai privati, ma nessuna relazione di carattere istituzionale vi fu era queste scuole e la cultura delle corti. Si può ritenere Alessandria come luogo largamente fornito di scuole e di incentivi all'istruzione, ma piuttosto rare e tarde sono le testimonianze certe e specifiche al riguardo. Le edizioni alessandrine, intese sia come sistemazione tecnico-libraria sia come assetto critico-testuale delle opere, fecero sentire la loro influenza diretta o indiretta ma solo in certi limiti: si pensi in particolare ai papiri omerici. Dei segni diacritici, semeia, utilizzati più abitualmente dalla filologia alessandrina, in particolare da Aristarco - obelos, asteriskos, diple, diple peristigmene -, nei poco più di una trentina di papiri nei quali sono attestati, solo i primi due si ritrovano con una certa frequenza perché più tradizionali, semplici e comprensibili: l'obelos per segnare versi sospetti o spuri, l'asteriskos per rimarcare versi altrove ripetuti. E invece, e non a caso, oltre a obelos e asteriskos, gli altri segni - i quali necessitavano di una qualche dilucidazione in un commentario a parte - si incontrano, peraltro non sempre sistematicamente, in rarissimi papiri. Tra questi è il caso di ricordare almeno P. Tebe. I 4, un frammento del libro II dell'Iliade, da ritenere il più antico papiro omerico superstite fornito di segni diacritici giacché riferibile alla metà o, al più tardi, alla seconda metà del II secolo a.C.: papiro contemporaneo o comunque non lontano dall'attività di Aristarco (TAV. 5). Più tardi, nella tradizione medievale si

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FIGURA 17 Petizione a nome di Flavio Orapollo (P. Cair. Masp. III 67195; Il Cairo, Museo Egizio).© AIP-Center for the Study of Ancient Documents, Oxford University

possono cogliere echi più o meno consistenti dell'attività filologica di Alessandria, ma ne restano in discussione la portata e l'indole precisa. Infine, per quanto riguarda interventi ispirati ai metodi alessandrini su altri autori non solo greci ma anche latini, le certezze sono poche e le zone d'ombra molte. Il sorgere di altri centri di ricerca filologica e di cultura scientifica nel Mediterraneo fece perdere ad Alessandria il suo primato assoluto. Nella tarda antichità essa svolse un suo ruolo culturale che, tuttavia, fu più o meno pari a quello di altre città e poli di attrazione: Antiochia, Gaza, Cireneo ... Costantinopoli, la Nuova Roma. A quell'epoca la metropoli d'Egitto si dimostra ancora centro di scuole e di attività intellettuali. In P. Cair. Masp. III 67295 - copia del VI secolo d.C. di una petizione del v a nome di Flavio Orapollo, figlio di Asclepiade "filosofo" - nella prima parte si fa riferimento ad akademiai e mouseia, da intendere come scuole forse con una diversificazione di pratiche didattiche (FIG. 17 ). In ogni caso ad Alessandria si insegnarono fino a epoca tarda diverse discipline. Alla fine del v secolo Zaccaria Scolastico, nella Vita di Severo, disegna un quadro vivido di Alessandria come sede nella quale giovani confluivano da ogni parte del Mediterraneo per studiarvi grammatica, retorica e filosofia. Nonostante questa e altre fonti si dimostrino piuttosto ampollose e celebrati-

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ve, nella città quelle discipline, cui è da aggiungere la medicina, comunque si insegnarono e fecero scuola anche grazie alla presenza di maestri famosi, da Ipazia al neoplatonico Ammonio e al retore-sofista Aftonio. Per la filosofia, Ipazia, cultrice e insegnante del pensiero pagano, fu figura di spicco, canto che fu fatta assassinare dal patriarca Cirillo (412-444 circa d.C.) per morivi religiosi e/o politici; restò attiva, almeno fino al primo decennio del VII secolo d.C., la scuola neoplatonica, soprattutto dopo lo spegnersi dell'Accademia di Atene, deprivata di beni e fiaccata da Giustiniano, nel 529 d.C.; e forse da Alessandria giunsero a Costantinopoli testi e libri di Platone, di neoplatonici o di interesse neoplatonico che costituirono alcuni dei modelli della cosiddetta "collezione filosofica", un gruppo di manoscritti greci del tardo IX secolo d.C. Scavi archeologici recenti - nel sito di Kom el-Dikka - hanno portato alla luce una sorta di teatro, in sostanza un vasto odeion (TAV. 6a), affiancato da una serie di sale più ristrette, rettangolari o ricurve, con tre lati forniti di due o tre ordini di gradini, capaci ciascuna di accogliervi fino a una trentina di ascoltatori o discenti (TAV. 6b). Riferibili forse al V-VI secolo d.C., queste sale erano verosimilmente destinate a una pluralità di funzioni, potendo servire sia come auditoria per letture di opere letterarie per un ristretto pubblico d'élite, sia soprattutto per epideixeis, declamazioni retoriche. E, del resto, ad Alessandria intorno alla stessa epoca pratiche del genere sono anche altrimenti attestate: Zaccaria Scolastico (Ammonio, ~66-368) riferisce di un temenos ton Mouson, santuario delle Muse, in cui si tenevano epideixeis, e Damascio (Vita di Isidoro, 276) attesta rhetorikai diatribai, esercitazioni retoriche. Quanto al più ampio teatro-odeion inserito nello stesso complesso degli auditoria, è da credere che vi si tenessero perjòrmances letterarie destinate a un pubblico più largo: si può richiamare, a questo proposito, la Gigantomachia di Claudiano, opera che, per la sua dimensione "orale" e non solo "libresca", sembra mirata alla lettura dinanzi all'ampio uditorio di un teatro. Ancor più della filosofia e della retorica fu la scienza medica che, anche in età tarda, fiorì ad Alessandria: nella figura dello "iatrosofista" si affiancavano insegnamento teorico, che questi impartiva, ed esercizio della professione di medico. A partire dal IV secolo d.C. alla scuola alessandrina si formarono figure come quelle di Oribasio, Ezio Amideno, Paolo Egineca, e si adottarono i metodi dell'esegesi filosofica nei comrnencari ai corpora degli scritti di Ippocrate e di Galeno. Al V-VI secolo d.C. si suole attribuire la formazione del cosiddetto Canone alessandri-

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no, il quale - qualsiasi sia l'interpretazione che se ne voglia dare - mostra il ruolo fondamentale delle opere di Galeno negli studi di medicina e il loro irradiarsi da Alessandria nel mondo islamico e nell'Occidente latino. Forse non è un caso che tra gli oggetti di alta manifattura alessandrina si incontra una cassetta per strumenti medici con una placca d'avorio finemente lavorata. Anche quando non vi furono più prodotte nuove opere in greco, molti libri greci di contenuto scientifico-filosofico continuarono a conservarsi. Da fonti arabe si sa che anche più tardi di quell'epoca era possibile trovare e acquistare nella città libri di tal genere. Fu, del resto, dall'Alessandria bizantino-islamica che scritti antichi e tardoantichi di carattere scientifico e filosofico si irradiarono, e fu quindi su esemplari greco-alessandrini che vennero condotte traduzioni siriache e arabe di quegli scritti. Ma che cosa rimase delle opere prodotte dagli Alessandrini nella specie di edizioni, lessici, commenti, monografie? L'isolamento determinò il naufragio di tutto quello che non oltrepassò le mura della Biblioteca e del Museo; anche se talora vi si trova qualche indizio dell'attività di queste istituzioni, in ogni caso autori e testi si tramandarono fino all'età bizantina soprattutto attraverso sia edizioni curate più tardi, in età romana ed estranee ad Alessandria, sia copie private; e a quest'ultimo proposito è forse il caso di ricordare un frammento di commentario al libro II dell'Iliade dell'inizio del I secolo a.C., P. Oxy. VIII 1086, il quale si dimostra, per così dire, "di ispirazione aristarchea" nell'uso di certi semeia, ma che certamente non riflette un commentario aristarcheo originale e costituisce, invece, solo una copia a uso privato di un individuo con interessi eruditi. Lezioni, suddivisioni colometriche, dispositivi di partizione dei testi non sempre sembrano risalire a edizioni del Museo. Infine, quanto all'influenza di metodi della filologia alessandrina su critica o esegesi dei testi cristiani, essa si dimostra certa nel lavorio criticotestuale esercitato da Origene sulla Bibbia, forse anche perché questi era stato educato nella stessa Alessandria, ma nel complesso quell'influenza è stata fortemente ridimensionata; e, del resto, Origene adotta tra i semeia diacritici solo l'obelos e l'asteriskos, i più semplici e comprensibili, che non richiedevano necessariamente un commentario a parte per chiarirne la funzione. Pure, su questo intreccio di luci e ombre è prevalso il mondo delle rappresentazioni. Piuttosto che dai Tolomei, infinite genti sono state dominate dal fascino e dal mito di Alessandria per secoli. E ancora oggi.

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Note bibliografiche 1.

Il passo, qui citato, del De medicina di Celso può leggersi in Mudry (199l,

PP· l1-3, con commento alle pp. I06-11). Sulle statue di Sofocle e del cosiddetto "Cleance" e le differenze nella rappresentazione dell'intellettuale tra civilcà della

polis e civilcà ellenistica, cfr. Zanker (1997, pp. 49-168). Su Museo e Biblioteca di Alessandria rinvio - oltre che alle magistrali pagine di Fraser (197l, pp. 305-35, con note alle pp. 49l-4) - ai lavori di Canfora (1986; Canfora, 1993, cit. a p. 15); spunti e osservazioni interessanti anche nei contributi, più recenti, di Bagnali (lool) e di Maehler (loo3). La notizia e il ruolo svolco dalla figura di Demetrio Falereo nella costituzione della Biblioteca di Alessandria (cfr. Lettera di Aristea, 9, 19) restano comunque incerti: cfr., ancora, Bagnali (lool, pp. 349-51) e Maehler (loo3, pp. 10l-3) e ulcimamente Honigman (lo17, pp. 65-6). Su forme di resistenza etnica e identitaria ellenica nel contesto egiziano interessanti osservazioni sono reperibili sempre in Maehler (loo3, pp. I03-4) e in Del Corso (l014, pp. 306-ll). Sul rapporto tra Peripato e istituzioni culcurali alessandrine, rinvio a Bouchard (l016) e a Montana (lo17, cit. a p. 446). Sugli aspetti che accomunano le figure, pur su altri piani diverse, di Apollonio Rodio ed Eratostene di Cirene, rinvio a Cusset (l017). Spunti sulle differenze era Peripato e Museo possono leggersi in Honigman (l017, pp. 66-8). L

Sulla distinzione era le diverse figure di intellettuale in età ellenistica è da fare

sempre riferimento a Zanker (1997, pp. 169-ll6), ma cfr. anche - in particolare per il nuovo modello di Musa - il contributo di Del Corso (l0o6, pp. 71-95). Sui diversi generi letterari e la loro percezione nella cultura ellenistica, cfr. Rossi (1971, pp. 83-

s). Sui Pinakes di Callimaco, basti il rinvio a Blum (1971). Sul rilievo votivo dovuto ad Archelao di Priene, cfr. Zanker (1997, pp. 18l-3). Notazioni assai pertinenti per quanto concerne la cultura alessandrina si devono aJacob (1996) e a Montanari (1993, pp. 634-5); più in generale sull'organizzazione del sapere in età ellenistica, cfr. Jacob (1997). Sugli scienziati di diverse discipline confluiti ad Alessandria, rinvio all'ordinata sintesi di Argoud (1998). ,.

La frase di Cameron è ripresa da Cameron (1995, p. 1ol). Sul percorso dell'epi-

gramma, cfr. almeno Reitzenstein (1970, pp. Ilo-i). Sul rapporto era filologia alessandrina e ricezione letteraria mediante lo scritto è d'obbligo il rimando a Pfeiffer (1973), ina cfr. anche Bing (1988). Sul brogliaccio di Filodemo, P. Herc. IOlI, e sulla maniera di lavorare di Plinio il Vecchio, mi limito a rimandare alla messa a punto di Dorandi (2.007, pp. 30-4l).

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

72. 4.

Sugli scavi a Sippar e sulle origini mitiche della sua biblioteca, cfr. Pettinato

(1997 ). Su alcre biblioteche scavate in Mesopotamia, mi limito a rinviare al volume a più voci curato da Veenhof (1986). Su scrittura, libri e biblioteche nell'Egitto faraonico, cfr.: Burkard (1980); Meeks (1989, pp. 72.-3); Schlott (1989, pp. 70-6); Quirke (1996). Su "Casa della vita" e "Casa dei libri", basti il rinvio a Roccati (1990, pp. 77-8) e ulcimamente a Bruwier (2.017). Sull'archivio di Zenone, tra i lavori generali apparsi negli ulcimi decenni, vanno ricordati almeno Orrieux (1983; 1985) e Clarysse, Vandorpe (1995). Sul funzionamento amministrativo-fiscale dell'Egitto tolemaico limito il rivio a Burkhalcer (1995). Sugli archivi di Seleucia, cfr. almeno, tra i molci contributi, i lavori di Invernizzi (1996; 2.003, cit. a p. 315). Più in generale, sulle pratiche di registrazione scritta e di archiviazione anche preellenistiche rimando - olcre che ai contributi in Boussac, lnvernizzi (1996) e Brosius (2.003) - a Posner (1972., pp. 12.-70) e a Coqueugniot (2.013a, pp. 2.9-37 ). Su tipologia e funzione dell'esposizione epigrafica nel!' Egitto tolemaico, basti il rinvio al recente Del Corso (2.017, pp. 43-9 ). 5.

Il passo di Galeno può leggersi in Galeni in Hippocratis Epidemiarum librum m,

ed. E. Wenkebach, Leipzig-Berlin 1936, pp. 79-80. Sulle caratteristiche tecniche del rocolo in generale, cfr. Johnson (2.004), con l'avvertenza, tuttavia, che, data l'indole della ricerca, i risultati si riferiscono sostanzialmente all'età romana. Per i rocoli di età ellenistica è da fare riferimento soprattutto al lavoro di Blanchard (1992.), dal quale sono stati tratti i dati qui ripresi. Per il libro di poesia in particolare, rinvio a Scherf ( 1996). Il rotolo di epigrammi cui si allude è P. Berol. 10571 ( =

BKT, V

1, pp.

75-6; la citazione di Wilamowitz è tratta da p. 75). Sul frammento da Ai Khanum, cfr. Hadot, Rapin (1987 ). Il rocolo di pergamena contenente Senofonte è P. Ant.

1

2.6. Sul problema di unità e particolarismo grafico tra scritture greche d'Egitto e fuori d'Egitto, cfr. Crisci (1996) e, per la prospettiva qui discussa, Del Corso (2.015). Il papiro della Chioma di Berenice di Callimaco è PSI to

6.

IX

1092.; la frase citata a proposi-

del frammento è tratta da Norsa (1939, p. 17 ). La citazione è tratta da Jacob (1996, p. 48). Sulla ridda di cifre, tutt'alcro che

affidabili, relative alla consistenza libraria della Biblioteca di Alessandria, cfr. Bagnali (2.002., pp. 353-6) e Almagor (2.017, pp. 2.66-75). Sulla biblioteca di Pergamo, mi limito a rinviare ai lavori più recenti: Nagy (1998); Hopfner (2.002.); Rade (2.003); Coqueugniot (2.0136 ). Sulla biblioteca di Ai Khanum, basti il rimando a Hadot, Rapin (1987 ). Per la distinzione tra rocoli amigheis e symmigheis, cfr. Canfora (1989, pp. 11-3). Sui sistemi antichi di conservazione dei libri, cfr. almeno Sève (1990; 2.0w) e Houscon (2.014, pp. 180-2.16).

ALESSANDRIA, LA VIVISEZIONE, LE INFINITE GENTI

73

7. Sul Serapeo di Alessandria, rinvio a McKenzie, Gibson, Reyes (2.004); in particolare, sulla Biblioteca, cfr. almeno Johnson (1984, pp. 62.-7) e Canfora (1989, pp. i,-6). Sui papiri rinvenuti nel Serapeo di Menfi vi è il lavoro specifico di Del Corso (2.014, pp. 2.85-32.5); ma cfr. anche Clarysse (1983, pp. 57-9) e Thompson (1988, pp. 2.s9-65). Il trattato di scuola stoica, la parodos al Telefò euripideo, lo pseudo-Eudosso sono, rispettivamente, P. Paris 2., P. Med. II 15, P. Paris 1. Il "papiro Didot" è il P. Louvre E 7172.. Del Sogno di Nectanebo è testimone il papiro UPZ I 81. Sulla distruzione del Serapeo, rinvio a Kiss (2.007, p. 193) e a Burgess, Dijkstra (2.013). La complessa questione di tempi e modi della distruzione del patrimonio librario della Biblioteca di Alessandria si devono ad Almagor (2.017) e a Rico (2.017 ). Per un'informazione di carattere generale sulle biblioteche di età ellenistica, mi limito a rinviare a Caruso (2.014). In particolare, sulle biblioteche dei ginnasi - peraltro di incerta ricostruzione - ampi ragguagli sono reperibili in Nicolai (1987) e in Scholz (2.004, pp. 12.5-6). Sulle diverse pratiche di lettura in età ellenistica, mi limito a rinviare a Del Corso (2.005, pp. 31-12.5); sulla lettura nel privato di individui anonimi e su quella simposiale, cfr., inoltre, Del Corso (2.006, pp. 95-w6). La lettera del ginnasiarca a Zenone è contenuta in P. Cair. Zen.

IV

59588, da cui la citazione. I papiri contenenti

l'Ippolito di Euripide, la raccolta di versi e gli epigrammi per il cane Tauron sono, ripettivamente, P. Lond. Lit. 73, P. Lond. Lit. 54 e P. Cair. Zen.

IV

59532.. Un elenco

ragionato dei papiri di Callimaco - sia pur ormai necessariamente datato - si può leggere in Marcotte, Mertens (1990, p. 419); per un quadro più recente, cfr. almeno i saggi raccolti in Bastianini, Casanova (2.006). Il rotolo di Posidippo qui richiamato

è il P. Mii. Vogl.

VIII

309. Sugli interessi antiquari degli Alessandrini, basti il rinvio a

Maehler (2.003, pp. w5-7). 8.

