Mercato immobiliare e spazi urbani nella Roma del Rinascimento (2022) 9788873115175

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Mercato immobiliare e spazi urbani nella Roma del Rinascimento (2022)
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ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI

MERCATO IMMOBILIARE E SPAZI URBANI NELLA ROMA DEL RINASCIMENTO a cura di Luciano Palermo

FONTI E STUDI PER LA STORIA ECONOMICA E SOCIALE DI ROMA E DELLO STATO PONTIFICIO NUOVA SERIE – 1

MERCATO IMMOBILIARE E SPAZI URBANI NELLA ROMA DEL RINASCIMENTO a cura di Luciano Palermo

ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI ROMA

Si ringraziano le istituzioni pubbliche e i privati che hanno reso fruibili le foto e si dichiara, comunque, la propria disponibilità a sanare eventuali situazioni di dimostrata violazione del copyright

Copyright 2022 Istituto Nazionale di Studi Romani A norma di legge è vietata la riproduzione, anche parziale, del presente volume o di parte di esso con qualsiasi mezzo

Copertina e impaginazione: Libreria Efesto Roma, dicembre 2022 ISBN 978-887-311-517-5 Questa pubblicazione è stata realizzata grazie al contributo concesso dalla Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero della Cultura Foto di copertina: Giulio Ballino (1569), Roma nella seconda metà di XV secolo, da A. P. Frutaz, Le piante di Roma, Roma 1962, pianta CI, tavola 174.

Indice

Luciano Palermo La rendita e gli spazi urbani nella formazione del mercato immobiliare romano rinascimentale..................................................................................................................... 5 Manuel Vaquero Piñeiro Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento..................................................................................... 33 Anna Esposito Crescita demografica e mercato immobiliare a Roma nel Rinascimento............................ 65 Alfio Cortonesi Viticoltura intramuranea e suburbana nella Roma tardomedievale................................... 79 Giorgia Maria Annoscia Sistemi idrici e spazi urbani nella Roma bassomedievale.................................................... 109 Anna Modigliani Il sistema viario di Roma nel XV secolo tra progetti dei pontefici e interessi di commercianti e bottegai.......................................................................................................... 143 Daniela Esposito Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento........................................................................ 165 Claudia D’Avossa Pratiche assistenziali e mercato immobiliare: la SS. Annunziata alla Minerva di Roma........................................................................................................................................... 183 Silvia Dionisi La rendita urbana del San Salvatore e del Gonfalone a Roma nel Rinascimento........ 201 Alexis Gauvain Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo....................................................................................................................... 221 Antonella Mazzon “Domus, orti et argasteria”. Il patrimonio immobiliare del convento di S. Agostino......... 243 Alessandra Peri Gli immobili urbani nella gestione delle finanze del San Giacomo degli Incurabili......... 285

Alessio Caporali Investimenti immobiliari della famiglia Bini in Banchi durante i pontificati di Leone X e Clemente VIII........................................................................................................ 309 Orietta Verdi Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»......................................................................................................................... 335 Andrea Fara Spazio urbano, rendita e reti socioeconomiche a Roma tra Quattro e Cinquecento: i Sauli e i Frangipane nel rione Pigna..................................................................................... 387 Antonella Parisi Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio................................................................................................................. 415 Daniele Lombardi Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali......... 469 Maurizio Gargano Abitare la modernità. Roma nel XV e XVI secolo: la residenza tra casa e bene voluttuario........................................................................................................................... 493 Giuliana Mosca Interventi urbani e architettura a Roma all’apertura della via Alessandrina in Borgo........ 507

Luciano Palermo La rendita e gli spazi urbani nella formazione del mercato immobiliare romano rinascimentale

1. Un mercato immobiliare emergente Nei primi mesi del 1378, a poco più di un anno dal ritorno della corte papale nella sede romana, il mercante pratese Francesco Datini, che da molto tempo viveva e prosperava in Avignone, coltivava l’idea di trasferirsi a Roma. Molte compagnie mercantili e bancarie avevano già aperto o rafforzato in quei mesi le loro filiali romane 1, ma Francesco nutriva ancora molti dubbi, e da lì a poco l’apertura dello Scisma avrebbe ulteriormente accentuato le sue incertezze 2. Ma i suoi amici romani e lo stesso cognato, Zanobi di Domenico Bandini, che nell’Urbe faceva il cambiavalute, andavano nel frattempo cercando in città una casa che lui potesse prendere in affitto, e gliela trovarono; e in una lettera spedita da Roma il 17 giugno 1378 Zanobi gliela descriveva nella sua struttura e nei suoi costi 3. 1 Cfr. A. Esch, Bankiers der Kirche im Grossen Schisma, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», XLVI (1966), pp. 277-398; Id., Florentiner in Rom um 1400. Namensverzeichnis der ersten Quattrocento-Generation, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LII (1972), pp. 476-525. Sulle fasi precedenti della presenza, non ancora economicamente dominante, a Roma di mercanti forestieri nel periodo che precede il ritorno della corte v., oltre a questi stessi saggi di Arnold Esch, C. Gennaro, Mercanti e bovattieri a Roma nella seconda metà del Trecento, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 78, 1967, p. 161 ss.; v., inoltre, la documentazione citata in R. Mosti, Il protocollo notarile di Anthonius Goioli Petri Scopte (1365), Roma 1991, pp. XIX-XX. 2 Sulle ragioni del mancato trasferimento a Roma di Francesco Datini e sulle forme della sua presenza nel mercato romano v. L. Palermo, Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini, 1377-1409, Roma 2020, p. 15 ss. 3 «T’ò avisato chome noi avavamo tolto per te una chasa, la quale chosta fiorini C d’entrata l’anno primo, fiorini L il secondo, fiorini XL e chosì dee chostare quanto si terrà. A me pare che la chasa sia buonisima per lo mestiere tuo e per ongni altro mestiere e à assai abituro e di sotto e di sopra. È vero che Angnolo che è qui no mi pare gli piacca

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Si trattava di una casa assai adatta alla sua attività (buonisima per lo mestiere tuo e per ongni altro mestiere), ed era dotata nei suoi due livelli di ottimi spazi abitativi (à assai abituro e di sotto e di sopra); gli sarebbe costata il primo anno f. 100 e il secondo f. 50, da investire forse nelle migliorie necessarie, ma dal terzo anno in poi il canone sarebbe stato di soli 40 fiorini annui 4. E tuttavia, un amico mercante che abitava a Roma da tempo e che conosceva meglio degli altri la città, Angnolo 5, sconsigliava quella abitazione; non si lamentava dei costi, ma della collocazione dell’immobile; avrebbe preferito una casa vicina a quella dello stesso Zanobi (piacerebegli molto più in questa vicinanza dove sto io), anche se quella zona della città era molto più costosa (non c’à bene modo sanza tropo chosto); per la sua, ad esempio, che comunque era più piccola e non sarebbe stata adatta alla attività di Francesco (non sarebe fondacho assai al tuo mestiere), Zanobi pagava il doppio di pigione, f. 80 annui. Dunque, Agnolo avrebbe scelto per l’amico Francesco Datini una casa anche meno comoda, purché fosse collocata nel settore giusto dello spazio urbano, in uno dei rioni dove abitualmente risiedevano i mercanti e i banchieri; e per abitare in quella zona Francesco Datini doveva essere anche disposto a pagare un canone di affitto doppio, in aggiunta a quanto avrebbe ulteriormente speso per un fondaco, trasferendo così alla proprietà un livello molto più alto di rendita immobiliare. E tra i mercanti forestieri che in quegli anni consolidavano la loro presenza in città Agnolo di Ser Pino non era l’unico che ragionava in questo modo. Una lettera scritta qualche tempo dopo dai titolari di una delle maggiori compagnie presenti nel mercato urbano, quella dei Portinari, grandi importatori e rivenditori sulla piazza romana di panni e di altri merci pregiate, rivela alcune delle preferenze che questi mercanti avevano in fatto di abitazioni.6 I Portinari sapevano bene che chi esercitava la mercatura in molto; piacerebegli molto più in questa vicinanza dove sto io e a questo non c’à bene modo sanza tropo chosto, se non avendo la mia, la quale fa fiorini LXXX di pigone e non sarebe fondacho assai al tuo mestiere. È vero che di drieto à II fondachi buonisimi e chon buonisima vista che s’avrebono per fiorini 28 l’anno» (Archivio di Stato di Prato, Datini, 1090, lett. Roma-Avignone, Zanobi di Domenico Bandini, 17 giugno 1378). 4 La lettera non specifica la tipologia dei fiorini e le ragioni delle maggiorazioni dovute nei primi due anni. 5 Nel carteggio datiniano romano Angnolo è sempre Agnolo di Ser Pino, amico e per decenni corrispondente commerciale delle compagnie di Francesco Datini (cfr. Palermo, Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini, p. 16 ss.). 6 “Chome sa bene chi è qui stato, ripa Romea, dove si scharichano le merchatantie, sie lungi da nnoi presso ch’uno miglio e chi avesse a fare d’alchune chose di vostr’arte non può fare che non gli vi chonvengna tenere uno maghazzino: e noi non ve ne abiàno né avemo mai nullo e, ‘n questa terra, noi non tengnàno altra chasa che ‘l fondacho de’ panni, dove stiàno 6

La rendita e gli spazi urbani nella formazione del mercato immobiliare romano rinascimentale

città (chi avesse a fare d’alchune chose di vostr’arte) aveva bisogno di una casa e anche di un maghazzino per le merci, e tuttavia essi si erano specializzati nel settore dei tessuti e possedevano solo un fondacho de’ panni, dove abitavano e lavoravano (stiàno a chasa e a bottegha); e questo fondaco era collocato alla distanza di circa un miglio dal porto di Ripa, dove si scharichano le merchatantie. Nella Roma dell’epoca una casa collocata a pressappoco un miglio dal porto poteva solo essere nel rione Ponte, o in un altro lì vicino, comunque dalla parte opposta dell’abitato rispetto al porto. Dunque, i Portinari risparmiavano sulla spesa di un magazzino ma avevano il loro fondaco-abitazione, non sappiamo se acquistato o preso in affitto, nello spazio urbano più costoso, dove cominciavano a concentrarsi i mercanti-banchieri forestieri 7, per raggiungere il quale le merci sarebbero state caricate anche di costi maggiori di trasporto. Ma pur di vivere e lavorare in quel punto della città, che cominciava evidentemente ad essere la zona degli affari importanti, essi erano disposti a sostenere queste maggiori spese. Questi due episodi, e altri simili reperibili nella corrispondenza mercantile romana, non possono certo essere caricati di troppi significati generali, e tuttavia forniscono alcuni segnali tutt’altro che marginali, ulteriormente confermati, peraltro, dalla coeva documentazione notarile e da altre fonti che ci sono pervenute da quelle stesse epoche. Da queste lettere commerciali emerge, anzitutto, che nella Roma del tardo Trecento si poteva cominciare a scegliere la zona dove andare ad abitare (cosa spesso impossibile in epoche precedenti data la rigidità del tessuto abitativo urbano); che la preferenza per una casa, sia in affitto che in vendita, poteva essere motivata dalla sua collocazione nel contesto dello spazio urbano; e, infine, che questa collocazione era a sua volta decisiva per determinare i livelli, alti o bassi, della rendita che un immobile era in grado di fornire alla proprietà. L’insieme di queste condizioni, come avremo modo di vedere, erano di difficilissima realizzazione a Roma nelle epoche precedenti. Siamo, dunque, di fronte alle prime tracce, certamente ancora flebili, della formazione di un mercato immobiliare economicamente strutturato, cioè basato su una gerarchia economica degli spazi intramurali, su un modello di rendita urbana differenziata, generato da questa stessa gerarchia, e su a chasa e a bottegha” (Archivio di Stato di Prato, Datini, 544, lett. Roma-Pisa, Giuliano di Giovanni e Bernardo di Edoardo Portinari, 4 ottobre 1393). 7 E. Lee, Gli abitanti del rione Ponte, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, pp. 317-343; I. Ait, Ponte ‘optima regio a curialibus frequentata’: mercato immobiliare e provvedimenti papali in favorem inquilinorum. Prime osservazioni, in Popolazione e immigrazione a Roma nel Rinascimento. In ricordo di Egmont Lee, a cura di A. Esposito, Roma 2019, pp. 83-99. 7

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un sistema di prezzi in vari modi condizionato dalle variabili del mercato, tra le quali cominciava anche ad emergere il rapporto domanda-offerta. Questi primi segnali, economici ma anche culturali, sono certamente in buona misura da collegare ai crescenti investimenti in città, negli ultimi decenni del Trecento, dei mercanti e banchieri forestieri; e infatti, nei due episodi qui sopra richiamati i soggetti attivi erano proprio gli stessi membri della nutrita e potente élite mercantile e finanziaria, italiana e oltremontana ma soprattutto fiorentina, che cominciava allora a dominare la vita economica di Roma. Attirati nell’Urbe dal ritorno della corte papale, questi soggetti economici avevano ben presto scoperto che era per loro molto più conveniente riversare i loro consistenti capitali sul mercato urbano che non negli affari della corte, in quelle epoche poverissima e spesso assente8; le risorse di queste grandi compagnie vivacizzarono, quindi, abbastanza rapidamente la piazza romana, inserendola nei loro circuiti internazionali e avviando i processi che col tempo avrebbero permesso alla città di invertire la precedente tendenza alla caduta demografica e all’isolamento economico. Questi mercanti e banchieri investivano i propri capitali prevalentemente nella movimentazione delle merci e del denaro, raggiungendo in tal modo profitti significativi per sé stessi; ma nello stesso tempo essi provocavano anche l’incremento dei redditi degli stessi operatori commerciali e artigianali romani che, al di là di schermaglie fin troppo sottolineate dalla storiografia, di fatto con loro collaboravano alacremente. Questa complessiva e crescente capacità di acquisto, dei forestieri ma anche dei romani, non poteva non riversarsi, come appunto dimostrano le due lettere citate, anche sul mercato dei beni immobili. Anche se con lentezza e gradualità, il capitale mercantile e finanziario che giungeva nella piazza romana si avviava, dunque, a movimentare alcuni dei settori tradizionalmente più statici della vita economica cittadina basso medievale: quello della gestione degli spazi urbani e, collegato ad esso, quello del funzionamento del mercato degli immobili. 2. La rendita e gli spazi urbani Nelle fonti che ci sono pervenute attorno al funzionamento del sistema economico romano basso medievale non mancano, come vedremo, tracce assai significative di operazioni incentrate sulle proprietà immobiliari presenti 8

La maggior convenienza del mercato urbano rispetto agli affari condotti con la curia papale è un tema costantemente ricorrente nelle lettere mercantili romane tardo trecentesche ed è più volte presente anche nei primi decenni del Quattrocento nella corrispondenza del banco dei Medici (cfr. Palermo, Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini, pp. 41-42). 8

La rendita e gli spazi urbani nella formazione del mercato immobiliare romano rinascimentale

nel suolo intramurario; e tuttavia fino almeno agli ultimi decenni del Trecento queste operazioni assai difficilmente possono essere ricondotte al funzionamento di un vero e proprio mercato strutturato degli edifici e dei suoli, un mercato, cioè, dotato di una linea riconoscibile di prezzi contrattati tra le parti, regolamentato dalle pubbliche autorità e in grado di creare ricchezza per coloro che vi accedevano e crescita economica per l’intera città. Si opponeva a tutto ciò, anzitutto, la fortissima asimmetria economica e contrattuale che caratterizzava i rapporti tra i grandi enti e le grandi famiglie nobiliari, che possedevano e controllavano il suolo intramurario della città e le sue aree edificate, e coloro che desideravano accedere alla locazione o all’acquisto di un immobile; e, in aggiunta a ciò erano ancora sostanzialmente assenti le condizioni economiche preliminari al funzionamento di un mercato dotato di tali caratteristiche. Queste condizioni sono molteplici, ma possono essere riassunte in un dato fondamentale: a Roma mancava in quelle epoche un sistema certo e non episodico di formazione della rendita immobiliare urbana. Senza l’aspettativa della rendita, infatti, o con una aspettativa assai bassa di essa il mercato immobiliare non può che essere inconsistente e asfittico, perché questa assenza rende impossibile o assai rischioso misurare il valore stesso dei beni immobili, cioè ottenere il dato che rende prevedibile e fruttuoso lo scambio; al contrario, è la prospettiva della percezione della rendita ciò rende le aree e gli edifici beni appetibili, nei quali può essere utile investire. Ma la rendita urbana, per sorgere e per stimolare così la formazione del mercato dei beni immobili, richiede a sua volta l’esistenza di specifiche condizioni, tra le quali alcune sono del tutto fondamentali. La rendita è, in primo luogo, una funzione della possibilità di variare la destinazione d’uso degli edifici o dei suoli urbani sui quali essi sono stati costruiti, perché questo può generare una crescita di valore che a sua volta può attirare gli investimenti; dunque essa assai difficilmente può sorgere laddove questa destinazione sia, invece, rigidamente mantenuta per motivi di prestigio sociale o di controllo del territorio della città. Essa può sorgere, o può aumentare o diminuire di valore, in secondo luogo, in base alla collocazione della singola casa o del singolo suolo nella gerarchia economica tra gli spazi urbani, all’interno della quale i beni immobili centrali e periferici appaiono dotati di valori variabili e inversamente proporzionali tra loro (a parità del costo dell’investimento la differente collocazione nello spazio urbano genera differenti rendimenti del capitale investito). In terzo luogo, una volta realizzate le precondizioni della sua presenza, la misura della rendita è anche dipendente dai volumi della domanda e dell’offerta di aree edificabili e di case, e dunque l’eventuale prevalenza dell’offerta può abbattere il volume della 9

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rendita fino a renderla episodica o inesistente 9. Al contrario di ciò che accadeva in molte altre città italiane dell’epoca 10, queste condizioni, che permettono alla rendita immobiliare di svolgere un ruolo significativo in una economia urbana, hanno appunto tardato a sorgere nelle vicende economiche e sociali romane basso e tardo medievali; e per comprendere le ragioni di questo ritardo, che sono le ragioni stesse della debolezza del sistema della rendita urbana, è necessario prendere in considerazione non solo i volumi della domanda e dell’offerta di suolo intramurale, ma anche e soprattutto le forme del suo uso e la qualità delle funzioni che ad esso erano assegnate. A Roma, come ovunque nel mondo economico medievale, i prezzi non erano mai soltanto il risultato del semplice incontro tra la domanda e l’offerta, e questo è a maggior ragione riscontrabile nel mercato dei beni immobili, sempre carico di contenuti simbolici e ideologici che spesso appaiono predominanti nelle decisioni di investimento; e tuttavia nel caso qui in esame il volume dell’offerta di suolo intramurario aveva un ruolo che non può essere sottovalutato, poiché esso nella Roma basso medievale era talmente sovrabbondante, rispetto alle necessità degli abitanti, che all’interno della cerchia delle mura in quelle epoche erano quantitativamente predominanti spazi urbani non solo non utilizzati come suolo edificatorio, ma anche costantemente mantenuti nel corso del tempo nella 9

Sulle funzioni economiche degli spazi urbani medievali v. A. Grohmann, Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale. Introduzione e problemi di metodo, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, a cura di Id., Napoli 1994, pp. 7-35. Sul caso romano si rinvia a L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, ibidem, pp. 413-435; Id., Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento, in «Rome des Quartiers»: des Vici aux Rioni. Cadres institutionels, pratiques sociales et requalification entre Antiquité et époque moderne, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Bérenguer, Paris 2008, pp. 335351; Id., Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento, in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer deutschen Stiftung in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin 2010, pp. 279-325. Queste stesse tematiche sono, inoltre, largamente presenti in M. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992, pp. 555-570; Id., Terra e rendita fondiaria a Roma all’inizio del XVI secolo, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento, a cura di A. Esposito, L. Palermo, Roma 2005, pp. 283-316; D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento: la “gabella dei contratti”, in Roma, le trasformazioni urbane nel Quattrocento, II. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 3-28. 10 Cfr., ad esempio, il caso fiorentino in A. Sapori, Case e botteghe a Firenze nel Trecento. La rendita della proprietà fondiaria, in Id., Studi di storia economica, secoli XIII-XIV-XV, vol. I, Firenze 1982, pp. 305-352. 10

La rendita e gli spazi urbani nella formazione del mercato immobiliare romano rinascimentale

disponibilità della produzione agricola e della viticoltura 11. Mentre nella fase espansiva basso medievale, nel XIII secolo e in alcuni casi già nel XII, molte altre città italiane andavano incontro a momenti di ampliamento delle proprie mura 12, con l’obiettivo di comprendere in esse una quantità maggiore di popolazione e passando attraverso ciò che Gabriella Piccinni ha definito una “saturazione” dello spazio urbano 13, a Roma questo fenomeno non si è mai verificato e non era possibile che si verificasse. Perfino nella fase espansiva duecentesca, accuratamente documentata da Étienne Hubert per quanto riguarda l’uso dello spazio urbano 14, e da Marco Vendittelli per gli aspetti mercantili e bancari 15, quando i romani residenti si avviarono certamente a superare il numero di 50 mila 16, il lato dell’offerta continuò a sovrastare totalmente la domanda, imponendo alla rendita urbana un ruolo marginale nella complessiva crescita economica della città 17. E a maggior ragione ciò si verificò anche nei decenni finali del XIII secolo e nella prima metà del XIV, quando sopraggiunsero per la città fasi assai significative di crisi economica, politica e demografica. Queste condizioni negative sono segnalate dalla concentrazione ciclica delle carestie, tra gli anni Ottanta del Duecento e la metà del secolo successivo, da collegare 11

Cfr. D. Esposito, Vigneti e orti entro le mura. Utilizzo del suolo e strutture insediative, in Roma. Le trasformazioni urbane del Quattrocento, vol. II, a cura di Giorgio Simoncini, Firenze 2004, pp. 205-228; v. anche le descrizioni presenti in J.-Cl. Maire Vigueur, L’altra Roma. Una storia dei romani all’epoca dei comuni (XII-XIV), Torino 2011; sempre basilare, inoltre, R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981, p. 383 ss. 12 Cfr., pur nell’ambito di una storiografia assai ampia, I confini perduti. Le cinte murarie cittadine europee tra storia e conservazione, a cura di A. Varni, Bologna 2005; A. Settia, Cerchie murarie e torri private, in La costruzione della città comunale italiana. Secoli XII-inizio XIV, Pistoia 2009, pp. 45-66; E. Pavan, La crescita economica delle città, in La crescita economica dell’Occidente medievale. Un tema storico non ancora esaurito, Roma 2017, pp. 197-220. 13 G. Piccinni, Nascita e morte di un quartiere medievale. Siena e il Borgo Nuovo di Santa Maria a cavallo della peste del 1348, Pisa 2019, p. 11 (con ulteriore ampia bibliografia). 14 É. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, Rome 1990; Id., L’organizzazione territoriale e l’urbanizzazione, in Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Bari 2001, pp. 159-186. 15 M. Vendittelli, Mercanti-banchieri romani tra XII e XIII secolo. Una storia negata, Roma 2018 (con ulteriore bibliografia). 16 Sul rapporto tra popolazione e mercato delle case v., oltre al saggio di A. Esposito in questo volume, É. Hubert, Population et habitat à Rome aux XIII e et XIV e siècles, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, pp. 51-61; Id., Rome au XIV e siècle: population et espace urbain, in «Médiévales», 40 (2001), pp. 43-52; L. Palermo, Espansione demografica e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 299-326. 17 Si vedano, a questo proposito, le valutazioni realistiche e assai equilibrate in Hubert, Espace urbain et habitat à Rome, pp. 355-357. 11

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alla caduta tendenziale della rendita agraria 18; dall’allontanamento della corte da Roma; dalla diminuzione del numero degli abitanti, iniziata già prima dell’arrivo della peste nel 1348 19; dall’isolamento economico della città provocato dal collasso del suo capitale mercantile internazionale 20. Tutte queste circostanze condussero al decremento della popolazione e alla parallela caduta dei redditi, indebolendo ulteriormente la domanda di abitazioni e di suoli intramurari. Come conseguenza di tutto ciò l’abbondanza dell’offerta non poteva che abbattere ancora di più l’aspettativa della rendita, fino quasi ad annullarla totalmente, come si evince dai costi assai bassi delle abitazioni che talvolta ci risultano poste in vendita o in affitto; e in ogni caso, anche laddove la rendita fosse riuscita in qualche modo a formarsi, non si sarebbe comunque trattato di un livello sufficiente a far sorgere un mercato strutturato, cioè tale da rendere appetibile ad un ceto di eventuali investitori l’attivazione di operazioni immobiliari condotte a termine esclusivamente a scopo di lucro. Ma anche la distribuzione funzionale degli spazi intramurali contribuiva, in secondo luogo, a mantenere la rendita immobiliare urbana a livelli poco attraenti. Non mancano le prove di importanti lottizzazioni operate nel territorio urbano 21; sono ugualmente presenti, nel XIII e poi ancora nel XIV secolo, significative, anche se non abbondanti, testimonianze documentali di valorizzazione di edifici, di trasferimenti di proprietà, di affitti di case; non mancano, infine, esempi di formazione e di trasformazione di patrimoni immobiliari 22: ma, dobbiamo ancora chiederci, fino 18 Cfr.

L. Palermo, Mercati del grano a Roma tra Medioevo e Rinascimento, vol. I, Il mercato distrettuale del grano in età comunale, Roma 1990, pp. 102-104, e 115 ss.; l’incidenza della carestia sul valore dei beni immobili viene direttamente segnalata nella stessa Cronica dell’Anonimo, il quale racconta appunto che nel 1338 “fuoro vennute palazza, possessioni de campi e vigne, e dati per poca cosa, per avere dello pane” (Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Roma 1981, p. 34). 19 Cfr. Hubert, Population et habitat à Rome aux XIII e et XIV e siècles, pp. 46-48 e 55-57 (con i dati della caduta demografica e dell’abbandono dell’abitato nella fase critica). 20 Cfr. Vendittelli, Mercanti-banchieri romani tra XII e XIII secolo, pp. 161-166. 21 Cfr. É. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome, pp. 147-148. 22 Su queste tematiche due-trecentesche v. É. Hubert, Marco Vendittelli, Materiali per la storia dei patrimoni immobiliari urbani a Roma nel Medioevo. Due censuali di beni del secolo XIV, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 111 (1988), pp. 75-160; É. Hubert, Patrimoines immobiliers et habitat à Rome au Moyen Age: la Regio Columnae du XIe siècle au XIV e siècle, in «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age», 101 (1989), pp. 133-175; Id., Économie de la proprieté immobilière: les établissements religieux et leurs patrimoines au XIV e siècle, in Roma nei secoli XIII e XIV, cinque saggi, a cura di Id., Roma 1993, pp. 175-230; Id., Gestion immobilière, propriété dissociée et seigneuries foncières à Rome aux XIII e et XIV e siècles, in Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière 12

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a che punto questi fenomeni nel loro insieme possono essere considerati come costitutivi di un sistema di scambi indirizzato alla creazione del profitto o della rendita? Per rispondere a questa domanda è necessario individuare quali fossero i soggetti economici attivi in queste operazioni e quali fossero i loro obiettivi. Ebbene, i maggiori investimenti in questo settore della ricchezza urbana, erano, in realtà, prevalentemente diretti alla creazione o al rafforzamento di patrimoni immobiliari programmati sul suolo urbano dagli esponenti della nobiltà inurbata, per motivi di prestigio e di controllo del territorio, o da istituzioni religiose o laicali, dotate di finalità prevalentemente ecclesiali e assistenziali ma ugualmente determinate ad occupare e gestire la propria quota parte di suolo urbano. In qualche caso tutto ciò ha certamente condotto alla creazione di profitti e di rendite, questo deve essere sottolineato, ma è assai evidente che le operazioni immobiliari, di cui le fonti ci danno notizie, erano in ogni caso opera di soggetti economici che avevano nella rendita agraria la loro vera struttura reddituale, e che non avevano sempre il diretto obiettivo di ricavare introiti altrettanto significativi dall’uso del suolo urbano, che anzi preferivano utilizzare per fini di prestigio sociale. Nel caso, poi, delle istituzioni di tipo assistenziale l’obiettivo di ricavare un profitto dalla gestione di strutture urbane, ad esempio di tipo ospedaliero, era programmaticamente escluso. E da questa situazione emerge la ulteriore e altrettanto importante motivazione della fragilità del sistema della rendita. La rigida distribuzione della proprietà di ampie parti del suolo urbano tra le famiglie della nobiltà, insediate nelle proprie aree di predominio e di controllo, aggiungendosi alle strutture patrimoniali delle istituzioni religiose e assistenziali, impediva di fatto la diversificazione della destinazione d’uso dei suoli e quindi la creazione di una gerarchia economica tra gli spazi urbani. La suddivisione del suolo intramurario, e in particolare di quello abitato, tra i nuclei nobiliari dominati dai palazzi o dalle torri di famiglia aveva delle precise ragioni di difesa e di contrasto degli insediamenti altrui e creava una gerarchia ideologica e talvolta politica dei suoli urbani, ma rendeva largamente impraticabile la creazione del sistema della loro gerarchia economica; gli insediamenti urbani della nobiltà, accuratamente dans les villes de France et d’Italie (XIIe-XIXe siècle), a cura di O. Faron, É. Hubert, Rome 1995; Id., Population et habitat à Rome aux XIII e et XIV e siècles; Id., Rome au XIV e siècle: population et espace urbain; A. Esposito Aliano, Un inventario di beni in Roma dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia (1322), in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 99 (1976), pp. 71-115; Ead., L’inventario delle case e delle vigne dell’ospedale dei Santi Quaranta Martiri di Trastevere (1351), ibidem, 124 (2001), pp. 25-34; A. Gauvain, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al XX secolo, vol. 2: Il patrimonio, Città del Vaticano 2011. 13

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documentati e acutamente analizzati da Sandro Carocci 23, rendevano, infatti, assai problematica o sostanzialmente inattuabile la possibilità di modificare la qualità e la forma dell’utilizzazione di un suolo urbano troppo carico di significati politici e simbolici. La restante porzione abitata del territorio intramurario era, poi, ulteriormente scandita dalle strutture proprietarie delle grandi basiliche, delle chiese, delle grandi e piccole confraternite e dei loro istituti assistenziali, tutti soggetti ugualmente tendenti a concentrare intorno a sé, similmente a ciò che faceva la nobiltà inurbata, strutture abitative tendenzialmente poco redditizie perché funzionali in via prevalente a rafforzare l’insediamento di queste istituzioni in specifiche aree del territorio intramurale. Anche in presenza di un volume assai basso di rendita immobiliare urbana, le abitazioni inserite all’interno di questi insediamenti nobiliari, religiosi o assistenziali potevano comunque, come si è detto, essere date talvolta in locazione o essere oggetto di compravendite. E tuttavia anche in queste operazioni emergono elementi che fanno ulteriormente pensare ad un sostanziale disinteresse della proprietà per la rendita urbana e spesso i contratti che ci sono pervenuti lasciano intravedere altri scopi nascosti dietro le apparenti operazioni immobiliari. Il cambiamento della proprietà delle abitazioni non segnalava, ad esempio, necessariamente la diretta realizzazione di un profitto poiché era, a sua volta, assai spesso il frutto di una donazione, di un lascito testamentario o della restituzione di un prestito piuttosto che di una vera e propria compravendita. E poteva anche succedere ciò che rivela un contratto notarile del 1365, dunque risalente ad un’epoca successiva, che già assisteva ad alcuni significativi cambiamenti nel mercato romano: in quell’anno un muratore del rione Arenula, Tuccio di Nicola Nicolassi, con il consenso della moglie vendeva ad un calzolaio del rione Ripa, Buccio di Vanni, una casa terrineam et solaratam al prezzo di 40 fiorini d’oro, investendolo della nuova proprietà; ebbene, il notaio aggiungeva subito che quella casa era in effetti nella proprietà della nobildonna Golizia, figlia ed erede del nobile Paolo Orsini, e che quella compravendita, peraltro del tutto valida, non poteva ledere i diritti di proprietà dell’esponente degli Orsini 24. I due soggetti economici della compravendita e lo stesso notaio che stendeva l'atto si trovavano, 23

Cfr. S. Carocci, Baroni in città. Considerazioni sull’insediamento e i diritti urbani della grande nobiltà, in Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, pp. 137-173; v., inoltre, É. Hubert, Noblesse romaine et espace urbain (X e-XV e siècle), in La nobiltà romana nel Medioevo, a cura di S. Carocci, Roma 2006, pp. 171-186. 24 R. Mosti, Il protocollo notarile di Anthonius Goioli Petri Scopte (1365), Roma 1991, pp. 49-54. 14

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dunque, di fronte ad un rapporto contrattuale fortemente condizionato dalla tradizionale presenza degli insediamenti nobiliari o religiosi e dei diritti di proprietà che essi ancora erano in grado di vantare; insieme ai due soggetti economici stipulanti vi era, infatti, una terza figura, assente ma incombente e dotata di un potere contrattuale ancora maggiore; non si può, infatti, supporre che gli Orsini fossero estranei a ciò che accadeva, ad opera di un muratore e di un calzolaio, ad una casa della quale essi venivano dichiarati proprietari di ultima istanza perché inserita in un’area urbana da loro dominata 25. E se questo accadeva ancora nel 1365, nel contesto di incipienti e importanti cambiamenti delle strutture economiche e sociali urbane, possiamo facilmente immaginare quanto queste presenze dovessero essere ancora più marcate e pressanti nei decenni precedenti, cioè in epoche caratterizzate da asimmetrie contrattuali ancora più forti. Ed è necessario considerare, come fattore aggiuntivo a tutti questi condizionamenti, che la debolezza del mercato degli affitti e delle compravendite era ulteriormente accentuata dal fatto che, in una fase di ristagno della popolazione e poi di vero e proprio cedimento demografico, l’abbondanza degli spazi intramurali e il facile accesso ai materiali di costruzione, disponibili ovunque tra le antichità presenti nel suolo stesso della città, spingevano i residenti anche meno abbienti ad abitare in case di proprietà 26. Tutte queste circostanze confermano, insomma, non certo l’assenza ma la posizione decisamente marginale, fino agli ultimi decenni del Trecento, degli introiti eventualmente generati dalla rendita immobiliare, nel contesto di un’economia urbana romana ancora largamente dominata dalla rendita agraria e dai profitti prodotti dalle attività dei ceti mercantili e artigianali.

Sulle varie forme della proprietà dissociata e su come questo strumento giuridico condizionasse le compravendite e le locazioni basso medievali romane v. Hubert, Gestion immobilière, propriété dissociée. Particolarmente interessante è, a questo proposito, un documento di compravendita del 1332, citato ivi a p. 198, nota n. 35, che rivela in modo diretto l’asimmetria contrattuale che sussisteva tra i soggetti economici attivi nel rogito. 26 Cfr., a tale proposito, le valutazioni presenti in H. Broise, J.-Cl. Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in «Storia dell’arte italiana», vol. XII, Momenti di architettura, Torino 1983, p. 106. È del parere opposto Étienne Hubert, nell’interessante tentativo di ricercare già tra il XII e il XIV secolo le origini e le caratteristiche di una possibile gerarchia economica degli spazi urbani romani (É. Hubert, La diversité socio-économique des quartiers romains. L’indicateur du marché immobilier (XII e-XIV e siècle), in «Rome des quartiers»: des Vici aux Rioni, p. 252). 25

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3. La rendita e il mercato Lo spostamento verso la piazza romana, negli ultimi due decenni del Trecento, di significative quantità di capitale mercantile modificava questa situazione, e nel contesto delle innovazioni economiche che questa forma del capitale apportava alla piazza romana anche la rendita immobiliare poteva intravedere la crescita del suo ruolo nel sistema economico urbano. L’avvio di questi cambiamenti fu lento e graduale, perché all’epoca mancavano ancora molte delle condizioni, di cui qui sopra si è detto, necessarie per rendere gli immobili e i suoli beni appetibili; e tuttavia la presenza in città di queste incipienti trasformazioni è rivelato non solo dalla documentazione, già qui sopra ricordata, che ci è pervenuta dall’attività degli operatori commerciali e bancari forestieri e dei loro corrispondenti romani 27, ma anche dai protocolli notarili romani del tardo Trecento 28 e da altre fonti coeve, quali soprattutto quelle prodotte dalle istituzioni confraternali, religiose e assistenziali 29. Se le lettere commerciali hanno come protagonisti 27

Cfr. Palermo, Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini. Cfr. Gennaro, Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento; J.-Cl. Maire Vigueur, Classe dominante et classes dirigeantes à Rome à la fin du Moyen Age, in «Storia della città», 1 (1976), pp. 4-26; Id., Capital économique et capital symbolique: les contradictions de la société romaine à la fin du Moyen Âge, in Sources of Social History. Private Acts of the Late Middle Ages, a cura di P. Brezzi, E. Lee, Toronto 1984, pp. 213-224; I. Lori Sanfilippo, I documenti dell’antico archivio di S. Andrea “De Aquariciariis”, 1115-1483, Roma 1981; Ead., Il protocollo notarile di Lorenzo Staglia (1372), Roma 1986; Ead., I protocolli notarili romani del Trecento, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 110 (1987), pp. 99-150; Ead., Il protocollo notarile di Pietro di Nicola Astalli (1368), Roma 1989; Ead., Operazioni di credito nei protocolli notarili romani del Trecento, in Credito e sviluppo economico in Italia dal Medio Evo all’età contemporanea, Verona 1988, pp. 53-66; Ead., Notai e protocolli, in Alle origini della nuova Roma, pp. 413-454; Ead., La Roma dei romani. Arti, mestieri e professioni nella Roma del Trecento, Roma 2001; A. Modigliani, Artigiani e botteghe nella città, in Alle origini della nuova Roma, pp. 455-477; Ead., I protocolli notarili per la storia di Roma del secondo Trecento, in “Roma nel Rinascimento”, 1995, pp. 151-158; Ead., Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età Moderna, Roma 1998; R. Mosti, I protocolli di Iohannes Nicolai Pauli. Un notaio romano del ‘300 (1348-1379), Rome 1982; Id., Due quaderni superstiti dei protocolli del notaio romano Paulus Nicolai Pauli (1361-1362), in “Mélanges de l’École Française de Rome”, 96, (1984), pp. 777-844; Id., Il protocollo notarile di Anthonius Goioli Petri Scopte; Id., Un notaio romano del Trecento. I protocolli di Francesco di Stefano de Caputgallis (1374-1386), Roma 1994; Broise, Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma. 29 Sul ruolo delle confraternite e delle strutture religiose e assistenziali romane delle epoche qui prese in considerazione è disponibile una bibliografia assai ampia, per la quale si rinvia a Storiografia e archivi delle confraternite romane, a cura di L. Fiorani, Roma 1985; A. Esposito, Le strutture assistenziali romane nel tardo medioevo tra iniziativa laicale e politica pontificia, in Roma medievale. Aggiornamenti, a cura di P. Delogu, Firenze 28

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soprattutto i mercanti-banchieri forestieri operanti in città, questa ulteriore documentazione rivela, pur con tutti i limiti di una fonte spesso priva di continuità, come i romani propriamente detti e le loro istituzioni laiche e religiose affrontassero, in una piazza mercantile eterodiretta e dipendente dagli investimenti forestieri, alcuni significativi passaggi destinati a favorire la formazione in città di un mercato immobiliare strutturato. Il ruolo ancora marginale della rendita immobiliare nel complesso dell’economia romana basso e tardo medievale giustifica, naturalmente, l’esiguità del numero dei contratti dedicati alla gestione degli immobili nel complesso degli atti rogati a Roma nella seconda metà del XIV secolo 30; mentre la documentazione che ci è pervenuta dagli enti religiosi o assistenziali attivi nella Roma basso e tardo medievale presenta, da questo punto di vista, dati maggiormente seriali. Appare, innanzi tutto, evidente nella documentazione notarile che il mercato degli immobili tendeva a diventare maggiormente vivace nei momenti in cui la città riusciva a liberarsi almeno parzialmente dall’isolamento economico e politico in cui era stata rinchiusa nelle fasi critiche della prima metà del Trecento. Un importante segnale, colto dalla grande perspicacia storica di Isa Lori Sanfilippo, risale, ad esempio, ai pochi anni del soggiorno romano di Urbano V; con il ritorno del pontefice, nel 1367, e con l’atteso arrivo dell’imperatore nel 1368, qualcosa, infatti, cominciava ad accadere nelle compravendite e nelle locazioni delle case e, come rivelano i protocolli di Pietro di Nicola Astalli, “il mercato immobiliare in questo periodo comincia a muoversi” 31. E insieme a ciò, si consideri anche che sempre tra il 1365 e il 1368 tra i pochissimi protocolli notarili che registrano cessioni di case in locazione ve ne sono alcuni che contengono la clausola dell’aumento del canone in caso di ritorno a Roma del papa o dell’arrivo in città di personalità di rilievo o che prevedono esplicitamente 1998, pp. 289-301; L. Fiorani, “Charità et pietate”. Confraternite e gruppi devoti nella città rinascimentale e barocca, in Roma, città del papa, a cura di L. Fiorani e A. Prosperi, Torino 2000, pp. 429-476; A. Rehberg, Die Römer und ihre Hospitäler. Beobachtungen zu den Trägergruppen der Spitalsgründungen in Rom (13.-15. jahrundert), in Hospitäler in Mittelalter und Früher Neuzeit: Frankreich, Deutschland und Italien. Eine vergleichende Geschichte, a cura di G. Drossbach, München 2007, pp. 225-260; A. Gauvain, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al XX secolo; I. Ait, Il patrimonio delle clarisse di S. Lorenzo in Panisperna tra XIV e XV secolo: prime indagini, in «Reti Medievali Rivista», 19, 1, 2018, pp. 453-472. 30 Per queste valutazioni cfr., ad esempio, Lori Sanfilippo, Il protocollo notarile di Pietro di Nicola Astalli, p. XXIII. 31 Ibidem, p. XXVI. 17

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la sua esclusione 32. Accadeva, dunque, che con un parziale e provvisorio rafforzamento della domanda (si pensi ad esempio, alle necessità della curia nel quadriennio della presenza di Urbano V in città) la rendita potesse cominciare ad avere un ruolo nell’economia urbana, un ruolo certo ancora poco individuabile e tuttavia tale da stimolare la creazione, sia pure temporanea, di una linea di prezzi e di loro eventuali variazioni. Queste potevano anche essere formule tradizionalmente presenti nei contratti notarili romani, ma in queste circostanze esse acquistavano un valore reale e indicavano in modo circostanziato le variazioni delle condizioni previste dal contratto. E tuttavia, perché questi fenomeni potessero crescere di numero e manifestarsi pienamente, e dunque perché la rendita potesse entrare in misura maggiore nella formazione e nel funzionamento del mercato urbano, era necessario che l’apertura della città all’economia europea e mediterranea avvenisse in misura più intensa e continua. Si trattava inevitabilmente di un processo lungo e graduale, che andò incontro ad un suo potenziamento con il ritorno definitivo della corte a Roma, nel 1377, e con il progressivo rafforzamento del mercato romano delle merci e del denaro indotto, negli anni appena successivi, dagli operatori economici forestieri e particolarmente fiorentini 33. Ulteriori occasioni di apertura ai mercati europei, malgrado i limiti imposti dallo Scisma, furono ben presto offerte alla piazza romana: il Giubileo del 1390 fu celebrato e subito dopo fu prolungato anno dopo anno fino al 1399, per potenziare il più possibile i vantaggi della crescita della domanda, ovviamente anche di case 34; il Giubileo dell’anno 1400 non fu invece mai proclamato, ma divenne ugualmente una occasione di potenziamento del mercato interno perché in quell’anno la città si riempì comunque di forestieri 35; le ristrutturazioni delle dogane, di terra nel 1398 e di mare nel 1416, divennero occasioni di ammodernamento del sistema delle gabelle nel settore fondamentale dei trasporti e delle importazioni ed esportazioni di beni 36. E insieme a questi 32

Cfr., ad esempio, ibidem, pp. 28-29; Mosti, Il protocollo notarile di Anthonius Goioli Petri Scopte, pp. 101-102. 33 Per i giudizi dei mercanti-banchieri operanti a Roma attorno al ruolo del papa e della sua corte nel potenziamento del mercato romano v. Palermo, Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini, pp. 94 ss. 34 Cfr. A. Esch, I giubilei del 1390 e del 1400, in La storia dei Giubilei, 1, Firenze 1997, pp. 278-293. 35 Cfr. ibidem; v., inoltre, L. Palermo, L’anno santo dei mercanti: dibattito storiografico e documenti economici sul cosiddetto giubileo del 1400, in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi in onore di Paolo Brezzi, vol. II, Roma 1988, pp. 605-618. 36 Cfr. L. Palermo, Il porto di Roma nel XIV e XV secolo. Strutture socio-economiche e statuti, Roma 1979. 18

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eventi, altri due fattori nel campo propriamente monetario e finanziario imposero definitivamente l’internazionalizzazione dell’economia romana. Il primo fu la creazione e l’uso a partire dagli ultimi anni Settanta del Trecento di una moneta esclusivamente di conto specificamente romana, creata dal mercato e destinata ad essere utilizzata assai a lungo, il fiorino corrente fissato al valore di 47 soldi; questo strumento monetario con la sua assoluta stabilità semplificò il sistema dei prezzi e rese più agevoli gli scambi interni e quelli internazionali 37. Il secondo fattore fu la creazione nell’anno 1400, ad opera della potente famiglia degli Spini, di una compagnia esclusivamente bancaria, cioè dedita a Roma ad attività solo finanziarie e di cambio 38; essa faceva seguito, come compagnia bancaria specializzata, alla creazione (avvenuta di fatto ugualmente a Roma, anche se la registrazione ufficiale fu fatta poi a Firenze nel 1397) del banco dei Medici 39, e all’apertura del banco Datini nel 1398 40; erano tutti segnali del rilievo che la piazza romana cominciava ormai ad acquisire nel contesto finanziario europeo già nei decenni dello Scisma. E il potenziamento del mercato e le sue aperture internazionali resero insufficiente anche il modello istituzionale del regime comunale romano, che infatti nel 1398 fu sostituito dalla signoria pontificia, ormai garante, anche per i suoi legami con le grandi compagnie commerciali e bancarie italiane ed europee, del nuovo corso dell’economia romana; e tutto ciò accadde con il pieno consenso dei mercanti-banchieri, ma anche con il sostegno di quegli strati della cittadinanza romana che erano ormai pienamente favoriti dal nuovo corso economico introdotto dalla corte e dai capitali forestieri 41. Le conseguenze che queste aperture commerciali e bancarie europee della piazza romana ebbero sulla formazione della rendita immobiliare urbana emergono dai protocolli notarili che ci sono pervenuti dal tardo Trecento e dal primo Quattrocento; i mercanti forestieri, infatti, come già si è accennato, con le loro operazioni finivano per sostenere il reddito stesso dei ceti mercantili romani, che in tal modo avevano la possibilità di entrare nel mercato immobiliare e incrementare il volume della domanda. 37

Cfr. Id., Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini, pp. 166-180. Ibidem, doc. n. 80, p. 301. 39 Cfr. R. de Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze 1970, pp. 55-56. 40 Cfr. F. Melis, Aspetti della vita economica medievale, Siena 1962, p. 212 ss. 41 Sulla fragilità dell’apparato istituzionale comunale romano e sulla sua sostituzione con la signoria del papa v. A. Esch, La fine del libero comune di Roma nel giudizio dei mercanti fiorentini. Lettere romane degli anni 1395-1398 nell’Archivio Datini, in Id., La Roma dei papi, la Roma dei romani, Roma 2022, pp. 39-66. 38

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Se da un lato le famiglie economicamente e socialmente più cospicue sembrano in queste epoche andare avanti con le loro tradizionali forme della gestione degli spazi urbani e delle proprietà immobiliari, con il solito obiettivo del controllo del territorio di loro pertinenza42, da un altro lato appaiono nella documentazione figure imprenditoriali, quali quelle dei bobacterii e dei mercatores che, essendo tra i maggiori beneficiari del nuovo corso dell’economia romana, cominciano ad acquistare case, talvolta dalla stessa nobiltà, con l’obiettivo di inserirle nel mercato urbano 43. La creazione dei “complessi” abitativi, studiati da Henri Broise e Jean-Claude Maire Vigueur, tendeva, inoltre, ad allargare lo spazio urbano verso aree precedentemente occupate dagli insediamenti nobiliari, nei rioni Colonna, Trevi e Monti 44; e le fonti segnalano anche il tentativo di spingere l’abitato verso il Laterano, con un primo esempio di sostegno pubblico ad un investimento di tipo speculativo basato sul presupposto che il ritorno definitivo della curia in città avrebbe valorizzato l’area che circondava la chiesa cattedrale, una delle tradizionali residenze dei papi 45. Il raggio di azione dei ceti imprenditoriali romani restava nella seconda metà del Trecento ancora sostanzialmente circoscritto, pur con qualche eccezione, alle mura della città e alla Campagna che appena le circondava 46, e tuttavia il processo di internazionalizzazione dell’economia romana era stato ormai avviato, e questi fenomeni espansivi, certamente ancora limitati, rivelano che nuove occasioni di produrre rendite e profitti venivano ormai offerte a coloro che dentro le mura vivevano e operavano. Ed è particolarmente interessante osservare come i segnali di queste trasformazioni nel settore della formazione della rendita siano registrati tra il tardo Trecento e gli inizi del Quattrocento anche nella documentazione prodotta dalle istituzioni religiose e assistenziali. La presenza ormai stabile in città di mercanti-banchieri forestieri, unitamente a quella meno stabile ma comunque assai significativa della corte papale, rendendo maggiormente Cfr., ad esempio, M. Bevilacqua, Il Monte dei Cenci. Una famiglia romana e il suo insediamento urbano tra Medioevo ed Età barocca, Roma 1988. 43 Cfr., ad esempio, la documentazione notarile esaminata in Maire Vigueur, Classe dominante et classes dirigeantes, pp. 11-12. 44 Cfr. Broise, Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma, p. 98 ss. 45 Cfr., ad esempio, P. Adinolfi, Laterano e Via Maggiore. Saggio della topografia di Roma nell’età di mezzo, Roma 1857; G. Curcio, L’Ospedale di S. Giovanni in Laterano: funzione urbana di una istituzione ospedaliera, in «Storia dell’arte», vol. 32 (1978), pp. 23-39 e vol. 36/37 (1979), pp. 103-130. 46 Cfr. Gennaro, Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento, passim; Maire Vigueur, Classe dominante et classes dirigeantes, particolarmente a p. 12. 42

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vivace il mercato urbano ampliava anche per queste istituzioni la possibilità di ricercare una fonte di reddito certa e di peso crescente, quale poteva essere appunto quella prodotta dalla rendita immobiliare. Insieme alla nobiltà inurbata questi enti avevano dominato nelle forme tradizionali il possesso e l’uso del suolo della città basso medievale; ebbene, a partire dal tardo Trecento essi sembrano possedere una maggiore capacità di adattarsi al nuovo corso dell’economia romana, adeguando le modalità della gestione dei loro patrimoni ai cambiamenti che stavano intervenendo nel mercato urbano. Questi fenomeni sono ben presenti sia nella documentazione prodotta da questi enti, come anche nei protocolli dei notai che queste istituzioni utilizzavano per le compravendite o per le locazioni. Le indagini assai accurate che Ivana Ait ha dedicato alle clarisse di San Lorenzo in Panisperna rivelano, ad esempio, la portata di questi passaggi 47; dopo molti anni economicamente difficili, che avevano costretto talvolta gli istituti religiosi a svendere alcuni dei loro beni per versare le imposte richieste dal papa 48, le fonti rivelano l’avvio di una gestione maggiormente dinamica del patrimonio urbano delle clarisse, che tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento movimentavano le loro proprietà immobiliari, soprattutto periferiche 49, “in modo da favorire la formazione, attraverso permute, vendite e acquisti, di più o meno grandi complessi immobiliari in zone centrali della città” 50. E fenomeni economici del tutto simili, sempre al passaggio dal Trecento al Quattrocento, appaiono nelle modalità gestionali di altri enti dotati di un numero anche assai più cospicuo di beni immobili. Il Capitolo di S. Pietro, ad esempio, vedeva triplicati tra il 1350 e il 1405 gli introiti della rendita urbana, sia per l’espansione del patrimonio come anche per la sua più efficiente collocazione nel mercato 51. E abbiamo la conferma dell’esistenza e della convenienza di queste nuove forme di investimento dall’analisi di una situazione opposta, e precisamente quella in cui si venne a trovare il convento domenicano di San Sisto, che nel tardo Trecento non solo non investe nella rendita urbana ma anzi appare, nella documentazione che ci è pervenuta, ancora 47

Ait, Il patrimonio delle clarisse di S. Lorenzo in Panisperna. Cfr. Maire Vigueur, Les casali des églises romaines à la fin du Moyen Âge (1348-1428), in «Mélanges de l’École française de Rome», 86 (1974), 1, pp. 102-106; per la documentazione relativa a queste cessioni v. Mosti, I protocolli di Iohannes Nicolai Pauli, pp. 265, 269-270. 49 Cfr. Ait, Il patrimonio delle clarisse di S. Lorenzo in Panisperna, pp. 464-466. 50 Ibidem, p. 466. 51 Cfr. A. Gauvain, Il capitolo di S. Pietro in Vaticano e il suo patrimonio immobiliare (1400-1525), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, 2019-2020, p. 256; Hubert, Économie de la proprieté immobilière, pp. 179-187. 48

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sostanzialmente dipendente dai redditi prodotti dalla tradizionale rendita agraria; e per questo motivo esso va incontro ad un significativo decremento delle entrate. I registri contabili che ci sono pervenuti da questa istituzione sono stati accuratamente studiati da Cristina Carbonetti Vendittelli 52, e benché incompleti essi testimoniano la decisa flessione, in particolare tra il 1370 e il 1380, della rendita riscossa 53, mentre negli anni finali del secolo la complessiva situazione finanziaria appare ulteriormente peggiorata54. Il convento dovette anche indebitarsi e, pressato dalle necessità finanziarie, non solo non entrò nel crescente settore immobiliare urbano ma, anzi, decise di vendere nel 1377 per 100 fiorini due case che erano giunte in sua proprietà 55, mentre dalle poche case romane ancora in suo possesso e date in affitto ricavava solo 7 fiorini annui 56. E si tratta, anche in questo caso, di un insieme di dati assai importanti, perché ci fanno comprendere come questi passaggi economici procedessero gradualmente e coinvolgessero non certo tutti i soggetti economici ma soprattutto quelli maggiormente pronti a recepire le innovazioni cui la città andava incontro. Ma i primi segnali assai concreti della formazione di un sistema di rendita differenziale non appaiono solo nelle iniziative delle istituzioni dinamiche, quali erano quelle qui sopra ricordate, che erano presenti da secoli in città; in misura forse maggiore questi processi facevano la loro apparizione anche nell’attività di enti di nuova formazione, che proprio per questo riuscivano spesso a collocarsi più agevolmente in un mercato già evoluto rispetto a quello basso medievale. È questo il caso, ad esempio, di una istituzione che nasceva a Roma in concomitanza con l’Anno Santo 1390, l’Ospizio di S. Maria dell’Anima. Esso veniva creato con l’obiettivo di fornire assistenza e alloggio ai pellegrini di area tedesca e fiamminga, e veniva pertanto dotato di un solenne hospitale, destinato ad accogliere esponenti della nazione Alamanorum, cum oratorio, domibus separatis virorum et mulierum dictae nationis, et pannis sericis, paramentis, libris, calicibus, lectisterniis, lectis et aliis utensilibus oportunis 57. Si trattava, 52

C. Carbonetti Vendittelli, Le più antiche carte del convento di San Sisto in Roma (905-1300), Roma 1987; Ead., Il registro di entrate e uscite del convento domenicano di San Sisto degli anni 1369-1381, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento, pp. 83-117; Ead., Il monastero romano di San Sisto nella seconda metà del XIV secolo: la comunità femminile e la gestione del suo patrimonio, in “Reti Medievali Rivista”, 19, 1, 2018, pp. 371-401. 53 Ibidem, p. 394. 54 Ibidem, p. 391. 55 Ibidem, p. 390. 56 Ibidem, p. 389. 57 Cfr. F. Nagl, Urkundliches zur Geschichte der Anima in Rom, in «Römische Quartalschrift für christliche Alterthumskunde und für Kirchengeschichte», Mitteilungen aus dem Archiv 22

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dunque, di una complessa operazione immobiliare che prevedeva case separate per uomini e donne ed edifici di varia natura e utilità. Nel corso di alcuni anni, con l’ingresso nel XV secolo e con il consolidarsi delle funzioni assistenziali, emerse il problema del finanziamento delle attività dell’ente, e questo fu risolto attraverso l’uso degli immobili che, in seguito ad acquisizioni, donazioni o lasciti testamentari, divenivano nel frattempo di sua proprietà; e infatti, accanto agli edifici che rimanevano disponibili per fini di assistenza o di culto, aumentò subito il numero degli immobili destinati ad essere impiegati come beni d’investimento. Il gettito della rendita che le case procuravano all’Ospizio non rappresentava, ovviamente, l’intero introito dell’istituto, ma costituiva, tuttavia, una quota assai consistente delle sue entrate e gli permetteva di sopravvivere e di svolgere le sue funzioni. E l’espansione della rendita immobiliare urbana rendeva convincente, già agli inizi del Quattrocento, agli occhi dei dirigenti dell’ente l’opportunità di organizzare e gestire un vero e proprio patrimonio immobiliare, costituito da case d’abitazione e botteghe da utilizzare esclusivamente come strumenti di produzione di un reddito destinato poi a dare sostegno alle attività assistenziali. E a differenza di ciò che accadeva nei periodi precedenti, quando l’assenza o il volume assai ridotto della rendita urbana spingeva gli enti assistenziali a puntare soprattutto sulla rendita agraria, il patrimonio immobiliare dell’Ospizio di S. Maria dell’Anima, pur ingrandendosi, non si allargava ad includere terreni agricoli, ma rimaneva concentrato nei redditizi rioni centrali di Roma, e soprattutto in Parione. Dunque, già ai primi del Quattrocento questa nuova istituzione prediligeva gli investimenti in case in città, spostando così le risorse dell’ente verso un mercato immobiliare che cominciava anche a misurare i livelli differenziati di rendita tra città e campagna e tra rioni centrali e periferici 58. 4. La rendita urbana e la rendita agraria Nei primi decenni del Quattrocento gli investimenti diretti alla percezione della rendita immobiliare urbana venivano ulteriormente incentivati da alcuni fenomeni concomitanti, tra i quali due emergono con evidenza dalle fonti. In primo luogo, cominciava già allora a manifestarsi l’attrazione che la città esercitava su coloro che dalla campagna circostante o da altre regioni italiane e oltremontane trasferivano in essa la propria des deutschen Nationalhospizes S. Maria dell’Anima, Rom 1899, pp. 58-59. 58 Per i dati bibliografici e archivistici relativi all’Ospizio di S. Maria dell’Anima si rinvia a Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento. 23

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residenza per offrire il proprio lavoro; essi accrescevano in tal modo la domanda di case da adibire ad abitazione, cioè da comprare o da prendere in affitto; e si trattava di una tipologia di domanda assai meno favorita, rispetto al passato, dall’esistenza di vasti spazi intramurari disabitati, perché era una domanda specializzata; in altre parole, chi arrivava a Roma, come già facevano i mercanti forestieri nel tardo Trecento, non chiedeva semplicemente di vivere dentro le sue mura ma, nell’ambito di un territorio urbano sempre più qualificato per nazionalità o per attività lavorative, domandava di fissare la propria residenza nei rioni maggiormente adatti 59. Vi erano quindi tutte le premesse per giungere ad una utilizzazione dello spazio urbano basata su una gerarchia sociale ed economica dei luoghi che lo componevano, a sua volta produttiva di differenti livelli di rendita urbana in base alla concentrazione della domanda. Si rafforzava, in secondo luogo, anche la domanda di case da utilizzare come beni di investimento; e ciò era dovuto proprio alla crescita tendenziale della rendita immobiliare urbana. Questo fenomeno è dimostrato in modo inoppugnabile dalla crescente differenza tra i redditi procurati dalla rendita agraria e quelli, ormai certamente maggiori a parità di capitale impegnato, procurati appunto dalla rendita immobiliare urbana. Si trattava di un processo economico che invertiva l’andamento relativo dei secoli precedenti, e che creava una scala di valori che vedeva in posizione centrale la case e i suoli urbani, in posizione intermedia i terreni maggiormente produttivi posti appena fuori dalle mura e, infine, in posizione marginale i territori distrettuali assai poco o per nulla redditizi perché non sufficientemente produttivi o perché troppo lontani dal mercato urbano. E tutto ciò segnalava con certezza agli operatori economici la maggior convenienza dell’investimento urbano rispetto a quello agricolo. Alcuni esempi offerti dalle fonti ci aiutano a comprendere la portata di questi cambiamenti, introdotti nel mercato urbano man mano che la città vedeva ulteriormente rafforzata, come dimostrano anche i registri doganali che ci sono pervenuti proprio a partire dagli anni di Martino V 60, la sua presenza nel grande circuito dei capitali europei e mediterranei. 59

Cfr. A. Esposito, La popolazione romana dalla fine del secolo XIV al Sacco: caratteri e forme di una evoluzione demografica, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, pp. 37-49; Ead., Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1995; Ead., Immigrazione e integrazione. Migranti e forestieri a Roma e in alcune regioni pontificie dell’Italia centrale tra Quattro e Cinquecento, in Immigrati e forestieri in Italia nell’Età Moderna, a cura di E. Pagano, Roma 2020, pp. 139-156. 60 Cfr. M. L. Lombardo, Camera Urbis, Dohana Ripe et Ripecte, Liber introitus 1428, Roma 1978; A. Esch, Economia, cultura materiale ed arte nella Roma del Rinascimento. 24

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Nel 1423 il monastero di Santa Maria Nova, uno dei più importanti della città 61, decideva di vendere un suo casale, che era coltivato a cereali e che rendeva assai poco, e di investire il ricavato in acquisto di case in città 62. Per portare a termine questa operazione Santa Maria Nova si rivolgeva a Mattia Astalli, fratello di Giovanni Astalli, il banchiere collocato al vertice della tesoreria della città, a sua volta proprietario di altri casali. Ma non contento di ciò, il monastero chiamava anche un gruppo di esperti operatori economici romani e chiedeva loro di esprimere il proprio parere sul valore del casale destinato alla vendita e sulle conseguenze economiche per il monastero dell’intera operazione immobiliare. Il notaio riportava nell’atto di compravendita le testimonianze di tutti costoro e sulla base dei loro unanimi pareri scriveva che investendo la somma ricavata dalla vendita del casale in acquisti di case in città, invece che in altri terreni agricoli, lo stesso capitale avrebbe fornito una rendita annua dieci volte superiore. La differenza tra il rendimento dei terreni agricoli e quello, dieci volte maggiore, delle case in città non sembri esagerata, poiché del casale venduto veniva detto esplicitamente che era coltivato solo a cereali e che non permetteva una parallela attività di allevamento di bestiame, doveva dunque essere singolarmente povero e comunque collocato in terreni veramente marginali, quelli che per definizione non producono quasi alcuna forma di rendita. E tuttavia, anche una differenza eventualmente minore, anche soltanto doppia o tripla, era in grado di stimolare una aspettativa comunque destinata a creare una vera e propria rivoluzione nell’allocazione delle risorse e a modificare radicalmente la propensione al loro investimento. E per di più, a conferma del significato economico di queste operazioni, nello stesso 1423 sempre S. Maria Nova proponeva ai medesimi Astalli di permutare la metà del valore di un casale con alcune case poste nel rione Ponte 63. E non si trattava di valutazioni isolate. Sempre a tre anni dal ritorno di Martino V a Roma, tra il 1422 e il 1423, i canonici della Basilica Lateranense, anche in questo caso un ente tra i più potenti della città, decidevano di vendere il castrum di Frascati, militarmente indifendibile Studi sui registri doganali romani 1445-1485, Roma 2007; sulle trasformazioni del sistema doganale romano v. anche Palermo, Il mercato romano nella corrispondenza di Francesco Datini, pp. 209-212. 61 Cfr. G. Barone, La presenza degli ordini religiosi nella Roma di Martino V, in Alle origini della nuova Roma, pp. 353-365. Sulla gestione dei beni immobili di questo monastero v. Hubert, Économie de la proprieté immobilière. 62 Archivio Capitolino, sez. I, 785 bis, 9, ff. 186v-191v; 193-197v; 202v-214. 63 Cfr. Broise, Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma, p. 113. 25

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e assolutamente poco produttivo. Il valore della proprietà era calcolato di poco inferiore a fiorini 10.000 correnti (come si è detto, erano i fiorini di conto di 47 soldi a fiorino usati a Roma per calcolare il valore di scambio delle merci e ovviamente non come strumento di pagamento), mentre la rendita era stata negli ultimi anni non superiore a 70 o 80 fiorini correnti all’anno, dunque attorno allo 0,7 o allo 0,8 per cento; la improduttività del castrum, e dunque la caduta della rendita agraria da esso prodotta, era esplicitamente posta, anche in questo caso, a giustificazione dell’intera operazione, ed era attribuita dal notaio alle lotte tra i vari potentati locali e al conseguente spopolamento di esso; dunque, insieme all’abbattimento della rendita agraria veniva segnalata anche la caduta demografica di quelle zone. I canonici riuscirono a vendere Frascati per 10.000 fiorini correnti a Giordano Colonna, il fratello del papa64, che lo acquistava non certo per la rendita ma in vista di una precisa strategia familiare (altri documenti, infatti, ci rivelano come lo stesso Giordano acquisisse anche i castri di Rocca di Papa, Molaria e Montecompatri, mentre i castri di Fusignano, Verposa e Colonna risultavano ugualmente disabitati)65. Conclusa l’operazione gli stessi canonici diedero a due banchieri, Giovanni Astalli, che già abbiamo incontrato, e Bartolomeo de’ Bardi, membro della filiale romana del banco dei Medici e depositario generale della Camera Apostolica, l’incarico di usare quella somma per acquistare case, vigne o terreni dentro o accanto alle mura della città, dunque in una posizione molto più redditizia perché non marginale66; sappiamo, inoltre, che due anni dopo, nel 1425, gli stessi canonici utilizzavano ancora una parte di ciò che avevano ricavato dalla vendita del casale di Frascati per acquistare altre case nei rioni centrali di Roma67. E l’esistenza nei primi decenni del Quattrocento di una forma ormai significativa di gerarchia economica tra gli spazi urbani è ulteriormente dimostrata dal fatto che la potente confraternita del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum cominciava ormai a richiedere per la locazione delle sue numerose case di proprietà canoni differenziati nelle diverse aree della città, privilegiando Borgo e i rioni di Ponte, Parione, Ripa e Campitelli, cioè quelli maggiormente richiesti da coloro che lavoravano o trafficavano con la corte o con i capitali forestieri 68. 64

Archivio Capitolino, sez. I, 785 bis, 9, ff. 215-217v. Ibidem, sez. I, 785 bis, 8, ff. 126-131. 66 Ibidem, sez. I, 785 bis, 9, ff. 24v-26; 44v-50v. 67 Sui risultati complessivi di tutte queste operazioni v. ibidem, ff. 186v-191v. 68 Cfr. S. Dionisi, Sviluppo economico e rendita urbana. Il caso delle confraternite laicali romane del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e del Gonfalone (1410-1529), Tesi di dottorato, Università LUISS di Roma, 2002-2003, p. 183; Ead., Confraternite e rendita urbana: il San Salvatore e il Gonfalone di Roma tra XV e primo XVI secolo, in “Città e storia”, 1, 2006, pp. 19-33. 65

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Emerge, dunque, in questi documenti, il legame funzionale fra tre dati essenziali dell’economia romana di queste epoche: lo spopolamento di aree distrettuali (Alfio Cortonesi ha definito i casali di quest’epoca “scarsamente popolati di uomini” 69), la caduta della rendita nei territori maggiormente marginali (accentuata peraltro dal rafforzamento delle politiche annonarie e dal conseguente abbattimento dei prezzi dei beni agricoli 70) e, infine, la crescita della domanda di acquisto o di locazione di case nel territorio intramurario romano, collegata a sua volta anche all’afflusso di nuovi residenti e ormai sempre più dipendente, relativamente ai prezzi, dal processo di strutturazione di un sistema di gerarchia economica degli spazi urbani. E tutto ciò aiuta a comprendere meglio anche le ragioni del comportamento assai simile tenuto in epoche appena precedenti dalle istituzioni religiose e assistenziali, come le clarisse di S. Lorenzo in Panisperna o l’Ospizio di S. Maria dell’Anima, che già abbiamo incontrato quando questi fenomeni iniziavano appena a far sentire il proprio peso sulla vita economica della città. 5. La rendita e le istituzioni Come si conciliano questi tratti di indubbia vivacità della piazza romana, avviata ormai verso una lunga e complessa fase di crescita economica e demografica, della quale la rendita immobiliare era parte ormai fondamentale, con l’immagine di decadenza che ancora negli anni del pontificato del Colonna la città dava di sé a coloro che la osservavano e la descrivevano? E soprattutto, come era possibile una crescente presenza del sistema della rendita immobiliare in una città le cui case in quelle epoche venivano ancora costantemente descritte in gran parte come ruderi cadenti? La carenza di investimenti, conseguenza anche della crisi economica, e il disinteresse delle autorità avevano ridotto nel corso del XIV secolo l’abitato romano in condizioni di notevole degrado, e nei decenni di passaggio dal Tre e al Quattrocento la città presentava ai visitatori, come ha scritto Arnold Esch, “un quadro fosco, che si era rischiarato nel XII e nel XIII secolo, ma che ora, nella Roma dello scisma, assunse toni ancora più 69

A. Cortonesi, L’economia del casale romano, in Alle origini della nuova Roma, p. 599. Per ulteriori dati sullo spopolamento v. S. Carocci, M. Vendittelli, L’origine della Campagna Romana. Casali, castelli e villaggi nel XII e XIII secolo, con saggi di D. Esposito, M. Lenzi, S. Passigli, Roma 2004, pp. 52-56. 70 Cfr. L. Palermo, L’approvvigionamento granario della capitale: strategie economiche e carriere curiali a Roma alla metà del Quattrocento, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, pp.145-206. 27

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cupi” 71. E anche dopo l’arrivo in città di Martino V e della sua corte, nel 1420, le case di Roma e il suo suolo urbano continuavano ad inviare agli osservatori delle immagini di estrema trascuratezza 72, alle quali si aggiungevano i giudizi più problematici della cultura umanistica 73. E tuttavia, anche una delle descrizioni più note e più dure della città e delle sue case, quella composta dal Platina negli anni Settanta del Quattrocento 74, non è necessariamente in conflitto con ciò che emerge dai minutari notarili o dai registri degli enti religiosi o assistenziali, che ci propongono un’area urbana nella quale cominciava appunto a manifestarsi la presenza di un sistema di rendita immobiliare; i due fenomeni potevano, infatti, manifestarsi l’uno accanto all’altro e le ragioni di questa coesistenza vanno ricercate nel fatto evidente che l’avvio della crescita economica romana rinascimentale non poteva investire contemporaneamente tutti i settori della vita della città 75: il capitale mercantile e creditizio, specialmente agli inizi della sua espansione, riusciva, infatti, a rafforzare il settore della produzione della rendita immobiliare, ma non riusciva contemporaneamente a potenziare quello dell’edilizia urbana. Gli investimenti di questa forma del capitale, come dimostrano le analisi assai accurate e ben documentate di Manuel Vaquero Piñeiro76, intervenivano, dunque, sui rapporti economici e 71

A. Esch, Roma dal medioevo al Rinascimento, Roma 2021, p. 39. Sullo stesso tema v., inoltre, Id., I giubilei del 1390 e del 1400, in Storia dei giubilei, vol. I, 1300-1423, Prato 1997, pp. 279-282. 72 Sulle fonti relative ai giudizi dei contemporanei sulla città v. Id., Bonifaz IX. und der Kirchenstaat, Tübingen 1969, pp. 209-215. 73 Cfr. G. Lombardi, La città, libro di pietra. Immagini umanistiche di Roma prima e dopo Costanza, in Alle origini della nuova Roma, p. 17-45; e S. Maddalo, Identità di una cultura figurativa, ibidem, pp. 47-60. 74 “Urbem Romam adeo diruptam et vastam invenit ut nulla civitatis facies in ea videretur. Collabentes vidisses domos, collapsa templa, desertos vicos, cenosam et oblitam urbem, laborantem rerum omnium caritate et inopia... Nulla urbis facies nullum urbanitatis indicium in ea videbatur” (Platynae Historici, Liber de vita Christi ac omnium pontificum, a cura di G. Gaida, RR.II.SS.2, III, 1, p. 310). Questa ricostruzione è stata peraltro posta più volte in discussione dagli studiosi (cfr., ad esempio, P. Tomei, L’architettura a Roma nel Quattrocento, Roma 1942, p. 6 ss; T. Magnuson, Studies in Roman Quattrocento Architecture, Stockholm 1958, p. 3). 75 Per un quadro complessivo si rinvia a L. Palermo, L’economia, in Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Bari 2002, pp. 49-92. 76 Cfr. M. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare. Sui successivi sviluppi si sofferma lo stesso Autore in Id., La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de la iglesia de Santiago de los Españoles de Roma entre los siglos XV y XVI, Roma 1999. V., inoltre, Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento; Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento; Gauvain, Il capitolo di S. Pietro in Vaticano e il suo patrimonio immobiliare (1400-1525). 28

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sociali intercorrenti tra i vari luoghi compresi negli spazi urbani (il porto, la sede del papa, le sedi cardinalizie, gli insediamenti nobiliari, religiosi e assistenziali, le vie di comunicazione con il mondo esterno alla città, le strade urbane, i mercati, i rioni centrali e quelli periferici), creando in tal modo le strutture basilari della rendita differenziale, ma non trasformavano, in quei decenni, o lo facevano assai poco, l’aspetto esteriore della città. La creazione di una gerarchia economica tra gli spazi urbani non dipendeva, in realtà, almeno in queste epoche, dalla cura per le case ma dalla funzione assegnata a ciascuna delle aree che costituivano il suolo intramurario. Si consideri, ad esempio, il ruolo dei luoghi destinati ad ospitare i mercati urbani, cioè gli “spazi del commercio”, come assai opportunamente li ha definiti Anna Modigliani 77, e delle vie che ad essi conducevano; ebbene, se anche la loro importanza era crescente in una città che a sua volta andava incontro a varie forme di espansione economica e demografica, la loro altissima capacità di influenzare il valore delle aree e degli edifici che su di esse sorgevano non derivava, tuttavia, in questa fase, dal loro eventuale rinnovamento strutturale, ma dalla loro collocazione nell’ambito del tessuto urbano; ed ogni variazione di questa collocazione aveva importanti conseguenze sulle caratteristiche e sul valore degli insediamenti intramurali e sui percorsi delle strade interne alla città. Dal punto di vista dell’andamento del ciclo economico, poi, il punto di arrivo di una fase critica coincide sempre con l’emergere di una capacità di ripresa; dunque, quanto meno costose erano le compravendite o gli affitti di case e botteghe non ristrutturate o addirittura cadenti, tanto maggiore poteva essere la convenienza ad investire in esse e tanto più relativamente alta, rispetto al prezzo di acquisto, poteva essere la rendita che esse erano in grado di fornire agli acquirenti o il profitto in caso di rivendita. Non a caso, la documentazione qui sopra citata sottolinea la collocazione nei rioni centrali delle case che gli enti religiosi o assistenziali intendevano acquistare e porre sul mercato, ma assai poco rivela, invece, della loro condizione; questa poteva, invece, essere presa in considerazione, a riprova delle cattive condizioni degli edifici presi in affitto, nei contratti di locazione che prevedevano delle migliorie a carico degli inquilini 78. Se, dunque, la città del primo Quattrocento continuava ad apparire esteriormente qual era venti o trenta anni prima, ciò accadeva semplicemente perché in quella fase era la rendita immobiliare il fattore trainante; e il 77

Cfr. A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma. Cfr., ad esempio, la documentazione citata in G. Curcio, Nisi celeriter repararetur totaliter est ruitura. Notazioni su struttura urbana e rinnovamento edilizio in Roma al tempo di Martino V, in Alle origini della nuova Roma, p. 537. 78

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contributo che essa conferiva al processo di creazione della ricchezza dava agli investitori la possibilità di accumulare risorse che in seguito sarebbero state impiegate anche in progetti di rinnovamento edilizio e urbanistico. Ma anche le scelte politiche plasmavano le forme del mercato. Qualsiasi mercato, in realtà, e a maggior ragione quello degli immobili urbani, per funzionare bene e svolgere proficuamente il suo compito di creare e distribuire ricchezza, ha bisogno di un sistema istituzionale solido che lo assista nei vari segmenti del suo funzionamento, da quello monetario a quello giudiziario, da quello fiscale a quello dei regolamenti edilizi, e così via. Nel caso romano si può verificare come l’interesse delle pubbliche autorità per questo mercato abbia accompagnato il suo sviluppo nel corso del XV secolo 79; i gruppi dirigenti curiali sapevano, infatti, che la decisione di valorizzare sul piano ideologico, simbolico e politico un qualsiasi tratto dell’area urbana avrebbe portato alla crescita del valore dei beni immobili che in essa erano presenti. Se, dunque, gli investimenti nel settore edilizio cominciarono a manifestarsi, sia pure lentamente, già negli anni del pontificato di Martino V 80, quando la rendita urbana dimostrava sempre più di essere un importante strumento di accumulazione di capitali, la tensione politica ed ideologica verso la creazione di una nuova urbis facies, come la definiva il Platina 81, non poteva che giungere più tardi, verso la metà del XV secolo, in un’epoca nella quale l’elaborazione di nuovi pensieri architettonici e urbanistici, sollecitati dagli stessi pontefici intenzionati a trasformare il volto della città 82, era accompagnata dalla ormai piena maturità del mercato immobiliare e dal parallelo potenziamento dell’amministrazione finanziaria ecclesiastica; da entrambe queste due strutture dovevano, infatti, necessariamente giungere le ingenti risorse destinate alla creazione del nuovo volto della città due volte capitale, della Chiesa e 79 Cfr., ad esempio, O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo XV, Roma 1997; Ead., «Pro Urbis decore et ornamento», Il controllo dello spazio edificabile a Roma tra XV e XVI secolo, in Congiure e conflitti. L’affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura, a cura di M. Chiabò, M. Gargano, A. Modigliani, P. Osmond, Roma 2014, pp. 363-406; A. Esch, Progetti edilizi dei cardinali a Roma e l’importazione di materiali da costruzione (1470-1480), in Il principe architetto, a cura di A. Calzona et alii, Firenze 2002, pp. 361-376. 80 Cfr. G. Curcio, Nisi celeriter repararetur totaliter est ruitura (con ulteriore bibliografia); v., inoltre, la documentazione coeva presente in A. M. Corbo, Artisti e artigiani in Roma al tempo di Martino V e di Eugenio IV, Roma 1969; Ead., I contratti di locazione e il restauro delle case a Roma nei primi anni del secolo XV, in «Commentari», 4, 1967, pp. 340-343. 81 Cfr. il testo del Platina riportato qui sopra nella nota n. 74. 82 Cfr. A. Modigliani, Disegni sulla città nel primo Rinascimento romano: Paolo II, Roma 2009; Ead., Roma al tempo di Leon Battista Alberti (1432-1472). Disegni politici, Roma 2019.

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dello Stato. Nella strutturazione e nelle trasformazioni del mercato degli immobili il ruolo delle istituzioni è sempre stato, d’altra parte, determinante. La caduta dei gruppi dirigenti comunali, ad esempio, sostituiti alla fine del Trecento dalla signoria pontificia, faceva perdere al Campidoglio la centralità politica 83, e accresceva invece il valore simbolico della basilica lateranense, quale cattedrale e sede pontificale, e quello economico delle aree che la circondavano. Il trasferimento, parecchi decenni dopo, della sede pontificia a San Pietro in Vaticano spostava di nuovo l’asse dello sviluppo delle aree urbane e rendeva ancora più importante e centrale, quale punto di riferimento nella organizzazione degli spazi urbani, l’area dei rioni posti a ridosso del ponte che collegava la città, a sinistra del Tevere, con il Castello, Borgo e la basilica petrina. Ognuno di questi passaggi, come sempre accade nelle innovazioni urbanistiche, aveva un suo evidente significato politico, e nella sistemazione finale cinquecentesca l’obiettivo emergeva chiaramente: “l’intera Roma”, come ha scritto Manfredo Tafuri, “è chiamata a parlare del nuovo potere della Chiesa e dei suoi obiettivi mondani e universali; l’intera Roma deve rispondere, con la magnificenza delle sue nuove strutture, alle malinconiche meditazioni degli umanisti sulle rovine e sull’opera devastatrice del tempo” 84. Da questo punto di vista, il rinnovamento edilizio e la nuova organizzazione degli spazi intramurali completavano la realizzazione dell’apparato simbolico nel quale si manifestava, non solo a livello romano ma anche internazionale, l’assolutismo politico e religioso dei pontefici 85. E tuttavia questi cambiamenti indotti e guidati dalle istituzioni non possono essere valutati correttamente se non si sottolinea anche il forte significato economico che essi portavano in sé, poiché essi furono determinanti non solo per il complessivo modello dello sviluppo urbano che producevano, ma appunto anche per 83 Cfr., oltre agli studi già citati di Anna Modigliani, G. Bonasegale Pittei, Contributo alla storia architettonica ed urbanistica della regione capitolina, in Roma anno 1300, a cura di A. M. Romanini, Roma 1983, p. 621 ss.; Curcio, L’Ospedale di S. Giovanni in Laterano: funzione urbana di una istituzione ospedaliera; S. Passigli, Urbanizzazione e topografia a Roma nell’area dei fori imperiali tra XIV e XVI secolo, in «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age», 101 (1989), p. 273 ss.; M. Manieri Elia, Il mercato Capitolino, in Studi in onore di Michele D’Elia, a cura di C. Gelao, Matera 1996, pp. 491-495. A. Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro in Vaticano alla fine del XV secolo: primi risultati, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2004), pp. 49-76 84 M. Tafuri, “Roma instaurata”. Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo ‘500, in Raffaello Architetto, a cura di C.L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano 1984, p. 61. 85 Per queste tematiche si rinvia, pur nella disponibilità di una ben nota e assai ampia bibliografia, alle impostazioni presenti in M. Gargano, Origini e storia. Roma Architettura Città. Frammenti di Rinascimento, Roma 2016.

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le forme della rendita immobiliare che essi incentivavano. Il mercato dei beni immobili, infatti, con il suo compiuto funzionamento, garantiva, da un lato, ai capitali privati la possibilità di raccogliere profitti e rendite, spingendo così ad investire anche nella costruzione e nella qualità degli edifici (e distribuendo salari e profitti ai lavoratori e agli artigiani che in numero crescente si trasferivano in città); ma, da un altro lato, esso favoriva anche le iniziative che potremmo definire di natura pubblica, poiché dava ai gruppi dirigenti curiali, che impegnavano grandi risorse per realizzare edifici dotati di forti valori ideologici e simbolici, la certezza che questi erano poi in grado di incidere sulla stessa gerarchia economica degli spazi urbani 86, modificandola e riorganizzandola secondo le necessità e gli interessi dei detentori del potere 87.

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Esemplari, da questo punto di vista, anche le vicende di Borgo; cfr., ad esempio, E. Guidoni, G. Petrucci, Roma, Via Alessandrina. Una strada tra due fondali nell’Italia delle corti (1492-1499), Roma 1997; G. Spagnesi, Roma, la basilica di San Pietro, il borgo e la città, Milano, 2002; e il saggio di Giuliana Mosca in questo volume. Altrettanto esemplari i casi di investimenti privati studiati in A. Modigliani, Modelli edilizi e strategie urbane a confronto: romani e curiali negli anni ’70 del Quattrocento, in Agricoltura, lavoro, società. Studi sul Medioevo per Alfio Cortonesi, a cura di I. Ait e A. Esposito, Bologna 2020, pp. 457-470; e in C. Troadec, Roma crescit: une histoire économique et sociale de Rome au XV e siècle, Rome 2020, pp. 275-279. 87 Cfr. M. Vaquero Piñeiro, Terra e rendita fondiaria a Roma all’inizio del XVI secolo, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento, pp. 283-316 (con ulteriore bibliografia); Id., La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de la iglesia de Santiago de los Españoles; Id., Auge urbano y renta inmobiliaria. El patrimonio de las Iglesias espanolas de Roma en el siglo XVI, in Fortuna y negocios: formación y gestión de los grandes patrimonios (siglos XVI-XX), a cura di H. Casado Alonso, R. Robledo-Hernàndez, Valladolid 2002, pp. 21-43; G. Curcio, I processi di trasformazione edilizia, in Un pontificato e una città: Sisto IV (1471-1484), a cura di C. Ranieri, D. Quaglioni, F. Niutta, M. Miglio, Roma 1986, pp. 706-732; I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Costruire a Roma fra XV e XVII secolo, in L’edilizia prima della rivoluzione industriale (secoli XIII-XVIII), a cura di S. Cavaciocchi, Prato 2005, pp. 229-284. 32

Manuel Vaquero Piñeiro Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

1. Introducción Sobre el mercato de la tierra y de las propriedades agrarias existe una abundante bibliografía 1. Sin embargo mucho menos se ha escrito acerca del papel jugado por los patrimonios urbanos 2 en la formación y circulación de la riqueza que se acumulaba en las ciudades3. Dicho de otro modo, se trata de considerar la economía de los centros urbanos no sólo desde el prisma de las actividades desplegadas por los banqueros, artesanos, mercaderes y demás hombres de negocios que en ellos residían. Por supuesto, esto no significa ni mucho menos ignorar el peso fundamental de la producción manufacturera, del comercio o de las actividades financieras4 pero suele ser bastante corriente apreciar que el análisis de las consecuencias económicas que tuvo la transformación física del tejido urbano no ha suscitado el interés que cabría esperar, incluso después de la publicación de algunas investigaciones que dejaban entrever un prometedor terreno de estudio 5. 1

M. Berengo, A proposito della proprietà fondiaria, en «Rivista Storica Italiana», 83 (1970), pp. 121-147; Il mercato della terra. Secc. XIII-XVIII, S. Cavaciocchi (coord.), Firenze 2004; Le marché de la terre au Moyen Âge, L. Feller, Ch. Wickhan (coords.), Roma 2005; L. Feller, Richesse, terre et valeur dans l’occident médiéval. Économie politique et économie chrétienne, Turnhout 2021. 2 Tra rendita e investimenti. Formazione e gestione dei grandi patrimoni in Italia in età moderna e contemporanea, Bari 1998. 3 A. De Maddalena, La ricchezza come nobiltà, la nobiltà come potere (secoli XV-XVIII). Nodi storici e storiografici (Dal ‘mito della borghesia’ al ‘mito dell’aristocrazia’), en La ricchezza dell’Europa. Indagini sull’Antico Regime e sulla modernità, Milano 1992, pp. 547-589 4 P. Iradiel Murugarren, Metrópolis y hombres de negocios (siglos XIV y XV), en Las sociedades urbanas en la España Medieval, Pamplona 2003, pp. 277-310; A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Bologna 1986. 5 F. Sznura, L’espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze 1975; R.A. Goldthwaite, La costruzione della Firenze rinascimentale. Una storia economica e sociale, Bologna 1984. 33

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Rentas e inmuebles urbanos siguen siendo una asignatura pendiente de la historia económica de las ciudades 6 pues si por un lado en las obras de carácter general 7 el interés se orienta a la descripción arquitectónica de los edificios más representativos o a la distribución topográfica de las sedes del poder, por otro se tiende a dejar de lado la formación de una inmensa riqueza fija (casas, tiendas, palacios, talleres, …) cuya gestión, además del uso directo realizado por los propietarios, implicó que el suelo urbano, un recurso limitado por definición, acabase siendo fuente de enriquecimiento y causa de fuertes contradicciones sociales 8. Desde el siglo XV el crecimiento demográfico y político de las ciudades estimuló la formación de un capital de nuevo cuño, la renta inmobiliaria9. De todas formas y aunque sigamos moviéndonos a grandes líneas, el reto que tenemos ante nosotros es el de considerar la riqueza material y monetaria que se movía en torno a los edificios urbanos no como algo aislado sino parte integrante de una red de relaciones 10. Si por un lado cabe la posibilidad de considerar el robustecimiento de la renta inmobiliria una de las claves de la economía de las ciudades en plena fase de transición entre la Edad Media y la Edad Moderna, por otro lado el tema supone adentrarse en un terreno teórico bastante resbaladizo. Antes de nada surge el problema de dar al llamado ‘mercado inmobiliario’ de las ciudades del Antiguo Régimen 11 una identidad precisa, conocer los actores principales, 6

Este trabajo es una revisión de Propiedad y renta urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento, en Mercado inmobiliario y paisajes urbanos en el Occidente europeo. Siglos XI-XV, XXXIII Semana de Estudios Medievales de Estella, Pamplona, 2007, pp. 203-267. 7 F. Collard, et al., Les villes d’Italie mi XII e – mi XIV e siècles, Nevilly 2005, pp. 100-102; P. Gilli, Villes et sociétés urbaines en Italie. Mileu XII e – milieu XIV e siècle, Lassay-les-Châteaux 2005; P. Boucheron, Les villes d’Italie (vers 1150 – vers 1340), Paris 2004, pp. 133-134. 8 Y. Barel, La ciudad medieval. Sistema social – sistema urbano, Madrid 1981, pp. 156-157. 9 J. Rius Cornado, Las propiedades urbanas del colegio de España en Bolonia (1459-1490), en «Studia Albornotiana», XXXVI (1979), pp. 309-348; H. Casado Alonso, La propiedad eclesiástica en la ciudad de Burgos en el siglo XV: el cabildo catedralicio, Valladolid 1979. Los múltiples aspectos del tema se pueden apreciar en los trabajos recogidos en La cifra della città. Architetture ed economie in trasformazione, R. Morelli, M.L. Neri (eds.), “Città & Storia”, I/1 (2006). 10 Ejemplares las consideraciones metodológicas en A. Grohmann, Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale. Introduzione e problemi di metodo, en Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 7-38. 11 E. Sàita, Case e mercato immobiliare a Milano in Età Viscontea (secoli XIV-XV), Milano 1997; A. Collantes de Terán Sánchez, El mercado inmobiliario en Sevilla (siglos XII-XVI), en D’une ville à l’autre, op. cit., pp. 227-242; Id., Propiedad y mercado inmobiliario en la Edad Media: Sevilla, siglos XIII-XVI, «Hispania», 169 (1988), pp. 493-527. 34

Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

individualizar las reglas de funcionamiento y establecer hasta qué punto las decisiones individuales encajan en un comportamento económico colectivo. Aspectos fundamentales para comprender algunos de los resortes de la larga fase de transición del feudalismo al capitalismo, a la luz ante todo de la experiencia de los núcleos urbanos que, siguiendo los procesos territoriales puestos en marcha por la formación de los estados nacionales, llegaron a convertirse en el centro de un poder político centralizado. Desde este punto de vista, en el panorama europeo de los siglos XV y XVI Roma constituye uno de los casos más elocuentes y por ello no sorprende que a la capital del Estado de la Iglesia se le puedan aplicar las consideraciones efectuadas por algunos de los máximos exponentes del pensamiento económico clásico. Ante todo Richard Cantillon12 quien, explicando la formación de los precios, destaca el papel jugado por la riqueza que se concentraba en las ciudades capitales. Durante el Renacimiento, el patriciado de las ciudades italianas inició la moda de realizar espaciosas y suntuosas residencias. El gasto en arquitectura13, de Venecia a Génova, de Florencia a Milán, se volvió una exigencia, un imperativo de fastuosidad hasta imponerse la economía del lujo en la construcción. A través de un movimiento de carácter colectivo el espacio urbano cambió. En Roma las imponentes residencias cardenalicias14 impusieron un hiato respecto al precedente tejido edilicio medieval. La ciudad dejó de ser la misma, tampoco lo será el precio del suelo libre o edificado, ya que lo que contaba era poseer una vivienda localizada cerca de un influyente personaje de la Corte o en las calles más prestigiosas de la ciudad, donde se amasaba la riqueza y el prestigio. Por esta vía el espacio urbano se jerarquizó15. De ello se deduce que para una correcta comprensión del mercado inmobiliario romano no baste sólo con enmarcar desde un punto de vista monetario 12

R. Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, S. Cotta (coord.), Torino 1955. R.A. Goldthwaite, Ricchezza e domanda nel mercato dell’arte in Italia dal Trecento al Seicento. La cultura materiale e le origini del consumismo, Milano 1995. 14 Domus et splendida palatia. Residenze papali e cardinalizie a Roma fra XII e XV secolo, A. Monciatti (coord.), Pisa 2004; M.G. Aurigemma, Residenze cardinalizie tra inizio e fine del ‘400, en Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. II. Funzioni urbane e tipologie edilizie, G. Simoncini (coord.), Firenze 2004, pp. 117-158; Ead., “Qualis esse debeat domus cardinalis: il tipo della residenza privata cardinalizia nella cultura antiquaria romana del secondo ‘400”, en Piranesi e la cultura antiquaria. Gli antecedenti e il contesto, Roma 1985, pp. 53-67. 15 L. Palermo, Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento, in «Rome des Quartiers»: des Vici aux Rioni. Cadres institutionelles, pratiques sociales et requalification entre Antiquité et époque moderne, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Bérenguer, Paris 2008, pp. 335-351; C. Troadec, Roma crescit. Une histoire économique et sociale de Rome au XV e siècle, Rome 2020. 13

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la compra y el arrendamiento de una vivienda, es oportuno, como apostillaba Cantillon, considerar asimismo “el humor y la fantasía de los hombres”. Si ahora, por un momento, recordamos lo que sostiene Adam Smith, vemos que el tema de la renta inmobiliaria urbana adquiere ulteriores matices. El padre de la economía clásica reconoce la existencia de una diferencia sustancial entre la renta rústica y la renta de las casas16, y ello porque la primera obedece al uso de un bien productivo (la tierra), mientras que la segunda se paga por el derecho a utilizar un bien no directamente productivo (la vivienda). De ahí que la renta urbana, si la comparamos con la agrícola, sea en principio una renta pura que no implica ningún tipo de actividad. Pero a la vez que hace hincapié en esta división fundamental, Adam Smith vuelve a tocar el tema de las ciudades capitales ya que es allí donde la concentración tanto de la población como de las funciones de dirección empuja hacia arriba el precio de las viviendas, cada vez más caras 17. Llegados a este punto cabría preguntarse sobre las estrategias de financiación adoptadas por gran parte de la población para recaudar las sumas necesarias para comprar o alquilar una vivienda 18, obligándonos, en pos de una respuesta lo más completa posible, a barajar factores como los salarios, los préstamos, las dotes matrimoniales, las hipotecas, la división horizontal de los edificios, etc. Variables las apenas enunciadas cuyo efecto social y económico imponen tener una visión ramificada del mercado inmobiliario19 y de las factores que están detrás del cambio del paisaje físico de las ciudades. Reconozco que todavía no hemos salido del campo de las conjeturas pero el camino recorrido hasta ahora lo considero imprescindible si lo que se busca es a sustituir el enfoque descriptivo por otro de tipo más interpretativo 20. Por muchos motivos, Roma reúne los requisitos ideales para analizar las transformaciones que maduraron tras la grave crisis demográfica de la segunda mitad del siglo XIV 21. La recuperación de las ciudades durante el siglo XV no supuso una simple vuelta atrás22. Muchas cosas ya no volvieron a ser las mismas y 16

A. Smith, Ricchezza delle nazioni, libro V, cap. II, art. I, Torino 1950, p. 769. B. Chevalier, Les bonnes villes de France du XIVe au XVIe siecle, Paris 1982, pp. 184-185. 18 El alquiler podía absorver hasta el 10% de los ingresos familiares, P. Malanima, Economia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Milano 1995, pp. 530-531. 19 Véase J.C. Maire Vigueur, Introduction, en D’une ville à l’autre, op. cit., pp. 5-7. 20 A. Grohmann, Potere e spazio urbano nell’Italia del Rinascimento, en Il governo delle città. Modelli e pratiche (secoli XIII-XVIII), Napoli 2004, pp. 171-203. 21 L. Palermo, Un modello di sviluppo per la Roma rinascimentale, en L. Palermo, Sviluppo economico e società preindustriali, Roma 1997, pp. 351-416; Id., L’economia, en Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Roma-Bari, 2001, pp. 49-91. 22 M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Torino 1999; S.R. Epstein, Town and Country: economy and institutions in late 17

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entre ellas sobresale la relación que cuajó entre el príncipe y la capital que, como bien ilustra la experiencia de los estados regionales italianos, llegó a convertirse en el centro de la vida política y económica de un amplio territorio, lo que conllevó la subordinación de otros núcleos urbanos de rango inferior. La ciudad de finales del Cuatrocientos donde reside el Príncipe y su corte impone la presencia fija de una gran cantidad de personal y de funcionarios23, absorbe servicios y recursos, atrae a gente de otras regiones y países, genera un sinfín de negocios y mueve ingentes capitales, pero al tiempo se convierte en una poderosa máquina de redistribución de la riqueza líquida24. Títulos de deuda pública, préstamos, carrera en la administración, concesión de beneficios, por limitarnos a un escueto repaso de algunos de los procedimientos empleados por el poder político para ganarse el consenso y la fidelidad de una heterogénea gama de cortesanos, y Roma, “plaza del mundo” según Fernando el Católico25, no tenía rival cuando se trataba de conceder honores y prebendas 26. De todas formas vivir en Roma y adaptarse al estilo de vida imperante en la Corte exigía poseer los recursos financieros imprescindibles para sostener un ritmo de gasto que el embajador lombardo cifró a comienzos del siglo XVI en más de 3.000 escudos de oro mensuales27. 2. Precedentes medievales Si utilizamos como punto de arranque la descripción realizada hacia 1437 por el noble andaluz Pero Tafur 28, la Roma de comienzos del siglo XV, una medieval Italy, en «Economic History Review», XLVI/3 (1993), pp. 453-477; Id., Nuevas aproximaciones a la historia urbana de Italia: el Renacimiento temprano, en «Hispania», LVIII/2, 199 (1998), pp. 409-416. 23 P. Partner, The Pope’s Men. The Papal Civil Service in the Renaissance, Oxford 1990; Id., Il mondo della curia e i suoi rapporti con la città, en Roma città del papa, a cura di L. Fiorani, A. Prosperi, Torino 2000, pp. 203-238. 24 M.A. Romani, M. Aymard, La cour comme institution économique, en Debates and Controversies in Economic History, C.E. Núñez (coord.), Madrid 1998, pp. 145-175. 25 A. Fernández de Córdova Miralles, Imagen de los Reyes Católicos en la Roma Pontificia, en «En la España medieval», 28 (2005), pp. 259-354. 26 P. Partner, Ufficio, famiglia, stato: contrasti nella Curia romana, en Roma capitale (1447-1527), San Miniato (Pisa) 1994, pp. 40-50. 27 M. Vaquero Piñeiro, Terra e rendita fondiaria a Roma all’inizio del XVI secolo, en Economia e società a Roma tra Medievo e Rinascimento, A. Esposito, L. Palermo (coords.), Roma 2005, pp. 283-316, p. 292. 28 J. Vives Gatell, Andanças e viajes de un hidalgo español (1436-1439) con una descripción de Roma, en «Analecta Sacra Tarraconensi», 19 (1949), pp. 123-215; M. Vaquero Piñeiro, Viaggiatori spagnoli a Roma nel Rinascimento, Bologna 2001, pp. 26-49. 37

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vez concluído el Cisma de Occidente, ofrecía un panorama urbanístico-arquitectónico desolador. El extenso perímetro amurallado no tenía relación alguna con una población muy escasa, por doquier abundaban las ruinas, y los habitantes se concentraban en pocas zonas cuyo aspecto físico se asemejaba al de una serie de grandes aldeas aisladas que no formaban una verdadera ciudad29. En el inmenso espacio vacío lo único que sobresalían eran las torres de las iglesias y los edificios de la antigüedad abandonados. Aunque no se debe nunca olvidar que hablar de Roma implica oscilar entre el “mito” y la “realidad” 30, por lo que nos concierne, es decir el estudio de la relación entre el paisaje urbano y el mercado inmobiliario31, el retrato apenas presentado resulta útil pues contiene una serie de elementos que ayudan a entender por qué las décadas centrales del siglo XV constituyen un momento clave en el tránsito de una ciudad que por comodidad podemos denominar “medieval” a otra a la cual cabe aplicar el adjetivo, siempre artificial, de “renacentista”. Como en más de una ocasión han puesto de manifiesto los estudios de Jean-Claude Maire Vigueur 32, Sandro Carocci 33 y Etienne Hubert34, antes del siglo XV tanto la construcción de casas como gran parte de las transacciones inmobiliarias obedecían a motivaciones de tipo religioso y familiar. Para muchos conventos, los mayores propietarios de suelo urbano, el objetivo principal era el de aumentar el número de fieles, y ello se aprecia muy bien 29

De las 1.500 hectáreas de terreno disponibles dentro del recinto amurallado, la población ocupaba entre 350 y 400, É. Hubert, Rome au XIV e siècle. Population et espace urbain, en «Médiévales», 40 (2001), pp. 43-52. 30 A. Esch, Immagine di Roma tra realtà religiosa e dimensione politica nel Quattro e Cinquecento, en Roma città del papa, pp. 7-29. 31 Como trabajos de síntesis, I. Insolera, Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Roma-Bari 1996; E. Guidoni, L’urbanistica di Roma tra miti e progetti, Roma-Bari 1990. 32 J.C. Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, en Storia dell’arte italiana. 12. Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 130-141; Id., Capital économique et capital symbolique. Les contradictions de la società romaine à la fin du Moyen Âge, en Sources of social History. Private acts of the late Middle Ages, P. Brezzi, E. Lee (coords.), Toronto-Roma 1984, pp. 213-224. Ejemplar el estudio realizado sobre la familia Cenci, cfr. M. Bevilacqua, Il Monte dei Cenci. Una famiglia romana e il suo insediamento urbano tra medioevo ed età barocca, Roma 1988. 33 S. Carocci, Baroni in città. Considerazioni sull’insediamento e i diritti urbani della grande nobiltà, en Roma nei secoli XIII e XIV secolo. Cinque saggi, É. Hubert (coord.), Roma 1993, pp. 137-173. 34 É. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du X e siècle à la fin du XIII e siècle, Roma 1990, pp. 273-281; Id., La construction de la ville. Sur l’urbanisation dans l’Italie médiévale, en Annales. Histoire, Sciences Sociales, 59/1 (2004), pp. 109-139; Id., Noblesse romaine et espace urbain (X e-XV e siècle), en La nobiltà romana nel Medioevo, S. Carocci (coord.), Roma 2006, pp. 171-186. 38

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durante la fase de expansión de los siglos XII y XIII 35 cuando, por medio de la concesión de terrae vacantes ad domos faciendas en las áreas aledañas a los edificios de culto, lo que se perseguía era incrementar el prestigio social de cada institución36. Por su parte entre la nobleza, cuyos patrimonios dentro de la ciudad eran menos extensos, predominaba la intención de formar bloques de casas compactos capaces de reforzar la cohesión interna; a tal fin resultaba fundamental ocupar una posición estratégica en el plano de la ciudad y nada mejor que utilizar algún importante edificio antiguo para levantar una fortaleza o residencia de prestigio. Al margen de las instituciones religiosas y de la aristocracia feudal, la mayoría de la población romana era propietaria de un reducido número de viviendas, como mucho unas diez, cuya explotación, medida en términos de beneficios puramente monetarios, daba escasos resultados. Se comprende que ante la abundancia de espacios libres y de materiales por doquier fáciles de ser utilizados37, la construcción de las viviendas no generase gastos muy elevados. En Roma hasta bien adentrado el siglo XV no se crearon las condiciones para el despegue de un sólido mercado inmobiliario38. Esta impresión, sobre la que volveremos más tarde, se hace patente consultando los registros notariales de la segunda mitad del siglo XIV. Aunque las escrituras públicas en Roma no se remonten más allá de 1348 39 y en esta circustancia por razones prácticas, nos veamos obligados a escoger a modo de cata tan sólo los protocolos publicados 40, se observa, de todas formas, una línea de tendencia bastante probable. Hasta mediados de los años sesenta 35

É. Hubert, Patrimoines immobiliers et habitat à Rome au Moyen Âge: la regio Columnae du XI e siècle au XIV e siècle, en «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge», 101/1 (1989), pp. 133-175; É. Hubert, M. Vendittelli, Materiali per la storia dei patrimoni immobiliari urbani a Roma nel Medioevo. Due censuali di beni del secolo XIV, en «Archivio della Società Romana di Storia Patria» 111 (1988), pp. 75-160. 36 Propensión a la concentración topográfica que se aprecia también en otras ciudades italianas, F. Masè, Patrimoines immobiliers ecclésiastique dans la Venise médievale (XI e-XV e siècle). Une lecture de la ville, Roma 2006, pp. 40-43. 37 Ph. Bernardi, D. Esposito, J.F. Bernard (coords.), Il reimpiego in architettura : recupero, trasformazione, uso, Rome 2008. 38 L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, en Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, pp. 407-429. 39 I. Lori Sanfilippo, Protocolli notarili romani del Trecento, en «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 110 (1987), pp. 99-150. 40 I. Lori Sanfilippo, Il protocollo notarile di Lorenzo Staglia (1372), Roma 1986; Ead., Il protocollo notarile di Pietro di Nicolai Astalli (1368), Roma 1989; R. Mosti, Il protocollo notarile di "Anthonius Goioli Petri Scopte" (1365), Roma 1991; Id., Due quaderni superstiti dei protocolli del notaio romano Paulus Nicolai Pauli (1361-62), en «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge – Temps Modernes», 96/2 (1984), pp. 777-844; Id., I protocolli di Iohannes Nicolai Pauli. Un notaio romano del ‘300 (1348-1379), Roma 1982. 39

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del Trescientos todo el interés lo cataliza el mundo rural y la ciudad queda relegada a un segundo plano. La línea del horizonte comienza a cambiar hacia 1365-1370 como demuestra el número de contratos de compraventa y de arrendamiento de bienes raíces urbanos. Sugerir, ante esta evolución más que evidente, la existencia en Roma antes de finales del siglo XIV de un auténtico mercado inmobiliario resulta tarea muy ardua, pero ni siquiera cuando la documentación del siglo XV deja traslucir un clima menos encogido 41, podemos evitar la necesidad de movernos con prudencia. 3. Expansión urbana a la sombra de la corte papal Escaso peso demográfico, pésimas condiciones materiales y permanentes enfrentamientos entre facciones rivales. Ante un panorama tan crítico, Martín V (1417-1431) acometió la renovación material de la ciudad y para ello reforzó la autoridad de los oficiales municipales responsables de la limpieza y la conservación de las calles 42. Para combatir la “gravem deformitatem sed ruinam potius adhominabilem” que mencionan todas las fuentes, en 1425 el papa Colonna impuso normas muy severas para mejorar las condiciones higiénicas de la ciudad; al mismo tiempo estableció que en adelante cualquier persona que quisiera construir u ocupar una porción de suelo público necesitaba obtener una licencia. En la historia de los “magistri stratarum” las decisiones adoptadas por Martín V supusieron un cambio radical; dichos oficiales pasaron de ser jueces que intervenían en pleitos y causas legales entre privados a ser el instrumento mediante el cual el poder papal comenzó a gobernar la transformación de la ciudad 43. Después de estas primeras iniciativas hay que recordar la reforma de Borgo, impulsada por Nicolás V (1447-1455) 44. Quizás siguiendo las ideas de Leone Battista Alberti, lo que se buscaba era racionalizar el trazado de las calles, construir largas y rectas arterias porticadas, levantar casas de altura igual y distribuir espacialmente a los artesanos según la profesión realizada 45. Es cuando el hospital del Santo Spirito acometió una ambiciosa política patrimonial en 41 É. Hubert, Economie de la propriété immobilière: les établissements religieux et leurs patrimoines au XIV e siècle, en Rome aux XIII e et XIV e siècles, É. Hubert (ed.), Roma 1993, pp. 175-230. 42 O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma 1997. 43 Sobre la política arquitectónica en otras ciudades italianas, P. Boucheron, Le pouvoir de bâtir. Urbanisme et politique édilitaire à Milan (XIV e-XV e siècles), Roma 1998. 44 G. Spagnesi, Roma, la basilica di San Pietro, il borgo e la città, Milano, 2002. 45 A. Modigliani, Roma al tempo di Leon Battista Alberti (1432-1472), Roma 2019.

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Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

Borgo, exigiendo a los inquilinos que arrendaban sus casas la realización de importantes obras de rehabilitación arquitectónica. Siguiendo a grandes líneas la evolución urbanística de la ciudad, se debe a Sixto IV (1471-1484) la puesta en práctica de uno los capítulos más destacados de la renovatio Urbis. Ya en plena segunda mitad del siglo XV, entre enero y junio de 1480 se aprobaron dos importantes leyes, cuya aplicación condicionará profundamente tanto el aspecto físico de la ciudad como la formación de la renta inmobiliaria. A comienzos de ese año, el cardenal-camarlengo Guillermo Estouteville dictó un bando que imponía a todos los vecinos la inmediata demolición de cualquier tipo de estructura (balcones, soportales, saledizos, tejados, etc.) que impidiese el paso y redujese la anchura de las arterias. Si bien el objetivo declarado en el texto era el de mejorar el estado de las calles, en realidad tal medida lo que supuso fue que, por primera vez, el poder político se dotó de un instrumento legislativo eficaz para incentivar la transformación física de la ciudad 46. Nadie podía oponerse a la orden de demolición y aunque hubo algún episodio aislado de reacción violenta, al final, a los propietarios de los inmuebles no les quedó más remedio que adaptarse. Sin embargo a corto plazo el resultado fue bastante negativo. Si la ley en teoría debería haber servido para difundir una arquitectura civil menos irregular, en realidad lo que trajo aparajedo fue una momentánea contracción del mercado inmobiliario pues muy pocos, en la incertidumbre de perder parte de la vivienda, estaban dispuestos a comprar y aún menos a gastar dinero en obras de una cierta entidad 47. En junio de 1480, en parte para superar la situación de parálisis que se había creado, se emitió la bula Quae publicae utilia cuyo objetivo principal, en este caso, era el de favorecer la edificación de residencias de mayor volument gracias a la fusión de varias casas linderas48. A partir de este momento la vieja parcela medieval larga y estrecha comenzó a desaparecer y, aunque se trata de una lenta evolución arquitectónica49, ello simboliza el triunfo de los grupos sociales que crecían al amparo del poder papal. No es casual que los principales beneficiarios de esta serie de innovaciones legislativas, que de 46

C.P. Scavizzi, Le condizioni per lo sviluppo dell’attività edilizia a Roma nel sec. XVII: la legislazione, en «Studi Romani», XVII/2 (1969), pp. 160-171. 47 M. Vaquero Piñeiro Una città da cambiare: intorno alla legislazione edilizia di Sisto IV, en Sisto IV. Le arti a Roma nel Primo Rinascimento, F. Benzi (coord.), Roma 2000, pp. 426-433. 48 G. Curcio, I processi di trasformazione edilizia, en Un pontificato, pp. 706-732. 49 Se vea H. Broise, Les maisons d’habitation à Rome aux XV e siècles: les leçons de la documentation graphique, en D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes européennes (XIII e-XVI e siècle), Rome 1989, pp. 609-629; M. Vaquero Piñeiro, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de Santiago de los Españoles en Roma entre los siglos XV y XVII, Roma 1999, pp. 97-117. 41

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hecho impulsaban la expropiación y la venta forzosa, fuesen oficiales de la Cámara Apostólica, prelados, curiales y cortesanos en general para quienes resultaba ventajoso y necesario convertir una cierta parte de las entradas eclesiásticas o administrativas en renta inmobiliaria. El rango imponía poseer una casa que reuniese ciertos requisitos de espacio y elegancia. La acción legislativa de los varios papas que se sucedieron a lo largo del Cuatrocientos en la Cátedra de San Pedro, cada uno aplicando su propia estrategia 50, creó el marco idóneo para que el espacio urbano se llenase de palacios, de casas aristocráticas y de nuevos barrios. En 1493 Alejandro VI Borja (1492-1503) inició la construcción de la via Alessandrina 51, ideada para dar al barrio de Borgo un eje viario central. A comienzos del siglo XVI le tocó el turno a Julio II (1503-1513) a quien se debe un escrupuloso plan de demoliciones para abrir la via Giulia 52, otro gran rectilíneo, esta vez en la orilla izquierda del río pensado para enlazar el puerto fluvial de Ripa y la zona donde residían los banqueros y mercaderes florentinos. Durante la segunda década del siglo XVI, el broche lo puso León X (15131521) el cual gracias al trazado de la via Leonina 53, entre la plaza Navona y la puerta del Popolo, impulsó la urbanización de la parte norte de Roma todavía poco habitada. Las viñas fueron divididas en parcelas que se cedían a obreros de la construcción a cambio del pago de censos anuales muy bajos y de la obligación de levantar una o más casas en el plazo de pocos meses 54. Llegados al año 1526-1527 y antes de que sobre la capital del papado se abatise la furia destructora del ejército del emperador Carlos V, 50 Se vean los trabajos de Ch.L. Frommel, Roma, en Storia dell'architettura italiana. Il Quattrocento, F. P. Fiore (coord.), Milano, 1988, pp. 374-433; A. Bruschi, L’architettura a Roma negli ultimi anni del pontificato di Alessandro VI Borgia (1492-1503) e l’edilizia del primo Cinquecento, en Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, A. Bruschi (coord.), Milano 2002, pp. 34-75. 51 E. Guidoni, G. Petrucci, Roma, via Alessandrina. Una strada “tra due fondali” nell’Italia delle Corti (1492-1499), Roma 1997. 52 L. Salerno, L. Spezzaferro, M. Tafuri, Via Giulia. Una utopia urbanistica del ‘500, Roma 1973. En general, H. Günther, La nascita di Roma moderna. Urbanistica del Rinascimento a Roma, en D’une ville à l’autre, cit., pp. 381-406. 53 R. Fregna, S. Polito, Fonti d’archivio per una storia edilizia di Roma. Primi dati sull’urbanizzazione nell’area del Tridente, en «Controspazio», IV/7 (1972), pp. 2-18; R. Fregna, S. Polito, Fonti d’archivio per una storia edilizia di Roma.III. Via Ripetta, en «Controspazio», V/5 (1973), pp. 18-47; R. Fregna, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna 1990, pp. 125-127; M. Tafuri, Sviluppo urbano nell’Italia del Rinascimento, en D’une ville à l’autre, pp. 323-364. 54 M. Vaquero Piñeiro, Costruttori lombardi nell’edilizia privata romana del XVI secolo, en L’economia della costruzione nell’Italia moderna. II. L’attività edilizia nell’Europa moderna: circuiti della manodopera e organizzazione dei cantieri, J.-F. Chauvard e L. Mocarelli (coords.),

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Roma había crecido hasta poseer una población de unas 60.000 almas 55. Para los viajeros que la visitaban a mediados del siglo XVI, Roma había dejado de ser un simple montón de ruinas desordenadas. Sorprendían los magníficos edificios civiles y religiosos pero a la vez se comentaba con asombro la construcción de la imponente basílica vaticana. No acaso la ciudad además de ser epicentro de la vida cultural, religiosa y política de la Europa moderna, se había convertido en una las plazas financieras internacionales más seguras y rentables 56. En un contexto económico dominado por el capital monetario 57 manejado por las compañías de banqueros genoveses, florentinos o alemanes, una considerable parte de la riqueza líquida fue empleada en la compra de terrenos y de edificios sabiendo que tras una pequeña inversión inicial, la presión demográfica en auge y la amplia disponibilidad de fondos incrementarían el precio y la renta del suelo urbano. 4. La política papal sobre los alquileres Uno de los primeros contratos de arrendamiento donde la presencia del papa en Roma es utilizada para exigir el aumento del canon es de 1365 58, es decir dos años antes de que Urbano V (1362-1370) abandonase por un breve periodo de tiempo el palacio de Aviñón. Podría ser que en la ciudad ya se hablase de esta eventualidad y los propietarios de viviendas, antes de que sucediese y sabiendo lo que comportaba, se preparaban para sacar el máximo partido. De todas formas, especialmente hasta mediados del siglo XV, es normal que las escrituras notariales de arrendamiento contengan una cláusula que tiene en cuenta el lugar de residencia del pontífice: si el papa estaba en Roma, el alquiler podía multiplicarse hasta por dos o tres. Aumentos que se repetían si llegaba el emperador, o cada vez que se celebraba un año santo 59. La causa es bastante simple: en todas estas ocasiones a la ciudad afluía una multitud de personas, el en «Mélanges de l’École Française de Roma. Italie et Méditerranée» (MEFRIM), 119/2 (2007), pp. 343-364. 55 A. Esposito, Note sulla popolazione romana dalla fine del sec. XIV al Sacco, en Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1995, pp. 19-30; E. Lee, Descriptio Urbis. The Roman Census of 1527, Roma 1985. 56 F. Guidi Bruscoli, Benvenuto Olivieri. I mercatores fiorentini e la Camera Apostolica nella Roma di Paolo III Farnese (1534-1549), Firenze 2000. 57 L. Palermo, Fattori della produzione e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, en Roma medievale. Aggiornamenti, P. Delogu (coord.), Firenze 1988, pp. 249-265. 58 Mosti, Il protocollo, op. cit., p. 157. 59 Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, pp. 555-569. 43

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dinero circulaba con mayor facilidad y por un breve periodo de tiempo se disparaba la demanda de alojamientos. Si a los efectos multiplicadores que sobre el consumo de géneros de primera necesidad tenía la periódica celebración de acontecimientos de carácter extraordinario 60, añadimos el incremento paulatino de la población, se comprende que la oferta de inmuebles perdiera su rigidez anterior y a la postre se creasen las premisas para que los propietarios de viviendas solicitasen el pago de alquileres cada vez más elevados. Es por esto que Karl Marx cuando habla de la renta de las áreas edificables, alude al régimen de monopolio imperante y a la posición de ventaja de los propietarios, listos a incrementar la plusvalía del suelo gracias a las condiciones generales favorables 61. Algunos años antes del jubileo, en previsión de beneficios seguramente mucho mayores, los propietarios de los inmuebles, pena el desalojo de la vivienda, imponían contratos de arrendamiento más caros. La situación llegó a tal punto que en 1470 el gobernador-camarlengo de la ciudad debió intervenir para defender los derechos de los inquilinos. A raíz de este episodio se elaboró la legislación pontificia en materia de arrendamientos en la que se indica que la solicitud de abandonar la casa se podía realizar sólo en presencia de tres supuestos: venta, necesidad personal o demora en el pago 62. Desde comienzos del siglo XVI las normas sobre los alquileres fueron renovadas en más de una ocasión pero ante el comportamiento de los propietarios que exigían a los inquilinos que renunciasen a la aplicación de tales medidas, en 1549 se adoptó la drástica decisión de congelar los alquileres mientras durase el jubileo. Una vez más se aprecia la correlación que existe entre la acción política de las autoridades y el mercado inmobiliario pues si por un lado se quería atajar cualquier tipo de abuso, por otro los propietarios, que no estaban dispuestos a renunciar a pingües beneficios, se vieron obligados a modificar los criterios de gestión del patrimonio inmobiliario. Un cambio que pasaba por la recuperación anticipada del dominio útil de los inmuebles y la multiplicación de contratos de breve duración 63. Para lograr la “cessio iuris”, los 60

I. Ait, A. Esch, Aspettando l’Anno Santo. Fornitura di vino e gestione di taverne nella Roma del 1475, en «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», 73 (1993), pp. 387-417. 61 K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, E. Sardella (coord.), Roma 1970, p. 1436. 62 M. Romani, Pellegrini e viaggiatori nell’economia di Roma dal XIV al XVII secolo, Milano 1948; P. Picca, Editti dei papi e dei principi contro il rincaro delle pigioni, en Nuova Antologia, 144 (1909), pp. 488-501. 63 M. Vaquero Piñeiro, Coyuntura urbana y gestión inmobiliaria en Roma a mediados del siglo XVI, en Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobiliare dans les villes de France et d’Italie (XII e-XIX e siècle), O. Faron, É. Hubert (coords.), Roma 1995, pp. 227-251. 44

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propietarios debían abonar a los inquilinos las cantidades que éstos habían gastado en obras de manutención. Por esta vía el inquilino renunciaba a sus derechos trasladando al propietario, en cambio de un mínimo desembolso, el dominio pleno sobre el bien. Si ahora nos referimos a los plazos de cesión, triunfaron los arrendamientos anuales e incluso los semestrales al final de los cuales los inquilinos que no estaban dispuestos a pagar una renta más alta, tenían que dejar libre la vivienda mientras que por su parte el propietario, sin contravenir lo previsto por la ley, podía subir el alquiler sin impedimentos legales. Era cuestión de colgar en la puerta de la casa libre un cartel con el anuncio “se alquila” y esperar que llegase un inquilino dispuesto a pagar la suma requerida, lo que en la Roma del Renacimiento no constituía problema alguno. Una medida, la adoptada en 1470 que si en principio debería haber servido para tuteler a los inquilinos, al final fue hábilmente manejas por los propietarios para imponer una política patrimonial cada vez más agresiva. El mercado ascendente lo consentía y la presión ejercida por la población residente o flotante creaba las condiciones ideales para explotar el suelo urbano. Pero no es la único situación que permite observar como la continua demanda de viviendas implicaba que cualquier medida adoptada por las autoridades públicas acabase irremediablemente inclinando la balanza del lado de los que controlaban la oferta de los edificios. En 1465, Pablo II para evitar que las instituciones religiosas siguiesen perdiendo sus patrimonios a causa de las deudas o préstamos ocultos, impuso que en adelante por ningún motivo era posible vender o arrendar a largo plazo sin poseer una expresa autorización papal 64. Iniciativas parecidas se documentan en otras ciudades italianas 65 pero en Roma las instituciones religiosas que no querían perder el tren de la tendencia alcista de la renta urbana, comenzaron a solicitar el permiso de poder hacer arrendamientos enfitéuticos aduciendo la falta momentánea de dinero líquido y las ventajas que se obtendrían merced a las obras de rehabilitación arquitectónica a cargo de los inquilinos. Las comisiones apostólicas nombradas para estudiar las peticiones casi nunca se opusieron a semejantes operaciones inmobiliarias las cuales, incluyendo casi como condición ineludible la realización de trabajos en los edificios, permitían a los propietarios religiosos renovar su riqueza inmobiliaria y, como a veces se reconoce, programar el aumento del alquiler. 64 I. Lori Sanfilippo, I documenti dell’antico archivio di S. Andrea “De Aquariciariis” (1115-1483), Roma 1981, pp. 207-208. 65 Masè, Patrimoines immobiliers, pp. 137-141.

