Storia della lettura nel mondo occidentale
 8842047546,  9788842047544

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STO RIA E SO C IETÀ

© 1995, G ius. Laterza & Figli ed Éditions du Seuil Traduzioni di Marilena Maniaci

È vietata la riproduzion e, anche parziale, con qualsiasi m ezzo effettuata, com presa la foto co pia, anche ad uso interno o didattico. P er la legge italiana la foto co pia è lecita solo per uso personale p u rc h é non d a n n e g g i l ’a u to re. Q u in di ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è il­ lecita e m inaccia la sopravvivenza di un m odo di trasm ettere la scienza. Chi fotocopia un libro, chi inette a disposizion e i mezzi per fotocopiare, chi com un que favorisce questa pratica com m ette un furto e opera ai danni del­ la cultura.

Robert Bonfil Guglielmo Cavallo Roger Chartier Jean-François Gilmont Anthony Grafton Jacqueline Hamesse Dominique Julia Martyn Lyons Malcolm Parkes Armando Pétrucci Paul Saenger Jesper Svenbro Reinhard Wittmann

STORIA DELLA LETTURA NEL MONDO OCCIDENTALE a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier

Editori Laterza

1995

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 1995 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-4754-3 ISBN 88-420-4754-6

INTRODUZIONE

Ben lungi dall’essere scrittori, fondatori di un luogo proprio, eredi, sul terreno del linguaggio, dei contadini del passato, scavatori di pozzi e costrut­ tori di dimore, i lettori sono viaggiatori: circolano sulle terre altrui, come no­ madi che cacciano di frodo attraverso i campi che non hanno scritto, razziando i beni d ’Egitto per trarne godimento. La scrittura accumula, immagazzina, resiste al tempo stabilendo un luogo e moltiplica la sua produzione mediante Tespansionismo della riproduzione. La lettura non si garantisce contro l’usu­ ra del tempo (ci si dimentica e la si dimentica), non conserva o conserva male quanto ha acquisito e ciascuno dei luoghi ove passa è ripetizione del paradiso perduto1.

Questo testo di Michel de Certeau stabilisce una distinzione fon­ damentale fra la traccia scritta, qualunque essa sia, fissa, durevole, conservatrice, e i suoi lettori, posti sempre nella categoria dell’effi­ mero, della pluralità, dell’invenzione. Definisce così il progetto di que­ sto libro, scritto a più mani, che poggia su due idee fondamentali. La prima è che la lettura non è già iscritta nel testo, senza che esista scarto pensabile tra il senso ad esso attribuito (dall’autore, dall’editore, dal­ la critica, dalla tradizione...) e l’uso o l’interpretazione che i suoi let­ tori possono farne. La seconda riconosce che un testo esiste solo in quanto c’è un lettore che gli dà un significato: Che si tratti del giornale o di Proust, il testo non ha un senso che per i suoi lettori; cambia insieme ad essi; si ordina secondo codici di percezione che gli sfuggono. Diventa testo soltanto nel suo rapportarsi all’esteriorità del lettore, attraverso un gioco di implicazioni e di astuzie fra due tipi combinati di «aspet­ tativa»: quella che organizza uno spazio leggibile (una letteralità) e quella che organizza un metodo necessario all’effettuazione dell’opera (una lettura)2. 1 M. de Certeau, L ’invention du quotidien , Paris 19902 ( I a ed. 1980), I, Arts de faire , p. 251.

2 Ivi, p. 247.

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Il compito degli storici che hanno contribuito a quest’opera è con­ sistito dunque nella ricostruzione delle diverse maniere di leggere che hanno caratterizzato le società occidentali a partire dall’antichità, nelle loro differenze e peculiarità. Per portare a termine una simile ricerca occorre concentrare l’at­ tenzione sulla maniera in cui avviene l’incontro fra il «mondo del te­ sto» e il «mondo del lettore» — per riprendere le definizioni di Paul Ricoeur3. Ricostruire nelle sue dimensioni storiche un tale processo impone, in primo luogo, di considerare che i significati dei testi di­ pendono dalle forme e dalle circostanze attraverso le quali i loro let­ tori (o ascoltatori) li recepiscono e se ne appropriano. Questi ultimi non si confrontano mai con testi astratti, ideali, distaccati da ogni ma­ terialità: maneggiano oggetti, ascoltano parole le cui modalità infor­ mano la lettura e l’ascolto e, ciò facendo, governano la possibile comprensione del testo. Contro una definizione puramente semanti­ ca del testo — che ha dominato non soltanto la critica strutturalista in tutte le sue varianti, ma anche le teorie letterarie più desiderose di ricostruire la ricezione delle opere — bisogna tenere presente il fatto che le forme producono senso e che un testo è investito di un signifi­ cato e di uno statuto inediti quando cambiano i supporti che lo pro­ pongono alla lettura. Ogni storia delle pratiche della lettura è dunque, necessariamente, una storia degli oggetti scritti e delle parole lettrici. Bisogna tenere presente, inoltre, il fatto che la lettura è sempre una pratica incarnata in determinati gesti, spazi, abitudini. Prenden­ do le distanze da un approccio fenomenologico, che cancella le moda­ lità concrete della lettura, considerata un’invariante antropologica, bisogna identificare le disposizioni specifiche che distinguono le co­ munità di lettori, le tradizioni di lettura, le maniere di leggere. Questo metodo presuppone il riconoscimento di diverse serie di contrasti. In primo luogo, fra le competenze di lettura. La dicotomia, essenziale ma rudimentale, fra alfabeti e analfabeti non esaurisce le differenze relative al rapporto con lo scritto. Non tutti coloro che pos­ sono leggere i testi li leggono alla stessa maniera e, in ogni epoca, è grande lo scarto fra i letterati virtuosi e i lettori meno abili. Con­ trasti, in secondo luogo, fra norme e convenzioni di lettura che de­ finiscono, per ogni comunità di lettori, usi legittimi del libro, manie­ re di leggere, strumenti e procedure di interpretazione. Contrasti, 3 P. Ricoeur, Temps et récit, Paris 1985, III, Le temps raconté, pp. 228-63 [trad, it. Tempo e racconto , III, II tempo raccontato , Milano 1988].

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infine, fra le aspettative e gli interessi assai diversi che i differenti gruppi di lettori investono nella pratica della lettura. Da queste de­ terminazioni, che governano le pratiche, dipendono le maniere in cui i testi possono essere letti, e letti diversamente da lettori che non con­ dividono le stesse tecniche intellettuali, che non intrattengono una stessa relazione con lo scritto, che non attribuiscono né lo stesso si­ gnificato né lo stesso valore ad un gesto apparentemente identico: leg­ gere un testo. Una storia di lunga durata delle letture e dei lettori deve dunque occuparsi della storicità dei modi di utilizzazione, comprensione e ap­ propriazione dei testi. Essa considera il «mondo del testo» come un mondo di oggetti, di forme, di rituali le cui convenzioni e i cui concate­ namenti indirizzano e condizionano la costruzione del senso. Essa con­ sidera, d’altra parte, che il «mondo del lettore» si compone di «comu­ nità di interpretazione» — secondo l’espressione di Stanley Fish4 — cui appartengono i singoli lettori e lettrici. Ognuna di queste comunità condivide, nel suo rapporto con lo scritto, uno stesso insieme di com­ petenze, usi, codici, interessi. Da ciò deriva, in tutto questo libro, una duplice attenzione: alle materialità dei testi, alle pratiche dei loro lettori. «Nuovi lettori producono nuovi testi, e i loro nuovi significati so­ no funzione delle loro nuove forme»5. Donald F. McKenzie ha così definito, con grande acume, il doppio insieme di variazioni — varia­ zioni di forme dello scritto, variazioni di identità dei pubblici — che ogni storia desiderosa di restituire il significato mobile e plurale dei testi deve prendere in considerazione. In questo libro abbiamo pro­ fittato in vari modi di questa constatazione: portando in luce i con­ trasti fondamentali che oppongono, nella lunga durata, diverse maniere di leggere; caratterizzando nei loro scarti le pratiche di diverse comu­ nità di lettori all’interno di una stessa società; ponendo attenzione alla trasformazione delle forme e dei codici che modificano, al tempo stesso, lo statuto e il pubblico dei diversi generi testuali. Una simile prospettiva, chiaramente iscritta nella tradizione della storia del libro, tende tuttavia a spostarne le questioni e le metodo­ logie. La storia del libro, difatti, si è data a lungo come oggetto la misurazione della presenza ineguale del libro nei diversi gruppi che 4 S. Fish, Is There a Text in this Class? The Authority o f Interpretative Communi­ ties, Cambridge, Mass., 1980 [trad. it. C'è un testo in questa classe? Vinterpretazione nella critica letteraria e nell'insegnamento, Torino 1987]. 5 D .F. McKenzie, Bibliography and the Sociology o f Texts, The Panizzi Lectures (London 1985), London 1986, p. 20.

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compongono una società. Ne è scaturita la costruzione, del resto in­ dispensabile, di indicatori atti a rivelare gli scarti culturali: così, per un luogo e un tempo stabilito, il possesso ineguale del libro, la gerar­ chia delle biblioteche in funzione del numero di opere in esse conte­ nute o ancora, la caratterizzazione tematica delle collezioni a partire dallo spazio che vi occupano le diverse categorie bibliografiche. In questa prospettiva, riconoscere le letture significa, anzitutto, costi­ tuire serie, fissare soglie, produrre statistiche. Si tratta, in sostanza, di ricercare le traduzioni culturali delle differenze sociali. Un simile approccio ha portato all’accumulazione di un sapere senza il quale gli altri interrogativi sarebbero stati impensabili — e questo libro impossibile. Tuttavia, esso non basta a scrivere una storia delle pratiche di lettura. Anzitutto, esso postula implicitamente che le di­ cotomie culturali corrispondano necessariamente a classificazioni so­ ciali predeterminate. Le differenze fra le pratiche vengono quindi poste in relazione con opposizioni sociali costruite a priori, sia a livello di contrasti macroscopici (tra dominanti e dominati, élites e popolo), sia a livello di differenziazioni più sottili (ad esempio fra gruppi sociali, gerarchizzati attraverso le distinzioni di condizione sociale, di mestiere, economiche). Si dà il caso però che le differenziazioni culturali non si ordinino necessariamente secondo una griglia prestabilita di ripartizione del so­ ciale, cui si attribuisce il potere di governare sia la presenza ineguale degli oggetti che la diversità delle pratiche. La prospettiva deve esse­ re rovesciata, individuando gli ambienti o le comunità che condivido­ no uno stesso rapporto con lo scritto. Partire così dalla circolazione degli oggetti e dall’identità delle pratiche, e non dalle classi o dai grup­ pi, porta a riconoscere la molteplicità dei principi di differenziazione che possono rendere conto degli scarti culturali: ad esempio, le ap­ partenenze di genere o di generazione, le adesioni religiose, le solida­ rietà comunitarie, le tradizioni educative o corporative... Per ciascuna delle «comunità di interpretazione» così identifica­ te, il rapporto con lo scritto ha luogo attraverso determinate tecni­ che, gesti, maniere di essere. La lettura non è soltanto un’operazione intellettuale astratta: essa è messa in gioco del corpo, iscrizione in uno spazio, rapporto con se stessi o con gli altri. E il motivo per cui, in questo libro, un’attenzione particolare è stata rivolta alle maniere di leggere scomparse, o quanto meno marginalizzate, nel mondo contem­ poraneo. Ad esempio, la lettura ad alta voce, nella sua duplice funzio­ ne: comunicare lo scritto a chi non sa decifrarlo, ma anche cementare

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forme chiuse di socialità, che corrispondono ad altrettante figure del privato — Pintimità familiare, la convivialità mondana, la conniven­ za erudita. Una storia della lettura non deve limitarsi alla genealogia della nostra maniera contemporanea di leggere, in silenzio e attraver­ so gli occhi. Essa ha anche, e forse soprattutto, il compito di ritrova­ re i gesti dimenticati, le abitudini scomparse. La posta è alta, perché rivela non soltanto Pestraneità distante delle pratiche anticamente co­ muni, ma anche lo statuto principale e specifico dei testi composti per letture che non sono più quelle dei loro lettori di oggi. Nel mondo antico, nel medioevo, ancora nei secoli XVI e XVII, la lettura im­ plicita, ma anche effettiva, di numerosi testi è un’oralizzazione, e i loro «lettori» sono ascoltatori di una voce lettrice. Così, rivolgen­ dosi alPorecchio altrettanto che all’occhio, il testo gioca con forme e formule adatte a sottoporre lo scritto alle esigenze proprie della performance orale. Qualunque cosa essi facciano, gli autori non scrivono libri. I libri non so­ no affatto scritti. Sono confezionati da scribi e altri artigiani, operai e altri tecnici, stampatrici e altri macchinari6.

Contro la rappresentazione, elaborata dalla letteratura stessa e ri­ presa dalla più quantitativa delle storie del libro, secondo la quale il testo esiste di per sé, svincolato da ogni materialità, bisogna ricorda­ re che non vi è testo senza il supporto che lo offre alla lettura (o all’aicolto), senza la circostanza in cui esso viene letto (o ascoltato). Gli autori non scrivono libri: essi scrivono testi che diventano oggetti scritti — manoscritti, incisi, stampati e, oggi, informatizzati — maneggiati in maniere diverse da lettori in carne ed ossa le cui modalità di lettu­ ra variano secondo i tempi, i luoghi, i contesti. E questo il processo, troppo spesso dimenticato, che abbiamo po­ sto al centro della nostra opera, la quale mira a rintracciare, all’interno di ciascuna delle sequenze cronologiche considerate, i mutamenti fondamentali che hanno trasformato le pratiche di lettura nel mondo occi­ dentale e, al di là di esse, i rapporti con lo scritto. Da ciò deriva l’orga­ nizzazione al tempo stesso cronologica e tematica del nostro volume, articolato in tredici capitoli che vanno dall’invenzione della lettura si­ lenziosa nella Grecia antica fino alle pratiche nuove, consentite e im­ poste al tempo stesso dalla rivoluzione elettronica del nostro presente. 6 R. Stoddard, Morphology and the Book from an American Perspective, «Printing History», XVII (1990), pp. 2-14.

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Il mondo greco e ellenistico: la diversità delle pratiche «Ogni logos, una volta scritto, si rotola (kulindeitaì) dovunque, pres­ so quanti lo intendono, così come presso coloro con cui non ha niente a che fare, e non sa a chi deve e a chi non deve parlare». Questa con­ siderazione, messa da Platone sulla bocca di Socrate nel Fedro, è tut­ ta giocata sul verbo kulindo, «rotolare», il quale viene efficacemente a significare il libro in forma di rotolo che, nel suo itinerario verso i lettori, metaforicamente «si rotola» in ogni direzione, mentre il suo «parlare», legein, non può che riferirsi alla lettura orale, ad alta voce (e che perciò è meglio indicare d'ora in avanti con l’espressione «let­ tura vocale»). Continua Platone, «se il logos scritto viene offeso (plemmeloumenos) o viene ingiustamente attaccato, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre; esso infatti non è capace di respingere un attac­ co o di difendersi da sé» (Fedro, 275d 4 e 5); frase in cui l’uso del verbo plemmeleo, alla lettera «stonare nell’esecuzione musicale», adom­ bra a sua volta una lettura nella quale l’interpretazione vocale, ove «stonata», vale a dire non consona all’intento dell’autore, può travi­ sare e perciò offendere il discorso scritto. Il passo di Platone suscita, direttamente o indirettamente, anche altre questioni fondamentali per la storia della lettura nel mondo gre­ co classico. Si deve riflettere, innanzi tutto, sul rapporto tra i sistemi di comunicazione nei termini non soltanto di oralità/scrittura ma al­ l’interno della stessa oralità, che viene a porsi in maniera diversa se­ condo che essa si esprima come discorso meramente parlato o come resa vocale di uno scritto da parte di un individuo-lettore. U discorso parlato — quello inteso da Platone come «discorso di verità», utile al processo cognitivo — sceglie i suoi interlocutori, può studiarne le reazioni, chiarirne le domande, contestarne gli attacchi. Il discorso scritto, invece, è come un dipinto: se gli si rivolge una domanda, non risponde, e non fa altro che ripetere se stesso all’infinito. Diffuso su un supporto materiale, inerte, lo scritto non sa a chi deve rivolgersi perché in grado di intenderlo, e a chi non deve parlare perché incapa­ ce di recepirlo: non sa insomma chi, nel suo diffondersi incontrolla­ to, gli fornirà lo strumento della voce, chi ne farà emergere un senso mediante la lettura. Ogni lettura costituisce dunque un’interpretazione diversa del testo, direttamente condizionata dal lettore. In positivo — nonostante le riserve di Platone —- il libro gode della libertà di «rotolarsi» in ogni direzione, e si presta ad una lettura libera, ad una interpretazione e ad un uso del testo liberi.

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Questa novità di un libro che veicola un logos scritto, destinato alla lettura, ha altre implicazioni. E il momento, questo, in cui viene a restringersi la divaricazione — quale si ricostruisce per la Grecia dal secolo VI fino al tardo V a.C. — tra una scarsa presenza del libro e, di contro, una piuttosto larga diffusione dell’alfabetismo e di prati­ che di lettura di iscrizioni ufficiali o private fors’anche al livello dei ceti urbani inferiori. Si tratta di una divaricazione che tocca, più in profondità, la funzione stessa della scrittura in quest’epoca. La pro­ duzione di scritte esposte alla pubblica lettura e soprattutto le manie­ re formali di esposizione e le tipologie di messaggio di queste scritte costituiscono uno degli aspetti qualificanti della democrazia ateniese a partire dalla sua istituzione (508/507 a.C.). Se, come scrive Jesper Svenbro, la scrittura è «posta al servizio della cultura orale [...] per contribuire alla produzione di suono, di parole efficaci, di gloria riecheggiante», questa funzione riguarda la composizione scritta nella fase di «auralità» (pubblicazione orale) del­ la produzione testuale greca: si tratta soprattutto di epica o più lata­ mente di opere in versi; e in questa categoria possono rientrare anche iscrizioni o microtesti iscritti su oggetti. Ma la funzione della scrittu­ ra, e del libro in particolare, fu anche altra; e fu quella della conserva­ zione del testo. La Grecia antica ebbe netta coscienza che la scrittura era stata «inventata» per fissare i testi e richiamarli, così, alla memo­ ria, in pratica conservarli. Sicure in questo senso si dimostrano testi­ monianze antiche relative ad esemplari di opere, poetiche o scientificofilosofiche, dedicate e conservate nei templi, così come all’uso della sphregiSy il «sigillo» dell’autore traguardato a garantire l’autenticità te­ stuale dell’opera, che si giustifica solo, perciò, nella prospettiva di un libro destinato a conservare piuttosto che a far risuonare il testo scritto (anche se non se ne possono escludere forme di lettura pubblica ad alta voce, magari da parte dell’autore stesso). Il tardo secolo V a.C. sembra segnare la linea di demarcazione tra un libro destinato quasi soltanto alla fissazione e conservazione dei testi e un libro destinato alla lettura7. Le illustrazioni vascolari atti­ che di quest’epoca documentano la transizione da scene che mostra­ no libri come testi d’uso scolastico, e dunque adoperati a fini educa7 Basta qui rimandare al classico lavoro di E.G . Turner, Athenian Books in the Fifth and Fourth Centuries B.C ., London 1977 [trad. it. I libri nelVAtene del V e IV secolo a.C. y in Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica a cura di G. Cavallo, Roma-Bari 19922, pp. 5-24].

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zionali ad un qualche livello, a scene di lettura vera e propria nelle quali compaiono figure prima solo maschili ma ben presto anche di donne-lettrici. Queste figure non sono isolate, ma appaiono in conte­ sti rappresentativi di trattenimento e di conversazione, segno che la pratica della lettura era intesa soprattutto come occasione di vita so­ ciale (o associativa). Pur non sconosciuta, la lettura tutta individuale risulta rara, almeno a giudicare dalle scarse — assai scarse, anzi — testimonianze superstiti, iconografiche o letterarie. Un’altra questione inerisce alla modalità della lettura ad alta vo­ ce, la più diffusa in tutto l’arco dell’antichità. E ’ stato rilevato ch’essa riposa sulla necessità di rendere comprensibile al lettore il senso di una scriptio continua indistinta e inerte senza il suono vocale. Ma ugualmente è testimoniata fin da età molto antica una lettura silen­ ziosa8. È da chiedersi, da una parte, fino a che punto le due pratiche differiscano ai fini della lettura di una scriptio continua, e da un’altra se le due pratiche non siano state sempre compresenti e non dipenda­ no soltanto dalle situazioni di lettura. Le prime testimonianze di Euripide e di Aristofane inerenti ad una lettura silenziosa risalgono alla fine del V secolo a.C. e riguarda­ no oggetti diversi dal libro (un messaggio su tavoletta ed un responso oracolare). Si tratta di testimonianze sicure. Ma è da domandarsi se a quella stessa epoca, in certe situazioni, non sia stata praticata anche una lettura silenziosa del libro. «Quando a bordo della nave leggevo per me stesso YAndromeda» (di Euripide, rappresentata nel 413), con­ fessa Dioniso nelle Rane di Aristofane (vv. 52-3); ed ancora: «nella solitudine voglio leggere (dielthein) questo libro per me stesso», escla­ ma il protagonista in un frammento del Paone di Platone comico (fr. 173, 1-5 Kock), all’incirca contemporaneo di Aristofane, mentre poi, distratto dall’intervento di un interlocutore incuriosito, su richiesta di quest’ultimo, gli comincia a leggere ad alta voce il suo libro, un trattatello di arte culinaria. Non si può escludere che in questi casi l’espressione pros emauton, «per me stesso», rinvìi ad una lettura non solo individuale ma anche silenziosa, ad una voce lettrice tutta inte­ riorizzata e perciò rivolta solo a se stessi. Si deve qui cogliere anche un’altra dimensione della lettura: alla Grecia antica non erano evidentemente sconosciute letture in viaggio e quindi, in qualche modo, «di intrattenimento», al di fuori di obblighi 8 B.M.W. Knox, Silent Reading in Antiquity, «Greek, Roman and Byzantine Stu­ dies», IX (1968), pp. 421-35.

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professionali, pur se Dioniso, dio strettamente connesso alla dram­ maturgia, è praticamente impegnato in una lettura che rientra nel suo «mestiere». Ma la questione è di carattere più ampio ed investe il pro­ blema delle fasce di lettori e dell’estensione delle pratiche di lettura a partire dal momento in cui i libri cominciano a diffondersi. Nei dia­ loghi di Platone i logoi scritti che vengono in considerazione sono so­ litamente testi filosofici, quelli che circolavano nell’àmbito della Scuola Accademica9. Ed invero le prime raccolte di libri, anche private, di cui si abbia notizia sono di tipo professionale, come si devono ritene­ re quelle, ad esempio, di Euripide e di Aristotele. Alla stessa epoca, tuttavia, nasceva anche un altro modello di rac­ colta privata di libri. «Vuoi forse diventare rapsodo?», chiede Socra­ te ad Eutidemo; e aggiunge: «si dice, infatti, che possiedi tutto Omero» (Senofonte, Memorabili, IV, 2, 8-10). Eutidemo non vuole diventare rapsodo, ma la domanda di Socrate ha implicazioni altrimenti signifi­ cative: quel che emerge infatti da questo dialogo, riferito da Senofonte, è il legame, scontato per Socrate, tra possesso di certi scritti (grammata) ed esercizio disciplinare o professionale, dalla medicina all’astrologia, dall’architettura e dalla geometria alla rapsodia. Ma Eu­ tidemo, che rifiuta questa obbligata relazione,, desidera solo procurarsi e leggere quanti più libri è possibile: una biblioteca, dunque, non sol­ tanto professionale. Qualche altra testimonianza sembra andare più oltre. NelYEretteo di Euripide i versi «giaccia la lancia [...] e, appeso lo scudo tracio [...], possa io dispiegare la voce delle tavolette onde traggono fama i sapienti» (fr. 60 Austin) non possono che riferirsi ad una lettura — ad alta voce — fuori da ogni implicazione professionale (pur se da tavolette e non da un rotolo). Il libro di arte culinaria di cui in Platone comico indica, d’altro canto, che già a quest’epoca — siamo all’inizio del IV secolo a.C. — circolavano certe letture «di consumo». Il frammento del Paone porta il discorso su alcune maniere di leggere10. Il verbo dierchomai (infinito dell’aoristo dielthein)y qui ado­ perato dal commediografo, indica il leggere con la massima attenzione, 9 Da notare che assai più aperto e favorevole allo scritto è Vatteggiamento di Pla­ tone ove non si tratti di discorso filosofico o «di verità», a quanto rileva, con ampia discussione, G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, Milano 1991, pp. 119-28. 10 Sulle maniere di leggere in relazione ai verbi che le significano si veda — oltre all’articolo di P. Chantraine, Les verbs grecs signifiant «lire», in Mélanges Henri Grégoire, II, Bruxelles 1950, pp. 115-26, e ai lavori di Svenbro — i contributi di G.F. Nieddu, Decifrare la scrittura, «percorrere» il testo: momenti e livelli diversi dell'approccio alla lettura nel lessico dei Greci, «Giornale italiano di filologia», X L (1988), pp. 17-37, e di D.J. Allan, Anagìgnosko and Some Cognate Words, «The Classical Quarterly», n.s., X X X (1980), pp. 244-51.

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«percorrere» il testo in ogni dettaglio, in contrasto — mirato ad otte­ nere l’effetto comico — con la banalità del libro che il protagonista vuol leggere: un modesto trattatello di culinaria. La varietà dei verbi utilizzati dai Greci per indicare il «leggere» implica significati o sfu­ mature di significato diversi almeno nella prima fase del loro definir­ si semantico. Verbi come nemein o i suoi composti ( della «Biblio­ thèque bleue», della literatura de cordel, conserva a lungo i tratti di una pratica rara, difficile, che presuppone l’ascolto e la memorizza­ zione. I testi che compongono il repertorio del commercio ambulan­ te fanno così l’oggetto di un’appropriazione che gioca sul riconosci­ mento (dei generi, delle opere, dei motivi), più che sulla scoperta del­ l’inedito, e che rimane estranea alle aspettative dei lettori frettolosi, insaziabili e scettici. Queste considerazioni portano a mettere in dubbio un’opposizio­ ne troppo semplice e troppo netta fra due stili di lettura. Ma esse non smentiscono, secondo Reinhard Wittmann, la diagnosi che situa nel­ la seconda metà del XVIII secolo una delle rivoluzioni della lettura. Le prove a sostegno di questa ipotesi vengono ben individuate in In­ ghilterra, in Germania e in Francia: la crescita della produzione del libro, che triplica o quadruplica tra l’inizio del secolo e gli anni Ot­ tanta; la moltiplicazione rapida dei quotidiani; il trionfo dei piccoli formati; l’abbassamento del prezzo del libro, dovuto alle contraffa­ zioni; il moltiplicarsi delle istituzioni che consentono di leggere senza acquistare — società di lettura o biblioteche di prestito. Il tema — spes­ so trattato alla fine del secolo da pittori e scrittori — della lettura contadina, patriarcale e biblica, compiuta durante la riunione serale dal padre di famiglia che legge ad alta voce per la famiglia raccolta, esprime il rimpianto per una lettura perduta. In questa rappresenta­ zione idealizzata dell’esistenza contadina, cara all 'élite colta, la lettu­ ra comunitaria viene a significare un mondo in cui il libro è riverito e l’autorità rispettata. Questa figura mitica serve evidentemente a de­ nunciare i gesti ordinari di una lettura contraria, cittadina, negligen­ te, disinvolta. Descritto come un pericolo per l’ordine politico, come un «narcotico» (l’espressione è di Fichte) che distoglie dai veri Lumi, o come una sregolatezza dell’immaginazione e dei sensi, il «furore dei libri» colpisce tutti gli osservatori contemporanei. Esso gioca senza dubbio un ruolo essenziale, ovunque in Europa ma soprattutto in Fran­ cia, nei processi di dissociazione dei sudditi dal loro principe e dei cristiani dalle loro chiese. La trasmissione elettronica dei testi e le maniere di leggere che essa impone segnano, ai giorni nostri, la terza rivoluzione della lettu­ ra avvenuta a partire dal medioevo. Leggere su uno schermo, difatti, non è come leggere da un codice. La nuova rappresentazione dello scritto modifica, in primo luogo, la nozione di contesto, sostituendo alla

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contiguità fisica fra .testi presenti in un unico oggetto (libro, rivista 0 giornale) la loro posizione e distribuzione al? interno di architetture logiche — quelle che governano le basi di dati, gli schedari elettroni­ ci, i repertori e le parole-chiave che rendono possibile l’accesso all’in­ formazione. Essa ridefinisce, in tal modo, la «materialità» delle opere, spezzando il legame fisico che esisteva tra l’oggetto stampato (o ma­ noscritto) e il testo o i testi di cui esso è portatore, e conferendo al lettore — e non più all’autore o all’editore — il dominio sulla suddi­ visione o sulla presentazione del testo che appare sullo schermo. L ’in­ tero sistema di identificazione e di trattamento dei testi viene dunque a trovarsi sovvertito. Leggendo su uno schermo, il lettore di oggi — e, più ancora, quello di domani — ritrova qualcosa della posizione del lettore dell’antichità, che leggeva un volumen, un rotolo. Ma — e la differenza non è sottile — con il computer il testo si svolge verti­ calmente ed è dotato di tutti i sistemi di riferimento propri del codice (paginazione, indice, tavole...). L ’incrocio fra le due logiche operanti nella lettura dei precedenti supporti della scrittura manoscritta e a stampa (ivolumen, codex) indica chiaramente l’istituzione di una rela­ zione del tutto originale ed inedita nei confronti del testo. Tale logica viene ad iscriversi in una completa riorganizzazione dell’«economia della scrittura». Assicurando una possibile simultaneità alla produzione, alla trasmissione e alla lettura di uno stesso testo, e riunendo in uno stesso individuo i compiti, finora sempre distinti, della scrittura, dell’edizione e della distribuzione, la rappresentazio­ ne elettronica dei testi annulla le antiche distinzioni che separavano 1 ruoli intellettuali e le funzioni sociali. Di colpo, essa obbliga a ride­ finire tutte le categorie che informavano sino ad ora le aspettative e le percezioni dei lettori. Ciò vale per i concetti giuridici che defini­ scono lo statuto della scrittura (copyright, proprietà letteraria, diritti d’autore...); le categorie estetiche che, a partire dal secolo XVIII, ca­ ratterizzano le opere (integrità, stabilità, originalità); i principi nor­ mativi (deposito legale, biblioteca nazionale) e biblioteconomici (catalogazione, classificazione, descrizione bibliografica), stabiliti in funzione di modalità diverse di produzione, conservazione e comuni­ cazione dello scritto. Nel mondo dei testi elettronici, due costrizioni, ritenute fino ad oggi imperative, possono essere eliminate. La prima è quella che limi­ ta strettamente i possibili interventi del lettore nel libro. Dal XVI secolo in poi, vale a dire dall’epoca in cui il tipografo si è assunto la responsabilità dei segni, dei marchi e dei titoli che all’epoca degli

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incunaboli erano aggiunti manualmente sulla pagina stampata dal cor­ rettore o dal possessore del libro, il lettore può insinuare la propria scrittura unicamente negli spazi vergini del libro. L ’oggetto stampato gli impone la sua forma, la sua struttura, i suoi spazi. Esso non pre­ suppone in alcun modo la partecipazione materiale, fisica, di colui che legge. Se il lettore intende, comunque, iscrivere la sua presenza nel­ l’oggetto, egli non può farlo altrimenti che occupando, surrettiziamen­ te, i luoghi del libro trascurati dalla composizione tipografica: con­ tropiatti della legatura, carte lasciate bianche, margini del testo... Con il testo elettronico le cose vanno in maniera diversa. Non sol­ tanto il lettore può sottomettere i testi a operazioni molteplici (può indicizzarli, annotarli, copiarli, spostarli, ricomporli...), ma può, ad­ dirittura, divenirne coautore. La distinzione, immediatamente visi­ bile nel libro a stampa, fra scrittura e lettura, autore del testo e lettore del libro, scompare a favore di una diversa realtà: il lettore di fronte allo schermo diviene uno degli autori di una scrittura a più mani o, quanto meno, si trova nelle condizioni di costituire un testo nuovo a partire da frammenti liberamente ritagliati e montati. Come il pos­ sessore di manoscritti, che poteva riunire in una stessa raccolta, uno stesso libro-zibaldone, opere di natura assai diversa, il lettore dell’età elettronica può costruire a suo piacimento insiemi testuali originali, la cui esistenza, organizzazione e apparenza non dipendono che da lui. E, come se non bastasse, può intervenire in qualsiasi momento sui testi, modificarli, riscriverli, farli propri. In questo modo, l’intero rapporto con lo scritto si trova sovvertito. Al tempo stesso il testo elettronico autorizza, per la prima volta, l’abolizione di un’altra costrizione. Fin dall’antichità, gli uomini del­ l’Occidente sono stati ossessionati dalla contraddizione fra il sogno di una biblioteca universale, che riunisse tutti i testi mai scritti, tutti i libri mai pubblicati, e la realtà, necessariamente deludente, delle bi­ blioteche realmente esistenti che, per quanto grandi esse fossero, non potevano fornire che un’immagine parziale, lacunosa, mutila, del sa­ pere universale. L ’Occidente ha fornito a questa nostalgia dell’esau­ stività impossibile e agognata due figure esemplari e mitiche: la biblio­ teca d ’Alessandria e quella di Babele. L ’elettronica, che permette la comunicazione di testi a distanza, annulla la distinzione, fino ad oggi incancellabile, fra luogo del testo e luogo del lettore. Essa rende pen­ sabile, promesso, il sogno antico. Distaccato dalle sue materialità e dalle sue localizzazioni antiche, il testo nella sua rappresentazione elet­ tronica può teoricamente raggiungere qualsiasi luogo e qualsiasi lettore.