Sulla scuola e sui diversi livelli di istruzione nell'Egitto tolemaico, cfr. alme-

no Maehler (1983) e Thompson (1994). Sulla cultura dei Tolomei, rinvio a Gabba (1984) e a Chauveau (1995). Sul fascino esercitato da filologia, scienza e collezioni librarie alessandrine sulla seriore tradizione romana, bizantina e araba, mi limito a ricordare Delia (1992.). La traduzione del passo di Ammiano è di A. Selem. Sulla

l,ettera di Aristea, rinvio a Canfora (1996) e ultimamente a Honigman (2.017). Le parole citate di Gregorio Nazianzeno possono leggersi in Grégoire de Nazianze,

Discours funèbres, éd. F. Boulenger, Paris 1908, p. 10. Sulla limitata e piuttosto tarda influenza delle edizioni alessandrine, cfr. Bagnali (2.002., p. 360 ). Un'ottima sintesi su uso e funzione dei semeia può leggersi in Pontani (2.005), con ampia bibliografia. In particolare, sui lasciti della filologia alessandrina nella tradizione omerica antica e medievale, basti il rimando a West (2.001, pp. 3-85) e al già ricordato saggio di Pontani (2.005); ma cfr. anche, specificamente per i papiri, Schironi (2.012., pp. 91-wo), con

74

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

bibliografia. Su scuole e pratiche intellettuali in Alessandria tardoantica, rinvio - oltre che al saggio di Watts (2.006) - al recente contributo di Fournet (2.017 ). Sul P. Cair. Masp. III 672.95, cfr. Masson, Fournet (1992.). La testimonianza di Zaccaria Scolastico nella Vita di Severo è ricordata e commentata da Cribiore (2.007a, p. 47 ); la stessa Cribiore (ivi, p. 51) richiama un buon numero di insegnanti famosi attivi nell'Alessandria tardoantica. Sulla cosiddetta "collezione filosofica", i suoi modelli e la sua storia ulteriore, mi limito a rinviare alla messa a punto, con ampia bibliografia precedente, di Cavallo (2.017a). Sugli auditoria venuti alla luce a Kom el-Dikka e la loro funzione, cfr. i saggi raccolti in Derda, Markiewicz, Wipszycka (2.007 ). Quanto si dice sulla Gigantomachia di Claudiano può leggersi in Agosti (2.006). Sulla continuità della cultura scientifica e filosofica ad Alessandria fino al

VII

seco-

lo d.C., sulla produzione scritta della scuola medica alessandrina, sulla reperibilità di libri e sulle traduzioni siriache, arabe e latine, limito il rinvio a Cavallo (2.015c, pp. 390-1) e ultimamente a Garofalo (2.019). In particolare, sul cosiddetto Canone alessandrino seguito negli studi di medicina, cfr. almeno Boudon-Millot (2.007, pp.

cxvm-cxxm). La cassetta per strumenti medici è ricordata da Kiss (2.007, pp. 2.001). Lavori quali Canfora (1992., pp. 2.8-52.) e lrigoin (1993, pp. 54-81) hanno dimostrato che autori e testi si tramandarono fino all'età bizantina da edizioni non di origine alessandrina ma private o più tarde, di età romana. Sui metodi della filologia alessandrina adottati da Origene, rinvio a Schironi (2.012., pp. 100-9); ma, più in generale, l'influenza di quei metodi su scuole e testi cristiani è stata ridimensionata da Van den Broek (1995).

3 Rischio di crolli a Roma

1. A Pompei, a una data anteriore al 79 d.C., su più di una parete, fu tracciato un graffito che suona all'incirca così: «Mi meraviglio, parete, che tu non sia crollata: tu che sostieni il peso di tante scritte moleste». In età imperiale, a Roma e in altri spazi urbani, gli edifici pubblici e privati non raramente si presentavano "carichi" di iscrizioni graffite, incise, dipinte, musive. Il mondo romano di quell'epoca, più in generale, si dimostra un universo di cultura scritta. Del quale anche la rappresentazione odierna della civiltà romana evoca tutta una serie di oggetti. Romanzi, cinema, testi teatrali, opere liriche, spettacoli televisivi, fumetti ispirati a storie, episodi, figure, reinvenzioni di Roma antica tralasciano assai raramente il particolare di un' iscrizione, di un dittico di tavolette sigillato o aperto, di un rotolo chiuso o svolto e letto, di un codice custode di scritti importanti. Non a caso. A quanto si può osservare, infatti, libri o documenti nella specie di rotoli aperti o riavvolti, tavolette già scritte o che si offrono allo scrivere, calamai, penne, raschietti, teche librarie, molto spesso si trovano raffigurati nelle nature morte o nei ritratti della decorazione parietaria di Pompei e di Ercolano, le città sepolte dall'eruzione lavica del Vesuvio nel 79 d.C. Questo scenario è confermato non solo da altre fonti iconografiche di diversa origine, ma anche da testi letterari che ne testimoniano gli usi. A Roma, nell'arco di tempo tra la tarda repubblica e l'inizio del principato, emergono nuovi aspetti della storia del libro e della cultura scritta; e le immagini restituite dalle città vesuviane concorrono a farcene conoscere meglio le tipologie. Molte di queste immagini - diversamente da quelle che riproducono stereotipi della pittura decorativa, come Muse o figure di letterati con attributi simbolo dell'attività intellettuale - riflettono una società che ama rappresentare materiali scritti o dello scrivere perché le sono familiari; la disposizione stessa di quei materiali alla rinfusa o insieme ad altri oggetti d'uso domestico, come nelle pitture della tomba pompeiana di Gaio Vestorio Prisco, ne indica una dimensione

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

quotidiane di scrittura, testi provvisori o estemporanei, brogliacci d'autore, o anche nella documentazione giuridica e amministrativa, civile e militare. Assai spesso queste tavolette erano utilizzate in forma di dittico, ma potevano anche essere riunite a più di due e perciò formare trittici o polittici, nei quali - nel caso di cerae scritte a sgraffio con lo stilo metallico - un rettangolino risparmiato nell'incaglio delle superfici destinato alla cera serviva a evitare lo sfregamento e quindi l'abrasione della scrittura tra una tavoletta e l'altra. In questi polittici - tabellae, codicilli, pugillaria - le tavolette stesse, legate con fili, si voltavano come un block-notes o come le pagine di un libro in forma di codice, a quanto dimostrano sporgenze talora presenti lungo la costola superiore di ciascuna tavoletta, che avevano la funzione di presa. Tavolette di questo tipo sono state ritrovate a Pompei e a Ercolano, in diversi siti d'Europa, nel Nord Africa e in Egitto. Su alcune da Ercolano, riunite in polittici più o meno consistenti, va richiamata particolare attenzione: esse si dimostrano accuratamente lavorate, scritte lungo il lato corto di ciascuna tabella, legate da specie di cerniere costituite da coppie di fili e con tavolette esterne fungenti da legatura, sì da risultare complessivamente veri e propri libri di tavolette di struttura simile a quello che sarà più tardi il codice di pergamena (odi papiro). A quanto ne indica l'accurata rifinitura, questi prodotti dovevano essere forse destinati ad accogliere testi letterari o giuridici piuttosto che scritture quotidiane o provvisorie. Nell'arte decorativa delle città vesuviane e, più in generale, romana non pare raffigurata, invece, un'altra specie di tavolette, quali sono venute alla luce soprattutto nel sito britannico di Vindolanda, un forte romano situato lungo il Vallo di Adriano (presso l'odierna Chesterholm). Riferibili a un arco di tempo tra gli ultimi anni del I e l'inizio del II secolo d.C. e contenenti sia varia documentazione relativa all'animata vita della guarnigione del forte sia lettere private, queste tabellae sono assai sottili e non ceratae, fatte di legno di betulla o di ontano, scritte a inchiostro; alcune, parte di uno stesso documento, recano la scrittura disposta lungo il lato corto delle singole tavolette, come certi esemplari di Ercolano, ma, diversamente da questi, si mostrano ripiegate e fornite di fori di legatura alle due estremità, sicché sembrano essere state in origine strutturate "a soffietto" vale a dire legate tra loro secondo la sequenza base-testa/base-testa per tutta l'estensione del manufatto. Tavolette di tipo analogo, sottili e di tiglio, sono testimoniate, per esempio, da Erodiano (1, 17, 1).

RISCHIO DI CROLLI A ROMA

Non mancavano, infine, supporti scrittori di pergamena, anche questi in forma di dittici o di pugillaria, a quanto risulta, ancora una volta, da restimonianze iconografiche, da qualche reperto documentario in greco proveniente da Dura Europos, in Mesopotamia, e dall'Egitto, e da fonti letterarie. Da queste ultime, in particolare, risulta che brogliacci d'autore, taccuini e materiali scolastici erano, oltre che lignei, anche di pergamena: lignei, certo, si devono ritenere ipugillaria o codicilli di versi sottratti a Cacullo (42.), ma di pergamena erano i taccuini cui fanno riferimento Orazio (Satire, 2., 3, 1-2.; Ars poetica, 386-390) e Quintiliano (lnstitutio oratoria, 10, 3, 31) o anche le breves tabellae alle quali Marziale (1, 2., 1-4) affidava i suoi epigrammi; e ancora di pergamena erano i quaderni di scuola ricordati da Persio (3, IO, 11) nel corredo dello scolaro. Non mancavano tuttavia, almeno a Roma, anche veri e propri codici di pergamena contenenti opere di grandi autori e quindi destinati alla circolazione letteraria, come attesta lo stesso Marziale (14,184,186,188,190). 2.. La notizia dell'annalista Cassio Emina, secondo cui i cosiddetti "libri di Numa" - riportati alla luce nel 181 a.C. e ritrovati in una cassa di pietra accanto a un sepolcro, ormai vuoto, nel quale si credette di riconoscere quello dell'antico re di Roma - erano volumina di papiro, non può essere ritenuta prova certa che già tra la fine dell'vm e l'inizio del VII secolo a.C. questo tipo di materiale scrittorio fosse adoperato in ambito romano, tanto più ove si pensi che per quell'epoca da più parti ne viene ammesso un uso assai raro nello stesso mondo greco. In ogni caso i volumina, a quanto precisano altre fonti, erano in parte greci, di contenuto filosofico-dottrinale, e in parte latini, de iure pontiftcum: almeno per i primi, si trattava di «esemplari verisimilmente già stesi nel mondo ellenico e di lì importati nel Lazio» (E. Peruzzi); e quanto ai latini, la notizia di Cassio Emina - stando a Plinio il Vecchio, che riporta il frammento dell'annalista - non sembra farne alcun cenno, mentre le altre fonti tacciono sulla natura del materiale scrittorio dei libri di Numa. Resta sospetta, peraltro, la stessa autenticità di questi libri. E dunque - anche se una diretta influenza greca su Roma arcaica e fino allo iato determinatosi tra il tardo VI e l' inizio del IV secolo a.C. non si può negare - va comunque detto che la stessa civiltà greca, quanto a modelli librari, non pare aver avuto gran che da offrire a Roma e più in generale all'Italia fino all'inoltrato VI secolo a.C., giacché prima di quest'epoca si dimostra prevalente nella Grecia antica una cultura di tipo orale. La falsificazione della scoperta dei libri di Numa

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

FIGURA 2.4 Particolare di un rilievo raffigurante tabulae e volumina (Bruxelles, Musées Royaux d'Art et d'Histoire, inv. B2.12.5-K). Da Marganne (2.015, tav. s)

fu comunque ben costruita. Scavi archeologici, infatti, hanno dimostrato che nei tempi antichi si usava sotterrare in casse di pietra libri di speciale contenuto; ma questi libri erano costituiti da lamine di bronzo e di altri metalli arrotolate in forma di piccoli volumina o anche poste l'una sull 'altra. E invece proprio il fatto che i libri di Numa erano di papiro - materiale inconciliabile con l'epoca arcaica di questo re - rivelava la falsificazione: non a caso Livio riferisce che essi si presentavano recentissima specie, «di aspetto recentissimo». Altra - e confacente a quanto si deve ritenere anche per il mondo greco ed etrusco prima del trionfo del rotolo di papiro - va creduta la strutturazione dei più antichi libri romani: i quali dovevano essere fatti di più tavolette congiunte insieme, non diversamente dal materiale documentario. Le fonti che ne danno notizia li indicano come codices (basti per tutte la testimonianza di Varrone: antiqui pluris tabulas coniunctas codices dicebant); e questi erano adoperati nella documentazione ufficiale romana fin dall'età arcaica, ma pure, come tutto lascia credere, per i testi della prosa latina primitiva. I cosiddetti commentarii o "memoriali", registrazione dell'attività svolta dai diversi magistrati nell'esercizio delle loro funzioni, così come gli acta, volti ad assicurare l'esecuzione di provvedimenti deliberati dalle stesse magistrature o comunque da corpi legislativi e amministrativi della città, erano scritti su quelle tavolette di legno di solito imbiancate o ceratae, della cui tipologia è

RISCHIO DI CROLLI A ROMA

85

rimasta testimonianza in età più tarda: tavolette, ove occorresse, riunite in forma di codex e numerate, a guisa di pagine, in modo che riuscisse agevole citarne il contenuto. Sono queste, da una certa epoca, le tabulae publicae di conservazione archivistica: se ne può vedere una rappresentazione iconografica, pur se si tratta di archivio privato piuttosto che pubblico, in un rilievo del II secolo d.C. da Buzenol - sito in territorio gallo-romano - raffigurante documenti nella specie sia di tabulae sia di volumina conservati insieme (FIG. 2.4). Va osservato che i commentarii, i quali potevano anche riportare acta propri della gestione di determinate magistrature, erano talora redatti in forma narrativa. Di interesse ancora più spiccato il caso degli annali dei pontefici, considerati la prima forma di storiografia romana già dagli antichi (cfr. Cicerone, De oratore, 2., 12., 52.-53; Quintiliano, Institutio oratoria, 10, 2., 7; Dionigi di Alicarnasso, 1, 73, 1). Si è ritenuto, infatti, che essi fossero cosa distinta dalle tabulae dealbatae: queste contenevano in forma assai scarna e sommaria i fatti degni di memoria accaduti nell'anno ed erano esposte dai pontefici a uso del popolo, a che questo venisse a conoscenza di quei fatti; mentre, a quanto si deve credere, gli avvenimenti resi noti dagli annali erano redatti anche nella specie di «narrazione storica continua» (B. W. Frier), in pratica in forma di commentarii, venendo a costituire i veri e propri annales pontificum destinati alla conservazione. Questi annales erano dunque anche libri, e libri che non potevano essere che lignei, un insieme di hierai deltoi, "sacre tavolette", nella testimonianza, già ricordata, di Dionigi di Alicarnasso. In conclusione, i commentarii di magistrati, di pontefici o di altri collegi sacerdotali erano libri di tavolette. Per farsi un'idea di come si presentassero, sotto l' aspetto materiale, questi codici lignei bisogna osservare alcune raffigurazioni di bassorilievi dei primi secoli di età imperiale come, in particolare, il rilievo dell'"esattore delle tasse", il cippo sepolcrale detto "ara degli scribi" e gli anaglypha Traiani. Nel primo si può osservare un esattore che trascrive su un registro di tabulae lignee una somma di denaro versatagli (FIG. 2.5). L'"ara degli scribi" raffigura due fratelli, scribae librarii morti in giovane età, in atto di svolgere la loro attività su tabulae a uso dei magistrati, giacché era con questi ultimi che la categoria degli scribae librarii collaborava (FIG. 2.6). Gli anaglypha Traiani - due balaustre forse provenienti dalla sede di un tribunale pretorio - mostrano scene di condono fiscale, concesso dall'imperatore Traiano (98-117), nelle quali sono raffigurati grandi tabulae contenenti da una parte i provvedimen-

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Particolare del rilievo raffigurante un "esattore delle tasse" (Treviri, Landesmuseum). Da Schindler (1970, lì.g. 149)

FIGURA 15

ti imperiali per annullare i debiti fiscali, e dall'altra le registrazioni dei debiti stessi (FIG. 27 ). Anche in ambito privato, i resoconti di cariche o altra documentazione, che le famiglie patrizie o comunque abbienti conservavano nel tablinum, il vano della domus in cui si trattavano questioni e affari, erano in epoca più antica su codici lignei, come attestano le fonti (Livio, 6, 1, 2; Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 35, 7 ). Ma è lecito andare oltre. Da un frammento dell'orazione De sumptu suo di Catone risulta certo che una delle sue orazioni era conservata in forma libraria definitiva su codice di tavolette; ed è assai verosimile perciò che anche le altre orazioni, e forse più in generale le opere dell'autore, fossero contenute in libri lignei: segno ulteriore che fino a quell'epoca circa erano questi a Roma i libri della prosa letteraria. La figura di Catone impone di far cenno anche alla testualità scritta dei primi fondatori della giurisprudenza romana e ai suoi supporti: una volta superata la fase delle consuetudini orali, gli scarni testi che nel II secolo a.C. ordinarono per eventi la prima sapienza del ius è verosimile fossero, ancora una volta, su tavolette. Dell'indole specifica di questo tipo di supporto si è già detto. Se ceratae e numerose, queste tavolette non potevano che costituire un codice

RISCHIO DI CROLLI A ROMA

flGURA l6 Particolare dell'"ara degli scribi" (Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano, inv. 475113). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

vero e proprio; ma gli scavi - si è detto - hanno portato alla luce anche tabellae più o meno sottili, come quelle di Ercolano o di Vindolanda, adatte perciò sia a essere direttamente rilegate in codici, anche di numerosa consistenza e di larga capacità, sia a essere ripiegate e congiunte a soffietto. In quest'ultimo caso si trattava sempre di tavolette non ceratae e si aveva una forma intermedia di manufatto: analoga al codice, giacché se ne potevano voltare le pagine a due a due, ma complessivamente vicina anche a un rotolo, essendo sostanzialmente costituita da una banda di tavolette scritte su un solo lato e congiunte (mentre gli elementi costitutivi di un codice sono scritti da una parte e dall'altra). A quest'ultimo proposito, non a caso, Ulpiano (Digesto, 32., 52, pr.) più tardi pone tra i volumina, considerandoli libri, un tipo di manufatto di materia lignea, che forse va identificato con il libro a soffietto. Altre fonti di epoche diverse - da Plinio il Vecchio (Naturalis historia, 13, 69) a Isidoro di Siviglia (Etimologie, 6, 13), per esempio - insistono sull'uso in età più antica di libri fatti di corteccia d'albero, indirettamente testimoniando, così, che nella Roma più antica mancò una linea di demarcazione tra contenitori di testi documentari e letterari: tavolette di legno, congiunte a dittici, a trittici, in forma di codice o di soffietto assolsero l'una e l'altra funzione. Del resto, questo tipo di libro, povero e grezzo, si attaglia del tutto, nella struttura fisica, a quella che fu la società romana prima dell'epoca delle grandi conquiste e della tarda repubblica: una

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FIGURA 2.7 Balaustre degli anaglypha Traiani con raffigurazione di grandi tabulae {Roma, Foro Romano, Curia). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

società «vissuta in modo patriarcale, con un orizzonte culturale mantenuto volutamente rustico, confacente a una tradizione di parsimonia e di semplicità, che era dovuta a un potenziale economico, individuale e collettivo piuttosto modesto» (R. Bianchi Bandinelli). Nella Roma dei primi secoli l'uso stesso della scrittura si deve ritenere circoscritto al corpo sacerdotale e ai gruppi gentilizi, depositari dei più antichi saperi della città. E anche la prima letteratura di Roma fu arida e spoglia; «le forme primitive di essa [... ] restavano strettamente legate a esigenze "pratiche" della vita associata» (S. Mariotti). Queste forme letterarie erano carmina d'indole sacrale, formule liturgiche, responsi oracolari, o annales dei pontefici o di quanti, senza alcun ornamento stilistico, lasciarono ricordo scritto soltanto di date, uomini, luoghi, facci; o erano ancora prosa oratoria e giuridica, mortuorum laudationes, secche memorie di famiglie dagli orizzonti limitati all'onesta e parca gestione di magistrature: una letteratura, quindi, cui erano sufficienti libri rudi. Catone - a quanto riferisce Plutarco ( Vita di Catone Maggiore, 2.0, 7) - componeva e scriveva, forse su tavolette, comunque di sua mano e « a grossi caratteri» - allo scopo di renderla più chiara alla lettura - la storia di Roma a che il figlio nella sua stessa casa potesse giovarsi dell'esperienza del passato. Più in generale il libro a quest'epoca è un prodotto domestico trascritto, se non dall'autore stesso, dagli schiavi di casa, e domestica è pure la cerchia dei lettori, limitata al proprietario, ai familiari, al più a pochi intimi. Roma, fin dai primi secoli, ebbe anche un altro tipo di libro, conosciuto, più in generale, nell'Italia antica: il libro a soffietto ma fatto di cela di lino, materiale scrittorio tra i più adoperati in età arcaica, talora