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Alcanzado este punto de la exposición y advirtiendo que en la ciudad pontificia hasta el siglo XVIII no se realizó ningún tipo de catastro66 similar al que ha permitido efectuar detallados estudios sobre la propiedad medieval en Florencia, Perugia o Venecia67, para realizar un enfoque cuantitativo en Roma nos debemos remitir a los libros contables de los establecimientos religiosos, a los registros notariales pero también a los registros de la llamada “gabela” o albacala de los contratos68. Dejando para más adelante el análisis de los dos primeros bloques documentales, a continuación merece la pena deternerse a comentar el tercer tipo de fuente, los impuestos de los contratos, una fuente de carácter fiscal mucho menos estudiada 69. 5. La alcabala de los contratos Si en muchas ciudades italianas existía la obligación de pagar una contribución por cualquier tipo de escritura notarial realizada 70, en la Roma papal tal impuesto se aplicaba sólo a los contratos referidos a la compraventa de una propiedad rústica o urbana. Los contratos del siglo XIV no mencionan tal carga fiscal y lo más seguro es que su origen haya que colocarlo en 1398 cuando se redactaron las ordenanzas municipales sobre el pago de las alcabalas. En concreto se ordena que vendentes alienantes donantes et in solutum dantes aliquem fundum solvant gabellam 71. Pasadas algunas décadas, hay que esperar hasta 1420 para poseer los primeros contratos 72 que fijan el pago de una carga proporcional al valor de la propiedad vendida; además, desde este momento en adelante la gabela o alcabala de los contratos aparece siempre entre las que periódicamente la autoridad pontificía 66

C.M. Travaglini, La proprietà immobiliare a Roma agli inizi del Settecento”, en Archivi e cultura, XXVIII (1995), pp. 31-62. 67 E. Concina, Venezia nell’età moderna. Strutture e funzioni, Venezia 1989; Masè, Patrimoines immobiliers, pp. 61-68; D. Herlihy, C. Klapisch-Zuber, I toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Bologna 1988; A. Grohmann, Città e territorio tra Medioevo ed Età Moderna (Perugia, secc. XIII-XV). t. I: La città; t. II: Il territorio, Perugia 1981. 68 Archivio di Stato di Roma, Camera Urbis, 104-117. 69 D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliare a Roma nel Quattrocento: la ‘gabella dei contratti, en Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. II. Funzioni urbane e tipologie edilizie, G. Simoncini (coord.), Firenze 2004, pp. 3-28. 70 G. Guidi, Lotte, pensiero e istituzioni politiche nella Repubblica fiorentina dal 1494 al 1512. vol. III. Finanze, tributi e dominio, Firenze 1992, pp. 1161-1162; C. Bauer, Studi per la storia delle finanze papali durante il pontificato di Sisto IV, en «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 50 (1927), pp. 372-373, 376 y 386. 71 S. Malatesta, Statuti delle gabelle di Roma, Roma 1886, pp. 108-109. 72 Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano, p. 12. 46

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arrendaba 73. Respecto al peso financiero de los impuestos indirectos que gravaban el consumo de alimentos básicos como la carne, el vino, la harina o el pescado, la gabela de los contratos, que en práctica era una tasa sobre el intercambio de mercancías 74, proporcionaba unas entradas muy bajas (entre el 3 y el 5%). Por ello que su principal importancia como fuente histórica resida en el hecho de ser un instrumento que nos acerca a la dimensión material de la ciudad en el momento en que ésta estaba atravesando una primera fase de fuerte crecimiento. Por lo que sabemos hasta ahora, no hay una regla fija sobre quién debía pagar el impuesto pues lo podía hacer tanto el vendedor como el comprador del bien, pero tampoco faltan ejemplos de pagos divididos entre ambos. Variedad de soluciones que encontramos igualmente cuando se trata de entregar la suma exigida: entera o fraccionada. Si ahora nos detenemos en la relación que existe entre el precio del bien vendido y el importe del impuesto se obtiene una media aproximada de un 3,8%. Si seguimos en el tiempo la evolución de la sumas globales recaudadas, los datos extraídos de los registros de la alcabala de los contratos dibujan un siglo XV dividio en tres grandes partes: a) hasta 1453 es neta la tendencia alcista (de 450 a 1.440 florines); b) desde mediados de la centuria hasta 1460 se produce un fuerte descenso (de 1.287 a 513 florines); c) recuperación desde 1468 hasta 1480 (de 1.046 a 1.140 florines) año caraterizado por una brusca contracción (754 florines). Según los pontificados tenemos una fuerte expansión con Martín V (1417-1431) y Nicolás V (1447-1455), un declive con Calixto III (1455-1458) y Pío II (1458-1464), y por último un recobrado empuje con Pablo II (1464-1471) y Sixto IV (1471-1484). Enlazando esta cronología con lo dicho antes sobre el empeño de cada papa en la transformación arquitectónica y urbanística de la ciudad, el movimiento de los contratos refleja los estímulos procedentes del poder político. Esta sintonía se aprecia muy bien con Nicolás V y sus ambiciosos proyectos de profunda reforma de la ciudad. En el otro extremo de la balanza se colocan Calixto III y Pío II con quienes Roma atravesó una fase poco idónea para llevar a cabo gastos edilicios: las frecuentes ausencias de la corte papal, la acción política encaminada a frenar el avance turco y el mayor interés por el embellecimiento de las localidades de origen desembocaron en un general enfriamento del contexto ciudadano. Con Pablo II y sobre todo con Sixto 73

Sobre el arrendamiento de la recaudación de los impuestos de Roma, L. Palermo, Capitali pubblici e investimenti privati nell’amministrazione finanziaria della città di Roma all’epoca di Martino V, en Alle origini, pp. 501-535. 74 Sobre el sistema fiscal de la ciudades medievales cfr. A. Furió (coord.), La gènesi de la fiscalitat municipal (segles XII-XIV), «Revista d’Història Medieval», 7 (1996). 47

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IV se reanuda el ritmo perdido: la curva del impuesto vuelve a presentar un perfil positivo que permanece hasta 1480 cuando muy probablemente a causa de las leyes favorables a las demoliciones y a las expropiaciones, el volumen del negocio inmobiliario sufrió un repentino parón. Los registros de la gabela de los contratos ofrecen una imagen sobre toda la ciudad y en cada uno de ellos aparecen asentados entre 130 y 169 contratos de compraventa; la cifra más alta se da en 1459 con 192 y la más baja un año más tarde con 91. Según la tipología de los bienes negociados, las casas y las viñas copan el 85%. El resto corresponde a cañizales, parcelas sin edificar (casalini), terrenos, molinos, mesones, instalaciones manufactureras y haciendas rurales. Las tiendas, como tal, no figuran, tal vez porque formaban un único bloque inseparable con las casas. Al margen de estas observaciones, los registros de los impuestos de los contratos presentan un espacio intra muros dividido en dos grandes sectores: por un lado las viñas 75 y por otro las casas, podríamos decir las dos caras de Roma, una rural y otra urbana que conviven sin solución de continuidad 76. Los registros fiscales se demuestran prolijos de datos sobre los precios. Una de las primeras constataciones que cabe realizar es que según la moneda utilizada se puede hablar de dos mercados paralelos. El precio de la viñas y de las fincas urbanas situadas en los barrios periféricos aparece indicado en moneda de cuenta (florines romanos o corrientes), mientras en las zonas centrales predominan las monedas de mayor valor (ducados o florines de oro). La razón es bastante simple. Los precios altos y el empleo de una moneda fuerte se produce en aquellas partes de la ciudad (rioni Parione, Regola, Ponte y Campo Marzio) donde vivían los grupos sociales con mayor poder adquisitivo; sin embargo, a medida que nos alejamos de las calles en torno a los dos grandes mercados urbanos (Piazza Navona y Campo de’ Fiori) los precios reales de las casas descienden y esto se percibe muy bien en los barrios de Colonna, Monti, Trastevere o Trevi cuya estructura urbana estaba condicionada por la existencia numerosas huertas y espacios sin construir. Es uno de los resultados más evidentes de los procesos socio-económicos que a lo largo del siglo XV han jerarquizado el valor y el uso social del suelo. En las zonas centrales, donde se mezclaban las familias de la vieja aristrocracia municipal y los nuevos sectores del comercio, de las finanzas y del poder político, para adquirir una residencia de un cierta importancia arquitectónica eran necesarios entre 1.500 y 2.000 75

D. Esposito, Vigneti e orti entro le mura: utilizzo del suolo e strutture insediative, en Roma. Le trasformazioni urbane, pp. 205-228. 76 D. Lombardi, Dalla dogana alla taberna. Il vino a Roma alla fine del Medioevo e gli inediti "Statuta comunitatis artis tabernariorum Alme Urbis Rome" (1481-1482), Roma 2019. 48

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ducados de oro, mientras que en Trevi o Monti las cifras manejadas eran de apenas 100 florines corrientes. Sobre esta creciente sectorialización del espacio urbano se podrían ofrecer numerosos ejemplos pero asimismo la fuente fiscal permite seguir la evolución de los precios de los inmuebles a lo largo del tiempo. Desde 1417 hasta 1479 el precio medio de las casas pasó de 126 a 277 florines romanos con una cresta de 307 en 1469; si el cálculo lo realizamos en ducados papales de oro se va de 137 en 1417 a más de 400 en 1479. En 1480 a causa de la legislación edilicia de Sixto IV el valor de los inmuebles cayó hasta tocar 192 florines y 214 ducados. Aunque en los registros de los impuestos de los contratos aparecen anotadas las transacciones realizadas por los establecimientos religiosos, lo que marca la pauta de la fuente son las operaciones llevadas a cabo por los propietarios laicos 77. Entre compradores y vendedores se han contabilizado más de 2.000 personas, muestra de un heterogéneo mundo social que confirma la amplia base social que favorecía la circulación de las propiedades inmobiliarias en Roma en pleno siglo XV. Aparecen barberos, carniceros, sastres, taberneros, tejedores y artesanos en general, alguno de los cuales destinaba de 400 a 700 ducados de oro para adquirir una vivienda. A un nivel social más alto, nutrida es la presencia de cardenales, de profesionales de la curia y de miembros de la oligarquía romana. Las sumas empleadas por éstos superan casi siempre los 1.000 ducados de oro. El grupo mejor representado y del cual se puede apreciar una política residencial coherente, es el de los escritores y los protonotarios apostólicos, sin duda los que mejor encarnan el poder económico y el prestigio alcanzando tras el regreso de la corte papal a Roma. Es el caso, por ejemplo, de Antonio Cortesi quien entre 1472 y 1473 compró cinco casas que utilizó para construir otra mucho más grande 78. Se podría citar también Gaspare Biondo, Giuliano Gualterino, Giovanni Ceretano, Pietro Chiari y otros muchos curiales que además de animar el sector de las compras inmobiliarias empleando gruesas sumas de dinero, firmaban acuerdos de trabajo con los maestros de la construcción para la restauración de las viviendas. Lamentablemente en 1480 la serie de la gabela de los contratos se interrumpe. Ahora bien y pese al hecho de que se trata de una fuente incompleta, los registros fiscales tienen la innegable ventaja de arrojar una visión global de la ciudad. Además la abundancia de datos cuantitativos y la distribución uniforme a lo largo del siglo crean una base documental segura a la hora de calcular medias y precios representativos. Pero por 77 78

Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano, pp. 25-28. Curcio, I processi, p. 718. 49

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encima de tantos historias patrimoniales individuales, uno de los aspectos que sugiere el impuesto de los contratos es que los negocios inmobiliarios no pasaron desapercibidos para las autoridades públicas. Del mismo modo que el crecimiento demográfico conllevó el aumento de las importaciones y de los impuestos sobre el comercio y el consumo 79, los edificios, que llegaron a ser una parte destacada de la riqueza concentrada en la ciudad, no se quedaron al margen de la política fiscal llevada a cabo. 6. La propriedad urbana eclesiástica Como ha quedado de manifiesto, la alcabala de los contratos arroja una puntual información sobre los intercambios inmobiliarios impulsados por los propietarios laicos pero deja casi completamente fuera del campo de observación las instituciones eclesiásticas. Ahora bien, si de la fuente fiscal se desprende un visión sesgada del papel jugado por las instituciones religiosas en el movimiento de las compraventas, siguiendo otras pistas de investigación se llega a la conclusión que en Roma las instituciones religiosas jugaron un papel decisivo en la creación del mercado inmobiliario. De esta forma se perfilan nuevas estrategias patrimoniales y nuevos temas de análisis que una vez más apuntalan la conveniencia de tener una visión elástica del mercado inmobiliario pues éste además de sugerir la existencia de reglas y normas uniformes, no por esto deja de indicar que los bienes raíces urbanos son una mercancía bastante especial que impulsa la superposición de un abanico de objetivos algunos de los cuales denotan una clara lógica económica a la vez que en otras circunstancias emergen motivos de índole personal y familiar. Recordando que la falta de catastros es una barrera insuperable para conocer tanto el número total de casas como el porcentaje de viviendas pertenecientes a los establecimientos religiosos, no queda otra solución que echar mano de la documentación conservada en los archivos religiosos para tener una idea, aunque sea muy aproximada, de la riqueza urbana que poseían las decenas de iglesias, conventos, hospitales, cofradías y demás fundaciones pías que existían en Roma80. Si por motivos prácticos nos ceñimos a los datos concernientes al 79

A. Esch, Le importazioni nella Roma del primo rinascimento. (Il loro volume secondo i registri doganali romani degli anni 1452-1462), en Aspetti della vita economica e culturale a Roma nel Quattrocento, Roma 1981, pp. 9-79; I. Ait, La dogana di S. Eustachio nel XV secolo, ibidem, pp. 83-147. 80 En la Sevilla de fines del siglo XVI se ha llegado a calcular que casi el 30% de las casas urbanas pertenecían a instituciones eclesiásticas, Collantes de Terán Sánchez, Propiedad y mercado, p. 503. 50

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siglo XV y al primer cuarto del siglo XVI obtenemos el cuadro n. 1 el cual, sin llegar a ser completo, nos ayuda a tener una idea más precisa de la dimensión de la propiedad religiosa en la capital pontificia81. Cuadro 1.- Bienes inmuebles pertenecientes a las instituciones eclesiásticas en Roma -

Archicofradía de Santa Mª dell’Annunziata: 33 (1507), 36 (1515), 36 (1520).

-

Archicofradía del Gonfalone: 107 (1495), 91 (1503), 89 (1513).

-

Basílica de San Pietro in Vaticano: 180 (1475), 210 (1500), 224 (1521).

-

Basílica de San Giovanni in Laterano: 32 (1450).

-

Basílica de Santa Maria in Trastevere: 37 (1477).

-

Convento de Sant’Agostino: 74 (1509), 59 (1517), 61 (1525).

-

Hospital del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum: 145 (1435), 105 (1509), 73 (1525)

-

Hospital de Santa Mª della Consolazione: 37 (1491).

-

Hospital de Santiago de los Españoles: 38 (1500), 47 (1525).

-

Hospital Santa Maria dell’Anima: 17 (1500).

Fuente: datos elaborados por el autor. Véase nota 81.

Aun siendo conscientes de los riesgos que supone manejar datos tan limitados, la lista de propiedades urbanas bajo control de instituciones eclesiásticas permite acotar mejor el terreno de análisis. Antes de nada, si comparamos la situación romana con la imperante en algunas grandes ciudades europeas 82, en Roma la propiedad eclesiástica resultaba mucho más fragmentada. Salvando las oportunas diferencias de tamaño, se podría 81 Por orden, los datos han sido sacados de: S. Dionisi, Sviluppo economico e rendita urbana. Il caso delle confraternite laicali romane del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e del Gonfalone (1419-1528), Tesi di dottorato in Storia e teoria dello sviluppo economico, Università Luiss, Roma 2002-2003, pp. 208-210 (San Salvatore) y pp. 291-295 (Gonfalone); Archivio Stato di Roma, Annunziata, 556, 558 y 560; Archivio Stato di Roma, Sant’Agostino, 14, 184 y 186; Archivio Stato di Roma, Santa Maria della Consolazione, 773; A. Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro in Vaticano alla fine del XV secolo: primi risultati, en «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2004), pp. 49-76; Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio del Capitolo di San Pietro, 17/A y 28; P. Lauer, Le Palais de Latran. Etude Historique et archéologique, Paris 1911, pp. 513-528 (Capítulo de San Giovanni in Laterano); Archivio Storico del Vicariato, Archivio Santa Maria in Trastevere, n°368; Vaquero Piñeiro, Las rentas, p. 76 (Santiago de los Españoles); L. Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento, in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer deutschen Stiftung in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin 2010, pp. 279-325. 82 Collantes de Terán Sánchez, Propiedad y mercado, pp. 500-501; Casado Alonso, La propiedad eclesiástica, p. 100.

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decir que en Roma el mercado inmobiliario, si lo observamos tanto desde el lado de las compraventas como de los alquileres, parece girar alrededor de una pluralidad de pequeños y medianos propietarios ninguno de los cuales, ni siquiera cuando los patrimonios superaban las cien unidades de renta, alcanzó una posición de supremacía absoluta. La dimensión y las características de la estructura socio-económica de la ciudad lo impedían, y esto ocasiona que haya que mirar en tantas direcciones para plantearse las características del mercado inmobiliario en Roma. Al hilo de la lista de instituciones religiosas y de sus propiedades edificadas dentro del recinto amurallado de la ciudad surgen otros problemas sobre los cuales conviene detenerse. Sin poder desmenuzar la historia de cada patrimonio, para comenzar es necesario distinguir entre los establecimientos religiosos de origen medieval que además de las casas urbanas poseían bienes rústicos, y las instituciones fundadas a lo largo del siglo XV las cuales acabaron identificándose exclusivamente con el mundo urbano. Así se explica que una institución tan importante como el capítulo de la basílica de San Giovanni in Laterano poseyese sólo 32 casas; en realidad el grueso de su patrimonio estaba formado por decenas de viñas y terrenos (198) ubicados a ambos lados de la muralla. Otra importante basílica situada lejos del centro habitado que presenta una estructura patrimonial similar es Santa Maria in Trastevere: 37 casas y 168 entre viñas y parcelas rústicas. Menos tajante aparece la división entre propiedades rurales y urbanas en el caso del hospital del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum y de la basílica de San Pietro in Vaticano, sin duda los dos mayores propietarios inmobiliarios de Roma. En 1505 las rentas de las casas del hospital del Salvatore suponen 994 ducados de carlines, mientras que las de las haciendas rurales (casali) llegan a 919 ducados83, más las ganancias derivadas de la venta de grano, animales, queso y otros productos agrícolas. Veamos por un momento el otro gran proprietario eclesiástico de Roma, el capítulo de la basílica de San Pietro in Vaticano. En 1497 las rentas de las casas supusieron 3.003 ducados de carlines, las de las grandes haciedas agrarias llegaron a 4.162 ducados de carlines 84; una división que se agudiza en los primeros años del siglo XVI: en 1510 las propiedades de la campiña suburbana produjeron rentas por un valor de 10.694 ducados de carlines, en cambio las casas de la ciudad no superaron los 3.168 ducados de carlines 85. Sin poder entrar en demasiados detalles, se perciben las consecuencias de una política patrimonial que da mucha más importancia a la 83 Archivio 84

Stato di Roma, San Salvatore, 979. Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio di San Pietro, 16. 85 Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio di San Pietro, 24. 52

Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

riqueza rústica86 y descuida por contra la urbana cuya explotación además de sufrir las consecuencias negativas de numerosas casas sin alquilar, se basaba en el uso generalizado de cesiones enfitéuticas y en el pago de censos de modesta cuantía. A la luz de lo visto, entre la trayectoria patrimonial del hospital del Santissimo Salvatore y del capítulo de San Pietro afloran fuertes discrepancias a la hora de amoldarse al crecimiento de la ciudad. Si el hospital, sin descuidar en ningún momento el sector de las propiedades rurales, supo adaptar los instrumentos de gestión a un contexto urbano que exigía un tipo de administración mucho más ágil, el capítulo de la basílica se demostró menos reactivo a los impulsos provenientes de la ciudad. Lo apenas dicho tiene un inmediato corolario, es decir que no resulta tan simple hablar de patrimonios o propiedades eclesiásticas como si éstas formaran un único bloque compacto y homogéneo, más bien todo lo contrario. Lo demuestra el perfil patrimonial de aquellas instituciones, muchas de ellas extranjeras, que se fundaron en Roma durante el siglo XV. Desde este punto de vista, ejemplar es el caso la iglesia-hospital de Santiago de los Españoles erigida hacia 1450 87. Destinada al cuidado de los súbditos del rey de Castilla y León que llegaban a la ciudad pontificia, el núcleo original de su patrimonio inmobiliario se coloca entre 1450 y 1475 quando su fundador, el obispo de Ciudad Rodrigo, llevó a cabo una serie de compras. Dicha actividad fue incrementada sucesivamente. A lo largo del medio siglo que va desde 1475 hasta 1526, la política patrimonial de la iglesia castellana se movió en una doble dirección: por un lado, la venta de los inmuebles más periféricos y en peor estado de conservación, y por otro, la selección de los bienes situados en las plazas y las calles donde había un alta densidad de actividades comerciales (via del Pellegrino, Piazza Navona) 88. Se desprende que los administradores de la iglesia castellana en Roma, en vez de limitarse a amasar pasivamente bienes procedentes de donaciones y legados, lo que en realidad hicieron fue formar una base patrimonial, no muy extensa, pero sí compacta y rentable. Sin propiedades rústicas y con un reducido peso de las limosnas, el 80% de las entradas globales de Santiago de los Españoles 86

R. Montel, Un casale de la Campagne Romaine de la fin du XIV e siècle au début du XVII e: le domaine de Porto d’après les archives du Chapitre de Saint-Pierre, en «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge – Temps Modernes», 83/1 (1971), pp. 31-87; Id., Le casale de Boccea, d’après les archives de chapitre de Saint-Pierre (fin XIVe – fin XVe siècle), en «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge – Temps Modernes», 97 (1985), pp. 605-726. 87 J. Fernández Alonso, Las iglesias nacionales de España en Roma. Sus orígenes, en «Anthologica Annua», 4 (1956), pp. 9-96; Id., Santiago de los Españoles de Roma en el siglo XVI, en «Anthologica Annua», 6 (1958), pp. 9-122; Id., Santiago de los Españoles y la archicofradía de la Santísima Resurrección de Roma hasta 1754, «Anthologica Annua», 8 (1960), pp. 279-329. 88 Vaquero Piñeiro, La renta y las casas, pp. 70-71. 53

Manuel Vaquero Piñeiro

dependía de los alquileres urbanos 89 lo que imponía adoptar una enérgica estrategia patrimonial para aumentar el valor de las viviendas 90. Dejando de lado los casos individuales que recuerdan las numerosas pistas que se deben seguir, cabe dirigir ahora la atención al importe y a la evolución de los alquileres exigidos por las instituciones religiosas, un análisis comparativo útil para tener una imagen lo más nítida posible de la ciudad y de uno de sus sectores económicos principales. Echando mano de un numerosa documentación contable, se ha calculado el alquiler medio imperante en el primer cuarto del siglo XVI (cuadro 2), con la esperanza de que así se pueda percibir la existencia de una línea de tendencia válida para el grupo de los grandes propietarios urbanos, sin que ello borre las diferencias que existían a la hora de planificar la explotación patrimonial. Cuadro 2.- Alquileres medios nominales. Propriedades instituciones religiosas (valores en ducados de carlines) Institución religiosa S.M. dell’Annunziata

1500

1505

1510

--

15,6

17,3

1515 24

1520 24,9

1525 24,6

S. Giacomo degli Spagnoli

24,3

23,6

28,8

29,9

33,9

32,5

Sant’Agostino

11,2

--

12,7

15,5

14,1

15,1

San Pietro in Vaticano

16,8

16,6

17,3

19,1

21,1

20,7

Santissimo Salvatore

17,3

18,2

19,5

22,2

28,4

26,3

Media

17,4

18,5

19,1

22,1

24,5

23,8

Fuente: M. Vaquero Piñeiro, A proposito del reddito immobiliare urbano a Roma (1500-1527). Alcune considerazioni sulle fonti e primi approcci, en «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 113 (1990), pp. 189-207.

En el caso de los cinco propietarios religiosos utilizados como muestra, los alquileres medios nominales trazan una curva ascendente hasta 1520 (de 17,4 a 24,5 ducados de carlines), mientras que en 1525 se tiende a la estabilidad o incluso se manifiesta un ligero descenso (23,8 ducados de carlines). No hay, ni siquiera, que olvidar los efectos negativos que tuvo la peste de 1523. Ante estos números se podría hipotizar que en Roma el mercado de los alquileres comenzó a dar muestras de cansancio hacia finales del primer cuarto del siglo XVI, más o menos cuando la ciudad, tras haber alcanzado el cénit del apogeo renacentista, se hicieron cada vez 89

Vaquero Piñeiro, La renta y las casas, p. 43. Para el caso de Florencia véase, V. Orgera, “De aedificibus communibus”. Fonti e problemi dell’edilizia minore a Firenze, Firenze 1995, pp. 51-71. 90

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Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

más acuciantes los problemas de las finanzas públicas 91. Un movimiento de los alquileres urbanos bastante sincronizado que, desde otra perspectiva, no anula las diferencias existentes 92. Habría que sacar punta a muchos de los temas bosquejados, pero a la postre ni siquiera así si disiparía del todo la duda de saber si son los patrimonios de las instituciones religiosas los que se adaptan a los cambios habidos en el contexto ciudadano, o si por contra son los mayores proprietarios del suolo y de los edificios los que de hecho guían las transformaciones en aras de la salvaguardia de los intereses particulares 93. Ahora como antes con los registros de los impuestos de los contratos, se comprueba lo difícil que es seguir el rastro del mercado inmobiliario; en efecto, persiguiendo el objetivo de comprender su funcionamiento, se llega casi sin notarlo a penetrar en la parte más profunda de la sociedad urbana, lo que exigiría no sólo la interpretación de medianas y tendecias, sino también entender un sinfín de situaciones que constituyen un interesante terreno reflexión sobre el significado social de los intercambios y la cesión de bienes en la sociedad de antiguo régimen 94. Ahora al mercado inmobiliario se le puede dar un ulterior giro de tuerca explorando otro importante filón documental, los registros notariales. 7. Compraventas y alquileres en los protocolos notariales Habíamos tocado de refilón los protocolos notariales en el épigrafe dedicado a la gabela de los contratos. Ahora desde otro punto de vista se trata de enfocar mejor los límites y las posibilidades de la fuente. Puesto que por el momento no ha sido posible utilizar la mole de documentación existente, el estudio se ha realizado tomando como cata un número limitado de escribanos activos en Roma entre 1492 y 1526. Se han localizado 417 escrituras de las cuales 198 (el 47,5%) son compraventas y 219 (el 52,5%) son alquileres. El planteamiento del tema pasa por unas reflexiones básicas sobre la distribución topográfica de las noticias recopiladas (cuadro 3). El primer detalle es que en 91

M. Monaco, Le finanze pontificie al tempo di Clemente VII, en «Studi Romani», 6/3 (1958), pp. 278-296; Id., La situazione della Reverenda Camera Apostolica nell’anno 1525. Ricerche d’archivio, Roma 1960. 92 G. Chittolini, Un problema aperto: la crisi della proprietà eclesiastica fra Quattrocento e Cinquecento», en «Rivista Storica Italiana», 85/2 (1973), pp. 353-393. 93 Evidente esta conexión en los trabajos en los que se plantea el estudio de la transformación del caserío urbano a la luz de los patrimonios eclesiásticos, Masè, Patrimoines immobiliers. 94 F. Benfante, A. Savelli (coords.), Proprietari e inquilini, «Quaderni storici», anno 38, n. 113, 2 (2003). 55

Manuel Vaquero Piñeiro

la zona de Borgo, la más cercana a la sede del Papa y de su corte, el mercado inmobiliario es casi completamente inexistente: una sola compraventa y tres arrendamientos. La impresión que se obtiene es el neto predominio de una estructura de la propiedad excesivamente rígida a causa del enorme peso que en esta parte de la ciudad tenían los patrimonios del capítulo de San Pietro in Vaticano y del hospital del Santo Spirito. En los demás rioni de Roma, donde había un mayor equilibrio entre propiedad laica y propiedad religiosa, el cuadro se presenta menos paralizado. Cuadro 3.- Escrituras de compraventa y arrendamiento en los protocolos notariales de Roma (1492-1526) Barrios Arenula Borgo Campitelli Campo Marzio Colonna Monti Parione Pigna Ponte Ripa Sant’Angelo Sant’Eustachio Trastevere Trevi

17 1 6 23 17 14 10 19 22 7 9 11 29 16

Compraventas 8,5% 0,5% 3% 11,4% 8,5% 7% 5% 9,4% 11% 3,5% 4,5% 5,% 14,4% 8%

Alquileres 21 3 18 6 20 9 27 11 27 9 33 14 9 12

9,5% 1,4% 8% 3% 9% 4% 12% 5% 12% 4% 15% 6,4% 4% 5,5

Fuente: Datos elaborados por el autor, Archivio di Stato di Roma, Collegio Notai Capitolini.

En la columna de las compraventas los primeros lugares los ocupan Trastevere, Campo Marzio, Ponte y Pigna, pero también presentan porcentajes bastante altos Colonna, Trevi y Arenula. Si ahora pasamos a ver lo que ocurre con los alquileres, a la cabeza encontramos Sant’Angelo, Ponte, Parione, Arenula y Colonna. Uniendo ambos resultados, una primera conclusión evidente es que el barrio de Ponte vuelve a confirmarse como la zona de Roma más activa desde un punto de vista inmobiliario95. Salvo Ponte, las compraventas parecen ser una prerrogativa de los barrios más periféricos (Trastevere, Campo Marzio y Pigna), es decir en las zonas de la ciudad donde a comienzos del siglo XVI todavía había mucho espacio libre sin edificar y las propiedades cambiaban de mano con mayor rapidez. Respecto a estas partes de la ciudad, la renta y las operaciones de talante especulativo definen la gestión de la propiedad inmobiliaria en 95

E. Lee, Gli abitanti del rione Ponte, en Roma capitale, pp. 317-343.

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Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

los barrios centrales. A partir de una estructura patrimonial ya cuajada, la vocación artesanal y comercial de la zona marca la pauta, tal como refleja el rioni de Sant’Angelo cuyo elevado porcentaje de arrendamientos se debe sobre todo a las casas y tiendas situadas en la plaza de la judería, lugar de residencia y de trabajo de artesanos y mercaderes. La consecuencia más llamativa de esta geografía urbana de las compraventas y de los alquileres es la de un sector inmobiliario con tantas facetas, mucho más si nos detenemos a observar el comportamiento diacrónico de los precios que aparecen en los contratos de enajenación. De los 198 documentos manejados, en 27 (el 13,6%) el precio aparece todavía indicado en florines corrientes. La casi totalidad de estas compraventas se fecha entre 1492 y 1505, y predominan las propiedades localizadas en barrios alejados del centro de la ciudad (Trastevere, Trevi, Colonna, Pigna, Ripa y Monti). Punto de partida es una división de Roma según el parámetro monetario que fue puesta de manifiesto cuando se habló del impuesto de los contratos. Este grupo de inmuebles produce un precio medio de 209 florines corrientes. Desplazando la atención a los inmuebles que figuran en los contratos con un precio en ducados de carlines (cuadro 4) el panorama que se obtiene es el siguiente. Cuadro 4.- Precio de las propriedades urbanas en Roma (1490-1526). Ducados de carlines Años 1490-1495 1496-1500 1501-1505 1506-1510 1511-1515 1516-1520 1521-1526

Inmuebles 14 11 29 8 21 33 53

Precio medio 237,5 309,7 236,6 459,4 469,3 479,8 398,8

% 100 + 30% - 24% + 94% + 2% + 2% - 17%

Fuente: Datos elaborados por el autor, Archivio di Stato di Roma, Collegio Notai Capitolini.

Antes de pasar a comentar los datos recogidos, conviene una vez más subrayar los límites que tienen las escrituras notariales para la elaboración de medias y cálculos estadísticos. De hecho la caprichosa distribución de los documentos en el tiempo y en el espacio ocasiona que baste un solo contrato anómalo para poner en tela de juicio los resultados. Es lo que ocurre entre 1506 y 1510 un periodo poco documentado pero que presenta una media muy alta a causa de una casa en Ponte vendida por 2.700 ducados. Cualesquiera que sean las implicaciones de tipo socio-económico, el resultado más aparente del cuadro 4 es una evolución de los precios de los 57

Manuel Vaquero Piñeiro

inmuebles en Roma bastante irregular. Con las limitaciones ya expuestas, la celebración del jubileo en 1500 explicaría el aumento del último decenio del siglo XV. Después, entre 1500 y 1505 se produce un brusco descenso (-24%) el cual, sin embargo, no impide que a continuación comience una fase de crecimiento muy agudo que se concluye hacia 1515-1520 (+101%) cuando los precios alcanzan la cota más elevada. La caída que se produce en el quinquenio 1521 y 1526 (-17%) implicaría un sector inmobiliario que ha dejado de atraer capitales y así pues, los datos sobre las compraventas confirmarían lo dicho anteriormente sobre el progresivo enfriamento del sistema económico ciudadano a lo largo del primo cuarto del siglo XVI. Otro camino ha sido dividir los precios según los barrios de la ciudad (cuadro 5) pero la desigual distribución de la información recogida y a veces la presencia de valores aislados excesivamente altos no favorece llegar a resultados seguros. Por citar dos casos bastante elocuentes es lo que sucede con dos ventas localizadas respectivamente en Borgo y en Pigna, por un valor de 900 y de 1.500 ducados de carlines. La última en concreto supuso un desembolso tan elevado porque la casa poseía un huerto y un extenso jardín con árboles. Si nos fijamos en los barrios para los cuales disponemos de un mayor número de documentos, se aprecia la primacía de los barrios centrales de Ponte, Parione y Sant’Eustachio; los farolillos de cola son de nuevo las zonas de la ciudad menos urbanizadas (Campitelli, Colonna, Pigna, Ripa, Trastevere y Trevi). Es interesante la colocación intermedia de Campo Marzio, el barrio de Roma que a lo largo del primer cuarto del siglo XVI fu escenario de un intensa operación de urbanización. De cualquier forma, la maraña de argumentos en la que se realizan las operaciones inmobiliarias continúa siendo un lastre para conocer la posible lógica de mercado que orienta las acciones tanto de los compradores como de los vendedores. Sería interesante, por ello, tratar de rastrear en la documentación cuáles son los motivos que están detrás de una venta o de un alquiler, saber si lo que se persigue es obtener un beneficio monetario, o si la continua circulación de propiedades encierra un universo de relaciones sociales mucho más complejo 96. Pueden ser inmigrantes que dejan de vivir en la ciudad o simples ciudadanos que desplazan su residencia de un barrio a otro, pero asimismo no hay que descartar otras pistas como la monetarización de las dotes matrimoniales, los préstamos encubiertos 97 o los equilibrios patrimoniales entre los componentes de un mismo núcleo familiar. 96

S. Roux,, La casa nella storia, Roma 1982; W. Rybczynski, La casa. Historia de una idea, Madrid 1986. 97 É. Hubert, Proprièté immobiliere et crédit a Rome dans la seconde moitié du XIV e siècle. Qualches mécanismes, en Notaires et crédit dans l’Occident méditerranéen médiéval, F. Menant 58

Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

Cuadro 5.- Precio medio de las propriedades urbanas en Roma (1490-1526). Ducados de carlines Barrio

1490-95

1496-00

1501-05

1506-10

1511-15

1516-20

1521-26

Arenula

150 (2)

351 (2)

250 (2)

--

392 (2)

926 (3)

526 (5)

Borgo

--

--

--

--

--

--

902 (1)

C. Marzio

--

--

156 (5)

100 (1)

--

698 (6)

312 (11)

Campitelli

--

--

--

--

580 (1)

336 (3)

120 (1)

Colonna

--

50 (1)

525 (2)

--

--

369 (5)

250 (6)

Monti

30 (1)

276 (4)

--

--

50 (1)

423 (3)

275 (2)

Parione

800 (1)

800 (1)

--

--

925 (2)

413 (2)

482 (4)

Pigna

100 (1)

230 (3)

348 (3)

--

--

1.500 (1)

266 (7)

Ponte

365 (2)

--

305 (5)

1.445 (2)

350 (1)

477 (4)

1.227 (4)

Ripa

--

--

200 (1)

--

60 (1)

230 (1)

295 (2)

325 (1)

--

--

--

--

275 (2)

1.000 (2)

--

--

200 (1)

--

1140 (1)

367 (3)

478 (6)

Trastevere

114 (4)

--

80 (2)

137 (5)

139 (6)

115 (2)

200( 1)

Trevi

89 (2)

80 (1)

70 (2)

--

408 (2)

565 (3)

125 (1)

S. Angelo S. Eustachio

Fuente: Datos elaborados por el autor, Archivio di Stato di Roma, Collegio Notai Capitolini.

Todavía queda mucho camino por recorrer, de momento, después de haber visto que las compraventas ponen al descubierto sólo una parte del mercado inmobiliario, podemos introducir el tema del arrendamiento de los edificios planteándonos como hipótesis inicial si entre ambas formas de explotación hay puntos de contactos o si por el contrario habría que barajar la existencia de una tendencia general menos uniforme. Como escribe Francisco Delicado en La Lozana Andaluza ésta, una vez asentada en Roma, alquiló por diez ducados de carlines al año una habitación, teniendo después que organizarse para buscar un colchón y una silla 98; en este caso la fuente literaria confirma que eran raros los casos de alquileres de casas amuebladas. Otro elemento es la propensión a arrendar una parte de la vivienda. Aunque aún no es correcto hablar de propiedad y O. Redon (coords.), Roma 2004, pp. 173-184, pp. 181-182; Sàita, Case e mercato, op. cit., pp. 147-151. 98 Francisco Delicado, La Lozana Andaluza, G. Allegra (ed.), Madrid, Taurus, 1983, p. 121. 59

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horizontal generalizada99, es innegable que la presión demográfica y las rentas en aumento favorecieron que los propietarios acabasen teniendo una visión menos rígida de la columna edificada 100 la cual, sin llegar a dividirse en apartamentos comenzó a ser una célula ocupada por más de un núcleo familiar. Fenómeno muy claro en los edificios en los que en la planta baja había una tienda, en cuyo caso lo normal era que el local comercial se alquilase por separado, desligado de los pisos superiores. De ahí deriva una imagen bastante elástica del concepto de ‘vivienda urbana’ que habrá que tener muy en cuenta cuando más tarde nos pongamos el problema de calcular los alquileres medios los cuales, casi como algo irremediable, acabarán anulando las diferencias objetivas que existen entre realidades arquitectónicas muy dispares entre sí. Al igual que las tiendas, un discurso a parte merecerían las tabernas, los hornos, las carnicerías, los baños y demás locales comerciales que en un ciudad como Roma, meta de viajeros y de transeúntes, reunían los requisitos para convertirse en fuente de lucrativas ganancias101. Establecidas estas premisas, es hora de pasar al análisis de los datos recogidos en el cuadro 6 según el cual en la evolución del alquiler medio nominal se reconocen dos periodos de fuerte crecimiento separados por una momentánea caída. De 1490 a 1505 el alquiler medio pasa de 12 a 35 ducados de carlines, es decir un voluminoso crecimiento del 191% a un ritmo anula del 12,7%. Entre 1506 y 1510 se desciende a 16 ducados de carlines, pero se trata de una pausa transitoria pues desde finales de la primera década del siglo hasta 1526 se sube otra vez hasta alcanzar los 36 ducados de carlines: el 125% a un promedio del 7,8% al año. Pasar de la pura descripción de los resultados a una posible interpretación constituye una tarea sin duda mucho más ardua pero la reflexión puede iniciarse subrayando que entre las dos fases positivas la más vigorosa es la primera, tanto en términos absolutos como relativos, siendo particularmente llamativa la subida habida entre 1490 y 1500 (+91%). Aun en presencia de una tendencia alcista, la velocidad desciende entre 1501 y 1505, antes de presentar un saldo negativo entre 1506 y 1510. Superado el bache, la capacidad de recuperación parece menor: buena desde 1511 hasta 1515 pero a partir de este año se impone un ritmo más pausado. 99

Sobre la difusión de la propiedad horizontal en las ciudades medievales españolas, M. Riu Riu, La financiación de la vivienda, propiedad horizontal y pisos de alquiler en la Barcelona del siglo XIV, en La ciudad hispánica siglos XIII al XVI, Madrid, 1987, pp. 1397-1406. 100 Sznura, L’espansione urbana, pp. 138-141; Vaquero Piñeiro, La renta y las casas, pp. 105-106. 101 I. Ait, Taverne e locande: investimenti e gestione a Roma nel XV secolo, en Taverne, locande e stufe a Roma nel Rinascimento, Roma 1999, pp. 55-76. 60

Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

Cuadro 6.- Alquileres en Roma (1490-1526). Ducados de carlines Años 1490-1495 1496-1500 1501-1505 1506-1510 1511-1515 1516-1520 1521-1526

Inmuebles 11 18 27 20 27 37 63

Aquiler medio 12 23 35 16 25 30 36

% 100 +91% +52 -55% +56% +20% +20%

Fuente: Datos elaborados por el autor, Archivio di Stato di Roma,, Collegio Notai Capitolini.

Por de pronto surge la exigencia de comparar los cuadros 4 y 6 pues gracias a ello se podrá apreciar si el funcionamieto del mercado inmobiliario conlleva un movimiento paralelo entre las compraventas y los alquileres, o si además de puntos en común, tampoco faltan las divergencias. Lo primero que destaca es el signo positivo que en ambos casos presenta la última década del siglo XV, posiblemente cuando el mercado urbano inmobiliario romano, favorecido también por el éxito del jubileo organizado por Alejandro VI, alcanzó su máxima capacidad de expansión. A partir de ahí el comportamiento de las compraventas y de los arrendamientos se vuelve menos lineal. Los alquileres siguen subiendo hasta 1505 mientras el precio de los inmuebles sufre un descenso, tendencia que se invierte en el quinquenio siguiente (1506-1510) a la par que las compraventas suben y los alquileres bajan. Con independencia de las discordancias y de poseer cifras bastantes parciales, lo cierto es que el pontificado de Julio II fue un periodo bastante agitado, poco tranquilo tanto dentro como fuera de Roma, y eso podría explicar que el sector inmobiliario pasase por una fase titubeante. Los síntomas de las dificultades perduran con la llegada de León X: los precios de las compraventas aparecen estabilizados y los alquileres, salvo el repunte de 1510-1515, a medida que avanza el primer cuarto de siglo, adolecen de una menor capacidad de recuperación. El resultado final es el que antes se sugirió, o sea que cuando estalló la crisis de 1527 provocada por el saqueo perpetrado por el ejército del emperador Carlos V, la economía de Roma ya no se encontraba en el punto más alto del crecimiento renacentista. Había comenzado a virar desvelando el inicio de una parábola descendente que los soldados impidieron que tuviera un desenlace natural. De nuevo, detrás del mercado inmobiliario, aflora una gama de líneas de investigación que se adentran en los meandros de la ciudad. A lo largo del primer cuarto del siglo XVI, invirtiendo la tendencia anterior, 61

Manuel Vaquero Piñeiro

podría haberse acelerado el trasvase de capitales de la ciudad al campo, o de los bienes raíces a los préstamos públicos y privados, pero la respuesta a éstas y otras preguntas entraña cuestionarse las relaciones entre los distintos tipo de renta. 8. Conclusión: de la renta inmobiliaria a los censos consignativos Al final de una larga y densa centuria de transformaciones radicales, se podría concluir diciendo que el sector inmobiliario en Roma alcanzó su madurez entre las postrimerías del siglo XV y las primeras dos décadas del siglo XVI. Sin embargo, hay que insistir de nuevo en la conveniencia de tener una visión flexible del conjunto de intereses que pivotaban sobre los bienes raíces urbanos, por demás en una ciudad como la pontificia condicionada por el crecimiento demográfico, la circulación de ingentes capitales y las exigencias de un estilo de vida dominado por la ostentación de la riqueza102. Como hemos tenido ocasión de apreciar a lo largo de este estudio, los elementos que hay que barajar son muchos y cada uno de ellos reúne los requisitos para componer una historia autónoma. Por eso, aunque no hemos podido detenernos a comentar todas las implicaciones de los temas que han ido saliendo a lo largo de la exposición, el objetivo principal ha sido el de entretejer un discurso de carácter general que pusiese el acento en la acción legislativa, las medidas de política fiscal, la trayectoria de los patrimonios eclesiásticos, el comportamiento de los grandes y pequeños propietarios inmobiliarios, y otras variables que en conjunto inyectan un alta dosis de fluidez en la riqueza generada por la explotación de los edificios. Sin duda el cuadro es rico de protagonistas, estrategias y matices. Prueba evidente ello es la aparición en el escenario económico romano de finales del siglo XV de los censos consignativos, una modalidad de préstamo que de hecho modificó la función de los bienes inmuebles. Como es sabido, ya desde antes del siglo XIII en el Norte de Europa, para evitar la acusación de usura 103, se difundieron los censos consignativos los cuales si bien desde un punto de vista contractual adoptaban las características de un acto de compraventa, en realidad suponían un eficaz 102

T. Ertl (coord.), Pompa sacra. Cultura materiale e la messa in scena del Papato alla fine del medievo (1420-1527), Roma 2010. 103 B. Clavero, Usura. Del uso económico de la religión en la historia, Madrid 1985; C. Gamba, Licita Usura. Giuristi e moralisti tra Medioevo ed Età Moderna, Roma 2003; Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione. Linguaggi a confronto (sec. XII-XVI), D. Quaglione, G. Todeschini y G.M. Varanini (coords.), Roma 2005. 62

Dinámicas de crecimiento. Espacio y propiedad urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento

canal de crédito 104. Sin entrar en demasiados pormenores, desde el inicio los propietarios de bienes raíces hallaron en los censos consignativos un cómodo sistema para suplir la falta de liquidez, evitando además el tener que utilizar los servicios de los prestamistas de profesión que exigían intereses muy onerosos. Jurídicamente regularizado por una serie de bulas pontificias promulgadas en la primera mitad del siglo XV 105, el procedimiento inherente al funcionamiento del censo consignativo o censal era bastante sencillo: el propietario de una finca creaba una renta urbana o rústica y la vendía al mejor postor en cambio de una cantidad de dinero en efectivo. En principio, la propiedad no cambiaba de mano pues el censualista que compraba, que de hecho era el prestamista, adquiría el derecho a percibir una pensión anual sin gozar del ius pleno sobre el bien, mientras que el censatario, que había recibido el préstamo, devolvía el capital obtenido empleando la pensión generada por la propiedad hipotecada. Dejando de lado el difundido proceso de endeudamiento que se puso en marcha, próximos estudios tendrán que detenerse a evaluar las consecuencias que conllevó la generalización de este tipo de operaciones en el trasvase de capitales del sector inmobiliario o agrario al sector mobiliario. Por el momento algunos resultados todavía muy parciales concernientes al territorio romano parecen demostrarlo 106. En función de las investigaciones realizadas hasta este instante, los primeros ejemplos de censos consignativos en Roma se remontan a los años ochenta del siglo XV y se refieren al capítulo de San Pietro in Vaticano el cual apremiado por la falta de dinero para la construcción de un órgano para la iglesia comenzó a vender a los usufructuarios de las viviendas las rentas que éstas producían. Desde este momento en adelante, los censos consignativos aparecerán cada vez con mayor frecuencia en las escrituras notariales romanas hasta llegar a ser en pleno siglo XVI una difundida modalidad de negocio107. Pero volviendo al punto de partida, gracias a los censos consignativos la explotación de la riqueza inmobiliaria, incluídas las viviendas de menor prestigio, superó los márgenes del simple arrendamiento 104

B. Schnapper, Les rentes au XVIe siecle: histoire d'un instrument de crédit, Paris 1957; F. Veraja, Le origini della controversia teologica sul contratto di censo nel XIII secolo, Roma 1960; B. Clavero, Prohibición de la usura y constitución de rentas, en «Moneda y crédito», 143 (1977), pp. 107-131; A. Landi, Ad evitandas usuras: ricerche sul contratto di censo nell’Usus modernus Pandectarum, Roma 2004. 105 A. Placanica, Moneta, prestiti, usure nel Mezzogiorno moderno, Napoli 1982, pp. 210-214. 106 M. Vaquero Piñeiro, I censi consegnativi. La vendita delle rendite in Italia nella prima età moderna, en «Rivista di Storia dell’Agricoltura», XLVII/1 (2007), pp. 57-94. 107 L. Alonzi, Economia e finanza nell’Italia moderna. Rendite e forme di censo (secoli XV-XX), Roma 2012. 63

Manuel Vaquero Piñeiro

o venta. Es decir, tras un fecundo periodo de auge cuantitativo y cualitativo del parque inmobiliario, los propietarios, cuando a comienzos del siglo XVI la curva de los alquileres empezó a descerder y la tendencia alcista de los precios erosionaba las entradas reales 108, se decantaron por los censos consignativos juzgándolos una solución más idónea para que los edificios no perdiesen su utilidad económica. Por este camino, en la capital pontificia desde los umbrales de la Edad Moderna varió el modo de enterder la explotación de la riqueza construída.

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Para el caso de las ciudades francesas, Chevalier, Les bonnes villes, pp. 189-191.

Anna Esposito Crescita demografica e mercato immobiliare a Roma nel Rinascimento

La lenta trasformazione di Roma in città-residenza e in capitale, messa in luce dalla storiografia degli ultimi anni, ebbe un’incidenza in diversi campi, ed in particolare in quello economico, che conobbe durante il ‘400 una fase di sviluppo e di espansione. Questo trend favorevole coinvolse anche il mercato immobiliare, dove la domanda – fino ad allora sempre scarsa rispetto all’offerta 1 – cominciò a crescere sia in relazione all’aumento della popolazione soprattutto forestiera e immigrata, sia per la maggiore mobilità interna verso alcuni rioni specializzati per attività produttive o di servizi oppure per nazionalità 2. 1

Étienne Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIII e siècle, Rome, École Française de Rome, 1990. pp. 3-396. (Publications de l’École française de Rome, 135); https://www.persee.fr/doc/efr_0000-0000_1990_mon_135_1; É. Hubert, Gestion immobilière, propriété dissociée et seigneuries foncières à Rome aux XIIIe et XIV siècles, in Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XII e-XIX e siècle), a cura di O. Faron e É. Hubert, Rome 1995, pp. 185-205; H. Broise, J.-C. Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’arte italiana, vol. XII, Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 99-160. 2 L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa Medievale, a cura di A. Grohmann, Perugia 1994, pp. 413-435; Id., Sviluppo economico e società preindustriali. Cicli, strutture e congiunture in Europa dal medioevo alla prima età moderna, Roma 1997, in particolare il cap. VI: Un modello di sviluppo per la Roma rinascimentale; Id., Espansione demografica e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, in E. Sonnino (a cura di), Popolazione e società a Roma dal Medioevo all’età contemporanea, Roma 1998; E. Lee, Foreigners in Quattrocento Rome, in «Renaissance and Reformation», 19 (1983), pp. 135-146; E. Lee, Notaries, Immigrants and Computers: the Roman Rione Ponte, 1450-1480, in Gli atti privati nel tardo medioevo. Fonti per la storia sociale, a cura di P. Brezzi, E. Lee, Roma 1984, pp. 239-249; Id., Gli abitanti del rione Ponte, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, pp. 317-343; I. Ait, Ponte ‘optima regio a curialibus frequentata’: mercato immobiliare e provvedimenti papali in favorem inquilinorum. Prime 65

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È inoltre da tener presente – sulla scorta di una consolidata storiografia3 –, che la decisione dei pontefici di far edificare dai più importanti architetti del tempo palazzi e chiese; di costruire ponti (come ponte Sisto nel 1475), aprire strade con precise caratteristiche di decoro e funzionalità, che anche nel nome ricordano i pontefici che le hanno volute (e dunque la via Alessandrina nel 1500; il tracciato di via Giulia, che metteva in comunicazione tre tra i rioni più popolosi della città, ovvero Ponte, Arenula, S. Angelo, con il Vaticano; la via Leonina per collegare la porta del Popolo – ingresso settentrionale della città – alla via Papale attraverso la zona del porto di Ripetta; la creazione del ‘Tridente’, da parte di Clemente VII, etc.); di creare nuovi mercati e soprattutto di spostare il centro del potere curiale presso la Basilica Vaticana, non poteva non avere una conseguenza economica anche nella «valorizzazione delle aree urbane e delle case che su di esse venivano fabbricate» 4. Prenderemo qui in particolare considerazione il ruolo della crescita demografica della città e dei suoi principali protagonisti, ovvero gli immigrati 5; il mercato immobiliare urbano poteva crescere, infatti, se cresceva anche la domanda effettiva di immobili, e questa si basava, naturalmente, sui redditi di coloro che ne facevano richiesta. Da questo punto di vista il ruolo degli immigrati appare determinante; con le loro attività lavorative essi riscuotevano dei redditi, sotto forma sia di profitti che di salari, che davano osservazioni, in Popolazione e immigrazione a Roma nel Rinascimento. In ricordo di Egmont Lee, a cura di A. Esposito, Roma 2019, pp. 83-99; M. Vaquero Piñeiro, D. Strangio, La “gabella dei contratti”: spazio urbano e rendita immobiliare a Roma nel Quattrocento, in Roma nel Quattrocento. Topografia e urbanistica, in Roma. Le trasformazioni urbane del Quattrocento. II. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 3-28; M. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992, pp. 555-570; Id., Terra e rendita fondiaria a Roma all’inizio del XVI secolo, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di A. Esposito, L. Palermo, Roma 2005, pp. 283-316. 3 Ch. L. Frommel, Der römische Palastbau der Hochrenaissance, 3 voll., Tübingen, 1973; Carroll William Westfall, In This Most Perfect Paradise: Alberti, Nicholas, and the Invention of Conscious Urban Planning in Rome, 1447-1455, University Park, The Pennsylvania State University Press, PA, 1974; M. Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Torino 1992; A. Modigliani, Disegni sulla città nel primo rinascimento romano: Paolo II, Roma 2009; M. Gargano, Origini e storia. Roma Architettura Città. Frammenti di Rinascimento, Roma, 2016, con ampia bibliografia. 4 Per queste osservazioni cfr. L. Palermo, L’economia, in Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Bari-Roma 2000, pp. 49-91: 69-70. 5 A. Esposito, Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1995. 66

Crescita demografica e mercato immobiliare a Roma nel Rinascimento

loro la possibilità di accedere al mercato immobiliare sia degli affitti che delle compravendite, contribuendo così alla fase espansiva dell’economia di Roma, che nel pieno ‘400 era ormai un grande mercato di consumo e un vivace centro di produzione e di scambi 6. Com’è noto, Roma – dopo il ritorno stabile di papa Martino V e della curia – nel corso del ‘400 aveva visto crescere esponenzialmente la sua popolazione: dai circa 25.000-30.000 abitanti del pontificato martiniano ai 55-60.000 descritti nella Descriptio Urbis del 1526-27 7. Peraltro, una tendenza alla crescita demografica è avvertibile già negli ultimi decenni del XIV secolo, dovuta in parte a fenomeni d’immigrazione di artigiani specializzati di varia provenienza, come hanno messo in evidenza Clara Gennaro e Jean Claude Maire Vigueur esaminando le fonti notarili di quel periodo 8, e di mercanti, in gran parte fiorentini, come emerge dalle ricerche di Arnold Esch e di Luciano Palermo 9. Il fenomeno dell’immigrazione sempre più rilevante nelle città dominanti nei diversi stati territoriali a dimensione regionale durante il Quattrocento è stato negli ultimi decenni più volte sottolineato dalla storiografia, che in particolare ha messo in rilievo l’attrazione esercitata dalla capitale a scapito delle altre città dello stato e il relativo drenaggio demografico in suo favore 10. Roma non è da meno delle altre “città capitali”, anzi qui il fenomeno è ancora più rilevante, per una serie di motivi, da attribuirsi alla peculiarità 6

Sul ruolo della domanda effettiva nei mercati basso-medievali e della prima età moderna si rinvia alle analisi ad essa dedicate in C. M. Cipolla, Storia economica dell’Europa preindustriale, Bologna 1974; sulla relazione tra demografia ed economia si veda J.C. Russel, La popolazione dal 500 al 1500, in “Storia economica d’Europa”, diretta da C.M. Cipolla, Torino 1979, e gli aggiornamenti della problematica e della bibliografia in G. Pinto, Tra demografia, economia e politica: la rete urbana italiana (XIII-inizio XVI secolo), in “Edad Media”, Rev. Hist., 15 (2014), pp. 37-57. 7 E. Lee, Descriptio Urbis. The Roman Census of 1527, Roma 1985, ripubblicato, insieme all’edizione del Census del 1517, in Id., Habitatores in Urbe. The Population of Renaissance Rome / La Popolazione di Roma nel Rinascimento, Roma 2006, pp. 119-275. 8 C. Gennaro, Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento (da una ricerca sui registri notarili), in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 78 (1967), pp. 155-203; J.-Cl. Maire Vigueur, Classe dominante et classes dirigeants à Rome à la fin du Moyen Age, in «Storia della città», 1 (1976), pp. 4-26. 9 V. le opere di A. Esch citate qui sotto alla nota n. 15; e L. Palermo, Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini, 1377-1409, Roma 2020. 10 Cfr. A. I. Pini, Città medievali e demografia storica: Bologna, Romagna, Italia, Bologna 1996. Sul ruolo economico delle città capitali rinascimentali si rinvia a M. Berengo, Stato europeo e corpi intermedi, in Origine dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A, Mohlo, P. Schiera, Bologna 1994, pp. 633-638. 67

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della Città Eterna 11: prima di tutto l’indiscutibile richiamo che da sempre Roma rappresentava per tutti i cristiani e dunque da sempre, ma, soprattutto dopo il ritorno definitivo del papa, era tornata ad essere meta ricercata dai pellegrini; poi le esigenze disparate della curia papale e delle corti cardinalizie, in parte formate da connazionali del papa e dei cardinali, per lo più non romani, corti che potevano contare anche centinaia di persone (nel censimento del 1526-1527 i membri delle familie cardinalizie sommati a quelli del Vaticano rappresentavano il 7% della popolazione di Roma) 12; poi l’esser Roma il punto di riferimento di tutti coloro che erano in relazione con la curia, per motivi di natura ecclesiastica, economica e politica. È evidente poi che i nuovi bisogni di una città in crescita, centro di una corte principesca e capitale di uno stato, attiravano grandi masse artigianali specializzate nei più diversi settori e rendevano più vivaci i commerci soprattutto, com’è evidente, a livello di richiesta di beni di consumo13. Perciò, come ha sottolineato a più riprese Luciano Palermo14, la presenza di individui provenienti dall’Italia e da altre regioni europee non appare solo collegata allo svolgimento di mansioni curiali, o al commercio e al mercato finanziario, quest’ultimo dominato dai mercanti-banchieri toscani e soprattutto fiorentini (già presenti – dapprima sporadicamente, quindi sempre più numerosi – durante i pontificati di Bonifacio IX e Martino V)15 e dove i 11 Cfr. Lee, Foreigners; A. Esposito, La città e i suoi abitanti, in Roma del Rinascimento, pp. 3-47. 12 G. Fragnito, Le corti cardinalizie nella Roma del Cinquecento, in «Rivista Storica Italiana»”, 106/1 (1994), pp. 5-41; A. Esposito, Di fronte al lusso: la corte pontificia e il popolo romano, in Pompa sacra: lusso e cultura materiale alla corte papale nel basso Medioevo, 1420-1527. Atti della giornata di studi (Roma, 15 febbraio 2007), ed. Thomas Ertl, Roma 2010, 131-144. Sull’articolata familia cardinalizia e sulla magnificentia dei porporati cfr. G. Ferraù, Politica e cardinalato in un’età di transizione. Il De cardinalatu di Paolo Cortesi, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, pp. 519-540. 13 Esposito, Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento. 14 Cfr. Palermo, Espansione demografica e sviluppo economico, p. 319. 15 A. Esch, Bankiers der Kirche im Grossen Schisma, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 46 (1966), pp. 277-394; Id., Dal Medioevo al Rinascimento, uomini a Roma dal 1350 al 1450, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 94 (1971), pp. 1-10; Id., Florentiner in Rom um 1400. Namensverzeichnis der ersten Quattrocento-Generation, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LII (1972), pp. 476-525; Id., La fine del libero comune di Roma nel giudizio dei mercanti fiorentini. Lettere romane degli anni 1395-1398 nell’Archivio Datini, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 86 (1976-77), p. 235-277; A. Esposito, Pellegrini, stranieri, curiali ed ebrei, in Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 2001, pp. 213-239.

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Crescita demografica e mercato immobiliare a Roma nel Rinascimento

romani ormai entravano solo marginalmente16; la gran parte di questi immigrati era soprattutto attiva come forza-lavoro più o meno specializzata, in specifici settori della produzione artigianale (si pensi ai panettieri e calzolai tedeschi oppure ai maestri impiegati nello svolgimento di attività qualificate nei cantieri navali sul Tevere17, nell’attività edilizia – dove predominavano i lombardi –, nella produzione artistica o intellettuale, etc.)18. Anche il settore dei servizi e dell’ospitalità conobbe un grande sviluppo con la moltiplicazione di alberghi, locande, case date in affitto, ospizi e ospedali (di cui un buon numero riservati alle diverse ‘nazioni’ italiane ed europee), e altro ancora 19. Si determinò così un’espansione della domanda un po’ in tutti i settori. «Furono ancora una volta – e cito ad litteram quanto scrive Luciano Palermo – lo sviluppo demografico, l’aumento dell’offerta di lavoro e la lievitazione dei redditi distribuiti sotto forma di salario a provocare la crescita della propensione generale al consumo» 20, e infatti la Roma del primo Rinascimento divenne un grande centro di consumi, come si può facilmente riscontrare dall’esame dei registri doganali, sia quelli della dogana di terra (posta nel rione di S. Eustachio) che quelli della dogana di mare (presso il porto di Ripa Romea di fronte all’Aventino) 21. Da tener 16

Th. Frenz, Die Kanzlei der Päpste der Hochrenaissance (1471-1527), Tübingen 1986; Ch. Schuchard, Die Deutschen an der päpstlichen Kurie im späten Mittelalter (1378-1447), Tübingen 1987; Ead., I tedeschi alla curia pontificia nella seconda metà del Quattrocento, in Roma Capitale, pp. 51-71; P. Partner, The Pope’s Men. The Papal Civil Service in the Renaissance, Oxford 1990; M. Vaquero Piñeiro, La presencia de los espagnoles en la economìa romana (15001527). Primeros datos de archivo, in «En la España Medieval», 16 (1993), pp. 287-306. 17 K. Schulz, Artigiani tedeschi in Italia, in Comunicazione e mobilità nel Medioevo. Incontri tra il Sud e il centro dell’Europa (secc. XI–XIV), ed. S. de Rachewiltz, J. Riedmann, Bologna 1996, pp. 197-228; I. Ait, Mercato del lavoro e forenses a Roma nel XV secolo, in Popolazione e società, pp. 335-358; Ead., Un aspetto del salariato a Roma nel XV secolo: la «fabrica galearum» sulle rive del Tevere (1457-58), in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, I, Roma 1988, pp. 7-25; M. Vaquero Piñeiro, Ricerche sui salari nell’edilizia romana (1500-1650), in «Rivista Storica del Lazio», 4 (1996), pp. 131-158. 18 Cfr. A. M. Corbo, I contratti di lavoro e di apprendistato nel secolo XV a Roma, in «Studi Romani», 21 (1973), pp. 469-489; Ead., Fonti per la storia sociale romana al tempo di Nicolò V e Callisto III, Roma, 1990; E. Lee, Workmen and Work in Quattrocento Rome, in Rome in the Renaissance. The City and the Mith, ed. P. A. Ramsey, Binghamton, New York 1982, pp. 141-152; M. Vaquero Piñeiro, Artigiani e botteghe spagnole a Roma nel primo ‘500, in «Rivista Storica del Lazio», 3 (1995), pp. 99-116. 19 Una rassegna degli studi in materia in M. Sanfilippo, Roma nel Rinascimento: una città di immigrati, in Le forme del testo e l’immaginario della metropoli, a cura di B. Bini, V. Viviani, Viterbo 2009, pp. 73-85. 20 Palermo, L’economia, p. 57. 21 Oltre agli studi prima citati, cfr. A. Esch, La Roma del primo Rinascimento vista attraverso i registri doganali, Roma 2012; I. Ait, La dogana di S. Eustachio nel XV secolo, in 69

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presente inoltre, come ha osservato Anna Modigliani, che «lo sviluppo economico della città non era indirizzato verso l’esportazione all’ingrosso di manufatti e prodotti dell’artigianato, ma soprattutto verso il mercato interno» costituito peraltro in gran parte da forestieri e pellegrini, che riportavano in patria gli oggetti di uso personale che acquistavano a Roma: «essi realizzavano così una forma di esportazione estremamente frammentata e invisibile nei registri della dogana»22. Se motivi di attrazione sono individuabili più facilmente, meno agevole risulta quantificare la presenza complessiva dei non romani sull’insieme della popolazione cittadina, a causa dello stato delle fonti. Censimenti, catasti, registri parrocchiali – cioè le fonti specifiche per lo studio della popolazione –, sono del tutto assenti nel panorama documentario di Roma medievale, dunque, come ha messo in evidenza Egmont Lee, qualunque ricerca sulla immigrazione a Roma nel Quattrocento è destinata ad essere imprecisa 23. É perciò indispensabile risalire ai primi decenni del Cinquecento per trovare le prime fonti specifiche, o quasi: il cosiddetto “Censimento di Leone X” (una rilevazione per parrocchie) da situare tra il 1516 e il 1517, e la Descriptio Urbis, il primo vero e proprio censimento della popolazione romana, di un decennio più tardi, redatto pochi mesi prima del tragico sacco della città del 1527 24, fonti problematiche, in quanto prive dei fogli iniziali che avrebbero dato conto dei motivi della loro compilazione (forse finalità fiscali o annonarie 25) e, soprattutto il Census del 1516-17, mutilo per quasi 2/3 del suo contenuto, ma fonti ugualmente indispensabili perché riescono a dare almeno un’idea della composita ed eterogenea popolazione della città, soprattutto se affiancate da altre fonti contemporanee. Egmont Lee, che le ha analizzate sistematicamente, è arrivato a queste conclusioni, a mio avviso più convincenti: all’inizio del ‘500 il 68% delle 3.294 famiglie non ebraiche della città ha come capofamiglia dei romani (comprensivi anche degli immigrati da tempo assimilati e dei nativi del Lazio), Aspetti e problemi della vita economica e culturale di Roma nel Quattrocento, Roma 1981, pp. 81-147; M. L. Lombardo, La dogana minuta a Roma nel primo Quattrocento. Aspetti istituzionali, sociali, economici, Roma 1983. 22 A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età moderna, Roma 1998 (RR inedita 16, saggi), p. 26. 23 Lee, Foreigners, p. 136. 24 Lee, Habitatores in Urbe. 25 Per la prima edizione cfr. D. Gnoli, Descriptio Urbis o Censimento della popolazione di Roma avanti il sacco borbonico, in «Archivio della Società romana di storia patria», XVII (1894), pp. 375-520. Nell’introduzione della nuova edizione, cit. a nota 7, Egmont Lee critica le cifre fornite dallo Gnoli (pp. 17-24). 70

Crescita demografica e mercato immobiliare a Roma nel Rinascimento

il 24% è rappresentato da individui provenienti da tutte le altre regioni italiane e il 7,3% da non italiani. L’impressione predominante è ancora che Roma fosse una città di non romani, in cui circa la metà della popolazione non era nativa di Roma, ma elimina l’estremizzazione di altre stime, che riducono troppo l’elemento nativo all’interno degli abitanti di Roma 26. Che conseguenza ha tutto questo sul mercato immobiliare? «L’aumento della popolazione, soprattutto immigrata, il riannodarsi dei traffici commerciali, la crescita della circolazione del denaro, – ha scritto Manuel Vaquero – favoriscono un incremento della domanda (di case) in termini qualitativi e quantitativi permettendo ai proprietari degli immobili di ricavare introiti sostanziosi da una ricchezza che, con il passare del tempo, si farà sempre più redditizia»” 27, e contemporaneamente consentendo ai pontefici di ripopolare le zone più abbandonate della città, a partire da Eugenio IV, che operò per rivitalizzare il quartiere di Borgo, particolarmente colpito nelle sue strutture edilizie dalle truppe del re Ladislao di Napoli nei primi anni del ‘400, concedendo a chi vi fosse andato ad abitare non solo l’esenzione da dazi e gabelle comunali per 25 anni ma anche di non venire molestato dai creditori per 10 anni 28. Provvedimenti simili vennero presi dai suoi successori per incrementare il popolamento in altre aree cittadine, come il rione Monti presso la basilica di S. Maria Maggiore, già oggetto di interventi alla fine del XIV secolo. In entrambi i casi si può collegare l’interesse pontificio al ripopolamento con quello di agevolare la ristrutturazione – e quindi la valorizzazione – del patrimonio immobiliare, particolarmente deteriorato, sia della basilica di S. Pietro e dell’ospedale di S. Spirito, in buona parte concentrato in Borgo, sia della basilica Liberiana 29. Non sfugge come questa politica di incentivazione edilizia si imperniasse sull’attivo intervento delle maestranze di recente immigrazione, alla ricerca non solo di un lavoro ma anche di una sede di residenza. Non a caso i contemporanei contratti di locazione prevedevano canoni bassi e a lungo termine ma anche sostanziosi interventi di miglioria e restauri 30. Anche Leone X e Clemente VII concessero esenzioni e particolari 26

Lee, Foreigners, p. 140; Esposito, Un’altra Roma, p. 78. M. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431). Atti del convegno, Roma 2-5 marzo 1992, a cura di M. Chiabò et alii, Roma 1992, pp. 555-569: 558. 28 Esposito, Un’altra Roma, p. 24. 29 G. Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. I: Topografia e urbanistica da Bonifacio IX ad Alessandro VI, Firenze 2004. 30 G. Curcio, “Nisi celeriter reparetur totaliter est ruitura”. Notazioni su struttura urbana e rinnovamento edilizio in Roma al tempo di Martino V, in Alle origini della nuova Roma, pp. 537-554. 27

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privilegi a chi fosse andato a risiedere nel rione Campo Marzio tra porta del Popolo e il porto di Ripetta31, zona nella quale i terreni edificabili, in gran parte di proprietà della Chiesa e del convento agostiniano di S. Maria del Popolo e del vicino ospedale di S. Giacomo in Augusta, venivano ceduti in locazione perpetua a carpentieri, muratori, barcaioli – in gran parte provenienti dalla Lombardia – con l’obbligo di costruirvi abitazioni e di risiedervi stabilmente dietro la corresponsione di un modesto censo annuo 32. Non vi è dubbio che la gran parte degli immigrati, specialmente nella prima fase d’insediamento, cercasse case in affitto, come mostrano nei dettagli le fonti contabili degli enti ecclesiastici (chiese e conventi, ospedali, Per l’urbanizzazione dell’area nord del rione Campomarzio, cfr. R. Fregna, S. Polito, Fonti d’archivio per una storia edilizia di Roma. Primi dati sull’urbanizzazione nell’area del Tridente, in «Controspazio», IV/7 (luglio 1972), 2-18; F. Bilancia, S. Polito, Via Ripetta, in «Controspazio», Novembre 1973, V, pp. 18-47; R. Fregna, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna 1990; Henri Broise, Les maisons d’habitation à Rome aux XV et XVI siècles: les leçons de la documentation graphique, in D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes européennes (XIIIe-XVIe siècle), a cura di J.-Cl. Maire Vigueur, Rome 1989, pp. 609-629; C. Keyvanian, The «Books of Houses» and their Architects: Surveying Property in SixteenthCentury Rome, in Concerto barocco: essays in honor of Henry A. Millon, «Thresholds» 28 (2005), pp. 17-22; G. Lepri, Il Tridente romano attraverso i Libri delle Case dal XVI al XVIII secolo, in Il Tesoro delle Città | Strenna 2018, Wuppertal 2018, pp. 157-184. 32 Sulla presenza a Roma di maestranze lombarde più o meno qualificate, dagli architectores ai modesti manovali, molto è stato scritto, dalla pioneristica e ben documentata monografia di Antonino Bertolotti, (Artisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI e XVII. Studi e ricerche negli archivi romani, 2 voll., Milano 1881, vol. 1, pp. 13-28) al saggio di Eugenio Battisti su artisti, architetti, scalpellini, muratori provenienti dalla Lombardia settentrionale ed in particolare dal Comasco (I Comaschi a Roma nel primo Rinascimento, in Arte e artisti dei laghi lombardi, 1. Architetti e scultori del Quattrocento, a cura di E. Arslan, Como 1959, pp. 3-61); e più recentemente alle ricerche di Ivana Ait per il ‘400 e di Manuel Vaquero per l’età moderna (I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Costruire a Roma tra XV e XVII secolo, in L’edilizia prima della rivoluzione industriale. Secc. XIII-XVIII, a cura di S. Cavaciocchi, atti della “Trentaseiesima Settimana di Studi”, Prato 26-30 aprile 2004, Firenze 2005, pp. 229-284). In particolare Manuel Vaquero Piñeiro, in un articolo dedicato specificamente ai costruttori lombardi, dai decenni centrali del ‘400 fino agli anni ’20 del ‘500 - ripercorre le tappe del sempre più corposo inserimento di maestri e manovali dell’Italia settentrionale dapprima nei cantieri pubblici e successivamente nell’urbanizzazione e valorizzazione di una vasta zona del rione Campo Marzio, ancora parzialmente spopolata, cfr. M. Vaquero Piñeiro, Costruttori lombardi nell’edilizia privata romana del XVI secolo, in «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 119/2 (2007): L’Economie de la construction dans l’Italie moderne, pp. 341-362. https:// doi.org/10.3406/mefr.2007.10367. Cfr. anche A. Esposito, La comunità dei lombardi a Roma e le sue istituzioni (secc. XV-XVI), in Identità e rappresentazione. Le chiese nazionali a Roma, 1450-1650, a cura di A. Koller e S. Kubersky-Piredda, con la collaborazione di T. Daniels, Roma 2015, pp. 397-406. 31

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confraternite) a cui accennerò brevemente più avanti. I romani, invece, anche quelli che le fonti definiscono “poveri”, nella gran parte dei casi possedevano almeno un piccolo immobile in cui risiedevano. Secondo Broise e Maire Vigueur, dall’esame della documentazione di fine ‘300 – primi decenni del ‘400, colpisce innanzi tutto la circostanza che la grande maggioranza dei romani possedesse una casa che era spesso la propria, quella cioè nella quale abitavano 33. Si può quindi supporre che il possesso di una casa fosse alla portata della maggioranza della popolazione. Il riferimento è alla piccola casa familiare costituita da due piani: uno o due vani sotto e altrettanti sopra, con portico e loggia. Nel secondo ‘400 la situazione non cambia per la gran parte dei romani, che continuano a possedere almeno la casa di residenza, anche se è più evidente, relativamente ai ceti dominanti, l’acquisto speculativo d’immobili, specialmente nei quartieri dove si concentravano le attività commerciali, per poi concederli in affitto; allo stesso modo i nobiles viri romani continuano ad essere – a loro volta – titolari di contratti di locazione da parte degli enti ecclesiastici e confraternite per immobili che nella maggioranza dei casi non erano destinati alla loro residenza ma venivano messi a reddito in varie forme (alberghi, taverne e botteghe). Dall’esame dei protocolli notarili del primo ‘400 si ricava che Ponte e Parione sono i rioni dove gli immobili dati in affitto sono particolarmente numerosi e dove i canoni sono più alti. Mentre una casa comune si affittava da 5 a 15-20 fiorini correnti annui, una domus più importante – suscettibile di essere trasformata in albergo – veniva locata tra il 1410 e il 1420 dai 30 a 50 fiorini annui 34. Per Manuel Vaquero Piñeiro, però, è necessario valutare anche l’impatto del rientro in città della Curia papale nello sviluppo del mercato immobiliare romano. Riprendendo i dati elaborati da Étienne Hubert a partire dalla confraternita del S. Salvatore 35, ha calcolato che l’affitto medio annuo delle case nel 1409-1410 era per Borgo-Ponte di 9,5 fiorini e per Parione e S. Angelo di 5,2. Invece nella seconda e terza decade del XV secolo l’affitto medio triplica. Ciò si vede anche attraverso i Censuali del Capitolo di S. Pietro» da lui esaminati per gli anni 1416, 1421 e 1441. Ma è anche da tener presente – come «il mercato immobiliare romano fosse totalmente vincolato alla presenza del papa nella città: quando si assentava, gli affitti crollavano; viceversa, quando rientrava, gli 33

Broise-Maire Vigueur, Strutture familiari, p. 106. Broise-Maire Vigueur, Strutture familiari, p. 108. 35 É. Hubert, Économie de la propriété immobilière: les établissements religieux et leurs patrimoines au XIV e siècle, in Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, a cura di Id., Roma 1993, pp. 175-230. 34

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affitti aumentavano». E lo stesso si verificava per il Giubileo o per l’arrivo dell’Imperatore. «In queste circostanze – scrive Vaquero Piñeiro – che dimostrano come i proprietari degli immobili fossero ben coscienti della subordinazione degli affitti al volume della domanda, il canone poteva passare da19 a 24 ducati d’oro o invece dimezzarsi» 36. Non c’è dubbio quindi che il numero elevato delle locazioni e l’alto livello degli affitti segnalano in questi rioni un mercato immobiliare molto più vivace che nel resto della città. Di fatto, è proprio nei rioni di Ponte e Parione che si concentrava buona parte dell’immigrazione già dopo il ritorno dei papi a Roma, e anche nei decenni seguenti questi due rioni risultano essere tra quelli a più alta densità di popolazione immigrata. Peraltro – proprio in seguito alle disposizioni dei pontefici di fine ‘400 e primo ‘500 per ripopolare alcune aree marginali dell’Urbe, a cui prima si è fatto cenno –, gruppi consistenti d’immigrati troveranno conveniente insediarsi in rioni periferici, come ad esempio Monti (per gli albanesi), Campomarzio (soprattutto per lombardi e slavi), Trastevere (in particolare per i còrsi), Borgo. Altri poli di attrazione potevano essere, ad esempio, la chiesa nazionale oppure – e questo sembra essere stato l’elemento maggiormente determinante – la strada o la contrada dove si esercitava un particolare mestiere; anzi, è stato osservato come l’aggregazione professionale in particolari zone della città sarebbe servita ad accelerare il processo d’integrazione dei forenses nella società romana 37. Si è prima accennato ad una caratteristica del mercato immobiliare romano in relazione agli affitti e cioè che la gran parte degli inquilini registrati nei censuali, inventari, catasti degli enti ecclesiastici giunti fino a noi 38, è costituita da non-romani. Con una particolarità da segnalare: mentre nelle confraternite e ospizi “nazionali” gli inquilini sono nella maggior parte originari di quella specifica nazione, negli enti religiosi cittadini il panorama dei locatari forenses è più variegato quanto alla loro provenienza. Non stupisce quindi che Luciano Palermo, esaminando il patrimonio immobiliare di S. Maria dell’Anima 39, abbia potuto verificare che «erano 36

Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, pp. 565-566. Lee, Foreigners. 38 A causa della mancanza di vere e proprie rilevazioni catastali relative all’intera città non vi è dubbio che gli inventari delle proprietà di confraternite devozionali, ospedali e istituzioni religiose di Roma rappresentino delle fonti di grande importanza per lo studio della ricchezza urbana e del ruolo rivestito dagli organismi religiosi nel mercato immobiliare cittadino. 39 L. Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento, in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer “deutschen Stiftung” in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin-New York 2010, pp. 279-325. 37

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quasi tutti di origine tedesca o fiamminga, anche se appaiono alcuni spagnoli, soprattutto addetti alle attività dei tribunali» 40. Rientravano, peraltro, in due significative categorie sociali e professionali. La prima era costituita da persone che vivevano e lavoravano nella curia pontificia: si trattava di curiali addetti a varie funzioni: scrittori delle lettere apostoliche, abbreviatori, dottori, procuratori e auditori presso i vari tribunali, notai della Rota; la seconda categoria era, invece, costituita da un certo numero di artigiani e da qualche mercante: orefici, tavernieri, barbieri, balneatori, sarti, tessitori, carpentieri, fabbricanti di spade; molti erano i fornai, ben presenti, come è noto, nella comunità tedesca di Roma; appaiono, inoltre, un mercante romanam curiam sequens, uno stampatore di libri, un medico. Tra gli enti ecclesiastici romani esemplifico solo con il caso dell’ospedale S. Spirito in Sassia 41, di cui rimane un inventario di beni urbani redatto negli anni ’20 del ‘500 42. Pubblicato recentemente da Claudia D’Avossa, dopo osservazioni di grande interesse sulla diversificazione funzionale delle proprietà (sotto la generica definizione di domus potrebbero infatti essere accomunate le più disparate strutture abitative), sulla distribuzione rionale 40

Sulla presenza spagnola nell’immigrazione e nell’economia romana si veda, pur tra molte opere che l’Autore ha dedicato a questo tema, M. Vaquero Piñeiro, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de la iglesia de Santiago de los Españoles de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma 1999; Id., Cenni storici sulla componente spagnola della popolazione romana alla fine del ‘500 secondo i registri parrocchiali, in Popolazione e società, pp. 141149; Id., La presencia de los españoles en la economía romana (1500-1527). Primeros datos de archivo, in «En la España Medieval», 16 (1993), pp. 287-306; Id., Artigiani e botteghe spagnole a Roma nel primo ‘500, in «Rivista Storica del Lazio», 3 (1995), pp. 99-116. 41 Per la storia dell’istituto cfr. P. De Angelis, Regula sive Statuta Hospitalis Sancti Spiritus. La più antica regola ospitaliera di Santo Spirito in Saxia, Roma 1954; Id., L’Ospedale di S. Spirito e le sue filiali nel mondo, Roma 1958; Id., L’ospedale di S. Spirito in Saxia, vol. I-II, Roma 1962; e soprattutto i saggi in L’ antico ospedale di Santo Spirito: dall’istituzione papale alla sanità del terzo millennio. Convegno internazionale di studi, Roma, 15-17 maggio 2001, Roma 2001-2002; tra gli studi più recenti che hanno interessato alcuni aspetti della storia patrimoniale del celebre ospedale cfr. A. Esposito, Borgo tra Medioevo e Rinascimento: prime indagini sulle dinamiche demografiche e sociali, in Rome des Quartiers: Des Vici aux Rioni; cadres institutionnels, pratiques sociales et requalifications entre Antiquité et époque moderne, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Bérenger, Paris 2008, pp. 367-381. 42 ASR, Osp. S. Spirito, reg. 11. É stato recentemente pubblicato da C. D’Avossa, Un inventario dei beni urbani del S. Spirito in Saxia del primo Cinquecento, in “Roma nel Rinascimento”, 2013, pp. 321-376. Il patrimonio urbano del S. Spirito risulta composto da 120 unità immobiliari, così suddivise: 98 domus; 2 palatia; 10 spazi commerciali e produttivi tra botteghe, magazzini, luoghi per la vendita al dettaglio, mulini, taverne, etc.; 10 unità fondiarie comprensive di 1 parco, 2 prati, 1 suolo, 1 vicolo e 5 vigne. Qualsiasi considerazione sulla qualità e tipologia edilizia delle unità patrimoniali deve fare tuttavia i conti con le difficoltà di interpretazione delle categorie descrittive utilizzate dai compilatori dell’inventario. 75

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delle proprietà (circa 200 immobili) e sulla loro rendita, sulle condizioni socio-professionali degli affittuari 43, la studiosa fornisce informazioni anche sulle loro provenienze geografiche. «Delle persone cui si è riuscito ad attribuire un’origine circa il 62 % sono originarie delle più disparate località italiane, il 28% risultano romani e circa il 10% ultramontani. Tra le provenienze italiane le più frequenti sono quelle dell’Italia centrale, con una netta prevalenza di toscani e soprattutto fiorentini, che numerosi locano case nel rione Ponte 44, regione di loro massima concentrazione» 45. Diversi affittuari provengono da varie città emiliane quali Bologna, Cesena 46, Modena 47, Ferrara, Imola e Mantova; mentre solo in casi isolati si sono individuate persone originarie delle aree marchigiane, umbre e laziali 48. Forte tra gli affittuari del S. Spirito è anche la presenza di lombardi e piemontesi 49, ma anche di veneti e liguri; invece, solo due individui risultano essere originari dell’Italia meridionale 50. Tra gli “ultramontani” sono rappresentati soprattutto slavi e tedeschi, tutti residenti in Borgo 51. 43

Sono presenti anche attività legate al generale fabbisogno i pellegrini e curiali (medici, barbieri, sarti, chiavari, lavandai, fabbricanti di basti, notai, etc. Alcuni esempi: Febo Brigotti medico nr. 35; Thoma de la Porta barbiere nr. 20, Paolo da Cremona sarto nr. 10; Francesco da Bergamo macellaio nr. 12; Mosè ebreo bastario nr. 54; quest’ultimo è segnalato anche in A. Esposito, Borgo tra Medioevo e Rinascimento, cit., p. 374. 44 Nel rione Ponte si trovava anche la loro chiesa nazionale, S. Giovanni dei Fiorentini; per l’insediamento dei fiorentini a Roma cfr. I. Fosi, I fiorentini a Roma nel Cinquecento: storia di una presenza, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Roma 1994, pp. 389-414. 45 D’Avossa, Un inventario dei beni, p. 341. 46 Di Modena era originaria ad esempio Giovanna de Beneschis, affittuaria delle due case in Borgo che poi saranno incorporate nelle proprietà del cardinale Armellini, cfr. infra nrr. 15, 41. 47 Era ad esempio modenese il già ricordato notaio del S. Spirito Iacobus Cortesius, cfr. infra nr. 109. 48 Dal viterbese provenivano, ad esempio, il protonotario apostolico Aurelio Caprini e magister Archangelus de Sutrio, cfr. infra nrr. 22, 7; dalla regione umbra l’aromatario Nicolaus de Feriatis di Città di Castello, Benedictus de Acoltis di Arezzo e Bernardino cancelliere del papa di Todi, cfr. infra nrr. 40, 47, 45; dalla Marchia Anchonitana risulta infine solo Rosato heredi Agapiti de Montalto cfr. infra nr. 11. 49 Tra i piemontesi, ad esempio, si distinguono Paulo de Trofis di Alessandria cantore del papa che affitta una casa presso Porta Castello, nr. 67; da Novara provenivano invece un pizzicarolo e un calzolaio ricordati ai nrr. 2, 4, 114; da Monferrato era originario un barbiere residente in Borgo ricordato ai nrr. 20, 22; tra i lombardi risultano tra gli altri alcuni bergamaschi ricordati ai nrr. 12 e 91, mentre tra i milanesi segnaliamo i due notai Bartolomeo Candiano e Vittorio de Valleano ai nrr. 9 e 11. 50 Cfr. infra nrr. 46, 18. 51 Un altro ente con numerose proprietà in Borgo era il Capitolo della fabbrica di S. Pietro, per il quale cfr. A. Gauvain, Romani e forestieri nelle case di San Pietro nel secondo Quattrocento, in Vivere la città. Roma nel Rinascimento, a cura di I. Ait e A. Esposito, Roma 2020, pp. 55-69. 76

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Un’altra caratteristica del mercato immobiliare romano è data dalle sublocazioni e dalle locazioni parziali, che cominciano a comparire nel corso del sec. XV, in particolare nei rioni di forte immigrazione, dove la domanda di alloggi, più elevata che altrove, spiega in parte la presenza del fenomeno 52, che però poteva essere determinato anche dalla proposta di canoni più bassi, rivolti preferibilmente a una popolazione fluttuante, bisognosa solo di un alloggio per un tempo limitato e a basso prezzo. Il fenomeno diventa sempre più marcato a fine ‘400-primo ‘500, e lo mostra bene il Census del 1516-17, esaminato da Manuel Vaquero con particolare riferimento proprio alle Case, proprietà e mestieri, per citare il titolo di un suo saggio particolarmente illuminante 53. «Roma, come molte altre città di Ancien Régime – scrive Manuel Vaquero – si presenta come una città abitata in prevalenza da affittuari e sub-affittuari». Dal Census, su di un totale di 2.812 registrazioni, soltanto 327 ovvero l’11,6% si riferiscono a persone che dicono di occupare una casa di proprietà («in casa sua» per rimanere fedeli alla fonte); perciò circa il 90% della popolazione cittadina dovrebbe essere integrata da individui che detengono delle abitazioni in regime di locazione 54. Non stupisce quindi che nel Census sia registrato «un ampio numero di camere cum lectis, camere locande, stantie locande e perfino lectis locande, tutti segnali di come una consistente parte della popolazione cittadina fosse composta da persone di passaggio» 55. Per concludere, due parole sulle caratteristiche della proprietà immobiliare da parte delle famiglie romane, messe in luce dalla recente storiografia. Sia dalle ricerche di Broise e Maire Vigueur per fine ‘300 e primo ‘400 che da quelle di Manuel Vaquero per il primo ‘500 risulta che, al di fuori degli enti ecclesiastici, la proprietà immobiliare dei nobiles viri romani era e rimase estremamente “polverizzata”. Poche famiglie dell’aristocrazia cittadina possedevano più di 10 immobili, raramente più di cinque o sei case 56, come mostrano gli atti notarili di tutto il XV secolo e oltre. 52

Broise, Maire Vigueur, Strutture familiari, p. 134. M. Vaquero Piñeiro, Case, proprietà e mestieri a Roma nel Censimento di Leone X (1517), in Vivere a Roma. Uomini e case nel primo Cinquecento (dai censimenti del 1517 e 1527), a cura di A. Esposito, M.L. Lombardo, nr. monografico di «Archivi e Cultura», 39 (2006 sed 2008), pp. 81-98. 54 Vaquero Piñeiro, Case, proprietà e mestieri, p. 87. 55 Ibidem, p. 89. 56 Broise, Maire Vigueur, Strutture familiari, p. 106; Vaquero Piñeiro, Case, proprietà e mestieri, p. 89. 53

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Invece, come abbiamo accennato, queste famiglie risultano – seppure in numero contenuto – in qualità di locatarie di immobili di ospedali, confraternite, conventi etc., con tutta probabilità titolari dell’affitto, ma non residenti: come provano i documenti d’archivio, le domus di varia natura prese in affitto erano destinate ad essere poi subaffittate, non c’è quasi bisogno di dirlo, soprattutto ai forenses di Roma.

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Alfio Cortonesi Viticoltura intramuranea e suburbana nella Roma tardomedievale

Note introduttive Le coltivazioni intramuranee sono entrate ormai da tempo nel campo d’osservazione dello storico dell’agricoltura medievale, sollecitato dalla presenza non di rado significativa di superfici a destinazione agricola all’interno degli insediamenti cittadini, di villaggio e castrensi 1. Si è mostrato come, a seconda del dispiegarsi della trama abitativa, la distribuzione e il peso complessivo degli orti, delle vigne, dei giardini e degli spazi a diversa connotazione colturale abbiano registrato una differente incidenza sull’economia locale, vuoi nel riferimento alla sussistenza familiare, vuoi per l’inserimento dei prodotti nei commerci locali e distrettuali. In tal variegato contesto, la situazione di Roma spicca per una peculiarità evidente, ciò per le ragioni cui di seguito accenneremo. La cerchia muraria romana quale ancor oggi è possibile ammirare fu voluta, in tempi di crescente insicurezza, dall’imperatore Aureliano (270-275) che cominciò a costruirla nel 271, decidendo di includervi le ville che circondavano la città e i relativi spazi verdi; a terminare l’impresa fu, qualche anno più tardi, un altro imperatore illirico, Marco Aurelio Probo (276-282) 2. Lunghe circa 20 km, le mura vennero ad abbracciare 1

Per una bibliografia: A. Cortonesi, S. Passigli, Agricoltura e allevamento nell’Italia medievale. Contributo bibliografico, 1950-2010, Firenze 2016 e Reti Medievali E-Book 26, con particolare riferimento ai capp. 3 (pp. 73-85) e 5 (pp. 97-101). Per un aggiornamento, specialmente per l’area romano-laziale: D. Lombardi, Dalla dogana alla taverna. Il vino a Roma alla fine del Medioevo e gli inediti Statuta comunitatis artis tabernariorum Alme Urbis Rome (1481-1482), Roma 2018, pp. 421-463. 2 Sulle vicende delle mura aureliane: R. Mancini, Le mura aureliane di Roma. Atlante di un palinsesto murario, Roma 2001 (anche per ragguagli bibliografici). Interventi sulle mura si ebbero anteriormente al Mille sotto l’imperatore Onorio (395-423) e al tempo dei pontefici Adriano I (772-795) e Leone IV (847-855). 79

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una superficie superiore ai 1400 ha. Alla metà del secolo IX, per iniziativa del pontefice Leone IV (847-855), si aggiunsero alla cinta originaria 3 km di bastioni intesi alla tutela della basilica petrina, delle chiese e delle abitazioni prossime dall’eventuale ripetersi di attacchi da parte dei saraceni, che nell’846 avevano funestato la zona del Colle Vaticano. Nessuna città europea sarebbe stata dotata, in quella fase storica come pure in seguito, di un anello murario di tale lunghezza e di una superficie protetta tanto estesa; basti pensare che la cinta trecentesca di Firenze includeva una superficie di circa 400 ha, più o meno quella che nello stesso periodo annoverava Bologna. All’origine di ciò era, appunto, la genesi tardoantica delle mura romane, commisurate alle esigenze di un abitato ampiamente esteso su colline e terre planiziali che avrebbe conosciuto nei secoli della decadenza dell’impero e più ancora in quelli altomedievali una contrazione vistosa (con il conseguente incremento dei terreni sottoponibili a coltura). Pur senza voler accogliere alla lettera le testimonianze più apocalittiche sull’andamento demografico della città (relative particolarmente al secolo VI) 3, sembra di non poter dubitare del fatto che, tra tardo antico e alto medioevo, si assista a una caduta verticale del popolamento cittadino, con la conseguenza della «destrutturazione e deserzione di larga parte della città» e del probabile «tracollo definitivo della città antica» 4. Fu, come noto, in questa fase che l’insediamento urbano denotato, pur nella discontinuità, da buona densità abitativa si ridusse alla grande ansa del Tevere e a pochi altri territori sulla riva destra del fiume. Non mancano neppure indagini che suggeriscano, per l’età bizantina, in luogo del contrapporsi senza mediazioni di “abitato” e “disabitato”, «una frantumazione del continuum» della zona edificata in antico con la conseguente formazione di nuclei insediativi che, investendo dapprima l’intera superficie intramuranea e con ciò caratterizzando la «forma urbis» altomedievale, si sarebbero in progresso di tempo più stabilmente dimensionati e radicati, fino a dar luogo ad una realtà territoriale più nettamente articolata in una parte edificata e popolata ed in 3 Si veda per esse: L. Paroli, Le strutture del popolamento romano dal tardo antico all’alto medioevo: i riflessi sul contesto urbano, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 3-28: 5. 4 Ibidem. Su questa fase della storia urbanistica dell’Urbe ancora utile la lettura di R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città 312-1308, Roma 1981, che vede fin dalla tarda antichità avviarsi la deserzione della parte collinare della città a fronte di «una maggiore “resistenza” dell’abitato nell’area centrale e nel Campo Marzio» (ibidem, p. 7). Di «progressiva consunzione» dei nuclei monumentali più rilevanti (con particolare riferimento alle Terme di Caracalla) parla D. Manacorda in Uomini e cose tra via Appia e via Latina (secc. XIII-XV), in Vigna Codini e dintorni, Atti del Convegno, Roma, 10 giugno 2015, a cura di D. Manacorda, N. Balistreri, V. Di Cola, Bari 2017, pp. 69-98: 69.

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Viticoltura intramuranea e suburbana nella Roma tardomedievale

altra pienamente ruralizzata 5. E la cronologia di questo processo, accertata ad oggi (grazie a scavi compiuti perlopiù negli ultimi decenni) solo con riferimento a talune aree cittadine (ad es. Celio, Colle Oppio, Campo Marzio, areale appio-latino), rimane fra gli aspetti di maggiore interesse su cui possano incardinarsi le future ricerche. Come sarebbero andate le cose dopo il ‘giro di boa’ dell’anno Mille? 6 Un’efficace sintesi relativa all’assetto del popolamento e all’evoluzione dello spazio urbano di Roma7 è proposta da Étienne Hubert che così argomenta: 5

A tal riguardo, Paroli, Le strutture del popolamento, pp. 7-9, 11-13 (da p. 13 le citazioni), con riferimento, fra gli altri, ai saggi di B. Bavant, Cadre de vie et habitat urbain en Italie centrale byzantine (VIe-VIIIe siècles), in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 101/2 (1989), pp. 465-532, e R. Meneghini, R. Santangeli Valenzani, Osservazioni sul popolamento di Roma tra V e VII secolo D.C. attraverso lo studio delle sepolture intramuranee, in Popolamento e società, pp. 29-36 (degli stessi autori si veda anche: Sepolture intramuranee e paesaggio urbano a Roma fra V e VII secolo, in La storia economica di Roma nell’alto medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici. Atti del seminario, Roma, 3-4 aprile 1992, a cura di L. Paroli, P. Delogu, Firenze 1993, pp. 89-111). 6 Un’immagine per molti versi ormai superata, certo impressionistica ed eccessivamente desolante, eppure non priva di tratti descrittivi in qualche modo utili alla ricostruzione del paesaggio intramuraneo di Roma nei secoli centrali del medioevo (XII-XIII), è quella che ci consegna un noto brano dello storico tedesco Ferdinand Gregorovius, che ci piace qui riproporre: secondo l’autore, Roma somigliava in tale fase «a un grande campo cinto da mura tutte coperte da muschio, con alture e vallate, con terreni ora coltivati, ora squallidamente deserti, da cui emergevano a tratti oscure torri, castelli, basiliche e conventi decrepiti già quasi in rovina, monumenti colossali avvolti nell’edera, terme, acquedotti diroccati, colonnati di templi, colonne solitarie, archi di trionfo muniti di torri, mentre un groviglio di strade strettissime, spesso sbarrate dai ruderi, incrociava le rovine, e il biondo Tevere, passando sotto i ponti di pietra già mezzi cadenti, mestamente scorreva attraverso quel triste deserto. Tutt’intorno alle antiche mura di Aureliano e all’interno di esse si estendevano appezzamenti di terreno incolto o coltivato a campo […] Per tutta la città vigneti e orti disseminati qua e là come oasi, persino nel cuore della Roma odierna, dal Pantheon, alla Minerva, fino alla porta del Popolo. Il Campidoglio, fino giù al Foro era cosparso di vigne, e così il Palatino. Le terme e il circo [Massimo] erano coperti di erbacce e qua e là paludosi» (Storia di Roma nel medioevo, Roma 1980, III, p. 509; brano riproposto anche in: D. Esposito, Vigneti e orti entro le mura: utilizzo del suolo e strutture insediative, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, a cura di G. Simoncini, 2 voll., Firenze 2004, II, Funzioni urbane e tipologie edilizie, pp. 205-228: 206, nota 4). Fra le diverse cose, è da rilevare, per quanto qui maggiormente interessa, il riferimento, nel testo citato, alla capillare e larga presenza intramuranea di orti e di vigne, di campi coltivati e incolti, nonché di zone di acque stagnanti. 7 L’A. sostiene, fra l’altro, che «à Rome comme ailleurs, l’expansion urbaine, loin d’être spontanée, fut organisée, voir, dans certains cas, «planifiée» par des véritable promoteurs immobiliers. Elle se déroula pour l’essentiel au moyen de concessions emphythéotiques de terrains à construire délivrées par le grands, ou moins grands, propriétaires fonciers à charge pour le bénéficiaire de bâtir à ses frais une maison, généralment dans l’espace 81

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A une phase initiale d’activité dans la première moitié du XIe siècle succéda un ralentissement sensible à partir de 1050 et jusqu’en 1120 environ. La croissance connut ensuite sa plus grande vigueur entre les années 1120 et 1270, pendant lesquelles sont attestés plus de la moitié des contrats ad edificandum des XIe-XIVe siècles (55%). Des années Soixante-dix du XIIIe siècle au milieu du siècle suivant, la construction s’arrêta à peu près totalement tandis que les années 1350-1380 connurent une certaine reprise 8.

Se l’urbanizzazione documentata per la prima metà del secolo XI sembra ancora avere per oggetto un territorio in larga parte disponibile per l’edificazione di nuove dimore, anche in ragione della trama a tratti assai larga delle terre coltivate, è verosimile che nella fase cronologica indicata da Hubert come quella della massima crescita urbana (1120-1270) – grosso modo la stessa nella quale più generalmente si registra in Italia e nell’Europa occidentale il più marcato incremento demografico – il tessuto delle parcelle a coltivazione intensiva (vigne e orti in primo luogo) abbia in certa misura limitato l’espansione del “costruito”, al contempo determinando una maggiore coerenza del parcellario colturale interno ed anche una più larga proiezione extramuranea dello stesso. Secondo lo storico francese, nei secoli XII e XIII, le zone maggiormente interessate all’espansione urbana sarebbero state le regioni di Via Lata e Pigna, il Foro e una parte del Palatino, infine Trastevere (a partire dal 1170), con l’aggiunta che «l’essor le plus vigoureux se concentra […] dans la partie septentrionale de la ville, le rione Campo Marzio aux alentours de S. Lorenzo in Lucina, le rione Trevi et surtout le rione Colonna»9. d’une année» (É. Hubert, Population et habitat à Rome aux XIIIe et XIVe siècles, in Popolazione e società a Roma, pp. 51-61: 52). Aggiunge lo stesso che «les lotissements les mieux documentés sont ceux qu’effectuèrent les monastères SS. Ciriaco e Nicola in Via Lata, S. Maria in Campo Marzio et S. Silvestro in Capite mais aussi, dans une moindre mesure, la collégiale S. Maria Nova […] Les lotissements connurent un franc succès. Ainsi S. Ciriaco in Via Lata possédait-il 25 maisons dans la seule paroisse de S. Maria in Via dans les années 1320 et S. Silvestro in Capite 130 maisons dans le rione Colonna vers 1330» (ibidem, p. 53). Più in generale, dati quantitativi sui patrimoni immobiliari dei maggiori enti ecclesiastici romani, ibidem, p. 58; Id., Économie de la propriété immobilière: les établissement religieux et leurs patrimoines au XIVe siècle, in Rome au XIIIe et XIVe siècles. Cinq études réunies par É. Hubert, Rome 1993, pp. 175-229. 8 Id., Population et habitat à Rome, p. 52. Per più dettagliate informazioni ed ampie argomentazioni in materia, vedasi: Id., Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, Rome 1990, e particolarmente i capp. I e III (si tratta di un contributo di imprescindibile riferimento per chi abbia attenzione alle tematiche indicate nel titolo). 9 Id., Population et habitat à Rome, p. 53, dove si rinvia a Id., Patrimoines immobiliers et habitat à Rome au Moyen Age: la regio Columnae du XIe siècle au XIVe siècle, in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Age», 101/1 (1989), pp. 133-175. 82

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È all’iniziativa dei più ricchi e vitali enti ecclesiastici della Roma del tempo che si deve, tanto nella prima quanto nella seconda – e più considerevole – fase di crescita urbana, la maggiore spinta all’ampliamento della città costruita, non di rado legata a vere e proprie lottizzazioni di aree più o meno estese. Certo è che, dopo il pronunciato declino primotrecentesco della città e delle circostanti campagne e le pesanti conseguenze della Peste nera 10, il ritorno dei papi da Avignone (1377) e il progressivo consolidarsi del loro potere sull’Urbe – accompagnati come furono da una ripresa demica dapprima contenuta, poi rilevantissima 11 – dovettero incidere sensibilmente sull’entità e la qualità delle superfici intramuranee non costruite, trattandosi di predisporne talune alla trasformazione in zone residenziali e di recuperarne altre malsane alla pratica agricola come richiesto dalle esigenze di una popolazione in crescita e di visitatori e pellegrini sempre 10

Di una città che, nell’ultimo quarto del Trecento, appare «decaduta, ed economicamente quasi stremata» parla L. Palermo in Espansione demografica e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, in Popolazione e società, pp. 299-326: 310. 11 Le vicende demiche della Roma tardomedievale e rinascimentale quali è stato possibile ricostruire sulla base di una documentazione assai scarna e di problematica interpretazione sono sintetizzate in: A. Esposito, La popolazione romana dalla fine del sec. XIV al Sacco: caratteri e forme di un’evoluzione demografica, in Popolazione e società, pp. 37-49; in tema vedasi anche: M. Ginatempo, L. Sandri, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990, pp. 129, 134, 137. Gli storici sono oggi propensi ad accogliere l’ipotesi proposta da K.J. Beloch per la Roma di fine Trecento secondo la quale la città avrebbe allora contato circa 25.000 abitanti (Bevölkerungsgeschichte italiens, Berlin-Leipzig 1937, II, p. 2), con un leggero incremento rispetto alla popolazione registrata dopo le pestilenze di metà secolo (Esposito, La popolazione romana, p. 38). Dopo avere probabilmente toccato i 30.000 abitanti negli anni del pontificato di Martino V, l’Urbe sarebbe passata (secondo la testimonianza del “Censimento” del 1526) a circa 60.000 un secolo dopo, ormai alla vigilia del Sacco subito, con conseguenze devastanti, per mano delle truppe imperiali, 1527 (ibidem, pp. 38-39; anche: Palermo, Espansione demografica, p. 299). Edizioni del ricordato «Censimento» in: E. Lee, Descriptio Urbis: the Roman Census of 1527, Roma 1985; Id., Habitatores in Urbe. The population of Renaissance Rome/La popolazione di Roma nel Rinascimento, Roma 2006. Di evidente rilievo per la storia del popolamento romano anche quanto, dopo una sintetica illustrazione delle fonti a disposizione, osserva Étienne Hubert, secondo il quale «cette documentation permet en particulier d’étudier l’organisation de l’espace urbain, dans ses phases d’expansion du XIe au XIIIe siècle et dans ses périodes de récession au XIVe siècle et d’analyser les composantes du marché immobilier. Ces deux thèmes offrent des éléments, qualitatifs plus que quantitatifs, de grand intérêt pour l’histoire de la population romaine au Moyen Age» (Population et habitat à Rome au XIIIe et XIV siècle, pp. 52-61: 51-52). Infine, sullo spopolamento trecentesco e di primo Quattrocento della Campagna Romana: S. Carocci, M. Vendittelli, L’origine della Campagna Romana. Casali, castelli e villaggi nel XII e XIII secolo, con saggi di D. Esposito, M. Lenzi, S. Passigli, Roma 2004, pp. 52-56. 83

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più numerosi. Preso atto che «non si è lontani dal vero se si attribuisce alla città un numero di circa ventimila residenti negli ultimi lustri del Trecento, e se ci si spinge ad una cifra poco inferiore ai sessantamila per ciò che riguarda il terzo decennio del Cinquecento» 12, Luciano Palermo osserva che «questo dato demografico così appariscente» sembra «correlato in modo immediato al notevole sviluppo economico quattrocentesco della città» 13: uno sviluppo indotto – come ormai acquisito – dall’arrivo sulla piazza romana del capitale mercantile, bancario e finanziario-speculativo di provenienza prevalentemente toscana, ma reso possibile anche per il proporsi, nel tempo, di un mercato del lavoro sempre più articolato e dinamico, creato e via via irrobustito dall’approdo in città (e non solo in ambiente curiale) di forestieri spesso provvisti di solide specializzazioni di mestiere e professionali 14, oltre che di residenti nella Campagna Romana e negli insediamenti limitrofi 15.

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Palermo, Espansione demografica, p. 299. Prosegue l’A. annotando che era, appunto, di circa sessantamila «tra romani e forestieri, il numero di coloro che nel 1527 [Sacco di Roma] subirono l’assalto delle truppe imperiali, il saccheggio e la decimazione» (ibidem). È ben nota, grazie anche a contributi recenti, l’importanza che per l’incremento demografico ebbero nella Roma del Rinascimento i flussi immigratori legati a comparti diversi dell’economia cittadina. 13 Ibidem, p. 300. A questo saggio di Luciano Palermo si rinvia anche per più generali considerazioni di carattere teorico e utili indicazioni bibliografiche in tema di relazioni fra andamento demografico e crescita economica in età preindustriale. 14 La bibliografia relativa alla presenza di forestieri in Roma e presso la curia pontificia fra XIV e XVI secolo è molto ampia. Mi limito qui a ricordare che alcuni fra i più significativi contributi di A. Esposito in materia sono riuniti nel libro della stessa Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1995; altri saggi, di vari autori, affrontano l’argomento nel già citato volume Popolazione e società e in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa-San Miniato 1994 (della prima delle due opere deve citarsi almeno: I. Ait, Mercato del lavoro e ‘forenses’ a Roma nel XV secolo, pp. 335-358). Si aggiungano: E. Lee, Foreigners in Quattrocento Rome, in «Renaissance and Reformation», 19 (1983), pp. 135-146 e i contributi dello stesso autore di cui alla nota 4. 15 Il fenomeno del trasferimento in città di appartenenti a comunità di varia consistenza del districtus Urbis (sul quale, sinteticamente: Esposito, La popolazione romana, pp. 45-47) è largamente testimoniato dai protocolli tre-quattrocenteschi dei notai capitolini; si tratta di un flusso, ancor oggi poco studiato, dal quale sembra derivare un contributo non marginale alla crescita demografica della città pontificia e il contemporaneo abbandono di molti (modesti) aggregati demici che, fra XIV e XV secolo, si produce nella Campagna Romana e nelle aree prossime. 84

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Fig. 1 – Mario Cartaro, Urbis Romae descriptio, 1575

La città e le vigne Le testimonianze disponibili non permettono per la fase cronologica all’attenzione (e neanche per il pieno e tardo Quattrocento 16), stante l’assenza di documentazione catastale e di una copertura testimoniale bastantemente intensa e compatta per contrade rurali intramuranee e di prossimità urbana (fig. 1), di pervenire ad un’illustrazione puntuale della distribuzione in tali contesti delle varie coltivazioni e dell’eventuale esistenza di terre incolte e pascolive 17; se ne può al massimo cautamente prospettare una presenza più o meno significativa in taluni ambiti rispetto ad altri, come pure (limitatamente a porzioni assai ridotte di territorio) l’ipotetica composizione in paesaggi di aleatoria ricostruzione. Al contempo, è un fatto acclarato che l’incardinamento insediativo quale i documenti 16 Sulle vigne e gli orti della Roma quattrocentesca, si veda il citato saggio di D. Esposito, Vigneti e orti. 17 Nondimeno, un recente tentativo in tal senso è stato messo in atto, sul filo di una minuta analisi dei documenti a disposizione, per la zona intramuranea compresa fra porta Appia e porta Latina (una delle più riccamente dotate di testimonianze scritte ed archeologiche) da D. Manacorda in Uomini e cose.

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fanno intravedere per il medioevo tardo si mantenga in linea di massima inalterato 18 fino agli ultimi decenni del secolo XV, «quando lo sviluppo di diverse condizioni economiche, sociali e culturali favorì una nuova e graduale trasformazione del carattere e dell’assetto del suolo di Roma, i cui effetti furono evidenti soprattutto nei secoli XVI e XVII»19; fu, infatti, sullo scorcio del Quattrocento che ville e casini rustici, frutto di investimenti cospicui, vennero riorganizzando vasti spazi del territorio entro e fuori le mura, dando solida e più meditata sistemazione a pendici collinari e a terre piane prima consacrate, con qualche discontinuità, all’agricoltura e agli incolti di vario uso (sia sufficiente ricordare a questo proposito il casino del cardinale Bessarione, non lontano dalla chiesa di S. Cesareo, sulla via Appia; la villa Carafa, poi Este, sul Quirinale; la villa Riario sul Gianicolo e la Farnesina-Chigi alla Lungara, sul Tevere) 20. 18

Ciò non significa evidentemente che alcuni luoghi e contrade intramuranee non abbiano conosciuto fra tardo medioevo e Rinascimento sensibili variazioni a livello di popolamento e assetto produttivo. Ne propone due esempi significativi, che interessano il Palatino e l’area lateranense, Hubert nella già citata sintesi Population et habitat à Rome, pp. 55-57. In particolare, per il Palatino, lo storico francese rileva come l’importante chiesa di Santa Maria in Pallara (oggi S. Sebastiano al Palatino), detentrice di un non indifferente patrimonio fondiario, abbia conosciuto l’abbandono nel Quattrocento allorché il Palatino già era deserto, «laissé aux vignes, aux jardins et aux ruines monumental» (ibidem, p. 56). Quanto al Laterano, se nel Duecento la basilica possedeva nella zona circostante (grosso modo dal Laterano al Colosseo lungo la Via Maggiore) più di duecento case, affittate o concesse in enfiteusi a privati, intorno al 1300 un quinto di tali edifici risultava abbandonato (ibidem, pp. 56-57). Il declino del Laterano (e dei suoi annessi fondiari), aggravato nel corso del secolo XIV dall’assenza dei papi da Roma, avrebbe indotto i Conservatori capitolini ad emanare nel 1386 misure intese ad arrestarlo con il concedere a chi venisse ad abitare nella zona privilegi di natura principalmente fiscale, che non ebbero, però, grande successo (ibidem, p. 57). Secondo Hubert, tali provvedimenti furono i primi ad essere emanati dalle autorità cittadine al fine di tutelare un quartiere a rischio di abbandono; di analoghe misure avrebbe poco dopo beneficiato Borgo a seguito dei saccheggi subiti per parte degli eserciti di re Ladislao (ibidem); su quest’ultima realtà insediativa: «Rome des quartiers»: des Vici aux Rioni. Cadres institutionnels, pratiques sociales et requalifications entre Antiquité et époque moderne, édités par M. Royo, É. Hubert, A. Bérenger, Paris 2008, con particolare riferimento ai saggi di A. Esposito, L. Palermo e M. Vaquero Piñeiro. 19 Esposito, Vigneti e orti, p. 208. L’ A. sostiene che «l’estensione dei terreni coltivati a vite con orti e alberi da frutto può essere valutata approssimativamente, per la fine del XV secolo, a circa il cinquanta per cento del territorio compreso all’interno delle mura; la rimanente parte per il venti per cento circa era abitato e, per il restante trenta per cento, era costituito da case con orto e da un’edilizia poco intensiva, disposta a ‘corona’ attorno all’abitato compatto» (ibidem, p. 213, nota 18); si tratta di valutazioni interessanti, ma è perfino inutile sottolineare con quanta prudenza le si debba assumere. 20 Per una bibliografia su queste ed altre ville: ibidem, p. 224, nota 48. In particolare, sul casino Bessarione, costruito fra 1455 e 1460 lungo la via Appia antica, e sulla villa vaticana 86

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Nel tardo medioevo, fra talune porte ancora praticabili della cerchia aureliana 21 e la zona sulla quale insisteva la parte abitata della città (ovvero, principalmente, l’ansa del Tevere e gli insediamenti posti sulla riva destra del fiume: Trastevere e la Città Leonina) 22 poteva misurarsi qualche chilometro di distanza 23; le terre che si trattava di attraversare da parte di chi si fosse messo in cammino erano appunto quelle coperte, con varia intensità, dagli orti e dalle vigne «intra muros», costituenti nel loro insieme – com’è stato efficacemente scritto – «un espace urbain par sa situation et rural par son paysage» 24. Si trattava di una zona nella quale ci si recava per lavorare la terra e raccogliere i prodotti, ma anche, nella stagione più calda, per trarre conforto dalla frescura, godere della compagnia di parenti ed amici ed imbandire una tavola rustica all’ombra dei molti alberi piantati ai margini della vigna e negli orti. Il diario del cittadino romano Antonio di Pietro dello Schiavo annota in data 3 settembre 1410 una circostanza che richiama quelle testè evocate, ovvero l’invito indirizzato dallo stesso Antonio a due suoi amici, Giovanni “Factinanti” e sua moglie, a recarsi con lui nella vigna di proprietà per passarvi qualche ora in compagnia. Purtroppo, nel caso specifico, la giornata si sarebbe chiusa tragicamente a seguito di un malore che nel primo pomeriggio avrebbe colto Giovanni inducendolo a tornare anzitempo a casa, dove, appena arrivato, sarebbe deceduto 25. Il maggiore addensamento dei coltivi si registrava sia nei luoghi in cui la morfologia collinare, la più idonea esposizione, lo scorrimento delle acque di superficie e la presenza di pozzi garantivano le più favorevoli condizioni di impianto, sia dove i nuclei di popolamento decentrati 26 facevano sì che, per la comodità del rifornimento domestico e per l’attivazione di piccoli traffici sul mercato locale, un’aureola di parcelle di varia estensione del Belvedere edificata negli anni di pontificato di Innocenzo VIII note sintetiche si trovano ibidem, pp. 226-228. 21 Sulle porte che si aprivano lungo le mura aureliane, un’utile nota di sintesi in Hubert, Espace urbain et habitat à Rome, pp. 98-99. 22 Secondo J.-Cl. Maire Vigueur, «l’immensa distesa verdeggiante […] degli orti e delle vigne» ricopriva «i tre quarti, se non di più, della superficie della Roma medievale compresa dentro le mura», restando per la parte abitata solo il quarto residuo (L’altra Roma. Una storia dei romani all’epoca dei comuni (secoli XII-XIV), p. 6). 23 Dalla porta Lateranense si impiegava, procedendo di buon passo, poco meno di un’ora per raggiungere la zona fittamente edificata nell’ansa del Tevere. 24 Hubert, Espace urbain, p. 84. 25 Antonio di Pietro dello Schiavo, Diari, a cura di F. Isoldi, Città di Castello 1917 (RIS², XXIV/5), p. 61; cfr. Maire Vigueur, L’altra Roma, p. 21. 26 Erano presenti, come noto, in buon numero; a tal proposito: Hubert, Espace urbain, pp. 78-83 (per l’antefatto dei secoli X-XI); Esposito, Vigneti e orti, p. 206. 87

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cingesse da presso le case, con proiezione spaziale di profondità diversa. Basiliche, monasteri, agglomerati abitativi periferici, ubicati magari in prossimità degli acquedotti 27, dei numerosi pozzi, di antichi edifici e delle porte di maggior transito, contribuivano, dunque, con le loro appendici fondiarie, a disegnare la trama irregolare di una campagna intramuranea di evidente peculiarità nel panorama urbano d’Italia. Degli insediamenti che, fuori della grande ansa del Tevere, costellavano gli spazi «infra moenia», il maggiore era quello formatosi intorno al Laterano e alla «Via Maior», il quale sembra aver raggiunto, sotto diversi aspetti, un’organizzazione di vita pienamente autonoma rispetto all’area che, a nord, ospitava il nucleo principale della città “costruita” 28. Nella documentazione tardotrecentesca, un ruolo certo non trascurabile era anche quello testimoniato, nella zona del rione Monti, per il «burgus Sanctae Agathae», popolato da vignaioli e altri operatori del settore agricolo e pastorale 29. La documentazione scritta fin qui esaminata dagli studiosi lascia intendere che l’agricoltura romana «intra muros» assumesse, nel tardo medioevo, un ruolo di primo piano con esclusivo riferimento a due settori della produzione: gli orti e le vigne, mentre tutto il resto (seminativi 30, terreni a specializzazione arboricola, incolti ad uso pastorale etc.) rivestiva nell’insieme un’importanza Sugli acquedotti superstiti come riferimento, nel loro dispiegarsi, per l’aggregazione di piccoli insediamenti abitativi e la costruzione di isolate dimore (con speciale attenzione per i secoli X-XI), vedasi Hubert, Espace urbain, pp. 75-79; vi si tratta, in particolare, dell’acquedotto di Claudio che entrava in città per la porta Maggiore e riforniva di acqua la zona del Laterano e del Celio, favorendo la nascita, nei pressi della porta e nella contrada «Decennia», vicino a Sant’Erasmo al Celio, di due villaggi, nonché delle acque «Marcia», «Tepula» e «Iulia», cui si doveva l’approvvigionamento idrico dei colli dell’Esquilino e del Quirinale: ibidem, pp. 76-77. Dal canto suo, la «Forma Sabbatina» si trovava ad attraversare il popoloso quartiere della Città Leonina, la «Forma Virgo» il Campo Marzio (ibidem, pp. 77-78). 28 Pertiene alla contrada del Laterano, nei pressi del monastero dei SS. Sergio e Bacco, anche un «castrum»: «en 1285, le testament d’un certain Petrus Landulfi, habitator in Urbe, in castro Sancti Sergii contrate Laterani, énumère ainsi plusieurs maisons et un jardin sis à l’intérieurs dudit castrum» (Hubert, Espace urbain, p. 85). 29 Sulla denominazione «burgus» per gli insediamenti delle nazioni straniere (Sassoni, Frisoni) in prossimità della basilica petrina, vedasi ibidem; nella stessa zona anche un «burgus Naumachiae» e un «burgus S. Martini» (ibidem). La denominazione «finit d’ailleurs par s’étendre à l’ensemble de la civitas qui prit le nom de Borgo lorsque, au XVIe siècle, elle devint le quatorzième rione de Rome» (ibidem, con riferimento a U. Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma 1939, p. 266). Ancora, se alla fine del secolo XII un borgo è documentato in prossimità della «regio Sancti Angeli», per la seconda metà del Duecento giunge menzione di un «burgus novus» ubicato non lontano dall’area del Laterano (Hubert, Espace urbain, p. 86). 30 Per un periodo che precede quello qui considerato, puntuali osservazioni sulle «terrae sementariciae [intramuranee], que les doigts d’une main suffisent à compter», ibidem, p. 82. 27

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limitata. In ambito intramuraneo superfici cerealicole e terre sode erano perlopiù giustapposte alle vigne entro la stessa unità fondiaria, costituendo però le seconde, quasi sempre, l’elemento di gran lunga più rilevante sotto il profilo colturale ed economico. Difficile è, peraltro, dire – a meno che non ci si accontenti di una valutazione meramente impressionistica – quale rapporto quantitativo sussistesse fra l’estensione complessiva delle parcelle viticole e orticole ubicate entro le mura e quelle esterne, che oltre la cerchia aureliana davano vita, egemonizzandolo, al paesaggio delle colture intensive; né meglio vanno le cose quando ci si interroghi sullo sviluppo che i sunnominati settori della produzione abbiano registrato nei secoli qui all’attenzione, stante anche l’incerta conoscenza della curva demografica di Roma nella fase centrale e tarda del medioevo31 (curva segnata, com’è noto, da vicende di evidente peculiarità: il periodo avignonese del papato, gli eventi bellici del “Grande scisma”, i flussi migratori variamente motivati etc.). Aldilà di tutto ciò, può essere di qualche interesse rilevare come il dossier documentario che sta alla base di queste pagine consenta di calcolare con buona approssimazione che i riferimenti a vigne intramuranee sono meno di 1/3 di quelli che riguardano le vigne «extra moenia», costituenti la prima fascia dei coltivi che vediamo dispiegarsi fuori porta 32. Su quest’ultime spenderemo qualche parola cominciando con l’osservare che le fonti esaminate le rivelano in buona misura ubicate nell’ambito territoriale relativo alla proiezione esterna delle porte Appia, S. Paolo, Pinciana e Latina, con minore incidenza nei territori afferenti ad altre porte. Beninteso, il fatto che ciò possa dipendere dal radicamento operativo dei notai i cui protocolli ci sono pervenuti (ed abbiamo esaminato in questa circostanza) non può essere ignorato, anche perché non mancano 31

Brevi notazioni di riferimento demografico supra alle note 11 e 12. Anche per meglio contestualizzare questa situazione, può essere utile riportare qui quanto viene proposto, sia pure per il XIII secolo, da S. Carocci e M. Vendittelli in ordine alle fasce dei coltivi extramuranei, secondo una numerazione che non tiene conto della fascia delle vigne: «Uscendo dalla cerchia di vigne che circonda le mura cittadine ed entrando nella vasta area dominata dagli arativi, possiamo individuare dapprima una zona, larga di massima seiotto chilometri, largamente suddivisa in casali, pedice e appezzamenti a seminativo di varia dimensione. A questa prima fascia ne succede una seconda, di grandezza variabile ma di norma compresa fra i quattro e i sei chilometri, che ci appare in primo luogo connotata dalla compresenza di casali e di castelli. Infine giunge la fascia esterna, caratterizzata da un forte numero di castelli, ormai nettamente prevalenti sui casali, i quali peraltro continuano ad essere presenti, talvolta anche come forma di organizzazione di una parte del territorio del castello» (L’origine della Campagna Romana, p. 34). Risulta pienamente evidenziata dall’opera testè citata l’importanza della dinamica castelli/villaggi/casali (con i suoi riflessi sul piano agrario, economico e sociale) per la genesi pieno e bassomedievale della Campagna Romana e degli aspetti che la connoteranno fino a tempi non troppo lontani dai nostri.

