Il presente della filosofia nel mondo
 9788875880651

Table of contents :
Indice......Page 216
In copertina: Constantin Brancusi, Uccello nello spazio......Page 4
IL PRESENTE DELLA FILOSOFIA NEL MONDO......Page 7
INTRODUZIONE......Page 9
Zygmunt Bauman......Page 14
MODERNITÀ LIQUIDA......Page 15
LE SFIDE DELL'ETICA......Page 25
Jurgen Habermas......Page 37
DOPO L'UTOPIA. IL PENSIERO CRITICO E IL MONDO D'OGGI......Page 38
Eric Hobsbawm......Page 50
COME CAMBIARE IL MONDO. PERCHÉ RISCOPRIRE L'EREDITÀ DEL MARXISMO......Page 51
Fredric Jameson......Page 56
IL DESIDERIO CHIAMATO UTOPIA......Page 57
Serge Latouche......Page 61
LA SCOMMESSA DELLA DECRESCITA......Page 62
Jean François Lyotard......Page 70
LA CONDIZIONE POSTMODERNA......Page 71
Edgar Morin......Page 77
L'IDENTITÀ UMANA......Page 78
Martha Nussbaum......Page 83
NON PER PROFITTO. PERCHÉ LE DEMOCRAZIE HANNO BISOGNO DELLA CULTURA UMANISTICA......Page 84
Abdullah Ocalan......Page 90
GLI EREDI DI GILGAMESH. DAI SUMERI ALLA CIVILTÀ DEMOCRATICA......Page 91
Michel Onfray......Page 102
LA POTENZA DI ESISTERE. MANIFESTO EDONISTA......Page 103
LA POLITICA DEL RIBELLE. TRATTATO DI RESISTENZA E DI INSUBORDINAZIONE......Page 109
Fernando Savater......Page 115
ETICA PER UN FIGLIO......Page 116
Peter Singer......Page 124
LA VITA COME SI DOVREBBE......Page 125
Robert Spaemann......Page 131
PER LA CRITICA DELL'UTOPIA POLITICA......Page 132
Charles Margrave Taylor......Page 139
L'ETÀ SECOLARE......Page 140
Tzvetan Todorov......Page 145
LA VITA COMUNE......Page 146
Slavoj Zizek......Page 152
DALLA TRAGEDIA ALLA FARSA. IDEOLOGIA DELLA CRISI E SUPERAMENTO DEL CAPITALISMO......Page 153
«Nur noch Griechenland kann uns retten»......Page 159
Indice dei nomi e delle opere......Page 197
Bird in Space. Ricercando primavera......Page 211

Citation preview

Questo libro, pubblicato a cinque anni di distanza dal precedente Il presente della filosofia italiana (2007), in un certo senso lo completa, conferendo all'analisi della filosofia contemporanea uno sguardo globale. Sono infatti esaminati, in questo saggio, studiosi di pressoché tutte le aree geografiche, rappresentativi di diverse tendenze: Bauman, Habermas, Hobsbawm, Jameson, Latouche, Lyotard, Morin, Nussbaum, Onfray, Savater, Spaemann, Taylor, Zizek ed altri ancora. Il libro non fornisce una serie di medaglioni biobibliografici, bensì una analisi valutativa, sovente assai critica, della filosofia del nostro tempo, alla luce della impostazione metafisico-umanistica propria dell'Autore.

LUCA GRECCHI, saggista e direttore della rivista Koinè, è autore di una trentina di volumi, quasi tutti dedicati alla antica filosofia greca. Tra i suoi libri maggiori, per questa editrice, Conoscenza della felicità (2005), Filosofia e biografia (con Umberto Galimberti, 2005), Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2006), Sulla verità e sul bene (con Carmelo Vigna, 2011). Per la casa editrice II Prato di Padova, ha pubblicato Occidente:radici, ssenza, futuro — (2009), ed A partire dai filosofi antichi (con Enrico Berti, 2010)

il giogo 45 Collana diretta da Luca Grecchi

«όπου γάρ ισχύς συζυγοϋσι και δίκη, ποια ξυνωρίς τώνδε καρτερωτέρα;» Eschilo, Frammento 267.

«τον πάθει μάθος θέντα κυρίως εχειν» Eschilo, Agamennone, 177.

«ξυμφέρει σωφρονεΐν υπό στένει» Eschilo, Eumenidi, 520.

«οΰπω σωφρονεΐν έπίστασαι» Eschilo, Prometeo, 982.

In copertina: Constantin Brancusi, Uccello nello spazio (Bird in Space, Oiseau dans l’espace), 1923.

Nel 1923 Brancusi scolpì una prima versione in marmo di Uccello nello spazio, inviandola quello stesso anno al collezionista americano John Quin. La scultura rappresenta il culmine della ricerca sul volo che impegnò Brancusi per tutta la vita: l’allegoria del volo diventa un emblema moderno (si pensi a H. Matisse e al suo Icaro: «Chi ama vola»!) «Lo slancio verticale suggerisce l’idea che l’uccello staccandosi da terra, si sta levando in volo, le ali unite al corpo per un istante, subito dopo il loro primo battito. Scegliendo con cura questo preciso momento nel processo del volo, lo scultore ha voluto interpretare l'impressione di forte energia racchiusa in quell'atto. L'Uccello si distacca dalla terra ed entra così a far parte di una nuova dimensione, quella del cielo. L'importanza simbolica di questo breve momento di trapasso da uno stato all'altro assumeva per Brancusi il valore di una vera e propria epifania spirituale. Dichiarava infatti che gli uccelli riuscivano a trasmettere "la gioia dell’anima liberata dalla materia". Il primo modello in marmo venduto a Quin servì poi per una nuova fusione in bronzo nel 1924. Da quella data in poi, fino al 1941, si susseguirono ben tredici varianti dello stesso modello.

Questo continuo tornare sull'immagine, dandole nuova vita seguendo l'ispirazione di un nuovo possibile cambiamento, è la prova dell'importanza che Brancusi attribuiva a questo tema. Egli lo vedeva quasi come la figura capace di racchiudere il significato di tutta la sua opera» (Maria Elena Versari, Grandi Scultori: Costantin Brancusi, Gruppo Editoriale L'Espresso, 2005).

Si legga, infra pag. 191, «Bird in Space. Ricercando primavera».

LUCA GRECCHI, Il presente della filosofia nel mondo. Postfazione di Giacomo Pezzano: «Nur noch Griechenland kann uns retten».

ISBN 978-88-7588-065-1 Copyright ©2012

editrice petite plaisance Associazione culturale senza fini di lucro Via di Valdibrana 311 - 51100 Pistoia Tel.: 0573-480013 C. c. postale 1000728608

www.petiteplaisance.it e-mail: [email protected]

Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada. ERACLITO

Luca Grecchi

IL PRESENTE DELLA FILOSOFIA NEL MONDO

Postfazione di Giacomo Pezzano «Nur noch Griechenland kann uns retten»

«Bisogna elaborare nell'anima la ferma convinzione della necessità e della possibilità del completo declino dell'attuale ordine di questa vita per avere la forza di rappresentarla poeticamente».

N. A. DOBROLJUBOV.

Stichotvorenija Ivana Nikitina, Sobr. Soi. v devjati tomach, Goslitizdat, Leningrad 1963, tomo VI, p. 167; citato M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, 1979, p. 301.

INTRODUZIONE

Mantengo, con questo libro, un impegno che presi cinque anni fa, nel 2007, in occasione della pubblicazione del mio II presente della filosofia italiana; in quella sede, infatti, dichiarai che presto avrei realizzato un testo analogo che si sarebbe però occupato dei maggiori filosofi non italiani contemporanei, per cogliere le principali tendenze di fondo della filosofia nelle varie parti del globo. La struttura di questo libro sarà, per analogia, la medesima di quella del libro del 2007: saranno cioè analizzati singoli volumi, da me ritenuti particolarmente significativi (solitamente editi dopo il 2000), di alcuni fra i più conosciuti filosofi contemporanei, per trarre conclusioni generali sulla riflessione del nostro tempo. Come scrissi anche allora, il fatto che sarà analizzato un singolo libro anziché la produzione complessiva di ogni autore, può per alcuni aspetti costituire un limite, ma a mio avviso non in maniera eccessiva; ho sempre, infatti, considerato le opere più importanti (almeno per me) nella produzione filosofica di ogni autore, ed ho in ciascun caso inserito qualche breve nota di inquadramento generale. Ritengo inoltre - pur reputando pertinenti le osservazioni di Platone secondo cui lo scritto, per difendersi dalle critiche e parlare in modo compiuto, necessita comunque dell'intervento dell'autore - che ogni libro debba sempre potersi reggere sulle proprie gambe. Dicendo questo, non voglio affatto sostenere che i filosofi veri, ossia quelli che strutturano il proprio discorso in modo fondato e sistematico (oltre che onesto, evitando inutili ripetizioni),

non debbano fare riferimento ad altri loro libri per rimandare al luogo in cui proprie tesi specifiche sono meglio argomentate; tuttavia, ogni libro è sempre un'opera autonoma, di cui il lettore deve poter cogliere il senso complessivo, nonché il messaggio di fondo, senza bisogno di rimandi. In testi come questo, la selezione dei filosofi (e per conseguenza dei temi) da analizzare è il compito primario. Oltre che per la rilevanza e la notorietà, ho selezionato i pensatori - e, all'interno della loro opera, i singoli libri - che avevano le maggiori cose da dire, al nostro tempo in generale ed a me in particolare. Molti nomi famosi, per quanto ritenuti importanti, non saranno dunque considerati per il semplice fatto che i loro testi, per quanto ottimi, mi sono sembrati o poco degni di considerazione complessiva (magari perché troppo specialistici), o comunque non intonati ai miei interessi. Riconosco che questo criterio di selezione possiede ampi margini di soggettività, ma questo libro - nonostante sia sorretto da una unitaria visione filosofica di fondo - non è un'opera che si pone fini enciclopedici di completezza, sicché un certo grado di "soggettività", oltre che ineliminabile, può a mio avviso essere accettato; chi, peraltro, mi legge da anni, conosce bene le tematiche che mi appassionano, ma sa anche che nel trattarle, pur prendendo sempre posizione, cerco in ogni caso di assicurare, innanzitutto, una descrizione "oggettiva". Rispetto al testo del 2007 sui filosofi italiani, un aspetto positivo dell'occuparsi di filosofi stranieri sarà che, stavolta, eviterò le lamentele di vari collaboratori di professori universitari italiani, ossia dei pensatori di cui nel libro precedente mi ero occupato (i filosofi oggi sono quasi sempre docenti universitari). Dopo la pubblicazione de II presente della filosofia italiana, infatti, sono stato in almeno due casi "criticato" per essere stato eccessivamente duro nelle mie analisi e nei miei giudizi; a parte però il fatto che una critica di "durezza" non è di per sé una critica (la critica deve sempre riguardare i contenuti espressi o la forma espositiva), vorrei in merito rimarcare che la filosofia deve proprio essere radicale - e dunque, se serve, anche "dura" - per essere realmente filosofica, ossia deve andare alla radice, al fondamento delle cose. Per questo

motivo ho risposto a costoro, e continuerò sicuramente a farlo in casi analoghi, che fra gli scopi dei miei libri non vi è mai stato il "mantenere buoni rapporti" con accademici importanti, ma sempre e solo l'offrire una disamina critica del tema analizzato, ed una descrizione/valutazione veritativa della realtà; questo il "patto non scritto" presente nei miei libri, da cui non intendo derogare, per il semplice fatto, innanzitutto, che facendolo mi sentirei a disagio. Per quanto riguarda la contestualizzazione di questo scritto all'interno della mia produzione filosofica complessiva, nonostante la questione possieda una rilevanza solo personale, vorrei rimarcare come esso segni un piccolo passaggio all'interno della medesima. Ritengo infatti di avere sostanzialmente concluso la mia complessiva interpretazione della filosofia greca1, e di dover dunque passare, sul piano storico, alla analisi del pensiero moderno e contemporaneo, da me finora affrontati solo in poche occasioni2. Vorrei inoltre trattare, in futuro, solo tematiche filosofico-politiche importanti3, dunque abbandonare testi monografici e scritti di occasione (a meno che, appunto, non rivestano un significato generale); vorrei fare ciò, soprattutto, in vista di quella che, sul piano teoretico, dovrebbe essere la mia opera sistematica, il cui titolo annuncio da tempo (Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell'essere), ma che continuo a rimandare. Spesso, per questi lavori sistematici, che si vorrebbero fatti per rimanere nel tempo, l'anzianità dell'autore giova, in quanto consente l'accumulo di conoscenza ed esperienza; in filosofia inoltre, così come nella vita, negli anni tendenzialmente si migliora (salvo casi di radicali cambiamenti di idee, dovuti però di solito a motivi di tipo utilitaristico), sicché questo continuo rinvio potrebbe essere un bene. Tuttavia, la vita non è mai al riparo dalla morte, per cui non bisogna nemmeno attendere troppo se qualcuno ritiene di avere cose importanti da dire o da fare; anche in questo campo sono per i progetti di ampio respiro. Concludo segnalando che il parallelo con il precedente Il presente della filosofia italiana si ha anche nella conferma dei temi più rilevanti presenti nel pensiero contemporaneo, che ho

riscontrato essere i medesimi sia in Italia che altrove. In quel libro distinguevo esplicitamente - qui lo farò solo in modo implicito - le correnti principali della filosofia contemporanea in "razionalista" e "simbolica" (anche se rimarcavo come le due correnti più interessanti fossero quella "metafisica" e "radicale"). In questi anni ho consolidato questa convinzione, giungendo anzi a ritenere che la filosofia contemporanea vive proprio della falsa opposizione, o meglio della "solidarietà antitetico-polare" fra polo razionalistico (filosofia analitica, epistemologia, scienze cognitive, ecc.) e polo simbolico (ermeneutica, relativismo, mistica, ecc.). Questi due poli infatti sono, per come affrontati dalla modernità, in solo apparente conflitto, in quanto costituiscono in realtà un unico blocco al proprio interno solidale; tale solidarietà antitetico-polare, su cui campano da anni - accentuando una fittizia opposizione - i vari maîtres à penser della ideologia dominante, consente di escludere dal centro del dibattito filosofico la vera filosofia, il cui contenuto è invece da sempre, ossia dalla antica Grecia, rappresentato dalla comprensione ontologica e dalla contestuale valutazione assiologica della totalità sociale. L'opposizione artificiosa fra "razionalisti scientifici" e "simbolici evocativi" descrive lo scorrimento orizzontale oggi prevalente della "merce filosofica"; questo scorrimento orizzontale è talvolta "tagliato" verticalmente, appunto, dall'alto dalla metafisica (che richiama alla comprensione ontologica dell'intero, anche se spesso in modo astratto), e dal basso dal radicalismo (che richiama alla valutazione assiologica dell'intero, anche se spesso in modo non fondato). Per questo motivo, ossia per ritornare ad una comprensione/valutazione onto-assiologica dell'intero concreta e fondata, ossia ad una vera filosofia, ho nei miei scritti delineato la necessità di giungere ad una metafisica umanistica, ovvero ad una struttura sistematica di significati che, fondata sull'uomo come soggetto trascendentale ed incentrata sulla critica alla crematistica antiumanistica (ovvero alla ricerca fine a se stessa di denaro e potere, negatrice della natura razionale e morale degli uomini), realizzi realmente quell'orizzonte complessivo di pensiero e di azione in grado di favorire un miglioramento delle modalità sociali.

Questo lo scopo che, da sempre, è proprio della filosofia, e che dunque anche questo libro vorrebbe riproporre.

1

L. Grecchi, L'umanesimo della antica filosofia greca; L'umanesimo di Platone; L'umanesimo di Aristotele; L'umanesimo di Plotino; L’umanesimo di Omero; L'umanesimo politico dei "Presocratici" (tutti editi da Petite Plaisance tra il 2007 ed il 2012). Mi sono occupato comunque di vari aspetti della antica filosofia greca almeno in un'altra quindicina di libri. 2

L. Grecchi, Karl Marx nel sentiero della verità; Verità e dialettica, ha dialettica di Hegel e la teoria di Marx; La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio; Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino; Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti, tutti editi da Petite Plaisance di Pistoia tra il 2003 ed il 2006. Ho comunque in preparazione un testo dal titolo Umanesimo ed antiumanesimo nella filosofia moderna e contemporanea. 3

Ho in preparazione, con Carmine Fiorillo, un testo dal titolo Il necessario fondamento umanistico del comunismo.

Zygmunt Bauman

MODERNITÀ LIQUIDA

Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2011, ed. or. 2000.

Questo libro del sociologo polacco Zygmunt Bauman (1925), uno dei più noti del nostro periodo, si rivela davvero significativo per comprendere la filosofia contemporanea come espressione delle attuali modalità capitalistiche. In questo libro sono infatti espresse, con buona argomentazione, alcune delle tesi principali ribadite dal più "razionale" pensiero postmoderno (quello più "simbolico" -à la Deleuze-Derrida per intendersi - mi pare essere divenuto meno funzionale, e dunque fuori moda), il quale costituisce spesso, appunto, un supporto ideologico del modo di produzione capitalistico, nella maggior parte dei casi all'insaputa dei suoi stessi autori. Il libro in questione, vendutissimo, inizia (l'edizione italiana 2011 ha una introduzione aggiornata) con la tesi secondo cui staremmo vivendo in un «periodo di interregno, uno di quei momenti in cui gli antichi modi di agire non funzionano più [...], ma ancora non sono state inventate [...] nuove forme di vita più adeguate alle nuove condizioni» (pag. V). Queste prime parole dovrebbero indurre, a mio avviso, a stare all'erta. Già il linguaggio, "funzionalistico", non appare convincente: cose che «non funzionano più», cose nuove che «non sono ancora state inventate», eccetera; questo modo di argomentare, tipico non solo di Bauman ma anche di altri filosofi contemporanei (penso, ad esempio, ad Umberto Galimberti), comprime la verità sulla mera efficacia, e dunque comprime il

pensare sul fare, la teoria sulla azione, la filosofia sulla tecnica, come se il tutto potesse ridursi al mero funzionamento di una "macchina". In particolare, poi, questa insistenza sull'essere in un «periodo di interregno», ossia in una fase di transizione, tende a far ritenere che il modo di produzione capitalistico troverà comunque una soluzione tecnica ai propri problemi; in realtà, con la propria teoria "funzionalistica", Bauman non riesce a comprendere che quelli che per gli uomini sono i problemi creati dal capitalismo (la precarietà, la povertà, la disoccupazione, la insensatezza, ecc.), per il capitalismo sono la soluzione al proprio problema, ossia alla maggiore valorizzazione possibile del capitale. Il modo di produzione capitalistico, infatti, non pone l'uomo come il fine, bensì come uno strumento (una merce) fra tanti per il fine della realizzazione del massimo profitto. Così argomentando (o non argomentando), Bauman omette di rilevare che il modo di produzione capitalistico tende per sua natura a dualizzare la società4, ossia a creare da un lato, per pochi, una grande ricchezza materiale, ed al contempo a creare, per molti, un progressivo immiserimento materiale e spirituale. Bauman non si pone nessuno dei problemi che si pose Marx circa la possibilità che il sistema regga; quand'anche, comunque, il sistema reggesse, sarebbe innaturale, ossia contrario alla natura umana, ontologicamente contraddittorio ed assiologicamente indesiderabile: a mio avviso, proprio questa "innaturalità" costituisce il limite maggiore alla possibilità di sopravvivenza del capitalismo a medio termine. La categoria di "modo di produzione capitalistico", e più in generale quella di "totalità sociale", è oggi assai poco utilizzata, e non solo da Bauman; per questo il lettore poco abituato ad essa potrà provare una strana, e forse fastidiosa, "sensazione di marxismo". Spero, però, che questo lettore non si affidi alle sensazioni, ma alla ragione, e rifletta sulla frase riportata nel retro di copertina - dunque per Bauman molto significativa - dell'opera: «Abbandonate ogni speranza di totalità, futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità liquida!». Il tono "dantesco" qui utilizzato è davvero significativo: così infatti come l'iscrizione posta all'ingresso dell 'Inferno, nella

Commedia, stava ad indicare che chiunque avesse osato valicare quella soglia non sarebbe più tornato in vita, allo stesso modo Bauman sembra quasi voler ammonire chi si ostina a pensare in termini di totalità sociale, ossia di alternativa al modo di produzione capitalistico, che in questo modo egli pone a rischio giustappunto la propria vita, poiché va contro il proprio tempo sulla questione più essenziale, ovvero la legittimità dei processi sociali dominanti. Paradossalmente - ma il paradosso vi è solo per chi non comprende le logiche complessive, ossia la dialettica interna, del sistema capitalistico - un giovane anarchico che si presenta a manifestazioni collettive di protesta rompendo vetrine ed incendiando auto, è molto più "sistemico" (ossia "accettabile dal sistema", che può grazie a lui demonizzare ogni forma di protesta, anche appunto quella filosofica) rispetto a chi, pacificamente, scrive libri che invitano a ragionare in termini di totalità sociale; il primo, peraltro, può essere inserito nel "teatrino mediatico" (che vive appunto grazie alla presenza sulla scena di tutti gli "attori", dai più moderati ai più scalmanati, in quell'intermedio ed inconcludente "dialogo" così caro ai vari "democratici di sinistra"), mentre per il secondo ciò è molto più difficile, poiché costui non vi si presta. Ora: indubbiamente una soglia di irreversibilità è oramai stata varcata, ed è indubbio che la modernità «liquida» conduca proprio a "liquidare" la possibilità di tornare indietro, o meglio di percorrere un'altra strada; tuttavia, non si deve confondere l'attuale situazione effettuale, che esprime ideologicamente il desiderio di "liquidare" il pensiero filosofico-politico sulla totalità sociale, con la solo presunta necessità di questa "liquidazione". Quest'ultima non è infatti una necessità, poiché nessun argomento, sul piano logico, ontologico od assiologico, ci spinge a pensare questo; solo l'interesse del capitale, che non vuole essere giudicato vale per esso solo il «giudizio dei mercati» - nella sua legittimità razionale e morale, può ritenere desiderabile l'abolizione di ogni pensiero sulla totalità sociale. Occorre perciò essere consapevoli che vi è una sostanziale identità fra "modernità liquida" e "modo di produzione capitalistico", identità di cui Bauman sembra invece inconsapevole, in verosimile "falsa coscienza necessaria".

Particolarmente disdicevoli peraltro, almeno a mio avviso, sono i toni "da documentario" con cui egli afferma, ad esempio, che gli uomini devono «cercare di ridurre l'inquinamento» (pag. VI), come se i singoli individui - e non il modo di produzione sociale complessivo -fossero la causa principale della degradazione del pianeta. Pur riconoscendo ovviamente alle analisi di Bauman anche dei meriti, mi pare più opportuno, anziché accodarmi al coro degli elogiatori (che ben guardando, peraltro, avrebbero potuto trovare molte delle presunte idee originali di Bauman in autori precedenti), rimarcare come questo libro non si faccia mancare nulla quanto ad esposizione del senso comune; viene ribadita, ad esempio, la tesi secondo cui gli Stati-nazione sarebbero «chiaramente inadeguati a risolvere i nostri problemi, la cui scala è globale» (pag. VI), così come la tesi secondo cui «le forme di vita moderne [...] hanno tutte in comune proprio questa fragilità, provvisorietà, vulnerabilità e tendenza a cambiare continuamente» (pag. VI). Le due tesi sono, ovviamente, connesse, in quanto gli Stati-nazione sono stati depotenziati sul piano sociale, il che, nel vuoto di governo politico globale, ha creato appunto fragilità, provvisorietà e vulnerabilità, condizioni sociali che giovano al capitale globale (il quale, tramite esse, può pagare minori costi). Questo però, che pure è il cuore della questione, Bauman si guarda bene dal dirlo, preferendo discorrere metaforicamente sul tema della "liquidità", senza sottolineare che la "stabilità" che oggi si vuole liquidare è proprio l'essenza razionale e morale dell'uomo, o meglio la possibilità di realizzare tale essenza, la quale richiederebbe appunto modalità sociali comunitarie, alternative rispetto a quelle attuali (la comunità è l'opposto del mercato, in quanto la prima è incentrata sul dono gratuito, il secondo sullo scambio economico). Curiose, peraltro, le forme della sua esposizione, che da un lato (come accade, ancora una volta, nelle opere di Umberto Galimberti)5 sembrano descrivere in modo neutrale le tesi dominanti della modernità, ma dall'altro sembrano invece mostrare una piena condivisione di tali tesi: una calcolata ambiguità che ha l'effetto - in assenza di critica di confermare lo status quo, il quale si vede descrivere come

immodificabile. Come in Habermas, vi è inoltre anche in Bauman l'elogio dell'essere «post», in quanto «essere sempre post-qualcosa, in ogni fase ed epoca, è un'altra caratteristica inseparabile della modernità» (pag. VII). Habermas, che si dichiara «postmetafisico», «postmarxista», «postcomunista», ecc., è in effetti senza dubbio pensatore "moderno" se con questo termine si intende la «modernità liquida» di Bauman; ciò però non accade se, con «modernità», si intende - a mio avviso più correttamente - il periodo storico che va da Cartesio fino a Hegel. Bauman tende ad affermare che, dopo il medioevo, vi sarebbe stata solo la «modernità». A suo avviso, «quella che tempo fa era stata (erroneamente) etichettata come postmodernità, e che ho preferito chiamare, in modo più pertinente, modernità liquida, è la convinzione sempre più forte che l'unica costante sia il cambiamento, e l'unica certezza sia l'incertezza» (pag. VII); tuttavia, Bauman pare possedere la certezza -niente affatto incerta - che la modernità possiede un grado di liquidità crescente, ossia di crescente precarizzazione e flessibilità. In ogni caso, indipendentemente dalla scelta dei termini, sulla quale si può discutere a lungo (chiamare tutto il periodo dopo il medioevo come "modernità", avrebbe ad esempio il pregio di identificare la "modernità" con il "modo di produzione capitalistico", di cui poi si possono distinguere diverse fasi, come ha ad esempio fatto in diversi libri Costanzo Preve6) ma che è comunque marginale, il tema centrale è che non è assolutamente vero che l'unica certezza può essere solo l'incertezza, ovvero che tutto sia diveniente. Già l'affermazione per cui «l'unica costante è il cambiamento» dovrebbe mettere in guardia un lettore abituato a frequentare il pensiero greco; in effetti Platone, e soprattutto Aristotele, confutarono la tesi per cui «l'unica costante è il cambiamento», ovvero la tesi per cui «tutto diviene» (il cosiddetto "eraclitismo"), così come la tesi per cui «tutto è immobile» (il cosiddetto "parmenidismo"). Affinché, infatti, si possa dire che un ente è diveniente, occorre almeno un ente stabile, così come, per dire che un ente è stabile, ne serve almeno uno diveniente: se fosse o tutto in movimento o tutto fermo,

mancherebbero anche i concetti di "divenire" e di "stabilità". Lasciando comunque a parte le argomentazioni logiche (o ontologiche, come dir si voglia), il reale motivo per cui, nella attuale condizione storica, dovremmo tutti - per Bauman - abituarci ad essere «privi di qualsiasi prospettiva o aspirazione» (pag. VII), è semplicemente il fatto che il sistema capitalistico, per la propria sussistenza e valorizzazione, desidera da noi questo, in modo tale che appunto esso non corra pericoli. Bauman però, anche stavolta, evita di dirlo apertamente, sfiorando addirittura il ridicolo quando attribuisce la causa del carattere «liquido» della nostra epoca alla esagerata ricerca di «solidità» (ossia di diritti); egli non comprende che tale ricerca, più che una causa, è semmai un effetto del carattere «liquido» del mondo attuale, ed ancor più è qualcosa di necessario per la natura umana, la quale ricerca appunto sempre armonia, stabilità, regolarità, come armonici, stabili e regolari sono i battiti cardiaci e gli atti respiratori. Concordo, se non si applica la dialettica hegeliana in termini troppo stretti, che la coppia solidità-liquidità è «una coppia inseparabilmente avvinta in un legame dialettico» (pag. VII); tuttavia, sostenere che sarebbe stata «la ricerca di solidità delle cose ad avere innescato, mosso e guidato la liquefazione» (pag. VII) delle stesse, mi sembra davvero risibile: sarebbe come dire che gli uomini, per avere esagerato nella loro naturale ricerca di verità e di bene, stanno ora scontando una pena in termini di flessibilità, precarietà e relativismo! Si tratta di una tesi errata ed - essa sì realmente ideologica, ossia esito della ideologia dominante; sarebbe in realtà bastato a Bauman analizzare meglio il modo di produzione capitalistico per comprendere che la «società liquida», ovvero l'incertezza generalizzata7, è il destino inevitabile del medesimo, in quanto esso basa l'aumento dei profitti proprio sull'aumento dello sfruttamento nelle sue varie forme, e dunque anche sulla crescente precarietà (che rende appunto maggiorente possibile lo sfruttamento). Non credo, come detto, che Bauman reciti questa parte con consapevolezza; ritengo più verosimile che l'ideologia della

funzionalità capitalistica "ispiri" quasi pressoché tutti gli intellettuali a formulare tesi compatibili con essa in maniera inconsapevole, semplicemente poiché si percepisce (un po' come certi animali migratori) che la direzione da seguire è quella, ossia che lo sviluppo della propria posizione sociale corre su quella strada. Tutto questo lo chiarisco a scanso di equivoci, poiché in questa epoca individualistica si finisce sempre per "individualizzare" ogni cosa non significa dare del "venduto" a nessun intellettuale, così come non significa dare del "citrullo" a nessun lettore di quotidiani come Il Corriere della Sera; significa anzi, al contrario, mostrare come la ideologia capitalistica, facendo passare - grazie alla propria onnipervasività - alcune tesi come "neutrali", sia davvero oggi la più pericolosa. Vivendo in un mondo determinato, in ogni sua parte, dalle modalità sociali capitalistiche, non comprendere questo "dettaglio" risulta piuttosto grave per chi vuole porsi come interprete della propria epoca! Queste omissioni di Bauman sono chiaramente - se ci fosse ancora una critica filosofica degna di questo nome, capace di far notare questo, ciò apparirebbe in tutta la sua evidenza ideologiche, in quanto è sicuramente frutto di sudditanza verso l'ideologia dominante affermare, al contempo, che «nella fase liquida la principale preoccupazione è quella di [...] non poter sfruttare le opportunità ancora segrete [...] attese per il futuro» (pag. VIII), e non rendersi conto che la «liquidità» non è altro che l'essenza del capitalismo, il quale vuole appunto sfruttare ogni possibilità di profitto! Allo stesso modo, è ideologico affermare che la società liquida vive «sulla paura di ciò che è troppo solido per poter essere smantellato» (pag. VIII)8, e non comprendere che dietro questa «paura del solido» vi è in realtà «l'elogio del liquido», ossia l'esigenza valorizzativa del capitale (non a caso il denaro contante si chiama «liquido», poiché è quello più facilmente valorizzabile ed occultabile), il quale vorrebbe - in base alla famosa formula marxiana - dissolvere nell'aria tutto ciò che è solido. Se «modernizzare significa liquefare, fondere, estrarre» (pag. IX), non c'è dubbio che ciò che è stato maggiormente "estratto" nella modernità sia stato soprattutto il profitto, mentre ciò che è stato

maggiormente "liquefatto e fuso" sia stata la sostanza razionale e morale dell'uomo; non a caso alcune delle filosofie da diversi decenni più in voga (Althusser, Deleuze, Derrida, Foucault, Vattimo, ecc., ma prima di loro, quanto meno, Hobbes, Locke e Hume) parlano proprio - a sproposito - di «crisi» dei concetti di «sostanza» e «soggetto»9. Il culmine arriva però quando il sociologo Bauman afferma, convergendo col filosofo Habermas, che a suo avviso tutta la questione della società liquida «è un problema sociopolitico, non una questione metafisica» (pag. XIII); per lui è certo così, ma se per «metafisica» si intendesse - come si dovrebbe - la filosofia classica di Platone ed Aristotele, ossia quella abituata a ragionare sulla totalità sociale, allora direi che la verità consiste proprio nell'esatto contrario di quanto afferma Bauman: la questione della «società liquida» è proprio una questione metafisica, che i filosofi di stampo classico hanno compreso molto meglio degli attuali sociologi alla moda! Per concludere, ciò che lascia più perplessi nella ricostruzione di Bauman, non è il fatto che essa sia fedele a quanto realmente accade, in quanto effettivamente essa lo è; ciò che lascia perplessi è che egli sembra presentarla come ineluttabile, con il risultato - che il suo pensiero pare indurre - che essa deve al più essere accettata e sopportata (Sloterdijk), ma non mutata. Le sue uniche critiche alla «modernità liquida» riguardano infatti esclusivamente «l'ideologia produttivistica», ossia il fatto che si centralizza il discorso sulla quantità della produzione anziché sulla sua qualità, ma senza spiegare mai che l'aumento quantitativo (così come la variazione qualitativa) della produzione è sempre e solo un modo per incrementare il profitto, e che il profitto è sempre e solo il fine del processo di produzione capitalistico, di cui «l'ideologia produttivistica» (con cui se la prendono anche Serge Latouche ed i cosiddetti «teorici della decrescita») è sempre e solo l'ombra del nemico principale, costituito dal modo di produzione sociale complessivo. Bauman

non

offre

affatto

un

pensiero

che

favorisca

la

costituzione di anticorpi culturali alla attuale società liquida, ma lascia anzi sostanzialmente passare come neutrale ed ineluttabile il fatto che le persone debbano sentirsi «liquide» come l'acqua, per il semplice motivo di doversi adattare, per sopravvivere, al recipiente capitalistico che le contiene. Bauman chiude il proprio libro, addirittura, con una critica ad Herbert Marcuse ed in generale a tutti i pensatori radicalmente critici, esprimendo la tesi in base a cui le teorie rivoluzionarie sono errate in quanto «l'uomo potrebbe semplicemente non desiderare di essere libero, e dunque rifiutare la prospettiva della emancipazione, alla luce delle sofferenze che l'esercizio della libertà può infliggere» (pag. 5)! L'attacco alla natura razionale e morale dell'uomo - come se l'uomo non desiderasse la libertà, e come se la libertà non fosse la condizione necessaria della felicità - è un dato presente in tutto il pensiero liberale10, sicché, alla luce di quanto si è qui esposto, Bauman deve essere annoverato proprio in questo "genere" culturale.

4

Rimarco come, in generale, siano sempre più diffuse le tesi in base a cui i concetti di "società", "collettività", ecc. sarebbero ideologici; cito, ad esempio, Piero Ostellino, che dalle pagine del Corriere della sera del 20 febbraio 2012 - poco filosofiche ma molto ideologiche, in quanto portatrici della ideologia dominante, quella che viene assorbita come l'aria per l'apparente neutralità del mezzo che la propone -, ha affermato che «la collettività è una astrazione ideologica inconsistente; gli uomini sono cento, mille, un milione, e fanno ciascuno di testa loro». 5

Rinvio, in merito, a U. Galimberti - L. Grecchi, Filosofia e biografia, Petite Plaisance, Pistoia, 2005; L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, con introduzione di Carmelo Vigna.

6

L'approccio di Preve è stato seguito anche nel recente libro, di ottimo successo, di Diego Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano, 2012. 7

«In condizioni di liquidità tutto è possibile [...], vivere nelle condizioni liquido-moderne è come camminare su un campo minato» (pag. XIV). 8

«Ormai si apprezza quasi soltanto ciò che è facile da mandare all'aria, scartare e abbandonare: i legami che si possono sciogliere senza fatica, gli impegni facilmente revocabili e le regole del gioco che non durino più del gioco stesso (semmai meno). Siamo tutti irrefrenabilmente a caccia di novità» (pag. XI). L'adesione all'ottica del capitale è qui davvero disarmante. 9

Per un approfondimento di queste tematiche, rinvio ad un mio saggio intitolato Soggetto e Sostanza in Aristotele, presente in D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, Il Prato, Padova, 2013. 10

Rinvio, in merito, a C. Preve - L. Grecchi, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2006.

LE SFIDE DELL'ETICA

Z. BAUMAN, Le sfide dell'etica, Feltrinelli, Milano, 1996, ed. or. 1993.

Benedetto Croce scrisse che esistono traduzioni di due tipi: quelle fedeli ma brutte, e quelle infedeli ma belle; egli si riferiva alle opere poetiche, ma mi pare che questa tesi si addica anche alla traduzione di testi letterari, o più semplicemente dei loro titoli. La traduzione del titolo di questo libro, che nel suo originale inglese era Postmodern ethics, è riuscita ad essere al contempo infedele e brutta, ossia non conforme ai fini dell'autore (pag. 7) e fuorviante verso i lettori. Questo libro vuole infatti parlare di «etica postmoderna», non delle «sfide dell'etica» (che richiederebbero una dimensione «forte» dell'etica, che questo libro non contiene). Sembrerebbe, quella di «etica postmoderna», una espressione assai difficile da coniugare, in quanto la postmodernità, come struttura filosofica, si incentra proprio sulla arbitrarietà di ogni distinzione fra bene e male, e dunque sulla contestazione della validità di ogni etica. Tuttavia, poiché il termine «etica» fa riferimento al «comportamento» (dal greco ethos), esso può trovare applicazione ovunque, e quindi anche nella postmodernità, poiché pure in questa nostra epoca, ovviamente, gli uomini agiscono tramite comportamenti; dato che nel nostro tempo, sulle tematiche etiche più importanti, non è possibile realmente decidere (tutto è infatti, nella attuale totalità capitalistica, determinato dai processi riproduttivi delle modalità sociali dominanti), all'etica postmoderna non rimane da esaminare che «la condizione attuale delle relazioni

di coppia, la sessualità, la convivenza famigliare» (pag. 7), e poco altro. Evidente, dunque, come l'etica postmoderna si ponga in maniera opposta rispetto all'etica classica, la quale aveva come compito quello di formare l'uomo completo, in grado di decidere realmente sulle questioni più importanti, per la sua vita e per la comunità sociale. Bauman del resto, che si avvicina molto all'approccio postmoderno, afferma che in esso «l'etica è denigrata o schernita in quanto costruzione tipicamente moderna, ora superata e destinata alla pattumiera della storia» (pag. 8). Da ciò si evince, come appare peraltro in tutte le analisi di Bauman sulla società «liquida»11, che egli non pratica una mera descrizione dell'etica postmoderna, quanto una sostanziale fusione di orizzonti con la medesima, volta all'accantonamento dell'etica classica. Per ben comprendere il pensiero di Bauman, occorre infatti chiedersi: sta egli dalla parte della concezione antica (o quanto meno moderna) dell'etica, oppure dalla parte della concezione postmoderna, che considera l'etica - così come la politica e la filosofia - come «un'altra illusione di cui gli uomini postmoderni possono certo fare a meno» (pag. 8)? Pensa egli realmente che sia in atto, o addirittura che sia stata realizzata, una «rivoluzione etica postmoderna», e che la modernità sia stata superata? Io, personalmente, non lo penso, ma Bauman, nonostante alcune critiche condivisibili all'uomo consumatore ed alle principali brutture del nostro tempo, mi pare aderire in pieno ai dettami contemporanei, lanciando continuamente frasi - a metà, appunto, fra il descrittivo ("le cose stanno così") ed il prescrittivo ("occorre adeguarsi") - del tipo che «nel nostro tempo [...] gli uomini non provano l'impulso né il desiderio di perseguire ideali morali e salvaguardare i valori morali; i politici hanno chiuso definitivamente con le utopie, e gli idealisti di ieri sono diventati pragmatici [...]. La nostra è l'epoca del pieno individualismo» (pag. 8). Ebbene: se questa è la corretta descrizione della nostra epoca (e lo è), ci si aspetterebbe da un critico della stessa, e dunque da un critico della postmodernità, una presa di posizione classica in favore

di un fondato moralismo, di una utopica progettualità, di una ripresa dell'idealismo; invece Bauman fa tutto il contrario, ossia avversa decisamente queste posizioni, schierandosi dunque - anche se mai in maniera compiutamente esplicita - tra i sostenitori della postmodernità e delle sue regole. La strategia argomentativa di Bauman è peraltro peculiare, in quanto egli tende a presentare la postmodernità, civettando con la dialettica hegeliana, come un progresso sulla modernità; egli afferma infatti che, rispetto alla modernità (che sarebbe il «positivo»), la postmodernità (che sarebbe il «negativo») consentirà in futuro all'etica di presentarsi con una nuova sintesi migliore. In questo modo - in maniera per certi aspetti analoga a quanto fanno Severino e Galimberti con la tecnica -, egli riesce a presentare la postmodernità da un lato come un «negativo», ma dall'altro come un elemento «positivo» necessario per il progresso. La dialettica hegeliana, utilizzata spesso a sproposito da intellettuali confusionari per intorbidare le acque, si applica però solo ai cosiddetti concetti "puri", ossia a tesi che comprendono concettualmente al proprio interno la loro antitesi12; tali non sono i concetti di modernità e postmodernità, sicché l'utilizzo del metodo dialettico effettuato da Bauman, anche solo per analogia, non può essere considerato corretto. L'etica postmoderna deve essere valutata per quello che è, non per quello (del resto non chiaro) che potrebbe contribuire a far nascere13. Ebbene: con riferimento a ciò che è, l'etica postmoderna mi pare poco più che un sofistico indebolimento dell'etica moderna (e classica) dovuto semplicemente alle necessità di adattamento all'attuale modo di produzione capitalistico, dalla cui struttura essa emana. Indubbiamente, in ogni confronto teoretico la posizione si chiarisce, sicché anche il confronto fra etica moderna e postmoderna effettuato da Bauman può avere una sua utilità; tuttavia l'arte è lunga ma la vita è breve, le sofferenze sono presenti ora, e le giovani generazioni rischiano di rimanere passive nei confronti dell'etica postmoderna proprio per essersi formate per anni su pensatori come Bauman, quando non su meri vuoti

formalismi accademici. Piuttosto di questo inutile - e forse anche dannoso - "travaglio del negativo", non sarebbe meglio rafforzare l'etica antica, trasmessa alla modernità principalmente tramite Spinoza, Fichte, Hegel e Marx, la cui solidità è comprovata ed il cui apporto alla armonizzazione sociale risulta così evidente? Sicuramente si, ma purtroppo non sono i filosofi che scelgono le etiche da applicare ad un'epoca, bensì è il modo di produzione sociale che sceglie le etiche che lo favoriscono, e dunque i filosofi cui dare credito, e questi ultimi sono sempre quelli che non ostacolano il processo della produzione sociale complessiva (nel capitalismo il processo della valorizzazione del capitale). Su questa tesi, come su ogni tesi, è lecito per ciascuno avere dubbi; tuttavia, ritengo molto difficile che qualcuno possa validamente argomentare una tesi opposta. Ritorniamo, comunque, a Bauman ed all'etica postmoderna. Anche per Bauman ogni etica è figlia del proprio tempo storico. Tuttavia, lungi dal riflettere su questa considerazione, che dovrebbe far diffidare ogni filosofo dall'essere troppo concorde con le idee dominanti della sua epoca, egli preferisce assecondare il proprio tempo, affermando che «la prospettiva postmoderna cui fa riferimento questo saggio significa innanzitutto strappare la maschera delle illusioni, riconoscere certe pretese come false e certi obiettivi come non raggiungibili; e, in verità, non desiderabili» (pag. 9), poiché ciò appunto richiede l'attuale modo di produzione. Ora: che questi obiettivi - ritengo quelli «solidi» del welfare state e dei diritti sociali, per non parlare di quelli «solidissimi» del comunismo - siano «illusori», «non raggiungibili» ed addirittura «non desiderabili» lo dice Bauman, ma forse egli non lo direbbe se percepisse maggiormente la condizione di sofferenza e di incertezza propria di centinaia di milioni di persone nel mondo. Bisogna sempre pensare a quale è il "lato" del rapporto sociale a cui si fa riferimento, almeno finché vivremo in un modo di produzione che scinde il rapporto sociale in due lati conflittuali, ossia lavoro e capitale; non essere consapevoli della struttura della totalità sociale in cui si vive costituisce infatti la più grave forma di ignoranza (o di ideologia) che possa colpire un filosofo.

