Nautica antica. Itinerari nel mondo della navigazione, tra storia, archeologia ed etnografia 8891326402, 9788891326409

Se confrontate con quelle attuali, le tecniche e le pratiche di navigazione degli antichi risultano relativamente sempli

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Nautica antica. Itinerari nel mondo della navigazione, tra storia, archeologia ed etnografia
 8891326402, 9788891326409

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Roma Bristol
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PREMESSA
IL FILOSOFO E IL MARINAIO

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Stefano Medas, professionista nell’archeologia subacquea e navale da oltre venticinque anni, ha realizzato numerose campagne di scavo su relitti e siti sommersi. Già docente a contratto presso l’Università di Bologna e l’Università di Cagliari, assegnista di ricerca all’Università Ca’ Foscari Venezia, è attualmente ricercatore in Archeologia Marittima presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna. È presidente dell’Istituto Italiano di Archeologia e Etnologia Navale. In materia di archeologia subacquea, archeologia navale, storia ed etnografia della navigazione, ha pubblicato quattro monografie e oltre cento articoli scientifici. Velista, da molti anni tiene corsi di navigazione con le imbarcazioni tradizionali dell’Adriatico (vela al terzo). https://www.unibo.it/sitoweb/stefano.medas/

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NAUTICA ANTICA

ITINERARI NEL MONDO DELLA NAVIGAZIONE TRA STORIA ARCHEOLOGIA E ETNOGRAFIA

Stefano Medas

NAUTICA ANTICA ITINERARI NEL MONDO DELLA NAVIGAZIONE TRA STORIA ARCHEOLOGIA ED ETNOGRAFIA

Stefano Medas

S. MEDAS - NAUTICA ANTICA

ISBN 978-88-913-2640-9

ISSN 0081-6299

L’elenco completo dei numeri della collana è consultabile scansionando il codice QR o visitando l’indirizzo: https://www.lerma.it/catalogo/collana/24

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Se confrontate con quelle attuali, le tecniche e le pratiche di navigazione degli antichi risultano relativamente semplici, basate su princìpi essenziali ma estremamente efficaci, come dimostra la loro lunga persistenza nel corso del tempo. Poca teoria e tanta pratica, pochi strumenti e molta esperienza; la straordinaria capacità di rapportarsi con l’ambiente e con gli elementi naturali ha sviluppato quel “senso marino” che è sempre stato una peculiarità propria delle genti di mare fino al tramonto della vela, ovvero fino alla prima metà del secolo scorso. Possiamo così ritrovare diversi princìpi dell’antica arte di navigare nella recente marineria tradizionale, ovvero nella marineria da lavoro e da pesca, in un contesto popolare che maggiormente ha conservato caratteri “arcaici”. Lo stesso è accaduto per i sentimenti dei marinai, per le loro credenze nei confronti delle imbarcazioni e del mare. L’etnografia nautica rappresenta quindi un importante strumento di studio comparativo, che ci aiuta a comprendere modi di navigare che solo la nostra ottica di moderni uomini tecnologici ci fa apparire rudimentali. Modi di navigare che, invece, presentano una loro speciale raffinatezza, perfettamente adeguati ad ogni necessità, a spostarsi regolarmente da un capo all’altro del Mediterraneo e perfino ad affrontare viaggi oceanici.

«L’ERMA»

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

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STUDIA ARCHAEOLOGICA 254

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Stefano Medas

NAUTICA ANTICA Itinerari nel mondo della navigazione, tra storia, archeologia ed etnografia

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Roma - Bristol

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Stefano Medas Nautica antica. Itinerari nel mondo della navigazione, tra storia, archeologia ed etnografia- Roma : «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 202 p. : ill.,; 24 cm. - Studia Archaeologica; 254 ISBN 978-88-913-2640-9 (brossura) ISBN 978-88-913-2644-7 (pdf ) DOI: 10.48255/9788891326447.Medas CDD 709.01

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Dedica

Ringraziamenti

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Indice

Premessa Il filosofo e il marinaio

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Capitolo 1. POCA TEORIA E TANTA PRATICA 1.1. Cosa significava “navigare” per gli antichi 1.2. Vivere negli elementi: il senso marino 1.3. Tra storia ed etnografia

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Capitolo 2. GENTI DI MARE 2.1. Esperienza e fermezza di spirito 2.2. Buone abitudini per scongiurare i pericoli in mare: ordine e vocabolario 2.3. Il sentimento delle genti di mare per le proprie barche 2.4. Marinai e sacerdoti: il ruolo nautico del tempio 2.5. Marinai e geografi: il valore dell’esperienza 2.6. Navigazione nelle acque interne e battellieri

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Capitolo 3. LE VELE 3.1. Va’ a l’orza! Le andature delle imbarcazioni a vela 3.2. La vela quadra antica: efficienza e manovra 3.3. La vela a tarchia 3.4. La vela latina 3.5. Vele “a pertiche” e vele enigmatiche

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Capitolo 4. ORIENTARSI IN MARE 4.1. Ambiente marino e orientamento 4.2. Il cielo e le stelle dei naviganti antichi 4.3. Orientarsi a levante o a settentrione? 4.4. Orientarsi col fondo del mare

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Capitolo 5. IL TEMPO GIUSTO PER NAVIGARE 5.1. Le stagioni della navigazione 5.2. Meteorologia pratica

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Capitolo 6. AFFRONTARE LA TEMPESTA 6.1. Il viaggio e il naufragio di San Paolo 6.2. La spiera 6.3. L’olio che calma le onde

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Capitolo 7. PERIPLI, PORTOLANI E CARTOGRAFIA 7.1. Distinguendo tra peripli e portolani 7.2. La concezione dello spazio geografico e del percorso marino 7.3. Portolani e cartografia

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Conclusione: il salvataggio di un patrimonio irripetibile Glossario dei termini marinareschi Bibliografia

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PREMESSA

Per millenni, nella storia delle civiltà, la navigazione ebbe un ruolo che oggi può risultare difficile dimensionare nelle giuste proporzioni, per lo meno in relazione all’impatto con la vita quotidiana della gente. I nostri tempi ci hanno abituato a sistemi di trasporto diversi, decisamente più rapidi e puntuali, soprattutto per quanto riguarda gli spostamenti personali, sia a breve, che a medio e a lungo raggio. Insomma, abbiamo varie ed efficaci alternative a un viaggio in nave. Ovviamente diverso è il caso dei grandi trasporti mercantili sulle lunghe distanze, per i quali le navi continuano a rappresentare un mezzo insostituibile, quello economicamente più produttivo. In età antica, invece, così come nel Medioevo e ancora per tutta l’Età moderna, sostanzialmente fino all’avvento della ferrovia nel XIX secolo, la navigazione giocò un ruolo quasi assoluto sia nel trasporto dei grandi carichi sia in quello delle persone, tanto per mare come nelle acque interne. Appare chiaro, allora, come lo studio delle tecniche di navigazione costituisca un tema nodale della storia, oltre che trasversale, sia in una prospettiva strettamente nautica che in una di più ampio carattere culturale. L’arte della navigazione, infatti, ha sempre risposto a esigenze precise e, nel contempo, ha offerto opportunità in cui si è riflessa l’evoluzione storica di un’epoca, dunque il raggio di azione di una civiltà e la sua proiezione di sviluppo. Esigenze e risposte hanno sempre viaggiato di pari passo. Inoltre, per l’impatto che aveva nella vita quotidiana della gente e per il fatto di esprimere un rapporto estremo con gli elementi naturali, la navigazione è stata nel mondo antico anche fonte di potenti metafore filosofiche. L’andar per mare fu preso a simbolo delle difficoltà dell’esistenza umana, mentre il carattere del bravo pilota/timoniere e il suo modo di agire divennero paradigma di saggezza e di prudenza, di forza d’animo e di vigilanza, di perizia nel proprio lavoro. I princìpi fondamentali dell’arte nautica antica sono relativamente semplici e strettamente legati alla dimensione ambientale, ovvero alla raffinata percezione che i naviganti avevano dell’ambiente marino. Per comprenderli dovremo spogliarci dei nostri pregiudizi di uomini moderni, accettare il fatto che i viaggi di lungo corso e le navigazioni d’altura, tanto nel Mediterraneo quanto nell’Oceano Indiano e nell’Atlantico, furono condotti con successo senza l’impiego della bussola e delle carte nautiche; che la nautica “scientifica” non è mai stata un presupposto indispensabile; che la concezione dello spazio marino non si basava su un principio cartografico, almeno nel senso in cui noi lo intendiamo; che la stima dinamica del percorso sopperiva al calcolo del punto nave; che il “senso marino” rapprePremessa

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sentava il più potente strumento nautico di cui l’uomo disponeva; che l’impiego della vela quadra non obbligava le navi a viaggiare solo coi venti da poppa; che le presunte limitazioni tecniche delle marinerie antiche sono state in gran parte create da noi; che i progressi di ordine tecnico non vanno mai disgiunti dalle necessità di ordine pratico; che le navi e i naviganti dell’antichità hanno permesso di collegare in modo capillare ogni regione del Mediterraneo e del mondo conosciuto all’esterno di questo mare, soprattutto a partire dall’età ellenistica. Le tradizioni nautiche, sia antiche che recenti, sono sempre appartenute a un sapere pratico che viaggiava da una regione all’altra insieme agli uomini e alle navi, diventando un patrimonio comune di conoscenze, quasi globale, dettato dalle condizioni ambientali di un determinato mare più che dall’etnia dei popoli o dalle suddivisioni geo-politiche. Ambienti simili crearono soluzioni simili in ogni regione del pianeta, anche se in tempi e con modalità diverse, anche senza forme di contatto, rispondendo evidentemente alle diverse situazioni storiche. I princìpi fondamentali dell’arte di navigare, dunque le tecniche e le pratiche necessarie, hanno conosciuto una sopravvivenza di lunghissima durata, presentandosi simili per tutta l’epoca della vela, dettati dal costante e immutato confronto con gli elementi naturali. Il cambiamento radicale avvenne solo a partire dalla metà del XIX secolo, con l’introduzione dei motori a vapore, e in modo più netto nel corso del secolo successivo, con quella dei motori Diesel. Da quell’epoca l’uomo è diventato progressivamente sempre più “padrone” del mare, riducendo i rischi e aumentando la regolarità dei viaggi, dunque sottraendosi, ma solo in parte, al potere che gli dèi esercitano da tempi immemorabili su questo elemento. È chiaro, del resto, che anche i più recenti progressi nelle costruzioni navali e nella tecnologia applicata alla nautica non permettono, e forse non permetteranno mai, di affrancarsi completamente dai pericoli del mare. La sopravvivenza dei princìpi di base della nautica antica si riscontra in particolare nella navigazione minore, sia da traffico che da pesca, cioè in quella che più a lungo ha conservato quei caratteri di arcaicità che riconducono a un orizzonte tecnico e culturale genericamente antico, come quello che si ritrova nelle recenti marinerie tradizionali. Al loro interno gli uomini continuarono a operare attraverso conoscenze empiriche, dettate dall’esperienza e dalla pratica, molto diverse da quelle che, invece, appartengono alle scuole nautiche e alle accademie in cui si formano i capitani dei grandi bastimenti. Salvo casi particolari, infatti, quella tradizionale è rimasta una nautica che possiamo ancora definire non-scientifica, nel cui ambito, fino ai primi decenni del Novecento, il ricorso alle carte nautiche rappresentava un’eccezione e la stessa bussola magnetica veniva spesso guardata con una certa diffidenza. È la ragione per cui possiamo trovare in questo tipo di nautica popolare, basica sul piano strumentale ma assai raffinata su quello della percezione sensoriale (il senso marino), un utilissimo termine di confronto etnografico per lo studio della nautica antica. Questo lavoro prende origine da un mio precedente libro intitolato De rebus nauticis L’arte della navigazione nel mondo antico, pubblicato nel 2004 per i tipi de «L’Erma» di Bretschneider, Roma. A diciotto anni di distanza, com’è naturale che accada quando si fa ricerca, ho sentito la necessità di procedere a una nuova versione rivisitata, ampliata e aggiornata, in cui dare spazio a nuovi argomenti e ridiscuterne altri.

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Stefano Medas

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IL FILOSOFO E IL MARINAIO

«La condizione degli uomini», scrive Seneca all’amico Lucilio, «è identica a quella delle cose: una nave è definita buona non se è dipinta con colori preziosi o se ha il rostro d’oro o d’argento o se ha l’immagine della divinità tutelare scolpita in avorio o se è carica di tesori e di ricchezze regali, ma se è stabile e forte e ha le giunture solidamente connesse che non lascino entrare l’acqua, solida e resistente all’urto delle onde, docile al timone, veloce e non sensibile a ogni soffio di vento»1.

Seneca è soltanto uno dei filosofi antichi che ha tratto dal mondo della navigazione efficaci metafore attraverso cui delineare i caratteri dell’esistenza umana2. Egli recupera infatti da quel mondo non pochi esempi capaci di esprimere il suo personale ideale etico, che trova nella forza d’animo e nella rettitudine i suoi elementi fondanti, secondo i princìpi della dottrina stoica. Ecco, allora, che il viaggio per mare si trasforma simbolicamente nell’immagine della nostra vita, così spesso tempestosa a causa delle passioni e degli accidenti, mentre l’uomo diventa il pilota che deve attraversare la distesa marina tenendo ben saldo il timone, forte nel corpo non meno che nello spirito, per giungere finalmente a quel porto in cui ormeggiare la nave al riparo da ogni traversia, meta ultima che si identifica nella saggezza. Lo strumento necessario a concludere felicemente questo viaggio è l’arte della navigazione, ovvero la filosofia che «forma e plasma l’animo, regola la vita, governa le azioni, siede al timone e dirige il corso in mezzo ai pericoli del mare in tempesta»3. Il bravo pilota, depositario e attuatore di quest’arte, è a sua volta l’emblema delle qualità positive che regolano l’agire dell’uomo in ogni sua attività, compresa la politica. A lui sono affidati il buon esito di un viaggio per mare, la salvezza della nave e dell’equipaggio, come al filosofo sono affidati il bene dell’uomo e la cura della cosa comune. La navigazione diventa dunque metafora della vita, di quel viaggio con cui attraversiamo veloci il tempo che ci è concesso, «lasciandoci dietro le nostre età come terre che scompaiono all’orizzonte»4. Un’immagine, questa, che è poi stata ripresa dal Cristianesimo, attraverso una lettura solo apparentemente diversa, che in realtà esprime i valori assoluti dell’essere umano e che, a volte, ci sorprende per la vicinanza con quella data dai filosofi, soprattutto da un filosofo come Seneca. Possiamo visualizzarla nella lastra sepolcrale di una certa Firmia Victor(i)a (Fig. 1), in cui la nave simboleggia l’anima della defunta in viaggio verso la meta finale, il porto della salvezza rappresentato da un grande faro in cima al quale arde la fiamma che guida il marinaio, come il messaggio evangelico guida la vita del cristiano5. Dal canto suo, Sant’Agostino riconosceva simbolicamente nel legno della Croce l’unico mezzo sicuro per attraversare il mare della vita, come fosse una barca che Cristo ha donato agli uomini con questo scopo preciso6. È invece Platone, nella Repubblica (488-489a-c), a offrirci un primo e raffinatissimo saggio di quelle metafore nautico-politiche tanto apprezzate dai filosofi greci e romani, quando mette Il filosofo e il marinaio

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in bocca a Socrate il celebre discorso allegorico sulla “nave dello stato”7. Protagonisti sono dei marinai arroganti e presuntuosi quanto inesperti e incapaci, che litigano tra loro riguardo alla direzione della nave, ciascuno pretendendo di sostituirsi al capitano, uomo esperto di mare, senza dubbio, ma Fig. 1. Lastra sepolcrale di Firmia Victor(i)a, inizi del IV sec. un po’ sordo e dalla vista corta. d.C., Musei Vaticani, Lapidario Cristiano. Assolutamente impreparati nell’arte della navigazione, senza rendersi conto che il vero pilota deve invece conoscere alla perfezione quell’arte, gli irresponsabili marinai non riescono a farsi affidare il timone e per questo sono pronti a immobilizzare il capitano, a metterlo fuori gioco pur di appagare la loro sete di potere. Ebbene, secondo il filosofo greco i capi politici del suo tempo potevano ben somigliare ai marinai di quella ciurmaglia. Marinai con cui si identificano i demagoghi, capaci di ridurre la politica alla sola arte di manipolare il popolo, che viene personificato dal capitano della nave; uomo forte, che a bordo detiene il potere per le sue capacità, non certo cattivo ma sprovveduto, incapace di riconoscere la realtà delle cose. Platone ne fa quindi l’emblema del popolo (dêmos) che all’interno di una democrazia rappresenta il vero e unico depositario del potere (krátos), essendo la democrazia, letteralmente, il “potere al popolo”, dunque il “governo del popolo”. Al pari di quel capitano, il popolo di cui scrive Platone è ottuso, perché nel seguire le sconclusionate voci dei demagoghi/marinai rimane sordo ai saggi consigli dei filosofi, che nella metafora si identificano invece con i veri piloti, coloro che sono esperti nell’arte di navigare/governare lo stato8. Non poteva rinunciare a metafore di questo tipo un politico del calibro di Cicerone, nei cui scritti sono frequenti i passi che fanno riferimento alla “nave della repubblica”, dunque al pilota, al governo, ai timoni e perfino al naufragio dello stato, in un continuo confronto tra il contesto nautico e quello politico9. E non vi rinunciò nemmeno Plutarco, non solo paragonando la città nell’anarchia a una nave senza il suo pilota10, ma anche spiegando, nei suoi Precetti politici11, come vi siano momenti in cui il politico responsabile dovrebbe saper fare un passo indietro, anziché ostinarsi nel mantenere il potere a ogni costo: «…non ci si deve tenere lontani dalla diligenza e dall’affezione in alcuna iniziativa pubblica, ma attendere con attenzione a tutte e conoscerle a una a una e non occorre tenersi in disparte, come l’àncora sacra su una nave, restando in attesa delle estreme necessità dello stato; ma come i nocchieri compiono direttamente alcune operazioni, parte invece dirigono e volgono, standosene lontani, attraverso altri strumenti e l’opera di altri uomini, si servono poi di marinai, ufficiali di prua e dei maestri del remeggio, e di questi alcuni spesso chiamano a poppa affidando loro il timone, così al politico conviene alcune volte tirarsi indietro per cedere ad altri il comando e chiamarli alla tribuna con benevolenza e cortesia e non pretendere di mettere tutto sottosopra in città con i suoi discorsi, i decreti e le sue proposte, ma tenendosi vicini uomini leali e onesti, adattare ognuno a ogni necessità secondo quello che più gli compete»12.

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Il bravo politico, insomma, farebbe bene a seguire l’esempio del bravo pilota (o nocchiero, se vogliamo chiamarlo così), cioè a capire che può arrivare un momento in cui diventa necessario farsi da parte e delegare ad altri il proprio potere, perché, spiega ancora Plutarco nel suo breve saggio A un governante incolto13, «non è possibile che chi sta cadendo tenga in piedi gli altri, chi è ignorante insegni, chi non è equilibrato possa dare equilibrio, né dare ordine chi non è ordinato, né governare chi non ha in sé governo». Una prima osservazione sorge spontanea: come sono attuali queste considerazioni! In effetti, certi istinti atavici dell’uomo sono restii ai cambiamenti. La conquista del potere ad ogni costo e l’irriducibile lotta per conservarlo, anche se non è più opportuno, anche se si è persa la forza, se si lede l’interesse comune e si demolisce ogni principio morale, non sono forse atteggiamenti a noi famigliari? Potremmo forse negare che vi siano analogie tra le metafore di Platone o di Plutarco e una certa politica dei nostri tempi? E che simili analogie, in fondo, vadano bene per ogni epoca storica, quando più e quando meno? Rispondere non sarebbe difficile. Torniamo quindi al contesto che ci riguarda, per rilevare che anche l’essenza dell’arte di navigare è sempre stata così, tenace e resistente dalle sue origini fino al tramonto della vela, nel segno di una continuità che è giunta fino alle soglie del nostro tempo. Una continuità che a livello popolare, in un contesto pratico e non scientifico, è sempre rimasta vicina ai caratteri della navigazione antica; al punto che possiamo trarre dall’etnografia, cioè dal mondo della marineria tradizionale, utilissime informazioni da affiancare alle fonti storiche e archeologiche. D’altro canto, al di là delle metafore, i testi dei filosofi hanno conservato qua e là anche importanti notizie di tipo tecnico, propriamente nautico, qualche volta perfino di prima mano, derivate cioè dall’esperienza personale vissuta a bordo di una nave. In certi casi si tratta solo di poche righe, in altri, invece, incontriamo dei brevi racconti in cui l’esperienza del mare risalta in tutta la sua concretezza. «Cosa non mi si può convincere a fare», racconta ancora Seneca14, «dopo che mi sono lasciato convincere a viaggiare per mare? Salpai col mare calmo; senza dubbio il cielo era carico di quei nuvoloni neri che per lo più si risolvono in acqua o in vento, ma io pensai di farcela a percorrere le poche miglia fra la tua Napoli e Pozzuoli, anche se il tempo era incerto e minaccioso. Perciò, per mettermi al riparo in fretta, mi diressi subito al largo verso Nisida, con l’intenzione di tagliar via tutte le insenature. Quando ero arrivato al punto in cui non c’era più differenza tra il proseguire e il tornare indietro, quella calma che mi aveva sedotto finì: non era ancora la burrasca, ma il mare era mosso e si agitava sempre di più. Cominciai a pregare il timoniere di farmi sbarcare in qualche punto della costa: ma quello rispondeva che il litorale era scoglioso e privo di approdi e che durante una tempesta ciò che temeva maggiormente era la terra. Io stavo troppo male perché mi venisse in mente il pericolo; mi tormentava un mal di mare spossante e senza sfogo, quello che smuove la bile senza mandarla fuori. Insistetti, pertanto, con il timoniere, e lo costrinsi, volente o nolente, a dirigersi verso la costa. Quando ci siamo prossimi, non attendo che, secondo i precetti di Virgilio, volgano le prue al largo o che si cali l’àncora da prua, memore della mia abilità di vecchio amante dell’acqua fredda, mi butto in mare, come si addice a chi fa un bagno freddo, vestito di panno grosso. Che cosa credi che io abbia passato mentre mi arrampicavo su per gli scogli, mentre cercavo una via, anzi me la aprivo? Ho capito che non a torto i marinai temono la terra. È in-

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credibile quel che ho sofferto, non potendo andare avanti: sappi che Ulisse non era destinato a trovare mari così agitati al punto da fare ovunque naufragio: soffriva il mal di mare. Anch’io, dovunque dovrò recarmi per mare, vi giungerò dopo vent’anni».

In un ambiente primordiale com’è il mare, il rapporto dell’uomo con gli elementi ha sempre richiesto un’attenzione speciale, che si è concretizzata nella nascita di un’arte capace di fornire risposte essenziali a necessità essenziali, di trovare le soluzioni migliori con le risorse a disposizione, il che significava e significa, fondamentalmente, attraverso l’ingegno. L’arte della navigazione, del resto, si definisce in quel complesso di pratiche che sono necessarie a condurre in porto la barca, o la nave, nel modo più sicuro e più veloce possibile. Analizzarne i contenuti permette dunque di ripercorrere la plurimillenaria epopea che ha reso gli uomini capaci di “usare” il mare, per migliorare la propria esistenza e ampliare i propri orizzonti, diventando, così, sempre più padroni del mondo. Scriveva Cicerone che noi uomini «siamo gli unici a possedere, grazie all’arte della navigazione, il controllo delle forze più violente generate dalla natura, il mare e i venti, e godiamo e facciamo uso di molti prodotti del mare»15. Si stupì Poseidone nel suo regno sottomarino, quando, scorgendo un’ombra che correva sul fondo, girò all’improvviso lo sguardo verso l’alto e gli apparve la carena di Argo che tagliava la superficie del mare16. Argo, la nave degli Argonauti, la prima nave, simbolo dell’ardire dell’uomo per mezzo del suo stesso ingegno, emblema della sua hýbris, cioè della sua sfrontatezza e della sua tracotanza nei confronti dell’ordine stabilito dagli dèi17. Una conquista, quella del mare, che costò all’uomo grandi sacrifici, obbligandolo a mettere in campo le sue virtù migliori. È questo il motivo per cui l’arte della navigazione è diventata metafora, lo specchio in cui si è riflessa la dura vita dell’uomo, dall’epoca degli eroi di Omero a quella dei poveri pescatori di Verga; dunque metafora delle sue qualità, della sua capacità di affrontare il destino resistendo alle situazioni più difficili, di essere saggio e prudente in qualunque circostanza, per raggiungere un obbiettivo che non è mai garantito né gratuito, ma che richiede sforzo e determinazione, oltre che, naturalmente, l’aiuto di Dio. 1

Lettere a Lucilio, LXXVI, 13. Versione italiana di Monica Natali (Lucio Anneo Seneca, Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, a cura di G. Reale, A. Marastoni e M. Natali, Rusconi, Milano 1994). 2 Massaro 1988/1989. 3 Seneca, Lettere a Lucilio, XVI, 3. 4 Seneca, Lettere a Lucilio, LXX, 2. 5 Si tratta di una lastra marmorea del IV sec. d.C., con disegno e iscrizione realizzati a incisione, proveniente dal cimitero di Villa degli Eustachi sulla Via Latina (Roma), conservata nel Lapidario Cristiano dei Musei Vaticani (Utro 2007). 6 Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, omelia 2, paragrafo 2. 7 Tema molto antico quello della “nave dello stato”, che incontriamo già nella lirica greca, in Archiloco e in Alceo, dunque a partire dal VII sec. a.C. (Adrados 1955; Marzullo 1975; Bonanno 1976). 8 Seymour 1902; Gastaldi 2003; Cornelli 2014; Ferrari 2015. 9 Moschetti 1966, pp. 13-100; Bonjour 1984. 10 Cesare, 28, 5. 11 Moralia, 812 B-C. 12 Versione italiana di Gino Giardini (Plutarco, Consigli ai politici, a cura di G. Giardini, Rizzoli, Milano 1995).

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Moralia, 780 A-B. La versione italiana è sempre di Gino Giardini Lettere a Lucilio, LIII, 1-4. La versione italiana è sempre di Monica Natali. 15 La natura divina, II, 152, (versione italiana di Cesare Marco Calcante, Cicerone, La natura divina, a cura di C.M. Calcante, Rizzoli, Milano 1992). 16 «…alla ’mpresa, che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo» (Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, 95-96). 17 Tifi, il pilota degli Argonauti, «ardì spiegare le vele sull’immenso mare e dare nuove leggi ai venti...», Seneca, Medea, 318-320 (versione italiana di Alfonso Traina, Lucio Anneo Seneca, Medea, Fedra, a cura di G. G. Biondi e A. Traina, Rizzoli, terza edizione, Milano 1994). Sulla nave Argo e il suo valore emblematico si vedano Salviat 1984; Borca 2004-2005; Murray 2005; Ramirez 2006; Valverde Sánchez 2015. 14

Il filosofo e il marinaio

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Capitolo 1

POCA TEORIA E TANTA PRATICA

1.1. Cosa significava “navigare” per gli antichi Il latino navigare deriva da navis (nave) che a sua volta è affine al greco naûs (nave), entrambi termini molto antichi, formatisi su una radice indoeuropea1. In italiano, e non solo, il significato del verbo ha conosciuto una notevole estensione, tanto che oggi lo usiamo in senso traslato anche per indicare l’attività di ricerca all’interno di una rete informatica (“navigare in rete”), escludendo così ogni rapporto con la realtà fisica, contrariamente a quanto prevede la navigazione nel senso tradizionale del termine. Senso da cui non riusciva a staccarsi Guido, mio vecchio amico, maestro d’ascia e navigante allora quasi novantenne, un giorno in cui ci mettemmo insieme davanti al computer per cercare informazioni sul Rex, il meraviglioso transatlantico a cui Fellini dedicò una celebre scena del suo film Amarcord. Nonostante cercassi di spiegargli che anche in quel modo stavamo “navigando”, lui continuava a rimanere perplesso, come un primitivo di fronte al mistero della bussola. Non riusciva a concepire l’idea della navigazione virtuale o forse solo il fatto che la lingua si fosse evoluta in quel modo, quasi fosse un tradimento. «Non c’è niente di peggio del mare per conciar male un uomo, anche se è molto forte», diceva Laodàmante, figlio di Alcínoo re dei Feaci, riferito a Odisseo2. Mitico popolo di navigatori, i Feaci erano uomini che avevano il mare nel sangue, tanto che Omero attribuisce loro una sfilza di nomi nautici – Nausítoo, Nausicàa, Nautèo, Eretmèo, Pontèo, Prorèo, Primnèo – coniati con termini presi a prestito dalle navi e dalla navigazione. Senza dubbio, le parole di Laodàmante esprimevano una consapevolezza reale non solo per l’uomo dell’età arcaica, ma per l’uomo antico in generale, quasi un monito a guardarsi dai pericoli del mare. Perché in mare, ricordano i poeti greci e latini, c’è solo un sottile strato di legno a separarci dalla morte3, alludendo ovviamente al fasciame dello scafo. Altrettanto eloquenti sono le parole attribuite allo scita Anacarsi, vissuto nel VI sec. a.C. e considerato uno dei Sette Sapienti dell’antica Grecia. Se qualcuno gli domandava quale fosse la nave più sicura, lui rispondeva: «quella tirata in secco»; quando poi gli si chiedeva se al mondo fosse maggiore il numero dei morti o quello dei vivi, rispondeva: «e i naviganti, in quale gruppo li metti?»4. L’uomo antico, in sostanza, identificava l’idea del mare con quella di un ambiente ostile, per lo meno difficile, e l’idea navigazione con quella di un’attività dura e molto rischiosa, che, se possibile, era meglio evitare. Poca teoria e tanta pratica

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Come accennato, questa percezione del mare/navigazione perdurerà ancora per moltissimo tempo. «Il mare è amaro – ripeteva – ed il marinaio muore in mare», scrive Giovanni Verga ne I Malavoglia (1881). «Mai il mare è stato amico dell’uomo», ribadisce duro Joseph Conrad ne Lo specchio del mare (1906), «nonostante tutto ciò che si è detto dell’amore che certe nature (a terra) professano di sentire per lui, nonostante tutte le celebrazioni di cui è stato oggetto in prosa e in poesia. Tutt’al più è stato complice dell’umana irrequietezza, e ha svolto la parte di pericoloso istigatore di ambizioni universali … Aperto a tutti e fedele a nessuno, esso esercita il suo fascino per la rovina dei migliori. Non è bene amarlo»5. Vale la pena ricordare che quelle di Conrad non sono soltanto le parole di un grande scrittore, ma di un navigante di lunga esperienza, che per più di vent’anni lavorò sui velieri mercantili, iniziando la sua carriera da ragazzo, come semplice marinaio, per poi ricoprire tutti i gradi fino a quello di capitano6. La nostra idea di navigazione è dunque molto diversa da quella che avevano gli antichi, poiché per loro navigare significava quasi sempre sfidare la morte. Se infatti le vie del mare offrivano grandi opportunità di guadagno, d’altro canto rappresentavano uno dei rischi più grandi a cui gli uomini potessero andare incontro. La letteratura greco-romana conferma quanti fossero questi rischi e quali i sentimenti degli uomini costretti ad affrontarli. L’inganno del tempo, l’imprevedibilità degli elementi, l’apparente soavità della brezza che all’improvviso si trasforma in tempesta, la fragilità della nave squassata dalla violenza delle onde, la paura del naufragio, fedele compagna di ogni marinaio, sono temi ricorrenti7. D’altro canto, la navigazione marittima, ma anche quella nelle acque interne, incideva nella vita quotidiana degli antichi in un modo molto più profondo di quanto accade per noi, perché tutto viaggiava sull’acqua e sull’acqua doveva muoversi chiunque fosse costretto ad affrontare un viaggio importante. Ciò premesso, va detto che il modo di rapportarsi con la pratica della navigazione è rimasto fondamentalmente lo stesso, nonostante lo sviluppo delle conoscenze e le conquiste tecnologiche. «La navigazione», scrive William Bourne nel suo A Regiment for the Sea, pubblicato a Londra nel 1574, «è la modalità con cui si dirige il proprio corso in mare verso un luogo designato, considerando quali fattori possono essere favorevoli e quali contrari lungo il tragitto, avendo piena consapevolezza di come preservare la nave dalle tempeste e dai cambiamenti del tempo che possono intervenire durante il viaggio, allo scopo di condurla sana e salva nel porto di destinazione, il più rapidamente possibile»8. Per i greci la navigazione era una téchne che richiedeva meléte, cioè un’arte che richiedeva pratica9, esattamente come lo era per i latini, che ritenevano la peritia, dunque l’abilità pratica, il fondamento dell’ars navigandi10. Molto più di quanto accade oggi, richiedeva la capacità di rapportarsi in modo totale con l’ambiente, dunque con lo spazio e col tempo, con gli elementi naturali e con la propria imbarcazione; capacità che permetteva di seguire il proprio corso, nonostante tutte le difficoltà e le variabili che si potevano incontrare, quindi di manovrare in modo adeguato ad ogni circostanza. Presupposto di questo (solo apparentemente) semplice principio è quell’arte della navigazione che era fatta di conoscenze più pratiche che teoriche, espressione di un sistema culturale basato sull’esperienza e perfino su una buona dose di istinto. Per quanto possa sembrarci strano, il termine arte risulta del tutto adeguato, identificando in senso generale quel bagaglio tecnico e metodologico che consente di realizzare un’attività pratica nel campo dell’operare umano. Come si è detto, il rapporto totalizzante che legava il navigante antico all’ambiente marino restò tale fino al tramonto della vela, cioè fino a quando gli uomini si trovarono a 18

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combattere con gli elementi in un modo che potremmo definire ad armi pari. A cambiare radicalmente le cose sarà invece l’introduzione del motore, in particolare del motore Diesel, che rese i marinai progressivamente sempre più forti nei confronti degli elementi naturali. La straordinaria evoluzione tecnologica degli ultimi cento anni, sviluppatasi attraverso l’uso della radio, poi dei sistemi di radionavigazione e infine di quelli satellitari, ha fatto sì, da un lato, che l’uomo sia diventato sempre più “padrone” del mare, dall’altro che abbia affievolito, se non perduto, quella sensibilità e quell’intuito per gli elementi che lo avevano guidato nel corso dei millenni precedenti. Per comprendere l’entità di questo cambiamento dovremo procedere a ritroso, partendo dai princìpi che guidano la navigazione moderna, ovvero da quei presupposti scientifici, applicati con gli strumenti nautici, che vennero introdotti a partire dalla fine del Medioevo e che definirono la nascita della navigazione stimata come noi la intendiamo11. La stima si basa infatti sull’impiego di tre parametri fondamentali, che sono la direzione, la velocità e il tempo, calcolati, rispettivamente, con la bussola, il solcometro e la clessidra o il cronometro. Nel corso del viaggio, i dati forniti da questi strumenti permettono di tracciare il punto nave stimato, trasferendo graficamente sulla carta nautica, su basi geometriche, il procedere della navigazione. Naturalmente, si tratta di un metodo soggetto a inevitabili errori, dovuti ai diversi fattori che influiscono sull’avanzamento della nave; in primo luogo lo scarroccio e la deriva, a cui si aggiungono le eventuali imprecisioni degli strumenti e gli errori nella conduzione della nave. La stima, dunque, non è mai esatta, rappresenta solo un calcolo approssimato, probabile, ed è per questo che nei secoli passati il riferimento di posizione veniva chiamato anche “punto di fantasia”. A questa nautica strumentale appartiene naturalmente la navigazione astronomica12, che permette di stabilire il punto nave sulla base di precisi riferimenti di latitudine e longitudine ricavati dall’osservazione delle stelle, soccorrendo così alle imprecisioni della navigazione stimata. Le tecniche e gli strumenti di questa navigazione scientifica si sono sviluppati attraverso un lungo processo di affinamento, iniziato sempre nel tardo Medioevo e proseguito per tutta l’Età moderna, direttamente connesso col progredire delle navigazioni oceaniche e in particolare, nella prima fase, di quelle in Atlantico tra il XV e il XVI secolo13. Avremo modo di approfondire come nell’antichità, e per molti aspetti ancora nella recente marineria tradizionale, la situazione fosse molto diversa, in quanto non si sentiva la necessità di condurre una navigazione stimata secondo i princìpi fondamentali che abbiamo ricordato, dunque di sviluppare una nautica che si potesse già definire scientifica. Per molti secoli la nautica è rimasta un’arte, i cui principali strumenti sono stati la pratica e la sensibilità dei naviganti. Mancavano, insomma, quei caratteri che permettono di operare una distinzione netta tra nautica e arte della navigazione, perché i due aspetti sostanzialmente coincidevano. Anzi, è stata proprio la navigazione, condotta sulla base delle conoscenze empiriche e dell’esperienza, a determinare ricadute sulla ricerca scientifica, quella geografica in primo luogo. Infine, dovremo tenere sempre presente che a diverse tipologie di navigazione corrispondevano diverse modalità di conduzione della nave, oltre che diversi livelli di preparazione e di esperienza dei piloti. Una navigazione di cabotaggio lungo rotte di breve o medio raggio era cosa diversa da una d’alto mare su rotte di lungo raggio, così come queste erano diverse dalla navigazione delle flotte militari o da quella delle spedizioni con finalità esplorative. Poca teoria e tanta pratica

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Secondo le circostanze cambiavano i presupposti cognitivi, con evidenti conseguenze sulla quantità e la qualità della documentazione giunta fino a noi.

1.2. Vivere negli elementi: il senso marino Non può esserci vita senza amicizia, che è saggio anteporre a tutte le cose umane, perché, fatta eccezione per la sapienza, essa è il dono più grande che gli uomini hanno ricevuto dagli dèi immortali. Così la definì Cicerone, che dell’amicizia aveva un concetto altissimo. Le dedicò un’opera di carattere filosofico, il De amicitia, una riflessione meditata sul profondo valore di questo sentimento, su ciò che lo rende per sempre e su ciò che ne decreta la fine. Chiunque di noi può riconoscersi in quelle pagine, ricordare vicende presenti e passate, in senso positivo o negativo. Sì, perché l’amicizia non va lesinata, ma non va neppure concessa in modo affrettato. A chi non è mai capitato di rimanere ferito da chi considerava un amico o di scoprire che sotto la maschera dell’amicizia si nascondeva soltanto l’interesse? La natura umana, ricorda ancora Cicerone, è troppo debole per disprezzare il potere, in qualunque modo lo si intenda. Per questo la saggezza ci consiglia di fare attenzione, di ricordarci che anche in una tranquilla mattina di sole può nascondersi l’indizio del temporale in arrivo. Non si tratta di essere diffidenti, ma di affinare la nostra percezione dell’altro, per cogliere quei segni premonitori che all’inizio, inconsciamente, ci rifiutiamo perfino di riconoscere, perché pensiamo che l’amicizia sia qualcosa di imperturbabile. Anche il vecchio marinaio, deciso il momento opportuno per salpare, scioglie le vele fiducioso, non mostra incertezza, confida nelle promesse del vento e del mare, ma tiene gli occhi ben aperti e le orecchie ben tese, sempre pronto a fiutare ogni minimo segnale, ogni minimo cenno di cambiamento. «Meglio rientrare, e alla svelta», disse Bertino con l’aria circospetta, dopo aver scandagliato l’orizzonte tra Levante e Tramontana. Ci invitò quindi a calare le vele e “attaccare” il motore, come dice lui, per tornare velocemente in porto, senza darci alcuna spiegazione. A vederlo, però, non sembrava preoccupato. Se ne stava in piedi sornione, tenendo con destra la grossa barra del timone, senza fare alcuno sforzo, come se vi fosse soltanto appoggiato. Da queste parti, nell’alto Adriatico, le vecchie barche da lavoro hanno tutte una grossa barra, perché armano timoni enormi e molto pesanti, necessari a governare meglio, dal momento che gli scafi sono praticamente piatti e privi di altre sporgenze che li aiutino a contrastare lo scarroccio, ad eccezione di un poco di chiglia; esattamente come la barca su cui eravamo, un lancione da pesca a due alberi costruito nel 1928, armato con le tipiche vele al terzo, dipinte di ocra e di rosso mattone. Accadde dieci anni fa, in uno splendido e assolato pomeriggio di fine agosto, mentre stavamo viaggiando con una bava di vento, sul mare piatto, condizioni ideali per goderci quel breve trasferimento di appena una decina di miglia. «Perché rientriamo, Bertino?» «Non hai sentito la ronda?», rispose, «il mare ha preso a gonfiarsi, tra poco avremo addosso la bora». Ecco il motivo per cui si era girato a scrutare l’orizzonte. Stava cercando “lo scuro”, quella striscia nerastra che preannuncia il colpo di vento, un muro di aria fredda e pesante capace di far spumeggiare il mare all’improvviso, alzando onde corte e rabbiose, quasi sempre accompagnato da una sferzata di pioggia battente. In una parola: la bora (fig. 2). Se 20

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davvero aveva avvertito la ronda, non c’era tempo da perdere, perché la bora è traditrice e corre veloce. Sapevo di cosa stava parlando. La ronda era l’onda di leva14, una grande onda lunga e silenziosa che arriva dal largo, spesso solitaria, come un invisibile gonfiarsi del mare. Qualcuno riesce a percepirla a bordo, come una strana vibrazione, sentendo lo scafo che si solleva lentamente senza essere sbandato, avvertendo l’energia che si sta cari- Fig. 2. Maltempo in rapido avvicinamento da nordest (colpo cando nell’acqua e nell’aria. In di vento e pioggia). condizioni di bel tempo, questo gonfiarsi del mare diventa segno inequivocabile della presenza di un vento molto forte che, pur essendo ancora lontano, già si riflette nella compressione della massa d’acqua, che si trasmette con velocità superiore a quella dell’aria. Con termine ormai desueto da molto tempo, in Romagna la chiamavano ronda, creando così, almeno secondo l’opinione di alcuni, un curioso parallelismo tra la rondine che annuncia la primavera e l’onda che annuncia la bora. I pescatori di Chioggia, invece, i più esposti agli assalti di questo vento impetuoso, le davano il nome di sursòn, parola che è forse in rapporto con l’idea del mare che “surge”, cioè che sorge, si gonfia, o con quella, decisamente più fantasiosa, del mare che deglutisce un grosso sorso prima della bevuta finale, cioè della burrasca, secondo la spiegazione fornita da alcuni vecchi pescatori, i quali, a loro volta, l’avevano sentita dai nonni15. Del resto, si tratta di un fenomeno che era ben noto agli antichi, come ricorda chiaramente Plinio16 quando parla del mare che si gonfia più del solito, in silenzio, mostrando così che i venti sono già al suo interno, nonostante la situazione sia ancora tranquilla. Ma il primo a ricordare qualcosa di simile, il mare che cresce sotto la spinta dei venti ancora lontani, è nientemeno che Omero: «…quando si gonfia d’onde mute il gran mare, / presentendo il cammino veloce dei venti sonori...»17. Come gli animali, anche noi uomini siamo dotati di straordinarie capacità sensoriali nei confronti dell’ambiente naturale; capacità che appartengono alla nostra biologia primordiale e che un tempo svolgevano un ruolo importantissimo, potremmo dire vitale. Oggi, però, le abbiamo perdute in larga misura, comunque le conserviamo sopite, nascoste, rese inattive dalla tecnologia, cioè da uno stile di vita in cui la percezione sensoriale risulta sempre meno necessaria. Chi potrebbe negare che la maggior parte di noi vive oggi il rapporto con gli elementi in un modo sempre più limitato, filtrato da surrogati artificiali del mondo reale? La tecnologia ci sta progressivamente allontanando dalla percezione dell’ambiente, tanto da lasciarci increduli riguardo a certe attitudini che appartenevano alle genti di mare fino ad anni ancora vicini. Il rapporto intimo e costante con gli elementi ha sempre sviluppato nei naviganti e nei pescatori una sensibilità particolare, un “senso marino” che si manifesta (o si manifestava) Poca teoria e tanta pratica

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nella capacità di percepire, quindi di interpretare, ogni minimo segnale proveniente dall’ambiente. Si tratta (o si trattava) di una percezione totale dell’atmosfera, del vento e del tempo, della superficie e del fondo del mare, del comportamento degli animali e di molto altro ancora, coadiuvata naturalmente dalla conoscenza del cielo, delle istruzioni nautiche e dall’uso di qualche semplice ma efficacissimo strumento nautico, com’è lo scandaglio. Le potenzialità cognitive delle genti di mare nei confronti dell’ambiente hanno sempre rappresentato qualcosa di sorprendente per gli altri uomini, al punto da far pensare che i marinai possedessero un sesto senso18. Quella di navigare, del resto, è un’arte che ha una sua preistoria, rappresentata da una nautica che possiamo definire sensoriale o istintiva, primordiale espressione di quel “senso marino” che sembra iscritto nel codice genetico di coloro che spendono la propria vita sul mare. Che i naviganti disponessero di speciali capacità sensoriali è un fatto chiaramente documentato anche a livello etnografico, soprattutto in rapporto a quelle forme di navigazione che chiamiamo primitive, secondo una definizione che rischia per altro di essere riduttiva, se non addirittura impropria. In effetti, la mancanza di strumenti nautici o di teorizzazioni scientifiche non ha mai impedito agli uomini di affrontare viaggi su lunghe e lunghissime distanze in mare aperto, sia nel Mediterraneo che negli oceani. Nel nostro caso, quindi, l’aggettivo “primitivo” riconduce solo alla semplicità di sistemi che, tuttavia, sono sempre risultati efficaci e adeguati anche alle imprese più impegnative19. Durante una delle sue navigazioni di studio negli arcipelaghi del Pacifico, David Lewis rimase profondamente colpito dalla capacità del pilota indigeno Tevake, suo maestro di nautica primitiva e suo soggetto d’indagine, capace di guidare la navigazione d’altura nell’arcipelago di Santa Cruz, in Melanesia, con i soli riferimenti ambientali e, cosa ancora più sorprendente, con una precisione straordinaria. Tutt’altro che sprovveduto in fatto di navigazione a vela (avendo attraversato per tre volte in solitaria l’Atlantico, avendo condotto un giro del mondo in catamarano e molte altre imprese, oltre che avendo studiato a fondo la nautica primitiva dei popoli dell’Oceania), Lewis fu costretto a concludere che le capacità nautiche di Tevake avevano qualcosa di difficilmente comprensibile per l’uomo moderno, qualcosa che andava ben oltre l’esperienza del velista più esperto e preparato20. Per molti aspetti, il mistero di questa nautica primitiva può essere ricondotto alle qualità sviluppate da tutte le culture non–scientifiche. La nostra possibilità di comprensione sta nell’approccio culturale con cui affrontiamo il problema, nella capacità di credere a qualcosa che esce dai nostri schemi usuali, ad un rapporto tra l’uomo e gli elementi naturali che, di primo acchito, ci riesce difficile persino immaginare. È necessario, allora, procedere a una sorta di iniziazione, spogliandoci di molte delle nostre convinzioni, accantonando ogni preconcetto, per scavare nell’istinto e nella sensibilità primitiva dell’uomo. In un interessante lavoro sulle origini dell’arte nautica, Giuseppe Puglisi ha puntualizzato il problema e il modo con cui noi, oggi, dobbiamo necessariamente affrontarlo. «Quando la navigazione divenne un’attività lucrativa, la nautica divenne l’arte segreta di determinate categorie, tanto che Salomone, nella sua vantata sapienza, la poneva fra le quattro cose per lui misteriose (Proverbi, XXX, 19). Infine, quando l’uomo provò la necessità, nel programmare le sue imprese oceaniche, di sottrarsi all’alea della sorte, la nautica divenne una scienza. In ogni epoca, però, all’attitudine di orientarsi, egli aggiunse la resistenza e la prudenza, una strenua forza di sopportazione dei furori naturali, e l’accortezza di prevenire il peggio, sull’avviso dei segni premonitori del tempo. Come in tutte le conquiste sulla natura, il marinaio usò an22

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cora quegli imponderabili che hanno avuto peso decisivo nei grandi eventi, quali l’intuito, la fede, la fortuna; per cui si può dire che la nautica fu in origine istinto, arte, coraggio, scarsa scienza e molta superstizione. Ed ora, per capire meglio le condizioni degli antichi, il lettore si spogli, per un momento, delle sue nozioni di geografia e di nautica; abiuri il monoteismo della bussola, riabbracciando il politeismo delle cosmografie mitiche; ignori che l’unica rotta fra due porti sia l’arco più breve che li congiunge; e creda nel miracolismo del senso marino»21.

1.3. Tra storia ed etnografia Qualunque sia il nostro campo di interesse o l’oggetto della nostra ricerca, la quantità delle informazioni di cui possiamo disporre oggigiorno è enorme, in continua evoluzione e fruibile in molteplici forme. Praticamente, esistono pubblicazioni specifiche quasi per ogni argomento, con un livello di specializzazione altissimo. Per addentrarsi in questo sconfinato mare di notizie è quindi indispensabile un rigoroso lavoro di selezione critica, per individuare le informazioni e le fonti corrette, quelle necessarie ed effettivamente utili, distinguendole da quelle scorrette o non necessarie, dunque inutili. Lo stesso avviene quando affrontiamo lo studio dei testi antichi, ma partendo da una situazione di base diversa. In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte non a una sovrabbondanza ma a una carenza di informazioni, che ci obbliga a cercare le notizie su questo o su quell’argomento tra quanto è scampato al naufragio della letteratura antica. Affrontando una ricerca sull’arte della navigazione, argomento trasversale a tanti contesti, dovremo allora volgere il nostro sguardo a trecentosessanta gradi, cercare non solo nelle opere che per loro natura sono le più promettenti, come quelle degli storici e dei geografi, ma in ogni genere della letteratura, perché dovunque, senza preavviso, può capitarci di trovare un’informazione utile. Per orientarci sul piano qualitativo, dovremo quindi cercare di capire come e perché certe notizie sono giunte fino a noi, ovvero contestualizzarle. La letteratura greco-latina, nel suo complesso, è ricca di immagini legate al mare e alla marineria, oltre che di opere dominate dal tema della navigazione. Quella greca risulta nel complesso più generosa, soprattutto se la consideriamo da un punto di vista propriamente tecnico-nautico, pur non mancando documenti importanti anche in quella latina22. Vi sono poi quei testi particolari che vanno sotto il nome di peripli, letteralmente “circumnavigazioni”. Il termine greco identifica in senso stretto le descrizioni geografiche delle coste di un mare chiuso (il Mediterraneo, il Mar Nero, il Mar Rosso), partendo da una località e procedendo ordinatamente in un senso, come se si trattasse, appunto, di un viaggio intorno a un mare. La medesima parola, tuttavia, assunse presto un significato più ampio, riferendosi anche alle relazioni dei viaggi di esplorazione o alle descrizioni di terre e regioni che non richiedevano di navigare “intorno”. Si tratta fondamentalmente di opere di argomento geografico, che solo in rari casi e in modo non uniforme possono effettivamente relazionarsi con delle istruzioni nautiche, conservando in misura variabile, per qualità dei contenuti e stile espositivo, i caratteri del documento destinato all’uso pratico. Unitamente alla documentazione archeologica, le fonti scritte permettono di ricostruire anche diversi aspetti della vita di bordo23, mentre forniscono raramente dei dettagli sui modi impiegati per condurre le imbarcazioni, per orientarsi e per seguire la rotta, sulla manovra Poca teoria e tanta pratica

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delle vele e sugli altri aspetti di ordine nautico24. Il motivo principale di questa carenza di informazioni tecniche va imputato al fatto che le regole dell’ars navigandi non erano codificate in forma scritta, ma affidate sostanzialmente alla parola e all’esperienza, dunque alla trasmissione orale. In realtà, il panorama documentario non è del tutto vuoto, perché esiste qualche notizia che lascia ragionevolmente pensare all’esistenza di una letteratura tecnica, che però non si è conservata o che, nel migliore dei casi, è sopravvissuta in modo estremamente frammentario, spesso stemperata all’interno di opere concepite con intenti diversi da quelli dell’istruzione nautica. Possiamo supporre che si trattasse di testi destinati principalmente a un’istruzione di livello superiore, come quella che doveva coinvolgere i piloti delle flotte militari, quelli che praticavano il commercio a lungo raggio e quelli che affrontavano spedizioni esplorative. Quanto si è conservato nella letteratura riconduce per lo più a contesti di carattere generale, con l’attenzione spesso rivolta agli aspetti di genere, a quelli epici o drammatici, non di rado stereotipati in veri e propri cliché letterari. Fortunatamente, però, tra le righe compaiono talvolta anche notizie puntuali, che sembrano derivare da fonti ben informate, addirittura dall’esperienza personale dell’autore. Tra i temi che rivestono particolare importanza c’è senza dubbio quello del naufragio, che rientra come motivo di genere in molte opere, a cominciare dai poemi omerici25, e che in epoca moderna (dal XVI-XVII secolo), a seguito dello sviluppo dei grandi viaggi oceanici, diede addirittura origine a un genere letterario autonomo, quello della letteratura di naufragio26. Che si riferiscano alla metafora della vita, sia sul piano personale che politico, o che siano introdotti come elementi per movimentare una storia, i racconti di naufragio ci offrono non solo degli eccezionali spaccati della vita di bordo, ma anche importanti informazioni sulla manovra e la conduzione delle navi27. Un’altra fonte di primaria importanza è poi rappresentata dalla già citata tradizione marinaresca, ovvero dal contesto etnografico. Se affrontato col giusto metodo, attraverso un approccio filologicamente corretto, lo studio delle tecniche di navigazione tradizionali, cioè di quelle utilizzate correntemente dai naviganti e dai pescatori a livello popolare, può contribuire in modo importante a colmare molti vuoti della documentazione storica e archeologica. Le tradizioni nautiche presentano infatti una persistenza di lunghissima durata, al punto che alcune pratiche e alcuni princìpi di base sono rimasti pressoché immutati dall’antichità ai nostri giorni, nel segno di quella continuità e di quella persistenza che hanno sempre caratterizzato la vita delle genti di mare, fino al tramonto della vela28. È un fatto noto che il divario cronologico non sempre corrisponde a un parallelo divario culturale. Limitandoci al nostro contesto, possiamo esemplificare la situazione in questi termini: se la distanza temporale che oggi ci separa dalle ultime forme di nautica tradizionale può essere compresa tra sessanta e ottant’anni, la distanza culturale, considerata nel medesimo spazio di tempo, è enormemente superiore rispetto a quella che separa l’ultima navigazione tradizionale da quella medievale o da quella antica. In sostanza, possiamo immaginare che un navigante o un pescatore vissuto agli inizi del Novecento si sarebbe inteso molto bene con un collega dell’epoca di Marco Polo o di Augusto; forse addirittura meglio di quanto sarebbe riuscito a fare con un velista dei nostri tempi. La velocissima evoluzione tecnologica intervenuta dalla metà del secolo scorso ha determinato un cambiamento radicale anche nei sistemi di navigazione e negli stessi princìpi che la regolano. 24

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Insieme alle prove nautiche condotte con le repliche di navi antiche, che restano un mezzo fondamentale per condurre un’analisi materiata, l’esperienza pratica con le barche tradizionali e la testimonianza degli ultimi uomini che hanno lavorato nella marineria a vela rappresentano strumenti di grande importanza per avvicinare un orizzonte tecnico-culturale rimasto sostanzialmente “arcaico”, per vari aspetti riconducibile a quello antico. Una dimensione fondamentale per riuscire a comprendere una realtà che, altrimenti, resterebbe per noi confinata entro i limiti della congettura o dell’analisi teorica. L’approccio dovrà essere però di carattere selettivo, distinguendo gli elementi che hanno mantenuto intatti i loro caratteri di arcaicità da quelli su cui sono intervenuti apporti successivi, con una lettura che potremmo definire di tipo archeologico e, precisamente, stratigrafico. Inoltre, dovrà essere di tipo pratico, considerando che anche la nautica tradizionale non ha conosciuto teorizzazioni scritte, ma si è tramandata in forma orale e attraverso l’esperienza diretta. Proprio per questo, cioè per il fatto di non appartenere a un ambiente colto, come quello delle accademie o delle scuole di marina, la tradizione costituisce il termine di confronto che più si avvicina al contesto della navigazione antica. Tra l’altro, ci aiuta anche a comprendere in che modo il sapere pratico delle genti di mare è stato recepito nella letteratura contemporanea, dunque a far luce su un processo di elaborazione culturale che interessò anche l’antichità. Nel caso della marineria tradizionale, infatti, abbiamo in mano entrambi gli elementi: l’esperienza viva e la sua trasposizione letteraria. Proviamo a chiarire meglio la questione. Come soggetto letterario, il mondo della marineria è confluito in molte opere dell’OttoNovecento, al pari di quanto accaduto nella letteratura antica per le marinerie fenicio-puniche, greche e romane. Prendiamo ad esempio tre opere, utili non solo per evidenziare il rapporto tra antichità e tradizione, ma anche per schematizzare i diversi livelli con cui le notizie tecniche possono confluire nelle pagine di un romanzo o di un racconto: I Malavoglia di Giovanni Verga (Milano 1881); Maria Risorta – Romanzo marinaresco, di Giulio Grimaldi (Torino 1908); Quando si navigava con i trabaccoli, di Riccardo (Dino) Brizzi (Rimini 1999). Le tre opere hanno come soggetto comune il mondo della marineria popolare, legato a forme di vita essenziali e a una sopravvivenza quasi sempre stentata, a una cultura pratica in cui la capacità di leggere e scrivere rientravano come eccezioni. Nel primo caso si tratta di una famiglia di pescatori siciliani e della loro piccola barca da pesca; nel secondo, di una comunità di pescatori marchigiani e della loro flotta di paranze; nel terzo, della vita a bordo dei trabaccoli da traffico che, ultimi testimoni della vela, negli anni Trenta del Novecento attraversavano l’Adriatico collegando la Romagna con l’Istria. Diversi sono i livelli di coinvolgimento degli autori. In Verga riconosciamo l’attenzione del letterato verso la realtà sociale e culturale della propria terra, che diviene il mezzo attraverso cui si sviluppa l’impegno artistico; realtà osservata dall’interno, ma sostanzialmente estranea alla vita personale dell’autore. Fattore determinante nella composizione della sua opera fu però la lettura di un giornale di bordo, «un manoscritto discretamente sgrammaticato e asintattico in cui un capitano raccontava succintamente certe peripezie superate dal suo veliero. Da marinaio: senza una frase più del necessario; breve. Mi colpì, lo rilessi: era ciò che io cercavo senza rendermene conto distintamente. Alle volte, si sa, basta un punto. Fu un fascio di luce»29. In relazione agli aspetti marinareschi del romanzo, dunque, possiamo ritenere Verga una buona fonte, per quanto limitata sul piano propriamente tecnico. Poca teoria e tanta pratica

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In Grimaldi il coinvolgimento personale con la vita delle genti di mare è più diretto, essendo ottenuto attraverso un lungo e paziente lavoro di indagine tra i marinai del porto di Fano, come lo stesso Autore testimonia nelle sue lettere. « In tanto cerco di addomesticarmi con gli uomini e le cose di laggiù, e faccio grandi passeggiate al porto, e vado escogitando i piani più ingegnosi per entrare nel regno di quella gente così diversa dal resto della popolazione … (Fano, 5 gennaio 1900). Oltre a quello che ho potuto vedere e osservare da me, per notizie ed informazioni mi rivolgo direttamente ai marinai, che me le forniscono volentieri; e appunto di giorno in giorno, le risposte a un lungo e diffuso “questionario” sopra mille minuti particolari intorno alla loro vita, in casa e sull’acqua … (Urbino, 25 febbraio 1902). A Fano ho parlato con i marinai, ho visitato barche, ho accumulato notizie e appunti: molte di queste, anzi, me le forniscono i marinai stessi, avendo tre paroni, tre giovanotti intelligenti, che a bordo, nelle ore d’ozio, rispondono per iscritto ai miei interminabili questionari (Fabriano, 22 settembre 1902)»30. Attraverso questo lavoro di ricerca sul campo, grazie al contatto diretto con la gente di mare, Grimaldi fotografa la realtà della marineria peschereccia di inizi del Novecento, diventando per noi una fonte documentaria molto precisa. I racconti di Brizzi, neurochirurgo di chiarissima fama ed esperto navigante, rappresentano invece la testimonianza di una realtà vissuta in prima persona31. L’innata passione per il mare e la navigazione condussero il giovanissimo Riccardo, classe 1920, a imbarcarsi sui trabaccoli da trasporto e sulle lance da pesca nei porti romagnoli. La sua esperienza non è stata quella di un erudito o di un passeggero “colto”, ma quella di un vero testimone dell’ultima marineria a vela, di un marinaio che ha condiviso la vita dei marinai, osservandola con la curiosità e la profondità che caratterizzarono la sua vicenda umana, scientifica e artistica. Un’esperienza che ha per noi un significato importante, sia dal punto di vista tecnico che sociale e culturale, perché rappresenta l’estrema memoria di un mondo “antico” oggi del tutto scomparso. Infine, dovremo rilevare come le tre opere citate appartengano ad altrettanti e diversi livelli di letteratura, che si relazionano con la loro diffusione, dunque con la loro conoscenza da parte di un pubblico più o meno ampio (considerazione che esula dal risultato artistico). Con Verga siamo di fronte a un’opera della grande letteratura nazionale, e non solo. Con Grimaldi ad uno degli esempi più rappresentativi della cultura marchigiana di inizi Novecento, dunque a una letteratura di carattere regionale, per quanto abbia assunto un respiro ben più ampio. Con Brizzi a una letteratura di carattere specializzato, che trova diffusione soprattutto tra gli amanti della vela tradizionale e della cultura locale. Va inoltre sottolineato che nei primi due casi il contesto marinaresco appartiene totalmente all’epoca degli autori, mentre nel terzo caso vi appartiene solo in parte, perché Brizzi assistette da giovane al tramonto della marineria a vela, della cultura e delle tradizioni plurisecolari che questa conservava. Per tale motivo, la prospettiva della sua opera e l’ottica stessa con cui l’ha affrontata risultano diverse, in quanto segnate dalla nostalgia e, per questo, volte non solo a descrivere la vita delle genti di mare, ma anche a salvare la memoria di un mondo in rapidissima trasformazione. Ai fini di una ricerca selettiva sulla nautica tradizionale, gli scritti di Brizzi rappresentano quindi una fonte di primo livello, essendo basati sull’esperienza diretta dell’autore e sulla sua profonda conoscenza delle cose di mare. Il romanzo di Grimaldi una fonte di secondo livello, essendo frutto di un’accurata raccolta informativa dalla viva voce dei marinai. Quello di Verga una fonte di terzo livello, che ci trasmette esperienze reali ma in forma assoluta26

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mente indiretta. Riguardo alla diffusione, però, abbiamo visto che l’ordine è esattamente all’opposto; ed è con quest’ordine che le tre opere hanno raggiunto e raggiungono ancora oggi il pubblico dei lettori. Tali considerazioni possono quindi aiutarci a comprendere anche le modalità di trasmissione e la natura delle informazioni nautiche che incontriamo nella letteratura antica, in relazione con la tipologia delle opere in cui si sono conservate. In buona sostanza, le notizie di cui disponiamo appartengono principalmente alla grande letteratura, sia essa storica, geografica, poetica o filosofica. Tenendo in debita considerazione la diffusione della cultura scritta nel mondo antico e pur riscontrando l’intervento di esperienze dirette, realmente vissute dagli autori (l’Epistola 4 di Sinesio ne è un esempio lampante), è evidente che quanto possiamo trovare in Omero, in Platone o in Virgilio, è cosa ben diversa da quanto avrebbero potuto raccontarci un marinaio o un letterato esperto di mare. A questo punto non ci resta che dare un esempio concreto di ciò che abbiamo teorizzato sopra. Ne I Malavoglia sono spesso i proverbi a riassumere la condizione umana dei pescatori e la loro vita sul mare, in particolare i modi con cui prevedevano il tempo, per mezzo di definizioni che richiamano da vicino quelle degli autori antichi32: «… Senza pilota barca non cammina. … Il buon pilota si conosce alle burrasche. … Il sole oggi si coricò insaccato – acqua o vento. ‘Quando il sole si corica insaccato si aspetta il vento di ponente’, – aggiunse padron ‘Ntoni. … Quando la luna è rossa fa vento, quando è chiara vuol dir sereno; quando è pallida, pioverà. … Mare crespo, vento fresco. Stasera le stelle sono lucenti, e a mezzanotte cambierà il vento; sentite la buffata? ... Buon tempo e maltempo non dura tutto il tempo! … Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura. … Mare bianco, scirocco in campo. … Acqua di cielo e sardelle alle reti! … Che vuol dire che il mare ora è verde, ed ora è turchino, e un’altra volta è bianco, e poi nero come la sciara, e non è sempre di un colore come dell’acqua che è? – chiese Alessi. È la volontà di Dio, – rispose il nonno, – così il marinaio sa quando può mettersi in mare senza timore, e quando è meglio non andarci»33.

In Maria Risorta i punti di interesse specifico sono molto più frequenti e articolati, dall’uso dello scandaglio in funzione della pesca, cioè per stimare la distanza da riva a cui calare le reti, agli irrinunciabili richiami sul tempo, vero padrone della gente che lavora sul mare: «A mezzanotte il Sinigagliese … s’alzò a buttar lo scandaglio, volendo vedere a che punto si trovavano. L’occhio non l’aveva ingannato: erano a un dieci miglia dalla costa, e si poteva far la calata. …Giù, verso tramontana, una bianca striscia sottile sfrangiata agli orli si staccava sul fondo plumbeo. - Sparnacchi34 in giro, – osservò Salvatore accennando da quella parte, mentre si tirava a bordo la tartana: – c’è borino, laggiù … …mentre si spingeva in fondo al molo allora deserto, e là, per abitudine invincibile, dopo avere scandagliato il cielo e pronosticato il tempo, posava lo sguardo sul mare …

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…Tutti gli anni, verso la metà d’autunno, … si ha un periodo di tempo cattivo che i marinai battezzano con il nome di bora dei morti, e ch’è quasi il preludio della brutta stagione. … I marinai, che la prevedono e la temono, difficilmente si lasciano cogliere fuori da essa, pronti, ad ogni più piccolo indizio di mutazione del tempo, a riparare nel porto. Ma quell’anno era venuta loro addosso così repentina e traditrice, che li aveva sorpresi tutti in mare. …Ma qualche vecchio, rimasto a terra perché ormai inabile, guardava il cielo e scoteva la testa, senza lasciarsi ingannare da quel sole pallido e malaticcio che ispirava tanta fiducia alle donne. No, no, il tempo non s’era rimesso e aveva ‘le buschere’: quei cirri cinerei, quei fiocchi bianchi là, verso tramontana, non promettevano niente di buono. E così pensando tendevano l’orecchio esperto all’urlo del mare che veniva ingrossando, benché non ci fosse vento. Ma questo ci doveva ben essere a largo, dove infatti apparivano i primi segni bianchi delle spume che si avvicinavano sempre più. Certo, tra un pajo d’ore al massimo, meglio essere in porto, che là»35.

Il brano di Brizzi condensa i princìpi fondamentali dell’arte nautica tradizionale, oltre che la realtà sociale e culturale delle genti di mare negli anni Trenta del Novecento. Ci parla di una navigazione che non conosceva l’uso degli strumenti, ma si affidava al sapere pratico, all’esperienza e al senso marino degli uomini: un modo di navigare, e di vivere, che più di ogni altro si avvicinava alla realtà antica. Brizzi ne coglie in poche righe l’essenza, con l’immediatezza di chi l’ha vissuto e meditato. Un brano intenso, di grande valore etnografico. (Ravenna, ottobre 1936; trabaccolo “Luigi L.”) «A bordo cerco il capobarca che è assente. Un vecchio marinaio seduto sul bordo del trabaccolo, non si alza al mio arrivo e rimane curiosamente seduto in posizione strana. Mi accorgo solo dopo che sta disinvoltamente defecando fra la banchina e la banda. Quietamente, all’ombra, svolge questa sua funzione fisiologica senza scomporsi. Tutti i primitivi fanno così e, qui a bordo, ci sono molti primitivi. Leggere, scrivere e far di conto è arte dei più giovani. Sono arti che definirei “positive” cioè scientifiche, recenti. I vecchi vivono sul mare immersi nell’atmosfera che li circonda e, poiché dipendono per la loro stessa vita e lavoro dal tempo, sono divinatori del tempo. Loro leggono nel cielo come noi nei libri, sentono l’andatura del trabaccolo mentre dormono, si svegliano al mutare del vento e dell’inclinazione della barca, accorrono in coperta senza essere chiamati, prevengono le rotture ed i cedimenti delle manovre e provvedono di conseguenza, in tempo. Il mistero maggiore che si presenta loro è la bussola, che accettano come un dogma, senza chiedersi le ragioni del suo funzionamento, ma la guardano ancora con diffidenza e ne ho sorpresi dirigersi ancora con lo “stellone di Tramontana” di notte, mentre il giovanotto, su loro consiglio, stava issando il polaccone36 per l’imminente bonaccia. A bordo, poiché abbiamo solo le vele, prevale la pazienza pervasa da una muta rassegnazione. Diciamo “ci ha dato” vento da Tramontana, vento dall’Ostro etc. Chi ce lo ha dato? L’innominato es dei tedeschi. Anche loro per “piove” dicono “es regnet”. Così, poiché ogni cento miglia, in media, il tempo cambia ed il nostro cammino è lento, i nostri primitivi pilotano un grande ideale veliero che ha la mezza nave nel momento, la poppa nel passato e la prora molte miglia avanti, nella previsione pura.