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di certo indicazioni extra-dossier di una forte presenza delle vigne fuori porta Lateranense, porta S. Lorenzo 33, porta del Popolo, porta Castello e sulla dorsale collinare che comincia a Nord con Monte Mario, prosegue con il Colle Vaticano, estendendosi poi al Gianicolo e alle rimanenti alture ultratiberine. Fuori porta del Popolo, lungo la via Flaminia e la via Salaria (e in molti altri luoghi di ambito romano e non) trovavano posto le numerose vigne del monastero di Santa Maria in Campo Marzio 34. In località «Prata» (Prati), cui si accedeva passando per porta Castello, le vigne si estendevano fino a lambire la riva del Tevere 35. Di rilievo è anche il fatto che le citazioni che interessano i terreni coltivati a vite pongano di fronte ad elementi non secondari della topografia viticola suburbana e, altresì, consentano la ricostruzione di alcuni aspetti dei paesaggi in cui le vigne erano inserite. Fuori porta Appia si trovavano il cosiddetto «casale delle vingie» e la «contrada que dicitur Vallis Apie» 36, che, con Fra le contrade viticole fuori porta S. Lorenzo vi sono quelle dell’Acqua Tuzia, di «Mons Sancti Ipoliti», «Monte de Rose» e «Malabarbara»; per l’ubicazione delle prime due: C. Wickham, Roma medievale. Crisi e stabilità di una città, 900-1150, Roma 2013, p. 123. Come già solidamente acquisito, con il termine vasca si indicava nei documenti dell’epoca il contenitore entro il quale si raccoglieva l’uva per poi procedere alla pigiatura; essa non poteva, dunque, essere definita come «pressa da vino» (così invece ibidem, p. 120); anche i «canistra» (o «canistri») di uva, che sovente rientravano nel canone cui i concessionari erano tenuti, erano veri e propri canestri, non «barili» come viene detto ibidem. Sulle misure del canestro romano, v. infra, nota 124. 34 Cfr. E. Carusi, Cartario di S. Maria in Campo Marzio (986-1199), Roma 1948, pp. 24-29. 35 Sulla viticoltura in tale area, due testimonianze fra le molte pervenute in Il protocollo notarile di Lorenzo Staglia (1372), a cura di I. Lori Sanfilippo, Roma 1986 (d’ora innanzi Staglia), doc. 46, pp. 54-55 (1372); doc. 123, pp. 137-138 (1372). Località viticole fuori porta Castello erano pure quelle di «Gaiano» (anche «Gagiano»; Roma, Archivio storico capitolino, Archivio urbano, Sez. I, 649, 4-14, not. Paolo de Serromanis (d’ora innanzi Serromani): 649, 4, cc. 20v-22r, 1359); «Mons Marie» (Il protocollo notarile di «Antonius Goioli Petri Scopte» (1365), a cura di R. Mosti, Roma 1991 (d’ora innanzi Goioli), doc. 125, pp. 207-209, 1365) e Varannecta (ibidem, docc. 76-77, pp. 123-127, 1365). Nonostante l’omonimia, non coincide con quest’ultima contrada quella di cui si ha notizia, a seguito di una transazione pur essa ‘viticola’, ibidem, doc. 127, pp. 210-212, dove il bene venduto risulta ubicato «extra portam Pertusi», la più occidentale fra le porte che si aprivano sulla cinta muraria della Città Leonina; al riguardo: Hubert, Espace urbain, dépliant 1. 36 Serromani, 649, 10, cc. 26v-27r (1369); 11, cc. 38v-39v (1371); tra i confini della valle Appia è segnalato il «rivus Apie». Per quanto concerne la presenza di vigne nell’ambito delle terre afferenti ai casali, è da osservare che essa era maggiore nella fase cronologica corrispondente alla genesi di tale azienda agraria (la fase dell’ “incasalamento”, fine XI-XIII secolo), tendendo ad attenuarsi in seguito col venir meno della funzione residenziale del casale (sull’argomento: Carocci, Vendittelli, L’origine della Campagna Romana, p. 15 e nota 7, con ampia esemplificazione documentaria; anche: ibidem, pp. 19, 21, 137, 174, 184). Nondimeno, per ulteriori testimonianze tardotrecentesche di vigne in casale: Serromani, 33

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l’altra contrada del «Domine quo vadis?» 37, dovevano costituire altrettante località di forte presidio viticolo 38, adeguatamente munite, peraltro, dei necessari canneti 39: non è un caso che in un’isolata circostanza si vieti all’affittuario di alcune terre incolte di coltivarvi canne, probabilmente per una disponibilità delle stesse considerata dal locatore già sufficiente 40. In un angolo di queste campagne apprendiamo, altresì, ergersi la torre di S. Tommaso 41, mentre risulta confinante con il «tenimentum Piscarie» la contrada di S. Sebastiano 42. Nelle vicinanze, fuori porta Latina, è dato individuare i luoghi viticoli del «mons Olimeri», di Fontana Vergine e della «valle de Accia», dove una vignola di una pezza ridotta a sodo conservava al suo interno le vasche per la spremitura (di utilizzazione comune con altri viticoltori?) 43. Quanto alla zona suburbana fuori porta S. Paolo, il «puzzle» di parcelle viticole, sovente arborate, faceva spazio alla proprietà frammentata di molte chiese e monasteri romani 44, fra i quali il monastero dei SS. Alessio e Bonifacio all’Aventino. Quest’ultimo possedeva, appena oltre la porta («retro sunt menia Urbis»), in località «La Penna Nova», una 649, 11, c. 64rv (1371); anche iI casale in questione è posto «extra portam Apiam»; ibidem, 649, 11, cc. 66r-72r (1371): divisione in due parti del casale «de Marronibus» già «Gripta Scura», posto «extra pontem Salarium»; presenza di vigne e vasche per la pigiatura. 37 Ibidem, 649, 10, cc. 19v-20r (1371); ibidem, 12, c. 56v (1372); ibidem, cc. 85v-86v (1372) vigna di 4 pezze «cum parte turris existente in ea». 38 Fuori porta Appia da segnalare anche la località «La torre de Peroli» con le sue vigne (Goioli, docc. 152-153, pp. 256-260). Altre contrade viticole afferenti, nella seconda metà del XIII secolo, alla medesima porta sono segnalate infra, alla nota 82. 39 Un canneto dell’estensione di due pezze affianca in un caso una vigna di analoga superficie; fra i confinanti «uxor Petri canicatoris» (Serromani, 10, cc. 21v-23r, 1369); ad una vendita di canne localmente prodotte si ha invece riferimento in 649, 11, cc. 50v-51r (1371). 40 Ibidem, cc. 38v-39v (1371): divieto di «cannetum mictere seu plantare». 41 Ibidem, 649, 8, cc. 92v-93r (1366). Per quanto non possa darsi per certa la connessione con la denominazione della torre, è da segnalare che la chiesa di S. Tommaso «in Formis», prossima all’attuale Villa Celimontana, a lungo beneficiò della «possession de la porta Latina, cum omni portaticu suo et redditu qui a transeuntibus solet dari», a ciò aggiungendosi con Onorio III il controllo della porta Appia (Hubert, Espace urbain, p. 104). 42 Serromani, 649, 11, cc. 49r-50r (1371). Di una località denominata porta Libera si ha menzione, per lo stesso settore, ibidem, 649, 14, cc. 40r-42v (1379). 43 Rispettivamente: Roma, Archivio capitolino, Notai, Sez. I, 763, 1-5, Lello di Paolo de Serromanis (d’ora innanzi Lello di Paolo Serromani): 763, 1. 4, cc. 26r-27r (1398); ibidem, 1. 3, cc. 8v.-10r (1391). 44 Ovviamente, non mancava neppure la proprietà di singoli cittadini; un es.: nel 1377 tale Buzio di Pietro vi deteneva il «dominium eminens» su una vigna di quattro pezze e mezza che gli valeva, come consueto, la quarta parte della produzione (Serromani, 649, 13, cc. 25r-29v). 91

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vigna di circa 5 pezze provvista di «domo coperta», vasche, un tino e un canneto 45, mentre in contrada «lo Paviglione» gli apparteneva un terreno di più modeste dimensioni 46. In area collinare, nel luogo detto «lo monte de Castangniola», una vigna dell’estensione di 2 pezze apparteneva alla chiesa di Santa Maria «de Caccabariis», posta nel rione Regola 47. Un contributo di informazioni più di altri ricco e vario viene dal pur limitato quadro di testimonianze che interessa le vigne fuori porta Pinciana. Non mancano attestazioni di parcelle ubicate «iuxta portam», come quelle «in loco qui dicitur Cantomuro»48, mentre di un’altra è detto che ha come elemento di confine il «vicolo dell’Olmo» (ovvero una componente secondaria – «vicolus» – della rete viaria rurale) 49. Per altri appezzamenti è indicata, per contro, una distanza non indifferente dalla porta, come nel caso di una vigna di 5 pezze sita presso ponte Salario 50. Per il medesimo settore periurbano (del quale certo non costituiva una peculiarità) è dato individuare nei minutari notarili casi di separata proprietà del suolo e delle viti 51, nonché l’esplicitazione – di rado ricorrente – di situazioni in cui i «dominia» («eminens» e «utile») sono riuniti nelle mani di un unico detentore, titolare – viene detto – della «veram et mundam proprietatem» 52. Alla proprietà nelle mani di monasteri quale quello di Sant’Agnese 53 si affianca anche in questa parte del suburbio quella di cittadini che, come nel caso di Ceccolello Cafari, mostrano di servirsi di manodopera salariata per il trasporto con asini del 45 Ibidem, 46

7, cc 9r-10v (1364). Lello di Paolo Serromani, 1. 4, c. 6v. (1398); si tratta di una vigna di due pezze. Per altra proprietà di Sant’Alessio: Serromani, 7, cc. 66v-69r (1364). 47 Lello di Paolo Serromani, 763, 1. 3, cc. 5v-6v (1398). Sulla chiesa menzionata, cfr. Staglia, p. 140, nota 2. 48 Serromani, 649, 11, c. 31v (1371). 49 Ibidem, 8, cc. 47v-49v (1366). 50 Ibidem, 7, cc. 20r-21v (1364). 51 Ibidem, 7, cc. 20r-21v; ibidem, 8, cc. 49v-52v (1366); ibidem, 10, cc. 95v-96v (1369); anche: Staglia, doc. 29, pp. 33-35 (1372); doc. 46, pp. 54-55 (1372). Per una trattazione storico-giuridica dell’argomento: C. Giardina, La cosi detta proprietà degli alberi separata da quella del suolo in Italia, in «Atti della Reale Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo», ser. IV, 2 (1942), pp. 5-280; cfr. anche A. Solmi, Il diritto di superficie nei documenti italiani del medioevo, in «Rivista di diritto civile», 4 (1915), pp. 472-503. 52 Serromani, 649, 10, cc. 12v-14r. 53 Da segnalare che nel 1244 il monastero di Sant’Agnese prende l’iniziativa di lottizzare una «pedica terrarum», ubicata non lontano dallo stesso e fino allora destinata a seminativo, in parcelle da affidare «ad pastinandum» in enfiteusi perpetua a cittadini romani, evidentemente rispondendo con ciò allo stimolo che veniva dal mercato ad incrementare la produzione vinicola (Carocci, Vendittelli, L’origine della Campagna Romana, p. 35). 92

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mosto dai tini della vigna alle cantine intramuranee 54 o per altre finalità quali la lavorazione della vigna o la custodia della stessa, specialmente al tempo delle uve mature 55. Indubbiamente la notevole domanda di vino propria del mercato romano56 si accompagnava alle sollecitazioni dell’autoconsumo nel sostenere un’attività produttiva di crescente incidenza nella vita cittadina. L’importanza annessa alla pratica viticola e la considerazione di cui era oggetto sono, del resto, chiaramente leggibili nella redazione tardotrecentesca degli statuti capitolini (1363): del pari che quello di una casa, il possesso di una vigna vi è assunto a segno del radicamento del «forensis» e posto come condizione per il conseguimento da parte sua dello stato giuridico di «civis»: «[…] nullus forensis habens privilegium citadinantiae habeatur et reputetur pro cive seu gaudere possit privilegio civium Romanorum» se non possegga «domum vel vineam, videlicet domum in Urbe et vineam prope Romam per tria miliaria», ed abiti, oltre a ciò, per tre anni in città con la sua famiglia 57. Spingendosi d’un balzo alla metà del secolo XV, un’altra testimonianza, di rilevanza particolare, si impone all’attenzione in ordine alla diffusione delle vigne in area romana: si tratta del ben noto e controverso brano de La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone 58, in cui si prospetta, peraltro dubitativamente («forsa verso le 20.000 vigne»), per il tessuto viticolo urbano ed extraurbano di Roma 59, la presenza di circa 20.000 vigne, delle quali 200 soltanto sarebbero sopravvissute alla catastrofica gelata del 13 aprile 1445. Non è certo facile valutare l’attendibilità delle cifre proposte da Paolo di Lello, ma è tutt’altro che inverosimile che fra coltivi intra ed extramuranei si arrivasse se non proprio alle 20.000 vigne di cui sopra a una quantità delle stesse non molto inferiore. Serromani, 649, 6, c. 46r (1363); ibidem, 649, 8, c. 56v (1366); ibidem, 649, 12, c. 54v (1372). 55 Da collegare alla necessità di un’adeguata vigilanza sulle vigne è l’elezione (confermata una settimana più tardi) di un «prior» e di un «patarens» da parte dei massari della «clusa Sancti Angeli» , Roma, Archivio di Stato (d’ora innanzi ASR), Collegio dei notai capitolini (d’ora innanzi CNC), 1236, Marino di Pietro «Milçonis» (d’ora innanzi Marino di Pietro «Milçonis»), c. 310r, 1357). 56 In merito: A.Cortonesi, Il lavoro del contadino. Uomini, tecniche, colture nella Tuscia tardomedioevale, Bologna 1988, pp. 86-88, 90-93; per il Quattrocento, la trattazione di Lombardi, Dalla dogana alla taverna, con particolare riferimento alla «parte seconda» del volume. 57 Statuti della Città di Roma, a cura di C. Re, Roma 1880, III, 42, p. 274. 58 Paolo di Lello Petrone, La Mesticanza, a cura di F. Isoldi, Città di Castello 1910 (RIS², 24, 2), p. 52. 59 Personalmente non ho esitazioni a ritenere che l’espressione «in tutta terra de Roma» si riferisca tanto alle campagne urbane che a quelle extramuranee. 54

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Come si è visto poco sopra, alla grande quantità di atti trecenteschi aventi per oggetto vigne fuori le mura, sovente disposte, per una diversa profondità e ampiezza, lungo le antiche vie consolari, si affianca un numero molto più contenuto di testimonianze relative ad appezzamenti ubicati entro la cerchia muraria cittadina. Tali attestazioni lasciano intravedere, appena fuori la città «costruita», nelle varie direzioni, un irregolare susseguirsi di parcelle spesso estese fin sotto l’anello murario, quasi a realizzare fra spazi interni e campagna un trapasso senza cesure. Fondi ecclesiastici editi ed inediti, inventari patrimoniali di varia consistenza e, soprattutto, a partire dalla metà del Trecento, i protocolli notarili (pur essi in parte disponibili in edizione) consentono per il periodo qui considerato di cogliere non superficialmente talune caratteristiche della presenza viticola urbana. Può ben dirsi che essa marchi, non molto diversamente dagli orti, ogni settore della vastissima distesa di terre delimitata dalla cerchia aureliana: dagli spazi, in buona parte edificati, dell’ansa del Tevere (dove il viticoltore approfittava delle superfici interstiziali meno sacrificate), ai settori collinari («montes») di Nord/Nord-Est, alle aree planiziali (non sempre di modesta estensione) in cui il paesaggio urbano e periurbano andava talora sfumando verso il Tevere o l’aperta campagna extramuranea. Tutto ciò nel quadro di un processo, non privo di battute d’arresto60, che nei secoli centrali e tardi del medioevo vide, da un lato, la città “di pietra” espandersi entro i terreni contigui, magari erodendo le superfici viticole e ortive in questo senso più esposte, dall’altro, le colture intensive permanere qua e là (nella forma prevalente di vignole, pergolati, orti di sussistenza, giardini etc.) entro le zone più fittamente urbanizzate e, soprattutto – come già sopra si è detto – avanzare entro le vaste aree del «disabitato» intramuraneo, valorizzandole con i nuovi impianti e le pur elementari strutture di supporto: vasche, «vascalia» e tini per la spremitura delle uve 61, capanne per il ricovero degli attrezzi, spazi protetti all’ombra di antichi ruderi, grotte multifunzionali etc.62 Alcune contrade interne alla cerchia muraria aureliana ricorrono più volte nei documenti come luogo di pratiche viticole; ricorderemo fra di 60

Si veda sopra il testo all’altezza delle note 7-15. Sull’organizzazione delle vendemmie e il sistema di spremitura in area romano-laziale, mi sia consentito rinviare a Cortonesi, Terre e signori, pp. 89-93. Per una più generale disamina di riferimento italiano: Id., Agricoltura e tecniche nell’Italia medievale. I cereali, la vite e l’olivo, in Id., G. Pasquali, G. Piccinni, Uomini e campagne nell’Italia medievale, a cura di A. Cortonesi, Roma-Bari 2002, pp. 191-270: 232-240. 62 Mi limito a segnalare alcune grotte poste entro vigne cittadine nelle quali trovano riparo paglia e fieno (Serromani, 649, 14, cc. 33r-37v, 1379). 61

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esse quelle di «Antingiano»(«iuxta muros Urbis»)63 e del Vivaro64, nonché le pendici collinari che ospitavano il rione Monti 65. Di un addensamento di vigne si ha traccia anche per la località intramuranea di Grotta Mazzetta 66, dove le parcelle, almeno per la parte di cui risulta proprietaria la chiesa di Sant’Andrea «de hospitali», sono protette da una recinzione con cancello 67, utilizzabile – quest’ultimo – da parte di tutti i direttari. All’Arcione è segnalato, inoltre, un quartiere viticolo denominato «lo Versieri»68. Sistemi di coltivazione, paesaggi, proprietà Un impianto a filare stretto e «sostegno morto» (pali, canne, pertiche, forcelle) doveva connotare, con poche eccezioni, le vigne cittadine, la cui limitata estensione spingeva ad un serrato impiego dello spazio, come pure quelle suburbane. Si spiega con ciò la ricorrente presenza ai margini delle vigne di canneti 69, venduti o locati insieme agli appezzamenti viticoli, ma talora anche oggetto di transazioni specifiche70. La tecnica della vite maritata all’albero 71 doveva essere praticata ben raramente, ma certo non era sconosciuta. È possibile la si riscontrasse qualche volta in più nelle parcelle viticole extramuranee, meno avare di spazio, come pure, all’opposto, nei pergolati 63 Ibidem, 6, 23v-24v (1363); ibidem, 7, 24r-25r (1364); ibidem, 9, cc. 78r-80v (1368); altre vigne si trovano «in monte Sancti Thome» (ibidem, 6, cc. 23v-24r). Sul luogo detto «Antingianum» (da «Antinianum»), prossimo alla porta S. Sebastiano, v. Hubert, Espace urbain, p. 66 e nota 11, con riferimento a Gnoli, Topografia, p. 7. 64 Ibidem, 6, cc. 6v-8v (1363); ibidem, 11, cc. 18r-19r (1371). 65 Ibidem, 6, cc. 59r-61r (1363). 66 Marino di Pietro «Milçonis», cc. 254r- 323v: 256r-257r. (1357). 67 Cancelli e serramenti erano all’attenzione della normativa statutaria capitolina: Statuti della Città di Roma, II, 87, «De cancello vinearum et de euntibus per alienam vineam» (p. 137). 68 Serromani, 649, 14, c. 37rv. 69 L’espressione «cum modico canneto» segnala in un caso la modesta estensione dello stesso (ibidem, 9, cc. 57v-58v, 1368). Una vigna poteva essere corredata anche di più canneti; si veda ad es. Lello di Paolo Serromani, 763, 1. 2, cc. 5v-6r (1388). All’atto di dividersi il dominio utile sulle vigne possedute dal defunto padre, il macellaio Meolo di Graziano, cinque fratelli decidono di lasciare ad uso comune l’annesso canneto (Marino di Pietro Milçonis, cc. 256r-257r, 1357). Nel 1388 una vigna ubicata nel rione Monti è venduta «cum uno canneto integraliter suo et cum tertia parte alterius canneti» (Lello di Paolo Serromani, 763, 1. 2, cc. 5v-6r). In definitiva, il canneto doveva costituire un elemento non trascurabile dell’ordinamento colturale intra ed extramuraneo. 70 Serromani, 649, 6, cc. 54r bis-55r (1363): locazione novennale di canneto. 71 Su di essa, in termini generali: Cortonesi, Agricoltura e tecniche, pp. 226-229.

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che ombreggiavano gli spazi esterni delle «domus» urbane, specialmente delle residenze più confortevoli. Particolarmente ambite per l’impianto di viti dovevano essere le pendici collinari, fossero dentro o fuori la città. Uno degli affreschi con i quali Antoniazzo Romano 72 (o suoi collaboratori dallo stesso guidati, come oggi si è più inclini a pensare) 73 ebbe a decorare l’oratorio del monastero femminile di Tor de’ Specchi, ispirandosi a storie della vita di s. Francesca Romana (Francesca Bussa), offre l’occasione di spendere qualche parola sui nostri argomenti 74. Si tratta della raffigurazione delle oblate nella circostanza della visita ad una vigna di loro proprietà sita sulla strada che dalla basilica di S. Paolo recava all’omonima porta (denominata anche «porta Ostiensis»): sullo sfondo, sopra una collinetta, alcuni filari disposti a cavalcapoggio (o tagliapoggio) 75 e separati da un interfilare piuttosto ampio valorizzano le pendici dell’altura 76; a dominare il paesaggio, fuori della vigna, alcuni alberi svettano in solitudine (fig. 2). Vendite, locazioni, testamenti, obbligazioni dotali, inventari «post mortem» offrono informazioni preziose tanto sull’ordinamento colturale quanto sull’assetto della proprietà viticola, giungendo talora a proporne dettagli di notevole interesse. Le parcelle a vigna ubicate entro le mura hanno un’estensione molto contenuta, che si colloca in netta prevalenza fra una e tre pezze, per una dominante attestata sulle 2 unità (una pezza=2640 m₂) 77. Se aldilà della cerchia la situazione non cambia molto, vi si trova, tuttavia, un poco rafforzata la presenza di terreni della superficie di 3/4 pezze, né, soprattutto, 72

Su Antonio Aquili, detto Antoniazzo Romano, e la sua bottega mi limito a rinviare al recente contributo di A. Cavallaro, La bottega di pittura degli Aquili nel Quattrocento romano: struttura, attività e organizzazione, in Lavoro, arti e mercato a Roma in età rinascimentale, a cura di A. Cortonesi, A. Modigliani, Roma 2019, pp. 1-21 (con ampia bibliografia). 73 Ibidem, p. 7. 74 Sono perfettamente consapevole della prudenza richiesta dal ragionare su fonti iconografiche quando l’attenzione si indirizzi ai paesaggi; non rinuncio, tuttavia, a queste brevi osservazioni sull’affresco della scuola di Antoniazzo, troppo suggestivo per essere totalmente ignorato. 75 In collina le tecniche di impianto che vennero adottate furono di vario tipo, distinguendosi per la diversa sistemazione dei filari rispetto alle linee di pendenza. Il girapoggio, il cavalcapoggio, il rittochino sono largamente testimoniati dalle fonti iconografiche; l’ultimo dei sistemi citati ricorre spesso, anche se sconsigliato per il fatto di causare il ruscellamento delle acque piovane e il conseguente dilavamento dei suoli. 76 Sul margine inferiore della vignola sembra d’intravedere alcune piccole piante arboree (forse olivi?). 77 Cfr. M. Dykmans, Du Monte Mario à l’escalier de Saint-Pierre de Rome, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 80 (1968), pp. 547-594: 570, nota 2. 96

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Fig. 2 – Scuola di Antoniazzo Romano, Sosta alla vigna rientrando dalla basilica di S. Paolo, Roma, Oratorio del Monastero delle oblate di Tor de’ Specchi

mancano – trattandosi, beninteso, di casi eccezionali – vigne di estensione anomala, superiore alle 10 pezze quando non addirittura pari a più decine (per un massimo che mi risulta essere di 44). Come si vede, tanto all’interno che all’esterno delle mura, prende corpo, dal concorso di vigne e di orti, un autentico «puzzle» le cui tessere, sovente minuscole, sono scandite dalla fitta rete delle vie vicinali e dei fossati, e non di rado dal percorso delle strade consolari. Quando poi si passi a considerare, specialmente sulla scorta dei protocolli notarili trecenteschi, il valore riconosciuto agli appezzamenti nei contratti di compravendita (quasi sempre, non lo si dimentichi, aventi per oggetto il solo dominio utile), verrà facile constatare quanto esso vari largamente da parcella a parcella nonostante sia dichiarata talora la medesima estensione. Se nel caso delle vigne urbane, il costo oscilla fra i 10 e i 25 fiorini a pezza (con punte anche di molto superiori), non troppo diversa è la forbice che si riscontra per quelle ubicate «extra moenia»: a spiegare il fenomeno una serie di fattori che vanno dalla distanza dalla città 78 e dalle strade da utilizzare per il trasporto dell’uva e del mosto, al numero delle viti impiantate, alla potenzialità produttiva del singolo terreno e alla presenza 78

Quanto alla distanza delle parcelle dalla città (ovvero dalla cantina del proprietario), è da considerare che la stessa incideva sui costi di produzione tanto per le spese (variabili) del trasporto, quanto per il maggior rischio che un lungo tragitto comportava per le qualità organolettiche del mosto (o del vino) rispetto a quello cui si andava incontro in caso di una maggiore vicinanza. 97

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«intra vineam» (o in prossimità della stessa) dei canneti e delle vasche per la spremitura, come pure di rustici edifici da utilizzare come temporaneo ricovero della manodopera stagionale o come riparo per gli attrezzi 79. Di maggiore incidenza sul prezzo, nei pochi casi in cui la si registri, è la presenza entro la vigna di una «domus» in grado di offrire al proprietario e ai suoi eventuali ospiti le condizioni per un soggiorno confortevole 80. Quanto alla proprietà delle parcelle viticole, resta da evidenziare come risulti in larga parte nelle mani degli enti ecclesiastici (chiese, basiliche, monasteri), pur risultando certo non trascurabile la quota detenuta da esponenti laici di vario livello sociale: artigiani e commercianti di differente specializzazione accanto a nobili di più o meno elevato lignaggio 81. Per la seconda metà del Duecento e gli esordi del secolo successivo, gli inventari Frangipane mostrano quanto ricorrente fosse la destinazione viticola dei terreni in proprietà del capitolo lateranense, ubicati prevalentemente nel tratto di campagna entro e fuori le porte Appia, Metronia e Latina 82; agli inizi del Trecento, si contano fra i beni dell’ente circa 210 pezze di vigna, 79 A far lievitare il prezzo poteva anche contribuire il particolare vantaggio che dalla transazione poteva ritrarre l’acquirente, come nel caso del possibile accorpamento della parcella ad altra confinante da quest’ultimo posseduta; per un esempio fra i molti possibili: Goioli, doc. 117, pp. 194-195 (1365; vigna ubicata fuori porta S. Giovanni in Laterano). 80 Al riguardo, cfr. anche, in questo volume, per la fase cronologica fra XV e XVI secolo, il saggio di D. Lombardi. 81 Per J.-Cl. Maire Vigueur, «eccetto gli emarginati, i servitori e i braccianti, si può dire che non vi sia romano che non possieda il suo pezzetto di terra coltivato a vite» (L’altra Roma, p. 18). 82 In particolare, l’inventario duecentesco (1261-1264) segnala «extra portam Appiam» vigne site «ad Criptam Rubeam (o Rogiam), in Valle Appie, ad Formellum, in Monte Cepollario, in Accia, ad Cretacium, in Monte Calcatorio; extra Portam Latinam», e vigne «in Pantano»; all’interno delle mura, terreni a vite il capitolo possiede «ante ecclesiam S. Iohannis ante Portam Latinam» e, dinanzi la medesima porta, «iuxta ecclesiam S. Iohannis in Oleo» (Ph. Lauer, Le Palais de Latran. Étude historique et archéologique, Paris 1911, pp. 499-500, 502-503; per Porta Metronia, p. 500; da segnalare che quest’ultima compare nei documenti con varia denominazione: «porta Metronii, porta Metrioli, porta Metreoli» ecc.). Osserva Étienne Hubert che l’espressione «extra portam» seguita dal nome della stessa era utilizzata dai notai per appezzamenti ubicati «dans un rayon d’une dizaine de kilomètres, voire d’une vingtaine, autour de Rome; plus loin ce n’était plus la ville qui leur servait de repère» (Espace urbain, p. 68). Sul dossier documentario relativo alle proprietà del capitolo lateranense, da me parzialmente utilizzato più di trent’anni fa (Terre e signori, pp. 79-80) e qui ripreso, è intervenuta di recente la riflessione di D. Manacorda (Uomini e cose) che si è indirizzata, fra l’altro, alla topografia dei possessi, alla loro estensione, alla conduzione delle parcelle e alla sua eventuale continuità ‘familiare’, alla variegata estrazione sociale degli utilisti e alla loro residenza (perlopiù legata ai rioni vicini all’areale appio-latino), ai cambiamenti che per tali aspetti si registrano sul lungo periodo.

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per un’estensione complessiva di oltre 55 ettari 83. Poco più tardi, negli anni ’20 del secolo, le vigne appartenenti all’ospedale di Santo Spirito in Sassia risultano in numero di 110, arrivando a misurare nell’insieme circa 200 pezze 84. Professionisti, artigiani, laboratores sono perlopiù menzionati come detentori del «dominium utile» sulle diverse vigne e animatori di quel mercato della terra che primariamente interessa tale dominio, assai meno quello eminente, connotato fuor di dubbio da una certa staticità. Fermo restando il diritto del proprietario alla percezione del canone pattuito (per solito un quarto del mosto ricavato), l’utilista potrà procedere ad alienare il diritto di sua pertinenza senza dover richiedere l’assenso del locatore 85, che vediamo solo di rado, nella circostanza dell’alienazione, incassare una modesta somma di denaro (il cosiddetto «commino») 86. È dagli atti relativi alle transazioni appena ricordate, come pure dai contratti di locazione, che si hanno informazioni circa l’assetto colturale delle vigne, caratterizzato dalla frequente presenza di «arbores fructiferae et infructiferae», di vasche per la vendemmia, di canneti posti perlopiù ai confini dell’appezzamento, raramente di vincheti e ginestreti. L’importanza delle canne derivava dal fatto che al loro impiego, insieme a pali e forcelle, si ricorreva per dare corpo e sostegno ai filari; il cosiddetto «sostegno morto» era, infatti, dominante nella viticoltura romana così come in quella di quasi tutte le sub-regioni laziali, nelle quali il sistema della vite maritata agli alberi («sostegno vivo») era di rara adozione 87. La presenza pure intramuranea delle vasche («vasca» o «vascha» e «vascale») 88 83

Lauer, Le Palais de Latran, pp. 504-512. A. Esposito, Un inventario di beni in Roma dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia (anno 1322), in «Archivio della Società romana di storia patria» (d’ora innanzi ASRSP), 99 (1976), pp. 71-115. L’inventario «è articolato in «sezioni», ognuna intitolata con la denominazione della località in cui le vigne sono situate» (ibidem, p. 76); si hanno vigne «in Pratis et Montemalo, ad Sanctam Mariam Magdalenam, de pantano Sancti Egidi, de pantano de Ulmo ad pontem, in Gaiano, de Terione minori, de Terione maiori, de vallo Arnete», altre alle pendici del Gianicolo ed anche fuori porta Portuense. 85 Non mancano, come sempre, le eccezioni; due esempi: Goioli, doc. 120, pp. 199-200 (1365); ibidem, doc. 121, pp. 200-204 (1365). 86 Come noto, il «commino» era pari allo sconto dovuto al proprietario nel caso in cui intendesse far valere il suo diritto di prelazione nella circostanza della cessione del «dominium utile» a terzi. Frequentemente tale clausola risulta presente, ad es., nei documenti del monastero di S. Sisto: Le più antiche carte del convento di S. Sisto in Roma (905-1300), a cura di C. Carbonetti Vendittelli, Roma 1987 (se ne veda l’indice, sub voce «comminus, cominus»). 87 Cfr. Cortonesi, Terre e signori, pp. 72-75. 88 Le vasche per la spremitura, vasca e «vascale» – scavate nella pietra o in muratura – erano in genere disposte in coppia, su livelli diversi; da un foro praticato nel fondo della vasca superiore il mosto defluiva in quella inferiore (il romano «vascale»), di dimensione 84

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e di tini per l’ammostatura (posti al coperto di grotte e, in loro assenza, di precari ricoveri e rustiche tettoie) sta a dimostrare come anche in tal contesto la mostificazione si svolgesse per solito all’interno delle vigne, nonostante la distanza di quest’ultime dalla cantina del proprietario («cervinaria» o «cerbinaria») potesse essere in questo caso modesta, agevolando con ciò il trasporto dell’uva. Quest’ultimo (e quello del mosto) avveniva perlopiù a dorso d’asino (o di cavallo) con l’intervento di vetturali («casengi») appositamente ingaggiati per il tempo necessario e retribuiti in base al numero degli animali condotti da ciascuno (in ogni caso, poche unità). Sia «intra» che «extra moenia» recinzioni di vario tipo, chiuse da un «cancellum» e relativo «serrimen» (o «serramen»), marcavano il paesaggio viticolo, spesso limitandosi a cingere singole parcelle, talora proteggendo un insieme di appezzamenti, aventi o meno un proprietario in comune e, comunque, coltivati da direttari diversi. «In loco qui dicitur Mons Pape» la basilica di S. Giovanni possedeva, intorno al 1300, una «clusa» dell’estensione di circa 31 «petiae», nell’ambito della quale nessun altro oltre la chiesa «hereditatem habet»; suddivisa in piccoli lotti, essa era coltivata da 22 affittuari. 34 pezze misurava, inoltre, una «clusa vinearum» posseduta dal capitolo lateranense in località «Tabernula» (forse nell’area compresa fra S. Clemente e il Laterano) 89, suddivisa – questa – fra 27 coltivatori 90. A più proprietari, diversamente, appartenevano, nella seconda metà del Trecento, i vigneti della «Clusa Casielle», fuori porta Maggiore («porta Maior»)91. La forte frammentazione del parcellario, il serrato giustapporsi dei terreni, richiedevano un capillare reticolo di vie campestri («viae» e «viculi vicinales») in grado di garantire un comodo accesso alle vigne. Su proprietari e concessionari gravava – limitatamente al tratto attiguo al loro appezzamento – il compito della manutenzione di vie e di viottoli. Non di rado l’uso degli stretti sentieri di campagna originava fra gli utenti liti la cui risoluzione imponeva il ricorso ad un arbitrato. Nel 1198 ad un lodo si affidano la chiesa di Santa Maria Nova e tale Pietro «Spinelli» per una questione insorta «de via qua itur ad vineas eorum extra portam Maiorem et portam Sancti Laurentii»; gradita o meno alle parti, la sentenza ridotta rispetto alla prima; altra apertura doveva consentire di raccoglierlo all’esterno e di travasarlo entro i tini per la fermentazione. 89 Cfr. Gnoli, Topografia, p. 313. 90 Lauer, Le Palais de Latran, pp. 510-511. 91 I protocolli di ‘Iohannes Nicolai Pauli’. Un notaio romano del Trecento, a cura di R. Mosti, Roma 1982 (d’ora innanzi INP), doc. 414, p. 178. Alla porta Maggiore afferivano le vie Casilina e Prenestina, importanti arterie di raccordo fra la città e il settore meridionale delle sue campagne. 100

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arbitrale non è di quelle che lasciano i problemi irrisolti: lo sradicamento di un noce che intralcia il passaggio e l’ampliamento della via renderanno il transito più agevole, sì che il «colonus» della chiesa, «sine lesione illius vinee que inferius est» possa «transire, ire et redire cum bestia onerata lignorum et cum vindemiatoribus et cum corba pro ecclesia sancte Marie Nove». Pietro «Spinelli» sarà, altresì, tenuto a ricostruire «tinum de vasca», utilizzabile da ambedue le parti 92. Di non minore interesse l’arbitrato che quasi due secoli più tardi (1372) dirime la controversia nata fra un orefice e un conciapelli, ambedue residenti nel rione Arenula, circa una via e un cancello comune alle loro vigne, come pure riguardo all’uso di vasche per la spremitura. In tale occasione viene affermato il diritto di entrambe le parti a possedere la chiave del cancello, come anche ad utilizzare la via in questione e le vasche 93. Sull’uso comune di vasche e “vascali” va peraltro osservato che esso costituiva una realtà assai diffusa nel quadro della viticoltura tardomedievale romana e laziale94; vale la pena sottolinearlo anche perché, con l’acqua di scorrimento e con quella dei pozzi e delle sorgive, le vasche rappresentavano uno dei pochi elementi 95 che, in un contesto di individualismo agrario trionfante, introducevano pratiche di gestione estesa a più soggetti. Si è già rilevato come medi e piccoli proprietari provvedessero perlopiù in via diretta alla coltivazione della vigna, senza peraltro ignorare la possibile alternativa dell’affitto o del ricorso all’impiego di manodopera salariata. Quanto agli enti ecclesiastici, cui la locazione delle vigne conveniva evidentemente più che la loro messa a frutto mediante l’ingaggio di salariati (anche perché li liberava da ogni incombenza gestionale), ricorrevano generalmente all’affitto, stipulando contratti con locatari di varia condizione sociale: artigiani in buon numero. Fra gli affittuari delle vigne di S. Giovanni in Laterano figurano a metà del XIII secolo 3 ortolani, un medico, 2 «scriniarii», un «campsor», uno «çabatterius»96; alcuni decenni più tardi (intorno al 1300), l’inventario Frangipane segnala 5 calzolai, 4 sarti, 3 macellai, 3 barbieri, 2 mugnai, un 92 P. Fedele, Tabularium S. Mariae Novae ab anno 982 ad annum 1200, in ASRSP, 23 (1900), pp. 171-237; 24 (1901), pp. 159-196; 25 (1902), pp. 169-209; 26 (1903), pp. 21-141: 26, doc. 158, pp. 118-119. 93 Staglia, doc. 145, pp. 161-162 (1372). 94 Era ciò che determinava negli atti di compravendita o locazione di vigne la presenza di espressioni quali «cum medietate de vasca et vascali et tini», «cum medietate unius vasce et vascalis», «cum tertia parte vasce et vascarii sui» ecc. (cfr. Cortonesi, Terre e signori, p. 90 e nota 358). Per un riferimento bassolaziale: ibidem, p. 144 (Ferentino). 95 Circostanza rara era quella dell’utilizzazione di un canneto da parte di più vignaioli; al riguardo può vedersi supra, p. 95, nota 69. 96 Lauer, Le Palais de Latran, pp. 497-503: «inventarium vinearum», 1261-1264.

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«campsor», un «ponticarius», un «ronzinarius», un «piscator», un «fabricator», un «portararius» ed anche tre preti 97. Fra terzo e quarto decennio del secolo XIV, nel novero di quanti ricevono in locazione le vigne dell’ospedale di Santo Spirito in Sassia, è accertabile la presenza di 6 notai, 3 «mercerii», 3 sarti, 2 «mandatarii», un «cartarius», un «lanciarius», un «pelliparius», un calzolaio, un cuoco, un falegname, un giudice, un prete 98. Il momento della raccolta e della spremitura dell’uva era quello in cui, nel ciclo vitivinicolo, il bracciantato maschile e femminile conosceva la massima mobilitazione. Per gli operai specializzati nelle pratiche colturali più delicate (ad es. la potatura) non dovevano, tuttavia, mancare opportunità di lavoro anche in momenti diversi dell’annata agricola. È dai contratti di locazione delle vigne che più frequentemente derivano informazioni sulle operazioni colturali messe in atto, in quanto le si annota come altrettanti obblighi per l’affittuario; come attestato dai protocolli notarili tardotrecenteschi e del primo Quattrocento, tali informazioni tendono a divenire più numerose e precise con il volgere dei decenni. Dal momento che del lavoro del vignaiolo romano (e laziale) molto è già stato scritto 99, ci limiteremo a sottolineare qui 1) l’importanza che le fonti consultate attribuiscono all’operazione della potatura; 2) la pratica di tre/quattro zappature cui deve attenersi il «bonus laborator»; 3) il riferimento che si ha talora nelle locazioni alla pratica dell’invescatura delle viti, finalizzata a proteggere le piante dall’aggressione primaverile dei bruchi («magnacocce») 100. Circa la potatura, è da osservare che sovente si ricorre all’ingaggio di manodopera specializzata («potatores»), la cui menzione non è rara nei minutari notarili 101. Di particolare interesse quanto si apprende da un contratto di locazione triennale «ad laborandum ad pomedium» (1371) avente per oggetto una vigna di 4 pezze sita sulla via Appia, contratto nel quale il locatore, la «Societas Anglicorum Urbis hospitalis Sancte Trinitatis», si riserva di affiancare ai potatori ingaggiati dall’affittuario uno di sua scelta, evidentemente affinché possa vigilare sul 97

Ibidem, pp. 497-503, 509-511. Esposito, Un inventario. 99 Cortonesi, Terre e signori, pp. 69-89; Id., Il lavoro del contadino, pp. 51-80; A. Lanconelli, La terra buona. Produzione, tecniche e rapporti di lavoro nell’agro viterbese fra Due e Trecento, Bologna 1994, pp. 103-112; S. Carocci, Tivoli nel basso Medioevo. Società cittadina ed economia agraria, Roma 1988, pp. 454-466. Elementi per una sintesi nel recente D. Lombardi, Dalla dogana alla taverna, pp. 42-48. 100 Con il termine «magnacozza» il dialetto romanesco indica tuttora il «bruco che mangia i primi getti della vite» (F. Chiappini, Vocabolario romanesco, a cura di B. Migliorini, con aggiunte e postille di U. Rolandi, Roma 1967, sub voce). 101 Ad es. uno se ne menziona in un testamento: Serromani 649, 6, cc. 4v-6v (1363). 98

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corretto operare degli altri salariati 102: ne risalta pienamente l’attenzione che veniva indirizzata allo svolgimento della delicata operazione. In altro affitto «ad pomedium» (1388) la locatrice si impegna a conferire la vigna, sita fuori porta S. Giovanni in luogo «qui dicitur in Monte Calcatorio», con le viti già potate («potatas») a sue spese103. Sul secondo e sul terzo degli argomenti sopra indicati – quelli relativi alle zappature e all’invescatura –, la testimonianza per noi più interessante è tardoduecentesca ed attiene all’ampliamento e alla riorganizzazione colturale del giardino congiunto alla residenza pontificia in Vaticano; come vedremo qui appresso, dal registro in questione104 si ricavano anche ulteriori, puntuali notizie sulla potatura. Stando alla fonte in esame, può ritenersi che buona parte del «iardinum» fosse coltivata a vigna. Le annotazioni delle spese che si susseguono fra l’autunno 1285 e la primavera 1286 interessano, infatti, in prevalenza operazioni legate alla viticoltura; grazie ad esse diviene possibile osservare da vicino il laborioso ciclo di coltivazione e, al tempo stesso, ottenere notizie d’interesse non trascurabile sull’impiego di manodopera salariata 105. Nel periodo compreso fra la vendemmia (1285) e il nuovo anno il riposo della vigna è violato soltanto allorché, in ottobre, si procede alla rimozione dei pali non più idonei a fungere da sostegno 106. Sul terreno e sulla pianta si riprende a intervenire solo a gennaio107 quando, appunto, vengono registrate le spese per la «prima çapatio vinearum et putatio». Nella zappatura risultano impiegati 17 uomini per complessive 68 opere, nella potatura 18 uomini 102

Ibidem, 649, 11, cc. 19v-20r. La vigna è ubicata in contrada «Domine quo vadis?»; si tratta con ogni probabilità dello stesso appezzamento che viene locato per 10 anni, questa volta ad un inglese, nel 1372 (ibidem, 649, 12, cc. 85v-86v). 103 Lello di Paolo Serromani, 763, 1. 2, c. 38rv (1388). Per l’obbligo della potatura a carico del locatore vedasi anche Serromani, 649, 10, c. 95r (1369). 104 Archivio Vaticano, Camera Apostolica, Introitus et exitus, 1 (d’ora innanzi In. et Ex., 1). La residenza pontificia fu trasferita dal Laterano al Vaticano negli anni del pontificato di Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini, 1277-1280). Le notizie che seguono, aventi riferimento al registro testè citato, dipendono, con poche variazioni, da A. Cortonesi, Il giardino del papa. Pratiche agricole e lavoro salariato nella Roma di fine Duecento, in Lavoro, arti e mercato a Roma, pp. 201-216. 105 Forse è anche superfluo sottolineare la rarità di tali testimonianze nel panorama documentario relativo alla Roma del XIII secolo. Ed anzi la documentazione fornita dal registro in esame sul tema del lavoro salariato è, a mia conoscenza, tra le fonti di maggior rilievo che si abbiano per la città relativamente al periodo qui all’attenzione. 106 Vengono ingaggiati allo scopo 2 operai «qui spalaverunt vineas», lavorando nell’insieme 8 giornate (In. et Ex., 1, c. 55v). 107 Le sole date che compaiono nel registro sono relative al giorno – solitamente una domenica – in cui viene effettuato il pagamento dei salari; il lavoro che viene retribuito può ritenersi svolto – e del resto talora lo si esplicita – nel corso della settimana. 103

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ingaggiati per 91 giornate di lavoro. 5 operai e 8 «pueri» (ragazzi, se non proprio bambini) lavorano, al contempo, per 27 giornate nel «collegere vites»: verosimilmente, nel ripulire le vigne dai residui della potatura108. In marzo si ripetono le medesime operazioni: per la zappatura si registrano 245 prestazioni, cui sono da aggiungere 12 giornate fornite agli inizi di aprile; per la potatura 14 opere, 42 per «collegere vites»109. In aprile, «pueri» vengono ingaggiati a più riprese per 81 giornate complessive allo scopo di liberare le viti dai bruchi («collegere magnacocias») che minacciano i germogli 110. Diversamente che in gennaio, è la zappatura a costituire nella primavera incipiente l’operazione di maggiore impegno. Mentre la «çapatio» invernale comporta una spesa di 8 libre e 14 soldi, inferiore a quella per la potatura (11 libre, 7 soldi e 6 denari), la zappatura di marzo fa registrare un costo di 35 1. 13 s. e 2 d., largamente superiore a quello delle altre operazioni nel loro insieme (5 1. e 5 s.). Al palizzamento e alla legatura delle viti (nell’insieme 113 opere) si provvede in maggio111. Nel ripristino dell’intelaiatura del filare e nella legatura dovevano utilizzarsi le canne e i ramoscelli di salice la cui «taliatura» aveva impegnato nell’ottobre precedente 6 uomini per 24 giornate112. Sono verosimilmente destinate alle vigne anche le 110 prestazioni di zappa che si registrano alla fine del maggio stesso113: periodo, in cui può tornar utile, in vista dell’estate, provvedere alla rincalzatura delle piante per mantenere al meglio l’umidità del suolo. Secondo la fonte in esame, sembrano, dunque, praticarsi nel periodo invernale-primaverile tre zappature, cui non può escludersi l’aggiunta in estate di una quarta114. È noto, peraltro, come tre-quattro zappature costituiscano anche nei secoli successivi la normale pratica del viticoltore romano115. Sulla base di rare e scarne notazioni può proporsi qualche riferimento anche agli attrezzi in uso e alla loro manutenzione: l’affilatura di una scure e di due «ronciones pro vineis» viene a costare 9 denari, la riparazione di una scure 14 d.; «in uno ronciono ad putandum vineas» si spendono, inoltre, 28 d.116: all’incirca il salario giornaliero di un potatore o di uno zappatore. 108 Ibidem, 109

c. 56r. Ibidem, c. 56rv. 110 Ibidem, c. 56v. 111 Ibidem, cc. 56v-57r. 112 Ibidem, c. 55v. 113 Ibidem, c. 57r. 114 Si è visto come le registrazioni di spesa non vadano oltre i primi di giugno. 115 Cortonesi, Terre e signori, p. 76. Tre zappature erano, inoltre, nell’uso del viticoltore tiburtino (ibidem, pp. 75-76) e viterbese (Id., Il lavoro del contadino, pp. 62-65; a p. 65 si hanno riferimenti ai lavori di zappa praticati in Piemonte, nella restante area padana e in Toscana nel tardo medioevo). 116 In. et Ex., 1, c. 55rv. 104

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La contrattualistica agraria Se piccoli e medi proprietari, orientati essenzialmente al soddisfacimento del consumo familiare, praticavano perlopiù la conduzione diretta delle vigne, così non era per gli enti ecclesiastici e i maggiori proprietari laici, propensi piuttosto – lo si è visto – ad affittarle a lavoratori di varia collocazione sociale. Nel periodo cui si fa riferimento in queste pagine, la tipologia dei patti agrari vede mantenersi il predominio delle concessioni «in perpetuum» e di lunga durata («ad tertiam generationem», in enfiteusi, diciannovennali ecc.)117. Il canone è 117

Talora la concessione «in perpetuum» può prevedere un rinnovo periodico; così per una vigna di 2 pezze ubicata fuori porta Pinciana: rinnovo a cadenza novennale (Serromani, 649, 13, cc. 3r-4r, 1377). Per il rinnovo di un affitto diciannovennale («sponte relocavit et titulo relocationis dedit») avente per oggetto una vigna di una pezza fuori «porta Domine»: ibidem, 649, 14, cc. 2r-3r (1378). 105

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definito, con poche eccezioni 118, nella quarta parte del mosto puro («mustum mundum» o «purum»)119 e, talora, dell’acquato («aquatum», «acquatum»); alla quota dominicale possono aggiungersi in questo caso uno o più canestri di uva, dei quali vengono qualche volta precisate le misure120. Insolita e di riferimento quasi esclusivamente duecentesco la clausola secondo cui l’uso delle vasche per la spremitura comporta per l’affittuario l’erogazione di qualche denaro «pro vascatico»121. Per quanto la corrisposta parziaria presenti per il concedente il vantaggio di un’efficace tutela della rendita, il canone in denaro trova pur esso una diffusione assai ampia, che sembra accentuarsi nei decenni a cavallo fra XIII e XIV secolo. Largamente attestato dall’«inventarium vinearum» lateranense (1261-1264)122, risulta prevalere nettamente nel panorama delle corrisposte dovute all’ospedale di Santo Spirito in Sassia (1322-1334): contro 21 canoni in natura se ne contano 87 monetari (81%)123. Non è senza interesse osservare, inoltre, come, per la seconda metà del Trecento, i protocolli notarili immettano nel campo d’osservazione anche le locazioni «ad pomedium» (o «ad laborandum ad pomedium»), caratterizzate dalla breve durata (perlopiù triennale, ma anche annuale e quinquennale) e dalla spartizione a metà del prodotto fra proprietario e affittuario124, talora 118 Per qualche esempio: ibidem, 6, cc. 15v-17r (1363): menzione di vigna dalla quale il proprietario ricava un terzo del prodotto; ASR, CNC, 478, cc. 151r-152r (1413); cfr. M.L. Lombardo, Nobili, mercanti e popolo minuto negli atti dei notai romani del XIV e XV secolo, in Gli atti privati nel tardo Medioevo. Fonti per la storia sociale, a cura di P. Brezzi, E. Lee, Roma-Toronto 1984, pp. 291- 310: 304, nota 49. 119 È a ciò che fa riferimento l’espressione «ius quartatini» che riscontro, peraltro, solo in Lello di Paolo Serromani, 763, 1. 2, c. 38rv. 120 Da uno a tre canestri si richiedono, ad es., ai locatari delle vigne del Santo Spirito (Esposito, Un inventario, pp. 89, 94-95, 108-109, 111). Quanto alle misure, vedasi S. Andrea «de Aquariciariis», doc. 13, pp. 24-25: «I canistrum de uvis largum in fundo duorum palmorum et unius summissi altum» (1216); per altre esemplificazioni: Cortonesi, Terre e signori, p. 308. A «duos canistros uvarum more romano» si ha riferimento in Lello di Paolo Serromani, 763, 1. 4, cc. 26r-27r. 121 Sul «vascaticum», con riferimento alla documentazione del monastero di S. Silvestro «de Capite» e della basilica di S. Giovanni in Laterano, v. Cortonesi, Terre e signori, p. 81, nota 309; per altra contrada, quella dell’Acqua Tuzia, fuori Porta S. Lorenzo, vedasi Wickham, Roma medievale, p. 123. 122 Lauer, Le Palais de Latran, pp. 497-503. 123 Calcoli effettuati sulla base di Esposito, Un inventario. 124 Talvolta la divisione del prodotto a metà avveniva «quarta detracta», ovvero dopo che il locatore aveva prelevato la quarta parte (ad es. Serromani, 649, 10, c. 95r, 1369). Nel caso citato, il proprietario della vigna si impegnava a far eseguire a proprie spese la potatura e a fornire al vignaiolo le canne e il vischio «ad suficientiam»; prestava, altresì, a quest’ultimo due fiorini per le altre esigenze legate alla messa a coltura della vigna, impegnandosi lo stesso a restituire la somma al tempo della vendemmia. Un assetto pattizio

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Viticoltura intramuranea e suburbana nella Roma tardomedievale

con partecipazione del primo alle spese della conduzione, specialmente per quanto concerne la potatura e il conferimento delle canne e del vischio125. Il progressivo diffondersi di questo tipo di locazione, che interessò anche il settore cerealicolo126, rinvia in tutta evidenza a quella fase di dinamizzazione dei rapporti di lavoro in agricoltura che segnò, in vario contesto, il tardo medioevo127, caratterizzandosi (più marcatamente a partire dall’ultimo quarto del Duecento) per la diffusione dei contratti a breve termine; a Roma, essa ebbe come protagonista quel ceto dei bovattieri che, ormai oltre cinquant’anni fa, Clara Gennaro ebbe il merito di portare all’attenzione della ricerca storica128.

simile a quello del documento testè menzionato si ha in Lello di Paolo Serromani, 763, 1. 2, cc. 23v-24v (1388). 125 Alcuni esempi, con illustrazione degli atti, in Cortonesi, Terre e signori, p. 82, nota 312. 126 Id., L’economia del casale romano. Non si dimentichi che la locazione triennale garantiva la scansione più agevole per un ciclo di coltivazione che si dispiegava pur esso in tre anni; su quest’ultimo argomento: ibidem, pp. 108-110. 127 A tale fenomeno è da ascrivere, come noto, anche l’affermazione della mezzadria poderale dapprima in Toscana (XIII-prima metà XIV secolo), più tardi in Umbria e nelle Marche. Può valer la pena osservare a questo riguardo che una delle locazioni romane di vigne «ad pomedium», stipulata non casualmente fra proprietari romani e due lavoratori originari di Montepulciano, abbia un chiaro “sapore” di mezzadria, non solo per la breve durata e la divisione «ad medium» della produzione, ma anche per il fatto di vincolare i locatari e la moglie di uno di essi a risiedere sul casale (sito fuori porta Appia) del quale facevano parte le due pezze di vigna oggetto di locazione, e i proprietari a farsi carico del conferimento (caso tutt’altro che frequente in area romana) di 10 «cupelli» per l’apicoltura e di altrettante galline (Serromani, 649, 11, c. 64rv, 1371). È possibile che il casale in questione sia il «casale delle vingie» di cui supra a p. 76. 128 C. Gennaro, Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento (Da una ricerca sui registri notarili), in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo e Archivio muratoriano», 78 (1967), pp. 155-203. 107

Giorgia Maria Annoscia Sistemi idrici e spazi urbani nella Roma bassomedievale

Premessa L’obiettivo di questo lavoro è quello di spiegare se e in che misura nella Roma bassomedievale la presenza dell’acqua, in tutte le sue forme (sia essa frutto di una captazione “pianificata” ovvero “spontanea”), abbia contribuito a determinare le modalità di utilizzazione degli spazi infra moenia, predisponendo così la distribuzione dell’abitato, la creazione di zone edificate e la precipua utilizzazione di determinate aree nel nascente mercato immobiliare rinascimentale. Queste pagine sono state scritte sedici anni dopo un libro di soggetto analogo ma di diversa natura, un saggio a sé stante sul sistema idrico a Roma in età medievale1. Negli anni trascorsi, “molta acqua” è passata non solo sotto i miei “ponti mentali” ma anche sotto quelli degli studi sulla Roma bassomedievale facendo sì che la nostra conoscenza dell’Urbs post classica si sia ampliata notevolmente nelle ultime decadi grazie a nuove indagini archeologiche 2, ad 1

G.M. Annoscia, Fonti e strutture per la conoscenza del sistema idrico di Roma nel Medioevo, Roma 2008. 2 Di seguito menziono solo gli studi che saranno citati poi nel testo. M. Serlorenzi, L. Saguì, Roma, Piazza Venezia, in «Archeologia Medievale», XXXV (2008), pp. 175-199; R. Egidi, F. Filippi, S. Martone, Archeologia e Infrastrutture. Il tracciato fondamentale della linea C della metropolitana di Roma: prime indagini archeologiche, in «Bollettino d’Arte. Volume speciale» (2011); Caelius II. Pars inferior. Le case romane sotto la basilica dei SS. Giovanni e Paolo, a cura di A. Englen, R. Santolini, M. Filetici, P. Palazzo, Roma 2014; M. Buonfiglio, Circo Massimo. Scavi e restauri nell’emiciclo (2009-2015), in «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», CXV (2014), pp. 326-338; G.L. Zanzi, La scomparsa del Circo Massimo dalla fine dei giochi all’età moderna, in «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», CXIX (2018), pp. 273-286; Anfiteatro Flavio: trasformazioni e riusi, a cura di G. Facchin, R. Santangeli Valenzani, Milano 2018; D. Manacorda, Paesaggi di Roma medievale, Roma 2021. 109

Giorgia Maria Annoscia

attenti studi di edilizia storica 3 e di archeologia della produzione 4 nonché ad alcuni lavori 5 divenuti di riferimento sulla Roma bassomedievale in quanto nel loro insieme cronologico affrontano la storia romana tra X e XIV secolo raccogliendo, sintetizzando, rielaborando e ridiscutendo ottimamente i risultati di tanti anni di ricerche. Dico subito che la risposta all’interrogativo iniziale è certamente positiva: la “topografia dei punti d’acqua” è uno dei fattori che ha contribuito a creare la rete degli spazi urbani sulla quale poi si intesse il mercato immobiliare rinascimentale. Il fenomeno, come tutti i fenomeni storici, è sicuramente complesso in quanto l’approvvigionamento idrico può essere frutto di un intervento urbanistico pianificato dalle istituzioni nell’ambito di una mirata «strategia urbana»6 quando l’acqua viene trasportata infra moenia tramite acquedotti o captata direttamente in Urbe (per il tramite di «putei aquae vivae» o di «fontanae aquae vivae») per poi essere in entrambi i casi conservata e distribuita nello spazio urbano (mediante «putei», «cisternae», «canales», «fontanae», «vascae», «pilae») ovvero può essere procacciata spontaneamente da sorgenti (fig. 1), 3

N. Giannini, Leggere la città attraverso i dati materiali. L’esempio del Fosso della Marana e le trasformazioni urbanistiche di Roma tra XI e XIII secolo, in Fare urbanistica tra XI e XV secolo, a cura di C. Bonardi, Roma 2015, pp. 31-48; N. Giannini, Abitare a Roma nel Medioevo. Dall’edilizia civile allo spazio urbano, i primi risultati della ricerca, in «Archeologia Medievale», XLIII (2016), pp. 289-307; S. Carocci, N. Giannini, Portici, palazzi, torri e fortezze. Edilizia e famiglie aristocratiche a Roma (XII-XIV secolo), in «Studia Historica. Historia Medieval», 39/1 (2021), pp. 7-44. 4 L’archeologia della produzione a Roma (secoli V-XV), a cura di A. Molinari, L. Spera, R. Santangeli Valenzani, Atti del convegno internazionale di studi, Roma, 27-29 marzo 2014, Roma 2015; F. Franceschi, E. Pruno, F. Zagari, La produzione tessile nella Roma medievale. Una rilettura attraverso le fonti scritte e materiali, in «Archeologia Medievale», XLVII (2020), pp. 93-111. 5 A. Di Santo, Monumenti antichi, fortezze medievali: il riutilizzo degli antichi monumenti nell’edilizia aristocratica di Roma (VII-XIV secolo), Roma 2010; J-C. Maire Vigueur, L’altra Roma. Una storia dei romani all’epoca dei comuni (secoli XII-XIV), Torino 2011; Ch. Wickham, Roma medievale: crisi e stabilità di una città, 900-1150, Roma 2013; S. Carocci, Storia di Roma, storia dei comuni, in I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici, a cura di M.T. Caciorgna, S. Carocci, A. Zorzi, Roma 2014, pp. 51-68; F. Guidobaldi, Un estesissimo intervento urbanistico nella Roma dell’inizio del XII secolo e la parziale perdita della «memoria topografica» della città antica, in «Mélanges de l’École Française de Rome - Moyen Âge», 126-2 (2014), pp. 575-613; A. Esch, Roma dal Medioevo al Rinascimento (1378-1484), Roma 2021. 6 M. Tafuri, “Roma instaurata”. Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo 500, in C. L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Raffaello architetto, Milano 1984, p. 64; L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 413-435. 110

Sistemi idrici e spazi urbani nella Roma bassomedievale

Fig. 1 – Le acque sotterranee e le sorgenti di Roma (elaborazione dell’Autore)

falde freatiche (mediante lo scavo di pozzi) e fiumi, nel nostro caso il Tevere, da quella «multitudo hominum»7, secondo la nota definizione di Isidoro di Siviglia tanto cara alla mia maestra Letizia Ermini Pani, che è andata progressivamente a popolare l’ansa del Campo Marzio cercando per l’appunto il 7

Isidoro, Etym., XV, 2, 1. 111

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«fluido benefattore»8 per sopravvivenza e sussistenza economica, ossia per «il solo servigio de’ bisogni della vita»9. Nella Roma bassomedievale queste due modalità di approvvigionamento idrico (“pianificata” o “spontanea”) coesistono: ritengo inoltre che la seconda (quella “spontanea”) venne a essere preminente e contribuì a plasmare la forma urbis veicolando il processo evolutivo dell’abitato in direzioni forse diverse rispetto a quelle ideate (penso al ruolo urbanistico primario che avrebbe dovuto rivestire nei progetti papali il comparto lateranense), sebbene esse siano state indirizzate anche da altri fattori tra cui «l’attrazione del Borgo sulla città “in riva sinistra”» 10. Infatti, dal Campo Marzio «è necessario volgere l’attenzione all’area al di là dell’ansa del Tevere ove i secoli dell’altomedioevo segnano una delle trasformazioni del territorio di più forte incidenza sulle vicende urbanistiche della città, guadare cioè alla tomba di Pietro» 11. In parallelo, il nascente governo comunale proclamato nel 1143-1144 scelse come sede politica il Campidoglio ubicato a metà strada tra i due grandi centri di potere (S. Pietro e S. Giovanni) nei quali «per tutto l’alto medioevo Roma fu sospesa» 12, quasi a voler generare un campo gravitazionale volto ad avvicinare i due nuclei demici posti all’estremità nord-occidentale e orientale della città, ossia il Vaticano e il Laterano. In entrambe le modalità di approvvigionamento idrico (“pianificata” o “spontanea”), i “punti d’acqua” divennero comunque potenziali attrattori di popolamento 13 all’interno delle ben più complesse dinamiche di 8

R. Lanciani, I commentarii di Frontino intorno alle acque, Roma 1881, p. 5. «Il popolo romano in età medievale si era ridotto a cercare dalle acque non più il lusso delle naumachie ma il solo servigio de’ bisogni della vita», C. Corvisieri, L’Acqua Tocia, in «Il Buonarroti», II/V (1870), pp. 42-52; 66-80; 177-196, in particolare p. 182. 10 L. Pani Ermini, L’assetto medievale: i segni della memoria, in Corso Vittorio Emanuele II tra urbanistica e archeologia, a cura di M. G. Cimino, A. Santi, Napoli 1998, pp. 41-50, in particolare p. 48. 11 L. Pani Ermini, Forma Urbis e committenza papale, in Pasquale I: 1200 anni dalla sua elezione a pontefice romano, a cura di L. Ermini Pani, Convegno internazionale di studi, Roma, 9-11 novembre 2017, in c.s. 12 Wickham, Roma medievale, p. 155. 13 Purché si tengano presenti due fattori: che molti agglomerati urbani sorsero senza che vi fosse in parallelo alcuna menzione d’acqua e che le zone urbane ancora servite non necessariamente coincidono con quelle maggiormente abitate. Quindi, la presenza e preesistenza d’acqua non sempre può essere considerata una conditio sine qua non per lo sviluppo di un abitato, come dimostrano a Roma quelle abitazioni vicino S. Martino ai Monti che sorsero, all’inizio dell’XI secolo, raggruppate intorno ai Dioscuri del Quirinale o, ancora, quelle costruite intorno a Porta Metronia, cfr. É. Hubert, Éspace urbain et habitat à Rome du X e à la fin du XIII e siècle, Roma 1990, p. 86. 9

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Fig. 2 – Ubicazione delle paludi storiche di Roma (elaborazione dell’Autore)

formazione del paesaggio urbano; per contro, le aree soggette a continue alluvioni e le numerose paludi 14 esistenti in Urbe (fig. 2) per l’azione dei corsi d’acqua e dei rivi non più canalizzati a seguito dell’ostruzione di grandi tratti del sistema fognario romano possono a buona ragione essere considerati elementi deterrenti o, quanto meno, ostacolanti. 14

Ricordo le paludi del Velabrum Maius (ubicate tra Celio e Aventino) e del Velabrum Minus (presso la chiesa di S. Maria Liberatrice) cui sono correlati rispettivamente il Nodinus Flumen e lo Spinon Flumen; la palude sita tra le chiese di S. Giorgio al Velabro e di S. Anastasia; quelle Decenniae poste tra le porte Latina e Metronia; la Palus Caprae del Campo Marzio in prossimità del Pantheon; infine, il Pantano del Foro di Augusto. Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, pp. 57-61, con bibliografia di riferimento. 113

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Fig. 3 – Gli acquedotti nella Roma medievale (elaborazione dell’Autore)

Approvvigionamento idrico “pianificato” Cercherò di avanzare alcune considerazioni anche alla luce dei recenti studi critici sulla definizione del paesaggio urbano tra X e XIII secolo. Per introdurre l’argomento dell’approvvigionamento idrico “pianificato” segnatamente dall’autorità pontificia (ma su questo aspetto tornerò), parto dalle parole di É. Hubert che tra X e XI secolo ravvede negli «aqueducts, basiliques et monastères […] des poles d’attraction qui ont favorisé la naissance d’habitats à leur voisinage» 15. La sottesa “strategia urbana” comportò in un primo momento il mantenimento in vita con mirata manutenzione di tre acquedotti romani e successivamente, dal XII secolo, la canalizzazione di un nuovo corso d’acqua (fig. 3): infatti, dopo un silenzio 15

Hubert, Éspace urbain, p. 75.

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documentario su specifici interventi idrici di oltre due secoli, abbiamo notizia dell’Aqua Marrana, introdotta nel 1122 da Callisto II per «lacu etiam ad equorum usum adiecto» (si fa riferimento a un specchio d’acqua ubicato fuori porta Asinara) e, inoltre, «ad palatii vero comoditatem aliquod molendina supra ipsum rivum deposuit» 16. L’operazione fu dunque volta anzitutto al funzionamento degli impianti molitori del Laterano e fu anche l’ultimo intervento 17 nella regione che godette di un nuovo impulso urbanistico a partire dal XV secolo: come vedremo, è possibile considerare il fosso della Marrana come parte integrante di un «estesissimo programma urbanistico» 18 di committenza pontificia (con qualche distinguo nel nostro caso) che interessò Roma tra la fine dell’XI secolo e almeno i primi tre decenni del XII secolo. La topografia delle aree rifornite dai tre acquedotti romani ancora attivi (la Claudia, la Virgo, la Sabbatina 19 che si allaccia alla Traiana 20) indizia un’elargizione d’acqua sia ai due grandi centri del potere pontificio quali il Vaticano e il Laterano (con interventi rispettivamente sulla Forma 21 16

Le Liber Pontificalis: texte, introduction et commentaire, a cura di L. Duchesne, 3 voll., Parigi 1955-1957, in particolare II, p. 323. 17 R. Motta, La decadenza degli acquedotti antichi e la conduzione dell’Acqua Mariana, in Il trionfo dell’acqua, pp. 203-205. 18 Guidobaldi, Un estesissimo intervento. 19 La Forma Sabbatina (ricordata come aqueductus o forma Sabbatinae, Le Liber Pontificalis, I, pp. 503-504 e 510) fu incessante oggetto di cura da parte dei pontefici in quanto riforniva la Città Leonina e l’annesso Borgo e, soprattutto, «aqua decurrebat» costantemente «per centenarium in atrio ecclesiae beati Petri apostoli, simulque et in balneo iuxta eandem ecclesiam situm» (Le Liber Pontificalis, I, pp. 503-504) come ben emerge da un documento del IX secolo laddove quest’ultima, «confracta atque dirupta esse videbatur […] a noviter aedificare atque construere visus fuit; ita ut ad ecclesiam beati Petri apostoli atque ad Ianuculum sicut prius ita et nunc indiffluenter decurrat» (Le Liber Pontificalis, II, p. 77). 20 La Forma Traiana rivestì, in epoca romana, un ruolo importante in relazione alla presenza di mulini sul Gianicolo: l’ultima citazione che la riguarda è del 1005 allorquando viene nominata una «forma antiqua ubi olim fuerunt aquimoles tres» (J.V. PflugkHarttung, Acta Pontificum Romanorum Inedita, 3 voll., Stuttgart 1881-1886, in particolare II, pp. 55-60, n. 93). Cfr. P. Adinolfi, Roma nell’età di mezzo, Roma 1881, p. 161; Lanciani, I commentarii, p. 166; Th. Ashby, Gli acquedotti dell’antica Roma, Roma 1991, pp. 357-364; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, I, Roma 1993, voce: Aqua Traiana; R. Lanciani, Forma Urbis Romae, Milano 1893-1901, tavv. 26 e 27. 21 Sul piano linguistico, i lemmi utilizzati per gli acquedotti nelle fonti scritte sono essenzialmente tre, «aqueductus», «forma» e «aqua», con una netta preponderanza del secondo (75%) rispetto al primo (15%) e al terzo (10%) senza però che sia stata riscontrata una netta demarcazione nel loro uso, come si può osservare dalla giustapposizione indifferente di «forma» o «aqueductus» al nome proprio del manufatto (indistintamente «aqueductus» o «forma Sabbatina»). Il termine «forma», in origine “canale”, sembrerebbe acquistare sempre più valore, in parallelo alla progressiva perdita dell’uso del frontiniano sintagma 115

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Sabbatina e sulla Forma Claudia) sia all’area del Campo Marzio settentrionale e parte del centrale 22, ove la protratta attività 23 sebbene con portata non costante dell’Aqua Virgo, che rinveniamo dall’VIII secolo «fracta» 24 all’altezza del Trivio, venne enfatizzata dall’eloquente espressione «totam civitatem satiavit» 25. Questo intervento fu altresì funzionale alla “tenuta” o alla neogenesi di importanti edifici cultuali e monastici (come quelli di SS. Ciriaco e Nicola in via Lata, di S. Maria in Campo Marzio e di S. Silvestro in Capite) che costituiranno, per parte loro, polo di attrazione e garanzia dell’ininterrotta frequentazione della popolazione in un’area che fin dal X secolo, come intuito da R. Santangeli Valenzani, per iniziativa aristocratica (ai SS. Apostoli vi era il palazzo di Alberico ereditato dai Tuscolani) 26 divenne uno dei «centri e nuclei di potere, che costituiscono le basi della militarizzazione del paesaggio urbano e del ridisegno della topografia cittadina su base gentilizia che si affermeranno a partire dall’XI secolo» 27: questa egemonia si concretizzò anche in atti evergetici verso alcuni edifici religiosi o, nei casi più elevati, nella fondazione di chiese o nell’istituzione di monasteri, come quello di S. Ciriaco e Nicola in via Lata 28. Dal XIII secolo l’area fu poi scelta come sede residenziale del lignaggio baronale dei «forma aqueductus» che si ritrova in sparuti casi e mai associato a un nome proprio, quasi ad esprimere la struttura tout court, l’idea della stessa cui manca la connotazione nominale (Annoscia, Il sistema idrico, p. 67). 22 M. Marcelli, M. Munzi, Roma medievale e l’acqua, in I giganti dell’acqua. Acquedotti romani del Lazio nelle fotografie di Thomas Ashby (1892-1925), a cura di S. Le Pera, R. Turchetti, Roma 2007, pp. 35-48. 23 Dovuta anche alla peculiarità del suo percorso, quasi del tutto sotterraneo. 24 «Forma Virginis fracta», Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini, G. Zucchetti, II, secc. IV-XII, Roma 1942, pp. 186-187; S. Del Lungo, Roma in età carolingia e gli scritti dell’Anonimo augiense, Roma 2004, p. 67; Lanciani, Forma Urbis Romae, tav. 15. 25 «Forma quae Virginis appellatur, dum per annorum spatia demolita atque a ruinis plena existebat, vix modica aqua in urbe Roma ingrediebat […] a noviter eam restauravit, et tantam aquam abundantiae praefulsit, qui poene totam civitatem satiavit», Le Liber Pontificalis, I, p. 505. 26 Wickham, Roma medievale, p. 333. 27 R. Santangeli Valenzani, L’insediamento aristocratico a Roma nel IX-X secolo, in «Rome des Quartiers»: des Vici aux Rioni. Cadres institutionnels, pratiques sociales et requalifications entre Antiquité et époque moderne, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Bérenger, Parigi 2008, pp. 229-245, in particolare p. 235. 28 Fondato dalle cugine di Alberico Marozia, Teodora e Stefania (G. Ferrari, Early Roman Monasteries. Notes for the History of the Monasteries and Convents of Rome from the V through the X century, Città del Vaticano 1957, pp. 112-116; Santangeli Valenzani, L’insediamento aristocratico, n. 36, p. 240; É. Hubert, Noblesse romaine et espace urbain (X e-XV e siécle), in La nobiltà romana nel medioevo, a cura di S. Carocci, Roma 2006, pp. 171-186). 116

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Colonna i cui possedimenti si attestano intorno al mausoleo di Augusto (l’Augusta), a Montecitorio e, da Martino V, ai SS. Apostoli 29. L’ininterrotta attività della Forma Virgo (il cui tracciato è celato anche nei numerosi toponimi che costellano l’area) 30 è comprovata dai Capitoli che furono destinati alla sua tutela e salvaguardia, accolti prima nello Statutum Urbis del 1363 («Fontes Trivii» 31) e poi nello Statuto dei Maestri delle Strade del 1452 («Fonte de Treio» 32). Possiamo leggere il ripristino di questi tre acquedotti per mano pontificia facendo nostre le parole che F. Marazzi ha dedicato alle principali imprese di restauro delle mura Aureliane (per mano di papa Adriano I nell’VIII secolo) e alla costruzione dei nuovi recinti fortificati intorno ai santuari martiriali di Pietro, Paolo e Aurea (per mano di Gregorio IV, Leone IV e Giovanni VIII nel IX secolo), interpretati come «momenti in cui vengono fortemente enfatizzati il legame fra la costruzione di tali opere e l’esercizio del potere sovrano del controllo del territorio, e proprio in conseguenza di ciò, la capacità dei pontefici di raggruppare forze numerose che, ai loro ordini, ne eseguivano la realizzazione» 33. Questo «esercizio del potere sovrano del controllo del territorio» è ben visibile nel caso della Forma Claudia, captata nel lacus superior della Valle Sublacense 34, sulle cui sponde era sorto il monastero dei SS. Scolastica e Benedetto, e che perveniva in città sfruttando il tracciato dell’Anio Novus, almeno nel suo primo tratto 35. L’intero percorso dell’acquedotto, in uso fino al terremoto che colpì Subiaco nel 1305 36, fu dato in concessione 29

S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma 1993, p. 357; Di Santo, Monumenti antichi; Carocci, Giannini, Portici, palazzi, torri, p. 32; Esch, Roma dal Medioevo. 30 Ad esempio, Condotti, Bottino, Cannella, Arcioni (Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Schede Toponomastiche nn. 81, 49, 53, 23, 28). 31 «Quod Marescalci Curie Capitolii sint patarentes et curam habeant aque Fontes Trivii», in C. Re, Statuti della città di Roma, Roma 1880, Liber Tertius, Capitolo CXXVI, p. 265. 32 «Che li detti Maestri siano tenuti ad richiedere et visitare la fonte de Treio et l’altre fonti dentro et for de Roma», in C. Re, Maestri di Strade dal 1452, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 43 (1920), pp. 5-102, Capitolo VII, p. 90. 33 F. Marazzi, I «patrimonia Sanctae Romanae Ecclesiae» nel Lazio (IV-X secolo). Strutture amministrative e prassi gestionale, Roma 1998, p. 56. 34 Nella Valle Sublacense venivano captati quattro dei principali acquedotti attivi in età romana (l’Anio Vetus, l’Aqua Marcia, l’Aqua Claudia e l’Anio Novus). 35 Ashby, Gli acquedotti, p. 32. 36 L’ultima menzione della Forma Claudia è del 1271 quando la ritroviamo come confine topografico in un atto di vendita (G. Ferri, Le carte dell’archivio Liberiano dal sec. X al XV, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 30 (1907), pp. 119-168, in particolare p. 125, n. LXVI; Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Storica n. 43). 117

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all’Abbazia sublacense da Giovanni X 37 nel 926 (privilegio confermato ancora da Leone IX nel 1051 38): in questo lasso di tempo il cenobio attuò una politica di «sistematica “colonizzazione” e di occupazione fondiaria» 39, attentamente ricostruita da P. Rosati, con la fondazione di ecclesiae, monasteria e cellae ma anche di castella, roccae e turres in adiacenza ai tratti aerei – quelli dell’Anio Novus – dell’acquedotto il cui percorso fu così controllato dalle sorgenti, sul lacus Neronianus, fino a Roma dove l’Abbazia si premurò di acquisire nel 938 su consiglio di Alberico 40 un cenobio interno alle mura, quello di S. Erasmo al Celio. In prossimità di questo monastero nel X secolo è attestato documentariamente un insediamento, detto Decenniae 41, che trova nella presenza dell’acqua 42 la sua ragione d’essere: infatti, il luogo è caratterizzato da una forte connotazione produttiva per la presenza di artigiani tessili («candicatores», «lanistae», «tessitores») che compaiono come testimoni in numerosi atti. Come avanzato in recenti lavori 43, il sito avrebbe rappresentato un avamposto urbano della lavorazione 37

L. Allodi, G. Levi, Il Regesto Sublacense del secolo XI, Roma 1885, n. 9. Ibidem, n. 21. 39 P. Rosati, I confini dei possessi del monastero sublacense nel medioevo (secoli X- XIII), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 135 (2012), pp. 31-62; P. Rosati, Celle e dipendenze del monastero di S.S. Scolastica e Benedetto in area laziale, in Teoria e pratica del lavoro nel monachesimo altomedievale, a cura di L. Ermini Pani, Atti del Convegno Internazionale, Roma-Subiaco, 7-9 giugno 2013, Spoleto 2015, pp. 191-211. Si vedano anche R. Motta, La decadenza degli acquedotti Claudio e Marcio ed il riuso delle loro strutture dalla fine del mondo antico al XIX secolo, in Gli acquedotti Claudio e Aniene Nuovo nell’area della Banca d’Italia in via Tuscolana, a cura di D. Minicioli, G. Pisani Sartorio, Roma 2001; G.M. Annoscia, C. Carloni, G. Maggiore, Monachesimo ed economia: le dipendenze monastiche di Santa Maria di Farfa e dei SS. Benedetto e Scolastica di Subiaco (Lazio), in Monasticism and Economy: Rediscovering an approach to work and poverty, eds. I. Jonveaux, T. Quartier, B. Sawicki, P. Trianni, Acts of the Fourth International Symposium, Rome, June 7-10, 2016, Roma 2019, pp. 301-331, in particolare pp. 323-324. 40 Privilegio del 9 febbraio 938 (Allodi, Levi, Il Regesto Sublacense, n. 24); Wickham, Roma medievale, p. 151. 41 F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel medioevo, voll. 6, Roma 1988 (rist. ediz. 1859-1872), III, p. 641, n. 2; R. Lanciani, I commentarii, pp. 12 e 16; U. Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medievale e moderna, Roma 1939, p. 93; Lanciani, Forma Urbis Romae, tavv. 36 e 42. 42 Rimarcata dai documenti che ricordano nell’857 «ad portam Mitrobi, fistula qui ducit aquam vivam» (Allodi, Levi, Il Regesto Sublacense, pp. 132-133, n. 87) oppure nel 965 l’«usu aque» (ibidem, pp. 135-136). 43 H. Di Giuseppe, La produzione laniera a Roma tra Tardo Antico e Medioevo: un caso di industria disattesa?, in L’archeologia della produzione, pp. 243-251; Wickham, Roma medievale, pp. 189-191; F. Franceschi, E. Pruno, F. Zagari, La produzione tessile nella Roma medievale. Una rilettura attraverso le fonti scritte e materiali, in «Archeologia Medievale», XLVII (2020), pp. 93-111. 38

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della lana in stretta relazione con due luoghi di produzione (Domine Quo Vadis e Torre Valca) ubicati questa volta nel limitrofo territorio suburbano che hanno invece restituito installazioni in loco, andando così a disegnare una topografia della lavorazione della lana in questo settore sud-orientale della città e del suburbio 44. Ulteriore indizio dell’importanza dell’Aqua Claudia nella topografia di quest’area45 è la presenza del toponimo Forma o Formis 46 comune a quattro chiese adiacenti al suo percorso, quali le ecclesiae S. Danielis, S. Nicolai, SS. Sergii et Bacchi e S. Thomae. Grande rilevanza avrà quest’ultimo edificio con annesso convento-ospedale (quello per l’appunto di S. Tommaso in Formis) la cui fioritura nel XII secolo fu patrocinata da Innocenzo III 47 e poi suggellata dalla conferma dei beni 48 alla chiesa da parte di Onorio III nel 1217. Risulta quindi del tutto verosimile che l’acquedotto fosse ancora in uso, magari con portata ridotta: infatti, è presumibile che l’ospedale fosse dotato di rifornimento idrico49 come l’area limitrofa gravitante intorno al Laterano50. Questa continua tensione per la ricerca di un costante approvvigionamento idrico funzionale al complesso Lateranense e ai numerosi mulini ubicati in sua adiacenza è comprovata anche dall’unica opera di canalizzazione realizzata ex-novo da papa Callisto II nel 1122 nell’ambito di una più ampia riorganizzazione urbanistica che interessò l’Urbe nella prima metà 44

Si veda ad esempio in L. Spera, Il Paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al medioevo. Il comprensorio tra le vie Latina e Ardeatina. Dalle mura Aureliane al III miglio, Roma 1999, UT 80-B2, p. 66, UT 98-B3, p. 72, UT 270, p. 164. 45 R. Coates-Stephens, The Walls and Aqueducts of Rome in the early Middle Ages, in «Journal of Roman Studies», LXXXVIII (1998), pp. 166-178, in particolare p. 173, n. 17; R. Coates-Stephens, Le ricostruzioni altomedievali delle mura Aureliane e degli acquedotti, in «Mélanges de l’École Française de Rome – Antiquité», 111/1 (1999), pp. 209-225, in particolare p. 217, n. 22; R. Meneghini, R. Santangeli Valenzani, Roma nell’altomedioevo. Topografia e urbanistica della città dal V al X secolo, Roma 2004, p. 68. 46 Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Toponomastica n. 106. 47 N. Bernacchio, L’Ospedale dei Giovanniti nel Foro di Traiano e l’architettura ospedaliera a Roma nel tardo Medioevo, in L’ordine templare nel Lazio meridionale, a cura di C. Ciammaruconi, Atti del Convegno, Sabaudia, 21 ottobre 2000, Casamari 2003, pp. 247274, in particolare pp. 257-258, con bibliografia precedente; C. Keyvanian, Hospitals and Urbanism in Rome, 1200-1500, Leiden 2015, p. 144. 48 Collectio Bullarium Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, dir. Card. Albani, Roma 1747, I, pp. 100 ss. 49 Caput Africae, a cura di C. Pavolini, Roma 1993, p. 51. Per il restauro dell’acquedotto Claudio nell’altomedioevo e per la piena età medievale, ibidem, p. 60 e nota 291; per la sua definitiva cessazione nel XIV secolo, ibidem, p. 69, nota 349. Cfr. C. Pavolini, Aspetti del Celio tra V e VIII-IX secolo, in Roma tra l’antichità e il medioevo II: contesti tardoantichi e medievali, a cura di L. Paroli, L. Vendittelli, Roma 2004, pp. 418-434, in particolare pp. 427-428. 50 Meneghini, Santangeli Valenzani, Roma nell’altomedioevo, p. 215. 119

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Fig. 4 – G.B. Nolli, Pianta di Roma, 1748, particolare (Frutaz, Le piante di Roma, Tav. 362)

del XII secolo: si tratta della già citata Aqua Marrana (o Mariana), denominata «aqua» 51, «cursus» o «rius» 52 in quanto il suo percorso era cavato direttamente nel terreno (fig. 4). Essa era captata nel versante interno sudoccidentale del recinto Tuscolano-Artemisio, come deviazione del fiume 51

«Aqua que dicitur Marana», cessione del 19 agosto 1348 (R. Mosti, I protocolli di Iohannes Nicolai Pauli, un notaio romano del’300 (1348-1379), Roma 1982, p. 34, n. 52). Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Storica n. 45. 52 Vendita del 24 novembre 1354 (Mosti, I protocolli di Iohannes, p. 94, n. 223). Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Storica n. 46. 120

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Tuscolano, vicino alla città di Tusculum: un dato che emerge costantemente è il poco pregio di quest’acqua, «olim sordissima» 53, una sorta di ruscello prodotto dagli scoli degli stagni non solo delle acque Tuscolane, ma anche della Giulia, della Tepula, della Crabra 54 e di parte della Algidosia55, tutte non più canalizzate. Il suo tracciato56, attraverso una rete di condutture e fossi a cielo aperto, con un percorso di oltre 30 km giungeva fuori dalle mura Aureliane presso porta Asinara dove formava un «lacus», ossia un bacino artificiale per l’abbeveramento dei cavalli 57. Poi la Marrana veniva condotta attraverso porta Metronia al Circo Massimo per poi sfociare nel Tevere: il suo corso fu sfruttato per l’impianto di numerosi mulini 58 ubicati sia in prossimità del Laterano, come quelli di S. Sisto Vecchio 59, sia nell’area del Circo stesso. Nel tratto terminale che conduceva il flusso idrico al Tevere, la Marrana ricalcò il tracciato di un’acqua più antica, la Iobia 60 (identificata da R. Coates-Stephens con l’Aqua Antoniniana a sua volta assimilata all’Aqua Alexandrina) 61, testimoniata a livello documentario a partire 53

R. Lanciani, I commentarii, p. 115. E. Bultrini (E. Bultrini, L’acqua Crabra: un fiume scomparso. Vicende del confine naturale tra Roma e la civitas tusculana, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 135 (2012), pp. 63-83, in particolare p. 65) preferisce usare il sintagma Acqua Crabra per identificare la Marrana, seguendo così la denominazione antica presente in taluni documenti dei primi decenni del secolo XI (P. Fedele, Tabularium S. Mariae Novae, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 25 (1902), doc. VII). 55 Corvisieri, L’Acqua Tocia, p. 193; F. Mastrigli, Acque, acquedotti e fontane di Roma, Roma 1929, p. 121; L. Cardilli Alloisi, Acquedotti e mostre d’acqua dal Medioevo al XIX secolo, in Il trionfo dell’acqua. Acque e acquedotti a Roma. IV-XX, Roma 1986, pp. 201-202. 56 Sul corso del fiume e sull’analisi dettagliata delle relative quote si vedano Giannini, Leggere la città; L. Spagnoli, Tor Vergata: continuità e modificazioni nel paesaggio della Campagna Romana, in Memorie della Società Geografica Italiana, Roma 2006; F. Arietti, Dalle origini di Tuscolo al «piccolo Lazio dei tarquini», in Tusculum. Storia, Archeologia, Cultura e Arte di Tuscolo e del Tuscolano, a cura di F. Arietti, A. Pasqualini, Atti del primo incontro di studi, 27-28 Maggio e 3 Giugno 2000, Roma 2007. 57 Il lago «ad Prata Decii» davanti alla porta Asinara che forniva forza motrice ad alcune mole di proprietà di S. Giovanni in Laterano (P. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, I: Italia Pontificia, I, Roma-Berlino 1906, p. 28, docc. 20 e 22 e p. 29, doc. 24). 58 Ricordo il mulino a S. Sisto Vecchio, quello nei pressi della Torre dei Frangipane nel Circo Massimo e le mole situate nei dintorni di S. Maria in Cosmedin. 59 «Forme aqueductus molendini superioris dicti monasterii Sancti Sixti», controversia del 1260 (C. Carbonetti Vendittelli, Le più antiche carte del convento di San Sisto in Roma (9051300), Roma 1987, p. 262, n. 132). Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Storica n. 39. 60 Ashby, Gli acquedotti; Motta, La decadenza degli acquedotti; Coates-Stephens, The walls and aqueducts; Meneghini, Santangeli Valenzani, Roma nell’altomedioevo, p. 68. 61 Coates-Stephens, The walls and aqueducts. Uno studio geochimico sulle concrezioni travertinose depositate nelle condutture e nelle cisterne delle terme di Caracalla, che erano 54

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dall’VIII secolo («forma Iopia quae venit de Marsia et currit usque ad ripam» 62) e oggetto di numerosi restauri papali, come quelli di Adriano I («a fundamentis restauravit» 63), di Sergio II 64 e di Nicola I 65 che, trovandola «confracta», la restituì alla «Romana Urbe»: essa non è più menzionata dall’inizio del X secolo. Questo avvicendamento delle due acque, la Iobia e la Marrana, è suffragato dal rinvenimento a seguito di indagini archeologiche 66 nell’emiciclo orientale del Circo Massimo in adiacenza alla Torre dei Frangipane (la turris de Arcu) 67 di strutture pertinenti a due distinte e successive canalizzazioni: la prima fu in uso dal VII al X secolo (il che consente di antedatare al VII secolo l’introduzione dell’Aqua Iobia), cui seguì una netta cesura tra il X (quando è attestato un mulino a pala orizzontale) e l’XI secolo, mentre la seconda canalizzazione, pertinente alla Marrana, fu approntata nel XII secolo. Negli ultimi anni sono stati rimarcati molti aspetti sottesi alla realizzazione di questo canale, vuoi più strettamente politico-economici vuoi più squisitamente tecnici (per i quali rimando alla bibliografia specifica) vuoi più estesamente urbanistici. In merito alla portata politica ed economica di questo intervento, E. Bultrini per un verso inserisce l’operato di Callisto II nella contrapposizione tra alcune famiglie dell’aristocrazia senatoria romana e i Conti Tuscolani per il controllo della città di Roma che si risolse, come ben noto, con la distruzione di Tusculum 68 nel 1191 (sul cui territorio l’acqua servite da questo acquedotto in epoca altomedievale, avvalora questa ipotesi (Zanzi, La scomparsa del Circo Massimo, p. 275). 62 Itinerario di Einsiedeln (Codice topografico, II, pp. 171-174; Del Lungo, Roma in età carolingia, pp. 61-62). 63 Le Liber Pontificalis, I, pp. 504-505. Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Storica n. 3. 64 Le Liber Pontificalis, II, p. 91. Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Storica n. 8. 65 Le Liber Pontificalis, II, p. 154. Cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Scheda Storica n. 11. 66 Le indagini archeologiche si sono svolte negli anni ’80 (P. Brandizzi Vittucci, Circo Massimo: materiali e strutture presso la Torre Frangipane, in «Quaderni di archeologia etrusco-italica», VIII/15 (1987), pp. 47-56; P. Brandizzi Vittucci, Circo Massimo: contributi di scavo per la topografia medievale, in «Quaderni di archeologia etrusco-italica», IX/16 (1988), pp. 406-416; P. Brandizzi Vittucci, L’emiciclo del Circo Massimo nell’utilizzazione post classica, in «Mélanges de l’École Française de Rome – Antiquité», 103/1 (1991), pp. 7-40) e, poi, dal 2009 al 2015 (Buonfiglio, Circo Massimo). 67 M. Gargiulo, La torre del Circo Massimo e alcune testimonianze sull’insediamento della famiglia Frangipane nel Palatino, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 124 (2001), pp. 5-25. 68 V. Beolchini, Tusculum 2: Tuscolo, una roccaforte dinastica a controllo della Valle Latina. Fonti storiche e dati archeologici, Roma 2006. 122

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veniva captata) e con la conseguente eclissi della loro secolare egemonia 69. Per altro verso lo studioso intravede nella deviazione del fiume Tuscolano un «“beneficio” concesso alla potente basilica lateranense che ospitò il Primo Concilio (Lateranense) nel 1123 e come opera d’ingegneria idraulica da mostrare a centinaia di vescovi provenienti da tutta Europa»70, all’indomani della conferma del Concordato di Worms da parte del medesimo Concilio. Ritengo che in questa stessa direzione propagandistica porti anche la coeva edificazione e successiva decorazione della cappella di S. Nicola nel palazzo lateranense su volere dello stesso Callisto II: mi riferisco in particolare ai programmi pittorici tràditi corredati da iscrizioni didascaliche che, con una chiara valenza politica di ben altre due successive committenze, hanno interessato la succitata cappella che fu poi oggetto d’interesse di Anacleto II che ne adornò l’abside in segno di continuità col predecessore, per finire con la rottura ‘politica’ di Innocenzo II che costruì due nuovi ambienti, contigui ai precedenti, che anch’egli fece decorare con affreschi 71. Un ulteriore aspetto propagandistico (ma forse anche funzionale) sotteso a questo intervento ritengo possa essere collegato alla chiesa di S. Maria in Cosmedin, limitrofa al condotto sotterraneo per lo sbocco della Marrana nel Tevere, che fu interessata da un programma “epiconografico” 72 di ampio respiro con ben sei iscrizioni, tutte datate al 1123, tra cui quella di consacrazione dell’altare maggiore per mano di Callisto II. Si è tutti concordi nel leggere il valore soprattutto economico della nuova canalizzazione. Numerose testimonianze documentali e iconografiche attestano la presenza di un gran numero di mole lungo il percorso extraurbano73 69

S. Carocci, M. Vendittelli, Società ed economia (1050-1420), in Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 2001, pp. 71-116, in particolare pp. 73-80 e Maire Vigueur, L’altra Roma, pp. 148-177. 70 Bultrini, L’acqua Crabra, p. 72. 71 P.C. Claussen, Die Kirchen der Stadt Rom im Mittelalter 1050-1300 (= Corpus Cosmatorum II, 2): S. Giovanni in Laterano, Stuttgart, 2008; Wickham, Roma medievale, p. 415. 72 S. Riccioni, Epigrafia, spazio liturgico e riforma gregoriana. Un paradigma: il programma di esposizione epigrafica di S. Maria in Cosmedin, in «Hortus artium medievalium», 6 (2000), pp. 143-152; S. Riccioni, L’Epiconografia: l’opera d’arte come sintesi visiva di scrittura e immagine, in Medioevo: Arte e storia, Atti del X Convegno Internazionale di studi, Parma, 18-22 settembre 2007, Milano 2008, pp. 465-480. 73 Per le mole presenti lungo la Crabra nel vallone sottostante l’Abbazia di San Nilo e nell’area della valle Marciana già dal secolo XI si veda M.T. Caciorgna, L’Abbazia di Grottaferrata: origini, patrimoni, diritti, in Santa Maria di Grottaferrata e il cardinale Bessarione. Fonti e studi sulla prima Commenda, a cura di M.T. Caciorgna, Roma 2005, pp. 7-8 e pp. 299-300; F. Zagari, Dalla villa al monastero: nuovi dati archeologici da S. Maria di Grottaferrata, Oxford 2014. 123

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e urbano74 della Marrana, cui si aggiungono ulteriori strutture, come le piscarie, le canapine o le ferriere, la cui realizzazione comportò un consistente investimento: si venne così definendo un comparto produttivo nel settore sudoccidentale della città frutto probabilmente di una precisa “strategia urbana”. Inoltre, nell’area compresa tra Ripa e S. Angelo è attestata la maggioranza delle botteghe dei fabbri romani che, insieme ai conciatori e ai follatori, erano gli artigiani che più di altri necessitavano di acqua corrente75. E. Bultrini riflettendo sulla ricaduta economica che ebbe la canalizzazione della Marrana sulle terre e sui possedimenti a essa limitrofi che accrebbero, inevitabilmente, il loro valore agricolo, industriale e conseguentemente economico, ravvede con buonsenso un legame tra l’azione stessa di deviazione e gli Enti 76 e i possessori di questi terreni, molti dei quali membri della nascente aristocrazia romana, che «investirono cospicui capitali nella realizzazione delle strutture sopraccitate, con tutta probabilità contribuirono anche in prima persona alla deviazione del fiume se non ne furono addirittura i promotori. […] Inducendo altresì ad ipotizzare una pianificazione oculata dello sfruttamento del territorio e delle risorse idriche ivi presenti» 77, pianificazione sulla quale tornerò. Indizia il ruolo principe di alcune tra le più importanti famiglie aristocratiche per un verso il lavoro di N. Giannini che ha ascritto la peculiare tecnica costruttiva in scaglie di marmo e selce delle sostruzioni di un terrapieno 78 di poco successivo alla canalizzazione a cielo aperto della Marrana 74

Come quello detto di Septemsolis appartenuto, nel 1217, a Jacobo Frangipane e uno, detto di S. Gregorio, appartenuto ai monaci, che compare nel 1381 (Zanzi, La scomparsa del Circo Massimo, p. 276). Due bellissime incisioni di H. Cock e di E. Du Pérac mostrano il Circo Massimo suddiviso in numerose parcelle riccamente irrigate dai canali dell’Acqua Marrana su cui insistono alcune mole fortificate, la più famosa delle quali è sicuramente la Moletta dei Frangipane, o Moletta dell’Arco, eretta sui resti dell’emiciclo orientale dell’arena. 75 È nota, infatti, l’esistenza nel rione S. Angelo della c.d. «via recta Ferrariorum» (I. Lori Sanfilippo, La Roma dei Romani. Arti, mestieri e professioni nella Roma del Trecento, Roma 2001, p. 221 e Maire Vigueur, L’altra Roma, p. 92). 76 Ricordo anche l’abbazia italo-greca di Grottaferrata (Zagari, Dalla villa al monastero, pp. 135, 161-164, 169). 77 Bultrini, L’acqua Crabra, p. 78. 78 Sono state identificate due distinte attività costruttive, tra loro cronologicamente vicine: una prima relativa a una canalizzazione a cielo aperto, pavimentata con materiale architettonico di recupero, la cui costruzione determina la completa defunzionalizzazione dell’acquedotto precedente, ossia la Iobia. Poco dopo, all’inizio del XII secolo, furono realizzati prima un terrapieno con materiali fittili e poi una chiusa e un muro a valle di detto terrapieno, ossia un sistema di regolamentazione del flusso idrico volto a consentire il funzionamento di un opificio idraulico. Queste strutture sono messe in opera con schegge di marmo di recupero sia in alzato che in fondazione e caratterizzate da una fase di utilizzo piuttosto breve. 124

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alla committenza primariamente di nobiles viri quali Pierleoni e Corsi 79 ma anche del Senato 80 stesso, come visibile nel restauro di un tratto delle mura Aureliane databile forse al 1157 81. Per altro verso, in questa stessa direzione porta anche la ridefinizione della carta dei possedimenti del territorio tuscolano all’indomani della distruzione di Tuscolo: infatti, molti dei mulini e dei casali furono costruiti tra fine XII e inizio XIII secolo dagli stessi mercatores e senatores 82 che avevano appoggiato la conquista della civitas nel 1191. D’altronde, già A. Perchuk aveva individuato una «politica di mecenatismo culturale e architettonico»83 che interessò Roma fin dalla metà dell’XI secolo e che secondo la studiosa fu portata avanti congiuntamente dal papato, dalla Curia e dalla nascente aristocrazia romana, tra cui i Frangipane e i Pierleoni. Testimonia l’importanza economica che rivestì l’Aqua Marrana in relazione ai numerosi opifici dislocati lungo il suo percorso la lunga contesa giuridica circa la sua amministrazione tra il Capitolo di S. Giovanni in Laterano, primo proprietario, e il Comune che era riuscito a porla sotto la sua dipendenza, curandone il percorso urbano come riflesso nello Statuto del 1363 84 («Aqua Circhuli»). Tale era lo stato delle cose quando Bonifacio IX nel 1389 volle affidarne nuovamente la tutela e la gestione al Capitolo di S. Giovanni, demandando a questo istituto la possibilità di nominarne 79

L’opera a scaglie di marmo e selce è stata riscontrata infra moenia in altri sette edifici databili tra XII e inizi del XIII secolo e sempre legati alla committenza di importanti famiglie aristocratiche. Si tratta della torre sull’Isola Tiberina, di quella del teatro di Marcello, di un edificio nei pressi della chiesa di S. Sebastiano all’Appia, della torre dei Conti, di un altro edificio presso piazza S. Francesco di Paola e di quello all’interno del complesso dei SS. Quattro Coronati, cui vanno aggiunti i lacerti murari nell’area del tempio di Apollo e Bellona (Giannini, Abitare a Roma, p. 301). 80 Sul ruolo attivo dei sexaginta Senatores ancora prima dell’istituzione ufficiale del Comune nel 1143 si veda Carocci, Vendittelli, Società ed economia, p. 79. 81 Il riferimento è a un tratto di mura compreso tra Porta Metronia e Porta Ostiense per il quale già R. Mancini aveva avanzato l’ipotesi di un possibile coinvolgimento del Senato (R. Mancini, Le mura Aureliane di Roma: atlante di un palinsesto murario, Roma 2002, pp. 59-68). Presso Porta Metronia è affissa un’iscrizione celebrativa del restauro delle mura per mano del Senato nel 1157 (V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edifici di Roma dal secolo XI fino ai nostri giorni, Roma 1879, XIII, p. 25, n. 1; A. Silvagni, Monumenta epigraphica christiana saeculo XII antiquiora quae in Italia finibus adhuc exstant, I (Roma), Città del Vaticano 1943, tav. XXV, n. 5). 82 S. Carocci, M. Vendittelli, L’origine della Campagna Romana. Casali, castelli e villaggi nel XII e XIII secolo, Roma 2004, pp. 95-96. 83 A. Locke Perchuk, Anacletus II, the Pierleoni, and the rebuilding of Rome, ca. 1070-1150, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 141 (2018), pp. 35-56. 84 «De Aqua Circhuli et aliis aquis» e «De Aqua Marane» affinché sia «reparanda per adiacentes» (Re, Statuti della città, Liber tertius, Capitoli CLXXXVIII e CLXXXIX, p. 187). 125

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gli ufficiali preposti alla sorveglianza («defensores») e proibendo parallelamente l’imposizione di dazi, «taleas» e oneri. In seguito, fu istituito un nuovo Tribunale detto della Marrana di S. Giovanni con membri interni al Capitolo stesso 85. Passando agli aspetti urbanistici relativi alla deviazione della Marrana, richiamo quella «pianificazione oculata dello sfruttamento del territorio e delle risorse idriche ivi presenti» cui non sarà certo stato estraneo l’optimum climatico medievale 86 individuato tra X e XII secolo che comportò un significativo innalzamento delle temperature e una conseguente riduzione delle precipitazioni («spring and summer rainfall simultaneously decreases»): ritengo che questa pianificazione possa inserirsi in quell’«estesissimo programma urbanistico» 87 già citato in precedenza che interessò Roma tra la fine dell’XI secolo e almeno i primi tre decenni del XII secolo e che F. Guidobaldi ascrive al pontificato di Pasquale II (1099-1118). Si trattò di un ampio intervento di innalzamento delle quote stradali, finalizzato almeno in parte anche a una rivitalizzazione della viabilità principale della città in pertinenza a lunghi e articolati percorsi viari. In particolare, lo studioso ha rimarcato la «sorprendente coincidenza topografica» tra i percorsi più ufficiali legati al cerimoniale della Roma papale (in particolare quello della secunda feria nella liturgia pasquale) 88 e alcune delle aree nelle quali ha individuato evidenti e notevoli rialzamenti di quota (tra i 2 e i 4 m.). Secondo F. Guidobaldi l’intervento era funzionale non solo a «bonificare» e rialzare il livello delle strade da percorrere durante le più importanti processioni che, attraversando gran parte della città, collegavano i due principali punti di riferimento della Roma papale, cioè il Laterano e il Vaticano, e altri fondamentali centri cultuali urbani, ma funzionale anche a ricostruire alle nuove quote le chiese 89 che si affacciavano su quei percorsi, alcune 85 P. Becchetti, La Marrana dell’Acqua Mariana, in «Lunario Romano», 3 (1974), pp. 58-63, in particolare p. 59; Annoscia, Il sistema idrico, pp. 171-172. 86 Temperature variability at Dürres Maar, Germany during the Migration Period and at High Medieval Times, inferred from stable carbon isotopes of Sphagnum cellulose, a cura di R. Moschen, N. Kühl, S. Peters, H. Vos, A. Lücke, in «Climate of the Past», 7 (2011), pp. 1011-1026, in particolare pp. 1020-1021. 87 Guidobaldi, Un estesissimo intervento. 88 Descritta nell’Ordo incluso nel Liber Politicus di Benedetto Canonico (Codice Topografico, III, pp. 217-219). 89 Questo articolato livellamento dell’orografia urbana interessò anche l’edilizia civile come messo in evidenza da N. Giannini (Abitare a Roma, pp. 42-43) in merito ad alcune abitazioni realizzate dopo questa grande bonifica o in stretta connessione con essa: ad esempio, le quote dei portici di via di S. Bonosa indiziano una loro edificazione successiva alla colmata della depressione in cui giaceva la chiesa S. Crisogono. In questa direzione

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delle quali, non a caso, erano incluse anche come stationes o come punti di collecta degli itinerari processionali che si svolgevano intorno agli edifici civili ed ecclesiastici “identitari” dell’Urbs. Come intuito da C. Wickham 90 nella sua estesa trattazione sull’aspetto cerimoniale dell’Urbe, la società romana era connotata da un articolato ed esplicito senso della geografia simbolica e monumentale della città, resa manifesta proprio dai percorsi processionali che contribuirono alla “costruzione rituale di Roma”. Questo diffuso intervento urbanistico di innalzamento delle quote stradali, come abbiamo visto, è stato ascritto da F. Guidobaldi al tempo di Pasquale II, ivi compresa la dimensione economica sottesa a detto intervento: già C. Wickham, riflettendo sull’incremento di fondazioni o ricostruzioni di chiese nel XII secolo, aveva circoscritto gli investimenti monetari alla prima metà del secolo, dal pontificato di Pasquale II a quello di Innocenzo II, includendo quindi anche l’operato di Callisto II. Secondo lo studioso 91, furono i papi e gli ecclesiastici più tormentati a investire grosse somme di denaro in ambiziose opere di edilizia ecclesiastica, agendo non solo in una fase di contestazione interna ed esterna ma anche in un momento di crisi del sistema politico romano in cui tutti gli indicatori della prosperità economica urbana erano negativi, come riflesso dal rallentamento della crescita urbana dalla metà dell’XI fino alla seconda metà del XII secolo, come vedremo. C. Wickham, quindi, nel rimarcare una mancata sincronicità del costo dell’edilizia religiosa con gli altri indicatori di attività economica, definisce queste spese “difensive”, in segno di forza politica a fronte di contestazioni in atto, interne ed esterne. Captazione idrica “spontanea” Accanto a questo approvvigionamento idrico “programmato” e indirizzato principalmente al rifornimento di alcuni settori urbani (quello meridionale intorno al Laterano, quello nord-occidentale intorno al Vaticano, quello nel Campo Marzio centro-settentrionale cui fece seguito, nel XII, la definizione di un comparto produttivo nel settore sud-occidentale della città frutto probabilmente di una precisa “strategia urbana”), porta anche l’analisi delle quote delle cellule abitative in via di Montefiore, sempre a Trastevere, in via delle Botteghe Oscure e in via Capodiferro. 90 Wickham, Roma medievale, pp. 376-405. 91 Ibidem, pp. 418-419. 127

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vi è una captazione “spontanea” da un attrattore naturale, il Tevere 92, che garantiva sopravvivenza e sussistenza mediante lo sfruttamento delle sue risorse economiche. Ormai da tempo, grazie ai risultati di indagini archeologiche e di studi topografici basati sulle fonti scritte, è stata riletta e attenuata la posizione di R. Krautheimer 93 che vedeva una netta divisione tra l’“abitato”, la città densamente abitata sulle aree pianeggianti dell’ansa del Tevere e intorno a via Lata, e il “disabitato”, ossia il resto della città racchiusa entro le mura Aureliane. Infatti, É. Hubert nei suoi fondamentali lavori riteneva che l’abitato medievale avesse contorni più sfumati e che il cosiddetto disabitato per gran parte del Medioevo fosse decisamente più popolato di quanto non si ritenesse in precedenza: l’assenza di un nucleo urbano compatto a favore di un abitato disperso riflette lo spostamento della popolazione in piccoli centri («constellation de cellules isolées» 94), veri villaggi e frazioni all’interno della cinta con uno spazio modulato dall’alternanza di costruito e coltivato erede di quel paesaggio urbano altomedievale descritto da R. Santangeli Valenzani e R. Meneghini con l’espressione “a macchia di leopardo” 95. Inoltre, É. Hubert ritiene che l’abitato nella piana fluviale fosse molto meno denso fino almeno ai primi decenni dell’XI, allorquando ha individuato un primo momento di crescita dell’abitato, il che legittima l’espressione «extra locum habitatum in Urbe» 96 a indicare un «espace urbain par sa situation et rural par son paysage» 97. A questo iniziale sviluppo urbano, quando sono documentate le prime lottizzazioni per mano di alcuni enti ecclesiastici, segue un evidente rallentamento dalla metà dell’XI fino agli anni venti del XII secolo 98 quando inizia una nuova fase di urbanizzazione che successivamente, tra la seconda metà del XII 92

L. Palermo, Il porto di Roma nel XIV e XV secolo. Strutture socio-economiche e statuti, Roma 1979. 93 R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città (312-1308), Roma 1981, pp. 74, 87, 297 ss., 311 ss. e 326 ss. Il processo di dissoluzione avvenne con la diserzione dei colli e la resistenza dell’abitato nell’area centrale del Campo Marzio. E. Guidoni, Roma e l’urbanistica del Trecento, in Dal Medioevo al Quattrocento. Storia dell’Arte Italiana, V, Torino 1983, pp. 305-383. 94 Hubert, Éspace urbain, p. 81. 95 Meneghini, Santangeli Valenzani, Roma nell’altomedioevo, p. 214. 96 Re, Statuti della città, p. 54. 97 Hubert, Éspace urbain, p. 84. 98 C. Wickham, dal canto suo, se da un lato non dubita del fatto che l’ansa del Tevere a Ovest e a Sud di piazza Navona era ancora poco occupata prima del XII secolo dall’altro consiglia una posizione più cauta visto che non disponiamo praticamente di dati, in un senso o nell’altro, su queste aree prima del tardo XII (Wickham, Roma medievale, p. 154). 128

Sistemi idrici e spazi urbani nella Roma bassomedievale

secolo e la fine del XIII, comportò una rinnovata espansione urbana e una ricomposizione delle maglie insediative fino ad allora generate. In parallelo, P. Delogu 99 ravvisava nel X secolo l’avvio di questo nuovo momento urbanistico caratterizzato dalla progressiva concentrazione della popolazione nel Campo Marzio e, sulla riva opposta, nella città Leonina e a Trastevere 100: questo ampio spostamento è stato letto dalla critica storica 101 come riflesso dell’accresciuta importanza del fiume nella vita economica dell’Urbs e come «segno indiretto di un consolidamento della popolazione e delle risorse che fa da contrappeso all’apparente incertezza politica e prelude alla complessa organizzazione della vita cittadina che diviene bene evidente nella seconda metà del secolo» 102. Infatti, è vicino al Tevere, vettore dello sviluppo urbano, che si ridisegna la nuova pianta di Roma, grazie anche all’abbandono del Porto di Traiano a Porto verso la seconda metà del IX secolo che implicò anche una nuova organizzazione degli attracchi urbani 103. I quartieri portuali si trovano ormai sulla riva transteverina anche se gli impianti della Marmorata, ai piedi dell’Aventino, non erano ancora caduti in abbandono: installato forse fin dalla metà del IX secolo, il porto di Ripa Romea assunse un’importanza sempre maggiore fino a divenire, circa due secoli dopo, il più importante attracco romano dove pervenivano i rifornimenti via mare che risalivano il corso del Tevere in quanto vi potevano approdare imbarcazioni piuttosto grandi (impossibilitate a risalire oltre per la qualità dei fondali), venendo così a soppiantare il Portus Maius posto agli argini della città Leonina 104. A monte di ponte Sant’Angelo si estendeva l’altro porto principale di Roma, quello di Ripetta (fig. 5), dove venivano scaricate le merci che arrivavano da Nord, ovvero «dall’area geoeconomica umbro-laziale che si serviva del 99

P. Delogu, Roma dall’antichità al medioevo. La storia, in Roma dall’antichità al medioevo. Archeologia e storia nel Museo Nazionale Romano - Crypya Balbi, a cura di M.S. Arena, P. Delogu, L. Paroli, M. Ricci, L. Saguì, L. Vendittelli, Milano 2001, p. 13-21, in particolare p. 20. 100 G.M. Annoscia, E. De Minicis, M. Taviani, Case, strade e pozzi nel Trastevere medievale, in Trastevere. Un’analisi di lungo periodo I, a cura di L. Ermini Pani, C. Travaglini, Convegno di studi, Roma, 13-14 marzo 2008, Roma 2010, pp. 183-231. 101 Topografia e urbanistica di Roma, a cura di L. Castagnoli, M. Cecchelli, G. Giovannoni, M. Zecca, Roma 1958; Krautheimer, Roma. Profilo di una città; Hubert, Éspace urbain. 102 Delogu, Roma dall’antichità, p. 19. 103 S. Coccia, Il ‘Portus Romae’ tra tarda antichità e altomedioevo, in La storia economica di Roma nell’alto medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici, a cura di L. Paroli, P. Delogu, Atti del Seminario, Roma, 3-4 aprile 1992, Firenze 1993, pp. 177-200; É. Hubert, L’organizzazione territoriale e l’urbanizzazione, in Roma medievale, pp. 159-186, in particolare p. 164; per il periodo successivo, Palermo, Il porto di Roma. 104 Documentato per la prima volta nel 955 (Hubert, L’organizzazione territoriale, p. 164). 129

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Fig. 5 – A. Tempesta, Pianta di Roma, 1593, particolare (A.P. Frutaz, Le piante di Roma, 3 voll., Roma 1962, Tav. 262)

fiume per giungere con i suoi prodotti al mercato romano»105. Inoltre, sulla riva cistiberina sei postierle si aprivano nelle mura per permettere lo scarico delle merci in città. Come ben messo in evidenza da É. Hubert e da R. Coates-Stephens 106, lo spostamento della popolazione verso l’ansa del Campo Marzio può essere anche stato favorito dalla scarsa urbanizzazione che lo rendeva luogo propizio ad accrescere le proprietà edilizie degli enti ecclesiastici 107 mediante la concessione di «terrae vacantes ad domos faciendas» 108 : la “conquista” di quest’area venne a coincidere anche con l’ultima notizia del funzionamento degli acquedotti cui seguì un parallelo spostamento verso il Tevere al fine di sfruttare «il ruolo polifunzionale che il fiume aveva per 105

Palermo, Sviluppo economico, p. 428. Coates-Stephens, Le ricostruzioni altomedievali, p. 224. 107 Ricordo il monastero femminile dei Santi Ciriaco e Nicola in via Lata, quello dei Santi Andrea e Gregorio in Clivo Scauri e, ancora, il cenobio dei Santi Cosma e Damiano in Mica Aurea (Hubert, L’organizzazione territoriale, p. 165). 108 Hubert, Éspace urbain, p. 165. 106

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gli abitanti della città» 109. Infatti, oltre a conservare l’antica funzione di via di comunicazione e di scambi commerciali (ricordo la spiccata vitalità economica e mercantile che connota i mercatores 110 romani specializzati nel commercio del denaro), garantiva l’acqua “potabile” 111, la pesca necessaria per l’alimentazione (con l’impianto di numerose piscariae collocate anche nelle acque interne delle regioni limitrofe) 112, lo sviluppo di attività 109

L. Palermo, Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento, in «Rome des Quartiers», pp. 335-351, in particolare p. 341. 110 Carocci, Vendittelli, Società ed economia, pp. 79-80; M. Vendittelli, Mercanti romani del primo Duecento ‘in Urbe potentes’, in Roma nei secoli XIII e XIV, a cura di É. Hubert, pp. 89-135; Id., Testimonianze sui rapporti tra «mercatores» romani ed i vescovati di Metz e Verdun nel XIII secolo, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 118 (1995), pp. 69-99; Id., «In partibus Anglie». Cittadini romani alla corte inglese nel Duecento: la vicenda di Pietro Saraceno, Roma 2001; Id., Mercanti-banchieri romani tra XII e XIII secolo. Una storia negata, Roma 2018. 111 In relazione alla distribuzione di acqua infra moenia, le fonti documentarie e iconografiche riportano la figura dell’acquaiolo (Aquarenarius o Aquariziarius) che avrà grande rilevanza in epoca rinascimentale (G.L. Masetti Tannini, Acquaroli a piccoli del XVI secolo, in «Lunario Romano», III (1974), pp. 165-176), il cui lavoro era quello di «acqua portare» al fine di distribuirla nei vari Rioni: questi venditori al minuto di acqua potabile portata con asini e muli si rinvengono come testimoni nei testamenti e nei contratti oppure come noti frequentatori di osterie, e rivestono un ruolo primario nella Roma medievale almeno fino al completo riacquisto della funzionalità degli acquedotti. La corporazione degli Aquarenarii, che aveva come sede nella contrada Scorteclaria la chiesa di Sant’Andrea de Aquariciariis (o de Aquarizariis) documentata dal 1115 (S. Passigli, Lo sviluppo dell’abitato intorno al campus Agonis fra la fine del secolo XIV e l’inizio del XVI, in «Piazza Navona, ou Place Navone, la plus belle & la plus grande». Du stade de Domitien à la place moderne, histoire d’une évolution urbaine, a cura di J.-F. Bernard, Roma 2014, pp. 275-296, in particolare p. 273), poi S. Maria della Pace, aveva il compito di estrarre l’acqua dal Tevere in una zona a settentrione della città, farla decantare e poi distribuirla, come traspare nella Vita di Cola di Rienzo la cui madre aveva per compito quello di «lavare panni e acqua portare» (Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano 2010, p. 104): vi era nei pressi di via Giulia un «viculus per quem aquaroli vadunt ad flumen pro aqua» (Roma, Archivio di Stato di Roma, Collegio dei Notai Capitolini, vol. 19, I, c. 160) che immetteva in uno dei tre Porti degli Acquaroli, vicino ponte Sisto. 112 A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo e Età Moderna, Roma 1998; M. Vendittelli, Diritti e impianti di pesca degli enti ecclesiastici romani tra X e XIII secolo, in «Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 104/2 (1992), pp. 387430; A. Lanconelli, Il commercio del pesce a Roma nel tardo Medioevo, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di A. Esposito e L. Palermo, Roma 2005. I contratti di locazione di piscarie tiberine sono rintracciabili nella documentazione a partire dal Duecento; essi, per quanto scarsi, sembrano comunque indicare che gli enti ecclesiastici (chiese o monasteri) ricorrevano a forme di gestione indiretta quando tali impianti necessitavano di costosi restauri o dovevano essere addirittura ricostruiti, con contratti di locazione a breve termine (Vendittelli, Diritti e impianti, pp. 422 e ss.): il loro 131

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Fig. 6 – Veduta dall’Aventino verso Trastevere, 1495 ca., disegno nel Codex Escurialensis, f. 56v (tratto da Krautheimer, Roma. Profilo di una città)

artigianali (dei cuoiai, dei conciatori 113, dei ferrari e dei tintori 114), la forza motrice per i mulini preposti alla macinazione del grano (la cui ubicazione è preservata dai documenti, dalla toponomastica115 e dall’iconografia, fig. 6) con grande beneficio dei monasteri che presero ad affittare i diritti di pesca sfruttamento avveniva attraverso la concessione dell’esercizio della pesca dietro corresponsione di una somma di denaro e di una parte dei pesci. 113 Un buon numero di vaccinarii e di pellarii si concentrano nel rione Arenula, non lontano dal Tevere dove sono localizzate le vasche necessarie per la pulizia e la conciatura delle pelli, J.-C. Maire Vigueur, Il mondo dei mestieri a Roma, in L’archeologia della produzione, pp. 439-465. 114 Il procedimento di purgatura doveva essere effettuato direttamente nell’acqua del fiume, come nel caso di una casa-opificio attestata nel 1505 nel Rione Trastevere, vicino la piscaria di S. Cecilia: infatti, la normativa statutaria proibiva di lavare panni e lana filata negli abbeveratoi degli animali e nei condotti (cabulas) dell’acqua Vergine, restaurati nel XIV secolo (I. Ait, Aspetti della produzione dei panni a Roma nel basso Medioevo, in Economia e società, pp. 33-59). In questo stesso Rione gli Umiliati possedevano dal 1298 una casa dove esercitavano l’Arte della Lana (C. De Cupis, La lana e la sua industria a Roma, Roma 1923; Guidoni, Roma e l’urbanistica del Trecento). 115 Ad esempio, Caput Molarum, Cento Mole, Mellinis, Mola del Poczo, Mole dei Fiorentini, Mole di S. Bartolomeo all’Isola, Mole a S. Sisto Vecchio (cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Schede Toponomastiche nn. 54, 57, 125, 127, 129, 130 e 131). 132

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o di ancoraggio «ad aquimolum faciendum» 116, nonché la fonte di diritti fiscali riscossi sul movimento delle merci. Non mi soffermo oltre sulla topografia di questi luoghi produttivi intrinsecamente legati all’acqua per l’espletamento delle attività poiché vi è una ricca bibliografia sull’argomento 117. Un ulteriore fattore che ha potuto incoraggiare questo movimento verso il Campo Marzio è sicuramente la peculiare natura sabbio-argillosa della piana che ha favorito e facilitato la captazione d’acqua mediante lo scavo di pozzi il «cui stabilimento era facile e sicuro bastando discendere a una profondità massima di 5 m nelle bassure della città per trovare il fluido benefattore» 118, ossia la falda freatica. La vitale importanza che ebbero i pozzi 119 nella Roma medievale può essere desunta dai contratti d’affitto o di vendita, dai molteplici riscontri archeologici oppure dalla toponomastica che conserva il ricordo di «putei» cui è giustapposto un nome proprio, a riflesso di un’importanza urbanistica tale che taluni vennero a essere identificativi dell’intera contrada di appartenenza, come il Potzo Biancho, il Pozzo delle Cornacchie o, ancora, il Puteus Probae 120. Un aspetto che meriterebbe ulteriori approfondimenti riguarda la destinazione di questo tipo di impianti presso chiese, monasteri e luoghi assistenziali (penso anche agli ospedali attestati dal XII secolo) 121 ai quali si può ipotizzare venisse demandata la gestione delle risorse idriche per la 116

Roma nell’alto medioevo, pp. 129-132. Per una panoramica si vedano i contributi di A. Molinari, La produzione artigianale a Roma tra V e XV secolo. Riflessioni sui risultati di uno studio archeologico sistematico e comparativo (pp. 613-636) e di Maire Vigueur, Il mondo dei mestieri a Roma, in L’archeologia della produzione. 118 Lanciani, I commentarii, p. 5. 119 H. Broise, J-C. Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’arte italiana. Momenti di architettura, 12, a cura di F. Zeri, Torino 1983, pp. 99-160. 120 Ad esempio, Potzo Biancho o Puteum Album, Pozzo delle Cornacchie, Pozzo Roncone, Puteus Probae (cfr. Annoscia, Il sistema idrico, Schede Toponomastiche nn. 142, 147, 148 e 150). 121 L’ubicazione delle istituzioni ospedaliere era dettata anche dalla necessità di trovarsi non solo lungo le strade principali collegate ai principali ingressi urbani e agli scali portuali ma anche non lontano dai punti di erogazione d’acqua (fontane o fiume) per ovvie ragioni igieniche. Cfr. A. Esposito, Gli ospedali romani tra iniziative laicali e politica pontificia (secc. XIII-XV), in Ospedali e città. L’Italia del Centro-Nord, XIII-XVI secolo, a cura di A.J. Grieco, L. Sandri, Atti del Convegno Internazionale di Studio tenuto dall’Istituto degli Innocenti e Villa i Tatti, Firenze, 27-28 aprile 1995, Firenze 1997, pp. 233-251; Bernacchio, L’Ospedale dei Giovanniti; F. Colonna, Distribuzione urbana e tipologie degli edifici assistenziali, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. 2. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 159-171; Keyvanian, Hospitals and Urbanism. 117

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comunità, anche in virtù del costo sicuramente gravoso e difficilmente sostenibile dai singoli privati: già R. Coates-Stephens 122 riteneva che i pozzi nelle chiese avessero un carattere pubblico. Altri potenziali attrattori del popolamento strettamente collegati al Tevere possono essere stati gli unici tre punti di attraversamento del fiume che tramite i quattro ponti romani ancora attivi hanno inevitabilmente condizionato la viabilità. Come sostiene H.W. Dey, i ponti romani sopravvissuti hanno «an importance more akin to geographical than built features, like fords or mountain passes that channeled all movement of people and goods» 123. Oltre al ponte Sant’Angelo a Nord, c’erano due valichi a valle a Sud, distanti circa 250 m, che sfociavano entrambi nell’antico Foro Olitorio e nell’adiacente Foro Boario, il ponte di S. Maria (Ponte rotto) e la strada che attraversava l’Isola Tiberina attraverso i due ponti Cestio e Fabricio. La necessità di collegamento tra i principali poli di aggregazione urbana, i porti fluviali, le postierle e i ponti indirizza le linee del traffico di uomini e merci veicolate dalla rete viaria già esistente con conseguente mantenimento in vita di questo “sistema continuo” 124 ovvero dalla creazione di strade dalle fattezze tipicamente medievali con andamento tendenzialmente curvilineo e tortuoso (come nel caso della via Papalis), esito a volte di forzosi condizionamenti dettati dalle voluminose emergenze architettoniche ancora tenacemente persistenti nel tessuto urbano. H.W. Dey 125 ravvede nella nascita della via Papalis all’inizio dell’XI secolo 126 e nella sua crescente centralità dalla metà del XII come via cerimoniale al posto del limitrofo e più antico percorso della via Triumphalis, ubicato circa 200-300 m a Nord vicino al Tevere, un esito dell’interazione tra ambiente naturale, costruito e infrastrutture ereditate dall’antichità. Infatti, lo studioso ritiene che, vista la frequenza di inondazioni attestate 122

Marcelli, Munzi, Roma medievale, p. 44; R. Coates-Stephens, The Water-Supply of Rome from Late Antiquity to the Early Middle Ages, in «Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia», 17/3 (2003), pp. 81-113, in particolare p. 110. 123 H.W. Dey, Landscape Change and Ceremonial Praxis in Medieval Rome. From the Via Triumphalis to the Via Papalis, in Landscapes of Preindustrial Urbanism, a cura di G. Farhat, Cambridge 2020, pp. 61-88, in particolare p. 76. 124 Pavolini, Aspetti del Celio, p. 428. 125 Dey, Landscape Change; M. Pentiricci, La posizione della basilica di San Lorenzo in Damaso nell’Itinerario di Einsiedeln, in Architectural Studies in Memory of Richard Krautheimer, ed. C.L. Striker, Magonza 1996, pp. 127-131. 126 I. Giorgi, U. Balzani, Il Regesto di Farfa, Roma 1914, 3, n. 506 (anno 1017): «per uiam communem quae est pergens ad uiam pontificalem euntium ad beatum petrum apostolum». 134

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per l’epoca medievale 127, la via Papalis, nonostante potesse comunque essere interessata da eventi alluvionali, essendo più lontana dal Tevere fosse meno “esposta” rispetto alla via Triumphalis, che era inoltre fiancheggiata dagli ampi portici dei numerosi edifici romani i cui detriti avrebbero potuto ostruire la sede stradale, rendendola meno facilmente percorribile. La via Triumphalis, però, non scomparve, anzi continuò ad essere frequentata per tutto il Medioevo 128 (e oltre). Nei secoli XIV e XV, era tra le strade commerciali più trafficate della città. Conosciuta come via Mercatoria 129, divenne l’arteria principale che acquisì grande rilevanza urbanistica in quanto univa i tre attraversamenti fluviali con i due porti principali (Ripa Romea e Ripetta): questa viabilità perveniva vicino al Teatro di Marcello e poi alle pendici del Campidoglio ove era il mercato principale della città, dislocato anche lungo la strada che, partendo dalla piazza, vi si arrampicava, accanto alla scalinata di S. Maria in Aracoeli 130. Un altro mercato 131 strettamente legato al Tevere era quello del pesce a Sant’Angelo in Pescheria, dove c’erano le pietre «ubi pisces venduntur», essenzialmente un prolungamento della zona commerciale tra il fiume e il Campidoglio, attestato dal XII secolo ma già esistente forse in precedenza. Altro polo commerciale era quello presso la chiesa dei SS. Celso e Giuliano, all’imbocco di ponte S. Angelo dove si trovavano altre pietre per svolgere il commercio all’ingrosso del pesce.