Bauman, però, di questo non si cura. Il suo obiettivo polemico, sul piano politico, sono infatti i critici della attuale totalità capitalistica, mentre sul piano filosofico sono i critici della postmodernità; significativo, in merito, è che egli affermi che «la novità dell'approccio postmoderno all'etica consiste non tanto nell'abbandono delle preoccupazioni morali tipicamente moderne, quanto nel rifiuto dei modi tipicamente moderni di affrontare i problemi (cioè la risposta alle sfide morali con una regolamentazione coercitiva nella prassi politica, e la ricerca filosofica degli assoluti, degli universali e dei fondamenti nella teoria)» (pag. 9). Bauman non poteva essere più chiaro circa il proprio obiettivo polemico. Meno chiaro è invece comprendere quale sia questo «modo nuovo» di affrontare i problemi morali da parte del pensiero postmoderno, se non una supina accettazione delle modalità sociali dominanti, condita - per alcuni insaporita - da chiacchiere interminabili su temi etici del tutto marginali (l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, la sessualità giovanile, i matrimoni gay, ecc.), che danno la mera parvenza del dialogo filosofico democratico; si tratta di mera parvenza in quanto il vero dialogo filosofico, ossia quello greco, verteva sui temi etici e politici più importanti, e questo poiché tali temi non erano già decisi, avendo ancora l'etica e la politica - contrariamente ad oggi - priorità sulla economia. Sposando il proprio tempo, Bauman sposa il relativismo in etica ed il nichilismo in politica, ovvero i brodi filosofici di cottura della ideologia capitalistica; dato che a suo avviso «il cardine etico infallibile - universale e saldamente fondato - non si troverà mai» (pag. 17), e quand'anche si trovasse esso non avrebbe alcun potere, è per Bauman inutile perdere tempo a cercarlo, ed occorre dunque abbandonare ogni forma di metafisica, di umanesimo e di progettualità politica. Come spesso accade in caso di divergenze filosofiche così profonde -quali quelle che mi dividono (al di là della mia irrilevanza nel panorama filosofico contemporaneo) da Bauman -, la distanza si

marca sempre a partire dal fondamento; la vera critica, quella radicale, è del resto proprio quella che va alle radici, al fondamento del discorso. Esplicito allora come sia evidente, almeno a mio avviso, che il fondamento di ogni discorso etico è sempre costituito dall'uomo (o meglio dalla natura umana)14; tuttavia, non tutti i filosofi hanno la medesima concezione dell’uomo. In conformità con la metafisica classica, io ritengo che la natura dell'uomo sia razionale e morale, ossia che senza un utilizzo della ragione rivolto al bene l'uomo non possa realizzarsi, e pertanto non possa essere felice; Bauman sembra invece pensarla, almeno quanto al contenuto morale della natura umana, in maniera molto differente. Egli afferma infatti che «gli uomini sono moralmente ambivalenti: l'ambivalenza è al cuore della scena primaria del confronto umano» (pag. 17), in quanto «la morale non è universalizzabile» (pag. 19); a suo avviso, inoltre, «dall'analisi della condizione della persona morale nel mondo postmoderno» non emerge «alcun elenco preciso di precetti etici» (pag.227). Queste tesi devono far riflettere, perché esse incarnano pienamente l'etica postmoderna, fondata sulla ambivalenza dell'uomo anziché sulla sua natura comunitaria. Bauman afferma infatti che, sul piano etico, fra gli uomini regna l'ambivalenza, non l'universalismo; le riflessioni, le scelte, le azioni non sono cioè quasi mai univoche, bensì quasi sempre equivoche. Ebbene: contro questa inversione fra ciò che è centrale e ciò che è marginale nell'uomo operata dall'etica postmoderna, occorre assolutamente essere chiari; si tratta infatti del maggiore imbroglio -maggiore non solo in quanto è il più importante, ma anche in quanto è il più diffuso, "passando" pure tramite le riviste femminili ed i programmi di gossip - che si possa realizzare nei confronti dell'etica classica, ed in ultima analisi della verità. Proviamo infatti a pensare: davvero «la morale non è universalizzabile», e «l'ambivalenza è al cuore della scena primaria del confronto umano»? Nonostante ciò che ritiene il nostro tempo, io risponderei sicuramente di no. La nostra epoca capitalistica utilizza infatti i mass media soprattutto per passivizzare politicamente (non per rincretinire, poiché comunque i lavoratori

devono essere attivi e preparati...), e tale passivizzazione viene operata principalmente con una continua problematizzazione di questioni marginali (quando non propriamente irrilevanti), le quali affogano con un eccesso di parole le riflessioni eticopolitiche più importanti. Ebbene: ciascuno di noi sa, specie se è sposato ed ha figli, che le questioni affettive, le quali potrebbero sembrare le più universali (dopo l'insegnamento di Paolo di Tarso e dei Vangeli, cosa più dell'amore sembra universalizzabile?), sono in realtà anche ambivalenti; è possibile cioè, ad esempio, amare la propria compagna, o la propria figlia, in modo univoco e totale, ma ad esempio per "troppo amore" soffocare i loro progetti, giungendo perfino a farsi odiare. Su questo tema, ovvero sul tema della ambivalenza simbolica dei significati, si esercita da anni tutto un filone psicologico-filosofico che solitamente ottiene un grande successo presso il grande pubblico, poiché sembra parlare dei problemi più quotidiani, più concreti. In realtà, se ben si riflette, i comportamenti etici caratterizzati da ambivalenza sono una minoranza, in quanto, in generale, è assai difficile voler fare il bene e giungere poi, nella pratica, a fare il male; anche nell'esempio precedente dell'amore coniugale o figliale, basta osservare alcuni semplici precetti etici universali - quelli che Bauman ritiene impossibili -, come il lasciare le persone libere, il non opprimere gli spazi altrui, l'avere rispetto e cura dei diversi aspetti della personalità, per evitare quanto meno gli errori più gravi. Queste regole non garantiscono che poi, effettivamente, nella vita vada tutto bene. Se però, anche in questo campo che la postmodernità tende ad associare alla ambivalenza, si comprende che in realtà operano norme universali, tutto torna ad essere più chiaro; se poi si comprende anche che le zone di ambivalenza etica sono una stretta minoranza nei rapporti umani, e che dunque non possono essere contrabbandate come la normalità solo per negare arbitrariamente ogni universalismo filosofico, si sarà compreso il grande inganno del postmoderno! Torniamo però, ancora una volta,

a Bauman. Egli ha sostenuto esplicitamente, come in precedenza ricordato, che «la condizione postmoderna rappresenta un progresso rispetto alle conquiste della modernità», e che «il postmoderno ha distrutto le aspirazioni moderne ad una legislazione etica universale e saldamente fondata» (pag. 227). Ad avviso di chi scrive però, nonostante sia realmente «una caratteristica generale del mutamento sociale correggere o attenuare gli errori di ieri introducendo al tempo stesso nuovi errori cui porre rimedio domani» (pag. 227), il postmoderno non corregge affatto un errore (non è un errore aspirare ad una legislazione etica universale e saldamente fondata, poiché ciò è conforme alla natura umana), bensì semplicemente cerca di abolire lo spazio del "dover essere", ossia lo spazio della filosofia, dell'etica e della politica, per lasciare solo l'effettualità dello "essere", ossia lo spazio del modo di produzione capitalistico, che funziona benissimo proprio senza filosofia, etica e politica, in quanto queste discipline costituiscono per esso esclusivamente un impaccio alla realizzazione del processo di libera valorizzazione del capitale. L'obiettivo polemico principale di Bauman è infatti, come detto, costituito dai progetti filosofico-politici sulla totalità sociale, ossia da ogni forma di pensiero - non che ce ne siano molte oggi, ma per i difensori del capitale è evidentemente meglio giocare d'anticipo che possa criticare il modo di produzione capitalistico richiedendo un maggiore rispetto della natura ed una maggiore cura della umanità. A suo avviso, infatti, «il sogno moderno di una ragione capace di legiferare sulla felicità, ha prodotto frutti amari. I crimini più gravi contro l'umanità (e da parte dell'umanità) sono stati perpetrati nel nome del dominio della ragione, di un ordine migliore e di una maggiore felicità. Il matrimonio [...] della modernità con la ragione universale e la perfezione è stata pagata cara» (pagg. 242243). Ora: questa tesi - ossia, in pratica, il porre le peggiori esperienze politiche novecentesche sul conto della metafisica anziché sul conto del modo di produzione capitalistico, che pure, per reazione o per

imitazione, ne ha spesso invece costituito l'implicito modello - è realmente insostenibile; non la metafisica, né la filosofia classica, né l'illuminismo erano infatti nelle menti e nei progetti dei fascismi e dei comunismi, ossia di quei regimi inumani e produttivisti che hanno caratterizzato il Novecento (favorendo però anche indirettamente - quelli comunisti - l'affermarsi in Occidente dei diritti sociali e del welfare state: questo va detto in modo chiaro). Mi pare che Bauman abbia, al contempo, una visione troppo dura della filosofia classica e troppo edulcorata del modo di produzione capitalistico; egli lo descrive infatti, in simbiosi appunto col pensiero postmoderno, come un «dissolversi dell'obbligatorio nel facoltativo» (pag. 242), da valutare a suo avviso positivamente, in quanto «la statalizzazione moderna dello spazio sociale ha prodotto un'oppressione massiccia e coesa» (pag. 243), mentre viceversa «la prospettiva postmoderna offre una maggiore saggezza», in quanto «si rassegna all'idea che il caos della condizione umana sia inevitabile» (pag. 250). Si potrebbe discutere circa la moda - un po' orientalistica secondo cui il rassegnarsi ad un presunto caos della condizione umana costituisce una forma di saggezza; come ogni forma di rassegnazione, essa mi sembra infatti costituire più una forma di passivizzazione, cui in ultima analisi sempre conduce il pensiero postmoderno (pur mascherandola dietro l'ostentazione delle novità ed i lustrini delle merci). È evidente in effetti come queste tesi di Bauman collaborino proprio alla distruzione del welfare state e dei diritti sociali, processo a cui forniscono il necessario sostrato ideologico; a suo avviso del resto, anche se egli non ne spiega il motivo, «i mezzi per agire collettivamente e globalmente, come il bene comune e globale esigerebbe, sono stati quasi interamente screditati, distrutti e perduti» (pag. 250). Per Bauman - e ciò mostra anche la implicita connessione tra postmoderno e federalismo, il quale alla fine consiste, in pratica, nello sbriciolamento degli Stati nazionali e delle loro possibilità di intervento politico - «i problemi possono essere gestiti soltanto localmente e ciascuno separatamente; solo così le diverse questioni si articolano nella forma di problemi» (pag. 250). Si tratta di una

affermazione che, per quanto filosoficamente poco condivisibile, risulta essere molto interessante, per-ché essa esplicita, in Bauman (ma anche in Habermas, come vedremo), il totale rifiuto della filosofia, la quale ha come primo e fondamentale problema l'intero, e non la parte. Bauman, che è un sociologo, pone la scienza sociale come proprio paradigma, e rifiuta pertanto - sulla base di un implicito pregiudizio scientistico - la filosofia, giocandosi però in questo modo anche la possibilità di comprendere la totalità sociale. La sua strategia risulta nella sostanza complementare a quella esposta nella teoria dei sistemi di Niklas Luhmann (ripresa in Italia da Pietro Barcellona), in voga soprattutto negli anni ottanta del Novecento; essa infatti - ammantata del mero abito scientifico, e scevra di tratti postmoderni - sosteneva questa medesima tesi di Bauman, ovvero che il problema dell'intero non è affrontabile, in quanto i problemi sono affrontabili non a livello di sistema (di intero sociale), ma solo a livello di sottosistemi (di singole parti). Ciò, come ricordato, conduce la filosofia, la politica e l'etica alla completa irrilevanza; se infatti, per il pensiero contemporaneo, «non c'è più niente da fare» per mutare la totalità sociale, per Bauman addirittura «non c'è più nemmeno niente da pensare», perché ogni universalismo risulta essere inutile, od addirittura dannoso. Per Bauman, «è diventato un luogo comune affermare che i problemi etici della società contemporanea possono essere risolti soltanto, eventualmente, con mezzi politici» (pag. 250); tale luogo comune - che a me, peraltro, non pare tale - è tuttavia a suo avviso inaccettabile, in quanto «se le riflessioni svolte in questo libro suggeriscono qualcosa, si tratta del fatto che le questioni morali non possono essere risolte, né la vita morale dell'umanità può essere garantita, dal calcolo e dal tentativo di legiferare della ragione. La morale non è al sicuro nelle mani della ragione» (pag. 253), in quanto «alla fine del lungo cammino della ragione attende il nichilismo morale [...], la perdita della capacità di essere morale» (pag. 253), e dunque la fine della filosofia e della politica. Tali tesi però, pur consonanti con quelle di Nietzsche ed Heidegger, ed in un certo senso anche con quelle di Hume, possono

forse convincere il grande pubblico, ma non possono convincere chi, cresciuto col pensiero classico, sa argomentare che la morale sta al sicuro solo vicina alla ragione, e non lontana da essa. Esiste infatti una ragione grecamente intesa, un logos, che soltanto è in grado di fungere da fondamento per la soluzione dei problemi etici, politici e sociali: è a questa ragione filosofica, non alla narrazione postmoderna e pseudoscientifica di Bauman, che occorre fare riferimento, se si vuole avere qualche speranza di incidere positivamente sul futuro.

11

Circa il concetto di «liquidità» nell'utilizzo che ne fa Bauman, così mi sono espresso in un libro recente: «La metafora di Bauman della società liquida, su cui egli ha insistito in diversi testi, ha fatto molta presa nel sentire comune, e di questo è necessario dare una interpretazione non solo teoretica, ma anche storico-sociale. Teoreticamente, diciamo che in effetti la metafora descrive bene il clima postmoderno, ossia debole, flessibile, degli stati d'animo del nostro tempo; essa però lo coglie bene soprattutto perché le persone sono costrette a prendere, appunto come l'acqua, la forma del recipiente capitalistico in cui si trovano (che è peraltro la medesima weberiana gabbia d'acciaio, che Bauman provvede semplicemente ad ingentilire). [...] La metafora della "società liquida" è dunque per molti aspetti carezzevole, come quella di "pensiero debole" utilizzata in Italia da Gianni Vattimo; tale pensiero è però, in realtà, fortissimo, poiché non consente di criticare l'unico vero Assoluto rimasto, ossia il denaro come criterio di misura di ogni valore. Per questo, a mio avviso, dovremmo essere guardinghi anche verso la metafora della liquidità, e delle altre analoghe» (C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, pag. 106). 12

Rinvio, in merito, a L. Grecchi, Verità e dialettica, La

dialettica di Hegel e la teoria di Marx, Petite Plaisance, Pistoia, 2003. 13

Ho svolto una analoga critica di indebito utilizzo della dialettica hegeliana anche nei confronti dell'amico Diego Fusaro, in L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova, 2009, e in D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, op. cit. 14

Mi permetto di rinviare, in merito, a L. Grecchi, L'anima umana come fondamento della verità, Petite Plaisance, Pistoia, 2002. Noto in proposito come Bauman critichi proprio questa premessa, affermando che solo nella modernità, a suo avviso peraltro erroneamente, «il codice etico deve essere fondato sulla natura dell'uomo» (pag. 31).

Jurgen Habermas

DOPO L'UTOPIA. IL PENSIERO CRITICO E IL MONDO D'OGGI

J. HABERMAS, Dopo l'utopia. Il pensiero critico e il mondo d'oggi, Marsilio,Venezia, 1992. ed. or. 1991.

Jurgen Habermas, filosofo tedesco nato nel 1929, è considerato uno dei maggiori pensatori contemporanei. Egli si è occupato, in oltre 50 anni di attività, di varie tematiche, che le enciclopedie filosofiche - ve ne sono di ottime, ad esempio quella recente in 20 volumi della Bompiani - hanno già riassunto molto bene; per questo motivo, ossia per evitare di ripetere tesi facilmente reperibili, non svolgerò una sintesi dei suoi temi principali, ma esprimerò, a partire appunto da questo libro, alcune analisi e valutazioni sulla sua opera. Nell'unica occasione in cui ho avuto modo di occuparmi del pensiero di Habermas, ovvero in un libro-dialogo con Carmelo Vigna (che, come Enrico Berti15, possiede del pensiero habermasiano un giudizio molto positivo), mi ero espresso - anche se la versione pubblicata fu, per vari motivi, molto più breve - nel modo seguente: «Jurgen Habermas è un pensatore oggi molto apprezzato un po' da tutti gli schieramenti; il che, per il mio consueto modo di rapportarmi alle cose filosofiche, mi insospettisce. In un mondo a testa in giù quale ritengo essere quello attuale (in cui si producono beni di lusso ma non, ad esempio, cibo e medicine per chi soffre), è difficile avere molto successo, se si scrivono cose giuste [...]. Habermas viene da alcuni definito come un liberale postmarxista (avrebbe

cioè studiato Marx e se ne sarebbe vaccinato), ma a me pare che i maggiori influssi moderni sul suo pensiero siano quelli di Kant; Kant è infatti - a torto considerato, oggi, come l'affossatore di ogni metafisica, ed Habermas si definisce appunto pensatore postmetafisico. La metafisica che sarebbe stata affossata da Kant e da Habermas è però quel pensiero filosofico per mezzo del quale, soltanto, è possibile formulare una valutazione onto-assiologica fondata della totalità sociale. Dietro la pretesa razionalistica di Habermas di voler fare a meno della metafisica, vi è dunque in realtà il rifiuto di voler analizzare storicamente, dialetticamente e criticamente la totalità sociale capitalistica, che oramai egli considera, come tutta la tradizione liberale, una realtà naturale, come tale filosoficamente non criticabile. Lo stesso concetto di totalità sociale, centrale in Hegel e Marx, è del resto da Habermas (e non solo) considerato mitico,

premoderno,

inconoscibile.

Il

ideologico,

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dichiararsi

-

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kantianamente

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-

postmarxista,

postcomunista) significa spesso, nelle sue opere, semplicemente evitare di considerare criticamente ciò di cui ci si dichiara superatori, limitandosi ad una veloce critica implicitamente basata sull'insuccesso storico di queste forme culturali. Mi pare infine che l'universalismo procedurale di Habermas analizzi sì la modernità sul piano dei valori morali e delle istituzioni politiche, ma rimanendo sempre su un piano formale ed astratto, ossia creando un universalismo vuoto di reali contenuti filosofici. Habermas riapre lo spazio del dialogo interminabile sui valori, che non conduce però a nulla, perché l'unica unità di misura del valore è oggi la potenza del denaro, e senza criticare l'unità di misura (e la totalità sociale che l'ha prodotta), non si può certo pensare di poter costruire qualcosa di alternativo; non a caso Socrate non fu affatto favorevole ad un dialogo senza fine, ma al contrario fu favorevole ad un dialogo finalizzato a stringere - nei limiti del teoricamente possibile - sulle definizioni delle cose esaminate. Il piano normativo, politico-sociale, è per Habermas solo chiacchiera indecidibile, e questo è subito molto chiaro nel suo discorso: non è un caso che, come Althusser, egli attacchi il pensiero di Marx proprio affermando che il suo concetto di alienazione è indeterminato (altri, sul piano economico, hanno affermato in maniera analoga che il concetto di sfruttamento è non scientifico, in base alla teoria del valore lavoro); non mi pare dunque che egli possa essere considerato come l'ultimo allievo della per molti aspetti gloriosa Scuola di Francoforte, bensì semplicemente uno dei liberali postmoderni più razionali»16.

Confermo questa analisi - che so peraltro condividere con l'amico Costanzo Preve - parola per parola. Aggiungo che il frequente dichiararsi «postmetafisico» e «postcomunista» da parte di Habermas, così come da parte di altri autori, non mi sembra altro che una sorta di implicito "lasciapassare" nel "club del pensiero unico del liberalismo", il quale richiede sempre, almeno negli ultimi anni, la dichiarazione di "superamento" della metafisica e del comunismo (preferibilmente contestuale: la metafisica, infatti, parla dell'intero, così come il comunismo parla della totalità sociale; è evidente, pertanto, come le due tematiche possano essere "pericolosamente" collegate, ad esempio da una metafisica umanistica); tuttavia, come insegna Hegel, il «superamento», dialetticamente inteso, richiede sempre anche una conservazione del pensiero inizialmente considerato, non un mero accantonamento dello stesso in nome di una presunta falsificazione operata dalla storia (in quale modo, del resto, la storia può "giudicare" una cultura e pertanto ritenerla "superata"? La storia può solo limitarsi a rilevare la maggiore o minore presenza di una cultura nella successione dei fatti, il che non costituisce mai un "giudizio", bensì sempre e solo una constatazione, che come tale non può né falsificare né superare nulla)17. Habermas tende invece ad unificare in un unico calderone marxismo e comunismo - almeno quello storico novecentesco, autodefinitosi tale -, decretando, con la fine pratica del secondo/anche la fine teorica del primo, e con essa pure l'oltrepassamento della "data di scadenza" del pensiero di Marx, di cui a suo avviso, ci si potrebbe liberare come di una mozzarella scaduta. Non è questo, in ogni caso, il tema di cui mi occuperò in queste pagine, poiché il libro che ho scelto di analizzare tratta principalmente del tema dell'utopia. Questo è infatti un librodialogo - pubblicato con un intervistatore intelligente, Michael Haller - su vari argomenti, molti dei quali inerenti l'attualità politica, ma teoreticamente tutti incentrati sul tema della critica all'utopia. Per quanto concerne il discorso sull'attualità politica, va segnalato che il libro è del 1991; in quell'anno, uno dei fatti geopolitici più rilevanti fu la cosiddetta "guerra del Golfo", ovvero il

primo attacco anglo-americano all'Irak di Saddam Hussein, reo di avere tentato di invadere il Kuwait, piccolo Stato protetto dagli Stati Uniti d'America e loro importante fornitore di petrolio. Ebbene, lungi dall'interrogarsi sulle reali ragioni economiche di questo attacco (analoghi tentativi di annessione perpetrati in Africa, in cui pure ogni anno si consumano tonnellate di armi e di vite, non hanno avuto nemmeno la menzione della cronaca), Habermas preferisce, in questo libro, interrogarsi sugli «aspetti comunicativi» della guerra, chiedendosi per quale motivo essa abbia «provocato questa ondata di forti emozioni e questa marea di prese di posizione»; anziché rispondere che così è stato per le migliaia di civili innocenti uccisi dai bombardamenti Nato (e non parliamo qui del successivo pluriennale embargo, assolutamente ingiustificato, subito dal popolo irakeno), Habermas risponde che così è stato poiché questa fu la prima guerra "offerta" dai mass media adeguatamente confezionata - per la fruizione del pubblico, e ciò ha contribuito ad accentuare l'emotività delle persone in merito alla medesima. Ora: può darsi che la risposta di Habermas alla domanda posta che riguardava appunto la causa della «ondata di forti emozioni» provocata dalla guerra - fosse corretta, in quanto realmente i mass media amplificano, quando non addirittura producono, la emotività (anche se in questo caso a me pare che la guerra-videogame abbia affievolito l'emozione, e fatto anzi meno percepire la drammaticità del conflitto); deve però far pensare come, proprio nel momento dell'inizio di un simile evento, Habermas ed Haller si siano soffermati a parlare più degli effetti emotivi che delle reali cause economiche e delle conseguenze sociali della guerra, ovvero che abbiano ritenuto più rilevante trattare della forma della comunicazione - ciò, se vogliamo, in coerenza con la teoria dell'agire comunicativo - anziché della sostanza delle cose. Questa premessa comunque, come ricordato, non riguarda il tema centrale del libro, a mio avviso costituito da un attacco diretto alla filosofia veritativa (sintetizzato dalla dichiarazione di «postmetafisica») ed alla progettualità politica (sintetizzato dalla

dichiarazione di «postmarxismo»), in nome di un pensiero e di un agire più "funzionali", più "pratici"; Habermas ha affermato infatti, in merito, che «non sono i filosofi a poter cambiare il mondo. Ciò di cui abbiamo bisogno sono più pratiche fondate sulla solidarietà; senza di ciò, anche l'agire intelligente rimane privo di fondamento e senza conseguenze» (pag. 99). Ora: è comprensibile che il riformista Habermas segnali il proprio favore verso riforme solidaristiche (più welfare state, più democrazia, ecc.), e questo nonostante il liberalismo, alla fine, tenda sempre a rimuovere ogni possibile ostacolo sulla strada del massimo profitto. Rimarco però come, dal punto di vista filosofico, la "solidarietà", intesa come fatto "pratico", non possa mai costituire un "fondamento", ma sempre e solo una "conseguenza" di una certa concezione del fondamento, ossia della natura umana18; se tale concezione fosse esplicitata, si comprenderebbe molto meglio come gli uomini, per la dignità della loro essenza, non abbisognino di elemosine ("solidarietà"), ma appunto di partecipazione comunitaria alla vita sociale. Porre l'essenza razionale e morale dell'uomo a fondamento della vita sociale aiuta a comprendere ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; non porre l'uomo come fondamento della verità, ovvero lasciare oscuro il tema del fondamento, può al più portare a dichiararsi "riformisti", ossia a dire che ci vuole "più solidarietà", "più democrazia", ecc., ma ciò non consente alcuno strutturato miglioramento della vita sociale complessiva (la quale appunto dovrebbe fondarsi su una differente struttura socio-economica). È curioso peraltro - ma significativo della marxiana “falsa coscienza necessaria" con cui queste tesi, in generale, sono sostenute - che un lettore di Marx e del pensiero marxista come Habermas non ricordi nemmeno le parole famosissime di Engels, secondo cui i processi redistributivi sono diretta conseguenza dei processi produttivi e delle strutture proprietarie; se le ricordasse saprebbe che fino a quando queste ultime rimarranno private, non ci si può certo attendere che la redistribuzione dei vantaggi ottenuti tramite esse divenga pubblica e solidaristica! In ogni caso, va ribadito che la questione del fondamento rimane

principalmente una questione teoretica, e più precisamente una questione onto-assiologica, in quanto la verità ed il bene sono i contenuti fonda-mentali di ogni riflessione metafisica (oltre che di ogni ideale comunità sociale: solo in questo senso la questione del fondamento è anche una questione "pratica"). Habermas, tuttavia, non è da almeno trent'anni -sempre che lo sia stato prima realmente interessato a questo genere di tematiche, ed è questo, probabilmente, il "segreto del suo successo" nell'attuale panorama filosofico; egli è interessato infatti al mero discorso procedurale, non a quello sostanziale, tanto da giungere ad affermare che le pratiche solidaristiche necessitano soprattutto di «istituzioni razionali, di regole e forme di comunicazione che moralmente non esigano troppo dai cittadini» (pag. 99). Viene allora spontaneo chiedersi: perché queste istituzioni, queste regole, queste forme, dovrebbero «moralmente non esigere troppo dai cittadini»? Non dovrebbero riguardare tematiche molto importanti? Sicuramente si, ed è per questo che può essere interessante un confronto fra il liberalismo disimpegnato di Habermas e l'antico pensiero greco, proprio sul punto in cui si dichiara che si dovrebbe esigere poco moralmente dai cittadini. Ebbene: secondo l'antico pensiero greco, in opposizione al moderno pensiero liberale, la cultura, e con essa la politica, dovrebbero favorire la realizzazione di cittadini perfetti, o comunque moralmente integri, per favorire il bene comune. È allora evidente come, insieme all'abbandono della metafisica, della critica e dell'utopia, Habermas abbia abbandonato anche i riferimenti minimi del pensiero classico, supportando una logica di passivizzazione delle persone estremamente, nella sua essenza, antidemocratica. Non accorgersi di questo, ossia non accorgersi che Habermas consegna - attribuendo centralità al dialogo interminabile sulla forma - la democrazia alla oligarchia capitalistica, che controlla indirettamente tutte le istituzioni politiche (e non mi sembra, dicendo questo, di esprimere solo una tesi marxista, bensì una tesi di semplice evidenza, data la sostanziale uguaglianza delle politiche economiche in tutti gli Stati occidentali), mi sembra piuttosto grave.

Per Habermas, in effetti, la democrazia si riduce a mero rispetto delle forme, istituzionali ed elettorali, in quanto realizzare la sostanza della democrazia - Platone ed Aristotele sostenevano che la democrazia è il governo della maggioranza, solitamente costituita dai più poveri - implicherebbe il mutamento radicale del modo di produzione capitalistico, che come noto tende ad annullare il potere del popolo per attribuire tale potere solo al denaro; la cosa più incredibile che emerge in questo testo è che, per Habermas, anche solo occuparsi di migliorare la forma della democrazia è ritenuto qualcosa di utopico: «Se ho conservato un poco di utopia, essa consiste soltanto nell'idea che la democrazia - l'aperta discussione sulle sue forme migliori - possa tagliare il nodo gordiano di problemi che paiono insolubili» (pag. 99). Detto questo, è facile rilevare come, privata della sostanza, la democrazia viene da un lato considerata utopica (nel senso di irraggiungibile), e dall'altro, nella sua forma contemporanea (che gli antichi Greci avrebbero definito «oligarchia ad acclamazione elettorale periodica dei rappresentanti»), viene idolatrata. Tuttavia, mi permetto di dire che si tratta di un tipico "mito di legittimazione" moderno con cui, aprendosi alla democrazia, gli intellettuali si mostrano relativisticamente aperti ad ogni discussione (che tanto sanno bene essere inconcludente, essendo il potere decisionale collocato nel capitale), salvo poi non accettare il vero dialogo filosofico, ovvero quello che verte proprio sui temi fondamentali, ossia sulla totalità sociale. Ciò che il "mito di legittimazione" moderno della democrazia tipico mito della "sinistra" - non vuole sentirsi dire è che non necessariamente una decisione presa a maggioranza, pur dopo adeguata discussione, risulta essere la migliore, come prova ad esempio la condanna a morte di Socrate; ammettere questo significherebbe infatti delegittimare completamente il mito della democrazia, ed al contempo ammettere che la verità è questione non tanto dialogica quanto soprattutto teoretica, e che quindi non può essere messa ai voti (poiché non sempre la maggioranza, per quanto schiacciante, risulta decidere in maniera corretta). I "perditempo politicamente corretti", ovviamente, potranno sempre

gridare al "pensiero forte", al "pericoloso dogmatismo", al presunto "totalitarismo" di queste tesi; chi riflette bene, però, si accorgerà che queste tesi combattono l'unico pensiero pericoloso, dogmatico e totalitario oggi presente, ossia quello capitalistico della centralità del profitto ad ogni costo! In particolare, tornando ad Habermas, non è discutendo sulle forme migliori della democrazia19 - discussione che pure, ovviamente, ha la sua importanza, ma solo subordinatamente alla discussione su un modo di produzione sociale che possa realmente consentire una democrazia, e che non sia strutturalmente opposto ad essa - che si possono risolvere i problemi più grandi; per essi, occorre riflettere sulle modalità sociali di produzione e riproduzione della vita. Il mito di legittimazione della democrazia, per i pensatori liberali come Habermas, nasce, oltre che dalla introiettata necessità di adeguarsi alla forma del chiacchiericcio inconcludente proprio della ideologia capitalistica che li ospita, dalla assenza di centralità della filosofia nel loro pensiero, o meglio dal rifiuto stesso della filosofia nel suo senso greco. La filosofia viene infatti accettata solo come scienza; per Habermas in effetti, così come per Bauman, «come la sociologia, anche la filosofia è solo una scienza, e segue la dinamica interna dei suoi problemi» (pag. 101) senza occuparsi della totalità sociale. La sfiducia di Habermas nei confronti della filosofia, e della teoria in genere, è davvero marcata: «È un bene non aspettarsi dalle teorie niente di più e nulla di più di ciò che possono darci, e ciò che possono darci è davvero poco» (pag. 102). Come la quasi totalità degli scienziati sociali (filosoficamente relativisti senza spesso nemmeno saperlo), infatti, egli afferma di non avere «mai avuto l'ambizione di delineare una teoria politica normativa» (pag. 102), in quanto «interessato piuttosto ad una ricostruzione dei rapporti effettivi» (pag.103). Curioso che questa sia anche la tesi maggioritaria del marxismo, per cui è impossibile (non scientifico) parlare di cosa sia idealmente il comunismo, in quanto si può studiare solo ciò che è stato o che è effettualmente, non ciò che è idealmente, ossia veritativamente. Più che mai marcata, in questa tesi, la distanza del pensiero liberale e marxista dal pensiero di

Hegel, per il quale invece è «reale» solo ciò che è «conforme al proprio concetto», e dunque principalmente «l'ideale»; questo il vero significato della sua espressione per cui «solo il reale è razionale», così spesso travisata da studiosi confusionari che vollero far giustificare al pensiero di Hegel ogni bruttura esistita. In ogni caso, la sfiducia nei confronti della filosofia si traduce, in Habermas, non solo nell'abbandono del terreno hegelo-marxiano di analisi, ma anche nel mancato utilizzo di singoli concetti filosofici come quelli di verità, bene, fondamento (tutti considerati «metafisici»), oppure di alienazione, sfruttamento, emancipazione (tutti considerati «non scientifici»); con riferimento a questi ultimi concetti, Habermas afferma in effetti esplicitamente di non volerne trattare e di voler parlare solo di «agire comunicativo», in quanto appunto si può esaminare esclusivamente «ciò che accade di continuo nella prassi quotidiana» (pag. 106), nella quale evidentemente egli non vede né alienazione, né sfruttamento. A suo avviso, inoltre, «l'emancipazione [...] rende gli uomini più indipendenti, ma non automaticamente più felici» (pag. 108); tesi curiosa, in quanto si dovrebbe dedurre da essa che la dipendenza, la docilità e l'asservimento possono in qualche modo favorire la felicità! Si tratta di un tipico contenuto "anti-greco" - i Greci ritenevano l'autonomia materiale e morale, ossia l'emancipazione, una condizione necessaria per la felicità, proprio per evitare una penosa subordinazione - purtroppo sempre più diffuso. Come quasi tutti coloro che, pur ponendosi dal lato del razionalismo, abbandonano la concezione greca della filosofia come fondazione onto-assiologica, anche Habermas cede infine alla concezione della filosofia come epistemologia, ovvero - in modo però difforme dalla etimologia greca - come mera riflessione sul suo stesso statuto "scientifico". L'abbandono della dimensione ontoassiologica contribuisce tuttavia ad indebolire la sostanza dei contenuti, dunque a relativizzare anche i concetti più importanti; significativo che Habermas affermi che anche «i concetti morali di fondo, come quelli di autonomia e dignità dell'uomo, di solidarietà e di uguaglianza, se vogliono rimanere convincenti, devono potersi anche modificare in processi di applicazione a se stessi, cioè

nell'applicazione critica al loro proprio uso» (pag. 108). L'epistemologia in filosofia è infatti altrettanto conservatrice del riformismo in politica, in quanto queste forme contribuiscono a far sì che le materie ruotino continuamente sui loro stessi particolari non producendo cambiamenti generali; non è un caso che Habermas abbracci ambedue questi approcci, sostenendo, con riferimento alle modalità sociali capitalistiche, che l'unica cosa che rimane da fare agli studiosi è quella di «cercare all'interno di queste forme di vita dei miglioramenti pratici» (pag. 109). Habermas ha dunque oramai definitivamente abbandonato l'idea della progettualità teorica sulla totalità sociale, così come la critica della totalità capitalistica (che, in questi termini, non nomina nemmeno); inevitabile pertanto che gli rimangano solo il riformismo socialdemocratico (i «miglioramenti pratici») e la teoria dell'agire comunicativo (i «miglioramenti formali»), che lo conducono ad affermare che «quello della società emancipata è un ideale che si presta a fraintendimenti. Io preferisco parlare dell'idea di intersoggettività non lesa» (pag. 114), che però è cosa piuttosto diversa. In effetti, nonostante Habermas scriva in anni in cui il presente capitalistico ha già abbondantemente mostrato i suoi devastanti effetti, l'autore tende a precisare più volte che è l'utopia sociale il vero male da combattere, e dunque il tema da cui la sua teoria vuole prendere le distanze. Egli rimarca infatti che la teoria dell'agire comunicativo «non va sviluppata fino al punto di prefigurare la totalità di una forma di vita riconciliata e proiettata nel futuro come utopia» (pag. 114); a suo avviso, «anche il socialismo - e questo è stato il più grave errore filosofico di questa tradizione - non lo si sarebbe dovuto comprendere come la totalità concreta di una determinata forma di vita futura» (pag. 115). Pure quest'ultima affermazione di Habermas, a mio avviso, è fortemente criticabile, per un motivo principale. Il motivo è che il «socialismo» (ma io parlerei di "comunismo") avrebbe dovuto proprio fare quello che non ha fatto, e che invece Habermas gli imputa come un errore: "prefigurare", in maniera filosoficamente fondata - ovvero basandosi sulla natura razionale e morale dell'uomo -, una totalità sociale armonica e comunitaria. Ciò non è

stato fatto, dal comunismo storico, né sul piano teorico né sul piano pratico in quanto, come noto, le critiche di Marx e dei marxisti ai vari pensatori cosiddetti "utopisti" vertevano proprio sulla impossibilità di teorizzare e praticare una progettualità sociale comunista; Marx, non riconoscendo - almeno apertamente: egli rimase infatti implicitamente, a mio avviso, un pensatore umanista20 - la filosofia come necessaria, ha involontariamente contribuito proprio ad allontanare il marxismo dalla progettualità sociale. Habermas ha cercato esplicitamente di differenziare la propria immagine da quella del filosofo-politico classico, che struttura il proprio pensiero intorno ad una idea forte: «Io non corrispondo affatto alla immagine tradizionale del filosofo che spiega tutto il mondo a partire da un'unica intuizione» (pag. 115). In questo senso il presente libro, pur poco conosciuto rispetto ad altri best-seller di Habermas, risulta davvero rivelatore del suo approccio, come spesso accade nei libri-dialogo. Egli infatti, seguendo una linea propria di altri filosofi del nostro tempo, tiene quasi a prendere le distanze dalla filosofia per avvicinarsi alla più accettata scienza, tanto da affermare che «il suo lavoro quotidiano [...] ha a che fare con singoli problemi già scomposti analiticamente», che egli va «a cercare [...] nei discorsi scientifici che mi trovo davanti» (pag. 115)21. La riflessione habermasiana non è più dunque - ammesso e non concesso che lo sia stata inizialmente - una riflessione filosofica sulla realtà, ma una riflessione scientifica sui concetti, cui afferma di dare solo specifici «contributi», senza «costringere tutto nello stesso quadro teorico, né assimilare tutto alle medesime categorie di una grande teoria olistica» (pag. 116). Chiusa ogni ricerca sistematica, la filosofia appare principalmente, in lui, come ricerca di adeguatezza linguistica dei concetti utilizzati e di relativa comunicazione; ad avviso di chi scrive, un po' poco.

15

E. Berti - L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, Il Prato, Padova, 2009, con introduzione di C. Vigna, pag. 130. 16

C. Vigna - L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, pagg. 102-103, con introduzione di E. Berti e postfazione di C. Preve. 17

Vi è, ovviamente, anche un modo alto e filosofico di intendere la storia, di cui è stato insigne esempio Hegel. In Italia, negli ultimi anni, questo approccio è stato ripreso nella maniera migliore da Massimo Bontempelli, Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia, 2001. 18

Rinvio, per la giustificazione di questa tesi, a L. Grecchi, L'anima umana come fondamento della verità, Petite Plaisance, Pistoia, 2002. 19

«Quella della democrazia diventa la questione della istituzionalizzazione di procedure e di circuiti di comunicazione che rendano possibile una formazione più o meno discorsiva della volontà e dell'opinione» (pag. 128). 20

Rinvio, in merito, a L. Grecchi, Karl Marx nel sentiero della verità, Petite Plaisance, Pistoia, 2003; L. Grecchi, Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx, Petite Plaisance, Pistoia, 2003. 21

«I pensieri filosofici sono l'espressione di una sensibilità per i fenomeni non ancora scomposti e analizzati» (pag. 120).

Eric Hobsbawm

COME CAMBIARE IL MONDO. PERCHÉ RISCOPRIRE L'EREDITÀ DEL MARXISMO

E. HOBSBAWM, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo, Rizzoli, Milano, 2011, ed. or. 2011.

Eric Hobsbawm, storico inglese nato nel 1917 cui sono legati i famosi concetti di «secolo lungo» (riferito al XIX) e di «secolo breve» (riferito al XX), dopo un ampio numero di opere storiche di grande valore e di ispirazione marxista, edita a 94 anni questa sua raccolta di saggi che rinvia eloquentemente, nel titolo, alla necessità (il "come" implica già che si sia risposto, affermativamente, alla domanda "se" sia o meno necessario farlo) di «cambiare il mondo», per di più «riscoprendo l'eredità del marxismo». Per la sua estrema chiarezza, competenza e moderazione, Hobsbawm, pur trattando spesso di tematiche scomode, ha sempre avuto ospitalità, in Occidente, presso editori importanti; non deve dunque stupire che un testo con un titolo simile sia potuto uscire, in Italia, per Rizzoli (i libri di Hobsbawm, per inciso, vendono sempre migliaia di copie, il che è la prima cosa che conta per la pubblicazione presso i grandi editori). La "crisi" peraltro, come noto, ha negli ultimissimi anni favorito anche libri e monografìe su Marx, come ha dimostrato in Italia il successo dell'ottimo libro Bentornato Marx di Diego Fusaro, edito per Bompiani nel 2009. Ci si può certo domandare, da una certa ottica, se gli autori

"marxisti" di maggior fama siano realmente "rivoluzionari" (come lo era Marx), oppure se siano al più studiosi intelligenti, quando non addirittura innocui confusionari (Negri, Hardt, Attali, ecc.); il modo di produzione capitalistico, a mio avviso, ha sempre le maglie strette, e lascia passare solo i pesci piccoli, ovvero quelli non pericolosi per il suo ecosistema. Tuttavia, è possibile che io sia troppo pessimista e che, pur di guadagnare, il sistema capitalistico possa anche far passare per editori importanti libri realmente "rivoluzionari". Il libro di Hobsbawm, in questo senso, ha un titolo davvero promettente, ma, se ci si aspetta di trovare in esso delle argomentazioni coerenti con il titolo, ovvero una qualche progettualità sociale per la fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico, si rimane inevitabilmente delusi; quello della "transmodalità'', del resto, è l'argomento filosofico-politico più difficile da affrontare, sicché non si deve essere troppo duri con Hobsbawm per non averlo saputo rendere esplicito. Tuttavia, in generale, sarebbe a mio avviso una buona norma che il titolo di un libro promettesse quello che realmente contiene, e non che vagheggiasse ciò che non contiene. Ma questo è un altro discorso, ed anche una recensione dovrebbe, alla fine, parlare del libro di cui si occupa, sicché passo subito alla descrizione dei principali contenuti del testo. Quello che il libro di Hobsbawm contiene è una buona analisi del pensiero marxista, su varie tematiche. Non mi soffermerò su tutte, per una visione di insieme delle quali rinvio - un libro, peraltro, dove esse sono trattate, sul piano storico e teoretico, in maniera molto migliore - a Costanzo Preve, Storia critica del marxismo (La Città del Sole, Napoli, 2008); mi soffermerò solo su quelle che mi stanno più a cuore. Sul tema, in particolare, della progettualità sociale, Hobsbawm scrive correttamente che Marx «non disse nulla sulla forma concreta della società comunista» (pag. 16). Sono notissime in effetti, e condivise da pressoché tutti i marxisti - di solito poco inclini alla filosofia, e dunque alla fondata costruzione progettuale -, le affermazioni di Marx secondo cui non è possibile dettare in anticipo ricette per le «trattorie socialiste dell'avvenire», oppure

secondo cui il comunismo sarebbe esclusivamente il «movimento che abolisce lo stato di cose presente». Questi luoghi comuni del marxismo però, a mio avviso, devono essere profondamente rivisitati; non, certo, perché il nostro tempo sia favorevole alla idealizzazione - né tanto meno alla successiva realizzazione - di modi di produzione alternativi, ma in quanto la riduzione del marxismo a critica sociale rappresenta un fine teorico troppo limitato (specie se rapportato ad una effettualità capitalistica che ha nella performatività il proprio punto di forza) per un movimento che voglia essere realmente rivoluzionario. Hobsbawm, su questa tematica, non prende posizione, lasciando intendere di condividere sostanzialmente le tesi principali del marxismo sopra riportate; tuttavia egli lascia qualche apertura, ma soprattutto sostiene diverse altre tesi particolarmente intelligenti. Innanzitutto, egli prende nettamente posizione contro autori marxisti ritenuti oggi molto alla moda; afferma, ad esempio, di essere «scettico circa la distinzione operata da Attali tra un vero Marx ed una serie di successivi semplificatori e falsificatori del suo pensiero: Engels, Kautsky, Lenin» (pag. 21), e mi pare anche molto distante da studiosi quali Michael Hardt e Toni Negri. Più che al marxismo, assai correttamente sul piano teorico, egli sì rifà al pensiero originario di Marx affermando, con saggezza, che per «prevedere le soluzioni ai problemi che il mondo deve affrontare nel XXI secolo, se si vuole avere qualche chance di successo, bisogna porre le stesse domande che si pose Marx, rifiutando al contempo le risposte dei suoi vari discepoli» (pag. 23). Occorre cioè un approccio aperto al tema della totalità sociale, e dunque anche al tema della progettualità. In merito allo specifico tema dell'utopia comunista, Hobsbawm riconosce che Marx ed Engels se ne occuparono ripetutamente, e non sempre in modo negativo; egli afferma infatti che «le riflessioni utopistiche sulla natura della società comunista influenzarono Marx ed Engels in maniera notevole, benché la loro ostilità all'abbozzo di simili programmi per il futuro comunista abbia indotto vari commentatori successivi a sottovalutare tale influenza» (pag. 34). Tesi come queste, esposte in modo chiaro, corretto e documentato,

si estendono per circa 500 pagine, sebbene con taglio storico più che filosofico (come è del resto nelle competenze di Hobsbawm). L'autore tratta anche, in modo corretto, del «rifiuto di Marx di separare le diverse discipline accademiche» (pag. 139). Questo fu in effetti un grande merito di Marx, che comunque scriveva in un'epoca in cui lo specialismo non era marcato come oggi (in cui cioè l'università non era ancora suddivisa con gli attuali criteri "scientifici", per i quali tutti i ricercatori, anche in materie filosofiche, devono occuparsi solo di porre "un vetrino sotto il microscopio", senza uscire mai dal proprio piccolo campo di studi). Analizzando tutte le epoche della storia umana nella loro ricchezza culturale, religiosa, politica, economica, Marx è riuscito a sviluppare un concetto centrale per l'analisi storica, ovvero quello di «modo di produzione sociale»; Marx comprese che, prima del modo di produzione capitalistico, nei precedenti modi di produzione l'economia non era ancora una sfera separata dalle altre, ma era anzi "incorporata" in esse, e solo in questo modo, con la filosofia (il pensiero) e la politica (l'azione) sovraordinati all'economia, si era potuta sviluppare, in molte società antiche, una complessiva armonia comunitaria. Tutto ciò è in generale noto ma, come scrisse giustamente Hegel, ciò che è noto non sempre è conosciuto. Da antichista quale prevalentemente sono, per altro, rimarco che di solito, anche da parte marxista - i marxisti sono dei critici tremendi, specie con coloro che la pensano in modo simile (ma non completamente uguale) al loro -, gli studiosi sono restii ad esprimere critiche nei confronti degli antichisti; attribuisco ciò al fatto che generalmente gli antichisti sono guardati con rispetto, soprattutto in quanto si occupano, con sguardo complessivo, di società complesse, ovvero in cui l'economia, la politica, la cultura, la religione fanno tutt'uno, e non sono sfere separate da lasciare agli specialismi accademici. Gli antichisti devono sapere tante cose, ma principalmente hanno una visione di insieme della totalità sociale come intero comunitario multidimensionale, che anche per Marx costituiva implicitamente il modello ideale di una futura società comunista (un modello che, a dire il vero, non ha - come ricordavamo in precedenza - mai

esplicitato, ma che in certo modo rimane appunto implicito nel suo elogio del «comunismo primitivo»)22. Contrariamente a quanto pensano i marxisti, idealizzare una armonica totalità sociale non costituisce affatto una concessione ad un deteriore utopismo, una sorta di inconscia ripresa del «mito dell'età dell'oro», bensì un abbozzo di una futura società conforme a quanto richiesto dalla natura umana, che di tale futura società contribuisce alla realizzazione. Concludo rimarcando come Hobsbawm - in indiretta risposta a tanti pseudomarxisti che, pur di ottenere una maggiore approvazione sociale espongono il pensiero di Marx in modo riformistico, come se egli fosse stato un semplice socialdemocratico - sottolinei giustamente il documentato «crescente odio e disprezzo di Marx per la società capitalistica», e come «l'idea che il Marx più anziano avesse perso parte dell'ardore rivoluzionario giovanile, è sempre popolare tra i critici che desiderano abbandonare la pratica rivoluzionaria del marxismo» (pag. 168). Parole, specie oggi, di grande verità, che mostrano come anche del pensiero di Marx dopo adeguata contraffazione -, ci si può servire, in questa epoca capitalistica, come di una merce.