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anche nella documentazione privata. Lintei erano i libri magistratuum, restimoniati nel tempio di Giunone Moneta nel 344 a.C., e quindi da ritenere custoditi, prima di questa data, in altro spazio sacro. Che il contenuto - in pratica liste di magistrature - dipendesse dagli annales pontificum è ipotesi di Ernst Kornemann, ma, quanto alla conservazione sacrale che ne è attestata, è da tener conto della mancanza, fino all'epoca della repubblica tarda, di un deposito archivistico di Stato, il tabularium. Questi libri costituiscono materiali sostanzialmente documentari; e sotto il medesimo aspetto, più tardi, libri lintei erano adoperati per le effemeridi degli imperatori, forse come vezzo arcaizzante. Ma di lino erano anche i libri Sybillini, introdotti da Cuma in Roma al tempo di Tarquinio il Superbo, scritti in greco e recanti gli oracoli relativi ai fata et remedia Romana; e di lino erano altri libri associati nelle fonti a fatti e luoghi sacri, cerimonie rituali, res antiquae: tali sono i libri lintei attestati presso i Sanniti, ad Aquilonia, o nel paese degli Emici, ad Anagni. Un testo liturgico è quello dato da un superstite manufatto in lingua etrusca, il cosiddetto liber linteus di Zagabria. Uso e conservazione di questi libri attenevano, dunque, alla sfera del sacro. Vi è da credere, di conseguenza, che di lino fossero anche i libri depositari di un sapere sacrale cui nella Roma antica era riservata una conservazione esclusiva, in loca secreta, detti perciò libri reconditi: non solo i libri Sybillini, ma pure i libri sacerdotali nei quali era scritto l'absconditum ius pontificum, o quelli contenenti i commentarii augurum. Mancano superstiti esemplari lintei romani, ma si è in grado di ricostruirne la tipologia proprio sul fondamento del pur frammentario manufatto etrusco di Zagabria, prodotto tra il II e il I secolo a.C. Questo libro mostra attualmente una lunghezza di 3,40 metri e un'altezza di 35 centimetri (40-45 in origine); il tracciato della scrittura si rivela piuttosto pastoso; l'impaginazione è a colonne di trentadue righe ciascuna, larghe circa 24 centimetri, assai più ampie di quelle di regola attestate nei rotoli di papiro; le colonne stesse sono rigidamente delimitate da filettatura in rosso. La struttura complessiva risulta quella di una benda ripiegata a soffietto, con pieghe al centro dello spazio tra le due linee rosse verticali delimitanti le colonne, venendo così queste ultime a combaciare a due a due a guisa di pagine da sfogliare da destra verso sinistra, non diversamente da un codice. Monumenti sepolcrali etruschi raffigurano defunti con tavolette o volumen (FIG. 28) o anche, già nel IV secolo a.C., con un drappo ripiegato accanto, nel quale è da identificare

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FIGURA 2.8 Sarcofago di Laris Pulenas con il defunto che tiene in mano un volumen (Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

un libro di cela di lino a soffietto (FIG. 29 ). I libri lintei romani avevano di certo la medesima strutturazione. Resta da chiedersi quando il rocolo di papiro - diffuso nel mondo greco almeno fin dal VI secolo a.C., ma noto già da prima - penetrò a Roma come supporto librario, divenendo man mano d'uso corrente. Il fenomeno va collegato a due facci di capitale importanza, che segnano la cultura romana era lo scorcio del III e l'inizio del I secolo a.C.: la nascita di una letteratura latina innervata da modelli greci e l'arrivo a Roma, con i bottini di guerra, di intere biblioteche ellenistiche. Questa è l'epoca, infatti, di una sempre più marcata influenza greca e dell'insorgere di uno smanioso collezionismo di oggetti, e quindi di libri greci nel mondo romano. Se la nascita di una letteratura latina trova conforto nell'unificazione dei popoli italici e delle conquiste mediterranee sotto il dominio di Roma, l'impulso decisivo venne da «pochi uomini aperti e ardici» (S. Mariocci), sorretti da un'identità etnico-culturale, e da un numero assai ristretto di letterati intrisi di ellenismo, i quali riconobbero negli exemplaria Graeca il referente diretto o indiretto, comunque obbligato, della costruzione di nuove forme letterarie.

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FIGURA 2.9 Particolare di sarcofago etrusco con libro ripiegato "a soffietto" accanto alla testa del defunto ( Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco, inv. 14949). Da Cavallo (1989, fig. 1)

Non diversamente avvenne nella storia del libro. Livio Andronico, nel III secolo a.C., rappresenta l'uomo di lettere che, con le sue traduzioni in latino dell'Odissea e di testi teatrali per i ludi Romani, introduce per primo modelli letterari greci; ma egli rappresenta anche, in quanto originario della Magna Grecia, quelli che dovettero essere i primi tramiti di una circolazione di volumina greci di papiro. In ogni caso in Ennio (Annali, fr. 458 S.) e, poco dopo, in Lucilio (fr. 798 Kr.) si incontrano le prime attestazioni certe dell'uso di questo materiale scrittorio, e quindi del rotolo, nel mondo romano. È ormai il II secolo a.C., epoca di una generazione e di un circolo, quello degli Scipioni, innovatori sia sul piano politico-sociale sia nel promuovere un programma culturale di ispirazione ellenistica. Da questo momento i valori greci non sono tanto quelli che si chiedono a un autore di teatro, a un liberto colto o a un maestro di scuola; quei valori sono assunti, praticati e imposti dalla stessa classe dirigente, giacché Roma, nell'avviarsi ad assurgere a centro del potere, sente di doversi anche "acculturare"; ma acculturarsi significa ellenizzarsi. Nella storia del libro, il codice di tavolette di Catone e il rotolo di papiro di Ennio e di Lucilio sono il riflesso di un'esitazione, l'ultima, in atto.

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in età repubblicana su tabulae dealbatae o dipinti, essi all'epoca di Augusto si mostrano incisi su marmo. Con il più ampio diffondersi dell'alfabetismo, scritte di varia specie rivolte al pubblico si moltiplicavano non solo sugli edifici della città - si pensi già solo a tavole con catasti o disposizioni di immediata applicazione - ma anche sui monumenti come, per richiamare un esempio illustre, il testamento di Augusto esposto sul protiro del mausoleo del princeps. E, d'altra parte, templi e santuari sempre più esponevano scritte dall'esterno e all'interno: arule votive, dediche, leggi sacre, inventari dei tesori, spesso oggetti rituali costituivano una messe di scritte che si riversava sui visitatori. Nei fori si ergevano statue, basi onorarie, trofei sempre provvisti di apparato epigrafico, quasi «orto delle memorie» (G. Susini), dove si poteva transitare o sostare. Vi erano poi le scritte dipinte - si è accennato - in capitale rustica a pennello o a pennellessa di carattere propagandistico o puramente pratico che si potevano vedere ovunque pulsasse la vita urbana: manifesti elettorali, annunci di spettacoli, vendite di immobili, offerte di fitto, insegne commerciali, indicazioni di merci (FIG. 33). E vi erano, ancora, le scritte di intrattenimento associate alle immagini in veri e propri "fumetti" dipinti o musivi (TAV. 7a). Dagli spazi pubblici lo scritto si estendeva sempre più a quelli domestici. Anche all'interno delle case urbane e delle villae, infatti, messaggi graffiti, incisi, dipinti o musivi si espandevano nei diversi ambienti: erano avvertimenti, come cave canem, o formule di saluto, o didascalie di figure, o motti. Ugualmente testimoni di messaggi scritti erano tanti oggetti della vita domestica, dalle etichette segnaletiche di piombo ai cucchiai e ai bussolotti per il gioco dei dadi. E pur se tutto questo vale, come è ovvio, per dimore in città e villae suburbane delle élites, si trattava di un mondo non limitato a queste ultime ma esteso a schiavi e liberti dellafamilia così come a visitatori e clientes: tutti partecipi dello scritto di cui la domus romana era spesso intrisa. A queste scritture della vita facevano da contrappunto - anch'esse numerosissime - le scritture della morte, vale a dire le iscrizioni funerarie, le quali si affollavano soprattutto lungo alcune delle vie consolari attorno alla città, le più antiche vicino al pomerio, in pratica alla cinta urbana. Queste iscrizioni non erano riservate solo ai grandi, giacché almeno dall'età augustea in poi l'usanza di «un ricordo funebre scritto venne estendendosi anche ad appartenenti alle classi medie e medio-basse della società e raggiunse in particolare i liberti» (A. Petrucci): si pensi al monumento funebre romano del liberto e fornaio Marco Vergilio Eurisace del tardo I secolo a.C. Un'altra testimonianza dell'estendersi di questo messaggio sepolcrale,

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FIGURA

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33 Cartellone con dedica agli imperatori Diocleziano e Massimiano (P. Oxy.

Oxford, Sackler Library). Su concessione Egypt Exploration Society - Universiry ofOxford lmaging Papyri Project XLI 2.950;

pur se in forme meno vistose, è costituita ali' incirca tra gli anni 30-20 a.C. dal colombario di Villa Doria Pamfilij i cui spazi per olle funerarie - costruiti, a quanto pare, per essere venduti prevalentemente a liberti - mostrano i nomi dei defunti iscritti in tabulae ansatae. Ma fu soprattutto il cristianesimo che diede agli umili la dignità di una morte scritta, a quanto le catacombe largamente documentano. Sempre e comunque, ali' aperto o in luogo chiuso, a Roma gli epitaffi hanno inteso comunicare per iscritto qualcosa del defunto, quasi i morti volessero instaurare, mediante richiami al lettore, un colloquio con i vivi e farsi conoscere da questi. Vi erano, ancora, le scritte mobili prodotte dal potere pubblico o per iniziativa privata, intorno alle quali si affollavano in determinate occasioni le voci leggenti del populus, nella molteplicità delle sue stratificazioni

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sociali: tituli solennizzavano le offerte di ex voto; cartelli relativi a guerre di conquista, iscritti con res gestae, acclamazioni, formule rituali, e spesso istoriati con le imprese del vincitore, venivano innalzati tra spolia e captivi nei cortei trionfali; ritratti funerari accompagnati da scritte nominali e onorifiche sfilavano nelle processioni delle esequie; cartigli rendevano noti al popolo, in occasione delle damnationes, i crimini del condannato. E ancora, le "frange", per così dire, della cultura scritta romana comprendevano signacula di origine o di augurio o d'altra specie impressi sui cibi, scritte su stoffe quali vexilla o striscioni di lino, lettere d'avorio per l'insegnamento elementare di base. Queste scritte su materiali deperibili sono andate perdute, ma esse, numerosissime, erano parte essenziale di momenti di coinvolgimento collettivo della città. Né vanno tralasciati altri modi di circolazione dello scritto, fosse questo affidato a materiali duraturi o deteriorabili: tavole di legno imbiancate, monete, scudi militari iscritti, manufatti in laterizio o piombo con iscrizioni di vario genere, libelli evolantini in versi o in prosa, distribuiti in luogo pubblico a scopi polemici e diffamatori, gettoni con legende, cahiers de doléances, lettere, semplici biglietti. Si deve tener conto, inoltre, della documentazione ufficiale, civile e militare, e di quella della prassi giuridica, sterminata ma pervenutaci solo in minima parte; né va dimenticata la letteratura latina sommersa, che costituiva una massa impressionante di testualità prodotta e diffusa. Non vanno tralasciati, infine, i graffiti, largamente attestati soprattutto a Pompei, ma ben presenti anche a Ercolano, a Roma e altrove in Italia e nelle province. Essi costituivano, nella grande varietà dei messaggi che rimandavano, la maniera di cultura scritta più diretta, spontanea e immediata nel mondo romano, "esplodendo" anch'essi in età augustea e nei primi secoli dell'impero. Incisi "a sgraffio" o tracciati "a carbone", essi "esponevano" e rimandavano saluti, complimenti, motti spiritosi, ingiurie sguaiate, sospiri d'amore, oscenità brucali, più volte solo nomi. Né mancavano graffiti più colei, con i loro richiami a testi letterari o di scuola, soprattutto a Virgilio e ali' Eneide. Stilo e parete potevano servire, inoltre, per una qualche, per lo più modesta, composizione letteraria: spesso si trattava di testi autografi, composti per la prima volta su un intonaco. E tra questi autografi sono forse da annoverare gli epigrammi di Tiburtino, assai noti, graffiti nel teatro di Pompei (FIG. 34). Gli spazi che accoglievano questa scrittura "libera" erano qualsiasi superficie, esterna o interna, su cui si potesse scrivere: pareti, colonne, statue con i loro basamenti, ambienti di edifici pubblici e di domus o di villae private, botteghe, caserme. A chi

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FIGURA 34 Particolare degli epigrammi di Tiburtino nel teatro di Pompei (cIL IV 4966-8). Da Morelli (2.000, fig. 7)

appartenevano le mani dei graffiti? In verità, quando manca qualsiasi riferimento, nulla si può dire di questo formicolante mondo di scriventi che si muove tra fori, strade, vicoli, terme, palestre, osterie, latrine. Questo mondo di cultura scritta così vario, articolato e ricco non significava, certo, una presenza sociale del libro altrettanto generalizzata, ma costituiva in ogni caso la scena sulla quale il libro poteva presentarsi in vesti diverse e assolvere funzioni multiformi, da supporto di opere letterarie a strumento di letture scolastiche, da prodotto di consumo a status symbol, fino talora alla sua condanna a cuocere il pesce "al cartoccio" o a incartare merci o anche a ... ripulirsi dagli escrementi del ventre. La circolazione di un'opera iniziava dalla cerchia dell'autore, passando attraverso fasi che, tuttavia, non si devono considerare fisse né sotto l' aspetto della testualità né sotto quello della fisicità materiale dei prodotti. 4-

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Le diverse fasi erano correlate al genere di testo letterario, alla destinazione dello scritto, al tipo di circolazione, alla condizione e allo scrupolo dell 'autore. Certo, la più parte delle opere circolava in forma definitiva, ma vi erano anche scritti che l'autore non desiderava pubblicare e che destinava a un ristretto numero di amici, compagni di studio e scolari, e altri che, variamente sollecitati e richiesti prima che fossero compiuti e perfezionati, l' autore faceva circolare almeno tra pochi sodali (caso esemplare le Metamorfosi di Ovidio). La prima stesura avveniva con modalità diverse a seconda che si trattasse di poesia o di prosa, ma il supporto adoperato inizialmente per comporre un testo era di norma costituito da tavolette per lo più ceratae o foglietti di pergamena. La pratica più attestata per la composizione in versi risulta quella della stesura autografa, mentre per la prosa - si trattasse di opera storica o di trattato retorico, filosofico o scientifico - si ricorreva alla dictatio, ma dopo un processo compositivo diluito in più fasi che andavano dalla raccolta di estratti, richiami e note di lettura, a una selezione e a un primo ordinamento dei materiali da rifondere nel testo della composizione. Per il testo, sia in versi sia in prosa, iniziava quindi un percorso fatto di revisioni, da parte dell'autore stesso, ma anche di suggerimenti, rilievi e correzioni ad opera di una "comunità di letturà' cui lo scritto veniva sottoposto. Quale esempio-tipo di questo percorso si può invocare quello di Plinio il Giovane che, tuttavia, non deve essere generalizzato giacché talora potevano mutare certi dettagli. Scrive l'autore (cfr.Epistole, 7, 17, 7 ): non lascio da parte alcun genere di correzioni. In primo luogo considero tra me e me le cose che ho scritto; quindi le leggo a due o tre persone; poi le affido ad altri perché vi appongano le loro note; se sono in dubbio torno a considerare quelle note con l'uno o con l'altro; da ultimo le recito a un maggior numero di persone e, se vuoi credermi, è proprio allora che correggo nel modo più spietato.

In altri casi, soprattutto quando si trattava di componimenti in versi, era la lettura in cenacoli o conviti o, in forma più ufficiale, in aule scolastiche o in auditoria-teatri - comunque la lettura rivolta non a due o tre persone, ma a un pubblico - quella che l'autore, o un amico e "critico", dava, come primo saggio, dell'opera o di parte di questa per suscitare le prime reazioni. Si possono ricordare per Roma auditoria annessi alle biblioteche, quali gli scavi archeologici hanno permesso di identificare per la biblioteca del Templum Pacis, o auditoria di più ampia ricettività, come quelli fatti costruire da Adriano. Al momento della recitatio di certe opere, una circolazione di copie poteva ancora mancare. Nel caso di testi filosofici o

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storiografici, una performance orale il più delle volte forse non era prevista, a favore, piuttosto, di un lavorio operato tra l'autore e la sua cerchia più intima. A un dato momento - vi fosse stata o no una recitazione orale - si passava a un pubblico di lettori più ampio. Anzi, "pubblicare" significava in quest'epoca soltanto lasciare che l'opera circolasse in più copie e potesse essere letta liberamente, senza diritti d'autore né implicazioni sul sistema di distribuzione. Si sa di opere diffuse addirittura all'insaputa degli autori stessi. Il prodotto librario messo in circolazione non sempre era nella specie di un volumen. Nel caso degli Epigrammi di Marziale - diffusi o ripresi singolarmente o in brevi raccolte a uso di intrattenimento nella vita sociale della città prima di essere riuniti in un'edizione "ufficiale" - la strutturazione materiale si dimostra nella forma di minuti codici; anzi, il momento di un'edizione "ufficiale" degli epigrammi, il loro organico comporsi in un vero e proprio libro, è avvertito da Marziale come "salto" dei suoi versi da poesia occasionale, di intrattenimento conviviale o di consumo, a letteratura destinata alla lettura colta. Il mondo della produzione testuale e libraria antica è complesso. Il referente dell'autore, della sua opera, quindi del suo libro, è il pubblico, inteso nel senso più largo dei circoli letterari. A Roma un pubblico di lettori anonimi, o meglio sconosciuto agli scrittori, si formò tardi e lentamente; e, del resto, un pubblico del genere non preesiste alla produzione letteraria, ma si forma insieme a questa dall'interazione tra autori e destinatari. Dalla tarda età repubblicana emergono sempre più nuove fasce di lettori: Cicerone (De finibus, s, 52) riferisce di individui di modesta condizione sociale, anziani, artigiani, che leggevano opere di historia non per 1' utilitas ma per la voluptas, il piacere di leggere, testimoniando così il formarsi di quel pubblico di lettori nuovi, non più limitato a circuiti ristretti e individuali. Circoscritto all'Italia fino all'età augustea, questo pubblico diventa molto più ampio, vario e sparso su tutto il territorio dell'impero man mano che l'egemonia sociopolitica e culturale dell'Italia rispetto alle province viene ad affievolirsi, e quando i letterati stessi, grazie a una più accentuata mobilità etnica e sociale, emergono dai ceti medi e dalle città di provincia. Il pubblico dei lettori, tuttavia, resta sempre una minoranza, pur se comunque in grado di sostenere una produzione letteraria e libraria in lingua latina. Vi erano, innanzi tutto, le cerchie aristocratiche colte dedite ali' otium letterario. Vi era poi, a queste strettamente legata, la schiera di grammatici e retori, talora schiavi o liberti. Ma nella prima età imperiale vi era anche un nuovo pubblico di lettori - vulgus, media plebs, come indi-

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cata da Orazio (Epistole, 1, 2.0, u) e Ovidio (Tristia, 1, 1, 88) - distinto da un lato dalla massa degli incolti, dall'altro dai letterati di mestiere e dalle fasce alte della società che intorno a questi gravitavano. Paul Veyne ha di recente richiamato l'attenzione su questa media plebs, la cui unità era fondata sul comune sentimento di appartenenza a un medesimo strato sociale, e i cui membri erano consapevoli di essere inferiori agli ordini decuriali, dei cavalieri e dei senatori, ma fieri di sentirsi superiori alla plebe più umile e misera. Si trattava di uno strato sociale nel quale rientravano proprietari fondiari, che traevano risorse dalla terra ma che vivevano in città e formavano una "borghesia urbana", apparitores di magistrati, quanti esercitavano attività imprenditoriali, finanziarie, commerciali e artigianali, o svolgevano funzioni modestamente intellettuali, come maestri di scuola, scrivani pubblici, tachigrafi, a quanto testimonia largamente la documentazione epigrafica. Questa media plebs si trovava non solo a Roma ma in tutta l'Italia e anche altrove, pur con differenze di composizione sociale e di possibilità economiche. I suoi membri - conclude Veyne - rappresentavano «le Romain ordinaire». E, tuttavia, questa media plebs come pubblico di lettori non costituiva una collettività omogenea di cultura, ma. varia sia per estrazione sia per educazione ricevuta, si presentava assai stratificata, e perciò con interessi e scelte di lettura differenziati e talora "trasversale" tra le varie fasce. Si trattava dello stesso pubblico che partecipava ai ludi Florales, per il quale Marziale scriveva i suoi epigrammi scommatici o versi d'occasione e Plinio il Vecchio la sua Naturalis historia. Ma se tra questa media plebs vi era un lettore in grado di intendere anche una letteratura più o meno colta, ve n'era un altro che non oltrepassava la soglia di lettura di certi versi - i più semplici - di Marziale, di opere tecniche, di testi strumentali, o, a un livello ancora più basso, di scritti di contenuto vario ma accomunati da una lingua accessibile e colloquiale: numero, stratificazione e disomogeneità culturale del pubblico disponevano gli autori a rispondere con composizioni mirate a certi interessi letterari talora degradati. A Roma non era raro perciò imbattersi ovunque in qualcuno di quanti formavano questo pubblico: Marziale (u, 1, 9-16) riferisce che al portico di Quirino, tra la turba oziosa che fantasticava e scommetteva sugli aurighi Scorpo e Incitato, si potevano incontrare due o tre lettori delle sue poesiole o anche di una facile letteratura di evasione. Tracce scritte di questo complesso pubblico letterario, dal più modesto al mediamente istruito e, talora, colto, sono testimoniate - si è accennato - anche dai graffiti incisi sui muri di Pompei.