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Nella vita è la stessa cosa, specie nella cosiddetta vita “normale” quando le previsioni sembrano facili, ma ogni evento non previsto è la più impensabile delle avventure»37.

Può apparire sorprendente l’accenno alla diffidenza nei confronti della bussola magnetica, quello che dal XIII secolo è diventato lo strumento nautico più importante presente a bordo, irrinunciabile e per questo custodito con la massima cura38. È bene ricordare, tuttavia, che ancora nei primi decenni del Novecento sia i pescatori che i naviganti delle piccole unità da traffico usavano spesso delle bussole a secco di tipo basico, cioè prive di quel sistema di sospensione cardanica, introdotto nel XVI secolo, che è tuttora utilizzato per smorzare i movimenti generati dal beccheggio e dal rollio dell’imbarcazione, consentendo così allo strumento di restare sempre in posizione orizzontale. Per questo motivo erano chiamate bussole “poco tranquille”, perché il disco della rosa dei venti, in equilibrio sulla punta di sospensione, oscillava a lungo prima di fermarsi e, così, consentire una lettura corretta, inconveniente che sarà risolto, appunto, con la sospensione cardanica e infine con l’introduzione delle bussole a liquido alla fine del XIX secolo. La diffidenza dei marinai, tuttavia, non dipendeva solo dall’instabilità della rosa, ma anche dalla conoscenza approssimativa del principio con cui funzionava lo strumento. Ne derivava una scarsa attenzione per la declinazione magnetica, che sulle brevi/medie distanze, però, non determinava grandi errori di rotta. Ben più grave era invece la noncuranza per la deviazione magnetica, dovuta all’influenza dei metalli presenti a bordo, perché poteva inficiare il funzionamento stesso dello strumento. Ed è proprio alla deviazione che faceva riferimento Brizzi, quando mi raccontò un episodio di cui era stato testimone da ragazzo, a bordo di un grosso trabaccolo da traffico che si preparava a salpare da Pola per far vela verso Rimini. Completato il carico, costituito da parecchie tonnellate di ferraglia destinata ad essere rifusa, il capobarca (il paròn) si accorse che la bussola era diventata inutilizzabile. Quindi, senza darsi ragione del motivo che l’aveva fatta impazzire (ovviamente la massa ferrosa di cui era piena la stiva!), la mise da parte e decise che sarebbero partiti a notte fatta, in modo da lasciare il porto con la brezza di terra e non dover pagare il servizio al rimorchiatore; ma tutti, in realtà, sapevano che era per aspettare le stelle. Così attraversarono l’Adriatico col vento che li spingeva da poppa, guidati solo dallo “stellone di Tramontana”, che è poi la Stella Polare, finché, intorno a mezzogiorno, avvistarono l’inconfondibile profilo a tre punte del monte di San Marino (il Monte Titano). Senza alcuno strumento avevano compiuto la traversata «con arte e piena cognizione della via da tenere»39, senza scadere di un solo miglio, sempre in rotta perfetta sul porto di Rimini. 1

Devoto 1962, pp. 238, 481, n. 526; Delamarre 1984, p. 126. Omero, Odissea, VIII, 138-139. Versione italiana di Rosa Calzecchi Onesti (Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989). 3 Arato, Fenomeni, 268; Seneca, Medea, 301-308; Giovenale, Satire, XII, 57-59. 4 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 104. 5 Joseph Conrad, Initiation, in The Mirror of the Sea, London 1906, versione italiana di Flavia Marenco (Joseph Conrad, Lo specchio del mare, a cura di F. e F. Marenco, il melangolo, Genova 1998, pp. 165, 177). 6 Foulke 1963; Costa, Polezzo, Rizzardini 2014. 2

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Huxley 1952; Dunsch 2013a; Angelini 2016. Taylor 1963a, pp. 168-169. Versione italiana dell’autore. 9 Platone, La Repubblica, 488 b, e. 10 Vegezio, L’arte della guerra, IV, 38, 41, 43. 11 Fantoni 1980; Capasso 1994. 12 Flora 1987; Gargiulo 2001. 13 Taylor 1957; Albuquerque 1988a; Id. 1988b; Capasso 1994. 14 Guglielmotti 1889, s.v. Leva, onda di leva, col. 957, 3°, b; Medas, Brizzi 2008, p. 202. 15 Devo questa testimonianza all’amico Luigi Divari (Venezia), che ringrazio sentitamente. 16 Storia Naturale, XVIII, 359 [85]. 17 Iliade, XIV, 16-17. Versione italiana di Rosa Calzecchi Onesti (Omero, Iliade, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1996). 18 McGrail 1983: 314-319; Id. 1987: 275-285; Id. 1996; Id. 1997; Medas, Brizzi 2008; sulla percezione che la società antica aveva delle genti di mare si veda Jimenez Correio, Sánchez Correio 2014. 19 Puglisi 1971; Brizzi, Medas 1999. 20 Lewis 1994, p. 130. 21 Puglisi 1971, pp. 4-5. 22 Saint-Denis 1935a e Id. 1935b. 23 Rougé 1984; Janni 1992a; Beltrame 2002. 24 Janni 1996, pp. 27-28; Id. 1998a. 25 Andreani 1997. 26 Si vedano il saggio di R. D’Intino all’edizione italiana di Gomes de Brito 1735-1736, pp. 9-34, e Lanciani 1994. 27 Tra i racconti più celebri ricordiamo quelli che compaiono nell’opera di Petronio (Satyricon, 114115) e di Achille Tazio (Leucippe e Clitofonte, III, 1-5), negli Atti degli Apostoli (27, 13-44) e in Sinesio (Epistole, 4). 28 McGrail 1983; Id. 1996; Id. 1997; Medas 2004a; Medas, Brizzi 2015. 29 Da un’intervista a Giovanni Verga, riportata nell’introduzione di Corrado Simioni all’edizione de I Malavoglia, Oscar Mondadori, XV ristampa, Milano 1979, p. 14. 30 Lettere pubblicate nell’introduzione di Dante Piermattei all’edizione di Maria Risorta, Grapho 5, seconda edizione, Fano 1996, pp. VII-IX. Grimaldi fu profondo conoscitore delle marinerie adriatiche; pubblicò nell’Almanacco Italiano del 1907 un interessantissimo articolo intitolato Pescatori dell’Adriatico, per cui si veda De Nicolò 1996, pp. 99-107. 31 Medas 2019. 32 Cusset 2003; Medas, Brizzi 2008. 33 Le citazioni sono tratte dall’edizione de I Malavoglia negli Oscar Mondadori (XV ristampa, Milano 1979, pp. 56, 63-65, 98, 171-172). 34 Nel lessico tradizionale il termine si riferisce ai cirri sfilacciati dal vento forte presente in alta quota (precisamente, gli “sparnacchi” sono le nubi sfilacciate e spesso aperte a ventaglio). Per la terminologia marinaresca in Grimaldi si veda Balducci 1997. 35 Le citazioni sono tratte da Maria Risorta. Romanzo marinaresco, Edizioni Grapho 5, seconda edizione, Fano 1996, pp. 75, 77, 269-272. 36 Vela di prua, il nostro fiocco. 37 Brizzi 1999, pp. 114-115; il brano qui riportato è tratto dal manoscritto, che, pur presentando solo minime variazioni di lessico e di interpunzione, riteniamo più incisivo rispetto alla versione edita. 38 Aczel 2005. 39 Guglielmotti 1889, col. 1131, s.v. Navigare. 8

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Capitolo 2

GENTI DI MARE

2.1. Esperienza e fermezza di spirito Autorità e autorevolezza sono due parole che hanno in comune il sostantivo latino auctor (autore, colui che fa), ma che esprimono due concetti profondamente diversi. Si può essere autoritari in virtù del proprio grado o della propria posizione sociale, il che non significa, però, essere automaticamente anche autorevoli. L’autorevolezza si guadagna sul campo con la coerenza e con l’esempio, è frutto di esperienza e di un comportamento che riconosciamo come giusto, di un carattere saldo e lineare da cui derivano azioni efficaci. Richiede condivisione con gli altri, dunque comprensione, e quasi mai si realizza senza umiltà, tanto meno senza fatica. Per questo sopportiamo a denti stretti l’autorità di un capo privo di autorevolezza, mentre riconosciamo come un vero capo colui che sa essere autorevole, che emerge tra noi per le sue reali capacità, e ne accettiamo di conseguenza l’autorità. Così è sempre stato anche per i bravi capitani e per gli esperti piloti, che nelle marinerie di ogni tempo hanno rappresentato l’emblema delle virtù necessarie a garantire una buona navigazione, quindi a rendere il viaggio quanto più proficuo possibile, mettendo sempre al primo posto l’incolumità della nave e dell’equipaggio. In epoca moderna e contemporanea, come già in quella medievale, il pilota si identifica con quel tecnico altamente specializzato che si occupa di dirigere il corso della nave, colui che decide la rotta migliore da seguire e che, in funzione di essa, sa valutare il giusto equilibrio tra efficienza e sicurezza1. Egli possiede le conoscenze teoriche e l’esperienza pratica per evitare una tempesta o per affrontarla col rischio minore, per deviare opportunamente la rotta e per tornare a seguirla non appena possibile, per prevenire i pericoli rappresentati dal tempo e dai bassifondi, per riconoscere la posizione in base alle carte e alle stelle; insomma, per condurre la nave al porto di destinazione nel modo più sicuro e più veloce possibile. Rappresenta in qualche modo la componente “scientifica” dell’equipaggio, che è interamente sottoposto alla sua autorità. Data la particolare specializzazione del mestiere, esistevano ed esistono tuttora piloti costieri, piloti d’altura e piloti del porto, oltre che piloti esperti di determinate rotte di lungo corso. Il padre domenicano Alberto Guglielmotti ci offre una definizione del mestiere svolto dai piloti, distinguendoli tra costieri, pratici e alturieri: «Costiero. Quel piloto che è pratico della costa: e, senza bisogno di carte e scandagli, conosce a menadito i banchi, gli scogli, i sorgitori presso le coste di un determinato paese; Genti di mare

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e guida per esso sicuro qualunque bastimento … Prático. Quel piloto che conosce per lungo esercizio alcun rivaggio, e che si chiama a bordo per consigliare e dirigere la navigazione in alcun difficile tratto di mare … Alturiére. Piloto di altura, di navigazione a lungo corso, capace di governare in alto mare, fuor della vista di terra, cogli ajuti e strumenti di astronomia nautica»2. Esattamente come avviene oggi, anche nell’antichità si operava una precisa distinzione tra il ruolo del pilota e quello del timoniere, con chiaro riscontro a livello terminologico. Il pilota veniva chiamato kybernétes dai greci (il verbo kybernáo significa governare, dirigere, guidare, reggere) e gubernator dai latini, parola che evidentemente ha la stessa origine e lo stesso significato di quella greca (così come il verbo guberno)3. Il timoniere, invece, era chiamato in greco pedalioûchos, parola che deriva da pedálion, timone, mentre il latino usava la stessa definizione di pilota, cioè gubernator, termine in diretta relazione con gubernaculum, timone. Sempre in latino veniva chiamato anche navis rector e impropriamente magister, termine, quest’ultimo, che di norma identificava il capitano della nave (magister navis)4. Come accade in rapporto alle costruzioni navali e alla navigazione, anche in questo caso il lessico greco risulta più specializzato rispetto a quello latino. Il pilota non va quindi confuso con il timoniere, che può essere semplicemente un marinaio esperto, in senso stretto colui che manovra il timone agli ordini del pilota. In ambito tradizionale, tuttavia, specialmente nella navigazione minore, le competenze del pilota e del timoniere erano spesso riunite nella stessa persona, che era il capobarca, non di rado anche proprietario o uno dei proprietari dell’imbarcazione; comunque era il marinaio più anziano e più esperto, che dirigeva tanto il corso quanto la condotta generale della barca, chiamato paròn (padrone)5. L’identificazione dei due ruoli in una sola persona si ritrova nel mondo antico, a cominciare da due celebri personaggi che incontriamo, rispettivamente, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio6 e nell’Eneide di Virgilio7. Si tratta ovviamente di Tifi, il pilotatimoniere degli Argonauti, e di Palinuro, il pilota-timoniere di Enea, entrambi abilissimi nel dirigere il corso della nave con le stelle e con i venti (dunque piloti), instancabili nel reggere il timone e nel guidare le manovre (dunque timonieri) (fig. 3). Certamente, il contesto poetico ha favorito la creazione di questi personaggi emblematici, simbolo dell’intelligenza e dell’accortezza con cui l’uomo deve trattare il rapporto col mare. Rapporto caratterizzato da mille pericoli che mettono a rischio la vita dei naviganti e portano a soccombere anche gli uomini migliori. La figura del pilota-timoniere antico, uomo di intelletto e di esperienza pratica allo stesso tempo, va intesa non tanto nel senso che il pilota era sempre e necessariamente anche timoniere, ma nel senso che poteva essere anche abilissimo timoniere, governando lui stesso nei momenti di maggiore difficoltà. A bordo il pilota-timoniere era la persona più importante, a cui erano affidate la riuscita di una spedizione, l’incolumità e la salvezza dell’equipaggio. Era di animo saggio8 ed era doctus, cioè istruito, abile, esperto9, indispensabile e insostituibile, dunque si distingueva dagli altri marinai per le sue doti e per il suo personale bagaglio di esperienza, esattamente come accade oggi. In definitiva, quale fosse la differenza tra il pilota-timoniere (gubernator) e il semplice marinaio (nauta) ce la spiega con poche e chiare parole Isidoro di Siviglia10, quando afferma che se ogni pilota può trasformarsi in un marinaio, ogni marinaio non può certo trasformarsi in un pilota. Le nostre fonti lasciano intendere che la distinzione netta tra piloti e timonieri riguardava sostanzialmente l’organizzazione degli equipaggi a bordo delle navi più grandi, come po32

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tevano essere le onerarie dell’annona, destinate a svolgere viaggi di lungo corso e traversate in altura, o com’erano le navi da guerra, il cui equipaggio poteva esser composto anche da più di duecento uomini. Ed è proprio negli equipaggi delle navi da guerra che troviamo la maggiore specializzazione professionale, Fig. 3. La nave degli Argonauti in un’idría attica a figure nere con una netta distinzione tra della prima metà del VI sec. a.C., Museo del Louvre, Parigi. il ruolo del kybernétes e quello del pedalioûchos, come attestano le fonti per l’epoca classica ed ellenistica11. Ancor più che in battaglia, quando subentrava l’autorità dei comandanti, i piloti militari svolgevano un ruolo fondamentale durante le fasi di trasferimento delle flotte, operazioni sempre complesse e delicate, nel corso delle quali decine o centinaia di navi restavano esposte a molti rischi. Polibio12 ricorda i kybernêtai romani e cartaginesi che, grazie alla loro esperienza, indicarono il modo per sfuggire ad alcune pericolose tempeste in Sicilia, presso Camarina e il Capo Pachino, nel corso della prima guerra punica. A Camarina, però, i comandanti romani non diedero ascolto ai loro piloti, lasciando così che la flotta fosse coinvolta uno dei più grandi disastri navali dell’antichità13. Abbiamo visto nel primo capitolo come le qualità professionali del bravo pilota siano diventate simbolo di rettitudine e di saggezza, emblema dei valori positivi che dovevano qualificare l’agire umano, specialmente di coloro che svolgevano un’attività rivolta al bene degli altri, a cominciare dai politici e dai medici14. Le virtù che dovevano necessariamente possedere erano dunque la prudentia, la peritia, la solertia, la diligentia e la vigilantia. In senso analogo si inserisce il contrasto tra il pilota esperto e prudente, che riesce a condurre in salvo la nave e l’equipaggio, e quello inesperto e avventato, che invece rischia sempre il naufragio15. È ancora Seneca a offrirci un esempio eloquente, affermando che in qualunque condizione il pilota deve restare lucido e presente, tenere ben saldo il timone, lottare col mare e col vento16. A cosa servirebbe, si chiede il filosofo, un pilota che durante la tempesta restasse stordito dal mal di mare e continuasse a vomitare? Il pilota capace, quello che definisce come magnus gubernator, non si arrende mai, lotta per proseguire lungo la sua rotta anche se le condizioni sono disperate. Inoltre, essendo egli la persona di maggiore esperienza presente a bordo, è spesso un membro anziano dell’equipaggio e per questo svolge anche una funzione didascalica nei confronti dei più giovani, cioè ha il compito di istruirli nell’arte di navigare17. Quest’ultimo aspetto ci offre l’occasione di ricordare che i marinai e i pescatori hanno sempre intrapreso la professione da giovanissimi. Ancora nei primi decenni del Novecento i muré, cioè i mozzi, quasi sempre figli del mestiere, si imbarcavano da bambini, normalmente quando avevano tra i sette e i dieci anni di età. Il giovane mozzo veniva affidato al paròn, in molti casi un membro della stessa famiglia (il nonno, il padre, lo zio), che diventava suo maestro e anche suo precettore morale. Lo istruiva su tutti gli aspetti della vita di bordo Genti di mare

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e della navigazione, a cominciare dall’obbedienza e dal senso di responsabilità, doti assolutamente necessarie per entrare a far parte di quel piccolo nucleo sociale che era l’equipaggio, con il quale avrebbe condiviso la sua esistenza professionale, e non solo, sia in mare che a terra. Iniziava così la durissima vita del piccolo mozzo, che ben presto si sarebbe trasformato in un uomo. A fianco del suo maestro imparava a sopportare la fatica, a superare le difficoltà, a seguire la disciplina di bordo, a forgiare il proprio carattere senza troppi trattamenti di riguardo, lontano dalle cure e dall’affetto della mamma. Se piangeva, lo faceva di nascosto per non essere deriso; se era felice, stava attento a non mostrarlo con entusiasmo eccessivo, perché non lo credessero uno sciocco. Non studiava sui libri, ma imparava il mestiere stando in mare e nei porti, facendo l’abitudine a dormire poco e a mangiare quello che c’era, a resistere al freddo e al caldo, a lavorare sotto la pioggia e sotto il sole bruciante, a sopportare le angherie che gli adulti riservavano ogni tanto ai più giovani18. Nella sua attività, il pilota era assistito da uno o più aiutanti, che nella marina militare erano inquadrati gerarchicamente e sottoposti alla sua autorità (l’assistente del pilota era chiamato in greco diákonos toû kybernétou). Tra questi vi era innanzitutto il proreta (prorátes o proreús in greco, proreta in latino), che aveva il compito di controllare le attrezzature e le manovre a prua, di scandagliare il fondo, di prevenire gli ostacoli galleggianti, gli scogli, le secche e ogni altro pericolo, osservando la superficie del mare, il suo colore, le increspature e il modo in cui si frangevano le onde, ascoltandone il rumore. Scrutava l’orizzonte per studiare il tempo e prevederne gli eventuali cambiamenti, oltre che per riconoscere i punti cospicui lungo la costa. Durante gli ormeggi in porto o gli ancoraggi in rada seguiva tutte le manovre a prua, coordinandosi col pilota, che le dirigeva da poppa. Il servizio come proreta era quindi un passo indispensabile nella carriera di un aspirante pilota19.

2.2. Ordine e vocabolario, per scongiurare i pericoli in mare È vero, il mondo attuale richiede velocità, conoscenza dell’inglese e delle nuove tecnologie, dell’economia di mercato e del marketing, impone di adeguarsi a sistemi globali che cambiano in continuazione. I linguaggi si moltiplicano, la comunicazione diventa sempre più rapida e affrettata, il tempo per meditare si riduce, la dimensione materiale domina ovunque e l’uomo perde la sua centralità. Per questo, pur sapendo di navigare contro corrente, penso che la formazione umanistica sia oggi più che mai necessaria, a cominciare dallo studio della lingua latina. Sì, perché il latino non è solo la nostra storia, lo specchio in cui si riflette la nostra identità culturale. È un miracolo di bellezza e di precisione, una fucina di ordine e di rigore, un patrimonio di metodo, un esercizio che disciplina la mente e che ci rende pensanti, qualunque siano le nostre aspettative o il nostro lavoro. È un maestro che ci obbliga a ragionare e ci sprona a diventare individui. Considerarla una lingua morta è dunque un errore, si limita al fatto che non la usiamo per comunicare. Ordine e precisione sono sempre state condizioni indispensabili all’efficienza di una nave, diventando addirittura vitali nei momenti di difficoltà. Se l’ordine è sempre opportuno anche quando la navigazione procede tranquilla, qualora si venga sorpresi da una tempesta diventa una condizione indispensabile alla stessa sopravvivenza di quanti sono a bordo. Cosa succederebbe, in una simile circostanza, se i marinai non avessero la certezza di trovare 34

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immediatamente tutto ciò che serve, là dove l’hanno preventivamente riposto? E cosa accadrebbe se non avessero verificato per tempo che tutto funzioni a dovere? Il disordine e l’inefficienza delle attrezzature sono condizioni molto pericolose, che a bordo di una nave vanno sempre, rigorosamente evitate. Del resto, la scarsità dello spazio disponibile in un’imbarcazione impone, essa stessa, di sistemare ogni cosa con ordine rigoroso, affinché tutto possa essere ottimizzato in funzione dell’efficienza. Ce lo conferma un brano di Senofonte20, in cui incontriamo uno scrupoloso quanto saggio aiutante del pilota (diákonos toû kybernétou), quello che chiamano proreta (proreús), intento a controllare l’attrezzatura della sua nave, verificando che ogni cosa sia al proprio posto e facile da utilizzare. «Mi sembra che io vidi una volta l’ordine più bello e più preciso, Socrate, quando salii su un grosso battello fenicio per visitarlo. Notai moltissimi attrezzi distribuiti in pochissimo spazio, perché ci vogliono moltissimi attrezzi di legno e cordame per far ormeggiare e salpare una nave, e per navigare ha bisogno di molte delle cosiddette “attrezzature sospese”, è armata con macchine belliche contro le navi nemiche, trasporta molte armi per l’equipaggio e, per ogni mensa, contiene tutte le suppellettili di cui gli uomini si servono in casa. Oltre a tutto ciò, contiene le mercanzie che il proprietario della nave trasporta per averne guadagno. Tutto ciò di cui parlo, disse, stava in uno spazio non molto più grande di una stanza capace di contenere dieci letti. Mi resi conto che ogni cosa stava disposta in modo che non fosse d’impaccio all’altra, né la si dovesse cercare o fosse difficile da spostare, in modo da non far perdere tempo quando c’era urgente bisogno di essa. Mi accorsi che l’aiutante del pilota, quello che chiamano “uomo di prua della nave”, conosceva così bene il posto dove stava ogni cosa che, anche stando fuori, era capace di dire dov’era, e quanti esemplari ce n’erano, non meno di chi, conoscendo le lettere dell’alfabeto, sappia dire quante lettere ha il nome di “Socrate”, e come sono disposte. Vidi anche, disse Iscomaco, che in un momento di riposo ispezionava tutto ciò di cui si può avere bisogno in una nave. Mi meravigliai, egli disse, di quest’ispezione, e gli chiesi che cosa facesse. E quello rispose così: «Straniero, controllo, nel caso che dovesse succedere qualcosa, come sono conservate le cose nella nave, se qualcosa manca o se è difficile da usare. Quando il dio scatena la tempesta sul mare, disse, non è possibile andare in cerca di quello che serve, né si può dare un attrezzo difficile da usare. Il dio è ostile ai pigri e li punisce. Ci si deve accontentare se soltanto evita di distruggere quelli che non fanno errori, e, se salva coloro che lo servono nel modo migliore, si devono rivolgere molte grazie agli dèi». Io dunque, vista tutta questa accuratezza nel mettere a posto le cose, dissi alla moglie: «Noi saremmo proprio trascurati se coloro che stanno sulle navi, per quanto piccole, trovano il posto, mantengono l’ordine e la disposizione delle cose anche sballottati dal mare, e sono capaci, anche in preda al panico, di trovare subito quello che gli serve»21.

La necessità di ordine e di efficienza si riflette, ovviamente, anche nella chiarezza della comunicazione, cioè nella formazione di uno specifico lessico marinaresco, che si è evoluto nel tempo con apporti diversi22. In ogni lingua, infatti, la formazione di un vocabolario specializzato per la marineria risponde alla necessità di identificare con precisione i singoli elementi della nave e della sua attrezzatura, le manovra e i movimenti, soprattutto quando si ha a che fare con i bastimenti a vela, macchine particolarmente complesse, dotate di un’incredibile quantità di attrezzature, centinaia di manovre dormienti e correnti: le definizioni Genti di mare

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generiche sarebbero senza dubbio pericolose. Una determinata parola, quindi, deve necessariamente indicare un’azione o un oggetto, con la massima precisione e immediatezza, senza possibilità di errore, affinché il lavoro a bordo possa procedere bene, evitando il rischio di incomprensioni. Per questo motivo, che sia di tipo ufficiale o dialettale, il lessico marinaresco è sempre uno dei primi elementi che entra a far parte del bagaglio di conoscenze dei giovani mozzi. Esattamente come accade ai nostri giorni, anche nell’antichità non c’era alternativa, bisognava diventare letterati di quel linguaggio speciale, era una questione di sopravvivenza, in ogni modo la si intendesse. Quello dei marinai è un linguaggio fatto di espressioni che hanno raggiunto col tempo una loro perfezione, per usare le parole di Joseph Conrad23. La loro genesi è precisa e deriva da esigenze precise, dettate in ogni epoca e in ogni luogo dal costante rapporto dell’uomo con l’ambiente marino e con la vela. Sempre chiaro ed efficace, necessariamente scarno e poetico al tempo stesso, modellato su suoni e immagini particolari, questo linguaggio ha accomunato le genti di mare a cominciare dall’antichità. Nel greco classico possiamo già incontrare una quantità di termini altamente specializzati, al punto che non di rado risulta perfino difficile comprenderne il significato preciso24. Termini che, molto spesso, sono poi confluiti in latino e forse anche in una perduta lingua franca, fatta di parole e di espressioni provenienti da diverse lingue. Poteva trattarsi di qualcosa di simile alla lingua franca sviluppatasi lungo le coste del Mediterraneo a partire dalla fine del Medioevo e dalla prima Età moderna, basata su sostrati e adstrati linguistici diversi, che si parlava nei porti fino alla metà del XIX secolo e che, a livello popolare, era usata dalle genti di mare come lingua comune, costruita su antiche radici e su immagini comprensibili a tutti25. Naturalmente, si è sempre trattato di lingue parlate e non scritte, che sarebbero sopravvissute solo nella memoria delle genti di mare per poi scomparire senza lasciare traccia, se in tempi recenti non si fosse iniziato a documentarle per il loro valore storico ed etnografico26. Considerando i fenomeni di stretta interconnessione culturale generati dai trasporti via acqua, riteniamo quindi probabile che anche nell’antichità sia esistita una lingua franca delle genti di mare del Mediterraneo, il cui lessico doveva essersi formato principalmente, in origine, sulla base di radici greche e fenicio-puniche, per essere poi integrato da termini latini con l’affermarsi del potere di Roma sul mare. «Quando parliamo della genialità del linguaggio che le genti di mare usano per comunicare tra loro, linguaggio in apparenza strano e addirittura barbaro, avvisiamo il lettore di non sorprendersi troppo», scrive Auguste Jal alla metà del XIX secolo. «Sì, questo linguaggio ha la sua genialità e, soprattutto, possiamo dire che presenta in quasi tutte le regioni del pianeta le stesse immagini (dunque le stesse espressioni n.d.a.), la stessa energia, la stessa concisione, la stessa immediatezza, benché utilizzi, ovviamente, parole spesso differenti. Ovunque è un linguaggio vivo, agile, colorato; ovunque è ben fatto, preciso, ed è al tempo stesso brillante e poetico. L’abitudine ad affrontare gli stessi pericoli, il fatto di assistere all’imponente spettacolo delle stesse scene, la capacità di dare movimento e vita a macchine analoghe, hanno fornito ai marinai di ogni paese l’idea delle medesime immagini. Presso i Malesi si trovano delle locuzioni che sembrano esser state tradotte dal greco antico. Può sembrare incredibile, ma è così. Anzi, possiamo aggiungere che è naturale: la poesia è una sola, e la sua forma espressiva non può che variare di poco»27.

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2.3. Il sentimento delle genti di mare per le proprie barche Esistono tra gli uomini dei modi di percepire le cose che si ripetono in tempi e luoghi diversi, senza che ciò implichi delle forme di contatto o di trasmissione. Si tratta di convergenze culturali che dipendono dalla componente primordiale della natura umana, precisamente dalla volontà di creare un sistema coerente e riconoscibile in base ai canoni di giudizio con cui viene misurato il mondo esterno. Tra questi vi è la particolare attitudine di attribuire una specie di vita propria alle cose, agli oggetti più semplici come alle macchine più complesse, qualcosa che somiglia a un’anima capace di conferire loro una dignità esistenziale. Così è sempre accaduto con le barche, fin dai tempi più remoti. Chiunque abbia navigato con una barca tradizionale o con un vecchio veliero sa bene che a bordo non vi è nulla che possa considerarsi inutile, cioè che non abbia una sua specifica funzionalità pratica. Esiste però qualche eccezione, rappresentata in primo luogo da quegli elementi decorativi che possiedono un significato religioso, magico e apotropaico. Va detto, a questo proposito, che i naviganti e i pescatori non hanno mai considerato le proprie imbarcazioni come dei semplici mezzi funzionali al lavoro. Dipendendo interamente da esse per la sussistenza e per la stessa vita, hanno infatti attribuito loro, in ogni tempo e luogo, una specie di soffio vitale, immaginandole simili a degli esseri viventi, sorta di grossi animali acquatici che condividevano la propria esistenza con la comunità delle genti di mare. Ma spesso la barca assumeva una dimensione ancora più vicina a quella dell’uomo, diventava un vero e proprio membro del clan famigliare (e del gruppo sociale), dunque era personificata e, in quanto tale, la sua vita era scandita da momenti ritualizzati, proprio come accade per gli uomini, dal battesimo e dall’attribuzione di un nome proprio fino a concludersi con una sorta di funerale28. Abbiamo già sottolineato come il mondo della marineria si è sempre caratterizzato per un forte conservatorismo, da cui dipendono quei fenomeni di sopravvivenza che sono quasi sempre di lunga o lunghissima durata. Si sono sviluppati con modalità diverse nel corso dei secoli, a volte senza soluzione di continuità, a volte nella forma di tradizioni perdute e poi recuperate, segno tangibile di un orizzonte tecnico e culturale rimasto sostanzialmente immutato, dunque “arcaico”, che si è riproposto per le sue valenze pratiche e funzionali soprattutto a livello popolare, nonostante i progressi intervenuti. Questo è accaduto fino al tramonto della vela, cioè fino a un periodo compreso tra la metà del XIX e gli inizi del XX secolo, per giungere alla metà dello stesso secolo nella marineria minore, sia in quella da traffico che, specialmente, in quella da pesca. In effetti, la continuità di un certo modo di sentire e di pensare, dunque di agire e di trovare soluzioni ai problemi, sta alla base della vitalità di ciò che intendiamo per tradizione. Numerose sono le testimonianze riguardo al rapporto che i vecchi marinai avevano con le loro imbarcazioni. Un rapporto stretto, potremmo dire intimo, in cui c’era spazio per tutti i sentimenti: amore e odio, rispetto e sfiducia, compassione e rabbia, come succede con le persone. In Romagna, per esempio, era abbastanza diffusa l’idea che la barca avesse un proprio comportamento specifico, a prescindere dalla condotta dei marinai; dunque che potesse risolvere favorevolmente una manovra sbagliata o salvare il proprio equipaggio da un fortunale improvviso. Tale comportamento dipendeva, evidentemente, dalle buone qualità della barca e della sua attrezzatura, dunque dalle sue caratteristiche costruttive e strutGenti di mare

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turali, oltre che da una buona manutenzione e, naturalmente, dalla buona sorte. Tuttavia, nonostante i marinai ne fossero pienamente consapevoli, in circostanze estreme subentrava nella concezione popolare una sorta di valenza magica dell’evento, da cui emergevano l’anima e la personalità della barca, che diventava capace di governarsi da sola e di scongiurare un pericolo imminente. Appare chiaro, allora, il significato di certe espressioni usate dai vecchi pescatori, che sembravano rivolte a una persona o a un animale: “la barca è brava”, quando teneva bene il vento e il mare, oppure “ha avuto giudizio da sola”, quando permetteva di evitare un disastro che gli uomini non erano riusciti a prevenire, per esempio quando riusciva a rimanere dritta dopo aver preso la corsa a causa delle onde frangenti29. Concetti simili erano già presenti nel mondo antico. Omero30 attribuisce alle straordinarie navi dei Feaci la capacità di navigare senza pilota, perché erano in grado di intendere il pensiero degli uomini, quindi di guidarsi da sole, sapendo quale rotta dovevano seguire. Nonostante il contesto mitologico, il sentimento è rimasto sempre lo stesso, nel primo arcaismo greco come nella tradizione recente. Altrettanto significativo risulta il comportamento delle genti di mare in caso di eventi nefasti, come testimonia un racconto riferito dai vecchi pescatori del porto di Rimini, relativo a un episodio riconducibile agli inizi del Novecento31. Una donna disperata si scagliò con invettive durissime contro il trabaccolo che le aveva riportato i corpi senza vita del marito e di un figlio, rivolgendosi direttamente alla barca come se fosse una persona, maledicendola per il suo cattivo comportamento e addirittura picchiandola con un bastone sulla prua! (azione non casuale, perché, come vedremo, la prua ha un significato particolare). Queste credenze popolari convivevano naturalmente con la devozione religiosa, con le preghiere rivolte alla Vergine e ai Santi, di cui gli ex voto che popolano le chiese delle città e dei borghi marinari sono la testimonianza più viva. Nella cultura delle genti di mare, del resto, la commistione tra religiosità e superstizione ha sempre rappresentato un tratto costante, al punto che in molti casi i due ambiti tendevano a confondersi o, per lo meno, a compenetrarsi. Ciò che qualificava materialmente l’anima della barca era la presenza degli occhi sulla prua, gli ofthalmoí ricordati dalle fonti greche32. Si tratta di una tradizione antichissima che nel Mediterraneo trova una documentazione completa, sia storica che archeologica, a partire dall’epoca arcaica, perdurando poi per tutta l’antichità; ma la sua origine risale certamente molto più indietro nel tempo. Nella ceramica attica del periodo geometrico, tra il IX e l’VIII sec. a.C., sono raffigurate numerose navi lunghe che portano sulla prua degli occhi di forma ancora molto stilizzata, costituiti da cerchi con dei raggi all’interno, mentre a partire dal VI sec. a.C. l’occhio inizia ad assumere forme decisamente più realistiche. Nessun contesto fa eccezione. Incontriamo imbarcazioni con gli occhi tanto nell’iconografia di ambito fenicio-punico quanto in quella greca e in quella romana, tanto nelle navi da trasporto quanto nelle navi da guerra (fig. 4a-b). Durante il medioevo questo uso sembra perdersi, per tornare invece a diffondersi in tempi relativamente recenti, dal XIX secolo, fino a diventare una caratteristica comune delle barche tradizionali in molte regioni del pianeta, in particolare nel Mediterraneo (fig. 5), nell’Oceano Indiano e nel Pacifico occidentale. La valenza storica della tradizione si misura non tanto nella continuità temporale, ma nella coerenza di comportamenti comuni in cui il progresso sembra arrestarsi al cospetto di un sentimento antico. 38

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Fig. 4a. Particolare dell’occhio apotropaico sulla prua della nave di Odisseo, in uno stámnos attico a figure rosse degli inizi del V sec. a.C., British Museum, Londra.

Fig. 4b. Nave oneraria con occhio apotropaico, mosaico del Piazzale delle Corporazioni di Ostia, II sec. d.C.

Gli occhi delle barche non avevano alcun carattere funzionale. Erano portatori di un significato apotropaico, servivano per allontanare i pericoli o i nemici (nel caso delle navi da guerra), consentendo all’imbarcazione di “vedere” la propria rotta e, dunque, di seguire il giusto corso. Non sarà casuale, allora, il fatto che Eschilo33 ricordi come le navi da guerra scrutassero l’orizzonte «con occhi ben aperti». Appare evidente il richiamo all’anima propria della barca, i cui occhi ne identificavano il “volto” o, piuttosto, il “muso”, rappresentato dalla prua, come se si trattasse di un animale. Nelle unità da guerra antiche, l’idea che la nave avesse un suo “muso” sembra essere evidenziata, insieme a quella degli occhi, anche dalla presenza di due “orecchioni”, le epotídes delle fonti greche. Secondo i casi, questi elementi si possono identificare con le paratie di chiusura anteriore delle cosiddette “casse dei remi”, cioè delle strutture longitudinali e solidali con lo scafo, sporgenti dalle fiancate, che contenevano le scalmiere, oppure con le gru utilizzate per salpare le ancore, o ancora con le travi sporgenti, sorta di piccoli rostri laterali, che servivano per danneggiare l’unità nemica durante un attacco portato in direzione obliqua34. Guardando di fronte la prua di queste navi, doveva effettivamente sembrare di poter riconoscere la testa di un animale, come quella di un cinghiale, in cui i diversi elementi avevano una collocazione coerente: gli occhi, le orecchie e anche il muso prominente, rappresentato dal rostro principale o dal rostro superiore, il proembólion, che poteva essere conformato, esso stesso, a testa di cinghiale, con evidente richiamo alla manovra di speronamento, simile alla dinamica di attacco dell’animale35. Sulla base delle sue indagini etnografiche, James Hornell riconduce la presenza degli occhi a due differenti origini: una di tipo apotropaico, che sarebbe caratteristica o comunque prevalente nel Mediterraneo, e una di tipo religioso, che troverebbe invece riscontro in India, dove gli occhi appaiono in diretto rapporto con una divinità, rappresentando simGenti di mare

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bolicamente il nume tutelare dell’imbarcazione e conferendo alla prua il carattere di uno spazio sacralizzato36. Questa seconda lettura è stata riproposta anche in relazione al significato che gli occhi e la stessa prua potevano rivestire nel Mediterraneo antico, benché le fonti non offrano un quadro assolutamente certo in tal senso. L’ipotesi risulta comunque interessante nell’ottica di una commistione, o anche di una confusione, tra l’aspetto sacro Fig. 5. Gli occhi apotropaici sulla prua di un luzzu maltese e quello profano. A livello tra(2013). dizionale la questione si ripropone attraverso simbologie religiose associate a simbologie profane, come accade, per esempio, in certe barche da pesca siciliane, dove la presenza dell’occhio e di altre simbologie pagane, tra cui compaiono il cavallo marino e la sirena, convivono con quella della Vergine e dei Santi37. Incontriamo poi il caso dei bragozzi di Chioggia, in cui domina traFig. 6. Ophthalmós in marmo dal porto di Zea, Pireo (Atene). dizionalmente la simbologia cristiana38. I masconi della prua di queste barche possono essere interamente occupati dall’immagine di due arcangeli, oppure da due grandi occhi di forma semplificata, dei semplici tondi bianchi in cui spesso si inseriscono immagini della tradizione cristiana, principalmente la Croce e la Vergine. La prua costituisce dunque uno “spazio sacro”, in cui compaiono anche altri simboli, per esempio la colomba della Pace. In questi casi il significato apotropaico è quindi assunto dalla simbologia religiosa. Sempre riguardo agli occhi, dai vecchi maestri d’ascia della costa romagnola abbiamo più volte sentito raccontare una leggenda curiosa, relativa al varo dei trabaccoli. Quando si poteva vararli di poppa (spesso venivano infatti varati di fianco per ragioni di spazio, perché i cantieri sorgevano lungo i porti-canale), si credeva che queste barche fossero in grado di guardare coi loro occhi il cantiere in cui erano nate, dunque il luogo da cui provenivano. In questo modo, dovunque avessero navigato, sarebbero sempre riuscite a ritrovare la via di casa, cioè a tornare nel loro porto di origine, secondo una credenza che risultava di buon 40

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auspicio per l’esito del viaggio e la salvezza dell’equipaggio. A testimoniare la presenza degli occhi sulla prua delle navi antiche non c’è solo l’iconografia. Alcuni singolari rinvenimenti archeologici dimostrano che gli occhi, nella loro forma completa o limitatamente al disco dell’iride, erano realizzati in marmo e decorati con circoli dipinti a colori, applicati allo scafo per mezzo di un grosso perno di piombo, come testimonia uno dei due esemplari rinvenuti nel relitto Fig. 7. Gli occhi apotropaici sulla prua del trabaccolo “Giovanni di Tektaş Burnu, in Turchia, Pascoli” (1936), Museo della Marineria di Cesenatico, sezione datato nella seconda metà del galleggiante. V sec. a.C.39. I due ofthalmoí marmorei provenienti da questo relitto, costituiti da dischi del diametro di poco inferiore a 14 cm, rappresentano l’unico rinvenimento effettivamente in relazione diretta con i resti della nave. Vanno inoltre ricordati altri due esemplari di dischi/ofthalmoí provenienti dalle coste israeliane40 e, soprattutto, gli occhi marmorei a profilo intero rinvenuti nell’agorá di Atene e al Pireo, databili al V sec. a.C. e, almeno in parte, riferibili a navi da guerra (fig. 6). Gli ofthalmoí marmorei appartenevano quindi alla dotazione delle navi militari, come attesta anche il fatto, davvero significativo, che siano menzionati tra le attrezzature delle triremi nei celebri inventari navali del Pireo41. In questi documenti gli occhi risultano essere gli unici elementi non direttamente legati al funzionamento della nave, cioè privi di una specifica funzionalità pratica. Evidentemente, però, il valore magico e apotropaico di cui erano portatori li rendeva comunque necessari, sia per la sicurezza in navigazione che per il successo in battaglia. Come ricordato sopra, molte imbarcazioni tradizionali hanno conservato o recuperato gli occhi apotropaici di prua, spesso trasformati in simboli più semplici, a volte solo dipinti e a volte applicati, costituiti per esempio da tondi bianchi o da stelle (in questi casi il valore della tradizione persiste nella forma di simboli beneauguranti). I grossi e caratteristici occhi di colore rosso dei trabaccoli dell’Adriatico erano invece realizzati in legno di quercia e applicati allo scafo42 (fig. 7), come accadeva per gli ofthalmoí di marmo delle navi antiche. La loro forma particolare, perfettamente adattata alla prua di questa barca, testimonia come la tradizione degli occhi abbia conosciuto nel tempo molteplici soluzioni formali. Poiché nei trabaccoli di maggiori dimensioni presentavano un foro al centro, che identificava la pupilla, talvolta questi occhi sono stati erroneamente interpretati come “occhi di cubia” (le aperture attraverso cui passano le gomene o le catene delle ancore), attribuendogli così una funzionalità pratica. In realtà non vi è alcuna relazione, dal momento che gli occhi di cubia sono Genti di mare

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collocati più in basso. Anche gli occhi del trabaccolo svolgevano quindi una pura funzione apotropaica; servivano alla barca per “vedere”, per seguire con coscienza la propria rotta, e le conferivano un volto che la faceva somigliare a una specie di animale ben pasciuto. A tale proposito, concludiamo con un simpatico aneddoto contenuto nel Trattato dei trabaccoli di Riccardo (Dino) Brizzi: «I trabaccoli non sono mai stati in Oceano, ma hanno girato il Mediterraneo in tutti i sensi. A Fano si conserva il modello di un trabaccolo che arrivò a Gibilterra, ma quando vide l’Atlantico chiuse gli occhi dalla paura e tornò indietro. Non aveva paura del mare, ma del fatto che prima di trovare una buona osteria avrebbe dovuto navigare tanto da essere tutto coperto di conchiglie. Il fatto che chiudesse gli occhi è credibile, perché il trabaccolo è stata l’ultima nave cogli occhi che si ricordi nell’Adriatico a memoria d’uomo. Ma dovete sapere quanto segue. Che gli occhi non servivano per farci passare le catene dell’àncora, cioè non erano occhi di cubia. Che spesso quelli delle barche piccole mancavano del foro centrale e talvolta anche le barche grandi li avevano tappati con due stelle. Ciò in Romagna non accadeva mai. Gli occhi delle barche grandi ci vedevano»43.

2.4. Marinai e sacerdoti: il ruolo nautico del tempio All’università ho frequentato un corso di letteratura cristiana antica, materia che in quegli anni era insegnata da un sacerdote, un uomo piccolo e ossuto, dal viso smunto e coi capelli un po’ scompigliati, lo sguardo buono e sempre pieno di compassione. Si divideva tra lo studio e l’accoglienza dei poveri, che non di rado salivano su fino al terzo piano per aspettare che uscisse dall’aula. E lui, regolarmente, scambiata con loro qualche parola, gli donava un po’ di denaro. Per quella sua personale propensione alla carità circolava la leggenda che agli inizi del mese avesse già finito il suo stipendio. Cosa, per altro, del tutto credibile. Assistere alle sue lezioni era un vero piacere, perché quell’uomo così buono e all’apparenza tanto fragile era un concentrato di conoscenza, uno studioso di prim’ordine, fine letterato e attento filologo, capace di muoversi tra Cicerone e Sant’Agostino con un’agilità sorprendente. Una volta gli chiesi ragguagli sui viaggi per mare di San Paolo e lui, capite le mie intenzioni, mi diede una tale quantità di notizie sulla navigazione da lasciarmi sbalordito. Sappiamo bene che i religiosi sono sempre stati uomini di grande cultura, in ogni campo del sapere, e non vi è da stupirsi se qualcuno lo fu perfino in materia di nautica e di navigazione. È il caso del padre domenicano Alberto Guglielmotti (1812-1893), che fin da bambino nutriva una grande passione per i racconti dei vecchi lupi di mare e che poi divenne un grande studioso di cultura marinara, di storia della marina e di storia navale, autore di opere che restano fondamentali, come il Vocabolario marino e militare e la monumentale Storia della Marina pontificia, per citare solo i più importanti44. Ma l’interesse dei sacerdoti per le questioni marittime ha origini antiche, per quanto mosso da finalità diverse e affrontato con modalità diverse. I sacerdoti dei templi e dei santuari che sorgevano sulla costa e 42

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vicino ai porti45 dovevano prestare grande attenzione ai racconti dei marinai, i quali, prima di iniziare un viaggio, si recavano nel santuario per invocare la protezione divina, e poi, a viaggio concluso, per ringraziare gli dèi di averli protetti. Anzi, è probabile che i marinai venissero addirittura interrogati dai sacerdoti, che divennero quindi depositari di preziose informazioni commerciali, nautiche e geografiche, raccogliendo nei loro archivi le conoscenze necessarie per comprendere il mondo. È ben noto che il tempio svolse un ruolo fondamentale nell’ambito della colonizzazione fenicia tra il X e l’VIII sec. a.C. e poi di quella greca tra l’VIII e il VII sec. a.C.46. Il tempio era infatti un’entità in cui convergevano prerogative religiose, politiche, economiche e culturali, sia in una fase preliminare alle spedizioni, come ben testimoniano i miti di fondazione, sia in una fase di consolidamento dei nuovi stanziamenti. L’installazione del tempio era uno dei primi atti che contrassegnava la nascita della colonia, punto di riferimento imprescindibile che garantiva, fin nelle regioni più lontane, il trasferimento dell’orizzonte religioso e culturale, economico e istituzionale dei coloni e dei mercanti, luogo privilegiato dell’attività commerciale che, sotto la tutela divina, dava vita all’incontro tra le genti locali e quelle di provenienze diverse47. Attraverso la devozione religiosa, i naviganti che frequentavano i templi e i santuari si trasformavano in veicoli di notizie provenienti da regioni anche molto distanti; notizie recepite dai sacerdoti sotto forma di racconti verbali, di dediche scritte e di ex voto. Dall’incipit del famoso Periplo di Annone (nella versione tarda a noi giunta) sappiamo che il resoconto scritto di quella straordinaria spedizione lungo le coste atlantiche dell’Africa, svoltasi forse nel V sec. a.C., venne esposto dal comandante cartaginese nel tempio di Krónos a Cartagine, divinità identificata col punico Baal Hammon nell’interpretatio graeca48. Questa pratica è confermata del retore greco Elio Aristide49, il quale ricorda che i comandanti cartaginesi erano soliti affiggere ufficialmente in un santuario i resoconti delle loro imprese, rendendoli in questo modo dei documenti pubblici. Depositari di un prezioso bagaglio di conoscenze geografiche, oltre che economiche e sociali, i sacerdoti erano in grado di trasmettere agli esploratori e agli ecisti, sotto forma di oracoli, le informazioni necessarie per intraprendere i viaggi esplorativi e quelli coloniali50. Del resto, le raccolte di informazioni che fin dall’epoca arcaica si formarono presso i templi e i santuari resero quei luoghi dei centri di cultura e i loro archivi un preludio alla nascita delle biblioteche51. Erodoto raccolse molte notizie sull’Egitto, sia di carattere religioso che storico e geografico, proprio grazie ai sacerdoti, precisamente a quelli dei santuari di Menfi, di Tebe, di Eliopoli, di Sais e di Siwa52, venendo in contatto anche coi sacerdoti del tempio di Eracle-Melqart a Tiro, per cercare notizie sulle origini di quell’antichissimo santuario53. Si aggiunga, a tale riguardo, che i templi del fenicio Melqart e del greco Eracle (quest’ultimo assimilato al primo nella intepretatio graeca) furono certamente tra i primi a raccogliere notizie da chi navigava, perché queste erano due delle divinità principali a cui si rivolgeva la devozione delle genti di mare54. Lo stretto rapporto con la vita dei naviganti era contrassegnato anche dall’ubicazione dei templi. Quelli situati sulla costa si trovavano sempre in corrispondenza di luoghi strategici per la navigazione, dunque in contiguità con i porti, con gli approdi e altri punti del litorale che possedevano un preciso significato nautico, come accadeva per i templi ubicati sui promontori (fig. 8). Punti di riferimento fondamentali e, nel contempo, pericolosi pasGenti di mare

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saggi obbligati posti a spartiacque tra due settori di mare, i promontori hanno sempre avuto un ruolo importantissimo per la navigazione e sono sempre stati oggetto di grande attenzione da parte dei marinai. I templi che sorgevano sulla loro sommità diventavano, così, anche dei punti cospicui per il riconoscimento della costa, visibili e identificabili da grande distanza55, tanto da essere menzionati nelle Fig. 8. Il tempio di Poseidone al Capo Sunio domina il pro- istruzioni nautiche e nei pormontorio all’estremità meridionale dell’Attica, in Grecia. tolani, in modo simile a come accadrà per i campanili delle chiese in epoca medievale e moderna. A seguito di tali presupposti, risulta quindi evidente che presso i templi e i santuari costieri dovettero raccogliersi anche informazioni di carattere propriamente nautico. E fu probabilmente in queste sedi, depositarie non solo di un ruolo religioso ma anche istituzionale e culturale, che si concentrarono i primi nuclei di istruzioni nautiche da cui si svilupparono i portolani56. Se consideriamo alcuni episodi della colonizzazione greca, possiamo riscontrare come il santuario giocò un ruolo fondamentale nei presupposti informativi della spedizione, nella scelta e nel riconoscimento geografico del luogo in cui fondare la futura colonia. Gli oracoli dell’Apollo di Delfi rappresentano dei casi emblematici57, in quanto diedero agli ecisti delle informazioni mirate, precise, da cui si deduce che i sacerdoti dovevano avere delle conoscenze reali, raccolte almeno in parte dai naviganti che si erano recati nel santuario dopo i loro viaggi. Gli abitanti di Tera (l’odierna isola di Santorini nell’Egeo) che partirono per andare a fondare Cirene intorno al 630 a.C., furono indirizzati dall’oracolo del dio delfico verso un luogo preciso della costa africana, dove avrebbero trovato le migliori condizioni ambientali per insediarsi58. Questo fatto lascia quindi pensare che i sacerdoti del santuario di Delfi conoscessero bene le coste nordafricane, avendo notizie precise sulle caratteristiche climatiche e sulle risorse naturali della zona prescelta. Riconduce a un contesto di questo tipo anche il passo di Strabone relativo alla fondazione fenicia di Cadice59, scaturita da un oracolo che, questa volta, proveniva verosimilmente dal santuario di Melqart a Tiro. Il racconto del geografo greco attesta che la fondazione sarebbe riuscita solo al terzo tentativo, confermando come le aspettative di una spedizione esplorativa potessero concretizzarsi in dei viaggi che non sempre andavano subito a buon fine. Le due spedizioni precedenti60, che fallirono a causa dei presagi negativi tratti dai sacrifici al momento dello sbarco, possono leggersi infatti come una presa di conoscenza della zona dello Stretto da parte dei Fenici di Tirio, dunque come un avvicinamento progressivo che precedette la scelta finale del sito. Tale circostanza, in definitiva, sembra riassumere in modo simbolico quel processo di rico44

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gnizione preliminare che sfociò nella fondazione di Cadice e, più in generale, nella colonizzazione fenicia della regione atlantica intorno alle Colonne d’Eracle61. Non è certo casuale, allora, il fatto che a proposito del primo tentativo Strabone parli proprio di uomini inviati «in avanscoperta» (kataskopês chárin). Si può dunque pensare che presso i santuari iniziarono a raccogliersi informazioni sempre più dettagliate da quando, con la fine dell’Età del Bronzo, si svilupparono i grandi traffici inter-mediterranei e, soprattutto, da quando iniziarono i movimenti di colonizzazione. Le conoscenze sui nuovi spazi si incrementarono col tempo, non solo per la ripetuta percorrenza delle rotte che collegavano la madrepatria con le colonie, ma anche per il continuo allargamento degli orizzonti geografici, per le attività di esplorazione commerciale che ripartivano dai nuovi avamposti, per il contatto con gli abitanti di regioni sempre più lontane. All’interno di questa dinamica è verosimile che i santuari di Melqart nell’estremo Occidente, quello di Cadice e quello di Lixus, fossero diventati depositari di conoscenze che avrebbero spinto i naviganti a esplorare le coste atlantiche dell’Africa e dell’Europa. In epoca punica questa prerogativa nautica sembra essere stata assorbita anche dai santuari di Baal Hammon, divinità che, tra le altre, doveva svolgere anche una funzione protettrice nei confronti dei naviganti, come lascerebbe intendere il fatto che Annone dedicò la relazione scritta della sua spedizione nel santuario di Baal Hammon a Cartagine62. In tale contesto, si potrebbe anche scorgere un legame particolare con le imprese esplorative di carattere ufficiale, promosse dal governo cartaginese per incrementare la conoscenza delle regioni atlantiche, sia africane, con la spedizione di Annone, che europee, con quella di Imilcone.

2.5. Marinai e geografi: l’esperienza pratica al servizio degli studiosi Affrontare un problema in modo empirico significa agire in base all’esperienza che deriva dalla pratica, qualche volta persino in base all’intuizione, senza l’uso del rigore scientifico, come attesta chiaramente l’etimologia di “empirico”, dal sostantivo greco empeiría, che significa, appunto, esperienza, pratica, abilità. È anche vero, d’altro canto, che la scienza si è sempre avvalsa, e si avvale tuttora, di indagini empiriche, attraverso un metodo di tipo sperimentale (esperimento – esperienza) che può essere associato a modelli teorici derivati dalle leggi scientifiche. Il valore dell’analisi empirica non va quindi sottovalutato. Nel mondo antico vi facevano ricorso anche i geografi, ricavando informazioni utili per i loro studi e per la redazione dei peripli dall’esperienza pratica che i naviganti acquisivano nel corso dei loro viaggi. Esperienza che si concretava nella costruzione di mappe mentali dei settori di mare in cui erano soliti navigare, basate sulla percezione dinamica della morfologia delle coste e sulla stima delle distanze63. All’inizio della sua Geografia, Strabone afferma che la compilazione di quelle opere denominate liménes (sui porti) e períploi (peripli) non richiedeva normalmente il ricorso a conoscenze scientifiche e di tipo astronomico, ma si basava su cognizioni derivanti dalla pratica della navigazione64. Fa riferimento all’esperienza empirica anche quando affronta il problema della distanza tra Rodi e Alessandria65, che secondo i naviganti abituati a fare la traversata poteva essere stimata tra un minimo di 4.000 e un massimo di 5.000 stadi, mentre Eratostene l’aveva calcolata in 3.750 stadi. Strabone lascia intendere di preferire ai calcoli astroGenti di mare

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nomici la stima fatta dai marinai in condizioni di navigazione favorevoli, cioè affrontando la traversata con i venti da nord-nordovest, che sono i venti regnanti al largo nel Mediterraneo orientale in estate e in autunno, motivo per cui accetta la distanza breve di 4.000 stadi. Viaggiando in condizioni non così favorevoli o con una nave più lenta, la percezione della distanza sarebbe stata evidentemente diversa, fatto che potrebbe giustificare le differenze nelle stime, ovvero la dilatazione fino a 5.000 stadi. Il passo di Strabone è una chiara testimonianza di come i geografi impiegassero nei loro studi l’esperienza dei naviganti, in quanto la durata media della traversata era poi trasformata in una distanza media, pur con tutte le difficoltà e le imprecisioni derivate dal modo di calcolarla e dalla lunghezza attribuita allo stadio66. È verosimile che le informazioni derivate dall’esperienza pratica giungessero ai geografi attraverso documenti scritti come le raccolte di istruzioni nautiche e i portolani, ma certamente anche attraverso i peripli, testi di geografia descrittiva che, a loro volta, contenevano informazioni derivate dai primi, ovvero dai documenti propriamente nautici. La trasmissione delle istruzioni nautiche avvenne per molto tempo in forma orale, prima che si giungesse alla loro organizzazione e diffusione in una forma scritta più o meno sistematica, che dovette dare origine ai primi portolani. Si può ipotizzare che il processo di registrazione scritta sia iniziato a partire dal tardo arcaismo, considerando l’esistenza di questi documenti nautici come uno dei presupposti della comparsa dei primi peripli nel VI sec. a.C. Tuttavia, troviamo chiara attestazione di questo processo solo molto più tardi, tra l’epoca ellenistica e la prima età imperiale, nei contenuti di carattere nautico che si possono riconoscere all’interno del Periplo di Menippo di Pergamo e dello Stadiasmo o Periplo del Mare Grande, argomenti su cui torneremo nel paragrafo dedicato, appunto, ai peripli e ai portolani. Una figura che ben documenta il rapporto tra la pratica della navigazione e gli studi geografici in epoca ellenistica fu Timostene di Rodi, ammiraglio della flotta di Tolomeo II Filadelfo e personaggio in cui le competenze del capitano di mare si univano a quelle del geografo. Timostene fu infatti autore di un’opera in lingua greca intitolata Perí liménon (sui porti), purtroppo andata perduta, composta in dieci libri intorno al 270 a.C.67 Non è certo se questo lavoro corrispondesse a un vero portolano o fosse, piuttosto, un’opera di geografia descrittiva68, ma resta plausibile pensare che le fonti di Timostene fossero costituite da portolani e da libri di istruzioni nautiche in uso nel III sec. a.C., considerando che l’autore era un ammiraglio, dunque aveva certamente accesso diretto a una documentazione di carattere tecnico. Per lo stesso motivo possiamo anche pensare che si trattasse effettivamente di un lavoro di carattere nautico o, comunque, anche se elaborato in una forma letteraria-geografica, di un lavoro che conservava caratteri propriamente portolanici. Si trattava in ogni caso di un testo molto conosciuto, che certamente fu utilizzato come fonte per la stesura di altre opere successive e che forse esercitò qualche influenza anche sullo Stadiasmo69. Appare significativa, d’altro canto, la centralità che Alessandria sembra avere nell’impostazione di questo testo, la cui redazione potrebbe quindi contestualizzarsi negli ambienti marinari dei suoi grandi porti, gli stessi presso cui aveva operato l’ammiraglio rodio, dove il suo Perí liménon era certamente ben conosciuto e facilmente reperibile. Potrebbe dipendere da un’influenza dell’opera di Timostene, originario di Rodi, luogo di grande tradizione marinara e dove certamente era iniziata la sua carriera, anche il rilevo che nella sezione del testo dedicata ai pieleggi viene dato proprio all’isola di Rodi, come punto di partenza delle traversate nel Mediterraneo orientale e nell’Egeo. 46

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L’esperienza derivata dalla navigazione costituiva una risorsa essenziale per la redazione di documenti destinati all’uso pratico dei naviganti, raccolte di istruzioni nautiche e portolani che, a loro volta, diventavano fonti di primaria importanza per i geografi, nel realizzare opere destinate a un pubblico più ampio, di livello colto. Con lo stesso procedimento si sono formati i primi testi di geografia descrittiva del Mediterraneo in epoca medievale, come nel caso del Liber de existencia riveriarum et forma maris nostri Mediterranei, opera del XII secolo elaborata sulla base dei portolani, ma concepita per fornire a un pubblico più vasto, composto non solo da naviganti, un’accurata panoramica geografica su questo mare70. L’autore del Liber (192-194) dichiara espressamente quali sono le sue fonti: «… quod a nautis et gradientibus illorum, etiam in quantum vidi et peregrinavi, scire et invenire potui …». Si tratta, dunque, delle tre fonti basilari utilizzate nella redazione dei portolani, sia antichi che medievali, ovvero l’esperienza pratica dei naviganti, certamente raccolta attraverso i loro racconti (a nautis)71, i libri di istruzioni nautiche già esistenti (gradientes)72 e l’autopsia, cioè l’esperienza diretta dell’autore (in quantum vidi et peregrinavi). All’esperienza diretta fa esplicito riferimento anche il celebre cartografo Grazioso Benincasa, nel XV secolo, all’interno del suo portolano: «In questo libro io Gratioso Benincasa farò menzione di porti e luoghi di terre di marina, et etiandio de sembianze de ditte terre ammemoria da me, e in quali porti et altri luoghi ne abbia Iddio sempre salvi noi e tutti altri naviganti. I quali porti et sembianze di terre non sono tratte niuna dalla carta, ma sono tochate con mano, et vegiute cholli occhi »73.