22

Il «comunismo primitivo» è una formazione sociale storicamente mai esistita, almeno nei termini descritti da Marx nelle Forme economiche precapitalistiche, ma che verosimilmente costituiva per lui una sorta di "paradigma di riferimento" (analogamente a quanto fecero Platone ed altri utopisti citando isole collocate in luoghi lontani nel tempo e nello spazio).

Fredric Jameson

IL DESIDERIO CHIAMATO UTOPIA

F. JAMESON, Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano, 2007, ed. or. 2005.

Fredric Jameson, critico letterario statunitense e teorico politico marxista nato nel 1934, è noto al grande pubblico soprattutto per i suoi studi letterari (è stato allievo di Erich Auerbach), nonché per la sua ottima analisi del postmoderno. In questo libro, tuttavia, egli tratta specificamente di un tema troppo spesso ingiustamente snobbato dalla teoria marxista, ovvero quello dell'utopia. Il suo approccio risulta in merito, come mostreremo, non viziato dai consueti pregiudizi marxisti, in quanto la sua valutazione dell'utopia come ideale riferimento teoretico e politico, risulta essere nella sostanza molto positiva. Jameson inizia rimarcando, come si fa di consueto, la ambivalenza del termine «utopia», interpretabile - secondo l'etimologia greca volta per volta preferita - sia come «luogo inesistente» (per i detrattori dell'utopia), sia come «buon luogo» (per gli ammiratori dell'utopia). A causa di Marx, ma soprattutto di Engels, il marxismo ha da sempre considerato l'utopia come un modello negativo, un luogo ideale irraggiungibile volto solo a rendere astratta ed inconcludente la progettualità politica, facendola confluire in sogni separati dalla realtà che non portano appunto in «nessun luogo». Jameson, non cadendo in questo pregiudizio, ricorda sin da subito che, nonostante questa sia la vulgata prevalente, «Lenin e Marx hanno scritto entrambi di Utopia, il primo in Stato e Rivoluzione del 1917, il secondo ne La guerra

civile in Francia del 1871» (pag. 10). Jameson rimarca ciò in quanto si rende conto che, senza una progettualità alternativa, anche utopica, che sia radicalmente altra rispetto alla effettualità capitalistica, la proposta comunista è destinata a non trovare sbocco, e dunque - essa sì - a confluire in «nessun luogo», ossia a non produrre effetti. Descrivendo le tendenze in atto nell'attuale modo di produzione capitalistico, che per Jameson «smantella instancabile tutti i progressi sociali strappati a partire dalla nascita del movimento socialista e comunista» (pag. 10), egli afferma giustamente che la maggiore «disgrazia non è la presenza di questo nemico, bensì la convinzione universale non solo della irreversibilità di questa tendenza, ma dell'impossibilità e della non praticabilità delle alternative storiche al capitalismo, la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socio-economico» (pagg. 10-11). La critica al modo di produzione capitalistico, infatti, non può vivere di solo "marxismo" (intendendo con questo termine, genericamente, la critica sociale alla effettualità esistente), ma deve vivere di una progettualità che, pur partendo dal nostro tempo, deve saper immaginare, basandosi su ciò che è in potenza presente nella natura umana, un modo di produzione sociale migliore, che consenta appunto di porre in atto ciò che è in tale natura presente. Per questo, secondo Jameson, è necessaria una ripresa di interesse per l'utopia (che io tradurrei anche se lui non lo dice - come una ripresa di interesse per la filosofia classica, sulla base della quale soltanto è possibile progettare idealmente), in quanto «non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non si sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche» (pag. 11), ossia progetti alternativi. Tutto questo discorso, davvero promettente, che Jameson svolge nelle prime pagine del libro, non possiede però, purtroppo, la base filosofica che pure gli sarebbe necessaria, e di conseguenza si smarrisce presto, subito dopo la pur corretta indicazione di principio; dopo le prime pagine, infatti, prende piede soprattutto l'amore per la letteratura di Jameson, che dell'utopia si mostra

quasi più interessato alla forma letteraria che al contenuto rivoluzionario, tanto da affermare che essa risulta essere, a suo avviso, un «sottogenere socio-economico» della fantascienza (pag. 12). Nonostante questo "eruditismo", però, l'approccio di Jameson può essere considerato - nelle sue linee generali - condivisibile, in quanto egli riprende l'approccio di Ernst Bloch presente soprattutto nel libro Diritto naturale e dignità umana, affermando che «vedere ovunque, come fa Bloch, tracce di pulsione utopica significa naturalizzarla, e implica che essa sia in una qualche maniera radicata nella natura umana» (pag. 27). L'uomo, infatti, è sempre il necessario fondamento onto-assiologico di ogni proposta filosoficopolitica. Dove, tuttavia, si può trovare, oggi, la speranza che questo afflato ideale non scompaia, dato che la mentalità capitalistica ha oramai pervaso pressoché tutti i campi della vita? Ritengo che l'unico «luogo» in cui sia possibile ritrovarlo sia proprio la natura umana, che richiede ragionevolezza e moralità, e che è comunque un «buon luogo», in quanto è in potenza presente in tutti gli uomini, sicché questa speranza ha una forte possibilità di realizzarsi, nonostante tutto oggi giochi in senso contrario. I pensatori utopisti, secondo Jameson, ancor più dei filosofi possono svolgere, in questo compito, un ruolo molto importante, in quanto «i grandi rivoluzionari mirano sempre alla attenuazione ed alla eliminazione delle fonti dello sfruttamento e della sofferenza» (pag. 29). In questo senso, egli scrive correttamente che «l'iniziale gesto utopico di Moro, l'abolizione del denaro e della proprietà privata, corre lungo la tradizione utopica come un filo rosso che talvolta affiora prepotente alla superficie, talaltra viene tacitamente presupposto in forma più blanda» (pag. 40), ma che comunque non può mai abbandonare l'ideale umano. Jameson mostra dunque, in maniera pienamente condivisibile, che l'utopia non deve essere considerata, come ha fatto per decenni il marxismo (abituato a farsi dei nemici tra i "vicini di casa" per sfogare le frustrazioni che, per mancanza di mezzi, non poteva rovesciare sui "lontani capitalisti"), come qualcosa di negativo ed inutile, bensì come qualcosa di positivo ed utile, anzi indispensabile,

e che è possibile coniugare - come fecero appunto i grandi utopisti, in primis Moro, ma anche Platone - con la critica del proprio tempo; come ha scritto infatti sempre il Nostro, «non è possibile alcuna Utopia moderna che non intenda porre a tema, tra le tante altre questioni, i problemi economici causati dal capitalismo» (pag. 249). In Jameson manca certo, come ricordato, la base filosofica e la conseguente proposta politico-progettuale su come organizzare un modo di produzione sociale alternativo; tuttavia, nel bivio iniziale per dirimere la questione, ovvero quello fra «progettuali» (utopisti) e «critici» (marxisti), egli prende subito, a mio avviso, la strada giusta, ossia quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire; e di chi, anzi, ritiene quasi che criticare senza costruire sia cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Serge Latouche

LA SCOMMESSA DELLA DECRESCITA

S. LATOUCHE, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2009, ed. or. 2006.

Serge Latouche (1940), di cui è bene ricordare quanto meno l'ottimo libro intitolato L'invenzione della economia, fa parte di quel gruppo di sociologi/economisti/antropologi/filosofi francesi, quali André Gorz, Alain Caillé, Jacques Ellul ed altri, che hanno negli ultimi decenni posto in essere una penetrante analisi critica, ed al contempo propositiva, dell'attuale modo di produzione sociale. Il tema della «decrescita», di cui si occupa questo libro - e di cui si è fra gli altri occupato, insieme a Marino Badiale, anche il recentemente scomparso Massimo Bontempelli23 -, è in particolare un tema molto dibattuto in quella parte della "sinistra" che ancora pensa ad una progettualità radicale; direi, anzi, che è la sola proposta "comunista" ufficialmente in campo per realizzare un modo di produzione sociale alternativo. Come tale, dunque, essa non può non destare (almeno in me, che ho delineato una proposta alternativa in termini di pianificazione comunitaria, la quale non ha però finora trovato nessuna accoglienza)24 un profondo interesse e, come sempre per le cose che destano interesse, la si dovrebbe analizzare proprio nei suoi punti teorici più alti, quale appunto è questo libro di Latouche, peraltro riassuntivo di altri suoi lavori in merito. Comincio innanzitutto col dire che l'analisi critica del modo di produzione capitalistico (o meglio, della sua «ideologia

produttivistica») operata da Latouche, ovvero la pars destruens del libro, è davvero ottima; essa è, infatti, non solo effettuata in modo chiaro, ma corredata da una serie di rimandi ad altri importanti volumi che attribuiscono a questo testo una funzione di grande utilità per ogni studioso critico25. Il riferimento agli studi marxisti della tradizione risulta forse - dato il tema - un po' sottodimensionato, ma questo può non essere un male; i marxisti, infatti, se da un lato sono formidabili nella critica al modo di produzione capitalistico (e Marx fa già il 90% del lavoro, tanto da rendere talvolta addirittura superflui gli "aggiornamenti" successivi: l'essenza del modo di produzione capitalistico è infatti rimasta la medesima da allora ad oggi, ne sono solo cambiate le forme), dall'altro lato, salvo rare eccezioni, non lo sono affatto nella proposta progettuale. Dalla teoria di Marx infatti, strutturata sulla presunta assenza di valore onto-assiologico della filosofia e sulla conseguente impossibilità di realizzare un fondato progetto politico sulla totalità sociale, ha preso forma lo stesso carattere antifilosofico ed anti-progettuale del marxismo prevalente, che ha solitamente qualificato in modo spregiativo come «utopico», «umanistico», o «idealistico» qualsiasi tentativo di delineare in modo fondato un modo di produzione alternativo. Non, certo, che questi tentativi siano storicamente stati molti; analizzeremo in ogni caso qui quello di Latouche, per valutare se esso possieda quei caratteri di fondatezza e concretezza che ogni buona progettualità sociale deve possedere. Diciamo allora innanzitutto che, nonostante la buona partenza, ossia la buona analisi della totalità capitalistica, il libro di Latouche presenta, nella sua struttura, uno scetticismo filosofico di fondo analogo a quello di larga parte del pensiero contemporaneo, che impedisce all'autore di pensare in modo fondato una alternativa all'attuale modo di produzione. Indubbiamente, pensare a come realizzare la "transmodalità" (ossia il passaggio a modi di produzione differenti) è un compito difficilissimo, probabilmente il più difficile per il pensiero filosofico-politico, sicché ogni difetto in tal senso non va imputato all'autore come un demerito; non va tuttavia nemmeno nascosto che questa carenza costituisce per il

libro, ed in generale per la teoria della decrescita, un difetto esiziale, in quanto senza una visione filosofica orientativa di fondo incentrata sulla vera natura dell'uomo, ben difficilmente si può delineare un modo di produzione sociale in grado di favorire la realizzazione della vera natura dell'uomo. Per quanto, dunque, sia doveroso essere benevoli verso ogni tentativo di fuoriuscita dall'attuale modo di produzione, occorre sempre in filosofia essere chiari, per cui di questo limite di Latouche si deve dare conto, pur riconoscendo che la attuale temperie culturale non aiuta certo tentativi di questo genere. L'autore stesso peraltro, pur non facendo cenno alla carenza fondativa del proprio pensiero (la filosofia, intesa in senso classico, è costantemente al margine delle sue analisi: non deve però valere la scusa che egli non è "filosofo", poiché se ci si vuole occupare della totalità sociale, filosofi bisogna esserlo, indipendentemente dal campo di studi seguito), pare riconoscere una certa debolezza dello stesso, affermando che l'intero discorso sulla decrescita rimane tuttora - e lo rimarrà verosimilmente ancora a lungo - un work in progress; egli attribuisce però la causa di ciò alle difficili condizioni politico-sociali: una argomentazione valida solo in parte, poiché nemmeno Platone, per fare l'esempio più illustre, aveva innanzi condizioni politico-sociali completamente favorevoli, eppure diede alla sua Repubblica una ben maggiore concretezza. Seguiamo, comunque, il discorso di Latouche, il quale afferma che la parola «decrescita è semplicemente uno slogan che raccoglie gruppi e individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo, e sono interessati ad individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del doposviluppo. È dunque una proposta per riaprire lo spazio dell'inventiva e della creatività dell'immaginario, bloccato dal totalitarismo economicista, sviluppista e progressista» (pag. 12). Queste prime parole, all'apparenza condivisibili, destano invece in me qualche perplessità. Parlare, infatti, di «economicismo», «sviluppismo», «progressismo» come bersagli ideologici principali, cui rispondere con «inventiva», «creatività», «immaginazione», mi pare proprio un modo di non parlare - non so del resto se, in caso

contrario, Latouche avrebbe potuto pubblicare per editori importanti - del "modo di produzione capitalistico" come bersaglio principale, e di un "modo di produzione comunista" come fine progettuale; criticando solo alcune ideologie dell'attuale modo di produzione, e non la sua struttura di funzionamento ingiusta ed inumana, sembra quasi che, eliminate in qualche modo le storture ideologiche, esso possa poi anche andare bene così e pertanto essere mantenuteosione che un intellettuale - gruppi che, per il loro ruolo organico e funzionalmente sistemico, ben raramente possiedono originalità e coraggio - possa oggi coltivare. Emergerà chiaro in questo commento che, contrariamente alle opinioni di Latouche e dei teorici della decrescita, tale approccio non risulta affatto a mio avviso rivoluzionario, bensì esclusivamente riformistico. È corretto, certo, criticare il «quantitativismo» degli attuali dogmi economicisti, e proporre una analisi «qualitativa», ma poi occorre intendersi su quali siano le «qualità» da considerare; leggendo Latouche, sembra che i teorici della decrescita si limitino al più a teorizzare un «capitalismo eco-compatibile» (pag. 23), il che - se si ragiona sul semplice fatto che il capitale è composto da atomi imprenditoriali che hanno il solo interesse, per massimizzare il proprio profitto, a scaricare nell'ambiente i costi ecologici della loro attività - è certamente aporetico. Latouche in effetti non parla mai di come dovrebbero strutturarsi le forme della proprietà dei mezzi della produzione sociale, le modalità della produzione e quelle della distribuzione, in una realizzabile «società della decrescita»26; afferma anzi, significativamente, che una progettualità di questo genere è soltanto una «utopia» (pag. 95), e che l'unico «programma radicale, sistematico, ambizioso» che si possa praticare, è quello delle «8 R», ossia «rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare» (pag. 98). Non entro, in questa sede, nel tema della consunta retorica della critica all'utopia; rimarco soltanto che questo programma "sistematico", sebbene comprenda sicuramente linee generali condivisibili, senza alcuna chiara indicazione sulle strutture portanti del modo di produzione sociale che si vuole andare a costituire, risulta evidentemente essere molto fumoso; perché mai l'attuale

capitalismo, con le stesse strutture privatistiche della proprietà e della produzione, con le stesse strutture mercificate della distribuzione, con le stesse strutture gerarchiche della socialità, dovrebbe realizzare queste «8 R»? Spesso chi critica gli utopisti di «utopismo», così come chi critica i metafisici di «essenzialismo» (pag. 122), dovrebbe davvero fare prima un po' di autoanalisi; essa sarebbe utile almeno come qualche lezione di metafisica classica, in quanto potrebbe condurre ad evitare affermazioni del tipo che «il capitalismo inteso come sistema, come modo di produzione, è una creazione dello spirito [come se in generale i concetti non lo fossero!; L. G.], utile per cercare di comprendere una realtà complessa; ma questa operazione diventa pericolosa se il concetto diventa un feticcio» (pag. 122). Non c'è bisogno di essere Sigmund Freud per comprendere che, per Latouche come per tutti gli studiosi condizionati dalla ideologia capitalistica (nessuno vi si può sottrarre del tutto, nemmeno il sottoscritto ovviamente, ma certo sono possibili diversi livelli di condizionamento), il pericolo è costituito proprio dal feticcio concettuale del «modo di produzione capitalistico», in quanto ragionare concretamente in termini di totalità sociali alternative è effettivamente percepito come un "pericolo" dal senso comune dominante e dunque dal sistema, il quale stabilisce il successo e l'insuccesso; è questo il motivo, ad esempio, per cui Hegel e Marx soprattutto il primo - non vanno più di moda fra i moderni, ed è anche il motivo per cui i critici radicali del modo di produzione capitalistico (ovvero coloro che sono in grado di delineare in modo fondato una progettualità alternativa) sono solitamente costretti a pubblicare per editori minori. Non mi interessa, ovviamente, l'analisi della genesi psicologica dell'individuo Serge Latouche; mi interessa molto di più l'analisi della genesi sociale di queste tesi che, quando rifiutano l'universalismo filosofico, rifiutano sempre in sostanza - pur senza rendersene conto, come accade ad esempio al marxismo - ogni radicalità. Prove teoretiche di quanto sostengo sono le affermazioni con cui procede, fino alla fine, tutto il libro di Latouche. Egli afferma infatti, ad esempio, che la «logica capitalista» è solo «uno dei

soggetti dominanti della società moderna» (pag. 122), e non la logica dominante tout court; sarebbe interessante chiedergli quali altri logiche rilevanti esistano in grado di produrre, insieme alle merci, anche la personalità degli individui! Latouche ritiene inoltre che una ipotesi di repentina «uscita dal capitalismo», ovvero di eliminazione di strutture quali la proprietà privata dei mezzi della produzione, il mercato, la moneta, farebbero «precipitare la società nel caos e provocherebbero un terrorismo collettivo» (pag. 122). I «terroristi», dunque, sono anche per lui gli anticapitalisti! Latouche, del resto, ammette candidamente che, a suo avviso, «moneta e mercati» sono necessari anche «per costruire una società del dopo-sviluppo», in quanto a suo avviso «queste istituzioni, identificate un po' frettolosamente come componenti del capitalismo, non sono in sé degli ostacoli» (pag. 122). Pur facendo parte di questo club dei "frettolosi", mi risultano davvero incomprensibili - se non facendo ricorso alla marxiana categoria di "falsa coscienza necessaria" - i motivi secondo cui, per Latouche, queste non sarebbero le istituzioni fondamentali del capitalismo, causa prima della mercificazione di tutte le relazioni sociali e delle più gravi ingiustizie del nostro tempo; ovunque, storicamente, la moneta si è affermata - e Latouche dovrebbe saperlo bene -, si è verificata una distruzione della comunità sociale, ed una generale mercificazione della vita, tali da creare le più drammatiche sofferenze di massa della storia umana. Per questo motivo, se non la ritenessi chiaramente ideologica, riterrei ridicola la sua tesi in base a cui ci sarebbero «società» con «capitale, capitalisti, mercato, moneta, lavoro salariato», ma «non capitaliste» (pag. 123); sarebbe come dire che allo stadio San Siro di Milano, ogni domenica, ci sono sul campo 22 ragazzi che corrono in calzoncini corti, passandosi la palla coi piedi cercando di buttarla in rete, ma che essi non stanno giocando a calcio! La confusione di Latouche raggiunge, a mio avviso, il culmine quando egli afferma che è sufficiente collocare le istituzioni capitalistiche «in un'altra logica» (pag. 123) affinché esse non siano più capitalistiche: se avesse ben compreso Marx, saprebbe però che ciò equivale a far dominare la sovrastruttura sulla struttura; se

avesse letto Hegel saprebbe che ciò equivale a far dominare la forma sul contenuto - altra cosa impossibile, data la loro dialettica unità -, e se avesse letto Platone saprebbe anche che i concetti e le istituzioni non sono trasportabili in "altre logiche" come le merci di un supermercato sono trasportabili in altri supermercati! In questo senso, qualche lezione di metafisica su «essenzialismo» e «sostanzialismo» - torno a ribadirlo -, sarebbe molto utile a Latouche27 per comprendere i concetti e gli istituti per ciò che realmente sono, nella loro essenza e sostanza. Concludo rimarcando come sia illogico voler mantenere il "modo di produzione capitalistico" (mi ostino ad utilizzare il concetto marxiano che tiene insieme, dialetticamente, il mercato, la moneta, la proprietà privata, il lavoro salariato, ecc. per descrivere la totalità sociale del nostro tempo), pensando di far svolgere alle sue istituzioni una funzione differente rispetto a quella per cui sono state costituite; non è possibile creare una logica complessiva differente, mantenendo tutto invariato. Sarebbe forse stato più educato, da parte mia, lasciare credere a Latouche che «il progetto di società della decrescita è realmente rivoluzionario» (pag. 124); tuttavia, per la mia concezione della filosofia come dialogo finalizzato alla verità, mi sembra più corretto evidenziare, soprattutto ai suoi lettori e sostenitori, che si tratta di una colossale ingenuità, che davvero la semplice lettura di Marx ed Engels contribuirebbe a svelare come tale.

23

L. Grecchi, Ricordo filosofico di Massimo Bontempelli, Petite Plaisance, Pistoia 2011 (disponibile su internet all'indirizzo www.petiteplaisance.it/Per_Bontempelli.pdf). 24

L. Grecchi, L'anima umana come fondamento della verità, Petite Plaisance, Pistoia, 2002; Karl Marx nel sentiero della verità,

Petite Plaisance, Pistoia, 2003; C. Preve - L. Grecchi, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2006. A dire il vero, una accoglienza entusiastica questa proposta la trovò diversi anni fa proprio in Massimo Bontempelli, come dimostrano appunto gli stralci di dialogo che ho riportato nel «ricordo filosofico» di cui alla nota precedente. 25

Rimarco, in ogni caso, che il tema della critica alla «centralità del PIL» non è nuovo, in quanto già negli anni Settanta l'economista John Kenneth Galbraith ne faceva ampio uso, basandosi peraltro anch'egli su un'ampia bibliografia. 26

Solo in un punto egli afferma, in maniera appunto contraddittoria (e quasi per "giustificarsi" agli occhi del senso comune dominante), che «se il mercato e il profitto non possono più essere alla base del sistema, possono continuare ad esistere come incentivi» (pag. 122). 27

Non solo a lui, ovviamente. Penso, sempre per non toccare l'Italia, alle tesi di C. Castoriadis, secondo cui, ad esempio, la formamerce non crea alienazione (C. Castoriadis, Une société à la derive, Seuil, Paris, 2005, pag. 244).

Jean François Lyotard

LA CONDIZIONE POSTMODERNA

J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981, ed. or. 1979.

Come Gianni Vattimo in Italia per il pensiero debole, Jean François Lyotard (1924-1988) in Francia può essere considerato il "primo teorizzatore" del pensiero postmoderno; esso infatti può farsi risalire verosimilmente a questo libro, un po' datato ma realmente molto significativo, e per questo qui analizzato. Lyotard comincia questo saggio teorizzando un aspetto solitamente poco indagato dei rapporti fra filosofia e scienza. Egli afferma infatti che la scienza, «che è originariamente in conflitto con le narrazioni [...], si trova nella necessità di legittimare le sue regole del gioco, ed a tal fine costruisce un discorso di legittimazione del proprio statuto, che si è chiamato filosofia» (pag. 5). La filosofia, dunque, altro non sarebbe che epistemologia, sicché, quando si sottrae a questo suo compito «razionale» per affrontare argomenti più generali, diventa mera «metanarrazione», ossia discorso «simbolico» inconcludente. Sviluppando la filosofia sulla consueta falsa opposizione (in realtà una solidarietà antiteticopolare) fra «razionalismo» (epistemologia) e «simbolismo» (metanarrazione), Lyotard ara fra i primi il solco in cui verrà poi coltivata l'intera postmodernità, incentrata sul rifiuto delle categorie onto-assiologiche di "verità" e "bene". Grazie soprattutto a Hegel e Marx infatti, a suo avviso, nella modernità «la giustizia diviene in tal modo il referente di una grande narrazione, allo stesso titolo della verità. Semplificando al massimo, possiamo

considerare postmoderna metanarrazioni» (pag. 6).

l'incredulità

nei

confronti

delle

Mentre, insomma, la filosofia come epistemologia, come supporto alla scienza, viene da Lyotard - come da Althusser - accettata28, ciò che non viene accettato sono le «metanarrazioni»; non dico, intendiamoci, le «narrazioni simboliche», ossia le trattazioni della filosofia come «evento», come «racconto» (che sono sempre tollerate dall'attuale modo di produzione, in quanto innocue), ma la filosofia come «metanarrazione» nel senso di «metafisica», di «discorso sul senso dell'intero»: è questo che non viene accettato dal postmoderno, il quale dichiara appunto aprioristicamente (senza molto argomentare), nei confronti di tale modo di intendere la filosofia, la propria «incredulità». Ora: come sa bene chi conosce i miei libri, il mio giudizio nei confronti della filosofia postmoderna è molto negativo; questo in quanto, con la propria aprioristica critica delle «metanarrazioni» (che costituiscono, per questi autori, l'equivalente filosofico dei «totalitarismi» per i teorici della politica, ossia un calderone in cui ammucchiare, per poi bruciarla, ogni riflessione sulla totalità sociale), il postmoderno non fa altro che facilitare il lavoro all'attuale modo di produzione capitalistico, decostruendo il valore onto-assiologico di concetti quali appunto la verità, il bene, la giustizia, eccetera. Il postmoderno, nella sua solidarietà antiteticopolare razionalistico-simbolica, è in filosofia il nemico principale della metafisica umanistica (nella realtà, questo nemico è il modo di produzione capitalistico, di cui il postmoderno costituisce solo una emanazione culturale); curioso - ma solo per chi non conosce bene i presupposti scientistico-relativistici del marxismo - è peraltro che l'esito delle tendenze postmoderne, ossia la delegittimazione dei concetti onto-assiologici, sia accettata anche dalle principali correnti odierne del marxismo, come ad esempio l'althusserismo. Piuttosto però che ripetere cose che ho già scritto altrove, mi pare qui doveroso esporre il pensiero di Lyotard, il quale pone la incredulità postmoderna, ovvero il nichilistico disincanto che caratterizza gli uomini del nostro tempo, sul conto non del modo di

produzione capitalistico, bensì «del progresso scientifico» (pag. 6, come se appunto la scienza e la tecnica fossero qualcosa di autonomo ed in sé autodeterminante, e non lo strumento di cui le modalità produttive dominanti si servono -in ogni modo di produzione sociale - per realizzare i propri fini!). Alla stregua di Heidegger, così come degli heideggeriani contemporanei, Lyotard attribuisce la logica «quantitativa», ossia produttivistica, alla metafisica - che invece, specie se declinata umanisticamente, costituisce la principale nemica di questa logica -, e la logica «qualitativa», ossia antiproduttivistica, al pensiero simbolico (pag. 7) - che invece, specie nel nostro tempo, di tale logica costituisce l'indispensabile complemento. La concezione di Lyotard, e più in generale postmoderna, della filosofia, qualora essa non sia limitata alla mera epistemologia, è peraltro del tutto simile ad un «gioco linguistico» (gioco che, beninteso, se mal declinato come «metanarrazione», può anche divenire pericoloso: emerge qui in modo evidente la vicinanza col pensiero debole di Gianni Vattimo). In filosofia, secondo Lyotard, non si può costruire ontologicamente, non si può prescrivere assiologicamente, e dunque non si può progettare politicamente; addirittura, non si può neppure dialogare, e non solo nella severa forma socratico-platonica, ma anche nella più debole forma dell'etica comunicativa habermasiana, in quanto «il consenso ottenuto tramite la discussione» risulta comunque essere «una soluzione che violenta l'eterogeneità dei giochi linguistici» (pag. 7), e l'intera «società |...] dipende da una pragmatica delle particelle linguistiche» (pag. 6). Il pensiero postmoderno in sostanza, sottraendosi alle umili regole della ragione, si sottrae al confronto filosofico, perché la verità, a suo avviso, non esiste, e credere che esista è pericoloso, sicché è anche inutile parlarne. Lyotard segue dunque la tesi contemporanea in base a cui, in filosofia, è lecito domandare ma non rispondere (tesi che - per chissà quale motivo - dovrebbe valere solo in filosofia: e se si comportassero così i camerieri al ristorante, i bigliettai alla biglietteria ferroviaria, o nostra figlia quando le chiediamo a che ora torna?), in quanto chi risponde - per la concezione postmoderna

- è perché crede di avere ragione, dunque di avere la verità in tasca, e come tale deve essere considerato un pericoloso assolutista. Di questa tesi Lyotard fa addirittura un vanto filosofico. Questo libro nasce infatti, come l'autore chiarisce, come un rapporto sul sapere commissionatogli dalle autorità scolastiche francesi, ma lui tiene subito a precisare, fin dalle prime pagine, che «l'esperto conclude, il filosofo interroga» (pag. 8), ossia domanda ma non risponde: peccato però che, da quando è nata in Grecia, la filosofia cerca invece proprio di rispondere alle domande, ed in particolare alle più importanti, che riguardano la verità e la giustizia delle modalità sociali! Questa tendenza alla mancata risposta è peraltro tipica del pensiero postmoderno, in quanto è stata teorizzata anche da Gilles Deleuze e Felix Guattari, i quali appunto hanno rimarcato il grande piacere proveniente loro da questo mancato obbligo di risposta!29 Quanto lontani sono i tempi di Pietro Martinetti, il quale rimarcava non solo la necessità di rispondere, ma pure di farlo in modo chiaro, come gesto al contempo di onestà verso se stessi e di benevolenza verso gli altri. E si potrebbe anche ridiscendere fino ad Aristotele, che paragonava colui che non risponde ad una pianta, ossia ad un vegetale (in questo non migliore dell'animale). Incurante di tutto ciò, nel libro Lyotard espone la consueta tesi postmoderna di attacco alla metafisica, che si estende addirittura alla scienza ed alla tecnica; proprio a quest'ultima - e non, ancora una volta, al modo di produzione sociale che la determina -, ed in particolare alla informatica, Lyotard attribuisce la causa del fatto che «l'antico pronunciamento secondo il quale l'acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso» (pag. 12). In realtà, di tale Bildung la scienza e la tecnica potrebbero anche giovarsi, così come si gioverebbero di una filosofia sistematica, come dimostrano ad esempio i risultati scientifici conseguiti da Aristotele; è il modo di produzione capitalistico, ossia il capitale, che non vuole tale Bildung, ossia che cerca di

disincentivare la formazione umanistica delle persone (in quanto se esse sono in grado di pensarsi solo come lavoratrici o come consumatrici, parteciperanno meglio, senza opporre ostacoli, al processo della valorizzazione capitalistica), ma questo Lyotard non lo capisce, o quanto meno non lo dice. Tutte queste cose Lyotard, che aveva in passato studiato Marx ed Aristotele, dovrebbe in effetti saperle molto bene; invece, arriva solo ad affermare - in maniera laconica ed isolata - che «questo rapporto fra la conoscenza ed i suoi fornitori ed utenti, tende e tenderà a rivestire la forma di quello che intercorre fra la merce ed i suoi consumatori e produttori, vale a dire la forma valore» (pag. 12). Se però il capitale occupa questa centralità nella società (ed è così), forse Lyotard avrebbe dovuto tenerne maggiormente conto nelle proprie analisi! Ciò, tuttavia, non è accaduto in quanto, corifeo della crisi del marxismo e della metafìsica, all'autore in questo libro sta a cuore solo l'esposizione (non la argomentazione, né tanto meno la dimostrazione) della sua tesi principale, ovvero che «dalla decomposizione delle grandi narrazioni», data per scontata, «deriva ciò che alcuni analizzano come dissoluzione del rapporto sociale e passaggio delle collettività sociali allo stato di una massa composta di atomi individuali» (pag. 32). Di questo non dobbiamo però, a suo avviso, preoccuparci, tanto che chi se ne preoccupa lo fa solo in quanto la sua visione è «obnubilata dalla rappresentazione paradisiaca di una perduta società organica» (pag. 32); per Lyotard potrà anche essere così, ma forse sarebbe bene non fidarsi di queste fumose rappresentazioni, perché la vera filosofia è, sicuramente, un'altra cosa.

28

C. Preve, Lettera sull'Umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia, 2012, con introduzione di Luca Grecchi e postfazione di Giacomo Pezzano.

29

«[...] che dolcezza, anche, non rispondere mai. Non c'è che una cosa peggiore delle obiezioni e della confutazione delle obiezioni: la riflessione [...]» (G. Deleuze -F. Guattari, Rizoma, Pratiche Editrice, Parma-Lucca, 1978, pag. 20).

Edgar Morin

L'IDENTITÀ UMANA

E. MORIN, L'identità umana, Cortina, Milano, 2002, ed. or. 2001.

Questo libro costituisce uno dei sei volumi dell'opera più generale di Edgar Morin - eclettico pensatore francese nato nel 1921 -, che si intitola Il metodo. Solo questo titolo dà molto da pensare a chi si occupa di filosofia. Chi conosce l'etimologia greca del termine, sa infatti che esso fa riferimento alla "via", al "sentiero" che conduce alla verità. Chi conosce Hegel sa però anche che il metodo, e dunque in un certo senso la forma, non può mai viaggiare separato dal contenuto; si tratta allora di capire se Morin segua la lezione di Hegel, oppure se, come ad esempio i moderni epistemologi, egli attribuisca priorità alla forma rispetto al contenuto. Ebbene: mi pare che Morin realizzi una fusione sincretistica, per molti aspetti originale, di questi modi di intendere il metodo, sicché la sua riflessione presenta un discreto interesse; tale interesse è dal punto di vista di chi, come me, si occupa di rendere concreta la cultura umanistica - accresciuto dal fatto che la trattazione dell'uomo di Morin si arricchisce dell'apporto di molte scienze, che i filosofi, specie quelli che fanno riferimento ai classici, tendono spesso a trascurare. Non fosse altro che per questo suo aspetto di «enciclopedia delle scienze applicata all'uomo», il libro di Morin offre utili spunti di cui ogni filosofo può giovarsi; delle considerazioni scientifiche in generale, e degli arricchimenti che la scienza può offrire alla filosofia in particolare, è infatti sempre

necessario tener conto30, anche se alla fine mi pare che le scienze possano al più corroborare i risultati filosofici, ma non confutarli, contrariamente a quanto la maggior parte degli intellettuali che si occupano dei rapporti fra filosofia e scienze ritiene. Il libro di Morin, in ogni caso, offre sin dall'inizio una tesi che costituisce la tesi di fondo del testo, la quale, a dire il vero, non è molto scientifica, ma sembra anzi una concessione al pensiero simbolico (in Morin si realizza infatti quella solidarietà antiteticopolare fra pensiero razionalistico e pensiero simbolico che caratterizza molti filosofi moderni e contemporanei); una concessione che, nella sua radice più nobile ed antica, risale addirittura ad Eraclito. Il filosofo di Efeso scrisse infatti, nel suo famoso frammento 44 DK, che «per quanto tu possa percorrere i confini dell'anima, mai giungerai alla sua fine, tanto profondo è il suo logos». Questo frammento, come noto, è non solo interpretabile, ma anche traducibile in vari modi. Tuttavia, rispetto ad altri frammenti eraclitei, ed in generale ad altri frammenti dei cosiddetti Presocratici31, la interpretazione del frammento 44 mi pare abbastanza chiara: Eraclito sostiene infatti, in esso, che non si può comprendere l'uomo nella sua interezza, ossia nella sua profondità. I filosofi simbolici seri (ad esempio Umberto Galimberti), ma anche i professori heideggeriani pasticcioni (una categoria diffusissima), tendono, a partire da questo frammento (che Morin comunque non cita), a sostenere una tesi simile ma diversa: la tesi che è poi appunto la tesi di fondo di Morin - è quella per cui non è l'uomo nella sua interezza, ossia nella sua profondità, a non essere conoscibile, bensì l'uomo nella sua essenza, il che costituisce un forte ridimensionamento della affermazione eraclitea. In base a tale tesi, infatti, non si può sostenere l'esistenza di una natura umana, e non si può nemmeno sostenere - come invece facevano i classici greci, e come fa in altri frammenti lo stesso Eraclito - che la ragione e la morale, ossia comportamenti ragionevoli ed etici, costituiscano ciò che realizza l'uomo, ossia ciò che lo fa essere tale, e dunque ciò che gli consente di essere felice. Solo, però, la comprensione che una natura umana esiste, e che

essa è - pur nella sua molteplice declinazione storica, sociale, culturale, ecc. - razionale e morale, consente di sviluppare una consapevolezza filosofica, etica e politica; chiunque estrapoli, dunque, da questo frammento eracliteo una conclusione analoga a quella di Morin (la impossibilità di descrivere l'essenza dell'uomo, data la inesistenza della natura umana), non solo non è nella verità, ma anche non favorisce la realizzazione di quella buona comunità sociale che, sola, costituisce il modello ideale per la armonica convivenza degli uomini. Una cosa, insomma, è sostenere che le profondità umane sono difficili da comprendere nella loro interezza; un'altra cosa è sostenere che l'essenza dell'uomo, nelle sue caratteristiche strutturali, non è comprensibile. Solo la prima tesi è corretta, la seconda no. Quest'ultima tesi consente inoltre a molti pensatori di esonerarsi dalla progettualità filosofico-politica («se non si sa nemmeno cosa è l'uomo, cosa si vuole progettare?»), e di limitarsi a studi eruditi, scientifici, monografici e variamente insignificanti; essa è dunque - alla luce della ottima descrizione della natura umana effettuata dai Greci - non solo non corretta, ma anche dannosa. Nella tesi della inconoscibilità della natura umana incappa purtroppo anche Morin, che la sostiene con dovizia di citazioni dalla modernità. Sin dalla introduzione, infatti, egli afferma, con Pascal, che noi uomini «rimaniamo un mistero per noi stessi» (pag. XIV), e che pressoché solo nelle arti possiamo trovare «messaggi sulla profondità del nostro essere profondi» (pag. XVI); Morin parla anche di «profonde zone d'ombra», tanto che «l'unità complessa della nostra identità ci sfugge» (pag. XVI), adeguandosi alla tesi «simbolica» della sostanziale ambivalenza dell'uomo (sostenuta anche da Bauman). L'arte, per Morin, aiuta a comprendere l'uomo ancor più della scienza, ma l'autore sa bene che, coi consueti approcci, «l'uomo nelle scienze umane è spezzettato in frammenti isolati» (pag. XVI); per questo, anche col trionfo delle scienze proprio della modernità (le quali costringono spesso a parlare i loro linguaggi, provocando uno smarrimento filosofico), l'uomo a suo avviso «rimane questo sconosciuto oggi più per cattiva scienza che

non per ignoranza. Da qui il paradosso: più conosciamo, e meno comprendiamo l'essere umano» (pag. XVI). L'unificazione - in solidarietà antitetico-polare - degli approcci simbolico (arte) e razionalistico (scienza), che Morin ritiene essere l'approccio più completo al tema dell'uomo, si rivela dunque essere un approccio riduttivo, e per certi aspetti contraddittorio; un approccio manchevole rispetto a quello propriamente filosofico dell'uomo inteso come fondamento onto-assiologico dell'intero elaborato dalla Grecia classica, l'unico in grado di affrontare la tematica umanistica in modo corretto. Morin, però, sembra trascurare la filosofia greca classica, prediligendo, per comprendere l’uomo, «un approccio esistenziale, che sappia riconoscere l'importanza dell'angoscia, del piacere, del dolore, dell'estasi» (pag. XVII); a suo avviso, lo stesso termine «umano» è «contraddittorio, ambivalente: infatti, è troppo complesso per le menti formate nel culto [!] delle idee chiare e distinte» (pag. XVII). Ora: personalmente ritengo di essermi formato proprio in questo «culto» (che ho sempre praticato in piena libertà), ma ciò, lungi dall'allontanarmi dal comprendere cosa sia l'uomo nella sua essenza, ritengo abbia contribuito ad avvicinarmi a questa comprensione; in questo senso, Socrate, Platone ed Aristotele mi sono stati indispensabili. Del resto, meglio il «culto delle idee chiare e distinte» rispetto al «culto delle idee oscure e confuse»! Con questa affermazione, peraltro, Morin dovrebbe concordare, data comunque l'importanza che egli attribuisce alla epistemologia; a suo avviso, infatti, «tutte le verità acquisite, a partire da fonti oggettive e dalla fonte soggettiva, devono passare attraverso l'esame epistemologico» (pag. XVII). Morin, certo, afferma ogni tanto en passant anche la centralità del soggetto in filosofia, cui invece «la filosofia positivista e strutturalista hanno dato la caccia» (pag. 53); per Morin, «essere soggetto è porsi al centro del mondo, sia per conoscere che per agire» (pag. 54). Con queste parole sono pienamente d'accordo (come ho peraltro ribadito in una lezione che ho tenuto, il 7 febbraio 2012, alla Libera Università Popolare di Milano), ma esse

sono effettivamente sostenute da Morin solo con approccio esistenziale, e non onto-assiologico. Morin, cioè, non considera l'uomo come soggetto trascendentale unificante la storia umana, e dunque come fondamento ideale del pensiero; per questo motivo, a mio avviso, il suo pensiero non riesce a strutturarsi in modo pienamente filosofico (nel senso greco del termine), e dunque a fornire la base per una progettualità politico-sociale umanistica. Questo problema esula, infatti, dalla riflessione di Morin; a questo libro però, come del resto a tutti i libri (ed a tutti gli uomini), non si può chiedere di più di quanto essi possono dare.