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Vi erano donne tra questo pubblico? Escluse dallefarenses res, non moire si devono ritenere in ogni tempo le donne che nella città frequentassero una scuola o un maestro. Le giovinette alfabetizzate, come quelle che nel I secolo d.C. Marziale (9, 68, 1-2) immagina istruite da un magister tronfio e odioso, non erano certo numerose.C'erano, e c'erano state fin dalla Roma repubblicana, matronae e puellae doctae saldamente in grado di leggere e scrivere (si pensi a Cornelia madre dei Gracchi ricordata da Cicerone, o alla Sempronia di Sallustio cultrice di lettere greche e latine); e se Terenzio (Eunuco, u6-u7) rispecchia una situazione romana e non un modello greco, si può intravedere che in certe buone famiglie madri non incolte impartivano un qualche insegnamento alle figlie. Ma queste figure costituiscono una minoranza. E peraltro, in un certo modo di vedere della società romana,- riverberato da Giovenale ( 6, 434-456), una donna «dotta e faconda», che consulta manuali di grammatica e che smania per « anticaglie erudite», è ritenuta detestabile; anzi è meglio se una donna «non capisca qualcosa di quel che legge nei libri». Marziale (2, 90, 9) è lapidario: sit non doctissima coniunx, meglio, insomma, una moglie ignorante! E Luciano (36, 36), buon conoscitore del mondo romano, ironizza sulle donne che « si portano in giro retori, grammatici e filosofi prezzolati» ma senza dar loro adeguato ascolto giacché distratte da trucco, acconciatura dei capelli o dal messaggio di un amante. Fin da età antica, in verità, a Roma erano soprattutto i maschi che acquistavano un qualche grado di istruzione. Tuttavia - nonostante queste riserve, talora grevi, ma forse rivolte soprattutto a donne saccenti più che mediamente istruite-, l'età imperiale segna un più largo ingresso delle donne nel mondo della parola scritta. Ed è Ovidio, in particolare, che si pone come figura chiave nel cogliere e nel rappresentare questo aspetto dell'emancipazione femminile. Biblide, turbata dall'amore incestuoso per il fratello, cerca di esprimere in parole incise su una tavoletta, cancellate e riscritte, i suoi sentimenti insani e tumultuosi (Metamorfosi, 9, 522-525); Filamela, essendole stata mozzata la lingua, intesse nella tela un miserabile carmen con il racconto dello stupro subito sì che sua sorella possa leggerlo (ivi, 6, 576-583); le heroides, come Briseide, scrivono lettere autografe e perciò talora chiazzate dalle lacrime che ne accompagnano la scrittura o la rilettura (Epistole, 3, 1-4). Alle donne Ovidio dedica il terzo libro dell'Ars amatoria; le donne sono necessariamente le lettrici del suo trattatello di cosmesi, i Medicamina faciei, sui preparati e sulle arti del trucco femminile; ai tormenti d'amore delle donne, e non solo degli iuvenes, sono rivolti i Remedia amoris. Entrate nel

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FIGURA 35 Fanciulla in posa di lettura (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8838). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

mondo della parola scritta, le donne possono ormai essere rappresentate nell'atto di scrivere o di leggere qualcosa in cui narrare o ritrovare esperienze e sentimenti femminili. È intorno a questa stessa epoca, del resto, che nella pittura pompeiana e sui sarcofagi compaiono - oltre a immagini maschili - donne in posa di lettura o di scrittura (FIG. 35). Nel quadro del rapporto con le istituzioni e le sfere del potere da una parte, con il pubblico dall'altra, il libro viene personificato, acquista voce, o meglio diviene la voce del letterato, il tramite di quel duplice rapporto: il libro, insomma, entra con un suo ruolo, una "personalità" sua propria, in un gioco di relazioni sociali. Di qui l'identificazione fra testo e supporto materiale, e perciò l'apostrofe dell'autore al libro stesso: al motivo, già di tradizione ellenistica, Orazio, Ovidio~ Marziale conferiscono significato nuovo ed esemplarità massima. Il libro in Orazio è il giovinetto smanioso

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di uscire dalle pareti domestiche, ma che dovrà affrontare i rischi del conrarto e dei mutevoli gusti del vulgus; o, come in Ovidio, dice e rappresenta ncll 'aspetto editoriale dimesso la tristezza e la sventura del poeta in esilio, 0 , nella sua realtà fisica di manufatto, finisce con l'assumere la funzione diretta di intermediario, sostituto, figlio, schiavo dell'autore; o ancora, ali' epoca di Marziale, quando il libro è diventato presenza più diffusa, esso è vox viva, strumento "parlante" che colloquia con i lettori e attraverso il quale in una serie di allocuzioni frequenti e vivaci l'autore intesse la sua rete di omaggi, dediche, raccomandazioni, richieste, che coinvolgono

princeps, patroni, clientes, vulgus. Di fronte a un pubblico così stratificato, anche il libro, nella sua strutturazione materiale, non poteva non assumere tipologie diverse. Anche se in quest'epoca non se ne può stabilire un preciso sistema di produzione e diffusione, va comunque ammessa da una parte, secondo una consolidata tradizione, una produzione libraria domestica, all'interno delle dimore aristocratiche, a uso anche di una cerchia di amici e clientes del proprietario; dall'altra bisogna pensare a botteghe gestite in proprio da imprenditori-librai. La manodopera era in ogni caso di condizione sociale non elevata, costituita da schiavi o liberti. I primi a testimoniare botteghe librarie sono, ancora una volta, Catullo (14, 17-18) e Cicerone (Filippiche, 2., 2.1); pit'.1 tardi, in età imperiale, a Roma vi erano ormai librai più o meno celebri come, per fare qualche nome, i Sosii, Doro, Trifone, Secondo, Atrecto con la sua bottega fornita all'interno di scaffali e all'esterno di iscrizioni che ne propagandavano i volumina. In alcune botteghe, come quelle dei Sosii e di Secondo, si producevano, accanto a libri latini - i Sosii erano gli "editori" di Orazio - anche libri greci; e anche gli esemplari atticii, ca/finii e peducei, ricordati nel De indolentia di Galeno come andati distrutti nell'incendio della biblioteca al Palatino nel 192. d.C., erano libri greci probabilmente allestiti a Roma da copisti-librai di nome Attico, Callino, Peduceo (si ha notizia dei primi due da Luciano, del terzo da un'epigrafe). Anche in provincia era possibile trovare tabernae librariae almeno in Gallia, a Vienne o a Lione, o in Britannia. Nell'entusiastica visione degli autori del tempo, i loro scritti, attraverso libri e commercio librario, si diffondevano sino ai confini del mondo. Non è senza significato, d'altro canto, che botteghe librarie eccentriche siano attestate, in modi più diretti, da Marziale (7, 88, 1-4; II, 3, 3-5) e Plinio il Giovane (Epistole, 9, II, 2.), autori di un'epoca - lo scorcio del I e l'inizio del II secolo d.C. - in cui il rapporto tra Roma e le sue province non è più di sudditanza culturale, ma di scambi e intersezio-

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perciò, le cariche di gestore sia delle biblioteche pubbliche di Roma sia di quello che oggi si potrebbe chiamare, pur se con qualche forzatura, ''l'ufficio di studi giuridici", il quale richiedeva la disponibilità, la ricerca e l'uso di quella documentazione per il funzionamento amministrativo dello Stato romano. Resta problematico se e fino a che punto vi fu una selezione, una riedizione o trascrizione di quanto di più antico fu destinato alla consultazione e alla conservazione pubblica; in ogni caso delle scarse e rozze copie di testi arcaici prodotte fino al 11-1 secolo a.C., va ritenuto si conservassero esemplari di numero assai limitato o unici; è tutt'altro che da escludere, inoltre, che alcune opere fossero andate già perdute. Può anche essere avanzata l'ipotesi che Varrone abbia dato inizio a un concreto lavoro di sistemazione "editoriale" di testi (si pensi alle Fabulae Vtirronianae, la racco! ta di commedie plautine) in vista dell'allestimento della prima biblioteca pubblica; comunque, egli pose una serie di fondamenti teorici con il suo De bibliothecis non sopravvissuto, ma che forse fu il trattato di riferimento di bibliotecari quali Pompeo Macro, Gaio Giulio Igino e altri. Diverso fu il caso di opere di letteratura "contemporaneà'. Queste, già dalla tarda età repubblicana, ma ancor più in epoca imperiale, si avvantaggiarono, innanzi tutto, di una circolazione libraria ben altrimenti larga e organizzata, diffondendosi attraverso vie e veicoli vari, sicché esse non necessitarono di un deposito librario in una biblioteca pubblica per sopravvivere. È tipico, a questo proposito, il caso di Ovidio che - si è detto - fu escluso dalle biblioteche pubbliche per volere del princeps, ma che ebbe ugualmente una sua circolazione e si conservò. Se gli autori mostrano interesse a far entrare in una biblioteca pubblica i loro libri, ciò è dovuto alla dignitas che veniva all'opera perché accolta in un luogo di conservazione istituzionale. Nel caso di Ovidio, sembra che la condanna debba essere intesa come punizione di un uomo piuttosto che di un'opera. Il rifiuto di quest'ultima da parte delle biblioteche pubbliche pare doversi intendere come censura di un comportamento, non di uno scritto, tanto da non impedire che l'opera ovidiana fosse conosciuta attraverso altri canali. Delle biblioteche fondate dopo l'età giulio-claudia sono state ricordate quella del Templum Pacis al tempo dei Flavi e la biblioteca Ulpia fondata da Traiano nel complesso del suo foro. Queste biblioteche, insieme a quella del tempio di Apollo al Palatino, assunsero un ruolo importante come sedi di conservazione istituzionale. La loro funzione, intesa a salvaguardare il patrimonio scritto della comunità, può essere in qualche modo para-

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gonata a quella del tabularium, l'archivio di Stato, istituito sullo scorcio dell'età repubblicana per la conservazione dei documenti. Non può essere un caso che nella biblioteca del tempio di Apollo furono trasferiti i libri di maggior valore religioso di Roma, i libri Sybillini, ponendoli - racchiusi in cassette dorate - in un adyton creato al di sotto della statua del dio; e ugualmente non può essere un caso che vi furono accolti, a che si conservassero, gli "esemplari ufficiali" di Virgilio e altre copie d'autore. Più tardi, dopo che questa biblioteca fu devastata dall'incendio all'epoca di Nerone (nonostante la sua ricostruzione di età flavia), vi furono anche biblioteche di nuova istituzione, come quelle di Vespasiano al Templum Pacis e di Traiano, per raccogliere e custodire rari esemplari di scritti antichi. Il movimento letterario arcaizzante, che culmina nell'età degli Antonini, non può avere a suo fondamento che questo genere di risorse librarie. Tuttavia, il ruolo di conservazione di memorie sacre, così come di certa documentazione di Stato, di cui si è detto, si deve ritenere passato in un secondo momento alla sola biblioteca Ulpia: le fonti vi segnalano la presenza di edicta veterum praetorum, di libri lintei contenenti effemeridi imperiali, di tavolette d'avorio con atti senatori; e anche se queste fonti forse non vanno prese alla lettera, esse indicano in ogni caso nella biblioteca Ulpia un luogo di conservazione "ufficiale". La biblioteca stessa veniva a collocarsi in un complesso edilizio di nuova e ardita concezione, nel quale le due aule, greca e latina, erano legate da un rapporto architettonico assai stretto alla Colonna traiana e agli altri edifici. Queste aule risultavano affrontate l'una all'altra, anziché affiancate, e collegate da un cortile intermedio, entro il quale fu eretta la Colonna; si è dimostrato, inoltre, che « il segmento biblioteche-Colonna corrisponde, nell'impianto planimetrico del foro, a un'analoga sequenza del!' architettura dei castra, gli accampamenti militari romani», sicché «suggestioni dell'architettura militare e una tipologia tutta civile come quella delle biblioteche» risultano fuse «in uno schema nuovo, espressamente centrato là dove più imponente era la novità dell' invenzione e l'esaltazione del principe: nella Colonna» (S. Settis). Proprio a questi richiami all'architettura militare viene a correlarsi il fregio-rotolo di marmo avvolgente la colonna stessa, istoriato con scene delle guerre daciche di Traiano. Questo fregio si presenta, dunque, come un immenso volumen figurato che, al momento in cui la biblioteca Ulpia è sede delle memorie ufficiali di Roma, vuol rappresentare la proiezione esterna dei commentari delle guerre daciche sicuramente conservati, in quanto acta imperii, ali' interno della biblioteca, legando in un unico nesso monumento e documen-

II6

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to. E questo volumen vuole anche esaltare una "cultura del libro" e caricare di un significato più profondo la Colonna traiana, innalzata a sepolcro del princeps e a ricordo non solo delle sue imprese ma anche della sua sapientia, giustificando, così, la stessa fondazione della biblioteca Ulpia. Un'ultima riflessione si impone. La biblioteca pubblica romana è spazio tra gli spazi urbani destinati alla conservazione della cultura scritta. Quella romana dei primi secoli dell'impero è una città invasa dallo scritto, ma spazi di produzione e spazi di conservazione della scrittura sono nettamente distinti; quanto è destinato a durare si vede riservati luoghi stabiliti, secondo tipologie e gerarchie definite e precise. In questa prospettiva, pur con funzioni diverse, biblioteche (o archivi) di tutela di libri e documenti, luoghi deputati alla pubblicità di iscrizioni ufficiali su pietra o su bronzo, zone destinate a epigrafi e are funerarie si propongono in condizioni diverse come spazi di conservazione, rivelando la presenza di una cultura scritta fortemente unitaria che all'apogeo dell'impero conosce, accanto alla massima diffusione, anche il massimo sforzo di organizzazione pubblica. 6. Un affresco nella catacomba di Domitilla a Roma raffigura le sante Veneranda e Petronilla: accanto a esse compare un codice aperto e ai loro piedi un contenitore di forma cilindrica con volumina. Questa immagine - anche per l'epoca cui risale, la tarda antichità - sembra rappresentare e riassumere sia quello che è stato chiamato, nella storia del libro antico, "il passaggio dal rotolo al codice" sia l'avvento dell'era cristiana. Si trattò di un passaggio ritenuto "rivoluzionario", tanto quanto molto più tardi quello dal libro manoscritto al libro a stampa; ma in realtà - come si è visto - a Roma già da molto tempo esistevano supporti lignei ( tavolette legate insieme) o di pergamena nella specie di codice. La vera rivoluzione fu l'adozione generalizzata del codice poiché determinò conseguenze dirompenti sia sul piano socioculturale sia per le pratiche di lettura e di studio. Questa transizione dall'una all'altra forma libraria venne a compiersi, all'incirca, entro la fine del IV secolo d.C. A Roma, anzi, è probabile che già nel secolo precedente non si siano più prodotti rotoli. Il codice più antico in scrittura latina si può considerare un frammento membranaceo del cosiddetto De bellis Macedonicis, P. Oxy. I 30, di incerta cronologia ma da ritenere non posteriore al 1-11 secolo d.C. L'immenso naufragio dei libri latini antichi non permette di seguire tutte le fasi del diffondersi del codice in Occidente, ma nel mondo greco - ove gli abbondanti reperti papiracei greco-egizi permettono una visione am-

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pia e articolata del fenomeno - fu comunque tra il II e il IV secolo d.C. che il codice, prima timidamente e poi in modo sempre più incalzante, finì con il sostituire il volumen, pur se, almeno in Egitto, qualche raro rocolo sopravvisse anche nei secoli successivi. Quali le ragioni del successo del codice? Certamente più d'una. Qui se ne possono discutere solo alcune. Importante va ritenuto, innanzi tutto, il fattore economico. Il codice permetteva di disporre il testo su ambo le facciate della materia scrittoria, a differenza del rotolo, scritto normalmente su una sola facciata: a parità di materiale di supporto, dunque, il codice recepiva una quantità di testo assai più ampia. La sua diffusione, inoltre, veniva a incrociarsi con quella coeva della pergamena, materia scrittoria ricavata, si sa, da animali, soprattutto ovini e bovini, e che perciò poteva essere prodotta dovunque, diversamente dal papiro coltivato solo in Egitto e quindi materiale di importazione. Non si può dire se anche nella scelta dell'una o dell'altra materia scrittoria abbia influito una qualche convenienza economica. Studi recenti sul rapporto sia di prezzo sia di qualità libraria tra le due materie mostrano - come era da aspettarsi - che nella regione del Nilo, ove era abbondantemente prodotto, il papiro era più a buon mercato della pergamena, e che quest'ultima era adoperata soprattutto per libri di buona o discreta qualità. Non si sa molto per l'Occidente, ma qui, almeno dai tempi di Marziale, la membrana - oltre che per gli usi quotidiani già ricordati - era preferita al papiro anche per codici di alto o buon livello. Sembra costituirne una prova direttamente conservata, pur se un po' più tardi di Marziale, un codice delle Noctes Atticae di Gellio, di cui si conservano solo alcuni fogli palinsesti nel manoscritto a Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 24: codice membranaceo che si dimostra, infatti, di superiore qualità per scrittura e tecnica libraria, riferibile a un periodo tra l'epoca dell'autore e la fine del!' età severiana. Un altro motivo dell'affermarsi del codice va cercato nel favore accordato a questa tipologia libraria dai cristiani, tanto che di tal fatta sono fin dalle origini quasi tutti i libri della loro fede. Non si deve credere, tuttavia, che furono i cristiani a elaborare la forma del codice, la quale - si è detto - era nota da tempo molto più antico nel mondo romano. Anzi, più in generale, come ha scritto Edoardo Crisci: i libri cristiani, pur costituendo una categoria a sé, tanto in relazione ai contenuti, quanto agli ambiti di produzione, non sembrano rappresentare, tuttavia, nulla di nuovo né dal punto di vista materiale né dal punto di vista grafico. Tutte le opzio-

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ni strutturali e formali presenti nell'orizzonte grafico-librario del cristianesimo primitivo (e tutte le scelte conseguentemente adottate) trovano infatti riscontro nel contesto più generale della produzione libraria del tempo.