2.6. Navigazione nelle acque interne e battellieri Nella maggior parte delle città che sorgono nella Pianura Padana, tra le Alpi e gli Appennini dal Piemonte al Veneto, così come nelle campagne circostanti, possiamo facilmente incontrare nomi di strade e curiosi toponimi di origine nautica. Sono variamente diffusi, tra gli altri, Via del Porto, Via Barche, Via Naviglio, Via del Traghetto, Via o Strada Alzaia, in modo puntuale Alzaia Naviglio Pavese (a Milano), Contrà dei Burci (a Vicenza), Strada Attiraglio (a Modena), Lungadige Attiraglio (a Verona), Piazza Barche (a Mestre), Canale Navile e Quartiere Navile (a Bologna). Vi sono poi dei paesi e delle località che hanno nomi parlanti: Bomporto, Pescantina, Barchetta, Barcaccia, Navetta, Pontonara, per ricordarne solo alcuni. Sono i relitti di un paesaggio completamente scomparso, che richiama un tempo in cui era normale vedere barche e barconi avanzare in mezzo alle campagne, muoversi attraverso una fitta rete di vie d’acqua, naturali e artificiali, che aveva nel Po il suo asse portante e che collegava le città del Nord Italia tra loro e con i porti dell’Adriatico, principalmente con Ravenna e Venezia. Un paesaggio in cui le distanze e le durate degli spostamenti erano molto diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati oggi per i trasporti via terra, su gomma e rotaia. La lunghezza dei percorsi attraverso le idrovie e il tempo necessario per affrontarli erano dilatati: in discesa, verso valle, procedevano alla stessa velocità dell’acqua, in risalita al passo lento degli uomini e degli animali che trainavano le imbarcazioni contro corrente, in un silenzio rotto solo dal fruscio del loro passaggio sugli argini, dal canto di un barcaiolo o da una voce che incitava a tirare. Gli uomini che svolgevano questo duro lavoro appartenevano a una speciale comunità di gente errante, proprio come i marinai, ma con la differenza di esser costretti a seguire percorsi obbligati, più sicuri e al tempo stesso più limitanti; Genti di mare

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di aver poca confidenza con le vele e molta con la corrente; di vivere a metà tra l’acqua e la terra; di avere come orizzonte, oltre la striscia del fiume, un bosco o un campo di grano; come luogo di sosta un’osteria o a una cascina nei pressi della sponda a cui poter ormeggiare la barca; come porto una banchina o un pontile74. La navigazione nelle acque interne venne praticata in tutta l’Europa continentale e peninsulare fin dall’antichità, rappresentando il sistema di trasporto più economico, veloce e sicuro di cui si poteva disporre75. Conobbe grande sviluppo in epoca medievale, per proseguire ininterrottamente fino ai primi decenni del Novecento, e svolge tuttora un ruolo molto importante nell’Europa centro-settentrionale e in quella orientale. Nell’Italia settentrionale iniziò ad essere progressivamente abbandonata con l’affermarsi del trasporto ferroviario e, soprattutto, di quello stradale, con ricadute importanti sul costo dei trasporti, sulla congestione delle arterie stradali e sulla qualità dell’ambiente. Si è trattato, tuttavia, di un settore rimasto vitale fin quasi alla metà del secolo scorso, che anche oggi potrebbe ritrovare un suo spazio nel mondo dei trasporti. Per lo meno, il sistema della navigazione interna, inteso come patrimonio sia materiale che immateriale, sta fortunatamente acquisendo un interesse sempre maggiore nello sviluppo di un turismo consapevole e sostenibile, soprattutto in area veneta76. Già nell’Età del Bronzo gli abitanti della Pianura Padana utilizzarono i corsi d’acqua come idrovie, secondo quanto lasciano ragionevolmente pensare gli insediamenti terramaricoli sorti in prossimità delle aste fluviali e l’attenzione per il sistema idraulico connesso, col contestuale sfruttamento dei corsi naturali e l’apertura di canali derivati77. Per l’Età del Ferro abbiamo invece un’interessante attestazione storica che ci viene da Plinio78, il quale riferisce che furono gli Etruschi a iniziare l’escavo dei canali nella zona immediatamente alle spalle del delta padano, opere idrauliche che possiamo identificare come gli antecedenti o i presupposti del sistema di fossae poi realizzato dai Romani79. La stessa vocazione della città di Spina, del resto, posta a cerniera tra le vie del commercio marittimo e quelle che penetravano nel territorio, lascia intendere che la navigazione interna dovette svolgere un ruolo importante nell’Etruria padana e che, come tale, potesse anche prevedere forme di controllo da parte delle aristocrazie locali. Nella fase del suo pieno sviluppo, tra il I e il III sec. d.C., il sistema idroviario padano seguiva due direttrici principali. Quella paralitoranea, con andamento approssimativamente sud-nord (piegando verso nordest nel tratto superiore), si sviluppava attraverso la sequenza pressoché ininterrotta di foci e lagune dell’Alto Adriatico, che iniziava a sud di Ravenna e proseguiva fino ad Aquileia, a tratti collegate tra loro con canali artificiali, le fossae80. La direttrice interna est-ovest, rappresentata dal corso del Po, asse portante di un articolato sistema di idrovie81, consentiva invece di risalire dal delta fino alle regioni centrali e occidentali della pianura. Questi due assi principali erano intercettati da idrovie più o meno trasversali, nel primo caso dai fiumi che nella Venetia consentivano di inoltrarsi nella regione interna del delta e verso i territori prealpini, nel secondo caso dagli affluenti del Po, che permettevano di risalire fino ai centri della bassa e dell’alta pianura, oltre che, in Transpadana, fino ai grandi laghi, vie privilegiate per i commerci con la Rezia e le regioni transalpine82 (fig. 9). Il consolidarsi del ruolo strategico di Ravenna sotto Augusto, con la fondazione del porto di Classe e lo stanziamento della flotta preposta al controllo dell’Adriatico e del Mediterraneo orientale, diede certamente un impulso fondamentale allo sviluppo di tutta la 48

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Fig. 9. Le vie d’acqua nell’Italia settentrionale in epoca romana.

rete idroviaria padana. Plinio83, del resto, risulta abbastanza chiaro quando afferma che la Transpadana, pur essendo tutta circondata da terre, non avendo quindi un affaccio sul mare che desse accesso diretto ai traffici marittimi, era tuttavia rifornita di ogni cosa grazie al corso navigabile del Po. La direttrice paralitoranea consentiva il collegamento tra Ravenna e i centri portuali della laguna veneta, principalmente il porto alla foce del Medoaco84 e quello di Altino, ma doveva proseguire fino ad Aquileia, benché quest’ultimo tratto sia storicamente documentato solo a partire dall’età di Diocleziano. La fitta rete di fiumi e canali che la intercettavano offriva la possibilità di risalire fino ai centri dell’interno, come Adria, Verona, Padova, Vicenza, Treviso e altre località, che disponevano evidentemente di propri porti fluviali o per lo meno di approdi. Oltre a favorire i collegamenti nell’area lagunare e con le città dell’interno, la via d’acqua paralitoranea risultava favorevole anche per la sicurezza della navigazione, potendo viaggiare lungo tutto l’arco dell’Alto Adriatico occidentale senza dover quasi mai uscire in mare, dunque con maggiore regolarità e minori rischi85. Questo collegamento idroviario consentiva, dunque, di proseguire le attività di trasporto su acqua anche se il mare era reso impraticabile dalle tempeste, soprattutto nei mesi autunnali e invernali, quando il grosso della navigazione marittima conosceva un fermo stagionale, onde evitare i pericoli generati dalle cattive condizioni meteomarine, tema che approfondiremo nel capitolo dedicato alle stagioni della navigazione. La direttrice est-ovest lungo il Po dovette almeno in parte consolidarsi già alla fine del III sec. a.C., considerando l’importanza che il grande fiume assunse anche sul piano militare con le fondazioni dei presidi di Piacenza e Cremona. Le fonti storiche ricordano infatti che dopo la battaglia della Trebbia (218 a.C.) i Romani, ritiratisi a Piacenza e Cremona dopo essere stati sconfitti da Annibale, ricevevano i vettovagliamenti grazie alle navi che dalla Genti di mare

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costa adriatica risalivano il Po86. Tra il III e il II sec. a.C., la navigazione interna fu senza dubbio uno degli elementi propulsori del progressivo processo di romanizzazione della Pianura Padana, in cui le vie di terra e le vie d’acqua giunsero a formare un sistema integrato e capillare, con scali nautici collocati in corrispondenza dei principali nodi stradali. Nel caso dei grandi trasporti o di quelli che richiedevano particolare velocità, come accadeva per il servizio postale e il trasporto dei passeggeri, le idrovie risultavano certamente concorrenziali rispetto alle strade, soprattutto sulle lunghe distanze87. In epoca romana tutte le principali città padane erano quindi dotate di uno scalo portuale, che poteva trovarsi in corrispondenza del centro urbano o presso una località nelle vicinanze. Lungo il corso del Po e nelle immediate adiacenze ricordiamo Torino, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescello (a servizio di Parma e Reggio Emilia), Mantova (sul collegamento idroviario tra il Po e il Lago di Garda), Ostiglia (centro nevralgico in cui la via d’acqua intercettava i collegamenti stradali tra l’Emilia e il Veneto). Lungo gli assi fluviali a nord del Po sono documentati i porti di Ivrea, Como, Milano, Brescia e quelli distribuiti sulle sponde del Lago di Garda. Diversa appare invece la situazione a sud del Po, fatta eccezione, ovviamente, per Ravenna e il settore meridionale del delta. Benché Plinio ricordi che nel Po confluivano fiumi navigabili anche dal versante appenninico, le attestazioni di una navigazione lungo i fiumi cispadani è decisamente scarsa, nonostante la diffusione dei materiali, dei prodotti d’importazione e di quelli d’esportazione, oltre che la toponomastica, lascino pensare che anche nella Cispadana i corsi d’acqua fossero ampiamente sfruttati per i trasporti. A confermare l’importanza rivestita dalla navigazione interna nell’area padana giunge anche il dato epigrafico, che attesta tra il I e il II sec. d.C. la presenza di collegia nautarum (corporazioni professionali di battellieri) in diversi centri connessi con i traffici su acqua, precisamente nel lago di Como (a Como), a Milano, a Pavia, nel lago di Garda (a Peschiera e a Riva), a Mantova, ad Adria e a Ravenna88. Le imbarcazioni utilizzate nelle acque interne presentavano evidentemente caratteristiche particolari, prima tra tutte quella di essere a fondo piatto, prive di chiglia, costruite con un procedimento che partiva proprio dall’assemblaggio delle tavole del fondo. Ce ne offre una chiara testimonianza Livio89, quando parla delle imbarcazioni con cui i Veneti contrastarono le scorrerie di Cleonimo nella laguna veneta e nei fiumi e canali intorno a Padova (303-302 a.C.), definendole fluviatiles naves, ad superanda vada stagnorum apte planis alveis fabricatas, dunque imbarcazioni fluviali costruite appositamente col fondo piatto per poter navigare in acque basse e superare i bassifondi. La definizione liviana, tuttavia, non permette di sapere con precisione a quali tipi di imbarcazioni si riferisca il termine generico naves, che in ogni caso sembra indicare degli scafi di una certa importanza più che delle piccole barche. Tra quelle naves c’erano probabilmente anche i pontones90, grosse imbarcazioni fluviali a fondo piatto dotate di notevole capacità di carico, spinte a forza di remi o col traino all’alzaia, ma che all’occasione potevano utilizzare anche la vela, in grado di muoversi in acque basse grazie al ridotto pescaggio degli scafi, di cui possiamo farci un’idea abbastanza chiara grazie ai relitti rinvenuti nelle acque interne dell’Europa centro-settentrionale91. Anche la zona del delta padano e quella circostante la laguna veneta hanno restituito diversi relitti di imbarcazioni a fondo piatto, riconducibili in qualche modo alle fluviatiles naves planis alveis fabricatas ricordate da Livio. Si tratta di scafi “cuciti”, cioè 50

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assemblati per mezzo di cimette che univano saldamente tra loro le tavole del fasciame e le ordinate al fasciame, con una vera e propria cucitura; un sistema di tradizione arcaica che nell’Alto Adriatico ha conosciuto una lunga continuità, sopravvivendo fino al V-VII sec. d.C.92 Nei fiumi e nel delta padano erano presenti anche le rates, termine generico che identifica le zattere (in letteratura talvolta usato anche come sinonimo di nave), impiegate sia come natanti sia per costruire ponti galleggianti. Sono documentate sul Po da Livio93 e da Vitruvio94. In tutte le acque interne del territorio padano e veneto ebbero inoltre grande diffusione le imbarcazioni monossili, cioè gli scafi ricavati dall’escavazione interna di un singolo tronco d’albero, ben documentate sia dalle fonti storiche che dall’archeologia95. Per la loro struttura essenziale, per le caratteristiche tecniche e per la semplicità di costruzione, queste imbarcazioni risultarono in ogni tempo mezzi di trasporto e di lavoro molto efficaci per le acque interne, non solo in epoca antica, ma anche in età medievale e moderna, sopravvivendo in diverse regioni europee fino alla prima metà del secolo scorso96. Un’altra tipologia di natante presente nell’area padana era il carabus, barchetta realizzata con un’intelaiatura di legni flessibili e ricoperta con pelli impeciate. Ce ne offre esplicita testimonianza Lucano97, che ricorda i carabi usati dai Veneti nelle paludi del Po e dai Britanni sull’Oceano, realizzati con uno scheletro di vimini intrecciati, poi ricoperto di pelli bovine. Cinque secoli più tardi il carabus viene menzionato anche da Isidoro di Siviglia98, facendo ancora riferimento al suo utilizzo nel Po e nelle paludi, quindi accennando alle sue piccole dimensioni. Nelle nostre regioni la tradizione dei natanti rivestiti di pelle non sembra aver superato l’epoca altomedievale, diversamente da quanto accaduto in Gran Bretagna e in Irlanda, dove venivano costruiti ancora nel secolo scorso99. Vi erano inoltre le naves cursoriae, che svolgevano il servizio del cursus publicus non solo lungo il Po e i suoi principali affluenti, ma anche lungo la direttrice paralitoranea. Erano imbarcazioni veloci che navigavano a doppia propulsione, sia velica che remiera, impiegate come unità di collegamento per il trasporto della posta e dei passeggeri, sia in ambito civile che militare. Si tratta dunque di “navi lunghe” che rientrano nella categoria delle “galee mercantili”, a cui si possono attribuire diverse tipologie ricordate dalle fonti coi nomi di celox, actuaria, lembus, cercurus, cybaea e phaselus100. Catullo101 celebra la velocità del phaselus e ne attesta la presenza sul Lago di Garda, che verosimilmente si può estendere anche agli altri laghi alpini e ai fiumi padani. La navigazione nei fiumi e nei canali, nelle paludi e nelle lagune, si svolgeva fondamentalmente con la spinta dei remi (o delle pagaie nel caso delle imbarcazioni minori, come le monossili e i carabi). La vela poteva essere impiegata normalmente solo nei laghi, mentre nei fiumi e nei canali il suo utilizzo risultava limitato dalle dimensioni e soprattutto dall’orientamento dei corsi d’acqua, le cui variazioni potevano far sì che un vento favorevole diventasse in poco tempo sfavorevole e viceversa. Tuttavia, se il vento spirava dalla direzione giusta, i battellieri non avranno esitato ad armare la vela che dovevano tenere sempre pronta a bordo. A tale proposito, Plinio102 riferisce che sul Po si utilizzavano anche vele fatte di giunchi palustri. Le imbarcazioni discendevano i fiumi e i canali spinte dalla corrente e dai remi, se possibile anche dalla vela. Per risalire controcorrente le naves cursoriae avanzavano sempre a forza di remi e se il vento spirava da una direzione favorevole utilizzavano, ovviamente, Genti di mare

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Fig. 10. Traino di un’imbarcazione con l’alzaia; particolare di un bassorilievo conservato presso il Museo Lapidario di Avignone, III sec. d.C.

anche la vela. Normalmente, però, si ricorreva all’alaggio, cioè al traino da terra eseguito dagli stessi battellieri o dagli animali, secondo un sistema rimasto immutato nel tempo fino al secolo scorso e noto anche come “traino all’alzaia”, definizione che deriva dal nome della cima di traino, chiamata alzaia nel lessico tradizionale103, mentre in latino era conosciuta col nome di remulcum104 (fig. 10). Come abbiamo visto, il ricordo del “traino all’alzaia” persiste tuttora nel nome di alcune strade della bassa pianura, precisamente di quelle che corrono lungo gli argini da cui gli uomini e gli animali tiravano le imbarcazioni. Evidentemente, il termine alzaia non deriva da remulcum, ma sembra relazionarsi con helciarius (bardotto, colui che traina la barca da terra con l’alzaia)105, trasferito nell’italiano elciario (con stesso significato) ed elcione (alzaia)106; forse da un più preciso helciarius (funis) (cima di traino, alzaia), così come per la “via alzaia”, da helciaria via. Il sostantivo helcium indica il collare delle bestie da tiro107 e si relaziona, verosimilmente, con l’imbracatura indossata dagli helciarii, a cui era legata la cima di traino, o semplicemente con la cima stessa passata sul petto. L’origine del termine latino può a sua volta ricercarsi nel verbo greco élko (tirare, trascinare) da cui deriva il sostantivo olkás, letteralmente “nave trainata a rimorchio”. L’alzaia veniva legata a poppa e rinviata alla sommità dell’albero, quindi distesa per una buona lunghezza fino agli uomini sulla riva, in modo che, una volta iniziato il tiro, si riducesse la tendenza dello scafo a buttare la prua sotto riva, come sarebbe invece avvenuto trainandolo con una cima legata direttamente alla prua. I nautae camminavano quindi lungo la riva del fiume o del canale, dove poteva trovarsi un apposito camminamento, la già ricordata via alzaia, mentre il timoniere si occupava di mantenere lo scafo nel filo della corrente, contrastando la tendenza della prua ad avvicinarsi alla riva108. Un’immagine poetica di come si navigava lungo i fiumi si conserva nei versi in cui Ausonio109, vissuto nel IV secolo, celebra le acque e la corrente della Mosella, fiume della Gallia Belgica: « Hai avuto la sorte di offrire due vie al navigare, l’una / quando i remi col favore della corrente fendono rapidi / i flutti, l’altra quando i marinai, disposti lungo le rive, / a forza di spalle tendono le corde fissate alle antenne / senza mai cessare il traino: tu stessa spesso ti stupisci / per il refluire delle acque e pensi che il tuo corso naturale rallenti »110.

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Cassiodoro111 dipinge invece con eleganza retorica il paesaggio della laguna veneta nel VI secolo, delineandone l’ambiente naturale, i canali, le isole e gli insediamenti, le risorse economiche, la società umana umile e operosa, lungo l’idrovia fluvio-lagunare alternativa alla navigazione marittima, che da Ravenna conduceva ad Altino e da là ad Aquileia. Le sue parole riassumono con precisione le ragioni e le condizioni della navigazione endolagunare. «… voi avete a disposizione un altro percorso, sereno e costantemente sicuro. Infatti, se a causa dei venti infuriati il mare risultasse impraticabile, si apre per voi la via attraverso la felicissima rete dei fiumi. I vostri scafi non temono gli aspri colpi di vento: con la massima sicurezza sfiorano i fondali senza mai correre il rischio di sfasciarsi, nonostante vadano spesso ad arenarsi. Da lontano sembra quasi che si muovano attraverso i prati, perché non si riesce a vedere il canale in cui stanno navigando. Camminano trainati con le alzaie, quegli scafi che di solito sono tenuti all’ormeggio con le cime; sono infatti gli uomini, con inversione di ruolo, ad aiutare con i piedi le loro imbarcazioni: tirano i loro mezzi di trasporto senza fatica, e per timore delle vele si servono del più sicuro passo di marcia dei battellieri»112.

Ci riporta invece al delta del Po un dialogo di Luciano di Samosata, scrittore di lingua greca vissuto nel II secolo, un breve racconto intitolato Dell’ambra o Dei cigni (1-3), ambientato alla foce del fiume Eridano, nome greco del Po. Narra una storia fantastica che ha come sfondo il mito di Fetonte, il figlio del Sole fulminato da Zeus e precipitato nell’Eridano per il modo maldestro con cui conduceva in cielo il carro del padre. Piangendone la morte sulle rive del fiume, le sue sorelle, le Eliadi, furono trasformate in pioppi e le loro lacrime in gocce d’ambra. Il protagonista del racconto, che sembra identificarsi con l’autore stesso, si reca in quei luoghi alla ricerca dei leggendari pioppi stillanti ambra e chiede informazioni ai battellieri del luogo. Questi rispondono di non saperne nulla, aggiungendo che se avessero avuto notizia di una simile fonte di ricchezza, l’ambra, non avrebbero certo passato la vita a remare e a trainare le barche controcorrente, lavoro pesante, che procurava solo un misero guadagno113. I nautae/battellieri, dunque, oltre a vogare e a manovrare la vela, quando era necessario scendevano a terra e trainavano le loro barche, mentre a bordo restava solo il timoniere, come chiaramente illustrato dall’iconografia antica. In base alla documentazione storica e iconografica, il traino realizzato dagli uomini risulta il sistema più diffuso sia in epoca antica che tarda, benché non manchino attestazioni di traino con gli animali, come ricorda Orazio114 per le barche che percorrevano il canale delle Paludi Pontine, nel Lazio, dove era utilizzata una mula, e come attesta nel VI secolo Procopio115, relativamente alle barche che venivano trainate dai buoi per risalire il Tevere da Portus a Roma. Interessante, a questo proposito, risulta il rinvenimento di un giogo di legno di quercia in un contesto tardoantico del Cantiere delle Navi di Pisa, reperto che potrebbe relazionarsi con la pratica del traino all’alzaia, in questo caso realizzato da animali da tiro come cavalli o bovini116. In età moderna, e ancora fino al secolo scorso, il traino delle barche minori era realizzato dagli uomini dell’equipaggio, mentre per le imbarcazioni di grande tonnellaggio si utilizzavano i cavalli da tiro (più raramente i bovini) condotti da appositi professionisti chiamati cavallanti117. Genti di mare

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Guglielmotti 1889, col. 1312, s.v. Piloto. Guglielmotti 1889, col. 76, s.v. Alturiére; col. 536, s.vv. Costiéro e Costiére; col. 1363, s.v. Prático. 3 Rougé 1966, pp. 222-227. 4 Rougé 1966, pp. 234-238. 5 Patrignani 1988, p. 83. 6 I, 105-110, 400-401, 560-562, 955-956, 1274-1275; II, 175, 556-618. 7 III, 513-520, 561-569, V, 12-25, 833-853. 8 Inni omerici, VII, a Dioniso, 49. 9 Lucano, Farsaglia, VIII, 171. 10 Differentiarum sive de proprietate sermonum libri duo, I, 276 Migne. 11 Jordan 1975, pp. 138-143; Casson 1995a, pp. 300-328; Gabrielsen 1997, pp. 94-97. 12 Storie, I, 37; 54, 6-8. 13 Montevecchi 1989, pp. 28-34. 14 Seneca, Lettere a Lucilio, XI, 85, 36. 15 Si vedano, per esempio, Silio Italico, Le guerre puniche, IV, 713-717, e Vegezio, L’arte della guerra, IV, 38. 16 Lettere a Lucilio, XXX, 3; LXXXV, 32-33. 17 Platone, La Repubblica, 488b; Seneca, Lettere a Lucilio, XV, 95, 7. 18 Sulla vita dei giovanissimi muré a bordo delle barche da lavoro nella prima metà del Novecento si vedano Grimaldi 1908, pp. 18-20; Ricca Rosellini 1979, pp. 253; Patrignani 1988, pp. 81-95. Interessante la testimonianza di Galluzzi 1982. 19 Aristofane, Cavalieri, 543. Sulla figura del proreta si vedano Moschetti 1966, pp. 36-38; Rougé 1966, pp. 221-222; Jordan 1975, pp. 143-145; Vélissaropoulos 1980, pp. 77-79; Casson 1995a, pp. 303, 318-319. 20 Economico, VIII, 11-17. 21 Versione italiana di Carlo Natali (Senofonte, L’amministrazione della casa (Economico), a cura di C. Natali, Marsilio, Venezia 1988). 22 Si vedano, per esempio, Jal 1848 e Guglielmotti 1889; per l’antichità, Saint-Denis 1935a e Pighi 1967. 23 Emblems of Hope, in The Mirror of the Sea, London 1906 (Joseph Conrad, Lo specchio del mare, a cura di F. e F. Marenco, il melangolo, Genova 1998). 24 Per questo problema, oltre a Pighi 1967, si vedano i tanti casi analizzati diffusamente da Casson 1995a. 25 Minervini 1996. 26 Si veda, per esempio, Božanić 1997; Id. 2007. 27 Jal 1848, pp. 12-13. Versione italiana dell’autore. 28 Hornell 1943; Mondardini Morelli 1990, pp. 107-118; Božanić, Buljubašić 2012. 29 Torneremo su questo argomento parlando della spiera. 30 Odissea, VIII, 555-563. 31 Testimone di questo racconto è stato Riccardo Brizzi, intorno al 1955. 32 Nowak 2006; Carlson 2009; Medas 2010. 33 Supplici, 713-718. 34 Basch 1987, pp. 359-361, 434. 35 Cavazzuti 1997; Barkaoui 2004. 36 Hornell 1923; Id. 1938a; Id. 1943. 37 Horenell 1923, pp. 306-313; Bellabarba, Guerreri 2002, pp. 36-41, 216-221. 38 Marzari 1982; Penzo 1992. 39 Nowak 2001. 40 Galili, Rosen 2015; Galili, Rosen, Zemer 2016. 41 Saatsoglou-Palaiadele 1980; Carlson 2009, pp. 347-353. 2

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Per i trabaccoli dell’Adriatico, imbarcazioni da pesca e da traffico in uso fino agli anni ’60-‘70 del Novecento (oggi ne sopravvivono solo pochissimi esemplari), si vedano Marzari 1988, Patrignani 1988, Penzo 2020. 43 Brizzi 1969, p. 3. 44 Ferrante 2012. Guglielmotti si cimentò anche nell’archeologia navale. Nella Rivista Marittima del 1874, primo trimestre, pubblicò un lungo articolo (pp. 69-115) intitolato “Delle due navi romane scolpite sul bassorilievo portuense del principe Torlonia”, dedicato all’iconografia navale del famoso bassorilievo del Portus Augusti conservato nel Museo Torlonia a Roma, datato intorno al 200 d.C. (Basch 1987, pp. 463-467). Si dedicò anche a una Archeologia navale, opera che però rimase incompleta e inedita. 45 Romero Recio 2000, pp. 113-137. 46 Gras 1997; Domínguez Monedero 2013. 47 Marín Ceballos 1994; Ruiz de Arbulo 1997; Id. 2000; Gras, Rouillard, Teixidor 2000, pp. 128134; Vidal González 2000; Marín Ceballos, Jiménez Flores 2004. 48 Desanges 1978, pp. 392-393; González Ponce 2008, pp. 75, 116. 49 Orazioni, XXXVI, 94. 50 Lombardo 1972. 51 Gras 1997, pp. 70-71. 52 Erodoto, Storie, II, 2-3, 13, 18, 28, 32-33, 43, 54, 99-147. 53 Ibidem, II, 44, 1-4. 54 Pindaro, Istmiche, IV, 55-57; Diodoro, V, 20, 1-2; Strabone, III, 5, 5; Eliodoro, Etiopiche, IV, 16. Si vedano, in generale, van Berchem 1967 e Bonnet 1988. Per la religiosità, i rituali propiziatori e di ringraziamento dei marinai, si vedano Brody 2008; Fenet 2011, in particolare Ead. 2016, pp. 242-519; con specifico riferimento al mondo fenicio e punico, Brody 2005; Ruiz Cabrero 2007; Brody 2021. 55 Sample 1927; Morton 2001, pp. 200-214; Brody 2008, pp. 446-448. 56 Medas 2000, pp. 42-48; Marín Ceballos, Jiménez Flores 2004, pp. 224-225; Medas 2008a, pp. 168-170; Id. 2008c, pp. 154-161; Id. 2020, pp. 23-24. 57 Plutarco, Gli oracoli della Pizia, 27 (Moralia, 407 F-408 B); Lombardo 1972. Simili presupposti informativi, che potevano assumere la funzione di una guida, riguardavano naturalmente anche altri santuari, come nel caso di quello di Artemide Efesia relativamente alla fondazione di Massalia (Strabone, IV, 1, 4: C 179). 58 Erodoto, IV, 151-158. 59 Geografia, III, 5, 5. 60 La prima spedizione si arrestò probabilmente presso Almuñecar, la seconda presso Huelva (Gras, Rouillard, Teixidor 2000, pp. 63-64). Le recenti scoperte avvenute a Huelva permettono ora di collocare tra la seconda metà del X e la prima metà del IX sec. a.C. le prime frequentazioni fenicie del centro, avvicinando così la cronologia archeologica a quella della tradizione storica sul raggiungimento dell’area dello Stretto (González de Canales Cerisola, Serrano Pichardo, Llompart Gómez 2004; González de Canales, Llompart Gómez 2020). 61 Gras, Rouillard, Teixidor 2000, pp. 63-64; López Pardo 2000, pp. 25-28. Si vedano ora i diversi contributi pubblicati in López Castro (ed.) 2020. 62 Come è noto, il testo del Periplo di Annone si è conservato solo nella versione greca, motivo per cui in esso si fa riferimento al tempio cartaginese di Kronos, divinità che viene generalmente identificata col punico Baal Hammon (Fantar 1990; Xella 1991). 63 Gómez Espelosín 2000; Arnaud 2005; Kowalski 2012; Shcheglov 2018; Obied 2021. 64 Geografia, I, 1, 21. 65 Geografia, II, 5, 24. 66 Arnaud 1995; Id. 2005, pp. 84-87, 214-215; Id. 2014. 67 Marciano di Eraclea, Epitome del Periplo del Mare Interno di Menippo di Pergamo, 2-3 (Müller, I, pp. 565-566; González Ponce 2008, pp. 55, 61-63). Si vedano Susemihl 1891, pp. 660-662; Wachsmuth 1904; Gisinger 1937; Gernez 1947-1949, pp. 31-32; Gómez Espelosín 2000, pp. 223-224; Marcotte 2000, pp. LXIV-LXV; Ottone 2002.

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Prontera (1992, pp. 38, 41) riconduce il perí liménon di Timostene a un saggio di geografia descrittiva, mentre Marcotte (2000, pp. LXIV-LXV) ipotizza che si trattasse di un vero e proprio portolano. 69 Già il Letronne (1829, p. 115) ipotizzò che l’opera di Timostene potesse rappresentare una delle fonti dello Stadiasmo. Sull’argomento si vedano Cordano 1992, pp. 114-115, 183; Uggeri 1998a, pp. 38, 46; Desanges 2004; Medas 2008c, p. 75. L’approfondita analisi condotta sul testo da Pascal Arnaud (2010) induce però a ridimensionare molto l’eventuale influenza dell’opera di Timostene sullo Stadiasmo. 70 Gautier Dalché 1992; Id. 1995. Per altri due casi sempre del XII secolo, si vedano Uggeri 1994 (frammenti di un portolano del Salento) e Gautier Dalché 1995, pp. 93-98 (Liber Guidonis). 71 L’importanza dei racconti forniti dai marinai ricompare nelle cronache di viaggio medievali attraverso espressioni del tipo « …ad aestimationem nautarum … ut dicunt nautae … » (Gautier Dalché 1995, pp. 53-55). 72 Il termine gradientes deriva da gradus, nel significato di “porto”, e definisce verosimilmente delle guide nautiche, dei libri di istruzioni nautiche (Gautier Dalché 1995, p. 81). Appare evidente la corrispondenza col greco liménes e perí liménon, per cui crediamo che tanto i liménes antichi quanto i gradientes medievali possano identificarsi con dei portolani, cioè con i documenti nautici nella loro forma originale, precedente alla loro rielaborazione letteraria/geografica. 73 Kretschmer 1909, p. 358; si veda in proposito Spadolini 1971. 74 Prati 1968; Giarelli 1986-1987; Jori 2009. 75 A solo titolo di esempio si veda il caso francese, uno dei meglio studiati, per cui rimandiamo a Izarra 1993; Rieth 1998; Christol, Fiches 1999. 76 Vallerani 2013. 77 Per gli insediamenti terramaricoli rimandiamo a Bernabò Brea, Cardarelli, Cremaschi 1997, in particolare, per il rapporto tra corsi d’acqua e idrovie e per il sistema idraulico, agli articoli di M. Cremaschi (pp. 107-125), di C. Balista (pp. 126-136), di M. Cattani e D. Labate (pp. 166-172), di G. Bottazzi (pp. 177-183). 78 Storia Naturale, III, 16, 120. 79 Uggeri 1991. 80 Felici 2016, pp. 49-80 (taglio, funzionalità, impiego e manutenzione dei canali), pp. 203-216 (fossae / canali paralitoranei lungo la costa tra Ravenna e Aquileia). 81 Strabone, V, 1, 5. 82 Uggeri 1998b; Medas 2013b; Id. 2017; Mosca 2020. 83 Storia Naturale, III, 17, 123. 84 Il nostro Brenta, un cui ramo sfociava presso Malamocco. 85 Un celebre brano di Cassiodoro (Variae, XII, 24) conferma i vantaggi della navigazione interna attraverso il sistema lagunare della Venetia, come rotta alternativa a quella marittima (Carile 2004, pp. 97-100). 86 Polibio, III, 75; Livio, XXI, 57-5-6. 87 Per il ruolo storico del Po nell’ambito delle operazioni militari e dei trasporti in età romana si veda Calzolari 2004. 88 Waltzing 1896, pp. 29-30; Mastrocinque 1990-1991; Mosca 1991; Bargnesi 1997; Boscolo 20042005; Zoia 2014. 89 X, 2, 12. 90 Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, I, 24. 91 Si vedano i relitti pubblicati in Boetto, Pomey, Tchernia 2011. 92 Beltrame 2001; Id. 2019; Beltrame, Costa 2019. 93 XXI, 47, 6. 94 De architectura, II. 9, 14. 95 Medas 1997, pp. 272-273, 275; Id. 2013b, pp. 124-125, e Id. 2017, pp. 153-155 (con bibliografia precedente). 96 Arnold 1995, pp. 161-181.

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Pharsalia, IV, 131-135. Etymologiae, XIX, 1, 25-26. 99 Si tratta del coracle del Galles, piccolo scafo per una o due persone, spinto con la pagaia, probabilmente simile al carabus padano, e del curragh irlandese, imbarcazione di una certa importanza, lunga normalmente intorno agli 8 m e in grado di trasportare anche sei uomini, spinta a remi, utilizzata in mare dai pescatori delle coste e delle isole dell’Irlanda occidentale (Hornell 1938b). 100 Casson 1995a, pp. 157-168. Erano utilizzate sia in mare che nelle acque interne. 101 Carmi, 4. 102 Storia Naturale, XVI, 70, 178. 103 Guglielmotti 1889, col. 77, s.v. alzája, spiega che questa fune è «così detta dalla posizione del canapo, che va disteso in alto dalla cima dell’albero alla cresta dell’argine». In realtà, come vedremo, il termine alzaia potrebbe avere un’origine antica che richiama l’azione del trainare, piuttosto che la posizione alta della cima di traino. 104 … remulcum funis quo deligata navis trahitur vice remi (Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, 4, 8). Tra le fonti sul remulcum/alzaia (che per estensione assume anche il significato di remulcum/rimorchio) si vedano anche Cesare (De Bello Civili, III, 40), e Ausonio (Mosella, 41). 105 Marziale (Epigrammi, IV, 64, 21-24) ricorda gli helciarii del Tevere. 106 Guglielmotti 1889, col. 631, s.vv. elciário ed elcione. 107 Apuleio, Le metamorfosi, IX, 12. 108 Per le modalità dell’alaggio si vedano Izarra 1993, pp. 157-167, e Rieth 1998, pp. 98-113. 109 Mosella, 39-44. 110 Versione italiana di Luca Canali (Ausonio, La Mosella e altre poesie, a cura di L. Canali e M. Pellegrini, Mondadori, Milano 2011). 111 Variae, XII, 24. 112 Versione italiana dell’autore. 113 Mastrocinque 1990-1991. Il verbo utilizzato da Luciano per indicare il traino delle barche controcorrente è élko (così anche Procopio), che ancora una volta richiama il nome della nave a rimorchio, la già citata olkás. 114 Satire, I, 5, 1-24. La navigazione lungo il canale delle Paludi Pontine (il Decennovium), che correva parallelo alla Via Appia, è ricordata con le stesse modalità anche da Strabone (V, 3, 6). 115 Guerra Gotica, I, 26, 12-13. 116 Peruzzi 2014. 117 Bovolenta 1999. 98

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Capitolo 3

LE VELE

3.1. Va’ a l’orza! Le andature delle imbarcazioni a vela Ne ho ancora un ricordo netto, nonostante gli anni trascorsi siano davvero tanti. Era una domenica di ottobre, intiepidita da un pallido sole che conservava ancora un pezzettino di estate. Dovevo avere più o meno dodici anni. Orgoglioso della mia prima barchetta, stavo veleggiando lungo costa col vento al traverso, quando scorsi una vecchia lancia che si avvicinava di prua, una di quelle che un tempo popolavano il nostro Adriatico, con le vele dipinte di ocra e rosso mattone. Ci incrociammo a una distanza di soli venti o trenta metri. Pigramente accomodato alla barra c’era un uomo sulla quarantina, dal viso tondo e gioviale, con una cuffietta di lana in testa. Mi guardò con l’espressione bonaria e mi salutò gridando: va’ a l’orza! Allora lo salutai a mia volta e lui, di nuovo: va’ a l’orza! Era quella un’esortazione che i marinai erano soliti scambiarsi con la voce sonante, quando si incrociavano con le loro barche. Un saluto di buon augurio. Conoscevo il significato di quel saluto, ma non potevo ancora immaginare quanta ragione ci fosse dentro. Era un’esortazione a stringere l’andatura, a risalire verso il vento, che è la cosa più difficile e più faticosa. Chiunque è capace di viaggiare col vento in poppa e perfino al traverso, ma stringere all’orza è un’altra cosa, perché significa mettere in campo tutta la nostra abilità, concentrandosi costantemente sul cammino della barca, per guadagnare quanto possibile al vento. I velisti sportivi dicono che le regate si vincono di bolina. E hanno ragione, perché è un’andatura riluttante, richiede grande attenzione e lascia poco spazio all’errore. Per chi lavorava in Adriatico prima del motore, stringere il vento era ancora più difficile, perché le vele “al terzo”, se è vero che sono molto potenti, sono poco aerodinamiche e patiscono le andature strette. Guadagnare al vento era quindi una necessità, un imperativo costante; perché scendere è facile, si fa sempre in tempo, ma risalire no, costa fatica e bisogna saper sfruttare ogni istante che si presenti favorevole, sapersi arrampicare nell’acqua coi nervi tesi. Va’ a l’orza significa proprio questo: far scorta di cammino contro vento, guadagnare quello spazio di mare necessario per poi lasciarsi trasportare a favore di vento con le reti calate in acqua. Col tempo ho imparato che anche nella vita di tutti i giorni bisogna saper andare all’orza. Perché prima di scendere bisogna salire; perché la difficoltà è formativa; perché le cose più importanti stanno sempre dalla parte che è più difficile da raggiungere, quella che richiede più sforzo e più dedizione, insomma stanno controvento; ed è forse per Le vele

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questo che, in fondo, sono anche le più belle. L’andatura di una barca a vela è il modo con cui essa procede in rapporto alla direzione da cui proviene il vento, definito dall’angolo che si forma tra la direzione di avanzamento della barca e quella del vento. Cinque sono le andature principali (fig. 11). Poppa: quando l’angolo di incidenza tra la direzione del vento e quella dell’avanzamento dell’imbarcazione è di 180°, cioè quando si riceve il Fig. 11. Le andature con la vela quadra. vento, appunto, sulla poppa. Gran lasco: quando l’anglo di incidenza è compreso tra 179° e 135° circa, cioè quando l’imbarcazione prende il vento “al giardinetto”, espressione derivata dal fatto che i lati del castello di poppa dei vascelli, dove si trovavano gli accessi alle stanze degli ufficiali superiori, erano spesso ornati con vasi di fiori e di agrumi, che formavano, appunto, dei giardinetti. Lasco: quando l’angolo di incidenza è compreso tra 134° e 91° circa. Traverso: quando l’angolo di incidenza è di 90° e l’imbarcazione prende il vento “a mezza nave”. Bolina: quando l’angolo di incidenza è compreso tra 89° e 45° circa (per le moderne barche con vele di taglio), andatura suddivisa a sua volta in bolina larga, bolina e bolina stretta. Con la vela quadra è possibile stringere in modo efficace fino a 60° circa. Il nome deriva dall’omonima manovra corrente della vela quadra, costituita da un paranco o da semplici cavi che servono per trattenere verso prua la ralinga della vela, in modo che la barca possa stringere meglio il vento. Le andature di bolina si dicono “strette”, mentre quelle oltre il traverso, fino alla poppa, si dicono “larghe” o “portanti”. Oltre l’andatura di bolina vi è un “angolo morto”, entro il quale non è possibile avanzare con le vele, perché il vento investirebbe l’imbarcazione dritto di prua. Per tale motivo, quando si vuole avanzare contro vento è necessario “bordeggiare”, cioè navigare di bolina cambiando via via di bordo per mezzo di una serie di virate, dunque procedendo con un percorso a zig-zag, essendo il “bordo” o “bordata” un tratto di navigazione di bolina compreso tra due virate. È questo l’unico sistema con cui un’imbarcazione a vela può navigare contro vento, guadagnando faticosamente il suo cammino lungo le diagonali dei bordi. Il vento che investe la vela costituisce la “forza motrice del vento”, che si scompone in altre due forze: la prima, detta “componente utile” o “spinta velica”, si applica in senso all’incirca trasversale alla vela stessa e determina l’effetto di spinta; la seconda, invece, si sviluppa lungo il piano della vela e genera soltanto un certo attrito su di essa. La “componente utile” si scom60

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pone quindi in altre due forze (parallelogramma delle forze): quella orientata parallelamente all’asse longitudinale della barca rappresenta la forza di propulsione, che spinge in avanti lo scafo; quella orientata trasversalmente rappresenta, invece, la forza di scarroccio, che fa scivolare lateralmente, cioè fa scarrocciare l’imbarcazione. Lo scarroccio viene contrastato in misura variabile dai piani di deriva di cui dispone lo scafo, che nelle navi antiche erano rappresentati fondamentalmente dai timoni laterali, dalla chiglia, dalla forma e dall’immersione dello scafo. Più lo scafo si presentava “stellato”, cioè con una sezione acuta e profonda, capace di incidere bene nella massa d’acqua, maggiore era la sua possibilità di contrastare lo scarroccio e, quindi, di stringere il vento. Man mano che si stringe ulteriormente il vento, la forza denominata “componente utile” rimane sempre la stessa, ma nella scomposizione delle altre due forze si avrà una riduzione della forza di propulsione e un incremento della forza di scarroccio. Ora, bisogna considerare che la spinta del vento agisce sulla vela in modo univoco e diretto solo di poppa, mentre se si stringe progressivamente l’andatura, passando al lasco, poi al traverso e infine alla bolina, la situazione cambia in misura via via crescente. Eccetto che nell’andatura di poppa, infatti, il funzionamento delle vele risponde a un principio aerodinamico simile a quello con cui funziona l’ala di un aeroplano, determinato dalla differenza di velocità con cui i filetti d’aria scorrono sulla superficie interna e su quella esterna della vela. È la ragione per cui le vele non sono costituite da una superficie piatta, ma presentano una forma leggermente ricurva, sono sagomate. Quando si riduce l’angolo d’incidenza della vela rispetto al vento, cioè quando si stringe l’andatura, lungo la superficie esterna della vela si genera un effetto di depressione, dovuto alla differenza di velocità con cui le molecole d’aria scorrono sulla superficie esterna e su quella interna. Sul lato sottovento, dunque sul lato esterno, il flusso d’aria subisce un’accelerazione che determina una caduta di pressione, mentre sul lato sopravvento, dunque sul lato interno, subisce una decelerazione che genera un innalzamento della pressione. La risultante della depressione sul lato sottovento raggiunge quindi un valore superiore rispetto a quella della pressione sul lato interno, motivo per cui, nelle andature strette, una vela moderna risulta più “risucchiata” che sospinta dall’azione del vento. Se continuiamo a stringere ancora l’andatura arriveremo a un punto in cui la vela non sarà più in grado di sostenere questo effetto aerodinamico e comincerà a fileggiare, cioè a sbattere come una bandiera e a perdere la sua efficienza. L’imbarcazione entra quindi nell’angolo morto. Come già ricordato, la capacità di stringere più o meno l’andatura, dunque il limite oltre il quale si entra in questo angolo morto, dipende dal tipo e dalle caratteristiche della vela e dalle linee dello scafo.

3.2. La vela quadra antica: efficienza e manovra Qualunque mezzo di trasporto ha i suoi pregi e i suoi difetti, proprio come le persone. Per stabilire quale sia nel complesso il più efficiente, semplificando molto le cose, possiamo sommare, in una scala di valori numerici, tutte le sue qualità positive e poi sottrarre dal totale la somma delle sue qualità negative. Quanto più alto sarà il risultato ottenuto, tanto più alta sarà l’efficienza del mezzo. Resta comunque un risultato incompleto, perché nel conto andrà inserito un altro fondamentale fattore, ovvero lo scopo per cui quel mezzo è stato progettato. Subentra allora l’aspetto “economico” della questione, inteso nel senso Le vele

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più ampio, cioè non solo in relazione ai costi, ma all’impiego razionale dei mezzi disponibili in rapporto all’obbiettivo da raggiungere, quindi in rapporto alle condizioni ambientali, allo sviluppo tecnico e culturale del momento. Trasferendo il ragionamento sul piano nautico e navale, appare chiaro che la nave perfetta non esiste, ma esiste una nave più o meno buona, quella che riunisce il maggior numero di qualità funzionali al lavoro che deve Fig. 12. Grande nave oneraria armata con vele quadre (maestra svolgere, ovvero quella che e vela di prua); bassorilievo su un sarcofago del I sec. d.C. propossiamo considerare “econoveniente da Sidone, Museo Nazionale di Beirut. micamente” migliore. Lo stesso accade per le vele. Se è vero che la vela quadra non può certo considerarsi la più efficiente in quanto ad agilità di manovra e a capacità di stringere il vento, è altrettanto vero che è sempre risultata la più efficace, dunque la più “economica”, in rapporto al tipo di navigazione che svolgevano gli antichi, così come continuerà ad esserlo, con ragioni e sviluppi diversi, per le navi di grande tonnellaggio in epoca medievale e moderna, fino agli inizi del Novecento. Del resto, come vedremo, le navi antiche a vela quadra riuscivano a navigare senza problemi al traverso e anche di bolina larga. Il fatto che non arrivassero a fare una bolina stretta, o che non potessero virare con l’agilità di una barca a vele auriche, era ampiamente ripagato dalla potenza e dalla stabilità che le vele quadre sviluppavano nelle andature larghe, risultando in questo caso insuperabili. La vela quadra, il cui nome non è strettamente indicativo della forma, che poteva essere anche rettangolare, identifica in assoluto la principale attrezzatura velica dell’antichità, pur essendo documentate anche altre tipologie veliche, ma in misura del tutto secondaria1. Le nostre conoscenze si basano fondamentalmente sull’iconografia (fig. 12), mentre le fonti scritte forniscono qualche informazione sui sistemi di manovra. I relitti hanno restituito solo pochi elementi dell’attrezzatura velica, per lo più resti di cordami e componenti lignee delle manovre fisse e correnti (come le bigotte, i bozzelli, i borrelli, gli anelli guida per gli imbrogli delle vele), mentre è del tutto eccezionale la conservazione di tela da vele2. Rari sono anche i rinvenimenti di alberi o di parti dell’alberatura3. Salvo casi eccezionali, infatti, la dinamica formativa dei relitti navali determina la rapida scomparsa di tutte le parti alte dello scafo e delle sovrastrutture, in particolare dell’alberatura e dell’attrezzatura velica. In origine le navi antiche avevano un solo albero posizionato verso centro scafo, a cui si aggiunse poi un piccolo albero a prua, inclinato in avanti4, mentre dall’epoca ellenistica sono attestate anche navi attrezzate con tre alberi. L’albero su cui era armata la vela principale 62

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era sostenuto dalle manovre fisse, lateralmente dalle sartie, longitudinalmente da stralli di prua e di poppa. Gli alberi erano rimovibili o abbattibili, come documentano le iconografie che li raffigurano disarmati e reclinati in coperta, appoggiati su appositi cavalletti (fig. 13). I rinvenimenti archeologici documentano come la scassa d’albero e il Fig. 13. Nave oneraria con l’albero disarmato e reclinato in piede dell’albero potessero coperta; bassorilievo del III sec. d.C. nella Cattedrale di Salerno. avere diverse conformazioni, funzionali alla rimozione o all’abbattimento dell’albero, a seconda che l’albero venisse rimosso sfilandolo in verticale, come doveva accadere nelle navi più grandi, dotate di ponte di coperta ed eventualmente di ponti intermedi, o venisse abbattuto facendolo ruotare col piede nella scassa, come accadeva per le navi più piccole e per le barche5. Nella sua struttura completa, come si presentava in epoca romana, la vela quadra era composta da diversi ferzi di tela cuciti insieme, le cui giunture potevano essere rinforzate con strisce di tela o di pelle (fig. 14). I bordi, invece, erano rinforzati dalle ralinghe, cioè da corde cucite alla tela su tutti e quattro i lati della vela, che nella nomenclatura moderna prendono i nomi di ralinga di testiera (quella orizzontale in alto), di fondo (quella orizzontale in basso), di caduta destra e di caduta sinistra (quelle verticali ai lati). La ralinga di testiera era inferita al pennone, sopra il quale poteva essere armata anche una vela di gabbia triangolare (unica o divisa in due parti). Il pennone era unito all’albero per mezzo della trozza, che doveva essere simile al tipo tuttora in uso nelle barche tradizionali, costituita, cioè, da un collare formato da uno o due giri di corda in cui erano inseriti dei legnetti sagomati che ne favorivano lo scorrimento sull’albero. Veniva issato con la drizza, manovra corrente rinviata nelle pulegge del calcese6, in testa d’albero, mentre dal I sec. a.C. iniziano a comparire due o più amantigli (benché la loro presenza si riconosca già nelle navi egiziane), che servivano per tenere in posizione il pennone e agire su di esso variandone l’inclinazione. Per disporre la vela rispetto al vento si utilizzavano i due bracci e i relativi controbracci, legati alle estremità del pennone, e le due scotte, legate alle bugne negli angoli inferiori della vela. Insieme alla trozza, queste manovre correnti trasmettevano all’albero e alla nave la forza esercitata dalla spinta del vento sulla vela. Per ridurre la vela si impiegavano gli imbrogli, ovvero una serie di cimette che venivano legate alla ralinga di fondo e da qui erano rinviate in alto lungo il lato esterno della vela, fino a raggiungere il pennone; venivano fatte passare in apposite guide, ricavate sul pennone stesso o in anelli cuciti alla ralinga di testiera, per poi essere rinviate verso il basso dietro la vela e infine riunite alla base dell’albero o in coperta, poco più a poppa, dove si trovavano un ponticello o delle gallocce per fermarle. Sul lato esterno della vela gli imbrogli correvano all’interno di appositi anelli guida di legno, Le vele

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Fig. 14. La vela quadra in epoca romana, nomenclatura. 1. braccio e controbraccio; 2. drizza; 3. pennone; 4. amantigli; 5. ralinghe; 6. bugne; 7. scotte; 8. imbrogli; 9. albero; 10. ritenuta della bolina; 11. ferzi che compongono la vela e anelli guida degli imbrogli (cuciti sul lato anteriore della vela); 12. trozza.

cuciti a intervalli regolari lungo linee verticali, corrispondenti alle linee di giunzione dei ferzi. La vela quadra veniva quindi ridotta tirando gli imbrogli, che permettevano di sollevarla dal basso verso l’alto nella misura necessaria, cioè fino a un’altezza intermedia (riduzione parziale) o fino a serrarla completamente al pennone (riduzione totale, vela ammainata), in un modo che ricorda quello con cui oggi solleviamo e abbassiamo una tenda alla veneziana. Anche quella di prua era una vela quadra e serviva non solo per aumentare la superficie velica, ma, data la sua posizione avanzata, anche per correggere il centro velico della nave, ad esempio per contrastare la tendenza orziera quando si navigava stringendo il vento7. Inoltre, questa vela era molto utile per agevolare la manovra di virata in prua, perché, una volta 64

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che l’imbarcazione aveva superato d’abbrivio l’angolo morto controvento, cominciava a portare (cioè a prendere vento e a tirare) prima della maestra, aiutando così lo scafo a girarsi sulle nuove mura e a concludere bene la virata. Era utilizzata anche nelle manovre di partenza e di arrivo in porto, quando la maestra era ammainata. Si è a lungo pensato che l’impiego della vela quadra costringesse le navi antiche a viaggiare solo nelle andature portanti. In realtà non era così. Quelle portanti erano naturalmente le andature più favorevoli, le più produttive nell’economia generale del viaggio, dunque quelle che venivano praticate preferibilmente, soprattutto nelle traversate d’alto mare. Tuttavia, le navi onerarie navigavano normalmente al traverso, senza incontrare difficoltà8. Inoltre, con la vela quadra era comunque possibile stringere ulteriormente il vento, per quanto la navigazione nelle andature strette, come è facile immaginare, comportasse maggiori problemi. Oggi siamo abituati all’idea che l’efficienza di una barca a vela risiede in gran parte nella sua capacità di stringere il vento, dunque nel mantenere una buona performance anche navigando di bolina stretta. Nell’antichità, invece, l’efficienza nautica non era legata a questo presupposto, altrimenti si sarebbero diffuse attrezzature diverse dalla vela quadra. Fondamentali erano infatti la sicurezza e l’economia del viaggio, per cui la vela quadra risultava un’attrezzatura assolutamente efficiente. Stringere il vento oltre un certo limite, diciamo oltre i 60°, poteva diventare molto complicato e anche poco produttivo, non solo per via delle difficoltà tecniche e dei rischi che comportavano le andature molto strette, ma anche per il rallentamento della navigazione dovuto al cattivo rapporto tra avanzamento e scarroccio. Le prove in mare condotte con la Kyrenia II, replica di un mercantile greco del IV sec. a.C., lungo quattordici metri e dotato di uno scafo dalle linee filanti, con prua a tagliamare, hanno dimostrato che questa imbarcazione a vela quadra riusciva a navigare di bolina con angoli fino a 60° al vento, raggiungendo la velocità di oltre due nodi con brezza leggera (forza 2 della scala Beaufort)9. Più recentemente, le prove di navigazione condotte con la Gyptis, replica di una piccola imbarcazione greca del VI sec. a.C., lunga poco meno di dieci metri, hanno fornito ulteriori e importanti informazioni sul rendimento nautico dello scafo, dei timoni e della vela, nei diversi assetti di spinta, cioè a vela, a remi e con doppia propulsione (a vela e a remi contemporaneamente)10. Per esempio, hanno permesso di confermare come la navigazione contro vento richiedesse particolare attenzione e quali fossero i limiti entro cui poteva considerarsi effettivamente produttiva. Se il miglior rendimento in velocità è stato raggiunto al lasco, con andatura compresa tra 120° e 130° rispetto al vento, si è però constatato che in condizioni meteo-marine ottimali, con vento moderato (forza 4 della scala Beaufort) e mare calmo, la Gyptis è riuscita a stringere l’andatura fino a circa 65° al vento, sviluppando velocità intorno a un nodo. Si tratta di risultati molto importanti, che consentono di apprezzare quale poteva essere l’efficienza di una vela quadra antica, ma che non possono considerarsi come valori assoluti, cioè applicabili in senso generale a tutte le imbarcazioni. D’altro canto è ben noto che non era solo l’attrezzatura velica a determinare il rendimento nautico di una barca, perché questo dipendeva in misura fondamentale anche dalle linee dello scafo, dalla sua maggiore o minore immersione, dalla posizione dei timoni e dell’alberatura, tutte caratteristiche che potevano risultare molto variabili. Dal momento che si poteva navigare nelle andature strette, era possibile anche bordeggiare, cioè risalire il vento contrario, ma si trattava di una pratica al di fuori dell’uso corrente, impiegata solo quando non si poteva fare altro, per esempio quando durante un viaggio si Le vele

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Fig. 15a. Vela quadra inclinata in avanti, per stringere il vento, con boline costituite da semplici cavi di tensione della ralinga. 1. ralinga; 2. braccio; 3. boline / cavi di tensione; 4. scotta; 5. alberetto di prua.

Fig. 15b. La bolina nell’armo velico tradizionale “al terzo”.

verificava un imprevisto cambiamento del vento. Del resto, sarebbe davvero riduttivo pensare che i naviganti antichi rinunciassero a stringere al massimo il vento, quindi, se la situazione lo richiedeva, anche a bordeggiare. «Le navi antiche», scrive Laurent Damonte, figlio di pescatori e lui stesso navigante di grande esperienza, nato negli anni Venti del secolo scorso a l’Estaque, porto di un borgo di Marsiglia, «non stringevano certo il vento in modo eccellente, ma dal momento in cui una nave oltrepassa il vento al traverso, fosse anche solo di una quarta11, si può dire che risale il vento. Ciò non significa, evidentemente, riuscire a stringere in modo serrato l’andatura, ma si tratta di approfittare al massimo dei venti favorevoli per guadagnare cammino e di giocare d’astuzia con gli altri venti per non perderne, insomma, per quanto poco, riuscendo sempre a guadagnare qualcosa. Ogni nave ha una propria capacità di stringere l’andatura di bolina e il comando stringi al massimo12 sottointende la parola possibile. Possiamo ritenere certo il fatto che queste navi (antiche, n.d.a.) riuscissero a risalire il vento, perché, se non fosse stato così, non vi sarebbe neppure stata navigazione possibile; inoltre, perché sarebbe assurdo pensare che quella gente, così inventiva su ogni altro aspetto, si sia lasciata soltanto spingere dal vento senza cercare di opporvisi, mettendo in campo l’astuzia necessaria per risalirlo»13. Abbiamo visto sopra che navigando al traverso, e a maggior ragione stringendo ulteriormente l’andatura (bolina larga e bolina), si accentua progressivamente l’effetto dello scarroccio, che tende a spostare la nave in direzione obliqua rispetto alla sua rotta. Nell’economia complessiva del viaggio, come già accennato, si rendeva quindi necessario valutare il momento in cui il rapporto tra l’avanzamento e lo scarroccio dell’imbarcazione iniziava a diventare svantaggioso, cioè quando si cominciava a scarrocciare più di quanto si riusciva ad avanzare verso il vento, considerando che nelle andature strette la vela quadra perdeva rapidamente efficienza aerodinamica. Per stringere il vento bisognava disporre la vela in senso longitudinale rispetto allo scafo e, nel contempo, arretrare il centro velico verso poppa, per rendere l’imbarcazione più orziera (ardente). L’iconografia antica ci mostra che a questo scopo si eseguiva una manovra intuitiva e relativamente semplice: si inclinava il pennone in avanti, soprav66

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vento, in modo da spostare la maggior parte della tela a poppavia dell’albero e, di conseguenza, avvicinare il centro velico ai timoni. Nell’eseguire questa manovra si doveva necessariamente mettere in forza il braccio a prua, per trattenere il pennone, mentre la scotta, anch’essa ben tesata, doveva essere fermata a un anello o a una bitta vicino alla base dell’albero o all’albero stesso, al fine di mantenere ben tesata la ralinga sopravvento, quindi Fig. 16. Nave con vela quadra inclinata verso prua, con cavo di tensione della ralinga che funge da bolina, appala parte anteriore della vela. Nelle rentemente legato a una bitta; particolare di un mosaico andature strette, infatti, il bordo di del III sec. d.C. nella necropoli dell’Isola Sacra, Ostia. entrata della vela svolge un ruolo fondamentale, essendo il primo che viene investito dai filetti d’aria. Per questo motivo l’azione del vento risulta più efficace nella parte anteriore della vela, quella sopravvento, poiché le molecole d’aria che la raggiungono tendono a rimbalzare ostacolando l’ingresso di quelle che seguono, in misura sempre maggiore man mano che si avvicinano al bordo opposto, ovvero al bordo di uscita (la ralinga di caduta sottovento). È importante, allora, che il primo terzo della vela lavori in piena efficienza, perché da questo dipende gran parte della resa complessiva dell’intera vela. Mentre la posizione della vela era assicurata dal braccio e dalla scotta sopravvento, la tensione della ralinga era affidata alla bolina, manovra corrente importantissima, costituita da un paranco o da semplici cavi fermati in punto avanzato della coperta o all’alberetto di prua (fig. 15a-b). Trattenendo verso prua la ralinga, la bolina consentiva di migliorare l’incidenza del bordo anteriore della vela, condizione che ne favoriva l’efficienza aerodinamica e, di conseguenza, la rendeva più atta a stringere il vento. Per questa ragione il nome della manovra passò a identificare anche quello dell’andatura, appunto l’andatura di bolina. Spesso annoverata tra le innovazioni della cosiddetta “rivoluzione nautica” dell’epoca medievale, la bolina era già utilizzata in epoca antica, almeno in una forma semplificata come poteva essere quella rappresentata dai semplici cavi di tensione che si riconoscono nell’iconografia14 (fig. 16). Del resto, è innegabile che gli antichi sfruttassero al massimo le potenzialità della vela quadra, manovrandola in tutti i modi possibili per renderla efficiente in ogni condizione, come lasciano intendere chiaramente sia le fonti scritte che quelle iconografiche. Quando si risaliva il vento bordeggiando era necessario eseguire una serie di virate, per compiere dei bordi ora sull’uno ora sull’altro lato, quindi procedendo con un percorso a zig-zag. Gli antichi Greci definivano il bordeggio col termine peristrofé (giro, rivoltamento) mentre i Latini utilizzavano l’espressione torquere et detorquere (torcere e distorcere, girare e rigirare), riferendosi in entrambi i casi alla manovra della vela per passare alternativamente sui due lati, ovvero al cambiare bordo prendendo il vento ora da un lato e ora dall’altro15. In condizione di tempo buono si poteva virare in prua o in poppa tenendo le vele completamente spiegate16. Per virare in prua si portava la nave quanto più possibile all’orza, Le vele

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quindi, sfruttando l’abbrivio, la si metteva controvento facendo gonfiare la vela al contrario, cioè verso poppa (mettere la vela “a collo”) (fig. 17). A questo punto si portava il timone al centro e si aspettava che la nave iniziasse a indietreggiare; poi lo si portava sul lato opposto, in modo da far scivolare la poppa sottovento e far girare così la nave sulle nuove mura con l’aiuto della vela di prua. In questa fase si calava in acqua il secondo timone, quello che prima era sopravvento e che adesso avrebbe iniziato a lavorare sul nuovo bordo, venendo a trovarsi sottovento ed entrando così in piena efficienza idrodinamica. Dopo che la nave aveva girato percorrendo un breve tratto a marcia indietro, si metteva il timone un poco alla poggia per farla ripartire; quindi, presa velocità, si tornava ad orzare e a stringere l’andatura. A questo punto, normalmente, il timone sopravvento veniva sollevato, perché perdeva efficienza e determinava turbolenza. Affrontando la virata in poppa, invece, si eseguiva un giro di 360°, con una manovra continua e fluente durante la quale la vela continuava a portare e la nave si manteneva in velocità, senza mai fermarsi (fig. 18). Si allargava progressivamente l’andatura fino a trovarsi col vento in poppa; quindi si cambiavano mura, si calava in acqua il timone che prima era sopravvento e che adesso era invece sottovento, poi si cominciava a orzare sul nuovo bordo per mettersi in rotta. La virata in poppa determinava un certo scadimento, a causa del giro che era necessario compiere per portarsi sul nuovo bordo; ma nel complesso, se il vento non era eccessivo, risultava più agevole rispetto alla virata in prua. La preferenza per l’una o per l’altra manovra dipendeva fondamentalmente dalle condizioni meteo-marine, dalle dimensioni della nave, dalle sue qualità nautiche e dal livello di immersione dello scafo. Virare in poppa col vento forte poteva essere molto pericoloso (come lo è tuttora), sia perché le attrezzature venivano molto sollecitate, con conseguenti rischi di rottura, sia perché l’imbarcazione, prendendo velocità e traversandosi al mare, rischiava di perdere stabilità e perfino di rovesciarsi. Per questi motivi, in presenza di vento forte e onda formata è sempre stato più sicuro virare in prua. Diversi autori greci e latini, tra cui ricordiamo Aristotele, Virgilio, Seneca, Lucano, Luciano e Achille Tazio, attestano che la vela quadra poteva essere ridotta per contrastare un vento forte da prua, per mettersi alla cappa o per cercare di migliorare la capacità di risalire il vento17. La manovra consisteva nella parziale riduzione della vela e nella contemporanea inclinazione del pennone in avanti18 (fig. 19). Metà della vela veniva ridotta con gli imbrogli, in misura maggiore nella parte sottovento, quella verso poppa, fino a che la base assumeva un andamento diagonale e la vela, nel complesso, una forma triangolare. Poi, utilizzando il braccio sopravvento e gli amatigli, se presenti, si dava al pennone una forte inclinazione verso prua, tesando la ralinga con la scotta ed eventualmente anche con la bolina. Il braccio rimasto sottovento era invece utilizzato per contrastare la spinta nella parte alta della vela e, se necessario, per esempio sotto l’effetto di una raffica, poteva essere allentato per sventare, cioè per scaricare parzialmente la pressione. Se poi il vento raggiungeva una forza tale da mettere a rischio la stabilità dell’imbarcazione, allora si poteva abbassare il pennone lungo l’albero e inclinarlo ancora di più in avanti, in modo tale da abbassare e arretrare ulteriormente il centro velico. Alcuni graffiti di Delos del I sec. a.C. sembrano rappresentare un sistema di riduzione della vela quadra simile a quello appena descritto, ma realizzato partendo dall’altra metà della vela, cioè riducendo la tela nella parte che si trovava a prua dell’albero19 (fig. 20a-c). Di conseguenza, la base assumeva un andamento diagonale e la vela sempre una forma triangolare, ma opposta rispetto a quella descritta sopra. Inclinando il pennone in avanti e 68

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Fig. 17. Virata in prua con la vela quadra.

Fig. 18. Virata in poppa con la vela quadra.

trattenendolo col braccio messo in forza a prua, si raddrizzava la base della vela, che raggiungeva una posizione leggermente obliqua o quasi orizzontale. Entrambi i sistemi di riduzione determinavano però un pesante inconveniente, poiché lungo la base della vela si creava un accumulo di tela che aumentava progressivamente da un’estremità all’altra, risultando minimo presso la ralinga lasciata distesa e massimo presso la ralinga che veniva serrata al pennone, con evidenti effetti negativi sul piano aerodinamico. Tuttavia, tali effetti doveLe vele

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Fig. 19. Manovra di riduzione della vela quadra basata sull’interpretazione delle fonti scritte.

vano risultare secondari rispetto al vantaggio che queste manovre potevano offrire nell’affrontare il vento forte, nel mettersi alla cappa o soltanto nel cercare di stringere al massimo l’andatura. Certamente, non si trattava in assoluto delle soluzioni migliori, ma dei migliori compromessi possibili nel rapporto tra le necessità contingenti e i mezzi a disposizione. Infine, vale la pena anticipare che, con ogni probabilità, i sistemi di riduzione descritti costituirono il presupposto per lo sviluppo di una nuova tipologia velica. È verosimile, infatti, 70

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Fig. 20a. Graffiti di Delo, I sec. a.C. , che mostrano la riduzione della vela quadra nella parte verso prua.

Fig. 20b. Riduzione parziale della vela quadra nella parte verso prua. 1. braccio; 2. scotta.

Fig. 20c. Riduzione completa della vela quadra nella parte verso prua. 1. braccio.

che la pratica di ridurre la vela quadra in una forma trapezoidale o triangolare sia direttamente collegata con la nascita della vela latina nel Mediterraneo.