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J. Le Gall, Le Tibre, fleuve de Rome, dans l’antiquité, Paris 1953; G.S. Aldrete, Floods of the Tiber in Ancient Rome, Baltimora 2007. 128 É. Hubert, Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza (XII–metà XIV secolo). Alcune considerazioni generali, in La costruzione della città comunale italiana (secoli XII-inizio XIV), Pistoia 2009, pp. 131-145. 129 Corrispondente all’attuale percorso che da ponte S. Angelo si snoda attraverso via del Pellegrino, Campo dei Fiori, via dei Giubbonari e S. Angelo in Pescheria per giungere al Campidoglio (Modigliani, Mercati, botteghe; A. Modigliani, L’approvvigionamento annonario e i luoghi del commercio alimentare, in Roma. Le trasformazioni urbane, pp. 29-63; Palermo, Sviluppo economico). 130 Modigliani, Mercati, botteghe, pp. 29-55; A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio nella Roma tardo-medievale, in Mercati, arti e fiere storiche di Roma e del Lazio, a cura di R. Padovano, Padova 2011, pp. 27-35; Maire Vigueur, L’altra Roma, pp. 38-44. 131 Modigliani, L’approvvigionamento annonario, pp. 39 ss.; Modigliani, Mercati, botteghe; Lori Sanfilippo, La Roma dei Romani; A. Lanconelli, Gli Statuta pescivendolorum Urbis (1405). Note sul commercio del pesce a Roma tra XIV e XV secolo, in «Archivio della Società romana di storia patria», CVIII (1985), pp. 83-131. 135

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Acqua ed espansione urbana dalla metà del XII secolo Si è concordi nell’individuare nel processo di definizione dell’abitato una rinnovata espansione urbana e una ricomposizione delle maglie insediative tra la seconda metà del XII secolo e la fine del XIII secolo quando interi quartieri, il cui ruolo nel costruire clientele tra la popolazione dell’area circostante è stato messo splendidamente in luce da S. Carocci 132, furono interessati da lottizzazioni ecclesiastiche 133 e, in misura minore ma comunque crescente, laiche come pure da rilevanti trasformazioni edilizie, fino a quel momento solo timidamente in nuce, sollecitate dalla crescita demografica e dalla sicurezza di una nuova situazione socio-politica ed economica 134 di cui furono protagonisti la nascente Curia, la nuova “aristocrazia” e la «media élite», così come definita da C. Wickham 135. A S. Carocci 136 si deve l’aver tracciato la «bipartizione» dei vertici sociali aristocratici: da un lato i barones Urbis, una élite ristretta e strapotente di una quindicina di famiglie (tra cui Orsini, Capocci, Conti) che affermeranno il loro pieno dominio nel XIII secolo; dall’altro un vasto gruppo di famiglie di minor potere che facevano parte della nobiltà cittadina, i nobiles viri, il cui ruolo nell’affermazione socio-politica si svolse soprattutto a livello di 132

L’ampiezza smisurata della città e i vasti spazi inabitati compresi nelle mura accentuavano la coerenza comunitaria dei singoli quartieri ove i ceti possidenti e i gruppi artigianali costituivano una società che sembra operare come un blocco unitario (Carocci, Storia di Roma, pp. 65-67; Wickham, Roma medievale, p. 374). 133 Si vedano ad esempio le Regioni di via Lata e Pigna, dove il monastero dei Santi Ciriaco e Nicola in via Lata cercò di colmare i vuoti all’interno degli spazi già urbanizzati senza tuttavia effettuare operazioni di largo respiro; il Foro e un’area del Palatino, dove Santa Maria Nova promosse una politica dinamica di urbanizzazione e San Gregorio in Clivo Scauri che rioccupò i dintorni del Septizodium; i Rioni Campo Marzio, intorno a San Lorenzo in Lucina, Trevi e Colonna, dove risultano fondamentali le lottizzazioni intraprese dai monasteri di Santa Maria in Campo Marzio e di San Silvestro in Capite; il Rione Trastevere, dove spicca l’attività promossa dal monastero dei Santi Cosma e Damiano in Mica Aurea. 134 S. Carocci e M. Vendittelli ravvedono tra XII e XIII secolo, specie nella prima metà, una fase dinamica di fortissimo investimento in campagna nonché di massima affermazione dei mercatores specializzati nel commercio del denaro (Carocci, Vendittelli, Società ed economia). Anche A. Molinari, guardando all’enorme espansione del volume del costruito in pietra e mattoni, alla circolazione monetaria, all’intensificarsi del ruolo delle officine urbane, all’introduzione anche di novità tecniche nei processi artigianali, concorda nella lettura di questi fenomeni come indicativi di «una notevole intensificazione di quella che si può certamente definire come crescita economica» (Molinari, La produzione artigianale, p. 618). 135 Wickham, Roma medievale, pp. 308-327. 136 Carocci, Baroni di Roma; S. Carocci, Forme di preminenza. L’insediamento urbano dei “Baroni”, in Di Santo, Monumenti antichi, pp. 149-165. 136

Sistemi idrici e spazi urbani nella Roma bassomedievale

quartiere vuoi per ostentare il proprio status vuoi per stabilire alleanze vuoi per affermare la coesione della parentela. Ai fortilitia impenetrabili e inaccessibili dei Baroni si contrappose un «arcipelago» 137 più o meno serrato di immobili (palazzi e domus magne) organizzati senza una coesione spaziale intorno a una torre: questo modello «poroso» 138 (dal XIII secolo) conferì ai complessi una permeabilità tale da poter intessere molteplici relazioni con il limitrofo abitato, anche garantite dall’apertura al vicinato di cortili, porticati e sicuramente punti d’acqua (pozzi, cisterne o fontane). Nella comunità cittadina accrebbe via via il ruolo della «media élite» (o populus Romanus) prima con il nascente Comune esito della renovatio Senatus del 1143-1144, cui non fu certo estraneo il ruolo dei mercatores Urbis che promossero altresì la riapertura della zecca per iniziativa del Senato intorno al 1180, poi con il governo del senatore Brancaleone degli Andalò alla metà del Duecento. Questi numerosi attori politici contribuirono a plasmare il paesaggio urbano a partire dal tardo XII, conferendogli una rinnovata veste costellata di torri, palazzi, fortezze, portici, tutti segni tangibili delle nuove forze socio-economiche che calpestavano la scena cittadina nonché della volontà, veicolata anche dal riuso politico di antiche rovine, di legittimarsi e autorappresentarsi nelle aree di pertinenza territoriale, tessendo così un disegno ramificato delle distinte consorterie. Infatti, dette strutture architettoniche trasmettevano, mediante plurimi codici semantici, un messaggio di autoaffermazione e sanzione dei nuovi poteri territoriali e ne consentivano l’immediata associazione spaziale. Il censimento dell’edilizia civile in cui si «pietrificò la ricchezza» 139 consente di valutare come la grande maggioranza delle abitazioni (case a portico, torri, case-torri, domus magne e palazzi) 140 siano state costruite 137

Broise, Maire Vigueur, Strutture famigliari, pp. 155-156. Ibidem. 139 Carocci, Giannini, Portici, palazzi, torri. 140 Ibidem, p. 42. Le indagini condotte da N. Giannini nell’ambito del progetto ERC Petrifying Wealth Wealth. The Southern European Shift to Masonry as Collective Investment in Identity, c. 1050-1300 hanno portato al censimento di 326 unità abitative civili così suddivise: 30% case a portico, 27% torri e case torri, 2% case con profferlo, 8% residenze aristocratiche e 15% palazzi (Giannini, Abitare a Roma). Inoltre, la studiosa ha appurato che la diffusione delle case a portico avvenne tra la metà del XII e il XIII secolo: esse erano ubicate principalmente nei Rioni Campitelli (26%), Ponte (15%), Regola (15%), Sant’Angelo (11%) e Trastevere (22,5%). Per contro le torri e le case-torri, in tutto 89, si svilupparono compiutamente tra fine XII e inizio XIV secolo ed erano localizzate in misura maggiore nel Campo Marzio e a Trastevere. 138

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tra la seconda metà del XII e il XIII secolo: questo dato coincide con la massima attestazione di attività costruttive di tipo civile nelle fonti scritte. La definizione dello spazio infra moenia, che continuava ad accogliere al proprio interno ampie zone completamente disabitate con vaste aree ruralizzate (vigneti e orti), sembra essere polarizzata intorno ai tre nuclei che avevano mantenuto più di altri continuità d’insediamento: il Vaticano e il Campidoglio, sede del palazzo senatorio dalla metà del XII secolo, e, al polo opposto, il complesso del Laterano (con l’inserimento dal XIII secolo di un ospedale). «L’alternarsi, pur nell’ambito del riconoscimento di una speciale supremazia al pontefice e alla sua corte, delle forze nobiliari e di quelle cittadine-comunali alla guida della città condizionò le modalità dell’utilizzazione degli spazi intramurali nella Roma basso-medioevale» 141, modalità tese a favorire il ricongiungimento in particolare dei primi due nuclei (il Vaticano e il Campidoglio) ove si svolgeva la vita secolare, politica ed economica della città (ricordo anche il ruolo sempre attivo di Trastevere), con una progressiva riconquista degli spazi rimasti ancora liberi all’interno dell’ansa del Tevere 142 e delimitati da alcuni assi stradali quali la via Lata a oriente, la via Recta a settentrione e a meridione dalla direttrice che dal Campidoglio 143 si dirigeva all’attraversamento del Tevere (all’altezza del ponte S. Maria) e dunque verso Trastevere. Lo spazio abitato racchiuso in questo reticolo viario era servito da altre tre vie convergenti verso il ponte S. Angelo, punto di passaggio obbligato tra quello che era divenuto il centro della città papale, il Vaticano, e la città laica ove il Rione Ponte accentrerà e diversificherà le sue funzioni (in particolare l’attività commerciale e finanziaria), con la presenza di mercanti e banchieri ancor prima che i documenti del tardo XIV secolo ne testimoniassero l’affollamento e che la toponomastica ne mantenesse la memoria, da Banchi Vecchi alla via Mercatoria 144. Essa diverrà la zona destinata ai futuri sviluppi urbanistici rinascimentali nei quali acquisirà una funzione

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Palermo, Sviluppo economico, p. 419. «Questo era anzi il cuore di Roma e si può vedere il quadrilatero via Lata-piazza Navona-Ripa-Fori come un autentico nucleo urbano lungo tutto il nostro periodo, in grado di agire come punto di riferimento per i più dispersi villaggi urbani sui colli» (Wickham, Roma medievale, p. 154). 143 Dal Campidoglio, che allora era ai limiti dell’area più densamente abitata, la via Papalis, superato il Foro, si immetteva nella via Maggiore che conduceva al Laterano. 144 Pani Ermini, L’assetto medievale, p. 49. 142

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guida nella nuova gerarchia degli spazi urbani 145 come punto di passaggio obbligato e trait d’union tra le due “città”. La crescita vigorosa del XII e XIII secolo ebbe come controparte l’aumento dei contrasti provocati dal moltiplicarsi delle costruzioni private, dai problemi di vicinato sollevate dall’apparire di case con pareti in comune (come le domus solarate et tegulate individuate nell’isolato di via delle Botteghe Oscure) 146 e dagli sconfinamenti della proprietà immobiliare e dell’architettura privata sul suolo pubblico per l’intensificazione del tessuto urbano. Le controversie erano regolamentate da un ufficio specializzato in questo campo creato a partire dal 1277 dal Senato, i Magistri Aedificiorum Urbis 147, la cui attività incrementò nella metà del secolo successivo allorquando, dopo un periodo di “stasi urbanistica” 148 dovuta alla recessione economica, si assistette a una ripresa dell’attività edilizia e immobiliare. Nonostante la scarna documentazione, sembra che in questo campo le autorità pubbliche non furono completamente inattive: la manutenzione delle infrastrutture essenziali (mura, porte, fogne e ponti) era di competenza dei pontefici che non cedettero così facilmente alle autorità comunali tutte le prerogative in materia, anche dopo la Renovatio Senatus del 1143-1144. Grande interesse, quindi, rivestono i lavori di restauro intrapresi proprio dal Senato (e celebrati da due iscrizioni) 149 delle mura Aureliane nel 1157 e del ponte Cestio nel 1192-1193 per mano del senatore Benedetto Carushomo. Un ulteriore aspetto di grande rilevanza è quello 145

Palermo, Borgo nella gerarchia, p. 343. Manacorda, Paesaggi di Roma medievale. 147 L. Schiapparelli, Alcuni documenti dei Magistri Aedificiorum Urbis (secoli XIII e XIV), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 25 (1902), pp. 5-60; C. Re, L’archivio del “Tribunale delle strade” e la sua fondazione, in «Archivi italiani», VI (1919), pp. 163-169; F. Bartoloni, Documenti inediti dei “Magistri Aedificiorum Urbis” (secoli XIII e XIV), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 60 (1937), pp. 191-230; C.W. Westfall, In this Most Perfect Paradise. Alberti, Nicholas V and the Invention of Conscious Urban Planning in Rome, 1446-55, The Pennsylvania State University Press 1974; C. Carbonetti Vendittelli, La curia dei Magistri Aedificiorum Urbis nei secoli XIII e XIV e la sua documentazione, in Rome aux XIIIe et XIVe siècles. Cinq études réunies par Étienne Hubert, Roma 1993, pp. 1-42; F. Bartoloni, Per la storia del Senato romano nei secoli XII e XIII, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 60 (1950), pp. 1-108; I. Ait, Strade cittadine: atteggiamenti mentali e comportamenti a Roma nel XV secolo, in «Quaderni Storici», 77 (1991), pp. 877-888; Annoscia, Il sistema idrico, pp. 161 ss. 148 Hubert, L’organizzazione territoriale, pp. 165-168. 149 Per l’iscrizione a Porta Metronia si vedano Forcella, Iscrizioni delle chiese, XIII, p. 25, n. 1 e Silvagni, Monumenta, tav. XXV, n. 5; per l’iscrizione sul Ponte Cestio, Forcella, Iscrizioni delle chiese, XIII, p. 53, n. 89 e Silvagni, Monumenta, tav. XL, n. 1. 146

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del controllo territoriale dei ponti, che sembra essere de facto demandato alle famiglie baronali, come nel caso dei ponti Cestio e Fabricio sorvegliati dai Normanni e dai Romani 150 oppure del ponte S. Angelo di fronte al quale sorse la roccaforte di Monte Giordano 151 degli Orsini del Monte o di Ponte, «un avamposto strategico della città a controllo del ponte e quindi dell’accesso alla civitas Leonina» 152: dal 1278 questa roccaforte è duplicata, al di là del fiume, dall’acquisizione dello stesso Castel Sant’Angelo 153. Nel 1230, rinveniamo, dopo lungo silenzio, un provvedimento da parte pontificia (Gregorio IX) in materia di igiene con l’apertura delle cloache («fieri purgamenta decrevit, que Romani clavicas vocant» 154). Come sostiene l’Adinolfi, questo intervento coincise con la crescita del livello del Tevere e il ristagno «d’acque corrotte per le vie della città e con un conseguente danno alla salubrità, e quindi il pontefice decretò che venissero aperte delle bocche di chiaviche per trasporto» 155. Inoltre, lo stesso pontefice fece ricostruire il pons S. Mariae distrutto nel 1230 da una piena del Tevere 156. D’ora in avanti, almeno fino al XV secolo, la pratica che sembra essere usuale vede l’iniziativa privata («remettere et racconciare alle spese sue» 157) ovviare quotidie all’inefficienza dell’autorità pubblica nel campo delle infrastrutture, il cui ruolo sembra essere quasi irrilevante, se si eccettuano isolati interventi indirizzati alla conservazione delle strade nello stesso stato in cui giacevano da tempo, aprendovi all’uopo qualche nuova chiavica. Infatti, «spesse volte le bocche si saranno riempite e lasciato il terreno pieno di brutture fino a Sisto IV, il quale iniziò a purgare e lastricare le fogne» 158. Possiamo parlare di una compiuta “politica delle acque” a Roma soltanto con l’affacciarsi del XV secolo, laddove il rinnovato impulso urbanistico trovò una delle sue ragioni d’essere nella necessità di sopperire alla 150

S. Carocci, Baroni in città. Considerazioni sull’insediamento e i diritti urbani della grande nobiltà, in Rome aux XIII e et XIV e siècles, pp. 175-232, in particolare pp. 145 e 172. 151 Krautheimer, Roma. Profilo di una città; Esch, Roma dal Medioevo. 152 Pani Ermini, L’assetto medievale, p. 42. 153 S. Carocci, Insediamento aristocratico e residenze cardinalizie a Roma fra XII e XIV secolo, in Domus et splendida palatia. Residenze papali e cardinalizie a Roma fra XII e XV secolo, a cura di A. Monciatti, Atti della giornata di studio, Pisa, 14 novembre 2002, Pisa 2004, pp. 17-28, in particolare pp. 19-20. 154 P. Fabre, L. Duchesne, Le Liber Censuum de l’Eglise Romaine, 3 voll., Parigi 1889-1952, II, p. 23. 155 P. Adinolfi, La torre de’ Sanguigni e Santo Apollinare, Roma 1863, p. 14. 156 Hubert, L’organizzazione territoriale, p. 171. 157 Re, Maestri di Strade, Cap. VII, p. 90. 158 Adinolfi, La torre de’ Sanguigni, p. 14. 140

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penuria idrica sia con il ripristino di acquedotti sia con l’apertura di fontane. Episodio di grande rilevanza da un punto di vista politico-urbanistico fu la riattivazione per volere di Martino V nel 1425 (Costituzione Etsi in Cunctarum 159 del 31 marzo 1425) della magistratura delle strade, i Maestri delle Strade, per ovviare a quelle «graves deformitates» 160 urbane salvaguardando il decoro e l’ornato cittadino, cui fece seguito l’operato di Nicolò V, che varò la nuova redazione dello Statuto dei Magistri 161. Il pontefice, inoltre, ripristinò l’Aqua Virgo restaurandola fino al suburbio: come ha sostenuto C. Cecchelli, riprese con questo papa «la tradizione romana che vedeva nell’acqua il primo elemento necessario per una nuova espansione cittadina» 162. La scelta della Forma Virgo fu dettata sia dalla vicinanza della sorgente sia dalla precipua tipologia strutturale (acquedotto sotterraneo): a coronamento della sua impresa il papa edificò la fontana di Trevi, dando così inizio a quella «politica delle fontane» 163, per dirla con J. Heers, che contraddistinguerà l’imago Urbis della Roma rinascimentale, coniugata a quel concetto di fruibilità pubblica dell’acqua rimarcato sovente in antico e ben riflesso in quel «nihil magis mirandum fuisse in toto Urbe terrarum» 164 di pliniana memoria.

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A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis. Recueil de documents pour servir à l’histoire du governement temporel des États du Saint-Siège, Roma 1861-1862, III, p. 290. 160 Già nello Statuto del 1363 c’era un riferimento all’operato nocivo dei macellai e dei conciatori di pelle (Re, Statuti della città di Roma, Liber Primus, Capitolo CXCIV, p. 189). 161 Re, Maestri di Strade. 162 Topografia e urbanistica, p. 137. 163 J. Heers, La ville au Moyen Âge en Occident: paysages, pouvoirs et conflits, Parigi 1989, p. 534. 164 Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 123. 141

Anna Modigliani Il sistema viario di Roma nel XV secolo tra progetti dei pontefici e interessi di commercianti e bottegai

Punto di partenza obbligato per una riflessione sulla città quattrocentesca e sulla dialettica tra urbs e civitas, ovvero tra la città di pietra con le importanti preesistenze infrastrutturali e monumentali da un lato e dall’altro gli usi, i traffici di uomini e merci che a quelle man mano si adattarono secondo le nuove esigenze, non può essere altro che un confronto tra la pianta di Roma antica elaborata da Filippo Coarelli 1 (fig. 1), la pianta di Roma nel XV secolo ricostruita da Torgil Magnuson2 (fig. 2) e la pianta di Roma con gli interventi pontifici da Sisto IV a Giulio II di Manfredo Tafuri 3 (fig. 3). A margine di queste tre immagini si possono richiamare alcuni fatti ben noti, che servono soltanto a introdurre il tema. Innanzitutto la struttura viaria di Roma si mantiene sostanzialmente identica attraverso i secoli e questo è dovuto all’importanza dell’assetto infrastrutturale dell’antica Roma, il cui uso fu certamente abbandonato in alcune aree intramurarie durante il crollo demografico e politico seguito alla caduta dell’impero d’Occidente4, ma poi in gran parte recuperato nei ‘nuovi’ disegni e nelle committenze dei pontefici quattro-cinquecenteschi a fronte di una crescente espansione demografica e finanziaria5. 1

F. Coarelli, Roma, Roma-Bari 1980. T. Magnuson, Studies in Roman Quattrocento Architecture, Stockholm 1958. 3 Ricostruzione degli interventi urbani di Giulio II e di Bramante (1503-1513), sovrapposti alla mappa del Nolli in M. Tafuri, “Roma instaurata”. Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo ‘500, in Raffaello architetto, a cura di C.L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano 1984, p. 69. 4 Vedi soprattutto R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981. 5 Sulla crescita demografica a Roma nel XV secolo e oltre vedi A. Esposito, La popolazione romana dalla fine del sec. XIV al Sacco: caratteri e forme di un’evoluzione demografica, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 37-49; L. Palermo, L’economia, in Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Roma-Bari 2001, pp. 49-91: 53 e bibliografia citata. 2

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Fig. 1 – Pianta di Roma antica di Filippo Coarelli

Fig. 2 – Roma alla fine del XV secolo nella ricostruzione di Torgil Magnuson

Il sistema viario di Roma nel XV secolo tra progetti dei pontefici e interessi di commercianti e bottegai

Fig. 3 – Ricostruzione degli interventi urbani di Giulio II e di Bramante (1503-1513), sovrapposti alla mappa del Nolli di Manfredo Tafuri

C’è poi da ricordare che a seguito del crollo demografico iniziato nel V e VI secolo d.C. la popolazione si concentrò lungo le rive del fiume, dall’isola Tiberina (fig. 4) verso nord-est nell’ansa del Tevere, con una spinta dell’abitato in direzione di ponte S. Angelo e della basilica di S. Pietro 6, come risulta ancora ben visibile nel Quattrocento dalla pianta 6

Lo spostamento dell’abitato verso l’ansa del Tevere avvenne in modo assolutamente spontaneo e rispondeva da un lato all’esigenza di sfruttare le risorse offerte dal fiume, per i mulini, per l’attracco di imbarcazioni provenienti dall’entroterra, come ha indicato L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo 145

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Fig. 4 – L’isola Tiberina e ponte Quattro Capi in un disegno di Giuliano da Sangallo anteriore al 1494, da Il libro di Giuliano da Sangallo (codice vaticano Barberiniano latino), con introduzione e note di C. Hülsen, Città del Vaticano 1984

del Magnuson (vedi fig. 2, anche nella piccola immagine a destra in alto) e ancora dalla pianta di Mario Cartaro del 15757, che pur riflettendo lo straordinario sviluppo demografico, urbano e monumentale avvenuto nei primi tre quarti del Cinquecento, mostra le amplissime zone ancora disabitate entro le Mura Aureliane (fig. 5). Nel XV secolo è Campo de’ Fiori, sede del mercato giornaliero della grascia, con l’invaso tutto circondato di botteghe 8, il centro più vitale della città, mentre la via più affollata di gente (romani, curiali e forestieri), di carri Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale. Atti della Session C23. Eleventh International Economic History Congress (Milano, 12-16 settembre 1994), a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 413-435: 421-422; dall’altro all’attrazione esercitata dalla basilica di S. Pietro, mèta di pellegrinaggio durante i secoli del Medioevo, come hanno mostrato gli studi di Krautheimer, Roma, pp. 313-319 e 337339; e di S. Valtieri, La basilica di S. Lorenzo in Damaso nel palazzo della Cancelleria a Roma, Roma 1984; Ead., Il ruolo dell’area compresa nell’ansa del Tevere nelle strategie papali dal Medioevo fino al XV secolo, in Saggi in onore di Renato Bonelli, a cura di C. Bozzoni et alii, I, Roma 1992, pp. 335-344. 7 A.P. Frutaz, Le piante di Roma, Roma 1962, II, pianta CXXV, tav. 237. 8 Cfr. A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra medioevo ed età moderna, Roma 1998, cap. IV e la ricostruzione dell’assetto commerciale di Campo di Fiori nel Quattrocento alle pp. 212-213. 146

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Fig. 5 – Pianta di Roma di Mario Cartaro del 1575

di merci e di botteghe è la via Mercatoria, definita anche Florea, che attraversava Campo de’ Fiori e i principali mercati cittadini: l’unica ad essere tracciata con un tratto sottile nella pianta di Pietro del Massaio del 14719 (fig. 6). Nel corso del Quattrocento gli interventi dei pontefici tendono a farsi sempre più sicuri e incisivi, sia per l’incremento dei traffici e della popolazione, sia per le crescenti disponibilità finanziarie, segnando un progressivo salto di qualità rispetto alla progettualità urbana del Comune popolare trecentesco. Un salto di qualità, tipico peraltro delle città rinascimentali in generale 10, che a Roma si manifesta tuttavia con notevole ritardo, anche per la lunga persistenza del potere baronale e dell’assetto insediativo che ad esso rispondeva11. Non si può affermare tuttavia che durante il lungo pontificato di Martino V siano stati realizzati interventi di qualche peso, se non l’attenzione per la pulizia delle strade, spesso invase dai rifiuti delle attività artigianali più sporche12. 9

Frutaz, Le piante di Roma, II, pianta LXXXVIII, tav. 158. D. Calabi, La città del primo Rinascimento, Roma-Bari 2001. 11 Vedi su questo A. Esch, Rom vom Mittelalter zur Renaissance (1378-1484), München 2016, p. 27. 12 Vedi G. Curcio, “Nisi celeriter repararetur totaliter est ruitura”. Notazioni su struttura urbana e rinnovamento edilizio in Roma al tempo di Martino V, in Alle origini della nuova Roma. 10

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148 Fig. 6 – Pianta di Roma di Pietro del Massaio del 1471

Il sistema viario di Roma nel XV secolo tra progetti dei pontefici e interessi di commercianti e bottegai

È con Eugenio IV, a mio avviso, durante la lunga assenza del papa da Roma e nello specifico dopo la morte del cardinale legato Giovanni Vitelleschi avvenuta tragicamente nel 1440 13, che si affermano idee nuove sul modo di intendere e di progettare la città e un nuovo criterio di gerarchizzazione delle vie cittadine in relazione ai loro usi commerciali. Non si tratta comunque – ancora durante il pontificato del Condulmer – di interventi che richiedessero grandi investimenti di denaro, ma di interventi prevalentemente normativi.

Fig. 7 – I decreti di interesse viario del cardinale Ludovico Scarampo

Le novità alle quali mi riferisco sono due importanti decreti del cardinale Ludovico Scarampo, che al Vitelleschi succedette nella carica di legato pontificio. I due decreti di interesse viario appartengono a quel corpus di constitutiones databili tra 1440 e 1443 14, che più tardi fu inserito negli statuti di Roma riformati da Paolo II nel 1469 15 (fig. 7). Il primo decreto riguarda la rimozione dei macelli dall’intero percorso della via Mercatoria da Castel S. Angelo fino al ponte S. Maria (oggi ponte Rotto) e Martino V (1417-1431), Atti del Convegno, Roma, 2-5 marzo 1992, a cura di M. Chiabò et alii, Roma 1992, pp. 537-554. 13 Sulla vicenda del Vitelleschi vedi di recente A. Modigliani, Il cardinale Giovanni Vitelleschi da Corneto: un profilo biografico, in Altro Rinascimento. Il giovane Filippo Lippi e la Madonna di Tarquinia, a cura di E. Parlato, Milano 2017, pp. 11-18 e bibliografia citata. 14 Questi gli anni in cui Ludovico Scarampo fu non solo camerlengo ma anche legato di Eugenio IV (carica quest’ultima che cessò col rientro del papa a Roma nel settembre del 1443). 15 Statuta urbis Romae, Roma, Ulrich Han, prima del giugno 1474, II, 73, f. 142r. 149

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specialmente dai suoi due centri di più intensa concentrazione mercantile, ovvero Campo de’ Fiori e piazza Giudea. Si stabiliva poi che nei pressi di queste due piazze, vicino a S. Celso, a piazza della Rotonda (sedi di altri due mercati alimentari giornalieri, circondati da numerose botteghe), a S. Marcello (da intendere come il teatro di Marcello) 16, a Ripa 17, nella contrada di Archanoe vicino a Tor de’ Conti 18 (tutti luoghi dove abbondavano i macelli), i macellai fossero obbligati ad esercitare la loro arte in un solo luogo e non in maniera sparsa (spersim) 19. Si trattava dunque di una razionalizzazione degli spazi destinati alle attività artigianali più sporche; alcune testimonianze successive relative alla zona di Campo de’ Fiori attestano inoltre che il decreto ebbe effettiva attuazione. Di grande interesse per il criterio di differenziazione funzionale della viabilità cittadina è il secondo decreto dello Scarampo, che vietava ai carri di percorrere quella stessa strada dalla quale si intendeva allontanare i macelli, ovvero tutta l’estensione della via Mercatoria. L’intento era evidentemente quello di salvaguardare e rafforzare la destinazione commerciale della strada, che per la sua strettezza, per l’abbondanza degli sporti delle varie botteghe e per il traffico di persone non poteva e non doveva più essere ingorgata dai carri, che l’avrebbero evidentemente dovuta rifornire di merci attraverso le vie trasversali. Lo Scarampo, sollecitato a legiferare dalle più importanti magistrature del Comune romano, adottava una soluzione che non implicava interventi di creazione o adattamento di infrastrutture né pur minimi investimenti di denaro: invece di allargare la strada attraverso costosi e difficili espropri, male accetti ai proprietari delle case e soprattutto delle botteghe, o di adibire nuovi spazi ad usi mercantili (iniziative che furono prese in molte altre città italiane ed europee 20 e in 16 Sembra difficile che si tratti della zona di S. Marcello al Corso, dove non sono attestati macelli. Più probabile che il termine si riferisca al teatro di Marcello, a volte indicato dalle fonti come templum Marcelli (U. Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma 19842, p. 149), i cui fornici ospitavano numerosi macelli (ibidem). 17 Molto noti e numerosi i macelli di Ripa (ibidem). 18 La contrada di Archanoe era adiacente al Campo Torrecchiano nei Fori dove ogni venerdì si svolgeva il mercato all’ingrosso del bestiame (ibidem, p. 8). 19 Curiosa, dopo questi divieti riguardanti i macelli e anche dopo l’incidente su ponte S. Angelo del 1450, l’attestazione, nel novembre del 1464, di un «Galgano da Siena becharo in ponte Sant’Angelo», da cui si riforniva per la carne il cubiculario del papa (Archivio di Stato di Roma, Camerale I, Spese minute di palazzo, 1479, c. 7r). 20 Si veda ad esempio D. Calabi, Città e spazi di mercato nelle Repubblica veneta, in «Eidos», n.ser., 1 (1987), pp. 76-87; Ead., Il mercato e la città; Fabbriche, piazze, mercati. La città italiana del Rinascimento, a cura di D. Calabi, Roma 1997.

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Il sistema viario di Roma nel XV secolo tra progetti dei pontefici e interessi di commercianti e bottegai

parte nella stessa Roma nei decenni successivi) proponeva in sostanza che la via più affollata della città diventasse pedonale. O meglio, pedonale quantum fieri potest, come precisa il decreto, non per sminuirne l’obbligatorietà, ma perché in certi tratti di strada, dove non si poteva arrivare attraverso vie trasversali, era inevitabile che i carri transitassero per raggiungere le botteghe o i mercati ai quali erano destinate le merci. La centralità della via Mercatoria nei due decreti dello Scarampo è dunque dovuta al fatto che lungo il suo percorso erano collocati i principali mercati di Roma (da S. Celso a Campo de’ Fiori, a piazza Giudea, al Mercatello degli Ebrei, a S. Angelo in Pescheria fino al Campidoglio) e le più ricche e varie botteghe della città. Una licenza di costruzione rilasciata dai maestri delle strade nel 1444, sulla quale mi sono soffermata altrove, insiste sull’enorme affluenza di gente in Campo de’ Fiori e auspica che «meliores usus et ornatiores cultus reducantur sane ad plateam que hodie iux[ta] vocabuli sui ethimologiam […] ipsius Urbis florem obtinet» 21. È l’età di Biondo Flavio, che nella Roma instaurata, dedicata a Eugenio IV nel 1446, scrive così della più importante piazza del commercio romano: «Campus Florae, qui olim fuit et est nunc in Urbe celeberrimus» 22. Alle tre dorsali dell’ansa del Tevere (Recta, Papalis e Mercatoria), senza alcuna particolare attenzione per quest’ultima, si rivolge invece una rubrica degli statuti dei maestri delle strade emanati da Niccolò V nel 1452: «Che ogne sabbato se debiano mondare le strade de Roma, de li mesi de majo, jugnio, juglio et agosto» e «almeno si faccia per queste tre strade principali: dallo Canale de Ponte in sino a Sancto Angilo Piscivendolo, dallo Canale de Ponte per la via Papale in sino a Campitoglio, dallo Canale de Ponte per la via Ritta in sino alla Magdalena» 23 (fig. 8). Gli statuti di Niccolò V, pur molto importanti per la difesa del suolo pubblico e per i poteri assegnati ai maestri delle strade di «rompere, mozare, tagliare et ruinare ogni cosa che occupasse strade, piazze, vicoli, fiumare, rivere et altri luochi publichi», affrontano il problema della viabilità cittadina e della differenziazione dei percorsi in modo – a mio parere – più tradizionale di quello dello Scarampo e non troppo distante 21

Roma, Archivio Storico Capitolino, Archivio Orsini, pergamena II. A. XV. 64, su cui vedi A. Modigliani, Roma al tempo di Leon Battista Alberti (1432-1472). Disegni politici e urbani, Roma 2019, pp. 30-31. 22 Blondi Flavii Forliviensis Opera, Basileae, Froben, 1531: Romae instauratae libri tres, II. CX, p. 258. 23 E. Re, Maestri di strada, in «Archivio della Società romana di storia patria», 43 (1920), pp. 5-102, cap. XXXII, p. 98. 151

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Fig. 8 – I percorsi della via Recta, della via Papalis e della via Mercatoria, tracciati sulla pianta di Roma di T. Magnuson

dalla legislazione degli statuti cittadini trecenteschi, attenta soprattutto al recupero degli spazi pubblici dalle ingerenze dei privati. La vera novità di Niccolò V resta invece disegnata solo sulla carta e non nella pietra. Sono le tre vie recte e porticate del quartiere curiale progettato per il Borgo di S. Pietro, un’ampia area fortificata circondata da altissime mura e imprendibile: un progetto mai realizzato e soltanto descritto da Giannozzo Manetti nella biografia del papa. Le tre vie sarebbero partite da Castel S. Angelo e i portici, percorribili, sarebbero stati fiancheggiati per tutta la loro lunghezza da botteghe di artigiani di diverso livello: i più ricchi, ovvero i banchieri e i venditori di drappi e panni, nella via di mezzo che conduceva alla basilica di S. Pietro; quelli di livello intermedio nella via di destra, diretta verso la porta del palazzo papale; nella via di sinistra, 152

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che portava all’obelisco, quelli di livello inferiore 24. Tale schema rispondeva ad un più generale criterio di differenziazione degli insediamenti – mercantili e abitativi – adottato in varie città italiane dell’epoca 25. Quello disegnato da Niccolò V e dai suoi architetti era un assetto produttivo e commerciale completo e intrinsecamente razionale, adatto ad una cittadella chiusa e autosufficiente, un assetto che risulta in netta contrapposizione con quello esistente nella realtà romana di metà Quattrocento (ma anche di molti decenni a venire), quando curiali e forestieri affollavano le botteghe dell’ansa del Tevere (zona in cui peraltro i curiali abitavano) e soprattutto le botteghe lungo la via Mercatoria, mentre intorno a S. Pietro si svolgevano solo i commerci al servizio dei pellegrini 26. Di segno totalmente opposto – ma accostabile a quello niccolino per la volontà, forse utopica, di ridisegnare la città e le sue funzioni secondo uno schema totalmente innovativo e razionale – è il progetto di Paolo II, in gran parte realizzato, di un nuovo palazzo apostolico a S. Marco (fig. 9), che si aggiungeva al palazzo Vaticano ma di fatto lo sostituiva nella maggior parte degli usi residenziali, amministrativi e cerimoniali; un palazzo collocato nel centro della città e non ai margini come quello vissuto e teorizzato dal Parentucelli. Intorno al complesso di S. Marco (palazzo, viridarium e piazza) e lungo la via Lata che lo collegava a porta del Popolo (una strada da altri papi mai utilizzata nel Quattrocento), Paolo II intendeva concentrare tutte le funzioni di governo, cerimoniali, simboliche, finanziarie e perfino commerciali e artigiane. Non mi dilungo qui sui palii del carnevale che avevano il loro traguardo a S. Marco, sui banchetti offerti al popolo nella piazza antistante il nuovo palazzo né sulle 24

Iannotii Manetti De vita ac gestis Nicolai quinti summi pontificis, edizione critica e traduzione a cura di A. Modigliani, Roma 2005, II. 36, pp. 79-80. La casa artigiana, che prevedeva l’abitazione al piano superiore e la bottega a quello inferiore, riprende ovvi modelli presenti sia a Roma che in altre città italiane. Per i portici è stato suggerito il modello di Bologna, ben noto al pontefice che vi aveva trascorso gli anni giovanili. È stato osservato che i portici del progetto riferito da Manetti sono tipici dell’architettura medievale italiana e non sono dunque da considerare una caratteristica del Rinascimento (Magnuson, Studies, pp. 78-79). Ma la novità – anche alla luce dell’importanza attribuita da Manfredo Tafuri alle vie recte (Tafuri, “Roma instaurata”, pp. 59-106) – è a mio avviso proprio nel carattere rettilineo delle tre strade progettate dal Parentucelli e nell’omogeneità degli edifici che le fiancheggiavano. 25 D. Calabi, La città e le sue partizioni, in Leon Battista Alberti teorico delle arti e gli impegni civili del «De re aedificatoria», Atti dei Convegni internazionali del Comitato Nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti, Mantova 17-19 ottobre 2002; Mantova 23-25 ottobre 2003, a cura di A. Calzona et alii, Firenze 2007, II, pp. 683-694. 26 P. Supino Martini, Un’immagine di Piazza S. Pietro nel 1384, in Studi in onore di Leopoldo Sandri, Roma 1983, pp. 923-928; Modigliani, Mercati, botteghe, cap. V. 153

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Fig. 9 – Il complesso di S. Marco nella pianta di Roma di Mario Cartaro del 1576, (da Frutaz, Le piante di Roma, II, pianta CXXVI.2, tav. 240, part.)

conche e sulle statue ricche di riferimenti costantiniani con cui il Barbo voleva arredarla 27. Mi soffermo invece sul fatto che Paolo II – come racconta ad esempio Agostino Rossi, oratore presso la corte pontificia, ai duchi di Milano in una lettera del 9 novembre 1466 – «ha facto venire tutti li officii de la corte qua in queste circumstancie de Sancto Marcho: la Penitenciaria, la Cancellaria, la Rota, la Camera et sic de singulis; … ha comandato etiam de presenti et vole che tutti li bancheri habitavano zoso in Ponte vengano loro ancora a stare di qua» 28. Paolo II intendeva trasferire intorno a S. Marco non solo gli uffici, ma anche i più alti operatori della finanza e del commercio sulla piazza romana, ovvero quei mercatores Romanam curiam sequentes, in gran parte fiorentini e toscani, che si erano da tempo attestati in quello che, dopo Campo de’ Fiori, era il luogo più nevralgico del traffico cittadino, Canale di Ponte (fig. 10), punto d’incontro tra Curia e città. L’obbligo del trasferimento era limitato ai vertici del commercio e della finanza, ma il papa auspicava anche un ulteriore e più o meno spontaneo fenomeno di attrazione dei più semplici artigiani verso la nuova sede dei grandi mercanti, a S. Marco. La decisione e l’auspicio del Barbo risultano molto chiari da un documento della Camera Apostolica del 9 dicembre 27

Modigliani, Roma al tempo di Leon Battista Alberti, capp. V e VI. Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, Potenze Estere, 61 (lettera di Agostino Rossi a Bianca e Galeazzo Maria Sforza).

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Fig. 10 – La piazza di Ponte nella pianta di Roma di Leonardo Bufalini del 1551 (da Frutaz, Le piante di Roma, II, pianta CIX. 12, tav. 201), part.

1467, che evidentemente si riferisce – nel preambolo – a quanto stabilito l’anno precedente: Cum Sanctissimus dominus noster ordinaverit quod omnes mercatores florentini et alii Romanam curiam sequentes deinceps habitent loca iuxta ecclesiam et palatium Sancti Marci et eosdem mercatores in habitationibus sequi soliti sint multi artifices, quorum opera in mertium (sic) eorum venditionibus dicti mercatores opus habent et sine qua dispendium paterentur, faciat etiam ad intentionem Sanctissimi domini nostri, qui cupit ut dicta loca curialibus frequententur, ut quamplures artifices in ipsa loca conveniant ad habitandum, et vos, sicut accepimus, habeatis inter Apostolicam Cameram et plateam Sancti Marci in via recta unam domum pro eiusmodi artificibus comodam, volumus et de mandato Sanctissimi domini nostri pape nobis super hoc oraculo vive vocis facto vobis mandamus, ut domum eandem magistro Filippo de Verona sartori vel alicui alteri artifici Romanam curiam sequenti, cum quo de pensionis honesto pretio melius convenire poteritis, ad pensionem locetis et tradatis pro eius usu et habitatione...29 29

Archivio Apostolico Vaticano, Camera Apostolica, Diversa Cameralia, 33, c. 83r. In questo documento il cardinale Marco Barbo, camerlengo e nipote del papa, concedeva a Iacobellus de Sabatariis una licentia fundandi domum prope Sanctum Marcum: al Subattari, proprietario di una casa vicina a S. Marco, si imponeva di affittarla a un sarto o a un altro degli artigiani Romanam curiam sequentes. 155

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In una lettera scritta alla marchesa di Mantova il 26 novembre 1466 Giovanni Pietro Arrivabene riferiva la voce che il papa si sarebbe presto recato a S. Pietro e vi sarebbe restato per tutte le feste. A questa lunga permanenza non credeva tuttavia l’oratore mantovano, «attenta la instantia che de presenti ha usato in fare che tuti li officii se riducano de qua e li banchi, li quali quantunche anche non siano venuti, pur le case sono già a suo nome conducte, levati fuori quelli che le habitavano» 30. Non è chiaro se e quanti mercanti-banchieri abbiano obbedito all’ordine del papa, che pur aveva messo a disposizione a tale scopo diverse case intorno a S. Marco. Certo è che dopo la morte di Paolo II, e forse anche dopo il drammatico trasferimento a S. Pietro dell’ottobre 1468 dovuto alle minacce di Ferrante d’Aragona 31, la spinta di banchieri, mercanti e artigiani verso S. Marco si esaurì del tutto. Essi mantennero i loro banchi e le loro botteghe negli stessi spazi dove da lungo tempo si erano stabiliti e per molto tempo ancora sarebbero rimasti, ovvero in Canale di Ponte, a Campo de’ Fiori e nelle loro adiacenze. L’ostacolo più importante alla realizzazione del disegno di Paolo II di una nuova centralità polifunzionale del palazzo di S. Marco, oltre al tempo relativamente breve della sua permanenza in quel luogo e al più generale problema della discontinuità progettuale della ‘dinastia’ pontificia 32, era costituito dagli assetti insediativi ormai consolidati e indirizzati verso una linea evolutiva propria, assetti che nella maggior parte dei casi si mostrano refrattari a recepire le spinte inverse o regolatrici imposte dal potere politico, anche nel caso di nuovi progetti complessi e ben articolati. Il centro di Roma, per i commerci, per le botteghe artigiane e per i traffici di uomini, negli anni ’60 del Quattrocento non era più il Campidoglio, come nella piena età comunale, ma si era lentamente spostato verso il cuore dell’ansa del Tevere e si poteva ormai identificare in Campo de’ Fiori e nel tratto della via Mercatoria che lo collegava a ponte S. Angelo. Si può forse ipotizzare che se Paolo II avesse potuto mantenere più a lungo la propria residenza 30 Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 843, c. 100. Su questo oratore mantovano vedi D.S. Chambers, Giovanni Pietro Arrivabene (1439-1504): humanistic secretary and bishop, in «Aevum», 58 (1984), pp. 397-438. 31 Cfr. A. Modigliani, Paolo II e i lavori a S. Pietro «...secondo li designi de papa Nicolao»: la crisi del 1468 tra la “congiura dei poeti” e la sfida di Ferrante, in «RR roma nel rinascimento», 2011, pp. 255-278. 32 Il tema è complesso e non è il caso di affrontarlo in questa sede, salvo osservare che la discontinuità segna – a mio avviso – solo alcuni aspetti della progettualità dei papi rinascimentali, mentre molte importanti linee di continuità vi si possono riconoscere, come argomentato da M. Gargano, Origini e Storia. Roma Architettura Città. Frammenti di Rinascimento, Roma 2016.

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a S. Marco e soprattutto se il nuovo palazzo apostolico fosse stato abitato anche dai suoi successori, come il Barbo auspicava 33, il gruppo di mercanti e banchieri più legati alla Curia si sarebbero trasferiti intorno a S. Marco, o lì avrebbero aperto una seconda sede. Più improbabile, a mio avviso, o comunque molto più lento, sarebbe stato l’auspicato fenomeno di attrazione verso S. Marco degli artigiani, dei bottegai e dei piccoli banchi di prestito gestiti da Romani, insediati a Campo de’ Fiori e lungo la via Mercatoria, che servivano in prevalenza una clientela di cittadini e forestieri. Quanto agli uffici, è invece noto da varie fonti e dalle lettere citate sopra che il loro spostamento nei pressi di S. Marco fu prontamente realizzato da Paolo II quando la sua residenza vi fu ufficialmente stabilita, anche se dopo l’ottobre del 1468 il papa li riportò con sé a S. Pietro 34. È comunque molto interessante quanto Giovanni Pietro Arrivabene osservava in una lettera alla marchesa di Mantova del 10 novembre 1466: «Novamente è fatto commandamento per parte del papa che li banchi se riducano de qua presso a Sancto Marco e cussì tuti li officii e dove suolevamo s[tare] in villa, perché eràmo in paese solitario, hora ce parerà d’essere in citade. Rincresce bene a chi se scomm[…], ma pur bisogna ubedire» 35. Queste parole sottolineano infatti lo stacco profondo della qualità degli insediamenti al di qua e al di là del Tevere. Richiamando in qualche modo l’opposizione teorica tra la dimora del re e quella del tiranno di Leon Battista Alberti 36, alla villa semideserta del Vaticano (scelta da Niccolò V) 33

«Et demum delibera de habituare (sic) taliter questo palazo de Sancto Marco, per sua memoria, che etiam post mortem suam sia palazo papale» (Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, Potenze Estere, b. 61; lettera di Agostino Rossi ai duchi di Milano del 9 novembre 1466). 34 Modigliani, Roma al tempo di Leon Battista Alberti, p. 177 e passim. 35 Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 843, c. 98. Il corsivo è mio. 36 Leon Battista Alberti, L’architettura (De re aedificatoria), testo latino e traduzione a cura di G. Orlandi, introduzione e note di P. Portoghesi, I-II, Milano 1966, V. 3, p. 347). Sul possibile rapporto tra la cittadella voluta da Niccolò V e il trattato albertiano vd. M. Miglio, L’immagine del principe e l’immagine della città, in Principi e città alla fine del Medioevo, a cura di S. Gensini, Pisa 1996, pp. 315-332: 318-319; Id., Nicolò V, Leon Battista Alberti, Roma, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich, Atti del Convegno internazionale, Mantova, 29-31 ottobre 1998, a cura di L. Chiavoni et alii, , Firenze 2001, pp. 47-64; S. Borsi, Leon Battista Alberti e Roma, Firenze 2003, pp. 348-349. A coinvolgere – sulla base dell’ipotesi di una composizione molto più tarda rispetto al 1452 di alcune parti del trattato – il palazzo di Paolo II nell’antitesi prospettata in De re aedificatoria V. 3 cfr. A. Modigliani, Disegni sulla città nel primo Rinascimento romano: Paolo II, Roma 2009 (RR inedita 40, saggi), pp. 95-98. Sui rapporti tra il passo albertiano e le due residenze papali, in Vaticano e a S. Marco, vd. anche M. Gargano, Paolo II e il Palazzo di Venezia. Considerazioni intorno all’architettura del Quattrocento a Roma, in «RR roma nel rinascimento», 2011, pp. 279-302: 293-295. 157

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si opponeva la citade (fortemente voluta e vissuta da Paolo II), che tutti coloro che gravitavano intorno al papa, come gli ambasciatori forestieri e probabilmente anche i curiali, sembravano preferire decisamente. Quanto ai cittadini romani, sarebbe interessante capire se e a quanti di essi piacesse l’idea di un papa definitivamente insediato a S. Marco con tutto il peso dei suoi apparati e delle sue funzioni di governo dello Stato, o se si sentissero più garantiti dal Tevere come confine naturale tra le due città. La tradizione degli insediamenti mercantili e finanziari e le tendenze di lungo periodo furono invece rispettate a pieno, anzi rafforzate da Sisto IV, che pur introdusse nella viabilità romana le più importanti e durature innovazioni di tutto il XV secolo. Prendendo atto di quanto si era progressivamente modificato nell’uso degli spazi e dei percorsi cittadini rispetto ai secoli precedenti, quando il Campidoglio era stato il vero centro integrato della Roma comunale37, prospettò soluzioni nuove ed efficaci a una città che ormai a fatica e in modo insoddisfacente sosteneva con le proprie infrastrutture il peso dell’espansione demografica, economica e commerciale realizzatasi negli ultimi decenni. Innanzitutto, lo snodo di ponte S. Angelo, fino ad allora unico passaggio dal centro tardo-medievale della città al Vaticano, non è più il principale oggetto di interesse per il Della Rovere, che si dedica a incrementare la funzionalità dell’ansa del Tevere nelle sue vie di più intenso traffico di uomini e merci e nei suoi collegamenti a sud e a nord con i porti di Ripa e di Ripetta. La prima e più importante iniziativa volta a risolvere i gravi problemi della viabilità cittadina fu la costruzione di ponte Sisto, in occasione del giubileo del 1475 38. Il ponte collegava in modo molto più agevole e diretto che in precedenza la zona di Campo de’ Fiori a Trastevere e al porto di Ripa (fig. 12), dove attraccavano le navi provenienti dal mare, cariche di merci destinate al mercato e alle botteghe che si addensavano nell’ansa del Tevere. In precedenza, i carri di merci erano costretti, per raggiungere Campo de’ Fiori dal porto di Ripa, ad attraversare ponte S. Maria (oggi ponte Rotto, che si vede nella fig. 11)39, a farsi strada nel lungo 37

Nel foro capitolino «si realizzava, di fatto, un preciso sistema urbano articolato e gerarchico, poderoso a livello d’immagine e denso di significato storico, dove si concentrava la vita economica urbana, insieme a quella civile e politica e nel quale il popolo romano riconosceva la propria identità» (M. Manieri Elia, Il mercato Capitolino, in Studi in onore di Michele D’Elia, a cura di C. Gelao, Matera 1996, pp. 491-495: 491). 38 Sull’importanza di ponte Sisto nell’assetto urbano di Roma vd. M. Gargano, Ponte Sisto a Roma: nuove acquisizioni (1473.1475), in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n. ser., 21 (1993), pp. 29-38; Id., Origini e Storia, cap. III e bibliografia citata. 39 Ponte S. Maria era pienamente funzionale ai rifornimenti del mercato del sabato in Campidoglio con le merci provenienti dal porto di Ripa, ma questo mercato era ormai 158

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Fig. 11 – Il porto di Ripa e il ponte S. Maria in un disegno di Marten van Heemskerck, 1532-1537 (da Die Römischen Skizzenbücher von Marten van Heemskerck im Königlichen Kupferstichkabinett zu Berlin..., herausgegeben von C. Hülsen und H. Egger, I-II, Berlin 1975; Nachdruck der orig. Ausgabe Berlin 1913-1916)

percorso della via Mercatoria, stretto e pieno di sporti commerciali, passando per S. Angelo in Pescheria, per piazza Giudea (con il mercato alimentare giornaliero e un’intensa concentrazione di botteghe) e per l’attuale via dei Giubbonari. Dopo il 1475 (fig. 12) – grazie al nuovo ponte – i veicoli carichi di ogni sorta di mercanzie riuscivano a tagliar fuori tutta questa parte della città e a raggiungere facilmente Campo de’ Fiori. La seconda iniziativa sistina – evidentemente complementare alla prima – fu l’istituzione, nel 1477, di un nuovo grande mercato settimanale in Agone (piazza Navona). La presenza del mercato accompagnò la lenta trasformazione dello stadio di Domiziano in una piazza, ad opera dello stesso Sisto IV e dei successori 40. Anche questo mercato traeva vantaggio in crisi nella seconda metà del Quattrocento, a favore degli insediamenti mercantili della zona di Campo de’ Fiori. 40 Sulle vicende di piazza Navona dall’età antica ai giorni d’oggi vd. «Piazza Navona, ou Place Navone, la plus belle & la plus grande». Du stade de Domitien à la place moderne, histoire d’une évolution urbaine, sous la direction de J-F. Bernard, Rome 2014; per un interessante documento del 1482, dove si racconta che il camerlengo, il suo vice, i maestri delle strade e alti ufficiali camerali si recavano a piazza Navona «ad inspiciendum forum in circho Agonis 159

Fig. 12 – Ricostruzione della viabilità romana al tempo di Sisto IV sulla pianta di T. Magnuson

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da ponte Sisto per il trasporto delle merci che provenivano dal porto di Ripa (fig. 12), anzi il nuovo ponte era condizione imprescindibile per il suo funzionamento. Un’iniziativa – mi sembra importante sottolinearlo – tutt’altro che ostacolata, anzi sollecitata dai Romani, che avrebbero preteso interventi più incisivi, come suggerisce la memoria che ne lascia Stefano Infessura: essendo più volte ordinato lo consiglio in nello palazzo delli Conservatori che se dovesse fare lo mercato de mercordì nella piazza de Nagoni, tandem lo ditto mercato fo cominciato a dì 3 di settembre dello ditto anno, procurando questo lo cardinale di Roano, lo quale allhora era fatto camerlengo per la morte de Latino; et lui per questo promise fare molte cose, et depo’ non fece niente 41.

Soltanto una breve nota quella del cronista romano, che serve tuttavia a ricordare come la categoria storiografica di una costante opposizione tra le iniziative urbane dei pontefici e gli interessi dei Romani (bottegai e non) non sia sempre utile a comprendere le dinamiche della città. Ma la perdita dei verbali del consiglio comunale, sui quali il brano del cronista apre un interessane squarcio, per tutto il XV secolo rende ovviamente più difficile affrontare questo tema. Il Della Rovere disegnava così una nuova linea di traffico soprattutto per le merci, trasversale rispetto alla tre dorsali 42, indicando un percorso che dal porto di Ripa, attraverso ponte Sisto, portava a Campo de’ Fiori, toccava piazza Navona fino a raggiungere la zona adiacente al Tevere di via dell’Orso 43, proseguiva su parte della via Sistina (realizzata dallo stesso noviter ab eis institutum» per risolvere alcuni problemi legati all’ornatum e alla gestione del suolo pubblico di Agone (A. Esposito, I protocolli notarili per gli studi di topografia: un esempio romano dal rione Parione, in Scritti in memoria di Giuseppe Marchetti Longhi, II, Anagni 1990, pp. 279-290). 41 Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, a cura di O. Tommasini, Roma 1890, p. 83. Il corsivo è mio. 42 L’importanza di un percorso trasversale rispetto al tridente viario che partiva da Canale di Ponte è stata sottolineata da Valtieri, Il ruolo dell’area compresa nell’ansa del Tevere nelle strategie papali dal Medioevo fino al XV secolo, in Saggi in onore di Renato Bonelli, a cura di C. Bozzoni et alii, I, Roma 1992 (Quaderni di storia dell’architettura, fascc. 15-20), pp. 335-344: 337-338 e fig. 5. 43 A dimostrazione di una linea di continuità nella politica urbana dei diversi pontefici c’è da segnalare l’intervento di risanamento e riqualificazione della zona compresa tra via dell’Orso e piazza Navona, attuato da Innocenzo VIII all’inizio del pontificato, con la vendita di suolo pubblico a scopo di edificazione: tra i destinatari delle licenze non soltanto curiali, ma anche esponenti del ceto mercantile e artigiano (O. Verdi, Maestri di 161

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papa Della Rovere intorno al 1480) e infine, seguendo il tracciato che sarebbe poi diventato la via di Ripetta con Giulio II, raggiungeva il porto fluviale di Ripetta, dove attraccavano le imbarcazioni più leggere con le merci che provenivano dall’entroterra44, e porta del Popolo, principale ingresso in città da nord per via di terra. Il “nuovo” percorso nella piena definizione del tracciato, attuata da Giulio II, non era ovviamente completo al tempo di Sisto IV, ma il disegno appariva già chiaro. Un disegno che – contrariamente a quello di Paolo II – ebbe il merito di tracciare una linea evolutiva anche per i successori fino al secondo papa Della Rovere, come dimostra la pianta di Manfredo Tafuri (fig. 3). Un percorso che utilizzava per la maggior parte anche la viabilità di Roma antica che costeggiava il Tevere, che non era nel frattempo mai rimasta del tutto inutilizzata 45, anche se i pontefici vollero sempre apparire come i creatori di vie assolutamente nuove. Quanto alla tradizionale viabilità dell’ansa del Tevere, Sisto IV intraprese una vera e propria guerra ai portici, agli sporti commerciali, ai mignani e alle varie forme di occupazione del suolo pubblico lungo le strade e soprattutto lungo la via Mercatoria, dove i traffici di uomini e merci erano particolarmente intensi per la presenza di una serie ininterrotta di botteghe46. Anche se si trattava di un’iniziativa che ricalcava in sostanza la normativa di età comunale, il papa la affrontò con un atteggiamento particolarmente deciso e aggressivo, utilizzando a tal fine la magistratura dei maestri delle strade, edifici e di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma 1997 [RR inedita, 14], pp. 68-86: 75-76), probabilmente attratti in quella zona dal rinnovato movimento commerciale promosso dalle iniziative di Sisto IV. 44 È senz’altro da riconoscere alla costruzione della via Sistina – accanto alla funzione di collegamento con S. Maria del Popolo – quella di facilitare l’accesso delle derrate provenienti dal porto di Ripetta (Spezzaferro, La politica urbanistica cit., pp. 15-64: 44; Gargano, Origini e Storia cit., pp. 154-155), ma non mi sembra condivisibile la tesi di Spezzaferro secondo la quale la via Sistina sarebbe stata utilizzata per il traffico delle merci tra il porto di Ripetta e piazza Navona attraverso Canale di Ponte. La vicinanza tra il lato settentrionale della piazza e la via Sistina, all’altezza dell’imbocco di via dell’Orso e dell’albergo dell’Orso, suggerisce infatti un percorso molto più diretto. 45 Vedi, per le processioni di Pio II, A. Modigliani, Disegni sulla città nel primo Rinascimento romano: Paolo II, Roma 2009, pp. 26-32 e figg. 5 e 6. 46 In un noto brano della sua cronaca Stefano Infessura attribuisce al consiglio del re Ferrante d’Aragona in visita a Roma per il giubileo del 1475 la decisione di Sisto IV di abbattere portici e mignani. Ferrante d’Aragona, «parlando con papa Sixto, disse che esso non era signore di questa terra, et che non la poteva signoreggiare per amore delli porticali et per le vie strette et per li mignani che vi era; et che abbisognando di mettere in Roma gente d’arme, le donne colli mortali delli ditti mignani li fariano fuggire, et che difficilmente se poteva sbarrare, et consiglioli che dovesse fare gittare li mignani et li porticali, et allargare le vie» (Diario della città di Roma di Stefano Infessura, pp. 79-80). 162

Il sistema viario di Roma nel XV secolo tra progetti dei pontefici e interessi di commercianti e bottegai

ormai interamente sottoposta al controllo pontificio47. La propaganda sistina andò tuttavia ben oltre la reale portata dell’intervento papale. I versi del poeta di corte Aurelio Lippo Brandolini 48 elogiano la completa risoluzione di ogni problema della viabilità romana da parte del Della Rovere, con evidente falsificazione delle reali condizioni della città, e gli stessi toni encomiastici appartengono al testo di una lapide del 1483 sottoscritta dai maestri delle strade, la quale ha suggerito la recente attribuzione al papa di una “apertura” di via del Pellegrino e di via dei Giubbonari 49, mentre l’intervento sistino per la via Mercatoria (che ambedue le comprendeva) consisteva soltanto nello sgombero di corpi di fabbrica aggettanti e sporgenze occasionali da una via già da lungo tempo esistente e quotidianamente utilizzata da Romani, forestieri e carri di merci, ovvero dal più consueto percorso verso il Vaticano, comunemente chiamato via Sancti Petri 50. In conclusione, l’assetto delle botteghe artigiane di Roma resistette alle volontà ordinatrici di quei pontefici quattrocenteschi che pretesero di introdurvi cambiamenti significativi. Niccolò V non riuscì a creare un nuovo ed elegante spazio commerciale in Vaticano, con le botteghe a servizio del quartiere curiale disposte lungo le tre vie porticate progettate per collegare Castel S. Angelo col palazzo papale e con la basilica; Paolo II non riuscì a trascinare verso il nuovo palazzo apostolico di S. Marco né i banchieri e i mercanti da Canale di Ponte né le botteghe degli artigiani dall’ansa del Tevere, dalla via Mercatoria e da Campo de’ Fiori; mentre soltanto le soluzioni infrastrutturali di Sisto IV, che tale assetto rispettarono e rafforzarono, risultano la strategia di maggiore successo. E quando il secondo papa Della Rovere, Giulio II, realizzò una nuova via recta di 47

Verdi, Maestri di edifici. Gli epigrammi del Brandolini (sul quale vedi A. Rotondò, Brandolini, Aurelio Lippo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 14, Roma 1972, pp. 26-28) sono conservati, tra l’altro, in Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat 5008; Urb. lat. 739 e sono stati ampiamente utilizzati per il pontificato sistino nel bel saggio di L. Spezzaferro, La politica urbanistica dei papi e le origini di via Giulia, in L. Salerno, L. Spezzaferro, M. Tafuri, Via Giulia. Una utopia urbanistica del ‘500, Roma 1973, pp. 15-64. 49 S. Valtieri, La zona di Campo de’ Fiori prima e dopo gli interventi di Sisto IV, in «L’architettura. Cronache e storia», 30 (1984), pp. 648-660: 650; Ead., Il ruolo dell’area compresa nell’ansa del Tevere, p. 339. 50 Per la dimostrazione dell’esistenza e della piena funzionalità di via del Pellegrino in epoca precedente il pontificato di Sisto IV vedi Modigliani, Mercati, botteghe, pp. 155159. Sulla politica urbana di Sisto IV vedi ancora F. Cantatore, Sisto IV committente di architettura a Roma tra magnificenza e conflitto, in Congiure e conflitti. L’affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura, Atti del Convegno Internazionale, Roma 3-5 dicembre 2013, a cura di M. Chiabò et alii, Roma 2014, pp. 313-338; Gargano, Origini e Storia, cap. VIII. 48

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Anna Modigliani

grande pregio, la via Giulia, che correva parallela ai tradizionali percorsi mercantili e teneva anche ben conto delle intuizioni sistine, collegando ponte Sisto a Canale di Ponte 51, non sottrasse di fatto alcuna funzione commerciale, alcuna bottega, alcuna frequentazione di Romani e pellegrini alla sempre trafficatissima via Mercatoria.

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Giulio II intendeva collegare via Giulia al Vaticano, in maniera ancor più diretta che attraverso ponte S. Angelo, tramite un nuovo ponte – mai realizzato –, il pons Iulius, ricostruzione dell’antico ponte Trionfale o Neronianus. Su via Giulia, sul pons Iulius e sull’urbanistica di primo Cinquecento, oltre a Salerno, Spezzaferro, Tafuri, Via Giulia, è ovvio il rimando a A. Bruschi, Bramante, Roma-Bari 2001. Vedi anche S. Butters, P.N. Pagliara, Il Palazzo dei Tribunali e via Giulia a Roma, in «Zodiac», 14 (1995), pp. 15-29; F. Cantatore, Il riuso del palazzo dei Tribunali in Roma nel XVI secolo, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n.ser., 32 (1998), pp. 69-76; H. Günther, La regione davanti ponte Sant’Angelo a Roma: lo sviluppo urbano e le trasformazioni successive, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n.ser., 34-39 (1999-2002), pp. 299-306; Ch.L. Frommel, La città come opera d’arte: Bramante e Raffaello (1500-20), in Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, a cura di A. Bruschi, Milano 2002, pp. 76-131; M. Antonucci, Palazzo della Zecca in Banchi, Roma 2008. 164

Daniela Esposito Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

Il tema dell’abbandono e del riuso delle strutture architettoniche nel corso del XV e del XVI secolo in Roma ha un valore si potrebbe dire polisemico. Poche le risposte, tanti gli spunti e i dubbi interpretativi. Tante le facce del rapporto con l’antico e con le preesistenze che sembra impossibile cogliere tutte le componenti e le dinamiche. L’argomento è complesso e articolato fra ammirazione delle preesistenze e loro distruzione, fra riuso, recupero, reimpiego, riciclo e sporadici casi di conservazione quantomeno del valore che tali resti e preesistenze rappresentavano per la cultura umanistica e rinascimentale. Una cultura che cominciava a ricercare, a scoprire antiche vestigia e a scoprirne il valore di testimonianza storica, pur senza la consapevolezza, più tarda, del moderno concetto di storia. Con il presente contributo si desidera approfondire alcuni aspetti che si ritiene possano essere utili spunti per una lettura del contesto ricco e al tempo stesso complesso della Roma fra Quattro e Cinquecento nel suo rapporto con le preesistenze, abbandonate o riutilizzate. La città fra Quattro e Cinquecento aveva uno sviluppo concentrato in prevalenza nell’ansa del Tevere, come si può vedere nella rappresentazione della città sulle pareti della cosiddetta Sala delle Carte geografiche dei Palazzi Vaticani (fig. 1) 1. Roma appare compresa entro le mura aureliane ed espansa verso il Gianicolo e il Vaticano con le sue mura altomedievali. Negli ultimi decenni del XVI secolo, erano presenti anche ampie aree destinate, come si sa, a verde, alla coltivazione di vigne e orti con poche strutture insediative di tipo rurale e piuttosto con molti resti di antiche costruzioni abbandonate e oggetto di spoliazione 2. 1

Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche, 1580-1585: Roma. G. Arena, Il verde a Roma, Roma 1983, p. 78. Il termine "vigna" veniva usato come sinonimo di giardino con piante ornamentali e colture diverse spesso associate alla presenza di antichità anche da Montaigne, il quale, in visita a Roma tra il 1580 e il 1581, le descriveva 2

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Fig. 1 – Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche, 1580-1585: Roma alla fine del XVI secolo

Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

Fig. 2 – Schema della diffusione delle aree non abitate e coltivate a vigneti e orti entro le mura nel XV secolo: col tratteggio inclinato da sinistra (basso) a destra (alto) sono indicate le aree abitate, col tratteggio inclinato da sinistra (alto) a destra (basso) quelle con densità abitativa bassa occupate da edifici a schiera o isolati con aree coltivate intorno o solo sul retro, col puntinato le aree non abitate e coltivate prevalentemente a vigna, orto e alberi da frutto

Fra abbandono e riuso: questa era la condizione che qualificava le aree comprese entro le mura aureliane e a ridosso del settore densamente edificato della città. Si trattava di terreni coltivati a vigneti e orti, spazi rurali e luoghi di ricreazione entro le mura con ville e giardini, aree rigenerate o rinnovate con integrazioni funzionali alle nuove destinazioni d’uso o con semplici adeguamenti tecnologici occorsi nel tempo e anche come cave di materiale da costruzione. In quest’ultimo caso si trattava di vere e proprie cave ‘archeologiche’ utili per sostenere le iniziative edilizie avviate in città (fig. 2). Secondo i risultati di una preliminare ricerca svolta sulla base delle fonti edite e, in parte, non edite (con particolare riferimento alla documentazione notarile a quella catastale del XV secolo per alcuni enti o istituzioni religiose, quali ospedali e monasteri esistenti all'interno delle mura della città) e delle descrizioni ambientali contenute in opere letterarie di eruditi e ‘antiquari’ dell’epoca, la situazione dei terreni liberi compresi entro le mura di Roma rimase apparentemente invariata fino all’ultimo ventennio con queste parole: «Nulla è più contrario alla mia salute che la noia e l’ozio; là avevo sempre qualche occupazione, se non così piacevole come avrei desiderato, almeno sufficiente a scacciare la noia. Per esempio, visitar le antichità e le vigne, che sono giardini e luoghi di delizia d’una singolare bellezza: e da esse ho imparato come l’arte possa abilmente trar profitto da un luogo tutto gobbe e monti e dislivelli, perché qui sanno ricavarne bellezze inimitabili nei nostri luoghi piani, e sfruttano con gran maestria tali irregolarità. Fra le più belle sono quelle dei cardinali d’Este, a Monte Cavallo; Farnese, al Palatino; Ursino, Sforza, Medici; quella di papa Giulio; quella di Madama, e i giardini dei Farnese e del cardinal Riario a Trastevere e del Cesio fuora della porta del popolo. Sono bellezze aperte a chiunque se ne voglia servire, e per qualunque scopo, foss’anche per dormire e in compagnia» (Montaigne, Viaggio in Italia, trad. A. Cento, Roma-Bari 1991 (1a ed. 1972), pp. 209-210). 167

Daniela Esposito

del XV secolo 3. E proprio negli ultimi decenni del Quattrocento si ebbero segnali del cambiamento che, da lì a poco, avrebbe avviato un diverso andamento e un nuovo assetto delle aree urbane nel secolo XVI 4. Al riguardo si può notare come, nel corso del XV secolo, le mura di Roma non avessero perso il loro scopo difensivo, ma quest’antica funzione era stata in parte ridotta in favore di quella di confine, di delimitazione di un’area urbana di diretta competenza della città e distinta dall’area prossima alle mura e situata all’esterno di esse. Nel XV secolo l’assetto delle aree situate all’interno del circuito murario, abitate e non, viveva ancora dell'organizzazione spaziale tardo medievale, adeguandosi alle preesistenze antiche, ai ruderi e alla natura e alle funzioni del passato, finalizzate ancora al sostentamento alimentare dei singoli nuclei 3

Si fa riferimento a quanto riportato nel saggio di D. Esposito, Vigneti e orti entro le mura. Utilizzo del suolo e strutture insediative, in Roma. Le trasformazioni urbane del Quattrocento, Atti del convegno internazionale Roma, 2-3 maggio 2002, a cura di Giorgio Simoncini, Firenze 2004, vol. II, pp. 205-228. 4 Tra le fonti e gli studi consultati, di notevole interesse sono risultati, per il riferimento a fonti d’archivio fino ad allora inedite, i saggi di É. Hubert (Patrimoines immobiliers et habitat à Rome au Moyen Age: la Regio Columnae du XI e au XIV e siécle, «Mélanges de l’École Française de Rome - Moyen Age», 101, 1989, 1, pp. 133-175); S. Passigli (Urbanizzazione e topografia a Roma nell'area dei Fori imperiali tra XIV e XVI secolo, «Melange de l’École Française de Rome - Moyen Age», 101, 1989, 1, pp. 273-325) e di S. Pasquali (La regione della Navicella dalla metà del Quattrocento alla fine dell'Ottocento, in Caput Africae. Indagini archeologiche a Piazza Celimontana (1984-1988). La storia, lo scavo, l'ambiente, cur. Carlo Pavolini, Roma 1983, pp. 73-89). Le fonti utilizzate consistono prevalentemente in alcuni protocolli notarili editi e risalenti alla seconda metà del XIV secolo e al XV e in alcuni catasti ed elenchi di beni di istituzioni religiose e chiese, come S. Silvestro in Capite (1321-1334), S. Maria in Aquiro (1326-29), S. Andrea “de Aquariciis” (1115-1483), S. Cecilia, S. Maria in Trastevere (1440-42), l’Ospedale di S. Spirito e quello del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum, quello del Gonfalone e di altre fonti riportate soprattutto da P. Adinolfi, Roma nell'età di mezzo, rist. anast. ed. 1890, Firenze, 1979, voll. 9). Fra questi: A. M. Corbo, Fonti per la storia sociale romana al tempo di Nicolò V e Callisto III, Roma 1990; É. Hubert, Un censier des biens romains du Monastèré S. Silvestro in Capite (1333-1334), «Archivio della Società Romana di Storia Patria» (ASRSP), 1988, 11, pp. 93-140; E. Leovinson, Documenti del monastero di S. Cecilia in Trastevere, ASRSP, 1926, 49, pp. 355-404; I. Lori Sanfilippo, Il protocollo notarile di Lorenzo Staglia (1372), Roma 1986; Ead., Il protocollo notarile di Pietro di Nicola Astalli (1368), Roma 1989; R. Mosti, I protocolli di Johannes Nicolai Pauli, un notaio romano del '300 (1348-1379), Rome, École Française de Rome, 1982; Id., Il protocollo notarile di «Antonius Goioli Petri Scopte» (1365), Roma, Viella, 1991; Id., Un notaio romano del Trecento. I protocolli di Francesco di Stefano Caputgallis (1374-1386), Roma, Viella, 1994; M. Vendittelli, Un censuale dei beni urbani della chiesa romana di S. Maria in Aquiro degli anni 1326-1329, ASRSP, 1988, 11, pp. 77-85. 168

Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

familiari residenti in città. Nel corso dello stesso secolo, soprattutto a partire dal pontificato di Sisto IV (1471-84) in poi, ebbe inizio un significativo passaggio ad un utilizzo e ad un assetto del suolo entro le mura diverso da quello caratteristico della fase medievale, uno sviluppo che costituì la necessaria premessa per le modificazioni urbane di alcuni settori del territorio intramuraneo nei secoli successivi. Tale trasformazione si innestò in una situazione del mercato della proprietà fondiaria stabilizzatasi nel corso del XIV secolo; una condizione che si perpetuò per quasi tutto il XV secolo, proprio fino all'ultimo ventennio circa, quando la coincidenza di nuove condizioni economiche, sociali e culturali favorirono la graduale trasformazione del carattere e dell’assetto del suolo di Roma, che sarà evidente soprattutto nei secoli XVI e XVII. Entro le mura furono realizzati ampi complessi residenziali di ricreazione. Le ville delle ricche famiglie romane si attestarono entro le vigne e i giardini e gli orti, spesso anche con vista sugli antichi resti romani, come nel caso degli Horti Farnesiani, costruiti in un’area coltivata a vigna sul colle Palatino alla fine del XV secolo, acquistata fra il 1542 e il 1545 dalla famiglia Farnese per la realizzazione della villa costruita a partire dal 1565 (fig. 3). La vista dalla villa non era come oggi potremmo immaginarla; i ruderi del Foro romano sottostante e dei Fori imperiali non erano scoperti come ai nostri giorni, ma il contesto lasciava comunque godere della vista delle antiche vestigia. Di fronte, il giardino della Villa Silvestri-Rivaldi godeva del medesimo affaccio dal lato opposto degli Horti dei Farnese; allestiFig. 3 – G. A. Dosio (attr.), Veduta di Roma to per conto del cardinale Ottavio (particolare del colle Palatino), 1562, in A. P. Frutaz, Le piante di Roma, Firenze 1972, vol. Alessandro de’ Medici, su disegno II, pianta CXVIII, tav. 230. In evidenza le di Iacopo del Duca, fu completato vigne e i resti antichi esistenti alla fine del XV da Giovanni Vasanzio entro i primi secolo sul Palatino prima della nascita degli anni del XVII secolo, con esposizione Horti farnesiani 169

Daniela Esposito

di statue lungo i percorsi 5. Molte le ville e i giardini di ricreazione e di benessere realizzate fra Quattro e Cinquecento entro le mura nei quali sussisteva uno stretto legame con la presenza di opere antiche. Per il XVI secolo Renata Samperi offre una sistematica, quanto utile rassegna di casi di trasformazione del contesto rurale intramuraneo come, fra gli altri, i Giardini papali al Vaticano, Villa Chigi, Vigna Farnese, Palazzo Riario con il suo giardino con vigne, Palazzo Altieri Salviati, Villa Turini Lante, nella zona del Gianicolo; Vigna Boccapaduli, Orti farnesiani e Palazzo Salviati, al Campidoglio, Palatino e Fori; Villa Pio da Carpi, villa Carafad’Este e molti orti e vigne al Quirinale; Villa Ricci-Medici, Giardino del card. Flavio Orsini (1576), giardini Colocci e del Bufalo, al Pincio; Villa Grimani, Villa Montalto e Villa Strozzi, all’Esquilino; Villa Mattei nella zona Celio-Terme di Caracalla 6. Sempre con vista sui ruderi antichi, nella seconda metà del XV secolo, fu realizzato il casino del cardinal Bessarione, in vista di rovine antiche e della porta Appia. Situato a ridosso delle mura, può essere ritenuto un esempio ante litteram – e per questo motivo forse più schietto e rappresentativo – delle motivazioni e modalità di avvio del processo di trasformazione delle aree agricole a ville, e dunque di riuso con la trasformazione di una preesistenza medievale 7. La data probabile di trasformazione dell’edificio rustico medievale in casino è stata fissata negli anni compresi tra il 1455 ed il 1460; in tale occasione fu ampliata la costruzione medievale preesistente ed inserita una loggia con colonne di recupero8. Le fonti danno notizie anche dell’esistenza di giardini e di viridaria, giardini interni alle abitazioni, talvolta comprendenti mostre di reperti antichi, come nel caso testimoniato dalle fonti del giardino della Villa Silvestri-Rivaldi. Possiamo immaginare l’assetto di un giardino ‘colto’ attraverso la ricostruzione di P. Adinolfi a proposito della casa dei Cesarini, presso S. Pietro in Vincoli: alla casa era affiancato un terreno costituito da orti e un giardino entro il quale esisteva una galleria coperta nella quale

5

Il giardino della Villa Silvestri rivalidi fu ‘tagliato’ e ridotto nella sua estensione a seguito delle demolizioni per l’apertura della via dell’Impero negli anni Trenta del Novecento. 6 R. Samperi, La città delle vigne, dei giardini e delle ville (fine XV-XVI secolo), in Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento. II. Dalla città al territorio, a cura di G. Simoncini, Firenze 2011, pp. 105-158. 7 Sull’argomento si rimanda al saggio di T. Carunchio, La Casina del Cardinal Bessarione, Città di Castello 1991. 8 Ibidem, p. 1. 170

Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

Fig. 4 – S. Dupérac, Pianta di Roma, 1577 (particolare degli Horti Farnesiani e dell’area del giardino della Villa Silvestri-Rivaldi), da A. P. Frutaz, Le piante di Roma, vol. II, pianta CXXVII, 2, tav. 249

erano esposti busti di antichi imperatori, così come testimoniato per la Villa Silvestri-Rivaldi (fig. 4) 9. Tornando ad osservare la pianta di Roma dipinta nella galleria dei Palazzi vaticani nell’ultimo ventennio del XVI secolo, si può notare come la distribuzione delle aree coltivate, la vocazione ‘rurale’ dello spazio intramuraneo fosse in realtà molto articolata e dominata da un naturale quanto profondo legame con le preesistenze antiche: tratti di acquedotti che entravano dentro la città, ville, ninfei e altri edifici connessi con tali insediamenti residenziali, terme, basiliche, i ruderi dei Fori imperiali, il palazzo sul Palatino, le abitazioni ai piedi del colle, i quartieri residenziali e altro, erano sotto gli occhi di tutti gli abitanti e visitatori. Sorgevano fra le vigne e i campi coltivati ed erano note con toponimi talvolta di dubbia o misteriosa etimologia e origine, come nel caso dell’edificio chiamato nel medioevo e nel quattrocento “Galluzze” e denominato da Pirro Ligorio 9

P. Adinolfi, Roma nell’età di mezzo, Firenze 1979 (rist. anast. ed. 1890), vol. I, pp. 104-105. 171

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Fig. 5 – L. Bufalini, Pianta di Roma, 1551 (particolare della zona presso il c.d. Tempio di Minerva Medica), da A. P. Frutaz, Le piante di Roma, vol. II, pianta CIX, 4, tav. 193

“tempio di Minerva Medica”, forse per un errore d’interpretazione della funzione della costruzione, funzione di cui si era evidentemente dimenticato, fin dal suo abbandono, il significato (fig. 5). Una mancanza di memoria e un tipo di errori interpretativi non infrequenti fra gli umanisti del Quattrocento e del Cinquecento, impegnati contestualmente nelle prime sistematiche ricerche archeologiche, riscontrabile ad esempio nel caso dei resti della grandiosa basilica circiforme costantiniana di S. Agnese, ritenuta erroneamente dagli studiosi del tempo un antico ippodromo collegato ai resti di un antico tempio dedicato a Bacco di pianta circolare e rispondenti invece al mausoleo di Costanza, figlia di Costantino, situati a pochi chilometri dalla porta Collina (attuale porta Nomentana)10.

Il rapporto con le preesistenze abbandonate e ridotte a rudere o comunque non utilizzate e in rovina è comunque controverso nel Rinascimento. Da una parte prevale la contemplazione e dall’altra l’abbandono e la rovina o la consapevole distruzione. Da una parte il rispetto, addirittura la difesa dalla distruzione, ma dall’altro lato la distruzione gestita e promossa dallo stesso governo statale. Questo era il contesto entro il quale sorgevano, direi 10

Si rimanda a tal proposito al fondamentale contributo di Deichman che con i suoi studi e gli scavi archeologici sancì la riscoperta dell’antica basilica costantiniana (F.W. Deichmann, S. Agnese fuori le mura und die byzantinische frage in der frühchristlichen architektur Roms, “Byzantinische Zeitschrift”, 41, 1941, 1, pp. 70-81) e al successivo studio di D. Esposito, P. Venturini, Alcune note sulla Basilica cimiteriale di S. Agnese fuori le mura: osservazioni ed ipotesi, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, n.s., 1993, 22, pp. 6-16 e il volume La basilica costantiniana di Sant’Agnese fuori le mura, a cura di M. Magnani e C. Pavolini, Milano 2004. 172

Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

sopravvivevano, le antiche vestigia della Roma imperiale dispersi fra i campi ed entro i vigneti. Sappiamo che fin dal V secolo, a Roma, l’oscillazione tra le esigenze di conservazione e le necessità di trasformazione di aree urbane e di singoli monumenti caratterizzò un gran numero di provvedimenti legislativi. Si trattava di un rapporto controverso che, per secoli, vide il susseguirsi di norme assolutamente contraddittorie – alcune finalizzate a destrutturare l’edilizia fino ad allora funzionale per i riti pagani (IV secolo), altre a salvaguardarne alcune parti (almeno dalla seconda metà del IV secolo), in modo da conservare il prestigio della città e, soprattutto, per arginare la spoliazione incontrollata del materiale da costruzione. Nei secoli che seguirono, dal V al XVI secolo, l’enorme disponibilità edilizia della città, che nel III secolo contava oltre un milione e mezzo di abitanti ed era nella fase della sua massima espansione, poteva essere saccheggiata o mutilata, spogliata o distrutta, rifunzionalizzata o locata, qualora si fosse trovata in stato di abbandono e/oppure non avesse contribuito al decoro urbano. Sin dal V secolo, di fronte al fenomeno della spoliazione degli antichi monumenti abbandonati o che avevano cessato di svolgere funzioni utili, furono emanati strumenti legislativi e disposizioni in materia di tutela artistica fin dalla tarda antichità e nel corso del medioevo 11. Ancora dieci secoli più tardi i primi atti legislativi risalenti al XV secolo, emanati per volontà comunale e pontificia, non potevano essere ancora identificati come veri provvedimenti di tutela, sia per il loro carattere episodico, sia perché caratterizzati da una certa ambiguità in relazione alle competenze e alle funzioni delle varie istituzioni preposte ad esercitare l’effettivo controllo. La tutela dei monumenti classici si intrecciava sempre più con il grande mecenatismo romano, di esclusivo appannaggio della curia romana e delle potenti famiglie nobiliari ad essa collegate. Fra le leggi e disposizioni rinascimentali, prima tra tutti fu la bolla di Martino V (1417-1431) Etsi de cunctarum orbis provinciarum (30 marzo 1425) che condannava l’offesa ormai sistematica dei monumenti antichi pubblici, civili o religiosi e che ri-istituisce (rinnovandola) la figura dei “Maestri delle strade” (in sostituzione dei Magistri aedificiorum che operavano nella Roma medievale con funzione di controllo del decoro artistico di Roma) e avviava una cultura di sensibilizzazione per il recupero e il 11

Si rimanda agli studi di A. Pergoli Campanelli, La nascita del restauro. Dall’antichità all’altomedioevo, Milano 2015 e Cassiodoro. Alle origini dell’idea di restauro, Milano 2013. 173

Daniela Esposito

restauro delle dimore pregiate facendo demolire tutte quelle fabbriche che ostruivano i monumenti antichi. I Maestri di Strada divennero così il braccio operativo della politica urbanistica portata avanti e realizzata da Nicolò V (1447-1455) e da Sisto IV (1471-1484), impegnati anch’essi nel ridisegno della città e nella ricerca di rinnovato decoro urbano. La bolla di Martino V stabiliva anche alcuni criteri di restauro e di ricostruzione degli edifici; veniva proibito ogni prelievo di marmi preziosi dai ruderi e decretata altresì la demolizione di costruzioni addossate ad antiche fabbriche. Papa Eugenio IV (1431-1447) intervenne con un suo Breve in difesa del Colosseo, oggetto anch’esso di spoliazioni ricorrenti fin dall’altomedioevo e successivamente Pio II (Enea Silvio Piccolomini, papa dal 1458 al 1464) emanò la bolla Cum almam nostram urbem in sua dignitate et splendore conservari cupiamus (1462), per la tutela dei monumenti antichi. La bolla proibiva a chiunque, a meno di specifica licenza del pontefice, di demolire, distruggere o danneggiare gli antichi edifici pubblici o i loro resti esistenti in Roma e nel suo distretto, anche se si trovano in fondi di proprietà privata. Ma lo stesso Pio II consentì, negli stessi anni, anche il prelievo di marmi dal Colosseo per costruire la Loggia delle Benedizioni antistante San Pietro. Papa Sisto IV (1471-1484), nel 1471, promulgò il divieto di esportare marmi da Ostia e, durante il suo pontificato, favorì il restauro delle statue dei Dioscuri a Montecavallo e forse quello della statua bronzea di Marc’Aurelio, situata al Laterano. Nel 1474 il pontefice emanò la Bolla “Cum provvida Sanctorum Patrum decrete” per porre fine ai saccheggi degli antichi monumenti veniva vietata la spoliazione dei marmi e degli antichi ornamenti delle chiese e delle basiliche e la vendita delle opere d’arte sacra contenute negli edifici di culto. Il mecenatismo di Sisto IV impresse una svolta nella politica di conservazione: il mondo classico divenne il modello estetico di riferimento. Nacquero i Musei Capitolini e l’archivio di Castel S. Angelo, con l’obiettivo specifico di evitare la dispersione degli atti pontifici più preziosi. Martino V denunciava inoltre il degrado generalizzato della città, dovuto al disordinato sviluppo urbano di Roma, dove predominavano gli interessi privati e le conseguenze delle attività lavorative dei macellai, dei pescivendoli e dei conciatori. Sisto IV, nella bolla Cum Provvida Sanctorum Patrum decrete (1474), aveva cercato di impedire l’alienazione delle opere d’arte conservate nelle chiese di Roma. Malgrado queste prescrizioni, raccomandazioni e norme, l’effetto sulla conservazione dei monumenti antichi fra XV e XVI secolo fu molto 174

Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

limitato. Infatti, a Roma si continuò ad asportare marmi dai monumenti antichi e a farne calce o ridurli a materiale da costruzione, come si legga nella lettera indirizzata a Leone X del 1515 12. Come noto, nel 1503 durante il pontificato di Giulio II (1503-1513), nipote di Sisto IV, la Bolla Renovatio urbis Romae (18 agosto 1507) avviò un piano di rinascita di Roma. Per ridare l’antico lustro alla città vengono ammodernati interi quartieri, ridisegnato il sistema viario, ricostruiti i palazzi apostolici e le chiese. L’Urbe viene investita dall’ansia generale di contribuire ai grandiosi progetti del pontefice. Con l’obiettivo di reintegrare gli archivi pontifici, la Bolla prescriveva la restituzione alla Camera apostolica, entro un termine perentorio, di tutti i documenti privati o pubblici che potessero competerle. Col pontificato di Leone X (1513-1521) si manifestò definitivamente la consapevolezza della necessità di avviare politiche di custodia e gestione del patrimonio artistico affidate a figure competenti sotto il punto di vista tecnico e per questo motivo sottraendo questo compito almeno in parte all’arbitrio dei privati. Anche nella normativa in materia il passato divenne ormai un valore da scoprire e custodire. Nel 1515 la nomina di Raffaello, da parte del pontefice, a Ispettore generale delle Belle Arti rispondeva a tale obiettivo 13. Il nuovo orientamento culturale viene consolidato anche col nuovo pontefice, con l’istituzione del “Commissariato alle antichità”, affidato con il Breve apostolico del 28 novembre 1534, durante il pontificato di Paolo III (1534-1549) al canonico Latino Giovenale Manetti, e col perfezionamento dei poteri del conservatore. Il Commissario aveva il compito di vigilare su tutti i monumenti di Roma, preservandoli da manomissioni, demolizioni o alienazioni. La stessa carica venne poi affidata, con il Breve del 1547 a Michelangelo Buonarroti. L’attività e la passione di Raffaello ebbero scarso effetto a livello operativo. Quanto alla pratica ed efficace tutela dei monumenti scritti scolpiti della città e del suburbio, essa fallì interamente, e le devastazioni continuarono 12

Fra le pubblicazioni riguardanti il testo della Lettera a Leone X, si rimanda alla monografia di F.P. Di Teodoro, Raffaello, Baldassar Castiglione e la Lettera a Leone X, Firenze 2020 (1° ed. Bologna 1994). 13 Raffaello si impegna nell’attività di controllo dei lavori di scavo e nella custodia e vigilanza: «Praeterea quoniam certus factus sum multum antiqui marmoris et saxi literis monumentisque incisi…temere secari ita ut inscriptiones aboleantur; mando omnibus qui caedendi marmoris artem Romae exercent, ut sine tuo jussu aut permissu lapidem ullum inscriptum caedere secare ne audeant». La citazione è ripresa da: G. Moroni, Dizionario d’erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Venezia 1842, vol. XV, p. 85. 175

Daniela Esposito

sotto il commissariato di Raffaello, a dispetto del Breve di nomina e delle buone intenzioni del commissario. Il recupero di materiale da costruzione era infatti una pratica diffusa e in molti casi, nonostante le prescrizioni espresse, consentita dalle istituzioni governative. L’indagine tra le fonti scritte romane utili per affrontare i temi del reimpiego dei materiali da costruzione antichi, dell’organizzazione dei sistemi di recupero e del cantiere ad esso dedicato vanta una solida tradizione, grazie a spogli documentari e ricerche storiche aventi come oggetto la Roma medievale e rinascimentale. Dopo quelle di Lanciani, Cerasoli e Marchetti Longhi, si rammentano, fra gli altri i contributi di Anna Maria Corbo, Arnold Esch, Isa Lori Sanfilippo, Jean-Claude Maire Vigueur, Alfio Cortonesi, Ivana Ait, Anna Modigliani, Angela Lanconelli, Orietta Verdi, Étienne Hubert, Manuel Vaquero Piñeiro 14. Significativi dati materiali sono emersi a seguito di campagne di scavo (per esempio i cantieri della Crypta Balbi, dell’area dei Fori imperiali e gli scavi per la metropolitana), editi in saggi, fra gli altri, di Daniele Manacorda, Alessandra Molinari, Riccardo Santangeli Valenzani 15. Esistono infine alcuni studi iniziali sul tema della 14

A fronte di una bibliografia estremamente ampia, si indicano solo i riferimenti maggiormente utilizzati per presente saggio, in ordine cronologico: R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, 4 voll., Roma 1902-1912 (ristampa anastatica con premessa di F. Castagnoli, 2 voll., Bologna 1975); É. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, Rome 1990; O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma 1997; I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro. I Leni. Uomini d’affari del Rinascimento, Roma 2000; I. Lori Sanfilippo, La Roma dei Romani. Arti, mestieri e professioni nella Roma del Trecento, Roma 2001; I. Ait, Aspetti dell’attività edilizia a Roma: la Fabbrica di San Pietro nella seconda metà del’400, in Maestranze e cantieri edili a Roma e nel Lazio. Lavoro, tecniche, materiali nei secoli XIII-XV, a cura di A. Lanconelli, I. Ait, Manziana 2002, pp. 39-53; I. Ait, Il Manuale expensarum basilicae Sancti Petri, 1339-1341. Contributo per lo studio del salariato a Roma nel Trecento, in Maestranze e cantieri edili, pp. 19-38; M. Vaquero Piñeiro, La gabella dei calcarari. Note sulla produzione di calce e laterizi a Roma nel Quattrocento, in Maestranze e cantieri edili, cit., pp. 137-154; A. Cortonesi, Fornaci e calcare a Roma e nel Lazio. Secoli XIII-XV, in Maestranze e cantieri edili, cit., pp. 109-136; M. Vaquero Piñeiro, «Ad usanza di cave». Società per l’estrazione di pietre e materiali antichi a Roma in età moderna, in Il reimpiego in architettura. Recupero, trasformazione, uso. Atti del convegno, a cura di J.-F. Bernard, Ph. Bernardi, D. Esposito, Roma 2008, pp. 523-529; J.-Cl. Maire Vigueur, L’autre Rome. Une histoire des Romains à l’époque communale (XIIe-XIVe siècle), Paris 2010. 15 Si vedano, fra i numerosi studi degli autori in questione, D. Manacorda, Crypta Balbi. Archeologia e storia di un paesaggio urbano, Roma 2001; R. Santangeli Valenzani, Calcare ed altre tracce di cantiere, cave e smontaggi sistematici degli edifici antichi, in L’archeologia della produzione a Roma. Secoli V-XV. Atti del convegno internazionale di studi, Roma 27-29 marzo 2014, a cura di A. Molinari, R. Santangeli Valenzani, L. Spera, Roma 2014, pp. 335-344; A. Molinari, La produzione artigianale a Roma tra V e XV secolo. Riflessioni sui 176

Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

decostruzione e del reimpiego del materiale proveniente dai monumenti spogliati, tema affrontato dal punto di vista del cantiere architettonico nell’ambito della storia della costruzione e dell’archeologia dell’architettura, fra gli altri e miratamente su Roma, da Patrizio Pensabene, Susanna Passigli e Maria Grazia D’Amelio16. Si tratta di una consuetudine diffusissima e ben studiata nell’ambito dell’edilizia religiosa e civile, con innumerevoli riferimenti al riuso delle strutture antiche e al reimpiego e riciclo degli elementi costruttivi 17. Di tale consuetudine vi era piena consapevolezza già da parte dei contemporanei, come mostra la già citata Lettera di Raffaello al papa Leone X (1519), nella quale si faceva riferimento esplicito alla pratica del “tempo dei Gothi” ossia quella di estrarre i materiali dai muri antichi per le nuove costruzioni per reimpiegarli o riciclarli 18. Fra tutti si richiama la decostruzione per riutilizzo dei pezzi e riciclo in cottura per farne calce dei resti ingenti del Settizodio, distrutto definitivamente durante il pontificato di Sisto V, negli ultimi decenni del XVI secolo, ma molti altri sono gli esempi che si potrebbero citare. Lo smontaggio col fine di recuperare il materiale da costruzione viene descritto nella documentazione contabile relativa al pagamento a risultati di uno studio archeologico sistematico e comparativo, in L’archeologia della produzione, pp. 613-636. 16 Si ricordano fra gli altri i contributi di D. Esposito, Pietraie e calcarari a Roma: recupero dei materiali da costruzione fra medioevo ed età moderna, in História da Construção: os materiais, a cura di A. Sousa Melo, M. Do Carmo Ribeiro, Braga 2012, pp. 59-76; Ph. Bernardi, D. Esposito, For an History of Deconstruction, in Nuts and Bolts of Construction History. Culture, Technology and Society, a cura di R. Carvais, A. Guillerme, V. Nègre, J. Sakarovitch, Paris 2012, vol. II, pp. 453-460; M. G. D’Amelio, D. Esposito, Il cantiere di smontaggio: la pietraia lungo la via Flaminia. Osservazioni sul recupero dei materiali da costruzione, in Sulla via Flaminia. Il mausoleo di Marco Nonio Macrino, a cura di D. Rossi, Ministero per i Beni e le Attività culturali - Soprintendenza speciale per i Beni Archeologici di Roma, Milano 2012, pp. 331-343; D. Esposito, P. Pensabene, Il reimpiego nelle cripte del XII secolo in Tuscia, in História da Construção: arquitecturas e tecnicas constructivas, a cura di A. Sousa Melo e M. Do Carmo Ribeiro, Braga 2013, pp. 135-153. 17 Cfr. É. Hubert, Espace urbain; J.-Cl. Maire Vigueur, L’autre Rome; A. Molinari, La produzione artigianale. 18 Si tratta del reimpiego dei marmi e di elementi di lava leucititica e basalto, tagliati e poi reimpiegati con le tracce delle loro lavorazioni («scrustavano li muri anti[qui] per torne le pietre cotte: et in piccioli quadretti riducendo li marmi con essi muravano dividendo con quella mistura le parete, come hor si vede nella torre che si chiamo delle militie», dalla Lettera a Leone X (1519): il brano è tratto dall’edizione critica della trascrizione (versione B) contenuta in Raffaello Sanzio, Tutti gli scritti, a cura di E. Camesasca, Milano 1956, pp. 303-304. 177

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Domenico Fontana, nel 1589, per la decostruzione del Settizonio (fig. 6)19. I ruderi del monumento, parte dell’ampliamento del palazzo imperiale del Palatino, sulle pendici del colle verso il circo Massimo, sono riprodotti in stampe e disegni del XV e del XVI secolo. L’azione di smontaggio ebbe il suo culmine con Sisto V, ma il processo era stato avviato almeno qualche decennio prima. Nella seconda metà del XVI secolo, dopo l’edizione a stampa del Dùperac (1575) e prima Fig. 6 – L. Bufalini, Pianta di Roma, 1551 (pardella demolizione di Sisto V, pare sia ticolare della zona presso i resti del Settizonio), da A. P. Frutaz, Le piante di Roma, vol. II, crollata o sia stata smontata parte pianta CIX,14, tav. 203 del Settizonio, con la rovina di 4 o 6 colonne e la sopravvivenza di solo 18 delle totali che si contano nelle immagini di pochi anni prima della demolizione (figg. 7 e 8). Il documento del 1589 descrive l’azione della “disfattura” dei ruderi, mediante “calatura”, “butto a basso”, “levatura da terra”, “tiro con argano”, “tiro semplice con corde o catene”, “cavatura di sotto” e il “trasporto”. Si tratta di uno smontaggio accurato finalizzato al recupero dei pezzi e uno spostamento degli stessi per liberare l’area del cantiere e facilitare il lavoro degli operai: dai peperini dall’alto, ai pezzi di cornice e del basamento, alle colonne in parte rotte o bruciate e per questo mandate in pezzi in diversi luoghi per essere reimpiegate o riciclate, ai blocchi di peperino e di travertino che costituivano la platea del monumento e quindi allo scavo di una fossa e riempimento dello spazio dove si era cavata la platea. Per un costo totale di 905 scudi. 19

A. Bertolotti, Artisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI, XVII. Studi e ricerche negli archivi romani, Bologna 1970 (rist. anast. dell'ediz. milanese del 1881), vol. I, p. 87: Libro XIX del Cav.e Fontana per la disfattura della Scola di Virgilio”. A dì 15 maggio 1589: «Misura e stima della disfattura de tutta la fabrica della Scola di Virgilio over Settesonij dalla cima sino in terra; ed da detto piano di terra haver cavato sottoterra fondo palmi 29 sino alla platea dove il muro de selci per cavar fora tutti li peperini et certi pezzi di trevertini cavati fora; et tirati alla banda con l’argano per scalzarli per essere tanta quantità accio l’uno non impedisse l’altro per la strada di S. Gregorio; con la calatura de tutte le colonne et cornice e basamenti di marmo ch’erano sopra dette colonne come di sotto si nomina a partita per partita». 178

Fig. 7 – S. Dupérac, Pianta di Roma, 1577 (particolare della zona con i resti del Settizonio), da A. P. Frutaz, Le piante di Roma, vol. II, pianta CXXVII, 2, tav. 249

Fig. 8 – S. Dupérac, Vestigi del Settizonio di Severo imperatore, 1575 (Istituto centrale per la grafica, Gabinetto Disegni e Stampe, Fondo Corsini; volume 44H29) (https://www.calcografica.it/stampe/inventario.php?id=S-FC70278)

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I pezzi furono destinati a numerose fabbriche e interventi voluti da Sisto V in Roma, come la costruzione di fontane (5 pezzi di peperino); la fondazione dell’obelisco di piazza del Popolo (33 pezzi di pietra); il restauro della Colonna Antonina (104 pezzi di travertino e 4 colonnine di cipollino); la porta del Palazzo della Cancelleria; la facciata nord della basilica di San Giovanni in Laterano, cortile e scalinata, scalette segrete e scala a lumaca con i peperini del Settizonio (19 massi e altre costruzioni) 20. Accanto al reimpiego dei materiali era documentata anche la pratica della raccolta di pezzi statuari preziosi, primo fra tutti il gruppo del Laocoonte rinvenuto nei pressi del Laterano. Tale pratica testimonia ancora una volta la vocazione molto diffusa nella Roma rinascimentale, fra riuso e abbandono, fra integrazioni e decostruzioni che interessò sia i materiali antichi e sia gli edifici destinati a nuovi usi. Si cita fra questi il caso del Teatro di Marcello, sulle cui imponenti rovine trovarono posto, nel medioevo, alcune strutture nello spazio interno di alcuni cunei e, nel primo ventennio del XVI secolo, fu realizzato il Palazzo Savelli-Orsini (fig. 9)21. Va in conclusione rammentato che se, accanto al riuso, una grande quantità di edifici antichi fu distrutta come il Settizodio, in un numero più ristretto di casi fu invece adottato un approccio dettato da rispetto e guidato da istanze conservative, come ad esempio nel caso delle colonne di Traiano e di Antonino, ricordate nei Mirabilia a testimoniare il loro 20

R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, Roma 1913, vol. IV, pp. 123, 132, 137,164. 21 La riconversione degli edifici antichi è stata ampiamente indagata e pertanto si rimanda alle specifiche indagini svolte sui singoli casi di studio nella città di Roma. Si rimanda per le trasformazioni del Teatro di Marcello, agli studi di C. Hülsen, Sulle vicende del teatro di Marcello nel Medio Evo, «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di archeologia”, s. III, (1921-23), pp. 169-174; J.-J. Gloton, Trasformation et réemploi des du passée dans la Rome du XVI seicle. Les monements antiques, in «Mélanges d’Archéologie et d’Historie», LXXXIV (1962), 2, pp. 710-716; A. Calza Bini, Il teatro di Marcello forma e struttura, in «Bollettino del Centro Studi per la Storia dell’Architettura» (1953), pp. 1-44; P. Fidenzoni, Il Teatro di Marcello, Roma 1970; P. Fancelli, Demolizioni e “restauri” di antichità nel Cinquecento romano, in Roma e l’antico nell’arte e nella cultura del Cinquecento, a cura di M. Fagiolo, Roma 1985, pp. 357-403; A. Cerutti Fusco, Il Teatro di Marcello in età moderna. Proprietà, famiglie nobili, architetti e forma urbana, in «Città e Storia» (2004), 1, pp. 141-149; C. Tessari, Baldassarre Peruzzi e il Palazzo Savelli sul Teatro di Marcello, in Baldassarre Peruzzi, 1481-1536, a cura di Ch. L. Frommel, Venezia, 2005, pp. 267-271; V. Montanari, Restauración del Teatro de Marcelo, casi cien años después, in «Loggia Arquitectura & Restauración» (2018), 31, pp. 40-53, parte di uno studio più ampio condotto da Montanari nell’ambito della sua ricerca di dottorato su Il teatro di Marcello e il palazzo Orsini. Rapporto con la preesistenza e trasformazioni (Dottorato in “Conservazione dei Beni Architettonici”, XII ciclo - “Sapienza” Università di Roma), di prossima pubblicazione. 180

Abbandono e riuso a Roma nel Rinascimento

Fig. 9 – Roma, Teatro di Marcello: veduta d’insieme (foto dell’autrice 2022)

apprezzamento da parte della cultura quattro e cinquecentesca e pertanto oggetto di un’attenzione particolare e di tutela delle loro integrità fisica e del decoro da parte della cultura nel Rinascimento22.