Ai suoi albori, peraltro, il cristianesimo fu religione fondata sulla parola, sulla predicazione, sulla "viva voce". Tuttavia, nelle prime comunità cristiane ben presto si fece strada l'idea che scrittura e libro potevano essere strumento efficace per far conoscere, propagandare e diffondere la parola del Signore. E dunque, quando il cristianesimo - trovandosi a operare in un'epoca e in una società di larga partecipazione degli individui alla cultura scritta - volle affidare al libro la diffusione del suo messaggio, orientò in maniera decisa la sua scelta in favore del codice. Le ragioni di questa opzione sono assai dibattute. È possibile che il fattore economico, cui si è accennato, abbia avuto un suo peso.D'altra parte, il cristianesimo, nella sua prima fase, coinvolgeva soprattutto individui ai quali - ove non si trattasse di analfabeti - la cultura scritta era più vicina e familiare nella specie di tavolette documentarie e scolastiche o di notebooks d'uso quotidiano, che sono all'origine del libro in forma di codice, sicché i cristiani seppero individuare in quest'ultimo il tipo di supporto più adatto alle esigenze di diffusione del loro messaggio, « al punto da renderne quasi naturale la promozione a modello pressoché unico di libro» (E. Crisci). Né va dimenticato che lo stesso codice era di origine e ascendenza romana, circostanza che può aver favorito la scelta cristiana orientandola verso quella che era la morfologia libraria del dominio di Roma, come è stato recentemente suggerito da Roger Bagnali. Quanto alla rapidità con cui il codice si diffuse tra i cristiani dal II-III secolo d.C., va detto che la stessa « espansione del cristianesimo non fu un processo graduale», ma «dilagò nel III secolo in maniera impressionante» (P. Brown), sicché la Chiesa cristiana divenne una forza imprescindibile in tutte le città del Mediterraneo. Altrettanto rapidamente perciò, in quanto tipo di libro adottato dal cristianesimo, il codice venne a espandersi soprattutto dal momento in cui l'insegnamento della Chiesa fece dello scritto e dell'autorità dei testi scritti il fondamento della sua dottrina. La scelta cristiana del codice si dimostra, tuttavia, esclusiva solo per le Sacre Scritture, giacché gli stessi cristiani, se committenti o lettori di testi non solo classici e profani ma anche patristici continuarono talvolta ad adoperare il rotolo ancora per qualche tempo. Essi, inoltre, recuperarono la forma del rotolo anche conferendo a quest'ultimo un significato simbolico: da supporto e vettore di opere

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FIGURA 37 Dettaglio di un sarcofago con filosofo intento a leggere (Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano, inv. 112.32.9). Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

letterarie, qual era nella tradizione greco-romana, nella rappresentazione cristiana divenne simbolo della nuova doctrina intesa come superiore cultura. Il rotolo perciò nell'iconografia di sarcofagi, mosaici, affreschi, avori e miniature figura tra le mani di Cristo docente, di san Pietro o di san Paolo, o dell'individuo cristiano colto, del nuovo "filosofo", di cui si vogliono mettere in luce l' ingenium, gli studia, la sapientia cristiana (FIG. 37 ). Possono essere intervenute, infine, anche altre ragioni nel determinare il trionfo definiti>10 del codice per ogni specie di testo - autori classici compresi - e per tutti gli usi. Il codice - si è fatto cenno - poteva contenere una quantità di testo assai più ampia rispetto a quella del rotolo, fino a racchiudere in un unico contenitore un'opera in origine in più librirocoli o l'opera intera di uno stesso autore. Poiché il codice era strutturato in fascicoli, questi, per la trascrizione, potevano essere distribuiti tra più scribi sicché in tal caso i tempi di produzione ne risultavano abbreviati.

12.0

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Si trattava, inoltre, di un tipo di libro "a pagine", adatto perciò, assai più del rotolo, anche a cesti tecnici - raccolte di leggi, scritti di medicina -, giacché consentiva di reperire o confrontare particolari sezioni o passi o di farvi riferimento. Non a caso "codice" per antonomasia divenne il libro di contenuto giuridico. Per quanto riguarda gli scritti dei cristiani - ragione ulteriore della scelta fatta da questi ultimi - la capienza del codice permetteva di dare assetto unitario a quegli scritti divenuti canonici della nuova religione, fino a farne talora un libro imponente per mole e taglia, atto a contenere l'intera Bibbia. Resta da dire delle conseguenze che il passaggio dal rotolo al codice determinò nelle maniere di leggere. Nel rotolo il susseguirsi di più colonne di scrittura consentiva all'occhio di passare immediatamente e senza interruzione da una colonna all'altra; nel codice, invece, la parte dello scritto che si offriva di volta in volta al lettore era determinata dalla singola pagina, impedendo una visione continua del!' insieme. Questo favoriva una lettura frazionata, fatta pagina dopo pagina e quindi per segmenti di testo: una lettura, insomma, intensiva e attenta. Dal IV secolo d.C. alla lettura dell' otium letterario scandita dal suono della voce lettrice - qual era stata quella dei tempi della tarda repubblica e dei primi secoli dell'età imperiale - si sostituiva man mano una lettura concentrata e a voce sempre più bassa. Al "piacere del testo" subentrava un lavorio lento di interpretazione e meditazione. E questa maniera di leggere intensiva e concentrata, pur non sconosciuta alle pratiche pagane, era quella fatta propria dai cristiani. In una società nella quale, in particolare in Occidente, dal tardo IV secolo d.C. in poi sempre più aumentava il numero degli analfabeti per la crisi dell'insegnamento scolastico e, più in generale, per vicende che finirono con il travolgere un più largo pubblico istruito, il codice diveniva un libro per pochi. Si trattava di ristretti gruppi sociali che si possono individuare in letterati, élites aristocratiche, grammatici, retori, scolari avanzati, cerchie professionali, ranghi amministrativi, nuovi ambienti ecclesiastici o monastici, mentre veniva a scomparire del tutto quella media plebs di lettori della prima età imperiale. Conseguenza inevitabile del restringersi del numero di lettori era tra v e VI secolo d.C. la progressiva scomparsa delle tabernae librariae e delle biblioteche pubbliche. La produzione libraria, così, si spostava sempre più o, come nei tempi più antichi, nelle case private del!' élite colta o negli scriptoria ecclesiastici e monastici di nuova fondazione.

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121

Note bibliografiche ,.

Quali introduzioni di carattere generale agli argomenti trattati in questo capito-

lo si possono segnalare almeno: Cavallo (1991); Blanck (2.008); Winsbury (2.009); Johnson (2.010); Cursi (2.016, pp. 11-w8); sulle biblioteche antiche in particolare, cfr. Cavalieri (2.017 ). Il graffito qui ricordato è pubblicato in Corpus lnscriptionum Latinarum (cIL), vol. IV, ed C. Zangemeister, Berolini 1871, numeri 1904, 2.461, 2.487, e in Carmina Latina Epigraphica (cLE), ed E. Engstrom, Goteborg-Lipsiae 1912., numero 957. Su calamai, supporti e strumenti scrittori per gli affreschi di Pompei ed Ercolano, cfr. almeno Croisille (2.010) e Longo Auricchio et al (2.014); per i materiali provenienti da scavi archeologici, cfr. il recente volume di Eckardt (2.018). Su oggetti della cultura scritta negli affreschi della uVilla del giurista" rinvio a Baratta (2.018), Sui papiri greci e latini della Villa di Ercolano, mi limito a rinviare ad alcuni studi più recenti da cui si può risalire a buona parte dell'ingente bibliografia su pratiche di scrittura, lettura e conservazione bibliotecaria che se ne possono ricostruire: Capasso (2.011); Del Mastro (2.011; 2.012.; 2.014); Cavallo (2.015b). Sulla capitale rustica, basti il rinvio ultimamente a Fioretti (2.012.a; 2.014b), lavori da cui è possibile attingere la bibliografia precedente. Sui libri latini di vario livello qualitativo tra tarda repubblica e primi secoli dell'impero, cfr., in generale: Fioretti (2.010); Ammirati (2.015, pp. 2.5-44). In particolare, su P. Herc. 1475, cfr. Costabile (1984), con le precisazioni di Del Mastro (2.005, pp. 183-94); su P. Herc. w67, cfr. Piano (2.017). Sul libro latino di più raffinata qualità, cfr. le osservazioni di Gamberale (1982.). Sul papiro di Cornelio Gallo, cfr. Anderson, Parsons, Nisbet (1979) e Capasso (2.003). In generale, sulle fonti letterarie concernenti uso e funzione delle tavolette è d'obbligo il rimando a Degni (1998); sulla manifattura di codici di tavolette di varia tipologia, mi limito a rinviare ultimamente a Boudalis (2.018, pp. 2.1-34); in particolare, sulle tavolette come supporto di scritture documentarie, per le città vesuviane cfr. Camodeca (2.009 ), e, per le tavolette di Vindolanda, T. Vindol.

I-IV

e soprattutto le considerazioni generali

di Bowman (1975). Una sintesi sulle tavolette soprattutto come forma primitiva di codice può leggersi in Ammirati (2.013). Sui più antichi usi della pergamena a Roma come materiale scrittorio, rimando a Ish0y (2.007 ). 2..

Le fonti.antiche relative ai libri di Numa sono Plinio il Vecchio (Naturalis hi-

storia, 13, 84-87), Livio (40, 2.9, 3-8) e Valerio Massimo (1, 1, 12.); sulla discussa questione, cfr. Peruzzi (1973, pp. w7-43, cic. a p. 136) e Rocca (2.011). La testimonianza di Varrone è in Nonii Marcelli de compendiosa doctrina libri xx, ed. W. M. Lindsay, voi.

III,

Lipsiae 1903, p. 858. Sulle tabulae publicae riesce ancora utile, pur se superato

sotto cerci aspetti, il lavoro di Kornemann (1932.); cfr. anche Meyer (2.004, pp. 2.1-43),

12.2.

SCRIVERE E LEGGERE NELLA CITTÀ ANTICA

con osservazioni, tuttavia, dedicate soprattutto a un'epoca posteriore. Sul rilievo di Buzenol, cfr. Marganne (2.015). Sul tabularium come deposito archivistico di Stato e sulla conservazione delle tabulae publicae, basti il rinvio a Posner (1972., pp. 174-85) e a Mazzei ( 2.009 ). Per la distinzione tra annali dei pontefici e tabulae dealbatae, cfr. Peruzzi (1973, pp. 175-2.07) e Frier (1979, pp. 83-105, cit. a p. 101). Sull'"esattore delle tasse", limito il rinvio a Schindler (1986, p. 107, n. 341). I contributi più recenti sulla cosiddetta "ara degli scribi" e sugli anaglypha Traiani sono dovuti, rispettivamente, a Fioretti (2.014a, pp. 349-51) e a De Magistris (2.010, pp. 149-71). Il frammento di Catone è riportato da Frontone e può leggersi in M Cornelii Frontonis Epistulae, ed. M. P. J. Van den Hout, Leipzig 1988, pp. 90-1; ampia discussione in Pecere (2.010, pp. 7-15). In particolare, sulla categoria degli scribae librarii, cfr. De Maddalena (2.014). Sui "fondatori" della prima giurisprudenza romana, mi limito a rimandare a Schiavone (2.006, pp. 134-51). Sul passo di Ulpiano e su altre testimonianze relative a volumina lignei, cfr. il commento di Spallone (2.008, pp. 36-45). La frase sulla società roma-

na primitiva è tratta da Bianchi Bandinelli (1969, p. 40). Per la prima letteratura di Roma antica, riesce utile Mariotti (2.000, pp. 5-2.0, cit. a p. 5). Sui libri magistratuum e in generale sui libri lintei, cfr.: Kornemann (1911); Ogilvie (1958); Palmer (1970, pp. 2.35-6); Frier (1979, pp. 155-9 ). Sui libri reconditi, rinvio a Linderski (1985). Fondamentali sul liber linteus di Zagabria restano i contributi di Roncalli (1978-80; 1980 ); ma cfr. anche Van der Meer (2.007) e Belfiore (2.010 ). Su vettori e influssi culturali greci a Roma tra III e I secolo a.C., cfr. almeno Veyne (1979) e Ferrary (1988, pp. 497-615); in particolare, per l'influenza degli exemplaria Graeca sulla creazione di nuove forme letterarie a Roma, cfr. ancora Mariotti (2.000, cit. da p. 6), ma anche Gruen (1990, pp. 79-12.3). I frammenti di Ennio e Lucilio sono editi, rispettivamente, in The Annals of Quintus Ennius, ed. O. Skutsch, Oxford 1985, e in Lucilius, Satiren, Lateinisch und

Deutsch, ed. W. Krenkel, Leiden 1970. 3.

Un'ottima sintesi sulle biblioteche private a Roma tra tarda repubblica e primi

secoli dell'impero si deve a Fedeli (2.014); cfr. anche, in particolare, sulle prime biblioteche private, Affieck (2.013); sulla biblioteca di Lucullo, cfr. Dix (2.000 ); sulle biblioteche private dello scorcio della repubblica, cfr. Tutrone (2.013); infine, su quelle di età imperiale, cfr. Johnson (2.013). Sulla suddivisione in libri degli Annali di Ennio e del Bellum Poenicum di Nevio, cfr. Mariotti (1991, pp. 17-2.3; 2.001, pp. 18-9). L'iscrizione relativa al Senatoconsulto del 186 a.C. è reperibile in Degrassi (1965, n. 392.). Sulla temperie culturale del tardo I secolo a.C., basti il rinvio a Rawson (1985). Sulla cosiddetta "età della svolta" in campo giuridico, cfr. Schiavone (2.006, pp. 152.70 ). Sul novus liber di Catullo, cfr. sempre Gamberale (1982.). Il patronato sulla letteratura a Roma è ampiamente trattato nei saggi raccolti in Gold (1982.). lnteressanti

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123

osservazioni su perfezionamento e diffusione delle pratiche documentarie tra tarda repubblica e primo impero si possono trovare in Nicolet (1985). Su caratteristiche, sviluppo e funzioni della corsiva latina antica, mi limito a rinviare a Cencetti (1993, PP· 47-106, 135-67 ). Su capitale "quadrata" e capitale "attuaria", cfr., ancora una volta, Fioretti (2.014b). Sugli usi della cultura scritta a Roma nei primi secoli dell'impero e sulla controversa questione della diffusione dell'alfabetismo la bibliografia è molto estesa; si possono segnalare, per i diversi punti di vista: Cavallo (1991); Harris (1991, PP· 198-319); Horsfall (1991, ma sull'argomento riesce utile l'intero volume miscellaneo cui il saggio appartiene); Corbier (2.006, pp. 77-90); Woolf(2.009). I materiali scrittori provenienti da scavi archeologici sono stati ottimamente indagati in relazione alla diffusione sociale dell'alfabetismo da Eckardt (2.018). Sul rapporto tra città romana e cultura scritta, cfr. soprattutto Petrucci (1986, p. 3, da cui è tratta la citazione), ma anche Cavallo (2.017b), e, per un quadro di carattere più generale, Ward-Perkins (2.008, pp. 186-2.03). Sulle diverse tipologie di iscrizioni, cfr. Gordon, Gordon (1958) e Susini (1989, cit. a p. 2.74); in particolare, sui calendari, cfr. Riipke (2.011), ma anche Fraschetti (1990, pp. 9-41); sulle iscrizioni onorarie, cfr. Panciera (2.006, pp. 83-101); sulla lettura delle iscrizioni, cfr. Corbier (2.006, pp. 77-90 ). Alla stretta associazione tra scrittura e immagine - o cosiddetti "fumetti" - sono dedicati gli studi della stessa Corbier (ivi, pp. 91-12.8) e soprattutto di Stramaglia (2.005). Sulle scritte di spazi e oggetti domestici, rinvio ai saggi contenuti nel volume Corbier, Guilhembet (2.011). Sulle iscrizioni funerarie, basti il rimando a Petrucci (1995, pp. 2.4-30, cit. a p. 2.8); in particolare, sul colombario di Villa Doria Pamfilij, cfr. Tortorella (2.009). Una disamina delle scritte mobili e di altre espressioni di cultura scritta può leggersi in Cavallo (2.015a) e in Kruschwitz (2.016). Assai ampia è la bibliografia sui graffiti; mi limito, perciò, a rinviare ad alcuni lavori più recenti, quali: i saggi raccolti in Baird, Taylor (2.0u); il contributo di Kruschwitz (2.014); la monografia di Milnor (2.014). Testimonianze concernenti libri degradati a usi impropri, si trovano in: Parsons (1968, pp. 2.87-8); Brugnoli (1987); Luijendijk (2.010). 4.