3.3. La vela a tarchia Lo studio delle fonti in materia di tipologie veliche antiche, in primo luogo lo studio dell’iconografia, impone di considerare due fattori basilari, uno di carattere qualitativo e uno di carattere quantitativo20. Sul piano qualitativo va tenuta in conto la discrezionalità degli Le vele

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artisti (scultori, pittori, incisori, mosaicisti) nel scegliere i soggetti navali da raffigurare, a cui si aggiungono gli errori che possono essere intervenuti nella resa del disegno. È necessario, dunque, valutare il livello di stilizzazione e di interpretazione determinati della maggiore o minore competenza dell’artista in fatto di navi e di attrezzature, le esigenze figurative sul piano stilistico, prospettico e di inquadramento generale del soggetto, l’impiego di modelli Fig. 21. Nave armata con vela a tarchia; particolare del bas- o di cartoni più o meno standarsorilievo di un sarcofago proveniente da Ostia, III sec. d.C., dizzati, tutti aspetti che dipendono in larga misura dalla comconservato nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. mittenza dell’opera e che possono pesare in diversa misura sull’accuratezza tecnica della raffigurazione21. Un rudimentale graffito tracciato dalla mano di un marinaio, per esempio, può risultare molto più preciso nel descrivere le caratteristiche tecniche dello scafo e dell’attrezzatura velica rispetto a un raffinato dipinto parietale o a una raffigurazione vascolare eseguita da un pittore professionista. A questo riguardo è interessante il caso del Piazzale delle Corporazioni di Ostia, dove i pavimenti a mosaico degli ambienti circostanti il piazzale, che ospitavano gli “uffici” delle compagnie commerciali, sono decorati con numerose raffigurazioni di navi22. In questo caso, evidentemente, il contesto e la committenza hanno giocato un ruolo fondamentale anche per la qualità delle immagini. Pur essendo disegni semplici e stilizzati, infatti, tanto gli scafi quanto le vele dovevano corrispondere alla realtà, quindi essere ben riconoscibili nei loro tratti essenziali, dal momento che questo era un luogo frequentato da professionisti della navigazione e del commercio marittimo, gente che ben conosceva le navi e che, certamente, avrebbe subito colto gli eventuali errori. Questo fatto, come vedremo, assume un significato particolarmente importante per quelle raffigurazioni in cui compaiono delle vele strane, dalle forme particolari, in quanto ci obbliga a non liquidarle semplicemente come errori del mosaicista. Sul piano quantitativo constatiamo che la documentazione relativa alla vela quadra risulta assolutamente dominante rispetto a quella delle altre tipologie veliche, in una percentuale che, per dare un’idea, possiamo considerare del 90%. Le grandi navi, del resto, quelle che ebbero maggiore dignità di rappresentazione sia a livello artistico che simbolico, armavano normalmente la vela quadra, mentre la sperimentazione e l’impiego di tipologie veliche diverse sembra ricondurre per lo più alle imbarcazioni minori; motivo per cui la vela quadra identificò in senso generale la nave, come riferimento imprescindibile nell’immaginario comune. Del resto, questa identificazione rappresentava effettivamente la realtà, trattandosi del tipo di attrezzatura che meglio rispondeva ai princìpi e alle necessità della navigazione antica, dunque alla sua “economia”, motivo per cui era in assoluto la più diffusa. 72

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Tra le tipologie veliche di diffusione secondaria, quella meglio documentata è la vela a tarchia, la cui presenza nell’iconografia antica è attestata da diversi bassorilievi, databili tra il II sec. a.C. e il III sec. d.C. Curiosamente, sono tutti distribuiti nelle regioni settentrionali dell’Egeo e nel Mar di Marmara, ad eccezione di quello che compare su un sarcofago del III sec. d.C. proveniente da Ostia, conservato nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen23 (fig. 21). L’introduzione di questo armo è probabilmente più antica della sua prima attestazione iconografica, rappresentata da una stele del II sec. a.C. conservata nel Museo di Thasos (fig. 22), perché, come vedremo più avanti, la vela a tarchia deriva verosimilmente dalla tradizione delle vele “a pertiche”, attrezzature semplici e di concezione arcaica che conobbero una lunga sopravvivenza nel tempo. Sul piano tecnico Fig. 22. Vela a tarchia in una stele del II sec. l’evoluzione dovette risultare abbastanza natua.C. conservata nel Museo Archeologico di rale, nel momento in cui ci si rese conto che la Thasos, in Grecia. vela poteva essere manovrata liberamente, con ogni angolazione, se il suo lato anteriore veniva direttamente collegato ad una sola delle due pertiche, che assumeva così la funzione di albero. La seconda pertica, invece, avrebbe assunto la funzione di sostegno dell’estremità della vela, in alto verso poppa, trasformandosi quindi nella livarda, cioè nell’asta obliqua che serviva per mantenere distesa la vela. Non è possibile sapere quando venne effettivamente introdotta la vela a tarchia, dal momento che la sua prima chiara attestazione, la stele di Thasos del II sec. a.C., rappresenta cronologicamente un punto di arrivo dell’evoluzione di questo armo velico. Non è escluso, dunque, che la sua origine sia precedente, come potrebbe Fig. 23. Raffigurazione schematica della vela indicare una schematica iconografia di contesto a tarchia. 1. livarda, o balestrone o struzza. 2. punico databile tra il IV e il III sec. a.C., di cui braccio sopravvento. 3. braccio sottovento. 4. tratteremo più avanti. scotta. La vela a tarchia appartiene alla famiglia delle vele auriche, che sono vele assiali o di taglio, di forma rettangolare o trapezoidale, sostenute in punta da un’asta diagonale, appunto la livarda, detta anche balestrone o struzza (fig. 23). Questo tipo di attrezzatura veniva Le vele

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armato prevalentemente sulle imbarcazioni minori, come attesterebbe la maggior parte delle iconografie antiche e come accadeva ancora in età moderna, oltre che nella marineria tradizionale, mentre solo in rari casi lo incontriamo impiegato in piccoli velieri, tra il XVII e il XIX secolo24. Per l’antichità, tuttavia, la più nitida raffigurazione di un armo a tarchia, quella che compare nel sarcofago di Ostia, lascia pensare che questa vela Fig. 24. Gozzo sorrentino di Marina Grande, armato con vela a fosse utilizzata anche su imtarchia (2000). barcazioni di medio tonnellaggio. In questo straordinario bassorilievo, che secondo l’attenta lettura di Lionel Casson raffigura con grande verismo una manovra in atto all’imboccatura di un porto, probabilmente il Portus Romae25, l’imbarcazione con vela a tarchia è rappresentata tra due navi con vela quadra, le cui caratteristiche formali riconducono a scafi di medie o grandi dimensioni, secondo i canoni di quelle riprodotte nelle iconografie di età imperiale. Le proporzioni e la struttura dei tre scafi risultano tra loro simili, il che permette di ritenere che fossero simili anche nella realtà, comunque non radicalmente diverse. Appare infatti difficile pensare che l’artista, così preciso nel rappresentare la manovra, non abbia evidenziato una sostanziale differenza di stazza tra gli scafi, se vi fosse stata effettivamente. Va inoltre considerato che anche il bassorilievo della stele di Çemberli-Taş (I-II sec. d.C.) sembra raffigurare un’imbarcazione con vela a tarchia piuttosto grande, come indicherebbe la struttura dello scafo. Sulla base dei documenti figurati possiamo rilevare che la vela a tarchia antica appare del tutto simile a quella tradizionale (fig. 24). Il bordo di entrata della vela, dunque la ralinga anteriore, era direttamente inferito all’albero, che, a sua volta, era posizionato a prua dell’imbarcazione. Di conseguenza, la vela si sviluppava tutta a poppavia dell’albero e, se presenti, lavorava all’interno delle sartie, avendo così una grande libertà di movimento e la possibilità di essere disposta senza problemi in senso longitudinale rispetto allo scafo. L’estremità inferiore della livarda era fermata di punta alla parte bassa dell’albero, mentre quella superiore era legata, sempre di punta, all’angolo della vela in alto verso poppa. Veniva manovrata per mezzo di una sola scotta, con la quale cooperavano i due bracci, che servivano per contrastare la spinta del vento nella parte alta. Normalmente, rendeva meglio su uno dei due bordi, perché quando la livarda veniva a trovarsi sottovento la vela vi premeva contro e la sua superficie si deformava. Come si è detto, la vela del bassorilievo di Ostia risulta particolarmente dettagliata. Sono evidenziate le linee di cucitura dei ferzi, le ralinghe e i due bracci, mentre la livarda, appena 74

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riconoscibile in secondo piano, si distingue con corretto senso prospettico se si osserva di scorcio la vela, lateralmente da sinistra. Si tratta, in definitiva, di una vela molto efficiente sul piano aerodinamico, di manovra più semplice e più agile rispetto alla vela quadra, che permetteva di stringere bene il vento e di bordeggiare agevolmente, con l’ulteriore vantaggio di poter essere gestita da un singolo marinaio (nelle imbarcazioni minori) o, co- Fig. 25. Nave armata con due vele a tarchia, nella stele di Çemmunque, da un equipaggio berli-Taş, I-II sec. d.C., Museo Archeologico di Istanbul. molto ridotto (nelle navi). La stele di Çemberli-Taş rappresenta un particolare tipo di armo con doppia vela a tarchia o a doppia livarda, che permetteva di raddoppiare la superficie della tela quando si navigava nelle andature portanti, di poppa o al lasco26 (fig. 25). Si tratta di un tipo di armo poco documentato, che trova però significativi confronti nell’iconografia del XIX secolo, anche in rapporto col settore marittimo del Bosforo, dunque con un’area geografica prossima a quella da cui proviene la stele antica. Si potrebbe allora pensare all’esistenza di una tradizione nautica locale, di lunghissima durata, tipica dell’Egeo settentrionale, del Mar di Marmara, dell’area del Bosforo e dei Dardanelli, dove questa vela potrebbe anche aver avuto origine, comunque maggior diffusione. D’altro canto, risulta interessante constatare che in epoca moderna una delle imbarcazioni più grandi armate a tarchia, la sacoleva, era tipica del Mediterraneo orientale e, in particolare, dell’Egeo e del Mar Nero. Non si può escludere, allora, che le particolari condizioni dei venti e delle correnti marine in questi settori di mare abbiano favorito lo sviluppo e la diffusione della vela a tarchia, dotata di maggiore efficienza aerodinamica rispetto alla vela quadra. Una vela, dunque, che consentiva di stringere al massimo l’andatura, di virare e bordeggiare agevolmente, funzionale a risalire contro vento e contro corrente all’interno degli stretti e nel Mar di Marmara, bacini notoriamente difficili per la navigazione a vela27. In quanto alle imbarcazioni su ci era utilizzata questa vela, è probabile che si trattasse principalmente di barche da pesca e piccole onerarie destinate al cabotaggio, ma anche di imbarcazioni a servizio dei porti e in appoggio alle grandi navi, sia da trasporto che militari; grazie alla loro agilità di manovra, potevano quindi svolgere la funzione di barche-pilota, garantire i rifornimenti e i collegamenti alle navi ormeggiate in rada, oltre che eseguire l’allibo. All’evidenza iconografica si aggiunge quella più tarda fornita da due relitti bizantini rinvenuti a Yenikapý, Istanbul, sul Mar di Marmara, datati su base stratigrafica al X sec. d.C. Si tratta in entrambi i casi di piccole imbarcazioni, la cui lunghezza originale doveva essere compresa tra 8 e 10 m. Nel relitto Yenikapý 6 la scassa d’albero è posizionata alLe vele

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l’estremità di prua dello scafo, caratteristica in base alla quale si deduce che la barca armava verosimilmente una vela a tarchia28. L’uso di questo armo velico è stato ipotizzato anche per il relitto Yenikapý 24, che però si presenta mutilo delle estremità dello scafo e la cui scassa d’albero è stata rinvenuta dislocata dalla sua posizione originale29. Infine, vale la pena soffermarsi un momento sul contesto africano, in cui sono attestate due immagini di probabile vela a tarchia, in realtà molto stilizzate, provenienti rispettivamente dalla Tunisia e dal Marocco meridionale, oltre a un modellino di scafo in terracotta sempre dalla Tunisia. Di questi tre documenti, Fig 26. L’imbarcazione raffigurata nella tomba punica l’unico con un contesto archeologico certo è rappresentato dalle decorazioni di Djebel Mlezza. parietali della tomba n. 8 della necropoli punica di Djebel Mlezza al Capo Bon, in Tunisia, databile tra il IV e il III sec. a.C. Sulla parete ovest di questa tomba è dipinta in modo estremamente schematico un’imbarcazione con vela assiale (fig. 26), che si sviluppa in senso longitudinale allo scafo e col lato anteriore inferito all’albero, che è armato all’estremità di prua. Effettivamente, considerando la posizione dell’albero e quella della vela, sembra trattarsi della di una vela a tarchia30. Il modellino in terracotta proviene invece da Cartagine (fu rinvenuto a Feddina el Behina) ed è conservato nel MuFig. 27. Il modellino di imbarcazione in terracotta sée de la Marine di Parigi; ha una lunda Feddina el Behina, Cartagine, conservato nel ghezza di 35 cm e presenta una Museo della Marina a Parigi. particolare cura dei dettagli31 (fig. 27). Non vi sono informazioni certe sul contesto di rinvenimento e sulla cronologia del reperto, che in via ipotetica può essere considerato tardo-punico o neo-punico. Il modellino rappresenta un’imbarcazione da trasporto con la ruota di prua inclinata in avanti, dal basso verso l’alto, e il dritto di poppa quasi verticale. Il ponte di poppa è sostenuto da due puntelli che poggiano direttamente sul fondo dello scafo, mentre quello di prua 76

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Fig. 28. Graffito navale scoperto presso lo uadi Draa, Marocco meridionale. A sinistra, secondo l’interpretazione di A. Jodin (Les établissements du roi Juba II aux îles Purpuraires (Mogador), Tanger 1967); a destra, secondo un fedele calco realizzato su base fotografica da V. Guerrero (2008).

presenta due puntelli che si appoggiano su un ponte inferiore, a sua volta sostenuto da un puntello che insiste sul paramezzale. La presenza di un doppio ponte, almeno a prua, potrebbe indicare che il modellino rappresenta un’imbarcazione piuttosto grande, anche se l’estensione della coperta, limitata alle estremità di prua e di poppa dello scafo, e l’ampia apertura centrale per l’accesso alla stiva lascerebbero pensare a una barca. Sul ponte di prua si trova un foro rettangolare con gli angoli arrotondati, interpretato come la mastra per l’alloggiamento dell’albero. La sua posizione, fortemente decentrata verso prua, rappresenta un aspetto indubbiamente significativo, perché indica con buona probabilità che l’imbarcazione armava una vela a tarchia. La seconda iconografia citata è un graffito scoperto presso lo uadi Draa, sul versante atlantico del Marocco meridionale32 (fig. 28). Come spesso accade per i graffiti, non vi sono elementi di contesto in grado di fornire un inquadramento certo a livello cronologico e culturale. In base alle caratteristiche della nave (in particolare il timone laterale e la grande vela quadra) il graffito può essere ricondotto ad epoca antica non meglio precisabile, mentre per quanto riguarda il contesto culturale, in una più ampia lettura storica sulle dinamiche della navigazione antica lungo le coste atlantiche dell’Africa, si può ipotizzare che si tratti dell’immagine di un’imbarcazione di provenienza “mediterranea”, tracciata dalla mano di un indigeno. In realtà, l’importanza di questo graffito non risiede solo nella nave, ma nel complesso della scena. Quella riprodotta è una nave da carico alla fonda, con lo scafo visto di profilo e la prua rivolta a sinistra. La grande vela quadra è raffigurata completamente distesa in senso longitudinale, ma con una prospettiva frontale. A poppa, all’estremità destra dello scafo per chi guarda, si riconosce gran parte della pala del timone laterale di dritta (il resto della pala rimane nascosto dallo scafo), sollevato in posizione di riposo, come effettivamente ci aspetteremmo per una nave ancorata alla fonda. L’elemento più significativo sta però nel fatto che accanto all’imbarcazione maggiore, presso la poppa, è raffigurata in modo estremamente schematico una barca di servizio che presenta, all’estremità destra dello scafo, un’asta verticale a cui è unito un elemento rettangolare simile a una bandiera, rivolto verso sinistra. La barca, dunque, procede verso destra, in direzione opposta a quella in cui è rappresentata la Le vele

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nave. Concordiamo con Victor Guerrero Ayuso nell’identificare questo elemento con una vela a tarchia, resa secondo un’impostazione formale simile a quella della barchetta di Djebel Mlezza. Il graffito dello uadi Draa sembra dunque rappresentare una scena di allibo33, cioè il trasbordo delle merci su un’imbarcazione più piccola, che era in grado di prendere terra. La morfologia della costa, la batimetria e le condizioni meteo-marine del litorale presso la foce dello uadi Draa determinarono, verosimilmente, la scelta di ancorare la nave a una certa distanza da riva, alla fonda oltre i frangenti e i bassifondi, mentre una barca di servizio, più agile e con basso pescaggio, faceva la spola tra la nave stessa e la terraferma. Considerando le condizioni ambientali di questo tratto della costa marocchina, l’impiego di una vela assiale avrebbe certamente favorito il tragitto della barca da terra verso la nave, dunque verso il largo, perché si sarebbe trovata ad affrontare il mare in prua e venti prevalentemente contrari. Tale manovra corrisponde perfettamente a quanto ricorda un passo dello Pseudo Scilace34 relativo ai mercanti fenici che si recavano presso l’isola di Cerne, identificata con l’attuale Mogador sulla costa atlantica del Marocco, dove le grandi navi da trasporto venivano lasciate alla fonda e si procedeva a sbarcare il carico per mezzo di piccole imbarcazioni35. Chiaramente documentata a partire dal II sec. a.C., ma senza escludere che la sua introduzione possa essere precedente, la vela a tarchia sembra aver conosciuto un impiego piuttosto limitato, almeno in base alla documentazione esistente. Questo fatto potrebbe lasciarci sorpresi, considerando che, rispetto alla vela quadra, necessitava di un’attrezzatura più semplice, consentiva di essere manovrata da un equipaggio ridotto, permetteva di risalire bene il vento e di bordeggiare agevolmente. Sembrerebbe dunque più vantaggiosa, cosa che da un certo punto di vista è senza dubbio vera. Come abbiamo visto, si tratta di un tipo di vela adatto sostanzialmente a imbarcazioni di medie o piccole dimensioni, che nelle andature portanti non poteva certo sviluppare una spinta pari a quella di una vela quadra, a meno di non usare un armo a doppia livarda, per raddoppiare la superficie. Dovremo però considerare il fatto che il punto di vista dipende sostanzialmente dalla nostra visione del problema. Tanto nel contesto degli studi quanto, soprattutto, in quello della divulgazione, l’attenzione si è infatti concentrata, erroneamente e troppo a lungo, sulla scarsa capacità della vela quadra di stringere il vento, giungendo perfino a considerare questo armo efficiente solo nelle andature portanti, di poppa e al lasco. Una visione forse influenzata anche dalle prestazioni delle moderne barche a vela con armo aurico o bermudiano, che ci hanno abituato a ritenere indispensabili le capacità di stringere al massimo il vento e di bordeggiare con agilità. L’evoluzione dell’armo velico nel mondo antico, invece, non sembra aver avuto come presupposto la capacità di stringere il vento, per lo meno non come presupposto principale, altrimenti avremmo assistito ad una più consistente affermazione della vela a tarchia. In effetti, la vela quadra è risultata per molti secoli la più “economica”, ovvero la più efficiente e adeguata in rapporto alle modalità della navigazione antica, al punto che verrà progressivamente sostituita da quella latina di forma trapezoidale (settee sail) solo tra l’epoca tardoantica e quella altomedievale. Un cambiamento, come vedremo nel prossimo paragrafo, che fu determinato non tanto dalla ricerca di un armo velico in grado di stringere meglio il vento, ma, piuttosto, dalla sua economia di allestimento e di esercizio. 78

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3.4. La vela latina Capita alle volte che scopriamo il vero carattere di una persona all’improvviso e ne restiamo sorpresi, come di un fulmine a ciel sereno. La vediamo trasformarsi d’un tratto, apparentemente senza preavviso, e la percepiamo come una rivoluzione. Poi, facendo un’anamnesi dei suoi comportamenti nel corso del tempo passato, ci rendiamo conto che era tutto, o in parte, già prevedibile, che quel cambiamento improvviso era già preannunciato. Soltanto non si erano verificate le circostanze perché potesse – diciamo così – scatenarsi. In un modo per certi versi simile, si è a lungo pensato che la vela latina fosse apparsa nel Mediterraneo all’improvviso, in epoca altomedievale. Ma i segnali della sua comparsa, in realtà, erano già presenti nel modo con cui gli antichi manovravano la vela quadra. Per descrivere l’armo latino possiamo rivolgerci a quello tradizionale, che risulta del tutto simile a quanto si riconosce nell’iconografia antica e, soprattutto, in quella altomedievale36. L’albero è armato sia in posizione inclinata in avanti che in posizione verticale e può essere collocato a centro scafo, ma normalmente è più o meno decentrato verso prua, secondo il tipo di imbarcazione. La vela, come noto, ha forma triangolare, simile a quella di un triangolo rettangolo, ma esiste anche un tipo che potremmo definire “arcaico”, di forma trapezoidale, cioè con una corta ralinga di prua; un tipo ben attestato nel Mediterraneo orientale, oltre che nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano, denominato settee sail dagli studiosi di lingua inglese37 (fig. 29a-b). Il bordo superiore, quello più lungo, viene denominato antennale ed è inferito a una lunga antenna (l’equivalente del pennone della vela quadra), che assume una posizione molto inclinata in avanti. Le manovre correnti sono costituite dalla scotta, legata alla bugna della vela (nell’angolo in basso verso poppa), che serve per orientare la vela stessa rispetto al vento; dalle oste, collegate al tratto più alto dell’antenna, verso poppa, che servono per contrastare la spinta del vento nella parte alta della vela, evitando che tenda ad allargarsi sottovento. Vi sono poi le due manovre che servono per controllare il punto nevralgico all’estremità anteriore dell’antenna, chiamata carro. Queste manovre sono l’orza e la poggia, due paranchi funzionali a trattenere il carro in punta, saldamente verso prua, sia in senso laterale che longitudinale, scambiandosi il nome secondo il bordo in cui si naviga: orza quando è sopravvento, poggia quando è sottovento. L’armo latino può inoltre prevedere anche la bolina, che trattiene a prua il carro, e il caricabasso, paranco fissato sempre in punta sul carro, che serve per trattenerlo inclinato in basso, evitando che sfugga in avanti facendo ruotare l’antenna. Poiché lavora lateralmente all’albero, la vela latina rende meglio sul bordo con l’albero sopravvento, perché può distendersi liberamente sottovento, senza incontrare ostacoli. È questa l’andatura più efficiente, tradizionalmente definita “alla buona”. Sul bordo opposto, invece, la vela lavora “a ridosso”, cioè preme sull’albero, per cui la sua superficie si deforma e si riduce di conseguenza la sua efficienza aerodinamica, in modo simile a quanto accade con la vela a tarchia quando preme contro la livarda. In condizioni di vento leggero, però, è possibile ovviare a questo inconveniente, soprattutto con le piccole imbarcazioni. Si può infatti virare facendo passare l’antenna davanti all’albero, cioè spostando tutta l’attrezzatura sul nuovo bordo, manovra che consente alla vela di lavorare sempre libera, senza premere sull’albero. Grazie a questa manovra la barca potrà navigare sempre su bordi “alla buona”. L’introduzione della vela latina nel Mediterraneo rappresenta un problema complesso e a lungo dibattuto38, che vale la pena ripercorrere nelle sue tappe principali. Lo sviluppo Le vele

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Fig. 29a. Vela latina di forma trapezoidale (settee). 1. antenna; 2. orza (sopravvento); 3. poggia (sottovento); 4. osta sopravvento; 5. scotta; 6. linee dei terzaroli; 7. ritenuta.

Fig. 29b. Vela latina triangolare. 1. antenna; 2. orza (sopravvento); 3. poggia (sottovento); 4. osta sopravvento; 5. scotta; 6. linea di terzarolo.

degli studi si è progressivamente confrontato con l’acquisizione di nuovi documenti iconografici, grazie ai quali è oggi possibile precisare le dinamiche che hanno portato allo sviluppo di questo armo velico. L’ipotesi secondo cui la vela latina sarebbe comparsa nel Mediterraneo orientale almeno nel VI sec. d.C., come già proponeva Auguste Jal nella metà dell’Ottocento39, fu più tardi contestata sulla base dell’analisi iconografica40, ma venne poi ripresa alla luce di un passo di Procopio in cui si fa riferimento a quello che sembra essere il vertice superiore di una vela triangolare, cioè l’angolo di penna41. In ogni caso, sembra ormai superata l’idea che la vela latina sia stata introdotta nel Mediterraneo dagli Arabi in epoca altomedievale. Come vedremo, si può invece ritenere probabile un incontro di tradizioni, che trovò nel Mediterraneo orientale il suo naturale contesto storico e geografico. Il problema venne ripreso da Lionel Casson con l’analisi della già nota stele funeraria di Alessandro di Mileto, proveniente dal Pireo e datata nel II sec. d.C. Vi compare in bassorilievo un’imbarcazione che arma una vela apparentemente di forma triangolare, inferita a quella che sembra essere un’antenna leggermente arcuata e inclinata verso prua di circa 45° rispetto all’albero42. L’interpretazione di Casson, che riconosce in questa immagine la rappresentazione di una vela latina, ha incontrato diverse obiezioni43. Tuttavia, pur considerando che la posizione inclinata della presunta antenna potrebbe anche ricordare quella del pennone di una vela quadra bordata a prua44, forse parzialmente ridotta, alla luce di più recenti scoperte sono emersi validi elementi per ritenere che il bassorilievo rappresenti effettivamente una vela latina di forma trapezoidale, con una corta ralinga di prua, del tipo denominato settee45 (fig. 30). Del resto, come si è visto sopra, sappiamo che la vela quadra poteva essere ridotta fino a farle assumere una forma trapezoidale o triangolare, agendo con gli imbrogli sulla metà anteriore o su quella posteriore, quindi inclinando il pennone in avanti. La riduzione della metà anteriore è documentata a livello iconografico almeno dal I 80

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sec. a.C., mentre quella della metà posteriore è attestata dalle fonti scritte a partire dal IV sec. a.C. Questi due sistemi di riduzione della vela quadra lasciano intendere che, all’interno del Mediterraneo, il processo di sviluppo della vela latina avvenne in un periodo precedente alle prime chiare attestazioni di epoca tardoantica e altomedievale. Dovremo quindi considerare la possibilità che la vela latina esistesse già prima del V sec. d.C., come sembrerebbero indicare la stele di Alessandro di Mileto e altri indizi. La discussione è proseguita con un successivo intervento di Casson, in cui lo studioso americano pubblicò un nuovo documento iconografico, un graffito inciso su un frammento di terracotta rinvenuto nell’isola di Thasos46 (fig. 31). Il graffito presenta notevoli problemi di datazione, dal momento che lo stesso Casson, pur non escludendo un’attribuzione ad epoca ellenistica, colloca intorno al 300 d.C. il possibile limite basso a cui riferirlo. Ad alcuni anni di distanza, Lucien Basch riprese il problema, confermando che il graffito di Thasos riproduce senza dubbio una vela latina e precisando che il supporto è costituito da un frammento di tegola, il cui luogo di provenienza sull’isola e la cui datazione non sono però precisabili, pur ponendo un terminus ante quem intorno al 600 d.C.47. Anche il confronto con altre iconografie non appare risolutivo, motivo per cui Basch invita alla prudenza, sottolineando che il graffito di Thasos non può essere considerato come una prova certa, senza per altro rigettare le ipotesi di Casson riguardo all’introduzione della vela latina nell’Egeo prima del 300 d.C.48 Un terzo documento iconografico preso in considerazione da Casson è l’im-

Fig. 30. Probabile vela latina trapezoidale (settee) raffigurata nella stele di Alessandro di Mileto, II sec. d.C. , proveniente dal Pireo e conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Fig. 31. Vela latina in un graffito su terracotta da Thasos, cronologia imprecisata (anteriore al 600 d.C. o al 300 d.C. ).

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magine di un’imbarcazione con vela apparentemente triangolare (la parte superiore è purtroppo tagliata), riprodotta in un riquadro a mosaico con paesaggio marittimo che si conserva nel Museo Archeologico di Venezia (fig. 32), probabile opera di officina aquileiese databile nel IV sec. d.C.49 Anche in questo caso le obiezioni avanzate da Basch appaiono pertinenti, sia riguardo al fatto che il mosaico sembra aver subito interventi di restauro, che potrebFig. 32. Particolare dell’imbarcazione raffigurata nel mosaico bero aver modificato l’immagine del Museo Archeologico di Venezia, IV sec. d.C. La resa molto stilizzata e il taglio della parte alta della vela, che esce originale, sia perché la barca non dalla cornice del riquadro, rendono incerta l’identificazione presenta traccia dell’albero. Pur con una vela latina, pur presentando la vela stessa una ipotizzando che la vela sia raffiforma apparentemente triangolare. gurata nell’andatura “a ridosso”, dunque con l’albero nascosto sottovento, ci aspetteremmo che la sua presenza fosse comunque evidenziata, magari per mezzo di una semplice linea d’ombra resa con tessere di colore più scuro, dal momento che in questa andatura l’albero sarebbe risultato comunque ben riconoscibile per la forma che la vela assumeva premendovi contro. In sostanza, il mosaico di Venezia costituirebbe un documento non sufficientemente chiaro per identificare una vela latina, per quanto la forma triangolare costituisca una forte suggestione in tal senso. Non si può escludere, d’altro canto, che il mosaicista avesse inteso rappresentare una vela quadra bordata a prua, col pennone inclinato in avanti, o una vela quadra ridotta nella parte verso poppa e poi inclinata verso prua, riproducendo la manovra di cui parlano le fonti scritte. In ogni caso, la rappresentazione risulta così stilizzata da renderne incerta la lettura. Oltre che sulle fonti iconografiche, Casson ha posto l’attenzione anche su una lettera di Sinesio di Cirene50, in cui è narrato un tormentato viaggio per mare da Alessandria a Cirene, intrapreso dallo stesso Sinesio nei primi anni del V secolo d.C.51. Nel corso della tempesta che investì la nave, i marinai cercarono di ridurre la vela, senza però riuscirci, ed è in tale contesto che il nostro viaggiatore-narratore descrive dei tentativi di manovrarla che sembrerebbero perlomeno strani se messi in relazione con una vela quadra, mentre risulterebbero coerenti se considerati in relazione con una vela latina. Nel primo caso, i marinai non riuscirono a sostituire la vela principale con una “bastarda”, cioè con quella che potrebbe identificarsi con una più piccola vela da maltempo, nota anche come “sampietra” nell’armo latino52. La sostituzione della vela poteva infatti risultare vantaggiosa rispetto alla sua riduzione, motivo per cui, per esempio, a bordo delle galee del XIV-XV secolo venivano tenute vele di diverse dimensioni, da utilizzare secondo le differenti condizioni meteo-marine. Sulle navi con armo latino, infatti, la manovra di riduzione della vela era molto complessa e pe82

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ricolosa, soprattutto se era necessario eseguirla durante una tempesta, poiché i marinai dovevano salire a riva per legare la tela (cioè salire sull’antenna, come accadeva nel naviglio maggiore), oppure abbassare l’antenna ad altezza d’uomo, affinché potessero lavorare stando sul ponte. Questo accadeva perché nella vela latina le mani di terzaroli si prendevano e si prendono tuttora dall’alto, a partire dall’antenna. Il mosaico di Kelenderis, su cui torneremo tra breve, conferma che nel V sec. d.C. la vela latina di forma trapezoidale aveva una fila di matafioni nella parte alta della vela, Fig. 33. Imbarcazione con vela latina nella pittura sotto l’antenna, ma attesta anche parietale di Kellia, regione di Alessandria, in Egitto, che una mano di terzaroli poteva primi decenni del VII sec. d.C. essere presa dal basso, dove si trovava evidentemente un’altra linea di matafioni. Prendere una mano di terzaroli dalla base della vela era certamente un sistema più praticabile e sicuro, in quanto la manovra poteva essere eseguita dai marinai in coperta, calando un poco l’antenna. Rispetto ai vantaggi che questa manovra comportava in fatto di sicurezza e velocità di esecuzione, l’accumulo di tela che si veniva a creare lungo la base della vela sarebbe stato un problema secondario. Un altro particolare significativo che si incontra nel testo di Sinesio è rappresentato dal modo con cui i marinai cercarono di ammainare la vela, facendo scendere il pennone o l’antenna in coperta, eseguendo cioè una manovra che sembrerebbe effettivamente coerente con la presenza di un armo latino. Come abbiamo visto, infatti, la vela quadra poteva essere ridotta con gli imbrogli direttamente dal ponte, sollevando la ralinga di base fino a serrarla al pennone, dunque ammainandola senza necessità di abbassare il pennone. Questa ipotesi di lettura ha incontrato delle obiezioni basate su una diversa interpretazione del testo greco53, a cui ha puntualmente replicato Casson54. Accettando l’interpretazione proposta, la lettera di Sinesio rappresenterebbe la più antica attestazione scritta sull’uso della vela latina nel Mediterraneo, ponendo nei primi anni del V sec. d.C. il terminus ante quem per collocare lo sviluppo di questo armo. A nostro parere la lettera contiene elementi che possono effettivamente richiamare l’impiego di una vela latina, considerando, per di più, il fatto che la vicenda si svolge lungo la rotta da Alessandria a Cirene e che importanti iconografie della prima vela latina provengono proprio da Alessandria e dal suo territorio. In una pittura parietale di Kellia (fig. 33), località a circa ottanta chilometri da Alessandria, compare la raffigurazione inequivocabile di un’imbarcazione con vela latina, completa delle manovre principali, databile nei primi decenni del VII sec. d.C.55 Lo scafo presenta una base rettilinea, che corrisponde verosimilmente alla linea della chiglia, con cui si racLe vele

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Fig. 34. Imbarcazione con vela latina raffigurata nella necropoli di Anfouchy ad Alessandria, in Egitto, datazione incerta, forse tra il III e il I sec. a.C.

Fig. 35. Particolare del mosaico di Kelenderis, in Turchia, del V sec. d.C. , in cui sono raffigurate una nave e una barca armate con vela latina trapezoidale (settee).

cordano la ruota di prua e il dritto di poppa, che hanno sviluppo verticale. A poppa si vedono bene i due timoni laterali, uno abbassato e uno sollevato. L’albero è verticale e posizionato quasi a centro scafo, solo leggermente decentrato verso prua, dove si riconosce una seconda vela. Secondo l’interpretazione di Basch, saremmo di fronte a un’imbarcazione leggera a doppia propulsione (la sequenza di archi sulla fiancata potrebbe infatti interpretarsi come una fila di portelli per i remi), che può essere identificata con un tipo corrispondente alla feluca, destinata a operazioni militari come il pattugliamento e i trasporti veloci, ma anche per missioni esplorative. Il secondo documento è costituito dal disegno di una piccola imbarcazione tracciato a carboncino nell’ipogeo n. 2 della necropoli di Anfouchy, ad Alessandria (fig. 34). L’immagine è molto stilizzata, ridotta a pochi tatti che però definiscono chiaramente una barca con vela latina. La datazione non è precisabile in modo puntuale, ma riconduce probabilmente a un periodo compreso tra il III e il I sec. a.C. Se confermata, quella di Anfouchy sarebbe la più antica raffigurazione di una vela latina finora nota56. Alessandria occupa quindi una posizione di primo piano nel panorama della documentazione iconografica. Ciò non significa necessariamente che la vela latina sia nata lì, ma è certo che il grande porto della città egiziana, cerniera geografica e culturale tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano (attraverso il Mar Rosso), fu un importante luogo di incontro e di sviluppo per nuove esperienze nel campo della nautica e delle costruzioni navali57. Nel panorama complessivo sopra delineato si inserisce una nuova e importante iconografia navale, costituita dal già citato mosaico con scena portuale scoperto a Kelenderis, località sulla costa meridionale della Turchia di fronte a Cipro, databile nel V sec. d.C. (fig. 35). Si deve a Patrice Pomey lo studio approfondito delle tre imbarcazioni rappresentate in questo mosaico: una grande nave oneraria e due piccole barche, raffigurate durante l’ingresso in porto. La nave e la barca in alto a destra sono armate con una vela di forma trapezoidale che identifica la latina di tradizione orientale, dunque la settee, il tipo che potremmo definire 84

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più “arcaico”, quello che meglio documenta il processo di evoluzione dalla vela quadra verso quella latina58. L’oneraria è in posizione di primo piano nel bacino portuale e le sue dimensioni, per quanto possano essere enfatizzate, appaiono senza dubbio importanti. Lo dimostra anche il fatto che la nave sta trainando da poppa due imbarcazioni minori: una piccola barca a remi, senza armo velico, e una barca più grande armata con una vela sempre di forma trapezoidale, dunque una vela latina di tradizione orientale, la cui ralinga di prua risulta molto più alta rispetto a quella che si vede nella vela della nave. Questa differenza è dovuta al fatto che la vela dell’oneraria è ridotta, cioè accorciata per far fronte al vento forte, presentando di conseguenza una ralinga di prua più corta, mentre la vela della barca a rimorchio è completamente distesa. Un aspetto particolarmente significativo è rappresentato dalla linea di matafioni ben visibile nella parte alta delle due vele, che si sviluppa in posizione obliqua rispetto all’antenna, caratteristica tipica delle vele latine. La vela della nave grande appare raccolta alla base, dove la tela è rigirata su sé stessa formando un accumulo “a salsicciotto”, e dove andrà identificata, quindi, una seconda linea di matafioni che, in questo caso, doveva essere orizzontale. Per un errore del mosaicista, il rotolo della tela è rappresentato davanti all’albero, cioè sopravvento, mentre la vela si sviluppa sottovento all’albero. Quella rappresentata corrisponde probabilmente a una manovra di riduzione rapida, eseguita senza dover portare l’antenna in coperta o mandare dei marinai a riva per legare la prima fila di matafioni. In presenza di mare agitato e vento forte, infatti, condizione ben rappresentata nel nostro mosaico dal movimento delle onde, eseguire una di queste due manovre sarebbe stato complicato e pericoloso, oltre che un’operazione più lenta. L’equipaggio ha quindi ridotto la vela in basso, nel modo più veloce e sicuro, ed è in questo assetto che la nave si è presentata all’ingresso del porto, con una superficie di tela comunque sufficiente a garantire la velocità necessaria per manovrare. È ben noto, infatti, che in presenza di mare grosso l’entrata in porto costituisce una manovra particolarmente delicata, in quanto, rallentando, la nave perde stabilità di rotta e le onde rischiano di deviarla dal giusto corso. Per questo deve presentarsi invelata fino in prossimità dell’ingresso, per mantenere una riserva di velocità tale da garantire l’efficienza idrodinamica dei timoni, dunque il governo e la linea di rotta, riducendo tela solo all’ultimo momento. Volendo fare un bilancio complessivo, possiamo rilevare che la documentazione sulla vela latina nel Mediterraneo antico risulta essere molto esigua e di non facile interpretazione, sia a livello cronologico che figurativo. I punti certi sono rappresentati dalla raffigurazione di Kelenderis, da quella di Kellia e dalla notizia di Procopio, che riconducono però ad epoca tarda, tra il V e il VII sec. d.C. Più problematiche risultano invece l’evidenza fornita dal disegno di Anfouchy e quella della stele di Eleusi, che potrebbero retrodatare le prime attestazioni di questo armo ad un periodo compreso tra il III-I sec. a.C. e il II sec. d.C. Il problema delle origini, tuttavia, andrà affrontato partendo da altri presupposti. Si è già ricordato come l’introduzione della vela latina nel Mediterraneo possa essere ricondotta a una forma di evoluzione della vela quadra, derivata dalla manovra di riduzione che le faceva assumere una forma trapezoidale o triangolare. Del resto, è del tutto verosimile pensare che i marinai antichi abbiano sfruttato al massimo tutte le possibilità di manovra offerte dalla vela quadra, modificandone la forma per mezzo delle manovre Le vele

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correnti, quindi cercando di adattarla nel modo migliore alle necessità contingenti, per affrontare le diverse condizioni di vento e di mare. Constatati i vantaggi che questa manovra poteva offrire in presenza di vento forte, appare chiaro che, a un certo punto, si sia arrivati a sperimentare una vela già in origine tagliata in forma triangolare. Una soluzione, tra l’altro, che permetteva Fig. 36. Imbarcazione dipinta su intonaco nel santuario tardore- di eliminare il problema pubblicano di Brescia. degli accumuli di tela che si creavano lungo la ralinga di base. Il passaggio dovette avvenire in modo abbastanza naturale, dal momento che tutte le principali manovre correnti della vela latina erano già presenti nella vela quadra ridotta a forma trapezoidale o triangolare. Il pennone inclinato verso prua, infatti, si trasformava in una specie di antenna, mentre il braccio e il controbraccio che tenevano bordato a prua il pennone svolgevano già la funzione dell’orza e della poggia. Inoltre, con la vela quadra ridotta in questo modo si utilizzava già una scotta sola, mentre la funzione del braccio verso poppa era già paragonabile a quella dell’osta sopravvento. Torniamo a ricordare che non vi sono elementi certi per stabilire quando fu introdotta per la prima volta questa innovazione e quale reale diffusione abbia avuto in una fase iniziale. Tuttavia, come sottolineato da Basch59, l’imbarcazione di Kellia si pone al termine del lungo percorso che ha condotto allo sviluppo della vela latina, attraverso una fase di evoluzione tecnica precedente che possiamo ricostruire solo a livello ipotetico. Ora, il mosaico di Kelenderis consente di retrodatare di circa due secoli la fine di questo percorso, attestando implicitamente che, per lo meno nel Mediterraneo orientale, il processo evolutivo avvenne prima del V sec. d.C. D’altro canto, è anche possibile che il passaggio dalla vela quadra ridotta a quella latina sia avvenuto in periodi e contesti diversi. Giunti a questo punto, vale la pena spendere qualche parola sull’imbarcazione dipinta in un intonaco del santuario tardorepubblicano di Brescia60, che presenta diversi aspetti di interesse specifico per quanto riguarda la manovra della vela61 (fig. 36). La raffigurazione è piuttosto stilizzata, resa con pennellate veloci, motivo per cui alcuni dettagli sono poco definiti, ma nel complesso appare leggibile abbastanza bene. Quella raffigurata è una nave lunga senza rostro, che dispone di doppio apparato propulsivo, cioè di vela e di remi. L’impostazione prospettica richiama quella delle navi a remi, principalmente da guerra, che compaiono in diverse raffigurazioni romane tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., basti ricordare gli affreschi di Pompei, quelli di Ercolano e il mosaico di Palestrina62. 86

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Nell’intonaco di Brescia l’assenza del rostro indica chiaramente che non siamo di fronte a una nave da combattimento, ma a una nave lunga da trasporto, appartenente alla classe di quelle che vengono anche chiamate “galee mercantili”63, caratterizzate da uno scafo stretto e lungo e dal duplice sistema di propulsione. Si trattava di navi da trasporto veloce che, a differenza delle onerarie con la sola propulsione velica, potevano garantire una maggiore rapidità e sicurezza dei collegamenti, pur disponendo di una minore capacità di carico. Navi di questo tipo operavano anche all’interno delle flotte da guerra come unità ausiliare, destinate al trasporto dei soldati e dei rifornimenti, ai collegamenti e alle operazioni di supporto delle unità di linea. Si può ipotizzare che la nave del santuario di Brescia appartenesse alla classe delle actuariae, oppure a un tipo di phaselus, imbarcazione veloce che era utilizzata anche per il trasporto dei passeggeri sia nei viaggi per mare che nelle acque interne. La nave ha un solo albero posizionato verso centro scafo. Non sono rappresentate le sartie. I tre cavi che dalla sommità dell’albero scendono in coperta sono infatti riferibili a delle manovre correnti, ciascuna trattenuta da un marinaio con le braccia e lo sguardo rivolti verso l’alto, verso il punto in cui si intersecano albero e pennone. I tre marinai, dunque, sono rappresentati intenti a manovrare la vela, mentre tirano questi cavi. Il pennone è molto inclinato verso prua e la vela presenta una forma approssimativamente triangolare. I suoi lati sono inarcati per effetto del vento e questo fatto indica che è in tensione, cioè che sta portando. Tali elementi permetterebbero di avanzare due diverse proposte di lettura, che ripropongono le difficoltà interpretative – lo abbiamo visto – di diverse raffigurazioni di vele triangolari. In questo caso, infatti, potremmo trovarci di fronte sia a una vela latina sia a una vela quadra ridotta di circa metà della sua superficie, in modo da farle assumere una forma triangolare. Nel secondo caso si tratterebbe di un’immagine coerente con quanto abbiamo visto in relazione alla manovra che condusse dalla vela quadra alla latina. Nel primo caso, invece, il documento assumerebbe un notevole significato sul piano cronologico, in quanto consentirebbe di confermare la presenza della vela latina in ambito mediterraneo tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.64, affiancandosi all’evidenza di età ellenistica fornita dal disegno di Anfouchy. In definitiva, vi sono elementi per pensare che la vela latina di forma trapezoidale, derivata dalla manovra di riduzione della vela quadra, la cosiddetta settee, abbia conosciuto uno sviluppo anteriore al V sec. d.C. Forse già tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., probabilmente nel II sec. d.C. Ci chiediamo, allora, per quale motivo la vela latina finì per prevalere e poi sostituire la vela quadra solo tra la fine dell’Antichità e l’inizio del Medioevo, quando la troviamo documentata in modo incontrovertibile. La questione non sembra riconducibile a una maggior efficienza aerodinamica della latina rispetto alla quadra, dunque alla capacità di stringere meglio il vento, come hanno evidenziato gli studi di Julian Whitewright sulla performance nautica dei due tipi di vela, che risulta fondamentalmente simile65. Del resto, abbiamo visto che la vela quadra, opportunamente manovrata, consentiva di stringere il vento ben oltre il trasverso, il che permette di superare le opinioni riduttive a lungo avanzate su questo argomento. Con ogni probabilità, invece, la questione andrà letta sul piano economico, ovvero sulla maggior economia di realizzazione, di manutenzione e di esercizio offerta dalla vela latina rispetto alla quadra. Nella vela latina, infatti, le manovre correnti risultano notevolmente ridotte nel numero e nella loro complessità. Questo fatto determinava non solo un risparmio nell’uso e consumo dei materiali, a cominciare dalle cime (si Le vele

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pensi alla quantità di cima necessaria solo per realizzare gli imbrogli della vela quadra), ma anche una maggiore semplicità e agilità di manovra, per la quale, di conseguenza, si rendeva necessario impiegare un minor numero di marinai. Il tutto contestualizzato in una fase storica di relativa contrazione a livello economico, durante la quale le soluzioni di minor costo dovevano rappresentare una discriminante non secondaria nella strategia delle scelte, anche sul piano navale e nautico.

3.5. Vele “a pertiche” e vele enigmatiche La natura non finisce mai di sorprenderci. Prendiamo per esempio il nautilo, un polpo che, come tutti i suoi parenti, è dotato di particolare intelligenza, al punto da aver sviluppato comportamenti davvero singolari. La femmina produce il bellissimo guscio in cui abita, un fossile vecchio di centinaia di milioni di anni, sottile e fragile come quello di un uovo. Lo utilizza in un modo che incuriosì gli uomini fin dall’antichità, tanto che Aristotele ne fece una dettagliata descrizione66, poi ripresa dagli studiosi fino all’epoca moderna. Oggi sappiamo che dosando la quantità di gas contenuta nelle concamerazioni all’interno del guscio, il nautilo è in grado di risalire dal fondo del mare fino alla superficie o, viceversa, di immergersi per tornare sul fondo, come fanno i sommergibili. A sorprendere la fantasia dei naturalisti antichi e moderni, però, fu soprattutto la presunta attitudine di questo mollusco cefalopode a navigare in superficie, attitudine da cui deriva il suo stesso nome, che significa appunto “navigante” (nautílos in greco). Si riteneva, infatti, che, raggiunta la superficie del mare, il nautilo si girasse rovescio per usare il guscio come lo scafo di una barchetta, poi distendesse verso l’alto due tentacoli dotati di una sottile membrana, creando così una primitiva forma di vela, una specie di vela “a pertiche” con la quale si sarebbe fatto trasportare dalla brezza. Secondo Aristotele la membrana collegava fino a un certo punto i tentacoli, in modo simile a come accade con la membrana che unisce le dita nelle zampe dei palmipedi. Nella sua forma essenziale, la vela “a pertiche” ha sicuramente un’origine preistorica, essendo il sistema di propulsione col vento più semplice e intuitivo che si possa realizzare: un rettangolo di tela legato tra due aste di legno fissate in verticale all’interno dello scafo, sui due fianchi verso prua. A livello etnografico risulta essere una soluzione globale, adottata in ogni parte del pianeta come il mezzo più elementare per sfruttare la forza del vento, se si eccettua l’uso di un ramo di palma o di altra pianta con foglie grandi. Per tali motivi la sua invenzione si ripropose ovunque in modo indipendente, senza che fosse necessario un trasferimento di conoscenze67. Si tratta, evidentemente, di una vela che consentiva di sfruttare la spinta del vento solo nelle andature portanti, dunque utilizzabile all’occasione come ausilio ai remi, quando il vento si presentava favorevole. Vele rettangolari armate su tre distinte aste verticali si riconoscono già nelle stilizzate raffigurazioni navali che compaiono sui sigilli minoici, ma il primo chiaro documento è costituito dal disegno inciso su uno specchio etrusco in bronzo, datato al III sec. a.C., in cui si riconosce la figura di Eracle seduto su una zattera con due pertiche verticali, tra le quali è distesa una tela con funzione di vela68. Un mosaico delle Terme di Nettuno a Ostia, databile tra il 132 e il 139 d.C.69 (fig. 37), raffigura invece una piccola imbarcazione da trasporto con a bordo alcune anfore, probabilmente uno scafo destinato alla navigazione 88

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fluviale, che presenta all’estremità destra, in corrispondenza della prua, due pertiche verticali e tra loro parallele, una montata sul fianco destro e una sul fianco sinistro (la base della pertica di sinistra è rappresentata dietro un’anfora, in secondo piano, per dare profondità prospettica). Pur in assenza della vela, appare chiaro che siamo anche in questo caso di fronte a un armo “a pertiche”70. Fig. 37. Barca con armo “a pertiche”, in un mosaico delle Lo incontriamo anche Terme di Nettuno a Ostia, 132-139 d.C. nella ceramica iberica, precisamente in due raffigurazioni navali dipinte sul vaso n. 122 rinvenuto nell’insediamento iberico del Tossal de Sant Miquel de Llíria (València), databile tra il III e la prima metà del II sec. a.C.71 (fig. 38). All’interno della scena, rappresentata in una fascia continua poco sotto l’orlo del vaso, vi sono due piccole imbarcazioni dal profilo allungato e dal bordo basso, interpretate come Fig. 38. Imbarcazioni con vele “a pertiche” dipinte su un vaso scafi monossili. In prossimità proveniente dall’insediamento iberico del Tossal de Sant Miquel de Llíria, València, III-prima metà del II sec. a.C. della prua si riconoscono due aste verticali tra le quali, in alto, si trova un rettangolo che riproduce evidentemente la vela, disegnata come se fosse vista frontalmente. Difficile interpretarla diversamente da una piccola vela “a pertiche”. La documentazione etnografica attesta l’impiego di questo semplicissimo armo sia nelle acque interne che in mare, sempre su imbarcazioni di piccole dimensioni, come nel caso delle monossili. Particolarmente interessante risulta poi l’espediente di inclinare le due pertiche verso l’esterno, oltre la verticale delle fiancate, allo scopo di aumentare la superficie di tela esposta al vento, determinando così una forma a trapezio rovesciato, col lato maggiore disteso in orizzontale in alto. A questo punto l’evoluzione verso la vela a tarchia è già potenzialmente avviata; cosa che avverrà in un’epoca imprecisata, comunque precedente all’età ellenistica, quando un navigante, o forse un pescatore, pensò di inferire la tela a una sola delle due pertiche, che quindi divenne l’albero, e di utilizzare l’altra per tenere distesa la vela, che Le vele

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Fig. 39. Tipologie schematiche delle vele “a pertiche” documentate a livello etnografico. Dall’armo con le pertiche divergenti ha avuto origine probabilmente la vela a tarchia.

quindi divenne la livarda (fig. 39). La primitiva vela “a pertiche” che lavorava in senso trasversale allo scafo, senza alcuna possibilità di essere orientata diversamente, si trasformò così in una vela assiale dotata di ottime qualità aerodinamiche, sfruttabile in tutte le andature e capace di stringere bene il vento, di impianto semplice e facilmente manovrabile. Tra i graffiti di età romana scoperti nella Villa di San Marco a Stabia compaiono alcune figure di barche estremamente stilizzate, cinque delle quali sono piccole imbarcazioni “lunghe” a doppia propulsione, sia velica che remiera72 (fig. 40). Risulta subito evidente la forma particolare delle vele, costituite da un triangolo rivolto verso prua, con il lato verticale che prende origine dall’albero, come se fossero direttamente inferite ad esso. Cosa intendono rappresentare queste piccole vele triangolari rivolte in avanti? Innanzitutto, nonostante le ridotte dimensioni dei graffiti, si può notare come questi triangolini siano raffigurati in modo chiaro, senza incertezze, e sempre nella stessa posizione. Chi ha tracciato i graffiti, dunque, non aveva dubbi su ciò che intendeva rappresentare, ragione per cui possiamo ritenere che anche la raffigurazione delle vele risponda a un principio coerente piuttosto che a un errore occasionale. D’altro canto, constatando che questi graffiti sembrano essere stati tracciati tutti dalla stessa mano, è possibile che i triangolini costituiscano, in realtà, una sorta di convenzione personale impiegata dall’autore per raffigurare tout-court le vele73. Intendeva forse rappresentare, in forma estremamente stilizzata, delle vele quadre ridotte in modo che assumessero forma triangolare (supra), omettendo però di riprodurre la parte che doveva essere distesa verso poppa? Oppure delle vele latine, sempre senza la parte a poppavia dell’albero? Queste soluzioni ci appaiono improbabili, visto che nessuna difficoltà tecnica o di spazio avrebbe impedito di tracciare il profilo completo delle vele e visto che gli scafi presentano in fondo una loro coerenza e correttezza figurativa. Potremmo allora ipotizzare che i triangolini rappresentino degli stendardi, ma, in questo caso, la loro forma sembrerebbe strana, visto che gli stendardi e i mostravento presentano normalmente una forma stretta e allungata, a sviluppo orizzontale. Appare curioso anche il fatto che siano rivolti sempre verso prua, così come il fatto che in uno dei graffiti il triangolo sembri essere trattenuto alla prua per mezzo di un cavo e che in un altro, in realtà di non chiara lettura, sia collegato con l’estremità di una vela più grande, eventualmente con un albero di trinchetto. 90

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Riteniamo più verosimile, invece, pensare che nei graffiti di Stabia siano rappresentate delle velette stabilizzatici, prive di funzione propulsiva (o in grado di fornire solo una minima spinta ausiliaria). È ben noto che, navigando col mare al traverso, le imbarcazioni a vela contrastano bene il rollio grazie alla pressione che il vento esercita sulla vela, mantenendo lo scafo sbandato su un lato e ammortizzando così il momento di ritorno durante le oscillazioni laterali generate dal moto ondoso. Nelle moderne imbarcazioni a motore il rollio viene contrastato entro certi limiti dalla potenza di spinta e dalle linee delle carene, oltre che dalla presenza, sotto la linea di galleggiamento dello scafo, di spigoli incorporati o di pinne destinate a ridurre le oscillazioni trasversali (i cosiddetti stabilizzatori). Diversa, invece, era la situazione delle vecchie imbarcazioni da pesca a vela quando iniziarono ad essere motorizzate, processo che in Italia si sviluppò tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento. Questi scafi, ancora concepiti per navigare a vela, privi di spigoli o di aggetti orizzontali destinati a ridurre il rollio, si presentavano poco adatti a ospitare il motore e quasi sempre navigavano male, soffrendo in particolare l’onda al traverso. Per tale motivo, nei vecchi scafi passati al motore si diffuse la pratica di non eliminare completamente la vela, ma di conservare un poco di tela (a poppa nel caso delle barche a due alberi) Fig. 40. Graffiti navali di età romana della Villa che serviva soprattutto a stabilizzare l’im- di San Marco a Stabia. barcazione quando navigava a motore col vento e col mare al traverso. Risultava secondario il fatto che queste velette potessero fornire anche una minima spinta. Dal momento che nei graffiti di Stabia i triangolini compaiono associati con imbarcazioni a remi, possiamo ipotizzare una situazione simile a quella appena descritta. Le imbarcazioni che navigano con la sola spinta dei remi, infatti, cioè senza vela, soffrono particolarmente il mare al traverso, che genera un fastidioso e pericoloso rollio. Possiamo dunque ipotizzare che in questi graffiti siano effettivamente rappresentate delle velette stabilizzatrici, impiegate per ridurre il rollio in presenza di mare formato. Le vele

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Nel Piazzale delle Corporazioni di Ostia incontriamo un’altra immagine singolare, databile alla fine del II sec. d.C. (fig. 41) Si tratta di un mosaico in tessere bianche e nere in cui è rappresentata una nave con quello che sembra essere uno strano apparato velico, costituito da linee oblique che si sviluppano dall’albero e terminano nello scafo, Fig. 41. Imbarcazione oneraria con vele assiali? Mosaico del Piazzale collegate tra loro da altre delle Corporazioni, Ostia, fine del II sec. d.C. linee in senso longitudinale. Si tratta forse del sartiame, reso con errato senso prospettico e in dimensioni certamente esagerate?74 Questa ipotesi ci lascia quanto meno dubbiosi. Nel complesso, sono così definiti due apparati triangolari, due presunte vele che alla base occupano tutto lo sviluppo longitudinale dello scafo, dall’albero verso l’estremità di poppa e verso quella di prua. Entrambe prendono origine dalla testa d’albero, ma a due livelli diversi, quella di poppa da un punto più alto rispetto a quella di prua. Le linee che si sviluppano all’interno dei due triangoli definiscono tre fasce oblique parallele, ma risultano in certi tratti discontinue. Difficile stabilire se questa discontinuità sia voluta o rappresenti l’esito di successivi restauri del mosaico, avvenuti in seguito alla prima messa in opera, come sembra di poter riconoscere nel settore di poppa. Possiamo chiederci allora, se queste linee intendano rappresentare i ferzi delle due vele. In ogni caso, risulta difficile pensare che la rappresentazione di questa strana attrezzatura sia imputabile solo a un grossolano errore del mosaicista, dal momento che, lo ricordiamo, il mosaico si trova nel Piazzale delle Corporazioni di Ostia, ponendosi dunque in diretto rapporto con una committenza e con un pubblico di genti di mare, uomini esperti di navi e di navigazione. In effetti, i due apparati triangolari sembrerebbero rappresentare delle vele di taglio o assiali: quella a poppa, allora, risulterebbe simile a una moderna randa “Marconi” o bermudiana, quella a prua, invece, simile a un moderno genoa. Ma possiamo effettivamente interpretarle così? Nell’iconografia navale antica, come dimostrano anche altri mosaici del Piazzale delle Corporazioni, la rappresentazione delle sartie è resa normalmente con delle linee che scendono dalla testa d’albero rispettivamente verso prua e verso poppa, con una resa prospettica che pone sul piano longitudinale queste manovre fisse che, in realtà, guardando la nave di lato, dovrebbero collocarsi sul piano trasversale (dovremo scorgere in primo piano le sartie sul lato dello scafo a vista e in secondo piano quelle sul lato opposto). Si tratta evidentemente di una convenzione artistica, destinata a enfatizzare le sartie e la loro funzione di sostegno dell’albero. D’altro canto, in alcuni casi queste linee potrebbero identificare anche gli stralli, presentandosi dunque nella giusta prospettiva. Tuttavia, che si tratti di sartie o di stralli, 92

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queste linee sono sempre indipendenti e, normalmente, lasciano identificare in modo chiaro che si tratta di cavi. Nel nostro mosaico, invece, le linee dirette verso l’albero partecipano a un sistema figurativo complesso, congiuntamente alle linee con sviluppo obliquo-longitudinale, che danno l’impressione di rappresentare i ferzi di due vele distinte, poiché l’apparato di prua e quello di poppa appaiono indipendenti, non essendovi continuità di direzione tra le linee che si sviluppano a proravia e a poppavia dell’albero. Appare difficile, infine, pensare che possa trattarsi delle griselle, cioè di quelle cime che venivano legate tra sartia e sartia per realizzare delle scalette di salita agli alberi, in quanto risulterebbero del tutto incoerenti sul piano formale e altrimenti non documentate. Il mosaico di Ostia potrebbe lontanamente richiamare, in modo certamente schematico e approssimativo, l’immagine delle barche tradizionali con vela latina quando, mentre stazionano in porto o sono all’àncora presso la riva, i marinai mettono ad asciugare la vela sospendendo con la drizza l’angolo di scotta, fino a portarlo in testa d’albero, e lasciando il pennone adagiato in coperta75. Così distesa, la vela assume una forma triangolare con il lato di base orizzontale (l’antenna) e un vertice in alto (l’angolo di scotta), appunto in corrispondenza della testa d’albero. Tuttavia, le incongruenze con il nostro mosaico risultano molte e ci portano a respingere questa ipotesi. Innanzitutto, ci chiediamo perché sarebbe stata raffigurata una vela latina, già rara e problematica nell’iconografia antica, in una posizione tanto strana, così particolare che solo l’occhio esperto di un marinaio abituato a lavorare con quel tipo armo avrebbe chiaramente compreso. Inoltre, i due apparati triangolari appaiono effettivamente ben distinti, con il vertice che raggiunge la sommità dell’albero a due quote diverse. Risulta insomma difficile poter dare un’interpretazione definitiva. Tuttavia, non ci sembra del tutto inattendibile l’ipotesi di riconoscere in essa delle vele di taglio, che si sviluppavano rispettivamente a poppavia e a proravia dell’albero. Forse l’artista ha voluto raffigurarle proprio per la loro peculiarità? Forse il collegio di navicularii che ha commissionato il mosaico intendeva presentarsi con l’immagine di un’imbarcazione innovativa sul piano tecnico, comunque con l’immagine di una nave dall’armo originale, che certamente doveva suscitare attenzione e interesse? Ciò che senza dubbio riteniamo verosimile è il fatto che, in materia di vele, molte di quelle che crediamo essere innovazioni “moderne” furono già sperimentate dai naviganti antichi, almeno a partire dall’epoca romana. In definitiva, possiamo ritenere che riguardo alle attrezzature veliche gli antichi percorsero la maggior parte delle soluzioni possibili; che il naviglio minore, quello che ebbe anche minore dignità di rappresentazione, costituì certamente il contesto privilegiato per l’impiego di attrezzature semplici, primitive, o per la sperimentazione di attrezzature nuove; che le nostre conoscenze sono pesantemente condizionate dalla componente artistica e dalla diffusione di modelli più o meno standardizzati; che le marinerie di epoca ellenistica e soprattutto romana costituirono, esse stesse, il punto di arrivo di esperienze millenarie. Abbiamo già visto, del resto, che attrezzature come quelle a tarchia e a doppia livarda non sono assolutamente invenzioni moderne, ma erano ben conosciute nel mondo antico. I mosaici di Ostia e i graffiti di Stabia permettono di intravedere realtà ancora più diversificate. Ed è proprio nell’iconografia meno legata agli schemi ordinari, ai modelli figurativi “ufficiali”, insomma in quella meno condizionata dalle sole esigenze artistiche, che forse possiamo trovare le tracce di questa complessa e articolata realtà. Le vele

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Rougé 1966, pp. 47-61; Dell’Amico 1997; Medas 2009; Whitewright 2011b; Id. 2018. Wild, Wild 2001; Beltrame 2002, pp. 9-15; Whitewright 2007; Polzer 2008; Remotti 2010 (viene citato anche un probabile frammento di vela, pp. 73-74); Cohen, Cvikel 2020. 3 Tiboni, Riccardi 2019. 4 Per l’evidenza archeologica dell’albero di prua si veda Beltrame 1996. 5 Santamaria 1984; Id. 1995, pp. 161-171; Gavini, Riccardi, Tiboni 2014; Tiboni, Riccardi 2019. Nel relitto D scoperto in alto fondale nel Mar Nero, datato tra V e VI sec. d.C., si è conservato per intero l’albero, ancora collocato nella sua posizione originale, in verticale (Ward, Ballard 2004, pp. 6-11). 6 Beltrame, Medas 2021. 7 Davey 2018. 8 Arnaud 2011a. 9 Katzev 1990; Tzalas 2018, pp. 239-243. 10 Pomey, Poveda 2017; Id. 2018. 11 Angolo di di 11°15’, corrispondente alla quarta parte di ciascuno degli otto venti principali (o direzioni) che compongono le moderne rose dei venti. L’orizzonte della rosa è infatti suddiviso in quattro venti o direzioni principali che formano quattro angoli di 90° (nord, est, sud, ovest), ciascuno dei quali è a sua volta suddiviso in due angoli da 45° che identificano gli altri quattro venti o direzioni principali (nordest, sudest, sudovest, nordovest). Ogni vento si divide in due mezzi venti da 22°30’ e ogni mezzo vento in due quarte da 11°15’. 12 Gouverne au plus près!, corrispondente al nostro va’ a l’orza! 13 Damonte 2002, pp. 38-39. Versione italiana dell’autore. 14 Basch 1987, pp. 326-328, 459, 472, 482; Medas 2008d, pp. 80-81. 15 Saint Denis 1935a, pp. 50 (detorquere cornua), 62 (pedem facere), 92 (proferre pedem), 114-115 (cornua torquere detorquerque), 117 (transferre vela); Pighi 1967, pp. 17-22. 16 Damonte 2002; Medas 2009. 17 Basch 1997, pp. 216-217. 18 Rougé 1978; Casson 1995a, pp. 273-278; Pomey 1997, pp. 33-35, 78-82; Pomey 2017, pp. 1619. 19 Basch 1987, pp. 371-385. 20 Si vedano, per esempio, Casanovas 1990 e Friedman 2001. 21 Humphreys 1978; Thurneyssen 1979; Basch, 1987, pp. 35-39. 22 Basch 1987, pp. 468-472. 23 Casson 1956; Id. 1995a, pp. 243-244; Basch 1987, pp. 113 (n. 218), 473-474 (nn. 1078, 1079, 1081, 1082); Medas 2008d, pp. 81-88; Jones, Günsenin 2021. 24 Guglielmotti 1889, col. 1538, s.v. saccoleva, e col. 1805, s.v. tarchia; De Negri 1965-1966; Bellabarba, Guerreri 2002, p. 19. Tra le imbarcazioni minori si vedano, per esempio, il piccolo sànnaro dei laghi di Lesina e Varano, in Puglia (Bonino 1987), il gozzo sorrentino di Marina Grande, nella Costiera Amalfitana (Marzari 1996; Bellabarba, Guerreri, 2002, pp. 124-127), altri piccoli scafi e anche barche a vela latina che armavano a poppa una piccola vela a tarchia, come mezzana per agevolare la manovra e rendere la barca più orziera (Bellabarba, Guerreri 2002, pp. 40-41; Oller, García-Delgado 2006, pp. 99, 124). Negli scafi minori l’armo a tarchia costituiva il sistema più arcaico, che venne spesso sostituito dall’armo latino. 25 Casson 1955; Bowen 1957, pp. 161-163. 26 Casson 1956, pp. 3-4; Bowen 1957, pp. 163-164; Basch 1987, p. 113 (n. 218). 27 Norie 1841, pp. 265-280; Black Sea Pilot, pp. 15-124; Portolano del Mediterraneo, pp. 71-73, 91104. 28 Kocabaş 2015, pp. 11-13. 29 Pulak, Ingram, Jones 2015, pp. 45-46, 57-59. 30 Basch, 1987, p. 398 (n. 829); Medas 2000, pp. 91, 216-217. 31 Basch 1987, pp. 397-398 (n. 828); Medas 2000, pp. 91, 217; Laporte 2008. 2

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Guerrero Ayuso 2008, pp. 108-110; Medas 2008a, pp. 173-175. Guglielmotti 1889, col. 70, s.v. Alleggio, col. 71, s.v. Allibo, col. 963, s.v. Libo. Il termine si riferisce alle barche di servizio utilizzate nei porti, alla foce dei fiumi e nelle zone di bassofondo per alleggerire il carico delle navi, quindi, per estensione, identifica la manovra di trasbordo necessaria per sbarcare il carico o per trasferirlo su imbarcazioni minori con basso pescaggio, capaci di entrare in porto o di risalire una foce. 34 Periplo, 95 F = 112 M. 35 Medas 2008a, pp. 166-167, 173-175. Come ricordato da Victor Guerrero Ayuso (2008, pp. 109110), una scena molto simile a quella dello uadi Draa si ritrova in un graffito del porto di Utica, databile tra la metà del II e la metà del III sec. d.C. (Kingsley 1997). Incontriamo qui una grande nave oneraria ancorata alla fonda (l’ancora calata da prua è perfettamente visibile), con la prua rivolta verso sinistra e con la vela di prua ancora armata (non è chiaro, invece, se anche la vela maestra sia ancora armata). Oltre la poppa, sulla destra, si vede una piccola barca di servizio con quattro remi, verosimilmente impegnata nelle operazioni di sbarco piuttosto che nel rimorchiare la nave per un’eventuale manovra di attracco, dal momento che l’imbarcazione si trovava già all’ancora. 36 Per l’armo a vela latina in età moderna si vedano Burlet 1988 e Bellabarba, Guerreri 2002. Per il contesto tradizionale segnaliamo: Marzari 2000; Oller, García-Delgado 2006; Panella 2015. 37 Whitewright 2009. 38 Basch 2001. 39 Jal 1848, p. 915, s.v. latena. 40 Brindley 1926. 41 Sottas 1939; Kaey 1956, per cui si vedano la replica di La Roërie 1957 e il successivo intervento di Moore 1957. 42 Casson 1956, pp. 4-5. 43 La Roërie 1956; Bowen 1956; Basch 2001, pp. 61-62. 44 Nel contestare la lettura di Casson, Basch (2001, pp. 61-62) ipotizza, non senza ragioni, che la curvatura della presunta antenna possa dipendere da un adattamento formale voluto dallo scultore, il quale, nel rappresentare il pennone (dunque una vela quadra), avrebbe seguito lo spazio figurativo della stele, che in alto è delimitato da un arco. 45 Whitewright 2009, p. 102; id. 2012, pp. 6-7, 13-14. 46 Casson 1966. 47 Basch 1971. 48 Basch 2001, p. 62. 49 Casson 1995a, p. 244 (fig. 182). 50 Lettere, 5 [4]. 51 Casson 1995a, pp. 268-269, per cui si vedano le successive considerazioni di Basch 2001, pp. 6263. Per un commento nautico al testo di Sinesio rimandiamo a Janni 2003. 52 Guglielmotti 1889, col. 1552, s.v. Sampiètra. 53 Meijer 1986. 54 Casson 1987. 55 Basch 1991; Id. 2001, pp. 57-58, 63-64. 56 Basch 1987, pp. 474, 480 (n. 1084); Id. 1989, pp. 331-332 (fig. 8); Id. 1997, p. 219; Id. 2001, p. 63 (fig. 9). 57 Basch 1997, p. 219-220; Id. 2001, p. 63; Pomey 2017, p. 21. 58 Pomey 2006; Id. 2017. L’attribuzione a una vela latina è stata inizialmente oggetto di dibattito (Friedman, Zoroglu 2006; Roberts 2006; Friedman 2007). Una vela riconducibile allo stesso tipo, armata su un’imbarcazione di medie o piccole dimensioni, si riconosce anche in uno schematico disegno dipinto sulla parete di un’abitazione di Alessandria, databile probabilmente alla fine del VI sec. d.C. (Basch 1993, p. 28, fig. 23). 59 Basch 1997, pp. 219-220; Id. 2001, p. 63. 33

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Mariani 2002. Medas 2002. 62 Basch 1987, pp. 441-445. 63 Secondo la definizione merchant galley data da Lionel Casson (Casson 1995a, pp. 157-168; Id. 1995b). 64 Il fatto che questa raffigurazione compaia a Brescia potrebbe indicare che la scena sia ambientata sul lago di Garda. Ma potrebbe trattarsi di una scena di genere che riproduce un’ambientazione marittima. 65 Whitewright 2011a; Id. 2011b; Id. 2012. 66 Storia degli animali, IX, 37 (622b). La notizia viene ripresa da Plinio (Storia Naturale, IX, 47), da Oppiano (Alieutica, I, 383) e da Eliano (La natura degli animali, IX, 34). 67 Basch 1987, pp. 107-113; Id. 2001, pp. 57-58; Guerrero Ayuso 2009 (raccoglie vari esempi per diverse tipologie di natanti). 68 Basch 1987, p. 109 (n. 205). 69 Becatti 1961, p. 60. 70 Basch 1987, pp. 109, 111 (n. 206). 71 Pérez Ballester 2002, pp. 277-281, 284-285. 72 Varone, 1999, 357-358 (nn. 19, 23, 57, 58, 60). Sono di piccole dimensioni, essendo la lunghezza degli scafi compresa tra 4 e 7 cm circa. 73 Appaiono molto diversi, invece, due graffiti dello stesso complesso in cui sono raffigurate due navi con vela quadra, senza remi, con il governale laterale e l’ancora calata da prua. La netta differenza del soggetto e delle dimensioni (gli scafi sono lunghi 15 e 10,5 cm.) lasciano pensare che siano stati tracciati da una mano diversa rispetto a quella che ha realizzato gli altri cinque citati. 74 Becatti 1961, vol. I, pp. 83-84 (ipotizza che la nave sia priva di vele e che le linee identifichino sartie e stralli). 75 Oller, García-Delgado 2006, p. 184. 61

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Capitolo 4

ORIENTARSI IN MARE

4.1. Ambiente marino e orientamento L’urbanizzazione del territorio è un processo in continua crescita e oggi oltre metà della popolazione del pianeta vive nelle aree urbane. Le città sono diventate l’ambiente “naturale” per la maggior parte di noi, fatto che ha determinato importanti fenomeni di adattamento sia dal punto di vista fisico che culturale. Si tratta fondamentalmente di una situazione che riguarda il nostro tempo, esasperata dallo sviluppo complessivo di tutte quelle componenti che oggi definiscono un contesto urbano, dalla sua estensione alla concentrazione degli abitanti in rapporto allo spazio, dalla grandezza degli edifici ai sistemi di trasporto, dalla sempre più stretta interconnessione delle attività alla concentrazione della ricchezza, dall’ordine pubblico all’inquinamento. Se è vero che anche l’antichità ha conosciuto megalopoli già tormentate da questi problemi, ciò che caratterizza il fenomeno attuale, considerato nell’arco degli ultimi cento anni, è lo sviluppo sul piano tecnologico, che ha cambiato in misura sostanziale la nostra percezione dell’ambiente primigenio e il nostro rapporto con la natura. Dunque, anche il nostro modo di orientarci. Prima della rivoluzione tecnologica che ha investito il Novecento, i modi con cui i marinai si orientavano in mare riportano a una realtà completamente diversa dalla nostra. Dipendevano, infatti, da un complesso sistema di osservazione e di percezione dell’ambiente, ottenuto attraverso l’esperienza pratica e l’affinamento dei sensi, con una lettura dinamica e costante delle informazioni che se ne potevano ricavare. Moltissimi elementi contribuivano alla costruzione di questo sistema, a cominciare dall’osservazione delle stelle. Vi erano poi l’attenzione costante nei confronti della direzione, dell’intensità e delle caratteristiche dei venti; nei confronti della direzione e della regolarità del moto ondoso; della batimetria, della natura e della morfologia del fondo marino (rilevate con lo scandaglio quando si navigava in basso fondale); nei confronti del volo degli uccelli marini o di uccelli appositamente tenuti a bordo e poi liberati. Fondamentale, per quanto possa apparire banale ricordarlo, era inoltre l’attento riconoscimento della morfologia dei litorali, quando si viaggiava con la terra in vista o si concludeva una traversata d’alto mare, operazione solo apparentemente semplice, che richiedeva invece una notevole esperienza dei luoghi e la capacità di individuare i punti cospicui significativi, in quanto la morfologia della costa vista da mare appare in Orientarsi in mare