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Per la colonna Traiana, cfr. R. Lanciani, Storia degli scavi, vol. IV, in particolare p. 153 (anno 1585); per la colonna Antonina, cfr. R. Lanciani, Storia degli scavi, vol. IV, in particolare p. 138 (anno 1588), dove si fa riferimento all’utilizzo di marmi provenienti dal Settizonio per le opere di restauro degli scalpellini eseguite a spese di Domenico Fontana. 181

Claudia d’Avossa Pratiche assistenziali e mercato immobiliare: la SS. Annunziata alla Minerva di Roma

Le politiche di razionalizzazione e di riorganizzazione del soccorso ai poveri che si avviarono tra Quattro e Cinquecento in tutta Europa avvennero in un clima di teorizzazioni e sperimentazioni istituzionali, di ripensamento e ristrutturazione delle pratiche quotidiane di gestione della miseria cui la storiografia da ormai molto tempo guarda con vivo interesse 1. Si tratta di un campo di studi che negli ultimi decenni è stato profondamente rinnovato ed arricchito dall’incontro con la storia economica, dando avvio a un atteggiamento storiografico dove la comprensione della rilevanza politica e sociale – oltre che religiosa – delle strutture caritative e della varietà e dell’efficacia dei servizi assistenziali, è resa congiuntamente allo studio «della struttura quantitativa e gestionale dell’amministrazione economica» 2. 1

Sul tema del pauperismo e sul percorso di istituzionalizzazione delle pratiche assistenziali cfr. B. Geremek, Il pauperismo nell’età preindustriale (secoli XIV-XVII), in I documenti, a cura di R. Romano, C. Vivanti, Torino 1973 (Storia d’Italia, V/1), pp. 667- 698; J. P. Gutton, La società e i poveri, Milano 1977; B. Pullan, Poveri, mendicanti e vagabondi (secoli XIV-XVII), in Dal feudalesimo al capitalismo, a cura di R. Romano, C. Vivanti, Torino 1978 (Storia d’Italia. Annali, 1), pp. 981-1047; A. Pastore, Strutture assistenziali fra Chiesa e Stati nell’Italia della Controriforma, in La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, pp. 433-465; Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna. Atti del convegno “Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani” (Cremona, 28- 30 marzo 1980), a cura di G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta, Cremona 1982; B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari 1986; M. Fatica, Il problema della mendicità nell’Europa moderna (secoli XVI-XVIII), Napoli 1992; per un più esteso approfondimento bibliografico si rimanda alla recente sintesi di M. Garbellotti, Per carità. Poveri e politiche assistenziali nell’Italia moderna, Roma 2013. 2 F. Bianchi, L’economia delle confraternite devozionali laiche: percorsi storiografici e questioni di metodo, in Studi confraternali: orientamenti, problemi, testimonianze, a cura di M. Gazzini, Firenze 2009, pp. 239-290: p. 245. 183

Claudia D’Avossa

Si tratta di un impianto analitico che, come noto, si è ritagliato uno spazio significativo all’interno degli studi sulla Roma rinascimentale, permettendo di inquadrare le vicende di questi istituti nella più ampia cornice dei mutamenti socio-economici della città, e seguendo la via di chi, come Giacomo Todeschini, si interroga sulla comune matrice ideologica e concettuale dell’etica della carità e delle logiche di mercato 3. Nella Roma rinascimentale, dove la carità attiva e i luoghi ad essa deputati si piegano a strumento di riappropriazione di un territorio da parte di un’autorità rimastane per anni distante, «gli oggetti del soccorso, le fanciulle da dotare, i poveri da soccorrere, i malati da assistere, diventano simultaneamente e senza contraddizione l’occasione per l’allestimento di strutture economiche, contabili, finanziarie, significative sia per l’economia della città o dello stato sia per la morale economica prodotta all’interno della società civile» 4. È in questo processo di riorganizzazione delle istituzioni assistenziali – percorso di affermazione di nuovi “operatori” economici – che si avvia anche l’istituzionalizzazione della carità dotale 5. 3

M. Gazzini, La fraternità come luogo di economia. Osservazioni sulla gestione delle attività e dei beni di ospedali e confraternite nell’Italia tardo-medievale, in Assistenza e solidarietà in Europa (Atti della quarantaquattresima settimana di studi, 22-26 aprile 2012), Firenze 2013, pp. 261-276: 263. 4 G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna 2004, pp. 194-195. 5 Sull’istituzionalizzazione della carità dotale si veda A. Esposito, Le confraternite del matrimonio. Carità, devozione e bisogni sociali a Roma nel tardo Quattrocento (con l’edizione degli statuti vecchi della Compagnia della SS. Annunziata), in Un’idea di Roma. Società, arte e cultura tra Umanesimo e Rinascimento, a cura di L. Fortini, Roma 1993, pp. 7-51; A. Esposito, Diseguaglianze economiche e cittadinanza: il problema della dote, in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 125, 2 (2013), en ligne; I. Chabot, La beneficenza dotale nei testamenti del tardo Medioevo, in Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, a cura di V. Zamagni, Bologna 2000, pp. 55-76; M. Fubini Leuzzi, «Condurre a onore». Famiglia, matrimonio e assistenza dotale a Firenze in Età Moderna, Firenze 1999; M. D’Amelia, Economia familiare e sussidi dotali. La politica della Confraternita dell’annunziata a Roma (secoli XVII-XVIII) in La donna nell’economia, secc. XIV-XVIII. Atti della ventunesima settimana di studi, (Prato, 10-15 aprile 1989), a cura di S. Cavaciocchi, Firenze 1990, pp. 195-215; M. D’Amelia, La conquista di una dote. Regole del gioco e scambi femminili alla Confraternita dell’Annunziata (secc. XVII-XVIII), in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazioni nella storia delle donne, a cura di L. Ferrante, M. Palazzi, G. Pomata, Torino 1988, pp. 305-343; I. Chabot, M. Fornasari, L’economia della carità. Le doti del Monte di Pietà di Bologna (secoli XVI-XX), Bologna 1997; L. Ciammitti, La dote come rendita. Note sull’assistenza a Bologna nei secoli XVI-XVIII, in Forme e soggetti dell’intervento assistenziale in una città di antico regime. Atti del IV colloquio: Bologna, 20-21 gennaio 1984, Bologna 1986, pp. 111-132; per un approccio previdenziale al problema della dotazione cfr. M. Carboni, Le doti della povertà. Famiglia, risparmio, previdenza: il Monte del matrimonio di Bologna (1583-1796), Bologna 1999 e G. Delille, Un esempio 184

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Tra le forme di assistenza alle donne che ebbero maggiore continuità e diffusione in età moderna, l’assistenza dotale si inaugurò a Roma con la fondazione della confraternita della SS. Annunziata alla Minerva, eretta nel 1460 dal domenicano Juan de Torquemada 6. Le ricadute economiche e sociali dell’intervento assistenziale della SS. Annunziata – che già a inizio Cinquecento appariva ben inserita in una rete articolata di istituti che ne emulavano l’operato – sarebbero state ben più ampie e complesse di quanto presagito dall’impianto ideologico e moralizzante che le andava animando. Le elemosine dotali si caricano infatti di implicazioni che non riguardano la sola difesa dell’onore femminile e familiare: il legame tassativo tra accesso alle risorse e residenza cittadina, l’imposizione di certi stili di condotta (che incoraggiavano particolari modelli di vita domestica e modi di essere uomo o donna), la destinazione d’uso dei sussidi dotali (che serviva a finanziare le carriere matrimoniali più che quelle claustrali), gli incentivi alla procreazione impliciti nelle procedure di restituzione delle doti, sono solo alcuni degli elementi che fanno delle elemosine dotali strumenti strategici nell’attuazione di precise politiche demografiche e sociali. La povertà, dopotutto, non si denota come una realtà statica, né storicamente immobile, ma «disegna piuttosto i limiti di un campo di trasformazioni, di tensioni, di composizioni variabili», prestandosi a efficace strumento di potere e controllo7. La stessa messa a punto delle politiche di reclutamento dell’assistenza dotale – che sottende una risemantizzazione dello statuto del povero – non è pratica neutra. Essa denota una precisa funzione dell’elemosina dotale come dispositivo capace di indirizzare – strategicamente – sostegno economico a precisi comparti di assistenza privata: i Monti di maritaggio nel Regno di Napoli (secoli XVI-XVIII), in Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna. Atti del convegno “Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani” (Cremona, 28-30 marzo 1980), a cura di G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta, Cremona 1982, pp. 275-282. 6 Sulla confraternita della SS. Annunziata si veda Esposito, Le confraternite del matrimonio; Esposito, Diseguaglianze economiche e cittadinanza; per la piena età moderna cfr. D’Amelia, Economia familiare; D’Amelia, La conquista di una dote; utili le notizie riportate nelle opere sugli istituti di pubblica carità edite da Piazza, Fanucci e Morichini, lavori che hanno soprattutto il merito di testimoniare la continuità dell’impegno caritativo della SS. Annunziata fino a tutto l’Ottocento, cfr. C. Fanucci, Trattato di tutte le opere pie dell’Alma città di Roma, Roma 1601, pp. 212-216; G. Piazza, Opere pie di Roma descritte secondo lo stato presente, Roma 1678, pp. 484-490; C. L. Morichini, Degli istituti di pubblica carità ed istruzione primaria a Roma. Saggio storico e statistico, Roma 1835, pp. 346-350. 7 L. Coccoli, Il governo dei poveri all’inizio dell’età moderna. Riforme delle istituzioni assistenziali e dibattiti sulla povertà nell’Europa del Cinquecento, Milano 2017, p. 74. 185

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sociali che si pensano in grado di concorrere allo sviluppo economico della «civitas» e alla promozione dei suoi valori 8. L’esperienza della SS. Annunziata si inaugura proprio sul finire del Quattrocento, quando Roma è quindi già pienamente investita da quella fase di forte espansione demografica e crescita economica che si avviò con il rientro in città del papato 9. Essa rappresenta la prima confraternita romana a dedicarsi esclusivamente alla dotazione di ragazze povere, e sul cui modello ed esempio germogliarono nuove associazioni e si aggiornarono i programmi assistenziali delle confraternite di più antica tradizione 10. La crescita della compagnia fu repentina: in poco più di un trentennio si ingrossarono le fila degli iscritti e aumentò drasticamente l’offerta caritativa; offerta che si assestò, tuttavia, solo tra il primo e il secondo decennio del Cinquecento, quando si arrivò a coprire con regolarità le spese per liquidare tra le 40 e le 60 doti all’anno 11. La crescita dell’offerta caritativa si legò indubbiamente ai ricchi e ripetuti contributi dei pontefici, che a partire da Leone X cominciarono ad essere erogati con maggiore regolarità; ma d’altro canto a questo rapido sviluppo sembrerebbe aver concorso anche un diverso atteggiamento nei confronti della gestione del proprio patrimonio edilizio e della sua resa economica 12. 8

Come gran parte degli istituti dotali sorti nel Cinquecento, non solo romani, anche la SS. Annunziata rivolse il proprio intervento fondamentalmente a settori che possiamo definire strategici per l’arricchimento della «civitas», che appartenevano a quel mondo della «povertà laboriosa», a quella frangia composita della popolazione urbana che gravitata attorno al mondo della produzione alimentare, del piccolo commercio, delle professioni artigiane, ecc. 9 Sulla crescita demografica e l’espansione economica cittadina tra Quattro e Cinquecento cfr. L. Palermo, Espansione demografica e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, in «Studi Romani», 2 (1996), pp. 21-47; A. Esposito, La popolazione romana dalla fine del sec. XIV al Sacco: caratteri e forme di un’evoluzione demografica, in Popolazione e società a Roma dal Medioevo all’Età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 37-50; A. Esposito, La città e i suoi abitanti, in Roma del Rinascimento, cit., pp. 3-47: 13-15; J. Delumeau, Vié économique et sociale de Roms dans la seconde moitié du XVIe siècle, Roma 1975; E. Lee, Descriptio Urbis: the roman Census of 1527, Roma 1985, Habitatores in Urbe. Derpopulation of Renaissance Rome. La popolazione di Roma nel Rinascimento, a cura di E. Lee, Roma 2006. 10 Esposito, Le confraternite del matrimonio. 11 Dal 1471 le doti di carità assegnate dalla SS. Annunziata ammontavano a 50 fiorini correnti. Il sussidio fu innalzato a partire dai primi anni ’80 del Quattrocento a 75 fiorini e poi portato a 100 fiorini nel 1499, per rimanere invariato almeno fino al 1580. 12 Tra Quattro e Cinquecento furono diversi i pontefici che arricchirono a più riprese le casse della SS. Annunziata, a riprova dell’importanza che si attribuì alla carità dotale e alla sua maggiore dispensatrice: Alessandro VI – che nel marzo 1495 aveva già accordato ai confratelli di potersi eleggere un confessore particolare – le destinò per via testamentaria un palazzo, con vigne e giardini annessi, presso il Pincio, Archivio di Stato di Roma (d’ora 186

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Di questo diverso atteggiamento danno atto innanzitutto gli apparati normativi, che si aggiornarono via via sviluppando una maggiore attenzione alla tenuta delle scritture catastali e all’attribuzione di specifiche competenze in materia di revisione inventariale e contabile; ma ne danno contro anche i bilanci annuali dei camerari, dove si ha modo di seguire l’andamento positivo che investì la rendita immobiliare, che si attestò, in termini percentuali, come la fonte più stabile e meno intermittente delle entrate del sodalizio 13. Questi primi due decenni del Cinquecento sono anche quelli che vedono la compagnia consolidare ed ampliare il proprio patrimonio immobiliare (che all’inizio degli anni ’20 si attestava intorno alle 40 unità): consolidamento e potenziamento patrimoniale che appariva, da un lato, frutto di un’intesa stagione di compravendita e permutazione di immobili che la portano a concentrare le proprietà nelle aree più centrali e redditizie della città (nonché quelle più densamente abitate di Ponte, Parione, Pigna, Colonna e Campo Marzio), e dall’altro inevitabile conseguenza delle procedure che regolavano l’erogazione e la restituzione dei sussidi dotali. Come si avrà modo di spiegare più in là nella trattazione, le particolari modalità di accredito delle doti di carità – che si attuavano in virtù della loro eventuale futura restituzione – costituirono per la SS. Annunziata occasioni inedite per accedere alla proprietà immobiliare urbana, rivelando contestualmente quel ruolo di mediazione di cui gli istituti dotali si vennero progressivamente fregiando, quella loro «capacità di organizzare,

in poi ASR), Arciconfraternita della SS. Annunziata alla Minerva (d’ora in poi SS. Annunziata), Pergamene, 325/39 (21 novembre 1505); Leone X – che nel 1513 con una lettera apostolica aveva concesso alla compagnia l’esenzione «ad perpetuum» dal pagamento della gabella «dello comprare e dello vendere» – le destinò invece un ricco lascito di mille ducati di Camera, «che sua Santità» – come ricorda il camerlengo nel registro delle entrate e delle uscite del 1515 - «ne à costituiti per el sussidio del maritagio delle citelle», ASR, SS. Annunziata, 558, c. 37r; ASR, SS. Annunziata, 558, c. 57v. Anche Clemente VII avrebbe continuato a sostenere l’attività della SS. Annunziata con cospicui donativi versati periodicamente alla confraternita, si veda ad esempio ASR, SS. Annunziata, 566, c. 14r. 13 Tra il 1488 e il 1529 le rendite immobiliari si attestarono su una media del 20% sul totale delle entrate del sodalizio e con una forbice molto ridotta tra valori massimi e minimi. A crescere drasticamente furono ovviamente gli importi effettivi che aumentarono il volume contestualmente a quello delle entrate complessive, andando dai 137 ducati di carlini del 1488 agli 866 del 1526. Nell’anno precedente al Sacco le rendite immobiliari costituirono il 25% delle entrate – valore massimo riscontrato – mentre nel 1514, anno in cui le entrate della confraternita beneficiarono dei ricchi donativi di Leone X e della vendita di alcuni immobili di pregio, gli affitti costituirono il 13% del reddito complessivo. 187

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con la carità, tutto un sistema di circolazione della ricchezza» 14 che coinvolgeva una parte significativa del tessuto sociale ed economico della città. L’assistenza dotale, difatti, non rientra affatto nel novero degli interventi di “grazia” – compiuti «gratis et amore Dei» 15 – ma piuttosto nel registro del prestito, garantito, sul piano simbolico, dal rispetto di certi stili di condotta, e sul piano economico da un’ipoteca immobiliare. Una volta ottenuta l’assegnazione del sussidio, superate cioè le diverse fasi concorsuali, le ragazze non accedevano automaticamente al credito dotale. Per ottenere l’effettivo versamento della dote, le assegnatarie dovevano costituire un’ipoteca «spetiale» su un bene immobile: dar luogo, cioè, a un diritto reale di garanzia a favore della confraternita per assicurare la restituzione del sussidio, che – come da statuto – si prospettava in assenza di discendenza diretta, in caso di residenza «extra Urbem» (emigrazione) e per condotta «inhonesta» delle assistite. Nella pratica notarile gli atti di pagamento delle doti sono per questo definiti più spesso «obligatio-solutio dotis», riprendendo una prassi in linea con le coeve consuetudini romane in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi: come prescriveva la legislazione comunale, la dote era regolata secondo le norme riguardanti i patti di pegno che vincolavano lo sposo, in occasione del pagamento della dote, a garantirne la futura restituzione ponendo un’ipoteca di pari valore su un immobile di proprietà 16. La SS. Annunziata non si comportava dunque diversamente da un «pater familias»: sostituendosi alla famiglia di origine e assumendo in prima persona l’«onus dotandi» si appellava di fatto a quegli stessi strumenti di 14

G. Todeschini, Razionalismo e teologia della salvezza nell’economia assistenziale del basso Medioevo, in Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, a cura di V. Zamagni, Bologna 2000, pp. 45-54: 53. 15 Il richiamo all’«amor Dei» è espresso spesso nella documentazione per connotare atti che non prevedevano alcuno contropartita da parte del beneficiario: ad esempio, nel caso di una delle ragazze che chiese di tramutare il sussidio dotale in dote di monacazione, la compagnia rispose accordandole un’elemosina (peraltro di molto inferiore alla somma solitamente erogata per il sussidio dotale) che non fu soggetta, come gli ordinari sussidi erogati dalla compagnia, ai patti di restituzione, ma concessa «gratis et amore Dei», ASR, SS. Annunziata, 299, c. 21v. Nelle fonti in effetti compare sempre una distinzione significativa tra «elemosina» e «subsidium». 16 Sull’iter matrimoniale romano e sui diversi passaggi documentari che presiedevano la conclusione del vincolo coniugale si veda A. Esposito, L’iter matrimoniale a Roma e nella regione romana tra atti notarili e atti cerimoniali (secoli XV-XVI), in I tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), a cura di S. Seidel Menchi, D. Quaglioni, Bologna 2006, pp. 411-430; A. Esposito, Strategie matrimoniali e livelli di ricchezza, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), Atti del Convegno (Roma 2-5 marzo 1992), Roma 1992, pp. 571-587. 188

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tutela e garanzia che regolavano generalmente le transazioni economiche connesse al matrimonio 17. Senza entrare troppo nello specifico, basti dire che tra le tante implicazioni che poteva avere questo dispositivo – dove la concessione di una dote di carità era intesa come un prestito regolato sul meccanismo della «sigurtà» – ve ne era una estremamente significativa per la prospettiva reddituale della compagnia: oltre alle più tradizionali fonti di sostentamento (donazioni, legati testamentari, rendite immobiliari) la SS. Annunziata avrebbe potuto contare anche su un canale di finanziamento inedito, costituito dalle cosiddette doti «rechadute»: si trattava degli stessi sussidi dotali erogati dall’istituto e che, nei casi previsti dal regolamento interno, tornavano nelle casse del sodalizio. Nelle fonti confraternali appaiono frequentemente – sopratutto dal secondo decennio del Cinquecento – riferimenti alla riscossione delle doti «rechadute» e alla vendita delle «domus» devolute. L’insolvenza delle assistite, dei rispettivi mariti e dei loro eventuali garanti e fideiussori autorizzava infatti la SS. Annunziata, da regolamento, a rifarsi sulle case ipotecate in occasione del versamento dei sussidi. 17

La SS. Annunziata e le altre confraternite dotali si sarebbero in qualche misura trovate a ricoprire un ruolo di vigilanza sulla giusta applicazione delle leggi comunali, assicurando l’osservazione delle regole da parte di quanti, per vincoli di sangue o per legami contratti, erano coinvolti. Ciò non toglie che quelle stesse istituzione potessero poi derogare alle norme vigneti. I dispositivi che regolavano la restituzione del sussidio alla confraternita investivano infatti i rapporti patrimoniali tra coniugi interferendo con la stessa legislazione statutaria: in accordo con gli statuti cittadini del 1363, che regolavano la trasmissione patrimoniale dei beni femminili, il regolamento della confraternita prevedeva che in caso di premorienza della donna il marito avrebbe potuto conservare il sussidio solo se fossero sopravvissuti figli comuni; in mancanza di prole la dote sarebbe invece tornata integralmente nelle casse della compagnia, una prassi che si mantenne invariata anche quando, in seguito ai provvedimenti suntuari del 1487, fu concesso allo sposo di lucrare, anche in assenza di figli, fino a un quarto della dote. In deroga alla legislazione vigente, il lucro maritale non era quindi applicato alle doti di carità, un fatto che la SS. Annunziata non mancava di rendere esplicito in occasione della stipula dei contratti di «obligatio solutiodotis», affermando «quod ipsa [la dotanda] casu quo moriatur sine filiis legittimiis et naturalibus tunc eo casu dicta dos revertat in pecunia numerata post mortem illius libere et absque detratione aliqua, non obstante statutos et noves reformationes». Si tratta di un aspetto particolarmente interessante perché rende evidente quanto il profilo patrimoniale dell’istituto potesse influire sulla decostruzione di un istituto giuridico come la dote, per come questo ne usciva codificato dalle nuove deliberazioni sul lusso emanate dalle autorità cittadine. Il fatto di tornare in possesso delle doti alla morte dell’assistita rientrava infatti in una politica chiara ed evidente che mirava a finanziare le stesse pratiche di soccorso. Si tratterebbe insomma di un altro di quei meccanismi di finanziamento indiretto che l’autorità pontificia seppe costruire per sostenere le pratiche di soccorso e la riorganizzazione delle strutture assistenziali cittadine. 189

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Che si trattasse di un flusso finanziario importante lo dimostra la cura con cui le disposizioni normative e la prassi quotidiana cercano di regolare e garantire il recupero dei crediti: i registri di conto raccontano, ad esempio, di come i «sollecitatores» a servizio della compagnia fossero incoraggiati nel riscatto dei sussidi (che evidentemente non era operazione così pacifica) prospettando loro per ogni dote recuperata un guadagno di due ducati di carlini 18; oppure di come si ricorresse frequentemente ad anonimi delatori, lautamente remunerati «per conto di certe case che ne à(nno) dato notizia esser devolute» 19. Le proprietà devolute o pignorate non necessariamente erano incamerate nel patrimonio immobiliare della confraternita, la quale poteva decidere di servirsene anche per accrescere le proprie riserve monetarie, rimettendo direttamente sul mercato cittadino gli immobili «quale se vendeano a più offerenti»20. Con la crescita degli investimenti nell’offerta caritativa e con l’evolversi dei percorsi individuali e familiari degli assistiti, andavano ovviamente moltiplicandosi anche le doti «rechadute». Un’impennata dell’ammontare di queste risorse, destinate teoricamente a ritornare nelle casse confraternali, si verificò soprattutto all’indomani del Sacco del 1527. Le devastazioni, le morti e i rivolgimenti familiari cui andò incontro la popolazione con l’occupazione della città da parte del Lanzichenecchi ebbero come conseguenza la restituzione di moltissime doti, tanto che per il biennio 1529-1530 le fonti prospettano la devoluzione di circa 1.500 ducati di carlini 21. La mole di sussidi e immobili devoluti alla compagnia all’indomani del Sacco fu in effetti decisamente imponente, tanto da commissionare l’acquisto di «un 18

ASR, SS. Annunziata, 299, cc. 9 r-v. ASR, SS. Annunziata, 566, c. 51v. 20 ASR, SS. Annunziata, 566, c. 43r. Così nel caso della «domus» di Bernardino del fu Antonio Spada romano di Trevi, fideiussore della defunta cognata Caterina: Bernardino non avendo modo di ripagare la compagnia si vide confiscare l’immobile gravato dalla «sigurtà» e che fu quindi pignorato e venduto a Giovanni Agostino de Margantis per il prezzo 57 scudi. In questo caso però il valore dell’immobile superava il credito vantato dalla Società che infatti, detratti i 100 fiorini, assicurò a Bernardino il resto della somma ricavata dalla vendita, cioè 21 scudi e 7 ½ giulii, ASR, SS. Annunziata, 360, cc. 71v-72r, (17 marzo 1530). Altri esempi dai registri contabili della Compagnia informano della procedura di pubblicizzazione della vendita degli immobili pignorati o devoluti con appositi bandi: «ebbe Mariano mandataro per bandir duo bandi cioè duo case la una in Campomarzio alla Capocroce quale è obbligata per 100 fiorini per la dote devoluta de Caterina de Octellis per la vita inhonesta che tiene, e l’altra d’una casa in Trastevere per la morte di Giulia di Paolo Graziano senza eredi: 20 bol.», ASR, SS. Annunziata, 566, c. 54v. 21 ASR, SS. Annunziata, 559 e 360. Nella rendicontazione del 1515 le doti «rechadute a la compagnia» ammontano invece a 134 ducati di carlini. 19

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quinterno de carta per copiar le dote devolute» e prevedere costantemente compensi extra ai mandatari della confraternita incaricati di acquisire materialmente la possessione degli immobili 22. È in questi anni che i libri notarili del sodalizio cominciano a registrare con molta più frequenza dei precedenti decenni i mandati delle autorità municipali, chiamati a giudicare su istanza della compagnia i casi di devoluzione delle case ipotecate. Si trattava di mandati che attribuivano alla SS. Annunziata la «possessionem vacuam et corporalem et actualem» degli immobili devoluti 23. La restituzione dei sussidi diventò molto più che in passato occasione per potenziare il patrimonio mobiliare e immobiliare. Tuttavia, se nel periodo precedente al Sacco gli immobili erano frequentemente rivenduti sul mercato, andando ad accrescere la disponibilità monetaria dell’istituto, negli anni immediatamente successivi all’occupazione questa stessa strategia si mostrava infruttuosa e quindi meno praticata: in quel clima di forte incertezza e instabilità economica, di penuria di liquidità, che accomunava l’intero tessuto sociale ed economico della città, la SS. Annunziata si trovò infatti costretta a maturare un diverso atteggiamento nei confronti del proprio patrimonio immobiliare. Lo fece non solo rivendendo i termini delle cessioni affittuarie o ricorrendo ai censi “consegnativi” 24, ma anche ripensando le stesse modalità di accredito dei sussidi in stretto rapporto alla rivalutazione e manutenzione delle proprietà urbane 25. 22

Ad esempio, nel giugno 1530 ai mandatari della compagnia furono erogati dei compensi perché «presero la possessione d’una casa a Santo Martinello che era obbligata per una dote devoluta e spesi in farla aprire e farne una chiave nuova», ASR, SS. Annunziata, 566, cc. 33v e 44r. 23 Numerosissimi esempi di atti di «investimentum» in ASR, SS. Annunziata, 360. 24 I censi consegnativi erano un meccanismo creditizio che si diffuse in Italia soprattutto a partire dagli anni ’20-’30 del XVI secolo, e che si iscrisse in un processo più ampio che portò la rendita fondiaria o immobiliare a trasformarsi progressivamente in rendita mobiliare, sull’argomento si veda M. Vaquero Piñeiro, I censi consegnativi. La vendita delle rendite in Italia nella prima età moderna, in «Rivista di storia dell’agricoltura», vol. 47, 1 (2007), pp. 57-94. Secondo Vaquero Piñeiro, le fonti suggeriscono che la storia dei censi consegnativi nella capitale pontificia trovò un suo momento di svolta proprio in concomitanza con il Sacco del 1527. 25 Da una prima e sommaria indagine sulla gestione patrimoniale della SS. Annunziata nei primi decenni del Cinquecento è emersa una certa propensione a cedere gli immobili con contratti a breve e medio termine, con una maggiore e generalizzata disponibilità a realizzare investimenti diretti oppure delegati ai conduttori con la promessa di un risarcimento o una decurtazione dell’affitto annuo. La situazione sembrerebbe cambiare inseguito agli sconvolgimenti del Sacco del 1527: la mancanza di liquidità e la devastazione di buona parte del patrimonio immobiliare ed edilizio della città all’indomani 191

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Nel tentativo di scongiurare l’interruzione o comunque una drastica riduzione dell’offerta assistenziale, la compagnia cominciò insomma ad assegnare alle assistite, in sostituzione del canonico sussidio (generalmente liquidato in contanti), direttamente uno degli immobili che facevano parte di quell’asse patrimoniale che si era sviluppato proprio col meccanismo delle «sigurtà»: le case e le vigne che la compagnia andava riscattando in luogo delle doti «rechadute» andarono quindi ad alimentare quel circuito di reiterate assegnazioni su cui si basò negli anni immediatamente successivi al Sacco l’erogazione delle doti 26. Nei libri contabili del sodalizio si fanno allora sempre più frequenti annotazioni come la seguente: «A dì 4 iulii [1529]. Per mandato delli signiori priori mesi in possessione d’una vigna de pezze 4, quale sta for de Porta Salaria, la honesta zitella Faustina de Antonio de Carissiis de Monteferrato acquarolo, per la summa de fiorini cento romani, quali li furno assegnati de la sua dota secondo el nostro solito insino dal 1527, e dicta vigna n’è devoluta per la vita inhonesta che tiene Dionora de Ioanni Francisco muratore» 27.

Faustina, come molte altre vincitrici del sussidio in quegli anni, si era vista quindi consegnare in luogo dei canonici contanti una delle case che, proprio in quegli anni di devastazioni e morte, erano state espropriate a fideiussori e familiari delle assistite per risarcire la compagnia del proprio credito. La vigna con canneto annesso «sub proprietate bizzocchorum Sancti Agostini de Monte Acceptoro» rappresentava infatti la dote di Dionora e di cui la società era stata investita dalle autorità comunali nel 1529, giusto un mese dopo l’attribuzione della vigna a Faustina 28. Quella stessa vigna era stata però assegnata a Dionora non molto tempo prima, dell’occupazione delle truppe di Carlo V portarono infatti ad accordare ai conduttori una più lunga durata della cessioni ma prevedendo investimenti in migliorie esclusivamente a carico degli affittuari, cfr. ASR, SS. Annunziata, 360, cc. 2r, 22r.; 300, c. 94r. 26 Che il pagamento delle doti attraverso l’assegnazione degli immobili devoluti fosse un dispositivo per rimediare alle difficoltà nel reperire denaro contante era stato espresso chiaramente dalla compagnia nell’atto che aveva sancito l’assegnazione di una vigna a Imperia, figlia del fu Francesco Grasselli, vincitrice del sussidio dotale nel 1525: come ricorda il notaio, la società in quel momento non aveva altro modo per saldare la dote a Imperia «nisi in assignando sibi vineam» ASR, SS. Annunziata, 358, cc. 42r-43r (7 settembre 1529). 27 ASR, SS. Annunziata, 566, c. 44v (4 luglio 1529); per il relativo atto di pagamento della dote si veda ASR, SS. Annunziata, 360, cc. 3r-v. 28 L’atto di «investimentum pro Annuntiate» è riportato infatti in calce a quello dell’«assignatio vinee pro Faustine», ASR, SS. Annunziata, 360, cc. 3r-v (7 settembre 1529). 192

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nel maggio 1529, valendosi della «sigurtà» su cui Lucrezia, una delle ragazze che aveva vinto il sussidio nel 1519, aveva assicurato nel 1520 il suo sussidio dotale 29. L’attribuzione di immobili in luogo delle doti era però un’operazione pensata come provvisoria, destinata a interrompersi non appena le finanze dell’istituto lo avessero permesso. Non è, infatti, la normativa confraternale a regolare le cessioni dei beni, ma piuttosto i patti sottoscritti al momento della loro assegnazione: stando a quanto riportato nelle clausole contrattuali, le assistite avrebbero infatti dovuto restituire le proprietà assegnategli nel caso in cui la SS. Annunziata avesse versato loro la somma in contanti (e quindi provvedere alle dovute assicurazioni). Significative a questo proposito le clausole che impongono alle assegnatarie di sostenere le spese di manutenzione dell’immobile, e nel caso di vigne a non lasciare incolto il terreno30. Tutte migliorie che l’istituto si impegnava però nel caso di restituzione dell’immobile a risarcire alle assistite. In questo modo oltre a far fronte alle difficoltà finanziarie causate dal Sacco – che peraltro rischiavano di interrompere l’offerta dotale in un momento che si poteva rivelare decisivo per il ripopolamento della città – l’istituto sarebbe riuscito a riqualificare anche il proprio patrimonio architettonico, senza di fatto dirottare le proprie risorse, quantomeno nell’immediato, nella ristrutturazione degli immobili. Il meccanismo della «sigurtà», come abbiamo visto, sembrerebbe indirizzare quasi automaticamente i capitali dotali verso il mercato immobiliare urbano. La stessa confraternita – come suggeriscono molte indicazioni nei decreti di congregazione – favoriva e avallava esplicitamene questo tipo di investimento 31. Le quote dotali dunque tendevano “naturalmente” 29

Per l’atto di «obligatio-solutio dotis» di Lucrezia si veda ASR, SS. Annunziata, 357, cc. 176r-177r e Ivi, 358, cc. 202r-v; l’atto riferisce che inizialmente Lucrezia per vedersi versare la dote aveva ricorso al sistema della sigurtà, ma si tratta di un documento cassato che rimanda a un altro atto di obbligazione riferito alla vigna fuori porta Salaria evidentemente acquistata dalla donna e dal marito proprio con il sussidio della SS. Annunziata, ASR, SS. Annunziata, 358, cc. 202r-v. 30 Al momento dell’assegnazione le assistite sottoscrivevano dei patti con i quali si impegnavano oltre a manutenere e riparare gli immobili a proprie spese anche a non alienare a terzi la proprietà o a gravare con altre ipoteche gli immobili assegnati, se non con l’espresso consenso della compagnia; alcuni esempi di contratti con clausole «ad meliorandum» nei contratti di assegnazione degli immobili: ASR, SS. Annunziata, 360, cc. 56v-57v (10 novembre 1529), cc. 23v-24r (22 maggio 1529); per le clausole relative ai terreni e alle vigne: ASR, SS. Annunziata, 360, cc. 38v-39r (27 agosto 1529). 31 Nel 1516 l’assemblea dei confratelli stabilì, ad esempio, che la dote di Cassandra, figlia di Bernardino di Piperno, fino a quel momento in deposito presso Tommaso «de Iuvenalis», fosse restituita al camerario Iacopo Ceccarini che si sarebbe occupato in prima persona di trovare un buon investimento immobiliare per il sussidio, ASR, SS. Annunziata, 299, c. 3v. 193

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ad essere destinate all’acquisto di case (e più raramente vigne) all’interno delle mura cittadine, ma non tutti chiaramente erano in grado di accedere alla proprietà immobiliare potendo contare sul solo sussidio della SS. Annunziata: le fonti mostrano come generalmente le assistite che riuscivano ad acquistare un immobile lo facevano affiancando il capitale fornito dalla compagnia ad altre risorse, risparmi familiari o sussidi erogati da altre istituzioni caritative della città 32. C’era infatti chi addirittura aveva ottenuto più di una dote di carità, riuscendo a mettere insieme, grazie al cumulo sapiente delle risorse offerte dalle istituzioni cittadine, una somma sufficiente per effettuare un investimento di una certa rilevanza 33: così avvenne, ad esempio, per Emilia, figlia del tessitore Marcello e moglie di Matteo, mandatario dei governatori di Roma, che nel 1539 aveva acquistato una «domus terrinea, solarata, tectata, cum cantina, discoperto et puteo» situata nel rione Colonna. L’immobile, presentato come «sigurtà» per il versamento della dote della SS. Annunziata, era stato difatti comprato cumulando il sussidio con quello erogato dalla SS. Concezione 34. Si trattava complessivamente di 60 scudi che le due confraternite versarono, contestualmente alla stipula dell’ipoteca, direttamente ai proprietari dell’immobile (47 ducati dalla SS. Annunziata e altri 33 dalla SS. Concezione) mentre la somma mancante, cioè quei 35 scudi che servivano per arrivare ai 95 del prezzo pattuito, erano invece sborsati dalla stessa Emilia, attingendo ad altre sostanze di cui evidentemente disponeva 35. 32

Da questo punto di vista la ricerca dovrebbe guardare soprattutto alla spendibilità dei sussidi dotali sul mercato immobiliare cittadino; si tratta di un’indagine complessa, laddove il valore medio dei prezzi dei beni immobili variava non solo in base alla tipologia e alla qualità delle strutture edilizie ma risentiva fortemente anche della gerarchizzazione economica dei suoli, in buona parte favorita dagli interventi urbanistici e architettonici che i pontefici perseguirono tra Quattro e Cinquecento. A titolo esemplificativo, per comprare una casa situata nel rione Monti – un’area della città poco urbanizzata – potevano bastare nel 1505 anche solo 50 ducati, mentre per altre zone più centrali come Ponte, Parione e S. Eustachio negli stessi anni si trattava di sborsare somme molto più significative, tra i 350 e i 1.000 ducati di carlini, M. Vaquero Piñeiro, Propiedad y renta urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento, Pamplona 2007, p. 254. 33 Nella piena età moderna l’accumulo di tutte le opportunità offerte dalle istituzioni cittadine che erogavano doti di carità era una delle pratiche più diffuse dell’iniziativa femminile, si veda a riguardo D’Amelia, Economia familiare, p. 208. D’Amelia, La conquista di una dote, p. 308. 34 R. Barone, La confraternita della SS. Concezione di San Lorenzo in Damaso di Roma (con l’edizione degli statuti del 1494), in «Archivio della Società romana di storia patria», 126 (2003), pp. 71-135. 35 ASR, SS. Annunziata, 364, cc. 150r-v. 194

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Anche l’immobile presentato da Laura nel 1522 come cauzione, e vendutole da Alessandra, moglie di Giacomo «de Casalibus», era stato acquistato affiancando al sussidio della SS. Annunziata altre risorse: quelle della stessa giovane e quelle del marito Natalino, un mugnaio originario di Perugia. Ma in questo caso la vendita non era stata perfezionata e i coniugi avevano provveduto solo al versamento di un acconto; come ci informa l’atto di restituzione della dote di Laura, redatto nel 1524, il prezzo pattuito per la transazione era infatti di 100 ducati di carlini, mentre Laura e il marito ne avevano versati ad Alessandra solamente 74, restando quindi debitori di 24 ducati 36. È interessante a questo proposito notare l’atteggiamento della confraternita, la quale, nel rivendicare il suo credito, scelse di saldare il residuo della somma dovuta dai coniugi alla proprietaria dell’immobile, in modo da acquisirne direttamente la proprietà, e senza ricorrere, come invece ebbe modo di fare in altre circostanze, alla vendita forzosa dell’immobile. Le tempistiche e le modalità con cui si arrivava all’acquisto di un immobile (spesso supervisionato e mediato dalla stessa compagnia che così aveva modo di valutare immediatamente l’idoneità delle cauzioni e la situazione degli immobili) potevano essere estremamente diversificate: in effetti per molte assistite erano trascorsi diversi (spesso molti) anni tra il versamento del sussidio e l’acquisto di un immobile. La bottega in piazza Lombarda acquistata nel 1520 da Lucrezia – figlia un «lapidarius» di Firenze e moglie di un «vaccinarius» genovese – avvenne, ad esempio, dopo tre anni dall’effettivo versamento del sussidio. Nel corso di quel triennio i 100 fiorini erogati dalla SS. Annunziata erano infatti rimasti a titolo di deposito presso Giovanni Pietro «de Crivellis», un noto orefice originario di Milano 37. Si trattava di un meccanismo comune e molto diffuso sia nella pratica matrimoniale dei ceti popolari sia nelle modalità di accredito dei sussidi dotali distribuiti dalla gran parte delle istituzioni cittadine. Si pensi che quasi il 70% delle assegnatarie delle doti della SS. Annunziata si trovò a ricorrere all’aiuto di fideiussori; e non sempre si trattò, come nel caso di Lucrezia, di una misura provvisoria. Come si può immaginare, l’obbligatorietà delle cauzioni rendeva per molti proibitivo e poco sostenibile l’accesso al soccorso confraternale. Per chi non era in grado di reperire da subito un’idonea cauzione, procedendo 36 ASR, Collegio dei Notai Capitolini, 1014, cc. 140r-142r. Gli atti di restituzione delle doti assieme alle permute di obbligazione dotale (e agli atti di «investimentum» di cui si è detto precedentemente) sono tra le principali fonti che danno modo di conoscere le forme di investimento dei sussidi. 37 ASR, SS. Annunziata, 358, cc. 21v-22v; cfr. Crivelli, Giovan Pietro a cura di Alessandra Uguccioni, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 31 (1985).

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immediatamente all’acquisto di una proprietà o attingendo piuttosto alle riserve familiari, la SS. Annunziata permetteva di appellarsi a fideiussori e garanti, purché di notoria solvibilità e titolari di beni ipotecabili. Il garante si impegnava allora davanti al notaio a restituire la dote nei casi di devoluzione previsti dal regolamento e vincolandola a un bene immobile di sua proprietà. A questo punto però la dote era trattenuta – «nomine et ex causa veri et puri depositum» – dallo stesso garante. Si trattava di un passaggio di denaro spesso monitorato e controllato dalla stessa confraternita, che più volte ne registrò in calce agli atti di pagamento le formule e i termini contrattuali 38. Lo strumento del deposito – pur rivelandosi spesso bacino di imbrogli e speculazioni – era connotato da una certa flessibilità, piegandosi alle diverse contingenze e necessità dei percorsi familiari. Il deposito avrebbe innanzitutto permesso, a quanti non potevano (o non intendevano) disporre di risorse e patrimoni personali o familiari, di non perdere il sussidio che, da regolamento, doveva necessariamente essere riscattato entro tre anni dall’assegnazione; permetteva quindi anche di non ritardare la formazione del nucleo familiare e quindi di non compromettere e invalidare, agli occhi della confraternita, le stesse finalità che animavano il gesto oblativo. Ma nella prassi notarile il deposito camuffava generalmente un prestito su pegno, dove l’interesse applicato sul denaro mutuato era sottaciuto e indicato in una scrittura privata 39. Emblematico il caso del notaio Evangelista «de Bistuciis» che nei suoi ricordi – editi da Anna Modigliani – rammentava di aver ricevuto in deposito il sussidio di 75 fiorini assegnato dalla SS. Annunziata nel 1495 a «Thomassina». La donna era infatti menzionata dal notaio Evangelista come creditrice «per fructo delli dicti denari» (cioè i 75 fiorini del sussidio) che le fruttavano in virtù del deposito ben 6 fiorini l’anno, con un tasso d’interesse stimato quindi all’8% 40. Il deposito, vero e proprio strumento creditizio, permetteva quindi alle assegnatarie di investire nel settore del credito, ricavandone una rendita o un censo, o piuttosto un capitale accresciuto dagli interessi maturati; 38

Per alcuni esempi di deposito conservati nei libri confraternali cfr. ASR, SS. Annunziata, 353, c. 116v; 357, cc. 29r-29v, c.77r, 102v-103r; 359, cc. 26r-27v. La gran parte dei depositi erano però registrati nei registri personali dei notaiche lavoravano per la SS. Annunziata. 39 A. Modigliani, “Faccio recordo io Evangelista …”: memorie di un notaio romano alla fine del Quattrocento, in Roma, donne, libri tra Medioevo e Rinascimento. In ricordo di Pino Lombardi, Roma 2004, pp. 217-257: 122. 40 Ivi, p. 226; cfr. anche I. Ait, Elementi per la presenza delle donne nel mercato del credito a Roma nel basso medioevo, in Roma, donne, libri tra Medioevo e Rinascimento. In ricordo di Pino Lombardi, Roma 2004, pp. 119-139: 122. 196

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ma forniva anche un maggiore margine di tempo per valutare i settori di investimento e selezionare l’immobile da acquistare. C’era poi chi aveva invece deciso di dirottare il capitale concesso dall’assistenza confraternale direttamente nell’edificazione della stessa «domus» che sarebbe servita successivamente come «sigurtà»: nell’atto di restituzione della dote di Angela, datato al 1530, il notaio ricorda come dopo alcuni anni in cui la somma era rimasta depositata presso terzi con quel denaro «dicte dotis fabricata fuerit quadam domus retro Sanctam Mariam in Via» 41. Molte assistite avevano invece usato quegli stessi frutti dei depositi per saldare la pigione di una casa, servendosene per le loro immediate esigenze abitative. In molti di questi casi, il depositario, cioè il titolare del bene ipotecato, era anche il locatore dell’immobile in cui la coppia andava ad abitare. Quei 6 fiorini che maturavano ogni anno dal deposito stipulato tra il notaio Evangelista e «Thomassina» – e che ricordavo poco fa – in effetti andarono a coprire proprio le spese di locazione della casa che il notaio aveva affittato alla donna e a suo marito 42. Questo genere di operazione implicava rischi non indifferenti: la perdita del capitale per insolvenza dei depositari era un pericolo reale, nonché il più frequente, e costringeva spesso a ricorrere alla giustizia per arrivare alla risoluzione del credito 43. Le fonti confraternali danno continuamente conto dell’estensione di quel tessuto speculativo che si era venuto a creare attorno al vincolo della «sigurtà» e all’espediente del fideiussore. Lo stesso istituto dopotutto tornò più volte a riflettere sulle conseguenze del sistema della «sigurtà», derogando al dettato statutario, ammorbidendone le prescrizioni in materia di presentazione delle cauzioni (liberalizzando, ad esempio, le ipoteche su beni enfiteutici 44) o piuttosto prospettando 41

ASR, SS. Annunziata, 360, c. 92v. Modigliani, “Faccio recordo io Evangelista…”, p. 226. 43 I. Ait, Donne in affari: il caso di Roma (secoli XIV-XV), in Donne del Rinascimento a Roma e dintorni, a cura di A. Esposito, Roma 2013, pp. 53-83: 77-78. 44 La norma che prescriveva l’equivalenza tra «sigurtà» e sussidio – come informano gli stessi statuti della SS. Annunziata – fu più volte oggetto di querele e rimostranze, a dimostrazione di quanto non fosse facile per le assistite reperire un’ideone cauzione nei tempi imposti dall’istituto. Con un decreto del 20 luglio 1516 - successivamente inserito nella redazione statutaria quattrocentesca – la congregazione dispose allora che per le giovani che non fossero riuscite a reperire le idonee cauzioni sarebbe stato possibile ipotecare anche beni enfiteutici e sottoposti a contratti di locazione a terza generazione, anche quando il loro valore non corrispondesse effettivamente a quello del sussidio, ASR, SS. Annunziata, 299, c. 9r. Le nuove disposizioni in materia di ipoteche andavano a sistematizzare una prassi probabilmente affermatasi già prima del provvedimento del 1516 e che comunque intendeva liberalizzare una pratica cui molte assistite si erano già viste costrette a ricorrere. 42

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sistemi alternativi di erogazione (come quello che prevedeva direttamente il pagamento degli interessi da parte della confraternita 45). Ma si trattò di correttivi che non ebbero un vero e proprio seguito, anche quando – come si è visto – il problema lo si risolse (temporaneamente) assegnando un’immobile in luogo della dote. Quel complesso sistema di redistribuzione e circolazione di risorse innescato dalla dotazione caritativa, e che interessava non solo i suoi referenti più immediati ma l’intero tessuto cittadino, nonostante i problemi di gestione che comportava, poneva quegli stessi operatori che ne regolavano il funzionamento in una posizione privilegiata; questi ne derivavano un diritto – un potere – di mediazione non riferito esclusivamente al cambiamento di status delle assistite, ma a tutti quei rapporti che attraversavano l’economia urbana e dove l’elemosina dotale, la stessa dote, rifunzionalizzata come l’onore delle donne, finiva per essere considerato «un bene collettivo e di scambio» 46. Questi meccanismi, di cui si è reso solo in minima parte la complessità, portano, ad oggi, forse più interrogativi che risposte: se ben chiaro risulta come la struttura patrimoniale e finanziaria di questi istituti contribuisse nell’indirizzare aspettative e percorsi di chi vi si appellava, tanto quanto l’impalcatura ideologica e concettuale che li strutturava, con maggiore difficoltà si riesce a definire in che misura e con quali modalità il contesto economico ed ecologico della città influenzasse le scelte di investimento delle assistite, non solo alla luce della spendibilità dei sussidi e della capacità economica delle famiglie, ma legandosi a variabili che riguardano più direttamente le pratiche di formazione e riproduzione dei gruppi domestici, le forme di convivenza e la mobilità interna alle mura cittadine. Se è facile cogliere l’estensione di quel “mondo sommerso” di depositari e fiduciari, di quella rete di indebitamento collettivo che si veniva a creare con il sistema delle ipoteche, c’è da chiedersi però come e quanto questo groviglio di diritti ipotecari potesse interferire con la circolazione degli immobili all’interno del mercato urbano. C’è da chiedersi, infine, se è 45 Sempre in occasione dell’approvazione del provvedimento che autorizzava la presentazione di beni enfiteutici come «sigurtà», la congregazione della SS. Annunziata si trovò a discutere anche della possibilità di fare «el monte», cioè versare gli interessi annui (i «fructus») delle doti a tutte le assistite in procinto di sposarsi ma che non avevano modo di cautelare la compagnia. La dote, quindi, invece di essere consegnata in mano a terzi, poteva rimanere depositata direttamente sul “conto” della confraternita, in modo da prevenire gli imbrogli che molto spesso si verificavano in occasione della presentazione delle «sigurtà», ASR, SS. Annunziata, 299, c. 9r (20 luglio 1516), c. 10v (3 agosto). 46 Ciammitti, La dote come rendita, p. 129.

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possibile vedere nell’elemosina dotale il principio di un investimento produttivo che assecondava – più o meno consapevolmente – lo sviluppo della rendita immobiliare urbana e se questo stesso investimento poteva aver incoraggiato, o al contrario disincentivato, certi modi e certe forme di abitare e vivere la città.

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1. Le dinamiche del mercato immobiliare romano rinascimentale “Sembra che nei luoghi più popolosi manchi la salute alla gente. Ciò accade tanto a Campo de’ Fiori che al Campidoglio, entrambi grandi quartieri, ma anche in Piazza Giudea che è un grande borgo. Il resto della città è costituito da case sparse” 1. Così descriveva il tessuto abitativo di Roma lo spagnolo Pero Tafur negli anni Trenta del XV secolo. Questa rappresentazione rifletteva una situazione cristallizzata da tempo 2, ma *

Presento qui, su sollecitazione del curatore del volume, una elaborazione di dati raccolti per la mia tesi di dottorato (S. Dionisi, Sviluppo economico e rendita urbana. Il caso delle confraternite laicali romane del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e del Gonfalone (1419-1528), Tesi di dottorato in Storia e teoria dello sviluppo economico, Università Luiss, Roma 2002-2003), alla quale rinvio per tutti gli approfondimenti bibliografici e documentari. Queste tematiche sono state anche trattate in Ead., Proprietà immobiliare e rendita urbana nella Roma del primo Rinascimento, in L’età di Alfonso I, a cura di G. Fragnito, G. Venturi, Ferrara 2004, pp. 139-146; e in Ead., Confraternite e rendita urbana: il San Salvatore e il Gonfalone di Roma tra XV e primo XVI secolo, in «Città e storia», 1, 2006, pp. 19-33. 1 «Cosa singolare»: Roma nelle Andancas e viajes por diversas partes del mundo avidos di Pero Tafur, in M. Vaquero Piñeiro, Viaggiatori spagnoli a Roma nel Rinascimento, Bologna 2001, pp. 19-49 [35]. 2 Sull’urbanizzazione medievale v. É. Hubert, Éspace urbain et habitat à Rome da X et à la fin du XIII siècles, Roma 1990; H. Broise-J.-C. Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’Arte Italiana, 12, Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 97-160; sulla storia di Roma nel primo Rinascimento, con specifici riferimenti anche al mercato degli immobili v. i saggi presenti in Un pontificato e una città: Sisto IV (1471-1484), a cura di C. Ranieri, D. Quaglioni, F. Niutta, M. Miglio, Roma 1986; Alle origini della nuova Roma. Martino V, a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992; Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994; Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Roma-Bari 2001. 201

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alcuni documenti della stessa epoca lasciano intravedere l’esistenza di un certo movimento di popolazione e di capitali interno all’abitato, che racconta un nuovo modo di rapportarsi con lo spazio urbano da parte degli amministratori, dei gruppi di potere e degli operatori economici. Importanti impulsi per una messa in valore delle aree intramurali vennero, ad esempio, da alcune dinamiche istituzioni religiose. Vendevano terreni agricoli, ad esempio, e compravano case in città la chiesa di Santa Maria Nova, il Capitolo di San Giovanni in Laterano, le clarisse di S. Lorenzo in Panisperna 3; e anche il Capitolo di S. Pietro in Vaticano vedeva sempre più crescere le rendite ricavate dagli immobili urbani 4. Questi ed altri enti adottavano una strategia per tanti versi innovativa: indirizzavano i propri investimenti non più verso la campagna ma verso lo spazio urbano; selezionavano, in anticipo rispetto alla creazione della nuova città rinascimentale, i luoghi migliori dove investire: i rioni del commercio e della finanza (Ponte, Parione e Arenula). E uguale attenzione alle sollecitazioni offerte dal mercato degli immobili urbani cominciarono a dimostrare le confraternite e gli ospedali cittadini, nelle cui fila si riconoscevano alcuni di quei mercanti-bovattieri che fin dal tardo Trecento si erano distinti tra gli elementi più attivi del sistema economico locale. Se in un primo momento alcuni di questi enti si limitarono ad operare un numero crescente di investimenti nelle contrade cittadine senza una particolare selezione nella scelta dei rioni verso cui destinare le risorse, con il procedere del Quattrocento, essi predisposero una lenta ma progressiva strategia di investimento in termini speculativi 5. All’epoca del visitatore spagnolo l’entità di 3

Cfr. S. Dionisi, Proprietà immobiliare e rendita urbana nella Roma del primo Rinascimento, in L’età di Alfonso I, a cura di G. Fragnito, G. Venturi, Ferrara 2004, pp. 139-146; I. Ait, Il patrimonio delle clarisse di S. Lorenzo in Panisperna tra XIV e XV secolo: prime indagini, in «Reti Medievali Rivista», 19, 1, 2018, pp. 453-472; v., inoltre, il saggio di L. Palermo in questo volume. 4 Cfr. A. Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2004, pp. 49-76. 5 Per l’ampia bibliografia disponibile sulle confraternite e sulle strutture religiose e assistenziali romane, con riferimenti alle loro politiche immobiliari, si rinvia a Storiografia e archivi della confraternite romane, a cura di L. Fiorani, Roma 1985; A. Esposito Aliano, Un inventario di beni in Roma dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia (1322), in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 99 (1976), pp. 71-115; Ead., L’inventario delle case e delle vigne dell’ospedale dei Santi Quaranta Martiri di Trastevere (1351), ibidem, 124 (2001), pp. 25-34; Ead., Le strutture assistenziali romane nel tardo medioevo tra iniziativa laicale e politica pontificia, in Roma medievale. Aggiornamenti, a cura di P. Delogu, Firenze 1998, pp. 289-301; Ead., Men and woman in Roman confraternities in the fifteenth and sixteenth centuries: roles, functions, expectations, in N. Terpstra ed., The politics of ritual kinship, Cambridge 2000, pp. 82-97; Ead., Le confraternite romane tra città e curia pontificia: un 202

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queste trasformazioni non aveva ancora una significativa evidenza, ma nel corso del cinquantennio successivo, grazie al crescente moto di migrazione interna, all’aumento della popolazione residente e dei visitatori di passaggio e degli stranieri 6, e dunque della crescente domanda di alloggio nelle contrade centrali, lo spazio intra muros poteva essere rappresentato con una serie di cerchi concentrici, progressivamente meno popolati procedendo dal centro verso la periferia 7. L’intensificarsi di tali operazioni giunse a disegnare uno squilibrio zonale che fu una delle principali ragioni dello sviluppo di alcune aree e dell’arretratezza di altre. Negli ultimi decenni del XV secolo la gerarchia rionale risultava così composta: i rioni Monti, Trevi, Campitelli, Ripa e Trastevere (il primo e l’ultimo con delle eccezioni legate alla presenza di immobili di pregio in prossimità dei principali poli religiosi e assistenziali) 8 conservarono una fisionomia tradizionale nella conformazione degli edifici, nella distribuzione degli assi viari, così come nei valori demografici e nell’assetto sociale; i rioni Campomarzio, Colonna, Pigna, S. Eustachio e S. Angelo si configurarono come zone di transizione con forte possibilità di sviluppo per l’immediata vicinanza dei rioni Ponte, Parione e Arenula, i principali poli commerciali9 e politico-amministrativi, ove si concentrarono le aspettative rapporto di delega (secc. XIV-XVI), in Brotherhood and boundaries. Fraternità e barriere, a cura di S. Pastore, A. Prosperi, N. Terpstra, Pisa 2011, pp. 447-458; L. Fiorani, “Charità et pietate”. Confraternite e gruppi devoti nella città rinascimentale e barocca, in Roma, città del papa, a cura di L. Fiorani e A. Prosperi, Torino 2000, pp. 429-476; M. Vendittelli, Un censuale dei beni urbani della chiesa romana di S. Maria in Aquiro degli anni 1326-1329, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 111 (1988), pp. 77-92; A. Gauvain, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al XX secolo, vol. 2, Il patrimonio, Città del Vaticano 2011; É. Hubert, Économie de la proprieté immobilière: les établissements religieux et leurs patrimoines au XIVe siècle, in Roma nei secoli XIII e XIV, cinque saggi, a cura di Id., Roma 1993, pp. 175-230. 6 A. Esposito, Immigrazione e integrazione. Migranti e forestieri a Roma e in alcune regioni pontificie dell’Italia centrale tra Quattro e Cinquecento, in Immigrati e forestieri in Italia nell’Età Moderna, a cura di E. Pagano, Roma 2020, pp. 139-156. 7 Sulla gerarchia economica degli spazi urbani v. L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 413-435; Id., Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento, in «Rome des quartiers»: des Vici aux Rioni. Cadres institutionnels, pratiques sociales, et requalifications entre Antiquité et époque moderne, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Béranger, Paris 2008, pp. 335-351. 8 Il rione Monti beneficiava della presenza di un grosso polo attrattivo quale era la basilica di S. Giovanni in Laterano e delle case ospedaliere del San Salvatore, Trastevere godeva della vicinanza con il fiume e della contiguità con il Vaticano. 9 A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età Moderna, Roma 1998. 203

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di rendita di vecchi e nuovi ricchi. Altri due risultati vanno considerati a corollario del modello gerarchico ipotizzato: 1) la distinzione tra la Roma dei proprietari e quella degli affittuari; 2) la netta separazione tra la città dei romani e quella degli stranieri benestanti. Nei rioni più prossimi alle mura gli immobili erano ceduti in affitto a condizioni ancora vantaggiose, ma erano troppo distanti dal cuore degli affari cittadini e pertanto poco attraenti per la maggioranza dei potenziali affittuari; al contrario, proprio in considerazione della loro centralità, le unità immobiliari dell’ansa del Tevere erano immesse in un circuito di transazioni di alto livello. Abitare nei rioni centrali doveva essere piuttosto funzionale per quel variegato gruppo di immigrati che andò ad accrescere la popolazione di Roma di metà Quattrocento: segnatamente quei funzionari curiali, diplomatici e uomini di legge, gli operatori economici e finanziari di alto profilo che erano in grado di sostenere la domanda di immobili di pregio, di unità abitative da acquistare10 o da abitare limitatamente al periodo di permanenza. È in questo contesto, dunque, che si andò strutturando e potenziando l’offerta di case in affitto, in risposta a una domanda di alloggio sempre più pressante e alle velleità di arricchimento dei singoli proprietari che, attraverso un progressivo affinamento delle condizioni contrattuali (tipico il passaggio dai contratti di lunga durata, a basso costo, a quelli di breve durata, di maggior valore), furono in grado di accrescere progressivamente il margine di rendita. Bisognava espandersi altrove, conquistare le aree immediatamente adiacenti, innalzare gli edifici che insistevano sulle strutture preesistenti, oppure valorizzare il costruito e quindi ristrutturare, frazionare, ripensare gli spazi interni 11.Tale fenomeno si intensificò intorno agli anni Novanta del Quattrocento; la densità del costruito nelle aree centrali della città impose ai proprietari, di immobili e di suoli liberi, di optare per soluzioni ancora più innovative 12. I proprietari si adoperarono da un 10

D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento: «la gabella dei contratti», in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, II: Funzioni urbane e tipologie edilizie, Firenze 2004, pp. 3-28, in particolare il paragrafo dedicato ai protagonisti. 11 A. M. Corbo, I contratti di locazione e il restauro delle case a Roma nei primi anni del secolo XV, in «Commentari», 4, 1967, pp. 340-343. 12 Sulle vicende dell’edilizia e dell’urbanistica nella Roma quattro-cinquecentesca è disponibile una letteratura assai ampia; v, ad esempio, V. Franchetti Pardo, Storia dell’urbanistica dal Trecento al Quattrocento, Bari 1982; M. Tafuri, Roma instaurata. Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo ‘500, in Raffaello architetto, a cura di C. L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano 1984, pp. 59-106; Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, 2 voll., a cura di G. Simoncini, Firenze 2004; A. Modigliani, Disegni sulla città nel primo Rinascimento romano: Paolo II, Roma 2009; M. Gargano, Origini e storia. Roma Architettura 204

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lato nella creazione di strutture sempre più adeguate a una domanda di alloggio fortemente diversificata, dall’altro nella conquista di aree vieppiù marginali, da poter inglobare progressivamente nella fascia urbana a più alta aspettativa di rendita 13. Le conseguenze principali di questo processo furono: una verticalizzazione del costruito (il «passaggio dal blocco monofamiliare all’appartamento»)14, con l’accettazione o talvolta la predilezione per il subaffitto15; quindi la messa in valore degli spazi semiperiferici, con la costruzione di nuovi edifici nell’anello immediatamente circostante il saturo centro cittadino, in linea con le campagne edilizie pubbliche avviate durante il pontificato di Sisto IV 16. Tale situazione si consolidò in apertura del nuovo secolo; il valore crescente delle aree centrali era, infatti, conseguenza dell’urbanizzazione di quelle periferiche, mentre il livello della rendita aumentava nelle prime proprio perché iniziava a formarsi rendita anche nelle aree progressivamente liberate dalla condizione di marginalità (semiperiferiche o semicentrali) per la sopravvivenza di ulteriori spazi liberi, per lo più rurali. 2. Confraternite e rendita urbana: le fonti Le prime tappe di questo processo trovano eco nel vissuto di due compagnie laicali il S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e il Gonfalone, che insieme ad alcuni enti rinascimentali romani17, proposero un nuovo modo di concepire e sfruttare lo spazio e gli edifici cittadini. Città. Frammenti del Rinascimento, Roma 2016; I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Costruire a Roma fra XV e XVII secolo, in L’edilizia prima della rivoluzione industriale (secoli XIII-XVIII), a cura di S. Cavaciocchi, Prato 2005, pp. 229-284. 13 Per la teoria della rendita differenziale v. D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, Milano 1976, pp. 38-52; v., inoltre, E. Screpanti, S. Zamagni, Profilo di storia del pensiero economico, Roma 1992, pp. 96-98. 14 M. Vaquero Piñeiro, Il patrimonio immobiliare di S. Giacomo degli Spagnoli tra la fine del ‘400 e la seconda metà del ‘500, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria» CXII, 1989, pp. 269-293, [278]. 15 G. Curcio, I processi di trasformazione edilizia, in Un pontificato e una città: Sisto IV (14711484), a cura di C. Ranieri, D. Quaglioni, F. Niutta, M. Miglio, Roma 1986, pp. 706-732. 16 M. Vaquero Piñeiro, Una città da cambiare. Intorno alla legislazione edilizia di Sisto IV, in Sisto IV e le Arti a Roma nel primo Rinascimento, a cura di F. Benzi, C. Crescentini, Roma 2000, pp. 426-426. 17 Cfr., ad esempio, Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro; L. Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento, in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer “deutschen” Stiftung in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin 2010, pp. 279-325; Ait, Il patrimonio delle clarisse di San Lorenzo in Panisperna; M. Vaquero Piñeiro, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de Santiago de los Espanoles de 205

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Il San Salvatore ad Sancta Sanctorum e il Gonfalone si imposero nella Roma tardo medievale – ciascuno con le proprie caratteristiche – come grandi proprietari di immobili, in grado addirittura di prevedere i diversi spostamenti del baricentro economico urbano. I due enti, per composizione sociale, possono considerarsi piuttosto rappresentativi della diffusa volontà dei romani abbienti di potenziare il mercato degli immobili: al loro interno, infatti, al di là delle mere motivazioni devozionali e assistenziali, erano rappresentati gli interessi politico-economici di gran parte della società civile. Se la classe dirigente municipale si confondeva tra gli immatricolati del San Salvatore, il nuovo dinamico ceto artigianale, anche di recente immigrazione 18, rappresentava la percentuale più ampia degli iscritti al Gonfalone 19. Grazie alle ricche beneficenze di cui erano state sempre destinatarie, alle offerte pro anima e alle attente campagne di compravendita operate tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento, le confraternite si trovarono ad essere proprietarie di un gran numero di unità immobiliari, dell’ordine di almeno un centinaio di unità. Tali istituzioni dimostrarono inoltre una notevole abilità nella messa a punto di efficienti uffici dedicati alla gestione e al controllo dei movimenti di denaro in entrata ed uscita, capaci di produrre strumenti amministrativi progressivamente perfezionati, atti alla continua verifica della gestione finanziaria (dai primi inventari finalizzati alla visualizzazione quantitativa dei possedimenti ai libri catastali, ai libri di entrata e uscita, ai libri mastri) 20. Per poter constatare il valore riconosciuto alla rendita immobiliare urbana da parte dei due enti è necessario spingersi fino al primo Quattrocento; la crescente mole documentaria, Roma entre los siglos XV y XVII, Roma 1999; Id., Auge urbano y renta inmobiliaria. El patrimonio de las Iglesias espanolas de Roma en el siglo XVI, in Fortuna y negocios: formación y gestión de los grandes patrimonios (siglos XVI-XX), a cura di H. Casado Alonso, R. Robledo Hernàndez, Valladolid, 2002, pp. 21-43. Sulle strutture gestionali ospedaliere ed assistenziali medievali e rinascimentali v. L. Palermo, Gestione economica e contabilità negli enti assistenziali medievali, in L’ospedale, il denaro e altre ricchezze. Scritture e pratiche economiche dell’assistenza in Italia nel tardo Medioevo, a cura di M. Gazzini, A. Olivieri, in «Reti Medievali Rivista», 17/1 (2016). 18 Cfr. P. Pavan, Gli Statuti della società dei Raccomandati del Salvatore ad Sancta Snctorum, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CI, 1978, pp. 35-96. Popolazione e immigrazione a Roma nel Rinascimento. In ricordo di Egmont Lee, a cura di A. Esposito, Roma 2019. 19 Cfr. A. Esposito, Le “confraternite” del Gonfalone, in Le confraternite romane: esperienza religiosa, società, committenza artistica, a cura di L. Fiorani, Roma 1984, pp. 91-126. 20 Cfr. A. Esposito, Amministrare la devozione. Note dai libri sociali delle confraternite romane (secc. XV-XVI), in Il buon fedele. Le confraternite tra medioevo e prima età moderna, Quaderni di Storia religiosa, 5/1998, pp. 194-223. 206

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di natura seriale, di quegli anni consente un approccio sistematico alla questione, indispensabile per un analisi di lungo periodo 21. L’archivio del San Salvatore conserva documentazione catastale dal 1410 fino alla metà del XVI secolo, con iati temporali compresi tra i cinque e i dieci anni. Tali cesure temporali non debbono apparire come un limite: i registri catastali venivano puntualmente aggiornati e un sistema di rimandi interni consentiva di non perdere di vista alcun immobile. Si tratta di rintracciare la storia degli immobili menzionati a partire dal nome dei locatari che vi si alternavano insieme con la descrizione della tipologia del bene e dei suoi confini annotati con cura e perizia. Inoltre, le lacune cronologiche sono in parte sanabili con i protocolli notarili dei contratti di compravendita, di locazione e deliberazioni societarie, che forniscono preziosi dettagli anche sulle motivazioni che condussero alle scelte patrimoniali dei primi anni del Quattrocento e che talvolta trovano riscontro nei sintetici registri di contabilità. Con l’inizio del XVI secolo, quando la documentazione contabile si infittisce diventa più facile avere una visione d’insieme dell’assetto patrimoniale nella sua globalità. L’archivio del Gonfalone fornisce documentazione seriale più tarda rispetto alla precedente; la maggior parte di essa è disponibile dagli anni Cinquanta del XV secolo e si moltiplica in seguito alla fusione delle sei confraternite (1486) che diedero vita alla societas di fine Quattrocento. Anche se le fonti assumono importanza seriale soltanto dalla fine degli anni Ottanta, la natura della documentazione evidenzia immediatamente il funzionamento di un settore contabile molto ben organizzato e razionale, prova del valore attribuito alla gestione dei propri beni e del proprio capitale e testimonianza della crescente consapevolezza dei proprietari del valore da attribuire al bene-casa. L’arciconfraternita di fine secolo aveva beneficiato delle singole esperienze maturate da ogni gruppo associato e le aveva rielaborate in maniera compiuta. Nello statuto del 1495 gli obiettivi del gruppo dirigente appaiono chiaramente esplicitati: «Volendo con ogni diligentia non solo mantenere ma etiam augumentare le entrate della nostra compagnia [...] per bono governo di tutte nostre entrate e robe», si stabilì che i possedimenti fossero enumerati secondo un rigoroso ordinamento «[...] per alphabeto et numeri o regioni» 22. D’altra parte, le due 21 Per la Roma del tempo, la questione delle fonti è di centrale importanza; alcune considerazioni si trovano in M. Vaquero Piñeiro, A proposito del reddito immobiliare urbano a Roma (1500-1527). Alcune considerazioni sulle fonti e primi approcci, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CXIII, 1990, pp. 189-207. 22 De lo cathasto de le possessione de la compagnia, Cap. LXI, in Esposito, Le confraternite del Gonfalone, p. 133.

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serie di libri di introitus et exitus da una parte e di libri catastali dall’altra dalla fine degli anni Ottanta evidenziano una perfetta corrispondenza cronologica incrociata, che prosegue ininterrottamente fino al 1530 e oltre. Anche nel caso del Gonfalone gli strumenti notarili intervengono a chiarire l’atteggiamento societario nei primi anni di attività e ad integrare i dati della documentazione contabile, anche in termini qualitativi. L’evidente sfasamento temporale fra i due archivi confraternali costituisce un limite apparente allo svolgimento dell’analisi. Il dispiegarsi delle fonti contribuisce a delineare l’andamento del mercato immobiliare tra il primo ventennio del secolo e il primo trentennio del Cinquecento, oscillante tra antiche consuetudini e nuove strategie; al tempo stesso le fonti consentono di visualizzare sia le condizioni della realtà materiale cittadina sia il suo dinamismo interno, di dare nome e volto agli operatori economici e ai conduttori e di testare l’attenzione prestata da enti pubblici e soggetti privati alla realtà extraurbana. In questa ottica si è rivelato piuttosto utile ampliare l’indagine ai due anni successivi al Sacco di Roma del 1527; nei registri contabili, ove trovano posto anche le amare considerazioni degli ufficiali della compagnia del Gonfalone, si percepisce il disastro subito dalla città, che trova immediato riflesso nel crollo congiunturale del livello di rendita. È elemento comune la riduzione drastica degli affitti (1527-1528) e la vendita di numerose unità immobiliari (dal 1529). 3. Strategie patrimoniali a confronto Entrambe le confraternite, con le loro numerose case di proprietà (v. la tabella n. 1) contribuirono attivamente alla strutturazione del mercato immobiliare urbano quattrocentesco e all’euforia edilizia del primo Cinquecento. Il San Salvatore rappresenta in maniera stringente l’approccio della vecchia classe dirigente locale alla questione immobiliare. Nel lungo periodo si coglie il passaggio da un istituto volto a fornire accoglienza e assistenza fisica e morale alle categorie più deboli, che ha il suo cardine nell’ospedale al Laterano, sotto l’egida del gruppo dirigente municipale romano, a uno dei più ricchi e dinamici enti cittadini, impegnato su più fronti, politicamente influente, consapevole delle proprie ricchezze. Rispetto ad un patrimonio originario disposto in ordine sparso entro tutta l’area urbana, frutto del forte legame ideologico intessuto con la città grazie a un gruppo dirigente di antica tradizione nobiliare, procedendo nel corso del Quattrocento la societas si affermò soprattutto nei rioni Monti, Ponte e Parione, privilegiando da un lato l’area prossima al suo centro operativo 208

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Tab. 1 – Numero degli immobili appartenenti al S. Salvatore e al Gonfalone (1480-1529). Per il 1480 il riferimento del Gonfalone è relativo alle sole società dell’Annunziata e del Gonfalone; per il 1529 i dati del Gonfalone comprendono i soli rioni Monti, Colonna, Campomarzio e Ponte. Per il 1529 mancano i dati del San Salvatore

e all’ospedale maggiore, dall’altro rafforzandosi nella zona dell’ansa del Tevere. Tale consolidamento divenne ancora più evidente sul finire del secolo. Come principale referente delle alte schiere ecclesiastiche, il San Salvatore, senza spezzare il vincolo con la tradizione locale, fu in grado di rinnovarsi e di aprirsi alle esigenze della nuova Roma. Cardinali, vescovi, ambasciatori, letterati, uomini di legge si rivolgevano alla nota compagnia, per trovare alloggio negli ambiti rioni centrali, nei pressi dei palazzi pontifici, o nelle nascenti aree residenziali di Campo Marzio e Colonna. Dimore cardinalizie, fondachi, centri di studio e formazione 23, oltre a taverne e locande creavano aspettative di rendita decisamente superiori rispetto alla media, dell’ordine di qualche centinaio di ducati annui. Non era azzardato pertanto vendere gli immobili meno fruttuosi per investire sulla qualità e la funzionalità di edifici di pregio, residenziali o commerciali che fossero. Il flusso ininterrotto di donativi e lasciti testamentari giungeva a sostenere tali manovre e a fornire capitale sufficiente da destinare anche al mercato extraurbano. Nella diversificazione degli investimenti tra ricche dimore, sedi finanziarie e casali extraurbani, il San Salvatore si 23

Cfr. A. Esposito, C. Frova, Collegi studenteschi a Roma nel Quattrocento. Gli Statuti della “Sapienza Nardina”, Roma 2008. 209

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distingue come ente centrale/periferico esemplare, rappresentativo di quei gruppi economici in grado di fronteggiare l’avanzare della modernità e di mettere a punto strategie sempre accorte. Il Gonfalone, rimasto a margine delle dinamiche politiche cittadine, si dimostrò più innovativo nella definizione della propria politica immobiliare: in linea con le esigenze interne e con gli obiettivi di arricchimento, già ricordati, la nuova societas indirizzò immediatamente i suoi interessi immobiliari nei rioni Ponte, Parione e Arenula, potenziando nel contempo l’influenza degli originari insediamenti ospedalieri nei rioni Colonna e Trastevere, in vista di un’ulteriore espansione del centro cittadino, e in risposta alla crescente affluenza di pellegrini in arrivo nella Roma papale. A differenza del San Salvatore, che con gli anni limitò i diritti di immatricolazione, il Gonfalone si aprì a tutti gli immigrati: agli artigiani e ai professionisti chiamati a prestare la loro opera nelle sue fabricae religiose e nella manutenzione degli edifici in possesso della compagnia, che ricevevano in cambio il diritto d’alloggio a basso costo nel cuore della città commerciale; ai dotti umanisti e agli uomini di lettere, il cui sodalizio con la societas ampliava il consenso intorno alle attività promosse dai sodali. Le diverse anime confluite nella compagnia erano rimaste estranee alla corsa verso i casali extraurbani, pertanto disegnarono un organismo prettamente cittadino che lavorava nella città e per la città, che si procurava i beni primari attraverso normali vie di rifornimento o puntando ad un rapporto privilegiato con alcuni operatori commerciali. Un discorso analogo valeva per i beni non agricoli; il continuo dialogo intessuto con alcune categorie di produttori artigianali rendeva abbastanza agevole ed immediato il processo di acquisizione dei prodotti. Macellai, fornai, tavernieri contribuirono più di altri al consolidamento delle ricchezze societarie; muratori, falegnami, sarti e calzolai garantivano continuità nel consolidamento e della manutenzione del parco immobiliare, nella fornitura di suppellettili e accessori alle strutture ospedaliere; speziali e orefici garantivano il diritto di poter usufruire in qualsiasi momento di flussi di denaro 24. Questa vocazione tutta cittadina si tradusse nell’intenso impegno profuso nell’organizzazione delle grandi manifestazioni e si concretizzò negli investimenti nelle affollate aree centrali. Societas rappresentativa della forza lavoro operante a Roma, il Gonfalone investì gran parte delle sue risorse sugli immobili destinati all’accoglienza e all’approvvigionamento alimentare, ceduti a prezzi di favore o riscattabili dietro prestazione d’opera. 24

Cfr. Lavoro, arti e mercato a Roma in età Rinascimentale, a cura di A. Cortonesi e A. Modigliani, Roma 2019. 210

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4. La gestione degli immobili nei rioni centrali e periferici Già in apertura del Quattrocento il San Salvatore dimostrò di avere una discreta consapevolezza delle potenzialità insite nel patrimonio immobiliare urbano. Negli anni Dieci del secolo la società dichiarava di possedere 70 su 170 immobili nei rioni dell’ansa dove si potevano trovare laboratori artigianali e postazioni commerciali25. Seguendo l’andamento della rendita urbana nel rione Ponte (v. la tabella n. 2) si possono leggere al meglio i risultati di tali investimenti; sin dal primo Quattrocento, infatti, la Societas richiedeva affitti significativi per le botteghe e i banchi siti al pianterreno degli edifici del rione Ponte, in special modo per quelli della testata di Ponte e prospicienti il fiume. In un trentennio i dirigenti misero in atto un progetto specifico di insediamento nelle aree suscettibili di espansione in considerazione della vicinanza con il polo Vaticano. Tra gli anni Trenta e Quaranta circa 1/3 degli immobili societari si concentrava in quelle contrade; l’incertezza politica e il persistente stato di abbandono di alcune aree mantenevano su livelli contenuti i prezzi d’affitto del rione, ma sempre in evidenza rispetto al resto della città. D’altra parte il rione Ponte comprendeva la zona desolata di Borgo – ultra pontem26 – che incideva negativamente sulle entrate globali che pervenivano dagli immobili di quella zona. Sempre dagli inizi del secolo, tuttavia, il San Salvatore poteva vantare il possesso di una serie di edifici che erano garanzia di entrate cospicue; in particolare il complesso di Tor di Nona: una «domus sive turrim cum orto et claustro»27 sita «in platea Castelli», donata da Giovanni Orsini nel 1395 e da allora affittata alla Camera Apostolica – per farne la «prigione del Papa» – per 24 ducati annui28. La quarta parte del fondaco – il «maior fundicus» di Ponte29 – e del banco ad essa annesso, affittata al fiorentino Guidetto de Monaldis, sita di fronte al canale di S. Pietro, e condivisa con la basilica di S. Pietro e con gli eredi di Blasio de Calvis nel 1435 fruttava 25 ducati d’oro a ciascun proprietario. L’affitto rimase invariato fino agli anni Cinquanta 30 per il banchiere fiorentino Antonio della Casa che dal 1438 ne fece sede del banco omonimo, dopo aver gestito per tre anni la filiale romana del Banco Medici 31. 25

ASR, Ospedale SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 381. Ibidem, reg. 1007, c. 76r. 27 Ibidem, reg. 375, c. 92r. 28 Ibidem, reg. 1007, c. 76r.; la somma era pari a circa 1730 bolognini. 29 Ibidem, reg. 375, c. 94r. 30 Ibidem, reg. 1007, c. 77r. La somma era al 10% del valore di una casa. 31 Cfr. M. Cassandro, Il libro Giallo di Ginevra della Compagnia fiorentina di Antonio della Casa e Simone Guadagni (1453-1454), Prato 1976, p. 22; L. Palermo, Aspetti dell’attività 26

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Al pianterreno di questo stabile altri locali erano affittati ad artigiani toscani (calzolai, pellicciai, sarti) dapprima per 6 ducati annui 32, poi per 20 ducati. Al passaggio dagli anni Cinquanta e Sessanta l’affitto dello stabile tenuto dai della Casa aumentò del 50% 33. Rispetto alle attese, motivate anche dall’indizione del giubileo del 1475, il livello di crescita negli anni Settanta fu contenuto. Il rione risentì fortemente della campagna di risanamento della testata di Ponte avviata da Sisto IV nel periodo 1475-1480. Passato il giubileo, il dissesto causato dai cantieri aperti determinò un’immediata quanto sostanziosa caduta dei prezzi, tanto che nel 1480 i dirigenti della società lamentavano la «penuria temporum» 34, aggravata dalla dispersione delle risorse per lo sgombero delle strade e la regolarizzazione degli edifici, oneri spettanti ai proprietari frontisti secondo la disciplina dei maestri delle strade, oltre alle ordinarie spese di manutenzione edilizia. Nel 1482 una bottega rimase sfitta «propter reparationem in eam factam de mandato magistrorum» 35. Passato questo periodo il rione assunse sempre di più una fisionomia degna di una città capitale. L’assetto delle strade del grande commercio e della finanza venne reso più funzionale rispetto alle esigenze dei palazzi apostolici. Liberata la testata di Ponte dal tradizionale affollamento irregolare di botteghe e banchi che ne ostacolavano la viabilità, i nuovi fondachi e botteghe potevano aprirsi direttamente sul fiume. I frazionamenti e gli accorpamenti di più particelle all’interno delle unità immobiliari ne migliorarono l’abitabilità, giustificandone l’aumento del valore di mercato. Esemplare è la vicenda della «domus dello Lione», sita nei pressi di Tor di Nona, per metà appartenente alla compagnia del Salvatore e adattata ad osteria 36. La bresciana Cecilia e Cozone suo marito per il primo semestre del 1479 pagarono 17 ducati di carlini, ridotti poi a 15 «pro penuria temporum (...) cum condicione quod adveniente pace reducatur ad pristinam pensionem». Il prezzo fu ulteriormente decurtato (13 ducati) per tutta una serie di interventi di restauro tra il 1481 e il mercantile di un banco operante a Roma: i della Casa alla metà del Quattrocento, in Credito e sviluppo economico in Italia dal medio evo all’età contemporanea, Verona 1988, pp. 67-80. 32 ASR, Ospedale SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 1007, c. 77r. 33 34

Ibidem, reg. 378, c. 30r.

Ibidem, reg. 382, c. 160. Ibidem, reg. 382, c. 148r. Particolarmente incisivo fu l’intervento dei maestri delle strade, magistratura ripristinata da Martino V nel 1425; C. Scaccia Scarafoni, L’antico statuto dei ‘magistri stratarum’ e altri documenti relativi a quella magistratura, in «Archivio della Regia Società Romana di Storia Patria», L, 1927, pp. 239-308; O. Verdi, Maestri di edifici e maestri di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma 1997. 36 L’altra metà apparteneva alla chiesa di S. Agostino (ASR, Ospedale SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 933, c. 56). 35

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La rendita urbana del San Salvatore e del Gonfalone a Roma nel Rinascimento

primo semestre del 1489, ma già dal secondo semestre di quell’anno il nuovo conduttore, Giovanni di Napoli, tornò a pagare gli originari 30 ducati, con la promessa di versarne altri 100 per le spese di manutenzione ordinaria 37. Nel 1491 per affittare l’osteria servivano ormai 40 ducati annui, nonostante si trattasse di un contratto di lunga durata, che di norma prevedeva una contrazione del prezzo pari almeno al 20% rispetto ai contratti a breve. La stessa Camera Apostolica arrivò a versare 34 ducati annui per la Tor di Nona. Negli anni Novanta il livello della rendita crebbe ovunque a ritmo ininterrotto; anche le botteghe della via Retta di Ponte passarono dai 22 ducati 38 ai 32 nel giro di due anni 39 (1491-1493). Procedendo verso il Cinquecento la zona rafforzò il suo carattere finanziario: andati via i della Casa ed effettuate ulteriori modifiche strutturali, nel 1508 il fondaco «posto tra due strade una che va alla Cancelleria e l’altra a Monte Giordano» venne affittato alla società formata da Arrigo Foccari e compagni «zecchieri». Costoro non erano altro che i banchieri Fugger di Augusta che per il primo piano dell’immobile dove dal 1505 «se fa la zecca» 40 pagavano 56 ducati annui. Il pianterreno dell’edificio conservò il suo uso commerciale, ospitando orefici, sarti e cimatori fiorentini. Il momento critico coincise con gli anni Venti del secolo: nel 1523 messer Angelo Sauli, banchiere genovese 41, garantì una rivalutazione dell’edificio della Zecca offrendo 62 ducati e mezzo annui per un quindicennio 42. Per alcune case lungo la via Retta, via di Panico e Tor Sanguigna alcune cortigiane arrivarono a pagare tra 50 e 80 ducati annui, a seconda delle dimensioni e della tipologia dell’immobile 43. Il cardinale de’ Grassi, uditore del tribunale della Sacra Rota, abitante in uno dei nuovi palazzi di pregio costruiti al margine settentrionale del rione Ponte, al confine con Campomarzio e Colonna, pagava 1000 ducati annui 44. Questi risultati furono la prova del successo della strategia della Societas del S. Salvatore: riduzione della quantità degli immobili di proprietà a vantaggio di una migliore cura delle dimore residenziali e della possibilità di costruire nelle aree di nuova espansione. 37

Ibidem, reg. 382, c. 160. Ibidem, reg. 382, c. 146v. 39 Ibidem, reg. 382, c. 147r. 40 Ibidem, reg. 979, c. 48v-49r. 41 A. Fara, Credito e cittadinanza: i Sauli, banchieri genovesi a Roma tra Quattro e Cinquecento, in «Reti Medievali», 17 (2016), pp. 71-104. 42 ASR, Ospedale SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 936, cc. 40, 282. 43 Così dagli anni Novanta del XV secolo (ibidem, reg. 934, cc. 25, 78, 127). 44 Ibidem, reg. 935, cc. 63, 228. 38

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Silvia Dionisi

Il Gonfalone si insediò nel rione Ponte qualche anno più tardi rispetto al S. Salvatore, o almeno così dobbiamo affermare in base alla documentazione di cui disponiamo, e godette immediatamente del risanamento sistino, conquistando quasi il monopolio delle taverne e delle osterie della zona. Una «casa acta ad taverna con cantina, porticale e solaro» sita in contrada Panico fruttava 24 ducati già nel 1486, nel 1502 venne affittata a Bartolomeo alias Celluzzo «tavernaro» per 25 ducati 45, a condizione che vi realizzasse le dovute riparazioni e un pozzo entro tre anni 46; mediamente, le taverne e i macelli siti sulla stessa strada valevano 20 ducati annui. Ancora prima del Salvatore, tuttavia, il Gonfalone indirizzò la sua attenzione a Tor Sanguigna, verso il lato settentrionale di piazza Navona. Una domus a più piani sita presso il Bagno di S. Apollinare, nonostante il costo ancora contenuto, passò dai 4 ducati annui pagati da donna Sabella nel 1487 ai 10 richiesti a donna Brigida di Matteo barbiere nel 1491, con contratto alla terza generazione 47. Era sicuramente un prezzo di favore quello fatto ad Antonio, muratore fiorentino, che per una casa a Tor Sanguigna pagava 8 ducati annui, passati a 27 nel 1509, parallelamente alla valorizzazione dell’area. Dobbiamo immaginare che Antonio cedesse in cambio di alloggio anche il suo lavoro per la manutenzione o forse il restauro dell’alloggio. Il Cinquecento coincise con una vera e propria euforia del mercato dei locali commerciali in rione Ponte. Nel 1514, un macello con casa attigua e «con un pezzo de scoperto de reto» in Panico venne ceduto per 65 ducati annui a due fratelli viterbesi, che affittarono per 21 ducati anche una casa e una stalla adiacente 48. Complessivamente, dunque, anche nel caso del Gonfalone le proprietà collocate nel rione Ponte generarono una rendita immobiliare crescente nel tempo (v. la tabella n. 2). Con i lavori cinquecenteschi e la conquista delle aree semicentrali si enfatizzarono per entrambi questi enti le già evidenti differenze con i rioni marginali (diversa densità di popolazione, diverse condizioni contrattuali, differenti aspettative di rendita, differenti tipologie di edificio); questa situazione si rivela con grande evidenza nel confronto, ad esempio, tra la quantità delle rendite ricavate nel rione Ponte, qui sopra esaminate, e la quantità di quelle, assai minore, ricavate nel rione Ripa (v. la tabella n. 3). Ed è bene rimarcare che anche il numero assai inferiore di case era a sua volta il risultato della minore propensione ad investire in uno spazio urbano che appariva di gran lunga meno redditizio. 45

ASV, Arciconfr. Gonfalone, reg. 735, cc. 49v-50r. Ibidem, reg. 17, c. 26. 47 Ibidem, reg. 735, cc. 57v-58r. 48 Ibidem, reg. 742, cc. 15v-16r. 46

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La rendita urbana del San Salvatore e del Gonfalone a Roma nel Rinascimento

Tab. 2 – Gettito degli affitti incassati dal San Salvatore e dal Gonfalone nel rione Ponte in anni documentati tra il 1435 e il 1525

Tab. 3 – Gettito degli affitti incassati dal San Salvatore e dal Gonfalone nel rione Ripa in anni documentati tra il 1435 e il 1525

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Nel 1435 la società del San Salvatore possedeva nel rione Ripa 12 immobili, e si trattava soprattutto di spazi adibiti a macello e centri di ospitalità; all’inizio del Cinquecento ne erano rimasti solo 2. La riduzione del parco immobiliare in zona è giustificata dalle precise scelte di politica immobiliare dovute all’ubicazione periferica di quegli edifici rispetto al centro cittadino. All’inizio del Quattrocento l’identità rionale era dettata dalla posizione più defilata rispetto al nucleo abitato ma in stretto contatto con il fiume e con il mercato del Campidoglio. Divenuta luogo per eccellenza per la lavorazione e la conservazione di prodotti alimentari, questa parte della città consentì al San Salvatore di garantirsi la propria autosufficienza. Nei macelli in particolare si concludeva il processo produttivo iniziato nei numerosi casali extraurbani di cui la società era proprietaria. Negli anni Trenta, e fino alla vendita avvenuta nel 1459, la «domus seu macellum cum grypta» 49, collocata nel macello grande di Ripa, e l’hospitium nei pressi erano affittati per un costo addirittura superiore agli edifici del centro 50. Con lo spostamento del mercato in piazza Navona (1477), quell’area rimase più isolata ed enfatizzò la sua posizione periferica compromettendo il suo valore di mercato. Il caso del rione Ripa può in qualche modo esemplificare il mutamento di prospettiva nelle strategie patrimoniali del San Salvatore: da un iniziale legame con la campagna, la società sposta il suo baricentro verso le contrade centrali spezzando temporaneamente il vincolo con le strutture produttive più tradizionali. Il Gonfalone ereditò dall’ospedale e dalla chiesa dell’Annunziata della via Oratoria, il più periferico complesso confluito nell’arciconfraternita, 4 immobili siti appunto nel rione Ripa 51. Nel 1457 i due pianterreni contigui adibiti a macello costavano 8 ducati annui 52; nel 1493 essi vennero permutati con una casa affittata per 35 carlini (3 ducati e mezzo) a Michele corso. Per 7 ducati d’oro annui era affittata una domus adibita a bottega «in quactro capora», che negli anni andò incontro a una riduzione di prezzo 53. Gli investimenti del Gonfalone di fine secolo non toccarono in alcun modo questa parte della città che agli inizi del Cinquecento iniziò progressivamente a sparire dai catasti societari.

49

Ibidem, reg. 375, c. 138r. Ibidem, reg. 1007, c. 105r. 51 Ibidem, reg. 701, c.8r. 52 Ibidem, reg. 1196, cc. 9r e 4v. 53 Ibidem, reg. 735, cc. 108v-109r. 50

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La rendita urbana del San Salvatore e del Gonfalone a Roma nel Rinascimento

5. Il ciclo della rendita tra XV e XVI secolo Per il periodo compreso tra gli anni Ottanta del Quattrocento e i primi tre decenni del Cinquecento curve della rendita immobiliare urbana prodotta dalle strategie di locazione delle due confraternite sono assimilabili tra loro; tali curve riflettono d’altra parte l’andamento del sistema economico cittadino e registrano un’accelerazione del processo espansivo tra gli anni Sessanta del XV secolo, attestabile al meglio solo per il San Salvatore, fino al primo quindicennio del successivo, nonostante alcune cadute congiunturali, per attestarsi in una condizione di stabilità verso gli anni Venti del Cinquecento. Analogamente, il mercato immobiliare dopo una fase segnata dalla rapida crescita nel numero e nel valore delle compravendite 54, corrispondente alla presa di coscienza dell’importanza degli investimenti urbani, intorno agli anni Settanta-Ottanta evidenzia una corsa agli affitti che ha il suo apice tra il decennio Novanta e il primo quindicennio del Cinquecento, quando si assiste ad un consistente aumento del saggio di rendita. Negli anni Venti si registra una stasi, un momento di stanchezza del mercato. Giunge il Sacco di Roma a frenare il processo espansivo, già peraltro rallentato, e a creare i presupposti per una successiva risalita dei valori. Le evidenze più significative del suddetto prospetto si possono visualizzare da un lato affrontando la questione della gerarchia degli spazi attraverso il binomio centro/periferia, dall’altro operando un confronto sistematico tra le due realtà societarie, a partire dai rioni centrali per proseguire con quelli periferici. Dal confronto sistematico dei dati delle due compagnie per gli anni 1480-1529 (v. la tabella n. 4) emergono alcune significative dinamiche immobiliari. Dopo una fase espansiva che nella prima metà del Quattrocento si era già manifestata con una fattiva campagna di acquisizione di immobili, il San Salvatore segnalava nell’età di Sisto IV una contrazione degli introiti complessivi, causata da una fase di incertezza che proseguiva fino ai primi anni Novanta del XV secolo. L’arciconfraternita del Gonfalone, invece, all’indomani della sua costituzione ratificata da Innocenzo VIII solo nel 1486, poteva già contare sulla messa in valore delle abitazioni collocate nelle contrade centrali e avviava in quegli stessi anni un deciso rafforzamento della sua presenza nel mercato degli immobili. Ma la stessa tabella rivela che, subito dopo, tra i secondi anni Novanta e il primo decennio del Cinquecento, la proprietà immobiliare poté beneficiare del rinnovato assetto urbano, con la ridefinizione, operata dalle istituzioni, degli spazi, 54

Cfr. Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari. 217

Silvia Dionisi

Tab. 4 – La rendita immobiliare urbana del San Salvatore e del Gonfalone in anni documentati tra il 1480 e il 1529

dei tempi e dei modi del funzionamento del mercato delle locazioni (si pensi ad esempio ai progetti urbanistici dei papi del primo Cinquecento, all’internazionalizzazione della corte e alla proclamazione del Giubileo) 55. Tutto ciò accompagnò il mercato immobiliare all’apertura di una nuova fase espansiva, che tra il 1509 e il 1520 circa si manifestò con una ulteriore accelerazione del gettito della rendita e in qualche caso perfino una certa euforia. Questo quadro si concluse dopo il 1520, per entrambe queste istituzioni, con una fase di ripiegamento che anticipò le fasi negative prodotte dal Sacco di Roma del 1527. Quali vantaggi ricavavano il San Salvatore e il Gonfalone da questi meccanismi di produzione della rendita? Da un approccio più analitico ai documenti emerge che la rendita delle due confraternite non veniva immobilizzata; entrambe utilizzavano le risorse in primo luogo per il mantenimento delle rispettive strutture e per l’esercizio delle attività assistenziali ed ospedaliere. L’incremento delle attività di natura sociale contribuiva d’altra parte a tenere alto il livello dei finanziamenti e delle donazioni, permettendo una rapida circolazione di denaro e il mantenimento in attivo delle casse societarie. Questo meccanismo positivo si traduceva in un circolo virtuoso che coinvolgeva l’intera società cittadina 55

Su questi fenomeni è disponibile una bibliografia assai ampia, a partire dalle opere citate qui sopra alle note nn. 12 e 17. 218

La rendita urbana del San Salvatore e del Gonfalone a Roma nel Rinascimento

ed equivaleva alla promozione generalizzata dello sviluppo urbano 56. Se il Gonfalone investiva i propri proventi in attività sociali di ampia risonanza e nell’organizzazione di grandi manifestazioni devozionali che avevano ampia eco all’interno della città (la maggior parte delle voci di spesa si riferisce all’organizzazione delle sacre rappresentazioni al Colosseo), il San Salvatore si distingueva per forza associativa e capacità organizzativa; anche in virtù dei cospicui possedimenti rurali la dirigenza si preoccupava in primo luogo del sostentamento della compagnia e della tenuta del suo importantissimo ospedale al Laterano, conservando senza soluzione di continuità la sua attitudine alla cura e all’accoglienza dei più deboli e dei malati. Tutte e due le confraternite convogliavano la rimanente percentuale delle risorse a sostegno del patrimonio immobiliare, investendo laddove ci si aspettava di ricavare introiti con più facilità, provvedendo ad alienare, al contrario, i beni meno redditizi. I casi esaminati non pretendono di avere valore generale e di assurgere a modelli, ma possono valere come termine di confronto all’interno di una significativa casistica di situazioni interessanti da esaminare. In generale, tutti gli istituti religiosi e le solidarietà laicali si distinsero per l’entità del patrimonio immobiliare e uno studio dettagliato della loro contabilità interna può costituire un punto di partenza essenziale per la ricostruzione del variegato assetto urbano e per fare luce sulla complessa realtà della Roma del primo Rinascimento.

56 Cfr. A. Esposito, Le confraternite romane tra città e curia pontificia: un rapporto di delega (secc. XIV-XVI), in Brotherhood and boundaries. Fraternità e barriere, a cura di S. Pastore, A. Prosperi, N. Terpstra, Pisa 2011, pp. 447-458.

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Alexis Gauvain Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo

Il Capitolo di San Pietro e il suo patrimonio 1 In questa sede non è possibile dilungarsi su quelle che furono la composizione, la base di reclutamento, la struttura funzionale e l’articolazione gerarchica interna del Capitolo vaticano 2. Basti solo ricordare come le sue origini rimontino alla seconda metà dell’XI secolo, quando vennero raccolti in un corpo unico i monaci di quattro antichi monasteri vicini alla Basilica di San Pietro 3. Di questi monasteri il Capitolo ereditò la dotazione materiale, fortemente incentrata sulla possidenza rustica, che venne poi confermata ed arricchita a più riprese da diversi pontefici e, ove possibile, dagli stessi canonici, per investimento economico diretto. Parallelamente venne a formarsi e ad arricchirsi anche un patrimonio immobiliare urbano, grazie soprattutto a donazioni e lasciti di facoltosi benefattori 4. 1

Abbreviazioni: AAV = Archivio Apostolico Vaticano; ACapSP = Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio del Capitolo di San Pietro; ASR = Roma, Archivio di Stato; ASRSP = «Archivio della Società romana di storia patria»; BNCR = Roma, Biblioteca Nazionale Centrale; BR = Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificum, a cura di F. Gaude, tt. I-XXV, Augustae Taurinorum 1857-1872; BV = Collectio bullarum, brevium aliorumque diplomatum sacrosanctae Basilicae Vaticanae, voll. I-III, Romae 1747-1752; RIS2 = Rerum Italicarum Scriptores. Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L.A. Muratori, Nuova edizione riveduta, ampliata e corretta con la direzione di G. Carducci, V. Fiorini, P. Fedele, voll. I-XXXIV, Città di Castello 1900-1935. 2 Per un profilo storico-istituzionale del Capitolo vaticano vd. D. Rezza, M. Stocchi, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al XX secolo, vol. I: La storia e le persone, Città del Vaticano 2008 (Archivum Sancti Petri I.1). 3 Si tratta dei monasteri di S. Martino, S. Stefano Maggiore (poi anche detto degli Abissini o dei Mori), S. Stefano Minore (o degli Ungari) e Ss. Giovanni e Paolo. 4 Una memoria dei i lasciti e donazioni pro anima veniva conservata dai canonici nell’obituario della Basilica, il cosiddetto Liber Anniversariorum. Conservato in due successive 221

Alexis Gauvain

È stato giustamente osservato in passato come il Capitolo vaticano non abbia praticato, almeno fino a tutto il Trecento, una politica di lottizzazione e concessione ad construendum di terreni liberi, di cui pure aveva ampia disponibilità 5. Nello stesso lungo periodo i canonici non si sono neanche impegnati in una coerente politica di acquisizione di immobili. Eventuali surplus di denaro venivano semmai investiti dal Capitolo nel dispendioso incremento e consolidamento dello smisurato patrimonio fondiario extraurbano, all’epoca di gran lunga più redditizio 6. Giunti ai primi del Quattrocento (a tre secoli e mezzo ormai dalla nascita dell’istituzione) questo patrimonio immobiliare appare già assai cospicuo e pienamente strutturato 7. Un patrimonio formato, ma tutt’altro che sclerotizzato. Al contrario: a dispetto delle forti limitazioni imposte agli enti ecclesiastici romani in materia di alienazioni 8 esso visse varie fasi di trasformazione. Ciò che più ci interessa, in questa sede, è proprio il modo in cui il patrimonio della Basilica ha cambiato veste lungo il Quattrocento e nel primo Cinquecento, tanto per quel che riguarda la sua composizione, quanto per i livelli di rendita derivati dal suo sfruttamento 9. redazioni (ACapSP, mss. H 56 e H 57), esso è parzialmente edito in Necrologi e libri affini della provincia Romana, a cura di P. Egidi, voll. I-II, Roma 1908 (Fonti per la Storia d’Italia, 44-45): I, pp. 167-291. 5 Cfr. É. Hubert, Economie de la propriété immobilière: les établissements religieux et leurs patrimonies au XIV e siècle, in Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, a cura di É. Hubert, Roma 1993, pp. 175-230. In effetti in tutta la storia del Capitolo fino alla fine del Trecento, documenti alla mano, si contano in tutto tre sole concessioni di suoli ad construendum, l’ultima delle quali del 1245. 6 Al riguardo mi permetto di rinviare a A. Gauvain, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al XX secolo, vol. 2: Il patrimonio, Città del Vaticano 2011 (Archivum Sancti Petri, I.2), pp. 75-84. 7 L’archivio del Capitolo di San Pietro (ACapSP) è particolarmente ricco di documentazione di carattere patrimoniale, in buona parte conservata in originale nella serie delle Capsae. La serie conta oggi 409 scatole di documenti, di cui 6 non numerate. Una gran quantità di documentazione pontificia, e di publica instrumenta è raccolta nei volumi della serie ACapSP, Privilegi e atti notarili. Si segnala poi l’esistenza di un fascicolo, appartenuto ad un registro di atti rogati per conto del Capitolo da Francesco De Novellis nel 1503, in AAV, Fondo Santacroce, Busta 21, fasc. 2, cc. 141-154. 8 Limitazioni in tal senso erano state introdotte da Bonifacio IX, con lettere apostoliche del 2 gennaio 1403 (edite in BR, IV, pp. 635-636), poi riprese da Paolo II nella sua bolla Ambitiosae del 1° marzo 1467 (edita ibidem, V, pp. 194-195). Oltre alle vendite, alle infeudazioni e alle concessioni enfiteutiche si vietava anche ogni altra forma di locazione che eccedesse la durata di tre anni. 9 Il presente studio intende porsi nel filone delle ricerche dedicate ai patrimoni immobiliari ecclesiastici romani, fra cui si segnalano M. Vaquero Piñeiro, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de la iglesia de Santiago de los Españoles de Roma entre los siglos 222

Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo

Si tratta di un patrimonio costituito in larghissima parte da case, ovviamente, ma che annovera anche alcune proprietà di altro genere, come banchi di vendita, fornaci per laterizi, orti e casarena, chiese (qui considerate non per rapporti di affiliazione, ma in quanto possedute e di conseguenza fisicamente concesse in affitto, come un qualsiasi altro bene immobile) e mulini fluviali. Ad ogni modo, possiamo parlare di un patrimonio costituito quasi interamente di case, poiché l’incidenza dei beni “altri” sul totale non giunge mai ad oltrepassare il 12,5%. Stando ad un inventario di beni della metà del Trecento 10, punto riferimento iniziale per ogni analisi che prenda in oggetto il secolo successivo, all’epoca il Capitolo aveva 195 case, possedute secondo una varietà di regimi di proprietà differenti, ben descritti a suo tempo da Étienne XV y XVI, Roma 1999; A. Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro in Vaticano alla fine del XV secolo: primi risultati, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2004), pp. 49-76 e i più recenti L. Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento, in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer deutschen Stiftung in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin 2010, pp. 279-325 e I. Ait, Il patrimonio delle clarisse di S. Lorenzo in Panisperna tra XIV e XV secolo: prime indagini, in «Reti Medievali Rivista», 19.1 (2018), pp. 453-472. Fonti d’archivio utili allo studio di altri patrimoni ecclesiastici romani sono state presentate da É. Hubert, M. Vendittelli, Materiali per la storia dei patrimoni immobiliari urbani a Roma nel Medioevo. Due censuali di beni del secolo XIV, in ASRSP, 111 (1988), pp. 75-160. Quanto ai ricchi patrimoni di ospedali e confraternite si segnalano S. Dionisi, Sviluppo economico e rendita urbana. Il caso delle confraternite laicali romane del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e del Gonfalone (1410-1529), tesi di dottorato di ricerca, relatore L. Palermo, Università LUISS di Roma, a.a. 2002-2003; A. Peri, La struttura economica di due ospedali romani: il Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum e il San Giacomo degli Incurabili nel primo Rinascimento (1450-1527), tesi di dottorato di ricerca, tutor M. Pellegrini, Università di Siena, a.a. 2014-2015. Per fonti utili allo studio di altri patrimoni ospedalieri vd. A. Esposito Aliano, Un inventario di beni in Roma dell’ospedale di Santo Spirito in Sassia (1322), in ASRSP, 99 (1976), pp. 71-115; Ead., L’inventario delle case e delle vigne dell’ospedale dei Ss. Quaranta Martiri di Trastevere (1351), ibidem, 124 (2001), pp. 25-34. Quanto infine ai patrimoni di famiglie romane ricordo qui gli studi di M. Bevilacqua, Il Monte dei Cenci. Una famiglia romana e il suo insediamento urbano tra Medioevo ed Età barocca, Roma 1988; F. Cantatore, Storia e patrimonio immobiliare dei Capizucchi attraverso la documentazione della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, in «RR Roma nel Rinascimento», 1994, pp. 334-352 e A. Modigliani, I Porcari. Storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1994 (Roma nel Rinascimento. Inedita, 10 saggi), in particolare le pp. 275-385. 10 Mi riferisco al volume segnato ACapSP, Inventari, 1, generalmente datato all’anno 1361, ma redatto in realtà, almeno per quel che concerne la sezione dedicata ai beni immobili, nel 1350, dato che in più frangenti si riporta un dato canone di affitto, con la specifica che «in isto anno iubilei» la somma da versare sarebbe stata in certa misura maggiorata. 223

Alexis Gauvain

Hubert 11. All’inizio del Quattrocento i numeri sono sensibilmente aumentati, soprattutto in virtù di lasciti e donazioni (fra il 1370 e il 1400 se ne contano almeno 12, aventi per oggetto un totale di 21 immobili). Le case menzionate nel censuale 12 del 1405 sono 314, e nel corso della prima metà del secolo il trend di accrescimento rimane il medesimo: nel 1422 se ne contano 333, nel 1448 si giunge addirittura a 390. Nella seconda metà del secolo, invece, si assiste ad un fenomeno inverso: un brusco calo si registra già con il censuale del 1462, nel quale figurano solamente 236 case. In seguito, tale numero continuerà a calare fin quasi alla fine del secolo: nel 1478 si ricordano 187 case e nel 1493 solo 162. È questo il dato numerico più basso incontrato. In seguito, si osserva una nuova inversione della curva: nel 1503 si contano 185 case, nel 1510 se ne hanno 199 e ben 243 nel 1525, come mostrato nella Tabella 1. Domus Altro Totale

1350

1405

1422

1448

1462

1478

1493

1503

1510

1525

195

314

333

390

236

187

162

185

199

243

(93,75%) (87,71%) (88,56%) (89,66%) (93,65%) (92,12%) (91,01%) (94,87%) (93,43%) (97,20%)

13

44

43

45

16

(6,25%) (12,29%) (11,44%) (10,34%) (6,35%)

208

358

376

435

252

16

16

10

14

7

(7,88%)

(8,99%)

(5,13%)

(6,57%)

(2,80%)

203

178

195

212

250

Tab. 1 – Termini adottati nella descrizione dei beni: valori assoluti (valori percentuali)

Questa successione di numeri, però, presa di per sé è del tutto fuorviante. Bisogna infatti tenere debitamente conto di un fattore che ne deforma largamente la percezione, soprattutto per quel che riguarda i numeri di case 11 É. Hubert, Gestion immobilière, propriété dissociée et seigneuries foncières à Rome aux XIIIe et XIV e siècles, in Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XII e-XIX e siècle), Actes de la Table ronde, Lyon 14-15 mai 1993, a cura di O. Faron, É. Hubert, Roma-Lyon 1995 (Collection de l’École française de Rome, 206), pp. 185-205. Riguardo al tema dei regimi di proprietà dissociata, più in particolare, vd. anche il più recente M. Barbot, Per una storia economica della proprietà dissociata. Efficacia e scomparsa di un «altro modo di possedere» (Milano, XVI-XVII secolo), in «Materiali per una storia della cultura giuridica», a. 38, n. 1 (giugno 2008), pp. 33-61. 12 La serie ACapSP, Censuali conta 217 volumi, nei quali sono raccolti in prevalenza libri censuali stricto sensu e libri di entrata e uscita della Mensa Capitolare, nonché alcuni interessanti censuali dell’Ufficio delle Vigne del Capitolo vaticano e altra documentazione eterogenea, talvolta non prodotta dal Capitolo. Alla nostra ricerca attengono i registri 1-16, 17A e 18-32, che contengono documentazione relativa al periodo 1372-1525. Si segnala l’esistenza di un libro di introitus et exitus del 1481 conservato fortuitamente al di fuori dell’archivio capitolare, in BNCR, Manoscritti, Gesuitico, 170, il cui testo è stato pubblicato da U. Balzani, Libro d’introiti e spese della Basilica vaticana compilato da Giuliano Matteoli, in ASRSP, 1 (1878), pp. 257-301.

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Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo

abnormi registrati nei censuali fino al 1448. Si deve considerare, infatti, quali fossero le reali condizioni materiali in cui versavano le case che vi sono conteggiate. Soprattutto nella prima parte del secolo (quella che fa registrare i dati più elevati), sono gli stessi libri censuali a specificare che molti immobili erano irrimediabilmente in rovina, inagibili o comunque in stato di abbandono perché non concessi e dunque, in definitiva, del tutto improduttivi per il Capitolo. È la natura stessa di questo genere di registri a determinare la presenza in essi di dati formalmente corretti dal punto di vista giuridico, ma privi di reale significato per una lettura economica della fonte. Ai censuali si demandava infatti il solo e preciso compito di attestare tutti i diritti di proprietà vantati dal Capitolo, e non soltanto quelli effettivamente goduti. Rappresentavano dunque una sorta di memoria dello stato patrimoniale, e non uno strumento che dovesse essere concretamente funzionale per un’efficiente gestione del patrimonio. È per questo motivo che nei censuali si continua a tenere conto per molti anni di case che oramai nei fatti non potevano più dirsi tali, per sopraggiunta e completa rovina materiale, o perché magari abusivamente occupate13 ed indisponibili per i canonici: si trattava ad ogni modo di case, quando non di ruderi, fuori mercato talvolta ormai da decenni. Come vedremo in seguito, all’epoca la parte più consistente del patrimonio della Basilica (e la quasi totalità delle case in rovina) si trovava in Borgo: un rione devastato e in pressoché completo abbandono, dopo gli eventi bellici di inizio ‘400, come vividamente attestato da un passo della cronaca di Antonio di Pietro dello Schiavo, relativo al 1414: Item siatis quod tunc tempore portica Sancti Petri erat totaliter derelicta, et nulus habitabat in dicta porticha Sancti Petri, nisi Petrus Toti in contrata Sancti Spiritus et III cionchi in platea Castri Sancti Angeli, quos regebat castellanus Castri Sancti Angeli, et me Antonio Petri omnia supradicta vidente et scribente, etcetera14. 13

Particolare il fenomeno delle usurpazioni di case del Capitolo, compiute talvolta con il tacito consenso dell’autorità pontificia. Esemplare è il caso di alcune case in Borgo, che «occupate fuerunt per dominum Lovisium de Caracciolis, qui die noctuque dabat helemosinam pauperibus. Quia dominus noster Bonifatius (IX papa) faceret bonum nostre basilice» (ACapSP, Censuali, 3, c. 124r). Qui si coglie la sferzante ironia di chi compilò il censuale, tanto nei confronti del futuro iusticiarius di Napoli Ludovico di Antonio Caracciolo (†1423), quanto verso lo stesso papa Tomacelli, suo conterraneo, reo di non averne osteggiato la prepotenza. Nel 1405 le case occupate erano 12 (11 delle quali in Borgo), nel 1422 il numero sale a 15 (più equamente distribuite nei vari rioni). Giungendo alla metà del secolo il fenomeno sembra in regresso, e si ricordano ormai solo 6 occupazioni. 14 Il diario romano di Antonio di Pietro dello Schiavo dal 19 ottobre 1404 al 25 settembre 1417, a cura di F. Isoldi, Città di Castello 1917 (RIS2, 24/5), p. 89. 225

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La situazione non deve esser migliorata di molto nei venti anni successivi, se ancora nel 1437 il cardinal legato Giovanni Vitelleschi, appena eletto, si prese premura di intervenire per favorire il ripopolamento del rione, promulgando una serie di esenzioni fiscali e di amnistie in favore di quanti vi si fossero stabiliti 15. I dati restituitici dai censuali per questi anni, vanno allora considerati nel quadro del particolare e specifico contesto storico. Considerando, lungo il periodo preso in esame, il numero delle sole case produttive, come rappresentato nel Grafico 1, si osserva un andamento sensibilmente diverso, che riflette assai più fedelmente la realtà economica dei fatti.

Grafico 1 – Numero di beni posseduti, di case possedute e di case economicamente produttive

Appare evidente come, per quanto attiene le annate dal 1405 al 1448, il dato relativo al numero complessivo dei beni e delle sole case possedute si discosti inverosimilmente verso l’alto rispetto a quello delle case effettivamente 15

Eletto cardinale il 9 agosto 1437, il Vitelleschi emanò immediatamente le sue concessioni, tese a favorire il ripopolamento dell’area. Promise a quanti si fossero trasferiti a vivere in Borgo un’esenzione fiscale di 25 anni a fronte di ogni forma di tassazione imposta dalla Camera Urbis, oltre a 10 anni di immunità per ogni genere di crimine commesso, tranne l’omicidio e la sedizione contro la Chiesa. I provvedimenti del Vitelleschi vennero ratificati da Eugenio IV il successivo 21 di agosto; cfr. BV, II, pp. 92-94. 226

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messe a profitto. Ciò proprio a causa della struttura formale dei censuali dell’epoca, che è fondata sulla riproposizione pedissequa di tutte le voci presenti sul registro precedente. Solo a partire dalla metà del secolo si preferì invece, più ragionevolmente, sfrondare i registri dalle voci ormai inutili, così da renderli più funzionali alle esigenze amministrative del Capitolo. Da qui in avanti si osserva così una migliore corrispondenza fra le tre serie numeriche. Per noi il dato da tenere in considerazione sarà allora quello delle case che producevano rendita: fra il 1405 e il 1422 il loro numero è in calo, principalmente per la rovina apportata dai ricordati eventi bellici nel rione Borgo, ove la concentrazione di case del Capitolo era sino ad allora maggiore16. Al termine di questa crisi il numero di case produttive regredisce agli stessi livelli che si osservavano alla metà del Trecento. In seguito la situazione mostra segni di ripresa (non è dato però sapere se e in qual misura dipendenti dalla non dimostrata efficacia del decreto del Vitelleschi per il ripopolamento dell’area), con un incremento del numero di case messe a profitto. A partire dalla metà del secolo si osserva al contrario una nuova, lunga e progressiva contrazione del numero degli immobili, fin verso la fine del pontificato di Innocenzo VIII, cui seguì, per concludere, una nuova ripresa. Per quel che riguarda la seconda metà del secolo la riduzione del numero degli immobili di San Pietro è un dato reale. Essa dipende dall’alienazione di quasi 40 case compiuta nel biennio 1448-49 (cui farò accenno più avanti), ma anche dal fatto che non poche modeste abitazioni, anche in questo caso per lo più nel rione di Borgo, vennero cedute in enfiteusi a membri del collegio cardinalizio e della Curia, dai quali furono abbattute per consentire l’edificazione di palazzi di pregio, più consoni al loro status e idonee ad ospitare le loro sempre più nutrite familiae. Questo fenomeno si intensificò nell’ultimo quarto del secolo, in conseguenza delle disposizioni in materia edilizia emanate da Sisto IV. Il papa, essendo interessato ad indirizzare gli investimenti dei cardinali verso il settore immobiliare, a vantaggio di quel decoro urbanistico che con le sole casse pontificie egli non era in grado di promuovere, pose i loro beni immobili al di fuori del cosiddetto “diritto di spoglio”. Tale prerogativa consisteva nella facoltà, allora goduta dalla Camera Apostolica, di incamerare, alla morte di un chierico, tutti i beni che questi aveva conseguito con ricorso ai frutti delle sue prebende, ove egli non ne 16

Cfr. A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età moderna, Roma 1998 (RR inedita, 16 saggi), p. 278. 227

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avesse espressamente disposto per testamento 17. Poiché la facoltà di testare era vincolata all’espresso consenso del pontefice, una larga parte dei beni di cardinali e prelati della Curia romana tornava alla Camera Apostolica alla morte dei legittimi possessori. Molti di loro, posti finalmente nella condizione di poter lasciare ai propri congiunti e familiari il frutto di eventuali investimenti immobiliari, colsero al volo l’occasione, iniziando ad approfittare delle nuove norme 18. Acquisirono e riadattarono stabili di pregio già esistenti, o costruirono ex novo su terreni ottenuti in enfiteusi o in affitto a lunghissimo termine (non pochi dei quali appartenenti a San Pietro)19. In misura inferiore a quanto avvenne in Borgo il fenomeno dell’accorpamento di vecchie case in nuovi e migliori edifici interessò anche altri rioni, Ponte su tutti 20, e una diversa categoria di concessionari, che in questo caso furono soprattutto quei mercatores Romanam Curiam sequentes (che avevano le proprie case e la sede delle proprie attività nell’area del Canale di Ponte, oggi Via del Banco di Santo Spirito). Mentre nel caso delle alienazioni si verificava una reale contrazione del patrimonio immobiliare, con gli accorpamenti edilizi non era la superficie dei suoli posseduti dalla Basilica a ridursi, ma solo il numero degli immobili che su tali terreni insistevano. All’atto pratico, come esito di questi interventi strutturali, il Capitolo si trovava a percepire rendita sulla medesima quantità di terreno, ma su un numero minore di unità immobiliari, ottenendo in questo modo il duplice vantaggio di riuscire ad imporre agli affittuari canoni più alti (per la migliorata qualità delle case e per una modalità di concessione più gradita agli affittuari stessi) e di semplificare gli aspetti pratici della gestione amministrativa, grazie alla riduzione del numero dei soggetti con cui bisognava intrattenere rapporti. 17

La Camera Apostolica aveva anche il diritto di amministrare e trarre rendita dai benefici ecclesiastici vacanti. Per un primo ragguaglio in materia vd. G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro fino ai nostri giorni, voll. I-CIII, Venezia 1841-1861: LXIX, pp. 3-19. 18 La concessione di Sisto IV giunse con lettere apostoliche del 1° gennaio 1475, edite in BR, V, pp. 211-212 (doc. VI). Una traduzione è in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, a cura di G. Simoncini, Roma 2004 (L’ambiente storico. Studi di storia urbana e del territorio, X-XI): II, pp. 264-267 (Appendice 1.07). 19 La concessione sistina, venne poi ribadita più volte anche in seguito, e venne abrogata solo all’inizio degli anni Venti del Cinquecento da Adriano VI. Tra l’altro lo stesso pontefice fiammingo tornò presto sui suoi passi, mosso dalle vibranti lamentele che la reintroduzione del diritto di spoglio sugli immobili aveva causato; cfr. P. Partner, Finanze ed urbanistica a Roma (1420-1623), in «Cheiron», 2 (1983), pp. 59-71: 66. 20 Qui il fenomeno proseguì più a lungo che altrove, e può dirsi esaurito solamente al principio del Cinquecento; cfr. Grafico 2. 228

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Col rarefarsi di questa serie di concessioni, per il progressivo esaurirsi degli spazi da riqualificare, la curva torna a salire perché sul dato complessivo viene a prevalere l’incidenza di un altro fenomeno, del tutto opposto, ossia il frazionamento e la sopraelevazione di altri immobili, teso a massimizzarne la redditività mediante la concessione, ad invariato valore dei fitti, di superfici abitative sempre più ridotte, ma più numerose. Si tratta di un fenomeno speculativo diffuso nei rioni a più alta densità insediativa, condotto dai proprietari di immobili ai danni degli ultimi forestieri giunti in città. Un secolo di trasformazioni Altro aspetto che è possibile osservare molto chiaramente lungo il periodo osservato, a dispetto di quanto non sembrino dire i numeri complessivi fin qui presi in considerazione, è una sorta di ideale migrazione del patrimonio immobiliare del Capitolo nel suo complesso, apparentemente avviatasi e per certo compiutasi lungo la prima metà del secolo.