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Supponendo che tutti i testi esistenti, manoscritti o a stampa, fossero trasformati in testi elettronici, la disponibilità universale del patri­ monio scritto diverrebbe possibile. Ogni lettore, dovunque si trovi, alla sola condizione di trovarsi di fronte ad una stazione di lettura collegata con la rete che garantisce la distribuzione dei documenti in­ formatizzati, potrà consultare, leggere, studiare qualunque testo, quali che siano la sua forma e la sua localizzazione originaria. Come mostra Armando Pétrucci, nel nostro mondo contempora­ neo la lettura tradizionale subisce al tempo stesso la concorrenza delPimmagine e la minaccia di perdere i repertori, i codici e i compor­ tamenti inculcati dalle norme scolastiche o sociali. A questa prima crisi se ne aggiunge una seconda, ancora minoritaria e diversamente av­ vertita secondo i Paesi: quella che trasforma il supporto dello scritto e che, di colpo, obbliga il lettore a nuovi gesti e nuove pratiche intel­ lettuali. Dal codice allo schermo, il passo è altrettanto importante di quello compiuto dal rotolo al codice. Con esso, è Pordine dei libri che fu quello degli uomini e delle donne d’Occidente dai primi secoli delPera cristiana ad essere messo in questione. Si affermano o si impon­ gono così nuove maniere di leggere che non è ancora possibile carat­ terizzare totalmente, ma che implicano, indubbiamente, pratiche di lettura senza precedenti.

Tipologia Scandita dalle tre rivoluzioni che ne hanno trasformato le prati­ che fra medioevo e X X secolo, la storia della lettura mette in eviden­ za alcuni modelli principali che si imposero Puno dopo Paltro. Il primo di essi, analizzato in questo libro da Anthony Grafton, può essere qua­ lificato come «umanistico». Esso caratterizza le letture colte delPepo­ ca rinascimentale a partire da una tecnica intellettuale specifica: quella dei «luoghi comuni». Due oggetti costituiscono, al tempo stesso, i supporti e i simboli di questa maniera di leggere. Il primo è la ruota da libri. La sua esi­ stenza è antica, ma i tecnici del Rinascimento si sono sforzati di per­ fezionarla grazie ai progressi della meccanica. Mossa da una serie di ingranaggi, la ruota da libri consente al lettore di far apparire simul­ taneamente di fronte a lui diversi libri aperti, disposti su ciascuno dei leggìi che compongono Papparecchio. La lettura che un tale strumen­ to consente è una lettura di più libri alla volta. Il lettore che la pratica

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è un lettore che confronta, paragona, collaziona i testi, che li legge per estrarne citazioni ed esempi, e che li annota in maniera da ritro­ vare e indicizzare più facilmente i passi che hanno attirato la sua at­ tenzione. Il quaderno dei luoghi comuni è il secondo oggetto emblematico della lettura umanistica. Si tratta, al tempo stesso, di uno strumento pedagogico che ciascuno scolaro o studente si sente in dovere di pos­ sedere e di un complemento indispensabile della lettura erudita. Ap­ prendista o esperto, il lettore copia in fascicoli organizzati per temi e rubriche frammenti di testi che ha letto, distinti secondo il loro in­ teresse grammaticale, il loro contenuto o la loro esemplarità dimostra­ tiva. Composti sulla base di letture, i quaderni dei luoghi comuni che si sostituiscono alle antiche arti della mnemotecnica, possono a loro volta divenire una risorsa per la produzione di nuovi testi. L ’abbon­ danza dei materiali che contengono, e che fanno coesistere citazioni testuali e cose viste, fatti osservati ed esempi letti, nutre l’ideale reto­ rico della copia verborum ac rerum, necessaria ad ogni argomentazio­ ne. Prodotto della lettura erudita, i quaderni dei luoghi comuni costi­ tuiscono nel secolo XVI un vero e proprio genere editoriale, dal mo­ mento che autori prestigiosi (Erasmo, Melantone) e librai-editori li moltiplicano e li specializzano, accumulando opere utilizzabili in di­ ritto, pedagogia, teologia. La lettura che caratterizza la tecnica dei luoghi comuni ha i suoi specialisti: questi lettori «professionisti» impiegati dalle famiglie ari­ stocratiche per accompagnare i figli nei loro studi o per assumere presso i padri i ruoli multipli di segretario, lettore ad alta voce e, secondo il termine di Anthony Grafton e Lisa Jardine, di «facilitator». Ad essi spetta infatti comporre le epitomi e i sunti, le raccolte di citazioni e di estratti che devono aiutare il loro padrone o il loro protettore aristocratico nella lettura dei classici necessari al suo rango o alla sua professione. Ma al di là di questi «professionisti» — spesso vecchi lau­ reati o professori universitari — la lettura fondata sul metodo dei luo­ ghi comuni è condivisa da tutto il pubblico colto. Da questo punto di vista, l’esempio di Jean Bodin è perfettamente esemplare. Da un canto, egli raccomanda a chi vuole conoscere la storia di leggere com­ pilando tre quaderni in cui raccogliere le materie umane, gli avveni­ menti naturali e le cose divine. D ’altra parte, egli stesso sembra pra­ ticare questa tecnica, dal momento che il suo libro pubblicato nel 1596, YUniversae Naturae Theatrum, è interamente costruito a partire dal­ l’accumulo, per ogni questione trattata, di citazioni, osservazioni e

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informazioni organizzate alla maniera di una raccolta di luoghi comu­ ni. Come tale, almeno, il libro è stato letto, come attestano le annota­ zioni marginali ritrovate su certi suoi esemplari, che assegnano i passi distinti dal lettore alle diverse rubriche di una nomenclatura dei luo­ ghi comuni. Rari sono nel Rinascimento i lettori colti che si allontanano da questo modello dominante. Montaigne è uno di essi. I suoi gesti di lettore si oppongono uno per uno a quelli dei lettori eruditi: leggen­ do, egli non tiene alcun quaderno dei luoghi comuni, rifiutandosi di copiare e compilare; non annota i libri che legge per trarne estratti e citazioni, ma fa figurare nell’opera stessa un giudizio globale; infi­ ne, nella redazione degli Essais non utilizza repertori di luoghi comu­ ni, ma compone liberamente, senza attingere a ricordi di lettura o senza interrompere la concatenazione dei pensieri con riferimenti libreschi. Montaigne è dunque un lettore singolare che rifiuta regole e gesti della lettura di studio: non legge mai la notte, non legge mai seduto, legge senza metodo, e la sua biblioteca, ben lungi dall’essere una risorsa aperta e soggetta a spostamenti al pari di tutte le grandi biblioteche umanistiche, costituisce il luogo privilegiato per rifugiarsi al di fuori del mondo. Nulla è più adatto a mostrare l’estraneità di una simile pratica e, per contrasto, la forza dominante del modello cui essa si oppone, che gli sforzi fatti per sottomettere l’estraneità degli Essais a una divisione per loci communes o ad una riorganizzazione tematica che consenta una lettura più agevole al lettore che voglia attingerne estratti ed esempi. L ’irriducibile originalità di Montaigne si percepi­ sce meglio rapportandola alle convenzioni e alle abitudini che hanno governato la lettura erudita del Rinascimento. Le riforme religiose dei secoli XVI e XVII installano in Occiden­ te un secondo grande modello di lettura. Come mostrano i contributi di Jean-François Gilmont e di Dominique Julia, la diffusione su larga scala di un nuovo corpus di testi cristiani modifica profondamente il rapporto dei fedeli con la cultura scritta. Si stabiliscono nuove classi­ ficazioni, ben poco rispettose della classica dicotomia storiografica fra protestantesimo e cattolicesimo. L ’opposizione spesso evocata fra il protestantesimo come religione dello scritto, fondata sulla lettura per­ sonale del testo biblico, e il cattolicesimo come religione della parola e dell’ascolto, e dunque della mediazione ecclesiastica, non è più ac­ cettabile al giorno d ’oggi. In primo luogo, sull’uno e sull’altro versante della frontiera con­ fessionale operano gli stessi dispositivi di proscrizione e prescrizione

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che mirano a indirizzare i fedeli verso i soli testi autorizzati. Certo, le interdizioni non hanno ovunque lo stesso rigore o gli stessi appoggi — si pensi al ruolo giocato nella Chiesa romana dagli Indici dei libri proibiti e le condanne emesse dai tribunali dell’Inquisizione. Ma tut­ te le Chiese si sforzano di trasformare i cristiani in lettori e di appog­ giare ad una produzione moltiplicata di libri di insegnamento, di devozione e di liturgia i nuovi gesti richiesti dalla riforma religiosa. La lettura diviene così, nella sua definizione spirituale e devozionale, interamente determinata dal rapporto con Dio. Essa non trova più il suo fine in se stessa, ma deve nutrire resistenza cristiana del fede­ le, condotto al di là del libro attraverso il libro stesso, portato dai te­ sti decifrati, commentati, decifrati all’esperienza singolare e immediata del sacro. D ’altra parte, il contrasto più grave in materia di lettura cristiana sembra instaurarsi fra il luteranesimo e il cattolicesimo da una parte, e i protestantesimi riformati, calvinista o pietista dall’altra. Al pari del cattolicesimo romano, il luteranesimo, almeno fino alla fine del secolo XVII, non è una religione della lettura individuale della Bib­ bia. Nella Germania luterana, ma anche nell’Europa del Nord, la Bib­ bia è un libro da parrocchia, da pastori o da candidati al ministero, che non deve essere messo nelle mani di quanti rischierebbero di far­ ne una lettura eterodossa e pericolosa. Di qui il ruolo essenziale, nei Paesi luterani e cattolici, della parola clericale e di tutti i libri che hanno il compito di indicare la corretta interpretazione della Scrittura. Ca­ techismi, salteri, storie bibliche (riscritture del testo biblico) costitui­ scono il materiale privilegiato, del resto assai simile da una parte e dall’altra della frontiera confessionale, di questa mediazione di lettura. Nei territori guadagnati al calvinismo e al puritanesimo, la fre­ quentazione personale e familiare del testo biblico ha comportato pra­ tiche di lettura del tutto diverse. La relazione diretta, senza inter­ mediari, fra il fedele e la Parola sacra fa della frequentazione della Bibbia un’esperienza spirituale fondamentale e innalza la lettura del te­ sto sacro a modello di tutte le letture possibili. Fatta a se stessi in silen­ zio o ad alta voce alla famiglia raccolta, praticata in chiesa o nella di­ mensione privata, presente in ogni momento dell’esistenza, la lettura della Bibbia definisce un rapporto con lo scritto di intensità singolare. Questo modello originale di lettura, che può essere visto come la forma compiuta della «lettura intensiva», domina tutti i lettori, religiosi o laici, membri di comunità calviniste o luterane, puritani e, a partire dagli ultimi decenni del XVII secolo, con la seconda Riforma, pietisti.

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La storia delle pratiche di lettura induce quindi a rimuovere Topposizione troppo semplice tracciata fra protestantesimo e cattolicesi­ mo, per mettere piuttosto in evidenza le prossimità per lungo tempo inavvertite fra Chiesa romana e religione luterana, come differenze durevoli alTinterno del mondo della Riforma. Questa storia consente anche di iscrivere nelle società occidentali, in contrasto con i modelli cristiani dominanti, pratiche diverse — ad esempio quelle delle co­ munità ebraiche analizzate in questo volume da Robert Bonfil. Al di là delle differenze che si evidenziano nel rapporto con lo scritto, ciò che queste letture minoritarie, spesso proibite e perseguitate (pensia­ mo alPesempio spagnolo), manifestano è un’appropriazione deviata dei testi, che ricostruisce una tradizione e una religione a partire dai frammenti incontrati nelle opere cristiane che condannano le tesi ere­ tiche. Oltre le stesse comunità ebraiche, queste letture «in profondi­ tà», che decifrano i testi per trovarvi proprio quello che essi mirano a censurare e a obliterare, costituiscono una pratica di difesa per tutti i lettori (protestanti in terra di Controriforma, cattolici nei Paesi ri­ formati, spiriti ribelli in regime di assolutismo...) che un ordine do­ minante si sforza di allontanare dalle opere che nessuno deve leggere. Con la crescita generale dell’alfabetizzazione, l’ingresso nella cul­ tura scritta a stampa di nuove classi di lettori (donne, fanciulli, ope­ rai) e la diversificazione della produzione tipografica, il X IX secolo (oggetto dello studio di Martyn Lyons) conosce una grande dispersio­ ne dei modelli di lettura. Il contrasto è forte, fra l’imposizione di norme scolastiche che tendono ovunque a definire un ideale unico, control­ lato e codificato, della lettura lecita e, d ’altra parte, l’estrema diversi­ tà delle pratiche proprie ad ogni comunità di lettori, dotata di un’antica familiarità con lo scritto o accostatasi solo di recente alla stampa. Certo, non tutti i lettori degli Antichi Regimi occidentali leggevano allo stesso modo e tra i più virtuosi, lettori per eredità, per professione o per abitudine, e i più maldestri, quelli delle stampe degli ambulanti, gli scarti erano grandi. Ma con l’accesso quasi generalizzato alla compe­ tenza di lettura determinato nel secolo X IX , nell’Europa più svilup­ pata, dall’acculturazione allo scritto, a scuola e fuori dalla scuola, la frammentazione delle maniere di leggere e dei mercati del libro (o del quotidiano) instaura, dietro le apparenze di una cultura condivisa, una frammentazione più estrema delle pratiche. La tipologia dei mo­ delli dominanti di rapporto con lo scritto, così come essi si sono av­ vicendati a partire dal medioevo (dal modello monastico della scrit­ tura al modello scolastico della lettura, dalla tecnica umanistica dei

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luoghi comuni alle letture spirituali e religiose del cristianesimo rifor­ mato, dalle maniere popolari di leggere alla «rivoluzione della lettu­ ra» dell’età dei Lumi) cede il passo, nelle società contemporanee, ad una dispersione degli usi che corrisponde a quella del mondo sociale. Con il secolo X IX , la storia della lettura entra nell'età della sociolo­ gia delle differenze.

La lettura fra costrizioni e invenzione La storia della lettura è stata a lungo divisa fra due tipi di approc­ ci: quelli che intendevano modificare o andare oltre la storia lettera­ ria tradizionale; quelli che si fondavano su una storia sociale degli usi dello scritto. L ’estetica della ricezione alla tedesca, la «reader-response theory» all’americana, i lavori fondati sul formalismo russo e ceco, più storici degli strutturalismi francese e americano, sono stati altret­ tanti tentativi per «estrarre» la lettura dall’opera, per comprenderla come un’interpretazione del testo che non è interamente determina­ ta dai concatenamenti linguistici e discorsivi. Su un altro versante, la storia della lettura ha trovato potenti sostegni nella storia dell’alfa­ betismo e della scolarizzazione, in quella delle norme e delle compe­ tenze culturali e in quella della diffusione e degli usi della stampa. Essa è apparsa come il prolungamento possibile, necessario, degli stu­ di classici che hanno disegnato, per diversi siti europei, la congiuntu­ ra della produzione editoriale, la sociologia dei possessori di libri, la clientela dei librai, dei gabinetti letterari e delle società di lettura. L ’analisi bibliografica alla maniera inglese e americana ha propo­ sto un’articolazione possibile fra queste due famiglie di approcci. Da una parte, essa mostra come le forme del libro e le disposizioni della pagina influenzano la costruzione del senso del testo. D ’altra parte, essa raccoglie, sul libro stesso, le tracce della sua circolazione (note di possesso, ex-libris, menzioni di acquisto, di dono, di prestito...), della sua lettura (sottolineature, annotazioni, indici personali, testi manoscritti...). Ciò facendo, essa ricorda che i testi sono sempre co­ municati ai loro lettori in forme (manoscritte o a stampa, scritte o orali) che li sottopongono a determinate costrizioni, senza peraltro distruggere la loro libertà. La storia della lettura che, collettivamente, proponiamo in questo libro si propone di incrociare questi diversi approcci, anche se, be­ ninteso, essa è più storica che letteraria. Essa si pone un duplice obiet­

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tivo: riconoscere le costrizioni che delimitano la frequentazione dei libri e la produzione del senso; inventariare le risorse che la libertà del lettore è in grado di attivare — una libertà sempre delimitata da una rete di dipendenze multiple, ma che può ignorare, modificare o sovvertire i dispositivi destinati a ridurla. Di questi dispositivi, i primi sono quelli istituiti dalla legge e dal diritto. Censure e autocensure, ma anche il regime giuridico che sta­ bilisce il diritto degli autori e quello degli eredi sono altrettanti mec­ canismi che imbrigliano i lettori. Per difetto, privando la maggior parte di essi delle opere proibite, riservate alla minoranza di coloro che, pri­ vilegiati o audaci, sono clienti dei venditori clandestini. Per eccesso, perché i testi espurgati, emendati o rimaneggiati per volontà dei cen­ sori o degli esecutori testamentari si trovano allontanati dalla loro for­ ma primitiva e dall'intenzione del loro creatore. Le strategie editoriali pongono anch’esse dei limiti alle pratiche di lettura. Senz’altro, inventando generi nuovi, allo stesso tempo te­ stuali ed editoriali, e mettendo a disposizione dei meno fortunati edi­ zioni tipografiche a buon mercato (dapprima libri della «Bibliothèque bleue», chapbooksy pliegos sueltos, in seguito quotidiani e collezioni popolari), gli editori propongono al pubblico una gamma sempre più ampia e diversificata di letture possibili. La libertà dei lettori, tutta­ via, non si può esercitare se non all’interno di queste scelte, compiute a partire da preferenze o interessi che non sono necessariamente i lo­ ro. Anche se queste preferenze non sono tutte né sempre soltanto com­ merciali, sono esse a governare le politiche editoriali e a modellare l’offerta di lettura. Questo controllo «a monte» dei lettori, attraverso le decisioni degli editori, avviato all’epoca dell’industrializzazione della stampa, delle concorrenze multiple e dei pubblici nuovi, ha caratte­ rizzato in maniera durevole le società dell’Antico Regime. All’interno dei territori così offerti ai loro percorsi, i lettori s’im­ padroniscono dei libri (o degli altri oggetti stampati), dànno loro un senso, li investono delle loro aspettative. Questa appropriazione non è priva di regole né di limiti. Le prime provengono dalle strategie messe in atto dal testo, che intende produrre effetti, dettare gesti, obbliga­ re il lettore. Le trappole che gli sono tese e in cui deve cadere senza neanche rendersene conto sono concepite in funzione dell’inventiva ribelle che gli viene sempre attribuita. Altri codici di lettura, al tem­ po stesso costrittivi e alternativi, sono forniti dall’illustrazione. Ac­ compagnandosi spesso al testo a stampa, essa istituisce un protocollo di lettura che deve o enunciare insieme ad altri segni, ma in una stessa

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grammatica, ciò che è formulato dallo scritto, o offrire alla vista, in un linguaggio specifico, ciò che la logica del discorso è impotente a mostrare. Tuttavia, in entrambi i casi (che indicano due regimi di fun­ zionamento assai differenziati del rapporto fra testo e immagine), l’il­ lustrazione, incaricata di guidare l’interpretazione, può diventare il supporto di un’«altra» lettura, distaccata dalla lettera del testo, crea­ trice di un suo spazio proprio. Questa dialettica della costrizione e dell’invenzione implica l’incro­ cio fra una storia delle convenzioni che regolano la gerarchia dei gene­ ri, che definiscono le modalità e i registri del discorso, e un’altra sto­ ria, quella degli schemi di percezione e di giudizio propri a ciascuna comunità di lettori. Uno degli oggetti principali della storia della lettu­ ra risiede dunque nell’identificazione degli scarti che, nella lunga dura­ ta, si determinano fra i lettori o i lettori immaginati, designati, previsti dalle opere e, d’altra parte, i loro pubblici molteplici e successivi. Le variazioni della mise en texte delle opere producono anch’esse uno scarto simile. Dipendendo, secondo i casi, dalla volontà dell’au­ tore, dalle scelte dell’editore o dalle abitudini dei tipografi (o dei co­ pisti), le forme date alla presentazione dei testi hanno un duplice significato. Da un canto, esse traducono la percezione che gli artefici dei testi o dei libri hanno delle competenze dei lettori; dall’altro, ten­ dono ad imporre una maniera di leggere, a modellare la comprensio­ ne e a controllare l’interpretazione. Nel manoscritto e nel libro a stampa queste differenze formali, materiali si collocano a livelli di­ versi. In primo luogo la linea di scrittura, con la comparsa nell’alto medioevo della separazione delle parole, che è una condizione essen­ ziale perché sia possibile la lettura silenziosa. La pagina, in secondo luogo, due volte trasformata: nell’epoca più tarda del libro manoscritto, attraverso la scomparsa dei testi collocati nei margini (rubriche, glos­ se, commentari); nei secoli XVI e XVII, attraverso l’apparizione e poi la generalizzazione degli a capo e della divisione in paragrafi. Il libro stesso, infine, cui la tecnica tipografica conferisce la sua identi­ tà, declinata sul frontespizio, e una nuova maneggevolezza assicurata dalla generalizzazione e dalla fissazione del duplice dispositivo della paginazione e dell’indicizzazione. La storia delle pratiche della lettura proposta da questo libro in­ tende incrociare questi approcci diversi, queste diverse maniere di comprendere l’incontro fra i testi e i loro lettori. Un’unica idea fa da filo conduttore a tutti i saggi: fissare sullo studio delle trasformazioni delle maniere di leggere lo sguardo nuovo che si può rivolgere alle

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evoluzioni maggiori (cultuali, religiose, politiche) che hanno sconvol­ to le società occidentali dall’antichità al giorno d ’oggi. Assai presto, nel mondo greco, queste società sono state società dello scritto, del testo, del libro. Dunque, società della lettura. Ma la lettura non è un’in­ variante antropologica priva di storicità. Uomini e donne occidentali non hanno letto sempre alla stessa maniera. Molti modelli diversi han­ no governato le loro pratiche: molte «rivoluzioni della lettura» hanno modificato i loro gesti e le loro abitudini. Sono i modelli e le rivolu­ zioni di cui la nostra opera intende stilare Pinventario e produrre la comprensione. Guglielmo Cavallo

Roger Chartier

S T O R IA D E L L A L E T T U R A

LA G RECIA ARCAICA E CLASSICA: L ’IN VEN ZIO N E DELLA LETTURA SILE N Z IO SA * di Jesper Svenbro

Quando, verso il secolo V ili a.C., la scrittura alfabetica fa la sua irruzione nella cultura greca, essa giunge in un mondo che è già da tempo quello della tradizione orale. Se la parola parlata viene a tro­ varsi così «in principio» — secondo la formula ben nota — essa è for­ se, soprattutto, al potere. Nella Grecia degli inizi la parola parlata regna infatti in maniera incontestabile, specie sotto forma di kleosy «rinomanza», attribuita agli eroi dell’epos da aedi di tipo omerico. Per i Greci dell’età arcaica il kleos è un valore primordiale, un’autentica ossessione. Se l’eroe omerico accetta di morire combattendo è perché spera di guadagnare la «rinomanza imperitura», ed è significativo che il termine tradotto con «rinomanza» o «gloria», vale a dire appunto kleos, abbia il senso basilare di «suono» (come indicano le sue paren­ tele etimologiche nelle lingue germaniche, il tedesco Laut ad esem­ pio). La gloria di un Achille è dunque una gloria per l’orecchio, una gloria sonora, acustica. Al plurale, kleos è difatti la forma tecnica che Omero adopera per designare la propria poesia epica. Nella sua sono­ rità la parola è efficace, è lei a far esistere gli eroi. La valorizzazione del sonoro è rintracciabile anche nella trasfor­ mazione cui i Greci sottopongono l’alfabeto consonantico derivato dai Semiti: come è noto, essi ne ridefiniscono un certo numero di segni per designare le vocali. Per comprendere le ragioni e la prospettiva in cui i Greci si sono appropriati della scrittura fenicia, non è dunque * Questo capitolo riprende la sostanza di due opere cui si rinvia il lettore desidero­ so di un approccio più completo: J. Svenbro, Phrasikleia. Anthropologie de la lecture en Grèce ancienne, Paris 1988 [trad. it. Storia della lettura nella Grecia antica , RomaBari 1991]; Id., L a lecture à haute voix. L e témoignage des verbes grecs signifiant «lire», in Phoinikeia grammata. Lire et écrire en Méditerranée, a cura di C. Baurain, C. Bonnet e V. Crings, Liège-Namur 1991, pp. 539-48.

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fuori luogo tener conto di questa valorizzazione. Può sembrare un pa­ radosso. Che ruolo può avere infatti la «scrittura muta», in una cultu­ ra in cui la tradizione orale si crede in grado di assicurare la propria permanenza senza altro supporto che la memoria e la voce degli uo­ mini? La risposta più semplice sembra essere la seguente: la scrittura servirà precisamente a incrementare la produzione di kleos, ad esem­ pio grazie alle iscrizioni funerarie, che garantiscono al defunto una nuova forma di posterità. In tal modo, la scrittura sarà stata posta al servizio della cultura orale, in una prospettiva che non le è estra­ nea: non per salvaguardare la tradizione epica (benché abbia finito col farlo), ma per contribuire alla produzione di suono, di parole effi­ caci, di gloria riecheggiante. Questa risposta equivale in realtà ad un’ipotesi sulla natura del leggere nella Grecia arcaica: sembra inevitabile pensare che i primi lettori greci abbiano praticato la lettura ad alta voce, dal momento che, in una cultura che valorizza la parola parlata al punto in cui l’hanno fatto i Greci, la scrittura non ha interesse se non nella misura in cui essa prevede una lettura oralizzata. La nostra ipotesi non intende ro­ vesciare l’idea che ci si è da tempo formati sulla lettura antica. Elabo­ rata sulla base di fattori culturali, essa si ricollega piuttosto ad una seconda ipotesi, generalmente accolta, che non è altro che l’estrapo­ lazione di testimonianze di età più recente: se i Greci dell’epoca clas­ sica leggevano ad alta voce, bisogna assumere che i loro antenati facessero la stessa cosa. In mancanza di documentazione, sembra lo­ gico pensare che la lettura ad alta voce costituisca la forma originale della lettura.

Il vocabolario greco della lettura Se, a prima vista, l’assenza di testimonianze che ci informino sul­ la lettura arcaica appare quasi completa, finché attribuiamo la qualifi­ ca di «testimonianze» alle descrizioni dell’atto di lettura o alle reazioni manifestate di fronte ad esso, la situazione cambia non appena consi­ deriamo il vocabolario coniato a partire dall’epoca arcaica per espri­ mere la nozione di lettura. Più esattamente, il greco possiede oltre una dozzina di verbi che significano «leggere», attestati a partire all’incirca dal 500 a. C. Il loro numero così elevato può destare sorpre­ sa: esso si deve forse alla varietà dei dialetti e al fatto che il «periodo di prova» durante il quale tali vocaboli sono entrati in circolazione

J. Svenbro

L a Grecia arcaica e classica: l'invenzione della lettura silenziosa

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e che ha finito col privilegiarne alcuni a scapito di altri non è ancora terminato al momento in cui iniziamo ad incontrarli nelle iscrizioni e nei testi. Sono proprio questi verbi a costituire la nostra principale via di accesso alla logica della lettura arcaica: il significato fondamen­ tale di un certo verbo adoperato nel senso di «leggere» ci indicherà il modo in cui Tatto di lettura è stato pensato nel momento in cui se ne è coniata Paccezione specifica, se non in epoche più tarde. Que­ ste testimonianze sono tanto più preziose quanto più oltrepassano il quadro individuale o occasionale, situandosi al livello del sapere con­ diviso, della langue. Si comprenderà dunque la ragione per cui sarà anzitutto necessario invocare fatti di vocabolario e di grammatica in grado di corroborare Pipotesi circa il carattere vocale della lettura ar­ caica. Un tale modo di procedere costituisce, al tempo stesso, un ri­ chiamo all’alterità del leggere in una cultura profondamente diversa dalla nostra, benché abbastanza vicina da garantire la proficuità del confronto. Disponiamo, dal 1950, di un articolo che Pierre Chantraine ha consacrato ai verbi greci significanti «leggere»1. Articolo utile, che tuttavia si limita allo studio di quattro soli termini. Tra i verbi trascu­ rati dal grande studioso francese ce n’è uno che mi sembra particolar­ mente importante e che ci servirà da punto di partenza, vale a dire nemein, letteralmente «distribuire». A giudicare dalle testimonianze scritte, il verbo è poco frequente nell’accezione di «leggere», e la sua rarità potrebbe in effetti motivarne l’oblio. A parte tre occorrenze nel lessicografo bizantino Esichio, vissuto nel V secolo della nostra era, il verbo non è attestato che una sola volta nella sua forma non composta. E Sofocle (496-406) ad adoperarlo, in un breve frammen­ to conservato precisamente in ragione del suo impiego del verbo che qui ci interessa. Alla vigilia della partenza per Troia, i condottieri greci passano in rassegna le proprie truppe: «Tu che siedi sul trono e tieni in mano le tavolette per scrivere, leggi, nemey la lista per controllare se manca qualcuno di quanti hanno prestato giuramento!»2. Quan­ do Tindaro deve scegliere, fra i numerosi pretendenti convenuti a Spar­ ta, un marito per la propria figlia, li fa giurare tutti di difendere i diritti di colui sul quale sarà caduta la sua scelta. E così che Menelao può contare su un contingente numeroso di eroi dopo che Paride gli ha 1 P. Chantraine, Les verbes grecs signifiant «lire»y in Mélanges Grégoire, II, Bruxelles 1950, pp. 115-26. 2 Sofocle, fr. 144 Nauck2.