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modo molto diverso da come possiamo riconoscerla su una carta geografica. E poi, ultimo ma non ultimo, c’era l’istinto, che sopperiva alla percezione o la confermava. Le fonti scritte sono concordi nel rilevare che lo studio dei venti ha sempre rappresentato un fondamento dell’arte della navigazione1. Stare a prua e “osservare” i venti2 era dunque un passo obbligato nel tirocinio per diventare piloti, dal momento che un bravo pilota doveva saper sfruttare il vento favorevole e resistere a quello contrario, così come saper apFig. 42. Rosa dei venti antica, con dodici venti. In corsivo i profittare di quello incerto e vanomi greci, da cui derivano i corrispondenti latini; in tondo i nomi latini diversi da quelli greci. I nomi dei punti cardinali riabile. Conoscere il vento si(Nord, Est, Sud, Ovest), non hanno alcuna relazione con gnificava poter valutare il questa rosa, servono solo per orientarla secondo il sistema di momento propizio per la parriferimento odierno. tenza, sapere se si poteva seguire una determinata rotta, prevedere come si sarebbe comportato il tempo; significava sfruttare le condizioni favorevoli o prepararsi con sufficiente anticipo a quelle sfavorevoli, quindi prevenire i pericoli e condurre una navigazione quanto più sicura e veloce possibile. Il saggio Palinuro, scrive Virgilio3, si leva nel pieno della notte che precede la partenza, studia i venti e fiuta l’aria per prevedere le condizioni del tempo all’indomani, esattamente come facevano i vecchi pescatori all’epoca dell’ultima vela. Ogni vento ha infatti delle caratteristiche proprie, che i marinai riuscivano a “sentire”, anzi a “fiutare” in base alla direzione, all’intensità e alla regolarità con cui soffiava, alla temperatura e al grado di umidità, tutti fattori strettamente legati all’evoluzione del tempo; così che, generalmente, a un determinato vento veniva associata una precisa situazione meteorologica4. Omero5 ricorda che Borea, il vento settentrionale, è gelido e soffia con grande violenza, mentre Zefiro, il vento occidentale, oltre ad essere impetuoso è anche umido e piovoso. Erodoto6 riferisce che il Líps, il nostro Libeccio, è uno dei venti più piovosi e mette in relazione il suo nome col verbo leíbo, che significa spargere un liquido, rammollire. Dal canto suo, anche Gellio7 evidenzia la relazione tra l’etimologia del nome e le caratteristiche meteorologiche del vento, come nel caso dell’Austro, il vento meridionale che porta nubi e umidità, chiamato Nótos dai Greci perché in greco notís significa umidità. Ma è Plinio8 ad averci trasmesso una delle più dettagliate trattazioni sui venti, riportando i nomi locali, le direzioni di provenienza, il regime stagionale con cui spiravano e le qualità fisiche che li distinguevano. 98

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Oltre a fornire informazioni sul tempo, i venti servivano anche per suddividere il circolo dell’orizzonte, identificando le direzioni fondamentali. Così, fin dall’epoca arcaica, venne codificato quel sistema di orientamento che darà origine alla rosa dei venti, prima attraverso i quattro punti cardinali principali, poi aggiungendo un numero di venti/direzioni sempre maggiore, fino a realizzare la rosa da dodici venti tipica del mondo antico9 (fig. 42). La direzione geografica individuata col nome del vento corrispondente costituì un riferimento basilare in ogni forma di orientamento, sia in campo nautico che geografico e topografico10. Nel mondo marinaresco, naturalmente, l’impiego della rosa dei venti si è universalmente diffuso dall’antichità ai nostri giorni, e da que- Fig. 43. Bussola nautica di inizi Novecento. sto derivano le caratteristiche espressioni che Le direzioni sono indicate dall’iniziale del identificano ciascuna direzione con un deter- nome del vento corrispondente, ad eccezione minato vento: “verso Borea”11 corrisponde del Nord (a sinistra nella fotografia), identificato dal giglio, e dell’Est (in alto), identificato dunque al nostro “verso nord/nordest” (sedalla Croce. condo le diverse testimonianze degli autori antichi, Borea è il vento che soffia da nord o da nordest). Il fenomeno diventa evidentissimo in epoca medievale, come testimoniano i primi documenti nautici a partire dal XII secolo12, i portolani e la cartografia nautica, oltre che la letteratura di viaggio. Nel Milione di Marco Polo, per esempio, tutte le direzioni geografiche rispondono all’orientamento coi venti: “verso Tramontana”, “tra Maestro e Tramontana”, “per Greco”, “per Levante”, “tra Greco e Levante”, per citare alcuni casi. Esattamente le stesse espressioni che ricorrono nel linguaggio tradizionale, in cui “andar per Greco” significa “navigare verso nordest”. Ed è significativo il fatto che, fino ai primi decenni del Novecento, nelle rose dei venti delle bussole nautiche, così come in quelle riprodotte sulle carte, i punti cardinali venissero indicati con la prima lettera che componeva il nome del vento corrispondente: T per Tramontana (al posto della nostra N di nord), G per Greco (al posto del nostro NE per nordest), S per Scirocco (al posto di SE di sudest), M per Mezzogiorno o O per Ostro (al posto della S di sud), L per Libeccio (al posto di SO di sudovest), P per Ponente (al posto di O di ovest), M per Maestrale (al posto di NO di nordovest). Curioso è il caso del Levante/ Oriente, che nelle vecchie bussole non era indicato dalla L o dalla O, ma dalla Croce, per non creare confusione con la L di Libeccio e con la O di Ostro (fig. 43). Secondo i diversi punti di vista, cioè in base alla località o alla regione geografica presso cui era realizzata la rosa, i nomi dei venti/direzioni potevano variare. Alcuni venti prendevano infatti un nome particolare, che derivava da quello della regione geografica o del popolo che la abitava, sempre in rapporto alla posizione dell’osservatore13, come accade nella rosa dei venti di Timostene di Rodi, il già citato ammiraglio della flotta di Tolomeo II Filadelfo14. Orientarsi in mare

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In assenza della bussola, la direzione del vento e del moto ondoso da esso generato potevano rappresentare dei riferimenti molto utili per orientarsi, soprattutto in alto mare, dove, in presenza di tempo stabile, i venti regnanti conservano una direzione costante. Grazie ad essi si poteva tenere sotto controllo l’orientamento della nave lungo una determinata rotta, verificando che l’angolo formato dall’asse longitudinale dello scafo e dalla direzione del vento e delle onde restasse costante. Inoltre, poiché le principali rotte d’altura coincidevano spesso coi venti regnanti, i piloti si inserivano nel flusso degli elementi come dentro a una specie di fiume, navigando a favore di vento e di corrente, dunque, è il caso di dirlo, a gonfie vele. Del resto, abbiamo visto che la vela quadra, pur consentendo entro certi limiti di stringere il vento, risultava particolarmente efficiente proprio navigando in questo modo. La nave su cui era imbarcato Paolo di Traso viaggiò nel flusso del vento e della corrente da Mileto a Cesarea, sfruttando i venti del quarto quadrante, principalmente da nord e da nordovest, prima con una navigazione di cabotaggio nell’Egeo meridionale e poi con una navigazione d’altura attraverso il Mediterraneo orientale, in via diretta fino alla Fenicia, lasciandosi Cipro a sinistra15. Anche gli uccelli marini potevano essere indicatori utili per orientarsi. Nel Mediterraneo, il “mare tra terre”, ricco di punti di riferimento distribuiti a media o breve distanza, l’osservazione degli uccelli poteva rivestire un ruolo secondario, comunque ausiliario quando si affrontavano lunghe traversate senza la terra in vista. In ambiente oceanico, invece, si trattava di una pratica molto importante. Nel Giornale di bordo del primo viaggio e della scoperta delle Indie di Cristoforo Colombo, tra venerdì 14 settembre e venerdì 12 ottobre 1492, incontriamo numerosi riferimenti all’osservazione degli uccelli, al loro volo e comportamento, oltre che all’osservazione dei pesci e dei cetacei, ai vegetali che galleggiavano in mare (alghe, erba, rami, canne e altro), a quelle del tempo (nubi e pioggia), tutti fenomeni interpretati come indizi di terra. Fino a un certo punto del viaggio l’avvicinamento a una terra ancora sconosciuta oltre l’orizzonte fu soltanto immaginario, poiché le tre navi si trovavano ancora in pieno Atlantico, mentre da un certo momento in avanti diventarono indizi concreti, corrispondendo a fenomeni di cui i naviganti oceanici avevano già fatto esperienza: «(Venerdì, 14 settembre) Qui dissero quelli della caravella Niña che avevano visto un airone e un ‘coda di paglia’, e questi uccelli non si allontanano mai da terra più di XXV leghe … (Lunedì, 17 settembre) Quella mattina dice di aver visto un uccello bianco che si chiama ‘coda di paglia’, che non è solito dormire sul mare … (Martedì, 18 settembre) aveva visto una grande moltitudine di uccelli andare verso Ponente, e pensava di veder terra quella sera … (Giovedì, 20 settembre) Vennero alla nave due cormorani e poi un altro, segno di vicinanza a terra; e videro molta erba … (Venerdì, 21 settembre) Videro una balena, segno che erano vicini a terra, perché restano sempre vicine … (Domenica, 30 settembre) Vennero alla nave quattro ‘coda di paglia’, che è un grande indizio di terra, perché tanti uccelli della stessa specie insieme è segno che non sono sbandati né sperduti. Si videro in due riprese quattro cormorani, molta erba. … (Domenica, 7 ottobre) Poiché la sera non videro la terra che gli uomini della caravella Niña pensavano di aver visto, e siccome una gran moltitudine di uccelli passava dal nord al sudovest, da cui si poteva credere che andavano a dormire a terra, o forse fuggivano l’inverno che nelle terre da dove venivano doveva essere sul punto di arrivare, e poiché l’Ammiraglio sapeva che la maggior parte delle isole che i portoghesi possiedono le scoprirono

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grazie agli uccelli, per questo l’Ammiraglio decise di lasciare la rotta dell’ovest, e volgere la prua verso ovest-sudovest con la determinazione di proseguire due giorni su quella rotta»16.

Nella notte tra l’11 e il 12 ottobre l’equipaggio della Pinta avvistò l’isola di Guanahani (San Salvador). Quattro secoli e mezzo più tardi, nel 1947, saranno sempre gli uccelli marini a fornire i primi indizi di terra all’equipaggio di Thor Heyerdahl, durante la celebre spedizione condotta nel Pacifico per sperimentare i sistemi di navigazione primitivi. Insieme ad altri cinque compagni, l’esploratore norvegese partì dalle coste peruviane diretto alle isole della Polinesia orientale a bordo del Kon-Tiki, la zattera di legno di balsa con cui viaggiò alla deriva in pieno Pacifico, seguendo il moto della corrente e del vento, lontanissimo da ogni terra emersa, in un viaggio di quasi quattromila miglia e della durata di oltre tre mesi, arrivando infine a Tahiti. Ecco come descrive i primi indizi di terra: «Già il 3 di luglio – eravamo ancora a mille miglia dalla Polinesia – la natura … ci svelò che molto al largo dinanzi a noi doveva esserci terra. Lontani già mille miglia dalla costa peruviana avvistavamo sempre piccoli stormi di fregate: ma quando arrivammo a 100° Ovest, essi non comparvero più e non vedemmo più che qualche procellaria. Ma il 3 di luglio – eravamo a circa 125° Ovest – le fregate ricomparvero … Poiché quegli uccelli non ci avevano seguiti dall’America, dovevano necessariamente abitare su un’altra terra più in là, ad occidente … Il giorno seguente (17 luglio) ricevemmo la prima, indubitabile visita dalle isole della Polinesia. Fu un grande momento a bordo, quando all’orizzonte, a occidente, scoprimmo due enormi gabbiani … I gabbiani furono i primi vivi messaggeri con i quali la Polinesia ci salutava e ci dava il benvenuto ... Ogni mattina stormi sempre più grandi di uccelli marini volteggiavano sopra noi in ogni direzione. Ma una sera, proprio mentre il sole s’apprestava a tuffarsi nel mare, notammo che gli uccelli volavano con straordinaria velocità. Senza curarsi di noi né dei pesci volanti, filavano verso occidente. Dalla cima dell’albero potevamo vedere come essi, da qualsiasi parte venissero, si dirigevano senza fallo verso un medesimo punto. Forse volavano semplicemente secondo il loro istinto; comunque, seguivano una rotta precisa: volavano verso casa, nell’isola più vicina, dove avevano i loro nidi. Girammo il timone per prendere la rotta nella quale gli uccelli erano scomparsi. … Il giorno seguente gli uccelli furono ancor più numerosi. Ma non avevamo ormai più bisogno che a sera ci mostrassero la via. Vedevamo una strana nube immobile sull’orlo del cielo. Le altre nubi, come sorgevano nel Sud, piccoli batuffoli di leggero laniccio, veleggiavano col passat nel firmamento, e scomparivano oltre l’orizzonte a Ovest … Ma la nube solitaria all’orizzonte, laggiù a Sud-Ovest, non si muoveva, cheta come una colonna di vapore acqueo … Pilotammo verso quella nube»17.

L’osservazione del volo degli uccelli, dunque, ha sempre rappresentato un importante mezzo di orientamento per i naviganti. Le rotte note dei migratori fornivano un vero e proprio riferimento di direzione, mentre l’avvistamento di uccelli marini che vivono senza allontanarsi troppo dalla costa e, ancor più, di uccelli che vivono abitualmente a terra, indicava evidentemente la vicinanza di una costa o di un’isola. Inoltre, tanto nel mondo antico quanto in quello medievale è ben nota la pratica di portare a bordo degli uccelli da Orientarsi in mare

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ricognizione, che venivano liberati quando si riteneva di essere in prossimità di una terra non ancora visibile sull’orizzonte18. Salendo in quota gli uccelli avevano la possibilità di scorgerla anche da grande distanza; quindi, se dopo averli liberati ritornavano a bordo significava che la terra era ancora lontana, mentre se si allontanavano verso una direzione definita, allora il loro volo indicava la via più breve per raggiungerla. Fig. 44. Noè libera la colomba dall’arca. Mosaico della Deriva certamente dal contebasilica di San Marco a Venezia, XIII secolo. sto nautico il racconto biblico del celebre episodio in cui Noè, al termine del diluvio, liberò dall’arca prima un corvo e poi una colomba, per verificare se le acque si erano ritirate19 (fig. 44). Il corvo tornò a bordo e così fece anche la colomba al primo tentativo, perché la terra era ancora sommersa dalle acque. Ma dopo sette giorni Noè fece uscire di nuovo la colomba, che tornò col ramoscello di ulivo; dopo altri sette giorni, avendola nuovamente liberata, la colomba non tornò più, confermando che le acque si erano ritirate e che la terra poteva essere nuovamente abitata. La stessa pratica è testimoniata nell’epica mesopotamica, nel famoso poema di Gilgamesh20. Rientra invece a pieno titolo nel contesto della navigazione un passo della letteratura religiosa buddista del V sec. a.C., contenuto all’interno del dialogo Kevaddha Sutta di Digha (222), dove compare un riferimento al modo di navigare degli Indiani. I mercanti che si avventuravano sull’oceano, si legge, erano soliti portare a bordo un uccello con lo scopo preciso di avvistare la terra. Quando stimavano che questa non doveva essere lontana, trovandosi però la nave ancora in alto mare, liberavano il volatile che, levandosi, se avvistava terra partiva senza indugio per raggiungerla, indicando ai naviganti in quale direzione si trovava, altrimenti tornava sulla nave. Questa pratica è confermata cinque secoli più tardi da Plinio21, nel passo in cui ricorda che nell’Oceano Indiano, alle latitudini dell’isola di Taprobana (l’attuale Sri Lanka), i marinai portavano a bordo delle loro navi alcuni uccelli che rilasciavano periodicamente per seguirne il volo in direzione della terraferma. Del resto, l’impiego nautico degli uccelli è ben documentato anche nei secoli successivi presso tutti i popoli di navigatori del pianeta, come i Vichinghi e i Polinesiani, su cui torneremo tra breve. Si potrebbe ipotizzare, allora, che l’episodio della colomba lanciata dagli Argonauti per verificare la possibilità di passare attraverso le terribili rupi Simplegadi22 altro non sia che il ricordo di un uso nautico dei volatili anche nel mondo mediterraneo, allo scopo di riconoscere la presenza della terra durante i viaggi più impegnativi, come quelli di esplorazione, di colonizzazione o, comunque, al termine delle lunghe traversate d’alto mare. Alcuni documenti iconografici di epoca tardo-micenea, relativi a figure di uccelli associati con imbarcazioni, potrebbero essere significativi in questo senso23. Un riferimento simbolico 102

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potrebbe inoltre trovarsi anche nelle navicelle votive sarde dell’età del ferro, i famosi modellini miniaturistici in bronzo che in molti casi sono ornati con figurine di colombe24. In epoca medievale i naviganti vichinghi dedicavano grandissima attenzione al volo degli uccelli. Nel corso delle lunghe traversate, condotte senza scali dalla Norvegia fino all’Islanda e alla Groenlandia, la presenza degli uccelli marini aiutava a identificare i passaggi in prossimità delle isole Shetland e delle Faer Öer, importanti punti di riferimento lungo quelle rotte d’altura, spesso invisibili a causa della nebbia. Lungo la rotta per la Groenlandia, dopo aver superato i due arcipelaghi e continuando a navigare verso ovest per parallelo (con latitudine costante), i marinai potevano accorgersi di essere al traverso dell’Islanda quando incontravano gli uccelli tipici di quella terra, che si spingevano fino a centocinquanta miglia a sud dell’isola. L’avvistamento di specie caratteristiche di determinate isole o regioni forniva quindi un indizio sull’avvicinamento a terra o sugli spostamenti della rotta verso nord o verso sud. L’osservazione degli uccelli marini come ausilio alla navigazione (in particolare dei gabbiani comuni e dei gabbiani tridattili, delle sule e degli smerghi) rappresenta una pratica rimasta viva fino ai nostri giorni tra i pescatori norvegesi e quelli islandesi, quelli delle Shetland, dell’Irlanda occidentale e della Cornovaglia. Inoltre, in modo simile a quanto riferiscono le fonti antiche per l’Oceano Indiano, anche nelle saghe vichinghe è ben documentata la pratica di portare a bordo degli uccelli, in particolare i corvi, per liberarli quando si stimava di essere ormai nelle vicinanze della regione verso cui si era diretti25. Altro popolo di grandissimi navigatori, i Polinesiani svilupparono nell’oceano Pacifico una cultura nautica fondata sull’osservazione dell’ambiente marino e dei fenomeni naturali ad esso connessi. L’approssimarsi di un’isola era preannunciato dall’addensarsi di nubi immobili nel cielo, dal riflesso chiaro che le lagune degli atolli proiettavano negli strati alti dell’atmosfera, dall’odore della terra, dai disturbi nella regolarità dell’onda lunga oceanica, effetto delle onde di ritorno generate dalla presenza di un’isola ancora lontana e invisibile. L’osservazione degli uccelli marini e del loro volo svolgeva un ruolo fondamentale, preannunciando sia la distanza che la direzione verso cui si trovava un’isola. Il volo dei migratori poteva rappresentare una guida affidabile nei viaggi su lunghe e lunghissime distanze, mentre quello di altri uccelli stanziali aiutava l’avvicinamento a terra al termine della traversata. Gli uccelli stanziali, infatti, costituivano un validissimo sistema per ampliare di molte miglia il raggio di visibilità di un’isola e rappresentavano la guida migliore per raggiungerla, quando, terminate le battute di pesca in alto mare, tornavano a riposarsi in terraferma, indicando ai marinai la via da seguire. Non mancano perfino casi di volatili appositamente addestrati a fini nautici26. Per gli abitanti dell’Oceania, insomma, gli uccelli erano davvero «i migliori amici dei navigatori»27.

4.2. Il cielo e le stelle dei naviganti antichi Gli stessi motivi che ci hanno allontanati dall’ambiente naturale sono all’origine della perdita del nostro rapporto col cielo stellato. La causa principale è l’inquinamento luminoso, ovvero l’alterazione dei livelli di luce naturale durante la notte, fenomeno che non riguarda solo le città e le zone limitrofe, ma le regioni del pianeta a maggior densità di popolazione. Si tratta oggi di una delle forme di alterazione ambientale più diffusa, al punto che circa l’80% della popolazione mondiale vive sotto un cielo inquinato dalla luce artificiale, perOrientarsi in mare

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centuale che si avvicina al 100% se consideriamo quanti vivono negli Stati Uniti e in Europa. Le immagini satellitari rappresentano bene questa situazione, mostrandoci delle immense macchie di luce che di notte si estendono, per esempio, su tutta l’Europa, su gran parte del Nord America, sull’India, sulla Cina orientale e sul Giappone. Questo tipo di inquinamento ha ricadute importanti sia in rapporto agli organismi viventi, come accade per diversi animali che perdono l’orientamento e per alcune piante che alterano il proprio ritmo vitale, Fig. 45. La costellazione dell’Orsa Minore. sia sul piano culturale, perché la scomparsa del cielo stellato ha privato l’uomo di quello straordinario spettacolo che per millenni ha ispirato i suoi sentimenti più profondi, oltre che la sua attività intellettuale. Il rapporto costante col cielo coinvolgeva tanto la religione quanto la mitologia, tanto la filosofia quanto la scienza, ma, soprattutto, era un aspetto imprescindibile della vita quotidiana. Al giorno d’oggi, per la maggior parte di noi sarebbe difficile organizzare una mappa stellare del cielo, dal momento che la ridotta brillantezza degli astri dovuta all’inquinamento luminoso ci impedisce di avere una visione complessiva. Fin da epoche molto remote, invece, la necessità di porre ordine nella sconfinata volta celeste indusse gli uomini a sollecitare la propria fantasia per identificare determinati gruppi di stelle con altrettante figure mitologiche, determinando, così, la nascita delle nostre costellazioni28 (fig. 45). Questi uomini furono certamente dei marinai. Lo ricorda chiaramente Virgilio29, quando mette in rapporto gli albori dell’arte nautica col riconoscimento ordinato delle stelle. Il poeta romano, infatti, afferma che nel momento in cui l’uomo iniziò a discendere i fiumi per mezzo di semplici scafi scavati nel tronco d’albero, cioè con quei natanti monossili che identificano lo stadio iniziale della navigazione, «allora il marinaio definì il numero e i nomi delle stelle». Certo, ai nostri giorni il rapporto con l’osservazione della volta celeste è completamente cambiato, restando per lo più confinato tra gli interessi scientifici e culturali. Chi mai penserebbe, nell’era del GPS (Global Positioning System), di rinunciare ai satelliti per tornare a orientarsi con le stelle? Chi accantonerebbe l’orologio al quarzo per leggere l’ora nei movimenti delle costellazioni? Eppure, fino a tempi relativamente recenti l’osservazione del cielo stellato era una pratica comune e apparteneva alla vita quotidiana delle genti di mare. Fin da quando l’uomo iniziò ad affrontare viaggi marittimi di una certa estensione, il che significa nella preistoria, per lo meno a partire dall’epoca neolitica, si impose la necessità di navigare anche durante la notte, quindi di utilizzare il cielo stellato come guida. E quando nel mondo greco presero forma i poemi omerici, agli albori dell’epoca arcaica, l’immagine letteraria del pilota con lo sguardo fisso alle stelle appare già perfettamente codificata nella figura di Odisseo. 104

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«Così col timone drizzava il cammino sapientemente, / seduto: mai sonno sugli occhi cadeva, / fissi alle Pleiadi, fissi a Boòte che tardi tramonta, / e all’Orsa, che chiamano pure col nome di Carro, / e sempre si gira e Orione guarda paurosa, / e sola non ha parte ai lavacri d’Oceano; / quella infatti gli aveva ordinato Calipso, la dea luminosa, / di tenere a sinistra nel traversare il mare»30.

Se è vero che i naviganti hanno sempre rivolto un’attenzione speciale all’osservazione della volta stellata, potendo in essa individuare i capisaldi con cui orientarsi, dovremo subito chiarire, però, che quella praticata dagli antichi non era una navigazione astronomica come noi la intendiamo, dunque un sistema che permettesse di posizionarsi in mare con l’impiego delle stelle. Era semplicemente una navigazione orientata per mezzo delle stelle, che è cosa ben diversa e più semplice da realizzare. Il posizionamento in mare, al di fuori del raggio di visibilità della terraferma, fu una conquista lenta e difficile, che giunse a pieno compimento solo nel tardo Medioevo e ancora con alti margini di imprecisione. Del resto, come vedremo, benché gli antichi navigassero senza problemi in alto mare e affrontassero regolarmente traversate molto lunghe, la navigazione stimata fu un concetto a loro sconosciuto. La “stima” non era concepita come il rilevamento del punto in cui la nave si trovava sulla superficie del mare, individuato necessariamente sulla carta nautica, ma come un riferimento dinamico attraverso cui controllare la giusta direzione di rotta, il tempo mediamente necessario per compiere il tragitto, gli elementi ambientali che aiutavano a tenere la direzione, come il vento regnante e il moto ondoso, tutto senza bisogno della carta e della bussola31. Soltanto in vista della terra, riconoscendo i punti cospicui noti, i marinai potevano effettivamente stabilire con precisione la propria posizione. L’osservazione del cielo e dei riferimenti ambientali permetteva quindi di trovare i giusti orientamenti, sopperendo efficacemente all’uso della bussola magnetica, ma il silenzio delle fonti riguardo all’esistenza di una cartografia nautica e all’uso di calcolare la velocità della nave nell’unità di tempo, che insieme all’orientamento sono elementi necessari per svolgere la navigazione stimata, attestano che nell’antichità mancavano i presupposti concettuali, oltre che gli strumenti tecnici, necessari a sviluppare questo sistema. Tale condizione non va intesa come una forma di incapacità, ovvero come un fattore di arretratezza rispetto a quanto avverrà con la “rivoluzione nautica” del Medioevo, ma come una mancata convergenza di quei fattori che, insieme e in un determinato periodo storico, generano la svolta, il cambiamento radicale, quello che percepiamo come un’invenzione o una rivoluzione. Basterà pensare agli altissimi livelli raggiunti dall’astronomia e dalla cartografia nel mondo greco-romano, per capire che i mancati sviluppi sul piano nautico non sono stati determinati dall’assenza di un adeguato livello tecnico e culturale. Esperienza pratica e senso marino furono sempre strumenti perfettamente adeguati ai contesti geografici e al tipo di navigazione che praticavano gli antichi, sufficienti per compiere viaggi anche molto impegnativi. In fondo, è possibile che quei naviganti non sentissero neppure il bisogno di svolgere una navigazione stimata nel senso che ha assunto per noi. La nautica “scientifica”, frutto delle grandi conquiste medievali e post-medievali, non è certamente l’unico sistema possibile per affrontare lunghe navigazioni in alto mare, neppure per spingersi nella vastità degli oceani. Le straordinarie imprese nautiche dei navigatori primitivi del Pacifico, così come quelle dei navigatori fenici, greci, cartaginesi e romani, ne sono la più chiara conferma. Orientarsi in mare

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«Siderum observationem in navigando Phoenices (invenerunt)» (l’osservazione delle stelle durante la navigazione fu introdotta dai Fenici). Con questa affermazione Plinio32 attribuisce ai Fenici una pratica che risponde a due princìpi di utilizzo del cielo stellato, che per gli antichi erano tra loro complementari: come strumento per orientare la navigazione e come mezzo per raccogliere dati funzionali agli studi di astronomia33. Il riferimento ai Fenici risulta del tutto coerente con la fama di cui questo popolo godeva in fatto di abilità ed esperienza nautica. Un passo di Strabone34 ci aiuta a chiarire meglio il problema. Dopo aver rilevato che nell’arte della navigazione i Fenici furono superiori a tutti i popoli in ogni epoca, il geografo greco aggiunge che i Sidonii (i Fenici di Sidone) erano dei veri e propri sapienti (philósophoi) in materia di astronomia e di aritmetica, avendone iniziato lo studio per mezzo dei calcoli pratici e della navigazione notturna (nyktiploía). Questa concisa notizia confermerebbe che la pratica della navigazione svolse un ruolo fondamentale non solo nel progredire degli studi geografici, ma anche nello sviluppo di quelli astronomici. Risulta decisamente più difficile, invece, riconoscere un processo nella direzione opposta, cioè stabilire se le teorizzazioni scientifiche trovarono qualche forma di applicazione alle necessità pratiche della navigazione. La perdita della letteratura tecnica di argomento nautico, che pure dovette esistere almeno a partire dall’epoca ellenistica, rappresenta un limite concreto per la nostra analisi. Spesso si conservano soltanto i titoli di opere che riconducono a un contesto nautico, come abbiamo visto a proposito del Perí liménon di Timostene, e resta sempre difficile chiarirne la natura originale, cioè capire se si trattava di opere effettivamente tecniche, destinate ai naviganti, o di opere rielaborate con finalità geografiche, dunque destinate a un pubblico più ampio. Una situazione di questo genere riguarda anche l’opera intitolata Astronomia nautica (nautikè astrología) attribuita a Talete, il filosofo e matematico greco vissuto a cavallo tra il VII e il VI sec. a.C.35. Si trattava di un testo ad uso dei naviganti o, piuttosto, di un testo di astronomia realizzato in base alle osservazioni compiute dai naviganti? Considerando le modalità con cui gli antichi utilizzavano le stelle per navigare, e richiamando la notizia di Strabone citata sopra, appare probabile che si trattasse di un testo scientifico derivato dall’esperienza nautica e non viceversa. Appare tuttavia significativo il fatto che esistesse una tradizione risalente a Erodoto secondo cui il greco Talete sarebbe stato di origine «fenicia e barbara», dunque una tradizione che creava un rapporto tra il filosofo, i Fenici e l’arte della navigazione36. La tendenziosità di Erodoto su questo punto, esplicitamente ricordata da Plutarco37, non andrebbe però a smentire l’origine milesia del filosofo, comunemente riconosciuta. Del resto, è stato ipotizzato che l’idea di un’origine fenicia di Talete derivi dal titolo di alcune opere a lui attribuite. Si tratta della citata Astronomia nautica e di quelle intitolate Del solstizio e Dell’equinozio, che richiamerebbero la pratica della navigazione e, di rimando, la proverbiale tradizione nautica dei Fenici38. L’attribuzione di queste opere resta comunque incerta.

4.3. Orientarsi a levante o a settentrione? Il verbo “orientare/orientarsi” e il sostantivo “orientamento” indicano il disporre qualcosa o il disporsi in una determinata posizione rispetto ai punti cardinali o ad altri punti di riferimento, sia in senso statico che dinamico. L’etimologia rimanda evidentemente al concetto 106

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di volgere/volgersi verso oriente, richiamando una consuetudine comune a tutti i popoli del pianeta, che risale certamente alla preistoria. La levata del sole, inoltre, fu presto associata alla nascita/rinascita della vita, assumendo anche un significato religioso (orientamento di un tempio a levante, verso il sorgere del sole). Per orientarsi con la levata del disco solare, tuttavia, è necessario tenere ben presente il momento dell’anno in cui si compie l’osservazione, perché le levate e gli occasi dell’astro non avvengono mai nello stesso punto da un giorno all’altro. Il corso apparente del sole, infatti, si sposta tra gli estremi solstiziali, con un massimo verso nord al solstizio d’estate e verso sud al solstizio d’inverno, quando l’astro si trova allo zenit, rispettivamente, del Tropico del Cancro e del Tropico del Capricorno. Soltanto in corrispondenza degli equinozi le levate e gli occasi forniscono la direzione del Levante e del Ponente veri. Il fenomeno è facilmente riconoscibile per chiunque, nel tempo, rilevi da un medesimo punto di osservazione il sorgere e il tramonto, in rapporto con punti di riferimento fissi sull’orizzonte. Se il punto ortivo equinoziale identifica il Levante vero (l’est), al solstizio estivo indicherà per noi, dalle nostre latitudini, una direzione compresa tra il Greco e il Greco-Levante (cioè tra nordest ed est-nordest), al solstizio invernale una direzione tra lo Scirocco e lo Scirocco-Levante (cioè tra sudest ed est-sudest). Viceversa per gli occasi. Al suo passaggio meridiano, invece, il sole permette di riconoscere un orientamento nord-sud, poiché, nell’emisfero boreale a nord del tropico, al mezzogiorno dell’osservatore l’ombra di uno gnomone verticale proietta la sua ombra (la più corta del giorno) esattamente verso nord. Si tratta di fenomeni ben noti, a cui ponevano grande attenzione gli architetti quando stabilivano col sole l’orientamento degli edifici o gli agrimensori quello della centuriazione39. In ogni caso, i tre momenti funzionali all’orientamento (alba, mezzogiorno e tramonto) sono fugaci e per questo vanno rilevati con precisione nell’istante esatto, quindi relazionati col periodo dell’anno. Si tratta di riferimenti instabili, che richiedono una correzione costante. Ragione per cui, nonostante i marinai utilizzassero correntemente anche il sole per orientarsi40, il verbo che definisce questa azione deriva con ogni probabilità dalla pratica sviluppata in terraferma. Ecco, allora, che la necessità di avere riferimenti di più lungo periodo portò i marinai a privilegiare, anziché il Levante, il Polo settentrionale, riconosciuto attraverso le stelle nel cielo notturno; per altro, senza che ciò abbia mai portato alla creazione del verbo “nordizzare”, conservandosi nel tempo il nostro “orientare”. Dovremo chiederci, a questo punto, se i naviganti antichi si orientavano con le singole stelle o con gruppi di stelle, cioè con le costellazioni. La risposta non è univoca e richiede una spiegazione accurata, perché nell’antichità la posizione del Polo Nord Celeste era diversa rispetto a quella che possiamo osservare noi oggi; quindi, erano diversi i riferimenti con cui orientarsi. L’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore furono le costellazioni fondamentali elette a propria guida dai naviganti antichi, dai Fenici come dai Greci, dai Cartaginesi come dai Romani. La scelta non fu certo casuale. La rotazione apparente delle due costellazioni intorno al Polo Nord Celeste faceva sì che queste apparissero circumpolari per un osservatore posto alle latitudini del Mediterraneo, cioè non scendessero mai al di sotto del suo orizzonte. Per questo motivo nacque l’immagine letteraria delle Orse che “non si bagnano mai nell’Oceano”41. Gli astri circumpolari sono quelli che per un osservatore posto a una determinata latitudine sulla superficie terrestre restano compresi entro una calotta di perpetua visibilità, Orientarsi in mare

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cioè ruotano con moto apparente intorno al Polo Nord Celeste senza mai tramontare, restando sempre visibili in ogni giorno dell’anno durante tutte le ore della notte (e del giorno, se non fossero offuscati dalla luce del sole)42. Perché una stella possa definirsi circumpolare rispetto all’orizzonte di un osservatore è necessario che, in valore assoluto, la somma della sua declinazione (cioè la sua distanza angolare dall’equatore celeste, misurata lungo il circolo orario che passa attraverso la stella) e della latitudine dell’osservatore sia uguale o maggiore di 90° e che declinazione e latitudine siano dello stesso nome (entrambe nord o sud). Per esempio, nel caso di un osservatore posto ad una latitudine φ di 54° N e di una stella con declinazione δ di 43° N avremmo: φ + δ = 54° + 43° = 97° (> 90°), per cui la stella sarà circumpolare. La stessa stella, invece, non sarà più circumpolare per un osservatore posto a 44° N: infatti, 44° + 43° = 87° (< 90°). Più semplicemente, perché un astro sia circumpolare è necessario che la sua distanza dal Polo Nord Celeste, espressa in gradi angolari, sia uguale o minore rispetto alla latitudine dell’osservatore. Questo è ciò che accade a livello teorico, perché l’effetto della foschia atmosferica rende spesso difficile scorgere le stelle molto basse sull’orizzonte. Per risultare ben visibili è infatti necessario che siano elevate di alcuni gradi, mediamente 5° o 6° per le stelle molto luminose, di magnitudine 1. Al contrario, le costellazioni non circumpolari, quelle i cui astri sorgono e tramontano, non potevano rappresentare dei riferimenti stabili, come confermano le parole che il poeta Lucano43 attribuisce a un esperto pilota, in risposta alla domanda di Pompeo su come i marinai riuscissero a seguire la propria rotta: «(Pompeo) interrogò il pilota su tutti gli astri, chiese come si riconoscono le terre, qual è in cielo il riferimento per la rotta, quale costellazione indica la Siria e quale fra le stelle del Carro segna la giusta direzione per la Libia. L’esperto osservatore del cielo silenzioso gli risponde: “noi non seguiamo quegli astri che scorrendo passano nel cielo stellato e che, per lo spostarsi continuo del loro asse, ingannano i poveri marinai: ma quel polo che non tramonta e non si tuffa mai nelle onde, illuminato dalle due Orse, quello guida le nostre prore. Finché lo vedrò sul mio capo e l’Orsa minore starà perpendicolare sulla mia antenna, andiamo verso il Bosforo e il mare che forma i golfi nelle coste scitiche. Quando invece Artofilace declina dalla cima dell’albero e Cinosura si avvicina all’acqua, allora la nave è diretta ai porti della Siria. Dall’altra parte ci accoglie Canopo, stella paga di vagare nel cielo australe e schiva di Borea; avanzando oltre Faro e lasciandola a sinistra, la nave toccherà le Sirti, in mezzo al golfo”»44.

La spiegazione del nostro pilota, in realtà, più che un’istruzione nautica sembra essere uno sfoggio di erudizione astronomica e contiene diverse imprecisioni riguardo agli orientamenti specifici. Andrebbe dunque considerata in un contesto più letterario che tecnico45, restando tuttavia significativa in rapporto al sistema usato dai marinai per orientarsi con le costellazioni. In senso generale, le Orse indicano evidentemente il settentrione e la loro posizione rispetto alla nave, in rapporto all’asse longitudinale poppa-prua e alla direzione con cui la nave stessa si muove, fornisce un primo grossolano orientamento. Si può inoltre ritenere che gli antichi le utilizzassero non solo per trovare i punti cardinali, ma, a livello pratico, anche per identificare le direzioni di determinate località rispetto al punto di partenza, cioè associando le località stesse a determinate stelle guida, in rapporto alla stagione e all’ora in cui venivano rilevate, dunque seguendo delle “rotte stellari”46. Lo si può dedurre dal con108

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fronto tra i sistemi di orientamento stellare documentati dalle fonti per il Mediterraneo antico e quelli praticati dai Polinesiani. «Le deduzioni che possiamo trarre dalla nautica polinesiana», osserva Giuseppe Puglisi, «sono illuminanti. Il loro metodo ci appare universale, ed i rari accenni in Omero, in Lucano e in Tolomeo ci si rivelano nel loro preciso significato. Le rotte della letteratura classica, come abbiamo accennato più volte, erano piuttosto moduli. Un modulo di rotta consisteva di due riferimenti: uno di carattere cronologico (aspetto della volta celeste, in base alla posizione di un asterismo sicuramente identificabile rispetto all’osservatore) ed uno di valore direttorio (asterismo guida per la nave); modulo che valeva per tutto il periodo dell’anno in cui i due asterismi erano visibili insieme, per l’ora e il giorno qualsiasi in cui l’asterismo cronologico era nella posizione indicata, tipica di un aspetto del cielo che si ripeteva esattamente ogni notte, salvo il ritardo di quattro minuti … Per la conservazione della tradizione nautica, è probabile che i moduli fossero raccolti in prontuari per i diversi bacini di mare, in forma di motti o proverbi, più facili da ritenersi a mente, come praticano ancora varie popolazioni, ed erano applicabili soltanto dall’arte del pilota. Essi indicavano, come abbiamo accennato, direzioni invariabili, e per usarli si doveva ricavarne il sentiero stellare per l’intera notte, cioè la successione di stelle basse sorgenti o tramontanti e la posizione in cui tenerle rispetto alla nave, dal tramonto del Sole all’alba seguente, cioè nelle ore precedenti e seguenti la rotta-tipo sintetizzata nel modulo. Tutta qui l’arte e la scienza del pilota che si apprestava ad una traversata: nel sapere ricavare dal modulo il sentiero stellare, ricorrendo alle proprie cognizioni o all’osservazione del cielo nella notte prima di salpare»47. Naturalmente, non pensiamo che l’arte del pilota si esaurisse in questa pratica, ma riteniamo corretta l’impostazione del problema, ovvero il fatto che gli antichi, quando affrontavano le traversate d’altura, oltre al polo settentrionale individuato grazie alle Orse impiegassero anche il sistema delle “rotte stellari”, in modo simile a quanto facevano i navigatori polinesiani fino a tempi recenti48. Diverse parti dell’attrezzatura della nave (la testa dell’albero, le due estremità del pennone, l’incrocio tra l’albero e il pennone, l’estremità dell’asta di prua, le bitte sulle fiancate di prua, la sovrapposizione o l’incrocio tra questi e altri elementi dell’attrezzatura) potevano essere utilizzate come mirini per traguardare le stelle e individuare le direzioni, sempre nella prospettiva del timoniere, cioè realizzando i traguardi da poppa verso prua. All’interno di qualunque sistema di orientamento, per quanto empirico e approssimativo, è infatti necessario avere dei punti di riferimento stabili. Innanzitutto una “linea di fede”, rappresentata nel nostro caso dalla mezzeria dello scafo (cioè dal suo asse longitudinale, identificato dalla chiglia) e una prospettiva costante, che abbiamo detto essere quella del timoniere, da poppa verso prua. Quando si eseguivano dei rilevamenti di una certa precisione, con cui ottenere degli allineamenti astronomici che andassero oltre la semplice distinzione tra il rilevare la costellazione a destra, a sinistra o sulla prua, era necessario tenere in considerazione la stagione dell’anno e, almeno in modo approssimativo, il momento della notte in cui si eseguiva il traguardo (la nostra ora). A differenza di quanto accade oggi, però, nell’antichità nessuna stella indicava il Polo Nord Celeste, come sottolineava Lucano nel passo citato, parlando di un punto del cielo attorno al quale ruotavano le costellazioni, senza riferimento a una stella precisa. Nello stesso senso si era già espresso il navigatore greco Pitea di Marsiglia, nel IV sec. a.C., affermando che la posizione del Polo Nord Celeste non era contrassegnata da una singola stella, ma riOrientarsi in mare

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Fig. 46. Schema del movimento dell’asse terrestre dovuto alla precessione lunisolare o precessione degli equinozi, con conseguente spostamento del Polo Nord Celeste intorno al polo dell’Eclittica.

cadeva in un punto vuoto del cielo che costituiva il vertice di un quadrangolo, definito negli altri vertici da tre stelle49. Se ai nostri giorni siamo abituati a identificare il Polo Nord Celeste con la Stella Polare, che corrisponde alla stella α dell’Orsa Minore, le fonti storiche confermano che i marinai antichi non avevano una stella polare a cui fare riferimento. Questo perché la posizione del Polo Nord Celeste cambia nel corso del tempo a causa della precessione lunisolare (moto a cui si deve la precessione degli equinozi) e, di conseguenza, cambia la nostra visione della volta stellata. In sostanza, il nostro cielo non è lo stesso di duemila o tremila anni fa. Il fenomeno astronomico della precessione, scoperto nel II sec. a.C. dall’astronomo e matematico greco Ipparco di Nicea, è determinato dall’attrazione del Sole e della Luna sull’asse terrestre, a cui si oppone il moto di rotazione della Terra. Ne deriva un lento ma ampio movimento dell’asse terrestre50 (fig. 46). Per capire come funziona dovremo ricordare, innanzitutto, che l’asse di rotazione terrestre è inclinato di 23° 27’ rispetto all’asse che collega i due poli dell’Eclittica. L’asse dell’Eclittica è perpendicolare al piano dell’Eclittica, essendo 110

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Fig. 47. Raggi di rotazione apparente delle stelle dell’Orsa Minore e dell’Orsa Maggiore intorno al Polo Nord Celeste, intorno al 500 a.C. (a) e oggi (b).

l’Eclittica la traiettoria descritta dal moto apparente del Sole sulla sfera celeste ed essendo il piano dell’Eclittica inclinato di 23° 27’ rispetto al piano equatoriale celeste, che è la proiezione del piano equatoriale terrestre. L’asse terrestre si sposta molto lentamente intorno all’asse che collega i due poli dell’Eclittica, ruotando in senso antiorario e descrivendo un cono che ha per vertice il centro della Terra. Ne consegue che la proiezione del Polo Nord Terrestre sulla volta celeste, proiezione che corrisponde al Polo Nord Celeste e che si colloca sul prolungamento dell’asse terrestre all’infinito, si sposta lungo un circolo che ha un raggio di 23° 27’ il cui centro è rappresentato dal Polo dell’Eclittica, compiendo un giro intero in circa 26.000 anni. Se oggi il Polo Nord Celeste si trova molto vicino ad α dell’Orsa Minore, l’attuale Stella Polare, la precessione lo sposterà in prossimità di Vega tra circa 12.000 anni, mentre tra circa 21.000 anni arriverà in prossimità di Thuban (α del Drago), stella che fu già polare agli inizi del III millennio a.C. Nell’antichità, dunque, la nostra Polare era molto più distante dal Polo Nord Celeste di quanto non sia oggi. Attualmente dista circa 1°, motivo per cui descrive un circolo così stretto intorno ad esso da far apparire la stella quasi immobile nel cielo. Ma se consideriamo, per esempio, un periodo compreso tra il V e il III sec. a.C., possiamo rilevare che la stella ruotava con un raggio superiore intorno al Polo, distando da questo circa 12° (fig. 47), poiché il Polo si trovava nel tragitto tra Thuban e α dell’Orsa Minore, poco più che a metà strada. Altre stelle che potessero svolgere in senso stretto la funzione di una polare non ve Orientarsi in mare

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ne erano. Se verso il 500 a.C. il Polo Nord Celeste distava circa 7° da Kochab (β dell’Orsa Minore), questa non era comunque abbastanza vicina al Polo per poter essere considerata polare. Nell’antichità greco-romana, infatti, non esisteva il concetto di stella polare e il Polo Nord Celeste, come abbiamo visto, era identificato da un punto vuoto del cielo corrispondente al fulcro intorno a cui ruotavano le due principali costellazioni circumpolari. Esattamente al contrario di quanto accade oggi, α dell’Orsa Minore era la stella di questa costellazione che ruotava col raggio maggiore intorno al Polo Nord Celeste. Risulta interessante, a questo punto, constatare come le fonti antiche riferiscano che i naviganti greci erano soliti orientarsi con l’Orsa Maggiore (Helíke in greco, Helice in latino), mentre quelli fenici e punici preferissero utilizzare l’Orsa Minore (Kynósoura in greco, Cynosura in latino), costellazione, quest’ultima, che veniva significativamente chiamata anche Foiníke. A tale proposito, Silio Italico51 ricorda che l’Orsa Minore era la guida infallibile dei marinai di Sidone, dunque dei Fenici in senso più generale, mentre Manilio52 dedica a questo fatto una spiegazione più ampia, che vale la pena riportare: «Occupano la sommità di questo [Polo Nord Celeste, n.d.a.] quelle costellazioni notissime ai miseri naviganti, / (costellazioni) che li guidano, bramosi, per l’immenso mare. / La maggiore, Elice, descrive un arco maggiore / (sette stelle, gareggianti in splendore, ne formano l’immagine): / sotto la sua guida le navi greche spiegano le vele tra i flutti. / La piccola Cinosura si muove in un’orbita più stretta, / minore per spazio e per luce; ma, a giudizio dei Tirii [i Fenici di Tiro, n.d.a.], / vince la maggiore. Questa è la guida più sicura per i Cartaginesi / quando cercano la terra che dal mare non appare»53.

Tale contrapposizione, divenuta una sorta di cliché letterario diffuso nelle fonti54, sembra attestare l’effettiva esistenza di due tradizioni nautiche diverse, che sono probabilmente all’origine dello stesso motivo letterario55. Basterà osservare il cielo durante una notte serena per accorgersi che l’Orsa Minore è meno luminosa della Maggiore, dunque che risulta più difficile da riconoscere. Tuttavia, Manilio sottolinea che i Cartaginesi si affidavano alla sua guida quando intraprendevano i viaggi d’alto mare, su lunghe distanze, per raggiungere le terre che restavano al di fuori del raggio di visibilità. La spiegazione andrà ricercata, da un lato, nel fatto che gli antichi attribuivano ai Fenici e ai Cartaginesi la fama di espertissimi naviganti, divenuta proverbiale fino ai nostri giorni; dall’altro, nella pratica delle navigazioni di lungo corso condotte dagli stessi Fenici fin dagli esordi della loro espansione verso occidente, quindi nel precoce superamento delle Colonne d’Eracle e nella discesa lungo le coste africane (spedizioni fenicie e cartaginesi)56. Dal punto di vista prettamente nautico, Fenici e Cartaginesi dovettero trovare due vantaggi fondamentali nel seguire l’Orsa Minore. Il primo consisteva nel fatto che questa era, ed è, la costellazione più vicina al Polo Nord Celeste, quella che vi ruotava intorno, e vi ruota, con il raggio più breve. Rappresentava dunque il riferimento migliore per orientare nel modo più preciso il corso della nave durante la notte. Il secondo vantaggio, sempre dovuto alla sua vicinanza al Polo, consisteva nel fatto che, procedendo verso sud, l’Orsa Minore era, ed è, la costellazione che rimane circumpolare più a lungo. Nel periodo che abbiamo preso ad esempio, tra il V e il III sec. a.C., questa era teoricamente circumpolare fino ad una latitudine di quasi 15° N, che lungo le coste dell’Africa atlantica corrisponde alla lati112

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Fig. 48. Latitudini da cui, sulla superficie terrestre, le Orse risultano e risultavano circumpolari, in base al loro raggio di rotazione apparente intorno al Polo Nord Celeste. La linea a tratti e punti – ∙ – ∙ – ∙ – ∙ – evidenzia la situazione attuale, ovvero le latitudini approssimative da cui risultano circumpolari, rispettivamente, l’Orsa Maggiore (A) e l’Orsa Minore (B); la linea a soli punti ∙ ∙ ∙ ∙ ∙ ∙ ∙ ∙ evidenzia la situazione intorno al 500 a.C. , rispettivamente per l’Orsa Maggiore (A’) e per l’Orsa Minore (B’).

tudine del Capo Verde. Ora, se consideriamo che i naviganti fenici e punici si spinsero regolarmente almeno fino all’altezza di Mogador, che in modo episodico si spinsero probabilmente anche più a sud, almeno fino alle Canarie, e che probabilmente condussero spedizioni esplorative fino a latitudini ancora più basse, come potrebbe testimoniare il periplo di Annone, possiamo facilmente comprendere come la guida dell’Orsa Minore diventasse non solo preferibile ma addirittura indispensabile, dal momento che le altre costellazioni, e in primo luogo l’Orsa Maggiore, non sarebbero più risultate circumpolari. I versi di Manilio, insieme ai passi degli altri autori che mettono in relazione l’Orsa Minore coi naviganti fenicio-punici, potrebbero allora richiamare non solo le navigazioni di lungo corso, ma anche la pratica dei viaggi esplorativi in Atlantico57. Poiché lo spostamento del Polo Nord Celeste dovuto alla precessione ha modificato nel tempo la porzione di cielo stellato visibile da una medesima latitudine terrestre, dunque la calotta sferica entro cui ricadono le stelle circumpolari, entrambe le Orse avevano un raggio di visibilità maggiore rispetto ad oggi (fig. 48). Intorno al 500 a.C. l’Orsa Maggiore era Orientarsi in mare

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teoricamente circumpolare fino a 28° - 29° N e i marinai greci potevano effettivamente utilizzarla come guida da tutte le latitudini mediterranee. Oggi, invece, la sua stella più distante dal Polo (η o Alkaid) tramonta già intorno ai 41° N, il che significa, più o meno, alle latitudini della Sardegna settentrionale o della Puglia centrale (il suo raggio di visibilità come costellazione circumpolare ha subìto una variazione di 12° - 13°). Nella stessa epoca l’Orsa Minore era circumpolare fino a 15° - 16° N, mentre oggi lo è fino a circa 18° N, con una differenza di soli 2° o 3°, dovuta al fatto che, trovandosi più vicina al Polo, il suo raggio di visibilità ha subìto naturalmente una variazione inferiore rispetto a quanto accaduto per la Maggiore. Un’ultima notazione riguarda l’uso delle Orse non per orientarsi, ma per stimare l’ora nel corso della notte. La loro rotazione apparente intorno al Polo Nord Celeste, in rapporto con la stagione dell’anno, è sempre stato un mezzo comunemente impiegato per scandire il trascorrere del tempo, per mezzo di un sistema empirico diffuso in tutto l’emisfero boreale, la cui continuità nel tempo è ben documentata. Nel III sec. a.C., per esempio, Teocrito58 identificava la mezzanotte nel momento in cui l’Orsa declinava di fronte a Orione, mentre nei primi anni del Novecento Giulio Grimaldi scriveva di un marinaio abituato a leggere le ore della notte nel cielo meglio che in un orologio59. Il principio era quello di identificare la posizione di determinate stelle guida in rapporto al Polo Nord Celeste, principio che sarà poi sviluppato a partire dal tardo Medioevo per mezzo dello strumento nautico chiamato notturnale60. Gli allineamenti di β e γ dell’Orsa Minore e di α e β dell’Orsa Maggiore, stelle facilmente individuabili, erano utilizzati come le lancette di un immenso orologio siderale, che, girando intorno al Polo, permettevano di riconoscere l’ora con grande precisione; considerando, per di più, che nell’antichità, a causa della precessione, le due stelle β e γ dell’Orsa Minore erano anche più vicine al Polo e meglio allineate con esso.

4.4. Orientarsi col fondo del mare La maggior parte di noi ha un aspetto esteriore e uno interiore, intendendo il temine aspetto nel significato di ciò che appare, che si può vedere con gli occhi e con l’intelletto (dal latino aspectus, che indica il guardare, lo sguardo, l’aspetto, l’apparenza, derivato dal verbo aspicere, che significa guardare, esaminare, considerare). Per conoscere davvero una persona dobbiamo quindi andare oltre la superficie, scendere in fondo e cercare il suo aspetto interiore, che può essere anche molto diverso da quello esteriore. Un approccio che per certi versi ricorda il concetto di rotta, la cui definizione tecnica esula dalla superficie del mare, mutevole e in costante movimento, potremmo dire ingannatrice, indicando invece il percorso che il baricentro dello scafo compie rispetto al fondo marino, cioè rispetto alla superficie terrestre, stabile e riconoscibile, potremmo dire sincera. Del resto, a pensarci bene, non potrebbe che esser così, anche se quello di riferirsi al fondo marino rimane un principio fondamentalmente teorico, a meno che non si navighi affidandosi ai sonar e all’immagine acustica del fondo che questi restituiscono, come su una nave oceanografica o a bordo di un sommergibile. Tuttavia, trovare nella batimetria, nella morfologia e nella natura del fondo marino gli elementi in grado di guidare la navigazione, quindi di orientarsi in mare e di seguire una rotta, era un fatto assodato per i marinai antichi, 114

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al pari di come lo era per i loro colleghi medievali e moderni, soprattutto per i pescatori, almeno fino alla prima metà del Novecento. «Il vero pilota», scrive Victor Hugo nel suo I lavoratori del mare, «è il marinaio che naviga più sul fondo che alla superficie. L’onda è un problema esteriore, continuamente complicato dalla configurazione sottomarina dei luoghi in cui la nave percorre la sua rotta. A vedere Gilliat vogare sopra i bassifondi e attraverso gli scogli subacquei dell’arcipelago normanno, si sarebbe detto che nella testa egli avesse una carta del fondo del mare. Sapeva tutto e tutto affrontava»61. Per navigare rispetto al fondo marino è sempre stato indispensabile lo scandaglio manuale a sagola, strumento rimasto praticamente identico per tipologia e modalità di utilizzo dall’antichità ai nostri giorni62 (fig. 49). Uno o più scandagli erano sempre presenti a bordo, tanto nelle piccole barche da pesca quanto nelle onerarie di grande tonnellaggio, ed è anche probabile che fossero conservati dei corredi di scandagli di diverso peso e dimensioni, quelli per il basso fondale (entro i 30 m circa), di uso più frequente e di peso minore, e quelli per l’impiego in acque profonde, più grandi e pesanti63. Fig. 49. Sonda da scandaglio in Ampiamente documentato in associazione con i relitti, piombo, età romana. con le zone portuali e di approdo, rappresenta l’unico strumento nautico di cui abbiamo una conoscenza approfondita, sia dal punto di vista storico che archeologico. In greco era chiamato katapeireteríe o katapeiratér, da cui il latino catapirates, nome che esprime chiaramente la sua funzione, derivando dal verbo katapeiráo, che significa provare, saggiare64. Era indispensabile per rilevare la batimetria quando ci si avvicinava alla costa, soprattutto di notte o quando durante il giorno si avevano condizioni di maltempo e scarsa visibilità, quando si navigava in zone che presentavano la pericolosa insidia dei bassifondi, delle secche e degli scogli affioranti. Con mare grosso e maltempo, le difficoltà di avvicinamento a terra aumentavano notevolmente, poiché vi era sempre il rischio di arrivare sui bassifondi senza accorgersene o di fare naufragio contro gli scogli, quando ormai non vi erano più tempo né spazio per manovrare. Si rendeva allora necessario scandagliare ripetutamente: se la profondità diminuiva, significava che la nave si stava dirigendo verso la riva o verso un bassofondo, poi annunciato dal rumore dei frangenti, come attesta chiaramente la dinamica del naufragio di cui fu protagonista San Paolo presso l’isola di Malta65. Non appena i marinai intuirono che si stava avvicinando qualche terra, nel pieno della notte cominciarono a scandagliare, trovando prima 20 orge di fondo e poco dopo 15. A quel punto, temendo di andare a fracassarsi sugli scogli e i bassifondi che ancora non potevano vedere, calarono quattro ancore da poppa e aspettarono con ansia che si facesse giorno. L’impiego di questo strumento, da cui poteva dipendere l’incolumità della nave e la salvezza dell’equipaggio, fu universalmente diffuso nel corso dei secoli e regolamentato scruOrientarsi in mare

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polosamente. I portolani medievali raccomandavano di navigare “a tocco di scandaglio” nelle acque caratterizzate dalla presenza di bassi fondali66, mentre nel già citato manuale di William Bourne, il cinquecentesco A Regiment for the Sea, incontriamo dettagliate istruzioni su come guidare la navigazione nello stretto della Manica per mezzo dello scandaglio, con precisi riferimenti alla batimetria e alla tipologia del fondo marino nelle diverse zone, in rapporto alla distanza dalla costa67. Lo scandaglio antico si componeva di una sonda di piombo di forma troncoconica o a campana, come si può riscontrare grazie ai numerosi rinvenimenti archeologici68. Il suo peso non superava solitamente i 3-4 chili, così da poter essere agevolmente maneggiato senza l’impiego di un verricello. Eccezionalmente la sonda poteva essere realizzata anche in pietra, dunque in un modo più rudimentale, ma con le stesse caratteristiche di quelle di piombo (è verosimile pensare che l’uso della pietra fosse dettato da motivi economici, che dovevano incidere non poco sulle classi più povere, com’erano per esempio i pescatori)69. In questo caso lo svantaggio derivava dal fatto di avere un peso specifico decisamente più basso, caratteristica che rallentava la corsa dello strumento verso il fondo marino, tanto da poter rendere impreciso il rilevamento. Sulla sommità della sonda si trovava un anello per legarvi la sagola, mentre alla sua base il piombo si presentava incavato, con uno spazio vuoto all’interno del quale era inserito del grasso animale, il sego, che serviva per prelevare un piccolo campione di sedimento del fondo marino. Il maneggio richiedeva una certa destrezza e velocità d’esecuzione, poiché scandagliare era un’operazione che andava condotta a colpo sicuro, senza incertezze, pena la ripetizione della manovra. Il piombo veniva infatti calato in mare senza frenare lo scorrimento della sagola e se si era in navigazione doveva essere lanciato verso prua, in modo da assecondare l’avanzamento dell’imbarcazione. Non appena il marinaio percepiva che la sonda aveva toccato il fondo, doveva fermare la misura sulla sagola, avendo cura di trovarsi sulla verticale dello strumento, perché se questo avesse formato un angolo la misura sarebbe risultata falsata. Iniziava quindi a recuperare la sagola con ampie bracciate, cioè stendendo le braccia ad ogni trazione, per contare, appunto, quante “braccia” di sagola erano state filate, rilevando così la batimetria in quel punto. L’impiego dei riferimenti antropometrici per calcolare le unità di misura più brevi, in questo caso l’estensione delle braccia aperte, è sempre stato diffuso nel mondo marinaresco, e non solo in questo70. Diversamente, la misura poteva essere scandita da una serie di nodi realizzati a intervalli regolari nella sagola. Ma cosa c’entra tutto questo con l’orientamento? In effetti, lo scandaglio veniva usato anche per orientarsi, perché, oltre alla batimetria, permetteva di rilevare la tipologia del fondo marino, grazie al piccolo campione di sedimento raccolto dal sego inserito nella cavità alla base della sonda. Quando la costa non era visibile, di notte o di giorno in condizioni di scarsa visibilità atmosferica, per esempio con la nebbia, si trattava di un sistema necessario e assolutamente efficace. A tale riguardo, l’uso dello scandaglio nella marineria tradizionale (fig. 50) conferma che tra i principali indicatori vi erano la tipologia, il colore e la granulometria della sabbia; la presenza di altri elementi come ciotolini di ghiaia; quella di particolari conchigliette (sempre in rapporto alla loro tipologia, colore e dimensioni); la presenza di alghe o di “sporco”; la consistenza, il colore, l’odore e addirittura il sapore del fango trasportato in mare dai fiumi, indizio fondamentale per posizionarsi rispetto alle foci, riconoscendo le caratteristiche del fango che identificavano un determinato fiume, sia 116

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in rapporto alle qualità del sedimento proprie di ciascun corso d’acqua sia alla distanza a cui il sedimento stesso si spingeva rispetto alla costa (a lunga distanza per i fiumi più grandi, a breve distanza per quelli più piccoli, in una scala ben nota ai marinai e ai pescatori per i tratti di mare che erano abituati a frequentare). Lungo le coste occidentali dell’Adriatico, per esempio, coste caratterizzate dalla presenza di molte foci fluviali e da un fondo marino regolare, il riconoscimento dei diversi tipi di fango e la profondità a cui questi si trovavano forniva un grossolano ma efficacissimo indizio di posizione, sia in senso meridiano, riconoscendo a quale altezza si era lungo un determinato litorale, sia in senso parallelo, rilevando la distanza dal litorale in base alle batimetrie note. La precisione di questi rilevamenti era tale da aver fatto sorgere, a livello popolare, delle vere e proprie leggende. A Rimini si ricordava l’abilità di un pescatore che, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, riusciva sempre a ritrovare un elmetto tedesco recuperato casualmente dalle sue Fig. 50. Impiego dello scandaglio manuale reti in un determinato punto al traverso della costa a sagola a bordo di un’imbarcazione trae che lui, ogni volta, ributtava in mare. Orientan- dizionale (1995). dosi col solo uso dello scandaglio, tornava sul punto, calava le reti e infallibilmente lo ripescava. La peculiare capacità di orientarsi per mezzo dello scandaglio non è testimoniata solo dalla tradizione marinaresca. Nel V sec. a.C., affrontando un discorso sulla natura alluvionale del delta del Nilo, Erodoto71 ricorda che i naviganti si accorgevano di essere a un giorno di navigazione dall’Egitto, dunque dal delta del Nilo, quando con lo scandaglio raccoglievano del fango fluviale a 11 orge di profondità. Doveva trattarsi di un parametro di riferimento molto importante per i naviganti, perché consentiva loro di sapere che si trovavano sulla giusta rotta, cioè in direzione del delta, e di stimare la distanza dalla sua costa bassa, ancora invisibile sull’orizzonte (all’epoca di Erodoto, infatti, non esisteva ancora quell’importantissimo punto cospicuo artificiale che sarà il faro di Alessandria). A prescindere dalla precisione della notizia riferita dallo storico greco, risulta significativa l’associazione tra la batimetria, la tipologia del sedimento del fondo marino e il posizionamento rispetto alla costa72. In sostanza, grazie allo scandaglio i naviganti e i pescatori esperti riuscivano a orientarsi in zone di mare conosciute facendo riferimento a una specie di mappa mentale del fondo marino, quindi in base alle sue caratteristiche ambientali e alla sua topografia, associandole alla batimetria, secondo un concetto che richiama la definizione di rotta ricordata in apertura di questo paragrafo. Le informazioni desunte da questa mappa mentale del fondo potevano essere così importanti da venire incluse nei portolani. Orientarsi in mare

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Lo scandaglio apparteneva alla vita quotidiana dei marinai ed era usato correntemente, in modo assai più diffuso di quanto traspare dalle testimonianze storiche e archeologiche. Basterà ricordare che le secche e i bassifondi hanno sempre rappresentato uno dei pericoli più temuti dai naviganti. Tutte le fonti, da quelle antiche a quelle medievali e moderne, sottolineano continuamente la pericolosità di questi elementi73, enfatizzando in modo emblematico i settori di mare dove il rischio era maggiore, come accadeva per le coste nordafricane. Diodoro74 ricorda che la costa egiziana era povera di punti di sbarco, ad eccezione di un solo porto davvero sicuro, quello di Faro (Alessandria), e che una striscia di sabbia e di bassifondi si estendeva per quasi tutta la sua lunghezza, restando invisibile per i naviganti che non avessero una buona esperienza di quei luoghi. Strabone75 riferisce invece che le secche mettevano a rischio la navigazione lungo i litorali delle Sirti, perché emergevano improvvisamente anche dove l’acqua era alta, motivo per cui bisognava navigare a una certa distanza dalla costa. Altrettanto significativa è la descrizione che Lucano fa delle Sirti76, i cui litorali rappresentavano un settore di mare capace di terrorizzare anche i naviganti più esperti, un ambiente ostile, fatto di secche inframmezzate all’alto mare, dove le navi potevano arenarsi improvvisamente, togliendo ai malcapitati marinai ogni speranza di salvezza. Inoltre, particolarmente importante era l’uso dello scandaglio nelle fasi di avvicinamento ai porti, che spesso erano ubicati in zone di bassifondi, con la presenza di barre di sabbia semisommerse che le correnti spostavano in continuazione, rendendo necessario seguire precisi percorsi lungo canali subacquei difficilmente riconoscibili dalla superficie, come accade quando si naviga nelle lagune. Infine, lo scandaglio era indispensabile per conoscere la tipologia del fondo marino prima di procedere all’ancoraggio, dunque per scegliere il fondo migliore in cui calare le ancore, quello in cui avrebbero fatto una buona tenuta senza rischio di incagliarsi. Il fango è sempre risultato il miglior tenitore, seguito dalla sabbia, mentre con la ghiaia si rischiava che l’àncora finisse per “arare”, cioè per muoversi e retrocedere sotto la continua trazione esercitata dalla nave. Ovviamente, era da evitare un fondo fatto di scogli, dove le alte probabilità di incaglio potevano determinare perfino la perdita dell’àncora. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

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Vegezio, L’arte della guerra, IV, 38. Aristofane, Cavalieri, 543e. Eneide, III, 513-514. Hérouville 1941. Odissea, V, 295-296; XII, 408-409; XIV, 458, 475-476. Storie, II, 25, 2. Notti Attiche, II, 22, 14-15. Storia Naturale, II, 119-124. Seneca, Questioni Naturali, V, 16-17. Si vedano Böker 1958 e Liuzzi 1996. Janni 1981; Id. 1988. Si veda, per esempio, Omero, Odissea, XIII, 110-111. Gautier Dalché 1995, pp. 64-76; Id. 2006. Si veda, per esempio, Gellio, Notti Attiche, II, 22. Gisinger 1937; Böker 1958, coll. 2351-2353; Harley, Woodward 1987, pp. 152-153. Atti degli Apostoli, 21, 1-8.