Grafico 2 – Numero di case produttive del Capitolo di San Pietro nei rioni più rappresentativi

Il crollo del numero delle case produttive nel rione Borgo, mostrato nel Grafico 2, è talmente marcato da non aver bisogno di particolari commenti. Intorno alla metà del secolo il lotto delle case in Ponte, settore urbano 229

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cui già da tempo il Capitolo prestava particolare attenzione ed interesse, supera per numero quello delle case in Borgo. In seguito, il rione Ponte manterrà a lungo questa sorta di centralità negli interessi del Capitolo. Borgo, dal canto suo, conserverà una propria importanza, tuttavia, fino alla piena Età moderna, il patrimonio del Capitolo non tornerà più a esser concentrato principalmente intorno alla Basilica petrina, come’era stato invece nel pieno Medioevo 21. I modi del cambiamento Il patrimonio capitolare è dunque, in questa fase, in sostanziale trasformazione. Dalla documentazione superstite è possibile cogliere i modi in cui tale processo veniva a compiersi. Il principale canale di implementazione del patrimonio continua ad essere per i canonici quello dei lasciti e delle donazioni, effettuati il più delle volte da esponenti dei ceti più agiati della città e da membri del clero stesso della Basilica, ma anche da persone di condizione socioeconomica non particolarmente significativa. Lungo il periodo considerato se ne contano in tutto 54, che portarono a San Pietro non meno di 80, fra intere case e frazioni di immobili. Libere elargizioni di questo genere – tanto che fossero dettate da devozione o da gratitudine per favori ricevuti, quanto che fossero una forma di captatio benevolentiae nei riguardi del Capitolo – vanno però considerate sempre come iniziative individuali, che trascendevano la strategia amministrativa dei canonici, e che per questi ultimi costituivano solamente fortunate occasioni di cui approfittare. Caso per certi versi opposto è quello degli acquisti, che prevedono invece un deliberato atto di volontà da parte dell’acquirente. Fra il 1400 e il 1525 si ha memoria di appena 11 acquisti, solamente l’ultimo dei quali (del 1518) ebbe per oggetto 2 case in Borgo22. Nella maggioranza dei casi (7) i beni acquistati erano invece in Ponte: la loro dislocazione in quest’area nevralgica della città era di per sé sufficiente a motivarne l’acquisto. Negli altri 3 casi intervennero considerazioni di tipo diverso, come una particolare destinazione d’uso dell’immobile (esemplari in tal senso i casi di una porzione di casa ad uso di macello in Campitelli 23 e di un albergo in Parione 24); in un 21

Nei catasti seicenteschi del Capitolo si contano 133 case in Ponte e 168 in Borgo. Di questo acquisto si ha solo una memoria indiretta in ACapSP, Censuali, 28, c. 94v. 23 Instrumentum del 12 marzo 1407, conservato in originale in ACapSP, Caps. LVII, fasc. 207, doc. 3 e in copia ibidem, Privilegi e atti notarili, 6, cc. 229v-230v. 24 Instrumentum del 20 giugno 1441, conservato in copia in ACapSP, Privilegi e atti notarili, 15, cc. 13v-14v. 22

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ultimo caso il Capitolo acquistò parte di una casa perché già proprietario della porzione restante 25. Come già detto queste compravendite comportavano una scelta da parte dei canonici, ma va osservato che anche in questo caso il denaro per ottemperare agli acquisti proveniva il più delle volte da lasciti. Una terza via per la trasformazione del patrimonio capitolare, in realtà anch’essa poco praticata, era quella delle permute: se ne ricordano 12 in tutto fra il 1430 e il 1525, di cui ben 9 posteriori al 1491. Va rilevato come nella quasi totalità dei casi esse fossero sollecitate dalle controparti. Di conseguenza non riflettono gli interessi e le logiche economiche dei canonici, i quali avevano come unico interesse l’evidente vantaggiosità degli scambi, requisito imprescindibile per ottenere il rituale nullaosta. Ben più significativo è invece il peso che ebbe una quarta via di accrescimento dell’asse patrimoniale del Capitolo, ossia quella della acquisizione di interi piccoli patrimoni, appartenenti ad altri enti ecclesiastici, che venivano talvolta uniti o assoggettati alla Basilica26. È quanto avvenne ad esempio nel 1439 con il monastero di San Biagio della Pagnotta27, ormai privo di monaci e tenuto allora in commenda dal cardinale Giuliano Cesarini 28. La rinuncia alla commenda da parte del cardinale permise l’unione di San Biagio alla Basilica vaticana (di cui, detto per inciso, il Cesarini era arciprete). In virtù di tale unione il Capitolo ottenne, oltre alla tenuta della Valchetta29, a nord della città, una vigna, un mulino, ma soprattutto, per quanto qui interessa, due ampi orti urbani ed un lotto di ben 16 case, quasi tutte vicine alla chiesa di San Biagio, in Ponte. Fra le altre unioni avvenute in questo lungo secolo 30 25 Acquisto ottemperato nel 1479 e ricordato nel Liber Anniversariorum; cfr. ACapSP, mss. H 57, f. 175v. 26 Riguardo al tema delle soggezioni e delle unioni di chiese a Roma ed altrove alla Basilica vaticana vd. M. Stocchi, Il Capitolo vaticano e le “ecclesiae subiectae” nel Medioevo. I cataloghi dei secoli XIII-XIV, Città del Vaticano 2010 (Quaderno d’archivio, 1) e Id., La Basilica Vaticana e le sue chiese tra Medioevo ed Età Moderna, vol. 1, Umbria, Città del Vaticano 2013 (Quaderno d’archivio, 8). 27 Unione sancita con lettere apostoliche del 21 ottobre 1439, conservate in ACapSP, Caps. XXVII, fasc. 116, doc. 6 ed edite in BV, II, p. 97. 28 Figlio di Andreuzzo Cesarini de’ Montanari e di Paolotia di Lorenzo Rustici, Giuliano fu dottore in utroque e insegnò diritto canonico a Padova. Prima di assurgere al cardinalato e divenire arciprete della Basilica vaticana (1438-†1444) ne fu un semplice canonico (ante 1423-1432). Per un suo profilo biografico vd. A.A. Strnad, K. Walsh, Cesarini, Giuliano, in DBI, 24, Roma 1980, pp. 188-195. 29 La tenuta entrò in realtà nelle disponibilità dei canonici soltanto nel 1447; cfr. ACapSP, Caps. XXXVIII, fasc. 327, doc. 4. Fino a quella data la sua rendita servì a finanziare lo Studium Urbis. 30 Sorvolo sulle unioni alla Basilica delle chiese romane di S. Maria de’ Vergari (1448) e di S. Vincenzo (1449) e su quella del monastero femminile di S. Paolo a Poggio Nativo

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la più significativa, da un punto di vista patrimoniale, fu senza dubbio quella del monastero femminile di Santa Caterina delle Cavallerotte 31, in Borgo, col suo patrimonio di circa 20 case ed una ampia area ad uso di fornace lungo l’asse della futura Via Alessandrina (corrispondente grossomodo al fianco settentrionale di Via della Conciliazione), che andarono ad accrescere ancor più il novero dei beni capitolari. Per incontrare ancora unioni rilevanti dal punto di vista patrimoniale bisogna poi giungere al 1516, quando venne unita alla Basilica la chiesa di San Macuto, nel rione Colonna, con le sue 8 case 32. Quanto ai modi di acquisizione di beni da parte del Capitolo resta da menzionarne uno soltanto, che nella strategia amministrativa del Capitolo di primo Cinquecento rappresenta un forte elemento di novità, unico indizio di una progettualità attiva e decisa da parte dei canonici, fino ad allora, al contrario, piuttosto passivi di fronte alle opportunità offerte loro da un mercato immobiliare urbano ormai già ben avviato. Una passività dettata forse da un relativo disinteresse (vista invece la grande attenzione e il gran dispendio di risorse palesati dal Capitolo nella gestione dei propri affari nella Campagna romana 33), ma probabilmente figlia anche di una relativa inefficienza gestionale (dipendente a sua volta dalla vastità del patrimonio e dalla rapidità con cui gli amministratori pro tempore decadevano dalle loro cariche) e, soprattutto, di una cronica penuria di denaro liquido da investire nel settore della rendita immobiliare. La nuova strategia dei canonici fu quella di lottizzare e concedere ad construendum, in enfiteusi perpetua o plurigenerazionale, ampi appezzamenti di terreno, contigui gli uni agli altri, inedificati perché ancora alla fine del Quattrocento tenuti a vigna o ad orto, e situati in ben precise aree della città (ancora in Borgo e Ponte, ma anche nel rione Regola) ove la tensione immobiliare era tale da giustificare notevoli esborsi da parte dei concessionari per l’edificazione di un gran numero di nuove costruzioni (spesa che le casse del Capitolo non sarebbero mai state in grado di sostenere), e ove la domanda di alloggi evidentemente era tanto sostenuta da (1463), nonché sugli enti ecclesiastici posti da Giulio II a dotazione della cappella musicale da lui istituita nel 1512 in San Pietro, ossia il monastero di San Giovanni degli Spinelli, la chiesa di S. Michele in Palatiolo (poi Ss. Michele e Magno) e il priorato di S. Paolo extra muros di Albano, la cui unione venne poi cassata da Leone X nel 1521 (riguardo a quest’ultima vd. Gauvain, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano, pp. 85 e 146-147). 31 Unione sancita con lettere apostoliche del 3 gennaio 1469, conservate in ACapSP, Caps. XXVIII, fasc. 109, doc. 9 ed edite in BV, II, p. 192. 32 Unione sancita con lettere apostoliche del 24 novembre 1516, conservate in ACapSP, Caps. XXIX, fasc. 117, doc. 2 ed edite in BV, II, pp. 364-366. 33 Cfr. Gauvain, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano, pp. 75-84. 232

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far sì che l’improvvisa disponibilità di tante nuove case non avrebbe comportato ripercussioni negative sul valore degli affitti degli immobili che il Capitolo già vi possedeva. I primi esperimenti in tal senso vennero condotti nel 1502 in un’area vignata oggi ricadente entro le mura del Vaticano, a sud della Basilica di San Pietro. Si conservano tre distinte concessioni, operate fra il mese di marzo e quello di luglio di quell’anno non già dai camerlenghi del Capitolo, ma per iniziativa del giovane e intraprendente canonico Aurelio Mattuzzi 34, al quale come camerlengo dell’Ufficio delle Vigne spettava la competenza di gestire questa categoria di proprietà. L’esperimento venne replicato l’anno successivo, sempre in Borgo, ma lungo Via Alessandrina, questa volta per iniziativa dei camerlenghi del Capitolo, con due nuove concessioni operate secondo la stessa modalità 35. Rivalutazione dei suoli: il caso di Via Giulia A distanza di pochi anni il duplice esperimento di Borgo trovò più compiuta e sistematica applicazione in Ponte e Regola, favorito da due ben chiare circostanze. La prima è il fatto che il Capitolo era qui proprietario di tre importanti orti intramurari, ossia i due già ricordati di San Biagio della Pagnotta e uno di Santa Caterina della Rota, altra chiesa soggetta alla Basilica. La seconda fu, nel 1508, l’apertura di Via Giulia 36. Inizialmente la dispendiosa iniziativa urbanistica di Giulio II fu percepita dai canonici come un grave danno arrecato al loro patrimonio, perché comportò l’esproprio di una parte dei loro terreni ortivi. I lavori per la nuova strada, al pari di quelli concomitanti per la costruzione del Palazzo dei Tribunali, poi rimasto incompiuto, mandarono effettivamente in completa rovina il maggiore dei due orti di San Biagio, che si trovò invaso dai detriti, del tutto improduttivo e di conseguenza fuori mercato, perché nessuno 34

Figlio di Pietro Giovanni e di Isabella Borgia (figlia naturale, a sua volta, di Alessandro VI), nato a Roma nel 1482 e ivi morto nel 1506, Aurelio ottenne il canonicato in San Pietro, ancora tredicenne, nel 1495, mantenendolo fino al precoce trapasso, avvenuto nel 1506, quando aveva solo 24 anni. Brevi notizie sul suo conto sono in M. Menotti, Documenti inediti sulla famiglia e la corte di Alessandro VI, Roma 1917, p. 6. 35 Prima del Sacco in queste due parti del rione Borgo si avranno ancora altre 3 concessioni a costruire, apparentemente non inserite, però, nell’ambito di un programma unitario. 36 La bibliografia sull’ambizioso programma urbanistico fondato sulla nuova via è ampia. Al riguardo mi limito a rinviare a L. Salerno, L. Spezzaferro, M. Tafuri, Via Giulia. Una utopia urbanistica del ‘500, Roma 1973. 233

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era più disposto a prenderlo in conduzione 37. A ben vedere, tuttavia, per i canonici di San Pietro l’apertura della nuova arteria costituì invece una formidabile opportunità economica. La possibilità di modificare la destinazione d’uso del suolo, con l’abbandono della coltura ortiva in favore di un’edilizia residenziale e commerciale, contribuì a portare nuova linfa alle esauste casse del Capitolo, peraltro senza la necessità di investire grosse somme di denaro, di cui i canonici, a dispetto della vastità del loro patrimonio fondiario ed immobiliare, non avevano mai grande disponibilità. Certo, ciò comportò un sacrificio dal punto di vista patrimoniale, poiché concedendo i terreni in enfiteusi plurigenerazionale o perpetua il Capitolo perdeva il dominio utile su di essi, mantenendone solamente quello diretto e rinunciando dunque alla loro piena proprietà. Tuttavia, già da vent’anni almeno questa forma di regime proprietario aveva iniziato a prendere pesantemente piede nella gestione delle case di San Pietro. Incapaci di far fronte alle spese manutentive dei loro immobili i canonici, ove possibile, avevano chiesto ed ottenuto licenza di operare affitti a lunghissimo tempo o concessioni enfiteutiche, tali da garantire loro maggiori ricavi al momento della stipula, e da porre a carico degli affittuari o degli utilisti delle case gli oneri di miglioria e manutenzione. Essendo dunque simile, nelle forme giuridiche, a modelli gestionali cui i canonici erano ormai ben avvezzi, un programma di concessioni ad construendum dell’area di Via Giulia non dovette vedere in seno al Capitolo una grande opposizione. Nei casi di enfiteusi plurigenerazionale, in fin dei conti, il Capitolo contava di poter tornare facilmente in piena proprietà della propria terra e delle case ivi costruite. Si trattava, è vero, di aspettare diversi decenni, ma questo può essere un problema per un individuo o per una famiglia, non certo per un’istituzione dalla vita plurisecolare com’era il Capitolo della Basilica vaticana. Una ragionevole speranza di appropriarsi delle nuove case di Via Giulia sussisteva poi anche nei casi di enfiteusi perpetua, poiché gli accordi prevedevano sempre la caducità delle concessioni in caso di reiterata omissione nel pagamento dei canoni enfiteutici annuali o di inottemperanza degli obblighi di costruzione, miglioria e manutenzione delle case da parte degli usufruttuari. Ove poi non fosse stato più possibile tornare in piena proprietà dei terreni così concessi, i canonici avrebbero continuato pur sempre a percepire ogni anno canoni per un ammontare di gran lunga maggiore di quelli un tempo garantiti loro dalla concessione degli orti di San Biagio e di quello di Santa Caterina. 37

Cfr. ACapSP, Case e vigne, 6, c. non numerata.

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Si conservano in originale o in copia ben 17 contratti di concessione a costruire nell’area fra la chiesa dei Fiorentini e quella di San Biagio della Pagnotta, ove si trovavano per l’appunto i due orti di San Biagio e altri appezzamenti di terreno ancora inedificati. Questi atti vennero tutti stipulati fra il 1511 e il 1517. Si ha poi notizia indiretta di altri 4 contratti dello stesso gruppo, oggi purtroppo irreperibili, ma databili grossomodo agli stessi anni. La regia – ma, a mio personale giudizio, la stessa ideazione – di un così vasto e rigoroso programma di ridefinizione della proprietà della Basilica in quest’area, va riconosciuta alla mente brillante di Fedra Inghirami, il quale fu canonico vaticano per 8 anni e mezzo (dai primi giorni del 1508 fino alla morte, che lo colse il 5 settembre del 1516)38. Dopo essere stato camerlengo dell’Ufficio degli Eccetti nel 1510, egli venne nominato Camerlengo maggiore nel 1514. Già prima di questa data egli ottenne soprattutto, ed è questo il punto che qui più ci interessa, l’incarico di provvedere a tutte le nuove concessioni, attività che egli non mancò di curare fin quasi alla morte39. La maggior parte dei terreni in Ponte concessi ad construendum per sua iniziativa si trovava fra Via Giulia e il Tevere, ma ve n’erano alcuni anche sul fronte opposto della strada. Dai contratti conosciamo le misure dei 14 lotti, che si sviluppavano su una superficie complessiva di circa 5870 metri quadrati. Fra i concessionari – cosa facilmente comprensibile, dato il particolare contesto spaziale in cui si trovavano i terreni – spicca la presenza dei fiorentini, primo fra tutti quel Leonardo Bartolini che morendo nel 1520, cedette a sua volta il proprio lotto a Raffaello Sanzio 40. Fiorentini erano anche Antonio da Sangallo il Giovane 41, Bindo di Salvatore Bindi 42, Raffaele di Vitale Lauro e Raffaele di Andrea de Ubertis. Accanto a loro 38

In seno al Capitolo vaticano l’umanista volterrano, intrattenne rapporti privilegiati con diversi canonici, a partire dal concittadino Mario Maffei. Fu amico, poi, di Camillo Porcari e di Evangelista Maddaleni Capodiferro. Sul suo conto vd. in primo luogo S. Benedetti, Inghirami, Tommaso, detto Fedra, in DBI, 62, Roma 2004, pp. 383-387. 39 In tutte le concessioni qui ricordate egli viene ricordato come «reverendus pater dominus Thomas Phedra, Basilice Principis Apostolorum de Urbe canonicus et ad infrascripta omnia et singula faciendum et peragendum per reverendos patres dominos ipsius Basilice canonicos et Capitulum commissarius specialiter deputatus». L’ultima concessione da lui curata venne stipulata il 12 giugno del 1516. Soltanto 9 giorni più tardi egli rivolse a suo nipote Paolo una lettera, ancora conservata, in cui comunica di essere malato di «morbus anniversarius» (così in Benedetti, Inghirami, p. 386). 40 Con instrumentum del 25 marzo 1520, conservato in ACapSP, Caps. LV, fasc. 362, doc. non numerato. 41 Con instrumentum del 6 febbraio 1516, conservato in originale in ACapSP, Caps. LIV, fasc. 197, doc. non numerato, e in copia ibidem, Privilegi e atti notarili, 7, cc. 238r-239r. 42 Con altro instrumentum del 6 febbraio 1516, conservato in originale in ACapSP, Caps. LIV, fasc. 197, doc. non numerato, e in copia ibidem, Privilegi e atti notarili, 6, cc. 235

Alexis Gauvain

si ricordano, fra i concessionari di lotti in Via Giulia, anche il romano Giuliano de’ Leni 43 e Caradosso Foppa, l’orefice milanese 44, oltre alla Società del Gonfalone, la cui sede si trovava nelle immediate vicinanze 45. Dalla concessione di questi terreni il Capitolo avrebbe percepito canoni per un ammontare complessivo superiore a 420 ducati di carlini l’anno; un’enormità, se si tiene conto del fatto che nel 1510, i contratti per la concessione dei due orti di San Biagio ne garantivano appena 36 46. Soltanto in cinque casi i contratti prevedono per la costruzione delle nuove case una soglia di investimento minimo da parte dei concessionari. Le cifre indicate oscillano fra i 200 e i 500 ducati, da spendersi entro 3 o 5 anni al massimo. L’Inghirami curò anche la lottizzazione e la concessione del suolo dell’orto di Santa Caterina, che si trovava lungo il tratto successivo di Via Giulia, nel rione Regola. Si trattava di una superficie meno estesa, per la quale sono conservati solo 3 contratti, rogati tutti in data 12 maggio 1515. Con essi l’Inghirami, a nome del Capitolo, concesse in enfiteusi perpetua circa 1060 metri quadrati di terreno, per canoni dall’ammontare complessivo di 53 ducati d’oro (quando l’orto di Santa Caterina, nel 1510, ne fruttava appena 16). Morto l’Inghirami (il 5 settembre 1516, come detto) il programma da lui diretto si avviò a conclusione, con la concessione degli ultimi lotti. Prima della fine del 1517 ne vennero assegnati 2 presso San Biagio (di 485 metri quadrati complessivi, capaci di apportare una rendita di 19 ducati di carlini), e altri 2 a Santa Caterina (450 metri quadrati di terreno o poco meno, che a loro volta fruttavano ai canonici quasi 30 ducati).

213v-215r. Su questo terreno, in capo a via Giulia, appena oltre la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, sorse in seguito il Collegio Bandinelli. 43 Con instrumentum del 7 gennaio 1514, conservato in originale in ACapSP, Caps. LV, fasc. 363, doc. non numerato, di cui due copie sono ibidem, Privilegi e atti notarili, 6, cc. 217v-218v e 7, cc. 240r-241v. 44 Con instrumentum del 26 febbraio 1516, conservato in ACapSP, Caps. LV, fasc. 362, doc. non numerato, con copie ibidem, Privilegi e atti notarili, 6, cc. 199v-201v e 7, cc. 214r-216r. 45 Con instrumentum del 12 giugno 1516, conservato in ACapSP, Caps. LIV, fasc. 197, doc. non numerato, con copie ibidem, Privilegi e atti notarili, 6, cc. 218v-220r e 7, cc. 236v-239r. 46 Cfr. ACapSP, Censuali, 24, c. 81v. In realtà, a questa data, buona parte dei locatari rifiutava di pagare quanto stabilito nei contratti, proprio per la sopraggiunta rovina degli orti. Nel 1510 i canonici dovettero accontentarsi di 4 ducati di carlini; cfr. ibidem, c. 82r. 236

Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo

La rendita: evoluzione complessiva Quello dei terreni nell’area di Via Giulia è solo un caso esemplare di incremento della rendita su fondi specifici. Quanto invece ad una valutazione dell’andamento complessivo della rendita prodotta dal patrimonio immobiliare di San Pietro, per quanto ciò possa sembrare paradossale, le cose non sono così semplici, fondamentalmente per le problematiche connesse alla coesistenza, nella Roma dell’epoca, di più sistemi monetari differenti, e della mutevolezza del valore delle monete, sia nel confronto reciproco, sia nel rapporto con i loro stessi sottomultipli 47. Tali problematiche si fanno sentire soprattutto per quel che riguarda i dati relativi alla prima metà del Quattrocento, ma non cessano di esistere lungo tutto il periodo osservato. Ad ogni modo, tenuto debitamente conto di questi fattori di incertezza (e del conseguente grado di imprecisione che si ripercuote inevitabilmente nei conteggi), è pur sempre possibile tracciare una linea dell’evoluzione della rendita immobiliare urbana del Capitolo vaticano, a patto di uniformare tutti i valori ad un’unica moneta di conto, e non ad una reale: proprio per la loro natura di entità ideale, infatti, le monete di conto sono meno soggette alle variabili cui ho fatto cenno. Ho scelto così di uniformare le rendite di tutte le annate osservate, esprimendone sempre l’ammontare in fiorini romani correnti, di 47 soldi l’uno48. Tale scelta è del resto la sola possibile. È questa, infatti, l’unica moneta di conto che sia stata utilizzata lungo l’intero periodo da me considerato 49. Si tenga conto, ad ogni modo, del fatto che l’unico scopo dell’operazione, nel contesto di queste pagine, è quello di consentire di tracciare una generica 47

Al riguardo vd. la sintesi delle problematiche e la bibliografia date da L. Palermo, I mercanti e la moneta a Roma nel primo Rinascimento, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di A. Esposito, L. Palermo, Roma 2005, pp. 243-281. Sulla monetazione in uso a Roma vd. anche i più recenti A.M. Stahl, Rome during Avignon. The silver coinage of Rome in the fourteenth century, in I ritrovamenti monetali e i processi inflattivi nel mondo antico e medievale, Atti del IV Congresso internazionale di numismatica e di storia monetaria, Padova 12-13 ottobre 2007, a cura di M. Asolati, G. Gorini, Padova 2008, pp. 151-169; I. Ait, Cudi facere in dicta seccha nisi ducatos romanos. Prime considerazioni sulla monetazione a Roma durante i pontificati di Martino V ed Eugenio IV, in «Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica», 57 (2011), pp. 157-172. 48 Si tratta di una moneta di conto, non coniata. Poiché per lunghissimo tempo (13231370) il fiorino d’oro venne cambiato stabilmente a 47 soldi d’argento, nel momento in cui variarono bruscamente i reciproci rapporti di valore fra i due metalli invalse l’uso, a fini contabili, di mantenere il tasso di cambio tradizionale (cfr. L. Palermo, Il mercato romano nel carteggio di Francesco Datini, 1377-1409, Roma 2020, pp. 166-180). 49 Sarebbe stato anacronistico, invece, ricorrere a ducati correnti o ducati di carlini, monete scritturali adottate nella contabilità capitolare solamente dagli anni ‘70 del Quattrocento. 237

Alexis Gauvain

linea dell’andamento della rendita altrimenti non facile a rappresentarsi. Va da sé, di conseguenza, che il dato presentato va considerato come puramente indicativo 50.

Rendita complessiva

1350

1405

1422

1448

1462

1478

1493

1503

1510

1525

584

1769

1507

2842

2668

3666

5228

6407

6992 10332

Tab. 2 – Valori della rendita immobiliare complessiva del Capitolo di San Pietro (dati in fiorini romani correnti)

I dati della Tabella 2, così come il Grafico 3 da essa generato, mostrano con efficacia le proporzioni di un incremento della rendita che sul lungo periodo fu davvero considerevole. La crescita, in principio più incerta, si fece costante solo dai primi anni ‘60 del Quattrocento. All’inizio del periodo osservato essa appare triplicata rispetto ai livelli attestati per la metà Trecento, principalmente grazie al considerevole incremento del patrimonio immobiliare legato alle donazioni e ai lasciti di fine secolo. In seguito, in conseguenza della rovina e dell’abbandono delle case che il Capitolo aveva in Borgo, la rendita prodotta dal patrimonio immobiliare di San Pietro recede, toccando un punto di minimo al principio del pontificato di Martino V. La successiva fase di ripresa della rendita capitolare, che durò fin verso la metà del secolo, prese il via proprio grazie al provvidenziale mutamento delle condizioni generali della città, dovuto in primis al rientro stabile del papa e della Curia51 e ad una progressiva pacificazione interna, e in secondo luogo al conseguente e sempre più significativo incremento demografico, figlio per lo più di un flusso immigratorio continuo e sostenuto52. 50

Simili riflessioni hanno orientato in passato anche le scelte di Manuel Vaquero Piñeiro. Questi, nel delineare i caratteri del mercato immobiliare romano, ha evidenziato le difficoltà imposte dall’assenza di planimetrie, di indicatori certi sui livelli dei prezzi e del potere di acquisto dei salari e, per quel che qui interessa, di dati certi sul corso legale delle monete. Per ovviare a questi problemi anch’egli espresse i propri dati in fiorini romani correnti; cfr. M. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), Atti del convegno, Roma 2-5 marzo 1992, a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992, pp. 555-569. 51 Il ruolo dei pontefici e delle élites laiche e curiali nel favorire l’espansione della rendita immobiliare romana nel suo complesso è ben illustrato da L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 413-435. 52 Oltremodo ampia è la bibliografia sul tema della demografia romana, e controverse sono le cifre di un incremento che nel corso del Quattrocento fu indubbiamente macroscopico. Si ritiene che in questo arco di tempo la popolazione romana sia cresciuta almeno di tre 238

Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo

L’incremento della rendita immobiliare urbana del Capitolo subì un brusco arresto all’immediata vigilia del giubileo di metà secolo. In questo caso il fenomeno va ricondotto ad una deliberata operazione finanziaria attuata dai canonici vaticani, che decisero scientemente di sacrificare una quota della loro rendita urbana per incrementare quella fondiaria: si era presentata, infatti, l’occasione di acquistare la vastissima tenuta di San Pietro in Formis, al prezzo di 9000 ducati d’oro. Non disponendo di una simile liquidità, essi chiesero ed ottennero da parte di Niccolò V il nullaosta per operare alcune alienazioni, tanto in città, quanto altrove53. Fra il 1448 e il 1449, dunque, essi cedettero diversi beni, tra cui almeno 36 case romane54. Fra i beni extraurbani ceduti, invece, va ricordata una porzione del castrum di Attigliano. L’accordo, in particolare, prevedeva che il Capitolo, entro il termine di 7 anni, potesse esercitare un diritto di riacquisto, riscattandone così la proprietà, al prezzo di 2500 ducati d’oro. Proprio nel vano tentativo di raccogliere denaro sufficiente al riscatto di Attigliano, fra il 1453 e il 1454, i canonici vendettero almeno altre due case55. Altre alienazioni di immobili urbani si ebbero infine negli anni ‘60: due vennero venduti nel 1464 per permettere di sostenere la spesa della riparazione del campanile di San Pietro, lesionato da un fulmine56. Con la vendita di altre due case, nel 1467, venne raccolto il denaro necessario alla realizzazione del ciborio dell’altare maggiore della Basilica, opera affidata a Paolo Romano57. Appare piuttosto evidente come in questi decenni il patrimonio immobiliare urbano sia stato inteso dai canonici essenzialmente come una riserva di capitale immobilizzato. La redditività delle case, soprattutto per via del divieto di concedere beni ecclesiastici ultra triennium 58, non era proporzionata al loro valore di mercato. In determinate situazioni contingenti (come nei volte. Sul tema mi limito a rinviare ai diversi contributi contenuti in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998. 53 Cfr. lettere apostoliche di Niccolò V, conservate in ACapSP, Caps. XXXIII, fasc. 132, doc. 5 ed edite in BV, II, p. 129. 54 Nel censuale del 1448 si hanno puntuali riferimenti a tutte le alienazioni; cfr. ACapSP, Censuali, 5, cc. 301r-402v. 55 Cfr. BV, II, pp. 141 e 142-146. 56 Cfr. A. Gauvain, Mastro Meo, mastro Manno e la Stauroteca minore vaticana. Storie di orefici nella sagrestia di San Pietro fra XV e XVI secolo, Città del Vaticano 2012 (Quaderno d’archivio, 5), pp. 12-16 e la bibliografia ivi riportata. 57 L’opera è oggi conservata nella sede dell’Archivio storico generale della Fabbrica di San Pietro. Riguardo a queste due alienazioni vd. A. Gauvain, Note d’archivio sul ciborio quattrocentesco della Basilica vaticana, in Il ciborio degli apostoli, Città del Vaticano 2010 (Bollettino d’archivio, 15-16), pp. 34-38. 58 Cfr. supra, nt. 8. 239

Alexis Gauvain

casi appena menzionati) era dunque preferibile, ove il papa avesse concesso la necessaria licenza, rinunciare a una quota di rendita immobiliare, disinvestendo capitale da destinarsi a spese urgenti o a investimenti più redditizi.

Grafico 3 – Valori della rendita immobiliare complessiva del Capitolo di San Pietro (dati in fiorini romani correnti)

Le alienazioni, come detto, comportarono un regresso dei valori della rendita urbana, fino al termine del pontificato di Pio II. In seguito, invece, il dato torna a salire, inaugurando una terza fase di crescita, che si protrarrà fino al termine del periodo osservato. L’incremento della rendita crebbe soprattutto durante i pontificati di Paolo II, Sisto IV e Innocenzo VIII. Negli ultimi anni del Quattrocento, invece, la crescita tese vistosamente a rallentare, e ciò lascia ad intendere che ottenere ulteriori miglioramenti non fosse più facile come in passato, ossia che il patrimonio immobiliare del Capitolo fosse ormai giunto quasi al limite della propria capacità di resa. Per permettere una ripresa dei ritmi di crescita della loro rendita, ai canonici non sarebbe stato sufficiente ampliare il parco immobiliare del Capitolo, acquisendo nuove case. Ciò perché, a condizioni generali immutate, ogni nuovo investimento produce incrementi della rendita via via minori 59. Bisognava piuttosto modificare le caratteristiche del patrimonio, in modo da aumentare la naturale capacità del sistema di generare rendita. 59

In accordo con la cosiddetta legge dei rendimenti decrescenti, enunciata da David Ricardo nel suo trattato On the Principles of Political Economy and Taxation, del 1817. 240

Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo

I canonici vi riuscirono adottando forme contrattuali per loro più redditizie 60 e, in particolar modo, grazie all’iniziativa di lottizzazione di Via Giulia, che Leone X, interessato a promuovere lo sviluppo urbano lungo la nuova via voluta e creata dal suo predecessore, non mancò di favorire, prestando il proprio avallo alle concessioni enfiteutiche. La realizzazione della nuova via era stata l’occasione propizia per spezzare la “memoria giuridica dei luoghi” 61, modificandone finalmente la destinazione d’uso. In termini economici il prezzo da pagare, per i canonici, fu del tutto trascurabile: fu loro sufficiente, infatti, sacrificare la rendita di tre orti, un tempo degna di considerazione, nel suo confronto con quella immobiliare, ma ormai da quest’ultima ampliamente sorpassata e marginalizzata. Maggiore fu, col senno di poi, il danno patrimoniale arrecato loro dalla perdita della piena proprietà su quei suoli, perché, a lungo andare, molti dei lotti concessi finirono con l’essere affrancati dal diretto dominio del Capitolo di San Pietro, che perse così ogni suo diritto di proprietà su molti di essi. Della concretezza di questo rischio, però, prima del Sacco, dello stravolgimento dei cicli economici e dell’organico sviluppo della città, i canonici non potevano rendersi pienamente conto. Nella nuova gerarchia dei suoli determinata dall’inaugurazione di Via Giulia, la trasformazione della destinazione d’uso dei terreni, la loro lottizzazione e la loro concessione ad construendum, furono i fattori di un programma organico di revisione dei sistemi gestionali del Capitolo, che permise ai canonici di imprimere un’accelerazione alla crescita della loro rendita immobiliare urbana, sospingendola oltre la soglia dei 10000 fiorini correnti all’anno, su valori quasi doppi rispetto a quelli registrati al principio del pontificato di Alessandro VI, poco più di trent’anni prima.

L’opera è stata edita in lingua italiana in D. Ricardo, Opere, a cura di P.L. Porta, Torino 1986, vol. 1: Principi di economia politica e dell’imposta. 60 Sembra che a partire dal pontificato di Sisto IV sia divenuto più facile ottenere deroghe dal tradizionale divieto di concedere beni ecclesiastici ultra triennium. Il Capitolo profittò largamente dell’accondiscendenza mostrata dai pontefici in tal senso: al termine del ‘400 e sul principio del secolo successivo molte delle case di San Pietro vennero concesse in enfiteusi per due o tre generazioni. 61 Su questo concetto vd. M. Halbwachs, La mémoire collective, Paris 1950. Gli assetti contrattuali pregressi costituivano una sorta di vincolo per lo sfruttamento economico dei suoli, da cui sembra fosse particolarmente complicato derogare; cfr. Barbot, Per una storia economica della proprietà dissociata, p. 47. 241

Antonella Mazzon “Domus, orti et argasteria”. Il patrimonio immobiliare del convento di S. Agostino Rem […] quam possidemus non esse nostram nec in nostra potestate sed in potestate Ordinis et solum ad nostrum usum deputatam 1

Il complesso conventuale di S. Agostino, cui apparteneva anche la vicina chiesa parrocchiale di S. Trifone 2, si trova nella parte più a sud del quartiere Campomarzio, punto in cui converge con i rioni Ponte, Parione e S. Eustachio 3. 1

La citazione è tratta dalle disposizioni del generale Giuliano di Salem del 1447 edite in A. do Rosario, C. Alonso, Actas inéditas de diez Capitulos generales (1419-1460), in «Analecta Augustiniana», 42 (1979), pp. 5-133: 99. 2 Dalla seconda metà del XV secolo risulta consolidata una gestione stabile, continuata e unica della contabilità del convento di Sant’Agostino, con la sua chiesa, e della vicina chiesa parrocchiale di S. Trifone, come comprovano i registri contabili compilati e quotidianamente aggiornati dal frate sacrista – che annota le entrate e le uscite relative alla sacrestia – e dal frate procuratore, il quale provvede alle necessità generali del convento, cfr. A. Mazzon, La parrocchia di San Trifone del convento romano di Sant’Agostino, in Redde rationem. Contabilità parrocchiale tra medioevo e prima età moderna, a cura di A. Tilatti, R. Alloro, Verona 2017 (Quaderni di storia religiosa, 21), pp. 181-203. Sulla doppia intitolazione del complesso conventuale e sul suo uso indifferenziato da parte delle fonti si rinvia a Mazzon, La parrocchia di San Trifone del convento romano di Sant’Agostino, pp. 181-183; mentre sull’inserimento del convento eremitano nelle dinamiche cittadine si rinvia a Ead., Gli agostiniani conventuali nel ’400 a Roma. Sant’Agostino e i suoi dintorni, in Roma religiosa. Monasteri e città (secoli VI-XVI), a cura di G. Barone, U. Longo, in «Reti medievali», 19/1 (2018), pp. 473-500; http://www.rmojs.unina.it/ index.php/rm/article/view/5638 (12 marzo 2021). 3 Sul rione Parione cfr. Un pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484), Atti del Convegno (Roma 3-7 dicembre 1984), a cura di M. Miglio, F. Niutta, D. Quaglioni, C. Ranieri, Roma 1986 (Studi storici, 154-162), in particolare i saggi di A. Esposito, Il rione Parione durante il pontificato sistino: analisi di un’area campione, pp. 643-744 e D. Barbalarga, Il rione Parione durante il pontificato sistino: analisi di un’area campione. Gli 243

Antonella Mazzon

Nel corso del XV secolo tutta la zona che gravita lungo la via Recta, ovvero da piazza di Ponte alla chiesa di S. Agostino, conosce un forte incremento immobiliare 4 e commerciale grazie al programma di sviluppo e riqualificazione edilizia voluto da papa della Rovere, progetto «favorito anche dalla presenza in quella zona delle abitazioni degli Orsini, alleati di Sisto IV, e dal progressivo concentrarsi in quell’area dei ceti elevati legati al pontefice e alla curia che disponevano di capitali da investire nella costruzione di patrimoni immobiliari» 5. In questa parte della città non risiedono solo cardinali e alti funzionari della Curia pontificia, provenienti dai vari Stati italiani e stranieri 6, ma anche famiglie romane (nobili e non) 7 e i atteggiamenti devozionali: i testamenti, pp. 694-705. Sulla visione di insieme di questa zona si rinvia a A. Esch, Il quartiere romano di Lutero. Campo Marzio, il rione tra due conventi agostiniani, in Martin Lutero a Roma, a cura di M. Matheus, A. Nesselrath, M. Wallraff, Roma 2019 (I libri di Viella, 329), pp. 63-98, in particolare pp. 68-71. 4 Cfr. G. Curcio, I processi di trasformazione edilizia, in Un pontificato e una città, pp. 706732; Ead., «Nisi celeriter repareretur totaliter est ritura». Notazioni su struttura urbana e rinnovamento edilizio in Roma al tempo di Martino V, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431). Atti del Convegno (Roma 2-5 marzo 1992), a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992 (Nuovi Studi storici, 20), pp. 537-554. 5 Cfr. O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma 1997 (RR. Inedita, 14), pp. 69-70. 6 M.G. Aurigemma, Residenze cardinalizie tra inizio e fine del ’400, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, II, Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 117-136; S. Sperindei, Repertorio delle residenze cardinalizie, in ibidem, pp. 137-158. In particolare Giovanni de Montemirabili, che muore il 3 giugno 1479 (C. Eubel, Hierarchia Catholica Medii Aevi sive summorum pontificum … ab anno 1431 usque ad annum 1503, II, Monasterii 1914, p. 263), lascia all’altro convento agostiniano della città, ossia quello di S. Maria del Popolo, come legato per la cappella in cui verrà poi sepolto, «unam magnam domum novam, terrineam et solaratam cum salis, cameris, tinellis, turri, stabulo, cantina, orto et aliis officinis […] cui coheret ab uno latere rei et bona fratris Ieronimi Carissimi ordinis Sancti Augustini de Urbe, ab alio latere et ante sunt vie publice, retro sunt res et bona magistri Pauli Mactabuffi», cfr. Roma, Archivio della Curia Generalizia Agostiniana (d’ora in avanti AGA), S. Maria del Popolo, M 32, f. 2r. 7 Sulle famiglie aristocratiche «di “romanità” più o meno recente» presenti nella zona limitrofa al convento eremitano si rinvia a A. Esposito, “Li nobili huomini di Roma”. Strategie familiari tra città, curia e municipio, in Roma capitale (1447-1527), Atti del IV Convegno di Studio del Centro studi sulla civiltà del Tardo Medioevo (San Miniato 27-31 ottobre 1992), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, pp. 373-388; Ead., L’area di piazza Navona tra Medioevo e Rinascimento: istituzioni, famiglie, personalità, in Piazza Navona, ou place Navone, la plus belle & la plus grande». Du stade de Domitien à la place moderne, histoire d’une évolution urbaine, sous la direction de J.-F. Bernard, Rome 2014 (Collection de l’École française de Rome, 493), pp. 471-480, in particolare p. 472 (d’ora in poi citato come Esposito, Piazza Navona). 244

“Domus, orti et argasteria”. Il patrimonio immobiliare del convento di S. Agostino

forenses, ossia persone legate al mondo del commercio e della manovalanza artigianale provenienti per lo più dall’Italia settentrionale 8, attirate dallo sviluppo di una zona commerciale posta fra il Vaticano e la “città municipale”, in particolare due delle sue più importanti aree commerciali: piazza Navona e Campo dei Fiori 9. Un accrescimento che prosegue durante il XV secolo, e dal quale deriva un processo di razionalizzazione di quanto già costruito con la realizzazione di nuove strutture insediative e viarie anche con l’intervento degli enti religiosi 10. 8

Gli stranieri, in particolare mercanti, curiali e artigiani qualificati, si insediano nei rioni centrali della città e «quelli con maggiore potere d’acquisto e vincolati in qualche modo all’apparato politico ed economico cittadino, favorivano una continua domanda di abitazioni nelle strade e piazze dove più alta era la densità dei traffici commerciali, delle attività bancarie e delle funzioni di rappresentanza», cfr. D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento:la “Gabella dei Contratti”, in Roma, Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, 2, Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 3-28: 19-20. A. Esposito, La popolazione romana dalla fine del sec. XIV al Sacco: caratteri e forme di un’evoluzione demografica, in Popolazione e società a Roma dal Medioevo all’Età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 37-50; Ead., Pellegrini, stranieri, curiali ed ebrei, in Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 2001, pp. 213-240; Ead., Roma e i suoi abitanti, in Roma nel Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Roma-Bari 2001, pp. 3-47; M. Sanfilippo, Roma nel Rinascimento: una città di immigrati, in Le forme del testo e l’immaginario della metropoli, a cura di B. Bini, V. Viviani, Viterbo 2009, pp. 73-85. 9 A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età Moderna, Roma 1998; Ead., L’area di piazza Navona tra Medioevo e Rinascimento: usi sociali, mercantili e cerimoniali, in Piazza Navona, ou place Navone», pp. 481-504; Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, pp. 11, 13, 16. 10 Sulle dinamiche del mercato immobiliare romano, in particolare dalla seconda metà del XV alla prima metà del successivo, si rinvia in particolare a quanto scritto da M. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, in Alle origini della nuova Roma, pp. 555-569 e S. Passigli, Lo sviluppo dell’abitato intorno al Campus Agonis fra la fine del secolo XIVe l’inizio del XVI, in «Piazza Navona, ou place Navone», pp. 275-296: 288 nota 62; mentre per quanto riguarda le proprietà di istituti religiosi in età mediavale si veda A. Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro in Vaticano alla fine del XV secolo: primi risultati, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2004), pp. 49-76; S. Dionisi, Confraternite e rendita urbana: il S. Salvatore e il Gonfalone di Roma tra XV e primo XVI secolo, in «Città e storia», 1 (2006), pp. 19-33; Ead., Proprietà immobiliare e rendita urbana nella Roma del primo Rinascimento, in «Schifanoia. Notizie dell’Istituto di studi rinascimentali di Ferrara», 26-27 (2004), pp. 139-146; M. Vaquero Piñeiro, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de Santiago de los Españoles en Roma entre los siglos XV y XVII, Roma 1999 (Monografías de la Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma, 23); M. Vaquero Piñeiro, Propiedad y renta urbana en Roma entre la Edad Media y el Renacimiento, in Mercado inmobiliario y paisajes urbanos en el Occidente europeo. Siglos XI-XV, XXXIII Semana de Estudios Medievales, (Estella (Spagna), 17-21 julio 2006), Pamplona 2007, pp. 203-267. 245

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L’offerta immobiliare si amplia attraverso la moltiplicazione delle unità abitative ottenuta con il frazionamento di quelle preesistenti, che solo in parte possono essere ingrandite. Si realizzano altri edifici attraverso la sopraelevazione di quelli già esistenti e vengono date in locazione case bisognose di interventi di restauro e riparazioni lasciati in carico agli affittuari in cambio di locazioni di lunga durata con canoni più bassi e con contratti enfiteutici o ad vitam o a terza generazione pro reparatione 11. Verso la fine del XV secolo si rileva un incremento delle entrate legate alle locazioni che non è dovuto tanto ad un aumento dei canoni, quanto al maggior numero di inquilini presenti all’interno degli edifici che dunque venivano frazionati e probabilmente dati in subaffitto a forenses 12. Anche il convento eremitano si inserisce nel dinamico mercato immobiliare cittadino dando in locazione diversi suoi immobili. Le entrate costituite dai canoni di locazione, che aumentano grazie alla sempre maggiore domanda, ma soprattutto per una presenza più coerente e prolungata da parte del pontefice nell’Urbe e della curia pontificia, diventano una fonte indispensabile di sostentamento economico per il convento. La chiesa e il convento agostiniano risultano essere una sorte di crocevia tra le diverse nationes presenti in città. Dietro al convento sorge l’ospedale dei Portoghesi, e non molto lontano si trova l’ospedale teutonico di S. Maria dell’Anima, punto di riferimento imprescindibile per i tedeschi, molti dei quali gravitano come parrocchiani su S. Trifone 13. In prossimità della chiesa di S. Agostino, dalla parte del quartiere Ponte, a fianco della 11

Passigli (Lo sviluppo dell’abitato, pp. 288-292), individua tra gli interventi finalizzati all’“intensificazione” dell’abitato «la chiusura degli spazi aperti come portici e logge […] la divisione delle proprietà […] la costruzione e regolamentazione dell’uso di muri divisori fra due domus», cui va aggiunto quanto detto da Esposito, Piazza Navona, pp. 473-474 e in particolare in merito al contemporaneo «accorpamento di diverse unità abitative contigue da parte di singoli proprietari determinati a rendere più splendide e ampie le proprie abitazioni». 12 Una pratica questa che sembra essere ormai consolidata agli inizi del XVI secolo, come attestato nel censimento del 1517, cfr. Esposito, Piazza Navona, p. 473; A. Esposito, La parrocchia “agostiniana” di S. Trifone nella Roma di Leone X, in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen age», 93 (1981), pp. 495-523 [edito con aggiunte con il titolo La prima rilevazione parrocchiale cittadina: S. Trifone, anno 1517, in Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1995, pp. 43-74]. Riguardo le diverse provenienze e nazionalità dei forenses si rinvia ai diversi saggi di Anna Esposito, tra cui Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1995 con bibl. prec. e Roma e i suoi abitanti. 13 Sul ruolo di chiesa parrocchiale svolto da S. Trifone si rinvia Mazzon, La parrocchia di San Trifone del convento romano di Sant’Agostino. 246

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chiesa di S. Apollinare, sorge il palazzo del cardinale Estouteville 14, munifico protettore dell’Ordine, mentre appena più a sud del convento, a rinforzare un carattere prettamente francese, ci sono le due chiese di S. Ivo dei Bretoni e di S. Luigi dei Francesi 15. La chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, in prossimità di piazza Navona, è forse la più lontana topograficamente ma in linea d’aria si tratta di un paio di centinaia di metri. Nei pressi della fondazione eremitana gravita l’entourage del sopracitato cardinale rotomagense, come il suo segretario Stefano Goupillon 16, che nel 1475 abita lungo la via Retta; Robin Fortin, sacerdote e canonico di S. Maria Maggiore, che si stabilisce in due case con giardino nei pressi di S. Apollinare e così pure il nipote Jean, familiaris dello stesso cardinale. Lo stesso convento di S. Agostino loca degli immobili a Giovanni Battista Arcidiaconi, segretario dell’Estouteville, ma su questo torneremo più avanti 17. Infine, tra i diversi prelati che stabiliscono la loro residenza in questa zona e che sono partecipi in prima persona della vita religiosa del convento, va senz’altro ricordato Giovanni Arcimboldi, cardinale di Novara, il quale abita nel palazzo “alle Doy Torri”, nei pressi delle chiesa di S. Agostino e di S. Maria de Cellis e della Sapienza 18. 14

Esposito, Piazza Navona, p. 474 e nota 36. M.J. Gill, Guillaume d’Estouteville’s Italian Journey, in The Possessions of a Cardinal: Politics, Piety and Art, 1450-1700, ed. by M. Hollingsworth, C.M. Richardson, University Park Pannsylvania 2010, pp. 25-45: 36-37. Tra i francesi che risiedono in questa zona troviamo anche Jacques Bugnet, arcidiacono di Chartres, che farà ricostruire l’ospizio per i pellegrini francesi nell’ospedale di S. Giacomo Maggiore dei Lombardi nei pressi di Piazza Saponaria (ora piazza S. Luigi dei francesi). 16 Vescovo, dottore in legge, scrittore apostolico, notaio e abbreviatore, cfr. Eubel, Hierarchia Catholica, p. 227; B. Katterbach, Referendarii utriusque signaturae a Martino V ad Clementem IX, Città del Vaticano, 1931, 51, 53; T. Frenz, Die Kanzlei der Päpste der Hochrenaissance (1471-1527), Tübingen 1986 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom 63), nr. 2117. Nel 1474 acquista una casa nel rione Ponte, cfr. Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, p. 27. 17 Si veda infra il testo corrispondente alla nota 77. 18 F. Somaini, Un prelato lombardo del XV secolo. Il card. Giovanni Arcimboldi vescovo di Novara, arcivescovo di Milano, Roma 2003 (Italia Sacra, 73-75); A. Esposito, L’entourage del convento romano di S. Agostino (con l’edizione de «lo retracto de le candele per la candelora» del 1484), in «RR. Roma nel Rinascimento. Bibliografia e note», (2009), pp. 289-310: 296 nota 26. Il palazzo delle Due Torri verrà poi demolito nella prima metà del Cinquecento per poter realizzare l’ultimo tratto della Via Leonina (corrispondente all’attuale via della Scrofa), apertura viaria a cui si opponevano gli agostiniani che vi avevano una vigna e giardino, proprietà che venne tagliata in due con la creazione del passaggio stradale, cfr. O. Verdi, Edilizia e viabilità nell’area di piazza Navona in epoca rinascimentale, in «Piazza Navona, ou place Navone», pp. 505-525: 512. 15

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In prossimità del convento troviamo le abitazioni di importanti casate come i Tosti, che abitano verso S. Apollinare, e i Casali, con la contrada omonima che va verso S. Salvatore delle Coppelle. Si tratta di membri della nuova nobiltà municipale e di “nuove” famiglie legate al governo della città, ne sono ulteriori esempi l’avvocato concistoriale Giovanni Baroncelli e Paolo Casali – caporione, membro di una famiglia che mantiene stretti rapporti con il convento ed è legata alla cappella della Maddalena – e il protonotario Lorenzo Oddone Colonna19. Non mancano poi i legami con una delle famiglie più importanti di Roma: gli Orsini, soprattutto attraverso le sue donne e i loro legami con il terz’ordine femminile agostiniano 20. Nelle case attorno al convento vivono artigiani dalle più svariate specializzazioni e semplici manovali, le cui attività risultano in parte connesse alla vita quotidiana del convento stesso, passando in modo trasversale per differenti classi sociali (dalla lavandaia al barbiere del convento, dalle pinzoche alle cortigiane)21. S. Agostino, come altri enti religiosi 22 anch’essi gravitanti nei pressi di Piazza Navona23, possiede gran parte dei suoi immobili in zone limitrofe al suo 19

Per altri esempi di legami tra famiglie e ordine eremitano si veda ad esempio P. Savy, “Do ut des”? La famille Dal Verme et les Augustins du milieu du XIV e au milieu du XV e siècle, in «Rivista di storia della chiesa in Italia», 62/2 (2003), pp. 315-341. 20 A. Esposito, I gruppi bizzocali a Roma nel ’400 e le sorores de poenitentia agostiniane, in Santa Monica nell’Urbe dalla tarda antichità al Rinascimento. Storia, Agiografia, Arte. Atti del Convegno (Ostia Antica – Roma, 29-30 settembre 2010), a cura di M. Chiabò, M. Gargano, R. Ronzani, Roma 2011 (RR inedita, 49 saggi), pp. 157-188: 168-169. Nelle zone limitrofe al convento ci sono anche altre donne che vivono “santamente” come ad esempio le terziarie francescane in Parione, cfr. A. Esposito, Le donne dell’“Anima”. Ospizi e “case sante” per le mulieres theutonice di Roma (secc. XV-inizi XVI), in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer “detuschen Stiftung” in Rom, hrsg. M. Matheus, Berlin-New York 2010 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 121), pp. 249-278: 271-274. 21 Cfr. Esposito, Un’altra Roma; Ead., Roma e i suoi abitanti. 22 Per un confronto con i patrimoni immobiliari di altri enti religiosi romani, anche se precedenti cronologicamente, si rinvia ai due inventari editi da A. Esposito, Un inventario di beni in Roma dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia (a. 1322), in «Archivio della Società romana di storia patria», 99 (1976), pp. 71-115 e L’inventario delle case e delle vigne dell’ospedale dei SS. Quaranta Martiri di Trastevere (1351), in ibidem, 124 (2001), pp. 25-33 e ai saggi di É. Hubert - M. Vendittelli, Materiali per la storia dei patrimoni immobiliari urbani a Roma nel Medioevo. Due censuali di beni del secolo XIV, in «Archivio della Società romana di storia patria, 111 (1988) [ma 1989], pp. 75-160. Per il secolo XV si rinvia in particolare ai vari saggi di Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare; Id., La renta y las casas e Propiedad y renta urbana en Roma e a C. d’Avossa, Un inventario dei beni urbani del S. Spirito in Saxia del primo Cinquecento, in «RR. Roma nel Rinascimento. Bibliografia e note», 2013, pp. 321-376. 23 Per l’evoluzione e lo sviluppo immobiliare della zona gravitante intorno all’attuale piazza Navona da parte delle istituzioni religiose, specie straniere, ivi insediate (ricordiamo tra 248

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stesso convento. La maggior parte dei beni immobili di proprietà del convento risulta infatti distribuita tra i contigui rioni Ponte e Campo Marzio24. Si tratta in generale di proprietà acquisite soprattutto attraverso lasciti e donazioni. L’incremento patrimoniale non risulta essere legato al desiderio di realizzare «un’insula coerente di proprietà immobiliari» (come sembra fare il vicino ospedale teutonico di S. Maria dell’Anima) 25 ma sembra avvenire in modo più “naturale” attraverso i lasciti operati sia da membri dell’Ordine – oltre alla casa del generale Agostino Favaroni 26, nel corso del tempo si aggiungeranno quelle dei padri maestri Paolo Mattabuffi 27 e Battista Casali 28 e di altri frati – sia da semplici parrocchiani 29. tutte le chiese di S. Giacomo degli Spagnoli e di S. Luigi dei Francesi) si veda Passigli, Lo sviluppo dell’abitato, pp. 277 e ss. 24 Il convento di S. Agostino possiede un solo immobile al di là del fiume, nel “lontano” rione di Trastevere. Si tratta di una casa posta davanti alla basilica di S. Maria in Trastevere, «adpresso alla fontana» che entra a far parte del patrimonio del convento nel 1464 grazie ad un lascito disposto da fr. Antonio spagnolo. Lo stesso convento, a causa della posizione geografica di convergenza dei vari rioni, si ritrova collocato nei documenti in differenti rioni e così diverse sue proprietà ad esso adiacenti. Si veda ad esempio il caso della “domus G” che viene posta nel rione Ponte pur stando nei pressi dell’ospedale dei Portoghesi e secondo un’altra registrazione è dinnanzi al convento, e quindi doveva essere indicata come stante in Campomarzio. 25 Esposito, Piazza Navona, p. 473. 26 Il 5 maggio 1438 Agostino Favaroni, già generale dell’Ordine, vescovo di Nazareth, disponeva, stando nella sua abitazione fiorentina in populo Sancti Iachobi, una donazione a favore dell’agostiniano fr. Giovanni di Giacomo da Roma, del capitolo, convento e dei frati Sanctorum Trifi et Augustini de Roma, relativa ad una casa vicino S. Trifone, che gli era stata concessa dallo stesso convento in usufrutto sua vita natural durante. Si tratta probabilmente della stessa casa in cui abita la sorella Petruccia. AGA, S. Agostino, C 3, perg. B 8 (5 maggio 1438); ibidem, C 9, ff. 108v-110r; Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 102; A. Mazzon, La famiglia sutrina dei Fabaroni e la sua documentazione medievale, in Sutri nel medioevo. Aspetti e problemi delle vicende storiche, urbanistiche e territoriali (secoli X-XIV), a cura di M. Vendittelli, Roma 2008, pp. 279-290: p. 290 nr. 16. 27 Per le proprietà immobiliari di Paolo Mattabuffi e la loro suddivisione dopo la sua morte si rinvia in generale a A. Mazzon, «Ad tollendum discordiam inter monasteria». Riflessioni e brevi note sull’eremitano Paolo Mattabuffi, in Roma e il papato nel Medievo. Studi in onore di Massimo Miglio, I, Percezioni, scambi e pratiche, a cura di A. De Vincentiis, Roma 2012, pp. 439-447, Roma 2012 (Storia e Letteratura, Raccolta di studi e testi, 275), pp. 441-449, in particolare pp. 445-447 e 449. 28 Appendice 2, nr. 37. 29 A quanto risulta non tutte le disposizioni testamentarie a favore del convento andarono a buon fine. Pasqua, vedova del m. Giacomo Cartario del rione Ponte, nel marzo 1430 aveva destinato i suoi diritti dotali su alcune case del suo defunto marito poste nel rione Ponte «ultra pons S. Petri» e quelli pure dotali che aveva contro gli eredi del medesimo, oltre i suoi rimanenti beni mobili e immobili, alla chiesa e al convento di S. Agostino pro 249

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Secondo quanto già disposto nelle Costituzioni di Ratisbona del 1290 ogni singolo frate professava la povertà e non poteva avere dei beni personali 30. Qualora ne avesse avuti li doveva destinare al convento nel momento in cui faceva il suo ingresso nell’Ordine e in seguito ne disponevano il priore e la comunità conventuale. Tali proprietà potevano essere tenute a nome del convento e ad utilità esclusiva dell’intera comunità religiosa (ad esempio nel caso dei terreni e delle vigne per ottenere il sostentamento e l’autonomia degli stessi frati riguardo a cibo e vino) oppure potevano essere date in locazione. Tali beni potevano anche essere messi in vendita entro un anno dall’affiliazione del religioso al convento e con il ricavato venivano ad esempio i libri per chi ne aveva bisogno o altri beni di uso e bene comune 31. Lo stesso erano chiamati a fare anche gli oblati, anima sua e del defunto marito. Ma di questi lasciti non si è trovata traccia, forse gli altri eredi avevano avuto la meglio sui suoi diritti dotali, cfr. ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, perg. 44; AGA, S. Agostino, C 9, ff. 62v-63r; A. Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino e il più antico inventario dei suoi documenti (1431), in «Ricerche di storia sociale e religiosa», XL (2010), 77, pp. 15-64: p. 44 item 37; ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 81; O. Montenovesi, Le antiche chiese di S. Trifone in «Posterula» e di S. Agostino in Roma, in «Roma. Rivista di studi e di vita romana», 13/7 (1935), pp. 307-320: p. 314. 30 «Item diffinimus quod si inveniatur aliquis frater in ordine, qui habeat aliquas possessiones sicut domos, agros, vineas, oliveta aut oves vel boves, mandamus quod prior et conventus infra annum vendant et emant inde libros vel necessaria pro illo cuius sunt, vel convertantur in aliam utilitatem comunem ‹sic›, prout generali priori videbitur expedire» («Analecta Augustiniana», 2 (1907-1908), p. 292); cfr. F.A. Dal Pino, Scelte di povertà all’origine dei nuovi ordini religiosi dei secoli XIII-XIV, in La conversione alla povertà nell’Italia dei secoli XII-XIV. Atti del XXVII Convegno storico internazionale (Todi, 14-17 ottobre 1990), Spoleto 1991, (Atti dei Convegni dell’Accademia Tudertina e del Centro di studi sulla spiritualità medievale, n.s. 4) pp. 53-125. 31 Alessandro IV nel giugno del 1257 aveva concesso il privilegio agli agostiniani di possedere dei beni in comune (C. Alonso, Bullarium Ordinis Sancti Augustini. Regesta, I, 1256-1362, Roma 1997 (Fontes Historiae Ordinis Sancti Augustini. Tertia series, 1), p. 11 nr. 33); cfr. F.A. Mathes, The Poverty Movement and the Augustinian Hermits, in «Analecta Augustiniana», 31 (1968), pp. 5-154 e 32 (1969), pp. 5-116; B. Rano, Povertà, III. Agostiniani, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, Roma 1983, coll. 328-330; F.A. Dal Pino, Formazione degli Eremiti di Sant’Agostino e loro insediamenti nella Terraferma Veneta e a Venezia, in Gli Agostiniani a Venezia e la chiesa di S. Stefano. Atti della giornata di studio nel V centenario della dedicazione della chiesa di Santo Stefano (Venezia, 10 novembre 1995), Venezia 1997, pp. 27-85: 51-56. Per una visione generale si rinvia a L’economia dei conventi dei frati Minori e Predicatori fino alla metà del Trecento. Atti del XXXI Convegno internazionale (Assisi, 9-11 ottobre 2003), Spoleto 2004 (Atti dei convegni della Società internazionale di studi francescani e del Centro interuniversitario di studi francescani, nuova serie, 14); A. Rigon, Mendicant Orders and the Reality of Economic Life in Italy in the Middle Ages, in The Origin, Development, and Refinement 250

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anche se nel caso del convento romano la prima oblazione attestata risulta piuttosto tarda, siamo già infatti sul finire del XV secolo 32. Poteva capitare che durante la loro vita i frati ricevessero in eredità degli immobili (specie se appartenenti a famiglie di un certo livello socioeconomico) 33, e anche in questo caso essi andavano a confluire tra i possedimenti del convento di appartenenza 34. Alcuni frati sembrano però liberi di operare attivamente nel mercato immobiliare acquisendo dei beni a titolo personale come nel caso del fr. maestro Giacomo dell’Aquila (futuro generale dell’Ordine), che nel 1461 compra una casa «intus le Macella de Sancto Celso», che dopo la sua morte, avvenuta nel 1476, entrerà a far parte del patrimonio immobiliare del convento 35. of Medieval Religious Mendicancies, a cura di D. S. Prudlo, Leiden-Boston 2011, pp. 241275 e in particolare sulla documentazione contabile a A. Bartoli Langeli, G.P. Bustreo, I documenti di contenuto economico negli archivi conventuali dei Minori e dei Predicatori nel XIII e XIV secolo, in L’economia dei conventi, pp. 119-150 e G.P. Bustreo, Écrits conventuels, écrits urbains. La documentation des mendiants de Trévise aux XIV e et XV e siècles, in Économie et religion. L’expérience des ordres mediants (XIII e-XV e siècles), sous la direction de N. Bèriou, J. Chiffoleau, Lyon 2009 (Collection d’histoire et d’archéologie médiévales, 21), pp. 39-61 e poi della bibliografia relativa al concetto di povertà con rinvio a R. Lambertini, L’economia e la sua etica: la quaestio di Gregorio da Rimini su debito pubblico ed usura, atti del Convegno, Gregorio da Rimini. Filosofo, Rimini 2003, pp. 97-126 e Id., Pecunia, possessio, proprietas alle origini di Minori e Predicatori: osservazioni sul filo della terminologia, in L’economia dei conventi, pp. 5-42. 32 Si veda quanto accade a S. Gimignano dove i serviti e gli agostiniani ampliano il loro patrimonio immobiliare grazie agli oblati adulti che oltre a se stessi offrono anche i propri beni e immobili, cfr. A. Czortek, Frati e laici: dagli oblati al Terz’Ordine, in I Servi di Santa Maria tra intuizione carismatica e istituzionalizzazione (1245-1431). Atti del Convegno (Roma, 7-9 ottobre 2008), Roma 2009 (Studi Storici dell’Ordine dei Servi di Maria, LIX), pp. 417-455; Id., L’oblazione dei laici presso i frati eremiti di Sant’Agostino nei secoli XIII e XIV, in «Analecta Augustiniana», 65 (2002), pp. 7-40. 33 Francesca, vedova di Pasquale Peroni olim de Gonessa e ora del rione Ponte, nominava suoi eredi universali i frati, il capitolo e il convento e la stessa chiesa di S. Agostino cui lasciava tutti i suoi beni mobili e immobili. In particolare destinava una casa terrinea con tetto e porticale dinanzi, con tutte le sue pertinenze, posta nel rione Ponte, e confinante con una casa di S. Salvatore de Primicerio, con una casa di Paolo de Tostis e l’orto di Domenico Cole alias Carvale, davanti con la via pubblica, ma con l’obbligo che usufruttuario ne fosse sua vita natural durante il nipote fr. Girolamo, anch’egli agostiniano. Alla morte di fr. Girolamo la casa passerà ai frati, capitolo e convento di S. Agostino pro anima ipsius testatricis et suorum mortuorum, cfr. ASR, Agostiniani in S. Agostino, perg. 50 (30 gennaio 1434). 34 Nel capitolo generale di Grassae svoltosi nel 1335 viene stabilito «quod nullus frater nostri ordinis habens aliquam possessionem extra locum ordinis sibi ex testamento vel patrimonio derelicta vel empta in eadem possit stare continuo ultra triduum, alioquin penam apostasie incurrat…», cfr. «Analecta Augustiniana», 4 (1911-1912), p. 140. 35 Il possesso di questo immobile da parte del convento romano viene regolamentato durante il capitolo generale celebrato a Siena nell’aprile 1486, cfr. «Analecta Augustiniana», 251

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Anche i frati agostiniani, intesi come comunità conventuale, passano dunque dallo stato di pauperes a quello di gestori di proprietà consistenti e fruitori di rendite fondiarie, come un tempo era accaduto ai grandi ordini monastici, ma i nuovi ordini mendicanti vi riescono soprattutto grazie ai rapporti proficui e redditizi instaurati con la città. La città fornisce al convento e ai suoi “abitanti” non solo rendite e lasciti attraverso donazioni e testamenti, ma anche “uomini, mezzi e forme giuridiche”, ossia i notai, i procuratori e altre figure legate alla gestione della loro economia che risulta quindi essere decisamente «urbana» 36. Il patrimonio conventuale di S. Agostino si amplia e arricchisce – come fa notare Rosalba Di Meglio per l’omonimo convento napoletano 37 – anche grazie ai proventi legati alle celebrazioni liturgiche. I benefattori della chiesa e in particolare delle cappelle da loro stessi fondate lasciano, specie attraverso disposizioni testamentarie – delle rendite o meglio delle doti per continuare e proseguire nelle celebrazioni post mortem. Spesso queste doti sono costituite da case e altri beni fondiari dal cui affitto e rendita i frati avrebbero dovuto percepire gli introiti necessari al mantenimento e gestione di tale spazio sacro e “privato” all’interno della chiesa. Le donazioni compiute dai benefattori legittimano la privatizzazione di uno spazio “pubblico” garantendo così oltre alla celebrazione di messe e anniversari specifici per sé e la propria famiglia, anche un luogo di visibilità e prestigio per coloro che erano ancora in vita 38. Si tratta ad esempio della “domus h” che costituisce la dote per la cappella della famiglia Ricci e delle diverse case lasciate da Paolo Casali come dote per la cappella della Maddalena 39 (una di esse verrà venduta dai frati a Bartolomeo Roverella, 7 (1917-1918), p. 351. La casa inizialmente viene locata in modo discontinuo e per brevi periodi; tra i diversi affittuari, oltre a diversi macellai, troviamo anche donne di facili costumi come ricordato nell’atto capitolare del 1486 in cui la casa viene dichiarata antiqua et ruinosa e solitamente locata «pro quolibet mense meretricibus et aliquando macellariis ad (remittendum) bestias et aliquando vacat propterea eius difformitatem et vetustatem». 36 Cfr. Bustreo, Écrits conventuels, écrits urbains. 37 Cfr. R. Di Meglio, Ordes mendiants et économie urbaine à Naples entre Moyen Âge et époque moderne. L’exemple de Sant’Agostino, in Économie et religion. L’expérience des ordres mediants, pp. 591-636. 38 Sono questi i beni che vanno a formare il patrimonio legatario ossia legato alla celebrazione di messe, siano esse gregoriane (trenta messe celebrate nello spazio di un mese), settimanali o annuali cfr. D. Gobbi, Il patrimonio fondiario ed un inedito urbario del convento di San Marco a Trento (secoli XIII-XVI), in «Civis – Supplemento», 25 (2009), p. 8. 39 Le quattro case, tutte terrinee e con il tetto con le tegole, risultano poste due nel rione Ponte (la “domus DD” nella contrada Turris de lo Campo; la seconda nota come “Lo Maciello”, era posta in contrata Scorteclariorum ed identificabile come la “domus M”) e due nel rione Colonna (la casa detta “la Cerbinara”, posta nella contrada duarum turrium, 252

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cardinale di S. Clemente e già arcivescovo di Ravenna nel 1467 40); del lascito di Giacomo Rizzoni da Verona per una cappella in cui essere sepolto da dedicare al santo omonimo (1485-1486) 41 e dei numerosi lasciti operati da Maria Cenci, benefattrice e penitente “agostiniana” 42, a favore della cappella dei SS. Andrea e Stefano da lei fatta costruire nella chiesa parrocchiale di S. Trifone 43. corrispondente alla “domus Y”, e la casa “V”, posta nella contrada Montis Granantorum) e il loro valore complessivo ammontava a 1000 fiorini. 40 Per un profilo completo sul Roverella si rinvia a P. Griguolo, Per la biografia del cardinale rodigino Bartolomeo Roverella (1406-1476): la famiglia, la laurea, la carriera ecclesiastica, il testamento, in «Atti e memorie dell’Accademia Galileiana di scienze, lettere ed arti in Padova già dei Ricovrati e Patavina», 115, 3 (2002-2003), pp. 133-170. 41 La casa era posta nei pressi di Monte Giordano e viene consegnata al convento dal curiale Mario Mellini, esecutore testamentario di Giacomo. 42 Cfr. Esposito, I gruppi bizzocali, pp. 168-169; Ead., L’agire delle donne romane nella trasmissione della memoria, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Âge», 127 (2015) consultabile on line http://journals.openedition.org/mefrm/2526 (consultato il 5 gennaio 2021). 43 Si trattava di due case poste nel rione Parione (di cui una iuxta Armarolos), una nel rione Colonna presso l’arco della Maddalena, una nel rione Pigna, nella parrocchia di S. Macuto presso la casa di Agostino Impicciati, e infine due nel rione Ponte, lungo la via Recta. Queste ultime due case era appartenute una ad Orsina Orsini e l’altra a Zaccaria da Teramo, noto compositore e cantore pontificio, per il quale si rinvia a A. Esposito, Maestro Zaccara da Teramo «scriptore et miniatore» di un antifonario per l’ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma, in «Recercare», 4 (1992), pp. 167-178; A. Ziino, Ancora su “magister Antonius dictus Zacharias de Teramo” e l’ospedale di Santo Spirito. Qualche ipotesi in più, in «Il Veltro», XLVI (2002), pp. 345- 350; Antonio Zacara da Teramo e il suo tempo, a cura di F. Zimei, Lucca 2005. Nel dicembre del 1439 la stessa Cenci donava «pro cultu divino observando et cultuando per infrascriptos fratres et (meritum) in prefata cappella» a frate Matteo Cole Paulutii de Introduco, rettore dei frati e del convento suddetto, e a frate Rodolfo di Giovanni da Città di Castello, priore di detto convento e dei frati, altre tre case e dei vigneti. Per l’acquisizione di questi immobili si rinvia a AGA, S. Agostino, C 6, pergg. E 29 e E 51; ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 17 (Inv. 1601), p. 286 (f. 168r) e b. 15 (Inv. 1691), nr. 2062 e 99. Cfr. ASR, Collegio dei Notai Capitolini (d’ora in poi citato come CNC), 1239 (not. Laurentius domini Pauli), f. 199r-v (8 gennaio 1459); A. Modigliani, “Li nobili huomini di Roma”: comportamenti economici e scelte professionali, in Roma capitale 1447-1527, pp. 345-372: 363. Una delle tre case è identificabile con la “domus E” (Appendice 2, nr. 61). Per le vigne si veda anche AGA, S. Agostino, C 6, perg. E 38; ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 17 (Inv. 1601), p. 311 e b. 15 (Inv. 1691), nr. 80; cfr. Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, pp. 58-59 nr. 107/XVI; Appendice 1, nr. 49. Maria non si limiterà a dotare “materialmente” la sua cappella attraverso l’elargizione di diversi beni immobili, ma provvederà anche alla realizzazione e fornitura dei paramenti liturgici, dei libri sacri e di tanti altri preziosi oggetti (ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 34, f. 59v). 253

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Gli inventari delle proprietà immobiliari e fondiarie (1431 e 1463 ca.) Le prime attestazioni del patrimonio immobiliare del convento eremitano nel suo complesso sono quelle conservate nel più antico inventario dei beni e delle proprietà immobiliari redatto tra il 1431 e il 1432 da fr. Cesario da Roma 44, in ottemperanza a quanto disposto nel Capitolo generale celebrato a Montpellier nel giugno 1430 45, in cui era stato stabilito che tutte le proprietà, immobiliari e non, pertinenti al convento dovevano essere segnate in un quaterno che andava poi custodito in communi deposito. Questo inventario viene redatto quando Martino V ha da poco fatto rientro su Roma e la città inizia a sentire i benefici della presenza stabile del pontefice. Questo porta ad un consolidamento del mercato dell’affitto, rinnovato con il succedersi degli anni giubilari e fortificato dai maggiori investimenti finalizzati al miglioramento degli immobili già presenti e alla costruzione di nuovi, in modo da poter rispondere ad una domanda sempre maggiore di abitazioni e locazioni in particolare da parte degli stranieri legati al mondo lavorativo curiale e artigianale, o semplicemente da parte dei pellegrini. Nel suddetto inventario il patrimonio è suddiviso in tre sezioni, la prima relativa a “domus, orti et argasteria”, le altre due dedicate rispettivamente ai vigneti e ai terreni 46. Il convento in quel momento possiede una ventina di case 47, alcune poste nei dintorni della chiesa e del convento agostiniano, diverse proprio «in contrata Sancti Triphonis» o «in regione Campi Martis in parrochia Sancti Triphonis» 48. Si tratta di immobili per 44

Per un profilo esaustivo su fr. Cesario Orsini, figlio del fu Alessandro de Ursinis de Rocca Alexandri (ramo secondario della potente famiglia baronale), si rinvia a Esposito, I gruppi, pp. 166-167, 176; Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone Sant’Agostino, pp. 26 nota 51, 54 nr. 91. 45 «Quatenus quilibet conventus in quaterno uno stabili habeat omnia bona sua mobilia et immobilia clare descripta, quod volumus in communi deposito custodiri», Rosario, Alonso, Actas inéditas, pp. 56-57 nr. 123. 46 ASR, Agostiniani in S. Agostino, registro 34. In generale sull’inventario si veda. Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, con l’edizione della parte relativa ai documenti conservati in archivio. La sezione relativa agli immobili e ai beni fondiari viene qui pubblicata nell’Appendice 1. Nell’inventario sono presenti integrazioni successive di mano di fr. Battista Casali, in particolare relativamente a delle vigne che erano state vendute, cfr. Appendice 1, nr. 26, 29 e 33, 48-49. 47 Sicuramente non si tratta di un patrimonio ampio come quello posseduto dall’ospedale di S. Spirito in Saxia per il quale si rinvia a d’Avossa, Un inventario dei beni urbani del S. Spirito. 48 Il nucleo originario e primigenio delle proprietà era costituito dagli immobili donati agli agostiniani di S. Maria del Popolo da Egidio Roffredi («quasdam domos tunc ad ipsum spectantes, infra parrochiam ecclesie Sancti Trifonis de Urbe sitas»), donazione per la quale si rinvia A. Mazzon, Note sulla famiglia romana dei Roffredi tra XIII e XIV secolo, 254

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lo più localizzabili nei centrali rioni di Campomarzio e Ponte, altre in Parione, e infine due poste nel rione Colonna. Tra queste si possono individuare le case lasciate al convento e ai frati di S. Agostino de Urbe da Mattia de Tostis, canonico della basilica di S. Pietro 49, poste nel rione Ponte 50, a fronte dell’impegno a celebrare una messa quattro volte la settimana (curia presente) o tre (curia vero absente), presso l’altare di S. Antonino nella chiesa di S. Apollinare (prope sacristiam), in suffragio dell’anima sua e dei suoi familiari sepolti tutti presso l’altare medesimo. Altre case risultano essere state lasciate al convento da frati stessi dell’Ordine, come nel caso del maestro agostiniano Egidio da in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma 2008 (Nuovi Studi Storici, 76), pp. 623-640. L’indicazione della parrocchia di S. Trifone come elemento topografico utile a individuare il bene immobile (cfr. Passigli, Lo sviluppo dell’abitato, p. 278 nota 10) verrà utilizzata anche nell’inventario compilato dal padre provinciale circa trent’anni dopo, relativamente ad un orto tenuto dall’agostiniano m. Paolo Mattabuffi «iuxta domum Sancte Marie de Populo, in parrocchia Sancti Triphonis» (Appendice 2, nr. 29) o di una casa «in parrocchia Sancti Triphonis» locata a Giovan Battista Arcidiaconi, segretario del cardinale d’Estouteville (ibidem, nr. 51), e in altre fonti come nel novembre del 1489 per indicare una casa – oggetto di un contratto di enfiteusi – posta nel rione di Campomarzio e segnalata «in contrada seu parrocchia Sancti Triphonis», cfr. AGA, S. Agostino, C 3, perg. B 64; ibidem, C 9, Registro di Istrumenti (1396-1524), ff. 21v-23r (21 novembre 1489). 49 ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, perg. 40 (21 giugno 1421); ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 17 (Inv. 1601), p. 294 (f. 172r) e b. 15 (Inv. 1691), nr. 71; Montenovesi, Le antiche chiese di S. Trifone in «Posterula» e di S. Agostino, pp. 312-313. Su Mattia de Tostis v. Il diario romano di Antonio di Pietro dello Schiavo dal 19 ottobre 1404 al 25 settembre 1417, ed. F. Isoldi, in R.I.S.2, 24/5, Città di Castello - Bologna 1916-1917, pp. 19, 33, 43, 53, 103; Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, p. 43 nota 30. Il suo anniversario è ancora celebrato nel 1775 secondo quanto registrato nello Stato degli Obblighi compilato in quell’anno dall’archivista Daniele Marcolini (AGA, S. Agostino, A 26, pp. 438-441, nr. 283) alla data del 21 giugno. 50 Egli disponeva a favore del convento anche il censo di un orto posto in prossimità della chiesa di S. Lucia delle Quattro Porte (ossia S. Lucia della Tinta) e dell’orto di Mattutio de la Riccia, che rendeva annualmente, nella festa della Resurrezione, 2 fiorini, 11 soldi e 9 denari; e i due terzi di una torre con orto, bene che egli teneva iuncto pro indiviso con Paolo Colutie Petri (Iannini) del rione Campitelli e che rendeva 2 fiorini l’anno. A questi beni andavano aggiunti il censo e proprietà di due pezze di terra fuori di porta del Popolo, che il giorno della Natività di Maria doveva rendere altri 2 fiorini. La seconda casa viene concessa in realtà alla sua servitrice Palma la quale potrà abitare vita natural durante in questa casa posta nella contrada de Turre de Nuno, nella quale in quel momento abita una donna di nome Romana. Dopo la morte di Palma la casa andrà a S. Agostino con le condizioni espresse per gli altri beni sopracitati. A Palma il canonico destina anche delle masserizie («mactaratium et cultrum et unum par linteaminum qui tenet in lecto suo in quo iacet»). Cfr. Appendice 1, nr. 9-13 e nr. 40. 255

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Roma, o da donne quali Giovanna, servitrix di Giacomo de Buccapassis, Beatrice da Milano e Caterina Scudelariii 51. Le vigne sono in tutto una quindicina52, di cui tre erano state lasciate al convento dal frate Giovanni Cesani, probabilmente al suo ingresso nell’Ordine 53. Altre tre, situate fuori porta Castello, erano state invece donate al convento da Francesco de Tostis, canonico della basilica di S. Pietro54, secondo quanto disposto nel suo testamento e rendevano annualmente al convento 2 fiorini e 5 libbre nel giorno della festa di s. Michele55. L’unica altra vigna per la quale il convento incassava del denaro era appartenuta al generale dell’Ordine Agostino Favaroni; posta fuori porta del Popolo rendeva al convento annualmente 4 ducati d’oro 56. Per tutte le altre vigne i fittavoli corrispondevano vino e mosto, naturalmente nel periodo della vendemmia, in differenti quantità (da una caballata a diversi barili). Nell’ultima sezione dell’inventario stilato da fr. Cesario risultano annoverate quasi esclusivamente le proprietà extra urbane del convento 57: 51

Rispettivamente in Appendice 1, nr. 1, 4-5 e 15. Si veda l’edizione della sezione dedicata alle vigne Appendice 1, nr. 21-35. 53 Appendice 1, nr. 21-23. 54 Cfr. R. Montel, Les chanoines de la basilique Saint-Pierre de Rome (fin XIIIe siècle – fin XVIe siècle), esquisse d’une enquête prosopographique, in I Canonici al servizio dello stato in Europa, a cura di H. Millet, Modena 1992, pp. 105-188, pp. 31-32; M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma 1891, p. 821; P. Egidi, I necrologi, i libri affini della provincia romana nel Medioevo, 2 voll., Roma 1904-1914, I, pp. 251-253, 255 e 324; A. Rehberg, Familien aus Rom und die Colonna auf dem kurialen Pfründemarkt (12781348/78), II, in «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», 78 (1998), pp. 1-22 e 79 (1999), pp. 99-214: 142; Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, p. 35. 55 ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, perg. 26, 27 agosto 1383; cfr. Montenovesi, Le antiche chiese di S. Trifone in «Posterula» e di S. Agostino, pp. 309-310; Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, p. 43 nr. 27. La prima di queste vigne, secondo quanto successivamente annotato da fr. Battista Casali, era stata venduta nel gennaio del 1466, durante il priorato del maestro Simone da Roma, cfr. Appendice 1, nr. 26-28. 56 M. Vaquero Piñeiro, Terra e rendita fondiaria a Roma all’inizio del XVI secolo, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di L. Palermo, A. Esposito, Roma 2005, pp. 283-316. 57 Appendice 1, nr. 36-50. I primi possedimenti fondiari sono da ricondurre ad una permuta avvenuta nell’ottobre del 1314 tra Egidio Roffredi e fr. Andrea di Angelo Corbini de Mercato, allora priore di S. Trifone, cfr. Appendice 1, nr. 44 e ASR, Agostiniani in S. Agostino, perg. 8 e ibidem, b. 17 (Inv. 1601), p. 293 (f. 177v) e b. 15 (Inv. 1691), nr. 12; Montenovesi, Le antiche chiese di S. Trifone in «Posterula» e di S. Agostino, p. 308; cfr. Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, pp. 52 e nr. 82, 55 nr. 98. 52

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Sacrofano, Trevignano, Riano 58, Stimigliano, Formello e Castello Novo, luoghi dai quali – grazie all’opera dei fattori – i frati ricevono parte dei cereali necessari al consumo interno del convento 59. Ai frati romani erano poi stati concessi dal generale Favaroni i beni pertinenti ai conventi di S. Nicola di Palo60, Stimigliano e Catino61. Mentre il padre provinciale fr. Martino da Roma, con il permesso del procuratore generale dell’Ordine Agostino da Bagnoregio, e su interessamento del cardinale Prospero Colonna, affidava 58

ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, perg. 1 (6 giugno 1189); cfr. Montenovesi, Le antiche chiese di S. Trifone in «Posterula» e di S. Agostino, p. 307; Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, p. 37 nr. 2. Nelle pertinenze di questa località doveva essere collocata la chiesa di S. Marina che era stata concessa alla chiesa romana da Clemente III «cum castellaro, silvis, terris et ceteris pertinentiis suis», nonché una serie di terre colte e incolte, cfr. Appendice 1, nr. 41 e 42 e Appendice 2, nr. 24; cfr. AGA, S. Agostino, C 6, perg. E 40 (10 dicembre 1430); ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 17 (Inv. 1601), p. 297 (f. 173v) e b. 15 (Inv. 1691), nr. 84 e 2078 (sub data 1420 dicembre 10). Per Riano medievale e i possedimenti del monastero di S. Paolo cfr. G. Tomassetti, La Campagna Romana antica, medioevale e moderna, nuova edizione a cura di L. Chiumenti, F. Bilancia, III, Firenze 1979, pp. 360-361. 59 ASR, b. 179, exitus, ff. 263r (31 maggio 1474), 260v (8 agosto 1474), 258r (31 agosto 1474; il grano viene trasportato utilizzando dei bufali da Ardea fino al ponte di S. Maria e poi con i cavalli per fin a casa), 179r (5 settembre 1477); b. 180, exitus, ff. 8r (dicembre 1481), 35v (21 novembre 1483; spese per il trasposto del grano via fiume) e b. 179, introitus, ff. 8r (31 agosto 1474), 60v (6 agosto 1480), 66v (18 aprile 1481). Durante il priorato di Simone da Roma erano stati prestati a Paolo de Iacovo Antonio de Perna, fattore dei frati a Castello Novo, ben 72 ducati (1464), notizie della restituzione rateale sono presenti dall’estate del 1466, cfr. ASR, b. 178, introitus, ff. 17r, 23v. Le terre di Castello Novo vengono poi locate a Gaspare degli Sanguigni, ASR, b. 180, exitus, f. 1r (4 maggio 1481). 60 Il convento era stato distrutto da Orso Orsini di Monte Rotondo, e Favaroni lo aveva concesso al convento romano perché potesse usufruire dei suoi frutti e riuscire a ripararlo, anche se la moglie dell’Orsini aveva promesso di costruirne un altro a Monte Rotondo, cfr. AGA, Registri dei Priori Generali, Dd 4 [d’ora in avanti citato come AGA, Dd 4], ff. 91v e 193v; edd. «Analecta Augustiniana», 7 (1917-1918), pp. 222 e 233; Appendice 1, nr. 46; L. Torelli, Secoli agostiniani: overo Historia generale del Sacro Ordine Eremitano del Gran Dottore di santa Chiesa S. Aurelio Agostino vescovo d’Hippona, divisa in 13 secoli, VI, Bologna 1680, p. 278 nr. 50 e p. 545 nr. 40; G. Silvestrelli, Città, castelli e terre della regione romana, II, Roma 1940, pp. 455-457. 61 AGA, Dd 5, f. 229r (22 marzo 1431); ed. in «Analecta Augustiniana», 7 (1917-1918), p. 235. I frati romani avrebbero potuto «recipere et possidere omnia bona dictorum conventuum usque ad rehedificationem eorumdem conventuum et inhabitationem per fratres nostros», ed. «Analecta Augustiniana», 5 (1913-1914), p. 422; cfr. Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, pp. 62 nr. 129, 63 nr. 130; Appendice 1, nr. 46. Per il convento di Stimigliano cfr. T. de Herrera, Alphabetum augustinianum, Matriti 1644 (ed. anast. a cura di F. Rojo Martinez, Roma 1990), II, p. 421; Torelli, Secoli agostiniani, pp. 278 nr. 50, 575-576 nr. 17; Silvestrelli, Città, castelli e terre, pp. 455-457. 257

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in commenda al priore e ai frati di S. Agostino il convento di Molara e i suoi beni 62. Nell’inventario il gettito non è indicato nella sua interezza, solamente per dodici domus su venti è segnalato quanto corrisposto dagli affittuari, e il totale ammonta a poco più di 42 fiorini, cui vanno sommati altri 7 ducati, che vengono incassati per la casa posta nei pressi di S. Ambrogio e per quella posta nella contrada della Torre di Campo affittata all’orefice Meo 63. A quest’ultimo era stato fatto un contratto triennale, da rinnovarsi alla fine di ogni ciclo, e, oltre ai 6 ducati da versare nel giorno della festa di s. Agostino, Meo doveva anche spendere nel primo triennio 4 fiorini l’anno «in melioramento ipsius domus» 64. In diversi casi l’indicazione del canone manca perché con molte probabilità l’inquilino non versava alcun affitto come nel caso della casa concessa ad vitam a Petruccia, sorella del generale dell’Ordine Agostino Favaroni 65 o quella concessa a Palma, servitrice del canonico Mattia Tosti che aveva donato tale immobile al convento riservandolo però vita natural durante alla suddetta Palma e dopo la sua morte sarebbe entrato a far parte del patrimonio conventuale 66. Mentre una casa posta nel rione Ponte, nella contrada della Torre del Campo, risulta libera ed esente da ogni «censu canonis et honere servitutis» 67. Del ritrovato interesse sia commerciale sia immobiliare relativo ai rioni centrali della città come Ponte e Parione, che porta ad una sempre maggiore richiesta di abitazioni e botteghe da parte delle più disparate figure nella 62

Appendice 1, nr. 47; cfr. Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone Sant’Agostino, p. 63 nr. 132-134. 63 Appendice 1 nr. 15 e 18. Per la domus presso S. Ambrogio che era stata donata al convento da Caterina Scudelarii, grazie alla mediazione di fr. Angelo da Arezzo, il censo da corrispondere era di un ducato e nell’inventario non viene però fornito alcun dato in merito al locatario. 64 Quello relativo all’affitto di Meo è l’unico caso in cui ricorre una specifica in merito al contratto stabilito tra il convento e l’affittuario. In nessuno dei due inventari risulta infatti indicata la durata del contratto di locazione. 65 Cfr. Mazzon, La famiglia sutrina dei Fabaroni; Ead., Tracce di una famiglia nella Tuscia medievale: i Favaroni di Sutri, in Famiglie nella Tuscia tardomdievale. Per una storia. XV e XVI Giornata di Studio per la storia della Tuscia (Orte, 14 dicembre 2008 e 18-19 dicembre 2009), a cura di A. Pontecorvi, A. Zuppante, Orte 2012, pp. 173-180; Passigli, Lo sviluppo dell’abitato, p. 281 nota 27; Appendice 1, nr. 7. 66 La casa situata dalla parte opposta del forno verso S. Andrea e occupata invece da Mattea e Elisabetta di Francia forse non pagava il censo perché le due donne erano delle pinzoche o comunque delle donne che vivevano sotto la protezione dei frati del convento (Appendice 1, nr. 5). 67 Appendice 1 nr. 16. 258

“Domus, orti et argasteria”. Il patrimonio immobiliare del convento di S. Agostino

seconda metà del XV secolo, ne trae comunque indirettamente beneficio anche il convento degli agostiniani. Nel secondo inventario preso in considerazione, ossia quello redatto intorno al 1463 dal magister Battista Casali allora agente nella veste di padre provinciale, le domus 68 sono diventate 34 69. Il convento conta quattordici stabili in Campomarzio, che risulta essere ancora la zona con il numero più alto di immobili, dieci in Ponte e un’altra decina in altri rioni centrali della città (tre in Parione, quattro in Colonna e infine una si trova nel rione Pigna, sul retro della Minerva). Il patrimonio del convento in trent’anni è aumentato di circa una dozzina di immobili e non tutti risultano perfettamente identificabili con quelli registrati nel 1431. Ma soprattutto registra un gettito sicuramente più significativo, relativamente alla rendita immobiliare, rispetto a quanto riportato nell’inventario del 1431. Si tratta infatti di un totale di 68 fiorini cui vanno sommati altri 100 ducati. Battista Casali registra anche le vigne, con annessi i canneti, suddivise tra quelle presenti in città e quelle poste all’esterno delle porte dell’Urbe e per ciascuna di esse è registrato il censo che viene versato al convento 70. La maggior parte dei pagamenti viene corrisposta in natura e prevede per il convento del mosto o del vino, da una salma a diversi barili 71. 68

Il termine domus può indicare sia un’abitazione, e quindi un luogo di residenza, che uno spazio architettonico adibito a luogo di lavoro e quindi una taverna o una bottega, cfr. d’Avossa, Un inventario dei beni urbani del S. Spirito, p. 327 e nota 18. 69 L’inventario viene redatto in ottemperanza alle direttive emanate dal generale Giuliano da Salemi, subito dopo il Capitolo generale celebrato a Siena nel 1443, riguardo agli inventari dei beni mobili e immobili e alla loro revisione in occasione della visita annuale da parte del Provinciale, cfr. Rosario, Alonso, Actas inéditas, p. 99 nr. 302. Gli immobili urbani sono suddivisi in domus, identificate tramite una lettera dell’alfabeto, con l’indicazione del rione in cui sono posti. L’immobile non viene mai descritto nella sua struttura fisica ma ne viene indicato la collocazione tramite indicazioni topografiche abbastanza precise come «ante portam conventus», «in principio vie qua itur …», «prope plateam …» altrimenti viene utilizzato come punto di riferimento una chiesa, come ad esempio «quasi ante ecclesiam Sancti Andree dell’Orsi», o qualche altro edificio facilmente riconoscibile come l’albergo della Cerasa nel rione Colonna. Vengono poi registrati il nome del locatario e l’indicazione del censo versato, cfr. AGA, Provincia Romana, Oo 2, Inventario dei beni dei conventi della provincia romana (1446-1546), ff. 4v-7r. Il documento è di prossima pubblicazione da parte di chi scrive. 70 Si veda Appendice 2, nr. 1-29. 71 Cfr. Appendice 2, nr. 3-4, dove nelle note a margine viene indicato che ad una caballata corrispondono 4 barili («caballata sunt quattuor barilia») e la salma equivale a sei barili («salma sunt VI barilia»). Dato perfettamente corrispondente a quanto già evidenziato di recente da Alexis Gauvain nell’edizione dei quaderni quattrocenteschi di Ansuino da Anticoli, cfr. la nota metrologica in appendice nel suo Memorie di Ansuino de Blasiis sacerdote e notaio a Roma (1468-1502), Roma 2017 (RR, inedita, 71), pp. 428-429. 259

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La cospicua vigna di 18 pezze posta lungo la via che va verso S. Maria del Popolo, al Trullo, è gestita direttamente dai frati («tenet conventus») 72 così come il canneto a Ponte Milvio di proprietà però della chiesa di S. Eustachio. La vigna fuori porta Appia, in loco qui dicitur la Travicella, risulta invece locata ai frati domenicani della Minerva 73. A seguire troviamo indicate le terre che rispetto agli altri possedimenti vengono descritte in modo piuttosto sommario (sono registrati solamente sei item) e pur offrendo l’indicazione del luogo in cui si trovano sono liquidate con locuzioni del tipo «ibidem sunt plures terre nostre» 74. Anche se il convento nel corso del XV secolo continua ad ampliare il proprio patrimonio grazie alle donazioni e ai lasciti disposti in favore dei frati sia dai parrocchiani che dagli stessi membri dell’Ordine, non risulta esserci una specifica progettualità nel gestire questo aspetto. Eccezion fatta per alcune vigne che vengono vendute o permutate con altri terreni, e in particolare canneti, che suggeriscono un tentativo di ottimizzare quanto posseduto, probabilmente in conseguenza della volontà e/o bisogno di sopperire ad un bisogno contingente e materiale – come quello legato alla produzione e consumo del vino – lo stesso non pare comunque accadere per gli stabili in città di proprietà del convento. Alcune case vengono acquistate dal priore e dal procuratore a nome dell’intera comunità conventuale probabilmente per sopperire a delle necessità del convento, come nel caso della casa acquistata da fr. Simone de Urbe nel 1465 (domus hh) e che – per lo meno in un primo periodo – viene affittata quasi esclusivamente a slavi, e in particolare a Sofia, lavandaia del convento; così come una casa posta in Campomarzio acquistata nel 1493 dai frati, rappresentati dal procuratore generale dell’Ordine Graziano da Foligno, che in quel periodo è anche vicario del convento di S. Agostino, dal subpriore fr. Luca da Bagnoregio e dal romano fr. Michele, per 400 fiorini. I frati locheranno poi questa casa suddividendola in diverse parti. Una stanza al piano inferiore detta “camera ad volta” viene affittata per 72 Appendice 2, nr. 1. L’acquisizione di questo vigneto è da mettere in relazione con il lascito testamentario dell’avvocato concistoriale Giovanni Baroncelli, con il quale istituiva suo erede universale il priore e i frati di S. Agostino e S. Trifone. Egli aveva disposto di essere sepolto nella chiesa di S. Agostino, dove era dipinta l’immagine di sant’Erasmo, e voleva che venisse costruita «una cappella cum altare que debeat […] sub nomine sanctorum Io. Baptiste et Evangeliste» e come dote per la cappella aveva destinato le vigne al Trullo, cfr. ASR, CNC, 1643 (not. Mariano Scalibastri), ff. 425r-v e 458r-459v. 73 Appendice 1, nr. 48 e Appendice 2, nr. 20. 74 Ad esempio per le proprietà in Stimigliano il Casali si limita a scrivere che i possedimenti sono circa venti «inter magnas et parvas» non fornendo quindi dati utili alla loro identificazione, cfr. Appendice 2, nr. 26-28.

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2 ducati a semestre alla lavandaia Elena. L’altra parte della casa viene locata per 2 ducati a trimestre ma senza ulteriori indicazioni, anche se secondo quanto riportato nel Campione del 150175 la casa risulta affittata ad una mantellata agostiniana e successivamente ad altre donne. Potrebbe quindi trattarsi di un immobile che i frati acquistano per dare una sistemazione alle proprie religiose o comunque a donne sole legate in qualche modo al convento come le sopracitate lavandaie. I registri della procuratoria del convento agostiniano – conservatisi in modo seriale a partire dalla secoda metà del Quattrocento – permettono di individuare, in modo piuttosto sistematico, i dati che riguardano la rendita immobiliare lorda perché, in questa fase del lavoro, non sono stati calcolati in modo specifico i costi di gestione a carico di ogni singolo immobile. Le spese nel loro complesso sono collegate soprattutto a ristrutturazioni degli immobili, nella gran parte effettuati dagli affittuari, e vengono in parte scontate dall’importo del canone annuale e dal carattere enfiteutico del contratto che era stato stipulato. Il canone ribassato e un periodo di locazione cronologicamente molto esteso suggeriscono che il convento si interessò poco alla manutenzione del suo patrimonio, anche perché, in quanto ente religioso, non aveva come obiettivo primario trarre il massimo profitto da quanto posseduto. Ma è certo che quello del gettito delle entrate della rendita immobiliare sicuramente rappresenta, assieme alle donazioni e lasciti testamentari, che vengono incassati una tantum e spesso dopo diverse traversie giudiziarie, l’entrata più cospicua e fissa per le casse del convento. Un abbassamento significativo del canone si registra quasi esclusivamente nei casi di locazione enfiteutica, in particolare nell’ultimo ventennio del Quattrocento, dove a fronte di un censo minore l’affittuario si obbliga però a spendere cifre considerevoli 76. La spesa che viene richiesta ai 75

ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, b. 318, Libro delle case o campione del 1501 et spese della vigna del Trullo, Spese per le case e vigne compresi i canoni passivi per dette vigne con campioncino e pigioni di dette case e vigne dal 1484 al 1504 con introito e deposito, ff. 16r-27v. L’«inventarium domorum conventus», viene redatto da fr. Costantino durante il priorato del p. m. Gaspare da Orvieto e risulta datato al 1° ottobre 1501. L’introito inizia con il mese di marzo del 1504, mentre i primi 14 fogli dell’exitus riguardano spese per le vigne anni 1484-1487, e la sezione delle case inizia con il 1501. 76 Nel corso del 1480 una serie di provvedimenti «sulla base della legislazione sistina in materia di espropriazione edilizia e incentivazione ad una radicale trasformazione delle strutture esterne delle case» fecero sì che «molti proprietari, perduta la speranza di trarre un utile dalle abitazioni così ridotte non ne curavano la manutenzione e lasciavano cadere in rovina», cfr. Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, p. 24; C.P. 261

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locatari del convento romano per la sistemazione e miglioria dell’immobile va mediamente dai 100 ai 250 ducati. Un caso emblematico è rappresentato da Giovanni Battista Arcidiaconi da Cremona 77, segretario del cardinale camerlengo Estouteville che paga l’affitto contemporaneamente per due diversi immobili. Per la prima domus, posta nella vicina parrocchia di S. Apollinare, paga 3 ducati mentre per l’altra, posta nella parrocchia di S. Trifone, egli aveva ottenuto una locazione sua vita natural durante in cambio del versamento di 100 fiorini ex camera per la riparazione e del canone annuo di 6 fiorini de camera curia romana in Urbe existente curia, vero absente ne avrebbe dovuti versare 4. Ma l’Arcidiaconi sborsa successivamente altri 200 fiorini per portare a termine le riparazioni necessarie a sistemare questo stabile ottenendo così dai frati, riuniti in capitolo, di poter disporre di questo immobile liberamente sia in vita che in morte, donandolo o vendendolo a chi più gli piace. In alcuni casi non è possibile stabilire con certezza il censo versato dai locatari perché parte di quanto dovuto al convento viene scontato attraverso prestazioni d’opera o per merce fornita al convento (come nel caso dei macellai o dei fornai). Per il macello posto nei pressi di Piazza Navona, almeno dal 1463 e per l’intero quarto di secolo, a pagare è uno dei maggiori fornitori di carne del convento ossia il macellaio Pietro di Giacomo Casale, parente dell’agostiniano fr. Battista. Gli succede un altro macellaio, Cristoforo Maldosso, il quale versa una parte dell’affitto, ossia 30 ducati, scalando la cifra mancante in base alla carne fornita al convento. Sicuramente conosce un aumento considerevole l’affitto relativo alla domus h che dopo essere stata locata per oltre 25 anni a Leonardo Mortodefredo da Monterotondo e suoi eredi per 12 ducati annui circa, nell’ultimo decennio del XV secolo vede alternarsi diversi fornai che pagano un canone di 18-20 ducati. I frati procuratori che compilano il registro relativo alle entrate legate agli immobili non sembrano però essere sempre accurati nelle loro annotazioni. Le case, generalmente identificate attraverso un contrassegno alfabetico corrispondente in linea di massima a quello presente nell’inventario del 1463 ca., a volte vengono confuse o indicate in modo sommario. Uno stesso immobile poteva essere frazionato e affittato a diverse persone, e questo, unitamente alla pratica da parte degli affittuari di non versare Cavizzi, Le condizioni per lo sviluppo dell’attività edilizia a Roma nel sec. XVII: la legislazione, in «Studi romani», XVII/2 (1969), pp. 160-171: 162. 77 Scrittore apostolico (dal 7 marzo 1453 al 1473) e segretario pontificio dai primi di ottobre del 1455 al 1459, poi cubiculario (1464) e abbreviator (7 marzo 1464): Frenz, Die Kanzlei, nr. 1224; Somaini, Un prelato lombardo del XV secolo, p. 439 nota 27 con bibl. prec. 262

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regolarmente gli affitti, in alcuni casi non rende chiaro né il censo versato né chi fosse effettivamente in quel momento il vero affittuario dell’immobile avendo più nomi che si sovrappongono per il medesimo periodo. Nel corso della seconda metà del XV secolo le rendite legate alle locazioni di questi immobili non risultano particolarmente vincolate alla presenza o meno del pontefice in città, come accaduto in precedenza quando l’assenza del papa faceva dimezzare il canone. Le variazioni degli affitti sembrano piuttosto da ricondurre al frazionamento dello stesso immobile in più parti abitative (anche se nella maggior parte dei casi la somma totale di quanto versato dai differenti affittuari non sembra essere diversa da quella precedentemente versata dal singolo) o meglio dal differente contratto 78. Per alcuni immobili il valore aumenta nel tempo fino ad arrivare quasi al raddoppio, come la casa registratata come “domus AA” (posta nelle vicinanze della chiesa di S. Lucia quatuor portarum, dietro l’ospedale dei Portoghesi) che passa da 3 ducati pagati nel 1463 a 7 ducati versati regolarmente dal 1486 in avanti; o la “domus B” che passa da 8 ducati registrati nel 1463 a carico di Pietro Cola da Spoleto, segretario del cardinale Latino Orsini, agli oltre 14 ducati annui spesi dal fiorentino Tomaso di Giuliano dal 1481 al 1489. Rimane invece pressoché stabile il censo versato dagli affittuari di lunga data come Paolo e Gentile dello Mastro per la “domus DD” (posta «in contrata Turris de lo Campo», – nei pressi dell’odierna via del Governo Vecchio – vicino alla chiesa di S. Cecilia); per i vari affittuari della taverna della Volpe 79 indicata come “domus C”, posta lungo la via Recta, vicino la chiesa del Salvatorello (o meglio S. Salvatore in Primicerio) 80, tra i quali va ricrodato Stefano di Cola Croce che versa per questo immobile dal 1476 al 1481 10 ducati annui. Mentre per la “domus EE” (indicata nei registri contabili come la casa ad l’armaroli o 78

Per esempio per la domus lasciata al convento dal cardinale protettore Guglielmo d’Estouteville, troviamo come primo affittuario Bernardo, un familiaris del Rotomagense, che paga quasi 21 ducati l’anno (1483-1491), cui subentra un altro francese, Guglielmo, cannavaro del cardinale Ascanio Sforza, che paga invece 16 ducati l’anno (1491-1493). La casa viene poi suddivisa in due diverse parti. Tra gli affittuari della parte superiore troviamo il fiorentino Alessandro, nella parte inferiore era stata invece ricavata una bottega adibita a sartoria come suggeriscono le qualifiche di sarto di due diversi affittuari (N. Todesco e Arrigo Rivit). Il convento incassa a semestre 4 ducati per la casa inferiore e oltre 6 per quella superiore. Sul finire del secolo la casa viene nuovamente locata nella sua interezza al già citato Alessandro per 22 ducati l’anno. 79 U. Gnoli, Alberghi ed osterie di Roma nella Rinascenza, Roma 1942, p. 158. 80 Appendice 2, nr. 46. Per le vicende di questa taverna rinvio al saggio di Daniele Lombardi in questo volume. 263

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vero ad lo Peregrino) il merciaio Antonio Paletto versa nel 1463 18 ducati che diventano 25 negli anni ’90. Per altri affittuari a lungo termine come lo speziale e mercante di legname Domenico di Luca de Bellinis il censo rimane fermo per oltre un trentennio. In verità, ogni anno dal 1486 al 1495, egli versa una quota differente ma che nella media di un decennio corrisponde a poco più di quanto da lui versato nel 1463. Il corso Luca Sozone 81 dal 1489 al 1496 versa per la “domus A” oltre 113 ducati (40 vengono saldati nel 1496 anche per i due anni precedenti), con una media di 14 ducati l’anno, mentre il contratto d’affitto stipulato nel 1489 prevedeva un canone annuo di 24 ducati. La casa risulterà poi ancora locata alla moglie Cassandra nel 1501 e ancora per 24 ducati 82. Altri immobili aumentano la loro rendita grazie ad una differente destinazione d’uso come sembra suggerire l’introito delle “domus I e ç” una volta riunite in un unico gettito e utilizzate da un taverniere e un cociniero i quali arrivano a versare oltre 18 ducati annui contro i 10 fiorini pagati nel 1463 da Perna da Stimigliano per la sola “domus I”. Rimane intorno ai 25 ducati il canone versato poi dal fornaio tedesco Michele per la casa con annesso forno un tempo del maestro Paolo Mattabuffi, probabilmente anche grazie al rapporto di fiducia e fornitura che il teutonico ha da lungo tempo con i frati. Accade probabilmente lo stesso anche per 81

Per Luca Sozone, corso in Urbe e commorante nel rione Arenula, conestabile del papa e barisello del Patrimonio si veda A. Esposito, La presenza dei corsi nella Roma del Quattrocento. Prime indagini nei protocolli notarili, in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen age», 98/2 (1986), pp. 607-621: 617 nota 38; I. Ait, Per il controllo militare delle terre della Chiesa: l’Hermandad di Alessandro VI, organizzazione e finanziamento, in Alessandro VI e lo Stato della Chiesa. Atti del convegno (Perugia, 13-15 marzo 2000), a cura di M.G. Nico Ottaviani, C. Frova, roma 2003, pp. 37-77: 56 nota 70; A. Esposito, La presenza corsa nelle Maremme (sec. XV-XVI), in «Ricerche storiche», XLII/1 (genn.-apr. 2012), pp. 29-38: 6 nota 11. Una decina d’anni prima Luca Sozone aveva acquistato per 20 ducati dal nob. vir. Evangelista Anselmi Aquintelli una casa posta in Borgo, nella parrocchia di S. Maria in Traspontina, su un lato confinante con altri suoi beni, cfr. ASR, CNC, 952 (not. Innocenzo de Leys), ff. 235r-v, 238r-v (29 marzo e 25 aprile 1479). 82 La casa, appartenuta a Maria Cenci, inizialmente viene locata al romano Pietro Valentino per 8 ducati annui, e successivamente, grazie alle migliorie apportate a spese dal cardinale protettore Estouteville, viene data per un censo pari al doppio, ossia 16 ducati d’oro, a Stefano di Cola Croce e poi a Domenico Di Filippuccio Maldosso. L’immobile viene poi suddiviso in due differenti abitazioni: nella parte superiore locataria è Andreozza di Filippuccio (parente di Domenico Maldosso), mentre la parte inferiore è occupata dal calzolaio Onofrio di Luca da Volterra che lì tiene bottega (parte dell’affitto gli viene scontata avendo egli rifornito il convento di diverse paia di scarpe per i novizi). A Luca la casa verrà locata nella sua interezza. 264

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il “macello M” tenuto prima da Pietro Casale e poi da un altro macellaio, Cristoforo Maldosso. Quest’ultimo nel 1492 versa 50 ducati che diventano 60 nel 1493 e nel 1494. Mentre per Pietro Casale ogni gettito dal 1486 al 1491 varia ampiamente passando dai 29 ducati ai 58 per poi scendere a 27. Evidentemente la fornitura di carne al convento andava a pareggiare quanto da lui dovuto per l’affitto dello stabile. Diverso l’uso della casa «intus le Macella de Sancto Celso» (domus QQ), appartenuta al priore generale Giacomo dell’Aquila. Inizialmente sembra essere locata in modo discontinuo e per brevi periodi la parte superiore a donne di facili costumi e quella inferiore a dei macellai («pro quolibet mense meretricibus et aliquando macellariis ad remittendum bestias») fino a quando le cortigiane «ne forono cacciate tucte» e come unici locatari troviamo indicati diversi macellai i quali effettuano dei pagamenti contemporaneamente tanto da far pensare che ad una loro società e con il patto che in essa non vengano però messe «né bestie baccine né porci et l’altre cose». Nel caso invece del maniscalco Prospero de Petro Ianni alias dicto de Pompilia, sappiamo che egli versa 11 ducati e 33 bolognini a semestre, e il canone gli viene poi in parte scontato per le spese da lui sostenute per la realizzazione di diverse opere a favore del convento tra cui un pozzo per l’acqua e un “carcero novo”. Nel 1486 il convento incassa, grazie alle sue domus, almeno 314 ducati che diventano oltre 460 nel 1490 e rimangono nello stesso ordine di grandezza nel quadriennio successivo 83, anche se tali dati andrebbero messi in relazione alle eventuali cifre spese dai frati o dai locatari per la sistemazione degli immobili. Per la casa grande del Mattabuffi (“domus AC”), il cardinale Ascanio Sforza versa dal 1487 al 1494 oltre 520 ducati. Nel 1499 la stessa casa viene concessa dai frati in locazione enfiteutica fino alla terza generazione a favore del vescovo di Nepi e Sutri Zanardo Bagarotti 84 e di suo nipote Giovanni Battista, figlio del suo defunto fratello Giacomo 85, con la clausola dell’apporto di migliorie per 500 ducati di carlini mentre il canone annuo viene stabilito in 18 ducati di carlini. Il vescovo nepesino 83

I dati sono omogenei con quelli presentati da Palermo per S. Maria dell’Anima, ma maggiore risulta l’interesse da parte dell’ospizio tedesco per una oculata e redditizia gestione del proprio patrimonio immobiliare, cfr. Palermo, Il patrimonio immobiliare, p. 310. 84 Zanardo Bacarotto, vescovo dal 17 luglio 1497, di origine cremonese e piacentina (civ. cremonens. et placentin.), muore il 24 agosto 1503 e viene sepolto in S. Agostino, cfr. Eubel, Hierarchia, II, p. 244. 85 AGA, S. Agostino, C 3, perg. B 79; ibidem, C 10, ff. 229r-230v; ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 180. 265

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è ancora attestato come affittuario nel Campione del 150186 e una volta passato a miglior vita verrà sepolto in S. Agostino. Se gli ospizi e le confraternite romane trovano nelle loro stesse finalità caritative motivo e giustificazione per le azioni compiute per valorizzare il loro patrimonio fondiario e immobiliare (una buona amministrazione si traduceva in maggiori risorse per l’assistenza) 87, per i frati non era la stessa cosa. Sicuramente essi ampliano il loro patrimonio immobiliare ma quasi esclusivamente grazie a quanto viene loro donato da fedeli e parrocchiani, non dunque per una politica di investimenti. Un po’ diversa la gestione del – peraltro contenuto – patrimonio fondiario per il quale il convento di S. Agostino opera in modo più razionale, mostrando qualche intenzione di ottimizzazione del posseduto. Evidentemente doveva sembrare più utile agli occhi dei frati e più in linea anche con quanto previsto dalle Costituzioni fondative e dalla legislazione promulgata dagli organi centrali dell’Ordine preoccuparsi di gestire terre e vigne utili al sostentamento interno e diretto del convento, piuttosto che sfruttare la rendita immobiliare e il gettito ad essa relativo 88. Per quanto riguarda invece le proprietà fondiarie di S. Agostino possiamo dire che già durante il XIV secolo il convento aveva cercato di ampliare i propri possedimenti relativamente a vigne e terreni sia urbani che non, probabilmente nel tentativo di poter gestire autonomamente il fabbisogno alimentare del convento stesso. Sul finire del secolo troviamo infatti ad agire come acquirenti i frati i quali acquistano, come procuratori e agendo a nome della chiesa di S. Trifone, terreni nella parte settentrionale della città, ovvero fuori porta del Popolo e fuori porta Salaria 89. Qui i frati possedevano già dei terreni coltivati a vigna concessi in enfiteusi perpetua, con contratto da rinnovarsi ogni 19 anni, a Pietruccio di Cola Pasqualis originario di Montorio e ora del rione Monti, che aveva l’obbligo di corrispondere, allo scadere di ogni contratto, una libra di cera lavorata, 86

ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 318, f. 27r. Cfr. A. Esposito, Amministrare la devozione. Note dai libri sociali delle confraternite romane (secc. XV-XVI), in Il buon fedele. Le confraternite tra medioevo e prima età moderna, in «Quaderni di storia religiosa», 1998, pp. 195-223. 88 Il patrimonio del già citato ospizio teutonico, pur allargandosi nel corso del XV secolo, non arriva ad includere terreni agricoli, ma proprio per meglio rispondere alle finalità indicate fin dalla sua fondazione, ossia l’ospitalità per i pellegrini provenienti dall’Europa centro-settentrionale fornendo loro ogni possibile forma di assistenza, «rimaneva concentrato attorno al nucleo originario della proprietà, nei rioni centrali di Roma, soprattutto in Parione», cfr. Palermo, Il patrimonio immobiliare, p. 281. 89 ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, pergg. 28 (4 agosto 1394) e 29 (23 maggio 1396). 87

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e, annualmente, al tempo della vendemmia, trenta piccole cogna di mosto di buona qualità 90. Mentre la vigna posta fuori Porta del Popolo, nei pressi di ponte Milvio 91, che era stata lasciata al convento da Giovanni Baroncelli, secondo quanto annotato dal Casali nel 1468, era stata convertita in canneto di cui il convento ne possedeva una parte libera acquistata nel maggio del 1467 da Lorenzo Diaco, il rimanente era stato venduto a due fiorentini. Le vigne che erano state donate al convento dalla famiglia Vivaldi 92 rientravano invece tra le acquisizioni finalizzate alla realizzazione e dotazione della cappella dedicata a S. Caterina 93. In almeno due casi i frati avevano acquistato dei vigneti grazie a dei lasciti in denaro disposti a loro favore. La prima vigna viene acquistata grazie al denaro di Paolo detto il Falluto 94. L’altra vigna era stata acquistata grazie ai denari ottenuti dalla vendita di un vigneto lasciato al convento da Antonio di Narni, e che al momento della redazione dell’inventario del 1431 era tenuta dal Margherita Martelluzzi e dalla sua «specialis familia» 95. Altri terreni con vigne e canneti fuori porta del Terrione96 e fuori porta Viridaria, iuxta menia Urbis, vengono poi acquistati da fr. Battista Casali, in qualità di priore del convento (1456) 97, e da fr. Antonio Iacobelli 90

ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, perg. 35; ibidem, b. 17 (Inv. 1601), p. 320 e b. 15 (Inv. 1691), nr. 2061; Montenovesi, Le antiche chiese di S. Trifone in «Posterula» e di S. Agostino p. 311; Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone - Sant’Agostino, p. 51 nr. 76. 91 Appendice 1, nr. 29. 92 Per Agnese e Giovanni si vedano rispettivamente AGA, S. Agostino, A 26, pp. 1-4 nr. 1 e pp. 17-18 nr. 10. 93 Appendice 1, nr. 25. ASR, Agostiniani in Sant’Agostino, perg. 32 (15 luglio 1419); AGA, S. Agostino, C 9, ff. 102r-104r; Mazzon, Il convento agostiniano romano di San Trifone Sant’Agostino, p. 47 item 55. Della vicenda si trova notizia anche nel Libro degli stabili del 1675 nella parte relativa alla vigna di S. Valentino fuori Porta del Popolo, cfr. ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 14, ff. 96r-97r. Come dote per la cappella i Vivaldi lasciano anche delle case poste nel rione Ponte da cui verrà ricavata la taverna della Corona. 94 Appendice 1, nr. 30. 95 Appendice 1, nr. 33. La vigna appartenuta a Margherita Martelluzzi era posta fuori di Porta del Popolo, in capo della Silicata ad mano mancha. Nel 1467 è registrata una vendita di una risposta di vino per un valore di quasi 12 ducati, cfr. ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 178, introitus, f. 22v (25 maggio 1467). Questa vigna verrà poi venduta nel febbraio del 1467 per poter acquistare un canneto da Lorenzo Diaco del rione Colonna, come annotato da fr. Battista Casali, cfr. Appendice 1, nr. 30 e AGA, S. Agostino, C 3, perg. B 50 (25 maggio e 3 giugno 1467); ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 153. 96 AGA, S. Agostino, C 3, perg. B 22; ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 123. 97 La porta ad Terrionem collegava la valle e la via delle Fornaci, nei pressi dunque dell’odierna Porta Cavalleggeri, cfr. Gnoli, Topografia, p. 236. 267

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Iohannis Laurentii da Roma, il subprior fr. Erasmo e fr. Girolamo Nardi Carissimi (1459) 98. L’interesse dei frati sembra essere maggiormente concentrato sull’ampliamento del patrimonio fondiario nella zona del Trullo, dove essi gestiscono alcune vigne come risulta dai pagamenti di diversi censuali. Un censo veniva versato dai frati alle monache di S. Silvestro in Capite e un altro andava invece a favore dei frati di S. Maria del Popolo 99. Nel 1464 i frati avevano acquistato una vigna di due pezze «cum vascha vaschalis et tini ac statii … in menia Urbis» dal nobile Domenico de Porcariis 100, per 70 ducati d’oro e con una corresponsione annua a S. Maria del Popolo pari a 3 fiorini 101. Quattro mesi dopo fr. Girolamo Carissimi, in qualità di procuratore conventuale, acquistava per 18 ducati da Pietropaolo Laurentii Belpecto, orefice del rione Ripa, un canneto nei pressi di Ponte Milvio «in tenimento ecclesie Sancti Eustachii de Urbe», con canone annuo di 10 bolognini con tutte le pertinenze 102. Anche il protettore dell’Ordine, il cardinale Estouteville, contribuiva all’aumento del patrimonio fondiario donando ai frati 15 ducati e 30 bolognini per acquistare un canneto di una pezza a Ponte Milvio il 23 luglio 1478 103. 98

AGA, S. Agostino, C 3, perg. B 29; ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 131 (13 luglio 1459). Di questa vendita ci è stata tramandata una copia redatta il 15 gennaio 1467 su richiesta dei maestri Giovanni da Cascia, priore della chiesa di S. Agostino, e Battista Casali, procuratore dei frati del convento di S. Agostino. 99 ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 347ter (dicembre 1463). Per il censo versato ai frati di S. Maria del Popolo si rinvia a ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 178, exitus, ff. 18r (8 novembre 1467), 25v (25 aprile 1468), 38r (11 settembre 1469) e b. 179, exitus, ff. 187v (7 giugno 1477), 166v (12 gennaio 1478). Per quello versato alle monache di S. Silvestro si veda ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 178, exitus, ff. 13r (28 luglio 1467), 18r (5 novembre 1467 novembre) e b. 179, exitus, ff. 251r (31 dicembre 1471), 229r (28 gennaio 1476), 204r (5 dicembre 1476), 168r (21 dicembre 1477), 77r (11 gennaio 1481). 100 ASR, CNC, 1643 (not. Mariano Scalibastri), ff. 233r-v e 287r-v (26 luglio 1464); AGA, S. Agostino, C 14, ff. 162r-166v; ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 284. Il vigneto confinava con i beni di Angelello Colutie Zaccharia, degli stessi frati e convento e degli eredi di Sante de Vivianis; sul retro c’erano le mura antiche e davanti la via pubblica. Il 9 dicembre 1466 i frati pagano il notaio per il documento di vendita (ibidem, b. 178, exitus, f. 1v). 101 Metà dell’importo era stato pagato grazie ad Egidia, vedova di Daniele, che aveva dato 35 ducati ai frati «causa emendi aliquam responsionem seu possessionem» e che stavano in deposito presso Paolo Santacroce, mercator del rione Arenula; cfr. A. Esposito, Per una storia della famiglia Santacroce nel Quattrocento: il problema delle fonti, in «Archivio della Società Romana di storia patria», 105 (1982), pp. 203-21,6 in particolare le pp. 205, 209-210. 102 AGA, S. Agostino, C 3, perg. B 36; ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 15 (Inv. 1691), nr. 138 (28 novembre 1464). Da identificare con Appendice 2, nr. 15. 103 ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 179, introitus, f. 40v. 268

“Domus, orti et argasteria”. Il patrimonio immobiliare del convento di S. Agostino

Sempre grazie all’Estouteville i frati acquistavano poi una parte di una vigna al Trullo di proprietà della famiglia Nari 104. Nel corso del 1484 fr. Simone da Andria, baccelliere e procuratore del convento di S. Agostino e S. Trifone, annotando le spese sostenute annnualmente per le vigne e altri possedimenti del convento, su incarico del priore Bartolomeo da Caletro105, stila una sorte di elenco dei vari famigli del convento impiegati nella gestione e lavorazione dei terreni e delle vigne e dei differenti affittuari di tali beni. La maggior parte di loro è indicata semplicemente con un nome a volte accompagnato dalla provenienza geografica, come Paolo da Vico, Antonio da Norcia, Nicolò da Napoli e Giovanni Schiavo, e tra di loro troviamo anche Bartolomeo de Girello da Cori, fratello di fr. Purita. In particolare tra gli affittuari incontriamo il macellaio Pietro Nucciolino106, il calzolaio Martino e gli eredi del barilaro Baldassarre. Conclusioni Negli ultimi decenni del XV secolo le acquisizioni di stabili non legate a precedenti lasciti non risultano essere molte, e le vendite, in linea di massima, sembrano comunque essere condizionate al cattivo stato di conservazione dello stesso immobile oggetto dell’alienazione. Vendite che sono di gran lunga inferiori rispetto ai contratti di locazione enfiteutica che prevedono significativi lavori di miglioramento e manutenzione degli immobili a carico degli affittuari. Le stesse botteghe, create grazie a lavori di sistemazione del porticato della chiesa di S. Trifone nella primavera del 1489, non portano particolari guadagni e sembrano ancora una volta ospitare, seppur a pagamento, degli affittuari/fornitori del convento non particolarmente agiati, quali barbieri, calzolai e sarti 107. La contiguità degli immobili posseduti dal convento nei paraggi di S. Agostino e S. Trifone, e quindi in Campomarzio e nei rioni limitrofi, 104

AGA, S. Agostino, C 9, ff. 99r-v, 99v-101r, 101r-v (2 e 6 maggio 1478). ASR, b. 318, exitus, ff. 1r-4v. Le annotazioni datano dal 1° al 22 settembre 1484. 106 Affittuario della “domus E” (Appendice 2, nr. 61) dal 1478 al 1492. 107 Una bottega è adibita a barberia (sono attestati almeno tre barbieri come affittuari che versano un censo di 5 ducati scontati in parte con il lavoro di barbiere svolto all’interno del convento) e successivamente viene locata ad un calzolaio. Un’altra bottega cambia invece più volte destinazione d’uso passando da pizzicaroli a calzolai, da speziali a sarti, tutti affittuari che alla fine la tengono in locazione per periodi piuttosto brevi versando mediamente per un semestre 4 ducati. Una terza bottega, sempre nel portico di S. Trifone, viene inizialmente adibita a pizzicaria ma come affittuari (tutti a breve periodo) oltre a differenti pizzicaroli troviamo sarti e un “poveruomo” che fa gli zoccoli anche per il convento. 105

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va ancora una volta intesa come esito derivante dalle ultime volontà dei benefattori e di conseguenza dei loro lasciti, anziché da una politica espansionistica e finanziaria accorta e mirata da parte dei frati. Sono tra l’altro loro stessi, dei religiosi, a gestire il patrimonio e non dei laici, come i provvisori di S. Maria dell’Anima o i guardiani delle confraternite romane, personaggi, questi secondi, avveduti e meglio inseriti nelle dinamiche del mercato immobiliare, loro stessi verosimilmente impegnati in prima persona a sfruttare la forte espansione della rendita urbana che caratterizza a Roma la seconda metà del XV secolo. L’accrescimento delle entrate provenienti dal patrimonio immobiliare a partire dalla seconda metà del XV secolo è ben osservabile nel caso del vicino ospedale teutonico di S. Maria dell’Anima, per il quale, grazie alla conservazione del materiale contabile relativo alla prima metà del XV secolo è possibile seguire la crescita delle entrate dell’ospizio con un culmine a metà del secolo, e quindi in relazione con il grande evento dell’Anno Santo, ma «anche nei decenni successivi [riesce] a mantenere un livello sostenuto di entrate, fino al definitivo decollo nel decennio finale del secolo» 108. L’istituto tedesco, pur presentando delle finalità differenti da quello eremitano, in particolare in merito all’accoglienza, e rivolgendosi ad una utenza nella sua complessità straniera, permette comunque di presupporre che anche l’ente agostiniano, così come gli altri istituti ecclesiastici presenti in città, dovesse godere di una certa autonomia economica, grazie ad un patrimonio la cui gestione, legata soprattutto alle entrate, era destinata però a diventare maggiormente significativa e avvertibile a partire dagli inizi del XVI secolo 109. A Roma la tendenza all’aumento dei canoni degli immobili dati in affitto è un fenomeno generale che trova riscontro nei dati rilevati per le proprietà immobiliari di diversi enti religiosi, come S. Giacomo degli Spagnoli, studiato da Manuel Vaquero Piñeiro, e la già citata S. Maria dell’Anima, da Luciano Palermo. Una tendenza che proseguirà ininterrottamente fino alla vigilia del sacco del 1527. Come già verificato da Palermo e da Vaquero Piñeiro, «i livelli della rendita crescevano molto anche se il numero delle case poste sul mercato era sostanzialmente stabile» e la crescita della rendita risulta quindi strettamente connessa con l’aumento «del gettito medio di ogni singola unità abitativa»110, un andamento positivo riscontrabile anche per strutture patrimoniali afferenti 108

L. Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di Santa Maria dell’Anima nel Rinascimento, in Santa Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer deutschen Stiftung in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin 2010, pp. 279-325: 304. 109 Esposito, La parrocchia “agostiniana”, p. 501. 110 Palermo, Il patrimonio immobiliare, p. 321. 270

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ad altri enti romani, come le confraternite del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e del Gonfalone analizzate dalla Dionisi 111. Anche per S. Agostino, come per molte altre istituzioni religiose, l’unica forma di investimento possibile era rappresentata dalla rendita immobiliare, sia urbana sia agraria, visto che «questa era, dunque, considerata lecita, a prescindere dalla tipologia di patti agrari o di affitto da cui essa sorgeva; essa fondava la struttura patrimoniale delle grandi istituzioni religiose, compresa quella della stessa Chiesa di Roma, e rimase l’unica [fonte] veramente lecita di reddito fino a quando il superamento della concezione medievale dell’usura e la creazione del sistema del debito pubblico non favorì, anche nel caso di grandi istituzioni assistenziali e religiose, l’investimento nei titoli della finanza, sia pubblica che privata»112. L’impressione generale è che i frati non abbiano particolare cura del loro patrimonio immobiliare e che non siano interessati a reinvestire quanto guadagnato in lavori di riqualificazione e manutenzione ordinaria degli immobili, lavori che vengono quasi esclusivamente demandati ai locatari attraverso la concessione di enfiteusi a lunga durata. Evidentemente quanto incamerato veniva utilizzato per saldare debiti con i propri fornitori (si consideri quanto detto riguardo agli affitti versati per esempio dai macellai e dai fornai fornitori e affittuari del convento) e per altre occorrenze del convento. Bisognerà attendere il XVI secolo per rilevare una politica immobiliare strutturata e oculata da parte del convento agostiniano romano113. Come sottolineato da Anna Esposito in merito alla Descriptio parochie S. Trifonis composta nel 1517 114 in occasione dell’ammattonamento e sistemazione della strada che portava da S. Agostino all’altra chiesa agostiniana, S. Maria del Popolo 115, il convento risulta essere l’ente con il più alto numero di case e botteghe nella parrocchia nella gran parte delle quali sono presenti subaffittuari, per lo più provenienti dalla Lombardia e dalla Toscana, favoriti nel loro insediamento per precisa volontà del pontefice Leone X. In realtà anche in questa occasione i frati non sembrano dimostrare un particolare interesse nel valorizzare il proprio patrimonio immobiliare. Proprio loro che sono i principali proprietari di case in 111

Dionisi, Confraternite e rendita urbana: il S. Salvatore e il Gonfalone. Palermo, Il patrimonio immobiliare, p. 320. 113 Per lo sviluppo della rendita immobiliare urbana nella Roma rinascimentale si rinvia a Palermo, Sviluppo economico; Id., L’economia, in Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Roma 2001, pp. 49-91, in particolare, pp. 66-73. 114 Esposito, La parrocchia “agostiniana”, pp. 500-503. 115 Si tratta della via Leonina oggi via di Ripetta, cfr. ibidem, p. 504. 112

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questa parrocchia (30 su un totale di 83 immobili) 116 nel 1519 risultano essere ancora morosi del versamento di quanto dovuto per la realizzazione della suddetta nuova strada.