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rapito Elena. Il lettore del frammento citato tiene evidentemente in mano la lista dei nomi di coloro che hanno prestato giuramento. La sua lettura — ovvero, letteralmente, la sua distribuzione — rivelerà gli assenti eventuali. Si tratta di una lettura ad alta voce di fronte ad un’assemblea alla quale il contenuto delle tavolette scritte è «di­ stribuito» oralmente. Così il verbo nemein, il cui valore fondamentale è «distribuire», può assumere il senso di «leggere» e, più esattamente, di «leggere ad alta voce». Ma pare che siano state soprattutto alcune forme compo­ ste del verbo a essere impiegate in questa accezione specifica, a co­ minciare da ananemein, comune, secondo il poeta Teocrito, «nel dialetto dorico»3. Questa specificazione è confermata da due attesta­ zioni molto antiche. La prima si trova presso il poeta Epicarmo (530-440 circa), siciliano e dunque di dialetto dorico4; la seconda su un vaso dorico iscritto, trovato in Sicilia e databile ai primi decenni del V secolo5. Esichio conosce anch’egli il medesimo verbo nel sen­ so di «leggere», e così anche un commentatore antico di Pindaro6. In ananemein va dunque riconosciuto, come vuole Teocrito, il verbo do­ rico significante «leggere». Ora, nel dorico, vale a dire a Sparta come in Sicilia, è attestata la forma attiva di ananemein, mentre troviamo la forma media ananemesthai in un’iscrizione in dialetto ionico data­ bile alla prima metà del V secolo, rinvenuta in Eubea. Si tratta della stele funeraria di un tale Mnesiteo, il cui epitaffio comincia così: «Sal­ ve, passanti! Io riposo morto qui sotto. Tu che ti avvicini, leggi [ver­ bo ananemesthai] chi è l’uomo qui sepolto: uno straniero di Egina, di nome Mnesiteo»7. In dorico, la forma attiva ananemein fa del lettore lo strumento al servizio dello scritto: a Sparta non ci si chiede se il lettore recepi­ sca egli stesso il messaggio che «distribuisce» ad altri, osservazione che vale ugualmente per il semplice nemein come per il composto epinemein, attestato nel senso di «leggere» in Esichio. Al contrario, la forma media dello stesso verbo, adoperata nell’epitaffio di Mnesiteo, ha un senso più sottile del semplice «distribuire». Essa significa infatti 3 Teocrito, 18, 47-48. 4 Epicarmo, fr. 224 Kaibel. 5 Cfr. C. Gallavotti, Letture epigrafiche, «Quaderni urbinati di cultura classica», X X (1975), pp. 172-7; B. Forssman, AN N EM O TA in einer dorischen Gefässinschriftt «Münchener Studien zur Sprachwissenschaft», X X X IV (1976), pp. 39-44. 6 Esichio, s.v. annemein ( = ananemein)-, Scolii a Pindaro, III, 222, 16-17 Drachmann. 7 W. Peek, Griechische Vers-Inschriften, I, Berlin 1955, n° 1210, 1-3.

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«distribuire includendosi nella distribuzione»8. Il lettore chiamato sulla scena dall’iscrizione euboica «distribuisce» dunque il contenuto della scrittura non soltanto ai «passanti» evocati dal testo, ma anche a se stesso. In altri termini, le parole pronunciate dal lettore si rivol­ gono agli uditori al pari che al lettore stesso. Al limite, un simile let­ tore può «distribuire» il contenuto dello scritto senza avere alcun ascoltatore: se lo distribuirà da solo, trasformandosi in ascoltatore di se stesso, come se, per comprendere la sequenza grafica, gli occorres­ se vocalizzare le lettere per il proprio orecchio, in grado di coglierne il senso. Per lui, la propria voce si è trasformata in strumento. Riflettendo sul lettore che «autodistribuisce» la scrittura a se stesso e che leggendo compie quella che ci appare senz’altro come una cir­ conlocuzione — sonora — per arrivare al senso, non si sfugge all’im­ pressione che la decifrazione dello scritto si realizzi, da parte sua, con lentezza e con difficoltà. La lettura che egli compie sembra costituire uno sforzo considerevole, sforzo che il prefisso ana-> come suggerisce Chantraine, può avere il compito di esprimere9. Questo carattere la­ borioso della lettura va allora tenuto presente sotto due aspetti, quel­ lo della competenza del lettore e quello della conservazione materiale dello scritto. Quanto al primo punto, sappiamo — grazie a Plutarco — che l’insegnamento delle lettere a Sparta si riduceva allo «stretto ne­ cessario» 10; con tutta probabilità, la situazione in Eubea non era mol­ to diversa. Anche la competenza di chi legge un’iscrizione ai passanti, che si accontenteranno di ascoltarla, può dunque essere stimata come assai relativa. Quanto al secondo aspetto, occorre sottolineare che la lettura di un’iscrizione come quella di Mnesiteo prescinde, in prati­ ca, da segni che separino le parole: le lettere si susseguono nella scriptio continua, il che — come ciascuno può sperimentare — rende la lettura lenta e esitante, provocando inevitabilmente l’intervento del­ la voce. Il verbo nemein si trova dunque al centro di una famiglia lessicale i cui componenti significano «leggere». Al punto che si ha il diritto di chiedersi se nomos, nome d’azione formato su nemein, non abbia il valore basilare di «lettura». Dal punto di vista formale, un’ipotesi del genere non va incontro ad ostacoli. E vero che i nostri dizionari non contengono nulla che suggerisca un simile valore per nomos> abi­ 8 Cfr. E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, I, Paris 1966, pp. 168-75 {A ctif et moyen dans le verbe) [trad. it. Problemi di linguistica generale , Milano 19802]. 9 Chantraine, Les verbes grecques cit., p. 115. 10 Plutarco, Lye., 16,10.

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tualmente tradotto come «legge». Nulla — a parte i nomoi degli uc­ celli in Alcmane, poeta del VII secolo a.C .n . A prima vista, le «me­ lodie» degli uccelli (è questa la traduzione adeguata in questo passo) non sembrano avere molto in comune con le leggi dei legislatori ar­ caici. Ma occorre ricredersi. I nomoi di Caronda, uno dei grandi legi­ slatori della Grecia arcaica, «venivano cantati», secondo l’espressione di un autore antico1112. La distribuzione della legge può dunque assu­ mere una forma cantata. Così uccelli e nomoidoi — «cantori della leg­ ge»13 — sono impegnati in «distribuzioni» perfettamente analoghe. La legge è una distribuzione vocale, che si appoggia da principio sulla memoria, più tardi sulla scrittura. Ciò è conforme al duplice signifi­ cato di nemein e ananemesthaì. Questi due verbi, infatti, possono ri­ ferirsi ad una distribuzione vocale fondata sulla memoria, quando si «cita» un detto in Simonide (verbo: nemein) o si «recitano» genealo­ gie in Erodoto (verbo: ananemesthaì:)14. Come si è visto, gli stessi ver­ bi possono ugualmente riferirsi ad una distribuzione vocale fondata su un testo scritto, come la lettura di una lista o di un’iscrizione. Nel VII secolo a. C., i re beoti descritti da Esiodo «distribuiscono» (ver­ bo: nemein) la giustizia, che, come ci dice Esiodo stesso, è una giusti­ zia da «ascoltare», una giustizia distribuita oralmente15. Non le man­ ca che un supporto scritto perché la sua «distribuzione» divenga una lettura. La distribuzione orale cui nemein e nomos fanno riferimento può quindi essere una distribuzione che si appoggia sulla memoria al pari che sulla scrittura, dunque una recitazione a memoria tanto quanto una lettura ad alta voce. Il nomos si adatta ad una situazione altret­ tanto orale che scritta. Non è così, al contrario, per il caso del termi­ ne che designa a Sparta la «legge», vale a dire rhetra. Sappiamo infatti, grazie a Plutarco, che a Sparta era proibito fissare la legge mediante la scrittura16. E logico dunque che il termine indicante la legge deri­ vi dal verbo eirein, «dire». Inversamente la legge, a Roma, sembra im­ plicare qualcosa di scritto. Lex è nome d’azione di legere, «leggere», e ha dunque il valore fondamentale di «lettura»17 (senza l’ambiguità osservabile in nomos). Otteniamo così il seguente schema: 11 12 13 14 15 16 17

Alcmane, fr. 40 Page. Ermippo, fr. 88 Wehrli. Per il magistrato qualificato come nomoidos cfr. Strabone, X II, 2, 9. Simonide, fr. 37, 11-12 Page; Erodoto, I, 173. Esiodo, op., 224 e 213. Plutarco, Lyc.y 13, 1-4. A. Magdelain, L a loi à Rom ey Paris 1978, p. 17.

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oralità oralità /scrittura scrittura

eirein, «dire» nemein, «recitare/leggere» legere, «leggere»

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rhetra nomos lex

Cosa ha indotto i Romani ad adottare il termine legere («coglie­ re») nel senso di «leggere»? Per rispondere a questo interrogativo bi­ sogna senz’altro tener conto del fatto — per quanto non riconosciuto dai dizionari — che il greco legein può avere il senso di «leggere». Si pensi alla frase del Teeteto di Platone: «Orsù, schiavo, prendi il libro e leggi (lege)!»18. O ancora alla formula lege ton nomom, «leggi la leg­ ge», frequente negli oratori del IV secolo a .C .19. E se lego significa «io leggo», si ha il diritto di ritenere che i Romani abbiano ripreso questo termine dei Greci nel ricalcare il proprio alfabeto sul loro. Co­ sa di più naturale, allora, che impiegare l’omofono latino lego (il cui imperativo lege suona perfettamente greco) come termine tecnico per «leggere»? In tal caso, il valore di «raccogliere» non sarebbe essenzia­ le per la semantica del latino legere, «leggere», malgrado il ruolo gio­ cato successivamente. Come nemein, legein può dunque avere il significato di «leggere». E di nuovo, sono soprattutto i composti del verbo semplice ad incon­ trarsi nel senso di «leggere», a cominciare da analegeiny attestato in un’iscrizione di Téos, degli anni 470-46020, e da analegesthai, le cui occorrenze sono più tarde21. Quanto si è osservato a proposito del prefisso ana— come della differenza fra ananemein e il medio ananemesthai — vale evidentemente anche per questi due verbi e il paralle­ lismo rafforza al tempo stesso il significato, per nemein, di «distribuire oralmente» e di «leggere». Nemein e legein sono infatti ciascuno al cen­ tro di una famiglia lessicale simmetrica all’altra e i cui componenti significano tutti «leggere», benché con sfumature differenti. Perché la famiglia di legein, «leggere», sia completa, occorre inte­ grarvi tuttavia un componente importante, vale a dire epilegesthai. Fre­ quente in Erodoto, scrittore di dialetto ionico del V secolo a.C., questo verbo significante «leggere» non è impiegato altrimenti che nella for­ ma media (come il suo parallelo epinemein, «leggere», si incontra uni­ 18 Platone, Tht.y 143c. 19 Cfr. Demostene, X X I, Mid., 8, 10 ecc. 20 P. Herrmann, Teos und Abdera im 5. Jahrhundert v. Chr., «Chiron», X I (1981), pp. 8 e 11. 21 Chantraine, Les verbes grecs cit., p. 126.

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camente all'attivo)22, forma che si spiega alla stessa maniera dei me­ di ananemesthai e analegesthaiy «distribuire includendosi nella distri­ buzione» e «leggere includendosi nella lettura». Il medio implica che il lettore legga ad alta voce per degli ascoltatori eventuali come per se stesso. Quanto al valore di epilegesthai, questo verbo significa let­ teralmente «aggiungere un dire a». Il lettore aggiunge la propria voce allo scritto, in se stesso incompleto. La scrittura è reputata bisognosa del legein o del logos che il lettore le aggiunge; senza lettore essa è destinata a rimanere lettera morta. La lettura si sovrappone dunque allo scritto come un «epi-logo». Otteniamo in tal modo il seguente schema, di una simmetria al­ quanto sorprendente: epinemein

ananemein ananemesthai

nemein

legein analegesthai

anakgein epilegesthai

Ma il verbo che viene subito alla mente quando ci si domanda qual è l'equivalente greco di «leggere» è senz'altro anagignoskein, at­ testato per la prima volta in Pindaro, in un poema databile probabil­ mente al 474 a.C .23. Se ananemein è infatti il verbo principalmente usato in dorico, mentre epilegesthai è frequente in ionico, anagigno­ skein è il verbo che significa «leggere» ad Atene. In dialetto attico leggere equivale dunque, letteralmente, a «riconoscere», poiché è que­ sto il senso fondamentale di anagignoskein. Scrive Chantraine: «Que­ sto verbo si adatta bene a significare leggere, vale a dire riconoscere i caratteri e decifrarli»2425. Un'interpretazione che è, in sostanza, quel­ la fornita dal prestigioso dizionario Liddel-Scott-Jones, ma che — a mio avviso — non è sostenibile. Il riconoscimento cui il verbo fa ri­ ferimento non è quello del singolo segno alfabetico, indicato in greco con il termine gramma. Sappiamo tutti che la lettura non si riduce alla semplice identificazione delle lettere dell'alfabeto. Si possono «conoscere le lettere» — ta grammata epistasthai25 — senza essere in grado di leggere. Evocherò un esempio moderno per illustrare la ma­ niera in cui ritengo sia da intendere il «riconoscimento» nell’àmbito della lettura. 22 23 24 25

Esichio, s.v. epineimato. Pindaro, ol.} 10,1. Chantraine, Les verbes grecs cit., p. 115. Per l’espressione cfr. Ippocrate, salub ., I, 23.

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« doukipudonktan», leggiamo sulla prima pagina di Zazie nel mè­ tro di Raymond Queneau. Se teniamo conto della nostra maniera co­ mune di leggere ci troviamo di fronte a molte anomalie: 1. la frase è stampata in scriptio contìnua (tratto caratteristico della scrittura gre­ ca); 2. essa è trascritta non in maniera etimologica, come è la regola in francese, bensì in maniera fonetica (il che è normale in greco); 3. essa appartiene sintatticamente alla lingua parlata (come è il caso di qualunque frase greca anteriormente alla formazione di un idioma scrit­ to sensibilmente diverso dal parlato). Per queste tre ragioni, il lettore francese si sente spaesato quando si imbatte per la prima volta nella frase doukipudonktan. In effetti, egli si trova in una situazione si­ mile a quella del lettore nella Grecia arcaica: solo facendo intervenire la propria voce — l’esperienza lo dimostra — egli è in grado di «rico­ noscere» ciò che a prima vista è opaco. Il suo occhio (qui termina l’a­ nalogia) avrebbe naturalmente preferito la versione seguente, normalizzata, della stessa frase: «[C’est] d’où qu’ils puent, donc, tant?», ossia «Donde mai dunque puzzano tanto?». In altri termini, il ricono­ scimento in questione è quello della sequenza grafica (e non della sin­ gola lettera). Più esattamente: il riconoscimento della sequenza grafica come propria del linguaggio parlato. Il lettore che pronuncia la sequenza doukipudonktan per la pri­ ma volta la riconosce grazie al suo orecchio come appartenente al lin­ guaggio, dicendosi forse: «Ah! Ecco cosa voleva dire!». Già prima di aver operato questo riconoscimento al tempo stesso orale e aurale, egli è stato in grado di identificare le lettere, notando la strana presenza di due K, ma questa identificazione puntuale non è ancora una lettu­ ra. Il momento decisivo, il momentadel riconoscimento, è quello in cui le lettere, a prima vista opache quanto al loro senso e perciò del tutto simili a lettere scelte a caso, si rivelano portatrici di significato — grazie alla voce lettrice. E il momento in cui, nella prospettiva gre­ ca, i segni alfabetici si trasformano in stoicheia, «elementi costitutivi del linguaggio», ovvero, più precisamente, «lettere formanti una se­ quenza»26. Pronunciando le lettere, il lettore riconoscerà se esse co­ stituiscono o meno una sequenza intelligibile. Accanto a questi verbi significanti «leggere», il greco antico ne possiede in effetti alcuni altri, il cui significato non si lascia ricondur­ re, a prima vista, alla lettura oralizzata. Dopo l’età arcaica, la realtà della lettura può essere espressa da verbi che significano letteralmente 26 Anecdota graeca , II, 793-795 Bekker; cfr. Liddell-Scott-Jones, s.v. stoicheìon ,

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«srotolare» [anelissein)21 — in questo caso un libro — ovvero «per­ correre» (diexienaï)2*y o ancora «imbattersi, avere dei rapporti con» (ientynchanein e syngignesthaì)23. Ma nella loro maggioranza i verbi greci significanti «leggere» testimoniano con insistenza la prassi di una lettura oralizzata, legata indubbiamente al fatto che si leggeva normal­ mente poco e senza facilità, ma soprattutto alla valorizzazione estrema del logos sonoro, questo «principe» — come lo definirà il sofista Gor­ gia2728930 — in una cultura che del nomos ugualmente sonoro fa un «re»31.

La triplice lezione dei verbi significanti «leggere» Nell'esame cui abbiamo sottoposto i verbi significanti «leggere», sia­ mo riusciti ad individuare almeno tre tratti caratteristici della lettura nella Grecia antica, tratti dei quali conviene qui sottolineare l’impor­ tanza. Il primo è la natura strumentale del lettore o della voce lettrice, constatato nell’analisi di nemein e dei suoi composti. Il secondo è il carattere incompleto della scrittura, la quale — si è rilevato — ha biso­ gno di essere sonorizzata, fatto di cui è testimone il verbo epilegesthai. Il terzo fenomeno scaturisce logicamente dai primi due. Se infatti la voce del lettore è lo strumento grazie al quale la scrittura si realizza nella sua pienezza, ne consegue che i destinatari dello scritto non sono lettori nel senso stretto del termine, bensì «uditori», come li definisco­ no i Greci stessi. Gli «uditori» del testo, akouontes o akroataiy non so­ no i suoi lettori, come sostengono i nostri dizionari. Eccezion fatta per il lettore «che si include nella sua lettura» e che sente la propria stessa voce, essi non leggono assolutamente nulla. Non fanno che ascoltare una lettura, come i «passanti» dell’epitaffio di Mnesiteo. Soffermiamoci anzitutto sul carattere incompleto — dal punto di vista greco — della scrittura. Se è vero che la lettura è necessaria af­ finché il testo acquisti completezza, la conseguenza logica è che la let­ tura fa parte del testo. Tale constatazione si connette ad una frase che costituisce il punto di partenza della Rhétorique de la lecture di 27 Senofonte, mem ., I, 6, 14. 28 Esopo, 276 Chambry. 29 Su questi due verbi cfr. Chantraine, Les verbes grecs cit., risp. pp. 122-6 e 118. Per l’accezione «avere dei rapporti con» cfr. Plutarco, Sol ., 20, 4 e Senofonte, anab ., I, 2, 12 ecc. 30 Gorgia, fr. 11, 8 Diels-Kranz. 31 Pindaro, fr. 152 Bowra ecc.

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Michel Charles: «Ci si atterrà qui a questo fatto essenziale: la lettura fa parte del testo, vi è iscritta»32. Come si adatta questa concezione alla situazione della Grecia antica? In che modo Patto sonoro può far parte di quello che per noi è un evento muto? In che senso Puno è compreso nell’altro? Bisogna anzitutto evocare il carattere materiale che lo scritto assume in Grecia, dal momento che abbiamo constatato che la scriptio continua rende la vocalizzazione praticamente inevita­ bile. L ’assenza di uno spazio indicante la separazione fra le parole, oltre che di un’ortografia normalizzata, trasforma ogni lettura in un’e­ sperienza sonora. Questa assenza programma dunque, per contrasto, la lettura oralizzata, che, di conseguenza, si trova iscritta nel testo. Ma occorre andare più lontano. Giocando sull’etimologia della paro­ la «testo» (dal latino textusy«tessuto») direi che tutto accade qui come se il testo fosse composto da un ordito scritto e da una trama vocale, che si uniscono nella lettura e successivamente si disfanno. In una con­ cezione simile, che credo fedele all’esperienza antica della lettura, il testo sarebbe non un oggetto statico, bensì il nome della relazione dinamica fra scrittura e voce, fra scrittore e lettore. Il testo diverreb­ be, in tal modo, la realizzazione sonora dello scritto, questo scritto incapace di distribuirsi o di dirsi senza la voce del lettore. Ma se lo scritto è incompleto in assenza della voce, ciò significa anche che esso deve appropriarsi di una voce per realizzarsi piena­ mente. L ’abbiamo visto: lo scrittore conta sull’arrivo di un lettore pron­ to a mettere la propria voce al servizio dello scritto, al fine di distribuirne il contenuto ai passanti, agli «uditori» del testo. Egli conta su un lettore che seguirà l’imposizione della lettera. Leggere è dun­ que mettere la propria voce a disposizione della scrittura (in ultima analisi, dello scrittore). E cedere la propria voce, per l’attimo di una lettura. Voce che lo scritto subito fa propria, vale a dire che essa non appartiene al lettore durante la lettura. Egli l’ha ceduta. La sua voce si assoggetta allo scritto, vi si unisce. Essere letto significa, di conse­ guenza, esercitare un potere sul corpo del lettore, anche ad una gran­ de distanza nello spazio e nel tempo. Lo scrittore che riesce a farsi leggere agisce sull’apparato vocale altrui, di cui si serve, anche dopo la propria morte, come di un instrumentum vocale, cioè come di qual­ cuno o di qualcosa al suo servizio, di uno schiavo. In una cultura in cui l’assenza di limitazioni è ritenuta una carat­ teristica fondamentale del cittadino, una simile concezione della let­ 32 M. Charles, Rhétorique de la lecture, Paris 1977, p. 9.

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tura è destinata evidentemente a causare problemi. Per partecipare alla vita della città, il cittadino deve essere eleutheros, «libero, privo di costrizioni». Difatti, l’Ateniese che si prostituisce e che vende in tal modo la propria autonomia non può più prendere la parola in Con­ siglio o in Assemblea: se lo fa, è condannato a morte, come apprendia­ mo dall’oratore Eschine33. Come ha ben dimostrato Michel Foucault, questa concezione del cittadino entra soprattutto in conflitto con la pratica della pederastia, nella misura in cui quest’ultima definisce i due amanti in termini di dominio e di sottomissione: futuro cittadi­ no, l’adolescente si assoggetta al piacere del partner adulto34. Fatto che rischia di squalificarlo moralmente, se egli non dà prova di rite­ gno, evitando di identificarsi con il proprio ruolo. Se il ragazzo cede all’amante, non deve farlo pertanto in nome del proprio piacere, ma di quello del suo partner. Non deve identificarsi con il suo ruolo di strumento. Giacché, in rapporto al pederasta, egli ha lo stesso ruolo strumentale che ha il lettore in rapporto allo scrittore, al punto che i Greci hanno potuto pensare la comunicazione scritta nei termini della relazione pederastica, già a partire dall’iscrizione dorica di cui si è trattato35. Tale iscrizione non fa altro che tentare una definizione della natura del leggere, una delle prime a noi note: «Chi scrive que­ ste parole inculerà, pygixei, chi ne darà lettura». Leggere equivale qui a trovarsi nel ruolo del pederasta passivo, oggetto di disprezzo, mentre chi scrive si identifica con il pederasta attivo, dominante e valorizzato. Il disprezzo del lettore, di cui dà prova questa metafora — che non è isolata — spiega senz’altro il motivo per cui la lettura era de­ mandata volentieri ad uno schiavo. La funzione di costui è infatti pre­ cisamente quella di servire e di sottomettersi. Lo schiavo è uno strumento, uno «strumento dotato di voce». Prendiamo la rappresen­ tazione del Teeteto: in questo dialogo platonico sarà lo schiavo di Euclide a leggere il logos che il suo maestro ha messo per iscritto. Terpsione ed Euclide medesimo saranno i due uditori di questo logos letto dallo schiavo. Al tempo stesso, la tendenza a svalutare il compito del lettore spiega la relativa resistenza nei confronti della lettura, di cui è prova il fatto che l’insegnamento delle lettere doveva limitarsi allo 33 Eschine, Tim., con le analisi di K J . Dover, Greek Homosexuality , New York 1978 [trad. it. L'omosessualità nella Grecia antica , Torino 1985]. 34 M. Foucault, Histoire de la sexualité , II, L'usage des plaisirs , Paris 1982, pp. 205-69 [trad. it. Storia della sessualità , II, L'uso dei piaceri, Milano 19913]. Ivi, p. 4 e n. 5.

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«stretto necessario», a Sparta e senza dubbio anche altrove. La lettu­ ra non è dunque del tutto incompatibile con il ruolo del cittadino, ma si ha l’impressione che debba praticarsi con una certa moderazio­ ne, per non trasformarsi in un vizio: chi legge non deve eccedere nelPidentificarsi con il ruolo del lettore se vuole mantenersi libero, vale a dire libero dalle costrizioni imposte da altri. Meglio restare ta grammata phaulos, «debole nella lettura», per riprendere l’espressione di Socrate36, cioè capace di leggere, ma niente più.

L '«io» e la voce Tentiamo anzitutto una definizione del problema. Se per dire la verità è necessario parlare «con parole proprie», en idiots logois — al­ tra espressione socratica37 — cosa pensare allora del lettore arcaico il quale, ad alta voce, decifra un’iscrizione del tipo «io sono la tomba di Glaukos»38 di fronte ad un gruppo di ascoltatori? Più tardi, i poeti comici si mostreranno sensibili a questo genere di situazioni equivo­ che, ovvero alla possibilità di una confusione tra enunciato letto ed enunciato proveniente dal lettore in persona; verosimilmente, questo fenomeno è già apparso con le prime iscrizioni in cui l’oggetto iscrit­ to si designa come «io», vale a dire le primissime iscrizioni greche, dell’V ili secolo a.C. Il lettore dell’iscrizione menzionata prende in bocca un «io» che non è il proprio. Questo «io», essendo indeclinabi­ le, non è modificabile dicendo: «Egli pretende di essere la tomba di Glaukos». Non sarebbe una lettura. Al contrario, bisogna pronuncia­ re l’iscrizione così com’è. Se il lettore lo fa, si pone effettivamente al servizio dello scritto, cui ha ceduto il proprio apparato vocale, il proprio corpo, la propria voce. Gli appartiene. Pertanto non vi è con­ traddizione poiché, secondo il ragionamento qui proposto, la voce che dice «io» appartiene allo scritto, fa corpo con esso, vi si unisce per il tempo di una lettura. Nessuna contraddizione, ma certo una forma di violenza, contro la quale non esiste che una sola arma: il rifiuto di leggere. L ’impiego della prima persona designante l’oggetto iscritto è tal­ mente sorprendente e allo stesso tempo talmente comune nelle iscri­ 36 Platone, Pbaedr., 242c. 37 Platone, rep.y II, 9, 366e. 38 G. Pfohl, Greek Poems on Stones, I, Epitaphs. From the Seventh to the Fifth Cen­ tury , Leiden 1967, n ° 15.

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zioni greche da esigere una riflessione approfondita. Se essa infatti denota l’asservimento del lettore allo scritto, il suo significato non si esaurisce in questa funzione. Tale uso rivela infatti una maniera singolare — condivisa da tutta una cultura — di pensare il rapporto tra scrittore, oggetto iscritto e lettore. Questa maniera di pensare può riassumersi nel modo seguente: l’oggetto iscritto si definisce utiliz­ zando la prima persona, mentre lo scrittore adopera la terza (è infatti solo a a partire dal 550 a.C. che si cominciano ad incontrare oggetti i quali si designano, esplicitamente, alla terza persona, come per ma­ scherare la violenza, reale, marcata dall’«io»). Si può citare come esem­ pio un'anfora del VI secolo: «Kleimachos mi ha fatto e io gli appar­ tengo, ekeìnou eimi» }9. Al momento della lettura, Kleimachos non sa­ rà più lì, sarà assente, fatto che il dimostrativo ekeinos esprime con precisione (ekei-nos è il dimostrativo di terza persona, indicante che la persona non è «qui», ma «là», ovvero «nell'aldilà»: ekei). L'anfora, al contrario, sarà lì: nessuno meglio di essa può aspirare all'«io» dell'i­ scrizione. Kleimachos non può. Egli scrive sulla propria anfora per­ ché prevede la propria assenza nel futuro (nel caso contrario, non varrebbe la pena di scrivere). Si designa come assente a partire dal momento in cui avrà vergato l'iscrizione. Il resto avverrà fra l'anfora scritta e il lettore, posti l'uno di fronte all’altra come «io» e «tu». In virtù delle loro iscrizioni in prima persona, la tomba di Glaukos e l’anfora di Kleimachos appartengono ad una categoria di ogget­ ti da tempo individuati come «oggetti parlanti». Autore di un con­ tributo classico dedicato a tali oggetti (1962), Mario Burzachechi ha tentato una spiegazione della scelta sorprendente della prima persona per designare l’oggetto iscritto3940. Una spiegazione animista, dal mo­ mento che, secondo Burzachechi, il fatto di attribuire un'anima ed una voce agli oggetti sarebbe tipico delle civiltà primitive, mentre so­ lo a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. «si comincia a nota­ re una certa razionalizzazione della statua, che perde il suo antico alone di magia». Ma il principio di questa categorizzazione si colloca ad un altro livello: esso risiede nel rapporto stabilito tra la voce e la prima persona che designa l’oggetto iscritto (unico criterio di selezione del corpus). Definendosi con un «io» o, talvolta, con un «noi», questi og­ getti sono qualificati come «parlanti». L ’oggetto è inteso come dotato di «parola», per la sola ragione di designarsi come «io». 39 M. Guarducci, Epigrafia greca, III, Roma 1975, p. 482. 40 M. Burzachechi, Oggetti parlanti nelle epìgrafi greche, «Epigraphica», X X IV (1962), pp. 3-54.

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È vero che il nesso fra la prima persona e la voce può apparire ovvio. Per metterlo in discussione, basta però la seguente osservazio­ ne: se la voce fosse costitutiva della prima persona, un individuo mu­ to non potrebbe aspirare alT«io». Assurdità totale, che ci obbliga a disfare questo legame, se non vogliamo restare prigionieri di una cer­ ta metafisica della voce. La prima persona non è più dotata di voce — o di interiorità — di quanto non lo sia la terza. In se stessa, essa non possiede alcuna voce. Al contrario, la prima persona si tu a il pro­ prio referente, si tratti di un essere umano o di un oggetto. In luogo di essere il segno di una forma di animismo, la scelta della prima per­ sona per designare Poggetto iscritto sottolinea una messa in scena ori­ ginale di questo stesso oggetto, presente («io») di fronte al lettore («tu»), in assenza dello scrittore («egli, ella»). Tale scelta attesta al tempo stesso — ma si tratta di un’altro problema — lo scarso spessore psicologico che i Greci arcaici attribuivano alP«io». Se, per queste ragioni, l’espressione «oggetto parlante», nella sua accezione corrente, deve essere evitata, essa al contrario si adattereb­ be perfettamente all’oggetto iscritto che si appropria della voce del lettore. Difatti, in una cultura che pratica la lettura oralizzata, ogni oggetto iscritto è necessariamente un «oggetto parlante», indipenden­ temente dalla sua struttura enunciativa, a condizione — ovviamente — di trovare un lettore. Adoperata in questo senso, l’espressione sareb­ be senza dubbio facile da giustificare, se l’altra formulazione, «ogget­ to iscritto» non occupasse già il campo. Sembra dunque più prudente riservarla ai soli oggetti che utilizzano, per loro proprio conto, la me­ tafora della voce, come l’iscrizione seguente, sulla quale ci sofferme­ remo più a lungo fra breve: «A chiunque me lo chieda, dò la stessa risposta, cioè che Androne, figlio di Antifane, mi ha dedicato come decima»41. La statuetta arcaica munita di questa iscrizione è un «og­ getto parlante», in virtù del suo impiego non della prima persona «io», bensì di un verbo che significa «rispondere» — oralmente, ben inte­ so. Essa eleva la propria «voce», la propria voce metaforica. In età arcaica questa metafora è rarissima e l’iscrizione citata, da­ tabile alla fine del secolo VI, ne costituisce in realtà il nostro primo esempio indiscutibile. Finché una simile iscrizione è classificata come «oggetto parlante» alla maniera di Burzachechi, il suo carattere ecce­ zionale rischia di passare inosservato: cosa potrebbe aggiungere la metafora della voce ad un oggetto già ritenuto in grado di parlare? 41 M.L. Lazzarini, Le formule delie dediche nella Grecia arcaica, Roma 1976, n° 658.