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Versione di Anna Bognolo (Cristoforo Colombo, Giornale di bordo del primo viaggio e della scoperta delle Indie, a cura di F. Antonucci, A. Bognolo, F. Lardicci, Rizzoli, Milano 1992). 17 Versione italiana di Benedetto Galbiati (Heyerdahl 1999, pp. 170-173). Per le nubi come indicatori della presenza di terraferma si veda Lewis 1994, pp. 216-223. 18 Hornell 1946; Vernet 1978, p. 344; Luzón Nogué, Coín Cuenca 1986. 19 Genesi, 8, 6-12. 20 Vassilkov 2016. 21 Storia Naturale, VI, 83 = 24. 22 Apollonio Rodio, Le Argonautiche, II, 533-574. 23 Monti 1998/1999, pp. 122-124. In generale per l’iconografia degli uccelli in rapporto con le imbarcazioni e per la pratica del lancio dei volatili da bordo come mezzo di orientamento nautico, rimandiamo ancora a Luzón Nogué, Coín Cuenca 1986. 24 Filigheddu 1987-1992, pp. 92-94; Depalmas 2005. 25 Hornell 1946, pp. 145-146; Marcus 1992, pp. 53, 59-60, 72, 94, 195-197; Durand 1996, pp. 86-87. 26 Haddon, Hornell 1936-1938, I, pp. 145-146; Hornell 1946, pp. 143-145; Lewis 1994, pp. 203216. 27 Secondo le parole del pilota Teeta Tatua di Kuria, nelle Isole Gilberts, riferite da D. Lewis (1994, p. 205). 28 Romano 2001. 29 Georgiche, I, 136-137. 30 Omero, Odissea, V, 270-277, versione italiana di Rosa Calzecchi Onesti (Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1995). 31 Risultano interessanti, a questo proposito, le parole di David Lewis (1994, p. 325) relative ai sistemi dinamici, non-strumentali, usati dai navigatori polinesiani: «La navigazione pre-strumentale, realizzata senza qualche forma di istruzione, risponde a un principio dinamico; nuovi dati vengono sempre e continuamente elaborati, non solo quando si tiene un traguardo. Mentre il percorso si sviluppa, l’attenzione è sempre rivolta alla situazione e al momento contingenti, dunque alla posizione che è in continuo cambiamento» (versione italiana dell’autore). 32 Storia Naturale, VII, 209. 33 Medas 1998; Id. 2004c. 34 Geografia, XVI, 23-24 (C 757). 35 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 23. Si vedano Waerden 1988, pp. 13-15, e ora Dunsch 2013b. 36 Erodoto, Storie, I, 170. Si vedano quindi Scholia in Aratum Vetera, 39; Igino, Sull’astronomia, II, 2, 3, cita Erodoto come fonte; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 23, cita come fonti, oltre a Erodoto, anche Duride e Democrito. 37 Sulla malignità di Erodoto, 15 (Moralia 858 A). 38 Ferro, Caraci 1979, p. 115. Sul primato della tradizione nautica fenicia tra immaginario e realtà storica, Medas 2008b. 39 Le Gall 1975; Filippi 1983, pp. 126-127. 40 Puglisi 1971, pp. 8-9, 15-17; Brizzi, Medas 1999. Tifi, il pilota degli Argonauti, orienta il corso della nave osservando le stelle e il sole (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 105-108). 41 Omero, Odissea, V, 273-275; Virgilio, Georgiche, I, 246. Le Orse sono definite anche “asciutte”, in quanto non si bagnano mai nella distesa marina che rappresenta l’orizzonte, non scendono mai al di sotto di esso (Le Boeuffle 1987, p. 156, n. 658, inoccidus). 42 Migliavacca 1976, pp. 147-154; Flora 1987, pp. 27-29. 43 Farsaglia, VIII, 167-184. 44 Versione italiana di Ludovico Griffa (Lucano, Farsaglia, a cura di L. Griffa, Bompiani, Milano 1984). 45 Janni 1998a, pp. 463-466.

Orientarsi in mare

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Puglisi 1971, pp. 19, 27-34, 48-55. Puglisi 1971, pp. 54-55. 48 Lewis 1994, pp. 82-122. 49 Bianchetti 1998, pp. 82-83, 109-111. 50 Migliavacca 1976, pp. 128-131; Flora 1987, pp. 137-140. 51 Le guerre puniche, III, 665. 52 Il poema degli astri, I, 294-302. 53 Versione italiana di Dora Liuzzi (Liuzzi 1995). 54 Bunnens 1983, p. 14; Janni 1996, p. 75 (nota 76); 1998a, p. 461 (nota 22). 55 Medas 1998, pp. 160-161 (nota 12). 56 Medas 2008b (fama dei naviganti fenici e cartaginesi); Id. 2008a (aspetti nautici delle esplorazioni). 57 Feraboli, Flores, Scarcia 1996, pp. 226-227; Medas 1998, pp. 160-167. 58 Idilli, XXIV, 11-12. 59 Grimaldi 1908, p. 221. 60 Taylor 1957, pp. 145-148; Rohr 1988, pp. 161-163. 61 Versione italiana di Giacomo Zanga (Victor Hugo, I lavoratori del mare, a cura di G. Zanga e V. Brombert, edizione Oscar Mondadori, ristampa, Milano 2002, pp. 78-79; titolo originale, Les Travailleurs de la mer, Paris 1866). 62 Guglielmotti 1889, coll. 1579-1581, s.v. Scandáglio; Taylor 1957, pp. 35-37, 107, 131-136; Torr 1964, p. 101; Casson 1995a, p. 246. 63 Oleson 2008; Galili, Oleson, Rosen 2010. 64 L’atto di calare/lanciare in mare la sonda (nel secondo caso con preciso riferimento al lancio in avanti, verso prua, per assecondare l’avanzamento dell’imbarcazione), cioè di scandagliare, è indicato dal verbo greco bolízo e dal sostantivo bolís, getto, scandaglio, entrambi derivati dal verbo bállo, lanciare, dunque con riferimento preciso alla modalità d’uso dello strumento. 65 Atti degli Apostoli, 27, 27-29. Oleson 2008, pp. 117-118; Medas 2018a, pp. 47-48. Tra le fonti antiche sullo scandaglio, oltre al passo di Erodoto a cui faremo riferimento più avanti, si veda anche Isidoro di Siviglia (Origini, XIX, 4, 10). 66 Tra i numerosi esempi ricordiamo il Compasso da Navigare, del XIII secolo (Motzo 1947), il Portolano di Pietro De Versi, del 1445, il Parma-Magliabecchi, metà del XV secolo, il Rizo, del 1490 (Kretschmer 1909). 67 Taylor 1963a, pp. 270-271. 68 Rimandiamo ancora a Oleson 2008, quale lavoro di carattere complessivo. 69 Medas 1999. 70 Kula 1987, pp. 23-27. 71 Storie, II, 5, 2. 72 L’orgia antica corrisponde a circa 1,80 m, ovvero alla lunghezza delle due braccia distese con le mani aperte. 73 Seneca, Questioni naturali, V, 18, 7; Vegezio, L’arte della guerra, IV, 43. La letteratura di naufragio dell’età moderna ci offre molti esempi di disastri causati dalle secche e dai bassifondi (Gomes de Brito 1735-1736). 74 Biblioteca storica, I, 31, 1-5. 75 Geografia, XVII, 3, 20 = C 836. 76 Farsaglia, IX, 303-309, per cui si veda Mastrorosa 2002. 47

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Capitolo 5

IL TEMPO GIUSTO PER NAVIGARE

5.1. Le stagioni della navigazione Normalmente, quando dobbiamo affrontare un viaggio per mare non ci poniamo grandi problemi riguardo alla stagione, a meno che non si tratti di un viaggio di piacere o di una navigazione da diporto. Ormai da secoli la stagione invernale non rappresenta più un impedimento, benché all’epoca della vela navigare in inverno risultasse comunque più rischioso, certamente più disagevole. L’introduzione del motore e degli scafi in ferro, congiuntamente a quella di una strumentazione sempre più sofisticata, ha invece cambiato completamente le cose, rendendo tutto più veloce e affidabile, cancellando la maggior parte delle incertezze dovute alle condizioni del tempo. Il livello di sicurezza è aumentato di pari passo, così come quello del comfort di bordo per gli equipaggi e i passeggeri, tanto che in presenza di mare grosso un moderno traghetto riesce perfino a smorzare il rollio, utilizzando dei sistemi di stabilizzazione dello scafo. Incontrare maltempo durante una traversata raramente significa qualcosa che va oltre un po’ di disagio e qualche ora di ritardo. In definitiva, almeno per gli animi particolarmente sensibili alle questioni di mare, l’unico prezzo pagato al progresso è stata la perdita del sentimento “artistico” del navigare, nei suoi risvolti più ampi, sia positivi che negativi. Meditando sull’avvento dei primi piroscafi a metà dell’Ottocento, Joseph Conrad ci spiega in cosa consiste questo particolare sentimento, che prescinde dalla dura opinione che lui stesso aveva del mare. «Portare in giro per il mondo un piroscafo moderno», scrive ne Lo specchio del mare, «non ha la stessa qualità di intimità con la natura, che, dopo tutto, è una condizione indispensabile alla creazione di un’arte. È una vocazione meno personale e più rigorosa; meno ardua ma anche meno gratificante, per mancanza di stretta comunione fra l’artista e il mezzo della sua arte. È, in breve, qualcosa che ha meno a che fare con l’amore … Puntualità è la sua parola d’ordine. L’incertezza che è stretta compagna di ogni sforzo artistico è assente dalla sua impresa preordinata … È un’industria che, come altre industrie, ha il suo fascino, il suo decoro, e le sue ricompense, le sue amare ansietà e le sue ore di agio. Ma questo modo di andar per mare non ha la qualità artistica di una lotta in solitario contro qualcosa di molto più grande di te; non è l’esercizio faticoso, impegnativo di un’arte il cui ultimo esito sta sulle ginocchia degli dèi. Non è una vittoria individuale, emotiva, ma semplicemente l’uso esperto di una forza imprigionata, un altro passo innanzi, e non più, sul Il tempo giusto per navigare

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percorso della conquista universale»1. È il sentimento di un uomo moderno che ha piena consapevolezza del momento, della fine di un mondo e dell’inizio di una nuova epoca, in cui la velocità del progresso prima annuncia e poi impone di cambiare pagina. Per molti secoli è stato concesso ben poco spazio alla meditazione sul valore “artistico” del navigare. Le fonti antiche lasciano intendere bene come l’attenzione dei naviganti fosse rivolta principalmente al tempo, cosa del resto assolutamente naturale. Per questo, la navigazione ha conosciuto per secoli un ritmo prevalentemente stagionale, concentrandosi nei mesi in cui le condizioni meteo-marine erano più favorevoli, quando minori erano i rischi di incappare nel maltempo, oltre che di trovare una copertura nuvolosa persistente, tale da impedire di scorgere il sole di giorno e le stelle di notte. Era dunque in primavera che si apriva la stagione utile per navigare e agli inizi dell’autunno che si chiudeva. L’estensione del periodo, tuttavia, non fu sempre la stessa, ma aumentò col passare del tempo, di pari passo con lo sviluppo delle tecniche di navigazione e delle imbarcazioni. Ciò non significa che nei mesi invernali si smettesse del tutto di navigare, ma che l’attività risultava drasticamente ridotta. Nel racconto del viaggio di San Paolo da Cesarea di Palestina a Roma2, quando la nave si trovava alla fonda nell’ancoraggio di Buoni Porti, nell’isola di Creta, l’evangelista Luca ricorda che Paolo, esperto di viaggi per mare, suggerì di fermarsi a svernare in quel luogo, essendo ormai iniziato l’autunno e trascorso il tempo opportuno per navigare. Ripartire sarebbe stato un azzardo, perché in quel periodo dell’anno i rischi aumentavano di giorno in giorno. Il comandante decise però di proseguire, per andare a svernare nel porto di Fenice, sulla costa sud-occidentale dell’isola, dove avrebbero trovato condizioni migliori per affrontare una sosta così lunga. Decisione che fu foriera di terribili guai, perché, come vedremo nel paragrafo dedicato a questo viaggio, durante il breve tragitto da Buoni Porti a Fenice la nave incappò in una violenta tempesta che la trascinò alla deriva per molti giorni, prima di fare naufragio nell’isola di Malta. Il sistema di correnti anticicloniche che si instaura nel Mediterraneo durante i mesi estivi determina un periodo di tempo buono, con venti normalmente stabili e regolari, che favoriscono le navigazioni di lungo corso. Inoltre, tra la primavera avanzata e l’inizio dell’autunno i naviganti possono sfruttare il regime delle brezze di mare e di terra, i venti generati lungo la fascia costiera (fino a una decina di miglia al largo) dalla differenza di temperatura, dunque di pressione atmosferica, tra la superficie marina e quella terrestre, rispettivamente durante il giorno e la notte. Praticamente assenti o comunque molto deboli in inverno, le brezze spirano in senso perpendicolare o obliquo rispetto alla costa, offrendo alle navi la possibilità di viaggiare anche quando i venti al largo risulterebbero contrari3. Come accennato, l’estensione del periodo favorevole a prendere il mare aumentò progressivamente nel corso del tempo, secondo quanto testimoniano chiaramente le nostre fonti4. Per Esiodo5, testimone dell’epoca arcaica a cavallo tra VIII e VII sec. a.C., nonché figlio di un mercante che doveva avere una certa esperienza in fatto di navigazione, questo periodo risulta ancora piuttosto breve: «Cinquanta giorni dopo il solstizio, quando volge al colmo l’estate spossante, questo è per i mortali il tempo per navigare. In questo tempo non infrangerai la nave, né il mare ucciderà gli uomini, a meno che non voglia prenderli Posidone Scuotiterra o Zeus re degli immortali: ché essi hanno in mano il potere del bene e del male. Quando i venti sono regolari e il mare

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sicuro, allora spingi in mare la nave veloce e affidala pure ai venti. Riponivi tutto il tuo carico e affrettati a tornare a casa prima che puoi. Non aspettare il vino nuovo, le piogge d’autunno, né che arrivino le tempeste e i temibili soffi del vento di mezzogiorno, che agita le onde, compagno della gran pioggia d’autunno che Zeus manda, e rende aspro il mare. C’è per i mortali anche un’altra stagione per navigare, primaverile: quando appaiono in cima al fico le foglie, tanto grandi quanto l’impronta di una cornacchia, allora il mare è praticabile. Questa è la navigazione di primavera, che io non approvo, che non piace al mio cuore. Bisogna cogliere l’occasione ed è difficile sottrarsi al danno»6.

Il periodo indicato da Esiodo si estende dunque per soli cinquanta giorni entro l’arco temporale dei tre mesi estivi, cioè tra la fine di giugno e la fine di settembre. Su quando collocare precisamente questi cinquanta giorni sono state formulate diverse ipotesi, ma appare verosimile ricondurli al colmo dell’estate, tra luglio e agosto, quando ad essere favorevole era non solo il tempo, ma anche l’assenza di importanti lavori agricoli, in un’ottica, quella dell’opera esiodea, in cui il commercio marittimo viene discusso nello stesso contesto dedicato al lavoro dei campi, quasi fosse un’attività messa alla pari con la semina o con la mietitura7. In quell’arco temporale, ricorda significativamente il poeta, sussistono due condizioni tanto favorevoli quanto necessarie: i venti sono infatti eukrinées, cioè chiari, anzi dichiarati, per usare un’espressione marinaresca, dunque prevedibili, avendo assunto il regime regolare tipico dei mesi estivi, mentre il mare è di conseguenza apémon, cioè propizio, innocuo, perché presenta un moto ondoso non pericoloso, regolare e prevedibile come quello del vento, nonostante i venti che in estate soffiano da nord e da nordovest nell’Egeo (principalmente a questo mare doveva riferirsi Esiodo) siano piuttosto forti e capaci di generare un mare formato, con onde di una certa importanza. La stabilità del tempo estivo contrasta invece con l’instabilità di quello primaverile, periodo che Esiodo ritiene rischioso per navigare. I suoi precetti, del resto, sono tutti improntati alla massima prudenza. Anche nei secoli successivi i giorni intorno all’equinozio d’autunno (23 settembre) segnavano il passaggio verso un periodo considerato più rischioso, motivo per cui aumentava anche il costo dei prestiti marittimi, come ricorda Demostene8 nel IV sec. a.C. Solo i Fenici avrebbero interrotto la navigazione nell’autunno inoltrato, secondo una notizia di Luciano9 che, da un lato, sembrerebbe confermare la consolidata tradizione storica sulla grande esperienza nautica di questo popolo, ma che, dall’altro, potrebbe semplicemente rappresentare un accento retorico dettato da quella stessa tradizione. La situazione appare molto diversa in età romana imperiale. Lo testimonia Flavio Vegezio Renato, autore di un trattato di cose militari, un’epitome in lingua latina scritta nel IV sec. d.C. che rimanda, però, all’organizzazione militare romana dei secoli precedenti, sostanzialmente tra il I e il II sec. d.C. Nella parte dedicata alla marina inserisce un capitolo intitolato “in quali mesi è più sicuro navigare”10: «Proseguiamo con la trattazione dei mesi e dei giorni adatti alla navigazione. Infatti la violenza delle onde non permette di solcare le distese marine per l’intero corso dell’anno, ma secondo una legge di natura alcuni mesi sono favorevolissimi, altri incerti, altri sconsigliabili ai naviganti. La navigazione si ritiene sicura dopo il passaggio di Pachone, cioè dopo che sono sorte le Pleiadi, dal sesto giorno prima delle calende di giugno (27 maggio) fino al sorgere di Arturo, cioè fino

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al diciottesimo giorno prima delle calende di ottobre (14 settembre), poiché per beneficio dell’estate si attenua la furia dei venti. Dopo questo periodo, fino al terzo giorno prima delle idi di novembre (11 novembre), la navigazione è incerta e piuttosto rischiosa in quanto dopo le idi di settembre (13 settembre) sorge Arturo, astro portatore di violente tempeste. Poi, all’ottavo giorno prima delle calende di ottobre (24 settembre) sopravviene l’aspra tempesta equinoziale. Intorno alle none di ottobre (7 ottobre) si entra nella costellazione dei Capretti piovosi e al quinto giorno prima delle idi dello stesso mese (11 ottobre) appare in cielo il Toro. Dal mese di novembre, inoltre, il tramonto invernale delle Vergilie disturba con improvvise tempeste la rotta delle navi. Pertanto, dal terzo giorno prima delle idi di novembre (11 novembre) al sesto giorno prima delle idi di marzo (10 marzo) i mari possono considerarsi chiusi alla navigazione. Infatti la luce ridotta, la notte protratta, la densità delle nubi, l’oscurità dell’aria, la raddoppiata inclemenza dei venti, delle piogge e delle nevi scoraggiano non soltanto i percorsi per mare, ma anche quelli per terra. In verità, dopo la ripresa della navigazione, che si celebra con solenni gare e pubblici spettacoli presso molti popoli, i mari sono ancora solcati con pericolo fino alle idi di maggio (15 maggio) a causa dell’influsso negativo di molti astri e della stagione stessa. Ho dato queste informazioni, non perché cessi l’attività dei mercanti, ma perché, quando l’esercito mette in mare le sue liburne, è necessaria una attenzione maggiore rispetto all’audacia che muove gli affari privati»11.

In sostanza, Vegezio testimonia come il periodo utile per navigare avesse raggiunto la sua massima estensione, distinguendo, però, una fase centrale sicura, dal 27 di maggio al 14 di settembre, e due fasi incerte, rispettivamente dal 10 di marzo al 26 di maggio e dal 15 di settembre al 10 di novembre. Considera dunque il mare poco sicuro anche tra marzo e maggio, nonostante ai primi di marzo si tenessero grandi feste per la riapertura della navigazione, la più importante delle quali, in epoca imperiale, era il Navigium Isidis, celebrata il 5 di marzo in onore della divinità egiziana Iside, protettrice della navigazione12. Dall’11 di novembre al 9 di marzo, invece, il mare era considerato clausum, cioè chiuso, e salvo alcune eccezioni la navigazione era generalmente sospesa per i troppi pericoli determinati dalle cattive condizioni meteorologiche. D’altro canto, affermando che i suoi precetti non intendevano far cessare l’attività mercantile, Vegezio testimonia che nei mesi invernali la navigazione non si arrestava completamente, ma che era drasticamente ridotta al cabotaggio e ai trasporti indispensabili. Le grandi onerarie che affrontavano i viaggi di lungo corso, invece, praticavano un fermo pressoché totale, come attestano gli Atti degli Apostoli (28, 11) in relazione al citato viaggio di Paolo di Tarso13. Per quanto riguardava le flotte da guerra, il pericolo di prendere il mare durante i mesi invernali era perfino maggiore, trattandosi di navi poco adatte ad affrontare condizioni meteo-marine difficili. Venivano evitate soprattutto le traversate, anche se per evidenti ragioni operative, com’erano le missioni di pattugliamento, di collegamento e di trasporto, le unità militari potevano essere costrette a spostarsi in qualunque stagione14. La situazione non cambiò molto neppure nel Medioevo e nei secoli successivi, come dimostra il fatto che i temerari Vichinghi preferissero evitare le lunghe traversate nei mari settentrionali nel periodo compreso tra la fine di ottobre e gli inizi di aprile, arrischiandosi in pieno inverno solo nei viaggi più brevi15. Anche nel Mediterraneo medievale la navigazione continuò a seguire un ritmo fondamentalmente stagionale, con una drastica riduzione tra i mesi di ottobre e marzo, soprattutto per i convogli che praticavano le rotte di lungo corso16. 124

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I periodi ricordati da Vegezio, del resto, non differiscono molto da quelli di cui riferisce il Crescenzio ancora più tardi, a cavallo tra XVI e XVII secolo17. Tuttavia, importanti cambiamenti intervennero a partire dal XIV secolo, quando, col perfezionamento e la diffusione della bussola magnetica e delle carte nautiche, i naviganti ebbero finalmente in mano gli strumenti per orientarsi anche se il cielo era coperto. Il periodo del mare clausum, pur col significato relativo di cui abbiamo detto, divenne sempre più breve. Evitare i mesi invernali restò a lungo preferibile, per evidenti ragioni di sicurezza, ma ormai la situazione era cambiata e presto le navi avrebbero cominciato a svolgere viaggi regolari durante tutto il corso dell’anno18. La questione della stagionalità della navigazione antica è stata recentemente oggetto di un’interessante revisione19. Si è infatti proposto che in inverno non si arrestasse neppure la navigazione d’altura, essendo più sicura di quella lungo costa, fatto che sarebbe confermato da alcune fonti scritte, tra cui un registro di importazioni ionie e fenicie in Egitto datato intorno al 475 a.C., che attesta l’arrivo di navi praticamente in tutti i mesi dell’anno ad esclusione di gennaio e febbraio20. Crediamo, però, che le conclusioni a cui si giunge, per quanto appaiano effettivamente persuasive, non possano assumere un valore assoluto, cioè non possano riferirsi a una pratica diffusa e regolare. Certamente, tanto nel periodo estivo quanto in quello invernale, la navigazione di cabotaggio esponeva le navi a molti rischi, causa la vicinanza della costa, mentre quella d’altura risultava sostanzialmente più sicura. Si potrebbe pensare, in effetti, che i naviganti cercassero di sfruttare quei venti invernali che risultavano favorevoli per seguire determinate rotte e che, invece, non erano attivi durante l’estate. Tuttavia, ciò poteva avvenire in sicurezza solo nelle regioni del Mediterraneo più favorite dalle condizioni climatiche, come potevano essere, effettivamente, quelle del settore orientale, e solo qualora si presentassero periodi di tempo stabile, ben dichiarato. In sostanza, l’opportunità di sfruttare il favore di certi venti stagionali poteva effettivamente determinare la scelta di navigare in inverno, ma resta il fatto che, come abbiamo visto, le nostre fonti attestano un sostanziale rallentamento dell’attività nautica nel periodo invernale, quasi un fermo generale per la navigazione d’altura, non solo nell’antichità ma ancora per tutto il medioevo e oltre. Andranno quindi distinte quelle che potevano essere delle eccezioni, per esigenze particolari o per determinati settori del Mediterraneo, da quella che, invece, appare come una pratica correntemente diffusa21.

5.2. Meteorologia pratica In un periodo di cambiamenti climatici come il nostro è naturale che la meteorologia compaia sempre più spesso tra le notizie di cronaca. D’altro canto, lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni l’ha resa facilmente accessibile a tutti, anche in forme estremamente semplificate, come quelle che ormai popolano la rete e che possiamo facilmente consultare con uno smartphone. Sembra che sia trascorso un tempo immemorabile da quando andava in onda la rubrica televisiva del colonnello Edmondo Bernacca, pochi minuti prima del Telegiornale delle 20.00. Pioniere della divulgazione in questo settore, fu lui a portare per primo le previsioni meteorologiche nelle case degli Italiani. Effettivamente, rispetto agli anni ’60/’80 del secolo scorso il livello di fruizione di questo genere di informazioni è molto cambiato. Oggi la meteorologia è entrata più che mai a far parte del nostro quotidiano. Ci suggerisce come vestirci, come affrontare un viaggio o la giornata di lavoro; una previsione Il tempo giusto per navigare

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sbagliata può addirittura generare conseguenze “politiche” o economiche. I velisti transoceanici possono affidarsi a un sistema globale di previsioni, continuamente aggiornato di ora in ora, tale da consentirgli di decidere con giorni di anticipo quale sia la rotta migliore da seguire, per schivare le tempeste o per andare a cercarsi il vento. Insomma, le incertezze sul tempo che farà domani sono ormai un lontano ricordo. Tuttavia, commetteremmo un errore se pensassimo che senza i moderni strumenti scientifici non fosse possibile realizzare delle previsioni di una certa precisione, per lo meno a breve termine, il che significa mediamente a tre giorni. I marinai di una volta ci riuscivano, affidandosi unicamente ai propri sensi, all’osservazione e alla percezione costanti, dunque alla propria esperienza e alla singolare capacità di saper fiutare il tempo nell’aria. «I vecchi vivono sul mare immersi nell’atmosfera che li circonda e, poiché dipendono per la loro stessa vita e lavoro dal tempo, sono divinatori del tempo»22. Tornano quanto mai opportune le parole di Riccardo Brizzi riferite alle genti di mare dell’Adriatico nei primi decenni del Novecento. Gli fanno eco quelle dello storico greco Polibio23, quando ci parla dei piloti della flotta cartaginese presso il Capo Pachino, in Sicilia, nel 249 a.C.: «Levatasi una tempesta, ed apparendo il mare molto minaccioso, i nocchieri cartaginesi, pratici del mare e delle tempeste, prevedendo quanto sarebbe accaduto, anzi in grado di profetizzarlo chiaramente, persuasero Cartalone a doppiare il capo Pachino per evitare la bufera. Prudentemente egli seguì il loro consiglio e solo a stento e con grave sforzo i Cartaginesi riuscirono a superare il promontorio e ad ancorarsi al sicuro»24.

Prevedere lo stato e l’evoluzione del tempo meteorologico ha rappresentato una necessità vitale per i marinai fin dall’antichità, anzi, potremmo dire fin dagli albori della navigazione25, al punto che il rapporto tra le genti di mare e la meteorologia è sempre stato un fatto assodato, assolutamente naturale. Del resto, non potrebbe essere diversamente. Per questo, pur non potendo prevederne la violenza, raramente un buon pilota viene colto di sorpresa dalla tempesta26. Le previsioni erano affidate a una percezione globale dello stato del cielo, dell’atmosfera e del mare, percezione intesa come sviluppo dinamico di una situazione in costante cambiamento. L’attenzione verso la molteplicità dei fenomeni era estremamente precisa, così come lo erano le definizioni tradizionali attribuite allo stato del tempo, che poteva essere: buono, bello, sereno, netto, chiaro, dolce, fresco, calmo, steso, smaccato, tristo, cattivo, contrario, incerto, coperto, nebbioso, nuvolo, preso, grigio, ragnato, fosco, gelato, nero, fortunale, duro, grosso, burrascoso, terribile27. Definizioni senza dubbio molto più articolate e raffinate di quelle che abitualmente usiamo oggi, capaci di esprimere quel rapporto col tempo che apparteneva a chi era costretto a viverci dentro, senza altra alternativa che affrontarlo come meglio poteva, con la maggiore consapevolezza di cui era capace. Il confronto tra la documentazione storica e quella etnografica conferma come l’attitudine delle genti di mare nei confronti della meteorologia pratica sia rimasta immutata da secoli, potremmo dire da millenni, basandosi sull’interpretazione dei segni del cielo, del mare e, in generale, dell’ambiente circostante28. Si trattava di interpretare l’aspetto del sole e quello della luna, in rapporto all’umidità atmosferica, alla presenza o all’assenza di nubi, dunque riconoscendo gli aloni e il grado di nitidezza; di interpretare le caratteristiche delle nuvole, la loro forma e la velocità di movimento; di porre attenzione al comportamento 126

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degli animali marini e di quelli terrestri; di percepire l’aria, gli odori, la temperatura, l’umidità, la brillantezza o l’opacità della luce e dei colori; il tutto rilevando con attenzione costante i cambiamenti che intercorrevano nel corso delle ore. Queste risultano essere le principali modalità ricordate dalle fonti antiche, esattamente le stesse che utilizzavano i marinai fino alla prima metà del secolo scorso. Un sistema empirico, dunque, basato sull’esperienza e sulla sensibilità personali. Ancora nei primi decenni del Novecento i professionisti della meteorologia scientifica restavano sbalorditi di fronte alla precisione con cui i pescatori, senza alcuno strumento, riuscivano a fare le loro previsioni, che spesso somigliavano a pure intuizioni. Ed era per questo motivo che i meteorologi si relazionavano coi pescatori e coi naviganti, per confrontare le previsioni realizzate su basi teoriche e strumentali con quelle che le genti di mare riuscivano a fare grazie al proprio “senso marino”. «Molte leggi meteorologiche, che gli scienziati hanno consacrato nei libri, le hanno apprese da pescatori e da naviganti, i quali le hanno constatate per lunga esperienza, e sono convinti della loro esattezza», scrisse nel 1942 l’etnografo Saverio La Sorsa29. Per il mondo antico è nuovamente Vegezio30 a fornirci una panoramica generale sulla meteorologia applicata alle attività nautiche, precisamente su “come si devono osservare i segnali delle tempeste” e sui “pronostici” per riconoscere l’evoluzione del tempo. Ecco cosa ci dice riguardo al secondo argomento: «Pronostici. Attraverso molti altri segni si può prevedere la tempesta, anche mentre il cielo è sereno, e il sereno mentre infuria la tempesta: tali mutamenti sono leggibili nella superficie della luna, come in uno specchio. Infatti il colore rossastro preannuncia i venti, il violaceo le piogge, un misto tra i due indica nembi e furiose burrasche. Una luna limpida e splendente promette ai navigli quella tranquillità manifesta dal suo stesso aspetto, specialmente se, dopo l’apparire del primo quarto, questo non sia rosseggiante nei suoi corni in parte nascosti né offuscato dai vapori. È molto interessante anche osservare se il sole, al sorgere o al tramonto, splenda con una luminosità costante oppure variabile per l’interposizione di una nuvola; se è fulgido del consueto splendore o infocato per l’incalzare dei venti; se è pallido o maculato per l’imminente pioggia. In verità anche l’aria e la stessa superficie marina, l’ampiezza o l’aspetto delle nuvole mandano segnali all’avveduto nocchiero. Anche dagli uccelli o dai pesci si possono trarre alcuni segni premonitori, i quali furono esposti dal divino ingegno di Virgilio nelle Georgiche, ed elencati con grande cura da Varrone nei suoi libri riguardanti la navigazione. I nocchieri dichiarano di sapere tutte queste cose, ma la loro conoscenza deriva dall’esperienza diretta e di solito non è consolidata da una più alta dottrina»31.

L’aspetto assunto dalla luna e dal sole a causa delle diverse condizioni dell’atmosfera rappresenta un indicatore meteorologico ricorrente nelle fonti antiche. Lo ritroviamo nelle Argonautiche di Valerio Flacco32, quando il pilota degli Argonauti, Tifi, riesce a prevedere l’arrivo della tempesta osservando le nubi che offuscano la luna, nella quarta notte in cui sorge, o quando riconosce che il tempo sarà buono constatando che la luna si è levata serena, priva di qualunque rossore sul suo volto33. Ed è sempre l’esperto Tifi a ricordare che anche i segnali del sole sono sempre infallibili: quando al tramonto si immerge nel mare come un disco perfettamente integro (cioè non segnato dalla presenza di nubi) e con tutto Il tempo giusto per navigare

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il suo fulgore dorato, allora il tempo sarà buono e la navigazione sicura34. Dal canto suo, anche Virgilio35 ci offre una descrizione estremamente articolata sui segni premonitori del tempo che si possono leggere nell’aspetto della luna e del sole36, mentre Seneca37 ricorda che gli aloni generati dall’atmosfera intorno al sole e alle stelle, come se si trattasse di una corona, possono fornire utili indicazioni sul vento. Osservando il modo e la direzione con cui si dissolvono, consentono ai marinai di capire quale vento soffierà in base alla direzione in cui l’alone è scomparso, quindi di sapere quale tempo porterà. Non poteva mancare, inoltre, la testimonianza del naturalista Plinio38, che dedica un’ampia trattazione alle previsioni meteorologiche basate sull’osservazione del sole e della luna e sullo studio dei venti, a cui aggiunge l’attenzione per lo stato del mare e per il comportamento degli aniFig. 51. Le caratteristiche striature dei cirri. mali. Una delle fonti da cui questi e altri autori trassero buona parte delle loro informazioni fu probabilmente il poeta greco Arato di Soli, vissuto tra la fine del IV e la metà del III sec. a.C., autore di un’opera in versi intitolata Fenomeni, che conobbe notevole fortuna, dedicata per quasi due terzi alle apparizioni celesti e per oltre un terzo proprio ai pronostici del tempo39. I princìpi di questa meteorologia pratica restarono a lungo gli stessi, come sembra confermare agli inizi del X secolo l’opera dell’imperatore bizantino Leone VI il Saggio40, nelle pagine dedicate alla Naumachia (guerra navale), dove scrive che il comandante di una flotta dev’essere in grado di prevedere il tempo dai segni che si leggono nelle stelle, nel sole e nella luna. Le nuvole sono sempre state naturalmente uno dei più importanti indicatori meteorologici. La loro tipologia, la quota a cui si trovano, la velocità con cui si muovono, l’evoluzione del loro addensarsi o del loro dissolversi, consentono di prevedere l’evoluzione del tempo con discreta precisione e anche con molte ore di anticipo, come accade con le nuvole più alte, i cirri (fig. 51). Particolarmente importanti per le previsioni a medio termine sono infatti le nubi alte, quelle che si trovano oltre i settemila metri di quota (cirri, cirrostrati e cirrocumuli), in quanto permettono di riconoscere l’approssimarsi di un fronte nuvoloso che può determinare, soprattutto nei mesi estivi, un cambiamento del tempo anche violento. In generale, si può riconoscere che il tempo sta per cambiare quando la direzione da cui provengono le nubi alte è contraria a quella del vento al suolo. In area mediterranea l’irruzione di aria fredda è normalmente preannunciata dall’arrivo di nubi alte da sud-ovest o di nubi basse da nord-ovest, quella di aria calda dall’arrivo di nubi basse da sud-ovest o di nubi 128

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Fig. 52. Radunati sul molo, i gabbiani sono pronti per resistere a una violenta tempesta invernale.

alte da nord-ovest41. Le formazioni nuvolose presentano però caratteristiche diverse secondo i luoghi in cui si manifestano, a causa del clima e dell’orografia locali, motivo per cui, ammonisce Seneca42, prima di avventurarsi in zone di cui ha poca esperienza, il pilota prudente raccoglie informazioni da chi è abituato a frequentarle, relativamente al moto delle onde e agli indizi che si possono cogliere, appunto, osservando il movimento delle nuvole. Abbiamo accennato al comportamento degli animali come a un concreto indicatore meteorologico, che, tuttavia, ha poi generato delle vere e proprie credenze popolari. È Virgilio43 a offrirci una delle testimonianze più complete, ma incontriamo notizie un po’ in tutta la letteratura antica44. Il motivo fondamentale che rende gli animali, innanzitutto gli uccelli, degli utilissimi indicatori meteorologici dipende dal fatto che loro riescono a percepire le variazioni della pressione atmosferica e le caratteristiche fisiche dell’aria, come l’umidità o la secchezza, in modo più preciso e con anticipo rispetto all’uomo. In senso generale, il maltempo è annunciato da un comportamento nervoso, comunque anormale, oltre che da un atteggiamento di tipo protettivo. I gabbiani, per esempio, lo manifestano radunandosi in terraferma, dove si sistemano controvento, rivolti nella direzione da cui arriverà la tempesta, per affrontarla offrendo al vento la minima resistenza (fig. 52). Il volo rapido e disordinato delle gru è presagio di maltempo, mentre quello lento e in formazione lineare indica che ci sarà tempo buono. Preavviso di maltempo sono i rapidi e disordinati passaggi degli uccelli accompagnati da strida continue, il loro radunarsi presso le rive dei fiumi e delle paludi, lo svolazzare e il ripetuto tuffarsi in acqua dello smergo, i voli Il tempo giusto per navigare

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disordinati degli aironi, i voli verticali e i gracchiamenti frequenti dei corvi, le folaghe che si allontanano dal mare per radunarsi sulla terraferma come i gabbiani, i voli radenti delle rondini. Benché gli uccelli rappresentino degli indicatori meteorologici particolarmente efficaci, sia perché è facile seguirne i movimenti sia perché, dovendo volare, la loro vita è maggiormente condizionata dal tempo, nella tradizione popolare vengono spesso ricordati anche i mammiferi, gli anfibi e gli insetti. Nel mondo marinaresco, inoltre, occupano un posto di primo piano i pesci e gli altri animali acquatici. I delfini preannunciano coi loro salti frequenti l’arrivo del maltempo, così come i granchi escono dall’acqua all’avvicinarsi della burrasca, per non essere travolti dalle onde. Insomma, è un vero peccato che non si siano conservati i libri navales di Varrone, nei quali, come ricorda il passo di Vegezio citato sopra, erano elencati i segni premonitori che si potevano trarre osservando il comportamento degli uccelli e dei pesci. Una sensibilità eccezionale in questo senso è sempre stata sviluppata dai pescatori, in quanto la loro attività dipende dalla situazione meteo-marina e dal conseguente comportamento dei pesci. In base alla stagione e alle correnti, al cielo e alla luna, allo stato del mare e del vento, i pescatori esperti sanno seguire il banco di pesce, percepirne la presenza o fiutarla nell’aria. Per le loro spiccate qualità possono quindi considerarsi degli ottimi piloti, avendo una conoscenza profonda dell’ambiente marino e dei settori di mare in cui vivono e lavorano45. Concludiamo questo paragrafo con un cenno a La Nautica di Bernardino Baldi, opera pubblicata a Venezia nel 159046, in cui ritroviamo tutti i sistemi di previsione ricordati dalle fonti antiche. Questo modesto poemetto didascalico è infatti intriso di reminiscenze classiche, da Virgilio ad Arato, che ben si accordano col gusto per l’antico caratteristico dell’epoca, testimoniando d’altro canto come i princìpi della nautica antica potessero risultare ancora validi nel XVI secolo. Sole e luna, scrive Baldi, offrono segni fedeli per fare le previsioni, preannunciando il tempo buono o quello cattivo, il vento o la pioggia, in base al loro colore, alla loro limpidezza o all’alone che li circonda. Lo stesso avviene osservando la trasparenza del cielo di notte, per mezzo delle stelle, o il comportamento di animali come gli aironi, le folaghe, le rondini, le cornacchie, i polpi e i delfini47. Il richiamo alla tradizione antica, tuttavia, investe anche la letteratura di argomento propriamente nautico, come accade per il trattato di navigazione del dalmata Benedetto Cotrugli (14161469), opera manoscritta italiana del 1464 che comprende un capitolo specifico sulla meteorologia, intitolato “Delli pronostichi delli temporali” 48. L’autore dichiara espressamente di trattare l’argomento basandosi sulle “coniecture et pronostichi secondo le opinioni et de philosophi et de astrologi et de marinari”, mettendo quindi in relazione l’esperienza pratica dei naviganti con quanto riferito dai testi antichi, richiamando Virgilio, Aristotele e Seneca. Le modalità impiegate per fare i “pronostici” sul tempo erano dunque rimasti sostanzialmente gli stessi. 1 Joseph Conrad, Fine Art, in The Mirror of the Sea, London 1906, versione italiana di Flavia Marenco (Joseph Conrad, Lo specchio del mare, a cura di F. e F. Marenco, il melangolo, Genova 1998, p. 60). 2 Atti degli Apostoli, 27-28. 3 Seneca, Questioni naturali, V, 9, 1. Per la meteorologia e i periodi favorevoli alla navigazione nel Mediterraneo antico si vedano Morton 2001, pp. 46-66, 255-265, e Beresford 2013.

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Janni 1996, pp. 107-122. Le opere e i giorni, 663-684. 6 Versione italiana di Pietro Janni (1996, p. 109). 7 Mele 1979, pp. 12-17. 8 Contro Lacrito, 10. 9 Toxaris, 4. 10 Vegezio, L’arte della guerra, IV, 39. 11 Versione italiana di Luca Canali e Maria Pellegrini (Vegezio, L’arte della guerra, a cura di L. Canali e M. Pellegrini, Oscar Mondadori, Milano 2001). 12 La festa del Navigium Isidis è descritta da Apuleio, Le Metamorfosi, XI, 5-17; si veda Bricault 2006, pp. 134-150. 13 Saint-Denis 1947; Rougé 1952. 14 Pryor 1995. 15 Marcus 1992, pp. 173-174. 16 Braudel 1949, pp. 257-262; Pryor 1995, pp. 210-211; Tangheroni 1996, pp. 193-194; Musarra 2021, pp. 139-142. 17 Crescenzio 1607, pp. 287-288. 18 Lane 1983, pp. 227-239 (capitolo “Il significato economico dell’invenzione della bussola”, già pubblicato nella American Historical Review, 68, 1963, pp. 605-617, “The economic meaning of the invention of the compass”). 19 Tammuz 2005; Marzano 2011; Beresford 2013. 20 Yardeni 1994; Stager 2004, pp. 191-193. 21 In questo senso Guerrero 2007, pp. 19-22. 22 Brizzi 1999, p. 115. 23 Storie, I, 54, 6. 24 Versione italiana di Carla Schick (Polibio, Storie, a cura di C. Schick e G. Zelasco, Oscar Mondadori, Milano 1992). 25 Morton 2001, pp. 284-308; Taub 2011. 26 Platone, Lettere, VII, 351 D. 27 Guglielmotti 1889, col. 1820, s.v. Tempo, 2°. 28 Medas, Brizzi 2008; Carbonell 2012. 29 La Sorsa 1942, p. 263. 30 L’arte della guerra, IV, 40-41. 31 IV, 41. Versione italiana di Luca Canali e Maria Pellegrini (Vegezio, L’arte della guerra, a cura di L. Canali e M. Pellegrini, Mondadori, Milano 2001). 32 II, 367-369. 33 II, 55-57. 34 II, 57-58. 35 Georgiche, I, 424-463. 36 Hérouville 1941. 37 Questioni Naturali, I, 2, 5. 38 Storia Naturale, XVIII, 333-365. 39 Per le fonti antiche sulla meteorologia e sulle previsioni meteorologiche si vedano Aujac 2003; Soubiran 2003; Zehnacker 2003. 40 Tactica, XIX, 2. 41 Per la meteorologia applicata alla navigazione si vedano i sempre validi Viaut 1956 e il Manuale dell’Ufficiale di rotta, pp. 330-454; per la meteorologia pratica, in generale, Bracchi 2000. 42 Lettere a Lucilio, II, 14, 8. 43 Georgiche, 351-423. 44 Krekoukias 1970; Bouffartigue 2003. 5

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Oppiano, Alieutica, I, 185-211 (quando i pesci pilota abbandonano la scia della nave significa che la terra è vicina); III, 62-71 (i pescatori seguono i movimenti dei pesci in base al vento e alle correnti); Alcifrone, Lettere di pescatori, I, 10 (i pescatori riconoscono l’approssimarsi del maltempo dal cielo e dal comportamento degli animali marini). Erodoto (Storie, IV, 151) ricorda la vicenda di Corobio, un pescatore di murici cretese che, dietro compenso, venne ingaggiato come pilota per guidare la spedizione coloniale dei Terei sulle coste della Libia, all’isola di Platea. Grazie alla loro esperienza e alla profonda conoscenza dell’ambiente marino, oltre che alla loro straordinaria capacità di prevedere il tempo, i pescatori potevano rivelarsi molto utili nell’ambito della navigazione sia commerciale che militare (Trotta 1996, pp. 245-250). 46 Bernardino Baldi, La nautica, Venezia 1590, edizione a cura di Gaetano Bonifacio, Torino 1921; per un commento critico dell’opera si veda Spalanca 1978. 47 Baldi, La Nautica, 386-524. 48 Salopek 2005, pp. 154-168; Falchetta 2009, pp. 144-150.

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Capitolo 6

AFFRONTARE LA TEMPESTA

6.1. Il viaggio e il naufragio di San Paolo Chi è prudente, dunque previdente, esprime un carattere che potremmo definire di tipo conservativo, volto cioè a tutelare l’incolumità delle persone e delle cose. Nel lavoro sono qualità preziose, che tuttavia possono frenare quella spinta ad osare che in certi casi diventa necessaria, anche se le conseguenze non sono del tutto prevedibili. Nelle relazioni sociali può apparire un tipo noioso, poco divertente, per la scarsa attitudine ad uscire dagli schemi prefissati. Al contrario, chi è più propenso al rischio, a lanciarsi nelle imprese senza farsi condizionare troppo dalla prudenza, può risultare più accattivante e dinamico, addirittura più convincente. Aiutato dalla buona sorte, può raggiungere rapidamente dei risultati importanti, restando però più esposto ai pericoli. I piloti e i comandanti di una nave devono avere entrambe le qualità, ma la prudenza deve essere sempre, assolutamente al primo posto, perché, come abbiamo visto più volte, l’arte di navigare ha come primo scopo quello di condurre la nave al porto di destinazione nel modo più sicuro e rapido possibile. La capacità di osare è necessaria, ma deve sempre sottostare al calcolo meditato della situazione. Se è dunque vero che audentes fortuna iuvat1 (la fortuna aiuta coloro che osano), il navigante accorto dovrebbe aggiungere un non semper. Nella storia di cui tratteremo in queste pagine, un azzardo messo in atto dal capitano e dall’equipaggio della nave porterà a conseguenze disastrose; e solo l’intervento divino eviterà la tragedia. Uno dei più interessanti racconti di naufragio che l’antichità ci ha lasciato è contenuto nel capitolo 27 degli Atti degli Apostoli, dove l’evangelista Luca, a cui è attribuita la stesura degli Atti2, descrive il tormentato viaggio del prigioniero Paolo di Tarso da Cesarea di Palestina a Roma, nel 60 d.C., durante il quale si verificò un terribile naufragio sull’isola di Malta (fig. 53). Si tratta, effettivamente, di un vero e proprio compendio delle manovre che venivano messe in atto per resistere a una violenta tempesta. Accusato dai Giudei per la sua opera di apostolato nella fede in Cristo, a cui seguirono violenti scontri mentre predicava a Gerusalemme, Paolo venne infatti arrestato dai Romani per motivi di ordine pubblico. Comparso di fronte a due governatori della Palestina e infine anche al re Agrippa, fu ritenuto innocente, tanto che Agrippa lo avrebbe rimesso in libertà se lo stesso Paolo non si fosse appellato all’imperatore, secondo il suo diritto di cittadino Affrontare la tempesta

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Fig. 53. Il viaggio di Paolo di Tarso da Cesarea a Roma, 60 d.C.

romano3. Ecco il motivo di quel viaggio. Scortato dalle autorità romane, insieme a un gruppo di altri prigionieri, Paolo fu condotto a Roma perché si sottoponesse al giudizio del tribunale di Cesare. Il racconto offre molti spunti di approfondimento sul piano propriamente nautico, attraverso descrizioni quasi sempre essenziali, affidate a poche parole, talvolta a un solo sostantivo o a un solo verbo, capaci però di rendere la situazione in modo preciso, nonostante le incertezze che possono presentarsi riguardo al lessico marinaresco greco4. Nella versione italiana del testo, riportata qui sotto, abbiamo quindi cercato di dar corpo agli aspetti nautici, mentre abbiamo incluso tra parentesi qualche aggiunta che non compare nel testo greco originale, ma che aiuta a chiarire meglio alcuni passaggi. 27. «1 Quando fu deciso che dovevamo partire per l’Italia, consegnarono Paolo con alcuni altri prigionieri a un centurione della coorte Augusta, di nome Giulio. 2 Ci imbarcammo dunque su una nave di Adramyttio, che stava per salpare verso le coste dell’Asia, e partimmo insieme ad Aristarco, un macedone di Tessalonica. 3 Il giorno successivo arrivammo a Sidone e Giulio, con umanità, permise a Paolo di recarsi dai suoi amici e di ricevere le loro cure. 4 Ripartiti da lì, navigammo sotto la costa di Cipro, perché i venti erano contrari, 5 quindi attraversammo il mare che bagna la Cilicia e la Panfilia e giungemmo a Mira, in Licia. 6 Là, avendo il centurione trovato una nave alessandrina diretta in Italia, ci fece trasbordare su quella. 7 Navigammo lentamente per diversi giorni e con difficoltà arrivammo all’altezza di Cnido, quindi, poiché il vento non ci permetteva di proseguire, (cambiammo rotta, puntando

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a mezzogiorno, e così) navigammo sotto la costa di Creta, presso Salmone. 8 Costeggiato a fatica il versante meridionale dell’isola, arrivammo a una località chiamata Buoni Porti, vicina alla città di Lasea. 9 Era trascorso parecchio tempo e navigare era diventato pericoloso, dal momento che era già passata anche la festa del digiuno. 10 Paolo, allora, ammonì tutti con queste parole: “Uomini, mi sembra che la navigazione stia diventando troppo azzardata e a rischio di grave danno non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre vite”. 11 Ma il centurione dava più ascolto al timoniere e al proprietario della nave che alle parole di Paolo. 12 E poiché quel porto (Buoni Porti) non era adatto per la sosta invernale, la maggioranza fu del parere di lasciarlo, per vedere se era possibile andare a svernare a Fenice, porto di Creta che guarda a libeccio e a maestrale. 13 Essendosi alzato un leggero vento da sud, salparono e costeggiarono più da vicino Creta, pensando che sarebbero riusciti nel loro intento. 14 Invece, poco dopo si scatenò sull’isola un vento tempestoso, quello che viene chiamato Euroaquilone; 15 la nave ne fu investita e in nessun modo riuscì a contrastarlo, così noi venimmo trascinati alla deriva5. 16 Correndo sottovento a un’isoletta chiamata Cauda, a stento riuscimmo ad assicurare la barca di servizio (che avevamo a rimorchio); 17 dopo averla issata a bordo, i marinai fecero ricorso ai mezzi di emergenza, cingendo lo scafo della nave con dei cavi di rinforzo; quindi, temendo di andare a finire nella Sirte, calarono in mare l’attrezzo (skeûos) e in questo modo si lasciarono portare alla deriva. 18 Poiché la tempesta continuava a scuoterci, il giorno dopo i marinai fecero il getto a mare del carico, 19 e il terzo giorno gettarono fuori bordo con le proprie mani anche le attrezzature della nave. 20 Da molti giorni non si vedevano più né il sole né le stelle, la tempesta non ci dava tregua e ormai sembrava perduta ogni speranza di salvarci. 21 Poiché da molto non si mangiava, Paolo si alzò in mezzo a loro e disse: “Uomini, avreste dovuto darmi retta e non ripartire da Creta (da Buoni Porti), avremmo evitato questo azzardo e il danno che ne è venuto. 22 Ora, però, vi esorto a farvi coraggio, perché nessuno di voi perderà la vita, ma andrà perduta solo la nave. 23 Stanotte mi è apparso un angelo di Dio, a cui io appartengo e che io servo, dicendomi: ‘non temere, Paolo: è necessario che tu compaia davanti a Cesare, e Dio ti ha fatto dono di tutte le persone che sono imbarcate con te’. 25 Per questo, uomini, fatevi coraggio: ho fede in Dio e sono certo che tutto avverrà come mi è stato detto. 26 Dovremo per forza incontrare qualche isola”. 27 Quando giunse la quattordicesima notte, mentre eravamo trascinati alla deriva nell’Adriatico6, verso mezzanotte i marinai intuirono che ci stavamo avvicinando a qualche terra. 28 Allora scandagliarono e trovarono venti orge di fondo7, dopo un breve tratto scandagliarono di nuovo e trovarono quindici orge; 29 a quel punto, temendo di finire sugli scogli, calarono quattro ancore da poppa e attesero ansiosamente che si facesse giorno. 30 Ma poiché i marinai cercarono di fuggire dalla nave, mettendo in acqua la barca di servizio e dicendo che serviva per andare a calare della ancore a prua, 31 Paolo disse al centurione e ai soldati: “se questi non restano sulla nave, voi non potete salvarvi”. 32 Allora i soldati tagliarono le cime della barca e lasciarono che andasse perduta. 33 Prima che si facesse giorno Paolo esortò tutti a prendere cibo, dicendo: “è il quattordicesimo giorno che aspettate, e siete digiuni, senza prendere niente; 34 quindi vi invito a prendere cibo, è necessario per la vostra salvezza; nessuno di voi, infatti, perderà un solo capello dalla sua testa”. 35 Dopo aver detto questo, prese del pane e rese grazie a Dio davanti

Affrontare la tempesta

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a tutti, quindi lo spezzò e cominciò a mangiare. 36 Tutti si fecero coraggio e presero del cibo. 37 Sulla nave eravamo in tutto duecentosettantasei anime. 38 Quando ebbero mangiato a sufficienza, alleggerirono la nave gettando il grano in mare. 39 Si fece finalmente giorno ma (i marinai) non riuscivano a capire quale terra fosse (quella presso cui eravamo capitati); videro però che si trattava di un golfo con una spiaggia, verso cui decisero, se possibile, di spingere la nave. 40 Mollarono le ancore, abbandonandole in mare, e nel contempo mollarono i legami dei timoni, issarono la vela di prua e col vento mossero verso la spiaggia. 41 Andammo a finire in una lingua di terra tra due mari e la nave urtò il fondo, la prua si incagliò restando immobile, bloccata, mentre la poppa si sfasciò sotto i colpi del mare. 42 I soldati volevano uccidere i prigionieri, perché nessuno di loro potesse fuggire a nuoto. 43 Ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di mettere in atto quel proposito. Ordinò che quanti sapevano nuotare si tuffassero per primi e raggiungessero terra, 44 e che gli altri salissero chi su delle tavole chi su dei pezzi della nave; così avvenne e tutti si salvarono a terra». 28. «1 Dopo essere scampati al pericolo, venimmo a sapere che quell’isola si chiamava Malta»8.

In sintesi, gli aspetti di ordine nautico contenuti nel testo possono riassumersi in dieci punti principali, ciascuno dei quali merita un commento specifico: 1. le modalità di viaggio dei passeggeri; 2. la rotta dalla Palestina all’Egeo, in rapporto con i venti stagionali; 3. i periodi dell’anno utili per la navigazione; 4. gli scali portuali adatti per la sosta invernale; 5. la navigazione con mare tempestoso; 6. il sistema per frenare la corsa della nave in balia della tempesta; 7. il getto a mare; 8. l’importanza dei riferimenti astronomici; 9. l’uso dello scandaglio; 10. l’ancoraggio e le ancore. 1. (Paragrafi 2-6 e 37) Nell’antichità non esistevano navi destinate al trasporto esclusivo dei passeggeri, così come non esistevano linee di navigazione regolari9. Chi doveva affrontare un viaggio per mare si imbarcava sulle navi onerarie, le più grandi delle quali disponevano spesso di alcune cabine, in grado tuttavia di ospitare solo un numero limitato di passeggeri, che normalmente erano anche i più facoltosi10. Molti, e tra questi i più poveri, dovevano invece accontentarsi del ponte o di una parte della stiva, come dovette accadere anche sulla nave alessandrina in cui fu trasbordato Paolo a Mira, un’oneraria destinata al trasporto del grano e certamente di grandi dimensioni, dal momento che a bordo, oltre al carico, si trovavano complessivamente 276 persone. Gli armatori e gli stessi capitani dovevano dunque vedere nei passeggeri una buona opportunità per arrotondare i guadagni. Il viaggiatore non aveva altra scelta se non quella di recarsi al porto e, dietro congruo compenso, trovare un passaggio sulla nave diretta verso la località di destinazione o quella più vicina, il che poteva anche significare dover affrontare uno o più scali intermedi, trasbordando da una nave all’altra. Nonostante le difficoltà, le scomodità e tutti gli incerti del caso, il trasporto su acqua, tanto in mare quanto nelle acque interne, restava sempre più vantaggioso rispetto a quello che percorreva le vie di terra, soprattutto quando si intraprendevano viaggi sulle lunghe distanze. 136

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2. (Paragrafi 2-8) Quella seguita dalla prima nave su cui fu imbarcato Paolo, la nave di Adramyttio, era una rotta che si svolgeva prevalentemente lungo costa, dunque un grande cabotaggio o un cabotaggio in altura, cioè con la terra prevalentemente in vista ma su lunghe distanze e senza scalo (o con pochi scali), navigando per più giorni consecutivi sia di giorno che di notte11. Dopo aver raggiunto Sidone con una navigazione costiera, la nave risalì un poco lungo il litorale siriano, poi proseguì al ridosso di Cipro per evitare i venti occidentali, ovviamente contrari, quindi lungo le coste della Cilicia e della Panfilia fino a raggiungere Mira12. Ora, sappiamo che Paolo intraprese il suo viaggio tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno (si veda il punto n. 3), quando il regime dei venti nel Mediterraneo orientale e nell’Egeo era ancora dominato dalla componente del quarto quadrante, cioè da venti che soffiavano prevalentemente da nordovest, da nord e in percentuale minore da ovest13. Queste condizioni di vento favorivano naturalmente la navigazione d’altura, in via diretta, dall’Italia e dalla Grecia verso l’Egitto e le coste del Mediterraneo orientale, consentendo di viaggiare nelle andature larghe, di poppa o al lasco; ma rendevano quasi impossibile una navigazione d’altura in senso opposto, perché le navi si sarebbero trovate con il vento dritto in prua. Come abbiamo visto, nonostante la vela quadra consentisse di stringere il vento e perfino di bordeggiare, risalire dritti controvento rappresentava un’operazione complessa e poco vantaggiosa nell’economia generale di un viaggio, motivo per cui veniva attuata solo in casi di assoluta necessità, se non vi era altra soluzione possibile. Nel caso specifico sarebbe comunque risultata una soluzione pressoché impraticabile, in quanto risalire contro vento bordeggiando per centinaia di miglia in alto mare avrebbe richiesto di svolgere una navigazione stimata, dunque di seguire la rotta su una carta nautica, strumento di cui i naviganti antichi non disponevano. Del resto, lo abbiamo visto e torneremo a evidenziarlo, nell’antichità non si praticava una navigazione stimata nel senso in cui noi la intendiamo, posizionando virtualmente sulla carta il procedere dell’imbarcazione. Quando si era al di fuori del raggio di visibilità della terraferma, per esempio quando si affrontavano le traversate, si procedeva per mezzo di una stima dinamica, avendo come riferimenti la direzione e il tempo mediamente necessario per coprire un determinato tragitto, compensando con la pratica e con l’esperienza le variabili che potevano incidere su questi due fattori. Ma la stima dinamica era efficace se si viaggiava nel flusso degli elementi, mentre non avrebbe consentito di affrontare una navigazione contro vento, in via diretta, attraverso tutto il Mediterraneo orientale. Per navigare verso l’Italia venne quindi intrapreso un lungo viaggio che prevedeva di risalire le coste della Palestina e della Sira per poi piegare lungo quelle dell’Asia Minore e raggiungere così l’Egeo, da dove si proseguiva verso Creta e la Sicilia o verso lo Ionio e l’Adriatico14. Navigando relativamente vicino alla costa, infatti, si poteva sfruttare il regime delle brezze, che, come abbiamo visto, soffiano con direzione perpendicolare o obliqua rispetto alla costa, entro una fascia di circa 10 miglia nautiche dal litorale, essendo venti generati dalla differenza di temperatura tra il mare e la terra durante il giorno e la notte. Saliti a bordo della seconda nave, l’oneraria alessandrina che trasportava grano, incontrarono nuovamente difficoltà a causa del vento che spirava da ovest lungo le coste della Licia e della Caria, nel settore sudoccidentale dell’Asia Minore (paragrafi 7-8). Per passare da Mira fino all’altezza di Cnido, tragitto che con un vento favoreAffrontare la tempesta

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vole poteva essere coperto in un giorno e una notte di navigazione, impiegarono infatti diversi giorni, avanzando a stento e molto lentamente. A quel punto il capitano della nave decise di far rotta su Creta, certamente per sfruttare i venti regnanti che nel basso Egeo soffiavano in quella stagione da nordovest e da nord, venti che avrebbero quindi permesso di scendere verso Creta navigando al traverso o anche con un’andatura più larga. Giunsero così all’estremità orientale dell’isola, presso il Capo Salmone, poi proseguirono verso ovest lungo la costa meridionale, ridossati dai venti del quarto quadrante, gli stessi che li avevano condotti fino a lì e che adesso, invece, risultavano contrari alla loro rotta. Il ridosso fornito dall’isola, tuttavia, non fu sufficiente a consentire una navigazione agevole, tanto che stentarono a raggiungere l’ancoraggio di Buoni Porti, situato al centro della costa meridionale di Creta, presso la città di Lasea15. 3. (Paragrafo 9) Giunti a Buoni Porti, l’evangelista Luca riferisce che era trascorso parecchio tempo dalla partenza e che la navigazione diventava sempre più pericolosa, dal momento che era già passata anche la festa del digiuno. Si tratta di un’indicazione temporale importante, poiché la festa ebraica del digiuno dell’Espiazione cadeva il 10 del mese di Tishri, che all’epoca del viaggio di Paolo si colloca tra settembre e ottobre. Essendo all’inizio dell’autunno si andava incontro al periodo di mare clausum e aumentava il rischio di incappare nelle tempeste che preannunciavano la stagione invernale. 4. (Paragrafo 12) Nonostante l’ammonimento di Paolo, il centurione diede ascolto al timoniere e al proprietario della nave, che decisero di salpare dall’ancoraggio di Buoni Porti per spostarsi nel porto di Fenice16, circa quaranta miglia ad ovest, con l’intenzione di trascorrere là il periodo invernale (paragrafi 11-12). Luca usa a questo proposito il verbo paracheimázo (svernare, passare l’invernata), da cui deriva l’aggettivo paracheimastikòs con cui nei documenti portolanici veniva indicato un porto atto a trascorrervi l’invernata (limén paracheimastikòs, secondo la definizione che incontriamo nello Stadiasmo o Periplo del Mare Grande). All’interno della classificazione dei porti, degli approdi e degli ancoraggi, i porti adatti a svernare erano quelli ben riparati e dotati delle infrastrutture necessarie alla sosta prolungata delle navi e degli equipaggi, oltre che dei passeggeri, porti che certamente disponevano anche di cantieri navali17. 5. (Paragrafi 13-17) Inizia la sequenza degli eventi drammatici che condurranno al naufragio. Salparono da Buoni Porti confidando in un leggero nótos, il vento da sud che risultava favorevole per raggiungere la vicina Fenice, navigando per un breve tratto al traverso e poi al lasco, tagliando il golfo di Messara. Con una velocità media di tre nodi avrebbero coperto il tragitto in quattordici o quindici ore. Mentre costeggiavano da vicino Creta, invece, sopraggiunse inaspettato un vento tempestoso da nordest, chiamato Euroaquilone e definito tyfonikòs da Luca, cioè con la potenza del tifone. Come un ariete si scagliò contro la nave e subito la trascinò 138

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alla deriva, prima verso sud-sudovest e poi verso ovest. Continuando a scadere verso sud con le vele serrate, la nave passò sottovento all’isoletta di Cauda (odierna Gavdos, a sud-sudovest di Creta)18, attraversando così un breve tratto di mare parzialmente ridossato che indusse i marinai a decidere di recuperare la skáfe, cioè la barca di servizio, quella che oggi chiameremmo scialuppa. Evidentemente era trainata a rimorchio per non togliere spazio sul ponte, come avveniva di norma quando le navi da trasporto viaggiavano a pieno carico. In quel frangente, però, era saggio assicurarla a bordo, perché, se fossero riusciti a salvarsi, sarebbe servita prima o poi per compiere qualche manovra e per scendere a terra. A questo punto i marinai furono costretti a rinforzare lo scafo con dei cavi, affinché non cedesse sotto i colpi del mare, azione che Luca esprime col verbo ypozónnymi / ypozonnýo, a cui corrisponde il sostantivo ypózoma che identifica il grosso cavo con cui si irrigidiva lo scafo delle navi da combattimento, come le triremi, ma anche quello delle navi onerarie19. Su questo argomento si sono dibattute due teorie principali: quella che vede nell’ypózoma un cavo che cingeva esternamente la nave, per contenere la tendenza dello scafo ad aprirsi, e quella che lo identifica con un cavo interno allo scafo, collegato alle estremità di prua e di poppa, che, messo in tensione torcendolo, evitava alle navi lunghe di inarcarsi, come sarebbe accaduto quando incontravano mare mosso20. Effettivamente, essendo molto lunghe e strette, con un rapporto lunghezza-larghezza intorno a 1:7, le navi da combattimento erano molto sollecitate quando si trovavano a navigare con mare formato e onde di una certa importanza, perché tendevano a flettersi in senso longitudinale, con un continuo susseguirsi di compressioni e di stiramenti delle strutture dello scafo. In questo caso un cavo messo in tensione da prua a poppa all’interno della nave conferiva maggiore rigidità longitudinale nel momento più pericoloso, ovvero quando la nave, trovandosi sulla cresta di un’onda, tendeva a inarcarsi sotto la spinta positiva dell’acqua, che risultava massima a centro scafo e minima a prua e a poppa. Per le navi onerarie, però, il problema si poneva in termini diversi, poiché il basso rapporto tra lunghezza e larghezza, compreso tra 1:3 e 1:4, avrebbe reso meno necessario un cavo di irrigidimento longitudinale di questo tipo e più necessari, invece, uno o più cavi che cingessero lo scafo all’esterno, per evitare che si aprisse sotto i colpi del mare e sotto la spinta della massa interna rappresentata dal carico. Uno dei rischi maggiori a cui un’oneraria poteva andare incontro navigando con mare tempestoso era infatti la perdita di stabilità del carico, che, spostandosi dentro la stiva, rischiava di compromettere non solo l’equilibrio della nave, che poteva finire per rovesciarsi, ma anche la tenuta strutturale dello scafo. Per tali ragioni, riteniamo verosimile che esistessero due tipi di ypózoma e che quelli usati sulla nave di Paolo fossero dei cavi d’emergenza funzionali a cingere lo scafo all’esterno, principalmente lungo i corsi di cinta. 6. (Paragrafo 17) Andando alla deriva verso sud-sudovest, sulla nave erano tutti spaventati dall’idea di finire nel golfo della Sirte (si intende qui la Grande Sirte, nell’attuale Libia), le cui coste, come abbiamo già ricordato, erano temutissime dai naviganti antichi a causa degli insidiosi bassifondi. Questa paura fece sì che i marinai decidessero di calare in acqua lo skeûos, sostantivo che ha il significato generico di attrezzo, arnese, apparecchio o anche vaso, ma che Plutarco21 Affrontare la tempesta

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utilizza specificamente per identificare l’àncora “sacra”, chiamata skeûos hierón, cioè l’ancora più grande, quella che veniva calata solo in caso di estrema necessita, come ultima risorsa (si veda il punto n. 10). Il significato attribuito da Plutarco è quello che concettualmente più si avvicina alla funzione del nostro skeûos. Considerando il fatto che la nave era spinta alla deriva dalla tempesta e che a bordo temevano di finire nella Sirte, è evidente che lo skeûos di Luca identifica un attrezzo funzionale a rallentare la corsa incontrollata della nave, dunque quello che in italiano si chiama tecnicamente spiera, spera o spira, termine in uso nel lessico marinaresco tradizionale ma di evidente origine antica. Come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo, si tratta di un generatore di resistenza idrodinamica, utilizzato per ridurre la velocità di un’imbarcazione che si trova ad essere investita da vento forte e mare grosso da poppa. Il suo uso era già noto agli antichi, che a questo scopo utilizzavano un grosso canapo avvolto in spire, chiamato speîra in greco e spira in latino, termini da cui deriva, appunto, il nostro spiera/spera/spira. Secondo un’interpretazione alternativa si è anche ipotizzato che il termine skeûos possa identificare un attrezzo per il rilascio di olio sulla superficie del mare, con lo scopo di appianare e onde22, argomento su cui torneremo più avanti in un paragrafo specifico. In questo caso, tuttavia, appare strano il fatto che il testo degli Atti non faccia un riferimento preciso all’uso dell’olio e ai suoi effetti mitigatori, cosa che certamente avrebbe suscitato l’attenzione del narratore, come lasciano intendere i passi di altri autori che lo menzionano. 7. (Paragrafi 18-19 e 38) Nella drammaticità della situazione fu preso un altro provvedimento d’emergenza, come extrema ratio per tenere a galla la nave. Venne infatti eseguito per due volte il “getto a mare”, che consisteva nell’alleggerire la nave gettando in mare il carico (parzialmente o per intero), addirittura abbandonando l’attrezzatura. Si tratta di una pratica utilizzata in ogni epoca, che almeno dall’età ellenistica e poi in età romana conobbe una sua regolamentazione giuridica, allo scopo di ripartire i danni tra i responsabili del trasporto, principalmente tra il proprietario dei beni e l’armatore della nave, in base al valore delle mercanzie perdute. Se ne conserva memoria nella Lex Rhodia de iactu (Legge Rodia sul getto a mare) contenuta nel corpus giuridico giustinianeo conosciuto come Digesto23. 8. (Paragrafo 20) Il fatto che Luca ricordi che da molti giorni non si scorgevano più né il sole né le stelle attesta il persistere di una copertura nuvolosa davvero eccezionale, sia per durata che per densità, tanto da far pensare che qui intervenga un po’ di retorica. Inoltre, potrebbe sembrare anche un richiamo scontato, dal momento che, come abbiamo visto, i riferimenti astronomici avevano un ruolo fondamentale nella navigazione antica, soprattutto quando si affrontavano le traversate in alto mare. Si tratta invece di una notazione molto significativa, in quanto il tema astronomico evidenzia la condizione di estrema difficoltà in cui versavano sia i membri dell’equipaggio che i passeggeri, anche con evidente richiamo alla loro condizione psicologica. Il persistere della tempesta e l’impossibilità di scorgere il sole di giorno e le stelle di notte tolsero infatti a quella gente ogni speranza di salvezza. 140

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9. (Paragrafo 28) Dopo quattordici giorni alla deriva, in piena notte i marinai cominciarono a intuire che si stavano avvicinando a qualche terra. Il “senso marino” giocò un ruolo fondamentale. Evidentemente udirono un cambiamento nel rumore del mare, precisamente riconobbero il rumore dei frangenti che si creano avvicinandosi a terra, quando il fondale si abbassa e le onde cominciano a frangersi una dopo l’altra, generando un suono diverso rispetto a quello dell’alto mare. La tradizione marinaresca, inoltre, attesta che i marinai più esperti riuscivano a fiutare l’odore della terra anche se questa si trovava sottovento. Ma l’avvicinarsi a terra nelle condizioni in cui versava la nave di Paolo, ancor prima che di salvezza era garanzia di naufragio. Non a caso, quando infuria una tempesta e si hanno difficoltà di manovra la salvezza sta nel tenersi al largo e non nel cercare di prendere terra, soprattutto di notte. Per queste ragioni i marinai cominciarono a scandagliare. Riscontrando che il fondale diminuiva rapidamente, essendo buio e senza sapere dove si trovassero, temendo quindi di andare a sfracellarsi sugli scogli, decisero di calare le ancore da poppa e aspettare che si facesse giorno. 10. (Paragrafi 29 e 40) Il fatto che le ancore siano sempre state “emblemi di speranza”, per richiamare ancora Joseph Conrad, ma anche di fede e di saldezza di spirito, è ben rappresentato da Luca quando descrive l’approssimarsi alla terraferma durante la notte. Per fermare la corsa della nave alla deriva calarono da poppa ben quattro ancore, compiendo così la manovra più opportuna ma anche l’unica possibile nelle loro condizioni. Ecco il motivo per cui a bordo delle navi c’erano sempre diverse ancore: da quelle poteva infatti dipendere la salvezza della nave e delle persone. La vitale importanza che rivestivano nelle situazioni di emergenza è ben testimoniata dal fatto che, nonostante il loro peso, le quattro ancore presenti sulla nave di Paolo non furono comprese nei “getti a mare”, neppure quando l’equipaggio si liberò delle attrezzature di bordo. A livello archeologico, i rinvenimenti di ceppi in piombo di ancore romane in prossimità della costa, e in assenza di un contestuale relitto, possono indicare la presenza di ancoraggi, ma possono anche ricondurre a naufragi come quello descritto in Atti 27, dunque riferirsi ad ancore perse, abbandonate nel tentativo di prendere terra. La funzione di salvataggio che le ancore potevano giocare in una situazione estrema è ben rappresentata nell’antichità anche dal valore emblematico, quindi simbolico, della già citata àncora “sacra”, la più grande tra quelle presenti a bordo, quella che veniva calata quando non c’era altra speranza di potersi salvare, come ultima risorsa24: «…calarono l’ultima ancora, quella che i marinai chiamano sacra …»25. La mattina successiva si resero conto di trovarsi in prossimità di un golfo, in fondo al quale si trovava una spiaggia. I marinai decisero quindi di tentare l’atterraggio: tagliarono le cime delle ancore, sciolsero le ritenute dei timoni (per calarli in acqua), issarono la vela di prua e diressero la nave verso la spiaggia. L’impatto fu tremendo, ma tutti, miracolosamente, riuscirono a salvarsi raggiungendo la terraferma. Vennero quindi a sapere che si trovavano sull’isola di Malta. Il naufragio avvenne in un periodo che possiamo collocare tra ottobre e gli inizi di novembre. Affrontare la tempesta

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A questo punto non possiamo non ricordare due suggestivi rinvenimenti subacquei avvenuti a Malta e riferibili all’età romana. Il primo riguarda un gigantesco ceppo in piombo (cavo all’interno, perché fuso su un’anima di legno), lungo ben 4,28 m e del peso di oltre una tonnellata, classificato come il più grande che sia mai stato scoperto. Fu recuperato nel 1963 presso la Baia di San Paolo, sulla costa nordorientale dell’isola, dove, secondo la tradizione, sarebbe avvenuto il naufragio della nave su cui viaggiava l’apostolo26. Il secondo è un ceppo di piombo lungo 2,25 m, che reca impressi sui bracci i nomi delle divinità SERAPIS e ISIS, rinvenuto nel 2005 presso la piccola baia di Salina, immediatamente adiacente a quella di San Paolo verso sudest27. I culti di Serapide e di Iside, divinità egizio-greca la prima, di antica origine egiziana la seconda, conobbero grande diffusione presso le genti di mare nel mondo greco-romano. Iside, in particolare, era strettamente legata alla navigazione, tanto che in epoca imperiale, come abbiamo visto, il 5 di marzo si teneva la festa del Navigium Isidis, che celebrava l’apertura stagionale della navigazione. Non stupisce, dunque, il fatto di trovarle menzionate sul ceppo di un’àncora. Si sarebbe tentati, allora, di mettere in relazione il luogo di rinvenimento del ceppo sia con la provenienza egiziana della nave su cui viaggiava Paolo (nave che arrivava da Alessandria) sia con l’origine egiziana delle due divinità, ma anche con le dimensioni del ceppo, che rimandano all’àncora di una grande nave, com’era, appunto, quella di Paolo. Una suggestione interessante e di grande valore simbolico, ma senza dubbio insufficiente a dimostrare che si tratti di una delle ancore di quella nave28.