Sulle diverse fasi inerenti a composizione testuale - con relative differenze tra

poesia e prosa -, pubblicazione e diffusione dell'opera letteraria nel mondo romano, cfr. ultimamente il saggio di Pecere (2.010), da cui si può attingere la bibliografia precedente; tra questa va segnalato almeno Dorandi (2.007, pp. 2.9-101). "Comunità di lettura" nella Roma imperiale sono state individuate daJohnson (2.010, pp. 32.-62.) per quanto concerne Plinio il Giovane e la sua cerchia. Sulla biblioteca del Templum Pacis, rinvio a Tucci (2.013). Per gli scavi inerenti al Templum Pacis e alla sua biblio-

tt.:ca, cfr. almeno Meneghini (2.014). Agli auditoria è dedicato il recente lavoro di Rea (2.014). Su pubblicazione e circolazione degli Epigrammi di Marziale, rimando a

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probabile origine ravennate, Severusforensis che roga un documento del 553, P. ltal. I 13, e la mano anonima cui è dovuto P. ltal. II 46 del 600 circa - possono essere stati exceptores anche di documenti ufficiali (o aver avuto, almeno, un'istruzione grafica originariamente mirata a fini burocratici). Non a caso, scomparsa l'ultima generazione di exceptores di gesta municipalia, non molto dopo il 600 circa le antiche forme grafiche scompariranno a Ravenna da qualsiasi documentazione. Ritornando ai gesta municipalia, spiccano, per l'indole grafica che li caratterizza, soprattutto i protocolli. Questi gesta erano atti pubblici nei quali, con una procedura di insinuatio ("registrazione"), si mostrano recepiti nei municipia, perché ufficialmente "insinuati", instrumenta - contratti di vendita, donazioni o altri atti del genere tra cittadini - a definitiva stabilità e perpetua osservanza di quei negozi giuridici oltre che a fini fiscali. Si tratta di «documenti monumentali, scanditi dall'uso sapiente di scritture d'apparato disposte secondo una precisa gerarchia, che conferivano loro un aspetto solenne ma ne costituivano, naturalmente, vistoso elemento formale e di validazione» (F. Santoni), come si è accennato. Di queste scritture diplomatiche «d'apparato», speciali, adoperate in funzione distintiva, si possono distinguere due tipi. L'uno, più caratteristico, stilizzato sulla corsiva cancelleresca antica, la cosiddetta "misteriosa scrittura grande", si incontra nella parte iniziale di alcuni protocolli, quattro, dei gesta municipalia e rivela, nel modulo tronfio per l'eccessivo ingrandimento delle lettere, nell'intrico delle linee e nel tracciato artificioso, un gusto per così dire "barocco", quale si troverà anche in certe scritture librarie sia latine sia gotiche prodotte nella stessa Ravenna. L'altro tipo, connotato da compressione dei segni e contorsione delle aste, la cosiddetta "scrittura allungata", è testimoniato nelle formule conclusive dei gesta municipalia, con una sola eccezione in cui essa compare nel protocollo. Quale esempio in cui queste scritture distintive compaiono insieme, l'una nel protocollo e l'altra nelle formule conclusive del documento, si può invocare P. Ital. I 14-15. All'artificio dell'allungamento se ne accompagna, talora, un altro, quello dell'ingrandimento degli occhielli, vistoso soprattutto, anche per la marcata curvatura delle linee, in P. ltal. I 4-5 (FIG. 38). Quale l'origine e la funzione della "misteriosa scrittura grande" che si incontra in quattro dei gesta municipalia? Si tratta di una scrittura sostanzialmente stilizzata sulla corsiva romana antica, che nella tarda antichità si dimostra fossilizzata nelle cosiddette litterae coelestes in uso nella cancelleria imperiale e ivi così designate: una scrittura peraltro "riservata" esclu-

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FIGURA 38 Un testamento ravennate del VI secolo d.C. (P. ltal. I 4-5; Padova, Istituto di Paleografia+ Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 8842.). Da P. Ital., tav. XXXI

sivamente a essa dopo che una costituzione di Valentiniano e Valente del 367 ( Codice Teodosiano, 9, 19, 3) ne aveva proibito l'uso altrimenti, al fine di stroncare imitazioni e falsificazioni. Là dove era rimasta in vita, almeno per il testo del documento, quest'antica corsiva fu sostituita - ovunque e in ogni manifestazione della prassi documentale pubblica - dalla corsiva romana nuova, indicata come litterae communes. A Ravenna quella stessa scrittura, la corsiva romana antica, si ritrova adoperata in alcuni protocolli dei gesta municipalia pur se "stravolta" nella cosiddetta "misteriosa scrittura grande", la quale ha sfidato ogni tentativo di lettura fino al suo "svelamento" dovuto a Tjader. Questi nell'intrico delle lettere ha individuato, per quanto ancora si può leggere in documenti ormai deteriorati, l'indicazione del giorno del mese, dell'indizione e del luogo, Ravenna quindi, in cui il protocollo è stato registrato. Di questa estrema difficoltà di lettura era consapevole la stessa autorità emanante, canto che in P. Ical. I 21 del 62.5 l'indicazione della data e del luogo si mostrano ripetute nella diffusa

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corsiva nuova. Quest'uso della corsiva romana antica, intesa in funzione autoritativa e di autenticazione di determinati documenti, era rimasto comunque limitato a poche manifestazioni, di cui alcune anche in altre aree geografiche; ma la più impressiva resta la "misteriosa" scrittura ravennate per l'elaborazione particolarmente artificiosa e sofisticata dei segni grafici. Una volta riservato l'uso delle litterae coelestes alla cancelleria imperiale, gli uffici minori e provinciali provvidero anch'essi a elaborare, ricorrendo alle litterae communes loro consentite, stilemi grafici che rispondessero sempre al fine di conferire caratteri distintivi, autoritativi e di autenticazione a documenti di particolare rilievo. In Occidente gli uffici minori innestarono sulla corsiva nuova il motivo stilistico dell'allungamento già caratteristico delle scritture burocratiche antiche, mentre in Oriente essi elaborarono sulla base della stessa corsiva nuova una scrittura distintiva connotata da rigonfiamento delle curve: caratteristica che in età più tarda si ritroverà nei documenti greci degli imperatori bizantini. A Ravenna - fatto che ne esalta il ruolo di città alla confluenza di culture diverse - stilemi cancellereschi sia occidentali sia orientali si ritrovano talvolta fusi, come in certe formule conclusive dei gesta municipalia. È il caso del già ricordato P. Ital. I 4-5. Un posto di speciale rilievo occupa il cosiddetto "papiro Butini", P. ltal. II 55, documento pubblico per eccellenza giacché emanato da un comes sacri stabuli, funzionario imperiale di rango elevato con incarichi militari, e destinato a un sottoposto a che ne esegua l'ordine prescritto. Una nuova e convincente lettura del nome del mittente ha identificato in quest'ultimo un Constantianus, di sicuro l'alto ufficiale Costanziano «inviato a Ravenna da Giustiniano subito dopo che la città era stata sottratta ai Goti ( maggio 540) per rimanervi, con alcune interruzioni comunque trascorse nel Nord dell'Italia, fino al 543» proprio «per scopi perlopiù militari» (D. lnternullo ). Rivendicato definitivamente a Ravenna e a un torno di tempo circoscritto, il "papiro Butini" mostra nel primo rigo una "scrittura allungata" e compressa, mentre per la restante parte del documento ali' artificio della compressione si aggiunge il rigonfiamento degli occhielli di talune lettere. Si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di scritture analoghe a quelle distintive dei gesta municipalia. Una problematica a sé implica la scrittura ravennate d'ambito specificamente ecclesiastico testimoniata in alcuni papiri, tra cui spicca, perché vergato in forme grafiche del tutto speciali, P. !tal. II 44 da datare agli anni 642-666 o poco prima-poco oltre. Rispetto alla corsiva nuova della più

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parte dei documenti, la "scrittura di Chiesa", per così dire, si differenzia per il carattere più posato e il disegno più semplice e curvilineo. A porre una serie di questioni intricate, tuttavia, è la stilizzazione, assai caratteristica, che ne compare nel testé ricordato P. ltal. II 44: l'asse della scrittura risulta rigorosamente diritto, le lettere mostrano disegno decisamente e artificiosamente curvilineo, le aste, assai slanciate, presentano raddoppiamento alle estremità superiori. Quel che si vuole qui meglio definire è il rapporto (o non rapporto) sia grafico sia storico-culturale tra la "curiale ravennate", quale si può definire quella di P. ltal. II 44, e la "curiale romana" in relazione alle maniere stilistiche della cancelleresca bizantina di VII-VIII secolo, sia pur provinciale giacché attestata in documentazione greco-egizia, ma che di certo era diffusa dal centro alle periferie di Bisanzio. Che la "curiale ravennate" possa riflettere la fase primitiva della "curiale romana" come processo di emulazione, è tesi non sostenibile. Le prime attestazioni di quest'ultima - non solo in una nota "lunga" indiretta dell'epoca di papa Gregorio III ( 731-741) contenuta nel codice conservato a San Gallo, Stiftsbibliothek, 1394, ma anche in una lettera di papa Adriano I del 788 uscita direttamente dalla cancelleria pontificia - mostrano una fase stilistica ancora in via di definizione, laddove invece P. ltal. II 44, di circa un secolo anteriore, documenta inflessioni e forme tipiche già compiute. Si tratta, dunque, di fenomeni paralleli ma diacronici, analoghi giacché fondati, l'uno e l'altro, su esiti comuni della corsiva nuova rielaborati sotto una medesima incidenza stilistica, quella della cancelleresca bizantina e, tuttavia, con procedimenti diversi e correlati a fatti storico-culturali diversi. A Ravenna, infatti, il fenomeno va inquadrato - si dirà - nel contesto politico del tempo di Mauro ( 644-673), l'arcivescovo « attentissimo alle relazioni [... ] con Costantinopoli» (A. M. Orselli), e del privilegio dell'autocefalia concessa nel 666 a quest'ultimo dall'imperatore Costante II (641-668), quando perciò la diretta ripresa di modelli culturali bizantini voleva sottolineare una certa concorrenza della Chiesa ravennate con la sede apostolica di Roma e il suo più stretto rapporto con il potere imperiale di Bisanzio: momento intenso e significante, ma cerco effimero. A Roma, invece, il fenomeno si inserisce in un quadro di influenze bizantine e greco-orientali più articolato e duraturo, in un arco di tempo, culminante tra VII e VIII secolo, caratterizzato da presenze fisiche, istituzionali, culturali greche: papi, funzionari, monaci e monasteri, profughi di varia estrazione sociale, prodotti artistici e libri. Sotto il profilo più specificamente grafico e in confronto alla cancelleresca bizantina, non solo coeva e provinciale ma

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anche più tarda e imperiale, si può notare che a essa strutturalmente più vicina è la "curiale ravennate" di P. Ital. II 44, ove si consideri la scrittura di un assai noto documento, il cosiddetto "papiro di Saint-Denis~ lettera ufficiale dell'imperatore bizantino Teofilo (829-842), riferibile ai primi anni Quaranta del IX secolo, uscita dalla cancelleria di Stato di Costantinopoli. In ultima analisi, mentre nella "curiale ravennate" le riprese stilistiche dalla cancelleresca bizantina sono sostanziali e marcate, nella "curiale romana~ invece, le influenze greche si mostrano di maniera, risolte in interventistilistici (artificio dell'arrotondamento, modulo delle lettere talora tronfio) piuttosto che strutturali. 2. Un quadro delle scritture adoperate a Ravenna nel mondo della documentazione di carattere pubblico e privato non può prescindere dalle sottoscrizioni. Si è già fatto cenno ad alcune che mostrano forme grafiche antiche, come la b con pancia a sinistra: sono sottoscrizioni come il bene vale di Constantianus, il nostro comes del "papiro Butini", o quelle, in calce a gesta municipalia di altri funzionari di ceto aristocratico. Ancor più interessano le firme dei contraenti e dei testimoni che agiscono nella documentazione, al fine di conoscere, per quanto è possibile, la diffusione dell'alfabetismo nelle diverse fasce sociali di Ravenna tra l'antichità tarda e l'alba del medioevo. Tra i contraenti, in verità, i più risultano analfabeti e firmano soltanto con un signum sanctae crucis, ma i pochi capaci di scrivere usano la corsiva mostrandone buona pratica; più precisamente, un'indagine-campione rivela che degli individui che, in qualità di contraenti, firmano donazioni, contratti di compravendita o altri documenti di varia indole, soltanto un quarto circa risulta capace di scrivere: si tratta, per lo più, di soggetti appartenenti a fasce alte per censo, uomini di Chiesa, qualche militare e qualche individuo di incerta estrazione sociale, forniti comunque di istruzione grafica a diversi livelli. I più dei contraenti - si è accennato - si dimostrano analfabeti, limitandosi perciò a tracciare un signum sanctae crucis: sono viri honesti che esercitano un qualche mestiere, militari di vario grado e talora stranieri, un uomo di Chiesa, alcuni individui di incerta collocazione sociale ( "Waduu/fus, goto, vir devotus, e Felithanc, un altro goto, vir sublimis), un reverendus uomo di Chiesa, molte donne dette per la più parte honestae Jeminae. Quanto ai testimoni, a parte rarissime eccezioni, essi si mostrano capaci di scrivere, e anzi per lo più firmano i documenti, talora con lettere greche pur se sempre in latino, in forme grafiche esperte: vi si trovano, oltre a funzionari diversi - tra cui excetJtores che

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firmano non come addetti a documenti di curia e ufficiali, ma richiamandosi all'autorità del prefetto del pretorio dal quale dipendevano - anche argentarii, orrearii, collectarii, un gunnarius, un cerearius, e altri individui di sicuro abbienti e più o meno in alto nella scala sociale; in particolare va segnalato un 'Jheodosius vir devotus magister litterarum: un "maestro", che forse teneva a Ravenna una qualche scuola, ove si poteva imparare a leggere e a scrivere e forse anche qualcosa in più. Poiché scelti tra pubblici ufficiali e maggiorenti, i testimoni di regola erano alfabeti. Non costoro, tuttavia, costituivano la parte più numerosa della cittadinanza ravennate. Questa invece doveva essere formata soprattutto da quella classe media e medio-bassa riverberata a squarci da quanti agiscono come protagonisti nella documentazione, i quali all'incirca per 1'80% erano analfabeti. In un'epistola del 602, diretta a Giovanni suddiacono di Ravenna, Gregorio Magno lamenta che i suoi Moralia in job siano letti in pubblico dal vescovo della città, Mariniano (595-606), giacché si trattava di opera non "popolare" e che quindi sarebbe riuscita incomprensibile, anzi dannosa, per una platea incolta e rozza, qualificata da Gregorio con i termini di rudes auditores. Questi non erano altri che gli honesti viri, le honestae Jeminae, i militari e quei vari strati analfabeti che firmavano nei documenti con il

signum sanctae crucis. Riflesso della situazione etnica della Ravenna di quest'epoca, alcuni testimoni usano, al pari degli altri, la lingua latina ma si servono di lettere greche o di un alfabeto misto di segni greci e latini: sotto l'aspetto grafico si va da una scrittura fluida e sicura, come quella di Giuliano argentarios, banchiere, a forme inesperte e rozze quali traccia la mano di Marino chrysokatalaktis. Si tratta, evidentemente, di individui greci o orientali che avevano ricevuto un'istruzione elementare greca e che conoscevano il latino solo come lingua della frequentazione sociale quotidiana, non come alfabeto e pratica scrittoria; in sostanza si è di fronte a casi di "bilinguismo imperfetto". Un caso particolare è costituito dalla scrittura di Pietro kollektarios, ove si incontra una grafia mista greco-latina, indice forse di una sovrapposizione di segni alfabetici delle due lingue recepiti in momenti diversi. Di più spiccato interesse, tuttavia, sempre sotto l'aspetto etnico-culturale, è la presenza - in P. Ital. II 34 del 551 - di sottoscrizioni in gotico di membri del clerus di Sant'Anastasia, le quali, come è stato scritto, costituiscono « una dimostrazione di energia e senso non comune della personalità culturale e morale» dei Goti in un momento delicato, quando la potenza ne è in declino (P. Scardigli). A quel che mostra l'unico

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pezzo conservatosi in originale, la scrittura adoperata è una maiuscola di tipo librario, piuttosto pesante, tracciata a linee ondulate, inclinata verso destra, lontana tipologicamente e culturalmente dal contesto scrittorio latino in cui si trovava immersa e affine, invece, alla coeva maiuscola ogivale inclinata greca sulla quale perciò si deve ritenere modellata, denotando comunque un'educazione grafica di matrice greca. Doveva essere questa la scrittura "nazionale" di uso corrente dei Goti alfabetizzati; e ne va sottolineata l'estrazione tutta libraria, giacché, del resto, lo stesso insorgere dei segni alfabetici e di una cultura scritta tra i Goti si era determinata tramite il libro per eccellenza, la Bibbia, e in funzione di questa. Nel lungo periodo da Ravenna capitale, dal 402., alla fine dell'esarcato nel 751, quando la città cadde in mano longobarda, un aspetto cospicuo della circolazione di cultura scritta in ambito ravennate, almeno delle élites, fu certo costituito anche da prodotti librari, e di sicuro anche molti. Si tratta di un aspetto sfuggente. La motivazione fu già lucidamente individuata ed esposta da Augusto Campana: 3.

Ravenna, tanto privilegiata per la conservazione di un numero eccezionale di monumenti dell'architettura e della pittura musiva tardoantica, bizantina e altomedioevale, non è stata altrettanto fortunata nella conservazione di quegli altri monumenti (non meno importanti nel loro ordine) che sono i codici manoscritti di quegli stessi secoli. Pochissimi e tutti frammentari i codici rimasti in loco, nell'Archivio Arcivescovile; pochi, e spesso di discussa o difficile attribuzione, quelli dispersi in altre sedi; altri, solo indirettamente ricostruibili dalle copie di età carolina che ci hanno trasmesso sottoscrizioni ravennati antiche.

Per quanto concerne la produzione libraria ravennate, insomma, Campana non esita a parlare di «grande naufragio» e di «relitti». Gli scandagli per recuperare questi ultimi sono comunque da tentare in vari modi, seguendone le tracce lasciate; né sempre si potrà avere la sicurezza assoluta che i pezzi ritrovati o ricostruiti siano quelli giusti, ma tra il certo e l' incerto vi sono margini di probabilità alta, ed è su questi che si deve puntare ogni qualvolta manchino dati oggettivi. Che in età tardoantica largamente intesa vi fossero a Ravenna officine librarie è lecito desumere da un codice di Paolo Orosio conservato a Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 65.1, prodotto, a quanto attesta la sottoscrizione, nellastatio ("bottega"), di un goto Viliaric (f. 4w: Conjèctus codex in statione magistri Viliaric antiquarii): un fatto che non può passare

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sotto silenzio anche per altro verso (TAV. 8). E invero Orosio era lo storico dei barbari fieri, leali, miti, destinati - in un'illusoria visione provvidenzialistica - a venire in aiuto dei Romani per risollevare le sorti del!' impero: un testo che assume, dunque, un suo preciso significato laddove, come a Ravenna, si tentava di realizzare quella visione. Il codice è scritto da un'unica mano in una scrittura onciale detta new style, che mi par da riferire ai primi decenni del VI secolo piuttosto che intorno alla metà. A questa datazione riportano anche le annotazioni marginali dell'Orosio vergate dallo stesso scriba del testo, piuttosto che da un revisore coevo, in una tipica scrittura della glossa di modulo alquanto minuto, lievemente inclinata a destra, adoperata da tutta l'élite della cultura trave VI secolo. E dalla stessa bottega di Viliaric è senz'altro uscito un altro codice, ora a Parigi, Bibliothèque Nationale de France, lat. 2235, contenente un commento ai Salmi attribuito a san Girolamo. La parte dovuta alla prima delle due mani che ne trascrivono il testo si dimostra, infatti, la medesima che ha scritto l'Orosio: vi si trova, quindi, un'onciale new style connotata da identiche caratteristiche. A ulteriore conforto dell'origine dei codici Laur. 65.1 e Par. lat. 2235 dalla stessa bottega si possono rilevare strette analogie codicologiche (formato, sistema e tipo di rigatura, sistema di foratura) e ornamentali (A in funzione di iniziale decorata con elemento obliquo discendente da destra a sinistra in forma di pesce). Non si può stabilire su fondamenti sicuri - al di là di certa, non risolutiva, divaricazione cronologica conseguente alla data qui attribuita all'Orosio - se il Viliaric che "firma" il codice Laurenziano sia da identificare con quel Viljarith bokareis che insieme ad altri sottoscrive il già ricordato documento del 551, P. ltal. II 34: l'ipotesi, assai suggestiva, è stata avanzata da Tjader; né vi è alcuna certezza che Merila bokareis e altri che nel medesimo documento si sottoscrivono in latino come spodei fossero tutti, oltre a Viliaric, scribi-librai operanti forse in un unico laboratorio di copia: anche questa è ipotesi dovuta allo stesso Tjader e degna di molta attenzione. L'Orosio Laurenziano è stato scritto non dallo stesso magister Viliaric ma da uno scriptor non meglio identificato della sua bottega. Ove si pensi che il san Girolamo di Parigi è opera dovuta parte al medesimo scriptor, ma parte anche ad altra mano, si è portati a concludere che Viliaric era uno di quegli antiquarii definiti come tali perché esperti di scrittura al massimo livello, insomma magistri e talora gestori di botteghe librarie con più scribi che vi erano addetti. L'Orosio rivela tracce di collazione con altro esemplare, diverso dal modello, dovuta allo scriptor-revisore, e il san Girolamo si dimostra copia di due modelli, adoperati alternativamente,