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Il convento ne possiede ben quarantuno nel rione Campomarzio e ventisei nel contiguo rione Ponte, per le altre proprietà immobiliari si veda ibidem, p. 504 nota 36.

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Appendice 1 Inventario degli immobili e dei beni fondiari del 1431-1432 117 ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 34, ff. 58r-59v, 64r-v, 66r, 73r-74r Domus, orti et argasteria (ff. 58r-59v) [1] 1a domus terrinea et solarata cum stabulo retro, posita in regione Campi Martis in parrochia Sancti Triphonis, cui ab uno latere tenet ortus conventus, ab alio tenet Catherina de Massaronis, ante et via publica. Concessa fuit magistro Egidio de Roma pro subsidio sui magisterii pro qua frater Simon tempore sui prioratus dedit centum quinque florenos. [2] 2a domus in qua habitat Catherina de Viterbio et est situata iuxta ortum dicti conventus et iuxta domum Sancte Marie de Cellis, ad rendendum annuatim tres florenos incipiendo de mense septembris in festo sancti Angeli. [3] 3a domus in qua habitat Anthonius de Conessa de regione Campi Martis inter hos fines: a duobus lateribus sunt vie publice, ab alio tenet dictus conventus, ad rendendum annuatim quatuor florenos et tenere solvere de mense iulii. [4] 4a domus cum orto et puteo prope predictam quam tenet dictus Anthonius pro duobus florenis annuatim, quam donavit servitrix domini Iacobi de Buccapassis. [5] 5a domus in contratata Sancti Triphonis ex opposito furni versus Sanctum Andream, quem olim fuit domine Beatricis de Mediolano, qui nunc tenet Mathea *** et Elizabeth de Francia. [6] 6a domus terrinea et solarata posita in regione Campi Martis, iuxta ecclesiam Sancti Ambrosii, quam tenet Guadognolus pro quadraginta bolendinis annuatim de mense madii. [7] 7a domus terrinea et solarata cum orto post se, posita in contrata Sancti Triphonis, in qua habitat domina Petrucia soror reverendi magistri Augustini de Roma ad vitam. [8] 8a una cappella sine ecclesia destructa que vocatur Sancto Stephano, situata iuxta flumen Tiberis cum iure et pertinentiis suis. [9] 9a domus quam nobis relinquit dominus Mathias qui condam fuit Iohannis Mei de Saracenis, sita in regione Pontis cum sala cameris, coquina ac stabulo et granario et puteo et stacio et orto intra se et post se, confinatur ab uno latere tenet Sabbas Iacobelli Rubei de Scangialemosinis, ab alio tenet dominus Sanctus de Genezano. [10] 10a dum sit nobis dictus Mathias quamdam domum in qua ad vitam habitat servitrix sua 118, qua domus est infra domos Iohannis Mei de Saracenis, que post mortem servitricis remanet conventui. 117 Nell’edizione

sono state inserite anche delle postille annotate tra il 1431 e il 1467, anno in cui troviamo delle aggiunte di mano del mag. Battista Casali. 118 Il suo nome era Palma.

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[11] Relinquit nobis dictus Mathias orti positi iuxta ecclesiam Sancte Lucie Quattuor Portarum et prope ortum Matheuctii della Riccia ad rendendum annuatim in festo Resurrexionis domini nostri Iesu Christi florenos duos currentes et XX solidos et denarios IX rendendum. [12] 11a relinquit nobis idem Mathias duas tercias trium terciarum privilegium cuiusdam terris cum orto post se mortis pro indivisis cum alia 3° parte Pauli Coluczie Petri Iannini de Regione Campitellii ad rendendum in toto kalendas februarii florenos duos currentes libras III solidos II denarios octo pro rata nostra habemus domina Tomasia et vir eius Loisius rendent. [13] 12 relinquit nobis idem Matthias duo tercia duarum terciarum privilegium cuiusdam domus locate Nardo Carissimi pro tribus florenis annuatim solvendis. [14] 13 domus quam nobis donavit Mathucius de Rictis, donacione irrevocabiliter, in terminas terrinea et solarata posita in regione Campimartis; ab uno latere est ecclesia Sancti Triphonis, ab alio est domus olim Cole Scangelemosina quam tenet fratri Augustini de Conessa rendit florenos duos annuatim. [15] 14 domus quam donavit conventui Catherina Scudelarii sita iuxta Sanctum Ambrosium prout patet manu Angeli Casali publici notarii, cui ab uno latere retro tenet domus conventus, ab alio Zarlo et frater Angelus de Arezio donari fecit; ad rendendum quibus anno ducatum unum de mense marcii. [16] 15 domus posite in regione Pontis in contrata Turris de lo Campo liberam et exemptam ab omni censu canonis et honere servitutis, cui a duobus lateribus tenent et sunt res heredum condam Scrofolarii et ante est via publica. [17] 16 domus qua dicitur lo Maciello, cum porticali ante se et cetera; cui ab uno latere tenent et sunt res heredum condam Bartholomei de Tostis, ab alio latere retro tenet et est Campus Agonis, ante est via publica. In regione Pontis in contrata Scortecclariorum. Quod macellum tenet *** et rendere dictum conventum pro eo annuatim florenos sedecim incipendo. [18] Domus superius scriptam qua est sita in contrata Turris de lo Campo 119 tenet allocatam a fratribus et cetera magister Meus *** aurifex pro sex ducatis auri annuatim incipiendo in festivitate sancti Augustini patris nostri. Et debet expendere ultra dictos sex ducatos in melioramento ipsius domus quatuor florenos quolibet anno. Que locatio facta est pro triennio et si in fine triennii non reaccipere ei illa non reacceptio intelligatur pro renovatione alloccutionis pro sequenti immediato triennio et sic deicneps de triennio in triennium usque in perpetuum. Et ipse nec sui heredes possunt ipsam locationem renunctiare. Set conventus potest. Tamen si conventus acciperet ei dictam domum tenetur conventus restituere dicto magistro Meo duos ex dictis quatuor florenis expensis singulis annis ut dictum est. Ita tamen quod domus predicta remaneat meliorata tempore restitutionis quatuor florenis singulis annis quibus dictus magister Meus ipsam sic tenuit et non respiciatur ad expensas factas olim per dictum magistrum Meum set ad melioramentum quo ipsa domus tempore restitutionis reperitur meliorata; ut 119

Si riferisce all’item 16.

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patet manu Laurentii domini Pauli 1431. Dictos autem quatuor florenos expendendos ut supra debet expendi cum licentia et voluntate conventus alias nunc admicterentur. Ut patet manu predicti Laurentii. [19] 17 Domus que dicitur la Cervinara cum orto et puteo retro se, cum introitibus et cetera, sita in regione Columpne in contrata Duarum Turrium, cui ab uno latere tenet Antonius domini Petri de Exculo, ab alio latere tenet et est quedam domus ecclesie Sancti Salvatoris de Cupellis, ante et retro tenent et sunt vie publice. Pro qua rendet nunc Iohannes de Perticaria florenos septem annuatim incipiendo. [20] Domus sita in regione Columpne. Vinee (f. 64r-v) [21] Vinea quam relinquit nobis frater Iohannes Cesani duarum peciarum plus vel minus et cetera posita extra portam Populi in loco qui dicitur lo Formello quam retinet Anthonius filius condam Pauli Vardelle ad rendendum annuatim caballatam unam et cugnitellas duas vini. [22] Vinea quam nobis relinquit idem frater Iohannes Cesani posita extra portam Salariam duarum peciarum plus vel minus in loco qui dicitur Diuvasthe et etiam Andreas Calser de regione Columpne ad rendendum annuatim tempore vindimearum unam salmam musti more romano. [23] Vinea quam relinquit nobis idem frater Iohannes Cesani quatuor peciarum plus vel minus et cetera posite extra portam Populi prope pontem Molli a latere sinistro, versus flumen in loco qui dicitur Monticelli quam retinet Sabbas de Viterbio de regione Campimartis ad rendendum quolibet anno XLVII cugintellis musti more romano. [24] Vinea quam relinquit nobis domina Iohanna servitrix olim domini Iacobi de Boccapassis posita extra portam Populi duarm peciarum plus vel minus iuxta stratam publicam a dextris, iuxta finem salciate quam tenet Vincentius de regione Campimartis ad rendendum annuatim unam salmam musti more romano, tempore vindimearum. [25] Vinea VII peciarum plus vel minus et cetera posita extra portam Populi in loco qui dicitur Sancto Valentino quam donavit nobis domina Agnes uxor condam Iohannis Vivaldi quam tenet Paulus Spangnolo de regione Campimartis ad rendendum annuatim tempore vindimearum caballatas tres *** musti. [26] Vinea posita extra portam Castelli in loco qui dicitur lo Mortito della Oro quam tenet Iacobus que fuit domini Francisci de Tostis canonici Sancti Petri pro qua conventus debet habere annuatim quinque libras in festo sancti Angeli de mense septembris pro ut dimisit idem dictus Franciscus in suo testamento 120. 120 Sul margine, di mano di Battista Casali, compilatore dell’inventario del 1479, annotazione relativa alla vendita di questa vigna e delle due successive: hec ensio(ne) quinque librarum et ducentorum florenorum et ipsa vinea vendita fuit de mense ianuarii 1466, tempore prioratus olim magistri Simonis de Roma.

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[27] Vinea posita extra portam Castelli que fuit emisti domini Francisci de Tostis quam nunc tenet Matheuccius de Conessa ad rendendum annuatim in festo sancti Michaelis de mense septembris unum florenum. [28] Vinea posita extra portam Castelli qua olim fuit eiusdem domini Francisci quam tenet ad rendendum annuatim in dicto festo sancti Michaelis unum florenum. [29] Vinea posita extra portam Populi quam nobis relinquit Iohannes de Baroncellis pro anima sua prope pontem Mollis a manu dextra quam tenet Angelus della Regina ad rendendum annuatim tempore vindimearum duas caballatas musti more romano 121. [30] Vinea que empta fuit per conventum de parte denariorum relictorum per Paulum dictum alias lo Falluto posita in (…) quam tenet duo germani scilicet Anthonius Cole Rencii ad rendendum quartam partem musti et tres quartas uvarum. [31] Vinea posita extra portam Sancti Iohannis in loco qui dicitur lo Trepide quam tenet magister Iohannes Ludovici aurifex ad rendendum annuatim unam salmam boni musti. Qui magister Iohannes habitat in regione Sancti Eustachii iuxta X° forum de Alperinis mel. [32] Vinea quam dedit nobis Ceccholus Petri Pauli Checci Cuissole posita extra portam Populi iuxta muros, via mediante versus flumen quam tenet Magadalena olim Henrici della Taccha ad rendendum quolibet anno duo barilia boni musti. [33] Vinea que empta fuit de denariis qui fuerunt habiti de vinea quam dimisit conventui Antoninus de Narnia et que fuit olim Angeli de Chica et quam nunc tenet Margarita Thome Martellutii et eius specialis familia, ad responnendum annuatim unam caballatam boni et puri musti et unam quartam uvarum est extra portam Populi prope Salciatam in loco qui dicitur122. [34] Una vinea extra portam Castelli in lo qui dicitur la Prata quam habuit conventus de bonis pie memorie sororis Iacobelle de Tostis ordinis nostri secundum concordiam factam inter conventum et familiam Margarite et Laurentium germanum de sororis Iacobelle ut patet manu Laurentii domini Pauli et quam tenent Stefanus Cerrone Casengus et domina Perna eius uxor ad respondendum quolibet anno unam caballatam puri musti 123. [35] Vinea quam habuit conventus et fuerat ad usum pie et recolende memorie domini Augustini de Roma que sita est extra portam Populi in loco qui dicitur *** quam tenent heredes Susanne ad rendendum conventui annuatim ducatos auri quattuor 124. Segue un’annotazione del Casali cassata con due freghi: Hec vinea conversa est in cannetum de quo conventus habet unam partem liberam quam emit a Laurentio Diaco de mense maii 1467. Residuum vero rendet a duobus personis fiorentini romani […] e mezzo. Magister Baptiste Casalis de Roma provincialis et procurator subscripsi 1468. 122 Segue l’annotazione del Casali: venduta fuit de mense februarii 1467, de cuus pecuniis fuit emptum supradictum cannetum a supradicto Laurentio Diaco longe maioris fructus quam hec ensio. Magister Baptista Casalis de Roma provincialis et procurator subscripsi 1468. 123 Aggiunta posteriore al 1439. 124 Aggiunta posteriore al 1439. 121

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Terre (ff. 73r-74r) [36] Unum casale positum in territorio Castri Novi prope flumen quod olim retinuit domina Simedra nunc tenet conventus dictum casale et pantinum eius et cetera pro quo conventus tenere solvere annuatim episcopo Portuensi .XXXII. solidos, factor conventus in supradictis est *** dictus alias Falsacappa. [37] Septem rugnate terre posite in tenimento Fraiani quas nobis relinquit Iohannes de Baroncellis. [38] Una pecia terre posita in tenimento Castri Sacrofani il loco qui dicitur Meos Arenaritos [Susanna: Arenarius] que est XII rubra plus vel minus quam nobis reddidit Karolus de Ursinis. [39] Una alia pecia terre in tenimento Castri Scrofani in loco Trivigano dicto, quinque rubra plus vel minus et hic haberemus factorem pro istis duobus peciis in eodem castro. [40] Censum seu proprietatem duarum peciarum terre posite extra Portam Populi quam dimisit nobis dominus Mathias ***, ad rendendum annuatim in festo nativitatis virginis Marie de mense septembris florenos duos currentes, cuis confines ab uno latere sunt vinee Iohannis Petri de Tostis, ab alio terre Cole de G‹r›actolis, ante est via publica, quam nuc tenet Andreas de Assisio. [41] Ut apparet in quadam bulla autentica papa Clementis tertii ecclesia Sancti Triphonis de Urbe habet: ecclesiam Sancte Marine, que sita est in pertinentiis Raiani cum castellaro, silvis, terris et ceteris pertinentiis suis. [42] Ut apparet in quodam instrumento publico et autentico habet dicta ecclesia: omnes et singulas terras et possessiones terrarum cultarum et incultarum posite in pertinentiis Castri Riani et Sancte Marine cum monte et costis et terris sementariciis cum terris inferius a Santa Marina et strada inter hos fines: ab uno latere est tenimentum Montifortis, ab *** publica que vadit per medium dictarum terrarum. Item *** de lo piscaro cui *** qui dicitur Cesarono inter hos fines: ab uno latere tenet ecclesia Sancti Pauli, ab alio est via publica, ab alio sunt terre Sancti Eustachii. Item et unum aliud petium terre positum cui ab omnibus lateribus tenet dicta ecclesia Sancti Pauli. Item et unum canapinam positam prope dictum castrum Riani inter hos fines: ab omnibus lateribus tenet dicta ecclesia Sancti Pauli. Item et unum aliud petium terre sementaricie cum stripetis et costis pro lignis faciendis positum in pede Montis Falchi inter hos fines: ab uno latere est Turris Montis Falchi, ab alio tenet ecclesia Sancti Pauli et ab alio tenet ecclesia Sancti Triphonis. [43] Item et terras sementaricias cum silvis que olim fuerint ecclesie Sancti Triphonis positas in pertinentiis Castri Scrofani in loco qui dicitur Terre de Monte Andrii inter hos fines: ab uno latere tenet Petrus de Sabello dominus dicti Castri, ab alio de subtus est rivus, ab aliis lateribus sunt silvis dicti Castri Scrofani. Vel si qui alii sunt veriores confines ad predicta omnia. [44] Item et omnes alias terras quas habuit dominus Egidius Pauli de Roffredo in territoriis predictorum castrorum sicut suis finibus terminiantur. [45] Et ut apparet in quodam alio instrumento autentico quasdam terras sementaricias cum valle et costis suis et cum omnibus suis usibus, utilitatibus et pertinentiis 277

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positas in tenimento Castri Scrofani et prope ipsum castrum in loco qui dicitur Trivinianum inter hos fines: ab uno latere tenet ecclesiam Sancti Blasii et ecclesiam Sancti Angeli de dicto castro, fossato mediante; ab aliis lateribus tenet Curia dicti castri, silicet Petrus de Sabello dominus dicti castri vel si qui alii sunt veriores confines. Est tamen videndum utrum terre que sunt scripte hic manu mea sunt ille eedem que scripte sunt supra proxime manu alterius an sint alie au sint partim eedem et partim alie. [46] Omnia et singula bona Sancti Nicolai de Palo et bona conventus Stimigliani et loci in territorio Castri Catini sunt applicata conventui Sancti Augustini de Roma quousque forte repereantur et de loco Stimigliani vel quousque magca et cetera alium locum in Monterotundo pro illo constrixerit et cetera ut in locis de super confectis plenius continetur. [47] Similiter bona conventus Molarie sunt dicto conventui Sancti Augustini de Roma commodata sunt eorum fructus priori et fratribus dicti conventus Sancti Augustini de Roma sunt ipsi dicto conventui sunt applicata. Ut in litteris qui de predictis in Christo** et domnus dominus Prosper cardinalis de Columna certas litteras conventui favorabiles contulit gratiose. Ut in ipsis clarius continetur. Videtur quod esset bonum quod supradicta bona omnia et singula hic scriberentur ne dum immobilia sed etiam mobilia quod fieri posset in suo loco. Postille posteriori all’inventario del 1431-1432 ma precedenti al 1467, anno in cui sono aggiunte le note di mano del mag. Battista Casali (f. 66r). [48] Una vigna posita extra portam Daccide posita i‹n› loco detto Travicella quam dimisit nobis venerabilis domina Maria olim uxor Poncelli de Ursinis et quam tenet Laurentius Martini de regione Pigna. Qui secundum consuetudinem Romanorum omni anno respondet tres caballatas musti et duas quartas uve ut appare‹t› in instrumento stipulato per Laurentium domini Pauli de Toto125. [49] Una vinea posita extra portam Settignanam prope ecclesiam Sancti Iacobi quam dimisit nobis venerabilis domina Maria supradicta, quam tenet Angelus Pennuto de regione Sancti Angeli que omni anno, secundum consuetudinem romanam, respondet quattuor caballatas puri musti et duas quartas de uvis, ut apparet in instrumento publicato manu supradicti Laurentii domini Pauli Toti 126. 125 Segue l’annotazione del Casali: Hec vinea venit in desertum propeter hanc magnam […] in parvo tempore, que vendita fuit de anno 145[…] et de anno 1467 de cuius pecuniis fuerunt empte due caballate musti annualis […] quarum una empta fuit de vinea Pellegrini [cassato e seguito da uno spazio bianco di circa diei lettere] extra portam de anno 145[…] et alia de mense septembris 1467. De vinea Iuliani Palini extra portam Castelli magister Baptista Casalis de Roma provincialis et procurator subscripsi 1468. 126 Segue l’annotazione del Casali: Hec vinea propter ipsam Mariam […] venit in debitum que aliquantulum reparata fuit per conventum. Respondet nunc duas caballatas musti annuatim. Magister Baptista supradictus subscripsi 1468.

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[50] Una vinea posita extra portam Populi in loco dicto Monte Sancto Valentino quam tenet Paulus de Rosa de regione Columne qui habita iuxta duas turres responde[ndum] anno secundum consuetudinem romanam unam saumam puri musti.

Appendice 2 Inventario degli immobili e dei beni fondiari del 1463 ca. AGA, Provincia Romana, Inventario Oo2, ff. 4v-7r Possessiones dicti conventus (f. 4v) [1] In primis una vinea magna 18 petiarum in via qua itur ad Sanctam Mariam de Populo noviter pastinata qua tenet conventus in loco qui dicitur Lo Trullo. [2] Item alia vinea extra portam Populi iuxta muros via mediante versus flumen ad rendendum duo barilia musti. [3] Item alia vinea extra dictam portam posita in medio Selciate manu dextra iuxta viam ipsam Selciate ad rendendum annuatim unam salmam musti more romano 127. [4] Item alia vinea extra dictam portam posita in capite dicte Selicate manu sinistra quam tenent clamidate nostre domine Margarite de Martelutiis ad rendendum unam caballatam musti et unam quartam uvarum, iuxta dictam viam publicam 128. [5] Item alia vinea extra dictam portam non multum a longe a supradicta vinea et via manu dextra ad pede montis Sancti Valentini quam tenet Baltasar Federici iuxta viam qua itur ad monte Sancti Valentini ad rendendum quatuor ducatos. [6] Item alia vinea in monte supradicto Sancti Valentini extra dictam portam quam tenent partim Antonius Spangnolus pro una salma musti more ricto et XX sol. et partim tenet . . pro una salma musti. [7] Item alia vinea extra dictam portam et in dicta via magna publica versus pontem Mollis a parte sinistra quam tenet magister Stephanus Martinus barbitonsor pro una caballata musti. [8] Item alia vinea extra dictam portam prope supradictum pontem in loco qui dicitur Monticelli a parte sinistra quam tenet Antonius Mancinus pro duabus caballatis mustis et tribus barilibus 129. (f. 5r) 127 Annotazione 128

marginale: salma sunt VI barilia. Annotazione marginale: caballata sunt quattuor barilia. Cfr. ASR, Agostiniani in S. Agostino, b. 178, introitus, f. 22v (25 maggio 1467). 129 Annotazione marginale: versus flumen.

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[9] Item unum cannetum iuxta pontem Mollis extra dictam portam quod tenent Laurentius Cole Diaci, heredes Minichocti Trinche et Antonius Canalis unusquisque pro una parte ad rendendum annuatim in totum florenos. [10] Item una vina extra dictam portam in loco qui dicitur lo Formello quam tenent heredes Antonii Vardelle ad rendendum unam caballatam musti et duas chugnitellas. Extra portam Castelli. [11] Item una vinea posita ad montem dello Lavoro alias dicto Lo Morrito dello Lavoro quam tenet domina Antonia de Bernabe habitans in regione Pontis in parrocchia Sancti Blasi della Fossa ad rendendum annuatim florenos duos. [12] Item una vinea in contrada Sancte Marie dello Pozzo quam tenet quidam Florentinus qui habuit a Paulecto Antonii Cetutii pro una caballata musti annuatim. [13] Item una vinea in eadem contrada que fuit domine Antonie domini Sanctis de Vivianis quam tenent heredes Minici seu Dominici Romani sensalis pro una salma musti annuatim. [14] Item una vinea in capite Prate prope ponticellum quam tenet uxor olim Papalis et nunc Antonelli Caballarii pro una caballata musti annuatim. [15] Item unum cannetum ad pontem Mollis sub proprietate Sancti Eustachii XII (bologninorum) quod tenet conventus. [16] Item una vinea prope muros ad portam Viridariam quam tenet Anzelmuccius pro una caballata musti. Extra portam Pertusii. [17] Item una vinea in Marinetta prope vineam Dominici della Corona quam tenet Nicolaus de Neapolis pro una caballata musti. Extra portam Terrionis. [18] Item una vinea in Monte . . quam tenet . . de . . de regione Pontis pro una caballata musti. [19] Item una vinea extra portam Settigniani quam tenet Antonius ortolanus pro duabus caballatis musti. [20] Item una vinea extra portam Apie in loco qui dicitur la Travicella quam tenent fratres conventus Minerve pro una caballata musti. [21] Item una vinea extra portam Sancti Iohannis in loco qui dicitur lo Trepide quam tenent heredes Iohannis dello Orbio pro XII cumgnitellis musti. (f. 5v) [22] Item una vinea extra portam Salariam in loco qui dicitur ad Doi Vasche quam tenent heredes Andree calsolarii alias dicto Sorite pro una salma musti. [23] Item una vinea in Pincis prope Sanctum Felicem quam tenent Iohannes Tuscanella et . . pro quarta simul cum ecclesia Sancte Marie de Trivio et pro tribus quartis uvarum pro nobis. Terre. [24] In primis ecclesia Sancte Marine seu casale sita in pertinentiis castri Raiani prope castrum novum cum castellaro, silvis, terris cultuurariis et incultuuariis cum monte et costis et terris inferius a Sancta Marina et via publica, inter hos 280

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fines: ab uno latere est tenimentum Montis Fortis, via publica qua vadit per medium dictarum terrarum. [25] Item certe terre ibidem loco qui dicitur . . dello Piscaro . . inter hos fines: ab uno latere tenet ecclesia Sancti Pauli de Urbe, ab alio est via publica, ab alio sunt res Sancti Eustachii. [26] Item habemus ibidem plures alias terras. [27] Item in territorio castri Scrofani sunt plures terre nostre. [28] Item in territorio castri Stimigliani habemus circa XX possessiones inter magnas et parvas. [29] Item unus ortus iuxta domum Sancte Marie de Populo, in parrocchia Sancti Triphonis quam tenet magister Paulus penitentiarius130 pro . . flor. (f. 6r) Domus in regione Campimartis. [30] .h. In primis una domus ante portam conventus cum furno quam tenet Leonardus Antonii Morto de Fredo in locationem pro annuali censu in festo Augustini duorum florenorum more romano. [31] .i. Item una domus in principio vie qua itur a conventu alla Piazza de Ricci manu sinistra quam tenet Perna de Stimigliano in pensionem pro decem florenorum annuatim more supradicto. [32] .ç. Item una domus contigua supradicte in via qua itur ad Sanctum Andream est ad usum Laricis ‹sic› conventus et fratrum infirmorum. [33] .L. Item una domus posita in contrada del Borgetto in parrocchia et prope ecclesiam Sancti Nicolai de Prefectis via publica mediante, habet in vita sua Maria de Beccharino. [34] .o. Item una domus in principio vie qua itur ad piazza de Ricci manu recta quam tenet Cola fornaro in pensionem pro quatuor florenis annuatim. [35] .n. Item una domus in eadem via et latere prope supradictam quam tenet . . in pensionem pro quatuor ducatis annuatim. [36] .p. Item una domus ante Sanctum Triphonem dicta la Scrofa que datur in pensionem pro quatuor ducatis annuatim. [37] .R. Item una domus prope dictam ecclesiam in via qua itur ad plateam Campimartis manu recta quam tenent in locationem heredes Angeli Iohannis Romani Casalis pro tribus ducatis annuatim. [38] .s. Item una domus prope dictam ecclesiam et conventum in via qua itur ad ecclesiam Sancti Salvatoris delle Cupelle in contrada delli Casali quam tenet in locationem magister Blasius barbitonsor pro V florenis annuatim. [39] .Vt. Item una domus ibidem contigua supradicte quam tenet in pensionem Catherina Nardule pro V florenis annuatim. [40] .AA. Item una domus que dicitur la Torre prope Sanctam Luciam quatuor portarum retro hospitalis Portugallensium quam tenet in locationem Laurentius Ciota pro tribus ducatis annuatim. 130

Si tratta di Paolo Mattabuffi.

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[41] .BB. Item una domus prope ecclesiam Sancti Ambrosii in via qua itur a conventu ad Sanctam Mariam de Populo quam tenet in locationem Bartholomeus de Guadagniolis pro L (bolognini) annuatim. [42] .ff. Item una domus divisa in duabus habitationibus inter supradictam ecclesiam et Sanctam Luciam quatuor portarum sita manu sinistra datur in pensionem pro VIII ducatis annuatim. [43] .Q. Item una domus prope Ymo contigua cum orto conventus que tenetur ad usum stabuli pro conventu et ordinis procuratore. In regione Pontis. [44] .A. Item una domus prope Ymaginem Sancti Celsi in via Recta quam tenet in locationem Petrus Valentinus pro octo ducatis annuatim non existente curia quatuor. [45] .B. Item una domus in eadem via Recta prope Sanctum Simeonem quam tenet in locationem ser Petrus Cola de Spoleto cancellarius domini cardinalis de Ursinis pro octo ducatis annuatim. (f. 6v) [46] .C. Item una domus in eadem via Recta qui dicitur la Taverna prope ecclesiam Sancti Salvatorelli datur in pensionem pro decem ducatis annuatim. [47] .D. Item una domus in parrocchia Sancti Appollinaris retro viam qua itur allo Bangno datur in pensionem pro tribus ducatis annuatim. [48] Item una domus ex opposito supradicte quam huius(modi) de bonis domini Clementis episcopi Verulani datur in pensionem pro duabus habitationibus ad rendendum annuatim pro utraque parte floren. XII. [49] Item una domus in eadem parrocchia in via dicta qua itur ad lo Bagno eiusdem domini episcopi quam tenet in locationem Iohannes Iacobelli pro quatuor ducatis annuatim. [50] .K. Item una domus in eadem contrada quam tenet Vannotia Hectoris in locationem pro una libra cere annuatim. [51] .f. Item una domus in parrocchia Sancti Triphonis prope domum domini Sanctis quam tenet in locationem dominus Ioannes Baptista de Cremona secretarius reverendissimi domini cardinalis Rothomagensis pro sex ducatis annuatim. [52] .G. Item una domus in dicta parrocchia prope hospitale Portugallen-sium quam tenet in vitam sua Maria de Beccharino. [53] .M. Item Lo Macello prope Nagonem in contrada de Scortichiari dat(ur) in pensionem pro viginti flor. annuatim. In regione Parionis. [54] .CC. Item una domus in parrocchia Sancte Marie de Pozzo Biancho in via publica qua itur a platea Parionis ad Monte Iordano quam tenet in locationem Iohannes de Bolongnia pro quatuor ducatis annuatim. [55] .DD. Item una domus in platea Montis Iordani que dicitur La Torre dello Campo prope ecclesiam Sancte Cecilie et quam tenet in locationem Paulus Benedicti dello Mastro pro XII flor. annuatim curia non existente pro octo flor. [56] .EE. Item una domus in contrada delli Armaroli in via qua itur a Campo Flor. ad pontem datur in pensionem pro deciocto ducati l’anno. 282

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In regione Columne. [57] .V. Item una domus prope Sanctam Mariam Magdalenam, in via qua itur a dicta ecclesia ad Sanctam Mariam in Naciuro, quam tenet in locationem Ascentius pro quatuor flor. annuatim. [58] .Y. Item una domus in via qua itur a Sancto Augustino ad Sanctum Salvatorem de Cupellis, in contrada de Doi Torri, datur in pensionem pro quinque ducatis annuatim. [59] .8. Item una domus quasi ante ecclesiam Sancti Andree dell’Orsi, prope plateam Columne, datur in pensionem pro quatuor ducatis cum medio annuatim. (f. 7r) [60] .GG. Item una domus ad presso allo Abergo ‹sic› della Ceriesa in via qua itur da Doi Torri ad Sanctam Mariam Rotundam datur in pensionem pro septem ducatis annuatim. In regione Pinee. [61] .E. Item una domus retro Minervam in via qua itur a Sancto Mauro ad Camigliano manu sinistra est in locationem heredibus Antonii Augustini pro quatuor flor. annuatim.

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Alessandra Peri Gli immobili urbani nella gestione delle finanze del San Giacomo degli Incurabili *

1. Il San Giacomo degli Incurabili nella Roma del primo Cinquecento “Quanto si fanno francesi o franciose, bisogna che, in vita o in morte, vadano a San Giacomo delle Carrette”1, questo per la popolazione romana del Cinquecento era il San Giacomo degli Incurabili, l’ospedale per quanti erano affetti da sifilide; e si trattava di un istituto che in pochi anni arrivò ad essere uno dei maggiori nosocomi cittadini, in grado di ospitare fino a duecento infermi 2. Nel 1515 papa Leone X trasformava in arcispedale destinato ai malati incurabili una precedente istituzione assistenziale sorta nel 1339 per dare ricovero a pellegrini e a poveri miserabili e nota come il San Giacomo in Augusta 3. La specializzazione in istituto destinato alla cura di persone *

Su sollecitazione del curatore, presento in questa sede alcuni dati tratti dalla mia Tesi di Dottorato in Storia Medievale: A. Peri, La struttura economica di due ospedali romani: il Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum e il San Giacomo degli Incurabili nel primo Rinascimento (1450-1527), Università di Siena, 2012-2013. A questo testo rinvio per l’abbondante bibliografia disponibile attorno all’istituzione ospedaliera qui presa in esame. 1 F. Delicado, Ritratto di Graziana l’andalusa (Retrato de la Lozana andalusa), Milano 2005, p. 211. 2 D. Solfaroli Camillocci, I devoti della carità. Le confraternite del Divino Amore nell’Italia del primo Cinquecento, Napoli 2002, p. 139; P. Paschini, Le compagnie del Divino Amore e la beneficenza pubblica nei primi decenni del Cinquecento, in Id., Tre ricerche di storia della Chiesa nel ‘500, Roma 1945, p. 97, l’autore riporta una cifra contenuta nel memoriale dei guardiani del 1525; per i dati relativi ai malati presenti negli ospedali nel 1527 cfr. E. Lee, Descriptio Urbis. The Roman census of 1527, Roma 1985, p. 366. 3 Per la storia dell’ospedale di San Giacomo degli Incurabili di Roma si veda Paschini, Le compagnie del Divino Amore e la beneficenza pubblica nei primi decenni del Cinquecento; A. Esposito, La documentazione degli archivi di ospedali e confraternite come fonte per la storia sociale di Roma, in Gli atti privati nel tardo medioevo: fonti per la storia sociale, a cura di P. Brezzi e E. Lee, Roma 1984, pp. 69-79; Solfaroli Camillocci, I devoti della carità; A. Lio, L’ 285

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di entrambi i sessi affetti da qualsiasi malattia incurabile, includendo il morbo gallico ed escludendo la peste e la lebbra, segnava per il San Giacomo, che ereditava la precedente intitolazione, i locali ed in parte la fisionomia istituzionale della più antica struttura, un cambiamento rilevante, contraddistinto dall’aumento delle attività e dal nuovo prestigio assunto nell’ambito delle istituzioni assistenziali cittadine. Del resto, sul finire del Quattrocento il problema della sifilide è particolarmente attuale e reso più urgente dall’improvvisa pandemia che esplose con violenza in tutta Europa ed anche a Roma, come si evince dall’opera letteraria di Francisco Deligado 4. Un male nuovo quello della sifilide, che portava con sé importanti implicazioni sociali; colpiva indistintamente tutti i ceti sociali e corrodeva i lineamenti degli infetti fino a renderli irriconoscibili e, nelle sue forme più acute, del tutto inabili alla vita lavorativa e sociale. In questo contesto il San Giacomo veniva incaricato non solo di aiutare e curare i poveri affetti dal mal francese ma anche – come si evince dai documenti pubblici quali la bolla di Leone X – di liberare le strade dalla vista sgradevole dei malati, per porre rimedio ad una situazione particolarmente grave nella città dei papi. Ma, come ben evidenziato da Daniela Solfaroli Camilocci, le vicende che portarono alla trasformazione del San Giacomo in Agusta in ospedale per malati incurabili sono anche strettamente legate alla fondazione della confraternita romana del Divino Amore, collocabile in via d’ipotesi tra il 1512 ed il 1514 5. Il sodalizio, organizzato sul modello del Divino Amore genovese, ne riproponeva il nome, la devozione per San Girolamo e gli statuti, prontamente riadattati alla realtà romana. Rilevanti e fondamentali appoggi furono offerti, non a caso, dai genovesi residenti a Roma, e tra questi dal protonotario apostolico Gaetano Thiene, legato alla famiglia di ricchi mercanti Pallavicino attirati a Roma all’epoca del pontificato del papa ligure Sisto IV e vicini alla famiglia Cibo, protettrice dell’ospedale dal 1515 6. Un ulteriore sostegno arrivava dal cardinale Sauli, fratello del ricco uomo d’affari Sebastiano e dall’ambiente che per provenienza geografica o interessi politici ruotava intorno a lui. Per la fondazione del nosocomio, sostanziale fu anche l’attività svolta da Mattia Verso, canonico Ospedale di S. Giacomo e la chiesa di Santa Maria Porta Paradisi, Roma 2000; J. Henderson, “Mal francese” in sixteenth-century Rome: the ospedale di San Giacomo degli Incurabili in Augusta and the “incurabili”, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 483-524. 4 Delicado, Ritratto di Graziana l’andalusa. 5 Solfaroli Camillocci, I devoti della carità. 6 Cfr. ibidem, pp. 78-79 e 87. 286

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di San Lorenzo in Damaso, sesto nell’elenco dei confratelli del Divino Amore ed associato alla confraternita di Santa Maria del Popolo, già amministratore del San Giacomo in Agusta 7. Indubbiamente l’ambiente genovese residente a Roma favorì l’incontro dei fondatori del sodalizio e costituì il fulcro del Divino Amore, tuttavia le norme statutarie, che riprendono i tradizionali criteri adottati dalle confraternite laicali romane, prevedevano l’ingresso di nuovi soci. Studi condotti sulla composizione sociale della confraternita evidenziano tra gli associati la presenza, oltre al gruppo genovese, degli esponenti delle più rispettabili realtà cittadine: le colonie nazionali, la curia pontificia, le prestigiose corti cardinalizie, gli ambienti culturali ed artistici e le famiglie della municipalità romana. Il fervore che animò il San Giacomo dopo la “specializzazione” trova immediato riscontro nella documentazione prodotta dall’ente, nello specifico le fonti contabili sottolineano come la nomina ad arcispedale comportasse sul piano economico una serie di benefici ed un incremento sostanziale delle entrate. Per facilitare il reperimento degli introiti necessari all’assistenza e alla cura dei malati, il San Giacomo veniva anche esentato dal pagamento dei dazi e delle gabelle ed otteneva i medesimi benefici concessi agli ospedali romani del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum, del Santo Spirito in Saxia e del santuario di San Giacomo di Compostella. Religiosi ed ecclesiastici erano liberi di lasciare in eredità al nosocomio i beni personali e quelli derivanti da benefici; inoltre, ottenevano l’indulgenza plenaria quanti donavano all’ospedale un minimo di cinque ducati d’oro, i confratelli che offrivano dieci ducati d’oro annui ed i fedeli che visitavano la chiesa elargendo un’elemosina durante la Settimana Santa o nelle feste di San Giacomo e della concezione della Vergine 8. 2. Le fonti delle entrate In pochi anni il San Giacomo divenne uno dei principali istituti assistenziali di Roma e l’aumento delle attività comportò un incremento sostanziale delle spese di gestione, per far fronte alle quali le elemosine erano tra le fonti di entrata più consistenti. La pratica di segnalare le generalità di coloro che consegnavano le offerte direttamente ai funzionari permette di individuare i donatori “regolari”. Fin dal primo anno di vita il banco Bini consegnò, per conto di papa Leone X, una elemosina annua di 7 8

Ibidem, p. 86. Cfr. C. Carpaneto, Gli ospedali degli Incurabili, Genova 1938, pp. 242-246. 287

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300 ducati d’oro di camera, talvolta incrementata da elemosine straordinarie quali forme di finanziamento a necessità contingenti. I cardinali Bernardino Carvajal, Giulio de Medici e Giovanni Battista Pallavicino, sostennero regolarmente l’ospedale così come i Collegi di Curia, gli Abbreviatori dei due Parchi, i sollecitatori o giannazzieri, gli scrittori apostolici, gli scrittori di Penitenzieria, i collettori del piombo, i segretari ed i notai di Rota. I banchi finanziarono l’ospedale con continuità e regolarmente; dal pontificato di Leone X in avanti il banco di Bernardo Bini elargì un’elemosina mensile così come il banco di Agostino Chigi che donava mensilmente due ducati d’oro. Inoltre, tutti i banchi in occasione della Pasqua e del Natale contribuivano alla questua organizzata dai guardiani dell’ospedale. All’aumento delle entrate corrispondeva, tuttavia, un incremento delle spese dovute all’afflusso sempre maggiore di malati che godevano di vitto, alloggio e cure mediche. Le fonti confermano come le necessità primarie del nosocomio fossero legate sostanzialmente alla gestione ordinaria: approvvigionamento di generi alimentari, salario di inservienti ed ufficiali, acquisto di prodotti destinati alla spezieria per la fabbricazione di medicamenti. Ben presto i locali dell’ospedale, con molta probabilità poco rappresentativi per il ruolo assunto dall’istituzione, non furono più sufficienti ad ospitare il numero sempre maggiore di malati, per cui nella primavera del 1518 i confratelli iniziarono i lavori per l’ampliamento e la ricostruzione dell’ospedale. I costi esosi per la ristrutturazione spinsero gli amministratori del nosocomio a sollecitare, inizialmente, i donativi e le elemosine di protettori e confratelli e poi a ricorrere ai prestiti dei banchieri e degli stessi fratelli, come anche all’alienazione di qualche immobile 9. I libri contabili riferiti a questo periodo dimostrano quanto fossero pressanti i bisogni dell’ospedale e quale stretta corrispondenza ci fosse tra la consegna delle elemosine e l’immediato riutilizzo per i pagamenti di forniture, salari e maestranze. Se l’ampliamento dei locali dell’ospedale era determinato dai bisogni dei malati, la decisione di costruire una nuova chiesa intitolata a Santa Maria Porta Liberatrix Pestilentiae 10, confinante con l’ospedale da via Leonina e denominata Madonna dei Miracoli per le virtù miracolose dell’immagine 9

Secondo la bolla di erezione dell’ospedale i guardiani potevano vendere case e terreni di proprietà solo dietro esplicito consenso di tutti i membri della confraternita. Le spese da affrontare furono ingenti, basti pensare che furono spesi tra il 1519 ed il 1524 per la fabbrica dell’ospedale quasi 3.000 ducati d’oro (Solfaroli Camillocci, I devoti della carità, pp. 144-145. 10 Ibidem, p. 149. La chiesa della Madonna dei Miracoli viene terminata in coincidenza dell’anno santo del 1525. 288

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in essa conservata, appare un’operazione strategica destinata a rendere il San Giacomo un luogo sacro e in tal modo incrementare il numero dei visitatori. Per comprendere quanto l’attribuzione della specializzazione in archispedale deli incurabili abbia influito sull’economia e sulle modalità di amministrazione dell’ente, i libri contabili 11, pur nella loro parzialità a causa del cattivo stato di conservazione, offrono un quadro interessante. In particolare, i libri di entrata e uscita permettono di notare non solo la velocità con la quale l’ospedale si trasformò da una istituzione generica in un ente qualificato nella cura della sifilide, ma anche come questo avvenimento abbia comportato un sostanziale incremento delle risorse disponibili. I libri di entrata e uscita individuano, infatti, dagli anni Ottanta del Quattrocento, nelle elemosine la voce preminente di entrata; le elargizioni provenivano dalle offerte della prima domenica del mese, cui erano tenuti i membri della compagnia di Santa Maria del Popolo 12, confraternita preposta alla gestione dell’ospedale, dalle cassette ed anche da lasciti e donazioni. Dal 1513, in relazione al ruolo che l’istituzione inizia ad assumere nel panorama assistenziale cittadino, diventano più frequenti gli introiti derivati dalla celebrazione degli anniversari, per i quali veniva generalmente corrisposta una somma pari a 25 fiorini. Per incrementare il bilancio, gli amministratori smerciavano anche piccole quantità di generi alimentari: vino proveniente dalle vigne di proprietà dell’ospedale, che veniva generalmente venduto a un fiorino il barile 13, mosto ceduto a 5 carlini il barile ed anche acquato dato a un ducato lo cavalo 14. Viene venduto anche il sale e le indicazioni sono molto precise riportando il peso e prezzo di vendita: due rubia di sale avuto in elemosina che sono 24 scorzi a due iulii lo scorzo sono 48 iuli 15. Ulteriori entrate provengono dalla vendita delli panni alli giudei 16 e dalla cessione occasionale di beni come di un letto che aveva lasciato la sorella di papa Leone 17. Inoltre, incrementano le casse dell’ospedale le restituzioni dei camerlenghi, 11

Archivio di Stato di Roma (= ASR), Ospedale San Giacomo, 1208 (Libro di spesa) che documentano le spese minute dal 1510; Ospedale San Giacomo, dal 1133 al 115 (Libri di entrata ed uscita). La documentazione è caratterizzata da molti vuoti a causa della perdita di parte della documentazione cinquecentesca a seguito dell’inondazione di Roma del 1637 e da un cattivo stato di conservazione prodotto dai danneggiamenti a seguito di incendi ed allagamenti dei locali nei quali erano conservati. 12 ASR, Ospedale San Giacomo, 1137. 13 Ibidem, 1137, c. 13. 14 Ibidem, 1143, c. 39. 15 Ibidem, 1142, c. 37. 16 Ibidem, 1149, c. 5,7,8. 17 Ibidem, c. 5. 289

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Gironimo di Teboli camerlengo sono per lo sindcato suo che avea inmano infra lli quali me assegno duc. 23 di quattrini 18, ed i prestiti come quello di 75 ducati d’oro a giuli 10 per ducato che Ettore de Guainazi genovese da per prestito all’archihospedale da restituirsi la metà entro due anni e mezzo ed il resto entro tre anni 19, ed anche da messer Baldassarre e compagni, guardiano del banco de Borgaini, per un prestito per comprare vini corsi per l’ospedale per 8 mesi fa la poliza 20. 3. La gestione e il rendimento dei beni immobili Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare dell’ente, nella documentazione del 1512 l’ospedale risulta proprietario di esiguo numero di immobili e di pochi terreni e vigne collocati nell’area di pertinenza dell’ospedale 21. Gli immobili venivano generalmente dati in locazione e dai libri contabili è possibile desumere il nome dell’affittuario, l’entità del canone di locazione e le modalità con le quali l’ente esige il pagamento. Fino ai primi anni del Cinquecento, le informazioni sui beni immobili dell’ente provenienti dalle annotazioni contabili sono estremamente parziali, nelle liste si fa riferimento alla proprietà di due granai – il primo frutta 6 ducati annui ed il secondo, sito a San Giacomo, è locato per sei mesi al prezzo di 6 ducati – e di dodici immobili con canoni di locazione non particolarmente elevati, una casa con orto è affittata per 6 mesi a 7 ducati, da una seconda ricavano 1 ducato 11 bolognini e ½ quattrino annui ed infine da una terza abitazione, sita in via della Scrofa, otto ducati di carlini annui. Per quanto riguarda i terreni e le vigne gli amministratori riportano solo la resposta di una vigna dopo l’ospedale dalla quale percepiscono mosto al tempo della vendemmia 22. È possibile tracciare un quadro più completo delle proprietà e delle rendite derivanti dalla locazione delle stesse nel periodo che precede la trasformazione in arcispedale, attraverso il libro di entrata e uscita relativo all’anno 1512 e attraverso i registri relativi agli anni seguenti. In questa documentazione il patrimonio risulta costituito da edifici (v. la tabella n. 1) ubicati nei rioni centrali della città e più precisamente a Campomarzio, dove troviamo quattro immobili (uno sotto San Nicola dei Prefetti e gli 18

Ibidem, c. 6. Ibidem, c. 4. 20 Ibidem, c. 6. 21 Cfr. ibidem, 1142. 22 Per i dati fin qui citati v. ibidem, 1133, c. 20-22, e 1137 passim. 19

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Gli immobili urbani nella gestione delle finanze del San Giacomo degli Incurabili

Tab. 1 – Immobili di proprietà del San Giacomo nell’anno 1512. Fonte: ASR, Ospedale San Giacomo degli Incurabili, 1142. Immobili

Canoni d’affitto corrisposti al San Giacomo degli Note Incurabili

Casa da fieno a Trastevere dietro Santa Cecilia Affitto annuo 15 carlini quando si va a Santa Maria dell’Orto Casa rione Colonna dopo Santa Maria in Via

Affitto annuo duc. 6 di carlini

Casa grande che sta alla Tenta

Locato fino alla terza Affitto annuo duc. 32 d’oro in oro generazione. Pagamento semestrale

Casa che sta alla Scrofa appresso alli casali

Affitto annuo duc. 18 di carlini

Locato fino alla terza generazione. Pagamento semestrale

Casa a Campomarzio

Affitto annuo 10 ducati

Pagamento semestrale. Salda l’intero anno

Casa a Campomarzio

Affitto annuo 3 ducati

Ha pagato come appare nel Libro Rosso 1513-1514

Casa overo casalino in Campo Marzio

Affitto annuo 2 ducati

Locazione in perpetuo. Non ha pagato nulla

Casa dove si fa la taverna

Affitto annuo 12 ducati

Granaio che sta nel chiostro dell’ospedale sotto la sala grande

La casa è spensonata dal 25/6 al 9/8 1512 e affittata in questo periodo a 16 ducati

Affitto annuo 12 ducati

Affitto mensile 12 carlini

Granaio che sta nel chiostro

Affitto annuo 6 ducati

Granaio piccolo nel chiostro

Affitto annuo 4 ducati di carlini

Casa a pede amante accentro

Affitto annuo 16 ducati

Casa piazza San Silvestro

Affitto annuo 2 ducati e 37 1/2 bolognini

Casa Campo Marzio sotto San Nicola dei Prefetti Affitto annuo 4 ducati

Pagamento semestrale

Pagamento semestrale. La casa non ha pagato Dal 1510 l’ospedale riscote la pensione fino che fosse soddisfatto di fiorini 75 quali ne è debitore il proprietario per più lasciti L’ospedale riscuote l’affitto della casa fino a quando non raggiunge i 25 fiorini del debito contratto dal proprietario per lasciti e anniversari L’ospedale riscuote fino a 50 fiorini per debito

Pezzo orto overo terreno posto de incontro a San Rocco Canne 60 cioè 8 canne lato corto 7 1/2 lato longo Affitto annuo 8 ducati Casa confinante sopraddetto orto

Affitto annuo 8 ducati

Locazione perpetua Locato fino alla terza generazione

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altri alla Montagnella), nel rione Colonna dopo Santa Maria in Via, a Sant’Eustacchio (in via della Scrofa appresso alli casali), nel rione Trevi a piazza San Silvestro ed infine, a Trastevere dietro Santa Cecilia quando si va a Santa Maria dell’orto dopo l’ospedale dei genovesi, dove l’ospedale possedeva una casa del fieno. Sono inclusi tra le proprietà dell’ente tre granai che si trovavano all’interno dello stesso ospedale e più precisamente il primo sta nel chiostro dell’ospedale sotto la sala grande, affittato a 12 ducati di carlini annui (l’affitto mensile è di 12 carlini), il secondo che sta nel chiostro locato a 6 ducati annui ed infine il terzo, il granaio piccolo nel chiostro, la cui rendita è di 4 ducati di carlini annui. I canoni di locazione si aggirano dai due ducati della casa ovvero casalino in Campomarzio ai 32 ducati d’oro in oro della casa grande che sta alla Tenta 23. La trasformazione dell’ospedale comportò anche un cambiamento nella tenuta dei registri e nell’amministrazione delle proprietà, necessario per avere una visione globale del patrimonio; nei registri cominciò così ad essere riportata l’estensione dell’immobile, espressa in canne, ed il prezzo di locazione alla canna che variava in relazione alla tipologia dell’immobile e alla sua collocazione 24. La casa a Monte dell’Auste della superficie di 22 canne e ½ è locata a 3 ducati annui a ragione di 10 bolognini la canna 25, mentre il canone d’affitto per la casa verso la porta dell’ospedale è calcolato a ragione di 1 carlino vecchio la canna 26. I contratti di locazione prevedono rapporti che durano generalmente un anno, rinnovabili, ed i pagamenti sono per lo più semestrali. Interessante è notare come gli amministratori cercano di trarre un utile anche da immobili spensonati per un periodo relativamente breve come la casa dove si fa la taverna, libera dalla fine di giugno agli inizi di agosto, che viene locata per il periodo a 16 ducati 27. Un altro dato desumibile dall’analisi dei libri di entrata e uscita è quello relativo agli affittuari degli immobili dell’ospedale che, come evidenziato dalle fonti, sono con maggior frequenza confratelli o persone vicine ad essi ed anche quanti esercitano una carica nella struttura. La casa che sta alla Scrofa appresso alli casali era affittata, ad esempio, al camerlengo dell’ospedale, che pagava 18 ducati di carlini annui in due rate semestrali 28. Inoltre, per alcuni immobili gli estensori specificano che l’ospedale entra in possesso delle pigioni per soddisfare le morosità dei proprietari; relativamente alla 23

Cfr. ibidem, 1142, c. 5-12. Ibidem, 1142, c.7-37. 25 Ibidem, c. 15. 26 Ibidem, 1144, c. 26. 27 Ibidem, 1142, c. 9. 28 Ibidem, c. 6. 24

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Gli immobili urbani nella gestione delle finanze del San Giacomo degli Incurabili

casa a pede ammonte acceptoro, ad esempio, l’ospedale riscuote la pensione fino che fosse soddisfatto di 75 fiorini quali ne era debitore per più lasciti 29; ed anche la casa a piazza San Silvestro esso riscuoteva l’affitto fino a raggiungere la somma di 25 fiorini dovuti per la celebrazione di un anniversario 30; e ancora, relativamente alla casa ovvero pontica a Campomarzio appreso a San Nicola delli Prefetti l’ente riscuoteva l’affitto per rientrare di 50 fiorini ad esso dovuti per due lasciti 31. La gestione delle proprietà immobiliari non sembra frutto di una strategia rivolta ad incrementare profitti investendo in determinate aree della città attraverso vendite o permute. I registri riportano la vendita di una sola casa nella strada verso l’arco de Portogallo che l’ente decide di vendere nel 1515 ricavando 125 ducati 32. Per quanto riguarda i fondi rustici (v. la tabella n. 2) l’ospedale risulta proprietario di vigne e terreni per i quali i redattori della documentazione riportano l’estensione espressa in canne, le rendite prodotte dai canoni di locazione, le eventuali vendite e le modalità di pagamento. Le proprietà rurali del San Giacomo degli Incurabili sono collocate esclusivamente all’interno della cinta urbana ed in particolare nell’area adiacente le porte cittadine e lungo il Tevere. Abbiamo così la vigna grande sotto l’ospedale di San Giacomo di quattro pezze o più dalla quale ricavano 2 cavalli di vino annui, 35 barili di mosto e 15 barili di acquato, la vigna piccola de 3 peze o circa giunta con la chiesa overo stabile di San Giacomo locata a 22 ducati annui da pagarsi al tempo della vendemmia, un’altra vigna di 2 peze fuori Porta del Popolo nel vicolo che va al Saxo che frutta 4 barili di vino ed il terreno della vigna grande, di 200 canne, la cui rendita è di 26 ducati e 50 bolognini annui 33. Anche per i terreni e le vigne viene riportato il valore della proprietà al fine di calcolare il giusto prezzo di locazione, un esempio la vigna grande che confina con il monte Austa e la vigna di Franciotto Orsini affittata alla compagnia delli senesi a ducati 25 e 50 bolognini valutata 10 bolognini la canna 34 e le 20 canne di terreno dopo San Rosso sul fiume valutate un iulio la canna la cui resposta fu consegnata per a fabbrica dell’ospedale 35. I terreni di proprietà dell’ente sono dislocati, per la maggior parte, nelle aree adiacenti il Tevere dove troviamo il pezzo di terra accanto al fiume di 22 canne affittato a 3 ducati e 20 bolognini, un terreno accanto 29

Ibidem, c. 11. Ibidem, c. 12. 31 Ibidem. 32 Ibidem, 1144, c. 23. 33 Ibidem, c. 3, 5, 13. 34 Ibidem, 1143, c. 20. 35 Ibidem, 1149, c. 79. 30

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Tab. 2 – Fondi rustici di proprietà del San Giacomo nell’anno 1512. Fonte: ASR, Ospedale San Giacomo degli Incurabili, 1142. Fondi rustici

Canoni di locazione

Note

Vigna piccola de 3 peze o circa giunta con la chiesa overo stabile di San Giacomo

Vino

Paga al tempo della vendemmia

Vigna di 2 peze fuori Porta del Popolo nel vicolo che va al Saxo

Vino

Paga al tempo della vendemmia

Canneto a Forma Cornella

3 migliaia e 1/2 di canne

Pezzo di terra accanto al fiume di 22 canne

Affitto annuo 3 ducati 20 bolognini

Locazione perpetua

Terreno accanto al sopradetto di 27 canne

Affitto annuo 3 ducati 45 bolognini

Locazione perpetua

Terreno scontro San Rocco

Affitto annuo 2 ducati 20 bolognini

Locazione perpetua

Ultimo pezzo del sopraddetto terreno accanto al fiume

Affitto annuo 4 ducati

Locazione perpetua

Altro pezzo sopradetto terreno di canne 107

Affitto annuo 8 ducati 30 bolognini

Ridotto a 44 canne l’affitto annuo è di 5 ducati e 65 bolognini

Pezo vicino sopradeto terreno di 45 canne

Affitto annuo 5 ducati

Locazione perpetua

Altro pezo di terra di 144 canne

Affitto annuo 19 ducati 15 bolognini

Locazione perpetua

Pezo terreno acanto al fiume di 40 canne cioè 3 per fasce e 13 1/2 per largo

Affitto annuo 25 ducati di carlini a moneta vecchia 25 Locazione perpetua bolognini

Pezo vicino sopradeto terreno

Affitto annuo 7 ducati 25 bolognini

Pezo vicino sopradeto terreno di canne 88

Affitto annuo 9 ducati 55 bolognini

Locazione perpetua

al sopradetto, un pezzo di terreno accanto al fiume di 40 canne, cioè canne 3 per fascia e 13 1/2 per largo, affittato a 25 ducati di carlini a moneta vecchia e 25 bolognini annui, con molta probabilità si tratta di un’unica estensione di terreno parcellizata per incrementare le rendite derivanti dalla locazione 36. Scarsi i riferimenti ai canneti, ne troviamo solo uno, a Forma Cornella deve avere 3 migliaia e 1/2 canne, dalla cui locazione l’ospedale percepisce un fiorino romano 37 e, nel 1513, 43 carlini e 50 bolognini per la vendita di 3700 fasci di pali ceduti a 13 carlini il migliaio 38. Queste proprietà prevedevano generalmente locazioni di lungo periodo. 36

Ibidem, c. 14-20. Ibidem, c. 5. 38 Ibidem, 1143, c. 6. 37

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2. La gestione delle uscite Diventare un ospedale specializzato comportò per il San Giacomo un rapido incremento delle voci di spesa ed in particolare quelle relative alla gestione ordinaria, la cucina e la spezieria ad esempio, ed anche i salari. A differenza del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum, il San Giacomo degli Incurabili non è un grande proprietario fondiario ed acquista la maggior parte di ciò che consuma fornendo indicazioni preziose sui regimi alimentari adottati dell’ospedale per la familia ed i degenti. Sono una presenza costante nei conti dell’ente l’acquisto di uova, particolarmente indicate per le loro proprietà nutritive, e di carne bianca, di pollastre, gallina e agnello, più adatta alla dieta dei malati come specificato nelle annotazioni che in moli casi riportano il riferimento per ordine del medico o specifiche quali pollastri far lo pisto alli malati 39. La dieta dei malati e quella della famiglia sono caratterizzate dall’utilizzo di diverse varietà di verdura, l’insalata utilizzata per entrambi, cavoli cappucci, finochio verde, bieti e cocozi cicore per i malati, tacoze per le minestre e rape per la famiglia. I cereali, in particolare fave, grano, lentiggie e ceci anche quelli rossi sono preferiti per far lo brodo per li infermi 40. Agli infermi è destinata l’acqua che si fa con la cicoria 41, la minestra di bieta e spinaci per gli infermi che non mangiano carne 42 ai quali è destinata anche l’uva passa che viene utilizzata anche per fare l’acqua pectorale 43, le fave infacite per le minestre destinate agli infermi che avevano lo flusso come stabilisce il medico tedesco messer Iacomo 44 e le ficore per certi matati che hanno stecta de pecto 45. Alla tavola della famiglia è destinato il pesce, tonnina, alici e fectura così come la carne di maiale 46, il presucto, vitella, castrato ed i piccioni alla quale si aggiunge cipolla, l’aglio 47 e il pretisemolo che viene utilizzato con l’agresta anche per il brodetto per 39

Ibidem, 1142, c. 50. Ibidem, c. 80. 41 Ibidem, c. 84. 42 Ibidem, c. 88. 43 Ibidem, c. 91. 44 Ibidem, c. 91. 45 Ibidem, c. 91. 46 Ibidem, 1138, c. 35. 47 M. Belli, F. Grassi, B. Sordini, La cucina di un ospedale del Trecento. Gli spazi, gli oggetti, il cibo nel Santa Maria della Scala di Siena, Pisa 2004, p. 19. L’aglio è utilizzato per le sue qualità digestive, stimolanti ed antisettiche, distrugge le ventosità, estingue la sete, è utile contro il mal di denti e la tosse cronica e stimola l’appetito. La cipolla è utilizzata, dal punto di vista medico, per il suo essere depurativa, diuretica e disinfettante. 40

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li infermi 48. In alcuni casi le spezie sono coltivate all’interno dell’ospedale come confermato dall’acquisto, nel 1506, di basilico, menta e maggiorana per l’ortolano dell’ente. Nella lista della spesa del San Giacomo la frutta non manca e le pere e le pere ruspite dalla primavera all’autunno sono presenti nell’alimentazione dei malati e sono considerate un antidoto contro i veleni 49; vi sono, inoltre, melloni capati, nievole, mandorle, celigne e prugna e mallaranci dolci per i malati ed anche un cocomero ordinato dal medico per un malato 50. Inoltre, acquistano confetti, butiro vaccino, acqua rosa per le torte, il papano per la sera e lo zucchero di uva cotta per circostanze particolari come per il pranzo di San Giacomo, il 25 luglio, quando vengono consumati anche i dolci tipici romani nocchiate, pignolate e mostaccioli 51. Il tutto è condito con l’olio e l’agresto 52 per la minestra, pepe, cannella, sale bianco e zucchero il tutto accompagnato da pane basso per pranzo. I conti relativi alle spese fatte permettono di conoscere il prezzo al consumo di alcuni beni acquistati come il grano, il romanesco è acquistato a 15 carlini il rugio, quello per fare il pane a carlini 16 il rugio inoltre comperano grano a 10 iuli il rugio dai guardiani del Santissimo Salvatore 53. Il prezzo del vino varia in relazione alla provenienza; il greco è, ad esempio, acquistato a 27 fiorini e mezzo la botte e, a causa del costo elevato, è riservato a circostanze importanti come il pranzo della festa 54. Nel bilancio dell’ospedale un altro capitolo di spesa è quello relativo alla spitiaria effettuati generalmente nella speziaria di Campo dei Fiori 55 o in quella di piazza Recanati 56 così come da Agostino a San Salvatore dello Lauro 57 o da Pietro spitalie alla Consolatione 58. Lo spetiale si avvale per la preparazione di cerotti e cataplasmi, sciroppi ed elisir, olii e vini medicinali, pozioni ed acque profumate, unguenti e pomate di ampie quantità 48

Ibidem, 1142, c. 63. Ibidem, c. 21. 50 Ibidem, c. 59. 51 Ibidem, 1137, c. 33-58. Cfr. anche A. Esposito, Il cibo nel mondo confraternale del tardo Medioevo, in “Archivio Storico Italiano”, 161, 2003, p. 56. 52 L’agresto è una conserva liquida densa a base di mosto d’uva utilizzata sia per insaporire gli alimenti sia per preparare bevande dissetanti alle quali sono attribuite proprietà terapeutiche. 53 Ibidem, 1149, c. 118. 54 Ibidem, 1139, c. 34. 55 Ibidem, 1142, c. 54. 56 Ibidem, c. 58. 57 Ibidem, c. 66, 70, 76 e 98. 58 Ibidem, c. 60 (“per diverse robe comprate per la compagnia vegia et dispensate per la compagnia nova per li incurabili”). 49

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e qualità di piante officinali nostrane ed esotiche come cannella (3 once 15 bolognini), garofalo (1 oncia 7 bolognini), zenebro, cassia, alove, ficore, dattoli, rose e camomilla frasca pulicata per fare l’olio per l’ospedale così come liquiritia, viole, zafferano e rabarbaro per li profumi per li infermi 59. Alla base della preparazione di queste forme medicamentose ci sono anche le polveri animali e minerali, il campionario è molto vasto comprendendo l’armoniaco, il salinetro, il verderame, il sangue di drago, l’antimonio, la scamonea, lastrologia, sebesteni, litargirio, argento vivo, mirabulano atrini e chebulli, alume de rocha, euforbi, regolitio, spodio, mirra, incenso in polvere e sano. Gli ungenti in uso per mitigare dolori, riscaldare, refrigerare, seccare ed umidificare, a seconda dei componenti, sono preparati utilizzando biacca, trementina, mirra, mastice di cera nera e bianca, pece navale e greca, cenobio, minio, mele, olio rosato e di camomilla, rotame di zucchero, diagridio, rose secche, sebostene, giugube e sugna veggia 60. La radice di cansino è impiegata nella preparazione di impiastri 61, medicamenti per uso esterno adatti a ridurre l’eccesso di umori nelle infiammazioni, mitigare il dolore, favorire la sudorazione, cicatrizzare e depurare il corpo mentre le uova fresche servono per far lo molificotivio per gli infermi 62. Indispensabili per le preparazioni lo zucchero (2 libre 7 ½ bolognini) di uva cotta e rosato, l’acqua rosa (1/2 libra 22 bolognini), il sapone bianco (1/2 boccale 3 bolognini) 63 ed il vino rosso e mosto cotto per medicine 64. Interessante è il campionario di medicamenti che lo spetiale dell’ospedale acquista da Menico spitiale e che comprende gli oli di mastice, di spiga, di airsinio, di amandorle dolci e amare, gli ungenti apostolorum 65 e basiliconis, agrippa, unguento artanite e martiaro, untione ed anche sief rosato, de albi, de opio e de piomo medicamenti composti di varie polveri miscelate e impastate con gomme 66. Inoltre, le annotazioni dello speziale riportano un’enorme varietà di pillole medicamentose pinole feolida, de siropina, opoponachi, de anamite, de morite, comunis, de emperorio, de lucis, arabile, eufobio, 59

Ibidem, c. 90. Ibidem, c. 76. 61 Ibidem, c. 64. 62 Ibidem, c. 90. 63 Ibidem, c. 68. 64 Ibidem, c. 55. 65 Suggerito e nominato “degli apostoli” da Avicenna, era composto di dodici sostanze (da cui apostolorum): litargirio, gomma, cera bianca, trementina, ragia, aristolochia, gomma ammoniaca, incenso, bedelio, mirra, galbano, opoponaco e fior di rame. Si usava nelle ferite suppurate. 66 Ibidem, 1142, c. 87 (i medici arabi li chiamavano sieffi; esistevano almeno una quarantina di qualità di trocisci). 60

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de iera, alefainam, sumatica, de fumofena, de rubarbaro, de atieno greco, opittimio e cerotto sandolino. Sugli scaffali della spezieria sono collocati utensili per la preparazione dei medicamenti e per la conservazione delle materie prime, giarrette, tegami grandi, cose per oli e succhi per la spezieria, canovetta per fare saccoccia per cavare i succhi e spago per legare le caraffe 67, bigieri per meter unguento et lavande agli infermi 68, bigieri di stagno per far gli ungenti 69, bigieri di vetro per mettere ligiri e le conserve et unzione e ventose di vetro 70. Le spese per i degenti riguardano l’acquisto di scodelle, fogliette e bigieri per bevere li malati 71, scodelle grandi, tavolette, stoppa di lino per le piage deli infermi e le spese per comprare, rifare e trasportare materassi. Tra gli acquisti per l’ospedale rilevanti i costi per la paglia per le lettiere, i panni, fiaccole, candele, torcie e focoloni, un carratello comprato dal banco dei Sauli, le spese per far buttare un can morto che amorbava lo paiese 72 ed anche la spesa per comprare un muletto morello di cinque anni pagato 20 ducato d’oro in oro comprato […] cum pacto e conventioni che lo mulo sia sano e senza vitio alusanza de Roma, l’ospedale può restituirlo essere risarcito e pagare le sole spese per la gabella73. I costi dell’ospedale prevedono numerose uscite per i piccoli lavori quotidiani il trasporto di letti, dei panni al fiume, il trasporto del vino e del sale, sterrare il pozzo dell’ospedale, aggiustare la campana74 così come le attività quotidiane per organizzare i beni rurali, zutrare le canne, i lavori alle fratte 75 e per tagliare il canneto a Fontana Cornella o a San Giacomo. Amministrare un ospedale comporta investire nella manutenzione delle strutture e delle proprietà urbane, i conti riguardano i pagamenti per i lavori alla loggia del San Giacomo, i compensi degli scalpellini e dei muratori impiegati all’occorrenza. Dall’anno 1513, i libri di entrata e uscita evidenziano un incremento dei costi per la manutenzione e per l’acquisto di materiale, ferro, legna e chiodi 76, colla romanesca, chiodi, finestre, catene di ferro e tavole così come per il trasporto della calce e per l’acqua per bagnarla, con molta probabilità l’incremento delle uscite per questo tipo di acquisti è da relazionarsi ai lavori di ampliamento che anticipano la costruzione del nuovo ospedale. 67

Ibidem, 1144, cc. 77-78. Ibidem, 1142, c. 58. 69 Ibidem, c. 53. 70 Ibidem, c. 55. 71 Ibidem, c. 53. 72 Ibidem, c. 52. 73 Ibidem, c. 63. 74 Ibidem, 1137, cc. 33-58. 75 Ibidem, 1138, c. 33. 76 Ibidem, 1134. 68

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Il San Giacomo è, prima del 1515, una struttura di piccole dimensioni che possiede un organico commisurato alle sue possibilità costituito da lavoratori stabili – il garzone all’ospedale e quello alla vigna, i preti della compagnia per le funzioni religiose, i mandatari, il predicatore, i medici e gli inservienti – e da salariati occasionali impiegati in caso di necessità contingenti, come le monache che fecero le sciompellette inzucarate, il secondo cuoco assunto durante i festeggiamenti per San Giacomo, li stampatori per stampatura della bolla grande e lo summaro per atacar per li cantori 77 e per lo summaro in volgare 78, il notaio per un deposito fatto nelle cause 79 e l’incaricato per la portatura della spiritata fora dello spitale a larcho de conigliano 80. I salari sono generalmente corrisposti il 25 del mese. Le spese religiose ed i festeggiamenti sono un’altra voce di spesa costante per gli amministratori dell’ospedale. Nel primo caso, i costi più rilevanti riguardano la celebrazione degli anniversari e prevedono l’acquistato di pali d’oro, la retribuzione dei preti per la celebrazione delle funzioni liturgiche ed i costi delle chiese dove avranno luogo le messe commemorative, a questo si aggiungano le spese per la cera e le fiaccole. L’analisi del flusso di cassa evidenzia gli esborsi per i pranzi degli spedalieri durante le festività religiose, come la vigilia di Natale, e per la ricorrenza più rilevante per la vita dell’ospedale, ossia la festa di San Giacomo, per la quale si acquistano fiaccole e cera e si spende per celebrare la messa grande, per i bastaci la vigilia di San Giacomo, per la venuta del Papa, per lavori di sistemare la strada, ed anche per uova e zafferano per tingere carte per i festoni, per un quiderno di carta reale per i festoni, dieci uova grandi in carta reale per la festa ed anche pane, carne e meloni per chi aggiusta la chiesa 81. Nelle pagine finali dei libri quattrocenteschi di entrata ed uscita sono riportate delle annotazioni, denominate Recordo, nella quali vengono trascritte annotazioni di diverso genere, una sorta di promemoria che può contenere l’indicazione del numero di barili di mosto, 162 nel 1488 82, che provengono dalle resposte delle vigne dell’ospedale; le donazioni, ad esempio, un materasso, una coperta, un paio di lenzuola ed un capezale ed anche il ricordo che venne a stare al ospizio a carlini 15 al mese 83. 77

Ibidem, 1142, c. 53. Ibidem, c. 56, 79 Ibidem, 1143, c. 69. 80 Ibidem, 1142, c. 62. 81 Ibidem, c. 66. 82 Ibidem, 1134. 83 Ibidem, 1140, c.35. 78

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3. I registri dei conti del 1515 Relativo all’anno 1515, troviamo un libro di entrata ed uscito che nell’intitolazione reca, per la prima volta, la dicitura lo archihospedale dell’incurabili e che contiene gli introiti e gli esborsi rispettivamente incassati ed effettuati tra il luglio del 1515 e marzo dell’anno seguente. Da questa data i libri di entrata ed uscita dell’ospedale cambiano la loro fisionomia, in particolare nella sezione relativa alle entrate che diviene più articolata sottolineando l’incidenza che la specializzazione assume nell’organizzazione e nella amministrazione dell’ente. Il camerlengo della confraternita registra le entrate dalla settimana Santa dell’anno, ossia da quando vengono eletti i nuovi ufficiali, fino all’anno successivo 84 suddividendole in due sezioni, una relativa alle rendite derivanti delle proprietà immobili e terreni dell’ente, l’altra che riporta gli introiti provenienti dalle elemosine delle cassette collocate nella chiesa quella verde, ad esempio, è per la limosina per Roma, la cassetta nell’ospedale bianca solitamente aperte dai guardiani ed il cappellano il sabato mattina, da quelle portate in giro dai questuari in determinati periodo dell’anno. Ci sono poi le elemosine consegnate personalmente o tramite i guardiani al camerlengo che può essere l’elargizione mensile o a scadenze regolari nel corso dell’anno di una quota stabilità oppure, come avviene per i confratelli, un’offerta che avviene in occasione delle più importanti festività liturgiche come la festa di San Giacomo (25 luglio), Pasqua, Natale, la Concezione e può accadere che il 9 decembre che fu la concepitone della Madonna che avemo indulgentia plenaria in lo bacile e tucte le casette ducati 17 e un iulio 85. In questo caso è annotato il nome del donatore e di eventuali intermediari che effettuano il pagamento. Dal primo anno di trasformazione in archispedale il papa Leone X contribuisce regolarmente al sostentamento dell’ente con il pagamento di una quota mensile di 300 ducati d’oro di camera che avviene in tre rate da 100 ducati d’oro tramite il banco del fiorentino Bernardo Bini 86, alla quale si aggiungono le elemosine straordinarie come i 24 ducati doro in oro de cammora et iulii 8 li quali li ha dati la Santità de Nostro Signore per elemosina hebe da messer Bennardo Bini 87. Le elemosine papali, diventano una costante nell’economia dell’ospedale fino al Sacco di Roma88. Tra i finanziatori dell’ospedale sono annoverati cardinali: tra i quali Bernardino Carvajal (10 ducati 84

Solfaroli Camillocci, I devoti della carità, p. 130. ASR, Ospedale San Giacomo, 1150, c. 9. 86 Solfaroli Camillocci, I devoti della carità, p. 132. Durante il pontificato di Adriano VI la somma corrisposta diminuisce a 100 ducati annui. 87 ASR, Ospedale San Giacomo, 1150, c. 18. 88 Ibidem, 1150, c. 5. 85

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mensili), Bendinello Sauli (10 ducati), Raffaele Riario (20 ducati)89 e con una certa regolarità anche Leonardo Grosso della Rovere, Giulio dei Medici, Giovanni Battista Pallavicino90. Costanti, in questa prima fase, i donativi dei collegi di Curia che sostengono l’ospedale con somme di diversa entità; i segretari e gli scrittori apostolici 25 ducati, gli abbreviatori dei due Parchi 16 ducati, i collettori del piombo ed i notai di Rota 12 ducati, 10 ducati i giannizzeri e 5 gli scrittori di Penitenzieria91. Anche il collegio dei notai e del prothonotario elargiscono un’elemosina di 10 ducati 92. I banchi effettuano i pagamenti delle offerte per conto del papa e di cardinali, così messer Agostino Gisci paga 10 ducati in nome delo reverendissimo de Ancona per la elemosina che sua Santità Reverendissima mi fe la lectera a Viterbo 93 ed i tre ducati dalo reverendissimo de Sangallo, da Bernardo Bini delo reverendissimo de Santi Quattro elemosina mensuale 94, dagli Altoviti in Ponte 20 ducati per elemosina del reverendissimo de San Giorgio che mando a Roma quando fui a Viterbo. Inoltre, sempre il banco di Agostino Ghisi paga per messer Mario95 una donazione di 15 ducati ed il banco di Ansaldo de Grimaldi e compagni de messer Ieronimo Gentile per resto deli depositi dele elemosine insino a di decto da piu persone in contanti in tanti iulii 70 ducati 6 iuli e 5 bolognini 96. Queste operazioni stimolano il coinvolgimento dei banchieri nell’opera di promozione e sostegno alla struttura tanto da spingerli ad effettuare delle offerte mensili, Bernardo Bini e Agustino Chisi sborsano ducati 2 doro 97, in un conto del 1518 la quota pagata da Bernardo Bini è di tre ducati doro 98. Inoltre, tutti i banchi contribuiscono, quando i guardiani vano per la strada a banchi insino a Campo de Fiori a Pasqua ed a Natale, con il pagamento di 21 ducati e 20 baiocchi 99 e con donazioni particolari, il banco Bulcarini per la mano de messer Baldassarre Bulcarini 2 scuti corrispondenti a due ducati 100 e lo patron delo banco Doria per un pasto per li malati in tante galline ducati 2 101. Le offerte in favore dell’ospedale che “…levarono tutti i piagati dalle 89

Ibidem, 1145. Ibidem, 1146. 91 Ibidem, 1145-1150. 92 Ibidem, 1150, c. 8. 93 Ibidem. 94 Ibidem. 95 Ibidem, c. 10. 96 Ibidem, c. 10. 97 Ibidem, cc. 39-43. 98 Ibidem, 1147, c. 49. 99 Ibidem, c. 10. 100 Ibidem, 1147, c. 50. 101 Ibidem, c. 11. 90

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strade et piazze di Roma” 102 coinvolgono tutti i livelli sociali dagli esponenti del baronaggio romano a quanti sono presenti a Roma anche per brevi periodi, messer Antera de Cartiglio spagnolo che lascia tre ducati doro 103 ed uno spagnolo che sta supra il giardino del Papa due iulii 2, corrispondenti a 20 bolognini 104. Inoltre, i confratelli ed i fondatori del gruppo romano del Divino Amore attuano una strategia di promozione capillare e diretta alle persone più facoltose tale da diventare una fonte fondamentale di entrata. Messer Hectore Vernaccia consegna i donativi dallo signore Franceschetto Cibo (1 ducato d’oro) 105 di messer Francesco imperiale per offerta de Natale che da messer Giustino Grimaldi et messer Vincenso Pallavisino (ducati 2 e bolognini 50), di messer Agustino de Sauli ducati 2 doro per offerta di Natale e, sempre dal banco de Grimaldi, in presentia de messer hectore Vernaccia ducati 12 de oro de cammora in iulii per offerta de Natale che da monsignore Deflisco. Le cortigiane che vedono nella possibilità di usufruite delle indulgenze a quanti contribuiscono annualmente con 10 ducati o inseriscono nel testamento almeno 5 ducati da lasciare all’ospedale, una possibilità per espiare i propri peccati. Numerosi gli esempi nella documentazione, il camerlengo segna che hebe da madonna Branzaida ispana ducato uno doro in oro per parte de 10 ducati che promette de are alla nostra compagnia per havere le nostre indulgentie et entrare in ipsa 106; da madonna Angiloza Scantriglia matre de messer Metello Palone carlini 10 per parte de 25 fiorini che vole dare alla nostra compagnia in vita sua et per essere entrata nella compagnia bl.75 107, ed hebe ducati 5 langi doro da una donna rencarcirata per la mano dello protonotaro per havere la nostra indulgentia et entrare nella nostra compagnia (corrispondono a ducati 5 e bolognini 25) 108. Le elemosine sono la voce più consistente di entrata alla quale vanno a sommarsi le entrate in natura, in particolare grano, che vengono donate all’ospedale. Anche in questo caso numerosi sono i riferimenti, un esempio i due rugia di grano che il camerlengo ha dalla moglie dello signor Marcantonio Colonna li quali li ho dato a Moretto fornaio per conto della parte che da allo nostro spedale per preio de 17 iulii il rugio (equivalgono a ducati 3 e bolognini 40) 109, ancora i due rugia de grano che fu dato allo 102

Solfaroli Camillocci, I devoti della carità, p. 135, nota 34. ASR, Ospedale San Giacomo, 1147, c. 52. 104 Ibidem, c. 53. 105 Ibidem, c. 54. 106 Ibidem, c. 17 v. 107 Ibidem, c.19. 108 Ibidem, c. 20. 109 Ibidem, c. 18. 103

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spedale lo quale ho dato a Moretto fornaio per conto dello pane che dà allo spedale et posii a conto iulii 25 per decti 2 rugi 110 sempre a Moretto fornaio sono destinati i cinque rugia de grano a iulii 16 il rugio che hebe da messer Antonio dello Bufalo per parte de 25 fiorni che es obligato a pagare per lanima de uno suo famiglio et per li anniversari da farse 111. Il numero delle proprietà con l’attribuzione della specializzazione aumenta in modo esponenziale, l’ente menziona una casa a Campomarzio nella zona della Lo cellaro e nello stesso rione ma alla Montagnola un gran corpo di casa dalla quale ricavano 15 ducati 112, scorrendo i conti si trova una casa a San Rocco che frutta 18 ducati annui, quattro abitazioni nel cantone verso San Rocco, una delle quali nel 1516 la tiene la compagnia senese ed una casa a Torre Sanguigna del valore di 35 ducati auri in oro di camera. Per molti immobili oltre alle annotazioni relative al nome del locatario, tempi somme e modalità di pagamento degli affitti è riportata anche l’estensione espressa in canne. Una casa al Monte dell’Auste di canne 22 ½ è affittata a ducati 3 a ragione di bolognini 10 la canna, una casa verso il fiume di canne 45 è locata a ducati 6 annui ed anche per l’immobile grande di 80 canne il prezzo è calcolato attribuendo il valore di 10 bolognini la canna 113. Un’altra voce d’entrata se pur di poco rilievo è prodotta dal consenso che i guardiani danno nella vendita di immobili per lo consenso de una casa che dettero li signori guardiani la quale vende Ioanni Grisone a Michele Mantuano tavernaro per preio de ducati 135 d’oro che rende due ducati e 70 bolognini, e da madonna Iuvanna moglie che fu de Giovanni Cotta de Toleto per lo consenso che li detti signori guardiani de una casa che comparo da madonna Tranquilla la quale casa risponde alla nostra compagnia ducati 5 di carlini a bolognini 114 e i due ducati d’oro in oro che hebe da Domenico Pallestrina per lo consenso che li hanno dato li guardiani de una casa che ha venduta a Michele Mantuano tavernario 115. Ed infine i sei ducati di carlini che hebe da Iacomo de Caravaglio per lo consenso dato li signori guardiani de una casa che ha venduta ad madonna Isabella de Ripaldo quale casa risponde allo nostro archihospitale ducati 5 d’oro l’anno et bolognini 1 nel dì de Santo Iacomo 116. 110

Ibidem, c. 8. Ibidem, c. 9. 112 Ibidem, 1144, c. 11. 113 Ibidem, cc. 13, 15, 18, 19, 34, 37. 114 Ibidem, c. 10. 115 Ibidem, c. 10. 116 Ibidem, c. 20. 111

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Le responste ed i censi degli immobili, dei terreni e delle vigne rendono in media 341 ducati annui, interessante è notare una distribuzione dei pagamenti che, scaglionati all’interno dell’anno, riescono a garantire un flusso di entrate continuo e costante 117. La vendita dei panni dei morti è una prassi consolidata anche per il San Giacomo e, come per il Santissimo Salvatore, gli acquirenti dei fardelli sono li giudei, nelle fonti si trovano annotazioni relative al prezzo di vendita, vestiti dei morti alli giudei per giuli 36, vendita di una coregia di velluto a 6 ducati e 37 ½ baiocchi ed i 20 fardelli venduti a giudei a bolognini 77, ma anche lavoranti dell’ospedale da Antonio Francisco carlini 14 de uno cappuccio tristo che li venduto duc.1 bl.5, dal nostro cuoco 2 camisie et uno soppone et un paro de calse carlini 15 (corrispondenti a ducati 1 e bolognini 12 ½ ). Scorrendo i registri ci si imbatte nella restituzione di piccoli prestiti che l’ospedale effettua come nel caso di frate Antonio nostro capellano che restituisce tre ducati doro li quali li aveva imprestati Iacomo camerlengo delli denari de quelli che morono in Santo Iacomo, e in prestiti l’ente chiede come quello ad Ettore de Guainazi genovese per prestito all’archihospedale di ducati 75 d’oro a giuli 10 per ducato che deve essere restituito secondo una precisa modalità, la metà entro due anni e mezzo ed il resto entro tre anni 118, il prestito del compagno Baldassarre di 75 ducati che devono essere restituiti entro otto mesi 119 ed i ducati 10 d’oro prestati da messer Antonio de Fuligni il 22 luglio 1515 e restituiti il 18 giugno 1516. Inoltre, in questo conto di Gironimo di Teboli camerlengo è riportata la restituzione di ducati 67 baiocchi 50 che sono per lo sindacato suo che avea in mano infra li quali me assegno ducati 23 di quattrini falzi transtati semiti a tempo suo 120. All’incremento delle entrate corrisponde un aumento delle spese determinato dalla necessità di fornire cure e di alloggiare un numero sempre maggiore di degenti e di conseguenza di ampliare l’organico dell’ospedale. Inoltre, l’incremento delle proprietà comporta l’aumento delle spese di gestione come quelle per le liti che spesso l’ospedale si trova a sostenere per entrare in possesso di lasciti, le spese di esercizio per le copie di un teste manto o per il notaio per la scrittura di un testamento (20 ducati). Per quanto riguarda gli accordi di lavoro interessanti indicazioni provengono dalle quietanze di pagamento dei salari con il nome del lavorante, il pagato e chi effettua l’operazione, ad esempio salario del garzone dello spedale di Santa Maria del Popolo et de governo de San Giacomo della Austa carlini 7 117

Ibidem, cc. 81-113. Ibidem, 1150, cc. 5, 8, 10, 14, 15. 119 Ibidem, 1149, c. 4. 120 Ibidem, c. 6. 118

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al mese tanto d’estate quanto d’inverno 121, salario del cappellano frate Antonio deve avere ancora 15 carlini scritto di pugno dal cappellano 122 ed un riferimento al pagamento delle retribuzioni effettuate da Antonio Castello banchiere fiorentino123. Dovizia di particolare è riservata alla stipula degli accordi di lavoro dell’anno 1515 dove troviamo notizia che fu amesso et acetato lo nobile homo messer Cesari de Maniliis per medico delo archiospetale [..] fu acetato et amesso dali signori guardiania ducati 40 di carlini a 10 vegi per ducato 124, a luglio viene assunto un medico che inizia a settembre a ducati 60 di carlini che riceve a dicembre riceve la mancia di carlini 4 per le festività. A febbraio il medico sottoscrive i pagamenti che sono avvenuti regolarmente 125. Il cerusico è assunto a 40 ducati l’anno e facendo lo detto diligentemente riceve ducati 44 e per lo sangue a suo carico ducati 4 in più che sono duc. 48 di carlini 126. Lo ospedaliero che per accordo è alla sanguie et a medicare a ducati 20 l’anno. Il familio a 5 carlini al mese, il familio per far sentiali dar medicine et sciroppi et ogni altra cosa per aiutar a medicar a 12 carlini, ai garzoni a 5 iulii tranne per il garzone che va in giro per Roma a chiedere l’elemosina 1 ducato, il cuoco 10 carlini al mese, il guottero a 6 carlini al mese, la lavandaia a carlini 10 al mese, lo spiziale assunto a luglio a ducati 27 e sostituito a settembre con una riduzione del compenso a 18 ducati, lo spenditore, canavaro e dispensatore e respostriere 1 ducato d’oro. Tra le informazioni è annotato il licenziamento del garzone semplice per presuntione et mala lengua inoltre per molti è menzionata la mancia di dicembre che varia dai 5 bolognini al cuoco, ai 2 carlini e 5 bolognini per il garzone per medicare al carlino e ½ del garzone semplice ed i 2 bolognini ½ allo spedaliero 127. Le spese per la fabbrica del nuovo ospedale si fanno sempre più pressanti una testimonianza è il pagamento dei 471 ducati pagati per iniziare i lavori 128. Molte sono le donazioni per la nuova costruzione anche in questo caso contribuisce il papa contribuisce nel 1518 papa Leone X effettua un contributo straordinario di 100 ducati per finanziare l’inizio dei lavori dell’ospedale e personalità in vista della città. Ettore Vernazza, tra la fine del 1518 e l’inizio dell’anno successivo, consegna all’ospedale le elemosina dei suoi connazionali, tra i quali trovano menzione 121

Ibidem, c. 54. Ibidem, c. 50. 123 Ibidem, c. 55. 124 Ibidem, 1145, c. 21. 125 Ibidem, c. 27. 126 Ibidem, c. 28. 127 Per questi dati cfr. ibidem, 1145, cc. 23, 25, 29, 37, 41, 43, 45, 46. 128 Ibidem, 1150, c. 114. 122

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il cardinale Fieschi, Vincenzo Pallavicino, Agostino Sauli e Franceschetto Cibo, da utilizzare per l’ampliamento della struttura 129 ed anche i donativi dei cardinale sono utilizzati per la fabrica 130. Le pressanti necessità di liquidità spingono gli amministratori a vendere delle proprietà, la vigna venduta a ducati 500 di cui ottengono parte pagamento (225 ducati) 131 e la casa nella strada verso l’arco de Portogallo che parte lo nostro cioè la strada de mezzo nostra in la vigna casa venduta novembre 1515 a ducati 125 132, le resposte sono consegnate direttamente per la fabbrica dell’ospedale 133 ed ottengono 256 ducati per diminuire el censo che fa al nostro spedale 134. Accanto al Santissimo Salvatore, il San Giacomo degli Incurabili rappresenta una struttura fondamentale nell’ambito della storia delle istituzioni ospedaliere romane. Il primo è considerato dai romani l’ospedale dei romani, un’istituzione che nella composizione societaria rispecchia le dinamiche della vivace imprenditoria cittadina e che da subito acquisisce un credito sociale che gli consente di ottenere donazioni non solo quantitativamente rilevanti, ma anche qualitativamente e topograficamente diversificate. Il secondo è l’ospedale dei curiali, l’ospedale che il papa sceglie per ripulire Roma dalla sgradevole vista dei malati di sifilide che rendono la città eterna imbarbarita dai segni del male. Le caratteristiche dei due ospedali trovano riscontro pratico nella gestione degli istituti e nell’atteggiamento imprenditoriale che sottende le scelte economiche. Il Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum è una struttura ospedaliera caratterizzata, dal punto di vista amministrativo, da una mentalità imprenditoriale che si evolve di pari passo con l’economia urbana. Questo atteggiamento è sostenuto dalla scelta, in qualità di amministratori, di funzionari che molto spesso hanno una maturata esperienza nel mondo economico e nell’amministrazione del denaro. Il patrimonio dell’ente è gestito con la principale finalità di sostentare l’istituzione attraverso l’accumulazione delle rendite provenienti dalla locazione degli immobili e dalla vendita del surplus accumulato grazie ad una gestione strategica dai casali e delle proprietà site nella Campagna romana. Il San Giacomo degli Incurabili ha un’impostazione diversa per quanto riguarda la composizione del patrimonio e le procedure di investimento messe in opera dai suoi amministratori per riuscire a bilanciare le entrate 129

Ibidem, 1146, c. 13, 14, 15. Ibidem, 1150, c. 2. 131 Ibidem, c. 28. 132 Ibidem, 1150, c. 23. 133 Ibidem, 1149, c. 49-93. 134 Ibidem, c. 43. 130

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e le uscite e a garantire al meglio le prestazioni ospedaliere. Il patrimonio è caratterizzato da un esiguo numero di immobili dati in locazione ed anche i terreni, siti peraltro tutti nell’area di pertinenza della città, non garantiscono entrate soddisfacenti. Questa istituzione riesce a sostenersi grazie alla sua trasformazione in ospedale degli incurabili. Una promozione messa in atto dagli amministratori dell’ospedale, che destinano quote importanti per finanziare le attività dell’ente e che trovano nel papa e negli organi ecclesiastici, nei banchieri romani ed operanti nella città così come in personalità eminenti importanti sostenitori.

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Alessio Caporali Investimenti immobiliari della famiglia Bini in Banchi durante i pontificati di Leone X e Clemente VII

La scelta insediativa dei mercanti–banchieri fiorentini a Roma Durante i pontificati di Casa Medici avviene «l’apogeo dell’elemento toscano nella storia della città dei papi» 1 e, a una continuità degli incarichi dominanti dei fiorentini negli apparati economici dello Stato della Chiesa, «corrisponde una progressiva differenziazione delle scelte insediative dei rappresentanti più in vista della Nazione, in stretta relazione con i nuovi centri medicei» 2. Questo atteggiamento, manifestato da mercanti–banchieri e da prelati, si concretizza attraverso la promozione di imprese edilizie e il possesso di dimore in aree urbane tra loro diversificate tanto da rendere possibile, a oggi, l’individuazione di una chiara geografia sociale anche all’interno della stessa Nazione. La presenza dei fiorentini in città si cristallizza intorno ai poli aggregativi contraddistinti da spiccate peculiarità sia politiche, sia economiche. Nel Rione Borgo i personaggi che gravitano negli ambienti della corte papale, alcuni dei quali esponenti di famiglie vicine alla figura del pontefice, risiedono nelle zone maggiormente rappresentative della Città Leonina. La via Alessandrina assume una rinnovata centralità per gli esponenti della Nazione fiorentina e per i fideles di Leone X e Clemente VII tanto che, alcuni di loro, sono fautori di interventi edilizi come, ad esempio, Branconio dell’Aquila e Jacopo da Brescia; piazza Scossacavalli è qualificata da residenze di alto pregio come il palazzo di Adriano Castellesi 1 J. Delumeau, Rome au XVI e siècle, Paris 1975, p. 57; M. M. Bullard, “Mercatores florentini romanam curiam sequentes” in the early sixteenth century, in «The journal of Medieval and Renaissance studies», VI-1 (1976), pp. 54-57. 2 E. Ferretti, Il palazzo Serristori in Borgo Vecchio. Committenza e architettura fra Firenze e Roma alla metà del ‘500, Tesi di Dottorato di Ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica, XVI ciclo, tutore M. C. A. Bevilacqua, 2004, p. 79.

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da Corneto, quello di Domenico della Rovere e la dimora Caprini acquisita, nel 1520, dal cardinale Pietro Accolti 3. In questo ambito, il progetto leonino per la creazione di una ‘cittadella medicea’ nei pressi di piazza Navona e il programma di urbanizzazione di Campo Marzio spingono diplomatici e curiali all’acquisizione di terreni edificabili 4. A tal proposito, un episodio significativamente rilevante è offerto dal progetto di Antonio da Sangallo il Giovane per Piazza Nicosia e la previsione di dimore prestigiose come quelle dell’arcivescovo Aldobrandino Orsini e del datario Baldassarre Turini da Pescia 5. I rioni Regola e Parione, invece, sono contraddistinti da una particolare vivacità commerciale e rappresentano un centro attrattivo per i venditori al dettaglio e gli artigiani, spesso di recente immigrazione; i fiorentini che vivono e operano in questa area della città sono associati alla confraternita di San Giovanni Decollato 6. I «mercatores florentini romanam curiam sequentes»7 prediligono Banchi, l’area urbana circoscritta dall’ansa del Tevere e passaggio obbligato 3

Sulla via Alessandrina e Borgo si veda E. Guidoni, G. Petrucci, Urbanistica per i Giubilei. Roma, via Alessandrina. Una strada “tra due fondali” nell’Italia delle corti (1492–1499), Roma 1997; A. Antinori, Baldassarre Peruzzi e le case Soderini in Borgo, in «Palladio. Rivista di Storia dell’Architettura e Restauro», 19 (1997), pp. 39-52; L. Palermo, Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento, in «Rome des Quartiers»: des Vici aux Rioni. Cadres institutionels, pratiques sociales, et requalifications entre Antiquité et époque moderne, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Bérenguer, Paris 2008, pp. 335-350; M. Vaquero Piñeiro, Borgo tra Medioevo e Rinascimento: spazio urbano e attività edilizie, ibidem, pp. 350-366. 4 V. Zanchettin, Via Ripetta e la genesi del Tridente: strategie di riforma urbana tra volontà papali e istituzioni laiche, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, 35 (2005), pp. 211-286; G. Simoncini, Le trasformazioni urbane nel Cinquecento. Topografia e urbanistica da Giulio II a Clemente VIII, I, Firenze 2008; G. Villa, La misura urbanistica dell’antico nella Roma medicea, in Le Passé dans la ville. Remplois, identités et imaginaire a cura di D. Sandron, Parigi 2016, pp. 169-191. 5 C. L. Frommel, Il progetto di Sangallo per Piazza Nicosia e una torre di Raffaello, in «Strenna dei Romanisti», 63 (2002), pp. 265-293; M. Antonucci, Leone X e Antonio da Sangallo il Giovane nella Roma medicea in Leone X. Finanza, mecenatismo, cultura, II. Atti del Convegno Internazionale, Roma, 2-4 novembre 2015, Roma 2016, pp. 415­­-433. 6 I. Ait, I fiorentini a Roma durante i pontificati di Leone X e Clemente VII, in Una ‘Gerusalemme’ toscana sullo sfondo di due giubilei 1500-1525, Atti del Convegno di Studi, San Vivaldo–Montaione, 4–6 ottobre 2000, Firenze 2004, pp. 44-45. 7 Si veda, nella cospicua bibliografia, Bullard, Mercatores florentini romanam, pp. 51-71; Ead., Filippo Strozzi and the Medici. Favour and finance in Sixteenth-century Florence & Rome, Cambridge 1980; L. Palermo, Un aspetto della presenza dei fiorentini a Roma nel ‘400: le tecniche economiche, in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Atti del Seminario Internazionale di Studio, Bagno a Ripoli, 4-8 giugno 1984, Firenze 1988, pp. 81–96; I. Polverini Fosi, I fiorentini a Roma nel Cinquecento: storia di una presenza, in Roma Capitale (1447-1527), Atti del IV Convegno di Studio del Centro Studi sulla 310

Investimenti immobiliari della famiglia Bini in Banchi durante i pontificati di Leone X e Clemente VII

Legenda: 1. Zecca pontificia; 2. Case dei Bini; 3. Chiesa di Sant’Orsola; 4. Chiesa di San Giovanni Battista; 5. Piazza di Ponte Sant’Angelo.

Fig. 1 – Roma, Rione Ponte, individuazione delle case dei Bini (elaborazione grafica dell’autore sulla base della pianta conservata in ASR, Catasto Urbano, Rione Ponte f. 1, particolare)

verso il Vaticano attraverso Ponte Sant’Angelo 8 (fig. 1). La scelta non è casuale poiché in questa zona, dove convergono le principali direttrici Civiltà del tardo Medioevo, San Miniato, 23-31 ottobre 1992, Pisa 1994, pp. 389-414; Ait, I fiorentini a Roma, pp. 21-56; R. A. Goldthwaite, L’economia della Firenze rinascimentale, Bologna 2013, pp. 284-364; I. Ait, Mercanti a Roma fra XV e XVI secolo: interessi economici e legami familiari, in Il governo dell’economia. Italia e Penisola Iberica nel Basso Medioevo a cura di L. Tanzini, S. Tognetti, Roma 2014, pp. 59-77. 8 C. Conforti, La “Nazione Fiorentina” a Roma nel Rinascimento in La città italiana e i luoghi degli stranieri. XIV-XVIII secolo a cura di D. Calabi, P. Lanaro, Bari 1998, pp. 171-187; H. Günther, L’urbanistica romana sotto il pontificato dei Medici in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, Catalogo della Mostra, Venezia, 31 marzo-6 novembre 1994, Milano 1994, p. 548; Id., La regione davanti ponte Sant’Angelo a Roma: lo sviluppo urbano e le trasformazioni successive, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura e Restauro», 29–34 (1999–2002), p. 231. Sull’importanza di ponte Sant’Angelo si veda F. Cantatore, Ponte Elio - Sant’Angelo. Note tra Archeologia e storia dell’Architettura, in «Quaderni di Storia dell’Architettura - Giornate di Studio in onore di Claudio Tiberi», 55-56 (2010-2011), pp. 49-58. 311

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della viabilità medievale 9, dalla seconda metà del XV secolo si concentrano forti interessi di natura economica 10. Il flusso costante di uomini e merci, le esigenze sia della Corte papale, sia degli apparati amministrativi dello Stato della Chiesa, stimolano la proliferazione di attività artigianali 11 e la diffusione delle compagnie mercantili tanto che, nel rione, sussiste «la più importante concentrazione dei banchieri» 12 molti dei quali appartenenti alla Nazione fiorentina. Il censimento della popolazione, redatto tra il 1517 e il 1518 13, conferma la presenza di personaggi appartenenti a diverse nazionalità e a differenti ceti sociali: nella parrocchia di Sant’Orsola, per esempio, sono attestati religiosi, mercanti–banchieri, tra cui Bernardo da Verrazzano, «Camillo Beneimbene», Bernardo Bini, «Aloisi del Borgo», il senese Agostino Chigi, ma anche argentieri, cimatori, calzolai e carrettieri 14. A conferma dell’importanza di quest’area urbana, «l’ansa del Tevere, tra Ponte Sant’Angelo, attraverso i rioni Ponte, Parione e Arenula» è caratterizzata anche da attività commerciali che comprendono i settori alimentari tra cui la vendita al dettaglio di generi di prima necessità 15. Nel rione Ponte i fiorentini si identificano nella Compagnia della Pietà 16, dotata di considerevole prestigio, su cui si focalizzano le attenzioni dei 9

Per una panoramica su questo tema si veda M. L. Madonna, La “via Mercatoria” nel sistema stradale della Roma pontificia, in Roma 1300-1875. La città degli anni santi. Atlante, Catalogo della Mostra, Venezia, 1° marzo - 31 maggio 1985, Roma 1985, pp. 27-54; Conforti, La “Nazione Fiorentina”, pp. 171-172; G. Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. Topografia e urbanistica da Bonifacio IX ad Alessandro VI, I, Firenze 2004, pp. 28-38. 10 A. Modigliani, L’approvvigionamento annonario e i luoghi del commercio alimentare, in Roma. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, II, Firenze 2004, pp. 45-46. 11 Per un inquadramento sulle maestranze artigianali che vivono nel rione Ponte durante il pontificato di Leone X si veda P. Romano, Roma nel Cinquecento, Ponte (V rione), I, Roma 1941, pp. 37-125. 12 Ait, I fiorentini a Roma, p. 43; E. Lee, Gli abitanti del rione Ponte, in Roma Capitale (1447-1527), Atti del IV Convegno di Studio del Centro Studi sulla Civiltà del tardo Medioevo, San Miniato, 23-31 ottobre 1992, Pisa 1994, p. 320; A. Esposito, La città e i suoi abitanti, in Storia di Roma dall’antichità ad oggi. Roma del Rinascimento a cura di A. Pinelli, Roma-Bari 2001, pp. 23-24. 13 M. Armellini, Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X tratto da un codice inedito dell’archivio Vaticano, Roma 1882. Si veda anche Ait, I fiorentini a Roma, p. 40. 14 Ibidem, pp. 57-60. 15 Modigliani, L’approvvigionamento annonario, p. 44. 16 Su questo tema si veda A. Nava, La storia della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini nei documenti del suo archivio, in «Archivio della Reale Deputazione romana di Storia Patria, LIX (1936), pp. 351-162; I. Polverini Fosi, Il Consolato fiorentino a Roma e il progetto per 312

Investimenti immobiliari della famiglia Bini in Banchi durante i pontificati di Leone X e Clemente VII

pontefici di Casa Medici. Leone X, con la bolla «Eas quae pro commodo» 17, riconosce formalmente la comunità dei connazionali a Roma attraverso l’istituzione del Consolato18 e promuove forme di finanziamento per la realizzazione della nuova chiesa19. L’edificio religioso, previsto nell’area tra via Giulia e il vicolo dell’Oro, è il fulcro delle iniziative leonine in Banchi proprio dove risiedono i membri più importanti dell’oligarchia mercantile. Nel programma propagandistico papale, incentrato nella «Renovatio Etruriae» 20, è inclusa anche la lottizzazione della porzione settentrionale di via Giulia a conferma della chiara «intenzione del pontefice di caratterizzare questa parte della strada come strada fiorentina e quindi come luogo dove si esercitano attività di altissimo prestigio tecnico-artistico» 21. Nel 1524 Clemente VII sollecita la riqualificazione della viabilità in prossimità dell’erigenda chiesa di San Giovanni Battista, «centro focale del quartiere di Banchi e dell’intera parrocchia» 22, attraverso l’aggiornamento della Zecca pontifica e la rettifica del vicolo dell’Oro e di via di Banchi 23. A tal proposito il disegno GDSU 1013A, analizzato principalmente da Hubertus Günther 24, e le «Taxae viarum» degli anni 1524-1525, ovvero i la chiesa nazionale, in «Studi Romani», 37.1-2 (1989), pp. 50-70; J. Vicioso, Leonardo da Vinci e la Nazione Fiorentina a Roma, Roma 2019. 17 J. Vicioso, La basilica di San Giovanni dei fiorentini a Roma: individuazione delle vicende progettuali, in «Bollettino d’Arte», IX, 72 (1996), p. 81; Ait, I fiorentini a Roma, p. 48. 18 Conforti, La “Nazione Fiorentina”, p. 182. Copia della bolla in Archivio dell’Arciconfraternita dei Fiorentini [da qui in avanti AAF], 321, cc. 1r-31r. 19 AAF, 321 capitoli XXV–XXX. Cfr. Polverini Fosi, Il Consolato, pp. 60-62. 20 I. Polverini Fosi, I mercanti fiorentini, il Campidoglio e il papa: il gioco delle parti, in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattrocento al Seicento, Atti del Convegno, Roma, 7-10 giugno 1989, Roma 1992, p. 173. 21 L. Spezzaferro, La politica urbanistica dei Papi e le origini di via Giulia in Via Giulia, una utopia urbanistica del 500 a cura di L. Salerno, L. Spezzaferro, M. Tafuri, Roma 1973, p. 64; Simoncini, Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, pp. 3-40; N. Temple, Renovatio urbis. Architecture, urbanism and ceremony in the Rome of Julius II, Cornwall 2011. 22 H. Günther, Il prisma stradale davanti al ponte Sant’Angelo in Raffaello Architetto, Catalogo della Mostra, Roma, 28 febbraio-15 maggio 1984, Milano 1984, p. 231. 23 Per una panoramica sugli interventi promossi da Clemente VII si veda Simoncini, Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, pp. 7-96. 24 Günther, Il prisma stradale, pp. 231-234; Id., Das Trivium von Ponte S. Angelo. Ein Beitrag zur Urbanistik der Renaissance in Rom, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 21 (1985), pp. 165-250; Id., Zona antistante ponte Sant’Angelo o meglio in Prati, in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, Catalogo della Mostra, Venezia, 31 marzo-6 novembre 1994, Milano 1994, p. 551; Id., La regione davanti ponte Sant’Angelo, pp. 299-306; D. Porro, Censimento delle operazioni architettoniche in occasione del giubileo del 1525, in Roma 1300-1875. La città degli anni santi. Atlante, Catalogo della Mostra, Roma, 1 marzo-31 maggio 1985, Roma 1985, pp. 150-154. 313

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gettiti pagati da ciascun proprietario degli immobili ai maestri delle strade, restituiscono dati puntuali circa gli abitanti che risiedono in questa zona della città nel periodo di poco antecedente al Sacco di Roma25. Nell’area denominata «platea Pontis» emergono, per importanza, gli edifici della famiglia Bini situati nel vicolo dell’Oro. La chiesa di Santa Maria della Purificazione, con il fronte principale su via di Banchi, confina con la casa di Piero Bini la quale, in questo periodo, è concessa in affitto al genovese Ansaldo Grimaldi 26 ed è tassata 30 ducati d’oro di Camera; questo edificio è accanto alla «Chasa grande» per la quale Bernardo Bini paga 100 ducati d’oro al pari della Nazione fiorentina e in misura nettamente superiore rispetto ad altri proprietari 27. Il palazzo Bini, a sua volta, confina con l’abitazione di Lorenzo da Villa, un sarto originario di Lucca detentore di questo immobile dal 1519 28; inoltre, nel fronte dell’isolato prospettante sul vicolo, si distinguono l’edificio dei banchieri Fugger 29, sede del loro banco, e gli immobili del Consolato. Nel lato opposto sussistono le tre case di Ludovico Martelli, quella di Vincenzo de’ Rustici e, per censo, si differenzia la casa di Pandolfo della Casa concessa a messer Alberto Serra e accanto all’edificio «dove habitano li Borgarini», quest’ultimo adiacente con la proprietà «di messer Ginnani de Viterbo» 30. In questo ambito sussistono dei fabbricati scarsamente qualificati come «la casa bassa» di Gabriele Diotaiuti, dove c’è la stalla di Bernardo Bini, e «la casa [ac]canto dove sta lo falegname de dicto messer Bernardo»; inoltre, su questo lato, la continuità dell’edificato è interrotta da due vicoli uno 25

Ibidem, p. 232; documento in Archivio di Stato di Roma [da qui in avanti ASR], Presidenza delle Strade, Taxae viarum, 445, cc. 81r-83v e segg. Analizzato, ad esempio, da Ait, I fiorentini a Roma, pp. 42-44. Sulla Zecca si veda M. Antonucci, Un’ opera di Antonio da Sangallo il Giovane tra architettura e città: la facciata della Zecca in Banchi a Roma, in «Römische historische Mitteilungen», 46 (2004), pp. 201-244; Ead., Palazzo della Zecca in Banchi, Roma 2008. 26 P. Romano, Roma nel Cinquecento, Ponte (V rione), I, Roma 1941, p. 90; Lee, Gli abitanti del rione Ponte, p. 320 n. 6. 27 M. M. Bullard, Bindo Altoviti, banchiere del Rinascimento e finanziere papale in Ritratto di un banchiere del Rinascimento. Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini, Catalogo della Mostra, Firenze, 1 marzo-15 giugno 2004, Milano 2004, pp. 28-29. Ad esempio Filippo Strozzi è tassato 50 ducati, Bastiano Ciaini da Montauto, 15 ducati, i Fugger, 25 ducati e Ludovico Martelli, 40 ducati. 28 Günther, La regione davanti ponte Sant’Angelo, p. 234. 29 Romano, Roma nel Cinquecento, p. 81. Il 19 agosto 1521 Jacopo Fugger acquista uno stabile nel vicolo dell’Oro appartenente a Francesco di Pietro di Carlo de’ Canigiani, mercante e cittadino fiorentino; il prezzo concordato è di 1.300 ducati d’oro di Camera. 30 ASR, Presidenza delle Strade, 445, c. 81r/v. 314

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Fig. 2 – Le abitazioni censite nel vicolo dell’Oro (1524-1525) (Elaborazione grafica ipotetica dell'autore) 1. La Zecca pontifica; 2. Chiesa di Santa Maria della Purificazione; 3. La casa di Piero Bini; 4. Il palazzo di Bernardo Bini; 5. La casa di Lorenzo de Villa sartore; 6. La casa degli eredi Aloisi; 7. La casa degli heredi de ms. Alvisi Gibralione; 8. La casa di Pietro fratello de Sanminiato; 9. La casa di Giovanni Crivelli; 10. La casa dei Fugger; 11. Gli edifici di proprietà del Consolato dei Fiorentini; 12. Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini; 13. La casa Vincenzo de Rustici; 14. Le tre case di Ludovico Martelli; 15. Le due case di Simone Ricasoli.

dei quali permetteva di raggiungere la chiesa di Sant’Orsola 31 (fig. 2). Il confronto tra il GDSU 1013A e le «Taxae viarum» permette di individuare «all’incontro in la strada de Banchi», anche il palazzo «de messer Julio Alberini», la sede della filiale Chigi, il «bancho de Ga[d]di» e altri edifici posseduti da mercanti-banchieri fiorentini come, ad esempio, Filippo Strozzi, Geronimo Beneinbene e Bastiano Ciaini da Montauto. Le fonti documentarie attestano la presenza cospicua di fiorentini nel rione Ponte e «il notevole valore di alcuni immobili di proprietà di personaggi di spicco dell’imprenditoria toscana» a conferma dell’«insediamento non recente di queste persone» 32. Infatti, negli anni antecedenti al Sacco di Roma, molte abitazioni e fondaci in Banchi sono possedute da eminenti banchieri papali «che avevano visto accrescere le loro fortune grazie ai commerci e all’attività finanziaria svolta fra la città e la Curia papale» 33.