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Attribuiamo qui tutto il suo peso a questa metafora che, in realtà, è talmente significativa da indurci ad uno studio al tempo stesso glo­ bale e minuzioso. La logica che essa mette in atto sembra infatti an­ dare contro tutto quanto è stato detto nelle pagine precedenti sulla lettura nella Grecia antica. Più esattamente, in una cultura in cui il lettore presta la propria voce allo scritto perché questo raggiunga la propria realizzazione completa, sonora, la metafora della voce, rife­ rendosi all’oggetto iscritto che ne fa uso, sembra stranamente super­ flua. A meno che essa, piuttosto, non renda superflua la voce del lettore: già prima di ogni realizzazione sonora, l’oggetto «parlante» possiede una «voce», la propria voce metaforica, in ragione della qua­ le si distingue da altri oggetti iscritti. Il che significa che l’oggetto «parlante» possiede una «voce», senza che esso sia letto ad alta voce dal lettore. Tutto avviene in effetti come se l’iscrizione di Androne figlio di Antifane potesse fare a meno della voce del lettore, elevando la propria voce metaforica. Si sarà compresa in tal modo la ragione per cui è stato necessario insistere sulla nozione di «oggetto parlante» e fornirne una nuova de­ finizione: l’oggetto che adotta la metafora della voce per designare la propria enunciazione scritta («io rispondo») ci consente in effetti di considerare, a titolo di ipotesi, l’esistenza di una forma inedita di lettura. Una forma opposta a quella che è rimasta fino ad ora al cen­ tro delle nostre preoccupazioni. Difatti, la logica delPiscrizione di An­ drone non sembra più conforme alla lettura tradizionale; il nostro studio ha avuto il vantaggio, infatti, di renderci sensibili alla natura quasi sorprendente di una lettura non oralizzata, altrimenti detto, di una lettura silenziosa. L ’incongruità di quest’ultima è, in certo mo­ do, duplice: in rapporto alla lettura oralizzata — senza alcun dubbio la forma di lettura dominante nell’antichità — e in rapporto alla ri­ cerca moderna che, in generale, è rimasta profondamente scettica di fronte all’eventualità di una lettura non oralizzata nella Grecia an­ tica42. Se per i Greci lo scopo della scrittura alfabetica è stato, co­ me ho affermato più in alto, la produzione di suono, di parole effica­ ci, di gloria altisonante, perché mai sarebbe sorta l’idea di leggere in silenzio? Perché si sarebbe letto silenziosamente in una cultura che fa del silenzio il sinonimo dell’oblio? L ’ostacolo parrebbe insormon­ 42 Citiamo l’articolo classico di J. Balogh, «Voces paginarum». Beiträge zur Geschich­ te des lauten Lesens und Schreibens, «Philologus», LX X X II (1927), pp. 84-109 e 202-40; critiche alla visione di Balogh sono avanzate in B.M.W. Knox, Silent Reading in Anti­ quity , «Greek, Roman and Byzantine Studies», IX (1968), pp. 421-35.

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tabile. Per meglio fondare l'ipotesi di una lettura silenziosa bisogna dunque ricercare, nel contesto culturale dell'epoca considerata, ele­ menti suscettibili di renderla plausibile. Li si trova in un campo che — l'abbiamo visto — non è privo di rapporti con la lettura: quello della legge, del nomos, della giustizia. Campo che, nel corso del V se­ colo a.C., è testimone di una notevole interiorizzazione della voce. In una scena decisamente teatrale del Critone di Platone, nel mez­ zo del dialogo, i Nomoi («Leggi») personificati prendono la parola per tenerla praticamente sino alla fine. Rivolgendosi alle due parti Socra­ te e Critone, questi Nomoi spiegano diffusamente il motivo per cui Socrate non deve fuggire dalla sua prigione. Al che Socrate, respon­ sabile della teatralizzazione di questo discorso nel contesto del dialo­ go, fa la seguente osservazione: Queste sono, tu lo sai, o mio dolce amico Critone, le parole che mi sem­ bra di udire, allo stesso modo che ai seguaci dei Coribanti sembra di udire il suono dei flauti; e dentro di me risuona tuttavia l'eco di questi ragiona­ menti, e m’empie così del suo murmure, ch’io non posso altre parole ascolta­ re. E anzi sappi, per quello almeno che ora mi pare, che se alcuna cosa vorrai dire in contrario, dirai invano45.

La voce dei Nomoi — lo si sarà notato — malgrado il suo «ru­ more» non è una voce esterna, reale. I Nomoi messi in scena da So­ crate sono gli stessi che egli intende all'interno di sé, senza alcuno stimolo acustico proveniente dall'esterno. Normalmente, il dialogo interiore di Socrate — il «dialogo dell'anima con se stessa» — pre­ scinde dalla voce, come è specificato nel Sofista e nel Teeteto4344. Il pensiero di Socrate si produce in silenzio. In questa occasione non è più questo il caso. La voce dei Nomoi ha una forza tale che So­ crate è incapace di «intendere altra cosa», o di «obbedire ad altri». Egli obbedirà ai Nomoi, che lo riempiono. Non obbedirà a Crito­ ne, suo vecchio amico. Le voci esterne non contano più. Socrate non sente altro che questa voce interiore che gli prescrive ciò che non si deve fare. Essa ricorda perciò da vicino la voce «demonica» di cui si trat­ ta nel Teageney nel Fedro e soprattutto nell'Apologia y in cui Socrate afferma: 43 Platone, Crit.t 54d [trad. M. Valgimigli]. 44 Platone, S p h 263e-264a; T b t 189e-190a.

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Ed è come una voce che io ho in me fino da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da cosa che io sia per fare, e non mai ad alcuna mi persuade45.

Dallo stesso passo si apprende che Socrate aveva Pabitudine di parlare di questa voce interiore ai suoi concittadini; l’accusa che lo avrebbe condotto alla morte sembra avervi fatto allusione. Quella che noi chiameremmo «la voce della coscienza» appare dunque, in questo contesto, come una novità capace di provocare lo scandalo. Infatti, per la maggior parte dei contemporanei di Socrate, la voce del nomos rimane sempre, senza dubbio, una voce esterna, non già una voce interiorizzata ed individuale. Per essi il nomos si distribui­ sce pubblicamente. Non è facile per loro immaginarsi questo «pic­ colo distributore» che è il daimonion socratico46, che proferisce un discorso — ad uso strettamente personale — all’interno dell’indivi­ duo, senza che questo discorso possa essere inteso da altri allo stes­ so tempo. Come si ricorderà, il nomos si può intendere come una distribu­ zione vocale, come una recitazione o una lettura ad alta voce. In ogni caso, come un fenomeno sonoro, acustico: la distribuzione della giu­ stizia, della dike, è un’operazione esterna il cui strumento è la voce. Di conseguenza, la dike stessa è una giustizia esterna, divulgata pub­ blicamente, ad esempio dai re esiodei, cui ho fatto riferimento nel­ l’analisi del valore di nemein. Ora, come ha ben mostrato Eric Have­ lock, solo a partire dall’epoca di Erodoto e di Protagora, contempora­ nei di Socrate, questa dike si interiorizza, con la comparsa del termine dikaiosyne, che indica il «senso della giustizia»47. Interiorizzazione constatabile sul piano lessicale, dunque, e che avvalora quella del no­ mos come «voce della coscienza», attestata per Socrate nell’opera di Platone. In effetti, si tratta di un unico e identico moto di interioriz­ zazione compiutosi nel corso del V secolo — che è anche il secolo che ci fornisce le prime testimonianze dirette sulla lettura silenziosa, vale a dire sull’interiorizzazione della voce del lettore, ormai in grado di «leggere nella propria testa». 45 Platone, ap.t 3 ld (cfr. Tbg., 128d; Phaedr., 242b-c) [trad. M. Valgimigli]. 46 Daimonion è il diminutivo di daimont letteralmente «distributore» (da daiestbai, «distribuire»). 47 E.A. Havelock, «Dikaiosune»: An Essay in Greek Intellectual History, «Phoenix», X X III (1969), pp. 49-70.

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La lettura silenziosa Nel suo articolo Silent Reading in Antiquity, del 1968, Bernard Knox cita due testi del V secolo a.C. i quali sembrano mostrare che i Greci — ovvero, per essere più precisi, alcuni Greci — praticavano la lettura silenziosa, e che all’epoca della guerra del Peloponneso i poeti drammatici potevano contare sulla familiarità da essa raggiunta pres­ so il loro pubblico48. Il primo di questi testi è un brano dell "Ippolito di Euripide, composto nel 428. Teseo si accorge della tavoletta di scrit­ tura che pende dalla mano di Fedra morta e si domanda che cosa ella possa volergli annunciare. Rompe il sigillo. Il coro interviene per can­ tare la propria inquietudine, finché è interrotto da Teseo, il quale escla­ ma: «Ahi, che male, che male viene ad aggiungersi, intollerabile, in­ dicibile! Misero me!»49. Su richiesta del coro, egli rivela quindi il contenuto della tavoletta — senza leggerla a voce alta, ma riassumen­ done il contenuto. Chiaramente, egli l’ha letta in silenzio, durante il canto del coro. Il secondo testo citato da Knox è un passo dei Cavalieri di Aristo­ fane, del 424. Si tratta della lettura di un oracolo scritto, che Nicia è riuscito a sottrarre a Paflagone. «Portamelo perché io lo legga», di­ ce Demostene a Nicia, che gli riempie una prima coppa di vino e do­ manda: «Cosa dice l’oracolo?». Al che Demostene, assorto nella lettura, gli risponde: «Versami un’altra coppa». «Dice davvero ‘Versami un’al­ tra coppa?’», chiede allora Nicia, credendo che si tratti di una lettura ad alta voce da parte di Demostene. Lo scherzo è ripreso e sviluppato nei versi seguenti, finché Demostene rivela a Nicia: «Lì sopra è scrit­ to come Paflagone stesso morirà»50. Fornisce quindi un resoconto dell’oracolo. Non lo legge: l’ha già fatto — silenziosamente. Questo passo ci presenta dunque un lettore abituato a leggere nella propria testa — è persino in grado di chiedere da bere mentre lo sta facen­ do! — accanto ad un ascoltatore che non sembra affatto aduso a que­ sta pratica, ma che prende le parole pronunciate dal lettore per parole lette, cosa che in realtà non sono affatto. La scena dei Cavalieri è particolarmente istruttiva, almeno a pri­ ma vista, poiché indica che la pratica della lettura silenziosa non è ancora universalmente nota nel 424 (Platone ha allora cinque anni), 48 Knox, Silent Reading cit., pp. 432-5. 49 Euripide, Hipp., 874-5. 30 Aristofane, eq., 118-27.

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anche se se ne dà per scontata la conoscenza da parte del pubblico della commedia. E una pratica riservata ad un numero limitato di let­ tori e senz’altro ignota a gran parte dei Greci, soprattutto — si può pensare — a quelli, analfabeti, che non conoscono la scrittura se non «dall’esterno». Inoltre, va ricordato che i due documenti citati sono entrambi di provenienza ateniese: in località dove, come a Sparta, ci si sforzava di limitare l’insegnamento delle lettere allo «stretto neces­ sario», la tendenza a conoscere, ovvero a praticare, la lettura silenzio­ sa, doveva essere ancora più ridotta. Per il lettore che legge poco e sporadicamente, la decifrazione lenta ed esitante dello scritto non avrà il potere di far nascere il bisogno di una interiorizzazione della voce, poiché è precisamente la voce lo strumento attraverso il quale la se­ quenza grafica viene riconosciuta come afferente al linguaggio. Come si è visto, la «sonorizzazione» dello scritto è programmata, in negati­ vo, dall’assenza di separazione fra le parole. E se tale sonorizzazione è un valore in se stessa, perché avvertire l’esigenza di abbandonare la scriptio continua, limite tecnico allo sviluppo della lettura silenziosa? L ’assenza di segni di separazione ha rappresentato un ostacolo, e lo è rimasta a lungo. Non tuttavia un ostacolo insormontabile, co­ me si sarebbe portati a ritenere in base all’esperienza medievale, in cui, secondo Paul Saenger, la divisione delle parole {word division) è stata una condizione necessaria per la diffusione della lettura silen­ ziosa — praticata da monaci che copiavano testi in silenzio51. Di fat­ to, lo abbiamo appena constatato, i Greci sembrano aver saputo leggere in silenzio, pur attenendosi alla loro scriptio continua. Secondo quan­ to suggerisce Knox, è la frequentazione di grandi quantità di testi ad aver aperto la possibilità di una lettura silenziosa nell’antichità, silen­ ziosa e perciò rapida. Nel V secolo, un Erodoto ha dovuto verosimil­ mente abbandonare la lettura ad alta voce nel corso del suo lavoro di storico, e già durante la seconda metà del VI secolo, coloro i quali, in una prospettiva quasi filologica, si sono occupati del testo omerico nell’Atene dei Pisistratidi — come il poeta Simonide — hanno avuto senza alcun dubbio l’occasione di sviluppare questa tecnica. Tecnica riservata ad una minoranza, ben inteso, ma una minoranza importan­ te, di cui certo facevano parte i poeti drammatici. La sola introduzione del segno di separazione non è bastata a ge­ neralizzare la lettura silenziosa nel medioevo. E servito ben più che 51 P. Saenger, Silent Reading. Its Impact on Late Medieval Script and Society , «Via­ tor», X III (1982), p. 378.

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questa sola innovazione tecnica introdotta già nel secolo VII della no­ stra era. Ci sono volute le esigenze della filosofia scolastica, perché i vantaggi della lettura silenziosa — rapidità, intelligibilità — fossero scoperti e sfruttati su ampia scala. Soltanto in seno alla scienza scola­ stica la lettura silenziosa ha infatti potuto «mettere radici» — pur re­ stando praticamente sconosciuta nel resto della società medievale52. Ugualmente — direi — la sola frequentazione di grandi quantità di testi non è un fattore sufficiente perché la lettura silenziosa «metta radici» nel corso del V secolo a.C. in certi milieux della Grecia antica. La lettura estensiva parrebbe piuttosto il risultato di un’innovazione qualitativa nell’atteggiamento di fronte allo scritto: il risultato di tut­ to uno schema mentale, nuovo e potente, in grado di ristrutturare le categorie della lettura tradizionale. La lettura silenziosa non si lascia strutturare dal semplice fattore quantitativo: a dire il vero, Knox stesso si limita a citare autori post-classici — ad esempio l’eruditissimo Di­ dimo di Alessandria, autore di molte migliaia di libri — quando in­ tende evocare le vaste letture degli antichi. Al contrario, la lettura silenziosa può essere stata modellata sull’esperienza del teatro.

Il modello teatrale Quali sono i tratti distintivi della rappresentazione teatrale abba­ stanza marcati e originali da aver potuto strutturare la nuova pratica della lettura silenziosa? Viene in mente anzitutto, come è ovvio, la separazione ben netta fra la scena e il pubblico. Questa separazione delimita il gioco fittizio che si dipana sulla scena e costituisce, in cer­ to modo, l’originalità stessa del teatro: il pubblico non può interveni­ re in questo gioco. Non può, ad esempio, comunicare ad un personaggio sulla scena quello che egli sa già del suo destino. Non può arrestare il corso degli eventi, spiegando ai personaggi ciò che occorre fare. Deve «contemplarli» (theasthai) quando, nel gioco tragico, essi vanno verso la propria distruzione. La tensione creata da questa situazione accre­ sce il fascino dell’azione scenica: lo spettacolo teatrale si svolge in un’autonomia che il pubblico non deve disturbare, come vuole la re­ gola del gioco (paidia) di cui parla Tespi, nel difendere, in pieno VI secolo, la propria nuova arte dalla critica indegna di Solone53. 52 Ivi, pp. 378-80; 383-4; 405. 53 Plutarco, Sol., 29.

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Il pubblico — già quello di Tespi — deve guardare ed ascoltare. Passivamente. Non è concesso agli spettatori né intervenire sulla sce­ na né leggere il testo che, assente dalla scena, vi regge tuttavia Tinte­ ra azione. Memorizzato dagli attori, il testo non è visibile al momento in cui è pronunciato54: gli attori si sono sostituiti ad esso, in modo da tradurlo in «scrittura vocale» — espressione che sarà pienamente giustificata più oltre — piuttosto che in lettura ad alta voce. Gli atto­ ri non leggono il testo: ne producono una copia vocale. In ciò essi si distinguono dal lettore ordinario, che presta la propria voce allo scritto che ha di fronte. Il lettore ordinario non può essere ritenuto in grado di produrre un’altra scrittura — vocale — quando legge, per la semplice ragione che la sua voce è percepita come il «prolungamen­ to» naturale dello scritto, il suo completamento o supplemento neces­ sario. Essa non può pertanto essere considerata come «copia» del testo. La lettura ad alta voce si fa in presenza dello scritto, in modo che chi ascolta tale lettura non possa ingannarsi sul rapporto di continui­ tà fra scrittura e voce. Contrariamente alle parole pronunciate dalPattore, quelle del lettore non sono parole imparate a memoria (benché qualunque lettore sia libero di memorizzare ciò che legge). D ’altra parte, lo scarto fra il testo drammatico e la diffusione as­ sicuratane dagli attori parrebbe assai grande, perché tale diffusione possa meritare la designazione, ancora provvisoria, di scrittura voca­ le. Prima dello spettacolo, gli attori hanno forse letto il testo per me­ morizzarlo, ma durante la rappresentazione le loro voci si sostituiscono allo scritto. Gli spettatori ascoltano la loro «scrittura vocale». E se l’attore non si confonde con il lettore, l’ascolto di tale scrittura voca­ le non trasforma neppure gli spettatori in lettori tradizionali. In quanto spettatori, essi non devono attivare o riattivare la scrittura con l’in­ tervento della propria voce, poiché la scrittura parla loro in piena autonomia. Essi ascoltano, passivamente, una scrittura: una scrittu­ ra vocale. La separazione fra la scena, da cui questa scrittura vocale è ema­ nata, e il pubblico che ascolta, è probabilmente abbastanza netta per aver suggerito ai Greci una separazione analoga fra testo scritto e let­ tore. O meglio: per aver loro prospettato la possibilità di un nuovo atteggiamento nei confronti dello scritto. Il lettore tradizionale, che ha bisogno della voce per «riconoscere» la sequenza grafica, intrattie­ ne con lo scritto, sul piano della sonorizzazione, una relazione sensi­ 54 Cfr. Ch. Segai, L a Musique du Sphinx, Paris 1987, pp. 263-98.

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bilmente attiva (benché in rapporto allo scrittore di cui esegue il pro­ gramma egli possa assumere il ruolo di partner passivo). Deve fare uno sforzo mentale e fisico per assolvere la propria funzione strumen­ tale, o le lettere rimarranno prive di senso. Al contrario, chi sa legge­ re in silenzio ha un rapporto con lo scritto che sembrerebbe piuttosto di tipo passivo. Non è più strumento dello scritto, poiché lo scritto gli «parla» da solo. Al lettore il compito di ascoltare passivamente. Diciamo piuttosto: F attività del lettore «silenzioso» non è vissuta come uno sforzo di decifrazione, è un’attività ignorata come tale (co­ me Fattività interpretativa delF«orecchio» che ascolta una sequenza sonora provvista di significato viene ignorata come tale — appare piut­ tosto come.una ricezione passiva). Il «riconoscimento» del senso da parte di chi legge in silenzio è immediato, non è preceduto da un mo­ mento opaco. Il lettore che legge nella propria testa non deve attivare o riattivare lo scritto mediante l’intervento della propria voce. Gli sembra, semplicemente, che la scrittura gli parli. Egli è all’ascolto di una scrittura — come lo spettatore teatrale è all’ascolto della scrittu­ ra vocale degli attori. Lo scritto «riconosciuto» in maniera visiva sem­ bra possedere la stessa autonomia dello spettacolo teatrale. Le lettere si leggono — o piuttosto, si dicono — da sole. Il lettore «silenzioso» non ha bisogno di intervenire sulla scena della scrittura: capaci di «par­ lare», le lettere possono fare a meno dell’intervento della voce. Ne possiedono già una. Al lettore spetta soltanto di «ascoltarla» — all’in­ terno di se stesso. La voce lettrice si trova ad essere interiorizzata. Se questa «passività» del lettore è il retaggio della passività dello spettatore di teatro, fino a che punto, risalendo nel tempo, si potreb­ be sperare di seguirla? Le analisi dedicate da George Thomson al ver­ bo hypokrìnesthai, «giocare un ruolo»55, potrebbero aiutarci ad indi­ viduare il momento decisivo in cui si instaura tale passività. Come fa osservare Thomson, hypokrinesthai ha due significati distinti nei poemi omerici: «rispondere» e «interpretare» (un presagio o un sogno). Contrariamente ad altri studiosi, che hanno tentato una scelta fra i due significati per spiegare l’origine di hypokrites, «attore», Thomson si domanda il motivo per cui essi sono stati coperti da un unico termi­ ne, come in un passo dell 'Odissea, in cui Pisistrato dice a Menelao: «Spiega... se è per noi o per te solo che un dio svela questo presagio». Omero prosegue: «A queste parole, Menelao... rifletté per dare la rispo­ sta (hypokrìnaitó) che era opportuna»56. Si sarebbe potuto tradurre 55 G. Thomson, Aescbilus and Athens, London 19502, pp. 181-3. 56 Omero, O d.y XV, 167-70.

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ugualmente: «per dargli l’interpretazione opportuna». La chiave del problema è fornita, secondo Thomson, da un passo del Timeo, in cui si dice che «i prophetai sono hypokrìtai di parole e di segni enigma­ tici, ma non sono manteis [vale a dire indovini che proferiscono le lo­ ro parole in stato di estasi]»57. Thomson conclude: hypokrìtes è in origine la designazione di un personaggio cui si pongono domande con­ cernenti «parole e segni enigmatici» — la sua interpretazione costi­ tuirà la risposta. Se questo personaggio si trova alla guida di un coro che celebra un rito il cui significato sfugge a coloro che vi assistono, Yhypokrìtes può «rispondere» alle domande, «interpretando» ciò che accade, ad esempio dicendo: «Sono Dioniso e quelle sono le figlie di Eleutheros, che ho fatto impazzire». Più tardi, quando inizia a forni­ re «risposte-interpretazioni» senza che gli siano richieste, di colpo egli non è più uno hypokrìtes nel senso antico. E perciò stesso divenuto attore. La separazione fra spazio scenico (ormai auto-nomo) e spetta­ tori (ormai passivi) si è instaurata. Proprio il verbo hypokrìnesthai si legge sull’iscrizione di Androne figlio di Antifane, cui conviene ora ritornare. Rinvenuta ad Atene, questa iscrizione metrica, di dialetto attico, apparteneva ad una sta­ tuetta di bronzo ora perduta, databile alla fine del secolo VI a.C.: pasin

is’

a qualunque

anthropois

hypokrinomai

uomo

hostis

erotai

il quale

domandi

io rispondo identicamente

hos

m1

anethek’

che

Andron Antiphanous

dekaten

Andron figlio di Antifane mi

ha dedicato

come decima.

L ’iscrizione così trascritta e tradotta impone alcune osservazioni. Alla fine del VI secolo, il teatro esiste già in forma istituzionalizzata: i concorsi tragici cominciano nel 534 e le rappresentazioni tragiche — prima di Eschilo con un solo attore e un coro — risalgono proba­ bilmente ad una trentina di anni prima58. Quando la statuetta rice­ ve la sua iscrizione, il poeta tragico Tespi (inventore delitto re) è già in piena attività. Il verbo hypokrinomai ha dunque, inevitabilmente, 57 Platone, Tim., 72a-b. 58 A. Pickard-Cambridge, Dithyramb, Tragedy and Comedy, Oxford 19622, p. 88.

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un significato più ricco di quanto la mia traduzione — «io rispon­ do» — non lasci intuire. In dialetto attico «rispondere» non è difat­ ti hypo-krìnesthai, come in ionico. Ad Atene si usa in questo senso apo-krìnesthai. Se l’autore dell’iscrizione avesse voluto scrivere «io ri­ spondo», avrebbe impiegato apo-krìnomai, che è l’equivalente metri­ co di hypokrìnomai. Non l’ha fatto. Si è dunque indotti a credere che questo verbo sia stato scelto per esprimere qualcosa di più della sem­ plice idea di una risposta. Adoperando hypokrìnomai, la statuetta iscritta eleva la propria «vo­ ce». Essa «parla». E per la forza delle circostanze, il suo dire è un dire teatrale non meno che vocale: attraverso la sua voce metaforica, l’iscrizione risponde ad una domanda che non le è stata posta, ma che essa anticipa, in tutta autonomia. Come Yhypokrìtes in teatro, che dà la propria «risposta» senza che nessuno la solleciti. Ma se hypokrìno­ mai vuol dire al tempo stesso che essa interpreta quel che si propone come un enigma — ovvero: qual è il significato da dare alla statuetta iscritta? — l’iscrizione si interpreta da sé, si decifra dinnanzi agli oc­ chi dello spettatore-lettore, che non deve far sforzi per vocalizzare 10 scritto, poiché lo scritto «si vocalizza» da sé. Attrice-lettrice, che ci offre la rappresentazione della voce! In anteprima, invero. Prima dell’invenzione della lettura silenziosa, la scrittura mirava infatti alla produzione della voce, non già alla sua rappresentazione. Fino alla sua sonorizzazione, essa non rappresentava per noi che una serie di lettere incise da un imitatore. Rivolgendosi allo spettatore-lettore, che non deve farle sentire la sua voce, l’iscrizione può ormai indirizzare il proprio senso direttamente all’orecchio: perché leggere ad alta voce, se l’iscrizione sa «par­ lare» in silenzio? Il significato dell’oggetto arriva all’orecchio del lettore come per una sorta di irradiazione o di «effluvio». L ’oggetto irradia 11 proprio senso sul lettore. Il senso dell’oggetto non è più laboriosa­ mente attivato dalla voce del lettore. La sua scrittura è autonoma, «parla». Tale è, mi sembra, la logica di questa iscrizione, che testimo­ nia in maniera indiretta (e non, come i passi dell 'Ippolito e dei Cavalierìy in modo diretto) l’esistenza di una prassi di lettura silenziosa nell’Atene del tardo VI secolo oltre che, al tempo stesso, dell’introie­ zione dello spazio teatrale nello spazio scritto. Lo spazio grafico si presta ormai ad essere una scena. Questa nuova forma di lettura, in cui il lettore si trova come «passivizzato» in spettatore di una scrittura attiva, che irradia il proprio senso, obbedisce ad uno schema che si ritrova nella teoria della per­

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cezione visiva, come essa è stata elaborata da Empedocle, Leucippo e Democrito nel corso del V secolo. Al principio, in Empedocle, la situazione appare confusa. Secondo le parole di Aristotele, «Empe­ docle è simile a chi crede di vedere quando la luce esce dall’occhio»59. Empedocle assume dunque la posizione inversa a quella im­ plicata dalla lettura silenziosa, dove è lo scritto ad emettere un senso in direzione delPorecchio. Ma — fatto significativo — Aristotele ag­ giunge: «A volte Empedocle dichiara che si vede in questo modo, al­ tre volte sostiene che la vista si produce grazie ad emanazioni, aporrhoiaiy da parte degli oggetti visti»60. E proprio quest’ultima la posizione che trionferà nei successori: gli atomisti, a cominciare da Leucippo, intendono infatti la visione come risultato di un’emanazio­ ne o di un effluvio, aporrhoeyindirizzato dagli oggetti visti verso l’oc­ chio. Nel III secolo della nostra era, un filosofo riassume in questo modo le loro teorie: Essi attribuiscono la vista a certe immagini che, avendo la stessa forma dell’oggetto, scorrono (verbo: aporrhein) senza posa dagli oggetti visti fino all’occhio: tale era la posizione della scuola di Leucippo e Democrito61.

Per gli atomisti la vista si deve dunque ad un’emissione continua di corpuscoli da parte dell’oggetto visto, emissione che, in maniera più o meno complessa (secondo le condizioni imposte dalla teoria ato­ mista) è finalmente raccolta dall’orecchio. La posizione di Empedo­ cle deve senz’altro la propria ambiguità al fatto che il filosofo ha dovuto abbandonare una teoria tradizionalmente ammessa per elaborarne una nuova, più soddisfacente. Al contrario, la posizione degli atomisti — eredi della nuova teoria — parrebbe sin dall’inizio ben chiara, al­ meno per quanto concerne l’aspetto che qui ci interessa. L ’occhio non emette un raggio per vedere, bensì riceve l’effluvio degli oggetti vi­ sti: è questa la direzione nella quale si ritiene che passi l’informazio­ ne visiva. Questo rapporto analogico fra percezione visiva e lettura silen­ ziosa, in cui l’occhio sembra ricevere, passivamente, l’irradiazione dello scritto, non acquista tuttavia tutto il suo peso se non lo si confronta con un fatto fondamentale nella teoria degli atomisti. Le combinazio­ ni di elementi nel mondo fisico si spiegano presso di loro con l’ausilio 59 Aristotele, sens., 437b. 60 Ibid.; cfr. Empedocle, fr. B 89 Diels-Kranz. 61 Alessandro di Afrodisia, sens., 56, 12.

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del modello alfabetico, in cui le parole si formano dalla combinazione fra le ventiquattro lettere: in greco, stoìcheia significa in effetti «lettere» ed «elementi» al tempo stesso62. «Tragedia e commedia si scrivono con le stesse lettere», leggiamo in Leucippo63; ugualmente, nel mon­ do fisico, sono gli stessi elementi a combinarsi e ricombinarsi per cam­ biare le cose. A buon diritto, si è parlato della «ontografia» degli atomi­ sti (Heinz Wismann). Nella loro teoria, la percezione visiva si lascia infatti assimilare a una lettura — una lettura silenziosa del mondo. Se, nel VI secolo, la statua dedicata da Androne rimane isolata nella sua qualità di oggetto «parlante» (nel senso sopra precisato), il V secolo renderà la metafora sempre più frequente. Non tanto nel campo delle iscrizioni, quanto presso autori che praticano una scrit­ tura meno laconica e che, pertanto, sono più esposti al mutamento delle loro abitudini di lettura. Il mio primo esempio è Eschilo, la cui priorità in questo settore è assai significativa (presto si capirà il per­ ché). In Eschilo l’impiego della metafora è suggerito dagli scudi di tre eroi, Capaneo, Eteocle e Polinice nei Sette contro Tebe64. «Come blasone — dice il Messaggero ad Eteocle — Capaneo ha un uomo nudo, che porta il fuoco; una torcia fiammeggiante gli arma le mani, e proclama (phonei) a lettere d’oro: 'Incendierò la città*». In un testo teatrale in cui si incontra 1’ audace sinestesia «vedo il frastuono» sem­ bra logico che gli oggetti prendano la parola e che il personaggio dise­ gnato sullo scudo «parli», come sullo scudo menzionato, ovvero «gridi», boat, come sullo scudo di Eteocle, mediante lettere alfabetiche incise al suo fianco. Sullo scudo di Polinice, infine, compare la Giustizia per­ sonificata, identificata non grazie ai suoi attributi tradizionali, bensì in virtù di una legenda: «Ed ella afferma di essere la Giustizia, come dice, legei, riscrizione posta presso di lei». Il mio secondo esempio riguarda Erodoto. Anche nella sua opera le lettere delPalfabeto cominciano a parlare, legein, e copiosamente; e gli oracoli scritti, le steli, i tripodi elevano anch’essi la loro «voce», come la statua del re egiziano Sethos, che «pronuncia» la propria iscri­ zione65. Per lo storico che scrive estesamente e legge ancor di più, la lettura silenziosa, resa mentalmente possibile dall’esperienza del 62 Cfr. S. Sambursky, The Phisical World o f the Greeks , Oxford 1956, pp. 126-8 [trad. it. Il mondo fisico dei Greci, Milano 19834]. 63 Leucippo, fr. A 9 Diels-Kranz. 64 Le citazioni seguenti si trovano ai w . 432-4; 103; 465-9; 646-8. 65 Erodoto, I, 124, 187; II, 102, 106, 133, 136, 141; III, 88; IV, 91; V, 60, 61, 90, 92; VI, 77; VII, 228; V ili, 22, 136.

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teatro (si può qui ricordare che Erodoto fu amico di Sofocle) si im­ pone naturalmente. Erodoto ha bisogno di leggere velocemente, non foss’altro che per meglio elaborare la propria opera scritta. Accele­ rare la velocità della lettura significa ad un certo punto, necessaria­ mente, interiorizzare la voce lettrice, fare astrazione della voce e leg­ gere fra sé e sé.