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riprendendo dal primo di essi la sottoscrizione di un emendator del testo, un revisore destinato a restare anonimo, che si dichiara di rango consolare. Tutto questo mostra che a Ravenna non mancavano libri da leggere o trascrivere e committenze librarie. Il goto Viliaric come gestore di una statio libraria indica un processo di acculturazione di cui, se le sottoscrizioni in gotico di P. ltal. II 34 sono dimostrazione di energia morale e identità etnica, i manoscritti Laurenziano e Parigino costituiscono il momento di una più articolata integrazione sociale. Vi sono ancora due manoscritti che sembrano doversi mettere in qualche relazione, diretta o indiretta, con la bottega di Viliaric. Il primo, sempre di Parigi, Bibliothèque Nationale de France, è il lat. 2769 (ff. 1-23) + lat. 4808 (ff. 53-65), una miscellanea di vario contenuto costituita da due spezzoni scritti da mani diverse, riferibile al VI secolo inoltrato, e nella quale può leggersi, tra l'altro, la Cosmografia di Giulio Onorio. Almeno la mano in scrittura onciale attestata nel codice Par. lat. 2769 richiama assai da vicino i prodotti di Viliaric sia per linguaggio grafico, pur se questo si mostra nel complesso irrigidito, sia per il motivo ornamentale del pesce in funzione di tratto nella A iniziale; nell'insieme la scrittura va accostata soprattutto a quella della prima mano del san Girolamo di Parigi. Analoghi risultano, infine, certi caratteri d'indole codicologica, quali in particolare la fascicolazione e il sistema di rigatura. Pertanto, un'attribuzione della miscellanea parigina, o almeno dei ff. 1-23, al laboratorio stesso di Viliaric è proponibile; in ogni caso è difficile ritenerla di un ambito diverso da quello ravennate, ove erano sicuramente in uso moduli grafici, tipologie di ornato, tecniche librarie in essa documentate. Conforto a questa origine può forse venire anche da un altro elemento decorativo testimoniato nel manoscritto: al f. 23v il titolo della Cosmografia è incorniciato da un'arcata posta tra uccelli affrontati, un motivo, quest'ultimo, diffuso - si sa - nella Ravenna tardoantica. Non riposa su dati consistenti, invece, un'attribuzione della miscellanea di Parigi a Vivarium, il monastero di Cassiodoro in Calabria, pur autorevolmente avanzata. Quel che è possibile affermare è che Cassiodoro possedeva e leggeva a Vivarium il testo di Onorio nella stessa edizione attestata nel codice lat. 2769 di Parigi, ma se si trattasse proprio di quest'ultimo o di altro codice non si può dire. L'altro manoscritto in questione è il codice di Verona, Biblioteca Capitolare, XXXIX (37 ), contenente le Compfexiones di Cassiodoro, in sostanza sunti dei testi del Nuovo Testamento, con esclusione dei Vangeli, per renderne più comprensibile il significato. Si tratta, innanzi tutto, di un codice seriore rispetto all'Orosio

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di Firenze e al san Girolamo di Parigi. Riferibile a una data non anteriore allo scorcio del VI secolo, giacché le stesse Complexiones furono composte da Cassiodoro a Vivarium nell'ultimo periodo di vita, il cimelio Veronese mostra peraltro, sotto l'aspetto codicologico, talune differenze rispetto ai prodotti librari ravennati, in particolare nel sistema di rigatura, ma non vi è dubbio che scrittura e ornamentazione richiamino moduli propri della bottega di Viliaric. Per quel che concerne la prima - a parte una certa rigidità dovuta all'epoca più avanzata del manoscritto Veronese - ci si trova di fronte a una scrittura onciale tipologicamente simile; e quanto all'ornamentazione, si incontra la caratteristica A iniziale con elemento in forma di pesce che una valutazione stilistica, piuttosto che morfologica, rimanda a modelli ravennati. Ritenere il Cassiodoro Veronese uscito anch'esso dall'officina libraria di Viliaric sarebbe ipotesi troppo azzardata, anche in relazione alla cronologia seriore del prodotto; ma che il codice riprenda e continui forme e stilemi grafico-decorativi propri di quell'officina non par dubbio. In verità, anche del codice della Biblioteca Capitolare di Verona è stata proposta un'attribuzione a Vivarium: si sa che Cassiodoro aveva nel monastero una biblioteca "privata" distinta da quella comunitaria; in essa non potevano mancare libri che egli aveva fatto scrivere o acquisito a Ravenna, ove aveva a lungo operato, e che aveva quindi portato con sé a Vivarium; e questi libri talvolta potevano costituire modelli grafici da perpetuare nella nuova sede. Se il codice Veronese fosse originario del monastero di Cassiodoro, le sue connotazioni ravennati sarebbero da ascrivere a modelli del genere o anche a copisti giunti con Cassiodoro da Ravenna a Vivarium. E, tuttavia, quest'ultimo resta sullo sfondo solo come ipotesi suggestiva, laddove invece è ben più verosimile che il manoscritto delle Complexiones, trascritto da un esemplare vivariense a Ravenna, città con cui Cassiodoro aveva probabilmente conservato qualche legame, sia passato nella certo non lontana Verona già in epoca antica, forse fin dall 'v111 secolo. 4. La produzione di libri specificamente gotici o gotico-latini richiede una premessa. Innanzi tutto: qual era l'atteggiamento mentale dei Goti verso il libro e, più in generale, verso la cultura scritta? La risposta è da ricercare alla luce, più vasta, della moderna storiografia che a una concezione statica dell'indole dei popoli germanici e dei loro moti migratori ne ha sostituito una dinamica, che vede nel processo di adattamento alle condizioni naturali, demografiche e culturali del nuovo ambiente di stanziamento il processo stesso di formazione di una stirpe e della sua tipologia culturale. Così fu an-

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FIGURA 40 Valva di dittico d'avorio raffigurante forse Amalasunta (Firenze, Museo del Bargello, inv. 24 C).Su concessione MiBAC. Divieto di riproduzione

misura cospicua, come si constaterà in altre manifestazioni. Questi Annales ravennati si devono ritenere, altresì, una compilazione uscita dalle cerchie burocratiche, entro e per le quali perciò fu prodotto il manoscritto illustrato che ne è stato ricostruito. Pur se cronologicamente anteriore, nella stessa prospettiva è stato visto il perduto archetipo tardoantico della Notitia dignitatum, ricostruito sul fondamento di esemplari rinascimentali derivati, a loro volta, da copie intermedie di età carolingia e ottomana. La Notitia dignitatum altro non era, come testo, che una compilazione redatta nei primi decenni del v secolo a cura di funzionari degli uffici centrali, intesa a tenere informati la corte, la burocrazia, il governo in genere dell'organizzazione statale, che vi viene quindi minutamente descritta in due distinte parti, una per l'Oriente, l'altra per l'Occidente, in ciascuna delle quali sono elencate, in ordine gerarchico, le cariche amministrative

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e militari nonché le rispettive sfere di competenza. Anche il perduto archetipo illustrato di questi materiali si deve credere un codice prodotto nelle sfere della cancelleria dell'impero: un ambito che a quell'epoca non può essere identificato se non in Ravenna capitale. Non a caso, del resto, il corredo illustrativo della Notitia dignitatum è stato messo in relazione con le stesure musive del mausoleo di Galla Placidia. Nelle aristocrazie ravennati di antica tradizione, aduse ali' otium letterario, circolano altri libri: un codice del Commento al "Somnium Scipionis" di Macrobio veniva emendato e interpunto da Macrobio Plotino Eudossio, un discendente dell'autore, e da Aurelio Memmio Simmaco, pronipote del Simmaco che era stato uno dei diretti protagonisti dei Saturnalia dello stesso Macrobio; sempre a Ravenna, un corpus di testi storici e geografici era allestito e rivisto da quel Flavio Rustici o Elpidio Domnulo, vir clarissimus e poi anche comes consistorii, da identificare forse con il funzionario inviato da Teodosio II (408-450) al Concilio di Efeso del 449 oltre che con l'autore, tra l'altro, di un Carmen de Christi Jesu beneficiis intessuto di imitazionicitazioni della Consolazione della .filosofia di Boezio. Il corpus di testi di cui si prese cura Rusticio Elpidio Domnulo comprendeva il compendio dell'opera di Valerio Massimo composto da Giulio Paride, il frammento dell 'Epitome historiarum diversarum exemplorumque Romanorum di Tizio Probo, il De chorographia di Pomponio Mela, quest'ultimo di particolare interesse per l'incidenza che avrà anche in seguito nella tradizione culturale ravennate. Manoscritti di poeti antichi (ma quali?) leggevano insieme, al tempo del loro tirocinio letterario ravennate, il retore Partenio, divenuto magister ojfìciorum alla corte merovingia di Teodeberto I ( s34-548 ), e il giovane Aratore, più tardi suddiacono a Roma, autore di una parafrasi in versi degli Atti degli apostoli sovraccarica di cascami virgiliani. Si tratta di notizie ricavate da copie medievali di codici tardoantichi o da fonti diverse. Nel cosiddetto "Virgilio Palatino", invece, si ha forse testimonianza diretta di un manoscritto prodotto a Ravenna all'inizio del VI secolo. Se così fosse, si avrebbe un più concreto aggancio con la committenza e la pratica di lettura di libri virgiliani nelle cerchie aristocratiche e colte di antica tradizione. Queste cerchie, che leggevano, punteggiavano, emendavano libri, possedevano di conseguenza biblioteche; e a possederle erano non soltanto i nomi tramandati nelle storie letterarie o nelle sottoscrizioni, ma anche altri individui colti. Tra V e VI secolo a Ravenna spiccano le biblioteche di Boezio, di Fausto Nigro, di Cassiodoro. Tra i suoi libri, disposti lungo pareti adorne d'avorio e di cristallo, Boezio (La consolazione della .filosofia,

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4, 3;

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5, 6) amava intrattenersi e discutere con Filosofia, quasi incar-

nazione della sapienza, per riceverne consolazione. La ricca biblioteca di Fausto Nigro - prefetto del pretorio almeno per gli anni 509-512 - esibiva sia il tradizionale repertorio, greco e latino, di opere retoriche, letterarie, storiografiche, filosofiche e di scienze naturali, sia scritti di autori cristiani, a quanto testimonia Ennodio ( Carmi, 2, 3, II-17 ). E Cassiodoro, ritiratosi a Vivarium, il monastero da lui fondato nella sua tenuta di Squillace in Calabria, distingueva i libri della sua biblioteca privata - certo costituitasi già dai tempi in cui egli era a Ravenna alla corte dei Goti - dai libri della biblioteca del monastero, nella quale poi anche i suoi erano confluiti (Cassiodoro, lnstitutiones, 1, 31, 2; 2, 2, 10 ). È assai probabile, del resto, che nella Ravenna del V-VI secolo le biblioteche private, come dovunque in Occidente, si fossero sostituite a quelle pubbliche, ormai scomparse, nella disponibilità e nella conservazione del patrimonio letterario antico e "moderno". Aurelio Memmio Simmaco, Flavio Rusticio Elpidio Domnulo, Partenio, Aratore, Fausto Nigro, lo stesso Ennodio - autore, tra l'altro, di un panegirico infarcito di lodi tronfie che esalta Teoderico quale figura di ideale imperatore romano - sono tutti legati, pur se in modi diversi e più o meno stretti, alla corte dei Goti, ma solo occasionalmente ne costituiscono «supporti di legittimazione e strumenti d'esplicazione» (A. Roncaglia). Di un tale spessore, in tutto il suo significato, sono invece Cassiodoro o Boezio. Ed è a quest'ultimo, al suo vasto programma - troppo vasto e, perciò, rimasto incompiuto - di traduzioni dal greco di opere di logica e di matematica, che si deve la stagione più incisiva dell'ellenismo in Occidente prima della riscoperta di Aristotele e, più in generale, della rinascita del pensiero scientifico-filosofico nel XII secolo. Boezio, accanto ai testi dell' Organon di Aristotele, traduce l' lnstitutio arithmetica di N icomaco di Gerasa e gli Elementi di Euclide. Di particolare rilevanza si dimostra un corpus di scritti di logica dello stesso Boezio, tramandatosi integralmente o a spezzoni in più manoscritti medievali, tra cui si distingue per completezza e interesse un codice di Fleury del tardo X secolo, ora suddiviso tra la Orléans, Bibliothèque Municipale, 267, e Parigi, Bibliothèque Nationale de France, nouv. acq. lat. 16II. La discendenza di questo manoscritto da un antenato tardoantico strettamente connesso con Ravenna è saldamente fondata sulla presenza, pur se saltuaria, di sottoscrizioni riferibili a revisori del VI secolo e su dispositivi tecnico-editoriali riconducibili a un esemplare della medesima

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epoca. Quest'ultimo - ricostruito in dettaglio - era costituito da un codice-corpus in cui erano stati riversati sia scritti di Boezio, nel loro assetto testuale definitivo e vulgato, sia opuscoli ancora in via di composizione e perciò inediti. Si trattava - a quanto si desume dalla sottoscrizione di un anonimo revisore - di un esemplare che questi aveva corretto mediante confronto con un manoscritto, per così dire, "privato", appartenuto a un vir clarissimus et spectabilis di nome Marzio Renato Novato, residente a Ravenna, come recitano sottoscrizioni di quest'ultimo ad alcuni dei trattati boeziani tramandate dal codice medievale di Fleury e riprese dal suo antenato tardoantico. Renato - figura di intellettuale evidentemente legato a Boezio - aveva fatto allestire il suo manoscritto con opere di quest'ultimo a Costantinopoli da un antiquarius, copista, espertissimo e divenuto celebre, Flavio Teodoro, tanto da ascendere a funzionario di alto rango come adiutor quaestoris sacri palatii, vale a dire, in sostanza, che era stato reclutato tra gli addetti alla cancelleria imperiale. Giunto da Costantinopoli a Ravenna insieme a Renato che ivi risiedeva, il codice di scritti di logica di Boezio si può considerare non solo il referente del lavoro di revisione dell'anonimo, ma anche il modello della copia stessa in possesso di quest'ultimo. Come altri e fondati indizi inducono a credere, il codicecorpus trascritto dall'"originale" di Renato, corretto dal revisore, dovette concludere il suo percorso tardoantico nelle mani di Cassiodoro, che da Ravenna, dove è ovvio ritenere l'avesse acquisito giacché ivi alto funzionario del regno gotico, lo portò con sé, insieme agli altri libri della sua biblioteca privata, nella fondazione monastica di Vivarium in Calabria, dove - si è accennato - egli si era ritirato dopo la fine di quel regno per vivere la sua esperienza religiosa e spirituale. Questa connessione tra Ravenna e Vivarium, quale emerge dalla biblioteca di Cassiodoro, si rivela forse nel nome stesso dato da quest'ultimo al monastero, sito presso Squillace non lontano dal fiume calabrese Pellena. Il nome del monastero, infatti, potrebbe richiamare il vivarium, cui accenna Andrea Agnello (LP, 163, 95), appartenente ali' antico episcopium di Ravenna, dunque alla massima istituzione religiosa della città. Si trattava di una struttura architettonica - dotata di una vasca o laghetto con pesci e altri animali acquatici - che con molta probabilità era alimentata da un ramo del fiume Padenna. Edificato di certo, come si desume dagli scavi, dopo gli anni del vescovo Pietro II (494-520 ), il vivarium dell' episcopium, nonostante diverse ipotesi al riguardo, resta comunque privo non solo di una datazione sicura ma anche di un attendibile termine ante quem. Non si può escludere

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perciò che fosse sorto già negli anni di Cassiodoro funzionario del regno gotico, e che questi ne abbia voluto perpetuare la memoria nella sua fondazione monastica dotandola, non a caso, di un vivaio di pesci alimentato dal Pellena, come appare nella raffigurazione di Vivarium in un celebre manoscritto delle Institutiones dello stesso Cassiodoro, ora conservato a Bamberga, Staatsbibliothek, Patr. 61. Non sembra trattarsi, insomma, di pura coincidenza nominale. A quanto si dirà, l' episcopium ravennate era anche sede di committenze, trascrizioni e revisioni di libri di Chiesa, soprattutto biblici, almeno fin dall'epoca del vescovo Ecclesio (52.2.-532.) e più tardi grazie all'attività "editoriale" del grande arcivescovo Massimiano (546-557): una circostanza che non si può ignorare quando si consideri l'impegno, quasi maniacale, profuso da Cassiodoro a Vivarium nella produzione e nella curatela editoriale -1' emendatio, in particolare - delle Bibbie. Queste iniziative, e altre suggestioni qui di volta in volta richiamate, inducono a vedere una contiguità o continuità tra Ravenna e Vivarium: tutto lascia credere a un «più generale intento» di Cassiodoro «di trasferire, nella periferia meridionale dell'ormai dissolto regno ostrogoto, formule ed esperienze, ordinamenti e sistemi» da lui « sperimentati o conosciuti nella precedente fase di impegno politico e di azione di governo» (F. Burgarella). 6. Queste vicende di testi e di libri si svolsero tra il tardo V e la prima metà del VI secolo e nella cornice ravennate soprattutto di epoca teodericiana ( 493-52.6). Vi è anche altro. Va richiamato, ancora per l'età ostrogota, il particolare interesse per tutta una serie di testi di carattere tecnico-scientifico che è da credere direttamente indotto o almeno confortato dalla corte. Se da parte dei Goti - va ribadito - vi fu un atteggiamento misto di indifferenza, interessata tolleranza, soggezione verso la cultura di tradizione antica nei suoi aspetti retorico-letterari, qual era sempre stata e continuava a essere segno distintivo dell'aristocrazia senatoria, d'altro canto, da parte degli stessi Goti, non mancò una spiccata attenzione verso aspetti tecnici e applicativi di quella cultura, e perciò necessariamente verso tutta una serie di testi, oltre e forse più che di eredità latina, greci. Si trattava di geometria, aritmetica, gromatica, architettura, soprattutto medicina. L'età ostrogota potenziava ed esaltava saperi già presenti nella tradizione greco-romana ma ritenuti inferiori rispetto alla cultura retorica, portando a maturazione un processo di penetrazione della letteratura tecnica e delle sue realizzazioni strumentali nella cultura romana alta. Teoderico, attraverso la voce "ufficiale" di Cassiodoro (Vtzriae, 7, 5, 3-4), suggeriva la lettura dello «stu-