30

Un esempio di buona integrazione fra la filosofia e le scienze è costituito dal libro di Claudio Lucchini, Il bene come processo possibile concreto, Mimesis, Milano, 2009. 31

Mi permetto di rinviare, in merito, a L. Grecchi, L'umanesimo politico dei "Presocratici", Petite Plaisance, Pistoia, 2012.

Martha Nussbaum

NON PER PROFITTO. PERCHÉ LE DEMOCRAZIE HANNO BISOGNO DELLA CULTURA UMANISTICA

M. NUSSBAUM, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2011, ed. or. 2010.

Alcuni anni fa, pochi giorni dopo la lettura di La fragilità del bene di Martha Nussbaum, filosofa tedesca nata nel 1947, mi incontrai con Costanzo Preve, uno dei filosofi più intelligenti e (forse per questo) meno conosciuti del nostro paese. Il libro mi aveva lasciato una buona impressione complessiva in quanto l'autrice si proponeva - con taglio certo accademico, ma chiaro e stringente - di ripresentare l'attualità ed il valore dei contenuti classici, ed in particolare di quelli aristotelici. Quando chiesi a Preve se aveva per caso letto qualcosa della Nussbaum, ricordo che egli rispose in modo molto netto: «Sì, qualcosa ho letto, ma mi pare serie B». Questa affermazione di Preve non va letta - ciò è chiaro per chi lo conosce - come una espressione di spocchiosa superiorità, bensì come una esclamazione di massima sincerità; semplicemente, nel nostro linguaggio amicale, «serie B» indica tutta quella produzione filosofica che non propone idee originali, ma che si limita al commento ermeneutico. Indipendentemente, dunque, dal valore dell'opera, Preve imputava alla Nussbaum una scarsa originalità teoretica. Ora: è indubbio che, rispetto a pensatori quali Richard Rorty, Hans Blumenberg, Peter Sloterdijk (cito non a caso tre filosofi molto alla moda, i cui libri ho anche letto, ma che non mi

hanno ispirato alcun commento da inserire in questo testo), Martha Nussbaum rivela una minore originalità teoretica; tuttavia, in rapporto alla indeterminatezza di certi messaggi filosofici, e soprattutto in rapporto alla assai scarsa ripresa contemporanea dei contenuti classici, questa studiosa può a mio avviso meritare una promozione in «serie A», in quanto in una simile situazione culturale la ripresa dei contenuti antichi vale più di qualche incerta novità! A parte la metafora calcistica, comunque, la ripresa della cultura umanistica risulta davvero essere, in questi tempi, sempre da incoraggiare; tuttavia, come cercherò di mostrare, quando questa cultura vuole essere innestata all'interno di un modo di produzione come quello capitalistico, che è con essa in un rapporto di radicale opposizione, occorre valutare, da parte dello studioso che effettua tale operazione, se un innesto "totale" può davvero essere accettato, oppure se è preferibile un innesto "parziale". Nel caso di innesto "totale", l'autore può sperare, con forti iniezioni di cultura umanistica, di riuscire a mutare il modo di produzione complessivo, nonostante conosca l'estrema difficoltà dell'operazione (penso sia il mio caso); nel caso di innesto "parziale", per timore del rigetto, l'autore cerca invece di inserire solo una cultura umanistica "depotenziata", ossia tale da produrre, nell'attuale modo di produzione, esclusivamente piccoli miglioramenti. Questo mi pare il caso di Martha Nussbaum, la quale non può ignorare il rapporto di radicale alterità fra modo di produzione capitalistico e cultura classica, tanto che ha scelto nei suoi testi di inserire una versione "dimidiata" e "decaffeinata" dell'umanesimo classico. Non capire questo punto (o fare finta di nulla su questo punto) equivale, a mio avviso, a non capire l'essenziale della proposta teorica della Nussbaum, che proprio per questa sua opera di "annacquamento" risulta essere oggi così letta ed al contempo così lontana dallo spirito greco, sempre incentrato sui contenuti politici da mutare per la realizzazione delle modalità sociali più conformi alla natura umana. Cerchiamo allora di comprendere come si pone l'autrice in rapporto a questo tema. Occorre innanzitutto rimarcare che, nel libro in oggetto,

Nussbaum si incentra - è questa la sua tesi di fondo - su quella che definisce una crisi silenziosa, ovvero «la crisi mondiale dell'istruzione» (pag. 21), sostenendo che, senza una cultura umanistica, «il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo» (pag. 22). L'autrice ha perfettamente ragione ad affermare che senza una cultura umanistica (ovvero una cultura che, attraverso lo studio dei classici, ricerchi un senso umanamente accettabile, ossia conforme alla natura umana, per la totalità sociale) non vi può essere democrazia; la democrazia infatti, ovvero la partecipazione consapevole e diffusa alle principali decisioni politiche, richiede necessariamente una buona educazione, e dunque una cultura umanistica. Lascia però perplessi, nelle parole della Nussbaum, che ella ritenga che l'attuale mondo capitalistico sia tuttora democratico, e che la democrazia sia semplicemente a rischio, "appesa ad un filo". Chiunque sappia analizzare nell'essenziale la struttura del modo di produzione capitalistico in cui ci troviamo, sa bene infatti che, al di là dei "referendum elettorali" di facciata che premiano coalizioni con programmi molto simili (prova ne è anche, in questo 2012, la convergenza in Italia di centrodestra e centrosinistra intorno al programma del Governo Monti, dettato sostanzialmente dagli organi di controllo del capitale), In politica è stata oramai da secoli detronizzata dalla economia, ed i cittadini si limitano a scegliere, senza nemmeno molta consapevolezza, rappresentanti di piccole o grandi oligarchie finanziare. Così come le teorie economiche spiegano che i regimi dei mercati capitalistici tendono all'oligopolio mascherato da libera concorrenza, le teorie politiche spiegano - o dovrebbero spiegare, ma non sempre lo fanno - che i regimi politici dei paesi capitalistici tendono all'oligarchia mascherata da democrazia (alle masse non fa piacere sapere apertamente di essere dominate: almeno una formale apparenza democratica, nel nome, va lasciata...). Nussbaum pare non comprendere questo punto essenziale, e dunque pare non capire che, per masse popolari utilizzate esclusivamente per alimentare il ciclo lavoro-consumo (il quale produce la valorizzazione del capitale, ossia il profitto, che è il solo

fine del sistema capitalistico), l'educazione umanistica è non tanto inutile quanto controproducente, perché essa orienta a pensare in termini di totalità sociali alternative, e dunque di finalità alternative del sistema. La Grecia classica, ad esempio, poneva come fine ideale del proprio modo di produzione sociale la buona vita di tutti gli uomini nel rispetto del cosmo naturale, e non certo il massimo profitto, come fa invece il modo di produzione capitalistico. Mi si potrebbe obiettare che qualcosa del genere, in effetti, la Nussbaum lo dice, anche se con minore brutalità rispetto a Marx o anche solo a Nietzsche; la studiosa afferma infatti che, a suo avviso, gli studi umanistici sono costantemente ridotti nelle università americane ed europee in quanto, diversamente dagli studi scientifici, sono ritenuti meno utili per la competizione globale, poiché meno direttamente orientati a produrre profitto. Secondo la Nussbaum questo è un errore strategico dei Governi, in quanto essi non comprendono che una simile educazione, favorendo le capacità critiche, favorisce anche lo sviluppo scientifico, e con esso le competenze e le qualità professionali, e dunque pure il profitto! Questo tipo di argomentazione però, per quanto possa essere corretto, non coglie il nocciolo della questione, rivelandosi anzi interno alla medesima logica del discorso economico capitalistico. Una cosa, infatti, è dire che modo di produzione capitalistico e filosofia classica sono in radicale opposizione; un'altra cosa, molto diversa, è sostenere che nel modo di produzione capitalistico la filosofia classica può aiutare la scienza e la tecnica alla realizzazione del profitto. Mentre Marx aveva compreso la necessità di riprendere da Aristotele la centralità della opposizione fra economia e crematistica, ossia fra valori d'uso e valori di scambio32, Nussbaum non tratta minimamente di questa opposizione, limitandosi ad affermare che occorre difendere un sapere in pericolo (la cultura umanistica), ma senza mai rimarcare -come invece fece Aristotele, il filosofo classico cui l'autrice pure dichiara di ispirarsi maggiormente - che tale sapere deve fungere da guida e da orientamento per gli altri saperi; ciò in quanto la filosofia (la

metafisica) si occupa dell'intero e del suo senso, mentre le scienze si occupano solo delle parti di questo intero, e come tali non possono dunque mai fungere da guida e da orientamento33. Senza specificare questo tema, che ha anche sul piano politico una grande rilevanza, non si può realmente sostenere, a mio avviso, che l'autrice effettui una adeguata riproposizione della cultura classica, in quanto - nell'operazione, appunto, di "annacquamento" volta a favorirne una accettata riproposizione - ne smarrisce le coordinate più importanti; l'umanesimo classico infatti sembra quasi, in questa ripresa della Nussbaum, una cultura di elite che deve favorire i giovani laureati delle facoltà più prestigiose ad essere maggiormente efficienti, presiedendo con maggiore consapevolezza i processi decisionali complessivi del capitale34 (processi che evidentemente la Nussbaum confonde con la democrazia). La cultura umanistica, per l'autrice, risulta in pratica essere una sorta di "sugo" necessario ad insaporire le conoscenze scientifiche, le quali, «se praticate nel modo corretto, non possono che essere permeate di quello che possiamo definire come spirito umanistico: la ricerca del pensiero critico, la sfida della immaginazione, la vicinanza empatica alle esperienze umane più varie, nonché la comprensione della complessità del mondo nel quale viviamo» (pag. 26), sono infatti componenti costitutive - sempre per la Nussbaum dello spirito umanistico. Ora: senza voler riproporre la annosa questione della opposizione fra le cosiddette «due culture», filosofico-umanistica e scientifico-tecnica, mi preme comunque rimarcare, con Aristotele, che i fini sono più importanti dei mezzi, e che la filosofia si occupa dei fini mentre la scienza si occupa dei mezzi, sicché la filosofia deve essere considerata più importante della scienza; non tanto però, come ritiene la Nussbaum, perché essa può aiutarla a svilupparsi meglio, quanto perché la filosofia può dire alla scienza le cose buone da fare, ed impedirle di fare quelle cattive: senza la filosofia il mondo può ainche viaggiare produttivamente verso la propria autodistruzione, senza nemmeno rendersene conto (cosa che forse sta proprio accadendo)!

Per concludere, è ovviamente meglio di nulla trovare chi, oggi, ritiene preferibile sviluppare la cultura filosofica, classica ed umanistica, rispetto a chi ritiene preferibile ampliare la già sviluppata cultura scientifica, tecnica ed operativa. Tuttavia, non può essere nascosta la grande ingenuità di chi, come Martha Nussbaum, ritiene veramente che «i partigiani della formazione per il profitto» siano davvero «interessati alla stabilità delle istituzioni democratiche» (pag. 29); ciò equivale ad aver compreso il contrario di come la realtà è, e dunque a non aver compreso che la cultura umanistica è la base indispensabile per la democrazia solo in un sistema che tale cultura e tale democrazia è realmente disposto ad accettare. In caso contrario, come la democrazia, la cultura umanistica può solo essere eliminata o annacquata.

32

La centralità di questa opposizione è stata rimarcata anche da Enrico Berti, in E. Berti - L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, Il Prato, Padova, 2009. 33

Mi permetto di rinviare, in merito, a L. Grecchi, L'umanesimo di Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia, 2008. 34

«Un'economia forte ed una cultura di mercato fiorente [...] richiedono proprio l'apporto degli studi umanistici» (pag. 29).

Abdullah Ocalan

GLI EREDI DI GILGAMESH. DAI SUMERI ALLA CIVILTÀ DEMOCRATICA

A. OCALAN, Gli eredi di Gilgamesh. Dai Sumeri alla civiltà democratica, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2011.

Abdullah Ocalan (1948), per chi ha buona memoria (i mass media condannano oramai anche i gesti più coraggiosi all'oblio, e questo solo nella migliore delle ipotesi, dato che gli atti di resistenza vengono solitamente catalogati come «terroristici»), è stato il leader del PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan, negli anni Novanta e moralmente lo è ancora, nonostante sia stato incarcerato dai Turchi e risieda oramai, unico detenuto, dal 1999 in una cella del penitenziario di massima sicurezza dell'isola d'Imrali, al crocevia tra Oriente ed Occidente, «dove l'Asia e l'Europa si toccano» (pag. 9). Ocalan è stato condannato dapprima alla pena di morte, e poi all'ergastolo dopo che la Turchia ha abolito la pena di morte nel 2002, per la sua attività volta alla creazione di uno Stato kurdo, ossia alla indipendenza del Kurdistan. Non è però qui la sua storia umana e politica a rilevare (essa, peraltro, può essere tranquillamente letta sulla pagina di wikipedia a lui dedicata). Ocalan è infatti autore di un voluminoso libro intitolato Gli eredi di Gilgamesh, scritto originariamente come parte del suo appello alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e tradotto dal tedesco da Simona Lavo; pur avendo questo preciso scopo «pratico» - uno scopo in certo senso analogo alla autodifesa di Socrate descritta da Platone nella Apologia -, va reso atto ad Ocalan

di avere anche realizzato, con questo scritto, una preziosa operazione culturale, ovvero una argomentata riproposizione della storia della civiltà sumerica, che egli pone - in maniera certo criticabile, ma comunque interessante - come originaria anche rispetto alla civiltà occidentale. Descriveremo nel seguito le specifiche tesi di Ocalan, alcune delle quali molto suggestive (specie per noi occidentali, solitamente ignoranti della cultura sumerica, ed in generale del Medio Oriente); non sono però le specifiche tesi a costituire il nodo centrale del libro. Il nodo centrale è costituito dal fatto che quest'uomo, detenuto da oltre dieci anni con la consueta accusa di «terrorismo» (la stessa con la quale fu verosimilmente condannato il Gesù storicamente vissuto)35, ha deciso di difendersi non con cavilli giuridici o invocando clemenza, ma argomentando culturalmente, e cercando così di convincere l'Occidente, ancor prima che della propria "innocenza", della bontà della causa del popolo kurdo, e del fatto che la cultura sumerica è da rivalutare, e comunque maggiormente da rispettare. Cerchiamo ora di ripercorrere il libro di Ocalan, soffermandoci, di volta in volta, sugli aspetti più importanti del medesimo. Innanzitutto, Ocalan afferma di essere venuto in Europa nel 1998 «con l'intenzione di trovare un compromesso con i nostri oppressori imperialisti. Speravo che una soluzione ragionevole, secondo i criteri della democrazia europea, ponesse fine alla necessità della guerriglia sulle montagne - una lotta che aveva già iniziato a prendere troppe vite, e alla quale io, in primo luogo, non ambivo» (pag. 5). Già l'inizio, a mio modo di vedere, è assolutamente spaesante per l'occidentale medio portato, solitamente, ad associare il nome di Ocalan al «terrorismo», e dunque alla violenza. Ebbene: questo «terrorista» non solo rivela una cultura classica occidentale ed orientale - importante, ma soprattutto, nelle parole e nei modi, si rivela tutto fuorché violento; viene tanto da pensare che il "terrore" egli abbia incusso solo al governo turco, non disposto a concedere alcuna indipendenza al Kurdistan: molto più "terrorizzanti" mi sembrano però, ad esempio, le tonnellate di bombe all'uranio impoverito sganciate nel bel mezzo dell'Europa (Serbia, ex Jugoslavia, 1999), che hanno fatto - queste sì - migliaia

di morti, ed hanno contaminato centinaia di chilometri di terreni per i prossimi secoli, con l'unico vantaggio di aver consentito agli Stati Uniti d'America di essersi liberati di ingombranti scorie tossiche. Questa è tuttavia sicuramente questione troppo complessa per i filosofi accademici del giorno d’oggi; se ci fossero dei filosofi antichi redivivi, gente del calibro di Socrate, Platone ed Aristotele - i quali, come noto, si interessavano molto delle questioni politiche e sociali , se ne interesserebbero, ma, come ha scritto il poeta greco contemporaneo Seferis, gli antichi Greci se ne sono volati via per sempre, ed oggi rimaniamo solo noi. Per questo, limitiamoci a seguire il respiro del libro, senza sperare troppo che tale respiro sia da altri condiviso. La trama complessiva del libro - volta a mostrare come la antica civiltà sumerica, pur con tutte le proprie criticità (che Ocalan correttamente evidenzia), fosse migliore della attuale civiltà occidentale falsamente democratica -, è di per sé interessante e condivisibile, ma ci sono singoli spunti culturali, talvolta davvero illuminanti, che devono necessariamente essere ripresi poiché aiutano molto a riflettere sul nostro tempo. Sin dalla prefazione, intrecciando la storia antica con quella contemporanea (ed in esse il proprio destino personale), Ocalan ha affermato in effetti che «questi fatti», ovvero la sua ingiusta carcerazione e condanna, «sono avvenuti in violazione della legge europea, ammesso che qualcosa di simile esista. Ritengo che l'atteggiamento della Corte misuri il livello di una civiltà ed ero allora convinto che se qualcuno, disposto alla resa, si fosse rivolto all'Europa per aiuto, sarebbe stato ricevuto cordialmente. Per quel che mi riguarda, non è stato il caso né lo sarà in futuro. Di conseguenza, la mia relazione con l'Europa è improntata alla ricerca di un'antitesi legata alla capacità del Medio Oriente di formulare, sulla base delle sue fondamenta storiche, una contrapposizione rispetto alla civiltà europea» (pag. 5). Ocalan chiarisce innanzitutto che «la questione kurda [...] è da sempre strettamente legata allo sviluppo della umanità verso la civiltà: una realtà sociale che per molti aspetti sta sperimentando

oggi una fase di declino» (pag. 9). Come per la questione palestinese, mediaticamente più presente (anche se, negli ultimi anni, assai meno), Ocalan rimarca come il solo fatto che si tolleri continuamente l'abuso della nazione più forte su quella più debole rappresenta un enorme espressione di inciviltà, e che l'Occidente purtroppo, incurante delle sue radici (a suo avviso anche sumeriche: gli stessi kurdi però, in realtà, sono indo-europei, e dunque non discendono dai Sumeri), sta procedendo oramai sempre più in questa direzione. Il retaggio culturale sumerico, tuttavia, è per Ocalan importante, e potrebbe riservare al lettore europeo più di una sorpresa; a suo avviso, infatti, «origine e fonte della civiltà europea sono in un certo qual modo proprio quei Kurdi che ora cercano una soluzione al loro problema alle porte dell'Europa e nelle sale dei suoi tribunali. È come se un'anziana madre bussasse alla porta dei propri figli e nipoti, da lei allevati per migliaia di anni, per chiedere loro giustizia. Figli che però non sono ancora del tutto consapevoli dei legami di parentela» (pag. 9). Questa tesi può sicuramente sembrare eccessiva a chi, come me, ritiene che le principali radici culturali dell'Europa siano da ricercare soprattutto nella antica Grecia, ed in parte nel Cristianesimo (sebbene da alcuni secoli sia oramai la modernità capitalistica ad avere dettato all'Europa le proprie regole, anche culturali); tuttavia il discorso sulle radici, per quanto interessante36, oltre a prestarsi a molti equivoci, non è risolutivo. Assai più rilevante, almeno nel contesto di questo libro, è notare come, anziché rispondere al tono alto della sua difesa, la Corte Europea si sia nella sostanza limitata a considerare il suo caso come un caso personale, schiacciando la resistenza collettiva del popolo kurdo ed il suo generale valore filosofico e politico (forse non ebbe un simile valore la resistenza degli antichi Greci nei confronti dei Persiani?) sul consueto piano "individuale"; la resistenza è infatti, per l'Occidente, sempre "terrorismo", e poiché il terrorismo (così importante, nella nostra epoca di globalizzazione, tanto che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, nel senso che esso fornisce un pretesto per colpire chiunque ovunque) è un reato, ed i reati sono quasi sempre "individuali", ecco che il piano su cui sviluppare la

questione, per l'Occidente, è preferibilmente quello individuale. Ocalan lamenta infatti che, per silenziare una questione umanamente e socialmente assai rilevante, viene alla fine «presa in questione soltanto la dimensione individuale. In questo modo i giudici rischiano di travisare la realtà e limitarsi alla scena di questo pezzo teatrale: il tribunale come palcoscenico nell'ultimo atto» (pag. 10), in cui ai mass media spetta solo di amplificare il consueto teatrino del "terrorista cattivo" che viene catturato e giustiziato dall'Occidente buono. Svolta questa lunga premessa, ecco alcune delle tesi più interessanti di Ocalan. Egli inizia col sostenere che «la nascita della civiltà si ebbe sulle sponde del Tigri e dell'Eufrate», proprio con i Sumeri (pag. 11); «l'archeologia, l'etnologia, le scienze religiose ed altre discipline delle scienze sociali [...] concordano nell'attribuire ai Sumeri la prima forma di società con una struttura statale ed una storia tramandata per iscritto - l'origine quindi della civiltà. La fondazione di uno Stato rappresenta un grande salto qualitativo per l'umanità [...]. Per questo motivo comprendere i Sumeri significa comprendere meglio noi stessi e la nostra epoca. Se i Sumeri non fossero stati scoperti, dimenticando questa antichissima e notevole fonte di civiltà, avremmo dimenticato anche noi stessi e localizzato in maniera errata gli inizi della nostra storia» (pag. 11). Si tratta di una tesi che, ai nostri criteri eurocentrici, suona un po' strana, ma mi pare che Ocalan, pur senza moltiplicare le citazioni37, la argomenti piuttosto bene. Innanzitutto, sul piano storico-archeologico, i resti più antichi della società neolitica finora rinvenuti provengono tutti dalle regioni superiori del Tigri e dell'Eufrate, e datano tra il 6000 ed il 4000 a.C. La nascita della civiltà sumerica vera e propria si può, per la maggior parte degli orientalisti, far risalire intorno al 3000 a.C., epoca in cui fu inventata e praticata la scrittura cuneiforme; ma, più delle date (antecedenti comunque di circa un paio di millenni alle analoghe forme della cultura greca), sono importanti i contenuti di questa civiltà, che furono per molti aspetti comunitari. La civiltà sumerica infatti, a corretto avviso di Ocalan, si incentrava intorno allo Ziggurat, «un'entità che assume la funzione sia di tempio che di

luogo di lavoro collettivo e centro amministrativo sociale. Questi centri stanno a rappresentare l'identità della società ed allo stesso tempo si caricano di un significato sacro [...]. Sono i prototipi dei grandi templi, eretti più tardi nell'intero corso della storia della civiltà, delle agorà, dei parlamenti [...], dei centri educativi e culturali. Rappresentano il grembo materno della istituzionalizzazione dello Stato» (pag. 14), oltre che i luoghi - come verosimilmente furono anche i labirinti cretesi e le piramidi egizie della raccolta collettiva dei beni da distribuire, secondo logiche di pianificazione sociale comunitaria. Ocalan lamenta giustamente - lo cito molto, in quanto mi sembra il minimo, per un uomo privato della libertà, far circolare almeno le sue parole - che, nonostante questa priorità cronologica, la civiltà sumerica «finora non ha ottenuto il posto che le spetta nella ricerca scientifica. Questo si deve sicuramente alla sua scoperta tardiva, ma anche alla predominanza di un modello eurocentrico della visione del mondo. L'egocentrismo della civiltà greco-romana ha giocato un ruolo decisivo in tutto ciò» (pag. 18), e questo, specie per chi ha ancora in mente le pagine di Hegel dedicate all'Oriente delle sue altrimenti splendide Lezioni di storia della filosofia, non lo si può affatto negare. Eppure, per Ocalan, la civiltà sumerica è primaria in quanto essa - come egli ha ben messo in evidenza - ha posto «il primo gradino della cosiddetta rivoluzione neolitica [...] nel riconoscimento della superiorità della vita comunitaria [...]. La nostra storia attuale della civiltà è quindi sempre solo la parte visibile del nostro sviluppo, che da migliaia di anni si trova inglobato nel principio della collettività» (pagg. 18-19). Questo principio, ovvero il carattere comunitario della vita umana, è per Ocalan centrale, in quanto esso è il solo che può alla fine garantire anche ciò cui aspira l'uomo moderno, ossia «una vita libera, in armonia con la natura, che desidera la possibilità di uno sviluppo spirituale, libero da ogni controllo e protetto dai soprusi di forze talvolta divine che incutono paura; che chiede uguaglianza tra uomo e donna, indivisibilità dei doni della natura (quali i prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame), ed infine una lingua che non favorisca la disuguaglianza, ma sia un mezzo

generale di comunicazione per tutti. In tutte queste aspirazioni, desideri, richieste per il futuro, si delinea allo stesso tempo il passato della nostra specie» (pag. 19), che appunto emerge in piena luce nella civiltà sumerica. Per Ocalan è fondamentale la conoscenza della storia: «Ancor oggi la conoscenza del passato riesce ad indicarci la strada verso un futuro incerto. Senza la conoscenza degli inizi siamo in balia della egemonia ideologica dell'Occidente. Se non recuperiamo la nostra perdita di storia, rimarrà per noi chiuso il sentiero verso un libero sviluppo politico ed economico, e non saremo mai parte di un giusto ordinamento mondiale» (pag. 20). La storia, infatti, mostra chiaramente come la caratteristica principale della natura umana sia la socialità: «Il matriarcato, il patriarcato, la stregoneria, lo sciamanesimo, le istituzioni del clero e dei profeti avevano tutti il compito di liberare il genere umano dal giogo dei suoi istinti animali, ed assoggettarlo alle regole del sistema sociale» (pag. 20). Ocalan riprende in merito, sebbene senza esplicitarla, la lezione aristotelica, rimarcando come l'uomo sia essenzialmente uno zoon politikon, ed al contempo «come oggi le culture occidentali affermino proprio il contrario. Si allontanano dal principio dell'essere sociale nel momento in cui ciò va contro determinati interessi, ed al suo posto innalzano il principio dell'individuo in nome della libertà. Debitore di questa strategia è il fatto che oggi la ricchezza è nelle mani di poche personalità od istituzioni capitaliste, più autoritarie e ricche di tutti i re e i despoti della storia messi insieme. Mentre per milioni di anni gli uomini furono tenuti insieme dalle risorse ricavate ed elaborate unitariamente, oggi i profitti di buona parte dei beni pubblici sono dichiarati proprietà privata [...]. Tutto ciò che non si adatta a questa concezione delle cose, viene superato ed è eliminato. Lo scontro controverso nella filosofia contemporanea ruota dunque intorno alla questione centrale, quanta proprietà in mano privata una società possa sopportare» (pag. 21). Non poteva essere detto più chiaramente: a me pare che dalla sua piccola cella, Ocalan colga l'essenza delle cose meglio della maggior parte dei filosofi accademici attuali, che nelle diverse varianti delle loro impostazioni non giungono neanche a

comprendere questa minima, eppur fondamentale, verità. Parlo di "verità" non a caso, in quanto in questo senso l'approccio di Ocalan alla realtà risulta essere molto "greco", tanto che egli giunge ad affermare - in maniera onto-assiologicamente ineccepibile - che «se ci si rifiuta di definire la storia o la società in base a dei parametri corretti, difficilmente si potrà giungere ad un giusto giudizio» sulle stesse (pag. 22); senza una fondata definizione dei concetti, infatti, tutto rimane vago ed indeterminato, e sulla vaghezza non si può costruire nulla, né teoreticamente, né praticamente. Su questo punto, Ocalan dichiara di rifarsi non ai Greci, bensì ai Sumeri, i quali «hanno dato un nome a tutti i fenomeni naturali e sociali. Ne è scaturito un sistema concettuale comprensivo, grazie al quale è possibile qualsiasi tipo di teorizzazione» (pag. 28); per la mitologia e la teologia sumerica - così come, del resto, per la metafisica greca e per la dialettica hegeliana - «niente ha valore solo di per sé, niente è inutile: tutto è collegato a tutto» (pag. 28). Come per l'epopea di Gilgamesh, su cui Ocalan sovente si sofferma, «queste utopie e saghe [sumeriche; L. G.] risvegliano tuttora nel pubblico una forte nostalgia dei giorni dell'uguaglianza nella società neolitica, e delle dolorose lotte attraverso le quali questa venne poco alla volta annullata. Saghe e poemi epici raccontano la storia dell'umanità» (pag. 29), una storia che, per quanto riguarda la cultura sumerica, realizza «per la prima volta la codificazione scritta del diritto [...]. Le norme legislative venivano incise nella roccia ed esposte in luoghi pubblici, e si faceva molta attenzione affinché venissero rispettate. Il codice di Urnamu ed il codice del babilonese Hammurabi » (pag. 29) sono esempi di questa legislazione sociale38. Come tutti quegli autori che si rifanno al mondo antico come modello di riferimento, anche Ocalan potrebbe essere criticato per avere idealizzato un "mito dell'origine"; in realtà, dato che ha mostrato i molti difetti dell'impero sumerico, non mi pare che egli possa essere così catalogato. Rifletterei anzi maggiormente, in merito, sulla sua affermazione in base a cui «nella memoria

dell'umanità compare il sogno di una condizione originaria paradisiaca, distrutta con grande arroganza. Di conseguenza le classi elitarie si preoccupano di cancellare questi ricordi: il paradiso viene cancellato dalla storia. Per tutto il corso del processo di civilizzazione perde il suo vero contenuto, viene sminuito a livello di mito ed infine perde la sua storia. In questo modo [...] si strappa ai senza storia, cioè la massa di individui e i gruppi etnici inermi, l'esperienza reale del paradiso vissuto» (pag. 33). Ocalan attribuisce inoltre correttamente una grande importanza alla libertà, affermando che «l'archetipo storico dei Sumeri mostra come il sapere, la tecnica e la creatività filosofica sono determinate in base al livello di libertà dei rapporti sociali. Di conseguenza, con l'imporsi della schiavitù, soffrirono anche la scienza e la filosofia» (pag. 38). Ciò prova indirettamente che in Grecia, dato il grande sviluppo del sapere, della tecnica e della creatività filosofica, la schiavitù - nonostante quanto anche Ocalan impropriamente afferma - non fu centrale39. Ocalan, che da comunista quale è potrebbe dai più essere considerato anche "marxista", rivela invece una grande autonomia di pensiero, sia criticando a più riprese Marx ed il materialismo storico, sia sostenendo esplicitamente che «finché il marxismo non verrà sottoposto ad una critica correttiva non potrà essere niente altro che uno strumento del capitalismo, la cui visione della realtà è molto più arretrata dell'ideologia dei sacerdoti sumerici» (pag. 86). In Ocalan ci sono anche cadute teoretiche, come appunto la riproposizione - ma su questo la tradizione è ultramaggioritaria della tesi dello schiavismo greco, ed anche del particolarismo xenofobo greco, in base a cui egli sostiene che «per i Greci era diventata una tradizione considerare barbari tutti gli stranieri» (pag. 91)40. Tuttavia, non è questo il tema più importante del libro, che in termini generali mi pare invece consistere in una sostanziale ripresa dell'umanesimo. Ocalan afferma infatti esplicitamente che «il principio dell'Umanesimo è attribuire valore all'essere umano e metterlo in primo piano [...]. Nel pensiero umanista l'uomo vede la possibilità di alzarsi, di liberarsi come pure di raggiungere la

scienza e così la dignità» (pag. 301). L'uomo, infatti, si oppone proprio al capitalismo, in quanto «l'essenza del sistema capitalista consiste nell'assoggettamento di liberi possessori di forza lavoro al dovere di lavorare per un determinato numero di ore in cambio di un salario prestabilito» (pag. 305); «tra i possessori dei vari sistemi oligarchici (...] e l'umanità c'è un vasto antagonismo» (pag. 368). Emblematica, e pienamente da sottoscrivere, è infine la sua ultima chiosa, in base a cui egli afferma che «è necessario che il sistema ponga al centro l'uomo, in quanto è l'essere più importante. L'essere umano è al di sopra di qualsiasi altro valore. Soprattutto quando un sistema afferma di rappresentare il più alto grado di libertà, non può esserci alcun criterio più solido e sacro di questo» (pag. 362).

35

M. Bontempelli - C. Preve, Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, CRT-Petite Plaisance, Pistoia, 1997. 36

Personalmente, mi ci sono anche soffermato in L. Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2010. 37

L'intero libro, che consta di 452 pagine, contiene al massimo 4 o 5 note bibliografiche, di testi peraltro piuttosto datati. Questo fatto, che lo studioso accademico prenderebbe con una certa spocchia (probabilmente non toccherebbe nemmeno un testo "impuro" come quello di una persona considerata "terrorista"), dovrebbe invece suscitare una forte partecipazione emotiva, pensando alla condizione di un uomo solo in una piccola cella, cui verosimilmente non è concesso di tenere che pochi libri con sé. 38

Il tratto comunitario dell'antico diritto greco, è stato da me descritto in L. Grecchi, Diritto e proprietà nella Grecia classica,

Petite Plaisance, Pistoia, 2008. 39

L. Grecchi, L'umanesimo di Plotino, Petite Plaisance, Pistoia,

2010. 40

Per una confutazione di questa tesi, rinvio a L. Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica, Petite Plaisance, Pistoia, 2011.

Michel Onfray

LA POTENZA DI ESISTERE. MANIFESTO EDONISTA

M. ONFRAY, La potenza di esistere. Manifesto edonista, Salani, Milano, 2009, ed. or. 2006.

Del pensiero di Michel Onfray, uno degli autori più giovani (è nato nel 1959) ed originali del panorama francese, mi ero già occupato in una lunga nota presente in un saggio scritto circa tre anni fa41. In quella sede espressi un netto disaccordo con una sua tesi di fondo, ovvero quella per cui la storia della filosofia praticata nei nostri tempi moderni avrebbe arbitrariamente fatto prevalere come cardini del pensiero antico - le filosofie classiche di Socrate, Platone ed Aristotele e successivamente il pensiero cristiano, rispetto alle filosofie (a suo avviso molto più rilevanti) edonistiche, scettiche ed in generale "materialistiche". Indubbiamente, la rivalutazione di queste filosofie posta in essere da Onfray, dal suo punto di vista, è volta a compensare quello che egli ritiene essere un «errore», o quanto meno una «ingiustizia» ermeneutica; tuttavia nel merito - a parte il fatto principale che le filosofie post-classiche non furono affatto più rilevanti di quelle classiche -, l'argomento che egli pone in favore di questa presunta «errata/ingiusta» valutazione (ovvero che la modernità si oppone proprio, per sua essenza, all'edonismo, allo scetticismo, ed in generale al "materialismo"), non mi pare affatto cogliere la realtà delle cose42. Basta infatti guardarsi un po' intorno, nella cultura come nella società, per notare come - al di là dell'elogio formale al pensiero classico e cristiano - siano sostanzialmente l'edonismo (dei

consumi), lo scetticismo (delle opinioni) ed il materialismo (delle produzioni) a caratterizzare la filosofia e la vita della nostra epoca, e dunque anche le sue interpretazioni del passato. Mantengo, tuttora, le medesime tesi di quel saggio, critiche nei confronti della interpretazione di Onfray; questo libro, però, mi ha chiarito come non solo l'influenza della genesi storico-sociale, ma anche della sua genesi personale abbia determinato i tratti essenziali del suo pensiero edonista, basato sulla rivalutazione del corpo e sulla critica della religione (emblematico peraltro, in proposito, il suo Trattato di ateologia)43. Che il pensiero di Onfray sia compatibile col contesto storicosociale del nostro tempo, è a mio avviso dimostrato dal successo editoriale dei suoi libri. Tuttavia, la sua esperienza di bambino lasciato in orfanotrofio (su cui ampiamente in questo libro si sofferma), le violenze subite dai preti, la mancanza di affetto con conseguente mortificazione del corpo - del quale egli vuole gridare la «potenza di esistere» -, mi confermano nella tesi che, pur lungi dal determinarne il valore, comprendere la genesi personale di un'opera è spesso imprescindibile per comprendere veramente un autore. Poiché però, in filosofia, il valore di un'opera è sempre la cosa più importante - ricordiamo la provocatoria affermazione hegeliana: «tutto quanto c'è di personale, nella mia filosofia, è falso» -, pur manifestando personale vicinanza ad Onfray, non potrò qui che discutere le sue tesi per ciò che esse affermano (e non per come nascono), e per le conseguenze che ne possono derivare. Innanzitutto, in maniera analoga a Nietzsche - con cui Onfray rivela più di una vicinanza -, il Nostro manifesta una tendenza forte ad èpater le bourgeois, ossia a scandalizzare il lettore conservatore, cattolico, benpensante; e lo fa con argomenti che, specie per quanto concerne l'ateismo, sono indubbiamente in buona parte condivisibili. Tuttavia, la sua rivalsa contro i poteri forti «cristiani» ed «idealisti»44, a mio avviso, presenta due difetti: il primo è che egli non coglie nel segno nell'indicare dove stanno i poteri forti (che non stanno più, oramai da alcuni secoli, nella Chiesa cattolica e nelle Università, ma nel capitale); il secondo è che, nella sua furia

critica, egli non comprende che il nucleo essenziale del pensiero cristiano e classico rappresenta tuttora la più rilevante forma di difesa contro l'onnipervasività del modo di produzione capitalistico. L'attacco ai "pretoni cattolici" ed ai "parrucconi metafisici" (categoria, quest'ultima, in cui sono certo che anche alcuni marxisti italiani mi inseriscono, per il mio ripetuto trattare di umanesimo e di metafisica), però, possiede per lui un appeal troppo forte, tanto da costituire il filo conduttore non solo di questo, ma di pressoché tutti i suoi libri. Passiamo, in ogni caso, ad esporre specificamente le tesi di Onfray. A suo avviso, «mai quanto oggi una filosofia del corpo esistenziale è stata così urgente» (pag. 59), in quanto occorre contrastare i nefasti effetti, cristallizzatisi nei secoli, appunto della filosofia di Platone. Il grande Ateniese sarebbe infatti, a suo avviso, autore di «una pratica aristocratica della filosofia», mentre «Epicuro e i suoi sì comportano in modo diverso» (pag. 61): ovvero, per Onfray, in modo democratico e comunitario. Il fatto che Platone proponesse una sostanziale comunanza dei beni non ha per il Nostro alcuna importanza: Platone è per lui aristocratico, ed Epicuro democratico. A suo avviso, infatti, il fulcro della morale, e dunque della buona vita, è «godere e far godere» (pag. 68), e l'edonista Epicuro rappresenta il migliore interprete di ciò che egli ha in mente: «l'edonismo, malgrado i malintesi, indica la visione del mondo che io propongo da quasi trenta libri» (pag. 70). Ora: non sono così sicuro che egli interpreti Epicuro nel modo più corretto (ossia, in sintesi, come un «edonista molto misurato»)45, ma, rispetto a molti pensatori attuali, Onfray ha quanto meno il merito non irrilevante di essere chiaro e coerente46. Tuttavia - e sarebbe bene che di ciò egli fosse consapevole - Onfray si situa pienamente nel solco della postmodernità capitalistica, la quale è anch'essa favorevole alla liberazione della «potenza di esistere» del corpo umano, ma solo in quanto, tramite essa, è più facile giungere alla massima estensione possibile dei consumi. L'armamentario teorico di Onfray, in effetti, è costituito soprattutto da una assertoria ripresa dei temi postmoderni nietzscheani47, che

furono così importanti, soprattutto nel Novecento, per il pieno dispiegamento delle potenzialità capitalistiche. A suo avviso, infatti, oggi «non ci sono, o non ci sono più, valori. Non ci sono, o non ci sono più, virtù» (pag. 73); e, significativamente, «non sono concepibili progetti per lasciare la foresta in cui si è smarriti» (pag. 73). La politica è per lui da intendersi al massimo come "ribellismo" individuale, e non come "progettualità" comunitaria. Onfray pare trovarsi pienamente a proprio agio nel contesto "nichilistico" e "relativistico" del nostro tempo, in cui «il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto, dipendono da decisioni umane, contrattuali, relative e storiche» (pagg. 87-88); un relativismo che, come nella migliore tradizione contemporanea, va a braccetto con uno scientismo materialistico: «Non c'è morale senza le connessioni neuronali che la permettono» (pag. 88). La proposta filosofica di Onfray non è certo tutta da buttare, ma il suo interpretare il «Me» come «centro» (pag. 95), e la «vita» come un «gioco» (pag. 95)48, chiariscono efficacemente il carattere individualistico della sua riflessione. Egli critica la filosofia classica perché «vive di teorie» ed è «statica», mentre il suo edonismo sarebbe «dinamico» e «pratico, vivente di casi concreti» (pag. 98); ma, a parte che l'influenza della ideologia capitalistica si sente a chilometri di distanza (l'essere «dinamici», «pratici», «concreti», ecc.), occorre quanto meno ribattere ad Onfray che in filosofia le teorie sono importanti, anche per la pratica. Questo andrebbe ribadito pure a molti marxisti antimetafisici ed antiumanisti, spesso portati anch'essi a criticare - senza conoscere - Platone, in quanto, a loro avviso, «l'idea di Uomo [...] non esiste, in quanto esiste solo una realtà materiale, tangibile e concreta» (pag. 146). Onfray non si dichiara certo marxista, tanto che afferma esplicitamente che il materialismo storico di Marx - la cui lacunosa ricostruzione, caratterizzata da «automatismi» e «violenze», lascio al lettore curioso di conoscere uno dei tanti modi in cui oggi viene storpiato il pensiero marxiano - «non ha più credito da nessuna parte» (pag. 195). Egli è uno studioso originale, profondo e critico,

tutte qualità importanti per un filosofo: tuttavia, mi pare che egli combatta di più contro alcuni fantasmi personali che contro il vero nemico globale della realizzazione della felicità, ossia il modo di produzione capitalistico; ma, si sa, è più facile - e la nostra mente, inconsciamente, per effetto dell'ideologia e dell'istinto di conservazione ci conduce lì - prendersela con il nemico più debole che con quello più forte.

41

II saggio, intitolato Come evitare che la filosofia antica diventi noiosa, era presente nel volume collettaneo D. Fusaro - L. Grecchi, a cura di, È veramente noiosa la storia della filosofia antica?, Il Prato, Padova, 2009, pagg. 21-54. Il libro contiene anche saggi di E. Berti, G. Casertano, D. Fusaro, G. Girgenti, C. Preve, M. Vegetti. 42

Su quanto sia ancora di moda, ed attuale, la filosofia ellenistica, mi sono poi soffermato nel saggio finale di L. Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2010. 43

Onfray definisce il proprio come un «ateismo postmoderno» (pag. 70); in quanto appunto «postmoderno», egli si sente esentato dall'affrontare la dura disamina razionale delle prove della esistenza di Dio elaborate nei secoli. 44

«La storiografia dominante deriva da un a priori platonico in virtù del quale ciò che proviene dal sensibile è una finzione» (pag. 46). Ed ancora: «Io sono per una controstoria della filosofia alternativa alla storiografia dominante idealistica» (pag. 68). 45

Rinvio, in merito, alle considerazioni svolte in D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, Il Prato, Padova, 2012.