La «scena» della scrittura e la scrittura nellanima L ’iscrizione di Androne figlio di Antifane sottolinea un momento decisivo nel rapporto dei Greci con lo spazio scritto: non è un caso che ad essa faccia eco, a più di un secolo di distanza, il Vedrò di Plato­ ne, in un passo che riguarda la specificità della scrittura66. Parago­ nando la scrittura alla pittura, Socrate accusa lo scritto di «significare sempre la stessa cosa», vale a dire proprio ciò di cui si vanta Piscrizione di Androne. Naturalmente, il filosofo avrebbe potuto rivolgere il medesimo rimprovero ad un attore, la cui voce non è che lo strumen­ to di un testo immutabile e non quella di qualcuno in possesso di un sapere, episteme. In effetti, egli non manca di farlo altrove. Le due questioni si riducono ad una, in quanto — lo si è visto — testo scritto ed attore sono analoghi, intercambiabili. L ’attore si sostituisce allo scritto sulla scena, lo scritto si sostituisce all’attore nell’epigrafe di Androne. Producendo ciò che io definisco una «scrittura vocale», l’at­ tore inaugura la possibilità di una nuova attitudine nei confronti del­ lo scritto, l’eventualità di una lettura silenziosa. Infatti, la statuetta iscritta dedicata da Androne si definisce come «attore», hypokrites, fatto che presuppone questo nuovo atteggiamento. Lo spazio scritto è una «scena» che ispira la propria logica allo spettacolo teatrale, at­ tribuendo al lettore il ruolo di spettatore. Lo spazio scritto interioriz­ za il teatro. Questa conclusione è giustificata al tempo stesso dall’iscrizione di Androne e da un passo come quello dclVIppolito di Euripide, già citato, ove la «tavoletta di scrittura» di Fedra morta «grida, grida di orrore, boaiy boai deltos a lasta». Alla scrittura così come Euripide la pone sulla scena è attribuita non soltanto la facoltà di «parlare» du­ rante l’atto di lettura silenziosa, ma addirittura di «gridare». Essa è persino in grado di cantare: «questo, questo è il canto sonoro — con­ 66 Platone, Phaedr.y 275d.

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tinua Teseo qualche verso più avanti — che ho visto elevarsi da queste righe scritte, hoion hoion eidon en grapbais melos phthengomenon» 67. L ’attore che canta nel ruolo di Teseo (siamo in un brano lirico) canta dunque di un melos sonoro che sorge dallo scritto, vale a dire di un canto per l’occhio. Sulla scena, un attore che canta; sulla tavoletta di scrittura — let­ ta in silenzio e, per ciò stesso, interiorizzando lo spazio teatrale — delle lettere che «cantano». E difficile immaginare una messa in sce­ na della lettura silenziosa più istruttiva di questa. E ciò per due moti­ vi. In primo luogo, essa fa intervenire, in un canto intonato in prima istanza dalla scena, il canto figurato della scrittura, sottolineando, at­ traverso questa inclusione, l’analogia fra spazio teatrale e testo scrit­ to letto silenziosamente. In secondo luogo, la scena stessa stabilisce chiaramente la correlazione fra l’oggetto «parlante» e la lettura silen­ ziosa: alla «voce» udita nella testa nel corso della lettura silenziosa corrisponde puntualmente l’oggetto «parlante». La testimonianza delYlppolito non si riduce dunque a un insieme di circostanze esterne — che non consentono di distinguere in maniera indiscutibile tra let­ tura silenziosa e lettura semplicemente inascoltabile da parte di altri — bensì implica un aspetto interno, che avvalora l’interpretazione di Ber­ nard Knox, aggiungendo elementi che si riferiscono all’architettura mentale di una lettura realmente silenziosa. Se, in tal modo, il teatro viene ad interiorizzarsi nel libro, il libro si interiorizza a sua volta nello spazio mentale, designato talvolta co­ me phren, talvolta come psyche. E ciò ben prima di Platone, che in un passo del Fedro contrappone la scrittura ordinaria alla «scrittura nell’anima»68. Il nostro primo testimone della metafora «il libro del­ l’anima» è in effetti Pindaro, che in un poema di cui si è già trattato più in alto (nell’analisi del verbo anagignoskein) esclama: «Leggetemi il nome del vincitore olimpico, là dove è scritto (verbo: graphein), nel mio spirito (pbren)\»69. Ma è nei tragici che questa metafora conoscerà la sua massima fortuna prima di essere ripresa da Platone. E a buon di­ ritto: i poeti drammatici, che producono testi destinati ad essere im­ parati a memoria dai loro attori, vivono assai concretamente l’iscri­ zione del testo drammatico nello spirito dell’attore. Per il poeta dram­ matico, l’attore riceve un’iscrizione, come se fosse pietra o foglio di 67 Euripide, Hipp.y 865, 877; 878-80. 68 Platone, Phaedr.t 275d-276a; cfr. Phil., 38e-39a. 69 Pindaro, o/., 10, 1-3.

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scrittura. L ’interiorità dell’attore è uno spazio scrittorio. Il che signi­ fica che il testo drammatico è «iscritto» nello spirito di colui che lo pronuncia sulla scena. Così si spiega l’espressione «scrittura vocale», impiegata nel corso di queste pagine, e si comprende perché Eschilo — che introduce il secondo attore70 — scriva nella memoria dei suoi attori, laddove Omero (anche se fosse stato scrittore) non può essere considerato come uno che scriva nella memoria dei suoi recitatori, trop­ po distanti da lui — nel tempo e nello spazio — perché una tale meta­ fora possa risultare pertinente. Citiamo qui gli esempi desunti dall’opera di Eschilo, benché la stessa metafora ricorra negli altri due grandi tragici. Nel Prometeo incatenate, il protagonista dichiara: «A te, Io, dirò dapprima gli errori della tua corsa turbinante: scrivili sulle tavolette fedeli della tua me­ moria {phrenes)»71. Prometeo è un personaggio legato all’origine del­ la scrittura; secondo una certa tradizione lo è anche Danao. Ecco come si rivolge alle proprie figlie: «E intanto, a terra, la mia preveggenza vi impone ancora di tenere i miei consigli ben incisi dentro di voi». La stessa metafora ricorre più innanzi nella stessa tragedia, quando Danao dice: «Intanto, alle molte lezioni di modestia iscritte in voi da vostro padre, aggiungete la seguente iscrizione!». Nelle Eumenidi, il coro paragona la memoria di Ade ad una tavoletta di scrittura: «Ade, sotto terra, esige dagli uomini conti terribili, e la sua anima (phren) che tutto vede di tutto tiene fedele trascrizione». E nel mio ultimo esempio tratto da Eschilo, Elettra dice ad Oreste: «Ascolta, e iscrivi nel tuo cuore (phrenes)». E una formula che il poeta tragico avrebbe potuto egli stesso utilizzare rivolgendosi ad uno dei suoi attori. Ad Atene: Valfabeto portato sulla scena Così si stringono rapporti di interiorizzazione fra teatro e libro come fra libro e anima. A questi due movimenti di interiorizzazione — dal teatro allo scritto, dallo scritto all’anima — corrispondono pe­ raltro due movimenti di esteriorizzazione, che procedono nel senso inverso. In primo luogo, lo spazio mentale è naturalmente esterioriz­ zato nel libro. Si può addirittura postulare l’esistenza di una scrittura silenziosa, benché essa sia forse impossibile da documentare. In ef­ 70 Aristotele, poet., IV, 1449al6. 71 Eschilo, Prom., 788-9. Le citazioni sono tratte dai seguenti passi: Suppl, 178-9; 991-2; Eum., 273-5; Coefore, 450.

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fetti, Yhypotnnema scritto può sostituirsi ad una memoria inefficien­ te72: esso costituisce una memoria esterna, oggettiva, un «pro-memoria», da non confondere con la memoria vivente di una persona. Con­ scio dei limiti di questa memoria oggettivata, il filosofo Platone ne fa uso, al pari del poeta drammatico, il cui testo costituisce un hypomnema, scritto non in funzione dei lettori futuri, bensì in vista dello spettacolo unico, di cui sembra essere una condizione indispensabile. Se lo spazio mentale può esteriorizzarsi nello spazio scritto, lo spa­ zio scritto può, a sua volta, esteriorizzarsi nello spazio teatrale. In pri­ mo luogo, naturalmente, quando il testo drammatico è portato sulla scena, movimento in un certo senso originale in questo sistema di rap­ presentazioni interdipendenti, poiché dà luogo a quella che ho defi­ nito «scrittura vocale». Ma questa esteriorizzazione è stata anche — let­ teralmente — messa in scena nella Grecia antica — e in modo assai singolare — nello Spettacolo d ellalfabeto (in greco: Grammatike théo­ riei) del poeta ateniese Callia73. Questo testo pone problemi difficili per quanto concerne la data della sua composizione e il suo rapporto, sul piano musicale e metrico, con la Medea di Euripide (del 431) e YEdipo re di Sofocle (di poco posteriore al 430). E lui l’ispiratore di queste tragedie o ne costituisce la parodia? Non è questa la sede per entrare nella disputa. Mi accontento di attribuire una data approssi­ mativa al testo, situandolo nella seconda metà del V secolo a.C.: tut­ te le datazioni proposte ricadono entro i limiti di questo periodo. Ad ogni modo, questa approssimazione sarà ampiamente sufficiente per i miei scopi. Cosa offre lo Spettacolo dellalfabeto alla contemplazione (theoria) dei suoi spettatori (theatai)? Niente di meno che un coro di ventiquattro donne che rappresentano l’alfabeto ionico, introdotte alla maniera se­ guente nel Prologo: «Alfa, beta, gamma, delta, epsilon (la lettera di Apol­ lo), zeta, eta, theta, iota, kappa, lambda, my, ny, csi, omicron, pi, rho, sigma, tau, ypsilon, phi, come chi, accanto a psi — fino ad omegal». Il coro, disponendosi due per due, ci fa quindi assistere ad un eserci­ zio di scuola elementare: «Beta alpha: ba; beta epsilon: be; beta età: be; beta iota: bi; beta omicron'. bo; beta ypsilon: bu; beta omega: bo»; e quin­ di, nell’antistrofe: «Gamma alpha: ga; gamma epsilon: ge; gamma eta: 72 Platone, Phaedr., 276d. 73 Ateneo, V ili, 276a; X , 448b; 453c-454a (= Callia, fr. 31 Edmonds). Cfr. E. Pöhlmann, Die A B G K om ödie des Kallias, «Rheinisches Museum», CXIV (1971), pp. 230-40.

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ge» e via dicendo, per un totale di diciassette strofe in tutto, cantate su un’unica melodia. A questo «coro sillabico» — che farebbe inorridire gli specialisti moderni di pedagogia della lettura — fa seguito un dialogo tra il mae­ stro di scuola e due donne: a e s t r o d i s c u o l a : Bisogna pronunciare alfa da solo, signore, e poi epsilon da solo. Dica lei, dica lei la terza vocale! P r i m a d o n n a : Allora, io dico etal M a e s t r o d i s c u o l a : E poi, lei dica la quarta, lei! S e c o n d a d o n n a : Iota. M a e s t r o d i s c u o l a : La quinta! P r i m a d o n n a : Omicron. M a e s t r o d i s c u o l a : Dica la sesta! S e c o n d a d o n n a : È ypsilon. M a e s t r o d i s c u o l a : Ma l’ultima delle sette vocali, omega, ve la dico io; ed eccole poi tutte quante messe in metro. Quando le avrete pronunciate, ripe­ tetele a voi stesse!

M

Nel frammento che segue, Callia si diverte a dare la descrizione dettagliata di due lettere evitando di pronunciarne il nome, ma in modo tale da lasciar capire di quali si tratta. Nel Teseo, Euripide fa la stessa cosa: un pastore analfabeta descrive le lettere del nome teseo senza conoscerne il significato74. In Callia — la ragione è evidente — lo stesso procedimento non dipende dall’ignoranza delle lettere: «Sono incinta, signore — dice una donna [forse la Scrittura personificata]; per pudore, amiche mie, vi dirò il nome del bambino descrivendo la forma delle lettere. C ’è una lunga linea dritta; al centro, due lineette curve verso l’alto, una per parte. Poi viene un cerchio su due piccoli piedi». Si tratta di Y e di Q, due segni dell’alfabeto ionico, perciò bastardi nel contesto ateniese. D ’altro canto, proprio con queste due lettere ha termine la diciassettesima strofa del «coro sillabico». Ci sfug­ ge sfortunatamente il significato esatto — certamente osceno — di pso. In un modo o nell’altro, pso deve far riferimento a qualcosa che la donna si vergogna di dire. In considerazione del fatto che la face­ zia ha luogo sulla scena, possiamo aggiungere che queste due lettere hanno un valore pittografico proprio degli scherzi osceni. Dopo tut­ to, nel dramma satiresco Amphiarao75, Sofocle si è servito di un at­ tore che danzava sulla scena la forma delle lettere. 74 Euripide, fr. 382 Nauck2. 75 Sofocle, fr. 117 Nauck2.

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Comunque stiano le cose, durante la seconda metà del V secolo F alfabeto ionico è stato messo in scena ad Atene nel teatro di Dioni­ so. Si tratta di un evento notevole. E in questa stessa epoca che le lettere cominciano a «parlare» su ampia scala nelFopera di Erodoto, amico di Sofocle, fenomeno che attesta indirettamente la pratica del­ la lettura silenziosa (e, vorrei aggiungere, della scrittura silenziosa). Con un movimento esattamente inverso a quello dell’iscrizione di An­ drone, che è circa di un secolo anteriore, lo Spettacolo dell'alfabeto mostra ciò che in teatro è normalmente dissimulato, vale a dire lo scrit­ to. Il «grande assente» dalla scena vi fa finalmente la sua comparsa. Già il titolo dell’opera insiste su questo punto: theoria, termine deri­ vato — come theatron — da theaomai («io vedo, io contemplo»), si­ gnifica appunto «spettacolo per l’occhio». A teatro si va dunque per vedere le lettere, non soltanto per ascoltare la «scrittura vocale» degli attori. Le lettere dell’alfabeto saranno offerte alla vista, non solo iscrit­ te nella memoria degli attori. Tutta la scena dimostrerà di essere, in ultima analisi, uno spazio scrittorio in grado di «rispondere» — di dirsi, di leggersi e di interpretarsi ad alta voce. L ’idea di una simile rappresentazione drammatica è potuta nasce­ re solo nella mente di qualcuno per il quale le lettere sono già autono­ me e la loro vocalizzazione non è una condizione necessaria alla loro comprensione. Vale a dire, nella mente di qualcuno per cui le lettere si sono trasformate nelle «pure» rappresentazioni di una voce (real­ mente trascritta o fittizia, come nel caso di una scrittura silenziosa) e per il quale la loro finalità originaria — generare kleos, rinomanza sonora — non è più l’unica. In breve, nella mente di qualcuno per il quale la lettura silenziosa è intimamente familiare. Una simile conclusione è peraltro inadeguata, nella misura in cui essa suggerisce che la lettura silenziosa abbia finito col trionfare nel mondo greco. In realtà, essa è rimasta un fenomeno marginale, prati­ cato da professionisti della parola scritta, immersi in letture sufficien­ temente vaste da favorire l’interiorizzazione della voce lettrice. Per il lettore medio, la maniera normale di leggere è rimasta la lettura ad alta voce, come se fosse impossibile cancellare il movente essenziale della scrittura greca: generare un suono, piuttosto che rappresentar­ lo. Nell’antichità greca la voce non abdicherà mai. Per ragioni cultu­ rali, il suo regno non è seriamente minacciato. Pertanto, la lettura silenziosa non ha sviluppato un proprio vocabolario, ma si è limitata semplicemente a far ricorso ai termini già esistenti, come anagignoskein>

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che può ormai riferirsi non soltanto al riconoscimento acustico dello scritto letto ad alta voce, ma anche al riconoscimento visivo della se­ quenza grafica, che «parla» direttamente all’orecchio. Malgrado il suo potenziale innovativo, la lettura silenziosa dei Greci resta dunque pro­ fondamente determinata dalla lettura ad alta voce, di cui conserva come un’eco interiore insopprimibile.

TRA «VOLUM EN» E «CO D EX». LA LETTURA N EL MONDO ROMANO di Guglielmo Cavallo

Da quando si può parlare per Roma di una presenza di veri e pro­ pri libri e dell’insorgere di pratiche di lettura? Nella Roma dei primi secoli Tuso della scrittura si deve ritenere circoscritto al corpo sacerdo­ tale e ai gruppi gentilizi, depositari dei fondamentali saperi della città, il sacrale e il giuridico, della misura del tempo, dell’ordine annalistico degli eventi: saperi verisímilmente fissati su libri lintel (di stoffa di li­ no, su cui si conservava in particolare il sapere sacrale) o su tabulae lignee. Sotto l’aspetto più specifico della letteratura di Roma, le forme primitive di questa restavano legate alla ristretta cerchia della classe dirigente e a particolari esigenze della vita associativa: prosa oratoria dallo stile sobrio, mortuorum laudationes, resoconti di magistrature, me­ morie della città scritte senza alcun ornamento retorico. Catone il Cen­ sore (234-149 a.C.) leggeva le sue orazioni da tavolette1; ed egli stesso compose e scrisse «a grossi caratteri» — allo scopo di renderla più per­ spicua alla lettura — una «storia di Roma» perché il figlio, nell’imparare i rudimenti stessi del leggere e dello scrivere, potesse giovarsi dell’esperienza del passato2. Si è ancora lungi da veri e propri libri e pratiche di lettura. Ma l’età di Catone segnava un momento di svolta. Nel 181 a.C. venivano ritrovati i cosiddetti «libri di Numa», rotoli di papiro avvolti in foglie di cedro. Questi rotoli — a quanto risulta da fonti non prive di discordanze — erano parte greci e di contenuto filosoficodottrinale, tanto che furono bruciati forse perché contrari alla religione istituzionale, parte latini e de iure pontificum, «di diritto pontificale»3. 1 A.E. Astin, Cato the Censory Oxford 1978, pp. 135-7. 2 Plutarco, Cato M aior , 20,7. 3 Sulla questione mi limito a rimandare a N. Lewis, Papyrus in Classical Antiquity , Oxford 1974, pp. 85-7.

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Si trattava di falsi: «di aspetto recentissimo» li dice Livio4; ma que­ sto significa che a quell’epoca il volumen, il libro-rotolo di papiro dif­ fuso da tempo nel mondo ellenistico, era ormai noto a Roma, e che il papiro stesso vi veniva importato, sì che se ne potevano fabbricare anche libri. In quello stesso torno di tempo in Ennio e, alcuni decen­ ni più tardi, in Lucilio si incontrano le prime attestazioni certe dell’u­ so di questo materiale scrittorio — e quindi del rotolo come supporto dei testi letterari — nel mondo romano5. Il fenomeno va collegato a due fatti di capitale importanza, che con­ notano la cultura romana tra lo scorcio del III e l’inizio del I secolo a.C.: la nascita di una letteratura latina innervata da modelli greci, e l’arrivo a Roma, con i bottini di guerra, di intere biblioteche ellenistiche, in un’epoca di sempre più marcate influenze greche e dell’insorgere di uno smanioso collezionismo di oggetti di produzione greca. Libri greci im­ portati fanno, così, da modello al nascente libro latino. Opere quali POdissea di Livio Andronico e il Bellum Punicum di Nevio erano certo scritti su volumìna di papiro, ma non risultano essere stati originaria­ mente ripartiti in una ordinata serie di libri secondo una precisa pro­ grammazione editoriale6. Ed invece la suddivisione degli Annales di Ennio in diciotto libri fin dalla loro composizione7, e la partizione del poema di Nevio in sette libri operata più tardi dal grammatico Ottavio Lampadione, indicano che a poco a poco si andava facendo strada — grazie alla sempre più larga presenza di modelli librari greci — una co­ scienza del rapporto tra testo e libro. Si trattava non soltanto di opera­ re una trasposizione di exemplaria Graeca in un diverso contesto cultu­ rale, ma anche di acquisire una disciplina complessiva di strutturazio­ ne libraria che, ispirandosi a quei modelli, ordinasse e disponesse il te­ sto in modi sempre più funzionali alla lettura. La nascita di un pubblico di letton Si racconta che Catone l’Uticense, prima di togliersi la vita, riti­ ratosi nella sua camera, prese in mano il dialogo di Platone che tratta dell’anima, il Fedone, e ne lesse una buona parte; accortosi che la sua 4 Livio, X L ,29,6. 5 Lewis, Papyrus cit., p. 88; T. Dorandi, Lucilio , fr. 798 Krenkel, «Studi italiani di filologia classica», n.s., L X III (1982), pp. 216-8, e Id., Glutinatores, «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», L (1983), pp. 25-8. 6 J. van Sickle, The Book-Roll and Some Conventions o f the Poetic B ook , «Arethusa», X III (1980), p. 12. 7 S. Mariotti, Lezioni su Ennio , Urbino 1991, pp. 17-23.

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Si trattava di falsi: «di aspetto recentissimo» li dice Livio4; ma que­ sto significa che a quell’epoca il volumen, il libro-rotolo di papiro dif­ fuso da tempo nel mondo ellenistico, era ormai noto a Roma, e che il papiro stesso vi veniva importato, sì che se ne potevano fabbricare anche libri. In quello stesso torno di tempo in Ennio e, alcuni decen­ ni più tardi, in Lucilio si incontrano le prime attestazioni certe dell’u­ so di questo materiale scrittorio — e quindi del rotolo come supporto dei testi letterari — nel mondo romano5. Il fenomeno va collegato a due fatti di capitale importanza, che con­ notano la cultura romana tra lo scorcio del III e l’inizio del I secolo a.C.: la nascita di una letteratura latina innervata da modelli greci, e l’arrivo a Roma, con i bottini di guerra, di intere biblioteche ellenistiche, in un’epoca di sempre più marcate influenze greche e dell’insorgere di uno smanioso collezionismo di oggetti di produzione greca. Libri greci im­ portati fanno, così, da modello al nascente libro latino. Opere quali POdissea di Livio Andronico e il Bellum Punicum di Nevio erano certo scritti su volumìna di papiro, ma non risultano essere stati originaria­ mente ripartiti in una ordinata serie di libri secondo una precisa pro­ grammazione editoriale6. Ed invece la suddivisione degli Annales di Ennio in diciotto libri fin dalla loro composizione7, e la partizione del poema di Nevio in sette libri operata più tardi dal grammatico Ottavio Lampadione, indicano che a poco a poco si andava facendo strada — grazie alla sempre più larga presenza di modelli librari greci — una co­ scienza del rapporto tra testo e libro. Si trattava non soltanto di opera­ re una trasposizione di exemplaria Graeca in un diverso contesto cultu­ rale, ma anche di acquisire una disciplina complessiva di strutturazio­ ne libraria che, ispirandosi a quei modelli, ordinasse e disponesse il te­ sto in modi sempre più funzionali alla lettura. La nascita di un pubblico di letton Si racconta che Catone l’Uticense, prima di togliersi la vita, riti­ ratosi nella sua camera, prese in mano il dialogo di Platone che tratta dell’anima, il Fedone, e ne lesse una buona parte; accortosi che la sua 4 Livio, X L ,29,6. 5 Lewis, Papyrus cit., p. 88; T. Dorandi, Lucilio , fr. 798 Krenkel, «Studi italiani di filologia classica», n.s., L X III (1982), pp. 216-8, e Id., Glutinatores, «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», L (1983), pp. 25-8. 6 J. van Sickle, The Book-Roll and Some Conventions o f the Poetic B ook , «Arethusa», X III (1980), p. 12. 7 S. Mariotti, Lezioni su Ennio , Urbino 1991, pp. 17-23.

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libri latini — idonea a rappresentare le due culture e rincontro tra queste che a Roma veniva a realizzarsi. Il formarsi di queste nuove biblioteche — vengono in considera­ zione quelle degli stessi Catone, Cicerone, suo fratello Quinto, ma anche di Attico e di Varrone — è condizionato dalla produzione libra­ ria di scritti latini, ancora lungi dall’aver raggiunto gli standard quali­ tativi di quella greca11: «non so dove sbatter la testa per quel che ri­ guarda i libri latini, a tal punto difettose sono le copie in commercio», scrive Cicerone a Quinto12, che possiede già una biblioteca greca, ma vuole farsene una latina. Lo stesso Cicerone ha difficoltà a reperire opere latine da lui lette e ammirate negli anni dell’adolescenza13; per incrementare la «biblioteca latina» non esita a farsi trascrivere i libri che gli aveva inviato un poetastro come Vibio14; e quando Lucio Pa­ pirio Peto gli dona la biblioteca ereditata dal fratello, non manca di ricordarne i libri latini, gradendoli forse più dei greci15. Trovare Catone che si immerge in letture degli stoici nella biblio­ teca di Lucidlo, o Cicerone che non solo fruisce dei suoi libri ma suo­ le nutrirsi anche di quelli di Fausto Siila, di Lucullo e dell’amico At­ tico16 indica che a monte di queste biblioteche c’era un’idea della di­ mora signorile o della villa come tranquilla occasione di otium in mezzo ai libri e agli amici. Fornite non solo di biblioteche, ma anche di por­ tici, di sale di ricreazione, di pinacoteche, di giardini e di ambienti intesi ad evocare con il loro nome istituzioni ellenistiche come Acade­ mia,, gymnasium, lyceum, palaestra, queste ville sono luoghi di socia­ bilità che fanno da sfondo alla lettura privata dei ceti colti17. La cir­ costanza, altresì, che le biblioteche private risultino aperte ad una consultazione esterna — sia pure circoscritta ad una «casta chiusa» — mostra che esse venivano incontro a bisogni di lettura (studio, ricreazio­ ne) più larghi rispetto al passato, ma che le biblioteche individuali non potevano soddisfare a motivo di una produzione libraria ancora scarsa, 11 Su libri e biblioteche all’epoca di Cicerone interessanti osservazioni sono state fatte da O. Pecere, I meccanismi della tradizione testuale, in Lo spazio letterario di Roma antica , a cura di G. Cavallo, P. Fedeli e A. Giardina, III, L a ricezione del testo, Roma 1990, pp. 314-9. 12 Cicerone, ad Q. f r ., 111,3,6. 13 Cicerone, Brut., 65, 122, 129, 133. 14 Cicerone, Att ., 11,20,6. 15 Cicerone, Att., 1,20,7 (vedi anche 11,1,12). 16 Cicerone, Att., IV, 10,1 e IV, 14,1 e fin ., I l i ,7. 17 P. Zänker, Augustus und die Macht der Bilder, München 1987, pp. 35-8 [trad, it. Augusto e il potere delle immagini, Torino 1989, pp. 30 sgg.].

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disorganizzata e tecnicamente difettosa. Si spiega così, pure, il ricorso ad esperti librarii anche di amici quando un autore, come Cicerone, aveva da «pubblicare» una gran quantità di libri. E tuttavia Catullo e Cicerone, per primi, testimoniano l’attività di botteghe librarie18, e per primi in­ dividuano certe categorie di lettori. Sui panchetti dei librai si potevano trovare volumina — magari di fattura rozza — di pessimi poetae, certo disdegnati da intenditori dal gusto fine, ma che avevano pur sempre un loro circuito di lettura. Cicerone individua una multitudo impressionata dalla dottrina perfacilis e invitante dell'epicureo Caio Amafinio e di quan­ ti ne seguivano le orme, fino al punto che i loro scritti invasero Italiam totam19. Ma lo stesso Cicerone osserva, facendo allusione a dottrine filosofiche poco qualificate, che quanti ne trattavano non trovavano altri lettori se non se stessi e quelli della loro cerchia20. Il riferimento, sempre di Cicerone, a individui di modesta condizione sociale, artigiani e anziani che amavano la historia richiede un più ampio commento: Ci­ cerone infatti sottolinea che tutti questi individui leggevano (o ascolta­ vano) opere di historia per la voluptasf per il piacere della lettura, non per la utilitas che se ne poteva trarre e ch’era il fine del lettore di istru­ zione elevata21. La diversità delle maniere di leggere, postulata da Ci­ cerone, risulta correlata al tipo di lettore; ed è verosimile che scritti dallo stile piuttosto semplice come — qualche decennio più tardi — le biografie di Cornelio Nepote o le gesta di Cesare raccontate dai suoi ge­ nerali potessero coinvolgere anche una fascia di lettori meno istruita22. Insomma sia Catullo sia, più esplicitamente, Cicerone si riferiscono po­ lemicamente a contesti culturali e a circuiti di lettori squalificati in con­ fronto alle élites da essi stessi rappresentate, ma a quest’epoca si tratta in ogni caso di circuiti dai confini e dagli interessi piuttosto delimitati. Il carattere di biblioteca sia «professionale» sia «di lettura» delle prime collezioni private si ritrova nell’unica superstite, la biblioteca ritrovata nella cosiddetta «Villa dei papiri» ad Ercolano. La sezione greca — costituita da libri quasi tutti di scritti epicurei, parte trasfe­ riti dall’Oriente ad Ercolano e parte fatti allestire all’interno della stes­ sa villa da Filodemo di Gadara — è in pratica una biblioteca filosofica 18 Catullo, 14,17-18; Cicerone, Phil.y 2,21. Si veda T.P. Wiseman, Looking fo r Camerius: the Topography o f Catullus 55 y«Papers of the British School at Rome», XLVIII (1980), pp. 6-16. 19 Cicerone, Tuse., IV,6. 20 Cicerone, Tuse., 1,6. 21 Cicerone,//«., V,52. 22 E. Rawson, Intellectual Life in the Late Roman Republic , London 1985, p. 49, dove tuttavia viene postulato un allargamento delle pratiche di lettura troppo esteso per l’età repubblicana.

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d ’uso professionale; laddove invece la sezione latina — testimonia­ ta da scarsi frammenti di scritti coevi, tra cui un Carmen de bello Actiaco23 — era destinata piuttosto a letture di vario genere. Ma que­ sta biblioteca latina ci conduce ormai in età imperiale, nella quale lo scenario della lettura a Roma viene a mutare. Già perseguito da Cicerone e descritto da Catullo si diffonde a que­ st’epoca il novus liber2324, il volumen latino letterario di qualità alta, de­ stinato alla lettura colta, ispirato a modelli greci quali da secoli testimo­ niati nel mondo ellenistico e che nell’arco di tempo tra tarda repubblica e principato risultano prodotti anche in Italia, a quanto i rotoli greci di Ercolano documentano: papiro di prima qualità e di primo impiego, stu­ diata impaginazione dello scritto, forme grafiche accurate e talora elegan­ ti, testo corretto, uso di iniziali distintive e di scritture particolari per il nome dell’autore e il titolo dell’opera al termine di ciascuna unità libra­ ria, asticelle per l’avvolgimento del volumen. Da rotoli latini di questa spe­ cie si deve ritenere provengano frammenti superstiti, riferibili ad età im­ periale, sia di poesia (di Cornelio Gallo)25 sia di prosa (di Sallustio)26. Questo interesse per il libro, per la sua sistemazione editoriale, per i suoi dispositivi di lettura va di pari passo con la nuova letteratura di Roma di livello alto ed aperta alle istanze della cultura greca (si pen­ si, ancora una volta, a Catullo e ai poeti neoteroi). Ma d’altro canto la presenza di un pubblico che, indifferente alla qualità e ai dispositivi tecnici del libro, leggeva solo per la voluptas e non per Yutilitas mostra un progressivo allargamento degli spazi della lettura fino al formarsi di un vero e proprio pubblico di lettori che, in quanto tale, deve inten­ dersi non più limitato a circuiti individuabili ma anonimo e sconosciuto agli autori, i quali, diversamente da Cicerone, in età imperiale finiranno con il tenerne conto nelle strategie di destinazione delle loro opere. Limitato all’Italia ma già di qualche consistenza all’epoca di Augusto, questo pubblico diventa molto più ampio, vario e sparso su tutto il ter­ ritorio dell’impero già verso lo spirare dell’epoca giulio-claudia e ancor più man mano che Pegemonia socio-politica e culturale dell’Italia ri­ spetto alle province viene ad affievolirsi, e quando autori e lettori, gra­ zie ad una più accentuata mobilità etnica e sociale, emergono dai ceti 23 E.A. Lowe, Codices Latini Antiquioresy III, Oxford 1938, n ° 385. 24 Catullo, 22. Si veda L. Gamberale, Libri e letteratura nel carme 22 di Catullo , «Materiali e discussioni», V ili (1982), pp. 143-69. 25 R.D. Anderson-P J . Parsons-R.G.M. Nisbet, Elegiacs by Gallus from Qasr Ibrim , «The Journal of Roman Studies», L X IX (1979), pp. 125-55. 26 E.A. Lowe, Codices Latini Antiquioresy II, Oxford 19722, n ° 223, e Supply Ox­ ford 1971, n° 1721.