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ISI

dioso di geometria Euclide» e di «Archimede, ricercatore sottilissimo», a colui cui era affidata la cura della sua aula, il palazzo, ed elogiava Boezio per aver aperto ai Romani, con le sue traduzioni, l'accesso al patrimonio tecnico-scientifico dei greci (cfr. ivi, 1, 4s). In privato il sovrano, publica cura vacuatus, libero da obblighi connessi al suo ruolo, soleva scrutare con acume e passione «il corso degli astri, gli abissi del mare, le meraviglie delle sorgenti» (ivi, 9, 2.4, 8). Questi stimoli teodericiani si incrociavano con l'elaborazione teorica di Boezio e l'uso applicativo delle scienze perseguito da Cassiodoro a che queste fossero rivolte ali' utilitas. Di particolare rilievo fu il ruolo giocato da Ravenna nel sapere medico, nella trasmissione della medicina antica e nella produzione stessa di libri di contenuto medico. A mostrare l'attenzione che i Goti rivolsero a cultori e testi di terapeutica vi è, innanzi tutto, l'epistola di Cassiodoro, voce ufficiale di palazzo, indirizzata al comes archiatrorum, in cui già ali' inizio si tessono gli elogi dell'arte medica: «tra le arti più utili concesse dalla divinità per sostenere i bisogni dell'umana fragilità, nessuna reca un servizio pari a quello che offre la soccorrevole medicina»; e questa deve essere riconosciuta e qualificata come tale solo se fondata « sulle letture, non su quanto è fatto in modo improvvisato», giacché «per nessuno la lettura assidua è più giusta che per coloro che si occupano della salute umana». E dunque «abbiano i medici, per l'incolumità di tutti, un maestro anche dopo le scuole, si dedichino ai libri, traggano diletto dagli antichi» (ivi, 6, 19, 1-4). Questi libri, che i medici potevano leggere intensivamente o con cui intrattenersi, seguire corsi o acquisire pratiche mediche si riescono talora a individuare. Nella stessa Ravenna non potevano mancare originali in greco di scienza medica. Nel già ricordato palinsesto Vat. lat. s763 + Guelf. Weiss. 64, riutilizzato forse a Verona, si incontrano frammenti da un trattato di Galeno; e nel codice conservato a Napoli, Biblioteca Nazionale, lat. 2., parte 2.•, riscritto a Bobbio, sono reimpiegati, tra l'altro, bifoli originari, a quanto pare, di cinque distinti manoscritti greci recanti, rispettivamente, spezzoni del manuale farmacologico di Pedanio Dioscoride, parti di redazioni abbreviate di trattati, ancora una volta, di Galeno, e ricette mediche. Tutti questi frammenti, riferibili al V-VI secolo, sono vergati in una scrittura maiuscola detta "ogivale inclinata", che rivela, al di là di certe sfumate diversità, comuni caratteristiche sostanzialmente estranee alle scritture genuinamente greche e riecheggianti piuttosto movenze grafiche latine. Sul piano grafico, dunque, un'origine occidentale di tali prodotti va ritenuta più che probabile, ma a quest'ultima in certi casi riportano anche

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elementi sia codicologici sia inerenti alle tradizioni testuali. Che l'ambito di produzione originario dei frammenti palinsesti qui presi in esame possa essere stata la stessa Ravenna è ipotesi che trova conforto in alcune circostanze: essi, infatti, sono stati riutilizzati, dopo un periodo relativamente breve, nell'Italia settentrionale, e i fogli del palinsesto Vaticano e di Wolfenbi.ittel in particolare si trovano associati ad altri gotico-latini e latini. Un assemblaggio di questa specie sembra assai verosimilmente rimandare a un fondo librario comune e ravennate. Riferibili al VI secolo sono stati ritenuti i commentari latini a quattro opere di Galeno tramandati da un manoscritto del tardo IX secolo, il codice custodito a Milano, Biblioteca Ambrosiana, G 108 inf.: sono i commentari ai trattati De sectis ad eos qui introducuntur, Ars medica, De pulsibus ad tirones, Ad Glauconem de medendi methodo. l primi tre recano sottoscrizioni - riprese nel codice Ambrosiano dal suo modello tardoantico -, dalle quali si ricava che i commentari stessi erano stati trascritti da esemplari in cui a Ravenna un Simplicius medicus aveva ordinato una serie di appunti da lezioni ascoltate ex voce Agnello yatrosophista o archiatro, come si legge in un tardo e scorretto latino. Il commentario all'Ad Glauconem, non sottoscritto, mostra struttura e metodo esegetico propri, ma è possibile che sia anch'esso di origine ravennate perché parte di uno stesso programma di insegnamento. Nel ritmo desultorio della trama linguistica di questi commentari, pur messi in ordine per iscritto dal medico Simplicius, si avvertono ancora i segni di un periodare duttile, ambiguo, affidato a una costruzione orale tutta improvvisata. Il modello tardoantico del codice Ambrosiano doveva essere « formato da blocchi testuali disposti in più codices, che sembrano rispecchiare l'andamento delle lezioni dedicate al commento dei singoli trattati galenici» (O. Pecere). Non a caso i quattro testi di Galeno commentati corrispondono, nel medesimo ordine, al già altrove ricordato Canone alessandrino, vale a dire al programma di insegnamento di primo livello della scuola medica di Alessandria nel V-VI secolo. È da credere, dunque, che il codice Ambrosiano rifletta un corso di medicina tenuto nella Ravenna tardoantica da un Agnello "maestro" di origine alessandrina e seguito da un Simplicio "scolaro" che ne annotava i contenuti. Con il manoscritto Ambrosiano si entra anche nelle traduzioni dal greco di testi medici di probabile origine ravennate. Il codice reca pure, infatti, traduzioni latine anonime di alcuni trattati di Ippocrate (Prognosticon, l'ultima parte del De septimanis, il De aere, aquis et locis), anche se non è possibile stabilire se queste traduzioni latine fossero state giustapposte ai commentari galenici dal copista del IX secolo dell'Ambrosiano o

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si trovassero già nel suo modello. In quest'ultimo caso, infatti, saremmo di fronte a un corpus di scritti di medicina che doveva comprendere già originariamente, oltre ai commenti a Galeno, le traduzioni ippocratiche, anche queste, quindi, forse riferibili a Ravenna. Si può altresì osservare che il codice Ambrosiano mostra l 'explicit del Prognosticon e l'incipit del /)e septimanis non solo in lingua greca, ma anche in una scrittura greca distintiva, una maiuscola biblica, imitata evidentemente dal suo esemplare di trascrizione, e che doveva risalire a sua volta all'originale modello greco della traduzione stessa. A cerchie ravennati di età ostrogota sembrano doversi attribuire le traduzioni degli Aforismi di Ippocrate, del trattato pseudo-ippocratico De observantia ciborum, di testi medici minori, e forse anche del De podagra di Rufo di Efeso, della Synopsis e degli Euporista di Oribasio, del quale si conoscono due diverse versioni in latino. A proposito delle traduzioni di Rufo e di Oribasio, pur se attribuite al VI secolo, vi è motivo di credere che si continuasse a leggerle e a farne uso anche più tardi. Esse, infatti, sono tramandate da un manoscritto del VII secolo, ora diviso tra Parigi, Bibliothèque Nationale de France, lat. 10233, e Berna, Burgerbibliothek, F.219.3, che è stato ritenuto da Elias Avery Lowe di origine ispanica, mentre si tratta di codice prodotto con ogni verosimiglianza a Ravenna. E invero l'attribuzione alla Spagna è fondata, in sostanza, sulla « presenza di marginalia e aggiunte in visigotica primitiva»; ma marginalia e supplementi sono in una scrittura visigotica che, ritenuta da Lowe coeva o quasi coeva del manoscritto, è invece da riferire all'xI secolo, vale a dire a un'epoca assai più tarda di quella di trascrizione del manoscritto stesso, quando quest'ultimo poteva trovarsi ormai in ambito diverso dal centro d'origine e là ricevere scritte aggiuntive. A questo proposito, anzi, il codice di Parigi + Berna presenta anche alcune probationes pennae in scrittura beneventana del X-XI secolo, segno che a quest'epoca esso si trovava nell'Italia meridionale: il che rende ancor più difficile l'ipotesi di una sua origine dalla Spagna, giacché, in questo caso, si dovrebbe ammetterne un trasferimento da lì in Italia e, quindi, un ritorno in quell'area: le note in beneventana, infatti, si dimostrano anteriori, pur se di poco, a quelle in visigotica. Quanto alle scritture in cui il manoscritto Parigino-Bernese è vergato - la semionciaIe per brevi sequenze e l'onciale per tutto il resto-, esse richiamano precise e peculiari caratteristiche grafiche di manufatti librari di origine ravennate sicura. Da tutto il precedente discorso risulta, insomma, che il manoscritto Parigino-Bernese, contenente le traduzioni latine di Rufo di Efeso e di Oribasio, è stato prodotto all'inizio del VII secolo quasi di sicuro a Raven-

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na, passando poi nell'Italia meridionale, ove si trovava intorno alla fine del x secolo, quando vi furono apposte alcune probationes pennae in scrittura beneventana, e concludendo di lì a poco il suo itinerario altomedievale in Spagna, nella quale acquisì marginalia e supplementi in scrittura visigotica. Tutto lascia credere, dunque, che non solo il manoscritto ma anche le traduzioni di Rufo di Efeso e di Oribasio siano di origine ravennate. Delle due versioni in latino di quest'ultimo, la seconda in particolare contiene più riferimenti a Ravenna, tra cui l'aggiunta tymia bona nimis quam con.ficiebat johannis pimentarius Ravenna; e si tratta forse del medesimo ]ohannis pimentarius ("tintore") menzionato in P. Ital. II 30, un documento ravennate del 539. Che la professione medica e quindi un certo insegnamento della medicina fossero in qualche modo praticati a Ravenna fa credere pure un documento del 572., P. ltal. II 35, nel quale uno dei testimoni si segna per Eugenius [. .. }.filius Leonti medici ab schola Graeca: Leonzio doveva far parte di una "corporazione" greca di medici presente nella città. Nello stesso ambito ravennate è da credere fossero trascritti e circolassero anche testi di autori latini di medicina: da quell'ambito, infatti, è stato ritenuto originario un corpus di terapeutica contenente, tra l'altro, il De medicina di Celso, tramandato in manoscritti del IX secolo; ne sono conservati a Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 73.1, questo prodotto a Milano per o dai monaci di Sant'Ambrogio, e a Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5951, scritto nel!' abbazia di Nonantola. Quando si pensi a Ravenna quale centro di circolazione di testi medici greci, di traduzioni latine, di archiatri, di insegnamento medico e di manifattura di libri di medicina, acquista significato nuovo la presenza, nella biblioteca a Vivarium di Cassiodoro (/nstitutiones, 1, 31, 2.), di opere e raccolte mediche. Con ogni verosimiglianza si tratta, ancora una volta, di libri e di corpora acquisiti già a Ravenna e cui Cassiodoro (Variae, 6, 19, 3) allude nell'indicarli ai medici come letture obbligate: si pensi anche soltanto a un trattato quale I' Ad Glauconem de medendi methodo, di cui è testimoniato un commentario, già ricordato, a una traduzione latina ritenuto di più che probabile origine ravennate; e lo stesso trattato è presente tra i libri lingua latina conversi di Vivarium, ricordato da Cassiodoro (/nstitutiones, 1, 31, 2.) come Therapeutica Galieni ad philosophum Glauconem destinata. Né più in generale può essere un caso che certi interessi, oltre alla medicina, coltivati a Vivarium, dalle conoscenze cosmografiche all'agrimensura, rientrino nel tipo di cultura tecnico-scientifica preminente nelle cerchie colte ravennati di età ostrogota.

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7. Dopo le ultime, atroci convulsioni della guerra bizantino-gotica ( 535553 ), Giustiniano - riconquistata l'Italia - ne stabiliva la ristrutturazione politico-amministrativa promulgando nel 554 la Pragmatica sanctio, ma

per Ravenna si apriva un'età che, sotto l'aspetto culturale, non venne a determinare una svolta, un mutamento di interessi. In ambito ravennate, peraltro, non sembra esser giunta alcuna eco di certi fermenti letterari della Costantinopoli giustinianea, e invece la città fece certo da tramite per l'arrivo e la trasmissione in Italia di libri di diritto da quest'ultima. A Ravenna giunse dalla capitale d'Oriente e di certo fu utilizzato - verosimilmente prima dell'impresa giuridica di Giustiniano - quel codice delle Istituzioni del giurista di epoca romano-imperiale Gaio, che, passato a Verona, è tra i palinsesti più preziosi della Biblioteca Capitolare, xv (13). E direttamente da Bisanzio, piuttosto che attraverso Roma, dovette giungere a Ravenna il corpus giustinianeo di leggi costituito da Istituzioni, Digesto o Pandette e Codice. Così pure le Novelle «devono essere state inviate man mano che venivano emesse, magari in greco con traduzione latina o solo in greco per essere tradotte subito negli uffici di Ravenna» (G. Nicolaj). È ipotesi suggestiva che il celebre manoscritto delle Pandette del VI secolo, ora alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, possa essere di origine ravennate, ma da più parti e con più argomenti si ritiene sia stato prodotto a Costantinopoli. E ancora, nel manoscritto di Berlino, Staatsbibliothek, lat. fol. 2.69 si conserva un fascicolo dell'vm-Ix secolo, contenente la fine delle Istituzioni e l'inizio del Digesto, che è da credere trascritto da un originale di età giustinianea, forse una specie di manuale giuridico a uso scolastico, giunto a Ravenna dall'Oriente fin dal VI secolo. Comunque stiano le cose, un giacimento di chartae e fasciculi - questi ultimi provenienti verosimilmente da manoscritti deteriorati e sfascicolati-, che un documento del VI secolo, P. ltal. II 47-48, attesta conservato a Ravenna nell'archivio della prefettura, non poteva che contenere scritture giuridiche giacché afferente a un'istituzione in cui i libri di diritto dovevano essere di casa. Nella Ravenna della prefettura, e poi dell'esarcato d'Italia, la circolazione libraria, al di fuori di quella d'indole giuridica o ecclesiastica, rifletteva ancora una volta gli spiccati interessi tecnico-scientifici di epoca ostrogota. Si è già ricordato il manoscritto Parigino-Bernese del VII secolo contenente le traduzioni latine di Oribasio e di Rufo. Si possono addurre anche altre testimonianze. Un corpus di scritti di agrimensori - nel quale sono compresi pure altri testi, come una sequenza della traduzione boe-

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to, infatti, reca un testo «il più inficiato da mende di tutta la tradizione virgiliana tardo-antica» e non soltanto giacché sfigurato da omissioni, duplicazioni, sviste, ma soprattutto perché «molte lezioni deteriori sono il risultato di errate letture del modello, di fenomeni fonetici dialettali, di trivializzazioni, di glossemi penetrati nel testo» (A. Pratesi). E ancora, le illustrazioni si dimostrano sovente incoerenti rispetto al testo cui si riferiscono, segno che esse fungono autonomamente soltanto da sontuoso ornamento librario e non come corredo iconografico mirato a interagire con i versi virgiliani. Questo libro, insomma, non si può ritenere destinato agli ozi letterari di un aristocratico colto ma, se di origine ravennate, prodotto come manoscritto d'apparato in una città, quella della tarda età di Giustiniano, che diveniva sempre più una sede provinciale e di guarnigioni: un provincialismo che emerge sotto più aspetti in un libro pur tanto fastoso come il Virgilio Romano. Non è un caso che il manoscritto sia stato riferito anche a una regione certo fortemente pervasa di cultura romana ma comunque eccentrica, la Gallia, dove, tuttavia, è difficile poter trovare, per la stessa committenza, un qualche aggancio con l'aristocrazia laica ed ecclesiastica colta, la quale avrebbe disdegnato un manoscritto tanto scorretto e che peraltro - tra l'epoca di Sidonio Apollinare e quella di Venanzio Fortunato - si avviava, salvo luminose eccezioni, a un'irreversibile scomparsa. E questa aristocrazia era l'unica che, per ricchezza, avrebbe potuto sostenere il costo di un manoscritto tanto opulento. Il tono d'insieme del Virgilio Romano, intriso di errori di ogni genere e di inquietanti discrepanze tra testo e immagini, è quello della committenza di parvenus assai più che di aristocratici ormai perenti; e parvenus facoltosi, magari anche alfabetizzati, ma sostanzialmente incolti, erano ben presenti a Ravenna e costituivano quel ceto facoltoso e piuttosto incolto che commissionava edifici e oggetti di lusso. D'altro canto, l'attribuzione del Virgilio Romano alla Gallia si fonda, in sostanza, su una serie di confronti iconografici con materiali di quella regione. E, tuttavia, a monte del Virgilio Romano si possono invocare anche altri modelli, i quali peraltro non sono da individuare nei classici illustrati della grande tradizione artigianale romana, ma piuttosto in repertori di immagini adoperati per l'illustrazione di libri cristiani, come il modello del Salterio di Stoccarda, o l'iconografia corrente degli evangelisti, quale riverbera il ritratto stesso di Virgilio, quasi icona o figura incastonata in un'abside, o stesure musive, tanto testimoniate proprio nelle chiese ravennati. Anzi, «le analogie fra le griglie dei mosaici di Sant'Apollinare Nuovo e quelle delle miniature del "Virgilio

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Romano" sono impressionanti, e confermano l'appartenenza ad una stessa tradizione» (C. Bertelli). La disposizione delle miniature stesse a dittico indica un codice progettato per un' ostensio pubblica, a valve affrontate, in un interno destinato non a letture o recitationes dotte ma - come la costruzione di grandi basiliche - a simbolo di un nuovo prestigio fondato sulla ricchezza. In ultima analisi, non si può escludere la possibilità che il Virgilio Romano sia stato prodotto a Ravenna, dove il manoscritto, ammantandosi sottilmente di venature della cultura antica, può aver assolto la funzione di monumento librario o di codice-spettacolo esibito con orgoglio da un parvenus ad altri parvenus. 8. Fin dall'epoca di san Pietro Crisologo, vescovo della città (445-457), autore di sermoni, va ammessa a Ravenna una cultura, e una cultura scritta, di specifica indole ecclesiastica. Del v secolo si sono direttamente conservati, pur se talora ridotti a miseri frustuli, manoscritti che si devono credere prodotti nell'ambito della Chiesa di Ravenna. È il caso - a quanto lasciano intravedere scrittura e circostanze di conservazione - dei frammenti papiracei ricavati da un protocollo diplomatico del 433 e riutilizzati sul retro per scrivervi, tra l'altro, passi di Niceta di Remesiana; e tali pure i relitti, anch'essi papiracei, da un rotolo, più precisamente da una banda di papiro, che reca il testo dell' Altercatio di Evagrio Pontico. Si tratta, rispettivamente di P. Pommersfelden 14 e di P. Pommersfelden 7-13, riferibili allo scorcio del v o all'inizio del VI secolo, vergati con tutta probabilità da mani di notarii ecclesiastici. Poiché scritti su materiale di riutilizzo o comunque in tipologie librarie ambigue e in forme grafiche corsive, i pezzi presi in esame, pur se prodotti nelle cerchie della Chiesa di Ravenna, si devono considerare dovuti a iniziative individuali. All'epoca del vescovo Ecclesio, perciò, il modello a monte del Tetraevangelo di Monaco, più volte ricordato, sembra, per la qualità artigianale alta che si può ricostruire, essere stato commissionato a una bottega laica adeguatamente attrezzata piuttosto che prodotto all'interno dell'episcopio, pur se quest'ultima possibilità non si può escludere del tutto. Di certo nell'episcopio, invece, il modello del Tetraevangelo fu corretto e interpunto da quel Patricius, indignus Christi fàmulus, di cui s'è detto. E in ogni caso il manoscritto monacense riflette e indica la più antica presenza di Bibbie o di parti di esse a uso delle cerchie vescovili ravennati. Le botteghe librarie di antica tradizione andavano tuttavia scomparendo, ed è quindi sempre più a iniziative scrittorie all'interno della Ravennas Ecclesia che con ogni verosimiglianza si deve attribui-

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