46

A suo avviso, egli è addirittura sistematico, sostenendo di aver proposto «un'etica [La scultura di sé]», «una politica [Politica del ribelle]» ed «una metafisica [Trattato di ateologia]» (pag. 70). 47

«Il corpo post-cristiano implica un materialismo dionisiaco» (pag. 160). 48

La vita è a suo avviso caratterizzata da un «gioioso utilitarismo» (pag. 95).

LA POLITICA DEL RIBELLE. TRATTATO DI RESISTENZA E DI INSUBORDINAZIONE

M. ONFRAY, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione, Fazi, Roma, 2008, ed. or. 1997.

Come scrive Onfray nelle prime pagine di questo libro, i suoi scritti, con grande coerenza, «invitano tutti ad una filosofia del corpo riconciliato con se stesso, sovrano, libero, indipendente, autonomo [...]. Non riesco ad immaginare la filosofia senza il romanzo autobiografico che la accorda» (pagg. 6-7). Ricordando infatti la traumatica esperienza giovanile subita nel collegio cattolico di cui fu per lunghi armi ospite, Onfray esplicita in questo testo, con lodevole lucidità, la genesi psicologica della sua opera. Essere consapevoli di tale genesi è realmente molto importante, in quanto tutte le idee hanno sempre una genesi; tuttavia, la genesi psicologica rappresenta solo una parte del processo complessivo della genesi delle idee, essendo l'ambiente storico-sociale complessivo ancor più importante in questo generale processo di formazione. Essere consapevoli della genesi psicologica di un'opera può aiutare a capire, ad esempio, il motivo per cui un autore come Onfray senta così tanto la necessità di riconciliarsi con il corpo, anche attraverso una filosofia di tipo «edonistico»; ciò non spiega però, se non in piccola parte, la «necessità», che pure Onfray continuamente rimarca, di abbattere tutti gli universali e gli assoluti per sentirsi pienamente in accordo con la «potenza di esistere» del

nostro tempo. Non tutto, sul piano filosofico, è riconducibile alla genesi psicologica, ma è inevitabile che, soprattutto quando in una persona ci sono importanti nodi irrisolti, nel processo che conduce alla conoscenza, si cominci proprio da lì: è questo in parte anche il senso del famoso motto socratico «conosci te stesso». Personalmente, sin da quando scrissi il mio primo libro, alla fine degli anni Novanta, ho ricercato le cause per cui sentivo la necessità opposta a quella di Onfray, ossia la necessità di costruire universali ed assoluti più solidi ed al contempo più dotati di senso rispetto a quelli che avevo ritrovato nella pur gloriosa storia della filosofia, specialmente in quella classica. Ricercai innanzitutto la risposta nel mio vissuto, che una forma di personale riservatezza un "valore" che reputo sano ed estendibile, in un mondo di solitudini isolate in cui invece, anche tramite i social network, si tende a mettere ogni cosa in piazza, come se la nostra vita dovesse essere un palcoscenico sempre funzionante - mi impone di tenere per me; tuttavia, nel tempo, ho compreso che quella genesi psicologica costituiva la spiegazione di una sola parte del tutto, poiché la genesi storico-sociale, il fatto cioè di come il contesto storico-sociale in cui viviamo influenzi i nostri pensieri, è da considerare molto più importante in termini esplicativi (per comprendere quella realtà che comunque, sola, illumina la verità). All'ambiente capitalistico in cui, come tutti, sono inserito, e che inevitabilmente plasma anche la mia persona49, per una serie di contingenze fortunate ritengo di essere riuscito a rispondere nella maniera migliore possibile, ossia non lasciandomi schiacciare dal conformismo concretistico, né lasciandomi deturpare dalla compensazione narcisistica, e nemmeno lasciandomi spegnere nella desolazione depressiva, o in altro modo; ho cercato di reagire - avendo avuto la fortuna di incontrare i solidi contenuti onto-assiologici della filosofia greca classica - resistendo, ossia edificando nella mia vita e soprattutto nella scrittura, un progetto ideale di comunità armonica cui cerco di attenermi e che in generale tento di favorire. Tutto questo mi ha aiutato e mi aiuta tuttora, in vari modi, anche

a scansare - pur da critico sistemico quale sono - la protesta anarchica e ribellistica insita anche nelle tesi di Onfray. Queste tesi conducono infatti alla fine a non raggiungere, a mio modo di vedere, grandi risultati, in quanto escludono dal discorso l'analisi della totalità sociale, ed anzi rifiutano proprio questo approccio, ritenendolo appunto «totalitario» e preferendo fermarsi al piano «individuale». Onfray si dichiara in effetti edonista ed anarchico; proprio nelle pagine iniziali di questo libro egli afferma, in merito, che «l'edonismo è per la morale quello che l'anarchismo è per la politica: una alternativa vitale, voluta da un corpo che ricorda» (pag. 6). Ora: è buona cosa, come detto, essere consapevoli di questo ricordo genetico, perché la coscienza di una vita è sempre incentrata sul ricordo; occorre tuttavia sempre ben distinguere, come sapeva Hegel, la genesi particolare di una tesi dal suo valore generale; si può infatti anche avere chiara la genesi psicologica di quello che si è scritto/ ma se poi le tesi cui si giunge non possiedono valore veritativo, o ne possiedono di assai limitato (spesso per la scarsa consapevolezza della influenza del contesto storico-sociale in cui la genesi psicologica ha visto la luce), allora il filosofo, così come il letterato o lo storico, non può dire di aver raggiunto il proprio scopo, che è sempre quello di fare luce sulla realtà nella maniera più universale possibile. Per Onfray, la scrittura pare infatti essere una continua forma di autoterapia, di liberazione catartica dall'autoritarismo repressivo così tanto sofferto negli anni giovanili; per questo motivo, nella sua opera, l'individuo appare il primo ed insieme l'unico punto di riferimento, in maniera però niente affatto universalistica. Come egli stesso afferma, l'individuo è «ciò che rimane quando si è spogliato l'uomo di tutti i suoi orpelli sociali. Sotto gli strati successivi che determinano il soggetto, l'uomo, la persona, si trova il nocciolo duro indivisibile» (pag. 34); ed ancora: «l'individuo resta irriducibilmente la pietra angolare con la quale si organizza il mondo» (pag. 34). Va ribadito chiaramente, in merito, che una posizione filosofica edonistico-individualistica è, per certi aspetti, comprensibile, poiché è vero che ciascuno vede il mondo principalmente con i propri

occhi, ossia appunto con la propria specificità; tuttavia, l'aspetto storico-sociale non può essere eliminato dall'analisi come un "orpello", e questo in quanto l'uomo, "l'individuo" appunto, è sempre, inevitabilmente, un ente storico e sociale. In questo senso, l'antropologia di Aristotele risulta tuttora un punto di riferimento imprescindibile, che le varie teorizzazioni à la Hobbes - le quali indicano nell'uomo un ente egoista ed asociale - non hanno minimamente scalfito; queste teorizzazioni (o, meglio, queste asserzioni non dimostrate) hanno infatti avuto successo solo in quanto si sono prestate ad affermare l'esistenza di un uomo tale e quale a quello desiderato dal capitalismo, ossia un individuo dedito al lavoro, al consumo ed allo svago, assolutamente passivizzato in rapporto alla totalità sociale ed alle ingiustizie in essa presenti. Onfray, tuttavia, marginalizza completamente il pensiero di Aristotele, di cui non parla quasi mai (forse perché un po' "a metà strada" fra Platone ed un certo edonismo moderato, il che non gli consente le sue consuete iperboli), e mostra anzi una certa acredine contro i vari pensatori metafisici ed utopistici. A suo avviso, infatti, «tutte le utopie dichiarate [...] hanno posto questo assioma: l'individuo deve essere distrutto, poi riciclato, e integrato in una comunità fornitrice di senso» (pag. 36). La tesi di fondo che anima, in sostanza, l'opera di Onfray, è che ogni progettualità filosoficopolitica coincide tout court con una sorta di esperimento di ingegneria sociale, inevitabilmente votato alla dittatura ed alla violenza, che cancella la realtà dell'individuo. Tuttavia Onfray, che dichiara di conoscere ed apprezzare Marx (anche se i suoi autori preferiti sono altri, ossia Nietzsche, Foucault, Deleuze ed i vari libertini), dovrebbe ben sapere che al centro del suo progetto comunista vi fu il concetto di «libera individualità sociale», che qualifica Marx come un pensatore umanista nel senso migliore del termine50; per questo motivo, forse, avrebbe dovuto chiarire che il pensiero di Marx c'entra davvero poco o nulla con i vari "comunismi" storicamente esistiti. Onfray, però, non lo fa, e ciò accade verosimilmente in quanto, come poc'anzi ricordavamo, chi vuole curare le ferite di una sofferenza tende più alla narrazione che alla argomentazione;

questo però non aiuta affatto il lavoro filosofico, tanto che ritroviamo, nelle pagine di Onfray, soprattutto asserzioni antimetafisiche non dimostrate, come le seguenti: «Ogni volta è in nome del tutto che si induce a farla finita con la parte» (pag. 36); «Smettiamola con le dichiarazioni di principio, con le grandi idee [...]: né trascendentali, né universali, né concetti, né idee pure» (pag. 45); «occorre decostruire il soggetto dei diritti dell'uomo e la persona dell'umanesimo, a vantaggio di una nuova figura disegnata sulla sabbia scoperta dal mare, un altro volto per un nuovo tipo di rapporto col mondo e con gli altri» (pag. 169); e così via. Queste affermazioni sono indubbiamente molto suggestive, ma quando si ha a che fare con una totalità sociale come quella capitalistica, principalmente dedita proprio a rigettare i principi universali, i grandi ideali, i diritti sociali (ossia l'umanesimo nelle sue varie forme), occorrerebbe premurarsi innanzitutto - dato che questi concetti qualche positivo contenuto concreto lo veicolano - di non giocare per il re di Prussia, ossia di non favorire lo stesso modo di produzione capitalistico che è causa, fra l'altro, di quella generale disumanizzazione che anche Onfray lamenta. Senza argomentare fondatamente come dovrebbe strutturarsi una totalità sociale per essere migliore, ben difficilmente si può offrire una qualche proposta costruttiva che non sia il mero rifugio nella individualità all'ombra del potere, una situazione - come ancora il tanto deprecato Hegel ben comprese - assai presente anche nella ''neoellenistica" modernità. Onfray procede comunque per la propria strada, ed allora, nella sua opera, ritroviamo continuamente affermazioni come quella secondo cui gli universali, i trascendentali, «il Giusto, il Vero, il Bello, la Legge, lo Stato, il Sapere [...], il Diritto, la Morale» sono solo «mitologie con le quali si perpetuano le sottomissioni» (pag. 194). È vero che chi si accontenta gode - come dovrebbe pensare l'edonista Onfray51 -, ma finché si attribuiranno le cause del grande disagio materiale e spirituale delle persone ai trascendentali metafisici anziché all'attuale modo di produzione sociale, mi sembra difficile che si possa godere veramente; se non, appunto, in maniera solipsistica ed individuale, e dunque, come tale, effimera e

manchevole.

49

Sulle modalità con cui il modo di produzione capitalistico plasma la personalità degli uomini, rinvio a L. Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2005, con introduzione di Mario Vegetti. 50

In questa direzione, fra gli altri, l'ottimo libro di C. Preve, Marx inattuale, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. 51

«La totalità del mio lavoro resta sottoposta al progetto di elaborare una filosofia edonistica, libertina e libertaria che consenta di formulare un nietzschianesimo di sinistra per la nostra epoca posteriore alla morte di Dio» (pag. 295).

Fernando Savater

ETICA PER UN FIGLIO

F. SAVATER, Etica per un figlio, Laterza, Roma-Bari, 1992, ed. or. 1991.

Da quando sono diventato papà, oramai più di quattro armi or sono (il 15 dicembre 2007), provo particolare interesse per le modalità con cui i contenuti filosofici, ed in particolare quelli etici, possono essere trasmessi ai figli già dalla tenera età. È evidente che, più i bimbi sono piccoli, e più è importante «l'esempio», la «pratica» dei buoni comportamenti più della «teoria». Quando, però, i bambini crescono, anche la teoria - o, meglio, il corretto modo di fargli arrivare la buona teoria (ricordiamo che il prevalente significato della parola theoria, in greco antico, era quello di festa) diventa importante. Ho così studiato un po' la cosiddetta Philosophy for childrens (P4C, scrivono gli anglosassoni), traendone una impressione contrastante: essa infatti da un lato offre utili consigli per favorire i corretti ragionamenti dei bambini, la consapevole espressione delle loro emozioni, la chiara esposizione dei loro pensieri; dall'altro, però, essa risulta essere priva di un preciso orientamento etico: anzi, la tesi di fondo che esprime è in sostanza il relativismo, ossia l'idea per cui, sulle questioni etiche, ogni affermazione va bene purché sia argomentata. Senza entrare troppo nel merito della P4C, quando ho letto il titolo di questo libro di Fernando Savater, filosofo spagnolo molto noto e tradotto in varie lingue, ho provato molta curiosità; confesso

infatti che, da quel poco che avevo fino ad allora appreso dei suoi libri, avevo sempre ritenuto Savater un discutibile divulgatore di tematiche etiche. Mi piacerebbe molto poter affermare il contrario ma purtroppo, dopo la lettura di questo libro, questo "pregiudizio" è stato ampiamente confermato; poiché tuttavia nel campo dell'educare un figlio "nessuno nasce maestro", potrà essere utile soffermarsi sulle sue tesi, per ragionare su cosa sia preferibile o meno fare in certe situazioni anziché in altre. Il libro comincia - in omaggio al clima relativistico del nostro tempo - con una dichiarazione di sostanziale scetticismo di Savater, il quale afferma di essere «convinto che non sia compito dell'etica offrire risposte ai dibattiti, anche se le spetta sempre il compito di aprirli» (pag. VII). Ritroviamo dunque la consueta tesi in base a cui la filosofia (l'etica) non deve fornire risposte, ma semplicemente fare domande, specialmente nella forma di "dibattito" (perché dialogare se non ci sono spettatori?); ebbene, ancora una volta condividendo le tesi espresse in più occasioni da Enrico Berti52, vorrei rimarcare che non è affatto possibile una reale interrogazione filosofica (o etica), ossia una domanda, senza la chiara volontà di pervenire ad una risposta: sostenere il contrario è solo frutto di ipocrisia. Nel commentare questo libro, va detto inoltre che occorre essere consapevoli che questo genere di saggi - si tratta di una sorta di "dialogo" con un figlio adolescente - conduce spesso alla battuta, al motto di spirito, alla narrazione divertita; tuttavia, siccome questo vorrebbe essere un testo "etico" ed "educativo", mi si perdonerà se faccio il "moralista" affermando che è poco serio - soprattutto in quanto vuole rappresentare realmente un contesto famigliare - che esso sia infarcito di dichiarazioni "postmoderne" come quella, iniziale, secondo cui «un genitore che fa discorsi di filosofia bisogna stare a guardarlo con la faccia interessata, sognando il momento in cui si potrà finalmente correre a guardare la televisione» (pag. X). Cito solo questa, e risparmio le altre, ma ugualmente mi chiedo: perché mai un figlio non dovrebbe essere interessato, a 14 anni, ad apprendere dal padre, rinomato filosofo, le cose più importanti della vita? L'età mi pare quella giusta, e nonostante il rapporto fra padre

e figlio possa spesso essere conflittuale, il motivo non mi pare sufficiente per poter affermare che l'educazione filosofica debba necessariamente essere percepita oggi, dai giovani, come così noiosa. Uno dei pregi maggiori di questo libro è comunque quello di rimarcare la rilevanza, anzi la indispensabilità, dell'etica: «Tra tutte le scienze ne esiste almeno una di cui non si può fare a meno: sapere che alcune cose ci convengono ed altre no [...], sapere che cosa ci è utile, ossia distinguere tra il bene e il male, è una conoscenza che tutti cerchiamo di acquisire, perché è vantaggiosa» (pag. 4). Anche qui vi è però qualcosa da rilevare. Pur concordando infatti, come accennato, sulla importanza dell'etica e sul suo avvicinamento alla utilità personale (in fondo, anche per gli antichi Greci la Verità-Bene era l'espressione, sul piano onto-assiologico, dell'ideale funzionamento della comunità sociale), il fatto che Savater non parli qui di utilità collettiva ma solo di utilità individuale, può far passare l'idea che le concezioni etiche più sagge siano quelle di stampo utilitaristico, secondo cui «ciò che è utile a me, è in generale bene». Savater è consapevole di questo rischio ma, anziché esplicitarlo, gioca tutta la propria operazione culturale sul leit motiv relativistico della complessità (termine "metaforico" che dovrebbe solo stare a significare che le relazioni fra le variabili della vita umana sono molteplici ed interrelate, sicché non è facile conoscerle, né tanto meno prevederne gli effetti complessivi; purtroppo questa metafora concettuale, come noto, è utilizzata quasi sempre come alibi dagli studiosi per evitare di formulare risposte su temi essenziali); egli ripete infatti incessantemente, durante tutto il testo, che saper vivere bene è difficile, complicato, per cui, anche «a prima vista, l'unica cosa su cui tutti siamo d'accordo è che non tutti siamo d'accordo» (pag. 6), sicché è bene innanzitutto pensare al proprio utile. Lo schiacciamento della teoria sulla pratica, dell'ideale sull'effettuale - ossia la tesi per cui non importa se esiste o no, ad esempio, una definizione di verità o di bene, importa solo cosa se ne

pensa -, è in effetti una costante nell'opera filosofica di Savater; tuttavia, evitare questo schiacciamento per elevarsi al piano ideale, che è poi quello precipuamente filosofico, dovrebbe essere il compito che chi si occupa di filosofia si deve imporre di raggiungere. Savater, però, incentra tutto il proprio messaggio educativo non tanto sulla importanza di conoscere, quanto cosa che dovrebbe venire solo dopo - sulla importanza del "volere" e del "fare" (ciò mi pare peraltro una concessione ideologica alla mentalità capitalistica dominante), avvertendo il proprio figlio che «quello che sarà la nostra vita, almeno in parte, è il risultato di ciò che ognuno di noi vuole» (pag. 6). Peccato solo che la libera volontà, per essere tale e non condizionata dalle modalità sociali dominanti, dovrebbe basarsi su una conoscenza filosofica, che è proprio ciò su cui lo stesso Savater è più scettico! Qui centriamo il cuore della questione: Savater insiste infatti col figlio che tutto ruota intorno al fatto di saper usare bene la propria «libertà»53, che è ciò che ci distingue dagli altri animali. Tuttavia, egli coniuga tale concetto in modo sostanzialmente individualistico, e ciò non favorisce una buona comprensione della libertà, di cui sia i Greci che Hegel hanno invece fornito una versione "necessitarìstica" (mostrando cioè che si è realmente liberi solo facendo ciò che "necessariamente", in base alla nostra essenza, ci qualifica come uomini) molto declinata sul piano sociale; affidarsi solo alla concezione individuale-contemporanea della libertà conduce infatti quasi inevitabilmente ad abbandonare le proprie scelte etiche all'arbitrio, e dunque in pratica ad affidarsi ai diktat delle ideologie edonistiche prevalenti. Questo accade sempre in assenza di norme morali universalistiche fondate, chiare e condivise, di cui principalmente l'etica dovrebbe occuparsi. Il semplice criterio della "libertà", infatti, non fornisce alcuna risposta, ad esempio, circa la "necessità" o meno di reagire contro soprusi ed ingiustizie perpetrati contro i più deboli; il criterio della "utilità personale", anzi, scoraggia questo tipo di interventi, mentre il criterio della "Verità-Bene", che ritengo preferibile e che ho esposto nei miei libri, conduce esattamente all'esito opposto. L'approccio di Savater però, purtroppo, pare tutto rivolto verso la ricerca della

utilità individuale: «Per sapere se una cosa è davvero conveniente per me, devo esaminare più a fondo quello che faccio, ragionando da solo» (pag. 28); non, certo, che egli inclini verso una visione biecamente utilitaristica, ma certo rimarcare l'importanza del dialogo, specie ad un giovane non ancora pienamente autonomo nell'autocoscienza, sarebbe a mio avviso stato preferibile. In ogni caso, l'ambivalenza che pare emergere nelle oscillanti indicazioni di Savater, come sempre accade in questi casi, riflette una incertezza sul tema del fondamento; le teorie filosofiche e morali si differenziano infatti sempre, soprattutto, in base all'ente che considerano come fondamento onto-assiologico di riferimento. Non a caso, l'autore dice al figlio: «Sai perché non è semplice dire quando un essere umano è buono e quando non lo è? Perché gli esseri umani non sappiamo a cosa servono» (pag. 31); o, meglio, non sappiamo cosa sono (secondo Savater), dunque non possiamo conoscerne il vero ed il falso, il bene ed il male, il giusto e l'ingiusto. Partendo da questa premessa scettica, l'esito della prospettiva etica di Savater, in assenza di un preciso fondamento, non può che confluire nel relativismo: «Non c'è una regola unica per essere un buon essere umano [...]. Ci sono tanti modi di esserlo, e tutto dipende dall'ambito in cui ciascuno si muove» (pag. 32). Dietro il pretesto - che è anche una "verità" data la problematicità della esperienza, ma è soprattutto un punto di partenza, non l'esito inevitabile di una riflessione filosofica - della molteplicità di possibilità che la vita ci pone di fronte, su cui anche Aristotele nelle sue Etiche aveva insistito, Savater giunge alla conclusione che è possibile applicare solo una sorta di «etica della circostanza», che ricorda la «etica del viandante» propagandata oggi in Italia, fra gli altri, da Salvatore Natoli e da Umberto Galimberti54. Savater afferma infatti di voler porre «il precetto fa quello che vuoi come postulato fondamentale di quest'etica che stiamo mettendo insieme a tentoni» (pag. 35); precetto che può anche essere corretto, ma solo se la «volontà» è già formata, non quando appunto deve ancora formarsi mediante una adeguata conoscenza filosofica.

Sicuramente, Savater dice bene quando afferma che non ci si deve far condizionare dall'esterno, ma che si deve rispondere solo al «tribunale interno della propria volontà» (pag. 35). Tuttavia, per poterlo fare, occorre ancora una volta conoscere bene dapprima la totalità sociale, poi se stessi, ed infine - su questa base - le varie esperienze che accadono; l'etica, insomma, richiede innanzitutto un po' di "filosofia", e questo Savater non mi sembra lo affermi mai in maniera molto decisa. Per questo egli giunge, nel dialogo col figlio, ad osservazioni che possono essere condivisibili in generale, ma che richiederebbero prima un certo processo di conoscenza - che non può essere dato per scontato, sia in quanto non lo è affatto, sia in quanto da esso dipende l'esito finale della operazione - per poter essere messe in pratica in modo corretto; Savater dice infatti a suo figlio: «Non chiedere a nessuno come devi gestire la tua vita: chiedilo a te stesso» (pag. 35), il che è corretto solo con la premessa poc'anzi esplicitata! Quanto affermo non costituisce del resto una novità, ma qualcosa che il buon senso del pensiero greco, pensiero altamente educativo, aveva già perfettamente compreso. I Greci pensavano infatti che colui il cui carattere non era ancora completamente formato, necessitasse di una guida e non della piena "libertà", in quanto essa, in questi casi, si trasforma in arbitrio, dannoso per sé e per gli altri; quale genitore non sente il bisogno, a questo fine, di diventare per il proprio figlio un riferimento, ponendolo così nel tempo realmente nella condizione di poter utilizzare al meglio la propria libertà? Nella seconda metà del libro, comunque, il testo migliora, e la visione etica di Savater si allarga. L'autore afferma ad esempio che «cercare di vivere bene non può essere molto diverso, in fondo, dal far vivere bene gli altri» (pag. 42), e che non ci si deve legare troppo alle cose, in quanto «le cose che possediamo allo stesso tempo possiedono noi: ciò che possediamo ci possiede» (pag. 47); ed ancora, in modo altrettanto condivisibile e sempre nella direzione di un ampliamento in senso comunitario dell'etica: «Tutti gli interessi che puoi avere sono relativi [...] tutti eccetto un interesse, l'unico assoluto: quello di essere umano tra gli esseri umani, di trattare gli altri ed essere trattato umanamente,

condizione indispensabile per una vita autentica» (pag. 79). Tutto ciò mostra come - implicitamente - l'uomo sia sempre, anche per Savater, il fondamento di una buona concezione etica; fondamento che però, per produrre i migliori effetti, deve essere compiutamente esplicitato sul piano teoretico. Alla luce, appunto, del fatto che il fondamento umanistico dell'etica non viene ben esplicitato, in quanto esso resta nella filosofia di Savater inconsapevole, indeterminato ed incerto, il testo chiude come aveva iniziato - e forse anche peggio -, ovvero con un attacco a tutte le riflessioni sulla totalità sociale, dato che a suo avviso «il sistema politico desiderabile» (pag. 102) non dovrà prescrivere nulla sul piano etico; siamo pur sempre nell'epoca della libertà! Se, sul piano collettivo, Savater attacca l'utopismo, sul piano individuale egli attacca «il moralismo», di cui ritiene espressione anche il «fare la predica sui mali del nostro tempo», ovvero «il consumismo, la mancanza di solidarietà, l'ansia di guadagno, la violenza, la crisi dei valori» (pag. 112). Come se essi non fossero realmente dei mali da criticare! Di attacchi al «moralismo», al «puritanesimo», ecc., nel nostro paese se ne sono ultimamente visti molti, spesso operati da giornalisti interessati a parteggiare per l'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in relazioni a vari scandali sessuali che lo hanno coinvolto (penso, ad esempio, alle manifestazioni di Giuliano Ferrara). Oggi in effetti gli attacchi al «moralismo», quando non sono mere prese di posizione interessate alla difesa dei potenti di turno (allentando il giudizio morale, e tramite esso mediaticamente quello legale, tutto viene permesso...), rappresentano prevalentemente - parlo qui in generale, non con riferimento a Savater - la mera sottomissione alle esigenze del mercato, che ha la continua necessità di colonizzare sempre nuovi campi, ed ha dunque bisogno che le barriere etiche siano fragili ed oltrepassabili per mercificare cose in precedenza non mercificabili. Tuttavia, la saldezza di queste barriere fondamentali è proprio il contenuto etico più importante che, in particolar modo oggi, dovrebbe costituire il principale messaggio educativo da dare ai figli. Questo mi pare non emerga in modo sufficiente nel libro di Savater.

52

Mi permetto di rinviare, in merito, ad una mia monografia sul pensiero di Enrico Berti, che dovrebbe uscire entro il 2013 per la Pontificia Università Lateranense. 53

«La libertà è la questione di cui si occupa specificamente l'etica» (pag. 26). 54

Mi permetto di rinviare, in merito, a L. Grecchì, Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, ed a U. Galimberti - L. Grecchi, Filosofia e biografia, Petite Plaisance, Pistoia, 2005.

Peter Singer

LA VITA COME SI DOVREBBE

P. SINGER, La vita come si dovrebbe, Il Saggiatore, Milano, 2001, ed. or. 2000.

Filosofo australiano nato nel 1946, esperto soprattutto di etica ed in particolare di «etica pratica», Singer è noto nel mondo anglosassone -oltre che per due monografìe sul pensiero di Hegel e Marx - per avere affrontato, con grande chiarezza, le tematiche dell'aborto, dell'eutanasia ed in generale della vita nelle sue condizioni più diffìcili (malattie invalidanti, stati terminali, ecc.). In Europa, ed in particolare in Italia, affrontare queste tematiche schierandosi per la «libertà di scelta» delle persone comporta sempre qualche problema, dato che il sentire comune dominante rimane quello della Chiesa Cattolica, che in queste circostanze si schiera sempre sostanzialmente in favore della «vita», e dunque contro la «libertà di scelta»; Singer ha però portato avanti le proprie battaglie negli Stati Uniti, e ciò, su questi temi, gli ha sicuramente concesso maggiori margini di manovra. Rispetto a certo pensiero anticattolico, che personalmente reputo piuttosto antipatico (penso, in Italia, al gruppo di Micromega, o a pensatori come Piergiorgio Odifreddi), Singer ha il merito di argomentare sempre in modo chiaro e convincente, senza un inutile livore, e questo è già un punto importante. Tuttavia, in questa sede, non ci occuperemo delle tematiche anzidette, che pure in questo libro - una sorta di miscellanea dei suoi saggi più rilevanti, in cui affronta una pluralità di questioni - sono presenti, e nemmeno del suo "cavallo di battaglia", vale a dire la lotta per i diritti degli

animali, che gli ha dato, negli Stati Uniti, una grande notorietà. Affronteremo invece principalmente quella che è, a mio modo di vedere, la "questione delle questioni" - che pure non trova minimamente posto nelle trattazioni filosofiche -, vale a dire la questione della povertà nel mondo e della conseguente morte per fame, che riguarda ogni anno milioni di esseri umani. La questione, come noto, è solitamente confinata al campo della economia politica, ed in particolare a quella parte della medesima, riserva solitamente di studiosi marxisti, chiamata «economia del sottosviluppo», o in modi analoghi. Già la riconduzione della questione al mero piano economico è fortemente discutibile (nonostante l'economia politica, almeno trattata in ottica marxista, abbia ancora, tra le poche discipline accademiche rimaste, discreti margini di ampiezza)55; ricondurre poi la questione della "povertà" a quella del "sottosviluppo", è impostazione fortemente ideologica ed indubbiamente errata. Non è però questa la sede per affrontare questo tipo di considerazioni. Mi limito in merito a rimarcare che, nella antica Grecia, la filosofia nacque proprio come comprensione e conseguente valutazione dell'intero, ossia come critica costruttiva della totalità sociale, che come tale appunto deve prendere in carico anche la questione della povertà. Gli antichi Greci sapevano infatti che la buona vita, la realizzazione della propria umanità, la felicità, passa necessariamente non solo dalle scelte individuali, quanto soprattutto dalle condizioni generali che rendono tali scelte possibili o non possibili, sia sul piano individuale che collettivo; questa è la filosofia e, sinceramente, la questione che miliardi di persone soffrano ogni giorno le pene dell'inferno solo per sopravvivere, mentre altri miliardi vivano stupidamente ma (da questo punto di vista) tranquillamente, mi pare una questione massimamente filosofica. Ciò in quanto nessuno può ritenere di vivere bene, di essere in pace con se stesso, di essere davvero felice, in una condizione di sofferenza estrema così diffusa dei propri simili. L'approccio di Singer, che si basa molto sulla valutazione etica del singolo comportamento individuale in rapporto a questi

problemi, non riprende affatto le analisi marxiste sull'imperialismo, sul colonialismo, ed in generale sulle strutture di funzionamento del modo di produzione capitalistico, che pure mi paiono corrette nell'essenziale e preferibili agli approcci liberali; tale approccio risulta invece paradigmatico di un sentire comune molto diffuso nella cosiddetta "sinistra", e non può affatto -proprio in quanto molto diffuso - essere accantonato, bensì deve essere approfondito. Facciamo, in ogni caso, un passo alla volta. Innanzitutto, Singer si differenzia dagli altri filosofi di etica del mondo anglosassone, di stampo tipicamente analitico, in quanto non si limita a descrivere, ma tende anche a valutare; sostenendo, infatti, di avere iniziato ad occuparsi di etica sin dagli anni settanta, sotto l'influsso della cultura marxista, egli rivendica il proprio approccio onto-assiologico sostenendo che «lo studio dell'etica, nelle facoltà di filosofia del mondo anglofono, si concentrava a quei tempi sull'analisi del linguaggio morale, o si supponeva fosse moralmente neutrale, cioè che non producesse alcun giudizio sul fatto che qualcosa fosse giusto o sbagliato, buono o cattivo. Un filosofo morale, secondo l'idea più diffusa, non era un esperto di questioni morali» (pagg. 11-12). Non so se questa fosse realmente l'idea più diffusa all'epoca (ai filosofi morali questo genere di "competenza", quanto meno "tecnica", mi pare sia sempre stata riconosciuta; che poi essi siano stati poco ascoltati, specie se critici verso le idee dominanti, è un altro problema...). Ciò nonostante è lodevole, in campo accademico, quanto meno sostenere la tesi - antiweberiana ed in questo senso antimoderna - secondo cui i fatti etici e politici non devono solo essere compresi, ma devono insieme anche essere giudicati. È diffusa infatti, nel senso comune, la tesi secondo cui "non è giusto giudicare nessuno". Chi, come me, non è più giovanissimo, ricorderà la famosa canzone degli armi Sessanta, di Caterina Caselli, intitolata Nessuno mi può giudicare, sostanzialmente in linea con la tendenza sessantottina a favorire una sregolata "libertà di costumi", che poi nel tempo si è dimostrata essere uno dei grimaldelli più importanti per favorire l'ampliamento della

penetrazione della mentalità capitalistica a settori fino ad allora poco mercificati. Tuttavia, il fatto che generalmente si dica - spesso con compiacimento - che non si vuole giudicare nessuno (magari proprio mentre si esprime un giudizio), rappresenta non solo una affermazione ipocrita, ma anche falsa. L'uomo, infatti, giudica così come mangia o respira, e se non lo facesse non sopravviverebbe; il giudizio è connaturato alla stessa essenza razionale e morale del genere umano, sicché l'uomo non potrebbe fare a meno di giudicare nemmeno se lo volesse. Chiarito questo punto, veniamo ora al tema principale, ossia alla povertà del mondo, nei confronti della quale Singer ci costringe ad un duro esame di coscienza. L'approccio di Singer è infatti, come detto, di tipo eticoindividuale; Singer, cioè, non afferma né (come fanno i marxisti) che le strutture della produzione e della proprietà nel loro complesso vadano mutate, né (come fanno i riformisti) che le modalità complessive della redistribuzione vadano mutate. Questa doppia assenza (soprattutto la prima) costituisce certo un limite della sua impostazione, ma non è nemmeno questo il punto su cui voglio qui soffermarmi. Tale punto è che, a suo avviso, il comportamento attuale di ciascuno va mutato, in quanto sulle scelte individuali di ognuno grava la responsabilità della vita o della morte di un bambino dell'Africa, o del Sud America, o dell'Est Europa. È evidente come, nella situazione attuale, il ragionamento di Singer sia da condividere: esso peraltro è in linea con l'attuale proliferare, sui mass media, di pubblicità di onlus, ossia di associazioni senza apparente scopo di lucro, che ci ricordano che con una piccola rinuncia quotidiana è possibile salvare o migliorare la vita di un bambino; in generale, quando un fenomeno diventa mediaticamente troppo esteso, è sempre bene porsi qualche domanda, ma la cosa va comunque nella giusta direzione, e dunque va sostenuta. Il lettore potrà sicuramente chiedersi: ma come, il "comunista" Grecchi condivide la posizione di Singer che la grave povertà del mondo va risolta con la buona volontà individuale? In questi termini ovviamente no, in quanto ritengo che dovrebbe essere mutato il

modo di produzione sociale complessivo. Eppure, l'argomento di chi sostiene in generale la coerenza fra pensiero e vita, ed in particolare la tesi che i comunisti dovrebbero per primi dare l'esempio con la loro vita, non è da relegare ai margini come un portato ideologico borghese; essa è infatti, nella sostanza, corretta ma occorre impostare il discorso in maniera compiutamente filosofica, riferendosi alla totalità sociale, per ottenere risposte più costruttive al problema. Questa impostazione è però assente in Singer, che si limita ad affermare che «non possiamo sfuggire alla responsabilità di queste sofferenze solo perché non abbiamo fatto nulla per provocarle. Quando tante persone sono in condizioni di così grande bisogno, indulgere ai lussi non è moralmente neutrale, ed il fatto che non abbiamo ucciso nessuno non basta a fare di noi dei cittadini del mondo realmente dignitosi» (pag. 14). Occorre in questo senso Singer è critico verso il relativismo etico - adottare comportamenti universalizzabili, anche in quanto «sin dall'antichità i filosofi e i moralisti hanno espresso l'idea che la condotta morale deve risultare accettabile da un punto di vista in qualche modo universale» (pag. 32). La regola generale che egli propone, con particolare riferimento appunto alle grandi povertà, è in effetti una regola universale: «Se è in nostro potere impedire un male, senza con ciò sacrificare nulla che abbia una analoga importanza morale, allora siamo di fronte all'obbligo morale di agire» (pag. 128). La applicazione diffusa di questo principio condurrebbe, come Singer ben comprende, a rivoluzionare l'intera società; ma solo il rivoluzionamento della totalità sociale può portare alla applicazione diffusa di un simile principio. Singer, tuttavia, non si pone mai nell'ottica - propriamente filosofica - del rivoluzionamento della totalità sociale, della radicale trasformazione dei rapporti di proprietà e delle strutture produttive; per questo motivo sia quando propone, sul piano politico, generali processi redistributivi, sia quando propone, sul piano etico, di «donare tanto da far sì che la società dei consumi [...] si indebolisca e forse sparisca del tutto» (pag. 137), egli risulta essere piuttosto velleitario, rischiando la consueta accusa hegeliana di essere una "anima bella". Uno dei

contenuti più importanti della dottrina di Marx ed Engels mostra infatti che le modalità della redistribuzione sono un risultato diretto delle modalità della produzione, le quali dipendono strettamente dalle forme della proprietà; queste modalità saranno privatistiche finché prevarranno le forme e le logiche della proprietà privata, mentre diverranno comunitarie allorché prevarranno le forme e le logiche della proprietà comune. La proposta di Singer rimane invece sul piano etico-individuale; in merito ad essa, è peraltro lecito chiedersi se un mondo strutturato sulla carità, sulla solidarietà, e dunque sulla mancanza di dignità di molti, sia realmente un mondo auspicabile: di tale cosa è fortemente lecito dubitare. Non possiamo, però, domandare ad un autore più del contributo che egli può dare; dobbiamo limitarci ad analizzarlo, valutarlo, e trarre dal suo messaggio tutto ciò che può essere utile (senza tuttavia dimenticarci, se necessario, anche di criticarlo).

55

In Italia, gli economisti Giorgio Lunghini e Giovanni Mazzetti rappresentano in questo senso gli esempi maggiori.

Robert Spaemann

PER LA CRITICA DELL'UTOPIA POLITICA

R. SPAEMANN, Per la critica dell'utopia politica, Franco Angeli, Milano, 1994, ed. or. 1977.

Filosofo tedesco, cattolico, amante dei classici, dotato del raro dono della chiarezza e della significatività, Spaemann è autore apprezzato di diversi libri molto interessanti. Personalmente, condivido parecchie tesi fra quelle espresse da Spaemann, sia in generale che nello specifico in questo testo. Penso ad esempio alla tesi - che va contro la mentalità dominante, la quale esalta la democrazia - secondo cui il consenso maggioritario non può essere la fonte principale della validità normativa, in quanto la verità non può essere messa ai voti (il consenso può infatti riposare sull'errore, come avvenne per la condanna a morte di Socrate); penso inoltre alla tesi, ad essa strettamente connessa, secondo cui esiste qualcosa di "vero" e di "giusto" in base a cui decidere, e questo è ciò che è conforme alla «natura umana» (da cui anche la rivalutazione operata da Spaemann del «diritto naturale»). Nonostante i punti interessanti siano molti, non tutte le tesi espresse da Spaemann risultano però - come è normale che sia convincenti; in particolare, in questo libro, ve ne sono alcune fortemente discutibili su cui può essere importante soffermarsi in quanto, da sempre, il dialogo filosofico non verte mai sui punti di accordo, ma sui punti di disaccordo. Comincio allora col rimarcare, innanzitutto, che la tesi di fondo espressa da Spaemann in questo libro è la critica della cosiddetta «ideologia della emancipazione»,

intesa - come a suo avviso fa il marxismo - come «un generico processo umano di liberazione senza fine, ossia senza la definizione di quello stato nel quale la liberazione può dirsi raggiunta, e tutte le esigenze soddisfatte» (pag. 15). Concordo, in linea di massima, nel sostenere che certo marxismo, specie quello meno ortodosso e più "sessantottino", ha abusato della tematica della emancipazione, anelando - senza quasi mai descriverli - fantasiosi «processi umani di liberazione senza fine». Tuttavia il tema della emancipazione, così come quello della alienazione, può anche essere trattato in modo definito e fondato (alienazione come derealizzazione della natura umana indotta dalle modalità sociali, ed emancipazione come processo di disalienazione), ed anzi deve esserlo, in quanto abbandonare queste tematiche - penso alla tesi, althusseriana ma non solo, secondo cui questi concetti andrebbero invece eliminati in quanto non scientifici - significa impoverire irrimediabilmente la riflessione filosofica, e con essa la progettualità politica. Spaemann coglie bene, come hanno del resto fatto molti altri dopo di lui, che la vaghezza di certa ideologia marxista (un bersaglio che potrà apparire un po' démodé, ma il libro è stato scritto nel 1977) rappresenta una sorta di «teologia secolarizzata» (pag. 15); tuttavia la sua critica alla centralità del tema della emancipazione, così come quella - su cui punta l'intero libro - al concetto di utopia politica, mi pare eccessiva e non condivisibile, in quanto la "liberazione" che certo marxismo propone in termini vaghi coincide spesso con quella che, in termini più concreti, altro marxismo identifica con la eliminazione della povertà e della alienazione. Spaemann fa bene, dunque, a richiedere attenzione critica verso i vari "cattivi infiniti" che possono essere esposti in forma utopica (come ad esempio un «mondo di infinita disponibilità di beni» che il marxismo, a suo avviso, si porrebbe come fine), ma, sinceramente, nemmeno negli anni Settanta questo mi pareva essere il nemico teorico principale; al contrario, nel sostenere - in maniera assolutamente arbitraria - che il fine utopico di una società libera

dalla povertà «è stato riconosciuto come irrealizzabile per motivi antropologici ed ecologici» (pag. 15), egli rischia di gettare il bambino (il desiderio umano di buona progettualità) con l'acqua sporca (le difficoltà realizzati ve insite in ogni progettualità). È in effetti questo il tema dominante di tutto il libro, che si caratterizza per una continua critica al marxismo, condannato soprattutto per «appartenere al passato» (pag. 15); tuttavia - a parte la debolezza della critica di «appartenere al passato»: forse che il pensiero di Platone ed Aristotele, che peraltro rimane per Spaemann sostanzialmente valido, non appartiene al passato? - la sconfitta del marxismo non dipende solo da evidenti limiti teoretici (in particolare dal suo prevalente relativismo scientistico-storicistico privo di fondazione filosofica), ma anche da cause esterne, dovute soprattutto alla grande potenza effettuale del modo di produzione capitalistico, che ha in vario modo zittito tutte le forze e le voci critiche, specie le più intelligenti. E' sicuramente apprezzabile l'intento di Spaemann di volersi rifare al «dominio della ragione» come «alternativa al dominio dell'uomo sull'uomo» (pag. 17). Se questo secondo dominio (è chiaro peraltro il carattere ideologico della descrizione del nostro tempo come di un «dominio dell'uomo sull'uomo», come se fossimo ancora in un'epoca schiavistico-feudale e non nell'epoca del compiuto dispiegamento del modo di produzione capitalistico) però, costituisce per l'autore il problema centrale, non si comprende allora perché non trattare anche del concetto di sfruttamento, o di alienazione, o di emancipazione, ma soprattutto non si capisce perché non centralizzare il concetto marxiano per eccellenza, ovvero quello di modo di produzione sociale, che è il migliore concetto in grado di rappresentare la totalità sociale, da sempre contenuto privilegiato della filosofia. L'impressione è quella, leggendo alcuni passi del libro, di trovarsi di fronte a forme espositive "tipo documentario", in cui una voce seria e credibile annuncia ad esempio che il pianeta terra sta andando verso la distruzione ambientale «per colpa dell'uomo»; un poco più di maturità filosofica dovrebbe invece consigliare di

attribuire la responsabilità di ciò alla struttura produttiva e riproduttiva delle modalità sociali complessive, nel nostro caso alla brama di profitto delle imprese multinazionali, che scaricano sull'ambiente (di tutti) gli effetti inquinanti negativi delle loro produzioni. In questo contesto, in cui il modo di produzione capitalistico distrugge l'ambiente, favorisce la povertà di massa e produce alienazione, mi sembra davvero che Spaemann sia fuori dal mondo ponendosi come bersaglio principale «l'utopia astratta di un dominio radical-emancipatorio della ragione [...], le utopie astratte, nelle loro versioni platoniche e rousseauiano-marxiste» (pag. 17). Forse queste utopie giocano oggi, o hanno giocato negli ultimi trent'anni, un ruolo centrale? Non direi proprio. La critica sul piano politico di queste «utopie» è peraltro solitamente associata, sul piano filosofico, alla critica di concetti come «verità», «bene», «giustizia» che, se non esplicitamente presenti nei moderni Rousseau e Marx, costituivano comunque i pilastri onto-assiologici della riflessione platonica. Ebbene: va detto che in questo Spaemann si dissocia dal pensiero dominante, in quanto a suo avviso i concetti di «verità», «bene», «giustizia» sono centrali, tanto che egli tiene a ribadire, con Platone, che «esiste per l'uomo un bene comune» (pag. 17). Si tratta di una tesi molto positiva e corretta, in quanto oggi, prevalentemente, si tende ad affermare che verità e bene non esistono, per far sì in questo modo che il mercato possa continuare a far prosperare, senza disturbo, le proprie leggi; il modo di produzione capitalistico non sopporta i n f a t t i giudizi onto-assiologici, ma richiede di avere, relativisticamente, carta bianca nell'imporre le proprie modalità di funzionamento, che possono in questo modo essere fatte apparire come oggettive. Nel caso di Spaemann, non dubito che il suo odio verso le «utopie» debba farsi risalire a ciò che egli vide all'opera, in quegli anni, nella ex DDR (e non solo); tuttavia, anche da questa genesi particolare si può trarre una conclusione di validità generale (per quanto diversa da quella tratta da Spaemann). Essa è la conclusione in base a cui chi critica le utopie su base storica lo fa solitamente deformando le utopie su base teorica, ovvero

descrivendo a priori progetti politici sulla totalità sociale o come irrealizzabili, o come pericolosi. Questo è in effetti quello che fa anche Spaemann, il quale utilizza entrambe le strategie. La principale, in questa sua opera, è la strategia della «irrealizzabilità» (oggi invece, in generale, si punta sulla strategia della "pericolosità"), che egli pone in essere camuffando la progettualità comunista da proposta utopistica del paese di Bengodi; dopo aver rappresentato il comunismo in questo modo, egli ha poi buon gioco nel sostenere che è impossibile una condizione di «abbondanza, che rende superflue la ragione e la giustizia poiché consente a tutti di soddisfare tutti i bisogni» (pag. 18). Tuttavia, né il comunismo più serio ha mai pensato questo (il «comunismo più antico» anzi, ovvero quello classico-umanistico56, da Solone fino a Marx si è incentrato proprio sui concetti di «limite» e di «misura», che si concretizzano in vincoli alla durata della giornata lavorativa, alla produzione di beni, ed in generale a tutto ciò che può allontanare l'uomo dalla realizzazione della propria essenza), né ha mai pensato di «rendere superflue la ragione e la giustizia». Spaemann non disdegna talvolta anche la critica di «pericolosità» alla utopia comunista, affermando che la stessa rappresentata, anche stavolta, come un «fantoccio» - è nella sua essenza «fanatismo [...]. La più alta razionalità della morale politica non risiede nell'utopia di un radicale potere della ragione, con la quale si intende soltanto il proprio potere» (pag. 18); a suo avviso, «l'utopico è irrazionale perché esso, come un fuoco fatuo, ci attira in luoghi nei quali in realtà non desideriamo affatto soffermarci» (pag. 19). Direi però che molto dipende dalle utopie che si considerano (vivrei volentieri - quanto meno preferibilmente rispetto all'Occidente moderno - sull'isola descritta da Tommaso Moro, o nella kallipolis platonica; molto meno in altri luoghi utopici...), e direi soprattutto che ogni studioso, se si rimane nel campo dei «desideri», dovrebbe o addurre ragioni generali, oppure limitarsi a parlare per se stesso, senza pretesa di validità universale. Mi sembra infatti che il principale argomento anti-utopico

(anticomunista) di Spaemann sia l'argomento tipico del cosiddetto «buon senso», ossia che la vita è breve e l'uomo è limitato, sicché non si riesce a giungere alla verità, e senza verità non si può correre il rischio di avventure utopiche sulla totalità sociale, che potrebbero proiettarci in un mondo peggiore rispetto a quello attuale. Tuttavia, occorre realmente valutare se questo «buon senso» sia realmente «buono», oppure se esso sia solo un «senso», ed in particolare quello dettato dall'istinto di conservazione che induce spesso le persone a non criticare troppo il contesto storicosociale in cui vivono (per quanto riguarda gli intellettuali, si tratta peraltro di un contesto in cui sovente costoro si trovano davvero a proprio agio); peccato solo che questo contesto oggi sia un modo di produzione in cui oltre un miliardo di persone vive sotto la soglia di povertà; in cui decine di milioni di bambini vivono pressoché senza le condizioni minime per una infanzia serena, ed in cui anche in Occidente il degrado spirituale condanna la maggioranza delle persone alla infelicità. È questo il mondo che dovremmo conservare? Mi sembra che ogni preventiva condanna di progetti alternativi sulla totalità sociale dovrebbe tener conto, quanto meno, della condizione presente. Non è un caso - ma è una implicita conseguenza del suo indotto (con l'accento acuto e grave) conservatorismo - che, quando deve porre una critica concreta a progetti sociali alternativi, Spaemann adotti in sostanza la tipica logica contemporanea economicista, affermando ad esempio che «contro l'utopia sta il fatto che essa esclude un conteggio responsabile dei costi e dei ricavi» (pag. 20). Collegandosi a Kant, Spaemann associa tutto ciò che è «rivoluzionario» alla «violenza» (pag. 94), senza rendersi conto che la violenza peggiore è sempre quella posta in essere dal più forte, ossia dal rapporto sociale dominante, anche se oggi essa - dietro i belletti della democrazia e del mercato - non appare esplicitamente, almeno in Occidente, come tale.