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medi e dalle città di provincia. Nella entusiastica visione dei letterati del tempo, i loro scritti, attraverso i libri, si diffondevano fino ai con­ fini del mondo. Il pubblico dei lettori restava tuttavia una minoranza: «non milioni, e neppure centinaia di migliaia, forse non più di qualche diecina di migliaia nei tempi migliori»27: una minoranza comunque in grado di sostenere una produzione letteraria e libraria diversificata per competenze culturali. Ma si deve tuttavia rinunciare a qualsiasi tenta­ tivo di quantificare con maggior precisione numero di lettori, «tiratu­ re» delle copie prodotte, libri effettivamente letti o più letti. Nel pubblico dei lettori c’erano, innanzi tutto, le cerehie aristo­ cratiche colte dedite da sempre all’otium. C ’era poi, a queste strettamente legata, la schiera di grammatici e retori, talora schiavi o liberti, adusi alla lettura di «classici» e non. E c’era, ancora, un pubblico di lettori nuovi distinto da un lato da questi circoli letterari o di scuola altamente istruiti, dall’altro dalla massa degli incolti: un pubblico medio che finisce col lambire anche i ceti medio-bassi. L ’estendersi di pratiche di lettura in età imperiale deve ritenersi direttamente correlato ad una più larga diffusione dell’alfabetismo in quest’epoca. Alla domanda, «era l’alfabetizzazione un privilegio del­ le classi elevate?», così, in maniera tanto sintetica quanto efficace, ha risposto uno storico: dai papiri egiziani si ricavano con certezza tre cose: c’erano degli analfabeti che facevano tener la penna in mano ad altri; c’era gente del popolo che sape­ va scrivere; c’erano testi letterari, dei classici, nelle borgate più trascurabi­ li... Il resto si risolve tutto in sfumature28*.

In àmbito più propriamente romano tracce scritte di questo com­ plesso pubblico di alfabeti, dal più modesto al mediamente istruito e, talora, a quello colto, si ritrovano sui muri e nelle case di Pompei, dove i graffiti restituiscono oscenità, facezie scurrili, qualche verso di autore noto, garbate composizioni poetiche. Leggere, come studiare, a Roma è un «ornamento» delle classi tra­ dizionalmente colte che fasce di nuovi alfabeti e parvenus imitano. In ogni caso l’incremento della lettura tra i secoli I-III d.C. nel mondo romano (o meglio greco-romano) è un dato acquisito, ed è tra l’altro 27 E. Auerbach, Literaturspracbe und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern 1938, p. 178 [trad. it. Lingua letteraria e pubblico nella tarda anti­ chità latina e nel medioevo , Milano 1960, p. 218]. 28 P. Veyne, L'impero romano , in La vita privata dall'impero romano all'anno Mil­ le , Roma-Bari 1986, p. 12 [rist. P. Veyne, La vita privata nell'Impero romano , RomaBari 1992, p. 14].

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0 meno ampia di testo in corso di lettura; il rotolo nel tipo detto della «lettura interrotta», trattenuto da una sola mano che, congiungendo 1 due cilindri alle estremità, lascia libera l’altra mano; il rotolo aperto sull’ultima banda, sporgente verso destra, a lettura che si va conclu­ dendo; il rotolo, infine, completamente riavvolto, stretto nella mano sinistra. Fonti sia iconografiche sia letterarie testimoniano anche l’uso di un leggio di legno, il quale sosteneva il rotolo «in lettura»; esso si mostra appoggiato sul grembo del lettore seduto, o anche montato su una colonnina di supporto. Secondo queste modalità di lettura si pote­ va variare liberamente il segmento di apertura del rotolo, in modo da avere sott’occhio una sola colonna di scrittura o, di solito, più colonne, forse fino a cinque-sei, a giudicare dalla misura della parte svolta che certe raffigurazioni mostrano; anche in quest’ultimo caso l’occhio del lettore veniva a soffermarsi di volta in volta sulla colonna «in lettura» ma trascorrendo agevolmente dall’una all’altra nel percorrere il testo. Nel caso di rotoli illustrati l’occhio poteva «leggere» una sequenza di immagini quasi simultaneamente, colmando con la mente le distanze temporali o spaziali tra le scene rappresentate35. Ma le «descrizioni» iconografiche mostrano anche le situazioni complessive della lettura. Si possono osservare il lettore solo con il suo libro o mentre legge alla presenza di un uditorio che lo ascolta, il maestro impegnato in una lettura di scuola, l’oratore che declama il suo discorso con lo scritto sott’occhio, il viaggiatore che legge sul carro, il banchettante disteso che coglie con lo sguardo le righe del rotolo tra le mani, la fanciulla intenta a leggere in piedi o seduta sotto un porticato. Da fonti letterarie si sa pure che si leggeva quando si andava a caccia, in attesa che la selvaggina finisse nella rete, o duran­ te la notte per vincere il tedio dell’insonnia. La lettura insomma, co­ me in età moderna, sembra essere stata un’operazione molto libera, non solo nelle situazioni ma anche nella fisiologia. Le condizioni dell’imparare a leggere risultano diverse secondo epo­ che, stato sociale, circostanze. In genere esso avveniva nell’àmbito fami­ gliare, o presso maestri privati, o nella scuola pubblica. Vari erano anche fasi e livelli di apprendimento della lettura stessa, nella quale si procede­ va, molto probabilmente, attraverso lettere di corpo diverso, iniziando dalle più grandi. La capacità di leggere poteva fermarsi ai rudimenti indi­ spensabili (leggere le «lettere a scatola», come l’Ermerote petroniano36, 35 Utili considerazioni al riguardo si devono a S. Settis, in S. Settis-A. La ReginaG. Agosti-V. Farinella, La Colonna Traiana, Torino 1988, pp. 107-14. 36 Petronio, sat., 58,7.

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o poco più), o raggiungere, attraverso un tirocinio compiuto con mae­ stri di grammatica e di retorica, gradi assai avanzati, fino ad una per­ fetta padronanza. Ma prima ancora di imparare a leggere si imparava a scrivere. I fanciulli in età scolare (ma con l’avvertenza che questa si mostra disomogenea per epoche, tra centro e periferia, per ceti sociali, e che comunque non si può facilmente determinare)37 dovevano innan­ zi tutto apprendere «figure e nomi delle lettere» in rigoroso ordine al­ fabetico, eventualmente con l’aiuto di modellini d’avorio o altri oggetti simili, e quindi imparare a scrivere, seguendo su una tavola di legno il solco delle singole lettere inciso dal maestro, e poi incidendo queste ultime essi stessi; gli stadi ulteriori erano costituiti dal tracciato delle sillabe, di parole intere e, finalmente, di frasi38. L ’apprendimento della lettura, separato da quello della scrittura, avveniva in un secondo momento, sicché v’erano di certo individui — ri­ masti fermi ai primi gradi della scolarità — capaci di scrivere, ma non di leggere. Ugualmente, gli esercizi iniziali di lettura avevano a fonda­ mento prima la conoscenza delle singole lettere, quindi delle loro asso­ ciazioni sillabiche e di intere parole; l’esercizio stesso continuava con una lettura fatta per lungo tempo molto lentamente, finché non si rag­ giungeva, man mano, una emendata velocitasi vale a dire un considere­ vole grado di rapidità senza incorrere in errori. Il tirocinio si faceva a voce alta, e mentre quest’ultima pronunziava le parole già lette, gli occhi dovevano guardare quelle successive, cosa che Quintiliano, ch’è la fonte di queste notizie, ritiene difficilissima, giacché richiedeva una dividenda intentio animi, cioè uno «sdoppiamento di attenzione». Quando la lettura era sicura e spedita, l’occhio correva davanti alla bocca; e si trattava, in ultima analisi, di una lettura visiva e vocale insieme. L ’e­ spressione elogiativa di Petronio librum ab oculo legit riferita ad uno schiavetto-fecfor allude a questa capacità dell’occhio esperto di decifra­ re immediatamente la scrittura, ma resta il dubbio se si trattasse di una lettura soltanto visiva (e perciò silenziosa) o anche vocale39. La maniera più abituale di leggere era comunque, a qualsiasi livel­ lo e con qualsiasi funzione, quella a voce alta, a quanto risulta anche da altri luoghi dello stesso Quintiliano e da testimonianze diverse40. 37 R.P. Duncan-Jones, Age-Rounding, Illiteracy and Social Differentiation in the R o­ man Empirey «Chiron», VII (1977), pp. 335-53. 38 Quintiliano, inst., 1,1,25-34. 39 Petronio, sat ., 75,4. 40 Riesce sempre utile come raccolta di materiali, pur se superato per certi aspetti e da rivedere in sede critica per altri, il lavoro — cui mi limito a rimandare — di J. Buloch, «Voces paginarum». Beiträge zur Geschichte des Lauten Lesens und Schreibens, «Philologus», L X X X II (1927), pp. 84-109 e 202-40.

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La lettura poteva essere diretta o anche fatta da un lettore interposto tra il libro e chi lo ascoltava, uditorio o individuo; nel caso di certi componimenti poetici, più voci lettrici si alternavano, secondo la strut­ tura del testo. Queste pratiche spiegano anche l’interazione assai stretta tra scrittura letteraria e lettura. La prima era dominata dalla retorica, che imponeva le sue categorie anche alle altre forme letterarie, poe­ sia, storiografia, trattazioni filosofiche e scientifiche; essa perciò ri­ chiedeva, soprattutto nel caso di letture davanti a un pubblico, una lettura espressiva, modulata da toni e cadenze di voce aderenti al ca­ rattere specifico del testo e alle sue movenze formali. Non a caso il termine che indica il leggere la poesia è sovente cantare, e canora, dun­ que, è la voce che la interpreta. Leggere un testo letterario era, in­ somma, quasi eseguire una partitura musicale41. Già la lettura scolare a Roma prevede che il puer, il giovinetto, impari «dove... trattenere il fiato, in che punto dividere il rigo con una pausa, dove si concluda il senso e donde cominci, quando sia da alzare e quando da abbassare la voce, con quale inflessione si debba articolare con la voce ciascun elemento, che cosa con più lentezza o con più rapidità, con più impe­ to o con più dolcezza»42. Si iniziava questo tipo di esercizio con la lettura di Omero e Virgilio; si passava quindi ai lirici, ai tragici e ai comici, ma leggendo dei primi — di Orazio, ad esempio — solo alcu­ ni brani, onde evitare certe parti licenziose; letti erano anche poeti e prosatori arcaici; infine, nelle scuole di retorica, si leggevano gli ora­ tori e gli storici, sia in silenzio, seguendo sul libro la lettura del mae­ stro, sia, a turno, ad alta voce, anche allo scopo di rilevare eventuali difetti formali del testo che si leggeva. Leggere in profondità un au­ tore complesso significava non fermarsi alla «cute», ma arrivare fino al «sangue» e al «midollo» dell'espressione verbale43. Dello sforzo talora richiesto dalla lettura a voce alta testimonia la terapeutica del tempo, che pone la lettura stessa tra gli esercizi fisi­ ci che giovano alla salute44, tanto più ove si pensi che essa era di solito accompagnata da più o meno accentuati movimenti della testa, del torace e delle braccia. Si può forse spiegare così il motivo icono­ 41 Si veda in generale K. Quinn, The Poet and bis Audience in the Augustan Age , in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, Principati 30.1, a cura di W. Haase, Berlin-New York 1982, pp. 155-58. 42 Quintiliano, inst., 1,8,1. 43 Gellio, noci. A t t X V III,4,2. 44 Le testimonianze si trovano raccolte da F. di Capua, Osservazioni sulla lettura e sulla preghiera ad alta voce presso gli antichi, «Rendiconti dell’Accademia di Archeolo­ gia, Lettere e Belle Arti di Napoli», n.s., X X V III (1953), pp. 59-62.

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grafico — assai frequente nel caso di lettura da rotolo — della «lettu­ ra interrotta»: questa veniva interrotta non soltanto per motivi occa­ sionali (commentare un passo, volgersi a discorrere con qualcuno, fare una pausa), ma anche per liberare una mano e sottolineare con più marcata gestualità alcuni momenti. Voce e gesto davano alla lettura il carattere di una performance. La lettura espressiva condizionava a sua volta la scrittura lettera­ ria, che, proprio in quanto destinata ad essere letta abitualmente a voce alta, esigeva pratica e stile propri dell’oralità45. Le frontiere tra il libro e la parola si dimostrano, così, assai sfumate. E quindi, la com­ posizione del testo accompagnata dal sussurro della voce se autogra­ fa, o attraverso la dettatura, o ancora la lettura-saggio del testo fatta dall’autore agli amici, anche questa molto attestata, erano funzionali ad uno scritto che, sostanzialmente destinato all’ascolto, poteva ri­ sentire delle deroghe alle rigorose norme stilistico-retoriche. La voce dunque entrava a far parte del testo scritto in ogni fase del suo per­ corso, dall’emittente al destinatario. «Si dovrà sempre comporre nello stesso modo in cui si dovrà dare voce allo scritto» teorizza Quintilia­ no. V’erano comunque differenze di sonorità nella stessa lettura a voce alta, secondo le occasioni e le tipologie testuali46. A parte il caso di lettori assai esperti o di professione, la lettura era operazione lenta. Una prima difficoltà poteva essere costituita dal genere di scrittura, talora «libraria», calligrafica, ma talora pure semi­ corsiva o corsiva e ricca di legature deformanti: non tutti coloro che avevano pratica di una di esse erano in grado di leggere agevolmente (o anche soltanto di leggere) l’altra. La scansione sonora, inoltre, fre­ nava la velocità della vista, e tanto più la frenava quanto più era chia­ ra, ferma, articolata nei toni la pronuncia. Ma c’erano anche altri fattori che rendevano non facile una lettura rapida. Fino al secolo I d.C. a Roma si adoperarono interpunctay i punti che indicavano gli stacchi tra le parole; ma già a partire dalla fine di quel secolo venne a pre­ valere anche nei testi latini la scriptio continua invalsa nel mondo greco47. La scrittura fu soltanto di rado distinta all’interno, sicché, 45 J. Marouzeau, Le style oral latin, «Revue des Études Latines», X (1932), pp. 147-86. 46 Quintiliano, inst., IX ,4,138 e X I,2,33. 47 Suirinterpunzione nell’antichità resta fondamentale R.W. Müller, Rhetorische und syntaktische Interpunktion. Untersuchungen zur Pausenbezeichnung im antiken L a­ tein, Tübingen 1964 (Diss.); ma si vedano anche le importanti osservazioni di M.B. Parkes, Pause and Effect. An Introduction to the History o f Punctuation in the West, Al­

dershot 1992, pp. 9-19.

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continua com'era, impediva ad un occhio non sufficientemente eser­ citato di individuare subito i confini di ciascuna parola e di coglier­ ne il senso. Alla comprensione di quest’ultimo quindi era di sicuro ausilio Particolazione vocale del testo scritto, giacché l’udito, meglio della vista, poteva cogliere — una volta decifratane la struttura gra­ fica — la successione delle parole, il significato di ciascuna frase, il momento in cui interrompere la lettura con una pausa. I segni cri­ tici o di interpunzione erano funzionali non tanto all’andamento «lo­ gico» ma piuttosto alla strutturazione «retorica» dello scritto, al fine di segnare pause di respirazione e di ritmo per la lettura a voce al­ ta; né peraltro essi erano adoperati sistematicamente o avevano va­ lenza fissa. Ma c'era anche un vantaggio nell’uso della scriptio continua. Que­ sta proponeva un testo neutro al lettore, il quale perciò poteva segna­ re stacchi e pause di sua iniziativa, in relazione alla difficoltà dello scritto e soprattutto secondo il suo livello di comprensione del testo, in pratica la sua maniera di leggere. In ogni caso, mancando saldi di­ spositivi predisposti dall'autore e/o dalla presentazione editoriale del testo, una buona lettura richiedeva non solo capacità cognitive ed eser­ cizio, ma anche un'adeguata preparazione materiale dello scritto me­ diante interventi atti a suddividere le parole, segnare le pause, indicare le frasi asseverative e interrogative o le strutture metriche. «L'un des grands procédés des Romains»48 fu anche la pratica del­ le letture date in pubblico. Il «lancio» stesso delle opere letterarie av­ veniva attraverso un cerimoniale collettivo, le recitationes49, ed invero recitare nella lingua latina implica non una qualche recitazione a memo­ ria, ma «la doppia operazione dell'occhio e della voce», quindi la let­ tura di uno scritto, fatta davanti a un uditorio50. Queste recitationes si tenevano in luoghi pubblici: auditoria, stationesy theatra. La durata di queste letture era di regola commisurata al contenuto di un rotolo: una durata variabile, perciò, entro i limiti delle convenzioni tecnico­ librarie cui il rotolo stesso era sottoposto, a parte casi particolari. Ma più conta sottolineare il carattere di vincolo sociale, di complicità mon­ dana e di abitudine intellettuale di queste letture pubbliche, le quali, proprio in quanto «riti» letterari e sociali, vedevano la presenza non 48 H.-j. Martin, Pour une histoire de la lecture, «Revue française d’histoire du livre», n.s., XVI (1977), p. 585. 49 Si rinvia a Quinn, The Poet and his Audience cit., pp. 158-65. 50 U .E. Paoli, «Legere» e « recitare», «Atene e Roma», n.s., I li (1922), pp. 205-7 (parole citate, p. 206).

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solo di individui interessati e colti, o anche meno agguerriti e perciò dediti all’ascolto più che alla lettura, ma pure di uditori disattenti e infastiditi. Grazie a questi «riti», tuttavia, la partecipazione al «lan­ cio» e alla circolazione di certe opere comprendeva un pubblico più vasto di quello dei veri e propri lettori. In privato, oltre alla pratica della lettura individuale, intima, era diffusa anche la lettura ancillare, mediata da un lector, schiavo o li­ berto: una figura largamente attestata nelle case dei romani ricchi. Lo stesso Augusto aveva al suo servizio lettori; ed è da credere, più in generale, che il farsi leggere dei libri sia stata di solito pratica di chi era in grado di leggerli anche da sé. Assai attestate, pure, sono in privato letture fatte da un lector in occasione di riunioni, soprat­ tutto conviviali; e talora non mancano, altresì, «saggi di lettura» che Fautore di un qualche scritto offriva a pochi intimi51. Queste lettu­ re contribuivano, così, a cementare amicizie, ad intraprendere nuove relazioni sociali, a perpetuare, o ad imitare da parte di classi emer­ genti, consuetudini colte. Assai meno abituale, certo, era la lettura silenziosa, ma non del tutto anomala52. Forse praticata soprattutto nel caso di prodotti scrit­ ti quali lettere, documenti, messaggi, essa risulta comunque attestata — da Orazio a s. Agostino — anche per testi letterari53. E invero, soprattutto nel mondo di Roma imperiale, le modalità della lettura, come gli atteggiamenti e le situazioni, si dimostrano liberi. In età mo­ derna la lettura silenziosa rappresenta lo stadio conclusivo di un ap­ prendimento che comincia con il metodo di lettura ad alta voce e passa attraverso una lettura sussurrata, tanto che la differenza tra i due modi di leggere — il vocale e il visivo — può essere ritenuto indice di uno scarto socioculturale in una società determinata54. Ma nell’antichi­ tà la lettura silenziosa non indicava una tecnica più avanzata rispet­ to a una esperta lettura a voce alta; dalle testimonianze che se ne hanno sembra si trattasse di una scelta, sulla quale influivano fat­ tori o condizioni particolari, come lo stato d’animo del lettore. Si deve 51 P. Fedeli, I sistemi di produzione e diffusione , in Lo spazio letterario di Roma an­ ticay a cura di G. Cavallo, P. Fedeli e A. Giardina, II, L a circolazione del testo y Roma 1989, pp. 349-67. 52 B.M.V. Knox, Silent Reading in Antiquity y «Greek, Roman and Byzantine Stu­ dies», IX (1968), pp. 421-35; S. Mollfulleda, L a lectura, ¿ eslabón entre la lengua escrita y la hablada?y «Revista española de lingüística», XV III (1988), pp. 38 sg. 53 Orazio, sat.y 1,6,122 e 11,5,68; s. Agostino, conf.y VI,3,3 (a proposito di s. Am­ brogio) e V ili, 12,29. 54 R. Chartier, Du livre au lire, in Pratiques de la lecturey a cura di R. Chartier, Marseille-Paris 1985, p. 67.

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ritenere che essa fosse praticata da individui che se ne avvalevano in­ sieme all’altra ad alta voce. Né mancava una lettura sussurrata, anch’essa correlata non tanto al grado di capacità di leggere, ma piuttosto a fattori d ’altro genere, inerenti alle situazioni della lettura o alian­ dole del testo. Le letture fortemente «espressive» riguardavano soprattutto cer­ to tipo di letteratura, quella dominata dalla retorica e dai suoi artifi­ ci, cui potevano accedere come lettori o ascoltatori di lettura mediata gli individui più colti, quanti della retorica possedevano gli strumen­ ti. Ma v ’erano altre letture, che rispondevano alle esigenze di un pub­ blico stratificato, qual era quello che si è individuato per i primi secoli dell’impero. Quando Apuleio, nell’introduzione del suo romanzo, di­ ce di voler accarezzare le orecchie dei suoi lettori lepido susurro55, de­ stina le sue Metamorfosi anche a questo pubblico e a una lettura individuale, sussurrata. E sussurrata o silenziosa, infatti, doveva es­ sere la lettura non solo della narrativa, ma più in generale della lettera­ tura di intrattenimento, meno adatta a letture a voce alta e in pubblico.

I nuovi spazi della lettura Il nuovo lettore nei primi secoli dell’impero è un lettore non più, o non solo, «obbligato» a leggere dalle sue funzioni in quanto autorescrittore, tecnico di una qualche professione, funzionario civile o mi­ litare, maestro di scuola o anche semplice scolaro, ma un lettore «li­ bero», che legge per il piacere o l’abitudine o il prestigio della lettura. Si tratta, insomma, di quanti si dedicano alla lettura anche fuori da una qualche necessità pratica o strumentale del leggere, o di individui alfabetizzati e magari istruiti che leggono pur non avendo a che fare con professioni connesse con libro e cultura scritta. Luciano, autore dalla satira violenta, ha tracciato il profilo di un lettore del II secolo d.C., o meglio di una certa categoria di lettori, quella di quanti accumulavano nelle loro case libri su libri, leggendo­ ne magari molti, ma senza recepire gran che del testo contenutovi, incapaci com’erano «di discernere pregi e difetti dei singoli scritti, di afferrare il senso di ogni passo, di giudicare la disposizione delle parole». Questo tipo di lettore è perciò considerato «incompetente» nella sarcastica invettiva di Luciano; ma si tratta comunque di un 55 Apuleio, met. y 1,1,1.

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lettore, il quale «ha sempre un libro tra le mani» leggendo in conti­ nuazione, e che sa anche leggere «con voce sicura e spedita». Certo, il collezionista di libri lucianeo — come un altro «incompetente» che a Corinto pare leggesse le Baccanti di Euripide o altra opera troppo colta per la sua modesta istruzione — è un lettore che «offende» il libro «stravolgendone il senso», che confonde autori, opere e gene­ ri letterari, che mastica malamente poesia e prosa, e che non ardireb­ be mai spacciarsi «per un tipo istruito», ma resta un individuo che — lo ammette anche Luciano — in ogni caso legge libri (o se li fa leggere)56. Le letture di poesia o prosa «alta» e talora «difficile», antica e mo­ derna, non potevano che restare limitate ad un pubblico colto che, pur se più numeroso che in epoca precedente, era comunque non am­ pio; e quanti vi si accostavano da sciocchi amanti di libri e bibliote­ che senza le necessarie competenze finivano con il recare offesa ad autori sommi coprendosi di ridicolo come lo sprovveduto lettore lu­ cianeo. Ma bibliomani o altri lettori privi di un’attrezzatura intellet­ tuale di alto profilo erano di sicuro in grado di comprendere e recepire letture meno impegnative, entrando a far parte di quel nuovo mondo di lettori che si è qui voluto individuare. Questo mondo — designato dagli autori come vulgus, plebs, media plebs, plebeiae manus — non costituiva una collettività omogenea di cultura, ma, diversificato sia per estrazione sociale sia per educazione ricevuta, si presentava come un pubblico assai stratificato, e perciò con interessi e scelte di lettura differenziati. Si trattava di un pubblico ormai anonimo, che ai tempi di Plinio e di Tacito si poteva incontrare al foro o al circo57, costi­ tuito, in generale, da un ceto medio ora meno ora più (e talvolta mol­ to) istruito fatto di tecnici, funzionari e militari di qualche rango, mercanti, agricoltori e artigiani non incolti, ricchi parvenus, donne di condizione agiata, faciles puellae. A quest’ultimo proposito, l’età imperiale segna un più largo in­ gresso delle donne nel mondo della parola scritta. C ’erano state, cer­ to, anche nella Roma repubblicana matronae e puellae doctae salda­ mente in grado di fare delle letture (si pensi a Cornelia madre dei Grac­ chi, o a Sempronia cultrice di lettere greche e latine), ma si trattava di figure assai rare. La donna-lettrice nasce non prima dell’età augu»tea ed è all’incirca a partire da quest’epoca, del resto, che nella pittura 16 Luciano, ind.t 2-4, 7, 18-19, 24. 17 Plinio, ep., IX ,23,2.

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pompeiana e sui sarcofagi compaiono — oltre ad immagini di lettori — donne in pose di lettura. Ma non è pacifico questo ingresso della don­ na nella cultura scritta. In un certo modo di vedere della società ro­ mana e degli autori del tempo è meglio che una donna «non capisca qualcosa di quanto legge nei libri», giacché una donna istruita è in­ sopportabile58. E Ovidio invece, autore altrimenti sensibile alla più larga doman­ da di lettura della sua epoca, che include la donna nella media plebs dei suoi lettori. Ovidio si pone dunque come una figura-chiave nel cogliere e nel rappresentare il nuovo rapporto che viene ad instaurar­ si tra donna e cultura scritta. Biblide, turbata dall’amore incestuoso per il fratello, cerca di esprimere in parole incise su una tavoletta, can­ cellate, riscritte i suoi sentimenti insani e tumultuosi59; Filomela, la lingua mozzata, intesse nella tela il miserabile carmen che racconta lo stupro subito e che sua sorella potrà, così, leggere60; le heroides, co­ me Briseide, scrivono lettere, e lettere autografe e perciò talora chiaz­ zate dalle lacrime che ne accompagnano la scrittura o la rilettura61. Alle donne Ovidio dedica il terzo libro dell’Arc amatoria62; le donne sono necessariamente le lettrici del suo trattatello di cosmesi, i Medicamina faciei, sui preparati e sulle arti del trucco femminile; ai tor­ menti d’amore delle donne, e non solo degli iuvenes, sono rivolti i Re­ media amoris. Entrate nel mondo della parola scritta, le donne posso­ no ormai essere rappresentate nell’atto di scrivere o di leggere qual­ cosa in cui narrare o ritrovare esperienze e sentimenti di donne. La risposta all’accresciuta domanda di lettura è diversa, correlata da una parte alla funzione-autore, dall’altra alla stratificazione socioculturale del pubblico. Questa diversità di risposta si coglie, innanzi tutto, nel motivo letterario del libro personificato, reso voce parlante dell’autore63. Se Orazio rappresenta il libro come un giovinetto sma­ nioso di uscire dalle pareti domestiche — segno di una potenziale cir­ colazione dell’opera oraziana anche fuori di ristrette cerehie individuabili — ma che dovrà affrontare il contatto con un vulgus di incerta anagra­ fe culturale, anonimo, e quindi i rischi di una maniera impropria di 58 59 60 61 62 63

Giovenale, sat., 6,451. Ovidio, met., IX ,522-5. Ovidio, met., V I,576-83. Ovidio, ep., 3,1-4. Ovidio, ars, 11,745-6 e 111,45-8. I passi sono raccolti e discussi da M. Citroni, Le raccomandazioni del poeta: apo­ strofe a l libro e contatto col destinatario, «Maia», n.s., X X X V III (1986), pp. 111-46.

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lettura che l’autore teme, Ovidio invece vede nel libro l’intermediario tra la sua opera e un «lettore amico» cui il libro chiede di dargli la mano, e il quale altri non è che il nuovo e sconosciuto lettore di quella plebs per la quale Ovidio sostanzialmente scrive: una plebs che all’epoca di Marziale sarà ancora più numerosa e variegata fino a toc­ care fasce di lettori di istruzione medio-bassa. Conseguenza di questo allargarsi delle fasce di lettori è l’insorge­ re in età imperiale di una letteratura «di consumo» o di intratteni­ mento non inquadrata nei generi tradizionali: poesia di evasione, epica in parafrasi, storia ridotta a biografie o concentrata in epitomi, trattatelli di culinaria e di sport, opuscoli per giochi e passatempi, opere erotiche, oroscopi, testi magici o per l’interpretazione dei sogni, ma soprattutto una narrativa fatta di situazioni tipiche, di stereotipi de­ scrittivi, di psicologie schematiche, di sviluppi del racconto intricati e intriganti, di colpi di scena: il tutto innestato su una trama di fondo d’amore e d ’avventura. In questa letteratura destinata ad una circola­ zione ampia si deve annoverare anche quella che viene indicata come «pamphleteering literature»64, in pratica i cosiddetti Acta Alexandrinorum restituiti dai ritrovamenti greco-egizi. Si trattava di una lette­ ratura «sovversiva» e forse clandestina giacché raccontava la fiera resistenza, la condanna e il supplizio dei martiri pagani di Alessan­ dria ribelli al dominio di Roma. Almeno alcuni degli scritti che conte­ nevano testi di intrattenimento, di evasione, potevano interessare sia un lettore di istruzione media (o, per certi testi, medio-bassa) sia an­ che un lettore colto: quel nuovo lettore, insomma, aduso ormai a leg­ gere senz’altro intento se non quello del «piacere del testo». Le cesure culturali tra i lettori non sempre implicavano una scelta differenziata di letture; queste erano tante volte le medesime, mentre diverse era­ no le maniere di leggere, di comprendere, di recepire lo scritto. Si trattava perciò di letture che spesso avevano una circolazione «tra­ sversale». Il discorso ritorna, ancora una volta, ad Ovidio, testimone di li­ bri veicolanti composizioni letterarie di carattere didascalico ma che dànno precetti su attività di svago65: una «biblioteca» di trattati e opuscoli intesi «come guida pratica per l’uso del tempo libero», che assumevano una speciale attualità nelle giornate dei Saturnali, e dai 64 E .G . Turner, Greek Manuscripts o f the Ancient World. Second Edition Revised and Enlarged , a cura di P.J. Parsons, London 1987, p. 96. 65 Ovidio, trist., 11,471-92.

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quali il lettore poteva ricavare piacere ritrovandovi in forma di lettera­ tura minore regole e insegnamenti su un qualche famigliare intratteni­ mento66. Questo tipo di libro è, all’epoca di Ovidio, anche ingrediente e strumento di rapporto sociale giacché si propone sovente come dono tra amici colti, tra letterati che non disdegnano di leggere quella lette­ ratura minore. Lo stesso Ovidio scrive libri con finalità di intratteni­ mento: sono soprattutto quelli ch’egli pubblica in veste di poeta erotico e «che si succedono, verisimilmente, sotto rincalzare della domanda del pubblico»67. Ma tutto questo genere di letteratura e di libri, qual­ che decennio più tardi, comincia a proporsi, magari in forme semplifi­ cate e banali, come lettura anche per un pubblico più vasto, indiffe­ renziato e connotato da meno qualificate abitudini intellettuali. Per Marziale, che guarda a lettori più numerosi di quelli di Ovidio, la pub­ blicazione di un nuovo libro in prossimità dei Saturnali si configura come un’opportunità, che egli coglie volentieri, per far sentire ai lettori la capacità che la sua poesia ha di porsi come un elemento vivo e attivo di piace­ vole intrattenimento, proponendosi alla lettura proprio nei momenti in cui era più largo e intenso nella società romana il consumo di intrattenimenti e svaghi e in cui anche la produzione libraria si inseriva con le sue offerte in questo bisogno di divertimenti e di distrazioni6869.