6.2. La spiera Ci sono diversi modi per affrontare un nemico. L’importante è valutare bene la forza (la nostra e la sua), le soluzioni che possiamo mettere in campo e il risultato che vogliamo ottenere. Si può affrontarlo di petto, guardandolo dritto negli occhi e anticipandone le mosse, andandogli incontro con decisione per non essere travolti dall’impatto; come opliti dell’antica Grecia in un combattimento corpo a corpo, scudo contro scudo, facendo attenzione a non esporsi sul fianco. Così, una nave sorpresa dalla tempesta resiste al vento e alle onde andandogli incontro di prua, investendo il mare con la parte più forte e tagliente dello scafo. Non sono ammesse distrazioni; se si girasse sul fianco, esponendo la sua maggior superficie, rischierebbe di venir rovesciata. Vi sono però circostanze in cui può essere più vantaggioso girare le spalle al nemico e lasciarsi inseguire, con una fuga – diciamo così – controllata, finché non riusciamo a sfiancarlo. Comunque, in ogni modo si decida di agire, la scelta non deve dipendere né dall’audacia né dalla paura, ma dall’opportunità. Un veliero che non ha forza sufficiente per contrastare la tempesta di prua può dunque darsi a una fuga controllata e lasciarsi inseguire senza farsi travolgere. Ovviamente con la tecnica giusta. Nel paragrafo precedente abbiamo già incontrato la spiera, uno strumento di salvezza estremamente importante, per il quale possediamo informazioni sia storiche che etnografiche, probabilmente anche archeologiche29. Ricorderemo, allora, che il termine spiera/spera/ spira (inglese drogue) identifica un generatore di resistenza idrodinamica, che viene tuttora utilizzato per ridurre la velocità di un’imbarcazione investita da vento forte e mare tempestoso da poppa. A volte è erroneamente identificata con l’ancora galleggiante, essendo il principio di funzionamento molto simile, ma con una sostanziale differenza nella finalità e modalità 142

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d’impiego. L’ancora galleggiante (inglese sea-anchor) è infatti uno strumento di arresto che viene filato con una cima da prua, per fermare la barca in alto mare o per resistere al sopraggiungere di una tempesta con la prua al vento, mettendo l’imbarcazione alla cappa (si tratta ovviamente di un arresto relativo, poiché l’ancora gal- Fig. 54. Spiera a cono di tela grossa. leggiante non lavora sul fondo marino ma rimane immersa nella massa d’acqua in movimento). È costituita da una specie di paracadute che agisce come elemento di grande massa (l’acqua contenuta al suo interno) e che, a differenza della spiera, risulta difficile da spostare. Il tipo più comune di spiera, invece, è costituito da un cono di tela grossa, con la bocca rinforzata da un anello metallico e l’estremità posteriore aperta, che viene filato con una cima da poppa30 (fig. 54). Quando inizia a lavorare, la spiera rimane sommersa a mezz’acqua e genera una resistenza che serve a rallentare (non a fermare) la corsa dell’imbarcazione. Tuttavia, si può definire spiera anche un attrezzo realizzato all’occasione, in circostanze d’emergenza, come conferma Guglielmotti nel suo Vocabolario marino e militare: «Spèra. s.f. Term. mar. Crusca: roba o fascine legate, che si gittano in mare dietro alle navi, per rallentare il corso di esse. – Artifizio degli antichi navigatori nostri, che potrebbe talvolta tornar utile ai moderni, quando volessero smorzar l’abbrivio, per evitare il precipizio dell’investimento altrui; o il proprio; o la rovina di scogli, o di terre circostanti. Allora essi legavano insieme tavole, fascine, materasse, e ne facevano tale strascico in mare, che dovesse trattenere il corso del naviglio, almeno per due terzi; tanto che se corresse per dodici miglia all’ora, venisse alle quattro, sempre rastrellando lo strascico in mare di gran volume e di poco peso. Dicevano gittare, mettere, trarre le Spere. La qual voce per taluno deriva dalla sfericità dello strascico, per altri dalle spirali dei legamenti, pei timidi dalla speranza di salvarsi in quel modo»31. Per comprendere bene l’utilità di questo semplicissimo ma importantissimo dispositivo nautico, facciamo solo un breve cenno alle condizioni marine che ne rendono necessario l’uso, sia in alto mare che in prossimità della costa. Le onde che si formano al largo per effetto del vento assumono un moto di oscillazione sinusoidale, descritto dalla lunghezza tra i punti corrispondenti di onde successive e da un’altezza pari alla distanza verticale tra il punto più basso del cavo e quello più alto della cresta. Le onde, dunque, rappresentano la forma assunta dalla superficie del mare e il loro movimento non implica una traslazione di masse d’acqua. Sono queste le “onde lunghe”, che l’imbarcazione affronta senza particolari problemi, perché, mentre avanza, sale sulla cresta e poi ridiscende nel cavo tra onda e onda, in condizioni che richiedono certamente attenzione ma che risultano ben controllabili. La Affrontare la tempesta

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situazione cambia se il vento ha la forza sufficiente per trasportare una certa quantità d’acqua lungo il dorso dell’onda, cioè per farla risalire dal cavo alla cresta. La massa d’acqua trasferita tende infatti ad accumularsi e a verticalizzare il fronte dell’onda, che ora prende il nome di “colpo di mare” e genera una condizione pericolosa. Se poi l’energia del vento è tale da riuscire a trasferire ancora più acqua sulla cresta, la massa che si Fig. 55. Imbarcazione con la vela ammainata in coperta, crea diventa tale da rendere inmentre sta per essere travolta da una gigantesca onda frangente. stabile l’onda stessa, che finirà Particolare di un mosaico policromo degli inizi del I sec. a.C., poi per crollare in avanti, cioè rinvenuto nell’acropoli di Populonia e conservato presso il per cadere sottovento generando Museo Archeologico del territorio di Populonia a Piombino una vera e propria cascata d’ac(Livorno). qua chiamata “frangente pericoloso”. In tale circostanza il moto di oscillazione dell’onda si trasforma in un moto di traslazione, sprigionando grande energia, il cui effetto su un’imbarcazione può risultare devastante (fig. 55)32. La trasformazione dell’onda lunga in frangente si verifica in modo costante avvicinandosi a terra (fig. 56), quando il moto delle particelle d’acqua degli strati più bassi viene frenato dall’attrito col fondo marino, al punto che le orbite diventano da circolari a ellittiche, sempre più schiacciate quanto più il fondale diminuisce. L’onda si solleva e la cresta si verticalizza fino a collassare, creando il frangente che ricade in avanti. In questa circostanza, dunque, la componente di spinta fornita dal vento assume solo un valore complementare, perché il frangente si forma inevitabilmente a causa della diminuzione di fondale33. Questa dinamica è caratteristica, per esempio, dei litorali dell’alto Adriatico occidentale, tra le Marche e il Veneto, dove le condizioni ambientali e geomorfologiche determinano il fenomeno noto in letteratura scientifica come spilling, che si genera in presenza di spiagge a bassa pendenza, dove le onde diventano ripide e collassano in modo caotico, spumeggiando man mano che si avvicinano a terra e dissipando quasi interamente la loro energia. Si creano così delle correnti di ritorno o di compensazione, che sono all’origine della formazione di due o tre barre sabbiose sommerse e parallele al litorale (note localmente come scanni), lungo le quali si creano delle linee di frangenti paralleli alla costa34. È questo uno dei punti più pericolosi che una barca deve affrontare quando cerca di prendere terra o di entrare in porto con mare grosso. Nei canali che si creano tra due barre (canali di maggiore profondità chiamati fosse) il moto ondoso giunge invece attenuato, tanto che al loro interno è possibile trovare un parziale rifugio per l’ancoraggio o addirittura, con le imbarcazioni minori, condurre una navigazione relativamente protetta. 144

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Fig. 56. Sviluppo del frangente con la diminuzione del fondale, avvicinandosi alla riva: 1. moto iniziale, onda lunga; 2. onda con fronte verticalizzato, sul punto di frangersi; 3. onda frangente. L’iniziale moto di oscillazione sinusoidale delle particelle d’acqua si trasforma in moto di traslazione (frecce).

Quando la barca viene investita sulla poppa da un colpo di mare che si trasforma in frangente, la poppa stessa viene sollevata sulla cresta dell’onda mentre la prua si abbassa in avanti verso il cavo (fig. 57a-b). Questa condizione la espone alla spinta generata dall’onda frangente, che, come abbiamo visto, collassando in avanti assume un rapido moto di traslazione, tale da poter raggiungere velocità comprese tra i dieci e i quindici nodi. Nei confronti della barca, l’onda assume quindi l’effetto di un elemento propulsore, che si assomma a quello del vento. Lo scafo, così sollevato, inizia a correre fuori controllo alla stessa velocità dell’onda, scendendo nel cavo e andando prima o poi a impozzare, cioè ad inciampare con la prua nell’acqua. Nel gergo tradizionale questa pericolosissima condizione è riassunta nell’espressione “la barca prende la corsa”. Si determina quindi un susseguirsi di fattori negativi, a cominciare dalla perdita di efficienza del timone. Quando lo scafo inizia a correre con la stessa velocità dell’acqua, infatti, viene meno quella differenza di velocità tra la barca e l’acqua che in termini idrodinamici garantisce la differenza di pressione esercitata sulla pala del timone, pressione assolutamente necessaria affinché questo possa lavorare. L’imbarcazione, in sostanza, viene a trovarsi senza timone, in equilibrio instabile e lanciata a grande velocità verso il cavo dell’onda antistante, in una corsa che si conclude quasi sempre con un’impozzata, quindi con il traversarsi dello scafo all’onda, infine con il suo rovesciamento. Al tempo della vela l’unico rimedio per evitare di “prendere la corsa” era quello di rallentare la barca con la spiera, in modo che il frangente passasse sotto lo scafo senza trascinarlo in avanti e poi traversarlo (fig. 58). Se l’operazione riusciva, tutto si concludeva in una distesa di schiuma, fino all’arrivo dell’onda successiva. Il nostro termine spiera è di evidente origine antica, derivando dal latino spira che, a sua volta, deriva dal greco speîra, vocabolo che indica la spirale, nel caso specifico la spirale formata da una corda o da una cima avvolta su sé stessa, come le spire di un serpente. Per indicare questo attrezzo, però, gli antichi usavano anche parole diverse, come abbiamo visto a propoAffrontare la tempesta

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Fig. 57a. Dinamica di una barca che “prende la corsa” avvicinandosi alla costa (sviluppo da destra verso sinistra, con proporzioni delle onde esagerate per rendere più chiaro lo schema). La barca scende nel cavo dell’onda che la precede, impozza con la prua, si traversa al mare e infine viene rovesciata dal frangente.

Fig. 57b. Barca che attraversa la linea dei frangenti e “prende la corsa” con mare in poppa: 1. direzione di avanzamento e della successiva imbardata, che porta lo scafo a traversarsi al mare; 2. spinta di galleggiamento della prua che impozza nel cavo dell’onda che la precede e nel dorso della successiva; 3. spinta di galleggiamento della poppa che si solleva e diventa fulcro dell’imbardata dello scafo; 4. col sollevamento della poppa il timone tende a uscire fuori dall’acqua e poi, con lo sviluppo del frangente, resta immerso nella spuma, dunque in una miscela di aria e acqua; questa condizione e la corsa presa dallo scafo per la spinta dell’onda tolgono al timone la sua efficienza idrodinamica, dunque la capacità di dirigere l’imbarcazione.

sito dello skeûos citato negli Atti degli Apostoli. Luciano di Samosata35, invece, definisce il sistema frenante usato sulle navi col nome ischás (“trattenitore”?) o nausipéde (“arresta-nave”?), parole la cui interpretazione non è semplice. Diversamente, spiegando il sistema con cui i marinai riducevano la velocità di una nave trasportata dalla burrasca, Plutarco36 riferisce che la manovra si svolgeva per mezzo di spiere e di ancore (speírais kaì agkýrais), accostando significativamente i due termini. Se ne deduce che delle piccole ancore potevano essere trasci146

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Fig. 58. Barca frenata con una spiera-pietra, che veniva trascinata radente al fondo sabbioso. Grazie al suo impiego, lo scafo non prendeva la corsa e l’onda lo superava senza trasportarlo in avanti.

nate a mezz’acqua o radenti al fondo per generare resistenza, come si faceva anche in ambito tradizionale, per mezzo di un ancorotto completamente avvolto in giri di cima. A questo scopo, per evitare che le marre potessero far presa sul fondo, le ancore venivano trascinate al contrario, dal diamante, usando l’incrocio tra il fusto e le marre per legare la cima di traino. Curiosa, ma significativa, risulta anche la tarda testimonianza di Isidoro di Siviglia37, dottore della Chiesa e famoso compilatore di opere enciclopediche, vissuto a cavallo tra il VI e il VII sec. d.C., il quale riferisce che le spirae erano le cime utilizzate sulle navi durante le tempeste, quelle che i marinai, per loro tradizione, chiamavano anche cucurbae. In effetti, risulta piuttosto difficile spiegare il termine cucurba / cucurbita in un contesto di tipo nautico, perché la parola significa letteralmente zucca. L’anomalia potrebbe ricondursi a un errore di comprensione, o di trascrizione, intervenuto nella tradizione manoscritta dell’opera di Isidoro, ragione per cui si è proposto di identificare il vocabolo originale con curcuma38, che nella tarda latinità indicava il capestro, la cavezza39, cioè la corda che serviva a legare gli animali per il muso, quella con cui venivano guidati camminando al passo o con cui erano legati alla mangiatoia. Altri significati sono quelli di guinzaglio, legaccio per le viti e museruola, tutti termini in cui è ben chiaro il concetto di trattenere, bloccare, controllare, guidare per mezzo di una corda. In sostanza, così come la curcuma serviva al padrone per guidare e controllare il passo degli animali, per tirarli o tenerli fermi, la spira/curcuma serviva ai marinai per governare l’andatura della nave, dunque per controllarne la corsa durante una tempesta, mantenendola con la poppa in filo col vento e col mare, evitando così che venisse trascinata e infine travolta dalle onde. Insomma, con la spira i marinai tenevano al guinzaglio la loro nave da poppa, la vincolavano a un capestro affinché non finisse fuori controllo. Nonostante la varietà delle denominazioni, sembra che il greco speîra e il latino spira fossero i termini abituali, quelli che appartenevano al linguaggio corrente delle genti di mare. Ne consegue che il sistema frenante era costituito fondamentalmente da grosse cime trascinate da poppa, distese o avvolte in spire per aumentarne l’effetto di resistenza nell’acAffrontare la tempesta

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qua. A tale proposito va però ricordata un’altra testimonianza di Luciano40, in cui lo scrittore greco ci parla di una nave che incappò in una tempesta al traverso dell’isola di Zacinto, nel mare Ionio, e che per far fronte alla situazione viaggiava col minimo della tela, praticamente a secco di vele. La nave trascinava da poppa delle spiere, che nel testo greco sono chiamate speîras secondo l’uso corrente, dunque delle grosse cime. Ma Luciano aggiunge una notazione interessante, cioè che queste cime «servivano a rompere la violenza delle onde». La loro funzione era dunque anche quella di rompere i frangenti prima che si abbattessero sulla nave, effetto ottenuto modificando la tensione superficiale del mare proprio per mezzo di queste grosse cime. Un sistema simile era usato nella prima metà del secolo scorso dai pescatori del medio Adriatico (tra Marche e Abruzzo), che a questo scopo trascinavano da poppa due remi legati insieme o delle tavole di legno, sulle quali i frangenti si rompevano prima di raggiungere la poppa della barca, dissipando così la gran parte della loro energia41. Concettualmente, questo sistema di smorzare i frangenti si apparenta con quello che prevedeva il rilascio dell’olio in mare, di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo. L’uso delle spiere era ben conosciuto anche in epoca medievale e moderna, quando veniva indicato con espressioni del tipo “mettere/porre/gettare per poppa spere” o “fare spera”. Lo testimonia, tra gli altri, Ludovico Ariosto in alcuni versi del suo Orlando Furioso42, i quali, oltre a confermare l’utilizzo di questi attrezzi in un periodo a cavallo tra il XV e il XVI secolo, precisano che si poteva così ridurre di due terzi la velocità della nave: «Rimedio a questo il buon nocchier ritruova, / che commanda gittar per poppa spere; / e caluma la gomona, e fa pruova / di duo terzi del corso ritenere».

Avendo scongiurato molti naufragi, le spiere compaiono naturalmente tra i soggetti degli ex-voto marinari, talvolta anche con una precisa memoria scritta43, oltre che nelle prove di fortuna tra il XVII e il XIX secolo, alcune delle quali contengono descrizioni precise delle manovre svolte44. Nei mari caratterizzati da basso fondale e fondo sabbioso, regolare e senza incagli, poteva essere usata come spiera una pietra con imbracatura di corda o di ferro, che svolgeva la sua funzione radendo il fondo. È ancora una volta la tradizione marinaresca dell’Adriatico a testimoniare l’uso di questo strumento, che diventava particolarmente importante quando le barche dei pescatori dovevano infilare l’imboccatura di un porto canale durante una mareggiata coi venti di Bora, Levante o Scirocco45 (fig. 59). Questo particolare tipo di spiera ci porta a considerare la funzionalità di quelle tipologie di ancore primitive rappresentate da semplici pietre appena lavorate. Pur essendo gli strumenti di ancoraggio in assoluto più semplici, risalenti ai primordi della navigazione, va però ricordato che la loro tecnologia non può, da sola, rappresentare un indizio cronologico, perché attrezzi di questo tipo continuarono ad essere realizzati e usati praticamente fino ai nostri giorni. La forma più semplice è costituita da una pietra non lavorata o semilavorata, imbracata con una cima, mentre appena più evoluta è quella che presenta una scanalatura ricavata allo scopo di assicurare meglio la cima. Vi sono poi le cosiddette “pietre forate”, grossi sassi levigati naturalmente, per lo più lastriformi, di forma più o meno circolare, al centro dei quali veniva praticato un foro per legarvi la cima. Con un sempre maggiore intervento da parte dell’uomo, le “pietre forate” conobbero poi un’evoluzione che le portò ad assumere la forma di una lastra 148

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o di un parallelepipedo, di un elemento ovoidale o troncopiramidale, col foro per la cima realizzato nella parte alta dell’attrezzo. Queste sono semplici ancore a gravità, altrimenti riconducibili a “corpi morti”, la cui presa sul fondo è garantita dal peso. Decisamente più efficienti sono le pietre a tre fori, vere e proprie ancore litiche che prevedevano l’inserimento di due unghie di legno funzionali a mordere il fondo, preludendo alle marre delle ancore in legno e poi in ferro46. Non di rado sono state rinvenute “pietre forate” del tipo più semplice, con un solo foro, in associazione con ancore di tipo classico, sia quelle di legno con ceppo di piombo sia quelle di ferro, anche contestualmente a un relitto47. È ve- Fig. 59. Spiera realizzata con un masso di recupero (pietra d’Istria) del peso di circa 20 kg, con imbracatura di ferro. rosimile pensare, quindi, che queste Proviene dal mare antistante Venezia e fa parte della colpietre fossero oggetti polifunzionali, lezione museale dell’Arzanà - Associazione per lo studio e identificabili con delle rudimentali la conservazione delle imbarcazioni veneziane. Cronologiancore a gravità o con dei “corpi camente può essere ricondotta a un periodo compreso tra morti” che all’occasione, se necessario, la fine del XIX e la prima metà del XX secolo. potevano essere usate come delle pietre-spiere per rallentare la corsa di un’imbarcazione, in particolare quando doveva avvicinarsi a un litorale a spiaggia in condizioni di maltempo48, con mare formato o burrascoso, per raggiungere una zona ridossata da isolette, scoglie e bassifondi antistanti la riva, l’accesso a una laguna o a una foce fluviale.

6.3. L’olio che calma le onde Calmo, assolutamente piatto, senza increspature, riferito alle acque del mare o di un lago. Questo è ciò che intendiamo con l’espressione “calmo come l’olio” o “liscio come l’olio” (nel secondo caso anche con estensione del significato). L’origine è evidente e appartiene all’esperienza comune di ciascuno: versando dell’olio nell’acqua, constatiamo che i due liquidi non si mescolano, in quanto non avviene un legame tra le molecole dei due elementi. L’olio galleggia in superficie e si spande rapidamente in un velo sottilissimo, in virtù della differenza di tensione superficiale dei due liquidi. Questo fenomeno determina un appiattimento della superficie, che diventa regolare e omogenea, favorendo così il ridursi delle asperità e, di conseguenza, migliorando la trasparenza della colonna d’acqua sottostante. Affrontare la tempesta

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Il comportamento dell’olio sull’acqua era ben noto agli antichi e conobbe anche applicazione in campo nautico. Riferendosi alle caratteristiche del mare, Plinio49 ricorda che «tutto viene reso tranquillo con l’olio, motivo per cui i palombari lo spargono con la bocca, perché mitiga l’asperità della superficie dell’acqua e trasporta la luce». Il sottile velo d’olio serviva dunque a favorire la visibilità subacquea prima di iniziare l’immersione, dunque a identificare ciò che il palombaro doveva recuperare o l’oggetto su cui si doveva lavorare, favorendo contestualmente anche la discesa in acqua grazie all’effetto di mitigazione del moto ondoso. Sullo stesso argomento torna sinteticamente Filostrato50 riferendosi ai pescatori di perle del Golfo Persico, i quali «rendono calmo il mare versandovi sopra dell’olio». Un tentativo si spiegazione scientifica del fenomeno lo fornisce invece Plutarco51 ponendo le seguenti domande: «perché se si sparge dell’olio sul mare questo diventa trasparente e calmo? Forse, come narra Aristotele, perché il vento, scivolando sulla superficie oleosa, non riesce a generare forza né agitazione, cioè onde?». Risale ad epoca più tarda un’interessante menzione dell’uso dell’olio in navigazione, che compare incidentalmente in un testo agiografico, nel paragrafo 13 della Vita Sancti Germani Episcopi scritta da Costanzo di Lione nella seconda metà del V sec. d.C. Qui viene descritta la terribile tempesta che rischiò di far naufragare nelle acque della Manica la nave su cui viaggiava Germano vescovo di Auxerre, vissuto tra la fine del IV e la metà del V sec. d.C., il futuro San Germano d’Auxerre. L’episodio della tempesta si inserisce come elemento caratteristico del racconto di un viaggio per mare, secondo uno schema – lo abbiamo visto – ben noto nella letteratura antica, che qui viene però elaborato in un’ottica propriamente cristiana. La soluzione adottata come extrema ratio per salvare la nave dalla furia del mare consistette, infatti, nell’aspersione di olio benedetto che il vescovo fece in nome della Trinità, subito dopo aver rivolto un’invocazione a Cristo. «… Le vele non potevano sopportare il furore del vento», scrive Costanzo, «e la fragile imbarcazione sosteneva a fatica l’assalto dell’oceano. I tentativi di manovra dei marinai erano vani; la barca era ormai governata dalla preghiera, non dagli uomini … Egli (San Germano) reso più intrepido dalla grandezza del pericolo, invocò il Cristo, lanciò invettive contro l’oceano e, così, oppose la giusta causa della religione alle tempeste scatenate; preso dell’olio, domò i flutti tempestosi facendo una leggera aspersione nel nome della Trinità. Quindi, riprese il suo compagno ed esortò tutti i passeggeri: la preghiera si espandeva con una sola voce e con un solo grido. Apparve la presenza divina, i nemici furono messi in fuga, seguì una calma serena, i venti contrari si volsero in direzione favorevole per il viaggio, un’onda compiacente accompagnò la barca e, dopo aver percorso spazi immensi, presto raggiunsero tranquillamente il litorale desiderato»52.

Grazie all’aspersione di olio benedetto, la furia degli elementi si placò, i venti contrari diventarono favorevoli e la nave poté concludere il suo viaggio tranquillamente. Il rimprovero rivolto al mare ricorda l’episodio evangelico dell’attraversamento del lago di Tiberiade, quando Gesù ordinò al vento e al mare di calmarsi53, mentre l’uso dell’olio richiama in modo evidente la ritualità cristiana. Dietro quello che si presenta, effettivamente, come un passo di pura ispirazione cristiana, si nasconde in realtà una pratica ben nota ai marinai fin dai tempi antichi, consistente nel rilascio di olio per mitigare la violenza del mare54. 150

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Fig. 60. Modalità di rilascio dell’olio nel manuale Attrezzatura, manovra delle navi e segnalazioni marittime di F. Imperato (1894, pp. 319-320): «Fuggendo dinnanzi a un fortunale l’olio va distribuito dalla prua, sia per mezzo di sacchi, sia lungo tubolature di esaurimento (latrine, lavandini, ombrinali); esso si espanderà così lungo i fianchi e verso la poppa (Fig. 52), proteggendo così la nave non solo contro le onde che la inseguono, ma altresì contro quelle che possono sopraffarla dalle anche e dai lati. Se invece l’olio viene gettato soltanto da poppa (Fig. 53) esso non ha nessuna efficacia contro queste ultime. Qualora nel correre la nave straorzi serpeggiando, con pericolo di prendere in faccia o traversarsi, l’olio deve essere distribuito, oltreché dalla prua, anche dai due lati a poppavia del traverso. Nella Fig. 54, per es., in cui l’olio è solamente distribuito da prua, l’anca di sopravvento rimane scoverta durante la straorzata. Nella Fig. 55 invece, co’ sacchi d’olio a prua e ai fianchi, l’anca di sopravvento è sempre protetta».

Alcune testimonianze di epoca medievale ricordano da vicino il racconto di Costanzo, richiamando il carattere miracoloso dell’uso dell’olio, in diretto rapporto con la navigazione durante una tempesta55. Assai più ampia è la documentazione di età post-medievale, per giungere infine al XIX e al XX secolo, quando l’uso dell’olio in campo nautico fu oggetto di pubblicazioni specifiche dedicate alla sicurezza in mare56, di appositi capitoli all’interno dei manuali di navigazione e perfino di paragrafi nei portolani, in cui sono descritte tutte le circostanze in cui può essere impiegato, le modalità di utilizzo e le caratteristiche dei diversi tipi di olio57 (fig. 60). In quanto alle circostanze, era usato innanzitutto quando si correva con mare grosso in poppa, per evitare che la nave venisse investita dai frangenti pericolosi, ma anche per oltrepassare la linea dei frangenti presso le barre sommerse, quando ci si avvicinava a un porto o si cercava di eseguire un atterraggio sulla spiaggia. Inoltre, risultava efficace nel mettersi alla cappa, riducendo l’onda di prua e al traverso, quando si restava sulle ancore in rada, quando si filava l’ancora galleggiante da prua o la spiera da poppa, quando era necessario mettere in acqua le scialuppe con mare grosso, intervenire in soccorso di naufraghi o di un’altra nave; insomma, in ogni caso in cui si rendesse necessario ridurre l’impatto delle onde. Questa pratica era generalmente considerata efficace ed era così diffusa che negli Stati Uniti, nel 1938, fu brevettato un wave-stilling oil, cioè un tipo di olio specificamente destinato ad acquietare le onde58. Inoltre, vennero ideati degli appositi contenitori per il rilascio dell’olio sopravvento alla nave, al fine di ottimizzarne la dispersione e, di conseguenza, assicurare la durata e l’effetto benefico generato dalla pellicola oleosa sulla superAffrontare la tempesta

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ficie del mare59. Numerosi sono poi gli articoli pubblicati su riviste scientifiche e perfino su alcuni quotidiani, in cui vengono riportate le esperienze di capitani che sperimentarono efficacemente l’olio durante tempeste, uragani e tifoni, pur non mancando qualche voce scettica al riguardo60. L’olio era usato anche durante il traino con rimorchiatore, soprattutto se l’operazione riguardava piccole navi o imbarcazioni, quelle che avevano maggiori difficoltà in caso di mare agitato. Il rimorchiatore rilasciava l’olio da poppa, creando una scia in cui le onde non frangevano, favorendo così la navigazione dell’unità a rimorchio. Inoltre, una tanica di olio e un sacco di tela riempito di stoppa (che, imbevuta, ne rallentava il rilascio), sono rimasti parte integrante delle dotazioni di bordo delle scialuppe di salvataggio fino ai nostri giorni, quale risorsa estrema per resistere a un mare tempestoso, sia nelle fasi di soccorso che durante la navigazione o la deriva (fig. 61). I manuali di soccorso e sopravvivenza in mare vi dedicano appositi paragrafi, evidenziando come il rilascio di olio risulti particolarmente efficace se unito all’uso dell’ancora galleggiante o della spiera61. Il primo scienziato che dedicò un’attenzione specifica alle proprietà dell’olio come mezzo per calmare la superficie del mare fu nientemeno che Benjamin Franklin, il celebre Fig. 61. Sacco di tela “Olona” scienziato, inventore e politico statunitense vissuto nel per il rilascio dell’olio, cm 50 x XVIII secolo (Boston 1706 – Filadelfia 1790). Dapprima 30 x 10, anni 1950-1960. Si scettico, si convinse ad approfondire lo studio del fenonotano i fori di rilascio sul fondo meno tramite indagini e prove dirette, dopo aver vissuto del sacco, guarniti con anelli di una singolare esperienza di bordo che riassume in una sua alluminio. lettera del 1773. Nei carteggi di Franklin, riuniti nelle cosiddette Opere Minori, esiste infatti un’intera sezione dedicata alla pratica di calmare le onde con l’olio62. Gli studi di Franklin, approfonditi attraverso la sua esperienza diretta, i successivi esperimenti e la raccolta di ulteriori informazioni ricevute dai marinai, posero dunque le basi per la spiegazione scientifica del fenomeno, per altro già anticipata dall’intuizione di Aristotele, come ricorda Plutarco nel brano citato sopra. Rilasciato sul mare agitato, l’olio si espande rapidamente creando una pellicola elastica che impedisce o, comunque, riduce sensibilmente l’aderenza tra l’aria e l’acqua. Il vento non riesce più a far presa sull’acqua e a svolgere la sua azione meccanica, cioè ad innalzare l’onda trasportando le particelle d’acqua sul suo dorso, dal basso verso l’alto. Per questo motivo, riducendosi l’effetto di trasporto meccanico generato dal vento, la presenza della pellicola d’olio consente all’onda di modificare la sua forma, trasformandosi da frangente pericoloso in colpo di mare o addirittura in mare lungo. Nella marineria moderna il rilascio veniva eseguito utilizzando degli appositi sacchi di tela, della capacità di 4-8 litri, riempiti di stoppa inzuppata d’olio, opportunamente forati 152

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per favorire una lenta ma costante fuoriuscita del liquido. Nei bastimenti a vela questi sacchi erano trascinati in mare fuori bordo, sul lato sopravvento dell’imbarcazione, appesi direttamente alle fiancate o a delle aste-buttafuori che li tenevano a distanza di alcuni metri dallo scafo. Anche le gru delle ancore, a prua, erano impiegate a questo scopo. Come accennato, la manovra risultava particolarmente efficace quando si correva nelle andature portanti (poiché mitigava l’azione delle onde che inseguivano la nave da poppa), quando ci si metteva alla cappa, quando si scarrocciava con mare grosso o quando si era all’ancora in una rada aperta. In tali circostanze, il rilascio di olio sul lato sopravvento riduceva l’impatto del mare appianando le onde che rischiavano di frangere. Numerose testimonianze confermano i grandi vantaggi ottenuti con la corretta esecuzione di questa manovra, da cui poteva dipendere la salvezza della nave. Il diario di bordo del capitano Balley, comandante del brigantino a palo americano Gibson, ce ne offre un esempio: «Il 13 marzo 1885 il Gibson (741 tonn.) trovavasi in lat. 29° Sud e long. 164° Est e, pria di mettere alla cappa per l’avvicinarsi di un uragano, correva con vento e mare in poppa; mare molto grosso e crescente. Si presero due sacchi d’olona, della capacità di circa un gallone, si bucarono liberamente con ago saccoraio, e riempitili di olio di delfino, si sospesero quindi alle due grue di capone, in modo che trascinassero sull’acqua; l’olio apparve prontamente alla superficie, con i benefici risultati che si attendevano. Le onde enormi correvano a precipitarsi sulla scia, con creste frastagliate e pericolose, torreggiando alte sopra al bastimento ed apparentemente minacciando d’inghiottirlo; ma non si tosto toccavano il confine dell’olio, i grossi cavalloni ad un tratto si abbassavano e passavano inoffensivi sotto la nave, come lunghe ondate. Lo stesso accadde nel mettersi alla cappa»63.

I tipi di olio utilizzati variavano secondo la disponibilità e secondo le loro caratteristiche. Quelli vegetali e quelli animali erano considerati i più efficaci. L’olio di oliva era considerato ottimo per la sua rapidità di propagazione, benché avesse il difetto di rapprendersi a temperature relativamente alte (intorno a + 2°C), ragione per cui poteva rendersi necessario tagliarlo con olii minerali, più resistenti al freddo. Tra quelli animali erano considerati molto efficaci gli olii di delfino, di balena e di foca, tra quelli vegetali gli olii di lino, di cotone e di trementina. Il consumo stimato per una nave si aggirava intorno ai 2,5 – 3 litri per ora. La pratica di rilasciare olio è sempre risultata particolarmente importante in ambiente oceanico, pur essendo generalmente diffusa anche nei mari chiusi come il Mediterraneo. Avvicinandosi alla costa, inoltre, abbiamo visto che era adottata per superare le zone dei frangenti vicino a riva o in corrispondenza delle barre sommerse. Lo confermano alcune testimonianze raccolte tra i pescatori siciliani e tra quelli dell’Adriatico, riferibili anche ad anni recenti (anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso), dunque alla navigazione con i motopescherecci. Si ricorda, per esempio, la pratica di tenere legato a poppa un barilotto contenente l’olio esausto del motore, che veniva rilasciato in acqua quando si era costretti a scappare col mare grosso in poppa, oppure quando ci si avvicinava all’imboccatura di un porto, presso cui i bassifondi creavano una zona di frangenti. In quest’ultimo caso si arrivava il più vicino possibile all’imboccatura, si versava in mare l’olio, si tornava fuori facendo un’ampia virata a 360° per dargli il tempo di espandersi, infine si entrava in porto col motore a tutta forza. Affrontare la tempesta

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L’onda rimaneva alta, ma i frangenti scomparivano e il mare risultava in qualche modo appianato, consentendo un ingresso sicuro. Un altro espediente per fuggire col mare grosso in poppa era quello citato nel paragrafo precedente, che prevedeva il traino di alcune tavole di legno su cui le onde, incontrando una superficie piatta e rigida, finivano per rompersi e dissipare la loro energia, arrivando quindi all’imbarcazione solo come “onde morte”. 1

Virgilio, Eneide, X, 284. Delebecque 1983. 3 Atti, 21-26. Fabris 2009, pp. 443-466. 4 Smith 1856; Rougé 1960; Finegan 1981, pp. 183-215 (per le testimonianze storico-archeologiche sui porti raggiunti nel corso del viaggio); Janni 1996, pp. 331-347; Pomey, Tchernia 1997; Melniciuc Puică 2005; Fabris 2009, pp. 470-484; Medas 2018a. 5 In un altro manoscritto degli Atti, il testo greco precisa che la nave fu trascinata alla deriva con le vele serrate. 6 Nella concezione geografica dei Greci l’Adriatico aveva un’estensione superiore a quella che oggi ha per noi, comprendendo anche lo Ionio e il Mar di Sicilia. 7 L’orgia è un’antica unità di misura lineare che corrisponde alla lunghezza delle due braccia di un uomo distese con le mani aperte, pari a circa 1,80 m. 8 Versione italiana dell’autore. Il testo greco utilizzato è quello di Rendall 1897. 9 Una parziale eccezione era rappresentata dalle unità da collegamento del servizio postale, il cursus publicus, navi onerarie e navi da guerra, ma per lo più imbarcazioni di medie-piccole dimensioni, a doppia propulsione (velica e remiera), che venivano impiegate anche per il trasporto di piccoli gruppi di passeggeri, spesso funzionari pubblici (Reddé 1986, pp. 445-451; Casson 1995a, pp. 157-168, e Id. 1995b, specifici per le tipologie di navi veloci a doppia propulsione, velica e remiera). 10 Rougé 1978; Id. 1984; Janni 1996, pp. 373-401; Id. 2003. 11 Arnaud 2005, pp. 107-126. 12 Uggeri 2009, pp. 201-202. 13 Per l’equivalenza tra il regime stagionale dei venti odierni e quello antico, negli ultimi 2.400 anni circa, si vedano Murray 1987 e Id. 1995. Sul regime dei venti nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale si vedano: Weather in the Mediterranean, vol. I: 42-43, 77-79, 91-100; vol. II: 55-80, 214-265; Portolano del Mediterraneo. Generalità – Parte II. Climatologia: 2-12, 63-74, tabelle XCI-CXV; Watts 1975; Morton 2001, pp. 46-66. 14 Casson 1995a, pp. 297-299; cfr. Arnaud 2005, pp. 207-211. 15 Finegan 1981, p. 192; Uggeri 2009, pp. 233-234. 16 Finegan 1981, pp. 196-198; Uggeri 2002, p. 100; Id. 2009, p. 235. 17 Medas 2008c, pp. 129-154. 18 Uggeri 2002, p. 100; Id. 2009, p. 235. 19 Al greco ypózoma corrisponde il latino tormentum. 20 Schauroth 1911; Brewster 1923; Casson 1995a, pp. 91-92, 147, 211, nota 45. 21 Moralia, 812 B. 22 Beresford 2014. 23 Aubert 2007; Badoud 2014. 24 Casson 1995a, p. 252. 25 Luciano, Fugitivi, 13. Si vedano, inoltre, Plutarco, Vita di Coriolano, 32, 1 (229); Id., Moralia, 815 D; di nuovo Luciano, Iuppiter tragoedus, 51. 26 Azzopardi, Gambin, Zerafa 2008-2009, p. 29. 27 Ibidem, p. 25. 2

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Gatt 2014, pp. 31-32. Medas, Brizzi 2015. 30 Per le tipologie e le modalità d’uso delle moderne spiere si vedano Shewmon 1995; Hinz 2004; Mazzolini 2006. 31 Guglielmotti 1889, s.v. Spèra, col. 1715. 32 Tra le raffigurazioni di fauna ittica che compongono un mosaico policromo dall’acropoli di Populonia, datato agli inizi del I sec. a. C., compare la singolare immagine di un’imbarcazione che sta per essere travolta da una gigantesca onda frangete. Per quanto stilizzate, le figure del timoniere e dei due marinai esprimono bene, coi loro gesti, il momento concitato e la paura, mentre l’onda sta per investire sulla prua o sul fianco l’imbarcazione, che ha la vela raccolta e il pennone calato in coperta (Shepherd 1999; De Tommaso, Patera 2009). 33 Bascom 1965; in sintesi, Pranzini 2004, pp. 35-48. 34 Pranzini 2004, pp. 45-48, 108-115. 35 Lexiphanes, 15. 36 Moralia, 507 a-b. 37 Etimologie, XIX, 4, 2. 38 Come proposto nell’edizione di Isidoro a cura di Angelo Valastro Canale (Isidoro, Etimologie o origini, vol. 2, UTET, Torino 2006, p. 550, nota 32). 39 Du Cange et alii, Glossarium, alle rispettive voci. 40 Toxaris, 19. 41 Informazioni da testimonianze dirette, inedite. Risulta interessante, a tale proposito, la libera traduzione inglese del passo di Luciano che incontriamo in Tooke 1920, p. 14: «they are compelled to take in all their sails, and (according to the custom of our mariners) to let a number of large coiled ropes into the sea, in order somewhat to break the force of the waves, and to keep the vessel in a sort of equipoise» (sono costretti a ridurre tutte le vele e, secondo l’uso dei nostri marinai, a filare in mare delle grosse cime avvolte in spirali, per ridurre in qualche misura l’energia delle onde e mantenere la nave in una sorta di equilibrio). La manovra viene qui spiegata richiamando l’esperienza dei “nostri” marinai, dunque con un riferimento all’uso tradizionale – siamo agli inizi del XX secolo – di calare da poppa delle matasse di cime, per rompere la forza dei frangenti e nel contempo per frenare l’imbarcazione. 42 XIX, 53. 43 Così in un ex-voto del Santuario della Madonna del Monte di Cesena, della prima metà del XVI secolo, in cui è ricordato espressamente che per resistere a un fortunale in alto mare l’equipaggio filò da poppa la spiera: …alora metesema la spera p… popa ... (Per Grazia Ricevuta 2003, p. 74, fig. 35). 44 De Nicolò 2006, pp. 134-140, 163-279. Le prove di fortuna sono le dichiarazioni rilasciate dal capitano di un mercantile a seguito di un incidente o di un naufragio, per attestare, attraverso la descrizione dell’accaduto, che l’evento è stato determinato da cause di forza maggiore. 45 Ricca Rosellini 1979, p. 251; Patrignani 1988, pp. 114-115; Divari 2006, pp. 128-129. 46 Kapitän 1984 pp. 33-36; Frost 1989; Ead. 1997; Wachsmann 2009, pp. 255-293. 47 Si veda per esempio il relitto di Dor D, laguna di Tantura, Israele, del VI sec. d.C. (Kingsley 2002, pp. 7-10). 48 A questo riguardo ricordiamo che i litorali a spiaggia, pur non presentando le caratteristiche geomorfologiche che per gli antichi favorivano la portualità di una costa (Felici 2016, p. 109), potevano comunque fornire un pur minimo riparo alle piccole imbarcazioni, come accadeva a livello tradizionale, fino alla metà del XX secolo, per le barche da pesca lungo i litorali dell’Adriatico tra Marche, Romagna e Veneto, dove per lunghi tratti si formavano (e si formano tuttora nei settori non interessati dalla presenza delle scogliere artificiali) una o due barre sabbiose sommerse, parallele al litorale, a distanze comprese mediamente tra i 100 e i 300 m circa da riva. Il rapido innalzamento del fondo marino in corrispondenza dalla barra litoranea era infatti sufficiente a smorzare i frangenti, dissipando sensibilmente l’energia del moto ondoso, così da formare, nell’area retrostante, compresa tra la barra e la spiaggia, una fascia di mare più profonda e relativamente tranquilla, detta fossa, dove potersi ancorare con la prua verso mare, una 29

Affrontare la tempesta

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volta oltrepassato il pericolosissimo tratto dei frangenti (Medas, Brizzi 2015, pp. 145-146). Appare quindi verosimile il fatto che anche nell’antichità si praticasse l’ancoraggio in basso fondale a ridosso della spiaggia, soprattutto in presenza di barre sommerse, quello che nella tradizione recente era definito ancoraggio “in fossa” (Medas 2008c, pp. 152-153). Si trattava di un sistema certamente più agevole rispetto alla pratica di tirare in secco l’imbarcazione sulla spiaggia, che era normale per le piccole barche, decisamente più raro, se non eccezionale, le per le imbarcazioni di medio e grande tonnellaggio (Votruba 2017). 49 Storia Naturale, II, 234. 50 Vita di Apollonio, III, 57. 51 Questioni Naturali, 12 (Moralia 915 A). 52 Versione italiana dell’autore (anche per i tre passi precedenti, di Plinio, Filostrato e Plutarco). 53 Vangelo secondo Matteo, 8, 23-27; Vangelo secondo Marco, 4, 35-41; Vangelo secondo Luca, 8, 2225. 54 Fulford 1968; Rougé 1968; Gricourt 1969; Ijsewijn 1969; Beresford 2014; Medas 2018b. 55 Ijsewijn 1969. 56 Dyer 1886; Underwood, Bartlett 1887. 57 Imperato 1894, pp. 315-326; Id. 1920, pp. 492-510; Black Sea Pilot, pp. 13-14; Chapman 1975, pp. 166-167; Danton 1996, pp. 179-180. 58 US Patent Office 1938. 59 Townsend 1887. 60 Cox 2015. 61 House 1997, pp. 184-185. 62 Franklin et alii 1774; Tanford 2004. 63 La relazione del capitano Balley è riportata in Imperato 1920, p. 507.

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Capitolo 7

PERIPLI, PORTOLANI E CARTOGRAFIA

7.1. Distinguendo tra peripli e portolani L’utilizzo degli strumenti tecnologici nella condotta di un viaggio, sia esso per mare o per terra, può condurre a situazioni aberranti. Alle volte, infatti, ci sia adagia sulla tecnologia come su una poltrona, perché ci offre la soluzione più comoda, dimenticando che gli strumenti possono andare in avaria o che noi stessi possiamo commettere degli errori nell’utilizzarli. Insomma, si finisce per perdere di vista il contesto in cui ci muoviamo. Herman Melville, testimone diretto delle navigazioni oceaniche nella prima metà dell’Ottocento (navigò dal 1841 al 1844), descrive nel suo Moby Dick1 un curioso episodio verificatosi a bordo della baleniera Pequod. Essendo diventate inservibili le bussole di bordo, a causa di un fulmine che si era abbattuto sulla nave, il capitano Achab capì che il timoniere stava sbagliando rotta perché si ostinava a seguire la bussola che aveva di fronte, continuando a confidare in quello strumento e senza far mente locale sulla situazione contingente. Così, ancor prima di controllare la chiesuola, gli domandò quale direzione stesse tenendo: «‘Est/sud-est, signore’, disse il timoniere, spaventato. ‘Tu menti!’ replicò Achab, colpendolo col pugno chiuso. ‘Est a quest’ora del mattino, col sole a poppa?’». Qualche anno fa, invece, mi è capitato di leggere su un giornale una notizia davvero singolare, al punto da farmi dubitare che potesse essere vera. Riguardava una famiglia di vacanzieri del Nord Europa in viaggio per Capri con la propria automobile, che invece di raggiungere l’imbarco per l’isola campana finì per ritrovarsi nella città emiliana di Carpi, per un banale errore di inserimento del nome nel navigatore satellitare. Se la cosa è davvero accaduta, allora ci viene da pensare che i malcapitati vacanzieri, anziché confidare solo nello strumento come il timoniere del Pequod, avrebbero fatto bene a porre maggiore attenzione alla situazione contingente, dunque al progredire del viaggio, a riconoscere i luoghi e le distanze, insomma ad avere una partecipazione attiva. Come avveniva, e avviene, con l’uso dei portolani. I portolani sono testi tecnici destinati all’uso pratico dei naviganti e, per questo, riportano minuziosamente tutti i dati necessari per affrontare la navigazione nei settori di mare a cui si riferiscono, in relazione alle coste e agli attraversamenti. Sono documenti ufficiali, di stile scarno ed essenziale, sempre chiarissimo alla lettura, corredati di disegni esplicativi della morfologia della costa e dei punti cospicui, ordinati in modo sistematico, costantemente aggiornati. Certo, la struttura di un portolano attuale si presenta molto più complessa Peripli, portolani e cartografia

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e articolata rispetto a quella di un portolano medievale o antico, corrispondendo evidentemente all’evoluzione dei sistemi di navigazione e di assistenza alla navigazione in uso oggi. Nonostante ciò, pur essendo cambiate le condizioni e le esigenze, il principio fondamentale su cui si basa questo tipo di documenti è rimasto sempre il medesimo: guidare il navigante con informazioni di tipo pratico, chiare, precise e comprovate. I suoi caratteri essenziali sono sinteticamente descritti dal nostro Guglielmotti: «il portolano procede principalmente per discorso a parole, scrivendo l’uno dopo l’altro in ordine i porti, le rade, i sorgitori, i fondali, le acquate, le direzioni, le distanze, gli aspetti, e le altre qualità di ciascun luogo. Ai buoni Portolani si uniscono anche le carte marine e le idrografiche …»2. Un portolano attuale rappresenta il necessario complemento delle carte nautiche, contenendo tutte quelle notizie utili al navigante che non è possibile riportare su di esse. Si compone di una parte chiamata Generalità, normalmente distinta in uno o due volumi separati, in cui sono descritte, appunto, le generalità di tipo geo-politico, quelle oceanografiche e climatologiche (pressione atmosferica, venti, stato del mare, temperatura, umidità, nuvolosità, precipitazioni, nebbia e visibilità, perturbazioni), oltre a quelle relative alle norme e ai regolamenti, alle telecomunicazioni e ai segnalamenti. Questa parte si pone quindi a premessa e completamento degli altri volumi che compongono il Portolano del Mediterraneo propriamente detto, ordinati per settori marittimi e contenenti una raccolta di istruzioni nautiche in cui sono annotate minuziosamente le condizioni meteo-marine e ambientali sia regionali che locali, relativamente ai diversi periodi dell’anno: i venti regnati e quelli dominanti, i venti di traversia per l’ingresso e l’uscita dai porti, i venti favorevoli per le stesse manovre, il regime delle correnti di marea, gli avvisi di pericolo relativi alla presenza di bassifondi, secche, scogli affioranti e altri ostacoli (come possono essere i relitti giacenti in basso fondale), la situazione batimetrica, la natura e la tipologia del fondo marino in funzione dell’ancoraggio (fondo buon tenitore o cattivo tenitore, pericoli d’incaglio), i punti cospicui funzionali al riconoscimento della costa e all’atterraggio, i punti di acquata (rifornimento d’acqua dolce). Sono inoltre indicate le distanze e gli orientamenti funzionali alla navigazione e all’atterraggio, le caratteristiche e le qualità dei porti, le norme di comportamento per l’ingresso e l’uscita dal porto, per l’ancoraggio in rada o per l’ormeggio in banchina, per il transito nei canali, i segnalamenti per guidare la navigazione, l’ancoraggio e l’approdo, i servizi di porto, il governo, le autorità e le leggi locali, oltre a notizie generali di carattere geografico. Naturalmente, come già ricordato, i portolani antichi e medievali erano molto più poveri di informazioni. In quei testi, infatti, gli elementi comuni e ricorrenti erano sostanzialmente rappresentati dall’indicazione delle distanze (in tempo e poi in unità di misura lineari), dagli avvisi relativi ai principali pericoli (bassifondi, secche, scogli affioranti o semiaffioranti, correnti di marea), dalle caratteristiche peculiari dei porti e dagli avvisi relativi al loro accesso, dai punti cospicui di riferimento e dai punti utili per l’acquata. Le notizie relative alle direzioni e agli orientamenti compaiono nei portolani medievali ma sono rare in quelli antichi, prevalendo in essi un principio di orientamento unidimensionale che si sviluppa da un punto di riferimento fisico verso il successivo. Mancano, infine, le notizie di carattere meteorologico e più in generale climatologico. Nel latino medievale, prima dell’affermarsi del termine portulanum, ovviamente derivato dal sostantivo portus, queste opere venivano chiamate gradientes, parola che trae origine da gradus, nei significati di porto e scalo. In entrambi i casi, dunque, questi titoli identificavano 158

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delle opere che possiamo tradurre, letteralmente, come “libri che riguardano i porti”, cioè dedicati alla successione dei porti lungo la costa e alle loro caratteristiche3. L’attuale termine portolano, impiegato a partire dal XIV secolo dagli Italiani per denominare i libri di istruzioni nautiche, deriva evidentemente da portulanum, che a sua volta rappresenta probabilmente la traduzione dell’antecedente greco liménes o perí liménon (letteralmente “porti” o “(testi) sui porti”), dal sostantivo limén, nel generico significato di porto. L’impostazione generale e una parte delle informazioni contenute nei portolani confluirono nei peripli greco-romani, opere di geografia descrittiva redatte secondo un principio unidimensionale, passando da una località a quella successiva più vicina, di cui il Periplo dello Pseudo Scilace rappresenta una delle testimonianze più note4. Tuttavia, va sottolineato che esiste una differenza sostanziale tra le due tipologie di scritti. I portolani – lo abbiamo visto – sono opere destinate all’uso pratico di un pubblico ristretto, quello dei naviganti, mentre i peripli sono opere letterarie destinate a un pubblico più ampio, tra cui vanno inclusi gli studenti e, ovviamente, anche i geografi e gli storici, dunque un pubblico colto. Per questo sono stati inseriti dalla critica moderna in uno specifico genere letterario, quello periplografico. Nei peripli mancano tutte quelle informazioni di carattere nautico che, invece, dovevano costituire la spina dorsale dei portolani, mentre compaiono notizie che ben poco sarebbero servite a chi navigava (notizie assenti, invece, nei portolani), come quelle che riguardano determinati fatti storici, aspetti mitologici o più generalmente culturali, nonché quelle relative alle regioni dell’interno. Con ogni probabilità, i peripli hanno trovato nei portolani una delle principali fonti di informazioni, ma i contenuti propriamente nautici vi sono giunti in misura ridotta, affievoliti, e in parte sono scomparsi5. Ciò che interessava ai compilatori dei peripli, infatti, non era la componente nautica ma quella geografica dei portolani. Quanto detto finora implica, evidentemente, di ipotizzare che nel mondo antico siano esistiti documenti riconducibili alla categoria dei portolani, per quanto dovessero presentarsi in una forma diversa da quella che conosciamo per l’epoca medievale e moderna. Nel rispetto della definizione specifica di portolano, per l’Antichità potremmo allora parlare di raccolte di istruzioni nautiche, certamente più povere rispetto ai portolani in quanto a tipologia e quantità di informazioni, ma fondamentalmente rispondenti alle stesse esigenze, proporzionate alle modalità della navigazione antica6. Questo fatto porterebbe a presupporre che la nautica antica abbia conosciuto anche qualche forma di “teorizzazione” scritta, probabilmente limitata a contesti particolari, che doveva affiancarsi a una tradizione basata fondamentalmente sulla trasmissione dell’esperienza pratica (azione-parola), rappresentando quest’ultima il sistema senza dubbio più diffuso, potremmo dire normale. Effettivamente, come vedremo, il panorama della documentazione antica è piuttosto scarno e non consente di avere certezze, ma solo di formulare congetture. In pochi testi periplografici si sono conservate le tracce dei contenuti nautici che dovevano comparire nelle istruzioni nautiche. Le ritroviamo in alcuni passi del Periplo del Mare Interno di Menippo di Pergamo, opera databile intorno al 30 a.C., conservatasi frammentaria nell’epitome tarda di Marciano di Eraclea7, e soprattutto nel già citato Stadiasmo o Periplo del Mare Grande8. Si tratta, nel secondo caso, di un’opera non unitaria, di formazione complessa e stratificata, frutto di rielaborazioni basate su fonti diverse e riconducibili a cronologie diverse, aspetti da cui dipendono non poche incongruenze, oltre che le difficoltà di datazione9. Tuttavia, almeno in una parte dello Stadiasmo si conservano delle caratteristiche Peripli, portolani e cartografia

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che distinguono questo documento rispetto agli altri peripli, presentando uno stile e soprattutto delle informazioni dal carattere prettamente nautico, senza arricchimenti formali e digressioni che non sia strettamente funzionali alla navigazione o alla programmazione di un viaggio, dunque informazioni che sembrano avere un carattere pratico. Per questo, come accade anche per alcuni frammenti del Periplo di Menippo, pensiamo che determinate informazioni e la forma in cui sono presentate possano derivare da istruzioni nautiche perdute. Pur mancando gli orientamenti e le direzioni che definiscono un portolano propriamente detto, si tratta di aspetti che, per lo meno, riconducono a quanto di più vicino a un portolano antico è giunto fino a noi10. Il che lascerebbe presupporre che nel mondo antico sia esistita qualche forma di letteratura tecnica dedicata alla nautica; letteratura che non si conservata e di cui possiamo riconoscere solo pallidi riflessi in quei documenti di argomento geografico e periplografico che, per quanto appaiano a volte ancora vicini a un’originale fonte nautica, hanno perduto il loro intento inziale e probabilmente anche il vocabolario che li caratterizzava. Ma su questo argomento torneremo più avanti. Lo Stadiasmo o Periplo del Mare Grande è un testo greco anonimo che si conserva frammentario all’interno di un solo codice manoscritto della Biblioteca Nazionale di Madrid, una tarda raccolta erudita che si presenta come un compendio di geografia. Se la compilazione del codice su pergamena si colloca nella seconda metà del X secolo, quella del documento, ovvero lo Stadiasmo nella forma in cui ci è giunto, rappresenta un problema molto complesso. La cronologia di assemblaggio finale del testo, infatti, andrà distinta dalla cronologia di compilazione delle diverse sezioni che, a loro volta, sono state composte sulla base di fonti che riconducono a epoche diverse, principalmente comprese tra la tarda età ellenistica e quella augustea, come ben dimostrato da Pascal Arnaud. La versione finale dello Stadiasmo, quindi, rappresenta solo l’ennesima ricompilazione di un testo già stratificato su fonti diverse per qualità dei contenuti e per cronologia11. Contemplando in origine l’intero periplo del Mediterraneo, come lascia intendere il titolo, quanto ci è giunto dello Stadiasmo si suddivide in quattro macro sezioni geografiche: 1. la costa nordafricana da Alessandria a Utica, che corrisponde alla sezione dai contenuti nautici più spiccati (1-127); 2. le coste della Siria e dell’Asia Minore, da Arado fino alla Caria (128-296); 3. il periplo di Cipro (297-317); 4. il periplo di Creta (318-355). A queste, in corrispondenza della parte sulla Caria, si aggiungono i pieleggi, le direttrici d’altura da e verso le isole, in particolare quelli che interessano Rodi e Delos (271-284). Arnaud ha ricondotto queste sezioni a diversi nuclei documentali, tra cui si distinguono principalmente, tanto nei contenuti quanto sul piano formale, un “Periplo A”, che comprende la sezione sulle coste Africane, e un “Periplo B”, che invece comprende la sezione sul Mediterraneo orientale e le coste dell’Asia Minore. La compilazione del “Periplo A” sembra riferibile ad epoca augustea o di poco successiva, pur contemplando materiale più antico, mentre la compilazione del “Periplo B” sarebbe tardo-ellenistica, riconducibile alla seconda metà del II sec. a.C. L’assemblaggio di queste due parti e delle altre che compongono il testo sarebbe invece avvenuta tra la seconda metà del I e il II sec. d.C.12 Alessandria sembra avere un ruolo baricentrico, perché da qui si diparte la descrizione delle coste, procedendo prima verso ovest, lungo le coste africane, e poi verso est, lungo quelle del Mediterraneo Orientale e dell’Asia Minore. Seguendo questi due percorsi, la versione completa doveva quindi svilupparsi fino alle Colonne d’Ercole. Questo fatto lascia 160

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pensare che lo Stadiasmo venne composto ad Alessandria e che la matrice originale delle sue fonti fosse in relazione con l’attività dei naviganti che operavano nei grandi porti di quella città: l’Eunosto, rivolto verso occidente, e il Porto Grande, rivolto verso oriente13. Per dare un’idea di come si presenta lo Stadiasmo nei suoi caratteri generali, proponiamo alcuni brani in traduzione, relativi alle coste nordafricane, ovvero a quello che Arnaud ha identificato come “Periplo A”. Abbiamo già ricordato che si tratta della sezione in cui il testo conserva caratteri nautici più spiccati, una di quelle che risulta in rapporto più stretto con l’esperienza pratica dei naviganti, su cui si basava l’elaborazione delle istruzioni nautiche. Si incontrano, infatti, indicazioni specifiche sull’aspetto che i luoghi assumono in rapporto al punto di vista che poteva avere un marinaio, cioè da una nave, luoghi spesso portatori di nomi parlanti, attribuiti forse dagli stessi marinai per agevolarne il riconoscimento; ne sono indicate le caratteristiche fisiche che li distinguono, anche in relazione al colore. Vengono descritti gli approdi, la loro accessibilità e il loro livello di protezione dai venti, anche con un grossolano riferimento alle batimetrie, ovvero indicando quali tipi di imbarcazioni possono accedervi, con evidente riferimento al loro pescaggio14. Frequenti sono le notizie sui luoghi dove poter fare l’acquata, con precisazioni sulla loro posizione e tipologia, ma anche sulla qualità dell’acqua che vi si può attingere. Non mancano neppure gli avvisi di pericolo e i consigli su come comportarsi, significativamente riportati nella forma verbale dell’imperativo, come se il testo si rivolgesse direttamente al lettore, aspetto che nuovamente richiama la funzionalità nautica delle fonti su cui fu strutturata almeno la prima sezione dello Stadiasmo. In definitiva, se l’impostazione generale del documento appare del tutto simile a quella dei peripli, si distingue invece per la qualità dei contenuti, cioè per la tipologia delle informazioni e per il modo in cui vengono riferite, evidenziando, rispetto ai peripli, un ben più stretto rapporto con la realtà concreta della navigazione. Nel “periplo A” dello Stadiasmo possiamo infatti riconoscere la matrice portolanica delle fonti con cui è stato realizzato il documento, fonti che dovevano contenere informazioni effettivamente utili per i marinai. Nella nostra versione italiana abbiamo cercato di conservare un tenore quanto più possibile aderente a quello del testo greco, che è sempre scarno ed essenziale, aggiungendo tra parentesi alcune precisazioni per migliorarne la comprensione15. Coste ad ovest di Alessandria: 12. Da Pnigeo a Foinicunta stadi 140; (nel tragitto) vi sono le isole Didyme (Gemelle); ridossato da queste c’è un ancoraggio (una rada protetta); fondale adeguato per navi da carico (la batimetria consente l’ormeggio di navi con un certo pescaggio); nel dirupo si trova acqua di cisterna (acqua dolce raccolta in cisterne, luogo in cui poter fare acquata). 14. Dagli Ermei alla punta Leuce (punta Bianca, nome parlante, per una migliore identificazione della punta) stadi 20; lì vicino c’è un’isoletta bassa (poco elevata sull’acqua, caratteristica fisica che ne agevola il riconoscimento immediato), distante 2 stadi dalla terraferma; c’è un ancoraggio per le navi da carico, protetto dai venti orientali; all’interno della terra sotto il promontorio c’è un grande porto (bacino d’ormeggio) adatto per ogni tipo di nave; là c’è un tempio di Apollo, sede di un celebre oracolo; presso il tempio si trova l’acqua (punto per fare acquata).