56

Rinvio, in merito, a C. Fiorillo - L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del comunismo, Petite Plaisance, Pistoia, 2013.

Charles Margrave Taylor

L'ETÀ SECOLARE

C. TAYLOR, L'età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009, ed. or. 2007.

Charles Margrave Taylor, filosofo canadese nato nel 1931, è da molti riconosciuto come uno dei principali interpreti della modernità. Questo suo ultimo volume corrobora in tal senso questa impressione. Tuttavia, quella che in generale è la communis opinio del ceto intellettuale su un autore non è mai, specie in questo tempo, da considerare acriticamente; il ceto intellettuale infatti, per prosperare, può solo produrre idee accettabili dalle modalità sociali dominanti, poiché tale è la sua funzione. Queste modalità sociali sono da alcuni secoli quelle del modo di produzione capitalistico, il quale è causa in tutto il mondo di sfruttamento, povertà, inquinamento, ingiustizia, sofferenze; poiché il ceto intellettuale esprime solo idee accettabili da un siffatto modo di produzione, dei suoi giudizi non ci si deve fidare troppo. Taylor, certo, mostra anche in vari suoi testi (Il disagio della modernità; Radici dell'io; Hegel e la società moderna) una idea di filosofia, propriamente hegeliana, come unico sapere ontoassiologico in grado di sconfiggere l'individualismo del nostro tempo; tuttavia tale idea rimane, ad avviso di chi scrive, troppo implicita, e pertanto non riesce a dispiegare compiutamente la propria forza. Nonostante infatti le opere di Taylor vendano in tutto il mondo decine di migliaia di copie, a me pare che, forse proprio per le vaste conoscenze che ostentano, esse inducano il lettore a perdersi un po', e dunque generano una certa passività. Favorire la

passività delle masse è in effetti ciò che da diversi anni è implicitamente richiesto sia ai mass media che al ceto intellettuale; affinché, infatti, le masse possano impiegare la loro vita nel ciclo lavoro-consumo senza perdere tempo in attività poco redditizie, è importante che esse siano politicamente e culturalmente passive. Ciò non significa che non debbano frequentare partiti politici o associazioni culturali; le persone possono fare ciò che vogliono (ma sopravvivere è sempre più difficile, sicché anche il tempo per queste attività è sempre più scarso ed incerto), purché accettino il dogma dominante, ossia che la totalità sociale capitalistica non si può mutare: accettato questo dogma, tutto ricade nella irrilevanza, sicché si può dire o fare quasi tutto ciò che si vuole. E questo dogma è a mio avviso, sebbene silenziosamente, presente anche nei libri di Taylor. Con le sue 1.070 pagine, questo libro è ricco di notazioni interessanti, che spingono ad approfondire vari temi, ma mi pare che la tesi di fondo sia assolutamente lontana dal comprendere quello che è il tema fondamentale della modernità, ossia la centralità del modo di produzione capitalistico, la cui analisi soltanto è in grado di spiegare i principali fenomeni sociali moderni; in sostanza, ritengo che chiunque parli di «modernità» o «tecnica» per caratterizzare la nostra epoca, utilizzi semplicemente parole "neutrali", accettate dai mass media (mentre il termine «modo di produzione capitalistico», ossia la verità, è inaccettabile appunto poiché «non neutrale», ovvero troppo carico di valenze politiche e sociali), ma perde la possibilità di far comprendere correttamente il nostro tempo. La tesi di fondo di Taylor è quella per cui l'età moderna sarebbe appunto «l'età secolare»; egli pone dunque come elemento interpretativo essenziale - come Hans Blumenberg: un altro autore, non a caso, molto di moda - il tema del passaggio dalla religione alla secolarizzazione. Questa spiegazione delle radici della modernità non mi pare tuttavia convincente, anche perché, contrariamente forse a quelle che sono le reali intenzioni di questi autori, essa tende ancora ad attribuire centralità all'elemento religioso57. Peraltro, oltre a porre la contrapposizione centrale della modernità

nella opposizione fra religione e secolarizzazione, Taylor (così come Blumenberg) non è mai chiaro su cosa intende precisamente per secolarizzazione, termine che lascia volutamente nel vago (forse perché altrimenti ne uscirebbe evidente il suo ruolo di "copertura ideologica" del modo di produzione capitalistico). Egli afferma infatti soltanto, in questo libro, che «l'organizzazione politica di tutte le società premoderne era in certa misura legata, garantita o basata su una qualche devozione o fede in Dio», mentre «l'Occidente moderno è privo di questo legame» (pag. 11), ed è dunque per questo «secolarizzato»; ed aggiunge che «la nostra comprensione della secolarizzazione avviene in termini di spazi pubblici. L'idea generale è che essi siano stati svuotati di Dio, o di qualsiasi riferimento alla realtà ultima» (pag. 12). Taylor afferma sicuramente cose corrette, ma, dopo una attenta lettura del testo, mi pare che anche su questo punto egli non colga il centro della questione; egli cioè non coglie che il Dio monoteistico, che era almeno buono e misericordioso, è semplicemente stato sostituito, nella modernità, dal Dio-capitale, che è invece cattivo e spregiudicato (nel senso che gli interessa esclusivamente la propria massima valorizzazione, e che per raggiungerla è disposto a tutto). La opposizione fra religione e secolarizzazione, se si comprende questo, anziché rappresentare il classico conflitto «postilluministico» fra fede e ragione - in cui quest'ultima, grazie soprattutto alla potenza effettuale della scienza e della tecnica, è necessariamente destinata a trionfare -, rappresenta invece in realtà il conflitto fra valori comunitari-umanistici (simbolizzati dalla religione) da una parte, e valori privatistici-mercantili (simbolizzati dalla secolarizzazione) dall'altra, con i secondi che sono necessariamente destinati a trionfare, spinti da tutte le forze effettuali più potenti del nostro tempo. Non comprendere questo punto significa, a mio avviso, non comprendere il punto essenziale del processo moderno di «secolarizzazione», e, come spesso accade in questi casi, chi non comprende l'essenziale, specie di un tema così importante, è come se non capisse niente; prova ne è il fatto che Taylor non colga nemmeno che il progressivo smarrimento dei valori cristiani è dialetticamente connesso alla progressiva

affermazione dei valori capitalistici, nonostante la struttura "ontologica" della fede in una entità sovraordinata - prima il Dio, oggi il capitale - sia per molti aspetti rimasta la medesima anche nella attuale epoca secolare (ricordiamo che il cattolicesimo ha strutturato perfino l'impero romano, e che nei moderni Stati Uniti d'America, paese apparentemente religiosissimo, sul dollaro campeggia la scritta In God we trust, a riprova della convivenza fra le strutture della «fede cattolica» e della «fede capitalistica»)58. Un altro tratto saliente della interpretazione della modernità operata da Taylor è la rappresentazione della stessa come «società delle alternative» (pag. 14), come se appunto la modernità capitalistica fosse una sorta di grande supermercato in cui tutti possono scegliere liberamente il proprio modello di vita; occorre allora rimarcare, con riferimento a queste rappresentazioni ideologiche, che oggi in Occidente questo genere di «libertà di scelta» dipende unicamente dal denaro disponibile, e che in generale in tutto il globo le persone, condizionate dai processi di sviluppo del modo di produzione capitalistico, non possiedono davvero molte "alternative" che non siano quella di adeguarsi o soccombere. È forse, questa mia interpretazione, l'esito socio-politico di un pensiero filosofico troppo "forte", ossia troppo impregnato insieme di metafisica e di comunismo? Può essere, ma sicuramente la interpretazione di Taylor è l'esito socio-politico di un pensiero filosofico troppo "debole", ossia troppo impregnato di relativismo e di liberalismo (liberalismo che peraltro le recenti crisi sistemiche stanno sempre più mettendo in discussione anche al proprio interno: significative le critiche, ad esempio, di John Rawls e Michael Walzer)59. Taylor svolge certo anche alcune affermazioni - ma esse rimangono sempre rapsodiche, isolate, non fondate - che potrebbero parere condivisibili, come ad esempio quella, apparentemente idealistica, secondo cui «le idee hanno una forza indipendente dalla storia» (pag. 274); in realtà però, quanto meno nella loro genesi, le idee non sono mai indipendenti dalla storia

(anche l'idealismo moderno peraltro - al di là delle sue spesso malevole rappresentazioni - sostiene questa tesi), ma soprattutto, specie quando sono ben fondate, non sono affatto uno «spettro» (pag. 274) da temere, come pure Taylor significativamente afferma. L'utilizzo di questa espressione, anche freudianamente, richiama peraltro in modo chiaro lo spettro marxiano dell'utopia comunista, evidentemente da Taylor temuta; mi pare infatti che questo storico del pensiero si trovi molto a proprio agio nella società liberale, ed in generale nel seguire le componenti vittoriose della storia (cristiane, moderne o liberali che siano), e che pertanto egli sia ben lontano dal favorire ogni utopia progettuale. Chiunque ricercasse in questo libro, dunque, una essenziale comprensione della modernità, ne rimarrebbe a mio avviso deluso, o quanto meno disorientato; tuttavia, i libri colti come questo sono sempre miniere di notazioni interessanti e di spunti di riflessione. L'importante è accostar-visi nel modo corretto, ossia in modo critico, non sperando di trovarvi tutto ciò che essi sembrano promettere.

57

Taylor afferma infatti che «il mutamento che vorrei definire ed esplorare è quello che ci ha condotto da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui la fede [...] è solo una possibilità umana fra le altre» (Id., pag. 14). 58

Significativa della propria incomprensione della questione, è l'affermazione di Taylor secondo cui «il grande enigma della teoria della secolarizzazione sono gli Stati Uniti» (pag. 536). 59

Per inciso: le categoria di «forte» e «debole», filosoficamente, non dicono nulla di un pensiero, poiché di esso importa principalmente sapere se è «vero» o «falso».

Tzvetan Todorov

LA VITA COMUNE

T. TODOROV, La vita comune, Edizioni Pratiche, Milano, 1998, ed. or. 1995.

Tzvetan Todorov, filosofo bulgaro nato nel 1939, è il tipico pensatore contemporaneo appartenente al mondo culturale francese, ben intenzionato, profondo ed intelligente, che si situa al crocevia fra la filosofia e le diverse scienze sociali, e che cerca di dare una interpretazione ad ampio raggio della realtà; tutto ciò rende le sue analisi molto interessanti ma, talvolta, un po' vaghe, come cercherò appunto qui di mostrare. In questo libro, in particolare, egli vuole sostenere la tesi, assai corretta (ma certo già ben esposta, qualche secolo fa, da Aristotele), che l'uomo è un ente comunitario; che, cioè, egli necessita della armonica convivenza sociale con gli altri uomini, per potersi realizzare compiutamente. Todorov dichiara, fin dall'inizio, di voler sostenere questa tesi utilizzando un approccio di «antropologia generale, che si situa a metà strada tra le scienze umane e la filosofia» (pag. 9). Ora: personalmente non credo che esista una strada continua (in cui, appunto, potersi fermare «a metà») fra le scienze umane e la filosofìa, poiché le prime si occupano sempre e solo delle parti, la seconda sempre e solo dell'intero, e con metodi radicalmente differenti. Per questo motivo ritengo lodevole lo scopo di Todorov, che desidera «mettere in luce la definizione implicita dell'umano in sé» (pag. 9); ciò nonostante l'antropologia, a differenza della filosofia, possiede solo «un oggetto empirico» (pag. 9), e dunque un approccio empirico, il quale non è affatto «più concreto e generale»

(pag. 10) rispetto all'approccio metaempirico della filosofia, ma meno; per questo egli non riesce a giungere nella sua analisi, a mio avviso, alla corretta determinazione della questione - che è appunto la questione metafisica per eccellenza - che pure giustamente reputa centrale, ovvero la definizione della essenza dell'uomo. La tesi più interessante di questo libro è comunque quella per cui, «studiando le grandi correnti del pensiero filosofico europeo riguardo alla definizione di ciò che è umano, si giunge ad una conclusione inaspettata: la dimensione sociale, l'elemento della vita in comune, non è generalmente considerato come necessario per l'uomo» (pag. 15). In effetti, a partire soprattutto dalla modernità (ma Todorov ritiene la tesi estendibile «ai grandi moralisti dell'epoca classica», ed in particolare agli Stoici), ed in primis da Montaigne, qualcosa del genere, ovvero una tendenza a «liberarsi dei rapporti con gli altri esseri umani» (pag. 16), è rilevabile; tuttavia, lungi dal costituire lo svelamento di una caratteristica costitutiva dell'essere umano60, la «asocialità» costituisce un fenomeno sociale indotto ed atipico per l'uomo, e tipico appunto solo della modernità. Se Todorov avesse utilizzato un approccio più filosofico e meno empirico, ossia se avesse utilizzato l'approccio della filosofia classica presente da Platone a Marx, che si basa sulla comprensione e valutazione della totalità sociale, avrebbe colto che la sempre più diffusa tendenza alla asocialità è stata sviluppata, nella modernità, proprio a partire dal modo di produzione capitalistico, che fa della lotta di tutti contro tutti (nel lavoro, nel consumo, nella vita) la propria principale regola di comportamento. In un simile clima sociale, è normale che l'uomo si senta un ente assai poco comunitario e socievole; tuttavia, questa non è la condizione naturale per l'uomo, bensì solo una condizione culturalmente ed economicamente indotta, che crea una infelicità diffusa61 e che come tale - essendo innaturale - è destinata, in un modo o nell'altro, ad essere superata62. Sarebbe in effetti bastato, come detto, rifarsi ad Aristotele63, per comprendere correttamente questo punto. Lo Stagirita ben

comprese infatti, e lo scrisse nella Politica, che nessun uomo può vivere da solo, in quanto, se vi riuscisse, sarebbe o una bestia o un dio, ovvero in ogni caso perderebbe la propria costitutiva umanità, e dunque la «comunitarietà». Purtroppo, però, non è Aristotele il riferimento privilegiato di Todorov, bensì i moderni, i quali da un lato sono utili, ma dall'altro subendo spesso gli influssi del modo di produzione capitalistico - lo influenzano un po' negativamente, conducendolo talvolta quasi ad oscillare verso la tesi opposta rispetto a quella sostenuta, ovvero la tesi della asocialità originaria dell'uomo. La Bruyère, Pascal, Hobbes, parlavano in effetti di un originario egoismo individualistico, la cui scaturigine sarebbe da ritrovare in una tendenza alla «autosufficienza» (pag. 17) propria dell'uomo. Circa questa tesi, però, è necessario intendersi bene. Una cosa, infatti, è sostenere che gli uomini tendono ad essere autosufficienti ed autarchici, ovvero liberi ed autonomi: ciò fu ben compreso, ancora una volta, dal pensiero greco. Un'altra cosa, ben diversa, è sostenere che gli uomini tendono ad essere asociali, anticomunitari, egoisti: questo lo affermano pressoché soltanto alcuni pensatori moderni, succubi del dominante senso comune capitalistico. Il capitalismo infatti, incentrando la spiegazione di tutte le relazioni sociali sulla utilità economica (emblematica è la teoria economica neoclassica nelle sue diverse varianti), riduce l'uomo a merce, e le merci sono sempre in conflitto fra loro, poiché rivali e sostitute. Questa incertezza è molto evidente, a mio avviso, nell'intero pensiero del nostro autore in tutta la prima parte di questo libro. Se a pagina 16, infatti, Todorov aveva ritenuto la tesi della natura anticomunitaria dell'uomo come «non dominante» (pag. 16), a pagina 17 afferma invece che essa è dominante, e che pertanto ritiene suo compito combattere contro chi sostiene che «la società e la morale vanno contro la natura umana» (pag. 17). Non rendendosi pienamente conto che questa è una tesi profondamente moderna, Todorov tende al contrario a ribaltarla sugli antichi, e ad attribuire ai moderni tesi in realtà classiche; egli afferma infatti, ad esempio, che Jean Jacques Rousseau fu l'autore di una «rivoluzione», in

quanto «formulò per primo [!] una nuova concezione dell'uomo come essere che ha bisogno degli altri» (pag. 26). Basta non considerare i Greci, ed i moderni diventano gli inventori di tutto64! A parte, tuttavia, queste debolezze, soprattutto dalla metà in poi il libro si chiarifica, ed appare sempre più delineata la tesi - che l'autore, appunto, fa poi più nettamente propria - secondo cui, per l'essere umano, «la socialità non è un accidente né una contingenza; è la definizione stessa della condizione umana» (pag. 29). Lodevole, peraltro, che egli sostenga questa tesi con grande sfoggio di conoscenze psicologiche e letterarie, le quali gli consentono ottimamente di corroborare la sua conclusione: «Ciò che è universale e costitutivo dell'umanità è che noi entriamo, fin dalla nascita, in una rete di relazioni interumane, dunque in un mondo sociale; ciò che è universale è la nostra comune aspirazione a possedere il senso dell'esistenza» (pag. 109). L'uomo infatti, essendo l'animale maggiormente in grado di riflettere sul fatto di dover morire, è anche quello che più cerca di elaborare il significato del proprio essere, ossia di riempire di contenuto quella breve porzione temporale che gli è dato di vivere; in questo - non nella biologia - consiste la differenza principale fra l'uomo e gli altri animali65. Da rimarcare comunque la affermazione finale di Todorov: «La vita comune non può garantirci - ed anche questo solo nel migliore dei casi - che una fragile felicità» (pag. 180). Che la condizione umana sia fragile, ossia che l'uomo sia mortale e che l'esperienza sia problematica, è certo; che però l'uomo possa meglio affrontare questa problematicità solo all'interno di un ambito comunitario è almeno altrettanto certo, proprio per la sua stessa natura. Forse Todorov avrebbe potuto sostenerlo con più forza, se una più compiuta considerazione della filosofia greca avesse dato al suo pensiero una maggiore chiarezza e solidità.

60

Non si deve confondere, in merito, la "asocialità" con il "bisogno di solitudine", proprio di ciascuno in determinati momenti, più o meno frequenti secondo le circostanze di ogni vita. 61

L. Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2005, con introduzione di Mario Vegetti. 62

L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova, 2009, con introduzione di Diego Fusaro. 63

Todorov non ignora il pensiero greco, tanto che afferma che «benché l'autarchia resti l'ideale del saggio, i filosofi greci credono anche che l'uomo sia un animale sociale, che debba vivere con i suoi simili, che si realizza nella polis» (pag. 24). Tuttavia, a suo avviso, «i filosofi greci non vedono, generalmente, dei tu differenti dall'io» (pag. 25). Su quest'ultima tesi, che ritiene sostanzialmente che i Greci fossero privi dei concetti di «coscienza», «soggetto», «persona», ecc., mi permetto di rinviare a L. Grecchi, L'umanesimo di Omero, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, in cui argomento come questi concetti fossero invece già presenti nel pensiero greco, sino a partire da Omero. 64

È peraltro fortemente errato, come abbiamo rimarcato nella nota precedente, sostenere che «inscrivendo il bisogno dello sguardo altrui nella definizione stessa di uomo, Rousseau si allontana dalla definizione classica» (pag. 30). In realtà, egli non fa altro che seguirla. 65

Mi pare peraltro che questo diffuso riferimento alla biologia, alla materia, alle scienze cognitive, da parte sia del pensiero liberale che del pensiero marxista (che anche in ciò rivelano la loro solidarietà antitetico-polare), sia non solo un modo per onorare la «teologia della scienza», e dunque sentirsi più socialmente confermati, ma anche un modo per non dare reale spazio al vissuto, che poi esprime sempre anche una analisi filosofico-politica del proprio contesto storico-sociale, e dunque una (auto)valutazione

complessiva. In questo modo, ossia rifacendosi primariamente alla "natura" (che non ha autocoscienza, come correttamente scrisse Hegel), si eliminano tutti i problemi filosofici del "senso"; questa soluzione non è però corretta, in quanto la natura ha solo una priorità "esistenziale" (gli uomini esistono cioè solo come esito di un processo naturale), non "ontologica". Sostenere che la vita umana ha un "senso" non significa affermare l'esistenza di una divinità, ma semplicemente analizzare la vita stessa alla luce dei concetti di verità, bene, giustizia, ecc., connaturati all'uomo; tutte tematiche che il pensiero moderno, nelle sue varianti - tranne in quelle che si basano su una metafisica di tipo umanistico -, tende generalmente a rifiutare, rivelando così, dietro una crosta "scientistica", un esito in ultima analisi relativistico e nichilistico.

Slavoj Zizek

DALLA TRAGEDIA ALLA FARSA. IDEOLOGIA DELLA CRISI E SUPERAMENTO DEL CAPITALISMO

S. ZIZEK, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Salani, Milano, 2010, ed. or. 2009.

La lettura di Slavoj Zizek, filosofo e sociologo sloveno, è sicuramente interessante per mettere a fuoco il nostro tempo. Una dicitura sulla copertina di questo libro, che riprende una recensione del medesimo presente su New republic, lo definisce come «il filosofo più pericoloso d'Occidente» (si intende, credo, «pericoloso» per il modo di produzione capitalistico); non credo sia proprio così, e non la trovo una questione molto interessante: sicuramente, però, la lettura dei testi di Zizek può fornire utili spunti per comprendere e valutare, al di là dei luoghi comuni, proprio l'attuale modo di produzione. Innanzitutto, rispetto alla maggior parte dei pensatori critici verso il nostro tempo, Zizek non ha paura di utilizzare la parola «comunismo»; egli afferma infatti, sin dall'inizio, che la sua è «un'analisi impegnata ed estremamente parziale - dal momento che la verità è parziale, accessibile solo quando si prende posizione, senza per questo essere meno universale. La posizione presa, ovviamente, è quella del comunismo» (pag. 13). In un'epoca in cui anche chi ha militato per decenni in Parlamento nelle file del Partito Comunista si dichiara «anticomunista», in cui i partiti più alla moda a sinistra cambiano nome per non includervi il famigerato termine, ed in cui anche gli studiosi apparentemente più radicali dichiarano

di non fare oramai riferimento al concetto di «comunismo», mi pare che il solo rifarsi ad esso, specie se su nuove basi, segnali un intento lodevole di conservazione ed al contempo di superamento di una tradizione che ha avuto comunque molti meriti nella storia, specie recente, dell'Occidente (sconfitta del nazifascismo, istituzione del welfare state, riduzione della povertà nei paesi «sottosviluppati», ecc.). Ciò nonostante, come è normale che sia, non sempre quello che scrive Zizek risulta essere pienamente convincente. Non concordo, ad esempio, con la sua tesi secondo cui valutare ciò che è vivo e ciò che è morto in un autore rappresenterebbe «l'adozione della posizione arrogante del giudice del passato» (pag. 13); la filosofia è infatti per sua essenza valutativa, ed è un ricadere nelle spire della ideologia dominante del relativismo il sostenere che non possiamo dire ciò che in un pensiero è ancora valido, e ciò che invece non lo è più. Questa affermazione iniziale di Zizek potrebbe essere ritenuta una caduta momentanea, in quanto egli precisa a più riprese che, a suo avviso, «il comunismo è davvero un'idea eterna»; il fatto che egli non precisi mai questa idea - che, in quanto «eterna», dovrebbe avere quanto meno dei contenuti stabili - è dall'autore giustificato con la tesi in base a cui il comunismo stesso «deve essere reinventato in ogni nuova situazione storica» (pag. 14), sicché di esso non si può avere una definizione. Questa affermazione però, se ben si riflette, è ancor più significativa della precedente. Concordando infatti ancora con la tesi principale del relativismo (l'impossibilità di definire in modo stabile i principali contenuti universali), il fondamento teorico del pensiero di Zizek si rivela essere assai incerto: per quanto sia vero che la progettualità comunista deve sempre essere storicamente rimodulata tenendo conto della situazione che ci si trova ad affrontare, è altrettanto vero che qualche caratteristica stabile, costante, il comunismo la deve comunque avere affinché si possa parlare in modo univoco di «comunismo». Si finisce altrimenti, appunto, con il cadere nella ideologia della indeterminatezza relativistica propria del nostro tempo, che costituisce il brodo di cottura dell'attuale modo di

produzione capitalistico. Molto spesso infatti alcuni studiosi, che pure si dichiarano anticapitalisti, per mancanza di fondazione e progettualità filosofica si creano, con la tesi della indetinibilità del comunismo, un alibi per evitare di dire cosa il comunismo è, e soprattutto cosa deve realmente contenere (le forme della proprietà, della produzione e della distribuzione, nelle loro varie sfaccettature, sono tutte tematiche da considerare sul piano teoretico), i motivi per cui lo deve contenere (la conformità o meno di queste forme alla natura umana), e le modalità tramite cui arrivare ad esso; mi pare, in questo senso, che l'eccessivo generico aggancio ad una vaga concezione di "sinistra" da parte di Zizek, non deponga in favore di questo tipo di chiarezza. Non entro nelle tante analisi specifiche, anche di situazioni storiche recenti, che l'autore pone in essere. Mi interessano di più, come filosoficamente deve essere, le sue tesi generali, una delle quali è la seguente: «finché rimaniamo in un ordine capitalista, c'è una verità in esso: ovvero, dare un calcio a Wall Street colpirebbe realmente i comuni lavoratori» (pag. 24). Questa tesi, di apparente buon senso, non è così scontata. Gli indignados infatti, ovvero quei nutriti gruppi di persone che contestano, in vari luoghi del pianeta, il dominio della finanza sulla economia reale, non sarebbero per niente d'accordo. Tuttavia, su questo punto specifico, ritengo che Zizek abbia ragione. Se si accetta infatti di restare in un ordine capitalistico, non si può dire che una parte dello stesso - ad esempio la finanza - è malata, ed un'altra parte - ad esempio l'industria - è sana, anche se la prima ha molta più attinenza con i valori di scambio e la seconda con i valori d'uso; è la struttura stessa del modo di produzione capitalistico che, se accettata, porta con sé, insieme ad alcuni innegabili progressi, soprattutto ingiustizie, sfruttamento, alienazione, miseria ed inquinamento. In questo senso, non si può criticare la finanza tenendo fermo il modo di produzione capitalistico (tutte le grandi aziende industriali hanno peraltro oggi, al proprio interno, importanti divisioni finanziarie); all'interno dell'ordine capitalistico, gli squilibri si ribaltano sempre contro i lavoratori, e questa è purtroppo una certezza.

Che fare, allora? Personalmente, ho cercato di mostrare in vari libri come all'interno del modo di produzione capitalistico ci sia davvero poco o nulla da fare, e come si possa e debba imboccare una via progettuale alternativa, almeno sul piano teoretico. Zizek dice più o meno cose simili, ma il contenuto progettuale della sua critica, forse perché - come accadde del resto anche a Marx ed al prevalente marxismo - filosoficamente poco fondato, appare piuttosto povero. In effetti, come egli stesso afferma, «nel capitalismo globale contemporaneo [...] sono rari coloro che osano persino sognare sogni utopici sulle possibili alternative» (pagg. 100101); si tratta però, soprattutto in questo caso, di far sì che i sogni siano possibili, e di favorire il processo di «realizazione dei sogni» con una intelligente operazione culturale, che verta principalmente sui temi più importanti poiché, come afferma Zizek, è soprattutto sui temi della povertà e della fame «che è necessario porre di nuovo la questione del comunismo» (pag. 110). Del resto, come egli stesso rimarca, il sempre più diffuso «riferimento al comune giustifica il fatto di resuscitare la nozione di comunismo» (pag.118). È proprio, tuttavia, sull'idea di comunismo, almeno per come implicitamente emerge dalle sue pagine, che mi sento di esprimere la maggiore distanza da Zizek (peraltro è recentemente uscito un libro collettaneo intitolato L'idea di comunismo, con scritti di Alain Badiou, Antonio Negri ed altri, edito da DeriveApprodi, in cui, contrariamente a quanto previsto dal titolo, gli autori non si preoccupano affatto di definire questa idea, che pure costituisce oltre che il titolo del libro - la necessaria base teoretica della progettualità). Lo studioso critica infatti «il modo kantiano di concepire il comunismo come un'idea regolativa [...], che faceva dell'uguaglianza la sua norma assiomatica» (pag. 113). Ora: a parte il fatto che ciò non è accaduto molto spesso, la critica è condivisibile se ci si appunta sul fatto che il comunismo non deve essere pensato solo come afflato verso una pur desiderabile uguaglianza, ma non se ci si appunta sul fatto che il comunismo debba costituire una «idea regolativa»: esso deve inevitabilmente costituirla, se realmente si desidera che le varie elaborazioni teoriche comuniste raggiungano un qualche effetto pratico!

Come potrebbe, del resto, una idea storicamente così carica di indicazioni progettuali (essa indica una totalità sociale alternativa) essere «non regolativa»? E, soprattutto, perché lo dovrebbe? Perché non dovrebbe regolare la progettualità, fungendo da paradigma ideale di riferimento? A me pare che, sulla incapacità di rispondere a queste domande, giochino in sostanza due fattori. Il primo è quello per cui, una volta indicato (o meglio, argomentatamente fondato, basandosi sulla natura umana) che cosa è il comunismo, si è poi obbligati anche ad indicare come esso si debba concretamente realizzare, e questo - non la generica critica al capitalismo - rende realmente «pericolosi». Il secondo fattore è invece il condizionamento indotto dal vecchio marxismo, da cui è certo più facile - almeno per chi è sotto i cinquantanni liberarsi; esso è particolarmente evidente nella tesi, tipica appunto del pensiero marxista (che rifiuta come «utopico», «metafisico», «idealistico» ogni chiarimento concettuale e progettuale del termine comunismo), secondo cui «la nozione marxiana di comunismo non [deve essere intesa; L. G.] come ideale, ma come un movimento che reagisce agli antagonismi» (pag. 113). Si tratta, in effetti, della tesi marxiana prevalente in merito a questo argomento, e di una tesi tuttora rilevante, in quanto è vero che occorre sempre fare riferimento «all'insieme degli antagonismi sociali attuali che generano la necessità del comunismo» (pag. 113), altrimenti si ricade nell'utopismo più astratto e velleitario; tuttavia, non è vero che il comunismo sia una «idea eterna» solo in quanto gli antagonismi sono sempre presenti nella società. Il comunismo è una idea eterna in quanto la natura dell'uomo è razionale e morale, dunque richiede armonia e comunanza, non antagonismo: il comunismo è infatti stato storicamente tale (al di là della autodefinizione di «comunismo» che alcuni regimi totalitari si sono dati) solo quando ha cercato di costituire modi di produzione sociali realmente armonici e comunitari. Sostenendo la tesi di Zizek, invece, si arriverebbe alla conclusione paradossale in base a cui, a comunismo realizzato (ossia ad armonia realizzata), non ci sarebbe più bisogno di comunismo, in quanto sarebbero cessati gli antagonismi: il comunismo sarebbe dunque una sorta di fenomeno

che si autoelimina! So che questo genere di argomenti è poco ascoltato dai marxisti, che si basano di più sulla "dialettica reale" degli antagonismi sociali, in quanto si ritengono pensatori scientifici che non si lasciano imbrogliare dalla filosofia. Tuttavia, a mio avviso, occorrerebbe recedere dalla centralità della concezione di comunismo come «movimento che abolisce lo stato di cose presenti», sia perché tale concezione non ha mai consentito di abolire tale stato di cose, e sia soprattutto in quanto essa non può favorire - mancando di progettualità - tale abolizione. Per questo discordo con Zizek quando egli afferma che «l'idea emancipatrice comunistaegualitaria» sia da intendere e sostenere solo «in un preciso senso marxiano» (pag. 127), ossia - a suo avviso - come antagonismo; il comunismo non può vincere con la forza, ma solo con l'educazione, ovvero convincendo che esso è un modo di produzione sociale non solo necessario, ma anche il migliore possibile per la realizzazione della vera umanità, e dunque per favorire una maggiore felicità.

Postfazione.

Giacomo Pezzano

«Nur noch Griechenland kann uns retten»

«L'esigenza umana di filosofia è irreprimibile, in quanto uomo filosofeggia così come suda, mangia o defeca, ossia in maniera inevitabile, in qualche modo questa esigenza deve essere espressa».

C. Preve «Il contenuto della vera filosofia è la comprensione ontologica e la contestuale valutazione assiologica della totalità sociale».

L. Grecchi «Il bisogno di verità è per l'uomo un bisogno primario, e il mancato soddisfacimento di questo bisogno conduce l’uomo alla sofferenza».

L. Grecchi

Sull'Autore

Non c'è dubbio, Luca Grecchi è un filosofo radicale. Filosofo perché, in primo luogo, l'intera sua riflessione1 è attraversata come si compete a ogni vero pensatore (Heidegger insegna) - da un'unica questione fonda-mentale, da una vera e propria "ossessione filosofica", cioè l'anima umana come fondamento della verità2, come espressione del necessario fondamento umanistico della metafisica (cfr. soprattutto AU e FU); in secondo luogo, è dotato di una propria originalità speculativa - da tenere ancora più in conto se si considera che egli proviene da studi economico-politici (fattore "ibridante" affatto secondario se si guarda al contenuto centrale della sua produzione filosofica, secondo quanto richiamerò anche in seguito) -, arricchita anzi resa possibile dall'imprescindibile costante confronto critico con la tradizione del pensiero (non solo, ulteriore elemento meritorio, quella occidentale: cfr. su tutti FC, Fin, FIs e C), e dall'accorato e lucido dialogo (talora diretto e personale) con diversi esponenti del panorama filosofico contemporaneo, che gli sta consentendo con gli anni di "sgrossare" l'incedere del suo argomentare, forse eccessivamente assertivo e apodittico nella sua produzione iniziale. Radicale perché, in prima battuta, non mostra alcun timore nel giungere a conclusioni decisamente politicaliy uncorrect e "indigeste" al sistema (capitalistico), purché esse siano coerentemente tratte a partire dal fondamento (purché siano umane, dunque); in secondo luogo, l' animus della sua impresa filosofica è quello di andare alla radice

delle cose, laddove c'è nient'altro che l'uomo, l'anima umana, «unico necessario fondamento» (SQ, 104). Potrei condensare tutto ciò dicendo: fiducioso circa il fatto che «tutto ciò che fa parte della vita umana può essere definito» (PF, 19s.) 3, cerca di pensare con la propria testa perché in costante dialogo con importanti maestri (su tutti: gli antichi greci)4, perché consapevole che la sua testa è - se così posso esprimermi - una "testa umana", nella convinzione che «ogni pensiero filosofico si caratterizza per tre essenziali aspetti: il fondamento che sta alla base dei propri significati, la corrispondente struttura della verità, e il progetto umano che ne deriva» (SQ, 85). Penso di non sovrapporre considerazioni aliene alle sue se affermo che per l'Autore la vera e propria "missione" della filosofia (del filosofo considerato sino in fondo come «funzionario dell'umanità»)5 è di «interrogarsi sul carattere qualitativo della totalità espressiva della comunità sociale presente»6 per poterla trasformare e migliorare, con la fondamentale sottolineatura che ciò non può che avvenire partendo dal riferimento alla - senza timori - Verità, dall'unico possibile ( necessario) fondamento veritativo che è l'umanità, dall'uomo idealmente inteso come «il solo fondamento onto-assiologico, il solo ente in grado di dare significato a tutti gli enti e le relazioni che compongono il cosmo» (VB, 30)7 l'ente che fa sì che i significati onto-assiologici siano stabili, stabili appunto «finché permarrà l'uomo, che è il solo fondamento in grado di porre i significati (e la loro stabilità)» (ivi, 34). Per Grecchi, infatti, «la verità è nell'anima, ossia nel rapporto (attuale e soprattutto potenziale) dell'uomo col mondo» (FI, 87), e perciò «l'essere (la totalità dei significati umani) è quello che è perché l'uomo, nella sua essenza, è quello che è» (ivi, 92), all'interno di un discorso che intende il rapporto tra filosofia (metafisica umanistica) e politica come irrinunciabilmente essenziale: l'essenza insieme razionale e morale dell'uomo è il fondamento della costituzione del significato veritativo di tutti gli enti e relazioni che compongono l'essere. La costituzione di questi significati è il necessario supporto filosofico della progettualità politica. Un mondo vero e buono è progettabile, pertanto, solo in quanto è pensabile una natura umana nella sua essenza razionale e morale in

grado di fondare i significati. Senza costituzione onto-assiologica del senso dell'essere, nessuna progettualità sociale è realmente pensabile (ibidem).

Per il Nostro si può parlare di Untergang des Abendlandes8 solo se con ciò si intende che oggi l'intero Occidente vive in modo essenzialmente antifilosofico (incuria della ricerca della verità della vita umana), antipolitico (incuria della vita in comune degli uomini) e antidemocratico (incuria dell'attribuzione del potere alla maggioranza della popolazione mondiale), non perché avrebbe pienamente sviluppato le sue radici, marce sin dall'origine, ma perché anzi esse sono state dimenticate (quella grecoclassica in particolare), si è cioè smesso di coltivarle dando sempre più spazio a quella volontà di potenza che è da decifrare come espressione dell'erezione di un modo di vita completamente onnieconomico (crematistico) e negatore della vera natura umana (cfr. in particolare O)9. Si potrebbe forse dire anche così: il punto non è che tutto l'Occidente è fondato su una "metafisica proprietariopossessiva", dunque violenta e usurpatrice (che è la tesi di Derrida tramite Heidegger, ma anche di Roberto Esposito e Jean-Luc Nancy), e che dunque è la metafisica a dover essere abbattuta (la sostanza e la sua proprietà intese come ricchezza e possesso privato -secondo uno dei significati di ousia che è tutt'ora presente anche nel nostro linguaggio), quasi che abbattuta la sostanza si fosse così aperto il regno della libertà; piuttosto, è l'Occidente capitalistico a declinare la proprietà in senso unilateralmente economico, ed è proprio tale unilateralità a dover essere abbattuta, va cioè aufgehoben la staticità della sua astratta determinazione, con lessico hegeliano10. Cosa che per il Nostro è possibile solo avendo come riferimento essenziale l'anima umana: l'«insieme delle facoltà razionali e morali che costituiscono l'essenza dell'uomo» e che «rappresenta la fondamentale base ontologica e assiologica veritativa» (AU, 9), ciò grazie a cui l'uomo «ricerca il significato della vita, l'ordine, l'armonia, la misura, cioè il modo migliore, ossia più conforme alla sua natura, per governare il processo sociale in cui è immerso» (ivi, 27). Può sembrare una prospettiva persino beffarda e di sfida

rispetto all'intero orizzonte filosofico contemporaneo, propria perlopiù di chi non è "filosofo di professione", e dunque dovrebbe lasciar parlare gli accademicamente ben più preparati - e ufficialmente tali - "filosofi". In realtà, è proprio questa sua provenienza "esterna" rispetto a un tale mondo a poterlo privare di quei fastidiosi timori reverenziali (spesso purtroppo connessi a un opportunismo che di filosofico ha ben poco - anzi nulla) che impediscono di rapportarsi a un autore ponendogli domande davvero radicali, di questionare davvero (cioè di dis-scuotere e mettere così in discussione) il buon senso comune e la doxa (anche nella forma dell'endoxa del senso comune filosofico): il suo sguardo, per così dire insieme "internamente esterno" e "esternamente interno", gli consente di "contaminare" con passione e rigore una filosofia troppo spesso auto-referenziale e astratta, asettica e (perché) asociale. Proprio questo gli consente di avere grandissimo spessore e profondità nel dialogo diretto (filosofico a pieno titolo dunque), in cui la sua capacità di cogliere sul vivo e di stimolare fa tutt'uno con l'abilità maieutico provocatoria di "costringere" la controparte a prendere esplicitamente posizione e problematizzare così prima di tutto la totalità sociale. A riconoscere cioè quanto la nostra tradizione ha sin dai suoi esordi riconosciuto, ossia che «per l'uomo nulla ha poteri così tristi e larghi come il denaro, che città devasta, uomini strappa dalle case, istruisce le menti pure a concepire il male, le perverte e le muta, del delitto indica il passo e l'esperienza schiude ad ogni empietà» (Sofocle, Antigone, vv. 374381).