Forse nessuna letteratura più di quella erotica mostra forme e adat­ tamenti mirati a raggiungere lettori con competenze magari diverse ma accomunati da uguali esigenze di svago. C ’erano lettori delle ela­ borate opere erotiche di Ovidio; c’erano militari che leggevano i Milesiakà di Aristide famigerati per la loro oscenità; ma si ha notizia pure che circolavano vere e proprie guide erotiche come i molles libelli di Elefantide, corredati da obscenae tabellaeyillustrazioni sconce, i quali furono in voga nei secoli I e II d.C. (ne possedeva un esemplare an­ che l’imperatore Tiberio); e c’erano, ancora, quanti «svolgevano» librirotoli degradati a semplici sequenze di figurae Venerisi. Tra le letture «trasversali» un posto importante occupa la narrativa. 66 M. Citroni, Marziale e la letteratura per i Saturnali (poetica dell'intrattenimento e cronologia della pubblicazione dei libri), «Illinois Classical Studies», XIV (1989), pp. 201-6 (parole citate, p. 205). 67 M. Citroni, Poesia e lettori in Koma antica , Roma-Bari 1995, pp. 442 sg. 68 Citroni, Marziale cit., pp. 206-26, ove si trovano studiate tutte le testimonian­ ze (parole citate, p. 226). 69 Un’ampia raccolta di materiali del genere è discussa da F. De Martino, Per una storia del genere pomografico , in L a letteratura di consumo nel mondo greco e latino , a cura di O. Pecere e A. Stramaglia (in corso di stampa).

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Soprattutto certi romanzi greci — in particolare Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, Dafni e Cloe di Longo Sofista, le Etiopiche di Elio­ doro — potevano soddisfare le esigenze di individui adusi a testi di elevato livello letterario, ma ad un grado di ricezione diverso serviva­ no a dilettare anche lettori e lettrici magari saldamente alfabetizzati, ma ai quali i grandi autori della letteratura antica sarebbero riusciti di scarso gradimento (e di scarsa comprensione). «Piacevole posses­ so» chiama il suo romanzo Longo Sofista con riferimento alle sensa­ zioni di conforto e di piacere che se ne potevano trarre70. Quello che avvinceva il vulgus in grado di leggere questi racconti erano le situa­ zioni che si dipanavano intorno a una coppia di amanti con un ritmo narrativo reso incalzante dal susseguirsi degli avvenimenti, dalle pe­ ripezie dei protagonisti, dal loro continuo perdersi, ricongiungersi, tra­ dirsi, ritrovarsi sullo sfondo di atmosfere tragiche o ridanciane, tene­ brose o smaglianti, religiose o carnali71. Il pubblico femminile istruito doveva essere attento a questo tipo di letteratura sentimentale e fantastica, con le sue storie di donne inse­ rite nella trama, forse, proprio per attirarlo. Antonio Diogene — un romanziere la cui opera è nota solo per frammenti e sunti — dedica il suo romanzo Le meraviglie al di là di Thule alla sorella Isidora72: ve­ rità o finzione, questa dedica indica che vi erano forme di letteratura come il romanzo destinate anche (o soprattutto?) al consumo femminile. Lontana dalle occupazioni della vita pubblica, la donna, se in qualche modo istruita, poteva ritagliarsi un suo spazio tutto privato come lettrice, verisímilmente di letteratura di evasione, nella quale trovava spesso rap­ presentato un universo femminile nel quale riconoscersi73. Silenziosa o, al più, sussurrata questa lettura doveva essere assai diversa da quella retorica, ad alta voce e, in ultima analisi, «maschile». La cornice delle letture femminili, quali le immagini di stampo tardo-ellenistico di Pompei restituiscono, è quella della casa privata in cui di solito la donna legge 70 Longo, proem. 3. 71 Sul pubblico di lettori di questo genere di testi si vedano almeno T. Hägg, The Novel in Antiquity, Oxford 1983, pp. 90-101; K. Treu, Der antike Roman und sein Pu­ blikum , in Der antike Roman. Untersuchungen zur literarischen Kommunikation und G at­ tungsgeschichte, a cura di H. Kuch, Berlin 1989, pp. 178-97; E .L. Bowie, Les lecteurs du roman grec, in L e monde du roman grec. Actes du Colloque international tenu à TEcole normale supérieure (Paris 17-19 décembre 1987), a cura di M.-F. Basiez, Ph. Hoffmann e M. Trédé, Paris 1992, pp. 53-61. 72 Fozio, b ib l, cod. 166, llla - b . 73 B. Egger, Zu den Prauenrollen im griechischen Roman. Die Frau als Heldin und Leserin , in Groningen Colloquia on the Novel, I, Groningen 1988, pp. 33-66.

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sola, assorta nello scorrere il rotolo/libro. Ma non è sconosciuta la fi­ gura della donna che legge in pubblico: «...aveva nelle mani un rotolo avvolto alle due estremità, e sembrava leggerne una parte e averne già letta un’altra; e camminando conversava con qualcuno dei suoi accompagnatori»74. Questa donna che Luciano descrive mentre leg­ ge camminando e che interrompe di tanto in tanto la lettura per ri­ volgersi a qualcuno del suo seguito restituisce uno squarcio vivido di lettura femminile. Restando nell’àmbito della narrativa, ma allargando il discorso al romanzo latino, si colgono forse meglio certi piani diversificati di let­ tura, quali offrono il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apu­ leio. Nel romanzo petroniano «le storie di lazzaroni, di pederasti, di sacerdotesse ruffiane e di nuovi ricchi sporcaccioni»75 piacevano al lettore colto non meno che a un pubblico di cultura media (o medio­ bassa), tra cui c’erano proprio quei «nuovi ricchi» che si ritrovano, come nel romanzo, nella società greco-romana dell’epoca di Petronio. Ma il lettore colto poteva poi trovarvi anche una sofferta ricerca inte­ riore, una profondità più amara di quanto non appaia ad una superfi­ ciale lettura di intrattenimento, gustandone, altresì, i diversi e sapienti livelli di stile767. E con questo intento che le Metamorfosi di Apuleio si rivolgono, innanzi tutto, ad un lector scrupulosus11. Nella rappre­ sentazione apuleiana è il lettore che del testo destinatogli è in grado di cogliere tutte le sfumature e tutte le implicazioni, ma può coglierle se non sdegnerà di inspicere, «leggere stando attento ad ogni detta­ glio», la sua papyrum Aegyptiam, il «rotolo di papiro egiziano» veicolo del testo78. Insomma, il testo/libro di narrativa sembra nascere, cer­ to, per l’intrattenimento, ma per l’intrattenimento colto. E tuttavia l’ampliamento delle fasce dei lettori iscrive anche il testo/libro di narrativa in una matrice culturale diversa da quella dei suoi primi destinatari; e perciò i medesimi testi venivano man ma­ no fruiti da un pubblico intellettualmente meno avvertito, il quale si limitava a farne una lettura approssimativa, che associava le situa­ zioni essenziali di amori, avventure^ fantasticherie, con una coeren­ za del testo soltanto relativa. Si trattava in questo caso di un lector non scrupulosus perché di istruzione meno elevata. E quando questo 74 75 76 77 78

Luciano, imag., 9. R. Queneau, Segni, cifre e lettere e altri saggi, Torino 1981, pp. 98 sg. P. Fedeli, in Petronio Arbitro. I racconti del «Satyricon», Roma 1988, pp. 7-15. Apuleio, met., IX,30,1. Apuleio, met., 1,1,1.

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lector non scrupulosus era a stento sulla soglia di una istruzione me­ dia, gli venivano proposti testi di livello più basso, ridotti agli ele­ menti essenziali di una trama fantastico-narrativa o mirati a restituirgli le emozioni di una triviale sensualità: si pensi a racconti quali i Pboittikikà di Lolliano79, in parte conservati, o i Rhodiakà di Filippo di Anfipoli, opera perduta ma che una fonte erudita pone tra quelle «as­ solutamente sconce»80. Scritti narrativi di livello qualitativamente basso restituiti dall’Egitto sono connotati talora da dispositivi di let­ tura che devono essere considerati «aids for the inexperienced rea­ der», rilevati anche in testi ad uso della scuola81. Un frammento di narrativa di questo genere, il cosiddetto «Satyricon greco» è a sua volta connotato da una mise en texte tendente ad organizzarne la lettura82. Tutto lascia credere che in casi del genere si tratti di dispositivi mira­ ti a rendere più facile la comprensione del testo anche a lettori meno agguerriti, magari rimasti fermi a pratiche di lettura scolare, sia pure piuttosto avanzate. A detta di Gellio, al porto di Brindisi erano esposti in vendita libri greci ch’egli acquista a poco prezzo e «scorre» nelle due notti successive83; e questi libri contenevano, tra l’altro, racconti di fatti straordinari, inauditi e incredibili, che altro non possono indicare che una letteratura di evasione, quanto mai adatta ad esser letta durante le traversate da viaggiatori di varia istruzione e dalla stessa-gente di mare. Ed ancora, si ha notizia di un’offerta di libri ad opera di una sorta di colporteur che recava la sua merce porta a porta in cerca di lettori84, i quali per la più parte dovevano appartenere ad una plebs verisímilmente in grado di leggere libri di non complessa struttura let­ teraria e talora corredati di ausili alla lettura. Infine vale la pena fare qualche scandaglio tra i frammenti di libri greci illustrati della prima età imperiale ritrovati in Egitto. Si tratta ora di testi connotati da un lavoro di adattamento che ne ha ridotto, tagliato, semplificato il contenuto nel caso di letteratura alta come la poesia omerica, ora di scritti nuovi, intesi a fare del libro illustrato un prodotto destinato al puro intrattenimento. Esemplari del genere, 79 A. Henrichs, Die Pboinikikà des Lollianos. Fragmente eines neuen griechischen Ro­ mans, Bonn 1972.

80 81 82 83 84

E quanto attesta il lessico bizantino Suda (ed. A. Adler, IV, Lipsiae 1935, p. 724). Parkes, Pause and Effect cit., p. 12. The Oxyrhynchus Papyri, X L II, London 1974, n ° 3010. Gellio, noct. Att., IX ,4,1-5. E .G . Turner, Greek Papyri. An Introduction , Oxford 19802, p. 204 [trad. it. Papiri greci, Roma 1984, p. 93].

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fossero poveri e rozzi o di raffinata manifattura, non erano destinati a intenditori di letteratura; si trattava di una mistura di ovvio e di banale che non poteva rivolgersi ad altri se non a un pubblico di esi­ genze culturali assai modeste o ad una fascia di nuovi ricchi che si circondava di strumenti della cultura scritta ma che, come un Trimalchione petroniano pur proprietario di tre biblioteche, era in grado di leggere soltanto libri semplificati nel testo o comunque resi più at­ traenti e comprensibili dalle figure85. In questi casi si è di fronte ad una degradazione dell’originario modello del volumen letterario, al suo diffondersi, in forme volgarizzate, verso strati sociali di cultura medio-bassa. Vi sono, tra i secoli II-III, frammenti che fanno pensare che il «campo librario» fosse occupato in massima parte dall’immagine, men­ tre il testo, ridotto ad elementi essenziali, svolgesse una funzione di didascalia o quasi: tali si devono ritenere una scena che richiama il racconto di Amore e Psiche*6, una illustrazione dalVIliade con Yahductio di Briseide87, e una specie di centone omerico nel quale si può ve­ dere il fantasma di Patroclo che appare ad Achille88. E c’erano, ancora, libri illustrati di infimo livello letterario e linguistico, quale un volumen contenente le fatiche d’Èrcole che può richiamare in qual­ che modo le nostre storie «a fumetti» o raccontate attraverso defor­ mazioni caricaturali dei personaggi89. L ’età imperiale, insomma, segna la diffusione di una «letteratura per gli alfabeti» diversa dalla tradizionale «letteratura per i dotti» che pure non manca ma che resta riservata a questi ultimi, i quali invece, a loro volta, potevano accedere, e sovente accedevano, anche alla let­ tura dell’altra. Si tratta di un mondo di lettori complesso e sfumato, di cui gli autori del tempo prendono man mano coscienza, rispondendo alle attese del pubblico non solo con opere mirate ad avvincerlo, ma anche altrimenti. A partire dall’età di Ovidio, infatti, si possono osser­ vare modi intesi ad avvicinare al libro il potenziale utente rendendogli più agevole l’accesso alla lettura. Si tratta di una pratica già nota al­ l’età ellenistica, ma che acquista consistenza a Roma e in età imperiale. 85 N. Horsfall, The Origins o f the Illustrated Book, «Aegyptus», L X III (1983), pp. 199-216. 86 Papiri deUTstituto Papirologico «G . Vitelli», I, Firenze 1988, pp. 32 sg. 87 A. Hartmann, Eine Federzeichung au f einem Münchener Papyrus, in Festschrift fü rG . Leidinger zum 60. Geburtstag am 30. Dezember 1930, München 1930, pp. 103-8. 88 The Oxyrhynchus Papyri, X LII, cit., n° 3001. 89 The Oxyrhynchus Papyri, X X II, London 1954, n° 2331.

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Attento al suo anonimo pubblico, Ovidio — soprattutto nelle opere erotiche, da ritenere le più diffuse — inserisce continue istruzioni per segnalare qual posto un libro occupi rispetto ad altri già pubblicati, o per indicare le variazioni di una seconda edizione rispetto alla pri­ ma, o per rinviare ad un'altra sua opera riguardo a particolari argo­ menti90. E Plinio compila un sommario introduttivo, suddiviso per libri e dettagliato, per rendere la sua imponente Naturalis historia più accessibile all'umile vulgus, ai molti agricoltori e artigiani, o co­ munque a quanti vogliano leggerla e conoscerla. Anche le introduzio­ ni ad altre opere tecnico-scientifiche dell'epoca sono mosse dallo stesso intento. Nella medesima prospettiva di avvicinare il libro al lettore o, se si vuole, di venirgli incontro, va considerata la ricerca di tipologie li­ brarie diverse dal rotolo, e quindi l'affermazione del codex, il libro «a pagine». Di più facile manifattura, il codice ne accorciava i tem­ pi consentendo una più larga circolazione libraria; a parità quanti­ tativa di testo, notevole era il risparmio di materia scrittoria dato che questa veniva scritta sulle due facciate invece che su una, sic­ ché il costo di un codex risultava molto meno elevato di quello di un volumen; grazie alla sua forma, il codice disimpegnava una delle mani rendendo più libera la lettura. Alla fine del I secolo d.C. Marziale non solo dissemina nei suoi libri indicazioni di botteghe e di librai in modo da renderne più semplice l'acquisto91, ma — primo tra i let­ terati — «scopre» le nuove opportunità offerte dal codice92. Non a caso. Marziale, pur se letto anche da individui assai colti, scrive te­ nendo d ’occhio lettori più numerosi e meno abbienti: il centurione, le puellae, la plebs dei ludi Florales, e quanti, a livelli diversi di rice­ zione, vogliono comunque ritrovarsi nel piacere di leggere i suoi versi in agili libelli.

«Volumen» e «codex»: dalla lettura ricreativa alla lettura normativa Il codice si dimostra nel suo definirsi come libro di contenuto let­ terario una «invenzione» romana. A partire dal II secolo d.C. il libro in forma di rotolo, introdotto secoli prima a Roma dal mondo elle­ 90 Su questo aspetto, in relazione alTestendersi del numero di lettori, insiste a ra­ gione Citroni, Poesia e lettori cit., pp. 442-59. 91 Marziale, 1,117,10-17; IV,72,2; X III,3,4. 92 Marziale, 1,2,1-4; X IV ,184, 186, 188, 190, 192.

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nistico, comincia a perdere terreno fino al totale sopravvento del co­ dice. Quando? Il quadro offerto dal mondo greco — documentato dai numerosi ritrovamenti greco-egizi — mostra quale epoca del definiti­ vo affermarsi del codice l’inizio del secolo V. Ma nell’Occidente ro­ mano il fenomeno sembra di data più alta, pur se le testimonianze di cui si dispone sono troppo scarse per dare una risposta certa. In ogni caso Marziale, già alla fine del I secolo, parla del codice di conte­ nuto letterario — Omero, Virgilio, Cicerone, Livio, Ovidio, oltre ai suoi stessi Epigrammi — come libro prodotto da botteghe librarie, quin­ di in un qualche numero di copie, sia pur lasciando intravedere che si tratta di novità. E ancora, gli ultimi libri latini superstiti in forma di rotolo si possono assegnare al più tardi ad una data tra lo scorcio del III e F inizio del IV secolo. Infine, uno dei più antichi codici con­ servati, riferito al I-II secolo, è costituito dal frammento di un’opera latina, il cosiddetto De bellis Macedonici^ 1. Tutto questo fa credere che nelle pratiche librarie dell’Occidente romano la definitiva affer­ mazione del codice sia da porre forse non oltre la fine del III secolo, e quindi ad una data assai anteriore a quella dell’inizio del V, quale si dimostra nel mondo greco. Assai più rapido invece — in tutto il mondo mediterraneo di cul­ tura greca e latina — fu il favore accordato al codice dai cristiani, tanto che i libri del loro credo risultano fin dalle origini quasi tutti di questa specie. Ma non si deve credere che furono i cristiani ad ela­ borare la forma del codice, la quale — nella specie di tavolette, qua­ derni e taccuini — era nota da tempo antichissimo nel mondo romano. Inoltre, ai suoi albori il cristianesimo fu religione fondata sulla paro­ la, sulla predicazione, sulla «viva voce», che nella tradizione ellenisticoromana era a fondamento della retorica, della lezione di scuola o del­ l’insegnamento di discipline tecniche, pur se il libro poteva avere una complementare funzione di guida. E tuttavia quando il cristianesimo — trovandosi ad operare in un’epoca e in una società di larga parteci­ pazione degli individui alla cultura scritta — volle affidare al libro la diffusione del suo messaggio, orientò in maniera decisa la sua scel­ ta in favore del codice. Le motivazioni di questa opzione sono assai dibattute9394. Si deve 93 Lowe, Codices Latini Antiquiores, II, cit., n° 207. 94 Sul dibattito in corso si vedano almeno — oltre al classico lavoro di C.H. Roberts-T.C. Skeat, The Birth o f the Codex , Oxford 1983 — M. McCormick, The Birth o f the Codex and the Apostolic Life-style , «Scriptorium», X X X IX (1985), pp. 150-8; J. van Haelst, Les origines du codex , in Les débuts du codex , a cura di A. Blanchard, Turnhout 1989, pp. 13-35; W.V. Harris, Why Did the Codex Supplant the Book-Roll?, in

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forse partire dalla constatazione che il codice costituiva un modello di «contenitore di testo» diverso dal rotolo, legato alla tradizionale cultu­ ra letteraria delle classi dominanti. Il cristianesimo, al momento del suo proporsi come religione scritta rivolta a tutti, faceva leva su fasce alfa­ betizzate di vario livello sociale e culturale: fasce costituite non tanto o non soltanto dal tradizionale pubblico di lettori adusi al libro/rotolo, ma anche da individui forniti di istruzione media o medio-bassa ai quali, pur se non erano sconosciuti rotoli contenenti testi piuttosto semplici o letteratura di intrattenimento e divulgativa, la cultura scritta era più vicina e famigliare sotto forma di modeste letture scolastiche o di di­ scipline tecniche, e perciò di libri nella specie di codice per la loro tipo­ logia più adatta proprio a quaderni di scuola, taccuini di appunti, pron­ tuari ad uso professionale. L ’opzione cristiana in favore del codice andava quindi nel senso del prodotto scritto più noto a quel tipo di pubblico, ma che risultava anche più accessibile sotto l’aspetto econo­ mico. Il successo fu altresì assicurato dalla capienza e dalla tipologia a pagine del codice, il quale consentiva, così, di collocare una quantità di testo assai più estesa di quella che poteva contenere un rotolo, di dare quindi assetto unitario agli scritti divenuti canonici della nuova religione, di reperire sezioni e passi particolari o di farvi riferimento. Tutto questo giustifica la scelta cristiana, la quale comunque risulta in pratica esclusiva solo per le Sacre Scritture, mentre gli stessi cristiani, se committenti o lettori di libri di letteratura non solo classica o profa­ na, ma anche patristica, continuarono in certi casi ad adoperare il ro­ tolo ancora per qualche tempo. Nella sostituzione del codice al rotolo s’inquadra anche il prevalere delle pergamena sul papiro come materia scrittoria. Anche a questo processo sembra aver contribuito un’opzio­ ne, o almeno una preferenza, dei cristiani. In ogni caso la tarda antichità vedeva in Oriente come in Occi­ dente l’uso generalizzato del codice per qualsiasi tipo di scritto, pro­ fano o cristiano, e in qualsiasi strato di pubblico. Il diffondersi del codice non modificò immediatamente strategie e modalità di lettura nel loro complesso. I cristiani, che avevano adotta­ to in misura massiccia quella forma di libro, continuarono a muoversi nel solco tradizionale: i libri venivano scritti e scambiati tra i fedeli, la lettura poteva essere individuale o mediata dalla voce di un lector Renaissance Society and Culture. Essays in Honor o f Eugene F. Rice, Jr., a cura di J. Monfasani e R.G . Musto, New York 1991, pp. 71-85; T.C. Skeat, ïrenaeus and the FourGospel Canon, «Novum Testamentum», X X X IV (1992), pp. 194-9, e Id., The Origin o f the Christian Codex, «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», C il (1994), pp. 263-8.

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nelle riunioni comunitarie, testi cristiani venivano composti e diffusi per un pubblico di nuovi lettori di cultura media o medio-bassa quale emerge in età imperiale e in cui il cristianesimo aveva molti dei suoi proseliti. A quest’ultimo proposito si deve credere che quella «vege­ tazione fitta, quasi impenetrabile», qual fu la prima letteratura cri­ stiana, sia stata letta come narrativa95, come una serie di racconti in cui venivano ad esprimersi e a riconoscersi ansie sociali e spirituali del tempo. Fu solo in un secondo momento che determinati testi di­ vennero canonici — mentre gli scritti ritenuti apocrifi furono respin­ ti e condannati — e perciò elevati a fondamento di dottrina, a letture che qualsiasi buon cristiano era obbligato a fare ove ne fosse in grado. Del resto sia i testi canonici sia gli apocrifi — questi ultimi comple­ mentari ai primi in quanto con gusto tutto narrativo ne colmavano la­ cune di figure, vicende, dettagli — così come pure scritti d’indole apoca­ littica o misterica, o ancora atti di martiri, vite di santi, exempla e rac­ conti di ispirazione cristiana altro non costituivano se non riconversioni della letteratura di intrattenimento pagana, in particolare del romanzo, insistite com’erano sulla presa emotiva di personaggi ed eventi, su topoi ripetuti come l’atroce supplizio del martire, le convinzioni incrollabili, Yamor mortis; né mancavano storie di viaggi, avventure, accadimenti miracolosi quali nel romanzo. Si trattava, ancora una volta, di una let­ teratura adatta ad una circolazione «trasversale», in quanto destinata sia a cerehie saldamente istruite, che potevano magari coglierne certi schemi retorici o riferimenti dottrinali, sia ad individui di istruzione media o medio-bassa, la cui ricezione si arrestava di solito all’intreccio del nar­ rato e alla comprensione, in termini rudimentali, della morale cristiana. Man mano tuttavia che il codice si diffondeva fino a divenire la forma di libro corrente, negli stessi secoli, tra il III e il V, venivano a determinarsi profonde trasformazioni della società e della cultura. In particolare sempre più diminuiva il numero degli alfabeti e quindi dei lettori, pagani o cristiani che fossero. Massiccio risulta l’analfabe­ tismo tra le donne. Nel secolo IV Cirillo di Gerusalemme esorta uo­ mini e donne ad avere un libro tra le mani nelle riunioni liturgiche, ma non a caso prevede che alcuni degli uomini ascoltino altri che leg­ gono, e che le donne, in alternativa alla lettura, cantino96. L ’ideale di un s. Agostino è quello, al più, di una donna litterata, da intendere 95 Mi limito a rimandare a Hägg, The Novel cit., pp. 154-65 (parole citate, p. 162), e al recente volume L a narrativa cristiana antica. Codici narrativi, strutture formali, schemi retorici. XXIII incontro di studiosi dell'antichità cristiana (Roma, 5-7 maggio 1994), Roma 1995. 96 Cirillo di Gerusalemme, procatech., 14 (P G , X X X III, col. 356 A-B).

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fornita soltanto di un certo alfabetismo di base97. Nella tarda antichità solo le grandi dame cristiane brillano per la loro erudizione, mostran­ do talora di conoscere non solo il greco e il latino ma anche l’ebraico, lingue necessarie allo studio e alla comprensione dei testi sacri. Mela­ nia, la gran dama divenuta santa, dedicava alcune ore alla lettura di libri delle Sacre Scritture o di raccolte omiletiche. E di fronte a questo impegno, le Vite dei Padri, con il loro impianto narrativo, costituivano per lei quasi una lettura di evasione. Amante dei libri, Melania se ne procurava quanti più possibile, acquistandoli, prendendoli in prestito, trascrivendoli quotidianamente lei stessa98. Ma Melania, come altre dame cristiane dell’epoca quali Blesilla, Paola, Eustochio, fa parte di una élite assai ristretta, peraltro destinata a scomparire assai presto. Nei se­ coli V e VI la lettura risulta rarefatta tra le stesse gerarchie della Chiesa. Il codice, che pure si era diffuso come risposta ad una più estesa domanda di lettura, in una società nella quale l’analfabetismo già con­ sistente nel secolo IV dilaga nel V-VI, diviene man mano un libro per pochi. Esso, così, nel contempo riverbera e produce profonde trasfor­ mazioni nelle pratiche e nelle maniere del leggere. Il codice determi­ nava, innanzi tutto, un mutamento nella nozione stessa di «libro», la quale nel caso del rotolo risultava piuttosto stabile perché legata a convenzioni tecniche e contenutistiche definite; essa infatti poteva associare immediatamente l’oggetto a un’opera, fosse questa compre­ sa in un unico libro-rotolo o distribuita in più libri-rotoli. Quest’ulti­ mo caso comportava unità testuali/librarie lette singolarmente o più lette di altre, che tuttavia non sempre — ed anzi raramente — coin­ cidevano con un’intera opera, sicché la nozione di lettura totale pote­ va, a sua volta, risultare in realtà limitata ad un unico libro/rotolo o a due-tre brevi libri contenuti in un unico rotolo, pur se l’intera ope­ ra consisteva di molti libri. Il codice, riunendo in un unico librocontenitore una serie di unità testuali organiche (una o più opere di uno stesso autore, una miscellanea di scritti omogenei) o disorgani­ che (opere diverse, tanto da formare quella che è stata chiamata una «biblioteca senza biblioteca»)99 determinava un mutamento profondo 97 S. Agostino, soliloq., 1,10,17, ed. W. Hörmann, Wien 1986, p. 26 (CSEL, 89). 98 vita Melan . jun., 23 (ma si vedano anche i paragrafi 26 e 33 utilizzati più avan­ ti), ed. D. Gorce, Paris 1962, pp. 174, 178, 180, 188 CSC, 90). Sul rapporto tra santa Melania e la cultura scritta si leggano le belle pagine di A. Giardina, Melania, la santa, in Rom a a l femminile, a cura di A. Fraschetti, Roma-Bari 1994, pp. 277-83. 99 A. Pétrucci, D al libro unitario a l libro miscellaneo , in Società romana e impero tardoantico , a cura di A. Giardina, IV, Tradizione dei classici, trasformazioni della cultu­ ra, Roma-Bari 1986, pp. 173-87 (parole citate, p. 179, e più sotto, p. 186).

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nella nozione sia di libro sia di lettura totale, giacché la prima, non più immediatamente associabile a un’opera, veniva a coincidere con un oggetto nel quale si potevano riversare scritti di qualità e quantità non più controllate da convenzioni definite, e l’altra implicava una lettura che, per essere totale, doveva estendersi al contenuto di un in­ tero libro-codice, anche se questo, come di solito, conteneva più opere. E proprio l’aggregazione di libri di una stessa opera o di più scrit­ ti, talora anche assai diversi, che tra i secoli IV-VI determina nel co­ dice la formazione o il rafforzamento di dispositivi «editoriali» atti a distinguere le partizioni all’interno di uno scritto o a separare net­ tamente testi diversi, tanto più se disomogenei: dispositivi che non erano necessari nel volumen giacché ogni unità testuale era distinta, anzi delimitata, dal libro stesso, autonomo, che la conteneva. All’esi­ genza distintiva che il codice impone risponde il caratterizzarsi di scrit­ ture peculiari, differenti da quelle del testo nella tipologia o nel mo­ dulo, spesso fornite di elementi decorativi o rinforzate da tocchi cro­ matici, adoperate per titoli iniziali o finali in modo da marcare una separazione dei testi; e la stessa funzione assolve il sistema di fregi ornamentali che viene man mano a svilupparsi e che molte volte si accompagna alle scritture distintive; ed infine, un forte stacco nella successione dei testi è introdotto mediante il dispositivo explicit!inci­ pit che viene a segnare la fine e l’inizio di ciascun testo o di partizioni/libri al suo interno. Ma nonostante queste distinzioni, il lettore «finiva inevitabilmente per considerare i singoli testi contenuti nel libro che aveva tra le mani come un tutto unico» e per usarli in quan­ to tali, con forti incidenze sulle pratiche di studio. In quanto non legato a convenzioni tecnico-librarie più o meno fisse, ma potendo assumere tipologie diverse per formato e consisten­ za, dal maneggevole al voluminoso, il codice veniva a modificare le correlazioni tra libro e fisiologia della lettura: determinati libri, se­ condo la loro strutturazione materiale, impedivano o imponevano o almeno suggerivano certi atteggiamenti, gesti, maniere di leggere. Se dunque il codice, al momento del suo primo diffondersi, era stato lo strumento di una lettura agile, più libera nei movimenti, giacché ri­ chiedeva il sostegno di una sola mano, più tardi invece, nella tarda antichità, — epoca di inquietudini sociali e spirituali, tesa a salvare, organizzare e conservare l’eredità pagana e cristiana — la sua capien­ za, più volte utilizzata al massimo, finì con il farne un libro dalle di­ mensioni talora imponenti, nel quale venivano raccolti e rinchiusi i libri della Bibbia e i commentari a questa, i corpora legislativi e giu­

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risprudenziali, i classici adottati dai canoni della scuola o variamente ricompattati: un libro di disagevole uso e perciò non tanto da leggere ma da consultare e citare, operazione talora confortata dalla numera­ zione delle pagine e dai dispositivi di distinzione testuale. D ’altro canto, lo stesso disimpegno di una delle mani permetteva all’altra di scrivere, e quindi di accompagnare la lettura con annota­ zioni sui margini del codice. E insieme a quest’ultimo che nasce la pratica dello scrivere sul libro stesso mentre si legge. Sono autori tardoantichi, come Cassiodoro nel VI secolo, che elaborano teorie sui modi di introdurre e collocare note di lettura100. Anzi il lettore vie­ ne a disporre nel codice, oltre che dei margini, anche di altri spazi da gestire e occupare: fogli o parti di questi lasciati vuoti, carte di guardia, piatti interni della legatura, che possono accogliere le note più diverse ed «anarchiche». Sempre sui margini potevano stratificar­ si interventi di più mani relativi all’esegesi del testo; o vi si potevano trasferire — da libri a parte — interi commentari. Il codice impone­ va, così, una lettura simultanea e coordinata tra testo principale e te­ sti accessori, e perciò, in tal caso, fortemente impegnativa e condizio­ nata nell’interpretazione dal commento: una lettura riservata a pochi. Ma il codice — soprattutto — determinò una maniera in assoluto diversa di leggere i testi. Nel rotolo il susseguirsi di più colonne nella sezione aperta creava quello che è stato definito «the panoramic aspect» della lettura101, giacché l’occhio passava immediatamente e senza in­ terruzione da una colonna all’altra; nel codice, invece, la parte dello scritto che si offriva di volta in volta al lettore era predeterminata dalla misura in sé conclusa della pagina impedendo una visione conti­ nua dell’insieme. Questo favoriva una lettura frazionata, fatta pagina dopo pagina e quindi per segmenti di testo che, in particolare nel ca­ so delle Sacre Scritture, veniva spesso ulteriormente frantumata me­ diante una suddivisione del testo in corte sequenze — cola e colli­ mata — visualizzate con dispositivi vari (ingrandimento di lettere ini­ ziali, disposizione di queste «fuori campo», sporgenza o rientranza delle singole sequenze testuali). Ne risultava una lettura «a spezzoni», ora più lunghi ora più brevi, che rendevano «più chiaro al lettore il senso»102, ma che si potevano anche agevolmente ritrovare (e mandare a memo­ ria) grazie ad una mise en texte in forma di aforismi e ad altri disposi­ tivi che consentivano in ogni momento di ritornare su passi già letti. 100 Cassiodoro, inst., 1,3,1. 101 Skeat, The Origin o f the Christian Codex cit., pp. 265 sg. 102 S. Girolamo, praef in Ezech. (PL, XXVIII, col. 996A).