Coste della Cirenaica e della Grande Sirte. Peripli, portolani e cartografia

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57. Da Teuchira a Bernice stadi 350. Il corso della navigazione piega (cambia, fa una curva); dopo aver navigato per 90 stadi vedrai un promontorio che si protende verso il tramonto (verso occidente); di fronte al largo si trovano bassifondi; stai attento quando costeggi; vedrai un’isoletta bassa e scura; il promontorio è chiamato Brachea (Bassofondo, nome parlante); verso sinistra dispone di un approdo per piccole barche (bacino di ormeggio o ancoraggio). 66. Da Heracleio a Drepano (letteralmente “falce”, con riferimento alla topografia) stadi 7; c’è un alto promontorio di Eracle e ha una duna di sabbia bianca; dispone di acqua. 67. Da Drepano (letteralmente “dalla falce”) a Serapeio stadi 100; lungo il litorale vedrai una grandissima duna di sabbia bianca, da cui, se scavi, otterrai acqua dolce. 70. Da Serapeio a Caino stadi 150; c’è un presidio abbandonato; c’è acqua, ma non c’è un approdo protetto.

Coste della Piccola Sirte, Cartagine e Utica. 123. Da Maxyla a Galabrante 50 stadi; c’è un bacino protetto per navi di portata lorda non superiore a 1.000 (o 10.000) modii. 124. Da Galabrante a Calcedon stadi 120; la città è grandissima e ha un porto, nella città c’è una torre (verosimilmente un faro16); ormeggia sulla destra ai piedi del terrapieno (ampia banchina e molo). In totale da Meninge, l’isola dei Lotofagi, a Calcedon (ci sono) 550 stadi. 125. Da Calcedon a Castra Cornelii ci sono 303 stadi; lì c’è un porto adatto a svernare, dove le grandi navi trascorrono l’invernata (dunque è un approdo protetto e sicuro). 126. Da Castra Cornelii a Ustica ci sono 24 stadi; è una città; non ha porto, ma dispone di una rada (ancoraggio poco protetto, esposto al vento e al mare); fai attenzione.

Tra i primi aspetti distintivi di questo documento vi è la conversione delle distanze in stadi, cioè in un’unità di misura lineare, attraverso un procedimento non facile, da cui derivano non pochi errori. Come è noto, infatti, nei peripli le distanze in mare erano definite fondamentalmente tramite l’unità di tempo, cioè indicando i giorni, o loro frazioni, che, in base all’esperienza dei naviganti, venivano stimati come mediamente necessari per passare da un luogo a un altro. Nello sforzo di trasformare la durata di uno spostamento in una distanza si riconosce l’intervento del geografo, che cerca di dare un ordine oggettivo, potremmo dire “scientifico”, allo spazio percepito in modo sensibile, cioè soggettivo, dai marinai. D’altro canto, in assenza di una cartografia nautica, argomento su cui torneremo più avanti, i naviganti antichi non avrebbero tratto grande vantaggio da questa operazione di conversione17, che, invece, conferma la natura composita e stratificata del documento. Altro testo importante è l’anonimo Periplo del Mare Eritreo, opera databile tra la seconda metà del I e la prima metà del II sec. d.C., nella quale possiamo riconoscere un lavoro compilativo di carattere geografico, in cui compaiono però interessanti informazioni di ordine nautico e mercantile18. Tra le prime vi sono le distanze, l’identificazione dei punti cospicui, la segnalazione dei porti, degli approdi e degli ancoraggi, delle loro caratteristiche (se sono più o meno sicuri), dei tratti di mare pericolosi, ma anche le caratteristiche del fondo marino, la descrizione delle forti maree attive lungo le coste indiane e delle conseguenze che queste determinano sulla navigazione, quella dei segni che preannunciano l’avvicinamento alla terraferma e, addirittura, una precisa indicazione di meteorologia locale su come pre162

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vedere l’arrivo di una tempesta («un indizio locale dell’arrivo di una tempesta si ha quando le profondità marine diventano torbide e cambia il colore dell’acqua; quando ciò accade, tutti corrono a rifugiarsi presso il grande promontorio chiamato Tabai, luogo che offre riparo» PME, 12). Costanti sono poi le informazioni relative ai prodotti, alle attività e ai traffici commerciali delle singole località e delle regioni descritte. A differenza dello Stadiasmo, siamo qui di fronte a un’opera di carattere unitario, in cui le istruzioni nautiche non sono riportate in forma scarna ed essenziale, ma sono inserite all’interno di un testo discorsivo, in cui gli argomenti di carattere geografico, commerciale e nautico si compenetrano costantemente. Si tratta di un testo che, pur mantenendo i caratteri di una guida pratica, una specie di manuale nautico-mercantile, si presenta certamente elaborato sul piano letterario, con una finalità di tipo prevalentemente geografico. Nel mondo antico, così come in quello tradizionale, gli aspiranti piloti imparavano il mestiere grazie all’insegnamento degli anziani e all’esperienza diretta a bordo delle navi, dunque, fondamentalmente, attraverso la trasmissione orale delle conoscenze e la pratica della navigazione. Non sappiamo quanto fosse diffuso l’impiego delle raccolte di istruzioni nautiche, tanto nelle fasi di istruzione quanto nell’uso corrente. Per logica possiamo pensare che venissero usate principalmente in quei contesti per cui era necessaria una preparazione particolare, come poteva essere la navigazione delle unità militari o quella delle onerarie che svolgevano viaggi di lungo corso. Di conseguenza, è probabile che fossero innanzitutto gli archivi della marina militare e quelli delle grandi compagnie commerciali a disporre di documenti di questo genere, archivi che ovviamente si trovavano presso i porti. Le raccolte di istruzioni nautiche potevano essere usate sia nelle fasi di programmazione sia durante lo svolgimento del viaggio. Del resto, crediamo che la scarsa attenzione per le direzioni all’interno dello Stadiasmo non sia un elemento sufficiente per negare recisamente l’esistenza di istruzioni nautiche o addirittura di portolani nell’antichità, considerando che questi potevano rispondere a principi parzialmente diversi da quelli che definirono i portolani medievali, in cui l’attenzione per le direzioni è probabilmente influenzata anche della diffusione della bussola magnetica e delle carte nautiche, quindi dai cambiamenti che si verificarono nel modo di navigare e di seguire una rotta, soprattutto nella navigazione d’altura. Pensandole come strumenti funzionali a guidare principalmente la navigazione lungo costa e ad affrontare le traversante d’altura per mezzo di una stima dinamica del percorso, che è cosa diversa dalla navigazione stimata tardo-medievale e moderna, non ci sembra improbabile, quindi, ritenere che le fonti da cui derivano le parti più tecniche dello Stadiasmo possono ricondursi a raccolte di istruzioni nautiche o a portolani. Documenti che avrebbero svolto anche un ruolo importante in fatto di sicurezza, consentendo, per esempio, di programmare un viaggio e di sapere preventivamente se un determinato litorale disponeva di approdi e rifugi utili in caso di maltempo, di punti in cui poter fare acquata, o se era particolarmente esposto a rischi di vario genere, fornendo informazioni utili ai capitani, ai marinai e ai commercianti che si accingevano a intraprendere la navigazione in un determinato settore di mare. Ci chiederemmo, a questo punto, se siano esistiti anche altri documenti scritti, come potevano essere dei manuali di navigazione. Effettivamente, qualche indizio lo abbiamo19. In un periodo a cavallo tra il I e il II sec. d.C., per esempio, Plutarco20 ricorda che «i testi sulla navigazione non possono creare buoni comandanti delle navi, se non sono stati più volte diretti spettatori da poppa delle lotte contro le onde, il vento e le tempeste notturne»21. Da un Peripli, portolani e cartografia

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lato, ritroviamo qui il consueto richiamo all’esperienza pratica come fondamento dell’arte del pilota, dall’altro incontriamo un esplicito riferimento ai grámmata kybernetiká, letteralmente “trattati da pilota”, cioè opere scritte che riguardano l’arte del pilota (kybernétes)22. Potrebbe fare un riferimento implicito a opere di questo genere anche Vegezio23, quando afferma che l’arte dei piloti si basa sull’esperienza pratica e che, di solito, tale esperienza non è consolidata da una più alta dottrina (non altior doctrina firmavit). Difficile dire se col termine doctrina intendesse in senso generale la cultura, la scienza, oppure una forma di insegnamento dell’arte nautica, una “scuola”. In entrambi i casi il richiamo all’esistenza di testi specializzati sarebbe plausibile. Nello stesso passo, inoltre, riferisce che nei Libri navales di Varrone era contenuto un dettagliato elenco dei segni premonitori del tempo ricavabili dal comportamento degli animali, elenco da cui sarebbero derivati anche i versi delle Georgiche di Virgilio dedicati a questo argomento24, come abbiamo già ricordato nel capitolo sulla meteorologia pratica. Si aggiunga che Varrone fu anche autore di una perduta Ephemeris navalis, opera dedicata a Pompeo per istruirlo sulle condizioni meteo-marine e su quelle ambientali alla vigilia del suo viaggio in Spagna nel 77 a.C. Considerando l’autore e il contesto, appare difficile pensare che i Libri navales e l’Ephemeris navalis fossero dei testi di carattere tecnico, cioè dei trattati nautici. Si trattava probabilmente di testi eruditi, di carattere storico e geografico, lavori in cui l’aspetto letterario prevaleva su quello propriamente nautico25. In un contesto per molti versi simile, del resto, si inquadrano le opere didascaliche e i poemi di argomento nautico diffusi tra il Rinascimento e l’Età moderna, come nel caso del già ricordato poema didascalico La Nautica di Bernardino Baldi (1590). La perdita pressoché totale di una letteratura specializzata dovrà imputarsi a due fattori principali: l’argomento altamente tecnico e specializzato, che ne avrebbe limitato la diffusione, e il fatto che, a livello corrente, diciamo popolare, la cultura nautica e i suoi strumenti didattici sono sempre rimasti appannaggio di una tradizione orale, legata all’esperienza pratica. Il naufragio di grande parte della letteratura antica e i criteri di trasmissione delle opere adottati dai copisti tra l’Antichità e il Medioevo ebbero certamente un peso fondamentale26. Prima dell’invenzione della stampa, la copiatura manoscritta di un documento costituiva un impegno importante, che determinava la scelta selettiva delle opere da riprodurre; e fu negli ambienti colti bizantini e medievali, clericali in primo luogo, che si decise cosa dovesse sopravvivere della cultura antica. È probabile, allora, che gli scritti tecnici destinati all’uso pratico abbiano perduto il loro interesse originario, diversamente da quanto accadde per le opere di carattere letterario (non solo poetico, ma anche filosofico, storico, geografico e scientifico). Almeno in relazione alle istruzioni nautiche, avrebbero perso anche il loro valore pratico, perché continuamente sostituite da nuove versioni aggiornate. Il testo vecchio veniva abbandonato, perdendosi, per lasciar spazio all’elaborazione di prodotti aggiornati; così la catena di trasmissione continuava negli ambienti specializzati cancellando lentamente le tappe precedenti. D’altro canto, dovremo però considerare che testi tecnici come i portolani possedevano anche un valore dal punto di vista geografico, direttamente legato alla visione unitaria che offrivano di un settore di mare o di un intero mare. Valore che in qualche caso dovette garantire la conservazione di quei testi, dunque la loro sopravvivenza, fino a che, salvo rare eccezioni, la redazione di nuove opere geografiche non ne sancì l’inesorabile scomparsa, dissolvendone i contenuti tra le righe di testi che non erano più destinati ai naviganti. 164

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7.2. La concezione dello spazio geografico e del percorso marino La nostra concezione dello spazio geografico è di tipo cartografico, frutto di una lunga e complessa evoluzione intellettuale e scientifica che giunse a definizione solo tra il XVI e il XVIII secolo. Oggi possiamo “leggere” il nostro spazio geografico in forma tridimensionale e in base a dati oggettivi, identificando le terre e i mari come superfici in senso meridiano e parallelo, oltre che in profondità e in altezza. Si tratta per noi di un fatto acquisito, che, grazie alla recente tecnologia satellitare, ha raggiunto un livello di precisione straordinaria, sia in senso generale, sul piano geografico, che particolare, sul piano topografico. Evidentemente, nell’antichità la situazione era molto diversa. Per il viaggiatore antico la concezione dello spazio non prendeva origine da un modello di tipo cartografico, ma dipendeva fondamentalmente dai suoi spostamenti, dunque dall’esperienza pratica dei viaggi condotti per terra e per mare, originandosi da un punto di partenza e poi sviluppandosi attraverso il percorso, dunque secondo un principio odologico (dal greco odós, via, percorso, cammino). Per quanto lo spazio venisse percepito nella sua globalità, in forma multidimensionale, il percorso era elaborato in modo unidimensionale, seguendo la progressione del viaggio, ovvero in una prospettiva soggettiva che, non senza errori e contraddizioni, si articolava in modo “lineare” in base alla propria esperienza o a quella di altri uomini da cui erano ricavate le informazioni27. D’altro canto, come vedremo, questo modo di concepire lo spazio nel contesto della navigazione si relazionava direttamente col concetto di “durata” del viaggio, cioè col tempo mediamente necessario a percorrere un determinato tragitto, tempo che verrà poi tradotto in distanza. Il tutto all’interno di un sistema cognitivo governato dall’esperienza sul campo e dal senso pratico, quello dei naviganti, che ebbe un ruolo importante nel definire la comune concezione di geografia nel mondo antico28. Secondo il principio odologico il percorso più breve tra due punti non corrisponde necessariamente al segmento di una linea retta o, comunque, alla via più diretta, ma al percorso che risulta complessivamente più economico, dunque quello più sicuro e più rapido in rapporto alle condizioni ambientali e al mezzo di trasporto impiegato, a cui possono poi aggiungersi altre motivazioni di ordine pratico. Inoltre, per le stesse ragioni, il viaggio di andata e quello di ritorno tra due punti non si svolgono necessariamente lungo la stessa rotta e, di conseguenza, non prevedono che la durata, cioè il tempo-distanza, sia la stessa nei due sensi. Basterà pensare a una rotta di lungo corso che in andata, da A verso B, si svolge in presenza di venti favorevoli, i quali diventano però contrari affrontando il ritorno da B verso A. Nell’andata i marinai potranno quindi condurre la propria nave in via diretta, seguendo il flusso dei venti regnanti, mentre nel ritorno saranno obbligati a manovrare per stringere il vento, oppure, se questo non risultasse sufficiente, a compiere una lunga deviazione per cercare venti più favorevoli, perfino a rimanere in attesa di un cambiamento delle condizioni meteomarine. Un esempio calzante di questa situazione è rappresentato dai viaggi di San Paolo ricordati negli Atti degli Apostoli29: quello da Mileto a Cesarea, che avvenne col favore dei venti da nord e da nordovest, consentendo un tragitto d’altura, una traversata diretta dall’Egeo meridionale fino alla Fenicia, e quello in direzione opposta da Cesarea a Roma, che si svolse risalendo lungo le coste levantine e quelle dell’Asia Minore, per evitare i venti contrari che si sarebbero incontrati con una traversata diretta in alto mare. Peripli, portolani e cartografia

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La concezione odologica dello spazio e la sua elaborazione in forma unidimensionale sono state evidentemente tra le cause che determinarono importanti distorsioni a livello geografico e cartografico: «molti errori della geografia e della cartografia antica», scrive Janni, «sono nati secondo ogni probabilità da una trasposizione sul piano cartografico di dati e informazioni validi soltanto sul piano odologico»30. La descrizione verbale dei peripli e dei portolani, invece, risponde perfettamente ai principi di questa geografia unidimensionale, trasferendo in una sequenza lineare, organizzata in modo ordinato, secondo una direzione di marcia, quelli che sono in realtà degli spazi bidimensionali. Anche l’attenzione che nello Stadiasmo viene dedicata a determinate isole e località, come punti di riferimento per la navigazione di lungo corso e per quella d’altura (nei pieleggi), è espressione della loro centralità all’interno di un sistema che riflette i procedimenti intellettuali sopra descritti, legati alla praticabilità e all’economia complessiva di determinati tragitti.

7.3. Portolani e cartografia Descrivere significa rappresentare qualcosa per mezzo delle parole, non solo in rapporto alla forma e all’aspetto esteriore del soggetto, ma anche alle sue qualità e al suo carattere, ragione per cui si possono descrivere anche dei soggetti astratti. Sul piano artistico e filosofico la descrizione ha un valore insostituibile, perché sollecita la nostra fantasia e la nostra capacità di ragionamento, permettendoci di costruire nella nostra mente un’immagine concreta o astratta, che dipende sia da ciò che leggiamo sia dal bagaglio delle nostre esperienze e conoscenze personali, dunque da un dato oggettivo (il testo) e da uno soggettivo (la nostra comprensione/interpretazione). La questione cambia se ci poniamo di fronte a una descrizione di tipo tecnico o pratico, perché, in questo caso, il dato oggettivo deve necessariamente prevalere. L’immagine, sia essa un disegno o una fotografia, può assumere allora un significato molto importante, complementare o prevalente rispetto a quello del testo, diventando strumento fondamentale della descrizione. Questo principio riguarda ovviamente anche il rapporto tra la geografia descrittiva e la cartografia, con modalità e risultati diversi nel corso del tempo. Se dall’epoca medievale l’uso del portolano si affiancava a quello delle carte nautiche, per i marinai dell’antichità, come abbiamo visto, la “visualizzazione” dello spazio marino passava principalmente attraverso la parola, cioè attraverso quel principio unidimensionale, odologico, con cui si percepiva il percorso, dunque lo spazio stesso. La cartografia, per lo meno quella intesa a rappresentare l’ecumene, era destinata prevalentemente a scopi scientifici e speculativi, mentre risultano rari i riferimenti a un impiego di tipo pratico, come strumento operativo in campo militare, politico o amministrativo31. E nulla sappiamo riguardo all’esistenza di carte per navigare, tantomeno di carte che potessero definirsi nautiche, il che significa sufficientemente precise e dettagliate per essere di concreta utilità ai naviganti. Lo sviluppo degli studi geografici e della cartografia nel mondo antico condusse a risultati di altissimo valore, che culminarono nel II sec. d.C. nell’opera di Claudio Tolomeo, la cui riscoperta in epoca tardo-medievale darà impulso alla nascita della cartografia moderna32 (fig. 62). Ma già tra il VI e il II sec. a.C. l’opera di grandi personalità come Anassimandro, Ecateo, Dicearco, Eratostene e Ipparco, consentì di giungere a diverse rappresentazioni cartografiche del mondo conosciuto; in particolare, sviluppando un’idea di Dicearco, Erato166

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Fig. 62. La mappa di Tolomeo in un’edizione del XV secolo.

stene (276-195 a.C. circa) adottò una griglia che consentiva di posizionare i luoghi sulla Terra, dunque un sistema di riferimenti simile a quello degli attuali meridiani e paralleli33 (fig. 63). Gli antichi Greci esprimevano così la volontà di ordinare a livello geografico luoghi e località, percepiti come elementi preconcetti della costruzione geografica, ovvero come punti di partenza e di arrivo di un sistema fortemente condizionato dalla pratica della navigazione, dunque dall’immagine che si aveva del mare34. Questo concetto ha contribuito a modellare e a distorcere l’immagine cartografica35. Va inoltre considerato che il calcolo della latitudine raggiunse una precisione notevole, come dimostrano le osservazioni condotte da Pitea di Marsiglia e da Eratostene di Cirene tra il IV e il III sec. a.C., mentre quello della longitudine continuò ad avere grandi margini di errore36, progressivamente ridotti grazie agli sviluppi della cartografia nautica nel Medioevo ma definitivamente colmati solo nel XVIII secolo, quando vennero realizzati i primi cronometri nautici di precisione, fondamentali per calcolare, appunto, la longitudine37. In ogni caso, come accennato, nonostante i grandi progressi che geografia e cartografia conobbero tra l’età ellenistica e la prima età imperiale, gli antichi non giunsero mai a realizzare una cartografia nautica, cioè delle carte concepite per orientarsi in mare e per guidare una navigazione stimata. Ed è significativo il fatto che nelle fonti non si trovino mai riferimenti espliciti all’uso di carte per la navigazione, anche nei racconti in cui sono magPeripli, portolani e cartografia

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Fig. 63. La mappa di Eratostene, secondo una ricostruzione del XIX secolo.

giormente approfonditi gli aspetti di ordine nautico, dove sarebbero state certamente menzionate qualora fossero effettivamente esistite. Le poche fonti che contengono qualche accenno sono di difficile interpretazione; comunque, non riconducono a una cartografia di uso pratico e, in modo ancora più netto, non hanno alcuna relazione con la cartografia nautica38. I princìpi su cui si basano la realizzazione e l’impiego di una carta nautica sono in rapporto diretto con quelli che guidano la navigazione stimata. Abbiamo visto che la carta nautica permette di seguire il corso della navigazione trasferendo in forma grafica, su basi matematiche e geometriche, i dati relativi ai tre parametri fondamentali che guidano la stima, cioè la direzione di rotta, la velocità e il tempo, calcolati, rispettivamente, con la bussola, con il solcometro e con il cronometro. Nel corso del viaggio, i dati forniti da questi strumenti permettono di tracciare il punto nave stimato. I princìpi che guidavano la navigazione antica, per quanto perfettamente adeguati alle necessità, erano invece molto più semplici e non rispondevano al metodo della stima che si applica, appunto, con le carte nautiche. I naviganti antichi si muovevano in mare seguendo fondamentalmente quel principio unidimensionale che è alla base dei peripli e dei portolani, derivato dalla concezione odologica dello spazio marino, cioè seguendo in modo lineare la successione dei luoghi così come li avrebbe incontrati un navigante che procedeva lungo costa in una determinata direzione. Anche nelle traversate d’alto mare, dove mancava il riferimento visivo della terraferma, il principio di base restava sostanzialmente lo stesso, questa volta dettato dalla direzione dei venti regnanti al largo e dai riferimenti astronomici, che definivano le rotte principali, dunque attraverso una stima dinamica che si basava sulla direzione da tenere, sulle eventuali correzioni necessarie e sul tempo mediamente necessario per compiere al traversata39. La 168

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comprensione intellettuale di questo spazio derivava dalla pratica e poteva essere realizzata senza bisogno di cognizioni teoriche; soprattutto, si trattava di una concezione che era cosa ben diversa dall’astrazione necessaria per realizzare e utilizzare una carta nautica. Fu invece la necessità di risalire il vento bordeggiando in alto mare, intesa non più come una soluzione eccezionale ma come una pratica regolare, a rappresentare uno dei fattori principali che in epoca medievale rese necessaria una nuova concezione dello spazio marino, da cui derivarono la cartografia nautica e la navigazione stimata. Dal tardo Medioevo, tra la fine del XIV e il XV secolo, è conosciuto l’impiego della cosiddetta “regola del marteloio”, un sistema pratico che, per mezzo di un grafico corredato di tavole numeriche, consentiva di annotare le deviazioni di rotta dovute al vento e alla corrente, dunque di seguire il bordeggio sempre in rapporto con la rotta prescelta e di manovrare conseguentemente, scostandosi e ritornando sulla rotta medesima con un percorso a zig-zag40. Per navigare bordeggiando al di fuori del raggio di visibilità della terraferma è infatti necessario crearsi dei punti di riferimento virtuali, o punti stimati, che permettano di posizionarsi in mare aperto all’interno di uno spazio bidimensionale, necessariamente schematizzato e coerente con i parametri utilizzati per guidare la navigazione. A questo fine, come abbiamo visto, si devono compiere alcune operazioni fondamentali: verificare costantemente la direzione di rotta, cosa che gli antichi potevano fare anche senza bussola, benché in modo più approssimativo; registrare i cambiamenti di rotta corrispondenti a ciascuna bordata (cioè ogni tratto di navigazione di bolina di cui si compone il bordeggio, ora verso destra ora verso sinistra); controllare e registrare costantemente la velocità in rapporto con l’unità di tempo, operazioni su cui non possediamo alcuna informazione per il mondo antico. L’impiego della “regola del marteloio”, dunque, ci riporta a una concezione dello spazio marino di tipo bidimensionale, diversa da quella degli antichi. Sul piano intellettuale, in effetti, il dominio di questo spazio fu una conquista lenta e progressiva, in cui le necessità di ordine pratico, gli sviluppi delle tecniche di navigazione e della cartografia nautica camminarono sempre in stretta relazione tra loro. La ricerca di precisione e di praticità di utilizzo delle carte nautiche è legata ai sistemi di proiezione della superficie sferica sul piano41. Un traguardo fondamentale in questo campo venne raggiunto nel XVI secolo con la proiezione di Mercatore, cioè con la proiezione del globo su un cilindro tangente all’equatore, nella quale i meridiani, che sulla terra convergono ai poli, sono rappresentati da linee rette parallele e fra loro equidistanti, mentre i paralleli, che sulla terra sono, appunto, paralleli ed equidistanti, sono rappresentati da linee rette e parallele perpendicolari ai meridiani, che però si distanziano progressivamente procedendo dall’equatore verso i poli (latitudine crescente)42. Compensando questo errore, le carte realizzate con la proiezione di Mercatore presentano una caratteristica rivoluzionaria rispetto a quelle medievali, in quanto permettono di tracciare le rotte con delle linee rette, che mantengono angoli costanti coi meridiani. Il livello qualitativo è enormemente superiore, considerando che le carte nautiche medievali presentavano una rete di rombi o direzioni che si irradiavano dalle rose dei venti distribuite sulla carta e che quei rombi erano utilizzati dai naviganti come linee guida per stabilire la rotta43. Se, da un lato, appare significativo il fatto che fino alle soglie dell’età moderna l’uso delle carte nautiche e dei portolani restò ancora limitato, non generalizzato44, dall’altro possiamo ritenere che i secoli XIII e XIV, con la diffusione della bussola magnetica, dei portolani, degli strumenti e delle carte nautiche, uniPeripli, portolani e cartografia

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tamente all’evoluzione delle attrezzature veliche e degli organi di governo delle navi, rappresentarono effettivamente un periodo di grande evoluzione della nautica45, che fino a quel tempo era rimasta sostanzialmente simile a quella antica. In questa fase del Medioevo erano maturate le condizioni tecniche e culturali che consentirono di dare uno sviluppo decisivo alla navigazione; cosa che non avvenne nei termini di una rivoluzione improvvisa, ma in quelli di un progresso fondato sull’esperienza dei secoli precedenti e ora accelerato dall’introduzione di nuovi strumenti come la bussola magnetica. Anche per l’antichità il problema non si pone tanto in relazione con il livello tecnico raggiunto dalla cartografia, quanto, piuttosto, con quella convergenza e maturazione di condizioni pratiche e culturali che permettono lo sviluppo di determinate innovazioni tecniche; una condizione che nel mondo antico non era ancora presente. «Metodicamente», scrive Pietro Janni46, «la considerazione principale è questa: la carta (soprattutto quella nautica) è uno strumento, che serve a immagazzinare e a trasmettere informazioni. Perché questo strumento entri nell’uso, bisogna che si abbiano le informazioni da metterci, da una parte, e dall’altra la necessità e la capacità di servirsene. In questa ricerca, bisogna essere molto concreti, e non staccare mai le conquiste intellettuali e teoriche dai fatti pratici. Altrimenti, rischiamo di fare la figura di chi attribuisse l’invenzione dell’automobile ad una civiltà che non conoscesse alcuna forma di strada adeguata, o il possesso di macchine calcolatrici a una di quelle la cui aritmetica non va oltre il numero dieci». Molti di coloro che si sono interessati delle conquiste tecniche degli antichi, reali o presunte, ivi compresa la cartografia, «non hanno collegato la questione dell’uso o non-uso della carta nautica al modo di navigare degli antichi, e non hanno tenuto abbastanza d’occhio quello che sappiamo sull’uso della carta nautica nel Medioevo e nell’età moderna in relazione ai progressi della navigazione». L’eventuale utilizzo della carta, inoltre, deve porsi in relazione col concetto di rotta che potevano avere gli antichi. A tale riguardo il problema è sintetizzato da Giuseppe Puglisi47: «tante questioni di nautica ci riescono incomprensibili, non per la segretezza degli antichi, quanto perché tentiamo di immaginare la loro nautica pensando al nostro modo di tracciare la rotta con matita e parallele … Diciamo subito che, nella rudimentalità delle loro concezioni cosmografiche, non c’era posto per la pianità delle carte né per i tratti di matita. Le “carte piatte” di Tolomeo, del II sec. d.C., non erano destinate ai marinai. Si era incerti sulla forma della Terra, sulla dimensione di un grado di circolo terrestre, sull’estensione dell’ecumene in longitudine, tutti elementi, però, che non interessavano i naviganti. Ciò nonostante, gli antichi seppero navigare egualmente: le difficoltà principali dei navigatori primitivi, ha scritto Parsonson, non dimentichiamolo, furono inventate dagli Europei. Gli antichi ebbero altra idea dalle nostre sulle rotte: per essi, la rotta più breve era quella sola che essi sapevano percorrere con sufficiente sicurezza, con i metodi e le cognizioni di cui disponevano». Se consideriamo parallelamente la concezione dello spazio marino presso gli antichi e le modalità di navigazione da essi adottate, possiamo ritenere che non solo sarebbero risultate difficili la costruzione e l’impiego di una carta nautica, ma che sarebbero mancati anche i presupposti per cui la carta stessa venisse sentita come strumento necessario. Per tale motivo erano preferite le descrizioni scritte, realizzate secondo quel principio unidimensionale e secondo quegli orientamenti di tipo odologico che appartenevano all’esperienza quotidiana, 170

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al sapere comune di una cultura diffusa. D’altro canto, non è escluso che qualche forma di cartografia destinata all’uso pratico potesse intervenire a fianco dei testi, come complemento per una maggiore immediatezza nella lettura delle informazioni, dunque come una semplice trasposizione grafica dei dati contenuti nel testo. Nonostante il livello raggiunto dalla nautica e dalla cartografia in epoca ellenistica, non erano ancora maturate le condizioni necessarie affinché le conquiste intellettuali, quelle di ordine tecnico e pratico, potessero dare sviluppo alla navigazione stimata e alle carte nautiche. In definitiva, non dovremo rigettare la possibilità che qualche forma di cartografia applicata alla navigazione possa essere esistita, ma dovremo sempre tener presente che non si trattava di cartografia nautica. Potevano esistere degli schizzi cartografici realizzati in modo empirico, sostanzialmente in modo simile a come erano composte le istruzioni nautiche; dei semplici disegni geografici che servivano come rudimentale supporto ai portolani, nei quali la visione delle coste procedeva secondo lo stesso principio del documento scritto. A tale proposito possiamo ricordare la cosiddetta Mappa di Soleto, scoperta nell’omonima località pugliese48. Si tratta di un piccolo ostrakon ottenuto da un frammento di ceramica a vernice nera, che misura soli 5,9 x 2,8 cm, databile nella seconda metà del V sec. a.C., su cui è incisa una “mappa” della Penisola Salentina con l’indicazione della linea di costa e di ben tredici località, identificate ciascuna da un punto e da un toponimo. Purtroppo, l’autenticità di questa “mappa” non è esente da dubbi e anche la lettura del documento presenta diverse criticità. Per quanto interessante, si tratta solo di una grossolana rappresentazione grafica del territorio, che non sarebbe stata di alcuna utilità sul piano geografico, risultando assai debole anche come eventuale trasposizione in disegno di un itinerario o di un periplo, tanto più per il fatto che venne realizzata all’occasione, senza alcuna pretesa, semplicemente incidendo il frammento di ceramica. D’altro canto, anche la famosa mappa del Ponto realizzata sul presunto scudo di Dura Europos, mappa decisamente raffinata sul piano artistico e corredata da immagini di imbarcazioni, non sembra riflettere un interesse di tipo propriamente geografico, tantomeno nautico49. Tutto ciò premesso, non possiamo esclude recisamente che questi documenti siano un debole indizio, anzi un lontano riflesso della pratica, altrimenti non documentata, di tracciare dei disegni funzionali a coadiuvare le informazioni testuali contenute nei portolani e nei peripli. Disegni che dovevano prevedere, però, una maggior precisione nel rendere il profilo delle coste, essendo destinati nel primo caso alla cerchia ristretta dei naviganti, nel secondo a un pubblico colto e agli studenti. Tale possibilità venne in qualche modo già rilevata molti anni fa da Bacchisio R. Motzo, editore del duecentesco Compasso da navigare, in un paragrafo significativamente intitolato “Se gli antichi usassero carte nella navigazione, e se queste fossero vere carte nautiche”. Innanzitutto, Motzo sottolinea il fatto che «se è vero che si può navigare con la carta e con la stella senza la Bussola, è anche vero che si può navigare e si è navigato con l’esperienza pratica dei mari e la stella, senza la Carta». Quindi, non escludendo che i marinai antichi potessero disporre di qualche rudimentale carta dei mari e delle coste, conclude affermando che «non vi è, alle attuali conoscenze del mondo antico, alcuna testimonianza che ci permetta di affermare che il corso delle navi fosse retto in base alle Carte. Tutte quelle che l’antichità ci ha tramandato mancano di scala ed hanno un tracciato delle coste e una rappresentazione dei mari troppo disforme dal vero, sicché i marinai non vi potevano trovare altro che una guida generica e approssimativa, anche se non del tutto inutile »50. Peripli, portolani e cartografia

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Paragrafo 124. Guglielmotti 1889, col. 1358, s.v. Portoláno. 3 Gautier Dalché 1995, p. 81. 4 Scilace di Carianda, navigatore, geografo e storico greco dell’Asia Minore vissuto tra il VI e il V sec. a.C., è ricordato da Erodoto (Storie, IV, 44) per aver condotto su incarico del re persiano Dario I, probabilmente verso il 509 a.C., una spedizione navale con finalità esplorative, durata trenta mesi, dall’Indo fino alle coste settentrionali del Mar Rosso. A Scilace viene riferito un celebre Periplo del Mediterraneo (generalmente denominato Periplo del mare Interno o Periplo del mare di Europa, Asia e Libia), che sarebbe dunque databile in un periodo a cavallo tra il VI e il V sec. a.C., ma che si è conservato in una redazione più tarda, risalente al IV sec. a.C., in cui il testo originale venne aggiornato e in parte rielaborato; per tale motivo, la critica storica attribuisce generalmente il Periplo alla figura dello Pseudo Scilace (da ultimi González Ponce 2001; Id. 2008, pp. 154-177; Matijašić 2016). 5 Richiamiamo nuovamente il Periplo dello Pseudo Scilace, nel quale i numerosi riferimenti derivati da contesti propriamente nautici (Mauro 2022) appaiono stemperati in una forma ormai lontana da quella dell’originale istruzione nautica. 6 Si può ipotizzare che i viaggi di colonizzazione dei Fenici e dei Greci in epoca arcaica abbiano costituito un primo impulso verso l’organizzazione di raccolte di istruzioni nautiche, necessarie per “codificare” rotte e percorsi tra la madrepatria e le colonie (Medas 2020). 7 González Ponce 1993; Medas 2013a. 8 Müller, GGM, I, pp. 427-514; Bauer 1929; Helm 1955. È di prossima pubblicazione una nuova edizione dello Stadiasmo a cura di Pascal Arnaud (c.s.), che ringrazio sentitamente per la disponibilità e la cortesia con cui ha voluto anticiparmi il suo lavoro, oltre che per la disponibilità accordatami nel discutere i problemi legati a questo testo e per i preziosi consigli ricevuti. L’edizione del testo, che aggiorna e rivede sostanzialmente quelle precedenti, in particolare quella del Müller, è preceduta da un ampio e approfondito commento, che rappresenta il punto di arrivo di anni di ricerca dedicati da Arnaud allo Stadiasmo e ora il punto di riferimento imprescindibile per lo studio di questo documento. 9 Arnaud 2009; Id. 2010; Id. 2017a; Id. 2017b; Id. 2018; Id. 2020. «À la vérité», scrive Arnaud (2020, pp. 99-100), «loin d’être un ensemble fermé doté d’une logique propre, le Stadiasme apparaît plutôt comme la compilation, souvent maladroite, de compilations, toujours dénuée d’unité formelle et structurelle forte. Il a de ce fait conservé, sans réellement chercher à générer une forme et une structure propres, les traits particuliers de chacune des sources et traditions auxquelles il a puisé». 10 Medas 2008c; Id. 2011. Il possibile rapporto tra lo Stadiasmo e un libro di istruzioni nautiche venne evidenziato oltre un secolo fa da K. Kretschmer (1909, pp. 160-161), autore di un’edizione di portolani italiani medievali, e successivamente da D. Gernez (1947-1949, pp. 160-161, e Id. 1950-1951), capitano di lungo corso e storico della marineria. Si tratta, però, di interpretazioni basate solo sull’impostazione generale del documento, di cui viene rilevata la singolarità rispetto ai peripli. Gli studi di Arnaud hanno consentito a chi scrive di precisare le ipotesi inizialmente formulate riguardo al rapporto tra lo Stadiasmo e le istruzioni nautiche, dunque a una possibile relazione con documenti di tipo “portolanico”; documenti di cui riteniamo probabile l’esistenza nel mondo antico, per quanto in una forma diversa da quella che caratterizzerà i portolani propriamente detti dell’epoca medievale e moderna. 11 Marcotte 2000, pp. XLIX-LIII; Desanges 2004; Arnaud 2009, pp. 166-170. 12 Arnaud 2020. Il problema della datazione, su cui si sono confrontati importanti studiosi (Di Vita 1974; Uggeri 1996; Id. 1998a, 43-46; Id. 2002; Desanges 2004), è stato ora precisato nella sua complessità dai lavori di Pascal Arnaud e sarà oggetto di ampia discussione nella sua prossima edizione del testo. 13 Uggeri 1998a, p. 33. 14 A differenza dei portolani medievali, che, invece, indicano precisamente le batimetrie in passi, specificando anche se il fondo è pulito e buon tenitore; si vedano, per esempio, il Compasso da Navigare, della metà del XIII secolo (Motzo 1947), o il Portolano di Grazia Pauli, del XIV secolo (Terrosu Asole 1988). 15 Il testo greco di riferimento è quello dell’edizione di Arnaud c.s. 2

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Medas 2008c, pp. 154-155; Christiansen 2014. Prima che la parola “faro” entrasse nel lessico greco col significato che ha oggi per noi, derivando dal nome dell’isoletta di Faro antistante Alessandria, su cui sorse, appunto, il celebre faro di Alessandria, per indicare le strutture di avvistamento e segnalazione marittima si usava il termine generico pýrgos, torre. 17 Arnaud 1993; Id. 2005, pp. 70-96. 18 Casson 1989; González Ponce1992; Arnaud 2012; Bukharin 2012; De Romanis 2016. 19 Dunsch 2012; Id. 2015. 20 Moralia, 790 D. 21 Versione italiana di Gino Giardini (Plutarco, Consigli ai politici, a cura di G. Giardini, Rizzoli, Milano 1995). 22 Di segno opposto è l’interpretazione di Pietro Janni, il quale ritiene che Plutarco si riferisca ai classici peripli piuttosto che a dei “trattati da pilota” (Janni 2004, pp. 130-131). Crediamo, tuttavia, che la denominazione specifica data a questi libri (perché, allora, non chiamarli períploi?) e il contesto in cui sono menzionati riconducano a un ambito di tipo tecnico, legato in qualche modo all’istruzione nautica dei piloti. 23 L’arte della guerra, IV, 41. 24 Georgiche, I, 351-423. 25 Janni 2002, p. 408. 26 Reynolds, Wilson 1987; Irigoin 1999. 27 Fondamentale, a questo proposito, resta Janni 1984. Si veda inoltre González Ponce 1990. 28 Arnaud 2014; Dan et alii 2016. 29 Rispettivamente in Atti, 21, e 27-28. 30 Janni 1984, p. 88. Nello stesso senso si esprime Francesco Prontera: «le deformazioni e le distorsioni, che riscontriamo nelle loro rappresentazioni, sono da ricondurre in sostanza ai procedimenti mentali che sintetizzano e schematizzano la percezione analitica e discontinua dello spazio in rapporto agli itinerari terrestri e marittimi da cui esso è percorso» (Prontera 1992, p. 33). Si vedano, inoltre, González Ponce 1990 e Prontera 1996. 31 Prontera 2010 e Id. 2011. 32 Valerio 2012. 33 In generale Dilke 1985; Harley, Woodward 1987; Sechi 1990; Cordano 2002. 34 Arnaud 2011b. 35 Janni 1984, pp. 65-78. 36 Shcheglov 2016. 37 Andrewes 1996; Sobel 1999. 38 Rimandiamo ancora a Janni 1984, pp. 15-78; si vedano inoltre Id. 1998a, pp. 466-474, e Id. 1998b. 39 Medas 2005. 40 Taylor 1957, pp. 117-121; Maccagni 1992, pp. 385-388; Valerio 2007. Sul rapporto tra empirismo e acquisizioni tecniche nell’arte nautica del Medioevo si veda Tucci 1991. 41 Per una panoramica generale, Singer, Price, Taylor 1963 e Taylor 1963b. 42 Delevsky 1942; Gaspar, Leitão 2014; Leitão, Gaspar 2014; Gaspar 2016. 43 Oltre alla bibliografia citata nelle note precedenti, si vedano Tucci 1990; Ferro 1991; Id. 1992. 44 Gautier Dalché 1992, pp. 309-312. Va comunque tenuto presente che la cartografia nautica sviluppatasi nel tardo Medioevo e nella prima Età moderna svolgeva anche una funzione di tipo documentario, destinato agli ambienti colti, dunque non solo una di tipo strettamente nautico, come testimoniano i numerosi esempi di copiatura e trascrizione che ci sono giunti, oltre che gli elementi ornamentali di cui le carte sono spesso arricchite (Ferro 1991; Astengo 2000). Come afferma Patrick Gautier Dalché (2004, p. 93) a proposito della carta navigatoria di Ciriaco d’Ancona e della cartogafia nautica tardo-medievale, «la carte est un objet complete dont le sens et l’importance sont bien loin d’être épuisés par ses usages purement techniques».

Peripli, portolani e cartografia

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Lane 1983, pp. 227-239; Tangheroni 1996, pp. 187-211; Musarra 2021, pp. 151-174. Come già ricordato nel primo capitolo, lo sviluppo della nautica scientifica a partire dal tardo Medioevo ricevette un impulso fondamentale dall’incremento delle navigazioni di lungo corso nell’Oceano Atlantico (Maccagni 1992; Leitão 2006; Medas 2008a; Gaspar 2015). 46 Janni 1998a, pp. 468-469. 47 Puglisi 1971, p. 19. 48 Van Compernolle 2005; Lombardo 2015. 49 Arnaud 1989. 50 Motzo 1947, pp. IC e CIV.

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CONCLUSIONE: IL SALVATAGGIO DI UN PATRIMONIO IRRIPETIBILE

La nautica antica, ovvero l’arte della navigazione, si è sviluppata attraverso principi relativamente semplici, fondamentalmente attraverso l’esperienza e il senso marino delle genti di mare, risultando per molti secoli, potremmo dire per millenni, perfettamente adeguata alle necessità di ordine pratico. Bisogna dunque affrontare questo argomento con un’adeguata attenzione proprio per l’aspetto pratico, tenendo sempre presente la convergenza dei diversi fattori che determinano, appunto, una risposta di tipo tecnico e pratico, in funzione delle necessità contingenti, del contesto storico ed economico. Per fare questo – lo abbiamo visto – è necessario che ci spogliamo dei nostri pregiudizi di uomini moderni, soprattutto che ci affranchiamo dall’idea secondo cui una certa tecnologia costituisce l’unico mezzo possibile per affrontare imprese nautiche anche molto impegnative. Insomma, come scriveva Giuseppe Puglisi (supra, paragrafo 1.2), dovremo abiurare il monoteismo della bussola per riabbracciare il politeismo delle cosmografie mitiche e, soprattutto, dovremo credere nel miracolismo del senso marino. Diversamente, rischieremmo di commettere un grave errore: quello di sottostimare le capacità tecniche dei popoli antichi; quegli stessi popoli che ci hanno fornito così tanti e straordinari esempi di applicazione del pensiero alle esigenze concrete. Sarebbe insensato pensare che civiltà in grado di realizzare il Partenone o l’acquedotto di Segovia non avessero le capacità tecniche per sviluppare una nautica che rispondesse perfettamente alle proprie esigenze. Capacità che non si esprimono solo con l’invenzione di strumenti e meccanismi, ma anche attraverso il consolidarsi dell’esperienza e l’affinamento delle pratiche. Pur non disponendo di bussola e di carte nautiche, i naviganti antichi avevano le conoscenze empiriche e l’esperienza pratica necessarie per affrontare viaggi di lungo corso e navigazioni d’altura, non solo nel Mediterraneo ma anche lungo le coste atlantiche dell’Africa e dell’Europa, nel Mar Rosso, nel Golfo Persico e nel Mare Arabico (il settore nordoccidentale dell’Oceano Indiano). La nautica scientifica che si è sviluppata tra il tardo Medioevo e l’Età Moderna ha ricevuto il suo impulso principale dal progredire delle grandi navigazioni oceaniche, quindi da nuove esigenze di ordine pratico che condussero, necessariamente, alla ricerca di soluzioni adeguate, quelle da cui sono nate la navigazione stimata e la navigazione astronomica. D’altro canto, basta rivolgere lo sguardo all’etnografia, precisamente ai navigatori primitivi del Pacifico, per capire come la nautica scientifica non costituì l’unico sistema possibile per affrontare i lunghi viaggi oceanici. Appare evidente, allora, quale attenzione dobbiamo porre Il salvataggio di un patrimonio irripetibile

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Fig. 64. Raduno di imbarcazioni tradizionali dell’alto Adriatico (Cesenatico, 2010).

nei confronti del nostro pregiudizio, per non partire da una prospettiva sbagliata. Abbiamo avuto modo di constatare come l’etnografia costituisca un termine di confronto molto importante, in certi casi indispensabile per colmare i vuoti della documentazione storica e archeologica. Ci riferiamo naturalmente alla marineria tradizionale, la marineria cosiddetta minore, sia da pesca che da traffico, quella che maggiormente ci riporta verso un orizzonte tecnico e culturale “arcaico”. Nel Mediterraneo le comunità di pescatori e naviganti che lavoravano esclusivamente con la vela, a bordo di imbarcazioni non ancora motorizzate, sono quasi completamente scomparse. Ma sono scomparse da un tempo relativamente breve, quindi vi è stata la possibilità di documentarle, per quanto non sempre in modo esaustivo. Nella laguna di Venezia l’ultima barca impiegata nella pesca professionale e armata esclusivamente con le vele al terzo, senza alcuna motorizzazione, è stato un topo rimasto in attività fino al 19781, mentre presso le isole Kerkenna, in Tunisia, vive tuttora una comunità di pescatori che lavora con le feluche a vela latina2. Aver conosciuto quegli uomini, averci parlato e averli visti in azione, significa aver incontrato gli ultimi testimoni di una tradizione antica; uomini che agli occhi di uno studioso di etnografia, di storia o di archeologia marittima, non possono che apparire come dei “fossili viventi”, nel senso più nobile della definizione, essendo i depositari di uno straordinario patrimonio di cultura immateriale, fatto di una profonda conoscenza dell’ambiente marino, di una lunga esperienza nella pratica marinaresca e nell’attività alieutica. 176

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Abbiamo anche visto come il dato etnografico si presenti in forme diverse, sul piano propriamente nautico come su quello dei sentimenti delle genti di mare, come elemento di continuità di lunga durata, come recupero di tradizioni precedenti e come naturale risposta ad esigenze comuni, comparendo indipendentemente in luoghi e tempi diversi. Un corretto approccio metodologico risulta quindi necessario nell’utilizzo delle informazioni etnografiche come termini di confronto, e integrazione, nello studio della nautica antica. Affrontando l’indagine secondo un criterio filologico, la tradizione nautica sopravvissuta fino a tempi recenti, e in rari casi ancora viva, rappresenta quindi, almeno nei principi di base e nei sentimenti comuni, una straordinaria e imprescindibile opportunità per indagare un mondo antico che è scomparso solo da pochi anni, pur essendo ormai lontanissimo sul piano tecnico e culturale. In questo senso, integrandosi con l’etnografia e con l’archeologia sperimentale condotta secondo rigorosi criteri, lo studio della nautica antica offre anche l’occasione di conservare un patrimonio immateriale altrimenti a rischio di rapidissima perdita, essendo sempre rimasto affidato alla memoria e alla pratica, alla parola e all’azione, senza aver conosciuto codificazioni di qualche tipo. Il mondo scientifico ha ormai da tempo intrapreso questa strada anche nel contesto propriamente nautico. Parallelamente, il rinnovato interesse per le imbarcazioni e la navigazione tradizionali, per quanto in contesti ormai molto lontani da quelli originali, si presenta oggi come un’ulteriore opportunità nell’affrontare lo studio e la documentazione, quindi il salvataggio di un patrimonio irripetibile (fig. 64). 1 2

Divari 2010. Féron 2017/2018.

Il salvataggio di un patrimonio irripetibile

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GLOSSARIO DEI TERMINI MARINARESCHI1

«… prendersi delle libertà con il linguaggio tecnico è una grave offesa alla chiarezza, la precisione e la bellezza di espressioni che nel tempo hanno acquisito una loro perfezione» (Joseph Conrad, Lo specchio del mare).

Acquata Rifornimento d’acqua dolce per gli usi di bordo, prima di partire o nel corso del viaggio. Le soste per l’acquata costituivano momenti fondamentali durante le navigazioni di lungo corso e i portolani segnalano scrupolosamente i punti in cui poter fare acquata lungo le coste (nello Stadiasmo, per esempio, viene precisamente indicato dove e come si può reperire l’acqua e di che tipo essa sia).

Armo L’armo di un’imbarcazione è costituito dall’insieme della sua attrezzatura velica, dunque dall’alberatura, dalle vele, dalle manovre fisse e correnti, che ne determinano le caratteristiche salienti di navigazione e le prestazioni. Per estensione si dice una barca o una nave “armata con vela quadra, con vela latina” etc., “armo a vela quadra, a vela latina” etc., “armare la barca” (issare le vele e predisporla a navigare).

Allibo (o alleggio) Manovra di alleggerimento della nave tramite lo sbarco totale o parziale del carico, per consentirle l’accesso in porto con fondali insufficienti. Trasferimento del carico da una grande nave ormeggiata in rada a imbarcazioni più piccole, per lo sbarco delle merci in porto o lungo la costa. Il nome identifica anche l’imbarcazione destinata allo scopo.

Beccheggio Movimento oscillatorio della nave in senso longitudinale, da prua a poppa, sull’asse trasversale della nave, generato dalle onde (il termine deriva dal modo con cui gli uccelli beccano il cibo, abbassando la testa e sollevando la coda alternativamente, come la nave, beccheggiando, abbassa la prua e alza la poppa ripetutamente).

Amantiglio Ciascuna di quelle manovre correnti fissate al pennone, rinviate in testa d’albero e fermate alla base di questo o in coperta. Servivano per sostenere le estremità del pennone della vela quadra, cooperando con le altre manovre per regolarne l’inclinazione.

Bigotta Sorta di bozzello di legno duro, ma senza pulegge, fornito di tre fori passanti, utilizzato per fermare e regolare la tensione delle manovre dormienti, in particolare delle sartie.

Annona Approvvigionamento di frumento, specialmente per la città di Roma, sotto il controllo statale. Con Augusto divenne un ufficio stabile con a capo un prefetto e propri funzionari a Ostia e Portus. Antenna La lunga asta su cui è inferita la vela latina, composta da un singolo elemento (nel naviglio minore) o da due elementi legati insieme nel tratto centrale; equivalente del pennone della vela quadra.

Bolina (manovra corrente) Manovra corrente costituita da un paranco semplice, che serve per tirare verso prua la ralinga di caduta sopravvento della vela quadra, trattenendola in posizione in modo che possa prendere adeguatamente il vento nelle andature strette (in origine una semplice cima poteva fungere da bolina). Il termine è poi passato ad indicare anche l’andatura. Bordeggiare, bordeggio Navigare di bolina per risalire lungo la direzione da cui proviene il vento, cambiando spesso di bordo per

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mezzo di una serie di virate e svolgendo un percorso a zig-zag. È l’unico sistema con cui una nave a vela può navigare contro vento, guadagnando faticosamente il cammino verso il vento lungo le diagonali dei bordi. Ogni tratto di navigazione del bordeggio compreso tra le virate è una bordata, una navigazione di bolina. Borrello Caviglia di legno duro che serve per unire e liberare rapidamente due cavi terminanti ciascuno con un occhiello (si inserisce un occhiello nell’altro, quindi si infila il borrello trasversalmente nel primo occhiello; mettendo in forza i due cavi, il borrello ferma il primo occhiello al secondo). Bozzello Strumento composto da una carrucola singola o da più carrucole montate all’interno di una cassa di legno duro (si hanno bozzelli semplici, doppi, tripli, detti anche a una, a due, a tre vie), funzionale per diverse manovre dell’armamento della nave. Ha lo scopo di mutare la direzione dei cavi delle manovre correnti, per esempio creando un sistema di andata e ritorno. I bozzelli sono parte integrante dei paranchi. Braccio Manovra corrente, ciascuna delle due cime fissate alle due estremità del pennone della vela quadra, che servono per orientarlo. I bracci tirano verso poppa, i controbracci verso prua. Entrambi possono essere costituiti anche da paranchi semplici (nel naviglio maggiore). Bragozzo Imbarcazione tradizionale da pesca e da traffico, tipica dell’alto Adriatico (in particolare di Chioggia), armata con due alberi e vele al terzo. Bugna Apertura circolare all’angolo inferiore della vela, in cui è ricavata un’asola rinforzata (ad esempio con giri di sagola, inguainata con una striscia di pelle) e per questo assume la forma di un rigonfiamento; serve per legarvi le scotte.

Caricabasso Nell’armo con vela latina e vela al terzo, manovra corrente costituita da un paranco che serve per trattenere verso il basso l’estremità anteriore dell’antenna (nella vela latina) o del pennone inferiore (nella vela al terzo), dunque l’intero sistema della vela, per evitare che sfugga verso l’alto. Opportunamente regolato, il caricabasso consente quindi di variare l’inclinazione della vela, permettendo di far arretrare o avanzare il centro velico, secondo necessità. Centro di deriva (o centro di resistenza laterale) Il punto di applicazione delle forze esercitate dall’acqua sull’opera viva, cioè sulla parte immersa dello scafo. Centro velico Il punto di applicazione della forza del vento su una vela, dove converge la spinta generata dal vento sull’intera superficie velica (nel caso di un’imbarcazione con più vele, il centro velico, o centro di velatura, corrisponde al punto in cui si applica la risultante delle forze esercitate dal vento su ciascuna vela). Cinta Corso di fasciame più grosso degli altri, per spessore e di solito anche per altezza, inserito nella parte alta delle fiancate. Si tratta di un elemento strutturale fondamentale, che lega lo scafo in senso longitudinale (appunto lo “cinge”, come una cintura di rinforzo). Le grandi onerarie potevano avere anche più corsi di cinta, come documenta l’iconografia antica. Corso (di fasciame) Ciascuna fila di tavole che compone il fasciame dello scafo. Dominante (vento) I venti dominanti sono quelli che in una determinata regione soffiano con maggiore violenza, “dominando” gli altri per la loro forza; non vanno confusi con i venti regnanti. Drizza Manovra corrente, potente paranco che serve per sollevare il pennone o l’antenna, dunque per issare le vele.

Calcese Nell’armo con vela latina, sommità dell’albero dove si trova la cavatoia con la puleggia in cui è rinviata la drizza.

Ferzo Le singole parti di tela (per lo più quadrate o in larghe strisce) che, cucite insieme, formano la vela.

Cappa (mettersi alla cappa, navigare alla cappa) Andatura che una nave è costretta a tenere per affrontare un mare formato con vento forte o una tempesta; tenersi al vento con la velatura ridotta al minimo, in casi estremi anche con le vele completamente ammainate (cappa secca).

Galloccia Elemento ligneo a forma di T, largo e schiacciato, fissato all’interno delle murate o sul ponte per dar volta alle cime (scotte, bracci, imbrogli etc.), cioè per fermarle; può trovarsi anche alla base dell’albero per fermare la drizza.

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Gnomone Asta convenientemente orientata, la cui ombra serve a segnare le ore negli orologi solari. Posizionato in verticale, lo gnomone era usato nell’antichità anche per misurare l’inclinazione dei raggi solari rispetto alla superficie terrestre, in precisi momenti dell’anno (come ai solstizi e agli equinozi); l’angolo formato tra l’asta e la proiezione della sua ombra consentiva di ricavare la latitudine del luogo. Imbrogli Manovre correnti della vela quadra, costituite da cime sottili legate alla ralinga di fondo, correnti in senso verticale lungo il lato esterno della vela, all’interno di anelli appositamente cuciti ad essa, quindi rinviate sul pennone e infine portate in coperta, normalmente riunite in due gruppi, uno per ciascuna metà della vela. Servivano per ridurre la vela, parzialmente o completamente, sollevandola dal basso verso l’alto, ma anche per modificarne la forma, per esempio riducendola solo nella parte centrale e lasciandola distesa ai lati, oppure riducendola in senso diagonale per farle assumere una forma triangolare. Inferire Collegare, legare la vela ai pennoni (della vela quadra), all’antenna (della vela latina), all’albero (della vela aurica), mediante una cima sottile chiamata cavo inferitore, il quale, partendo dalle estremità dei pennoni o dell’antenna o dell’albero, procede girando a spirale intorno ad essi e infilandosi tra la ralinga e la tela. L’inferitura si può ottenere anche tramite appositi legacci. Livarda (o struzza o balestrone) Asta diagonale che sostiene l’angolo superiore verso poppa della vela a tarchia; più usato è il sinonimo struzza. Manovra 1. Ogni lavoro eseguito dall’equipaggio sui cavi, sulle vele e sull’attrezzatura della nave (bordare, alberare, armare, etc.). 2. Ogni movimento della nave in rapporto al vento, alla rotta, all’ormeggio, al combattimento, alla pesca etc. 3. Ogni cavo, cima o paranco utilizzato per governare la nave. Le manovre si dividono in due categorie: manovre correnti e manovre fisse o dormienti. Le manovre correnti corrispondono a quel complesso di cime, cavi e paranchi che servono per issare, orientare e ridurre le vele (drizza, scotte, bracci, imbrogli, etc.), oltre che per altri lavori; quindi sono tutte manovre mobili. Le manovre fisse o dormienti sono invece quel complesso di cavi che servono per sostenere in posizione fissa gli alberi, dunque non sono mobili ma solo regolabili (principalmente sartie e stralli).

Mastra Apertura circolare nel ponte delle imbarcazioni e delle navi per il passaggio e sostegno dell’albero, munita di un robusto collare o di zeppe, necessarie a bloccare l’albero e ad evitare le infiltrazioni d’acqua. Matafioni Corte cimette cucite su entrambi i lati della vela (o fermate in appositi occhielli), a intervalli regolari lungo uno, due o anche tre allineamenti longitudinali, tra loro paralleli e a diversa altezza, funzionali a ridurre la vela. La manovra si esegue raccogliendo sulla ralinga una quantità di tela corrispondente all’allineamento di matafioni prescelto, quindi legando i matafioni alla ralinga fino a serrare la tela raccolta, con conseguente riduzione della superficie velica. Per ogni fascia di tela che viene ridotta si dice “prendere una mano di terzaroli” (quindi, complessivamente, si possono prendere una, due o tre mani di terzaroli). Mura (o mure) Nel gergo marinaresco una nave a vela naviga con “mura a dritta” quando il vento la investe sul lato destro e le vele si gonfiano verso quello sinistro; naviga con “mura a sinistra” nel caso opposto, quando il vento la investe sul lato sinistro e le vele si gonfiano verso quello destro. L’espressione “cambiare mura” equivale dunque a virare di bordo. Il termine corrisponde alla manovra corrente chiamata “mura”, sorta di scotta che serviva a tirare verso il lato sopravvento e verso prora la bugna inferiore della vela quadra, motivo per cui è passato ad indicare il lato da cui si riceve il vento. Orzare Governare la nave in modo da portare la prua verso la direzione da cui proviene il vento (quindi, “navigare all’orza” significa navigare il più possibile verso il vento, stringendo il vento). Il contrario di poggiare. Osta Nell’armo a vela latina (ma per analogia anche in quello a tarchia), manovre correnti, ciascuna delle due cime o leggeri paranchi che servono per orientare la parte alta dell’antenna, dunque per trattenere o scaricare il vento nel settore alto della vela (il loro nome deriva dal fatto che “ostano” alla spinta del vento sulla vela, cioè la contrastano). Paramezzale Importante elemento strutturale dello scheletro dello scafo, grossa trave longitudinale sovrapposta alla chiglia e ai madieri (cioè agli elementi centrali di ogni ordinata o costola), dunque all’interno sul fondo dello scafo. Serve per ammorsare queste strutture e irrobustire lo scafo in senso longitudinale. Possono esservi anche due paramezzali, disposti lateralmente alla chiglia e sempre connessi con i madieri.

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Paranco Sistema riduttore di sforzo costituito da due bozzelli, uno fisso e l’altro mobile, nelle cui pulegge passa una cima in andata e ritorno. Nella soluzione più semplice la cima è legata al bozzello fisso, quindi arriva al bozzello mobile, scorre nella puleggia e inverte la direzione, torna indietro ed entra nel bozzello fisso, scorre nella puleggia invertendo nuovamente la direzione. Su questa estremità della cima viene esercitata la trazione. Il giro di andata e ritorno può ripetersi per due o tre volte (o anche più), attraverso bozzelli con due o tre pulegge (cioè a due o a tre vie), aumentando progressivamente la potenza di tiro del paranco. Pennone L’asta di legno, composta generalmente da due pezzi legati insieme nel tratto centrale, alla quale è inferito il lato superiore della vela quadra. Poggiare (o puggiare) Governare la nave in modo da allontanare la prua dalla direzione da cui proviene il vento (“navigare alla poggia” significa quindi navigare allontanandosi dal vento, cioè col vento a favore). Il contrario di orzare. Ralinga Cordone cucito intorno alla vela per rinforzarne gli orli. Nella vela quadra prende quattro nomi diversi secondo il lato: ralinga di testiera (lungo il lato orizzontale in alto), di fondo (lungo il lato orizzontale in basso), di caduta sinistra e di caduta destra (lungo i due lati verticali).

Scarrocciare, scarroccio Spostamento laterale di un’imbarcazione rispetto alla sua rotta, dovuto all’azione del vento sulla vela e su tutte le parti della nave al di sopra della linea di galleggiamento (opera morta dello scafo, alberi, sovrastrutture). Scassa d’albero Massiccio blocco ligneo in cui è ricavato l’alloggiamento che ospita il piede dell’albero; è fissato sui madieri o sul paramezzale (o su entrambi). Scotta Manovra corrente legata alla bugna nell’angolo inferiore della vela (angolo di bugna). Serve per orientare la vela e tenerla nella posizione voluta. La vela quadra ha due scotte, una all’estremità destra e una all’estremità sinistra, quella latina e quella a tarchia ne hanno una. Sopravvento Che sta dalla parte da cui proviene il vento. Sottovento Che sta dalla parte opposta a quella da cui proviene il vento. Stadio Unità di misura lineare usata nel mondo antico, dal valore piuttosto elastico, che nel mondo romano corrispondeva a circa 185 m (stadio egiziano m 157,5, stadio attico m 177,6, stadio alessandrino m 184,8).

Regnante (vento) I venti regnanti sono quelli che soffiano con maggiore regolarità, dunque “regnano” in una determinata regione e in un determinato periodo dell’anno; non sono necessariamente i più forti, dunque non vanno confusi con i venti dominanti.

Strallo Manovra dormiente, ciascuno dei cavi che sostengono longitudinalmente l’albero. Si hanno stralli di prua e stralli di poppa. Opportunamente regolati, possono eventualmente contribuire a variare l’inclinazione dell’albero.

Riva (a riva) Nel gergo marinaresco indica le parti alte dell’alberatura e, in generale, ciò che si trova in alto. Detto in riferimento al lavoro dei marinai, “andare a riva” significa quindi salire in cima all’albero o salire alle parti alte, ad esempio raggiungere il pennone per serrare la vela; da cui l’ordine “a riva!” dato ai marinai quando devono salire sugli alberi per eseguire qualche manovra.

Terzaroli, mani di terzaroli Fascia longitudinale della vela che può essere ridotta, cioè raccolta, compresa tra la ralinga e la prima fila di matafioni, tra questa e una seconda fila, eventualmente tra questa e una terza fila di matafioni. Si dice “prendere una, due o anche tre mani di terzaroli” per indicare il livello di riduzione della vela, cioè la quantità di tela raccolta e sottratta così alla sua superficie complessiva della vela.

Rollio Movimento di una nave alternativamente su un lato e sull’altro attorno al proprio asse longitudinale, dovuto alle onde, al vento e alla manovra in atto. Sartia Manovra dormiente, ciascuno dei forti cavi che sostiene lateralmente gli alberi delle navi.

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Trabaccolo Imbarcazione tradizionale da pesca e da traffico, tipica dell’alto Adriatico, armata con due alberi e vele al terzo, caratterizzata dai grossi occhi apotropaici applicati sulla prua. I trabaccoli da traffico di maggiori dimensioni raggiungevano una lunghezza intorno ai 20 m e una portata intorno alle 100 t.

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Traversia (vento di t.) Il vento di traversia è quello che spira con direzione perpendicolare alla rotta della nave, cioè “traversa” il suo corso; può essere di traversia anche rispetto alla costa, al canale di accesso al porto etc. Quando soffia con forza, il vento di traversia diventa naturalmente il più pericoloso, perché spinge le imbarcazioni trasversalmente mettendole in difficoltà. Per estensione, dunque, il termine indica il vento più pericoloso in relazione a una determinata rotta, manovra o località, quello che, a causa della sua forza e della sua direzione più o meno trasversale, intralcia maggiormente il naviglio, soprattutto durante le manovre di avvicinamento alla costa, di ingresso in porto, di ancoraggio e di ormeggio. Trozza Collare formato da uno o due cavi che uniscono il pennone o l’antenna all’albero, lasciando loro libertà di movimento rispetto a questo. Può essere regolato in modo da risultare più stretto o più largo. Per agevolare lo scorrimento sull’albero, nei cavi della trozza vengono normalmente inserite delle palline o delle linguette di legno duro. Vela aurica Vela di taglio, di forma trapezoidale, il cui lato anteriore è inferito all’albero, quello inferiore al boma e quello superiore a un’asta chiamata picco. Si tratta di una vela con ottime doti aerodinamiche, capace di stringere bene il vento.

Vela al terzo Vela di forma trapezoidale, inferita in alto al pennone di sopravvia e in basso al pennone di sottovia (che può anche mancare). Il nome deriva dal fatto che circa un terzo della vela si trova a proravia dell’albero. Propriamente denominata “vela da trabaccolo”, in quanto tipica di queste imbarcazioni. Vela di gabbia Vela armata al di sopra della vela quadra maestra. Sulle onerarie romane era di forma triangolare e veniva chiamata siparum (aveva la forma di un triangolo isoscele, col vertice dei lati obliqui portato in testa d’albero e i vertici del lato di base portati alle due estremità del pennone); poteva essere unica o divisa in due vele triangolari più piccole, separate in corrispondenza dell’albero. Virare di bordo Manovrare in modo da far girare la nave perché riceva il vento sul fianco opposto rispetto a come lo riceveva nell’andatura precedente; cambiare di mura. Virare in prua: quando, orzando, la nave gira e passa con la prua contro vento. Virare in poppa (anche strambare): quando, poggiando, la nave gira con la prua in direzione opposta a quella da cui proviene il vento. 1 Per la terminologia nautica italiana, sia ufficiale che tradizionale, restano fondamentali Guglielmotti 1889 e Corazzini 1900-1907, mentre come repertorio poliglotta (lingue antiche e moderne) Jal 1848.

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Immagini

Figure (disegni, fotografie, elaborazioni) dell’autore: 1, 2, 3, 4a-b, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15a-b, 16, 17, 18, 20b-c, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 28, 29-a-b, 30, 31, 32, 35, 36, 37, 39, 41, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57a-b, 58, 59, 61, 64. Fig. 19, da Pomey 1997; fig. 20a, da Basch 1987; fig. 27, rielaborata da Laporte 2008; fig. 33, da Basch 1991; fig. 34, da Basch 2001; fig. 38, da Pérez Ballester 2002; fig. 40, da Varone 1999; fig. 46, da Migliavacca 1976; fig. 60, da Imperato 1894; fig. 62, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ptolemy_map_15th_century.jpg (public domain); fig. 63, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mappa_di_Eratostene.jpg (public domain).

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Finito di stampare nel mese di giugno 2022 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tipografia