Sulla presente opera

L'opera che avete letto è, come ricorda egli stesso, la prosecuzione di un discorso aperto da Grecchi nel 2007, attraverso il "corpo a corpo" con alcuni tra i principali esponenti italiani della

filosofia contemporanea11, nella convinzione che «nostro compito principale è comprendere questo mondo per vivere in esso nel modo migliore, in maniera rispettosa della nostra umanità e del cosmo» (FI, 10): è proprio con il medesimo spirito che qui mantenendo l'impegno preso in quella sede - la prospettiva del confronto (sempre parresiasticamente critico, com'è consuetudine filosofica del Nostro) si allarga al dibattito internazionale, concentrandosi in particolare su una serie di autori che, come il lettore attento avrà notato già in partenza, sono spesso non tanto filosofi in senso stretto quanto sociologi o storici, "divulgatori" o "eclettici"12, e di cui pertanto egli può avere spesso gioco facile nell'evidenziare (come non manca di fare) la carenza - anche in presenza di un'affinità e di una condivisione di fondo delle tematiche affrontate e delle conclusioni tratte - di un'adeguata «base filosofica», dell'attenzione filosofica per l'intero, della sensibilità per la questione della metafisica, della considerazione per la tradizione classica greca, di una filosofia forte, ecc. (tutti, peraltro, modi diversi di nominare quella che per l'Autore è la stessa cosa: la cura dell'anima umana e della natura). Tuttavia, va prima di tutto premesso che ciò non gli impedisce di dichiarare a più riprese che a ogni testo e - soprattutto - a ogni uomo non si può chiedere di più di quanto vogliano e possano dare, perché anzi bisogna saper analizzare e valutare per trarre dal loro messaggio tutto ciò che di buono può esserci. In secondo luogo, dev'essere chiaro in partenza che spesso nell'argomentare e nel dialogare grecchiano la durezza analitica della critica è direttamente proporzionale non solo all'interesse per la posizione espressa dalla controparte, ma soprattutto alla condivisione delle sue linee e dei suoi intenti fondamentali (cfr. p.e. le pagine dedicate a Latouche: supra, 57-62). In terzo luogo, è proprio la natura per così dire "filosofico-sociale" o "filosofico-politica" (insomma, progettuale) della proposta di Grecchi a richiedere un confronto con autori più intuitivamente e comunemente associati alla "sociologia" o ad altri campi del sapere diversi da quello filosofico (per quanto occorra precisare che questo grecchianamente non è "un" campo del sapere ma il fondamento di ogni sapere - e di ogni

pratica), anche perché - in quarto e ultimo luogo - sono effettivamente decisamente pochi (quasi nulli, verrebbe da dire con un pizzico di amarezza) quegli studiosi e ricercatori che si concentrano sul rapporto tra filosofia e totalità sociale e che, anche laddove mostrano una tale propensione, sono in grado di occuparsi di esso in modo stimolante e significativo. Senza prendere posizione, per evidenti ragioni di spazio, circa le ricostruzioni e le analisi effettuate dall'Autore nel percorso qui compiuto13, come "sintesi conclusiva" si può riscontrare che se in Bauman vi è una verosimile descrizione della società contemporanea in termini di «liquidità», questa non viene però ricondotta al modo di produzione capitalistico, e non solo non viene tenuta in conto la possibilità di un discorso filosofico fondativo universalistico, ma questa viene del tutto esplicitamente negata; se Habermas dà dichiaratamente centralità al discorso democratico, questo viene però inteso appunto come semplice "discorso formale", privo di qualsiasi sostanza filosofica e sistematica, del minimo slancio utopico; se Hobsbawm ha il coraggio di dichiarare vivo e vivace il marxismo, descrivendolo come l'unica prospettiva in g r a d o di pensare davvero il cambiamento del mondo, fa però mancare anche solo un abbozzo di progettualità sociale definita a partire da una tale prospettiva; se Jameson si rende conto della necessità di una progettualità alternativa, anche utopica, radicalmente altra rispetto all'effettualità capitalistica, non è però in grado di darle sostanza filosofica adeguata; se Latouche ha dato vita a una lodevole opera di de-costruzione e decolonizzazione dell'immaginario economico, non riesce però a delineare un percorso di uscita e di liberazione davvero altro rispetto a quello capitalistico, disperdendosi in un progetto riformistico troppo tenue; se Lyotard ha riscontrato nella fine di ogni grande metanarrazione la caratteristica saliente della nostra contemporaneità, lo ha però fatto in un orizzonte di totale accettazione, se non di radicalizzazione, di tale situazione; se Morin ha costruito un'opera sistematica ed eclettica nel tentativo di indagare l'identità umana, ha però realizzato una fusione sincretistica il cui portato è l'impossibilità di definire chiaramente e univocamente l'essenza

umana; se Nussbaum ha enfatizzato l'importanza della cultura umanistica e dei contenuti della classicità, lo ha però fatto all'intemo di un sostanziale tentativo di innesto dell'umanesimo sul liberalismo, come se la filosofia classica potesse aumentare l'efficienza e la produttività o avesse di mira ciò; se Onfray mette viva passione e sincero spirito emancipatore nella sua esuberante produzione filosofica, finisce però con il teorizzare una visione anarco-edonistica distruttrice di ogni realtà stabile sostanziale che risulta completamente funzionale all'anarco-consumismo capitalistico, dando vita all'ennesimo esempio di ribellione culminante in un nuovo conformismo; se Savater intuisce la funzione pedagogica della filosofia e dell'etica in particolare, non riesce però a liberarsi di una vena relativistica di fondo che dimentica le salde barriere fondamentali che sono il vero contenuto di una vera etica; se Singer argomenta in modo chiaro e convincente senza oltretutto rinunciare al giudizio di valore e richiamando l'attenzione sulla coerenza individuale tra pensiero e vita, nella sua prospettiva viene però del tutto meno una qualsiasi visione di ampio respiro; se Spaemann ha per esempio la lucidità di riconoscere che il consenso maggioritario "democratico" non può in alcun modo essere la fonte principe della validità normativa di un'affermazione, nella sua rinuncia all'utopia di una società libera dalla povertà in conseguenza del fallimento del comunismo storico rischia però di gettare via insieme all'acqua sporca anche il bambino; se Taylor mostra una conoscenza e una capacità sistematica notevoli che gli consentono di fornire una monumentale ricostruzione del processo di secolarizzazione, non è però analiticamente capace di individuare il retroterra economico di un tale processo; se Todorov ha il merito di pensare l'uomo come ente naturalmente comunitario, tende però a istituire un solco troppo netto tra modernità (intesa da lui in senso positivo come portatrice di contenuti innovativi) e classicità; se - infine - Zizek continua senza remore a prendere posizione circa la necessità di pensare e costruire il comunismo in ragione del suo essere «idea eterna», non è però altrettanto pronto a fornire una chiara e compiuta definizione di una tale idea e a strutturare la via progettuale alternativa conseguente, come se il comunismo fosse già

semplicemente latente nell'attuale stato di cose. Un caso a parte è quello di Abdullah Ocalan, salito alle cronache dei media come "terrorista", prima condannato a morte in Turchia poi - abolita la pena di morte - all'ergastolo, che per Grecchi non solo ha il pregio di aver scritto un testo ricco di umanità e di attenzione per la tradizione e le radici (quelle sumeriche, nel caso specifico), capace di affermare con nettezza il bisogno di resistere all'impero capitalistico occidentale per riaffermare la natura comunitaria umana e ricostruire così un solido Umanesimo14, ma che è - soprattutto - nella sua stessa persona un vivo esempio di quell'essenza umana la cui importanza il Nostro non smette mai di affermare, universale perché espressione di valori e verità assoluti, da Occidente a Oriente. Vale la pena di richiamare un passaggio davvero intenso e sommamente espressivo dell'Autore, polemico contro l'incapacità di troppa filosofia contemporanea di affermare con forza che una società, per non smettere di essere umana, al servizio dell'uomo ed espressione dell'uomo, non può sopportare tanta proprietà in mano privata quanto è costretta oggi a sopportarne: «a me pare che dalla sua piccola cella, Ocalan colga l'essenza delle cose meglio della maggior parte dei filosofi accademici attuali, che nelle diverse varianti delle loro impostazioni non giungono neanche a comprendere questa minima, eppur fondamentale, verità» (supra, pp. 90s.).

Sul metodo

Anche nel presente testo, come in tutte le sue altre fatiche, avete trovato, a fianco della «deduzione sociale» delle categorie e dei concetti (vero e proprio "cavallo di battaglia" cavalcato - ancorché

in maniera consapevolmente problematica - da Preve)15, l'utilizzo di un approccio metodico che non è esagerato definire a pieno titolo "grecchiano", ossia quella che mi sembra connotabile come «deduzione psico-sociale» del pensare (cfr. in particolare FB). Che altro non è che il tentativo di interrogarsi sulle ragioni insieme psicologiche e sociali (questo prima di tutto nel senso che lo psicologico è in sé "spugna assorbente" rispetto al sociale) del sorgere in ogni pensiero (nel pensatore che fa capo a ogni manifestazione del pensiero) di un determinato interesse per una tematica piuttosto che un'altra, di una conclusione piuttosto che un'altra, e così via. Per entrambe le modalità di indagine si pone certamente la questione del rapporto tra Genesis (genesi, sempre contingente e particolare) e Geltung (validità universale e assoluta), che qui può essere semplicemente sollevata e non approfondita16; tuttavia, resta ugualmente importante notare che l'Autore sembra chiamare in causa la Genesis - e sempre in modo rispettoso, ancorché risoluto - proprio nel momento in cui avverte una significativa mancanza della Geltung, di contenuti veritativi forti e (umanisticamente) fondati. Spesso il silenzio dice molto di più di una marea di assordanti parole: se un tema è tanto spesso messo a tacere conviene forse mettersi in ascolto di tale silenziamento e capirne così il motivo, piuttosto che non soffermarsi sul fiume di parole che ad altri argomenti viene continuamente riservato. Il Nostro mostra una sensibilità particolare nel mettersi in ascolto del silenzio; potrei persino dire che il suo rapporto con l'alternativa filosofica e umanistica all'attuale totalità sociale è analogo a quello che Heidegger intratteneva con l'Essere: meno se ne parla, più dimostra la sua importanza; meno appare, più è ciò che fa apparire e deve essere messo al centro della scena; meno se ne sente la mancanza, più è ciò che manca e che va recuperato; meno "c'è", più è ciò che fa essere e che va fatto pienamente essere; ecc. Detto altrimenti, Grecchi non opera in alcun modo una totale "riduzione psico-sociale" dei contenuti del pensare e dei moventi che guidano i pensatori, ma afferma che laddove viene meno il discorso veritativo, umanisticamente fondato (la metafisica umanistica fondata sull'anima umana come "trinità" di ragione,

morale e simbolo), l'unico in grado di dar vita a una progettualità alternativa, è proprio allora che occorre domandarsi quali possano essere le ragioni di una tale mancanza, ed è proprio allora che occorre rivolgersi al rapporto che ogni pensiero/ pensatore intrattiene con la totalità sociale in cui è inserito e di cui è espressione. Non per fagocitare il primo nella seconda, ma per chiarire che cosa nella seconda impedisca lo sviluppo (metafisicamente) compiuto e (umanisticamente) veritativo del primo, e prendere così posizione contro un tale fattore di impedimento in vista del suo superamento. Deve essere qui tenuto ben presente che non si tratta di una faccenda di solo pensiero, in quanto per l'Autore pensiero e vita sono profondamente legati: lo sviluppo compiuto del pensiero è funzionale allo - e reso possibile dallo - sviluppo compiuto dell'anima umana, dell'uomo; o si può anche dire, la (vera) conoscenza della (vera) felicità conduce alla sua realizzazione (cfr. CF)17, secondo la vena di "intellettualismo socratico" di fondo che percorre l'intera sua opera18. A ciò, mi sento di aggiungere un elemento che mi risulta poco tematizzato dall'Autore nelle sue opere: se l'assenza di una sistematica ed esplicita critica alla totalità sociale capitalistica è così diffusa (come egli sottolinea insistentemente), credo sia (anche) perché l'ormai imperante economi(ci)zzazione della società (che ha investito, com'è stato giustamente notato da più parti, anche quello stesso marxismo che si proponeva di limitarla) è capace di far leva su una delle più profonde (nonché, a mio avviso, più spesso sottovalutate) antiche consapevolezze filosofiche, ossia il fatto che (come riconobbe già Aristotele) la filosofia può sorgere solo successivamente al soddisfacimento dei bisogni naturali elementari e fondamentali, alla messa a tacere del bisogno nel suo senso immediatamente biologico. Ossia: si può filosofare solo a pancia piena, o meglio solo quando non si devono passare le proprie giornate a preoccuparsi di come fare a riempire lo stomaco. Inoltre19, tutta la riflessione platonica (qui Grecchi mi sembra cogliere un punto davvero essenziale, ancorché con il suo linguaggio e con il suo taglio peculiari) altro non è che la messa in scena della nascita della filosofia come tentativo di riflettere nello

spazio pubblico e comune dell'agorà sulla filosofia stessa, sul rapporto che essa ha e deve avere con l'insieme delle altre attività produttive umane che si svolgono nella polis (le technai), per indirizzarle al fine loro più appropriato, all'uomo, al Bene (umano). Ossia: la filosofia è quell'attività improduttiva che però riflette sul senso e sulla funzione di ogni altra attività produttiva, circoscrivendo ciascuna di esse per far sì che il loro telos sia l'agathon (più radicalmente, l'anthropos). Tutto ciò significa - posso qui solo accennarvi - che la martellante insistenza sulla necessità della produzione, dell'efficienza e della produttività, è un modo di ricordare (indirettamente, ma sempre più spesso anche direttamente) alla filosofia questi due aspetti, vale a dire che primum vivere (deinde philosophari) e che, soprattutto, di quel vivere si occupano proprio tutte quelle attività produttive che l'improduttiva e inutile filosofia vorrebbe "controllare" o "dirigere" dall'alto del suo astratto e "iperuranico" pensare. Ora, non solo di fronte a questo non basta cercare di affermare che la filosofia non serve a niente e a nessuno perché non è asservita, perché non è serva di niente e nessuno20 (affermazione peraltro comunque discutibile, perché chi scrive - e Grecchi stesso, mi sento di dire: cfr. p.e. PF, 43-46 - potrebbe facilmente ribadire che nulla come la filosofia serve ed è utile all'uomo, persino nel senso che la filosofia è asservita all'uomo)21, ma soprattutto (e qui si nasconde il diavolo), è proprio nella significativa "interiorizzazione" di una tale critica che si può rintracciare la mancanza di coraggio (che altro non è che il coraggio della verità)22 che caratterizza larghi frangenti della filosofia contemporanea. Voglio dire: è proprio nel momento in cui il filosofo inizia a vergognarsi di essere tale, pensandosi ("consciamente" o meno) come assolutamente dipendente da quel sistema di produzione che lo sorregge, lo mantiene e, soprattutto nei momenti di crisi sistemica come quello che stiamo vivendo, lo può da un momento all'altro lasciare "senza pane", che la vis polemica nei confronti del sistema stesso è destinata a venir quasi spontaneamente meno. È per questo, d'altronde, che non c'è bisogno di una vera e propria macchina censoria esplicita e capillare, di una rinnovata Inquisizione: è

sufficiente che ognuno si censuri da sé per timore di sentirsi dire qualcosa come «parli parli, ma senza il mio lavoro come potresti mai avere la possibilità di leggere, di scrivere e di riflettere?!»23. Peraltro, è nuovamente per questo, mi sento di dire, che il rapporto tra la filosofia e l'istituzione universitaria (il «Dipartimento», declinazione accademica del «Palazzo» pasoliniano) è sempre stato così problematico e difficile (forse impossibile?). Ma anche (su questo, nuovamente, Grecchi è stato molto lucido); è ancora per questo che, nonostante i filosofi (anche quelli accademici) siano tutti per natura "antricrematisti" (non c'è filosofo che possa passare la sua vita ad accumulare ricchezze per sviluppare la propria filosofia, non c'è filosofo che possa dichiarare esplicitamente che l'accumulo di ricchezze è la vera meta dell'uomo), sono poi ben pochi quelli che lo dicono o scrivono in modo netto, e ancora meno sono coloro i quali si impegnano filosoficamente in una progettualità alternativa. È altresì vero che una tale diffusa sfiducia nella capacità pro-meteica e progettuale della filosofia da parte di coloro che dovrebbero incarnarla, o quantomeno (ri)costruirla, è in chiaro legame con il fallimento dei principali comuniSmi storici del Novecento: molti tra coloro che hanno speso anni a credere davvero all'emancipazione e alla fuoriuscita del capitalismo lavorando attivamente a far spazio al comunismo, si sono poi ritrovati di fronte miseria (spirituale prim'ancora che economica) e infelicità, e hanno così pensato che non fosse la realizzazione a essere fallimentare, quanto l'idea che ne era alla base, perdendo infine non solo ogni fiducia nella possibilità di un superamento dell'attuale modo di produzione, ma anche (soprattutto, rispetto a quanto qui è centrale) in ogni forma di pensiero forte, in ogni sistema di verità coerente e sistematico, con la successiva apertura della stagione "post-" ("moderna", "storica", "umana", "filosofica", "politica", "artistica", ecc. - tutto tranne che post-economica). Fallito un ambizioso e sentito esperimento politico, si è iniziato a credere che i presupposti realistici impliciti nella sua esecuzione fossero non solo nulli ma persino irrealistici e irrazionali (inumani). È l'umano passaggio dall'il-lusione alla dis-illusione passando tramite la de-lusione:

umanamente comprensibile forse, appunto, ma non per questo da sottoscrivere o addirittura incentivare. Ora: non solo è tutto da dimostrare che il "comunismo storico" fosse davvero fondato - direbbe Grecchi, ma dovremmo iniziare tutti a rifletterci sopra con lui - sull'idea di un radicale e veritativo umanesimo, piuttosto che non quantomeno su un suo qualche tenue e sfocato riflesso ideologico24, ma - e sta qui il coraggio della verità e della coerenza dell'Autore - va anche quantomeno messo in dubbio che «la pratica possa confutare la teoria, ossia che la storia possa confutare la filosofia», perché esse «sono realtà troppo eterogenee, e gli "esperimenti storici" non sono fatti in un ambiente neutrale, affinché possano confutare in modo certo», tanto che «il fatto che l'applicazione di certe dottrine si riveli vincente o perdente, buona o cattiva, dipende spesso dalle situazioni concrete in cui ci si trova a operare, dai nemici esterni con cui ci si trova a combattere, da fattori casuali, non sempre dalla bontà o meno di quelle dottrine» (VB, 53 - affermazione che non può in questa sede purtroppo essere ulteriormente analizzata e problematizzata). Se Nietzsche (nome che l'Autore ci scuserà se chiamiamo qui in causa, dato il suo assoluto rifiuto del "martello filosofico" del pensatore tedesco) sosteneva l'idea secondo cui «che qualcosa sia utile non ci dice nulla circa la sua verità»25, ciò può essere accettato solo passando prima tramite il riconoscimento che "vero non è ciò che è utile (in senso economico)", per concludere con la convinzione secondo cui che qualcosa che dichiari di essere fondato sulla verità produca dolore e sofferenza non significa, quando anche sia effettivamente fondato su di essa, che tale verità sia predica di dolore e sofferenza, che dunque sia una non-verità, la più totale falsità.

Sul Progetto

Il percorso lungo il «sentiero della verità» (cfr. in particolare KM) raggiunge la propria meta solo nel momento in cui riesce a dar vita a un sistematico, coerente e strutturato progetto ideale di un'alternativa al modo di produzione capitalistico26, secondo una rivisitazione umanistica dello schema biblico della salvezza («schiavitù-elezione-liberazione»): l'uomo può liberarsi dalla propria schiavitù terrena solo elevando la propria anima a universale fondamento della verità e del bene, facendo da tale comprensione discendere coerenti modalità di vita. [...] L'esistenza umana non può essere vissuta solo come attesa di un evento trascendente, ma come incarnazione di una verità trascendentale.

[...] L'uscita dal mondo può

paradossalmente avvenire solo "nel mondo", per i limiti mortali propri dell'uomo. Questa è la tragedia umana. Solo conoscendo con verità cosa è bene e cosa è male potranno nascere comportamenti conseguenti. [...] La vera salvezza è nelle opere, nella vita, perché essa può essere solo una salvezza terrena. È terrena ma universale, poiché identicamente necessaria e preziosa per tutti gli uomini. È universale e assoluta [...]. Esiste una sola universalità umana, sebbene essa si costituisca in una molteplicità composita di persone (SQ, 167-169).

Grecchi, con altre parole, sostiene che - se è vero che «la progettualità è elemento essenziale della natura umana» (GF, 133) - il compito del filosofo non può che essere quello di scrivere una sorta di "novella Repubblica", di dar forma a un'utopia nel senso del pensare quell'eu topos teatro dell'eu zen, cosa possibile solo se si pensa tale topos come anthropos, come «natura umana»: ridare vigore alla pulsione utopica radicata nella natura umana significa così avere di mira «una progettualità che, pur partendo dal nostro tempo, deve saper immaginare, basandosi su ciò che è in potenza presente nella natura umana, un modo di produzione sociale migliore, che consenta appunto di porre in atto ciò che è in tale natura presente» (supra, p. 52). Con altre parole, e muovendo dal fatto che uno dei compiti principali della filosofia (se non il compito) è quello di «saper trascendere la propria epoca e i dogmi in essa presenti» (PF, 86), «una compiuta concezione della filosofia sfocia inevitabilmente in un progetto politico-sociale alternativo» (ivi, 85).

È il tentativo filosoficamente e umanisticamente (dunque veritativamente) fondato di lasciarsi alle spalle la visione largamente diffusa per cui «l'utopista è un totalitario; egli è un immorale capitano di ventura, pronto a sacrificare i diritti della generazione presente per mondi di felicità che probabilmente non verranno mai», ossia «è un irrazionalista irresponsabile» e un «profeta che annuncia il prossimo avvento di paradisi in terra», perché «l'utopia è un sogno di un mondo beato e una fuga dal mondo reale; non è una cura delle sofferenze reali»27. A chi ritiene che il possesso di una (della) verità sia pericoloso perché tende a convincere e a imporre, negando l'umana possibilità dell'errore, egli risponde che «ben più pericoloso è invece chi non possiede la verità, perché condizionabile dalle modalità sociali dominanti come una bandiera al vento» (SQ, 102). Ossia: certo errare humanum est, ma perseverare diabolicum est, e questo proprio perché non è vero che humanum errare est, come se la natura umana fosse quella di errare senza bussola, fisicamente (precarizzazione del lavoro e povertà diffusa alla base dei nuovi fenomeni di migrazione presenti e futuri) e metafisicamente (interpretazione illimitata alla ricerca di una verità ridotta nichilisticamente a nulla). Ora, chi conosce non solo e non tanto la persona e il carattere di Grecchi, ma soprattutto (che è la cosa filosoficamente più rilevante) le sue opere, sa bene come vi sia in esse non solo un atteggiamento completamente opposto a quello di un «irrazionalista irresponsabile», ma soprattutto un discorso filosofico incentrato proprio sulle dimensioni della razionalità e della moralità, il tentativo - cioè - di «argomentare, partendo dal fondamento filosofico ed in modo sistematico (ma aperto), la necessità di modalità sociali che si conformino alla vera natura razionale e morale dell'uomo» (RB, 8), alle sue esigenze di libertà, individuando senza timidezza nella «pianificazione» totalmente anticrematistica e internazionalmente coordinata28 quello «strumento socioeconomico-politico di organizzazione delle modalità concrete della vita che di tali esigenze maggiormente [...] tiene conto» e che, si badi, «non può esistere senza libertà» (ibidem). Quello strumento, detto altrimenti, in grado di dare all'uomo quella regolarità e quella

sicurezza che sono necessarie - anche in ragione della sua stessa struttura biologica - allo sviluppo florido della sua natura (cfr. p.e. MG, 72), perché «l'assoluta incertezza lascia l'uomo nella disperazione, poiché questa è la sorte dell'uomo che manca dell'assolutezza della conoscenza» (SQ, 113)29: l'unico modello economico-politico al contempo conforme al dettato platonico della Repubblica [ossia: pienamente filosofico], e realizzabile anche nella contemporaneità (previo ovviamente un radicale mutamento della società), pare essere quello della pianificazione globale dell'economia. Solo con questa modalità produttivo-distributiva, infatti, a nessuno potrà mancare il necessario; solo in questo modo milioni di persone potranno rimanere, se lo vorranno, nei loro paesi di origine e vicini alle loro famiglie, senza morire di fame; solo in questo modo si potrà scegliere democraticamente cosa produrre, quanto produrre e come produrlo, senza subire le logiche del profitto; solo in questo modo si potrà salvaguardare l'ambiente dallo sfruttamento distruttivo realizzato dalle economie di mercato; solo in questo modo si potrà vivere in rapporti sociali più comunitari, privi della competitività esasperata che caratterizza l'attuale modo di produzione; solo in questo modo si potranno liberare milioni di persone, oggi impegnate nella produzione di beni e servizi inutili o dannosi, verso attività migliori e più umane. Solo in questo modo, per concludere, si potrà pensare ad una vita, e ad un mondo, in ogni aspetto più conformi alla natura umana (FP, 125s.).

Muovendo da un tale orizzonte, non è casuale che la presente opera si concluda sottolineando che «il comunismo non può vincere con la forza, ma solo con l'educazione, ovvero convincendo che esso è un modo di produzione non solo necessario, ma anche il migliore possibile per la realizzazione della vera umanità, e dunque per favorire una maggiore felicità» (supra, p. 149). Certo, il suo tentativo è “scomodo" e difficile (i problemi vengono ovviamente riconosciuti ma non per questo ritenuti «insormontabili»; MG, 73, soprattutto se «il progetto sarà largamente condiviso»: RB, 9), ma è rigoroso e onesto, come quando - per esempio - mostra piena consapevolezza e sincerità nel non rifiutare la questione "totalitaristica" dell'accettabilità della declinazione contemporanea della democrazia (rappresentativa e mass-mediatica, mercantilistica e opinativa) e, ancor più, quella del grado di compatibilità tra

democrazia e pianificazione, per rovesciarle però in una "sobria" ma ferma fiducia nelle potenzialità della natura umana, quando liberata dal degrado spirituale e materiale che oggi la infesta (cfr. ivi, 10-15). Se a prima vista un simile intento generale può apparire, anche con la benevolenza di chi non grida al totalitarismo dispotico in presenza di ogni tentativo di pensare un'alternativa fondata, ingenuo (lo stesso Autore non è refrattario a critiche di tal tipo - a testimonianza del suo «irrazionalismo irresponsabile»!), l'evoluzione delle "cose economiche" degli ultimi anni smentisce seccamente una tale lettura, riproponendo con forza la questione del «che fare?» e soprattutto dell'«in che direzione andare?» (cfr. soprattutto KM, 145-154, ma anche AU, 79-89). Credo sia proprio per questo che l'intera opera di Grecchi, di cui il presente testo è solo il cronologicamente ultimo e importante (per nulla definitivo)30 tassello, pur con tutte le criticità che ogni costruzione di tipo sistematico comporta, andrebbe tenuta in grande considerazione: aveva forse davvero ragione il compianto Massimo Bontempelli quando gli riconosceva la possibilità di «anticipare qualcosa che è nella pancia della storia» (RB, 10) per aver compreso la centralità di un tema «storicamente destinato a riemergere in grande stile» (ivi, 9). Ma si può ancora dire che - come ha notato anche Preve31 Grecchi, ponendo l'anima umana come fondamento della verità, sta cercando di fatto di restaurare un concetto perduto quando non esplicitamente negato: in tal senso, è indubbiamente un "restaurazionista" o un "restauratore", perché intende ristabilire un approccio considerato ormai superato, non up to date, archeologico e datato. Eppure, non sarebbe certo la prima volta che nella storia un'operazione simile finisca con il rivelarsi gravida del valore più rivoluzionario, soprattutto quando - com'è convinzione dell'Autore sono gli stessi contenuti classici, «per i contenuti umani che rappresentano», a porsi «in radicale opposizione al nostro tempo» e a essere pertanto «fortemente rivoluzionari» (FI, 67): va cioè riaffermato «il potenziale rivoluzionario della classicità greca» (FP, 16)32, insieme scientifico e utopico perché fondato sulla conoscenza veritativa dell'intero e incentrato sull'ideale di un progetto di

modalità sociali migliori rispetto a quelle storicamente presenti. Vorrei ora fornire alcuni spunti critici pur contratti nello spazio di queste poche pagine, che non intendono nemmeno lontanamente ricostruire l'interezza dell'itinerario del Nostro. Pur condividendo non solo l'esigenza di rinnovamento profondo della nostra società che lo anima ma anche la convinzione che esso non possa che essere pensato e realizzato che a partire dalla centralizzazione della natura umana e dalla comprensione filosofica della sua essenza, credo che il suo progetto abbisogni di una maggiore specificazione e strutturazione (che è peraltro quanto l'Autore stesso dichiara di avere in programma di fare, avendo anzi annunciato l'imminente pubblicazione di testi decisivi in tal senso), soprattutto in due direzioni33. La prima è quella di definire in maniera logicamente e concettualmente più stringente il rapporto che lega la natura umana e l'essere, nonché di (di)mostrare se e come l'anima umana possa essere "ottimisticamente" considerata in quanto tale orientata al bene e al vero o, quantomeno, se e come possa orientarsi al bene e al vero una volta che li abbia visti in quanto tali (è l'annosa questione della fondatezza di una visione imperniata sul cosiddetto "intellettualismo socratico" già richiamato in precedenza). Tali snodi sono solo due tra i tanti possibili stimoli che la lettura delle opere di Grecchi pone al centro dell'attenzione e della riflessione, ed è evidente come siano questioni capitali che richiedono notevoli capacità insieme analitiche e sintetiche, al contempo diaretico-dialettiche e sistematiche: tuttavia, per prendere sul serio un pensatore, bisogna prendere sul serio la sfida che ci lancia, e lo si deve fare criticamente. La seconda direzione che mi sembra necessiti di un ulteriore sforzo argomentativosistematico (che certo, come egli stesso non manca di notare anzi di auspicare, non può, proprio per la sua stessa natura e finalità, essere compiuto da una sola persona)34 è la definizione dei lineamenti progettuali di un modo di produzione alternativo, in senso certo filosofico ma anche etico-politico, nonché, non bisogna dimenticarlo giacché sempre e comunque di produzione si parla, economico (non per questo crematistico, evidentemente, anzi proprio tenendo conto della distinzione tra queste due opposte

modalità di produzione). Dico ciò proprio perché stanno qui l'originalità e il tratto più proprio della sua prospettiva (come notava anche Bontempelli), che va dunque valorizzata ed espressa con il massimo della chiarezza e lucidità possibili (non da ultimo, per evitare i troppi eventuali fraintendimenti figli dell'immersione in un'atmosfera decisamente poco ricettiva a tal proposito). Per esempio, personalmente continuo a essere molto perplesso circa la possibilità, ma anche l'opportunità, di negare completamente lo spazio dello scambio economico (del commercio e del denaro), non solo e non tanto in ragione del fatto che il mercato darebbe sfogo ed espressione alla componente più desiderante e imprevedibile che contraddistingue il «legno storto» umano (homo sapiens/demens, nei termini di Morin, ma cfr. anche quanto rimarca Preve al Nostro in MG, 74-90), né soltanto e non tanto per il rischio che tale progetto possa essere accolto come nemico della libertà (nel momento in cui questa è concepita solo e soltanto come economica, è inevitabile che sia così), né - ancora - tanto e soltanto perché è quantomeno problematico pensare a una produzione totalmente pianificata sganciata da ogni minima forma di scambio (perché è per certi versi proprio questa difficoltà a rivelare la natura religiosa dell'economicismo contemporaneo), quanto soprattutto in ragione del fatto che alcune delle urgenze del nostro tempo sembrano richiedere uno spostamento di mira. Voglio dire, limitandomi qui prima di tutto all'Italia, il nostro paese pare preso in una morsa che lo stritola conducendolo sempre più in fretta verso la morte: da una parte l'assenza di sovranità monetaria, che di fatto lega completamente le mani a ogni possibilità di intervento politico sull'economia (non può esservi, va affermato con sobria nettezza, sovranità nazionale senza sovranità monetaria), dall'altra parte la presenza di una classe politica dirigente (la cui corruttela purtroppo è spesso felice espressione dei costumi di molti - troppi "votanti", come spesso si finge di non vedere) che non è affatto in grado, anche qualora avvenisse il "ritorno alla lira", di restituire, prima ancora che produttività ed efficienza, dignità e spessore culturale a un Paese che senza ombra di dubbio li merita e li ha posseduti per secoli e secoli di storia. Non dovrebbe allora una

filosofia critica prendere prima di tutto posizione circa queste questioni, e solo dopo dedicarsi a un progetto utopico (nel senso nobile del termine, sia chiaro)? Eppure, la sfida di Grecchi è proprio questa: restituire alla filosofia il ruolo di civetta che pensa il proprio tempo per consegnarlo però a un futuro pensato a partire da valori universali, dalla verità: un futuro pensato in riferimento all'uomo, all'anima umana. La sua sfida è - cioè - quella di non fare della filosofia l'ennesima scienza del particolare35, tutta concentrata sulle "ontologie regionali" o sulle "metafisiche speciali" fatte di criptolinguaggi tecnicistico-formali e resa così cieca rispetto a ciò che la circonda dai propri "paraocchi metodologici", incapace così di cogliere l'insieme dei movimenti della società e della storia, dell'uomo36. Ebbene, stante questo, si può allora davvero dire che il Nostro ci offre una visione "totalitaria" ma nient'affatto "totalitaristica": una visione filosofica e umanistica perché visione della totalità, dell'intero, della totalità dei significati che appartengono all'anima umana37.

Sulla Filosofia

Il titolo di questa postfazione è, come si sarà visto, «solo la Grecia può ancora salvarci», ma ciò non va in alcun modo inteso nel senso di una sostituzione dell'antica Grecia al Gott heideggeriano38, quasi come se bisognasse aspettare passivamente un impossibile ritorno del / al mondo greco, quasi come se al posto di Godot occorresse aspettare passivamente, per esempio, il ritorno di Platone, Aristotele, Omero, Eschilo, Solone, Pericle, ecc. Il punto è piuttosto, come sarà ormai chiaro alla luce di tutto quanto detto in precedenza, che ciò che dei Greci può salvarci è l'attivo habitus non solo di pensiero ma di vita in generale, l'approccio al sapere e alla

politica come limitazione della crematistica, le loro categorie e l'ampiezza del loro sguardo, non tanto uno specifico contenuto o uno specifico atto da "ripristinare" e "riproporre" nel tentativo di un "ritorno al passato", all'età dell'oro39: occorre essere ben consapevoli dell'«irri-mediabile distanza» (FP, 20) che ci separa storicamente e non solo dal mondo greco, ma occorre anche essere ancor più consapevoli del fatto che i Greci restano insuperati nella loro capacità di cogliere - per così dire - l'umanità dell'uomo, ciò che è più proprio dell'uomo in quanto tale, e di tematizzare e incarnare questo non solo in generale tramite tutta la loro cultura (in senso ampio, dall'organizzazione sociale all'arte, dalla tradizione alla prassi, e così via), ma in particolare attraverso la filosofia, luogo in cui tutte le altre dimensioni della vita greca è come se si condensassero trovando così la loro compiuta espressione (è come se venissero aufgehoben, si potrebbe dire). Si deve piuttosto allora dire, in accordo con quanto sin qui visto, che «nur noch die Philosophie kann uns retten»: solo la filosofia può salvarci, solo la vita del filosofo può sottrarsi ai meccanismi spersonalizzanti perché mercificanti e recuperare la struttura essenziale della vera umanità, la sua vita è «l'unica che sappia indagare la condizione dell'uomo all'interno dell'essere, ed occuparsi della migliore realizzazione dell'esistenza nel rispetto delle leggi necessarie della natura» (ivi, 9). Proprio per questo, «solo il filosofo è il vero politico, se per politica si intende l'attività di cura della polis umana» (ivi, 9s.), ma allo stesso tempo solo il vero politico è vero filosofo, se per filosofia si intende la conoscenza veritativa dell'anima umana finalizzata alla sua cura. «La politica è cambiamento, non amministrazione dell'esistente» (VM, 122): solo il filosofo sa comprendere la totalità dell'essere in base al corretto fondamento, ossia all'uomo nella sua piena umanità. Solo il filosofo sa indicare il bene ed il male, il giusto e l'ingiusto, cosa unisce e cosa divide gli uomini. [...] La filosofia è il necessario fondamento della politica, e pertanto chi vuole occuparsi di politica non può fare a meno della filosofìa. [... ] Non si può realmente prendere alcuna decisione politica se prima non si conosce con verità, ossia se non si dispone di una conoscenza stabile, fondata e

profonda, sia dei contenuti particolari delle singole questioni, sia dei contenuti generali inerenti la vita umana. [... ] Il significato umanistico costituito dalla consapevolezza della necessità di un modo di produzione sociale più umano, può essere esplicitato solo dalla filosofia. Essa sola, infatti, costituisce lo stabile fondamento della critica sociale (FP, 10-12).

Il primo compito del filosofo che intraprendesse tale percorso di critica sociale in vista della progettazione di una modalità alternativa (che decidesse di essere davvero filosofo, dunque) è di riaffermare e affermare costantemente il principio della «necessità di una adeguata conoscenza filosofica come base imprescindibile per una adeguata pratica politica» (ivi, 24), ricordando che «l'odio contro i ragionamenti e quello contro gli uomini nascono nella stessa maniera» (Platone, Fedone, 89d). Il primo compito del politico che decidesse di essere davvero tale è fare riferimento non a «un sapere che sia mera retorica», né a «un sapere che sia mera tecnica», né all'«erudizione», bensì a «un sapere rigoroso ed essenziale, in grado di connettere i temi più importanti con coerenza e sistematicità, ed in grado di essere espresso con chiarezza e semplicità», ossia a «un sapere filosofico che, ponendo come fondamento l'uomo e come riferimento l'intero, sia in grado di fornire l'essenziale verità dell'essere», perché «solo in questo modo il suo discorso potrà essere, insieme, sincero ed inattaccabile», perché solo la filosofia «insegna a far passare i pensieri dall'opinione alla verità, dalla doxa al logos» e con ciò «a pensare la politica come una reale cura dell'uomo nel contesto sociale» (FP, 31-33 e 50). Il punto di contatto tra le due facce della stessa medaglia (filosofia e politica) è in fondo sintetizzabile nell'esigenza di un radicale mutamento di stile di vita, una con-versione ad ampio raggio: per «saper trascendere il proprio tempo non lasciandosene imprigionare [...] è necessario quel passo in più nella conoscenza che solo la vera filosofia può dare, ma che richiede coraggio» (ivi, 56) - il già ricordato coraggio della verità. «Ahimè, è triste portare per primo notizie tristi, e tuttavia è inevitabile rivelare intera la sciagura» (Eschilo, Persiani, vv. 253254)40, anche perché amicus Plato, sed magis amica veritas41, ma la sciagura non può mai e mai deve attentare alla speranza, perché

«chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada» (Eraclito, B18) - senza speranza svanisce la ferrea volontà di «influire radicalmente sulla totalità sociale per cercare di migliorarla nel senso di una maggiore giustizia complessiva» (FA, 15): se i Greci se ne sono volati via per sempre, resta sempre però vero che non possiamo non dirci Greci, tanto materialmente quanto idealmente (cfr. G), nemmeno quando - come sta accadendo oggi sembriamo fare di tutto per rinnegare le nostre radici. Il "tafano" Grecchi42, potremmo dire in conclusione, con il suo incessante e stimolante "pungolare", si propone allora non tanto come l'ennesimo "novello Socrate", ma provocatoriamente come quello autentico43, come «il solo politico del suo tempo» (VM, 119), cioè come filosofo in senso pieno e totale, ancora una volta - come restauratore della rivoluzionarietà del pensiero e della pratica filosofico-politici. Vale la pena, andando verso la chiusura, di ascoltare cosa ci dice con appassionata razionalità questo autentico Socrate: con particolare riferimento alla politica, io penso una cosa ben precisa. Io penso che solo i filosofi possono essere dei buoni politici, in quanto il loro sapere ha per oggetto l'intero, il cui centro è costituito dall'uomo. Per essere buoni filosofi, e dunque per essere buoni politici, occorre infatti conoscere l'uomo immerso in questo tutto che è il cosmo, poiché solo in questo modo è possibile conoscere il suo bene, e quindi porlo in pratica. [... ] La fratellanza fra gli uomini può favorirla solo la filosofia. La politica, infatti, deve farsi consigliare dalla filosofia nel far rispettare all'economia i giusti limiti, affinché la crematistica e i suoi eccessi non prevalgano. [...] Un partito radicalmente alternativo potrebbe essere solo un gruppo in grado di rompere con le logiche della crematistica. Un gruppo di uomini in grado di pensare a modalità sociali in cui pianificare l'economia per il

fine della cura

dell'anima - tramite il sapere e la virtù - del maggior numero di persone. Questo farebbe un partito realmente composto da sapienti. [...] La ragione soltanto può ricondurci alla consapevolezza della nostra comune condizione di uomini, di cui

in primo luogo è necessario avere cura. [...] La ricerca serrata della verità è necessaria agli uomini per il raggiungimento della felicità. [...] Io propongo a ciascuno di voi la dieta della ricerca della verità e del bene [...]. Solo purificando, con la ragione, l'anima si può essere felici [...]. Questa purificazione è possibile però solo a opera della filosofia [...]. La vita non va spesa alla ricerca delle ricchezze, ma del sapere e della virtù, e dunque per questo occorre condurre l'economia della città a essere pianificata in modo comunitario. Se vogliamo infatti essere veramente amici e fratelli l'uno dell'altro, occorre anche che molte delle nostre cose siano comuni (S, 32-47).

L'ultima parola non può che spettare a Platone, come l'Autore certamente consentirebbe: «per un uomo che ha senno, il limite per ascoltare questi discorsi è la vita intera» (Platone, Repubblica, V, 450b).