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I codices distincti, vale a dire interpunti, diventano la norma: l’interpunzione si aggiunge agli altri e sempre più numerosi dispositivi mes­ si in atto ai fini di una ricezione del testo non più individuale ma regolata da moduli interpretativi che si richiamavano ad auctoritates riconosciute. Per Cassiodoro le distinciones, i segni interpuntivi e dia­ critici, sono viae che conducono ai significati e che, quasi commento illuminante, istruiscono nel modo più chiaro i lectores103. Nel libro illustrato, alla serie di più scene che l’occhio del lettore coglieva su rotolo legandole lungo un filo narrativo continuo, si sosti­ tuiva un repertorio figurativo isolato su singoli fogli-riquadri, non più integrato nel contesto, ed anzi sempre più autonomo, fino ad una to­ tale separazione tra discorso scritto e discorso iconico104. Ed è, an­ cora una volta, Cassiodoro a rilevare tutta la portata dell’immagine figurata come strumento di conoscenza105. Alla lettura delYotium letterario, che percorreva il libro in una inin­ terrotta sequenza di colonna in colonna scandita dal suono della voce lettrice, succedeva una lettura concentrata e attenta, a voce sempre più bassa, dal senso imposto da dispositivi precisi, atta ad una rice­ zione autoritaria del testo, intesa a condizionare fortemente i modi del pensare e dell’agire. Da una lettura libera e ricreativa si passava ad una lettura orientata e normativa. Al «piacere del testo» si sosti­ tuiva un lavorio lento di interpretazione e di meditazione. Melania che nella sua cella, concentrata sui suoi libri delle Scritture, non ri­ volge alla madre né una parola né uno sguardo per non lasciarsi sfug­ gire una sola «espressione» o un solo «concetto» di quanto legge, testimonia una maniera di lettura distante, assai distante, da quella della figura femminile che qualche secolo prima leggeva il suo rotolo — certo un libro di evasione — in una brulicante cornice urbana, in­ terrompendosi di tanto in tanto per rivolgere la parola e lo sguardo ai suoi accompagnatori. La stessa Melania usava leggere il Vecchio e il Nuovo Testamento tre o quattro volte l’anno e recitava i Salmi a memoria. La circostan­ za merita una riflessione. Il codice era man mano divenuto, pur con le necessarie sfumature, lo strumento del passaggio da una lettura 103 Cassiodoro, in st, 1,15,12. 104 Su questo processo si veda almeno H. Toubert, Formes et fonctions de Venlu­ minure , in Histoire de Védition française , a cura di R. Chartier e H.-J. Martin, I, Le livre conquérant Du Moyen Age au milieu du X V IIe siècle , Paris 1989, pp. 110-4. 105 Cassiodoro, in stt 1,31,2.

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«estensiva» di molti testi — diffusi tra un pubblico vario e stratifica­ to, quale nei primi secoli dell’impero — a una lettura «intensiva» di pochi testi, soprattutto la Bibbia e il Diritto, letti, riletti, ripresi in forma di citazioni e formule, mandati a memoria, recitati. Nel mon­ do tardoantico è su questi scritti, e perciò su libro e lettura che si fon­ da ogni autorità: ai vertici del potere, tra le gerarchie ecclesiastiche, nella società laica, all’interno del nucleo famigliare. A rappresentare questa autorità, dunque, non poteva essere che il codice.

LE G G E R E , SCRIVERE, INTERPRETARE IL TESTO : PRATICHE M ONASTICH E N E L L ’ALTO M ED IO EV O * di Malcolm Parkes

L ’alto medioevo ereditò dall’antichità una tradizione di lettura che abbracciava le quattro funzioni degli studi grammaticali (grammaticae officia ): lectio y emendatiOy enarratio e indicium h La lectio era il pro­ cesso attraverso il quale il lettore doveva decifrare il testo (discretio) identificandone le componenti — lettere, sillabe, parole, frasi — per poterlo leggere ad alta voce (pronuntiatió)f secondo l’accentuazione ri­ chiesta dal senso. L 'emendatiOy una prassi resa necessaria dalle con­ dizioni della tradizione manoscritta, imponeva al lettore (o al suo mae­ stro) di correggere la propria copia personale del testo, e lo tentava talvolta a «migliorarlo»2. L 'enarratio consisteva nell’individuare (o commentare) la forma retorica e letteraria o le caratteristiche del voca* Sono grato ai Prof. D. Ganz, Dr. A. Grotans, Dr. Paul Saenger, Dr. G. Tun­ bridge e Dr. R. Zim per le utili osservazioni e i validi suggerimenti, e ai membri del «Colloquium» del «Center for Medieval Studies» dell’Università del Minnesota per le stimolanti discussioni. Rimango Túnico responsabile delle opinioni qui espresse. 1 Questa definizione degli officia grammaticae appare in varie forme negli scritti di grammatici tardoantichi e in integrazioni a codici di quest’epoca più tarda contenenti testi grammaticali. Una versione ampliata del testo (dalla prefazione al trattato noto come «Anonymus ad Cuimnanum» nel codice di Sankt Paul im Lavanttal, Stiftsbibliothek, 26.2.16, c. 23), insieme ad un breve profilo della tradizione è pubblicata da M. Irvine, Bede the Grammarian, and the Scope o f Grammatical Studies in Eight Century Northumbria, «Anglo-Saxon England», XV (1986), pp. 15-44 (The Making o f Textual Culture: Gram­ matica and Literary Theory 550-1100, Cambridge 1994, dello stesso autore, è apparso dopo la stesura di questo saggio). Cfr. anche H.-I. Marrou, Histoire de ïéducation dans /’Antiquité, Paris 19656 [trad. it. Storia dell’educazione nell’antichità, Roma 19842], pp. 406-10. 2 Di solito una lezione era prescelta genericamente sulla base del suo interesse in­ trinseco, senza riguardo per gli altri testimoni della tradizione. Talvolta un lettore col­ lazionava il testo con altre copie: ad esempio, nel Vat. lat. 3363, c. Ili, dove s. Dunstan riporta una lezione del De consolatone philosophiae di Boezio che «quidam codices habent»; cfr. M .B. Parkes, Scribes, Scripts and Readers. Studies in the Communication , Pre­ sentation and Dissemination o f Medieval Texts, London 1991, pp. 259-62.

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boiario e soprattutto nelFinterpretare il contenuto del testo (iexplanatío). Lo iudicium equivaleva alla valutazione delle qualità estetiche o del valore morale e filosofico del testo {bene dictorum conprobatió). Ad assisterlo nel suo compito, il lettore aveva anche un corpus di precetti grammaticali, ereditati dalla tarda antichità, che servivano piut­ tosto ad agevolare il processo di lettura che a stimolare un vero e pro­ prio interesse per la lingua. La natura riduttiva di un simile approccio alla lingua fu preservata a lungo, in quest’epoca, dalla convinzione che l’uomo dovesse occuparsi del linguaggio della Parola divina, oltre che dalla tendenza ad accettare resistenza di sistemi linguistici diversi co­ me conseguenza inevitabile della Torre di Babele3. Le grammatiche tradizionali si fondavano sul riconoscimento della parola come feno­ meno linguistico isolabile ed impiegavano criteri morfologici per defi­ nire una serie di classi di parole (dette «parti del discorso»); presentavano e discutevano paradigmi di forme associate («declinazioni e coniuga­ zioni») e le relazioni sintattiche superficiali tra le parole nella costru­ zione della frase («concordanza»)4. In tal modo, le grammatiche forni­ vano al lettore un’assistenza e una pratica notevoli per analizzare un testo latino e per identificare gli elementi della lingua latina, che si ser­ ve di temi e desinenze per offrire una grande quantità di informazioni morfologiche. Questo genere di aiuto si rivelò di particolare utilità nel­ la fase più antica del periodo in questione, quando i codici erano anco­ ra trascritti in scriptio contìnua — vale a dire senza separazione delle parole o indicazione delle pause all’interno di un paragrafo di testo.

Leggere per la salvezza deWanima Maestri e scrittori cristiani avevano applicato questa tradizione di insegnamento grammaticale all’interpretazione delle Scritture, con la conseguenza che educazione religiosa e istruzione letteraria risulta­ 3 Cfr. Agostino, de doctr. Christ., II, 4. L ’autore della grammatica irlandese del VII secolo giustificava il proprio lavoro col fatto che era stato reso necessario dalle con­ seguenze della Torre di Babele: cfr. Auraicept na n-Éces, ed. A. Ahlqvist, The Early Irish Linguist, Helsinki 1982 (Commentationes humarum litterarum , LXIII), p. 47; cfr. A. Borst, Der Turmbau von Babel , Stuttgart 1957-63. 4 La raccolta canonica di questi testi è Grammatici latini, ed. H. Keil, Leipzig 1857-70. Cfr. in particolare L. Holtz, Donat et la tradition de l'enseignement grammati­ cale: étude sur T«Ars Donati» et sa diffusion (ïV e-ÏX € siècle), Paris 1981, con bibliogra­ fia; C. Lambot, La grammaire latine selon les grammairiens latins du IV e et du V e siècle , «Revue Bourgienonne publiée par l’Université de Dijon», X X V III (1908). Supplemen­ ti a questa tradizione, volti ad assistere il processo della discretio nel IX secolo, sono discussi da V. Law, The Insular Latin Grammarians, Woodbridge 1982.

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vano strettamente connesse ad ogni livello5. La situazione era diver­ sa da quella dell’antichità pagana, in cui la cultura più elevata era stata il retaggio di un 'élite sociale6. In queste mutate circostanze tutti i cri­ stiani in grado di leggere venivano esortati a farlo, mentre «a quanti aspiravano alla qualifica di monaco non si poteva consentire di restare ignoranti delle proprie lettere»7. Come Dhuoda avrebbe osservato più tardi, in un trattato scritto per suo figlio, leggere libri è una maniera per conoscere Dio8. Scopo della lettura era ora la salvezza della pro­ pria anima e questa motivazione pressante si rifletteva nei testi letti. Come sillabario e modello per gli esercizi di copia dei bambini fu adot­ tato il Salterio (la conoscenza del quale rappresentò per molti secoli il livello di alfabetizzazione elementare)9. Per coloro che apprendeva­ no più prontamente dagli esempi che non dai precetti c’erano le vite dei santi, che definivano gli ideali cristiani. Per altri, un nuovo pro­ gramma di testi conduceva ai libros catbolicos, lo studio della teologia, che aiutava il lettore o la lettrice a formulare la corretta interpretazio­ ne della Parola di Dio per il nutrimento della propria anima. «Nei com­ mentari alla Scrittura si apprende ad acquistare e a mantenere la virtù, nei racconti di miracoli vediamo il modo in cui si manifesta ciò che è stato acquistato e mantenuto»10. Gli studi grammaticali ed altri testi erano subordinati a questo scopo ed impiegati per migliorare la cono­ scenza che il lettore aveva della latinità. Isidoro osservava che «l’inse­ gnamento dei grammatici può anche rivelarsi utile per la nostra vita, ammesso che se ne tragga nutrimento da applicare a fini migliori»11. 5 1958 6 7

Cfr. specialmente H.-I. Marrou, St Augustin et la fin de la culture antique , Paris [trad. it. S . Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1987]. Cfr. le osservazioni di Marrou, Histoire de Véducation cit., pp. 446-7. Omnis qui nomen vult monachi vindicare, litteras ei ignorare non liceat, Ferreolo, regula , II {Patrologia, series latina, accurante J.P. Migne [d’ora in avanti PL], LXVI, 959). Esempi di esortazioni comprendono quella di San Paolo in 1 Timoth., IV, 13; viva lectio est vita honorum ; Gregorio Magno, in Job, XXIV, 8, 16 (PL, LX XV I, 295). Cfr. D. Illmer, Formen der Erziehung und Wissenvermittlung im frühen Mittelalter, Mün­ chen 1971. 8 Dhuoda, Manuel pour mon fils, ed. P. Riché, Paris 1975. 9 P. Riché, L e psautier, livre de lecture éleméntaire, in Etudes mérovingiennes, Actes des journées de Poitiers 1952, Paris 1953, pp. 253-6; A. Pétrucci, Scrittura e libro nell’I­ talia altomedievale, «Studi medievali», X (1969), pp. 157-207, in part, le pp. 164 sgg. 10 Gregorio Magno, dial., I, prol. 9; cfr. in Job, X X X , 37; horn, in Ev., XXXV III, 15 e X X X IX , 10; horn, in Ez., II, 7, 3. 11 ... grammaticorum autem doctrina potest etiam proficere ad vitam dum fuerit in meliores usus assumpta, Isidoro, libri sent., Ill, 13, 3 (PL, L X X X III, 698); cfr. J. Fon­ taine, Isidore de Seville et la culture classique dans l ’Espagne wisigothique, II, Paris 1959, p. 787; J. Leclercq, Pédagogie et formation spirituelle du V Ie au IX e siècle, in L a scuola nell’Occidente latino dell’alto medioevo, Spoleto 1972 {Settimane di studio del Centro italiano di studi su ll’alto medioevo, X IX ), pp. 255-90.

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Dalla lettura orale alla lettura silenziosa Un altro nuovo sviluppo consistette in un mutato atteggiamento nei confronti deir atto stesso della lettura. Nell'antichità, l'enfasi pog­ giava sulla trasmissione orale del testo, vale a dire la lettura ad alta voce con espressione appropriata del senso e del ritmo: un'enfasi che rifletteva l’ideale dell’oratore che aveva dominato la cultura antica1213. Il fine della lettura silenziosa era stato lo studio preliminare del testo per comprenderlo adeguatamente15. L'antica arte della lettura ad al­ ta voce sopravvisse nella liturgia. Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia elencò i requisiti richiesti a coloro che dovevano assolvere il compito di lettore in Chiesa: Chiunque vada promosso ad un simile ruolo deve essere profondamente versato nella dottrina e nei libri, e pienamente adorno della conoscenza delle parole e del loro significato, in modo da riconoscere nell’analisi delle sententiae la ricorrenza dei legami grammaticali: dove l’emissione della voce prose­ gue e dove la sententia si conclude. In questo modo riuscirà a controllare senza sforzo la tecnica della comunicazione orale (vim pronuntiationis), per impe­ gnare intelletto e sentimenti di tutti nella comprensione, distinguendo fra i tipi di comunicazione e esprimendo i sentimenti (affectus) della sententia: ora col tono dell’esposizione, ora alla maniera di uno che soffre, ora come chi rimprovera, o ammonisce, o secondo i modi dell’espressione di voce più ap­ propriata14.

Il principiante doveva quindi leggere ad alta voce per consentire al maestro di verificare i progressi dell'allievo. Oltre lo stadio elemen­ 12 Sull’ideale del vir eloquentissimus cfr. O. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt, IV, Berlin 1911, pp. 168-204; Marrou, St Augustin cit., pp. 3-9, 85-9. 13 Cfr. Gellio, nocí. A tt.y X III, 31, 5. 14 Qui autem ad hujusmodi provehitur gradum, iste erit doctrina et libris imbutus, sensuumque ac verborum scientia peromatus, ita ut in distinctionibus sententiarum intelligat ubi finiatur junctura, ubi adhuc pendei oratio, ubi sententia extrema claudator. Sicque ex­ peditos vim pronuntiationis tenebit, ut ad intellectum omnium mentes sensusque promoveat, discemendo genera pronuntiationum , atque exprimendo sententiarum proprios affectus, modo indicantis voce, modo dolentis, modo increpantis, modo exhortantis, sive his similia secundum genera propriae pronuntiationis, Isidoro, de eccl. off., II, 11,2 (PL, L X X X III, 791). Cfr. M. Banniard, Le lecteur en Espagne wisigothique d ’après Isidore de Seville: de ses fonctions à Vétat de la langue , «Revue des études Augustiniennes», X X I (1975), pp. 112-44. Hildemar, monaco di Corbie nel IX secolo, discusse questo passo di Isido­ ro nel suo commentario alla Regola : cfr. Expositio Regulae ab Hildemaro tradita , ed. R. Mittermiiller, Regensburg-New York 1880, pp. 427 sgg. Copie di testi da leggere ad alta voce nel corso della liturgia, del capitolo o del refettorio prestavano abitual­ mente un’attenzione maggiore del consueto alla punteggiatura e spesso avevano accen­ ti sulle sillabe da enfatizzare.

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tare, le abilità di lettura e la scioltezza nel latino potevano essere sti­ molate ed accertate mediante la lettura di gruppo ad alta voce. Le com­ medie di Terenzio furono spesso trascritte nei secoli IX e X , e poiché tali testi erano serviti nell’antichità per fare esercitare gli studenti nella comunicazione orale e per migliorarne l’eloquenza, nel medioevo po­ tevano prestarsi ugualmente a questo scopo15. Nel secolo X Rosvita di Gandersheim compose commedie, destinate alle sue consorelle, in­ tese come alternativa cristiana e femminile al pagano Terenzio1617. L ’interesse per simili testi non era forse tanto una manifestazione di entusiasmo per il teatro come forma letteraria, quanto piuttosto un espediente per promuovere la scioltezza nel linguaggio della vita spi­ rituale. La lettura ad alta voce, o quanto meno sotto voce, era anche praticata durante la lectio monastica, per instillare nel lettore una me­ moria aurate e muscolare delle parole, come base per la meditatio. Il termine impiegato nelle varie regole per designare questo tipo di let­ tura era meditan literas o meditavi psalmos11. A partire dal VI secolo tuttavia, il ruolo della lettura silenziosa è fatto oggetto di una maggiore attenzione. Nella Regola di san Bene­ detto troviamo riferimenti alla lettura individuale e all’esigenza di leg­ gere a se stessi per non disturbare gli altri. Poiché tale lettura doveva essere sorvegliata, per sincerarsi che non offrisse pretesti alla pigrizia o che l’attenzione del lettore non divagasse, se ne deduce che la lettu­ ra silenziosa non era rara in tali circostanze18. Benché Isidoro avesse prescritto i requisiti per la lettura ad alta voce in chiesa, egli concepi­ va la preparazione per l’ufficio di lettore anche come uno stadio ele­ mentare dell’educazione clericale19. Egli stesso prediligeva la lettura 15 Dai secoli IX-XI ci sono giunte quindici copie di Terenzio; cfr. Texts and Trans­ mission: A Survey o f the Latin Classicsy a cura di L. D. Reynolds, Oxford 1983, p. 418. Sull’opportunità della lettura di Terenzio per migliorare l’eloquenza dell’allievo cfr. Quintiliano, inst.y 1,11,12. 16 L ’intento di Rosvita era di sanare lo squilibrio della rappresentazione terenziana delle donne e di enfatizzare la castità delle vergini cristiane; cfr. Hroswitha o f G an­ dersheim, ed. A.L. Haight, New York 1965. 17 Sulla lectio e la meditatio monastica cfr. Cassiano, c o ll , XIV, 10; J. Leclercq, The Love o f Learning and the Desire for God , New York 1961, pp. 18-22 [trad. it. Cultura umani­ stica e desiderio di Dio . Studio sulla letteratura monastica nel medioevo, Firenze 19882]; P. Riché, Education et culture dans Voccident barbare 6 e-8e siècle, Paris 1962, pp. 161-2. 18 L a règie de Saint Benoît , edd. A. De Vogué e J. Neufville, Paris 1971-72, cap. XLVIII. Lo stesso comando è ripetuto in consuetudines di epoca più tarda: ad esempio quelle di Lanfranco, ed. M.D. Knowles, Corpus consuetudìnum monasticarum , III, Siegburg 1967, p. 5. 19 Cfr. J. Fontaine, Fins et moyens de renseignement ecclésiastique dans TEspagne wisigothique, in L a scuola neWOccidente latino cit., pp. 145-202, in part, le pp. 180-1,187-90.

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silenziosa, che assicurava una migliore comprensione del testo, poi­ ché — diceva — la comprensione del lettore è istruita più pienamen­ te quando la voce resta silenziosa. In tal modo si poteva leggere senza sforzo fisico, e riflettendo sulle cose lette queste sfuggivano meno fa­ cilmente dalla memoria20.

La scrittura come linguaggio visibile La disposizione alla lettura silenziosa, benché indotta da conside­ razioni pratiche, è anche da associare ad un mutamento ben più fon­ damentale di attitudine verso la natura della parola scritta. Lo sviluppo della percezione di questa modalità della comunicazione come una di­ versa manifestazione del linguaggio, con una propria «sostanza» e uno statuto equivalente alla sua controparte orale, ma in fin dei conti au­ tonomo, fu un processo di lunga durata21. Cionondimeno, possiamo coglierne gli inizi in questo periodo22. La parola scritta aveva gioca­ to un ruolo cruciale nella conservazione delle tradizioni ortodosse della Chiesa, nella trasmissione dalla sua autorità e nella promozione di ta­ li tradizioni fra le nuove generazioni. Più la parola scritta era avverti­ ta come il mezzo per trasmettere le auctoritates del passato (testi che nel medioevo avevano per molti un’autorità maggiore che nelle età precedenti), meno era sentita come una pura registrazione del parla­ to. Mentre nel IV secolo Agostino aveva concepito le lettere come simboli dei suoni, e i suoni stessi come simboli delle cose pensate, nel secolo VII Isidoro considerava le lettere come segni senza suono, do­ tate del potere di comunicarci silenziosamente {sine voce) l’opinione degli assenti. Le lettere stesse sono segni delle cose23. La scrittura è un linguaggio visibile, che può rivolgere segnali diretti alla mente at­ traverso gli occhi. 20 Isidoro, libri sent., Ili, 14, 9 e 8 (PL, L X X X III, 689). 21 L ’evoluzione è delineata in M.B. Parkes, Pause and Effect: An Introduction to the History o f Punctuation in the West, Aldershot 1992. 22 Sebbene l’esistenza di testimonianze antiche e lo sviluppo di forme abbreviati­ ve come le notae iuris e le note tironiane attestino che la scrittura era impiegata come uno strumento di registrazione (specie a scopi amministrativi), in generale essa era per­ cepita in primo luogo come fissazione della parola parlata, e non come manifestazione autonoma del linguaggio: cfr. H .C. Teitler, Notarii and Exceptares, Amsterdam 1985; D. Ganz, On the History o f Tironian Notes, in Tironische Noten, a cura di P. Ganz, Wiesbaden 1990 {Wolfenbütteier Mittelalter-Studien, I), pp. 35-51. 23 Isidoro, etym., I, 3, 1, da confrontare con Agostino, de trin., X , 19. Cfr. Parkes, Pause and Effect cit.

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La consuetudine di far leggere ai bambini, ad alta voce di fronte ai maestri, versi copiati dai salmi, senza che avessero necessariamen­ te appreso in precedenza (all’uso antico) la serie alfabetica delle let­ tere, era anch’essa significativa24. Non solo tale prassi li aiutava ad identificare la funzione delle lettere e delle parole nel testo, ma era intesa come un espediente per assisterli nella transizione da una cul­ tura orale all’apprendimento delle convenzioni grafiche della cultura scritta cui la tradizione cristiana doveva la sua trasmissione. Tuttavia, i lettori che più prontamente giungevano ad intendere il mezzo scritto come una manifestazione diversa del linguaggio era­ no quelli situati ai margini (o all’esterno) del territorio della lingua Romana o lingua mixta dell’antico impero romano. Si trattava dei par­ lanti le lingue celtiche e germaniche, per i quali il latino era un siste­ ma linguistico estraneo. Malgrado il sostegno ricevuto dai loro studi grammaticali, alcuni lettori continuarono ad incontrare difficoltà nel­ l’analisi degli elementi di un testo latino. La natura di simili difficol­ tà può essere determinata dalla testimonianza di glosse volgari al testo, in molti casi glosse personali formulate durante la lettura e incise su­ perficialmente con uno stilo sulla pagina, in modo da non dare nel­ l’occhio, risultando pertanto illeggibili o invisibili ad altri lettori2526. Alcune glosse riflettono fraintendimenti di lettere e conseguenti errori di identificazione delle parole. Un lettore irlandese chiosò il termine eversione in luogo di aversione e conquinare invece di concinnare\ un anglosassone glossò occasio al posto di occassu26, Altre po­ stille denotano l’incapacità di identificare correttamente le parole, a causa di una scorretta separazione del?una dall’altra. Un copista ir­ landese glossò innumero in luogo di in numero, e un anglosassone in occiduas invece di inocciduas27. Alcune glosse rivelano difficoltà di costruzione sintattica. Nel chiosare gratum tìbi esse officium est obtimum uno scriba irlandese unì optimum a gratum, intendendo ambudecb forrcimen, «il miglior grato», a seruo quippe uinctus ha ricevuto la glossa conarracht assa mugsini, «colui che è stato liberato dalla propria 24 Riche, L e psautier cit. ; A. Lorcin, La vie scolaire dans les monastères d ’Irlande au Ve‘ VIIe siècle, «Revue du Moyen Age latin», I (1945), pp. 221-36. 25 Cfr., ad esempio, R.I. Page, The Study o f Latin Texts in Late Anglo-Saxon En­ gland, 2. The Evidence o f English Glosses , in Latin and the Vernacular Languages in Early Medieval Britain, a cura di N.P. Brooks, Leicester 1982. 26 Thesaurus palaeohibemicus, edd. W. Stokes e j . Strachan, rist. Dublin 1 9 7 5 ,1, p. 399 n. 118al5; II, p. 117 n. 64al8; H .D. Meriti, Old English Glosses (A Collection), New York 1945, p. 35 n. 334. 27 Thesaurus cit., I, p. 22 n. 17d6; Meriti, Old English Glosses cit., p. 33 n. 256.

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servitù»28. Altre glosse riflettono difficoltà nel distinguere fra pro­ nomi e avverbi: quo (che può essere avverbio o ablativo maschile sin­ golare del pronome interrogativo quii) è stato spiegato da uno scriba germanico con thara (avverbio) «quindi, pertanto», thiu (strumentale di ther, pronome dimostrativo) e in quo con in thiu\ quant (avverbio, 0 accusativo singolare femminile del pronome qui o quii) è glossato, quando ricorre, esclusivamente come denni> «allorché». I lettori an­ glosassoni chiosano spesso il pronome ripetendo il nome anteceden­ te29. Alcune glosse assistono il lettore nella costruzione del testo la­ tino, specificando il caso di un termine, impiegando la preposizione appropriata in volgare o indicandone l’equivalente nella flessione la­ tina, ma non il senso. Così un lettore anglosassone glossò mentis con (-)des (probabilmente la terminazione del genitivo di mod- modes) e reverenter con (-)ce (un suffisso avverbiale)30. Un’altra pratica introdotta dai lettori insulari consisteva nell’apporre segni per chiarire la sintassi di testi, principalmente poetici, in cui l’ordine delle parole risultasse turbato dall’artificio o dallo stile. 1 più antichi esempi superstiti appaiono in manoscritti irlandesi e gal­ lesi prodotti nel IX secolo31. Due erano i sistemi possibili. Il primo consisteva nel tracciare serie di punti o altri segni per indicare con­ cordanza grammaticale (aggettivo e relativo nome) o reggenza (sog­ getto e verbo), o collegare modificatori (l’avverbio al verbo) non influenzati da concordanza o reggenza. Il secondo sistema, all’appa­ renza più tardo, consiste nell’impiego di segni o lettere che specifica­ no l’ordine o la successione in cui le parole vanno lette32. Per contro, fino al tardo secolo X, quando i parlanti una lingua romanza leggevano un testo latino, essi incontravano una forma scritta che rappresentava la loro lingua parlata, ma registrata secondo un’an­ tica tradizione che escludeva un gran numero di caratteristiche del loro linguaggio, in quanto inaccettabili in quella forma scritta33. Per­ 28 Thesaurus cit., I, p. 248 n. 73a 9-10; p. 416 n. 123b2. 29 Die althochdeutschen Glossen , edd. E. Steinmeyer e E. Sievers, II, Berlin 1882, p; 38 n. 11; p. 76 nn. 66, 54; p. 164 n. 31; p. 71 n. 53; p. 77 n. 3. Sulle glosse sintatti­ che degli scribi anglosassoni cfr. G . R. Wieland, The Latin Glosses on Arator and Prudentius in Cambridge University Library MS Gg.5.35, Toronto 1983. 30 Meritt, Old English Glosses cit., p. 40 nn. 30, 49, 52. 31 In particolare Würzburg, Universitätsbibliothek, M.P. th.f.12; Milano, Biblio­ teca Ambrosiana, C 301 inf.; Oxford, Bodleian Library, Auct. F.4.32. 32 II resoconto più recente è offerto da M. Korhammer, Mittelalterliche Konstruk­ tionshilfen und ae Wortstellung,, «Scriptorium», X X X V II (1980), pp. 18-58. 33 R. Wright, On Editing Texts written by Romance Speakers in Linguistic Studies in Medieval Spanish, edd. R. Harris-Northall-T.O. Cravens, Madison 1991, pp. 191-208.

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tanto le loro glosse introducono forme contemporanee o colloquiali per interpretare le parole considerate arcaiche, obsolete o sconosciu­ te. Ad esempio, le interpretazioni contenute nelle glosse di Reiche­ nau del secolo IX fanno ricorso a forme successivamente passate nelPantico francese: competiere e cogere sono glossati con anetsare (antico francese: anesser), nocere con hostare (antico francese: oster), arenam con sábulo (antico francese: sabhn) e emit con comparavit (antico fran­ cese: com pererà. Accanto ai trattati grammaticali che aiutavano il lettore ad iden­ tificare gli elementi di un testo ve ne erano altri che affrontavano lo studio delle figure retoriche, non limitandosi a fornire al lettore le facoltà per riconoscerle, bensì assistendolo nel porre in costruzione, durante il processo di lettura, Pordine inconsueto delle parole che es­ se determinavano in un testo. Uno dei trattati più diffusi era il De schematis et tropis di Beda, che traeva i suoi esempi dalla Bibbia ed offriva spiegazioni di figure di espressione e di pensiero, accuratamente selezionate ponendo Paccento su quelle che generavano un ordine delle parole estraneo alla lingua parlata3435. Queste includevano la prolessi (anticipazione di termini che dovrebbero seguire) e la sillepsi (asso­ ciazione di sostantivi in casi diversi in un’unica espressione, ad esem­ pio Adtendite populus meus legam meam inclinate aurem vestram, ove il vocativo e il secondo gruppo di accusativi hanno il medesimo refe­ rente). Fra i tropi erano compresi lo hysteron proteron, in cui è inver­ tito Pordine delle parole, e la parentesi, che deve avere causato ai lettori qualche difficoltà, fino alla prima introduzione del simbolo di paren­ tesi alla fine del secolo XIV. L ’abilità nel riconoscere tali figure deve avere agevolato la prassi della discretio. Un’altra tecnica adottata nel processo della discretio consisteva nell’applicare l’analisi retorica degli attributi di uno specifico argomento, 34 Cfr. B. Bischoff, A propos des Gloses de Reichenau: entre Latin et français, in Id., Mittelalterliche Studien, III, Stuttgart 1981, pp. 234-43. Le più antiche glosse ro­ manze a me note paragonabili alle glosse sintattiche prodotte da lettori celtici e germa­ nici sono le «Glosas Emilianenses», del secolo X I (Madrid, Academia de la Historia, 60), dal monastero di San Millan de la Cogolla a La Rioja; cfr. M.C. Díaz y Díaz, Las primeras glosas hispánicas, Barcelona 1978; J. Fortacin Piedrafita, Glosas morfosintácticas en el códice emilianense 60, «Revista de investigación», 1980, pp. 67-89. 35 De arte metrica et de schematibus et tropis, ed. C.B. Kendall in Beda, Opera dida­ scalica, I, Turnhout 1975 (Corpus Christianorum series latina, 123A). Cfr. in particolare la prefazione di Beda (ivi, p. 142), ove egli richiama l’attenzione sul fatto che l’ordine delle parole nella Scrittura differisce dalla maniera comune di parlare. La lista delle figure di Alcuino (PL, CI, 857), pone anche maggior enfasi su quelle che influenzano l’ordine delle parole.

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concernente persone note e occasioni particolari, per spiegare il con­ tenuto di un passo o introdurre un’opera (