1

Tra l'impressionantemente ampia (nonché, fattore affatto secondario, sistematica e organica) produzione di Grecchi (una bibliografia generale è disponibile su internet all'indirizzo http://www.filosofico.net/koinegrecchi.htm), mi limito a indicare qui solo le opere (con le relative sigle) che citerò esplicitamente in questa postfazione: L. Grecchi, L'anima umana come fondamento della verità, C.R.T., Pistoia 2002 [AU]; L. Grecchi, Karl Marx nel sentiero della verità, C.R.T., Pistoia 2003 [KM]; L. Grecchi, Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx, Petite Plaisance, Pistoia 2003 [VD]; L. Grecchi, La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio, introduzione di F. Toscani, Petite Plaisance, Pistoia 2004 [SQ]; L. Grecchi, C. Preve, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance, Pistoia 2005 [MG]; L. Grecchi, Conoscenza della felicità, premessa di M. Vegetti, Petite Plaisance, Pistoia 2005 [CF]; L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico della metafisica, Petite Plaisance, Pistoia 2005 [FIT]; L. Grecchi, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino, Petite Plaisance,

Pistoia 2005 [ES]; U. Galimberti, L. Grecchi, Filosofia e Biografia, Petite Plaisance, Pistoia 2005 [FB]; L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti, presentazione di C. Vigna, Petite Plaisance, Pistoia 2006 [UG]; L. Grecchi, La Filosofia Politica di Eschilo. L'eterna attualità del pensiero "filosofico-politico" del più grande tragediografo greco, Alpina, Torino 2006 [E]; L. Grecchi, Il Filosofo e la Politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica, Alpina, Torino 2007 [FP]; L. Grecchi, Il presente della filosofia italiana, postfazione di C. Preve, Petite Plaisance, Pistoia 2007 [FJ]; L. Grecchi, Corrispondenze di metafisica umanistica, con F. Bordonaro, G. Bailone, F. Soldani, F. Toscani, A. G. Biuso, Petite Plaisance, Pistoia 2007 [MU]; L. Grecchi, L'umanesimo di Platone, Petite Plaisance, Pistoia 2007 [UP]; L. Grecchi, Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia?, presentazione di G. Casertano, Il Prato, Saonara 2008 [PF]; L. Grecchi, Socrate. Discorso su Le nuvole di Aristofane. L'unico vero discorso tenuto da Socrate agli Ateniesi, Guida, Napoli 2008 [S]; L. Grecchi, Vivere o morire. Dialogo sul senso dell'esistenza tra Platone e Nietzsche, presentazione di E. Berti, Di Girolamo, Trapani 2008 [VM]; L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, presentazione di D. Fusaro, Il Prato, Saonara 2009 [O]; L. Grecchi, L’umanesimo dell'antica filosofia cinese, Petite Plaisance, Pistoia 2009 [FC]; L. Grecchi, L'umanesimo dell'antica filosofia indiana, Petite Plaisance, Pistoia 2009 [FIn]; L. Grecchi, L'umanesimo dell'antica filosofia islamica, Petite Plaisance, Pistoia 2009 [Fis]; E. Berti, L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, presentazione di C. Vigna, Il Prato, Saonara 2009 [FA]; L. Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci. In appendice: In difesa di Socrate, Platone e Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia 2010 [G]; L. Grecchi, L'umanesimo di Plotino, Petite Plaisance, Pistoia 2010 [UPI]; L. Grecchi, La filosofia della storia nella Grecia classica, Petite Plaisance, Pistoia 2010 [FS]; L. Grecchi, Confucio. Sulla buona vita, sul buon governo e su me stesso. Il diario ritrovato del grande filosofo cinese, Guida, Napoli 2011 [C]; L. Grecchi, Gli stranieri nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo, Petite Plaisance, Pistoia 2011 [SG]; L. Grecchi, Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo, Petite Plaisance, Pistoia 2011 [DP]; L. Grecchi, C. Vigna,

Sulla verità e sul bene, presentazione di E. Berti, postfazione di C. Preve, Petite Plaisance, Pistoia 2011 [VB]; L. Grecchi, Ricordo filosofico di Massimo Bontempelli, Petite Plaisance, Pistoia 2011 (disponibile su internet all'indirizzo www.petiteplaisance.it/Per_Bontempelli.pdf) [KB]; L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti, P.U.L., Città del Vaticano 2013 [EB - in pubblicazione]; D. Fusaro, L. Grecchi, I Greci che dunque siamo, Il Prato, Saonara 2012 [GS - in pubblicazione]. 2

Privilegiando il concetto di episteme rispetto a quello spesso assai più frequentato dai filosofi (contemporanei e non) di aletheia, un dis-velamento e sol-levamento del velo dell'oblio (Unverborgenheit, nei termini di Heidegger che su tale concetto ha imperniato tutto il suo pensiero) di per sé incapace di comprendere il reale fondamento (inteso come «pavimento, base sottostante») su cui costruire, con pilastri solidi e progetto sistematico, i significati onto-assiologici, per poi incarnarli (cfr. p.e. L. Grecchi, Considerazioni conclusive, in "Koiné", X, n. 1, 2003, pp. 115-126): «la verità assoluta non può cadere, perché essa è stabile, eterna» (SQ, 105), ossia è appunto definibile come «episteme, ovvero come lo stare (stéme) che si impone su (epi) tutto ciò che pretende di negare ciò che sta; lo stare che è proprio del sapere incontrovertibile» (PF, 38). In quest'ottica si situa la definizione generale di filosofia in base «alle sue due caratteristiche essenziali: la ricerca di una fondata verità dell'intero, e la centralità dell'uomo» fornita dall'Autore in una delle sue più importanti opere: «la filosofia è la ricerca di un sapere stabile, massimamente fondato ed argomentato, inerente la totalità dell’essere e trascendente la dimensione empìrica dell'esistenza (metafisica); una ricerca incentrata sull'uomo, poiché l'uomo è il solo ente in grado di attribuire un significato all'essere, ed al contempo di rispettare e prendersi cura dell'essere stesso (umanesimo)» (ivi, 13). 3

«Se ne possono, cioè, comprendere e delineare i contenuti essenziali anche se, essendo la ragione umana limitata, occorre essere consapevoli che ci si può sempre sbagliare, e che ben difficilmente si potrà pervenire ad una conoscenza compiuta» (ivi,

20). 4

Di cui si occupa la grande maggioranze delle pubblicazioni grecchiane: vanno perlomeno ricordati, oltre al "manifesto" sulle radici greche della nostra civiltà (cfr. G, nonché GS), alcuni testi che offrono delle interpretazioni decisamente originali dell'insieme del mondo greco classico, che sono convinto presto o tardi incontreranno l'attenzione degli "specialisti", e in particolare la sua ricostruzione della presenza di una filosofia della storia nella Grecia classica (cfr. FS), dell'atteggiamento di accoglienza e di apertura nei confronti degli stranieri (cfr. SG) e della nascita del diritto in senso umanistico (cfr. DP) nella medesima. 5

Cfr. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie (1954), trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, prefazione di E. Paci, introduzione di W. Biemel, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 33-47. 6

L. Cesana, C. Preve, Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosik, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 59. 7

Significativo a tal proposito che poche righe sopra l'Autore avesse sostenuto che «l'intero è per me la totalità sociale idealizzata, che deve essere sempre ontologicamente ed assiologicamente valutata dalla metafisica in termini di verità e di bene, in modo tale che la politica abbia sempre la teoria per poter intervenire nel modo migliore sulla realtà». 8

Mi riferisco chiaramente a O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes (1918-1922), trad. it. di J. Evola, Il tramonto dell'Occidente, a cura di R. Conte Calabrese, M. Cottone e F. Jesi, Longanesi, Milano 2008, ma si veda anche l'opera dal titolo omonimo di U. Galimberti, Il tramonto dell'Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2005. 9

Le cui conclusioni sono insieme apocalittiche e umanamente

fiduciose (è la stessa natura essenziale umana a non poter tollerare a lungo di vivere in una catastrofe permanente): «l'attuale Occidente ha le proprie ore contate, in quanto si trova innanzi i limiti ambientali della natura e i limiti onto-assiologici dell'uomo. Purtroppo, per la propria struttura e la propria dinamica interna, esso è assolutamente incapace di autoriformarsi. L'unico modo possibile di evitare questo scenario è quello di accrescere la consapevolezza dei necessari contenuti umanistici della vita. Qui gioca un ruolo molto importante la filosofia, e con essa la politica, che dovrà porre tali contenuto al centro della riflessione. In questo senso sarà imprescindibile recuperare il grande pensiero metafisico-umanistico della Grecia classica, ed al contempo far comprendere all'Occidente i similari contenuti umanistici del pensiero cinese, indiano, islamico, ed in generale di ogni pensiero altro dall'Occidente. L'umanesimo, in questo senso, può porsi come il solo elemento unificante, insieme concreto e universale, contro la barbarie verso cui sta conducendo l'Occidente capitalistico. Paradossalmente, l'unica possibilità che gli uomini si rendano consapevoli di questa barbarie, nell'attuale mefitico clima culturale, sta proprio nell'antiumanesimo insito in tutta la vita e il pensiero dell'Occidente. L'uomo infatti, per sua propria essenza, non può tollerare a lungo simili modalità di vita e di pensiero» (ivi, 213s.). 10

Alla dialettica hegeliana Grecchi ha specificamente dedicato

VD. 11

Individuando come le quattro principali correnti l'ermeneutico-simbolica, la razionalistico-scientifica, la marxistaradicale e la metafisico-religiosa, manifestando in particolare la sua inclinazione filosofica verso le ultime due (cfr. FI, 10-12). Va qui però ricordato, a proposito del rapporto di Grecchi con il panorama filosofico italiano contemporaneo, almeno che egli si è confrontato in modo più articolato e ampio con il pensiero di Umberto Galimberti (cfr. UG e FB, nonché il numero della rivista "Koiné" - da lui co-diretta - dal titolo Sym-ballein. Riflessioni sugli scritti di Umberto Galimberti, XII, nn. 1-2, 2005), Emanuele Severino (cfr. ES), Sergio Quinzio (cfr. SQ), Carmelo Vigna (cfr. FU), Enrico Berti

(cfr. EB, ma anche FA e la Postfazione a E. Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia 2006, pp. 309320), e di diverse altre figure con cui ha intrattenuto e tuttora intrattiene una "corrispondenza filosofica", ma prima di tutto umana (cfr. MU). Senza dimenticare, a testimonianza ulteriore dell'ampiezza della sua sensibilità e passione filosofica, il costante dialogo con quegli autori che rappresentano le sue principali influenze, su tutti Massimo Bontempelli e Costanzo Preve. 12

Dovendo dare in questa sede per scontata una tale sommaria distinzione, vale la pena almeno ricordare però che, come spesso ha scritto Costanzo Preve, per esempio può esservi e per fortuna vi è anche una «sociologia radicale con presupposti filosofici» che non si nasconde dietro l'avalutatività e l'oggettività pseudo-scientifica e che perciò riesce a disilludere - o prova a farlo coloro che credono all'automovimento disincarnato delle idee nel cielo iperuranico. 13

Che in larga parte condivido, per quanto, per esempio, ho altrove tentato una lettura dell'opera di Taylor presa in esame supra alle pagine 133-136 che valorizzasse maggiormente la sua affermazione della costruzione dell'immaginario moderno in termini di immaginario economico: cfr. G. Pezzano, Il «residuo produttivo» della secolarizzazione: l'uomo, il denaro e il sacro. Considerazioni a partire da Charles Taylor, in "Lessico di Etica pubblica", II, n. 1, 2011, pp. 19-41. 14

Da intendere, per l'Autore, come «la ricerca della compiutezza delle componenti razionali, morali e simboliche che costituiscono l'essenza dell'uomo, nel rispetto dei limiti della natura», ossia - in altre parole - «la ricerca di compiutezza dei contenuti razionali, morali e simbolici che costituiscono la natura umana» (UP, 9 e 15). In tale ottica, «"l'utilizzo umano" delle cose differisce dallo "sfruttamento", che costituisce invece un "utilizzo inumano" delle stesse, ossia irrispettoso della vita. L'uomo che non pensa all'intera umanità sfruttando eccessivamente le risorse di cui dispone agisce in modo disumano. Solo la conoscenza veritativa conduce a un uso corretto - ossia conforme alla stabile cura dell'intera umanità - delle

cose del mondo» (SQ, 91). Il che configura quella dell'Autore come una posizione ecologica che il dibattito contemporaneo ha etichettato come "antropocentrismo forte": cfr. S. Bartolommei, Etica e natura, Laterza, Roma-Bari 1995, nonché G. Pezzano, L'antropologia filosofica e le sfide dell’ambientalismo: tra persona e impersonale, in A. Poli (a cura di), Il soggetto ecologico nelle filosofie ambientali, Limina Mentis, Monza 2012, pp. 273-303. 15

Che il Nostro applica a mio modesto avviso in maniera davvero felice nell'analisi della totalità sociale alla base delle categorie fondamentali del pensiero plotiniano (cfr. UPI, particolarmente pp. 13-54). 16

Vale comunque la pena notare che per Grecchi «il metodo, di origine marxiana, che conduce a considerare le categorie filosofiche nella loro derivazione dal contesto storicosociale [...] non ha nulla a che vedere con il determinismo: non vi è, cioè, regola assoluta in base a cui un certo modo di produzione sociale tende a produrre certe idee» (FA, 34). 17

«Il dolore, così come la felicità, è categoria eterna, immutabile, e come tale non decade, non si destruttura, non scompare» (SQ, 115): «una piena realizzazione della propria essenza è il fine verso cui ogni essere vivente tende. Mentre tutti gli esseri viventi, ad eccezione dell'uomo, mirano principalmente alla sussistenza, l'uomo ricerca una realizzazione più compiuta. L'essenza dell'uomo tende infatti alla felicità, ossia a una condizione di armonia con se stessi e col mondo che è superiore rispetto alla condizione di mera sussistenza» (CF, 13). 18

Se «il male è conoscibile con verità, così come il bene» (SQ, 106), «ogni mancanza di volontà "buona" è il risultato di una mancanza di conoscenza "vera"» (L. Grecchi, Ciò che il manifesto non manifesta. Una integrazione alle tesi di G. Mazzetti, in "Koiné", X, nn. 2-4, 2003, pp. 109-110:109) - ossia «il male deriva dalla non conoscenza» (cfr. FP, 45s.). Il riferimento del titolo è all'intervento di G. Mazzetti, Ma il manifesto gioca forse a nascondino? (Risposta a Pintor), in "Koiné", X, nn. 2-4, 2003, pp. 103-107.

19

È una questione che ho già cercato di sollevare, seppur con scopi e sfumature diverse dalle presenti, perlomeno in due articoli cui mi permetto di rimandare: G. Pezzano, Filosofi(a) e politica (?) Breve storia di un rapporto controverso, in "Koiné", XVI, nn. 1-3, 2009, pp. 56-90; G. Pezzano, Dall'agorà al forum: la filosofia e la sua origine nello spazio pubblico, in "Quaderni di pratica filosofica", VI, 2012 (in pubblicazione). 20

Cfr. da ultimo il documentato e chiaro ma dal punto di vista qui sollevato eccessivamente ingenuo D. Fusaro, Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita, prefazione di A. Tagliapietra, Bompiani, Milano 2010, in particolare pp. 325-364. Una tale ingenuità sembra essere parzialmente venuta meno, in ragione della profonda influenza delle riflessioni di Preve, nel più recente D. Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, saggio introduttivo di A. Tagliapietra, Bompiani, Milano 2012 (si può senza timore di smentita e senza far torto a nessuno dire che l'intera opera è una rigorosa, documentata e chiara sistematizzazione dello spesso "irruento" ma "fulminante" pensiero previano). 21

Proprio in questo senso va letto il riferimento che Grecchi fa in diversi suoi testi alla definizione platonica di filosofia come «l'uso della sapienza a vantaggio dell'uomo» (cfr. Platone, Eutidemo, 288e-290d). 22

Mi riferisco qui ovviamente soprattutto a M. Foucault, Le Courage de la vérité (1984), trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France, a cura di F. Ewald, A. Fontana, M. Galzigna e F. Gros, Feltrinelli, Milano 2011. 23

C'è peraltro chi, proprio nel tentativo esplicito di superare una tale vergogna, pensa la filosofia come una forma di "terapia esistenziale" dal sapore, in ultima istanza e non a caso se si considerano le attuali modalità sociali di vita, soprattutto neo-stoico: cfr. G. B. Achenbach, Philosophische Praxis (1987), trad. it. a cura di R. Soldani, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità

per la vita, Apogeo, Milano 2004. Una problematizzazione del movimento delle "pratiche filosofiche", spesso mirata ma talvolta anche eccessivamente ingenerosa, è in A. Dal Lago, Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, manifestolibri, Roma 2007. Per un inquadramento più equilibrato del dibattito e dello stato anche professionale del movimento mi permetto di rimandare a G. Pezzano, La consulenza filosofica di fronte a un bivio. Il consulente filosofico: esperto in filosofia o filosofo?, Il Filo, Roma 2008 e all'analisi critica G. Pezzano, Recensione a Luca Nave-Maddalena Bisollo, "Filosofia del benessere. La cura dei pensieri e delle emozioni" [Mimesis, MilanoUdine 2010], in "Phronesis", VIII, nn. 14-15, 2010, pp. 105-112, dove emerge con chiarezza il totale disimpegno politico e sociale implicito in molti dei pensatori e soprattutto praticanti di tale movimento. 24

In tal senso, «il liberalismo è stato il supporto operativo di un'esperienza storica - il capitalismo - che da alcuni secoli è presente in larga parte del pianeta, mentre il pensiero marxista è stato il supporto operativo di un'esperienza storica - il comunismo quasi mai realizzatasi. [...] Le produzioni teoriche e soprattutto le esperienze storiche definite "comuniste" sono state spesso cariche di nefandezze, ma non per il loro "comunismo" (che è invece qualcosa di molto nobile, le cui radici risalgono ad alcuni contenuti della Repubblica di Platone), quanto per il loro, quasi sempre necessario, "anticapitalismo pratico" (la difesa dall'inglobamento capitalistico), unito a una carenza di fondazione filosofico-politica» (FI, 98s.). È proprio per questo, prosegue il Nostro, che «una metafisica centrata sull'uomo, una metafisica umanistica, non deve essere guardata da nessuno come un'astratta sofisticheria da filosofi perditempo, ma deve essere guardata da tutti come una necessaria base teoretica per una fondata progettualità politicosociale. [...] È sul rapporto natura umana / progetto politico che deve appuntarsi ogni vera costruzione filosofica, ossia ogni pensiero realmente rivolto a realizzare un modo di produzione sociale alternativo» (ivi, 99-101).

25

Cfr., p. e., F. W. Nietzsche, Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werthe (1911), trad. it. di A. Treves e P. Kobau, La volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1994, pp. 272-281. 26

Una direzione che anche chi scrive queste pagine ha cercato di intraprendere, in modo decisamente diverso da quello di Grecchi eppure non lontano dallo spirito e talvolta anche dalla lettera dalle sue riflessioni, in uno scritto di prossima pubblicazione per Petite Plaisance (Pistoia) intitolato Tractatus anthropologicophilosophicus. 27

D. Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, con una replica di Mons. R. Fisichella e una lettera di S. Galvan, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 70. La posizione di Antiseri è stata dall'Autore presa critica-mente in esame in particolare in FI, 55-65. 28

«L'uomo ricerca la felicità nelle modalità sociali di vita, e la pianificazione, organizzata democraticamente, penso sia la modalità socio-economica che ne favorisce più di ogni altra le preliminari condizioni. Ovviamente, a tal fine occorre che la pianificazione sia diretta non al massimo sforzo produttivo, bensì alla migliore realizzazione dell'uomo. Gli attuali livelli della tecnica consentirebbero infatti alla popolazione mondiale di mantenersi e sussistere a livelli ecologicamente compatibili. [...] La pianificazione globale dell'economia è la sola modalità sociale in grado di favorire la compiuta realizzazione della natura umana. Essa può essere realizzata a livello globale rispettando quelle che sono le peculiarità locali e nazionali delle varie culture» (MG, 72s.); «per me non va lasciato alcuno spazio né al denaro né al mercato», e ciò «sia per ragioni filosofiche che per ragioni economiche» (ivi, 76, spiegate poi alle pagine 77-90). 29

Sul rapporto tra biologia umana e ricerca e bisogno della sicurezza, tema molto caro allo scrivente, un primo confronto è imbastito in G. Pezzano, Il paradigma dell'antropologia filosofica tra immunità e apertura al mondo, in "Dialegesthai. Rivista telematica

di filosofia", XIII, 2011 e G. Pezzano, Comunità, immunità, apertura verso l'alterità: una biopolitica affermativa e oltre-umana?, in "Trópos. Rivista di ermeneutica e critica filosofica", IV, n. 2, 2011, pp. 167-184, dove vengono riprese questione affrontate più diffusamente in G. Pezzano, Mitweltoffenheit. Uomo, apertura e comunità, 3 voli., L'Espresso, Roma 2011. 30

Penso soprattutto all'opera da lui a più riprese annunciata e sulla quale lavora da ormai diversi anni, intitolata Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell'essere, nonché, sulle questioni di questi ultimi paragrafi, al testo (in preparazione con Carmine Fiorillo) Il necessario fondamento umanistico del comunismo. 31

Cfr. C. Preve, Verità filosofica e critica sociale, C.R.T.-Petite Plaisance, Pistoia 2004. 32

«Il ritorno agli antichi Greci, e dunque ai primi filosofi, costituisce un atto per nulla conservatore, bensì l'atto oggi maggiormente rivoluzionario, e anche quello più carico di positive conseguenze per l'avvenire» (PF, 87). 33

Non a caso corrispondenti alle due opere importanti annunciate dall'autore: cfr. qui la nota n. 30. 34

Per esempio, se «solo la conoscenza, all'interno di modalità sociali così irrispettose della vita, può oggi condurre l'uomo alla felicità, in opposizione proprio alle attuali modalità sociali», va però riconosciuto che mentre alla causa strutturale (originariamente presente in ogni uomo) «è possibile trovare rimedio grazie ad adeguate modalità di pensiero e di vita», a quella contingente (storica, non di per sé presente necessariamente in ogni uomo esistito ed esistente), «è assai più difficile trovare rimedio, poiché lo si può fare compiuta-mente solo riuscendo a mutare le modalità di funzionamento del mondo»: proprio questo è «un compito impossibile per un uomo solo, e soltanto la filosofia e la politica unite, sul modello dei Greci, lo possono realizzare» (CF, 144).

35

Discorso che può valere anche per la storia (che per Grecchi ha una profonda connessione, come sarà chiaro anche solo alla luce di quanto visto in queste pagine, con la filosofia), che «purtroppo è oggi ridotta a studio particolaristico, e non è più analisi progettuale di valori umani, "speranza per il futuro"» (SQ, 97). 36

Proprio in questo senso egli evidenzia la contraddizione di espressioni come «il compito dell'ontologia oggi», essendo l'ontologia a suo giudizio per definizione «sapere stabile dell'essere» (cfr. FU, 9s.): in tale ottica non ha senso parlare in senso stretto del compito della filosofia "oggi" se la filosofia è realmente in rapporto al vero, all'universale e all'eterno (l'anima umana). 37

«Non si deve temere un sapere "totalitario", se con tale termine si intende un sapere che si occupa della totalità sociale. Al contrario, occorre temere quei saperi solitamente scientìstici che, nonostante "non totalitari" (ossia parziali), ritengono di conoscere perfettamente le modalità sociali migliori per l'uomo, argomentando arbitrariamente (e spesso interessatamente) che esse sono le medesime in cui l'uomo, in un certo momento storico, si trova a vivere!» (PF, 25). Si potrebbe persino affermare che a essere "totalitaristico" è quel sapere filosofico che si occupa solo del proprio piccolo orto nella convinzione che solo chi è al suo interno può prendere parola per dire qualcosa su di esso, escludendo così tutti coloro che non ne fanno parte e non ne padroneggiano dominio e linguaggio settoriale, escludendo cioè quel sapere delle relazioni in grado di riarticolarle poi sinteticamente che è la dialettica genuinamente filosofica. Senza dimenticare che è proprio la rinuncia all'esistenza della verità assoluta a portare alla convinzione "totalitaristica" sottesa a molte delle proposte filosofiche contemporanee secondo cui «l'uomo non può giungere alla verità, dunque nessuno può criticare con verità l'attuale totalità sociale, che pertanto può a buona ragione rimanere tale e quale, senza preoccuparsi delle nostre parole» (ivi, 48): infatti, «la verità, una volta compresa, obbliga, all'interno di modalità sociali che la negano, a mutamenti di vita radicali», e proprio per questo «risulta

ad ogni modo massimamente necessario che la filosofia tomi a mostrarsi come sapere stabile in grado di orientare la vita, sia sul piano individuale che sociale» (ivi, 50). 38

Cfr. M. Heidegger, Nur noch ein Gott kann uns retten (1976), trad. it. a cura di A. Marini, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», Guanda, Parma 2011. 39

Che pur è la critica mossa un po' ingenerosamente da D. Fusaro, Ancora una filosofia della storia? Note introduttive a “Occidente: radici, essenza, futuro" di Luca Grecchi, in O, 5-38 (ma si veda anche la risposta dell'Autore stesso in ivi, 215-225). 40

A Eschilo l'Autore ha dedicato una delle sue opere più euristicamente originali, E, dove viene argomentata e documentata la tesi secondo cui il tragediografo greco con le sue opere fu l'anticipatore del corretto modo di pensare i rapporti fra verità, giustizia e politica fondandoli sul riconoscimento della natura umana: in tal senso, Eschilo sarebbe ben più di un semplice "teatrante", perché possiede un profilo filosofico-politico significativo, ancorché non esplicitamente sistematizzato. 41

Per quanto forse il Nostro affermerebbe senza esitazioni che amicus Plato, amica veritas. 42

Che non ha timore a definirsi comunista, perché lo è. Per il Platone grecchiano, infatti, occorre «mettere in comune la proprietà dei mezzi della produzione sociale, affinché comune ed egualitaria sia la possibilità del loro utilizzo, e soprattutto del godimento dei loro benefici. Nel comunismo, infatti, ciascuno deve dare secondo le proprie capacità, e ciascuno ricevere secondo i propri bisogni. Fermo restando, sempre, che un vero comunismo può nascere solo in una società in cui non i beni materiali, ma la cura dell'anima costituisca il massimo bisogno. Poiché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale e la mercificazione dei relativi prodotti costituisce il male maggiore della vita associata degli uomini (in quanto li allontana dalla loro essenza, e dunque dalla cura della loro anima), essere contro questo male, ossia essere

comunista, non è affatto un male, ma un bene» (VM, 137). 43

II riferimento è alla sua realizzazione di un "falso" socratico nella collana Autentici falsi d'autore dell'editore Guida, in compagnia con Mario Vegetti (Platone) ed Enrico Berti (Aristotele). «Socrate era una persona seria, e se si incontrasse ancora oggi, nelle aule del Parlamento o dei Consigli Regionali, saremmo certi che redarguirebbe i polìtici attuali esattamente come faceva con i suoi contemporanei» (ivi, 27).

Indice dei nomi e delle opere

A Achenbach G. B. 166 La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita 166 Alighieri D. 14 La Divina Commedia 14 Althusser L. 19, 34, 65 Antiseri D. 170 Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza 170 Aristofane 153 Aristotele 8,17,19,38,68, 74, 80,86,97,103,112,126,139,140,141,153,165,176,179 Politica 140 Attali J. 45, 46 Auerbach E. 51

B Bachtin M. 5

L'opera di Rabelais e la cultura popolare 5 Badiale M. 57 BadiouA. 147 Bailone G. 153 Barcellona P. 29 Bartolommei S. 163 Etica e natura 163 Bauman Z. 11,13,14,15,16, 17,18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 39, 73 Le sfide dell'etica 21 e ss. Modernità liquida 13 e ss. Berti E. 33, 80, 97,110,153,154,159,179 A partire dai filosofi antichi 33, 80 Incontri con la filosofia contemporanea 159 Biemel W. 155 Bisollo M. 167 "Filosofia del benessere. La cura dei pensieri e delle emozioni" 167 Biuso A. G. 153 Bloch E. 52 Diritto naturale e dignità umana 52 Blumenberg H. 77,134 Bontempelli M. 35, 57, 86,153,154,159,172 Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero 86 Un nuovo asse culturale per la scuola italiana 35 Bordonaro F. 153

C Caillé A. 57 Caselli C. 119 Casertano G. 97, 153 Castoriadis C. 62

Une société à la derive 62 Cesana L. 155 Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Koslk 155 Confucio 153 Conte Calabrese R. 156 Cottone M. 156 Croce B. 21

D Dal Lago A. 166 Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri 166 Deleuze G. 13,19,67,104 Deleuze G., Rizoma 67 Derrida J. 13, 19,157 Descartes R. (Cartesio) 16 Dobroljubov N. A. 5

E EllulJ. 57 Engels F. 37, 46, 47, 51, 62,121 Epicuro 99 Eraclito 2, 72,178 Eschilo 153,176,178 Persiani, vv. 253-254 178 Esposito R. 157 EvolaJ. 156 Ewald F. 166

F Ferraris M. 168

Fichte J. G. 24 Filippini E. 155 Fiorillo C. 9,128,172 Il necessario fondamento umanistico del comunismo 9,128,172 Fisichella R. 170 Fontana A. 166 Foucault M. 19,104,166 Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France 166 Fusaro D. 17,19, 23, 45, 97, 99,140,153,154,166,176 Ancora una filosofia della storia? Note introduttive a "Occidente: radici, essenza, futuro" di Luca Grecchi 176 Bentornato Marx 45 Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita 166 È veramente noiosa la storia della filosofia antica? (a cura di) 97 I Greci che dunque siamo 19, 23, 99 Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo 17,166

G Galbraith J. K. 58 Galimberti U. 9,13,16, 23, 72,113,153,156,159 Biografia 16,113,153

Filosofia e

Il tramonto dell'Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers 156 Galvan S. 170 Galzigna M. 166 Girgenti G. 97 GorzA. 57 Grecchi L. 8, 9,16,19, 20, 22, 23, 25,33, 34, 37,42, 57, 65, 72, 80,

88, 91, 92, 97, 99,102, 113, 120, 128, 140, 151, 153, 154, 155, 157, 159, 160, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 170,172,173, 174,175,176,178,180 A partire dai filosofi antichi 33, 80,153,159,163,178 Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos'è la filosofia? 153,154,155,166,169,170,173 Ciò che "il manifesto" non manifesta. Una integrazione alle tesi di G. Mazzetti 164 Come evitare che la filosofia antica diventi noiosa, in D. Fusaro - L. Grecchi (a cura di), È veramente noiosa la storia della filosofia antica? 97 Confucio. Sulla buona vita, sul buon governo e su me stesso. Il diario ritrovato del grande filosofo cinese 153,154 Conoscenza della felicità 102,140,153,164,169,174 Considerazioni conclusive, in "Koiné", X, n. 1, 2003 154 Corrispondenze di metafisica umanistica 153 Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo 91,153,155 E veramente noiosa la storia della filosofia antica? (a cura di) 97 Filosofia e Biografia 16, 113,153,159,163 Gli stranieri nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo 92,153,155 I II

Greci che dunque siamo 19, 23, 99, 154,155 Filosofo e la Politica.

I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica 153,171,173,176,177,178 II

necessario fondamento umanistico del comunismo 9,128,172

Il necessario 153,154,159,175

fondamento

umanistico

Il pensiero filosofico di Enrico Berti 154,159

della

metafisica

Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti 9,16,113,153,159 Il presente della filosofia italiana 7, 8, 9,153,156,159, 168, 173 Introduzione a C. Preve, Lettera sull'Umanesimo 65 Karl Marx nel sentiero della verità 9,42, 57,153,169,172 La filosofia della storia nella Grecia classica 153,155 La filosofia politica di Eschilo. L'eterna attualità del pensiero "filosofico-politico" del più grande tragediografo greco 153,178 L'anima umana come fondamento della verità 25, 37, 57,153,154, 157,172 La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio 9,153, 154, 155,159,162, 164,169,170,171,175 L'umanesimo della antica filosofia greca 8 L'umanesimo dell'antica filosofia cinese 153,154 L'umanesimo dell'antica filosofia indiana 153,154 L'umanesimo dell'antica filosofia islamica 153,154 L'umanesimo di Aristotele 8,80 L'umanesimo di Omero 8,140 L'umanesimo di Platone 8,153,162 L'umanesimo di Plotino 8, 92,153,163 L'umanesimo politico dei “Presocratici" 8, 72 Marx e gli antichi Greci 20, 57,153,171,172,174 Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell'essere 9,172

Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino 9,153, 159 Occidente: radici, essenza, futuro 23,140,153,156,176 Perché non possiamo non dirci Greci 88,97,153,155,178 Postfazione a E. Berti, Incontri con la filosofia contemporanea 159 Ricordo filosofico di Massimo Bontempelli 57,153,170,171,172 Socrate. Discorso su Le nuvole di Aristofane. L'unico vero discorso tenuto da Socrate agli Ateniesi 153,180 Soggetto e Sostanza in Aristotele, in D. Fusaro - L. Grecchi, I Greci che dunque siamo 19 Sulla verità e sul bene 22, 34,153,155,168 Umanesimo ed antiumanesimo nella filosofia moderna e contemporanea 9 Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx 9, 23, 42,153,157 Vivere o morire. Dialogo sul senso dell'esistenza tra Platone e Nietzsche 153,177,179 Gros F. 166 Guattari F. 67 Rizoma 67

H Habermas J. 16,19, 29, 31, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 160 Dopo l'utopia. Il pensiero critico e il mondo d'oggi 33 e ss. Haller M. 35,36 Hardt M. 45, 46 Hegel G. W. F. 9,16, 24, 34, 35, 47, 61, 62, 65, 71, 89, 111, 117,153 Heidegger M. 29, 66,153,154,156,157,176 Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel» 176 HobbesTh. 19,103,141 Hobsbawm E. 43, 45, 46, 47, 48,160

Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo 45 e ss. Hume D. 19,29 Hussein S. 35 Husserl E. 155 La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale 155

J Jameson F. 49, 51, 52, 53,161 II desiderio chiamato Utopia 51 e ss. Jaspers K. 156 Jesi F. 156

K Kant I. 33,129 Kautsky K. 46 Kobau P. 168 KosìkK. 155

L La Bruyère J. de 141 Latouche S. 20, 55, 57, 58, 59, 60, 61, 62,160,161 La scommessa della decrescita 57 e ss. Lavo S. 85 Lenin V. I. 46, 51 Stato e Rivoluzione 51

Locke J. 19 Lucchini C. 71 Il bene come processo possibile concreto 71 Luhmann N. 29 Lunghini G. 118 Lyotard J. F. 63, 65, 66, 67, 68,161 La condizione postmoderna 65

M Marcuse H. 20 Marini A. 176 Martinetti P. 67 Marx K. 9,14, 24, 33, 34, 35, 37, 42, 45,46,47, 48, 51, 58, 61, 62, 65, 68, 79, 80, 92,100, 104, 117, 121, 127, 128, 140, 147, 153 Forme economiche precapitalistiche 48 La guerra civile in Francia 51 Mazzetti G. 118,164 Ma il manifesto gioca forse a nascondino? (Risposta a Pintor) 164 Montaigne M. E. de 140 Monti M. 79 Morin E. 69, 71, 72, 73, 74,161 Il metodo 71 L'identità umana 71 Moro T. 53,128

N Nancy J.-L. 157 Natoli S. 113 NaveL. 167 "Filosofici del benessere. La cura dei pensieri e delle emozioni" 167 Negri A. 45, 47,147

Nietzsche E W. 29, 98,104,153,168 La volontà di potenza 168 Nussbaum M. 75, 77, 78, 79, 80, 81,161 La fragilità del bene 77 Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica T7 e ss.

O Ocalan A. 83, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92,162 Gli eredi di Gilgamesh. Dai Sumeri alla civiltà democratica 85 e ss. Odifreddi P. 117 Omero 8,176 99,100,101,102,103,104,105,161

Onfray

M.

95,

97,

98,

La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione 101 e ss. La potenza di esistere. Manifesto edonista 97 e ss. Trattato di ateologia 98, 99 Ostellino P. 14

P Paci E. 155 Paolo di Tarso 26 Pascal B. 73,141 Pericle 176 Pezzano G. 65,151, 160,163, 165,167,171

Comunità, immunità, apertura verso l'alterità: una biopolitica affermativa e oltre-umana? 171 Dall'agorà al forum: la filosofia e la sua origine nello spazio pubblico 165 Filosofi(a) e politica (?) Breve storia di un rapporto controverso 165 Il paradigma dell'antropologia filosofica tra immunità e apertura al mondo 171 Il «residuo produttivo» della secolarizzazione: l'uomo, il denaro e il sacro. Considerazioni a partire da Charles Taylor 160 La consulenza filosofica di fronte a un bivio. Il consulente filosofico: esperto in filosofia o filosofo? 167 L'antropologia filosofica persona e impersonale 163

e

le

sfide

dell'ambientalismo:

tra

Mitweltoffenheit. Uomo, apertura e comunità 171 Postfazione a C. Preve, Lettera sull'Umanesimo 65 Recensione a Luca NaveMaddalena Bisollo, "Filosofia del benessere. La cura dei pensieri e delle emozioni" 167 Tractatus anthropologico-philosophicus 169 Platone 7, 8,19, 38, 53, 62, 74, 85, 86, 97, 99,103,126,127,140,153,166,168,176,177, 178,179,180 Apologia 85 Eutidemo, 166 Fedone, 177 Repubblica 168,171,180 Plotino 8,153 Poli A. 163 Il soggetto ecologico nelle filosofie ambientali (a cura di) 163 Preve C. 17, 20, 34, 46, 57, 65, 77, 86, 97,104,151, 153,155,159,163,172,174 Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosik 155 Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero 86 Lettera sull'Umanesimo 65 Marx e gli antichi Greci 20, 57,153 Marx inattuale 104 Storia critica del marxismo 46 Verità filosofica e

critica sociale 172

Q Quinzio S. 9, 159

R Rawls J. 136 RortyR. 77 Rousseau J.-J. 127,141

S Savater F. 107,109, 111, 112,113,114,161 Etica per un figlio 109 e ss. Severino E. 9, 23,153,159 Singer P. 115,117,118,119,120,121 La vita come si dovrebbe 117 e ss. Sloterdijk P. 19, 77 Socrate 34, 39, 74)85, 86, 97,153,179 Sofocle 158 Antigone [vv. 374-381] 158 SoldaniR. 166 Soldani S. 153 Solone 128,176 Spaemann R. 123,125,126,127,128,129,161 dell’utopia politica 125 e ss. Spengler O. 156 Il tramonto dell'Occidente 156

Per

la

critica

Spinoza B. 24

T Tagliapietra A. 166 Taylor Ch. M. 131,133,134,135,136,160,161 Hegel e la società moderna 133 Il disagio della modernità 133 L'età secolare 133 e ss. Radici dell'io 133 Todorov T. 137,139,140,141,142,162 La vita comune 139 e ss. Toscani F. 153 TrevesA. 168 Vattimo G. 19,22,65,67 Vegetti M. 97,102,153,179 Vigna C. 22, 33, 34,153,159 Sulla verità e sul bene 22, 34, 153

W Walzer M. 136

Z Zizek S. 143,145, 146, 147,148,149,162

Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo 145 e ss.

Bird in Space Ricercando primavera

«Il volo ha occupato tutta la mia vita».

CONSTANTIN BRANCUSI «Una rondine non fa primavera. Può darsi che Grecchi sia soltanto una rondine isolata. Ma quello che è sicuro è che è bello vederla volare in cielo. Che continui a volare».

C. PREVE, Lettera sull'Umanesimo «Vola solo chi osa farlo».

LUIS SEPULVEDA

Lo scultore rumeno Constantin Brancusi con la sua opera Bird in Space, è stato protagonista di una vicenda giudiziaria che mette bene in evidenza come le modalità sociali capitalistiche, con le sue regole di "mercato", portino a negare valore ad ogni frutto della creatività dell'uomo che non si renda strettamente funzionale a ciò che N. A. Do-broljubov chiama (cfr. in es ergo, pag. 5) «l’attuale ordine di questa vita». Proprio nel momento in cui Brancusi cercava nella sua ricerca

artistica una progressiva stilizzazione delle forme, l'amico Marcel Duchamp tentava di promuovere le sue opere negli Stati Uniti e nell'ottobre del 1926 vorrebbe esporre la versione in bronzo del 1924 di Bird in Space a New York nella Galleria Brummer. All’arrivo il funzionario della Dogana, F. J. H. Kracke, apre la cassa che conteneva la scultura e non riuscendo a vederci l'essenza del volo, cioè quello che l'artista voleva comunicare, il funzionario classificò l'oggetto come Kitchen Utensils, destinato al commercio, rifiutando di applicare l'esenzione fiscale (duty free) prevista dal paragrafo 1704 del Tariff Act del 1922, relativo alle opere d'arte. Duchamp e Brancusi si indignano, protestano, fanno presente che l'oggetto è una scultura ed è destinata alla Galleria Brummer. Ma non c'è nulla da fare: Brancusi si vede costretto a pagare la cifra prevista dal paragrafo 399 per l'importazione di manufatti di metallo: il 40% del prezzo di vendita, ossia (su $ 240) circa $ 2,400. E per lo scultore non c'è altra strada che quella del processo, che terminerà due anni dopo con la decisione del 26 novembre 1928. I giudici sono George Young e Byron Waite. Sei testimoni depongono a favore di Brancusi: il fotografo Edward Steichen, lo scultore Jacob Epstein, l'editore della rivista The Arts Forbes Watson, l'editore di Vanity Fair Frank Crowninshield, il direttore del Brooklyn Museum of Art William Henry Fox ed il critico d'arte Henry McBride. Marcus Higginbotham è l'avvocato che rappresenta la Dogana. Ci sono anche due testimoni per il Governo U.S.A.: gli scultori Robert Aitken e Thomas Jones. La Dogana difende l'operato del proprio funzionario, richiamando un precedente giudiziario: il caso United States v. Olivotti del 1916, dove si era riconosciuta la qualifica di "opera d'arte" solo a quei manufatti che sono "imitations of naturai objects" (imitazioni di oggetti della natura). Comincia l'interrogatorio dei testimoni. Il giudice Waite chiede a Steichen «Lei come lo chiama questo?», e Steichen risponde: «Lo chiamo come lo chiama lo scultore, oiseau, cioè uccello». Waite continua: «Come fa a dire che si tratti di un uccello se non gli somiglia?»; e

Steichen: «Non dico che è un uccello, dico che mi sembra un uccello, così come lo ha stilizzato e chiamato l'artista». Waite incalza: «E solo perché egli [l'artista] lo ha chiamato uccello, questo le fa dire che è un uccello?». Steichen: «Sì, vostro Onore». Ma Waite insiste: «Se lei lo avesse visto per strada, lo avrebbe chiamato uccello? Se lo avesse visto nella foresta, gli avrebbe sparato?». E Steichen: «No, vostro Onore». Durante il processo, tutti i testimoni di Brancusi difendono il lavoro di astrazione del maestro ed affermano che il nome dato all'opera non è rilevante. Al contrario, i testimoni governativi affermano che la scultura è too abstract (troppo astratta) ed è un abuso delle forme. Nel controinterrogatorio, l'avvocato Speiser chiede ad Aitken (esibendo la scultura): «Mr. Aitken, mi direbbe perché questa non è un'opera d'arte?», e Aitken: «Prima di tutto perché non è bella e poi non mi piace». I legali di Brancusi sostengono che la scultura è un'opera d'arte originale; affermano che il loro assistito non l'ha prodotta for a profit (esibendo una lettera di Brancusi a Duchamp anteriore alla mostra, dove lo scultore scrive di aver rifinito l'oggetto by hand, cioè con le proprie mani). Ma questo non fa ancora di Brancusi un artista agli occhi dei legali governativi, né dell'oggetto una scultura, perché nel Tariff Act del 1922, che dispone l'esenzione dal dazio per le opere d'arte, manca un criterio giuridico per individuarle e dunque i giudici devono fare ricorso ad elementi eterointegrativi. Nella sentenza del 26 novembre 1928, i giudici assolvono Brancusi: Bird in Space è un'opera d'arte e come tale è esente dal dazio. In sentenza si legge: «L'oggetto considerato... è bello e dal profilo simmetrico, e se qualche difficoltà può esserci ad associarlo ad un uccello, tuttavia è piacevole da guardare e molto decorativo, ed è inoltre evidente che si tratti di una produzione originale di uno scultore professionale... accogliamo il reclamo e stabiliamo che l'oggetto sia duty free». I giudici che accolsero il reclamo di Brancusi, commentarono la

vicenda affermando: «Che abbiamo o no simpatia per le idee nuove o quelli che le rappresentano, pensiamo che la loro esistenza e la loro influenza nel mondo... vada presa in considerazione». Kracke (il funzionario doganale), in un'intervista all'Evening Post, volle precisare: «Se quello dice di essere un artista, io sono un muratore». Ma, in generale, anche l'opinione pubblica era orientata a pensare che Brancusi come scultore lasciasse troppo all'immaginazione. Steichen (che poi acquistò la scultura da Brancusi) affermò dopo il processo: «Bird in Space è stato il miglior testimone di sé stesso. È stato l'unica cosa che fosse chiara alla Corte: splendeva come un gioiello».

... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo.

La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio.

MARGHERITA GUIDACCI

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IL PRESENTE DELLA FILOSOFIA NEL MONDO

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