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Per un maggiore approfondimento si veda S. Ferrari, Introduzione, in Roma cancellata. Il perduto oratorio di Sant’Orsola a Corso Vittorio Emanuele II, Roma 2014, pp. 13-17. 32 Ait, I fiorentini a Roma, p. 43. 33 Ibidem, p. 44. 315

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Le famiglie Bini, Strozzi, Gaddi, Della Casa e Ricasoli, per citarne solo alcune, appartengono all’oligarchia filo medicea e controllano diversi settori economici dello Stato della Chiesa 34 tanto da contraddistinguere l’area urbana adiacente a Ponte Sant’Angelo come un vero e proprio “quartiere fiorentino” a vocazione commerciale e finanziaria. Durante i pontificati di Casa Medici i “mercatanti” che vivono e operano in questa zona della città condividono la medesima scelta insediativa ma manifestano strategie patrimoniali tra loro diversificate le cui motivazioni non sempre sono di facile individuazione. Infatti, le iniziative edilizie in Banchi negli anni antecedenti al 1527 sono sporadiche e molti mercanti-banchieri detengono solo il possesso degli stabili, in locazione o in enfiteusi, probabilmente a causa della complessità del mercato immobiliare; invece, coloro che sono proprietari di edifici non sempre promuovono la costruzione di una residenza. Simone Ricasoli, tra il 1513 e il 1518, ottiene in enfiteusi due case tra loro contigue tra via di Banchi e via de’ Cimatori 35 ma le fonti tacciono su eventuali interventi di aggiornamento; nel 1525, Pandolfo della Casa concede in affitto la sua abitazione nel vicolo dell’Oro e, in questo stesso anno, Filippo Strozzi, nonostante il possesso di un edificio, sceglie di vivere nel palazzo Branconio dell’Aquila in Borgo 36. Un altro esempio significativo è offerto da Bastiano Ciaini da Montauto: tra il 1523 e il 1525 il mercante fiorentino compra «una casa posta in Roma nella strada dei Banchi a uso di fondaco» ma non investe risorse finanziarie per aggiornarla 37. Appare evidente, quindi, come la decisione di alcuni mercanti-banchieri di qualificare le proprie dimore o di realizzare una residenza di pregio assuma un carattere distintivo 38. Ad 34

Conforti, La “Nazione Fiorentina” a Roma, p. 174. D. Gnoli, “Le demolizioni in Roma. Il palazzo dei Bini” in «Archivio Storico dell’Arte», 1-2 (1888), pp. 271-272. 36 Guidoni, Petrucci, Urbanistica per i Giubilei, p. 81. 37 Archivio Niccolini da Camugliano [da qui in avanti ANC], Fondo Antico, 135, ins. 20, cc. 2v-3r; ibidem, c. 16v; ANC, Fondo Antico, 135 ins. 40. 38 D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche insediative a Roma, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, pp. 3-28; O. Verdi, “Pro Urbis decore et ornamento”. Il controllo dello spazio edificabile a Roma tra XV e XVI secolo in Congiure e conflitti. L’affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 3-5 dicembre 2013, Roma 2014, pp. 363-406. Similmente ad alcuni “mercatanti” fiorentini, anche il romano Giulio Alberini, tra il 1515 e il 1520, promuove l’edificazione di un palazzo dotato, al piano terra, di botteghe funzionali a garantire delle rendite cospicue. Su palazzo Alberini si veda P. N. Pagliara, Palazzo Alberini, in Raffaello Architetto, Catalogo della Mostra, Roma, 29 febbraio-15 maggio 1984, Milano 1984, pp. 171-176; C. L. Frommel, Palazzo Alberini a Roma, Roma 2010. Sull’attività edilizia a Roma nel primo Cinquecento si veda, a fronte 35

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esempio, Bindo Altoviti ristruttura le case paterne 39 in funzione dell’ampliamento della piazza adiacente al Ponte Sant’Angelo40 e Luigi Gaddi, a partire dal 1515, costruisce un palazzo sul terreno comprato dagli Strozzi 41. In questo ambito le iniziative edilizie promosse dai Bini rivestono una significativa importanza: lo studio delle fonti documentarie ha restituito nuovi dati che permettono di ripercorrere puntualmente sia le acquisizioni immobiliari da parte degli esponenti di questa famiglia, sia le vicende legate alla costruzione della «Chasa grande», un episodio indicativo nella storia della committenza dei “mercatanti” a Roma durante i pontificati di Casa Medici. Il palazzo di Bernardo Bini in Banchi Dalla seconda metà del XIV secolo i Bini di Firenze estendono notevolmente i propri interessi economici nelle maggiori piazze d’Europa e si affermano nella società fiorentina grazie agli incarichi rivestiti nelle magistrature cittadine e alle nomine ecclesiastiche. Nella seconda metà del Quattrocento si distingue Piero di Giovanni (1425-1482 ca.), ricco mercante e abile uomo politico associato all’Arte di Calimala, il quale mantiene una posizione di rilievo nel gruppo oligarchico filo mediceo 42.

di una vasta bibliografia, A. Bruschi, L’immagine di Roma nell’architettura civile, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento. Dalla città al territorio a cura di G. Simoncini, II, Firenze 2011, pp. 3-36. 39 Sul palazzo Altoviti si veda D. Gnoli, Le demolizioni in Roma. Il palazzo Altoviti in «Archivio Storico dell’Arte», 1-2 (1888), pp. 202-212; D. Pegazzano, Il palazzo e la villa di Bindo Altoviti: la decorazione vasariana in Ritratto di un banchiere, pp. 187-206. 40 Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, p. 72. 41 Su palazzo Gaddi si veda P. N. Pagliara, Palazzo Niccolini in Banchi: problemi di attribuzione in «Controspazio», 7 (1972), pp. 52-55; S. Rezzi, Palazzo Gaddi-Niccolini in Banchi in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», 169-174 (1983), pp. 35-48; Idem, Sui Beni Culturali, Roma 2018, pp. 9-31. 42 Per una panoramica sulla famiglia Bini di Firenze si veda Archivio di Stato di Firenze [da qui in avanti ASFi], Ceramelli Papiani, 704; ASFi, Manoscritti, Priorista Mariani, bob. 251, c. 779r/v, ASFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza, 1, fasc. 15; ASFi, Manoscritti, Carte dell’Ancisa, 354, cc. 226r-231v; ASFi, Manoscritti, Carte dell’Ancisa, 358, c. 153v; ASFi, Manoscritti, 519/I ins. 45; ASFi, Catasto, 20, cc. 868r-869v; ASFi, Catasto, 690, c. 862r; G. Filippi, L’Arte dei Mercanti di Calimala in Firenze ed il suo più antico statuto, Torino 1889, p. 12. 317

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Negli anni successivi al 1480 il figlio Bernardo (1461–1548) giunge a Roma dove fonda una compagnia mercantile: egli, grazie ai rapporti consolidati con la filiale di Lorenzo il Magnifico 43 e ai legami professionali con altri istituti presenti in città, raggiunge una posizione ragguardevole tra i connazionali. Durante il pontificato di Alessandro VI, Bini, a seguito delle incertezze generate dalla caduta del regime mediceo e dal fallimento del banco Medici, affronta una serie di difficoltà 44 ma, tramite il sostegno delle famiglie Farnese, Pucci e Ricasoli, tutela i propri interessi e si distingue come membro eminente della Compagnia della Pietà. Infatti, tra il 1495 e il 1496 egli ricopre la carica di «hoperaio et depositario» con il compito di amministrare le risorse finanziarie destinate all’aggiornamento dell’antico oratorio di San Pantaleo 45. Le attività professionali di Bernardo Bini conoscono un rinnovato incremento dal 1500 quando Simone di Rinieri Ricasoli (1460-1527) 46, suo cognato e collaboratore, è nominato, dal papa, a capo della tesoreria pontificia 47. Il mercante fiorentino, incoraggiato dal consolidamento delle proprie attività a Roma, decide, insieme a Ricasoli, di acquisire due case nel vicolo dell’Oro – una delle quali adiacente alla chiesa di Santa Maria della Purificazione – appartenenti alla famiglia Cesarini 48. Il 18 maggio 1501 i “mercatanti” ottengono la domus abitata da Giovanni e Pietro 43 Si veda M. M. Bullard, Lorenzo il Magnifico. Image and anxiety, politics and finance, Firenze 1994, pp. 199-207; Ead. (a cura di), Lorenzo de’ Medici. Lettere (1487–1488), XI, Firenze-Milano 2004, p. 187 n. 1; L. Böninger (a cura di), Lorenzo de’ Medici. Lettere, (marzo - agosto 1489), XV, Firenze 2010, pp. 409-418. Sul banco dei Medici a Roma si veda R. De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397–1494), Firenze 1988. Le fonti documentarie al momento non forniscono indicazioni sulla localizzazione della dimora del banchiere fiorentino nel periodo iniziale del suo soggiorno romano (1481-1500). 44 Bernardo Bini non compare nell’elenco dei mercatores florentini beneficiari del salvacondotto concesso dal papa il 25 febbraio 1494. Si veda Bullard, Mercatores florentini, pp. 55-56; Vicioso, Leonardo da Vinci, p. 280. 45 AAF, 382, cc. 83sx/dx. 46 Nel 1487 Bernardo Bini sposa Alessandra di Rinieri Ricasoli e riceve la dote di 1.200 fiorini d’oro. Cfr. ASFi, Deputazione sopra la Nobiltà e Cittadinanza, 1, fasc. 15, c. 13r. 47 ASFi, Ceramelli Papiani, 3659, c. 45v. Simone Ricasoli è vicinissimo a Lorenzo il Magnifico e al figlio di lui, il cardinale Giovanni de’ Medici, poi papa Leone X. In questi anni Ricasoli ha stretti rapporti con papa Borgia: infatti, giunto a Roma e fatta qualche domestichezza con la corte di Alessandro VI sposa Maria Gomiel di Burgos figlia di Alfonso e di Silvia Borgia, quest’ultima zia del papa; il fratello di Alfonso aveva ricoperto il ruolo di datario papale. Cfr. ASFi, Manoscritti, 406, Carte Dei, 406, c. 15v; L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Ricasoli descritta da Luigi Passerini, Firenze 1861, pp. 69-70. 48 Per un approfondimento sulla famiglia Cesarini di Roma si veda P. Litta, Famiglie celebri di Italia, I, Milano 1819, pp. 37v-38r.

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Fig. 3 – Le acquisizioni della famiglia Bini (1501-1526) (Elaborazione grafica dell’autore) Legenda: 1. Le case dei Cesarini (enfiteusi 1501-1503; proprietà 1519); 2. Le tre case di Luti di Nardo Luti (1520); 3. La casa delle monache di Sant’Orsola (1520); 4. La casa di Lorenzo da Villa (1524); 5. La stalla dei Bini (1526); 6. Chiesa di Sant’Orsola; 7. Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini.

«cimatori de Mediolano»49 e, il 17 novembre dello stesso anno, rilevano anche l’edificio confinante detenuto da «Giovanni e Pietro da Milano»50; il 25 giugno 1503, però, Bini si aggiudica il possesso esclusivo degli immobili 51 (fig. 3). Negli anni successivi Bernardo Bini sostiene economicamente le scelte politiche di papa Giulio II 52 e, a conferma del rapporto fiduciario con il pontefice, riceve incarichi e privilegi 53. Nel 1508 egli assume la carica 49

Archivio Bini Smaghi Bellarmini [da qui in avanti ABSB], Fondo Bini, Pergamene, sez. II, 35. L’entratura dell’enfiteusi ascende a 140 ducati. Per una panoramica sull’argomento si veda G. P. Scaffardi, Studi sull’enfiteusi, Milano 1981. 50 ABSB, Fondo Bini, Pergamene, sez. II, 36. L’entratura dell’enfiteusi ascende a 300 ducati. Giovanni e Pietro da Milano entrano in possesso della casa dei Cesarini il 23 febbraio 1497. 51 Ibidem. 52 M. Luzzati, Bini Bernardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma 1968, pp. 504-506. 53 Ad esempio nel 1509 il papa concede ai Bini il padronato dell’oratorio di San Sebastiano a Firenze, luogo di culto dello spedaluzzo situato davanti alle case dei Bini; nel 1525 l’edificio religioso è aggiornato da Bernardo Bini per essere adibito a cappella privata. Inoltre Giulio II favorisce i fratelli di Bernardo in un’importante transazione immobiliare poiché il papa autorizza la Prepositura della Cattedrale di Santa Maria del 319

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di depositario del cantiere di San Pietro insieme a Simone Ricasoli 54 e, attraverso il banco Fugger, gestisce l’«entrate toche alla fabbricha de denari presi dell’indulgentie di Treviri» 55 finalizzate ai lavori di costruzione della nuova basilica. In questo periodo, Bernardo è annoverato tra i maggiori «mercatores fiorentini romanam curiam sequentes» 56: membro eminente della Compagnia della Pietà, egli frequenta assiduamente la corte papale e, per volere di Giulio II, condivide, con Agostino Chigi e Bindo Altoviti, la compagnia del giovane Federico Gonzaga 57. Bini, nella volontà di dotarsi di una residenza confacente al suo livello sociale, decide di ristrutturare le case dei Cesarini e finanzia la realizzazione di «una gran chasa e bella» 58 dotata di «sala, cameris et cantinam subterra» 59. In questo ambito, l’aggiornamento degli edifici medievali si conclude prima degli anni 15171518 quando l’ambiente del piano terra dello stabile è concesso in affitto a «Zanobi cimatore» e l’ultimo piano è locato ad «Antonio Loysi mazzaro» 60 (fig. 4). Durante il pontificato di Leone X, Bernardo Bini è tra i banchieri più autorevoli dello Stato della Chiesa ed è titolare di una solida compagnia mercantile che si occupa, tra l’altro, di curare gli aspetti economici degli esponenti di primo piano di Casa Medici come, ad esempio, Alfonsina Orsini, Lorenzo duca di Urbino e Giuliano duca di Nemours 61. Bini è a Fiore, rappresentata da Mariotto Bini, a effettuare la permuta dei beni di Cerreto, una vasta proprietà nei pressi di Carmignano, a favore di Lorenzo Bini. ABSB, Fondo Bini, Atti e scritture, 21 fasc. 11; D. M. Manni, Osservazioni istoriche sopra i sigilli antichi, I, Firenze 1739, pp. 107-109; G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, X, Firenze 1762, pp. 179-191; Oratorio di San Sebastiano dei Bini. Progetto per un museo parrocchiale a cura di M. Pedone, Firenze 2002. 54 Biblioteca Apostolica Vaticana [da qui in avanti BAV], Chig., H.II.22, cc. 1r-5v; D. Manni, Osservazioni e giunte storiche di Domenico M. Manni accademico etrusco circa i sigilli antichi dei secoli bassi, XXI, Firenze 1770, pp. 49-50; Polverini Fosi, Il Consolato fiorentino, p. 65; I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro. I Leni: uomini d’affari del Rinascimento, Roma 2000, p. 157 n. 2. Per una panoramica sull’istituto della Fabbrica di San Pietro si veda R. Sabene, La Fabbrica di San Pietro in Vaticano. Dinamiche internazionali e dimensione locale, Roma 2015. 55 A. Schulte, Die Fugger in Rom (1495-1523), I, Leipzig 1904, pp. 174-175; W. Winker, Fugger il ricco, Torino 1942, p. 159. 56 Bullard, Mercatores florentini, p. 55. 57 E. Rodocanachi, La Première Renaissance. Rome au temps de Jules II et de Léon X, Parigi 1912, p. 12; I. Cloulas, Giulio II, Roma 1990, pp. 182-184. 58 ABSB, Fondo Bini, 1, fasc. 5, c. 1v. 59 ASR, Notai dell’Auditor Camere, 405, c. 457v. 60 Armellini, Un censimento, p. 10. 61 A. Caporali, Bernardo Bini e il soggiorno romano di Leonardo da Vinci, in «Roma nel Rinascimento», (2020), pp. 273-286. 320

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Fig. 4 – Le proprietà della famiglia Bini nel vicolo dell’Oro, 1526 (Elaborazione grafica dell’autore) Legenda: 1. La casa di Piero Bini; 2. La Chasa grande di Bernardo Bini; 3. La stalla; 4. Chiesa di Sant’Orsola; 5. Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini.

capo di una famiglia «splendida e molto ricca» 62 i cui membri, vicini alla figura del papa 63, rivestono ruoli di primo piano presso la corte pontificia e sono legati alle maggiori casate dell’oligarchia fiorentina, come i Pucci, i Ricasoli, gli Strozzi, i Bardi e i Gianfigliazzi, attraverso proficue 62

ASFi, Ceramelli Papiani, 704 c. 30r. A Roma operano i fratelli di Bernardo, Lorenzo, Francesco, Luigi e Orlando, mercanti affermati con interessi estesi a Lione, Buda e Firenze. I figli del banchiere fiorentino soggiornano principalmente in città e sono indirizzati sia alle attività commerciali, sia alla carriera ecclesiastica: Piero (1495-1544) e Giovanni (1501-1537), collaborano con il padre nella gestione del banco di famiglia e sono titolari di una compagnia mercantile dal primo febbraio 1521; Giovambattista (m. 1522) è reggente della Cancelleria Apostolica, familiare del papa, protonotario, giureconsulto, abbreviatore e dal 1518 è proposto della Cattedrale di Santa Maria del Fiore; Tommaso (m. 1518), è pievano di San Piero a Casale e di San Quirico nella Diocesi di Pistoia, dal 1514 proposto della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, cameriere segreto e scrittore delle lettere apostoliche; inoltre, Giovanni Francesco di Bartolomeo Bini (1484-1556), nipote di Bernardo, è maestro di camera di Leone X e, negli anni successivi, riveste ruoli di primo piano alla Segreteria dei Brevi. Manni, Osservazioni istoriche, pp. 109-110; S. Salvini, Catalogo cronologico de’ canonici della chiesa metropolitana fiorentina, Firenze 1782, pp. 73-75; G. Ballistreri, Bini (Bino) Giovanni Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma 1968, pp. 510-513. 63

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collaborazioni professionali e accordi matrimoniali. Nel 1517 la nomina di Giovambattista come reggente della Cancelleria Apostolica 64 consolida ulteriormente la permanenza e le attività della famiglia Bini in città e suggerisce, ai suoi esponenti, nuove iniziative patrimoniali. Nel mese di agosto Bernardo Bini e il cardinale Lorenzo di Antonio Pucci 65 si accordano per l’unione coniugale tra Piero, figlio del banchiere, e Oretta di Piero Pucci 66. La dote è fissata in «ducati duemila d’oro in oro larghi di contanti» 67 suddivisa in due rate di mille ducati. Il 28 di gennaio 1518 la compagnia Bini emette dei titoli per un valore complessivo di 1.000 ducati d’oro a favore di Piero e pochi mesi dopo, il 21 luglio dello stesso anno, i «detti Bini misero buoni a nome di detto reverendissimo e per resto di detta […] dote altri ducati mille larghi» 68. Il 21 di luglio 1519 Piero acquista, dal cardinale Alessandro Cesarini 69 e da «Giangiorgio» Cesarini, 64

Paolo Cesi è eletto cardinale il primo luglio 1517 e il suo incarico alla Cancelleria Apostolica è assegnato a Giovambattista Bini. Cfr. AAF, 431 c. 25r; ASFi, Manoscritti, 251, Priorista Mariani, b. 251 c. 779v; M. Sanuto, I Diari di Marino Sanuto, XXXII, Venezia, 1892, a cura di Libreria Editrice Forni, Bologna 1969, p. 188; A. Cistellini, Una pagina di storia religiosa a Firenze nel secolo XVII, in «Archivio Storico Italiano», 2 (1967), p. 199 n. 15; T. Käppeli, R. Creytens, P. Künzle, Xenia Medii aevi historiam illustrantia oblata thomae kaeppeli O.P., Roma 1978, pp. 639-640. Sull’importanza di questa carica si veda G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro ai nostri giorni, LVII, Venezia 1841, pp. 22-25. 65 Sulla figura di Lorenzo Pucci si veda V. Arrighi, Pucci, Lorenzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXV, Roma 2016, pp. 563-566. Il legame tra i Bini e i Pucci è molto stretto: nel 1483 Lucrezia di Piero Bini, sorella di Bernardo, sposa Giannozzo di Antonio Pucci, fratello di Lorenzo, evento celebrato dalle quattro spalliere realizzate da Sandro Botticelli e aiuti raffiguranti la Novella di Nastagio degli Onesti. Nel 1493 Bernardo Bini è agente dei Pucci e si adopera assiduamente per far ottenere dei benefici ecclesiastici proprio a Lorenzo. Si veda P. Lee Rubin, Images and Identity in Fifteenth Century Florence, New Haven & London 2007, pp. 247-268; D. Romei, P. Rosini, Regesto dei documenti di Giulia Farnese, Raleigh 2012, pp. 52-60. 66 ABSB, Fondo Bini, 1, fasc. 5, c. 3v. Piero Pucci è il fratello del cardinale Lorenzo. 67 Ibidem, cc. 3v– 4r. 68 Ibidem. 69 Il cardinale Alessandro Cesarini appartiene a una famiglia di antica nobiltà romana ed è vicino a Leone X. La decisione dei Cesarini a cedere la loro proprietà a un prezzo contenuto rispetto al valore di mercato di altri immobili rappresenta una notevole agevolazione nei confronti di Bernardo Bini: in questo ambito, infatti, non è da escludere il sostegno offerto dal banchiere fiorentino per l’elezione dello stesso Alessandro al cardinalato, avvenuta il 1 luglio 1517, oppure la mediazione del papa in favore del banchiere. Per una panoramica sulla figura di Alessandro Cesarini si veda F. Petrucci, Cesarini, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIV, Roma 1980, pp. 180-182. 322

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«le ragioni» della «casa dietro alla cappella di Banchi de’ francesi» 70 impegnando 1.100 ducati d’oro di Camera; Bernardo, il 26 di luglio dello stesso anno, rinuncia a ogni diritto sull’immobile e compie «una donazione nella compra della casa» 71 in favore del figlio con «tutti li miglioramenti fatti in detta chasa fino a questo dì sopradetto» 72. Negli ultimi anni del pontificato leonino Bernardo Bini raggiunge l’apice del successo personale. Bini è eletto console della Nazione fiorentina nel 1519 73, e nel 1520, oltre ad acquistare il titolo di Cavaliere di San Pietro, è nominato «Depositarius pecuniarum datariatus» 74 e inizia a collaborare assiduamente con il datario Baldassarre Turini da Pescia 75. Questo incarico consente al banchiere fiorentino di amministrare le entrate finanziarie della Dataria e, grazie alla presenza di Giovambattista alla Cancelleria Apostolica e al rapporto privilegiato con Leone X, detiene il monopolio nell’assegnazione dei benefici ecclesiasti e degli uffici vacanti. In questo periodo Bernardo Bini, nonostante la complessità del mercato immobiliare 76, decide di costruire un palazzo in Banchi e, tramite i figli, acquista la piena proprietà di alcuni edifici, confinanti con le case appartenute ai Cesarini, dalla cui demolizione ottiene l’area necessaria per avviare il cantiere. Il 15 giugno 1520 Piero e Giovanni Bini comprano da Luti di Nardo Luti «le sue case […] con tutte [le] sue appartenenze per ducati quattromila di giuli dieci per ducato» 77 e, nella necessità di incrementare ulteriormente la superficie a disposizione, rivolgono i loro interessi alla casa adiacente. Il 31 ottobre i Bini interpellano i maestri di strade, Bartolomeo della Valle e Raimondo Capodiferro, «per costringere la chiesa dei Santi Tommaso e Orsola a vendere a loro una casetta affittata a vita a 70

ABSB, Fondo Bini, 1, fasc. 5, c. 3v. Contratto in ASR, Notai dell’Auditor Camere, 405, cc. 456r-457r. 71 Ibidem. 72 Ibidem, c. 3r. Contratto in ASR, Notai dell’Auditor Camere, 405, cc. 457r-458v; notaio: ser Johannes Jacobus Apocellus. 73 Vicioso, Leonardo da Vinci, pp. 92-94; ibidem, p. 166. 74 A. Mercati, Corrispondenza di Giovanni Rucellai nunzio di Francia, in «Archivio della Reale Deputazione romana di Storia patria», 71 (1948), p. 44; Luzzati, Bernardo Bini, p. 505; Bullard, “Mercatores florentini, pp. 54-57. 75 Sulla figura di Baldassare Turini da Pescia si veda O. Merisalo, Baldassarre Turini, funzionario e mecenate in Leone X finanza, mecenatismo, cultura, pp. 237-245. 76 Per una panoramica su questo argomento si veda Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche insediative a Roma, pp. 3-28. 77 ABSB, Fondo Bini, 1, fasc. 5, c. 5r; notaio: ser Niccolò Nouretti notaio dell’Auditore della Camera. 323

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un taverniere» 78, dal valore di 700 ducati, per «riquatrare» la loro «domum pulcram et magnam» 79. A tale scopo, i banchieri fiorentini acquistano «d’Andrea de Grana romano una casa appresso a Santo Simeone del rione di Ponte», dello stesso valore, ed eseguono la permuta con la chasa «della chiesa di Santo Tommaso e Orsola che confina da secondo, parte con le [case che] comprammo da Luti di Nardo Luti»80; l’atto è rogato da Stefano de Amannis81 nell’abitazione di Andrea Jacovacci, cardinale vicario «in spiritualibus»82. Grazie a questo accordo, la costruzione del palazzo prosegue celermente e, nonostante la crisi finanziaria della compagnia Bini per i contrasti insorti con papa Adriano VI, i lavori si concludono entro il 1524 83 (fig. 3). Nel periodo in cui è attivo il cantiere, Bernardo Bini, quale segno di distinzione sociale 84, rinuncia al padronato di una cappella nella chiesa di Sant’Agostino85 per legare il proprio nome e quello della sua famiglia 78

Verdi, “Pro Urbis decore, p. 387. Su Bartolomeo della Valle si veda A. Pratesi, Bartolomeo Della Valle: maestro di strade, committente e collezionista di antichità (1468-1526), in «Bollettino Telematico dell’Arte», 806 (2016), consultabile in http://www.bta.it/txt/a0/08/ bta00806.html. 79 AAF, 398 cc. 72r-72v. Contratto edito parzialmente in Günther, Das Trivium von Ponte S. Angelo, p. 216 n. 245. 80 ABSB, Fondo Bini, 1, fasc. 5, c. 5v. 81 Per un approfondimento su Stefano de Amannis si veda O. Verdi, Stefano de Amannis notaio di strade nella prima metà del Cinquecento, il mercante Bagattini e la costruzione del suo palazzetto in piazza Navona in Notai a Roma–Notai e Roma. Società e notai a Roma tra Medioevo ed età moderna, Atti della Giornata di Studi, Roma, 30 maggio 2017, Roma 2018, pp. 95-136. 82 ASR, Collegio dei Notai Capitolini, 65, c. 178r; Verdi, “Pro Urbis decore, pp. 387-388. Su Andrea Jacovacci si veda la nota sintetica in C. De Dominicis, La famiglia di Domenico Jacovacci, Roma 2014, p. 59. Allo stato attuale della ricerca non sono stati individuati documenti comprovanti i rapporti sia professionali, sia personali tra Jacovacci e i Bini. Bernardo, per i ruoli rivestiti alla Dataria Apostolica e la vicinanza a Leone X, conosce indubbiamente il porporato, peraltro personaggio che riveste un ruolo non secondario presso la corte papale. 83 Sulla Chasa grande si veda, in questo, la bibliografia in nota 98. 84 Il banchiere, come altre famiglie fiorentine, provvede alla fornitura di una parte della suppellettile ecclesiastica destinata all’oratorio della Compagnia. Nell’agosto 1520 è redatto, dal signor consolo – carica ricoperta in questo anno da Leonardo di Zanobi Bartolini – e dai consiglieri et operai, l’inventario delle chose della chiesa per essere poi consegnato al sagrestano e governatore Biagio Buccelli; nell’elenco degli oggetti e degli apparati liturgici sono menzionati: «un paliotto di brocchato verde coll’arme dei Bini […] un piviale di damascho biancho con (teletta) d’oro et più chappuccino coll’arme dei Bini et Ricasoli. Una pianeta di damascho biancho con detto frigio. Due tonacelle di damascho biancho con le dette armi. Una pianeta di damascho biancho a frigi con frigio d’oro di cipri» (AAF, 708, cc. 11r-15r). 85 I Bini sono legati alla chiesa di Sant’Agostino almeno dal 1506 quando, in questo luogo di culto, trova sepoltura il mercante Niccolò di Piero Bini; il fratello di lui, 324

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all’erigenda chiesa nazionale. Il finanziere papale, infatti, forte della sua autorevolezza presso la Compagnia della Pietà, il 25 gennaio del 1521 «aveva domandato la mola della Nazione fiorentina in compera a vita sua, e della sua donna, […] ed avesse a servire per la dote di una cappella la quale piacendo a Dio aveva in animo di edificare il prefato Bernardo Bini in essa chiesa. Così intesa la proposta […] fu messo a partito e vinto e data autorità a Pandolfo della Casa e Ludovico Capponi tanta quanta in tutti loro insieme a poter vendere al prefato Bernardo la detta mola nel sopradetto modo con questo che dovesse post mortem esser dote di una cappella»86. Nei primi anni del pontificato di Clemente VII, i Bini, in concomitanza con la graduale ripresa delle loro attività finanziarie, incrementano nuovamente le loro proprietà in Banchi attraverso l’acquisto di alcuni immobili. Il 16 febbraio del 1524 Piero e Giovanni comprano, da Lorenzo da Villa «sartore» di Lucca, «una casetta» per 450 ducati situata nel vicolo dei Cimatori confinante con il loro palazzo. Simone Ricasoli, nell’atto di compravendita, ricopre il ruolo di mallevadore dei Bini nella rateizzazione dei pagamenti: 100 ducati sono consegnati dalla parte acquirente alla parte venditrice alla stipula del contratto, 133 ducati e 1/3 sono elargiti dai Bini il 23 marzo e la restante somma di 216 ducati e 2/3, è saldata il 30 luglio del medesimo anno 87; nei mesi successivi i banchieri fiorentini, probabilmente, promuovono dei lavori di aggiornamento per unire il fabbricato con la dimora principale. Il 3 gennaio 1526 i Bini rilevano anche la stalla situata in prossimità della chiesa di Sant’Orsola, già in loro possesso: i “mercatanti”, approfittando del debito di 90 ducati d’oro del proprietario, Gabriele «quondam Ditaiuti de Aldobrandis civis romanus», estinguono questa pendenza e, attraverso l’elargizione di 110 ducati d’oro di Camera, ottengono la titolarità esclusiva della «domuncola sita et positam in Bernardo, nel testamento del 29 marzo 1521 predispone una donazione di ducati venti d’oro larghi a favore dell’edificio religioso. Cfr. ASFi, Notarile Antecosimiano, 6463, cc. 64r-69r; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edifici di Roma dal secolo XI fino ai giorni nostri, V, Roma 1874, p. 31 n. 88. 86 AAF, 708, c. 26r; AAF, 382, c. 1dx; ibidem, c. 4 sx/dx; ibidem, c. 83, sx/dx; AAF, 337; AAF, 708, c. 4r/v e c. 17r/v; ibidem, c. 26v; A. Rufini, Dizionario etimologico storico delle strade, piazze, borghi e vicoli della città di Roma, Roma 1847, p. 135. In base alle disposizioni testamentarie del banchiere fiorentino del 29 marzo 1521 la cappella doveva essere dedicata alla Santissima Concezione e a san Bernardo ma non sarà mai realizzata dagli esponenti di questa famiglia: la crisi della compagnia negli anni 1522-1523 e la scelta di Bernardo di concentrare i propri interessi a Firenze determinano l’abbandono di questa committenza. Testamento di Bernardo Bini in ASFi, Notarile Antecosimiano 6463, cc. 66r-69r. 87 ABSB, Fondo Bini, 1, fasc. 5, c. 7r; notaio: ser Jacopus Apocellus Auditore della Camera. 325

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urbi et regione Pontis in cospectu domus magna [..] de Binis» 88. Questa acquisizione rappresenta l’ultimo investimento immobiliare dei banchieri fiorentini in Banchi 89 poiché, già dal 1524, i loro interessi si concentrano principalmente a Firenze (figg. 3-4). Bernardo Bini tra interessi patrimoniali e scelte di distinzione sociale Negli anni Venti del XVI secolo Bernardo Bini è fautore di un intenso mecenatismo incentrato, principalmente, nella costruzione di dimore di pregio sia a Roma, sia a Firenze manifestando, così, un atteggiamento non frequente tra i mercanti-banchieri e i prelati che, negli anni antecedenti al 1527, vivono e operano tra le due città. Il banchiere, durante il soggiorno romano, condivide la scelta insediativa dei maggiori esponenti dell’oligarchia mercantile fiorentina e, nonostante i ruoli rivestiti dai figli Giovambattista e Tommaso presso la Curia pontificia, non promuove delle attività edilizie in Borgo o in Campo Marzio, zone dove peraltro si focalizza l’attenzione dei pontefici di Casa Medici, ma concentra i propri interessi esclusivamente in Banchi 90. Tra il 1501 e il 1526, infatti, egli è artefice di una complessa strategia patrimoniale la cui evoluzione coincide con la sua graduale affermazione nelle istituzioni finanziarie dello Stato della Chiesa. In effetti, Bini esprime questo atteggiamento anche a Firenze: tra il 1525 e il 1530, a seguito del suo rientro in città e in concomitanza con la nomina nelle più alte magistrature cittadine91, incarica Baccio d’Agnolo per la progettazione di un palazzo in 88

Verdi, “Pro Urbis decore, p. 387 n. 75. Come segnalato da Orietta Verdi, il documento è conservato in ASR, Collegio dei Notai Capitolini, 1012, cc. 346-347, atto rogato da M. A. Mancini. 89 Tra il 1519 e il 1526 i Bini impegnano la somma complessiva di 6.450 ducati d’oro di Camera per acquistare gli immobili nel vicolo dell’Oro. La dispersione della documentazione personale dei “mercatanti” fiorentini, però, non consente, allo stato attuale della ricerca, di individuare l’ammontare delle risorse finanziarie investite nelle opere di costruzione della Chasa grande e per gli interventi di aggiornamento dei fabbricati di pertinenza. 90 Allo stato attuale della ricerca non sono stati individuati dati relativi alle acquisizioni immobiliari di Bernardo Bini nell’agro romano. 91 Incarichi di Bernardo Bini presso il governo fiorentino: Gonfaloniere di Giustizia (luglio-agosto 1524); priore (maggio 1527 ma dimissionario per l’avvento della Seconda Repubblica); membro della Balìa per la riforma del governo della città (1530); nomina tra i Bonomini per il quartiere di Santo Spirito (15 settembre 1530); membro del Consiglio dei Duecento (1532). ABSB, Bini, Genealogia delle Famiglie, 15, p. 592; ASFi, Manoscritti, Priorista Mariani, bob. 251, c. 779r/v; ASFi, Deputazione sopra la Nobiltà e cittadinanza, n. 1, fasc. 15, c. 12v; ASFi, Manoscritti, Carte dell’Ancisa, 354, c. 226r/v; ASFi, Raccolta Sebregondi, 752, c. 2r; ASFi, Ceramelli Papiani, 704, 326

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Oltrarno e per l’aggiornamento dell’oratorio di San Sebastiano in cappella privata 92. Inoltre, Bini, nel periodo in cui opera al servizio di papa Paolo III, impegna i proventi delle attività mercantili per l’acquisto di poderi e terreni nelle campagne di Carmignano, non lontano da Firenze, dove detiene vaste possessioni tra cui la prestigiosa Villa Il Cerretino 93. Il banchiere fiorentino, agli inizi della carriera, concentra le proprie energie principalmente a Roma ed è solo durante i pontificati di Leone X e Clemente VII che, a fronte del successo personale, investe cospicui capitali in Banchi. Bini, infatti, nel quartiere finanziario della città, coniuga il desiderio di manifestare la propria autorevolezza con gli interessi patrimoniali attraverso la costruzione della «Chasa grande» e l’acquisizione degli edifici annessi. Egli, a differenza di molti mercanti–banchieri e di eminenti personaggi della Curia romana, rinuncia all’enfiteusi di un terreno edificabile 94 e non amplia l’edificio in suo possesso, ottenuto dall’aggiornamento delle case dei Cesarini, bensì acquista i fabbricati confinanti e provvede alla loro demolizione per ottenere l’area necessaria alla realizzazione della dimora. In questo ambito, Bernardo Bini, tramite i figli Piero e Giovanni, supera tenacemente le resistenze che contraddistinguono il mercato immobiliare in questa zona della città: egli, infatti, sulla base delle leggi di Sisto IV e Leone X 95, raggiunge i suoi obiettivi grazie alle competenze dei maestri di strade, Bartolomeo della Valle e Raimondo Capodiferro, e del notaio Stefano de Amannis, ovvero il «team di funzionari d’eccezione dotati di ampie facoltà e di un efficiente e affidabile ufficio notarile» la cui professionalità è pienamente sostenuta dal pontefice 96. c. 28r/v; B. Varchi, Storia Fiorentina, Colonia 1721, p. 458; S. Ammirato, Istorie fiorentine, X, Firenze 1824, p. 12; A. Ademollo, Marietta de’ Ricci ovvero Firenze al tempo dell’assedio, I, Firenze 1853, p. 143; Luzzati, Bini, Bernardo, pp. 505-506. 92 Per un approfondimento sul palazzo Bini di Firenze e l’attribuzione a Baccio d’Agnolo si veda A. Caporali, Ricerca storica sulla genesi della costruzione del palazzo Bini Torrigiani, relazione dattiloscritta, responsabile scientifico M. Benvenuti, Università degli Studi di Firenze, 2018. Sull’oratorio di San Sebastiano si veda, in questo, la bibliografia segnalata alla nota 53. 93 Per l’elenco del patrimonio immobiliare di Bernardo Bini a Firenze si veda ABSB, Fondo Bini, 11, cc. 89r-104v; ASFi, Decima Repubblicana, 120, cc. 81v-83v. 94 Conforti, La “Nazione Fiorentina” a Roma, p. 178. Anche Raffaello Sanzio, il 24 marzo 1520, ottiene, dal Capitolo di San Pietro, l’enfiteusi di un terreno situato all’angolo tra via Giulia e il vicolo dei Cimatori. Si veda V. Golzio, Raffaello, nei documenti nelle testimonianze dei contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticano 1936, pp. 108-112; M. Tafuri, Progetto di casa in via Giulia, Roma 1519-1520, in Raffaello architetto, pp. 235-238. 95 Verdi, “Pro Urbis decore, p. 387. 96 Ead., Stefano de Amannis, p. 98. 327

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Fig. 5 – Pianta del piano terra del palazzo rinascimentale di Bernardo Bini e gli edifici confinanti (Elaborazione grafica ipotetica dell’autore sulla base della pianta conservata in ASCR, Ufficio V, Piano Regolatore, Perizie, fasc. 280, busta 644)

Il palazzo Bini nel vicolo dell’Oro, definito da Rodolfo Lanciani «uno dei più notevoli in Banchi»97, viene demolito nel 1888 durante i lavori per la realizzazione di Corso Vittorio Emanuele II. A tal proposito, lo studio delle fonti documentarie ha permesso un approfondimento puntuale sulla «Chasa grande» e consente, allo stato attuale della ricerca, una riflessione aggiuntiva sulle scelte di distinzione sociale perseguite dal banchiere fiorentino attraverso questa impresa edilizia98. La volontà di Bernardo Bini di realizzare una residenza di pregio è confermata dalla presenza di un architetto di provata esperienza tecnica e 97 R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno alle collezioni romane di antichità, I, Roma 1902, p. 222. 98 Per un approfondimento sulla Chasa grande di Bernardo Bini in Banchi e la relativa proposta di attribuzione si veda A. Caporali, Un episodio architettonico di ambito sangallesco nella Roma di Leone X: la ‘Chasa grande’ di Bernardo Bini nel vicolo dell’Oro, in «Roma nel Rinascimento», (2019), pp. 277-296. Negli anni Trenta del Seicento Lorenzo di Bernardo, discendente del celebre banchiere, cede la Chasa grande alla Congregazione di Propaganda Fide che la adibisce a scopi assistenziali. Tra il 1737 e il 1738 la dimora è acquistata dai Dionigi e rimane nelle disponibilità di questa famiglia fino al 1888.

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Fig. 6 – Prospetto delle case dei Bini sul vicolo dell’Oro, 1526 (ricostruzione grafica ipotetica dell’autore) Legenda: 1. Zecca Pontificia; 2. Oratorio di Santa Maria della Purificazione; 3. Casa di Piero Bini; 4. Palazzo di Bernardo Bini

Fig. 7 – Confronto dimensionale tra i palazzi Bini, Branconio dell’Aquila e Gaddi (Elaborazione grafica dell’autore)

dotato di una piena consapevolezza dell’ambiente artistico romano. Infatti, l’impostazione della fabbrica, il linguaggio architettonico, gli apparati ornamentali fino all’uso dei materiali rispondono a mirate scelte progettuali in cui, comunque, si ravvisa il serrato confronto con la committenza. La «Chasa grande» è realizzata con dimensioni maggiori rispetto ai fabbricati limitrofi (figg. 5-6) e ad alcune residenze romane costruite in questi anni come, ad esempio, i palazzi Branconio dell’Aquila e Gaddi 99 (fig. 7). 99 Il confronto tra la Chasa grande e alcune delle residenze romane è stato eseguito, dallo scrivente, attraverso la restituzione in scala dei rilievi eseguiti dai funzionari del Comune di Roma prima della demolizione e dei disegni di Paul Letarouilly. Archivio Storico Capitolino

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L’edificio domina il contesto urbano di Banchi e si inserisce nella costruzione visiva e percettiva di concezione sangallesca che unisce idealmente la Zecca, simbolo del potere finanziario dello Stato della Chiesa, con l’erigenda chiesa nazionale di San Giovanni Battista 100. La fabbrica, nonostante la posizione strategica nel rione Ponte, non contempla la presenza di botteghe o di attività artigianali, come nelle maggiori residenze fiorentine, poiché le ampie sale affrescate del piano terra sono riservate a sede della compagnia mercantile; invece, i piani superiori sono destinati come abitazione della famiglia. L’impianto distributivo è regolare ed è contraddistinto dalla successione andito–cortile dove la loggia è costituita da «colonne, capitelli, basi e parti di archivolto» 101 in travertino 102; la torre, quest’ultima disposta lateralmente alla fabbrica 103, è un ulteriore elemento che qualifica il palazzo. Il fronte principale, prospettante sul vicolo dell’Oro 104, è scandito in tre registri da cornici marca davanzale su cui si impostano cinque assi di finestre, in parte centinate, con il portale in posizione centrale; l’impaginato della facciata non si conclude con un cornicione. La «Chasa grande» è contraddistinta da un vocabolario espressivo distante dagli sperimentalismi della scuola raffaellesca: in effetti, nonostante la similitudine del contesto culturale, Bini predilige l’adozione del prototipo residenziale [da qui in avanti ASC], T 54, 26960/1872 tav.le II-III: ASC, Ufficio V, Piano regolatore, Perizie, fasc. 280, b. 644; P. Letarouilly, Edificies de Rome moderne, Novara 1992; Comparazione della Chasa grande con i palazzi Branconio dell’Aquila e Gaddi pubblicata in A. Caporali, E. Ferretti, scheda VIII.16a-b, in Raffaello 1520-1483, Catalogo della Mostra, Roma, 5 marzo-2 giugno 2020, Milano 2020, p. 347; ibidem, pp. 355-356. 100 Günther, Il prisma stradale, p. 233. La casa di Piero Bini e la Chasa grande avevano un prospetto complessivo di circa 45 metri di larghezza. 101 ASC, Ripartizioni, Ripartizione V, Lavori Pubblici, Piano Regolatore, posizione 14, b. 153, fasc. 177, cc. 5r-6r. 102 L’impiego di elementi architettonici in travertino sia all’interno del palazzo sia nel fronte principale conferma la volontà della committenza di affidare, a questa discontinuità costruttiva dell’involucro edilizio, un ulteriore carattere distintivo rispetto all’uso di materiali meno pregiati. Ad esempio, nel primo cortile di palazzo Gaddi, alcuni elementi architettonici sono realizzati in laterizio a cui è applicato uno strato di intonaco. Cfr. Rezzi, Palazzo Gaddi-Niccolini, pp. 44-47. 103 La torre era collocata verso la chiesa di San Giovanni Battista e arretrata rispetto al fronte principale: come testimoniato da Benventuo Cellini, durante l’occupazione di Roma da parte dei Lanzichenecchi alcuni soldati sfruttano la torre stessa per attaccare Castel Sant’Angelo. A tal proposito si veda Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi [da qui in avanti GDSU] 1013Av; ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, Perizie, b. 643, fasc. 224, c. 4r; B. Cellini, La vita di Benvenuto Cellini orefice e scultore fiorentino da lui medesimo scritta, Colonia 1728, a cura di D. Nepi, Roma 1990, pp. 46-47. 104 L’altezza del palazzo Bini è di 22 metri e la larghezza è di 25 metri. 330

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riconducibile alle ideazioni di Antonio da Sangallo il Giovane 105 ma declinato attraverso chiari riferimenti all’architettura del Cronaca e di Giuliano da Sangallo106, forse per mettere in risalto le sue origini (figg. 8-9). Bernardo Bini, attraverso la costruzione della «Chasa grande», sottolinea il proprio livello sociale tra i maggiori «mercatores romanam curiam sequentes» esprimendo, così, un’attitudine comune all’oligarchia fiorentina che, fin dal Quattrocento, affida alla rappresentatività del palazzo il ruolo di restituire, sulla scena urbana, il prestigio del proprietario e della sua famiglia 107. Questo atteggiamento appare particolarmente accentuato a Roma poiché il banchiere, a differenza dei “mercatanti” che operano nella capitale e dei maggiori esponenti della Curia romana, come Baldassarre Turini da Pescia, Bindo Altoviti, Bastiano Ciani da Montauto e Agostino Chigi, per citarne solo alcuni, non investe delle risorse finanziarie per una residenza “di delizia” tanto che la “vigna” in suo possesso, situata agli «Horti Sallustiani», nel 1526 è concessa in affitto ad Alemanno Alemanni 108.

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Cfr., in questo, la bibliografia segnalata in nota 98. La presenza di un carattere “fiorentino” della dimora è segnalata anche da Domenico Gnoli il quale visita la fabbrica durante i lavori di demolizione. Si veda Gnoli, “Le demolizioni in Roma. p. 270. 107 R. Goldtwaite, The Florentine Palace as Domestic Architecture in «American Historical Review», 77 (1972), p. 1011. 108 Lanciani, Storia degli scavi, p. 222. 106

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Fig. 8 – Pianta del piano terra della Chasa grande di Bernardo Bini (1526) (ricostruzione grafica ipotetica dell’autore)

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Fig. 9 – Prospetto principale della Chasa grande di Bernardo Bini (ricostruzione grafica ipotetica dell’autore)

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Orietta Verdi Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis» La storiografia recente ha messo in luce la sostanziale continuità dei piani di sviluppo urbano posti in essere dai pontefici, da Sisto IV a Leone X, per la cui realizzazione un ruolo fondamentale venne affidato alla magistratura delle strade, organo incaricato dell’adeguamento della viabilità alle nuove esigenze della capitale dello stato, promuovendo e governando contestualmente la riqualificazione del tessuto edilizio cittadino 1. La città che Leone X lascia ai suoi successori nel 1521 non è più la stessa che Sisto IV aveva iniziato a ricostruire cinquant’anni prima: con papa Della Rovere furono poste le condizioni per un rinnovamento urbano che, lasciando intatto l’assetto secolare dell’insediamento abitativo nell’ansa del Tevere, fra la via Recta, la via Papalis e la via Florea o Mercatoria, interveniva con decisione nel rapporto tra spazio edificato e spazio esterno, tra rete viaria e case, palazzi e chiese che ne delimitavano la trama. Attraverso strumenti legislativi innovativi come la bolla del 1480 sull’esproprio per pubblica utilità 2, sempre riconfermata e richiamata dai pontefici che lo 1

La bibliografia di carattere generale sulle trasformazioni urbane di Roma nel Rinascimento è molto vasta; si segnalano i contributi più recenti che contengono anche la bibliografia precedente: G. Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, I, Topografia e urbanistica da Giulio II a Clemente VIII, Firenze 2008, A. Modigliani, Roma al tempo di Leon Battista Alberti (1432-1472), Roma 2019. Sulla magistratura delle strade si rimanda a O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo XV, Roma 1997; Ead., Edilizia e viabilità nell’area di piazza Navona in epoca rinascimentale, in «Piazza Navona ou Place Navona, la plus belle & la plus grande». Du stade de Domitien à la place moderne, histoire d’une évolutione urbane, Rome 2014, pp. 505-525; Ead., «Pro Urbis decore et ornamento», Il controllo dello spazio edificabile a Roma tra XV e XVI secolo, in Congiure e conflitti. L’affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura, Atti del Convegno internazionale, Roma 3-5 dicembre 2013, a cura di M. Chiabò. M. Gargano, A. Modigliani, P. Osmond, Roma 2014, pp. 363-406. 2 La bolla di Sisto IV Etsi de cunctarum del giugno 1480 in A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis, III, Roma 1862, nr. 109, pp. 172-174. 335

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seguirono, e alcuni interventi concreti sulle infrastrutture urbane, come la costruzione di ponte Sisto 3, la commercializzazione dell’area di piazza Navona 4, la regolarizzazione dei fronti stradali nell’area centrale della città, Sisto IV aveva inteso stimolare il rinnovamento edilizio dell’area più densamente popolata e dinamica della città, incoraggiando e promuovendo, talvolta costringendo i proprietari di case a restaurare, ampliare, mettere a filo gli edifici, demolendo portici, sporti e mostre di botteghe che invadevano il piano stradale 5. La lenta ma progressiva trasformazione del tessuto edilizio impostata da papa Della Rovere, si consolidò con Giulio II che riprese gli interventi dello zio sviluppandoli in una prospettiva di riorganizzazione urbana su scala più ampia: la realizzazione di via Giulia, arteria rettilinea che connette Ponte Sisto con il quartiere di Ponte, assicurando i collegamenti tra la zona di Trastevere e le aree commerciali di Campo dei Fiori, piazza Navona e Banchi, la sistemazione di via della Lungara che offriva un percorso più snello e agevole ai pellegrini provenienti da sud e diretti a S. Pietro, ne sono la testimonianza più evidente. Se da un lato la costruzione di nuove strade nell’area più densamente abitata della città, agevolava traffici, commerci e afflusso dei pellegrini, dall’altro incoraggiava i ceti mercantili e curiali, romani e forenses a erigere nelle zone di recente valorizzazione nuovi e prestigiosi palazzi, approfittando della legislazione sistina sull’esproprio. L’avvento di Leone X Medici segna un deciso cambio di passo nella strategia perseguita nei pontificati precedenti: l’attenzione dei sovrani che lo avevano preceduto era stata prevalentemente rivolta alla riqualificazione della “città storica” mentre l’interesse di papa Medici, pur nella continuità delle scelte operate dai suoi predecessori, si orienta verso l’urbanizzazione dell’area settentrionale della città nella vasta estensione del Campo Marzio tra il Tevere, il mausoleo di Augusto e la via Lata fino a porta del Popolo. Una forte espansione demografica, sostenuta dall’afflusso in città di mercanti fiorentini, toscani e genovesi, di maestranze settentrionali, oltre ad una moltitudine di burocrati e di impiegati che affollavano gli apparati curiali, e il contestuale completamento della ‘via Leonina’ da piazza del 3

F. Cantatore, Sisto IV committente di architettura a Roma tra magnificenza e conflitto, in Congiure e conflitti, pp. 313-338. 4 A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età Moderna, Roma 1998. 5 G. Curcio, I processi di trasformazione edilizia, in D. Barbalarga, P. Cherubini, G. Curcio, A. Esposito, A. Modigliani, M. Procaccia, Il rione Parione durante il pontificato sistino: analisi di un’area campione, in Un pontificato e una città. Sisto IV (1471-1484), Atti del Convegno, Roma 3-7 dicembre 1984, Istituto Storico per il Medioevo, “Studi Storici”, 154-162, Roma 1986, pp. 706-732. 336

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Popolo al porto di Ripetta, costituirono le premesse per una forte spinta all’edificazione di una zona ancora in gran parte disabitata e malsana. L’emanazione di leggi tese a introdurre il controllo dello stato sull’edilizia privata, incentivando al tempo stesso nuove costruzioni che rispettassero i livelli di uniformità e decoro, in una rete viaria rinnovata e regolarizzata, fu la leva essenziale per la costruzione della città rinascimentale: appare evidente la continuità di obiettivi tra la legge del 1480 che stabiliva il principio di esproprio per pubblica utilità 6, finalizzato all’ammodernamento del tessuto edilizio esistente, e la legge di Leone X, Inter curas multiplices, che nel 1516 ne ampliava il raggio d’azione rafforzando le facoltà della magistratura di strade negli interventi di esproprio ed estendendone gli effetti alle proprietà degli enti ecclesiastici ed ospedalieri. La bolla leonina, intervenendo sul meccanismo giuridico di quella che è stata definita ‘proprietà dissociata’ 7, obbligava gli enti religiosi che da secoli gestivano e mettevano a frutto i loro terreni attraverso contratti di affitto a lungo termine, dietro corresponsione di un canone modesto (enfiteusi, a terza generazione, ‘vita durante’), a privilegiare nella scelta del locatario quanti si assumevano l’onere di costruire edifici su quei terreni o si impegnavano a ricostruire quelli in rovina, costringendo inoltre chiese, ospedali e luoghi pii, attraverso gli organi operativi della magistratura di strade (Camerlengo, chierico presidente e maestri di strade), a sottostare alla legge sul diritto d’esproprio. Per non danneggiare gli enti religiosi e i loro affittuari, la legge del 1516 introduceva però un correttivo importante: il prezzo delle case di proprietà degli enti che venivano vendute in forza della legge sistina sarebbe stato fissato dai maestri di strade e il valore così stimato sarebbe stato aumentato del 10% 8. 6

Sull’impatto che la bolla sistina del 1480 ebbe sulla città cfr. M. Vaquero Piñeiro, Una città da cambiare: intorno alla legislazione edilizia di Sisto IV, in Sisto IV. Le arti a Roma nel primo Rinascimento, Atti del Convegno internazionale di studi, Roma 23-25 ottobre 1997, a cura di F. Benzi, Roma 2000, pp. 426-433. 7 Sul tema della proprietà dissociata si rimanda ai contributi di É. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, École française de Rome 135, Roma 1990; Id., Gestion immobilière, propriété dissociée et seigneuries foncières à Rome aux XIIIe et XIV siècles, in Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XIIe-XIXe siècle), a cura di O. Faron, É. Hubert, École française de Rome 206, Rome 1995, pp. 185-205. 8 Il testo della bolla si può leggere in A. Bardo, Facultates magistrorum curatorum viarum, aedificiorumque publicorum et privatorum alme Urbis aedilium curulium antiquitus nuncupati, Romae 1565, pp. Mm-Yy. Si veda a titolo di esempio la vendita coatta di una casa «vetusta, depressa e solite locari» (requisiti necessari per procedere all’esproprio secondo la legge del 1480) di proprietà della società di S. Michele Arcangelo in Borgo: la società, a seguito di sentenza dei maestri di strade, fu costretta a cedere l’edificio al protomedi337

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Rodolfo Lanciani riferisce che nel consiglio comunale del 2 settembre 1517 il procuratore del Fisco, Mario Peruschi, proprietario di un palazzo di recente costruzione tra S. Eustachio e il Pantheon, pubblicizzò la bolla dell’anno precedente Inter curas multiplices mettendone in luce gli aspetti positivi per i tanti curiali presenti nella città («in favorem curialium aedificantium in Urbe») suggerendo che se ne producessero molte copie in pergamena da distribuire a nobili e curiali per invogliarli alla costruzione di nuovi edifici 9. In lavori precedenti ho avuto modo di approfondire il ruolo svolto nel primo Cinquecento dai maestri e dai primi presidenti delle strade nel regolare e indirizzare il fenomeno della riqualificazione edilizia e di verificare come e in quale misura la crescita del tessuto abitativo e il forte dinamismo del mercato immobiliare, in atto sia nei rioni centrali della città che nelle zone di nuova urbanizzazione, siano stati favoriti e incoraggiati dall’applicazione delle leggi edilizie 10. Lo studio della documentazione presente nei protocolli del notaio dei maestri di strade, Stefano de Amannis, esperto di tutte le controversie giuridiche nate dall’applicazione della legislazione edilizia, attivo per quasi quarant’anni nell’ufficio di strade, dal pontificato di Giulio II a quello di Paolo III 11, consente di analizzare l’evoluzione del mercato edilizio urbano nel corso dei primi decenni del Cinquecento da un punto di vista privilegiato. co pontificio Andrea Vives che voleva incorporarla nella ricostruzione del suo palazzo, contiguo ad essa; i maestri fissano il prezzo in 700 ducati e, a norma della legge sistina del 1516, lo aumentano del 10%, cosicchè la società incassa 770 ducati (cfr. Verdi, «Pro Urbis decore et ornamento», pp. 384-385). 9 R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, vol. I, Roma, 1998, p. 268. Andrea Fulvio ricorda che Mario Perusco aveva costruito una casa tra S. Eustachio e il Pantheon sulle fondamenta del tempio del Buon Evento «facendo i capi maestri delle strade una strada nuova per tirarla dalla piazza di S. Eustachio infino alla piazza della Minerva tra il Pantheon e le case che sono edificate da Mario Perusco, si vede che egli ha gittato i fondamenti per mezo la lunghezza del tempio del Buono evento» (Andrea Fulvio, Opera di Andrea Fulvio Delle antichità della città di Roma, & delli edificij memorabili di quella. Tradotta nuouamente di latino in lingua toscana, per Paulo dal Rosso cittadino fiorentino, in Vinetia per Michele Tramezino, 1543, p. 208v); nell’elenco dei contribuenti della tassa per il gettito della Sciompella, datato 1533, la prima casa citata a partire dalla Rotonda è la casa degli eredi di Mario Perusco «larga in faccia canne venti doi» (ASR, Presidenza delle strade, 445, c. 113r). 10 Verdi, Edilizia e viabilità; Ead., «Pro Urbis decore et ornamento». 11 La lunga carriera del notaio Stefano de Amannis, alle dipendenze della magistratura delle strade dal 1506 al 1544, viene ripercorsa in O. Verdi, Stefano de Amannis notaio di strade nella prima metà del Cinquecento, il mercante Bagattini e la costruzione del suo palazzetto in piazza Navona, in Notai a Roma. Notai e Roma. Società e notai a Roma tra Medioevo ed età moderna, Atti della Giornata di Studi promossa dall’Archivio di Stato di Roma, a cura di O. Verdi, R. Pittella, Roma 30 maggio 2017, Roma 2018. 338

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Considerando che gran parte degli investitori in terreni e immobili sfruttava le opportunità offerte dalle prescrizioni edilizie e che nel corso delle demolizioni per l’ampliamento della rete viaria si ricorreva quasi sempre alla magistratura di strade per ottenere indennizzi e compensazioni, lo spoglio degli atti rogati dal notaio di strade risulta uno strumento indispensabile per individuare un campione rappresentativo dei protagonisti delle speculazioni immobiliari e accertare i meccanismi giuridici cui si faceva ricorso per accaparrarsi lotti edificabili. La dovizia di informazioni che questa fonte conserva sul tema dell’andamento del mercato immobiliare romano nel primo Cinquecento, ha suggerito l’idea di estendere l’indagine agli anni del pontificato di Clemente VII e in particolare agli anni precedenti e successivi al Sacco di Roma, con l’intenzione di capire se gli strumenti legislativi e giuridici che avevano agevolato la straordinaria crescita edilizia degli anni precedenti fossero ancora utili a risollevare le sorti di un patrimonio abitativo in gran parte devastato dall’invasione imperiale. L’esame degli atti di vendita delle case distrutte all’epoca del Sacco, conservati nei volumi del notaio De Amannis, consente una prima individuazione delle categorie che si avvantaggiarono della massiccia offerta dei ruderi delle case danneggiate e rispettivamente delle fasce sociali che furono maggiormente colpite dai saccheggi e che, a causa dei debiti contratti per pagare le taglie agli imperiali e per fronteggiare la carestia, furono costrette a vendere le loro case a prezzi dimezzati. Si tratta ovviamente di una prima valutazione dell’entità dei danni subiti dagli edifici cittadini dopo il Sacco del 1527 e di un bilancio di massima dei tempi e dei protagonisti della ricostruzione, condotti su un campione ristretto ma qualificato, che si auspica possa essere esteso anche alla produzione documentaria di altri notai romani per un quadro più completo e affidabile. Interventi stradali ed edilizi negli anni che precedono il Sacco Clemente VII nei primi anni del suo pontificato12 dovette affrontare la grave situazione finanziaria ereditata dai suoi predecessori ricorrendo 12 Per il pontificato di Clemente VII la bibliografia non è molto vasta; oltre alle pagine dedicate al pontificato in L. Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, vol. IV. II: Storia dei papi nel periodo del Rinascimento e dello scisma luterano dall’elezione di Leone X alla morte di Clemente VII (1513-1534), Roma 1943, a quelle di E. Rodocanachi, Les pontificats de Adrien VI et de Clement VII, Paris 1933, alla voce dedicata al pontefice da A. Prosperi, Clemente VII, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani, 26 (1982), si segnala

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a una politica di contenimento delle spese e inaugurando un sistema di reperimento di fondi per rimpinguare le casse dello stato ormai esauste, che si concretizzò nell’istituzione del Monte della Fede, la prima forma di debito pubblico 13. Purtroppo però neppure le tenui entrate del Giubileo del 1525, che vide giungere a Roma solo un ridotto numero di pellegrini anche a causa della ripresa della pestilenza nel 1524, contribuirono a riassestare la difficile situazione economica dello stato. Non si conoscono provvedimenti legislativi specifici per la viabilità e l’edilizia negli anni che precedono il 1527; le fonti storiografiche e documentarie suggeriscono però che Clemente VII si pose fin dal primo anno di pontificato, il 1524, nel solco aperto dai suoi predecessori, riprendendo i programmi lasciati in sospeso da Leone X 14. Continuità e competenza furono assicurate dalla conferma nella direzione dei cantieri di Antonio da Sangallo il Giovane e dei suoi più esperti collaboratori, quali l’architetto e sottomastro di strade Niccolò Finucci da Bibbiena, e dalla nomina, per la gestione dei lavori di demolizione e per la contabilità dei risarcimenti, di Antonio Macarozi e Mario Crescenzi nella carica di maestri di strade per tre anni consecutivi, dal 1524 all’inizio del 1527 15, secondo una modalità già sperimentata da Leone X con Bartolomeo della Valle e Raimondo Capodiferro, rimasti in carica per 4 anni, dal 1517 al 1520 16. L’impressione che emerge scorrendo la fonte notarile è che i cantieri in corso nei pontificati precedenti proseguirono senza interruzioni con il nuovo papa Medici. Già nei primi mesi di pontificato si avviano in Banchi in tempi recenti il volume The pontificate of Clement VII. History, Politics, Culture, a cura di K. Gowens, S. Reiss, Ashgate 2005, e Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, pp. 77-96. 13 M. Monaco, Il primo debito pubblico pontificio: il Monte della Fede (1526), in «Studi Romani» 8 (1960), n. 5, pp. 553-569. 14 Il quadro degli interventi stradali negli anni del pontificato di Clemente VII precedenti il Sacco ricostruiti sulla base delle fonti edite in Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane, pp. 80-85. 15 Verdi, Maestri di strade, pp. 169-172. 16 Sul ruolo dei maestri di strade Bartolomeo della Valle e Raimondo Capodiferro nel cantiere della via Leonina cfr. Verdi, «Pro Urbis decore et ornamento», p. 379 e sgg. Sulle lottizzazioni lungo la via Leonina nel rione Campomarzio cfr. V. Zanchettin, Via di Ripetta e la genesi dei Tridente. Strategie di riforma urbana tra volontà papali e istituzioni laiche, in «Sonderdruck aus Romisches Iahrbuch der Bibliotheca Hertziana», 35 (2003/2004), pp. 209-286, con bibliografia precedente; M. Vaquero Piñeiro, Costruttori lombardi nell’edilizia romana del XVI secolo, in L’économie de la construction dans l’Italie moderne, «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Mediterranée» 119, n. 2 (2007), pp. 341-362: 352 e sgg., Id., I lavoratori dell’edilizia a Roma tra XV e XVI secolo, in Vivere la città. Roma nel Rinascimento, a cura di I. Ait, A. Esposito, Roma 2020, pp. 117-139: 127-133. 340

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

le demolizioni della “ponta” dell’isolato della Zecca e della scala di Pandolfo della Casa, di cui danno notizia le taxe viarum; un disegno di progetto per la viabilità nell’area del Canale di Ponte attribuito a Niccolò Finucci e datato grazie alla tassa al 152417, conferma che il primo intervento edilizio del nuovo pontefice, a soli due mesi dall’elezione, fu rivolto alla costruzione del palazzo della Zecca e degli edifici circostanti. Clemente VII, quando era cardinale, aveva infatti seguito per conto del cugino Leone X i lavori stradali nella zona di Banchi 18 e tale esperienza gli consentì, una volta divenuto pontefice, di accelerare la conclusione del palazzo della Zecca dotandolo di una nuova facciata monumentale ad opera di Antonio da Sangallo il Giovane, risolvendo in maniera armonica l’importante snodo viario corrispondente19. Nel quadro dei lavori stradali governati e diretti dalla magistratura edilizia durante il pontificato di Clemente VII, la fonte documentaria ad oggi più conosciuta, il volume cinquecentesco delle taxae viarum, conserva traccia di una decina di interventi di demolizione, realizzati tra il 1524 e il 1527 per ampliare e regolarizzare tracciati stradali 20. Gli sventramenti 17

H. Günther, Il prisma stradale davanti al ponte Sant’Angelo in Raffaello Architetto, a cura di C. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, catalogo della mostra, Roma, 28 febbraio - 15 maggio 1984, Milano 1984, pp. 231-234; Id., Das Trivium von Ponte S. Angelo. Ein Beitrag zur Urbanistik der Renaissance in Rome, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 21, Tübingen, 1985, pp. 165-250. 18 Giulio II e Bramante avevano impostato un primo intervento sul Canale di Ponte con l’ampliamento della via dei Banchi e della piazza di S. Celso (la chiesa dei SS. Celso e Giuliano venne completamente ricostruita con orientamento diverso) e con la costruzione del nuovo palazzo della Zecca alla congiunzione tra via dei Banchi e la via Florida. L’edificazione poi, durante il pontificato di Leone X, della nuova chiesa dei Fiorentini e della via del Consolato alla fine di via Giulia aveva evidenziato la necessità di rendere scorrevole il collegamento stradale tra la chiesa, la via di Banchi e il palazzo della Zecca, istallato in un edificio preesistente, la cui punta allungata verso Banchi, insieme con la scala del palazzo del mercante Pandolfo della Casa all’inizio della strada, ostruiva la visuale della chiesa e ostacolava il traffico di carri e di merci. Su questo argomento M. Antonucci, Un’opera di Antonio da Sangallo il Giovane tra architettura e città. La facciata del palazzo della Zecca in Banchi, in «Römische Historische Mitteilungen», 46 Band/2004, pp. 201-244. 19 M. Antonucci, Palazzo della Zecca in Banchi, Roma 2008. 20 ASR, Presidenza delle strade, 445: gettito «overo taxa facta per la ruina della ponta della Zecca nova et della scala de Pandolfo della Casa», 1524, c. 81, gettito «pro dirigenda via qua itur et ecclesia Sancti Salvatorelli (…) per directum ad plateam Sancti Apollinaris», 1524, ottobre, c. 83, gettito della «strada delli Mataleni [Capodiferro]» nel rione Pigna, 1524, ottobre 8, c. 85, gettito della torre «de messer Bartolomeo de Ruere apresso alla guglia de Sancto Mauto», 1524, agosto 3, c. 87, aggiunta della tassa per il gettito della Zecca nuova, 1525, gennaio 11, c. 89, gettito di Ponte Sisto detto «gettito delli Paloni», c. 91, gettito di Spoglia Cristo, 1525, novembre 15, c. 93, gettito per la «zecha de Banchi», 1525, novembre 4, c.101, gettito per demolire la costa di S. Susanna, 1526, aprile 12, c. 105, gettito fatto per la rovina delle case nella piazza «de Santo Apostolo», 341

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riguardano zone molto circoscritte dell’abitato compreso nei rioni centrali della città e nel Campo Marzio: nell’area di Ponte, oltre al cantiere della Zecca ‘nova’ attivo tra il 1524 e il 1525, viene rettificato nell’agosto 1524 il tracciato della strada che dalla chiesa di S. Salvatorello, inglobata poi in palazzo Madama, raggiungeva piazza S. Apollinare. Anche nel rione Pigna il 1524 è un anno in cui fervono le demolizioni: nella strada dove sorgevano le case dei Maddaleni (attuale via del Gesù) si abbattono parecchie case e tra i contribuenti alla tassa del gettito compaiono Giuliano, Cesare e Evangelista Maddaleni 21, Metello Vari per una casa con torre 22, Mario Foschi, notaio capitolino per la sua casa all’Arco di Camigliano 23, Cristofora Margani 24 e Giacomo Muti 25; viene abbattuta inoltre la torre di Bartolomeo della Rovere accanto alla ‘guglia’ di S. Macuto in Pigna. Nei primi mesi del 1527, sempre nel rione Pigna, vennero avviate le demolizioni per aprire una strada di collegamento tra la via Lata e la via Papale, l’attuale via del Plebiscito. Gettiti di case si registrano anche nel 1526 sulla piazza di SS. Apostoli, a Monti dove si abbatte la casa di Giacomo Antonio Conti, già di Menico Malamerenda, e in Regola si radono al suolo edifici posti tra ponte Sisto e la chiesa di San Salvatore in Campo. Tra il 1527 e il 1533 invece non compare alcun elenco di tasse per lavori di strade: è 1526, maggio 1, c. 107, gettito «della via nova da farse da via Lata per reuscir a via de Papa» (via del Plebiscito) 1527, c. 108, gettito «de ponte Sisto», c. 109. 21 G.P. Castelli, «Ante diem clade Urbis interiit»: Fausto Evangelista Maddaleni Capodiferro: il suo tempo, la sua famiglia e il Sacco di Roma, in «Dall’Archivio Segreto Vaticano. Miscellanea di testi, saggi e inventari», Città del Vaticano 2016, pp. 147-329. 22 Per Metello Vari, erudito collezionista e committente di Michelangelo Buonarroti, cfr. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, p. 151; Il carteggio di Michelangelo, ed. postuma di Giovanni Poggi a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Firenze 1965, p. 461. 23 Mario, Orazio e Vincenzo Foschi furono notai nel rione Pigna nel corso del Cinquecento; possedevano una domus maior, con ufficio notarile al pianterreno, all’Arco di Camigliano; i loro atti sono conservati in ASR, Coll. Not. Cap. e Trenta Not. Cap., ufficio 10 (cfr. introduzione all’inventario 1/10 a cura di D. Soggiu e O. Verdi). 24 Per i Margani e per Cristofora in particolare, cfr. I. Ait, I Margani e le miniere di allume di Tolfa, in «Archivio Storico Italiano», vol. 168/2 (aprile giugno 2010), pp. 231-262. 25 Gli atti notarili registrano ad agosto del 1525 diversi passaggi di proprietà di case sulla strada dei Maddaleni ampliata e regolarizzata: Faustina Bastardelli, vedova di Battista Frangipane, ricompra da Antonino Frangipane una casa nel rione Pigna sulla via pubblica tra i beni del marito e quelli di Evangelista Maddaleni Capodiferro, per 200 ducati, dei quali solo metà (100) spettano a Faustina in quanto erede di metà della casa; dei 100 ducati spettanti a Faustina il venditore ne versa 53 al notaio di strade «occasione taxationis eis imposita per duos magistros stratarum, pro parte demolitionis dicte domus per eos magistros demolite, pro dilatanda et dirigenda via que vulgariter dicitur la via della Maddalena, iuxta consuetudinem et filum prefatorum magistrorum stratarum» (ASR, Coll. Not. Cap., vol. 72, c. 160v-162v, 1525, agosto 30). 342

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solo nel penultimo anno di pontificato di Clemente VII che si compila la tassa imposta per il ‘gettito’ della “Sciompella”, intervento che risale però a quasi dieci anni prima. Una situazione più ricca e articolata viene restituita dai protocolli del notaio di strade grazie ai quali è possibile integrare e rivestire di contenuti gli scarni elenchi delle tasse dei gettiti: per gli anni precedenti al Sacco, si registra infatti un clima immutato di febbrile attività edilizia rispetto agli anni del pontificato leonino e un ininterrotto ricorso alle leggi sistina e leonina nelle compravendite immobiliari proprio nelle aree interessate dai lavori stradali. Dal rione Campo Marzio, attraversato dalla via Leonina appena ultimata 26, ai rioni centrali della città, si interviene sulla rete viaria sia a ridosso delle grandi piazze di mercato, tra piazza Navona e piazza S. Apollinare, tra piazza del Paradiso e Campo de’ Fiori, così come in Pigna dove sono attivi il cantiere della nuova strada tra la via Lata e la via Papale, quello di S. Macuto, quello della strada “delli Mataleni”, e quello di via della Ciambella. Grazie alla documentazione notarile sappiamo che i lavori per quest’ultima strada, che raccordava piazza della Rotonda a piazza della Ciambella, erano iniziati durante il pontificato di Leone X, ai tempi del maestrato di Bartolomeo della Valle e Raimondo Capodiferro, e nel dicembre 1524 erano in pieno svolgimento tanto che i maestri di strade in carica risarciscono i proprietari di case demolite, vendono lotti liberi lungo la nuova strada e ne programmano la pavimentazione. Il cantiere di via della Ciambella in Pigna è particolarmente rappresentativo del modo di procedere in occasione di interventi di demolizione e del ruolo di mediazione svolto da maestri e sottomastri di strada nei confronti dei proprietari che subivano il ‘gettito’. Il responsabile del cantiere della strada della “Sciompella” era tra il 1524 e il 1526 l’architetto e sottomastro Niccolò Finucci da Bibbiena 27 che affianca i maestri Mario Crescenzi e 26

Dai volumi degli anni 1525-1527 del notaio di strade (voll. 71-74) risulta che i risarcimenti per le ricostruzioni di case demolite lungo la via Leonina continuarono ininterrottamente durante il pontificato di Clemente VII: una fede dei maestri Antonio Macarozi e Mario Crescenzi attesta che negli anni 1524-1525 era stata stilata la tassa del gettito della via Leonina (non conservata invece fra le taxe viarum) con cui si ordinava che i proprietari di case non assoggettate alla ruina dovessero pagare, in mano di Stefano de Amannis, le somme imposte per risarcire gli edifici abbattuti; la fede è allegata a una quietanza rilasciata nel 1530 a Gaspare Garzonio dai maestri di strade Domenico Pichi e Domenico Boccamazzi (ASR, Coll. Not. Cap., vol. 79, c. 159r). 27 Sull’attività di architetto e sottomastro di strade di Niccolò Finucci da Bibbiena cfr. Günther, Das Trivium, pp. 165-251, figg. 10 e 52; Id., Die Straßenplanung unter den MediciPäpsten in Rom (1513-1534), in «Jahrbuch des Zentralinstituts für Kunstgeschichte», 1 (1985), pp. 237-293: 269 e sgg.; da ultimo cfr. Verdi, Stefano de Amannis, pp. 115-117. 343

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Antonio Macarozi nella conduzione dei lavori. Negli stessi anni Finucci presta la sua opera come libero professionista per una committenza privata che ricorreva alla sua consolidata esperienza di progettista, per la costruzione di nuovi edifici e per la ristrutturazione di quelli danneggiati dai ‘gettiti’. I lavori di ammodernamento della rete viaria e le leggi pontificie che avvantaggiavano quanti investivano in nuove costruzioni, costituirono un vero e proprio detonatore per rilanciare il mercato immobiliare: si faceva a gara per accaparrarsi appezzamenti liberi dove costruire edifici nuovi e decorosi e palazzetti di qualche importanza lungo le nuove strade e l’architetto sottomastro, nella sua doppia veste di funzionario della magistratura statale e di libero professionista, anticipava talvolta ai suoi committenti le somme necessarie all’acquisto di lotti edificabili nelle aree interessate dai cantieri stradali, convertendosi, nel caso l’acquirente non fosse in grado di restituirgli il denaro, in investitore immobiliare Nel 1524, secondo una prassi consueta, Finucci riceve dai maestri di strade un lotto edificabile lungo la strada della Ciambella del valore di 144 ducati, dei quali solo 40 vengono effettivamente sborsati dall’architetto e subito utilizzati dall’ufficio di strade per risarcire Prospero Porcari del gettito di una sua casa; il resto della somma non venne corrisposto poiché Finucci doveva essere risarcito di 86 ducati anticipati per l’acquisto dei mattoni da utilizzare nella pavimentazione della strada, dalla porta parva del portico della Rotonda a piazza della Ciambella, e i 18 ducati rimanenti gli furono abbuonati dai maestri in considerazione della diligenza e dell’impegno profuso nei cantieri da lui diretti in quegli anni 28. I lotti edificabili lungo la nuova strada erano molto richiesti tanto che a febbraio 1525 le bizzocche di S. Caterina da Siena acquistarono dai maestri di strade per 120 ducati un terreno contiguo al monastero, sul tracciato della nuova strada della Ciambella; la somma viene versata dalle religiose nelle mani del sottomastro Niccolò Finucci al quale era stato affidato l’incarico di costruire sul terreno un edificio da adibire a refettorio: l’immobile non doveva superare i 300 ducati di costo e Finucci, che ne avrebbe finanziato la costruzione, ne sarebbe divenuto proprietario se le monache non avessero potuto restituirgli entro 2 anni la somma anticipata 29. In quegli 28

L’atto riporta le ragioni dello sconto fatto a Finucci per i suoi molti meriti «in construendis et…in designandis multis viis publicis…et ob multa servitia per eum impensa in officio magistrorum in faciendis dicta via et aliis edificiis publicis» (ASR, Coll. Not. Cap., vol. 71, c. 241rv, 1524, dicembre 22). 29 Ibid., vol. 72, cc. 27v-29r, 1525, febbraio 28. Dei 120 scudi versati per acquistare il terreno, l’ufficio di strade ne impiegò 40 per saldare l’indennizzo del gettito dovuto a Prospero Porcari e 80 per l’ammattonato davanti alla chiesa di S. Maria della Rotonda. 344

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anni Niccolò Finucci era un architetto molto ricercato da ricchi mercanti, da famiglie dell’aristocrazia municipale e da affermati professionisti, e nel solo 1526 progettò due case e un palazzetto realizzati tra Ponte e S. Eustachio 30. Su incarico del facoltoso mercante di spezie Simeone Bagattini progettava un palazzetto con cinque botteghe in piazza Navona, costruito a cura di maestranze toscane di fiducia di Finucci e ancora oggi esistente benchè rimaneggiato negli anni Trenta del Novecento, accorpando la casa e il fondaco di famiglia dei Bagattini, con affaccio su piazza S. Apollinare, a un edificio provvisto di due botteghe «in capite Agonis» che il mercante aveva appena acquistato per 800 ducati da Giulio Alberini 31. Anche Marco Elefanti, membro di una ricca famiglia del rione Ponte, a lungo guardiano dell’ospedale di S. Giacomo in Agusta, si rivolge nel 1526 a Finucci per affidargli la ricostruzione della sua casa di fronte all’ospizio dell’Orso, parzialmente demolita durante i lavori di ampliamento della strada, seguendo la prassi consolidata di “girare” il risarcimento dovutogli dai maestri di strade, circa 200 ducati, all’architetto incaricato della ricostruzione 32. Tiberio Quatracci, appartenente a un’antica famiglia di medici insediata fin dalla seconda metà del secolo XIV nel rione S. Eustachio, sulla via Papale, nella piazza di fronte al palazzo del cardinale Della Valle 33, sul finire del 1526 commissionava a Finucci, suo vicino di casa 34, la costruzione di un edificio tra la propria residenza e la 30 Sulla committenza di opere di architettura nei primi decenni del Cinquecento da parte di famiglie dell’aristocrazia municipale e delle professioni cfr. M. Antonucci, Nobiltà cittadina e committenza architettonica a Roma nel primo Cinquecento, Il ‘palazzetto’ della famiglia Cosciari e l’edilizia civile di Antonio da Sangallo il Giovane, in Vecchia e nuova aristocrazia a Roma e nel Lazio in età moderna. Strategie economiche e del consenso, a cura di D. Gallavotti Cavallero, Roma 2006, pp. 32-53. 31 Verdi, Stefano de Amannis, pp. 115-117. 32 Ibid., p. 117. 33 La prima informazione nota sulla famiglia de Quatraciis risale al 1372 quando il nobilis vir Giovanni di Palmerio Quatracci deposita somme considerevoli presso campsores e banchieri (cfr. I. Lori Sanfilippo, La Roma dei Romani, Roma 2001, p. 183); la presenza della famiglia in S. Eustachio nella «platea de Quatraciis» è testimoniata in un documento del 1417 «Super domibus de via Pape prope plateam de Quatraciis» (ASR, Ospedale del San Salvatore, 1005, c. 137v). Mario Quatracci/Quatraccia, artium et medicine doctor, è attestato a partire dal 1459, cfr. A. Modigliani, Appendice documentaria e indice ragionato dei nomi, in Li Nuptiali di Marco Antonio Altieri pubblicati da Enrico Narducci, introduzione di M. Miglio, Roma 1995, pp. 119*, 129. 34 Nicola da Bibbiena nel 1521 stava costruendo la sua casa su un terreno avuto in locazione da Domenico e Giacomo Merili nel rione S. Eustachio (atti del notaio L. Bonincontri) e quando la casa era in fase di completamento insorge una lite con Domenico Merili circa un muro in comune ove Nicola aveva costruito «caminos et latrinas» (ASR, Coll. Not. Cap. vol. 63, c. 563r, 14 maggio 1521).

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casa dell’architetto, ricorrendo al diffusissimo e consolidato meccanismo giuridico della locazione in enfiteusi del terreno (circa 26 canne quadrate, ossia 110 metri quadrati) per il canone di 16 ducati annui, con la condizione vincolante che l’architetto era obbligato «ad meliorandum et edificandum situm» costruendo a sue spese una casa «ad suum beneplacitum», che Tiberio poteva ricomprare nell’arco di vent’anni, al prezzo stabilito da due periti. Quatracci, probabilmente a corto di liquidità o forse perché questo era il tacito accordo con l’architetto, una settimana dopo vendeva a Finucci per 100 ducati anche la proprietà diretta del terreno con patto di retrovendita entro sei anni 35. Le occasioni di lavoro per architetti anche meno famosi di Finucci erano all’ordine del giorno nelle aree in cui per ordine dei maestri di strade si abbatteva e si demoliva per ampliare e regolarizzare strade e piazze: Antonio Bensoli, architetto abitante nel rione Campo Marzio, nell’agosto 1525 promette ai maestri di strade di ricostruire la casa della nobile Francesca Sbonia, in parte demolita per la messa a filo «ubi noviter aperiri debet via Leonina», per un compenso di 40 ducati; la somma era dovuta a Francesca dall’ufficio di strade come risarcimento e viene versata direttamente all’architetto in casa del maestro di strade Antonio Macarozi con una formula di trasferimento a compensazione: 20 ducati in contanti mentre gli altri 20 ducati risultano già in mano di Antonio Bensoli a fronte del pagamento di un terreno acquisito dall’architetto nella zona, dopo la demolizione della propria casa 36. Gli indennizzi per le case demolite «in perforatione et perfectione dicte nove vie della Ciambella», da corrispondere sia con denaro proveniente dalla tassa del ‘ristoro’ che con suolo pubblico edificabile, erano ancora in corso quando intervenne il Sacco di Roma, congelandone il completamento; solo nel 1533 ripresero i lavori di ricostruzione delle case abbattute o mutilate che avrebbero formato la quinta edilizia della nuova strada 37 e 35

ASR, Coll. Not. Cap., vol. 74, c. 214v, 216v (1526, novembre 20, 26). È soprattutto nei primi decenni del “500 che, nella vasta gamma di contratti giuridici cui si faceva ricorso per investire nella rendita immobiliare, hanno ampia diffusione le locazioni ad meliorandum promosse dalla legge leonina; si tratta di una versione del contratto di enfiteusi che contempla un investimento iniziale consistente e vincolato a precise condizioni: la somma concordata non viene versata al proprietario diretto, ma deve essere spesa dall’utilista per costruire oppure ristrutturare l’edificio entro un determinato arco temporale. L’edificio su cui l’utilista aveva investito, definito nei documenti melioramenta, poteva essere venduto ad un altro utilista oppure ricomprato dal proprietario diretto entro un certo termine, fatto che rappresentava un éscamotage ricorrente per supplire alla cronica carenza di disponibilità finanziarie da parte dei proprietari dei terreni. 36 Ibid., vol. 72, c. 155r, 1525, agosto 19. 37 ASR, Presidenza delle strade, 445, c. 113rv. 346

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alcuni contenziosi sui risarcimenti si prolungarono ancora per parecchi anni: nel 1539 Sisto Magni di Alatri e Bernardino Bonaguri, proprietari di due edifici contigui demoliti prima del Sacco, ricevettero dai maestri di strade Raimondo Capodiferro e Camillo Capranica un lotto di suolo pubblico ciascuno per inglobarlo nella ricostruzione delle loro case da mettere a filo sulla via della Ciambella, «pro illius ornamento» (fig. 1) 38. Il patrimonio edilizio dopo il Sacco di Roma Il quadro che emerge dallo studio degli atti notarili di compravendita redatti subito dopo il 1527 e fino al 1530, appare profondamente mutato rispetto agli anni precedenti. Non rientra nell’argomento di questo lavoro ripercorrere il dibattito storiografico sul Sacco di Roma, tema al quale, pur nell’esiguo numero di studi a tutt’oggi presenti, è dedicato un saggio di alcuni anni fa, a cura di Anna Esposito e Manuel Vaquero39, al quale si deve riconoscere il merito di aver inquadrato il traumatico evento nel solco fecondo del dibattito rottura-continuità, inaugurato da Manfredo Tafuri 40, e di essersi rivolto alle testimonianze notarili quale fonte di prima mano per indagare gli effetti della violenta e brutale occupazione sulla realtà sociale ed economica della città 41. Viene attribuito al generale impoverimento della popolazione a seguito dei saccheggi, alla forte contrazione demografica in conseguenza della peste scatenatasi con particolare virulenza durante l’occupazione e infine alla carestia dovuta al mancato approvvigionamento dei grani e all’abbandono delle coltivazioni, il drastico calo dell’attività produttiva dopo il 1527 e un brusco arresto nel settore dei lavori stradali ed edilizi rispetto al vivace dinamismo che aveva caratterizzato il commercio

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ASR, Coll. Not. Cap., vol. 1911, cc. 230rv-231r. A. Esposito, M. Vaquero Piñeiro, Rome during the Sack: Chronicles and Testimonies from an Occupied City, in The pontificate of Clement VII, pp. 125-142; degli stessi autori anche I notai del Sacco: Roma e l’occupazione dei lanzichenecchi del 1527-28, in «Studi e Materiali» 3 (2008), pp. 1251-1267, con bibliografia di riferimento. 40 M. Tafuri, Il Sacco di Roma. 1527: fratture e continuità, in «Roma nel Rinascimento», 1985, pp. 91-35. 41 Gli autori hanno schedato circa 760 atti stipulati tra maggio 1527 e febbraio 1528, rintracciati in 109 protocolli notarili, relativi soprattutto a taglie, riscatti, testamenti e vendita di benefici ecclesiastici; citate, e in parte editate, le note storiche dedicate da molti notai al ricordo dell’invasione e del Sacco, cfr. Esposito, Vaquero Piñeiro, I notai del Sacco, p. 1257. 39

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Fig. 1 – 1539, febbraio 8, Licenza di sito pubblico concessa a Sisto Magni dai maestri di strade Raimondo Capodiferro e Camillo Capranica, per ricostruire la sua casa su via della Ciambella demolita «ante direptionem Urbis», ASR, Coll. Not. Cap., vol. 1911, c. 230r.

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e il mercato immobiliare durante il pontificato di Leone X e i primi anni di Clemente VII 42. Nessun intervento sulla rete viaria è documentato nelle taxe viarum tra il 1527 e il 1533, come si è ricordato in precedenza. Tra le carte dell’ufficio notarile di strade si può tuttavia cogliere il riattivarsi già dal 1530 di qualche cantiere stradale: in agosto riprendono i lavori della strada dalle Botteghe Oscure a Campo de’ Fiori e lo si apprende perché due soci fornai, Nicola e Vincenzo, che prima del Sacco avevano visto demolire dai maestri di strade la casa presa in affitto perpetuo in una piazzetta davanti alle stalle di palazzo Orsini in Campo di Fiori, nel disorientamento e nell’assenza dei poteri costituiti che seguirono il Sacco l’avevano fatta ricostruire e reclaudere per essere poi costretti nell’agosto 1530, quando ripresero i lavori della strada, a demolire nuovamente la casa per ordine di due chierici di Camera, soprintendenti alla magistratura di strade 43. La fonte notarile offre inoltre uno spaccato di grande interesse per gli anni che seguono immediatamente la tragedia del Sacco, e pur nel costante riferimento al periodo funesto appena trascorso, affiorano, nel testo di contratti e passaggi di proprietà, i segnali della ricostruzione. I sedici protocolli del notaio delle strade Stefano De Amannis compresi tra il 1528 e il 1534, un protocollo del notaio Butinoni per gli anni 1528-1529 e i regesti di atti per gli stessi anni della sezione 66 dell’Archivio Urbano, sono stati controllati a tappeto enucleando poco più di un centinaio di atti che riguardano compravendite immobiliari e in particolare la vendita di case devastate all’epoca del Sacco, per cogliere motivazioni, modalità e condizioni delle vendite, individuare il ceto sociale di appartenenza dei protagonisti (venditori e acquirenti) e il ruolo delle istituzioni, magistratura di strade e Camera apostolica, nell’accompagnare la ricostruzione 44. «È una città senza papa quella che riprende a vivere dopo l’uscita degli occupanti nel febbraio del ’28 … [che] cerca faticosamente di tornare alla normalità aggrappandosi alle sue magistrature» 45. Magistrature che, nel 42

Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, I, pp. 78-96. ASR, Coll. Not. Cap., vol. 79, c. 124r, 1530, agosto 9. 44 I volumi del notaio De Amannis relativi agli anni 1524-1533 sono conservati nell’Archivio di Stato di Roma, fondo del Collegio dei Notai Capitolini, voll. 70-85; presso l’Archivio Storico Capitolino sono stati controllati il protocollo del notaio J.M. Butinoni relativo al 1528 (ASC, sez. I, Rogiti originali, vol. 279, secondo protocollo) e il registro dei rogiti del 1528 (ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 49, 50). 45 M. Alberini, Il Sacco di Roma. L’edizione Orano de I ricordi di Marcello Alberini, con introduzione di P. Farenga, Roma 1997, p. LIX. 43

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Fig. 2 – Clemente VII prigioniero in Castel S. Angelo assediato dai soldati imperiali nel 1527, incisione di Hieronymus Cock da Martin van Heemskerck, Londra, British Museum (print collection)

caso di quella delle strade, riprendono rapidamente il loro posto dopo il Sacco. Dall’elenco redatto da Emilio Re non risulta nessun maestro di strade in carica nel 1528 e 1529 46; le carte notarili confermano l’assenza dei magistrati sicuramente nel 1528, inducendo a pensare che i funzionari di strade non fossero stati nominati durante la prigionia del pontefice in Castel S. Angelo e la sua successiva assenza da Roma durata fino ai primi di ottobre 1528 (fig. 2). Con il rientro di Clemente VII in città i maestri di strade tornarono operativi e la presenza dei due funzionari è ricordata dal notaio di strade fin dai primi mesi del 1529: il loro intervento è richiesto per applicare le agevolazioni previste dalle leggi «super novis edifitiis fiendis in ornatum Urbis» e in particolare per stabilire il prezzo di una casa nel rione 46

E. Re, Maestri di strada, in «Archivio della Società Romana di Storia patria» 43 (1920), pp. 5-102: 83. 350

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Colonna che Girolamo Coramboni di Gubbio acquista a maggio 1529 per ingrandire la sua residenza, costringendo alla vendita i suoi vicini di casa, i figli di Francesca de Seis; il prezzo viene fissato dai maestri in 200 ducati e ritenuto equo dal notaio «maxime his temporibus» 47. Nuovi maestri, di cui non conosciamo il nome, erano già comunque in carica a febbraio 1529, poiché nel contratto di acquisto che Silvia Alessandrini, moglie di Latino Giovenale Manetti 48, stipula per acquisire la casa di Vincenza Maccarani al piano superiore della sua abitazione in S. Maria in Monticelli, nel rione Arenula, vengono chiamati in causa proprio i due funzionari di strade: Silvia Alessandrini, secondo una formula ricorrente in tutti i contratti di vendita di case devastate dai soldati imperiali, offre il miglior prezzo per quella proprietà, cioè 200 ducati, e aggiunge che pur avendo la possibilità di rivolgersi ai maestri di strade appellandosi alle leggi «in favorem edificare volentium», aveva preferito concludere amicabiliter la vendita, considerata l’urgenza di denaro che assillava Vincenza, vedova con 3 figli piccoli, costretta a vendere la casa «portis et fenestris ac solariis devastata a militibus cesaree maiestatis» e ormai inabitabile, per non morire di fame assieme ai suoi figli 49. L’acquisto del piano superiore (pagato a piccole rate di 10 ducati al mese e l’impegno di versare gli ultimi 100 ducati dopo un anno) fu il punto di partenza per il progetto di ampliamento della residenza dei coniugi Manetti, perseguito con costanza negli anni seguenti: un paio d’anni dopo, a maggio 1531, Latino Giovenale acquistava un’altra casa saccheggiata e bisognosa di 47 ASR, 48

Coll. Not. Cap., vol. 77, c. 88r, 1529, maggio 13. Su Latino Giovenale Manetti, diplomatico e politico, colto erudito e raffinato collezionista d’arte, la cui lunga carriera iniziata sotto Leone X come segretario del cardinale Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, fiorirà al tempo di Paolo III quando si trovò a ricoprire prestigiosi incarichi fra cui quello di commissario alle antichità e di maestro di strade, si veda, S. Feci, Manetti, Latino Giovenale, in Dizionario Biografico degli Italiani, 68 (2007), e A. Quattrocchi, Latino Giovenale de’ Manetti: un diplomatico «umanista» nella Curia pontificia, in Offices et Papauté (XIV-XVII siècle). Charges, hommes, destins, Actes du Colloque, 2001-02, a cura di A. Jamme - O. Poncet, Rome 2005, pp. 829-840. Quattrocchi riferisce che Manetti si era sposato con Silvia Alessandrini nel 1526: «Latino, ormai trentottenne (…) nel 1526, abbandona definitivamente le ambizioni di una carriera in abiti talari (…) sposandosi con Silvia, figlia di Antonio de Alexandrinis, dottore di arti e medicina del rione Parione, (…) attiva e intraprendente collaboratrice del marito, al punto da gestirne gli affari in sua assenza»; l’autrice segnala inoltre che Latino Giovenale tra gennaio e febbraio 1528 si trovava in missione diplomatica in Inghilterra e dunque si comprende la sua assenza alla stipula dell’atto di acquisto della casa della Maccarani, concluso dalla moglie Silvia. 49 ASR, Coll. Not. Cap., vol. 77, c. 25r, 1529, febbraio 18. La casa di Latino Giovenale Manetti confinava con quella di Angelo Cesi e sul retro con quella di Mariano Paluzzelli. 351

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interventi radicali poichè «sine tecto, pro maiori parte diruta et detectam a militibus cesareis». La casa era contigua a quella di Manetti e ancora una volta apparteneva a una vedova, Giulia, che, dopo la morte del marito, Silvestro Barbarano, si era trovata «in extrema necessitate»; per fare fronte ai debiti già due anni prima era stata costretta a vendere un’altra casa in Tor Sanguigna per soli 100 scudi ad un giureconsulto del rione S. Angelo (cfr. tab. A, n. 15). La casa in Arenula, vicina ai Manetti, fu venduta da Giulia per 190 ducati e Latino Giovenale si accollò le annualità del canone di 15 ducati non pagate dall’epoca del Sacco (cfr. tab. A, n. 30) 50. Negli anni seguenti, tra il 1532 e il 1534, Manetti riuscì ad assicurarsi altre due proprietà confinanti con la sua: un «casaleno discoperto» in enfiteusi perpetua, che affrancò 3 anni dopo, e una grande casa a due piani con un loggiato al piano superiore acquistata per 250 ducati da Berardina Pallotti, moglie del suo vicino di casa, Lorenzo Marchesi 51. Sono anni in cui Latino Giovenale e sua moglie fanno affari investendo sia in case distrutte dai soldati imperiali, sia comprando e rivendendo censi e affitti sulle botteghe della moglie Silvia, dislocate tra piazza Pollarola e S. Maria della Pace, in Parione. Manetti compra anche due case diroccate nella contrada di Pizzo Merolo, tra Ponte e Parione, una delle quali, con due botteghe affittate rispettivamente a un “pellimantelli” spagnolo e a un pescivendolo, venne pagata nel 1532 la somma non certo esigua di 500 ducati, considerato che si trattava di una casa «sine portis et solariis, dirutam et devastatam a militibus cesareis tempore depopulatione Urbis, cum cantina subtus et uno mezanile diruto»52. Silvia Alessandrini era figlia di un medico del rione Parione e disponeva di una solida ricchezza immobiliare, costituita da case e botteghe in Parione che era solita affittare a breve scadenza, 5-10 anni al massimo, per canoni ad alto rendimento; case che i saccheggi del 1527 non avevano risparmiato, come si apprende dalla richiesta avanzata da Silvia nel 1532 al tribunale Collaterale di Campidoglio per essere autorizzata a vendere una delle sue case e poter così riscattare le altre, cedute con patto di retrovendita a garanzia di prestiti ricevuti, tanto si era indebitata a causa del Sacco. Così la vendita a Giacomo Cardelli di un prestigioso edificio in Parione, a S. Maria della Pace, costituito di sale, camere, tinello, accessoriato di cantine, discoperto e reclaustro, cucina, stalla e due botteghe, fruttò a Silvia ben 1.100 scudi 53. La nobildonna era inoltre in affari con Francesco 50

ASR, Coll. Not. Cap., vol. 77, c. 116r, 21 giugno 1529; ibid., vol. 81, c. 81r, 5 maggio 1531. 51 Ibid., vol. 83, c. 2r, 3 gennaio 1532; ibid., vol. 87, c. 4v, 3 gennaio 1534. 52 Ibid., vol. 83, c. 23r, febbraio 1532; ibid., c. 127r, luglio 1532. 53 Ibid., c. 122v, 25 giugno 1532. 352

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Serruberti, speziale perugino, al quale, il mese dopo aver acquisito la casa distrutta di Vincenza Maccaroni, vendette un censo di 33 ducati su due botteghe per 300 ducati 54, somma che Serruberti si fece prestare dal mercante perugino Marco Antonio Innocenzi 55, e che forse, in quel 1529 di pesante crisi economica, potrebbe essere stato impiegato dai Manetti per ristrutturare il piano superiore della casa da poco acquistato. Lo speziale Serruberti e il ben più facoltoso aromatario e mercante Simeone Bagattini, come vedremo, rappresentano bene il modo in cui la ricca categoria degli speziali 56 riuscì a prosperare negli anni che seguirono al Sacco, cogliendo occasioni di arricchimento nella compravendita di immobili saccheggiati oppure messi in vendita per saldare debiti o semplicemente per sopravvivere, così come nel commercio di censi imposti su case e botteghe e nel prestito di denaro57. Serruberti aveva prestato a Silvia Alessandrini 130 ducati per pagare la taglia del fratello di lei, Girolamo, a un soldato spagnolo e nel 1529 la donna, per restituire il prestito, ipotecò la casa a S. Maria della Pace che aveva affittato allo speziale 58. Qualche anno più tardi, nel 1532, Serruberti prese in affitto per 10 anni da Anastasia, vedova del nobile Giorgio Mattuzzi 59, una casa con macello sulla piazza di Parione, vicino a via Saccalupo e alle case dei Paluzzelli, speziali di antica tradizione60, «in parte discoperta et sine solariis, portis et fenestris et fere repleta immunditiis 61 et fere totam devastatam a militibus cesareis …ex qua nullus fructus percepti fuerunt a Saccu Urbis nec percipere speratur nisi illa reparetur»; lo speziale, oltre a pagare il canone di 12 ducati l’anno, si impegnava a spendere 300 ducati per ricostruire la casa, rilevando con 145 54

Ibid., vol. 77, c. 48v, 22 marzo 1529. Il mercante Marco Antonio Innocenzi nel 1533 prese in affitto per 4 anni da Francesco e Pasquale Vacca quattro magazzini al piano inferiore della casa dei Vacca a Ripa Romea, in Trastevere, per 30 ducati annui (cfr. ibid., vol. 84, c. 161r, 12 settembre 1533). 56 Sul gruppo professionale degli speziali cfr. I. Ait, Tra scienza e mercato. Gli speziali a Roma nel tardo Medioevo, Roma 1996; A. Kolega, Speziali, spagirici, droghieri e ciarlatani. L’offerta terapeutica a Roma tra Seicento e Settecento, in «Roma Moderna e Contemporanea», anno VI, n. 3 (settembre-dicembre 1998), pp. 311-347. 57 M. Vaquero Piñeiro, I censi consegnativi. La vendita delle rendite in Italia nella prima età moderna, in «Rivista di storia dell’agricoltura» 2007, pp. 57-94. 58 Ibid., vol. 81, c. 165r, 3 settembre 1529. 59 Per Giorgio Mattuzzi cfr. Modigliani, Appendice documentaria e indice ragionato dei nomi, in Li Nuptiali, pp. 111*, 26. 60 Ait, Tra scienza e mercato, pp. 112, 238, 265, 267; A. Modigliani, Le attività lavorative e le forme contrattuali, in Un pontificato ed una città, pp. 664-683: 668-669. 61 Molte delle case vendute dopo l’inondazione del Tevere dell’ottobre 1530 presentano, ancora per anni, cantine e pianterreni ostruiti da fango e immondizie. 55

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ducati l’architetto caravaggino Leonardo Barone dall’incarico, affidatogli dalla vedova, di riparare la casa62. Secondo uno schema che si ripete con incredibile frequenza in questi anni successivi al Sacco, i proprietari di case devastate dai soldati imperiali dichiarano al notaio di essere costretti a vendere per far fronte ai prestiti contratti per pagare le taglie o perché, ridotti in povertà, non sono in grado di restaurare e ricostruire le loro case distrutte oppure, qualora si tratti di enfiteuti o affittuari a vario titolo, confessano di non riuscire a pagare il canone perché non hanno denaro neppure per la sussistenza. Le testimonianze letterarie di cui si dispone in abbondanza per il periodo del Sacco riferiscono dell’abbandono e della devastazione che l’esercito imperiale lascia dietro di sé quando a febbraio 1528 lascia la città63: uno scenario di case disabitate, distrutte e bruciate (fig. 3), le trafficate zone del centro storico desolate e deserte 64, i prezzi dei generi alimentari e soprattutto del pane saliti alle stelle a causa della carestia e dei mancati rifornimenti dell’Annona cittadina, la povertà che aggrediva anche i ceti un tempo agiati 65. Le carte notarili di questi anni testimoniano il tracollo finanziario subito sia da professionisti che da impiegati di curia, oltre che da alcune famiglie dell’aristocrazia cittadina 66, cui fa riscontro la disponibilità economica e, talvolta 62

Ibid., vol. 83, c. 11v, 31 gennaio 1532; vol. 84, c. 164v, 14 settembre 1533. Due lettere pubblicate da A. Modigliani, I Porcari. Storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1994, pp. 133-138, inviate rispettivamente da Paolo Gallo a Pamphilio Pamphili il 7 marzo 1528 e da Pamphilio Pamphili alla madre Porzia Porcari a maggio 1528, restituiscono per un verso il quadro desolante in cui versa la cittadinanza in quei primi mesi del 1528 e per l’altro rimandano accenti di speranza che «le cose de Roma se potrìano riassettare» (p. 134). 64 Paolo Gallo così scrive a Pamphilio Pamphili all’inizio di marzo 1528 «et lui [Tommaso Pietrasanta] e io soli ci godemo la piazza di Parione, quale soleva esser ridutto di tanta nobiltà. Nel nostro rione sappiate che non ci è restato quasi niuno di quelli che vi erano: parte morirno in la battaglia di Borgo et parte di peste», cfr. Modigliani, I Porcari, pp. 134-135. 65 Von Pastor, Storia dei papi, IV, pp. 322-323: «Secondo il calcolo dell’oratore mantovano [lettera di F. Gonzaga del 7 ottobre 1528] quattro quinti delle case erano disabitate, da per tutto ruine, una vista emozionante per chiunque avesse veduto Roma prima. Gli abitanti stessi dicevano di essere rovinati per due generazioni. Il relatore rileva che non trovò più in vita nessuno dei suoi conoscenti e aggiunge “io certamente resto stupefatto vedendo appresso le ruine una tanta solitudine”». 66 Sembra che le famiglie Frangipane e Capodiferro, oltre agli Alberini di cui ci è stata tramandata la sorte in Alberini, Il Sacco di Roma, furono tra quelle più gravemente danneggiate dal Sacco, cfr. Esposito, Vaquero Piñeiro, I notai del Sacco, p. 1261; anche i Porcari dopo una lunga prigionia in mano dei soldati imperiali furono costretti a vendere dei terreni per ricavare 450 ducati necessari al pagamento delle taglie, cfr. Modigliani, I Porcari, pp. 111-112. 63

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Fig. 3 – Assalto alle mura di Roma il 6 maggio 1527 e uccisione di Carlo di Borbone, condottiero delle truppe imperiali; sullo sfondo i roghi delle case sulla riva destra del Tevere, incisione di Hieronymus Cock da Martin van Heemskerck, Londra, British Museum (print collection)

la generosità, di altre categorie: il fisico Giovanni Andracini di Macerata, pochi giorni dopo l’ingresso degli imperiali a Roma, viene fatto prigioniero da Pietro Navarro, Alvarvir de Cervellon e altri 5 spagnoli, e trattenuto con la moglie Sveva, il figlio Ortensio, abbreviatore e scrittore apostolico, e il nipote Ippolito Cufini, in casa di Gundisalvo de Salazar, scrittore apostolico e chierico di Avila, dal quale Giovanni riceve in prestito 1.300 ducati per pagare la taglia per la moglie, il figlio e il nipote; a giugno 1527 Sveva, la moglie di Andracini, si fa prestare sempre da Gundisalvo, 116 scudi che aggiunti ad altri prestiti le occorrono per liberare dagli spagnoli anche il marito67. Probabilmente Gundisalvo in quanto spagnolo fu graziato dal 67

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 49, c. 58rv, 1527, maggio 18, giugno 2. 355

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saccheggio e la sua casa ritenuta una prigione sicura; in quanto scrittore apostolico e forse collega di Ortensio Andracini prestò l’ingente somma per liberare la famiglia. Un’altra categoria, oltre quella degli speziali, che non sembra in sofferenza dopo il disastro del Sacco è quella dei mercanti e dei banchieri68; anzi per alcuni di loro la rovina di altri rappresentò un’opportunità per concludere buoni affari sul mercato immobiliare 69. Il già ricordato Simeone Bagattini, ricco mercante di vino e di spezie all’ingrosso, a settembre 1527 acquistava per 1.500 ducati una porzione del casale Fiorano, fuori porta S. Sebastiano, da Giulia del Bufalo che aveva urgente necessità di denaro per pagare una pesante taglia agli imperiali che le avevano incarcerato il marito, Onofrio Albertoni, dopo averli depredati di tutto, e poter sostentare i suoi figli 70. Pochi mesi dopo Simeone acquistava un grande appezzamento vignato da Gentile Bonadies e a novembre 1528 comprava per 600 ducati da Lucrezia Paluzzelli, vedova di Giovan Battista Sanguigni, la metà della domus maior della nobile famiglia dei Sanguigni, situata tra piazza S. Apollinare e piazza Navona, per ampliare ancora il fondaco di spezie e il suo palazzetto, costruito due anni prima su progetto di Niccolò Finucci 71. Anche in questo caso il motivo che costringe Lucrezia a vendere una proprietà così importante per la famiglia, è la necessità di sfamare i figli, data la penuria di grano che le sue tenute di campagna avevano patito e la carestia dilagante 72. Il banchiere comasco Baldassarre Olgiati, la cui carriera in ascesa si consoliderà all’epoca di Paolo III con incarichi importanti 73, acquistò a novembre 1528, da uno scrittore e correttore di Penitenzieria, Federico Baratutius, il diritto utile perpetuo 68

Esposito, Vaquero Piñeiro, I notai del Sacco, pp. 1261-1262; gli autori accennano, sulla base della fonte notarile, alle opportunità di guadagno che dopo il Sacco si presentarono ad alcuni operatori economici. 69 I. Polverini Fosi, I fiorentini a Roma nel Cinquecento. Storia di una presenza, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, p. 391. L’autrice considera che il ceto dei mercanti-banchieri furono poco toccati dalle traumatiche vicende del Sacco e che furono le fasce sociali inferiori dei piccoli artigiani, sensali e trafficanti «che avevano prosperato nelle facili ricchezze della Roma medicea» ad essere maggiormente danneggiate. 70 Verdi, Stefano de Amannis, pp. 118-119. 71 Ibid., pp. 115-116. 72 Ibid., pp. 119-120. 73 Baldassarre Olgiati fa parte del gruppo di mercanti che nel 1549 prestò alla Camera apostolica l’ingente somma di 100.000 scudi all’interesse del 12% annuo e i suoi eredi con Bernardo Olgiati gestirono nel 1559 la depositeria apostolica; cfr. Polverini Fosi, I fiorentini a Roma, pp. 394-395; M.C. Giannini, Olgiati, Bernardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 79 (2013). 356

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su tre case in Campomarzio adiacenti alla sua, per 260 ducati 74. Le case erano situate in un’area di recente valorizzazione dove personaggi di spicco dell’éntourage pontificio, come Sigismondo Chigi, Antonio da Sangallo il Giovane, Giulio Romano e Baldassarre Peruzzi avevano acquistato terreni e costruito case; gli edifici confinavano «muro communi mediante» con la residenza che Peruzzi aveva comprato nel 1525 vicino al mausoleo di Augusto, nell’area lottizzata durante i lavori della via Leonina 75. Cristiano de Rubeis, mercante romanam curiam sequens, originario di Assisi, residente in piazza della Berlina vicino all’albergo del Paradiso, dietro Campo dei Fiori 76, nell’estate del 1529 si assicurava per poco meno di 450 ducati le case dei suoi vicini (Lorenzo Grana, vescovo di Segni e Orsolina, moglie di Matteo fiorentino) una delle quali era «discoperta et diruta per milites cesaree maiestatis ad modum casaleni» 77. Qualche anno dopo Cristiano afferrò un’altra occasione imperdibile per ampliare ulteriormente la sua residenza quando, tra il 1532 e il 1533, ripresero i lavori di ricostruzione delle case demolite prima del Sacco per allargare la via del Paradiso: sulla piazzetta della Berlina, di fronte all’albergo del Paradiso ‘piccolo’, si affacciava una casa con macello di proprietà di Paola Picchi 78 e di suo figlio Ettore Muti da loro ipotecata per pagare i 900 ducati della dote di Giulia, figlia di Paola e sorella di Ettore, e siccome la casa, parzialmente demolita prima del Sacco per ordine dei maestri delle strade, 74 ASR, Coll. Not. Cap., vol. 75, c. 394r, 1528, novembre 26; le case si trovavano tra via Lata e la via Leonina; il prospetto di due delle tre case, «terrinee, solorate et tegulate cum salis cameris et tinellis, cantinis et parvis discopertis retro eis et cum uno puteo intermedio, ambobus dictis domibus deserviente», misurava 76 palmi x 63 palmi; la terza casa era «imperfecta cum certis parietis elevatis usque ad primum solarem inclusive, sine tecto», probabilmente danneggiata durante il Sacco. 75 Baldassarre Peruzzi e il fratello Pietro avevano ottenuto in locazione a seconda generazione due case contigue con l’obbligo di spendervi 300 ducati in 5 anni per riparazioni. «Intorno al 1525 Peruzzi si trasferì presso il mausoleo di Augusto, nell’attuale via Frezza, in una zona recentemente lottizzata. L’acquisto, siglato il 5 dicembre 1523, conferma i suoi legami con la zona di Ripetta, sede della Confraternita di S. Rocco, e lascia supporre che l’investimento immobiliare fosse connesso ad affini operazioni avviate nella stessa area da Sigismondo Chigi, Antonio da Sangallo il Giovane e Giulio Romano tra il 1523 e il 1524», cfr. A. Angelini, M. Mussolin, Peruzzi, Baldassarre, in Dizionario Biografico degli Italiani, 82 (2015). 76 Piazzetta dietro Campo dei Fiori tra i Chiavari e piazza Pollarola su cui si affacciavano gli alberghi del Paradiso grande e Paradiso parvo (piccolo), cfr. U. Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medievale e moderna, Roma 1939, pp. 34, 206. 77 ASR, Coll. Not. Cap., vol. 77, c. 99r, 1529, maggio 27, c. 122v, 1529, luglio 8. 78 Paola Picchi risulta nell’elenco delle Mulieres rifugiate in casa del cardinale Andrea della Valle l’8 maggio 1527, cfr. A. Corvisieri, Documenti inediti sul Sacco di Roma nel 1527, Roma 1873, p. 29.

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«mutilata remanserit» per diversi anni poiché Paola ed Ettore non riuscivano con i cento ducati del risarcimento a ricostruirla, Cristiano, loro vicino, si rivolse ai maestri per costringerli «ad venditionem, virtute bulle sixtine et leonine pro Urbis decore» per il prezzo di 693 ducati 79. Qualche mese prima, a dicembre 1532, i maestri di strade avevano ceduto per 70 ducati a De Rubeis 3 canne di terreno rimasto libero sulla piazza del Paradiso dopo la demolizione di una casa, con la motivazione seguente: «ad effectum in eo edificandi et domum suam ampliandi et extendendi usque ad dictam platea Paradisi parvi in ornatu civitatis» 80. Tra gennaio 1528 e novembre 1533 sono 52 le case danneggiate dai saccheggi, cedute perché i proprietari erano sprovvisti di denaro per ripararle e necessitavano invece dei mezzi per sopravvivere o per saldare i debiti contratti per le taglie, ed è questo il caso di vedove con figli minori, la categoria di gran lunga più rappresentata; nel caso invece di edifici di enti ecclesiastici (ospedali, chiese e luoghi pii) dati in locazione, gli affittuari impoveriti non riuscivano più a pagare i canoni ed erano spesso costretti a vendere le case saccheggiate se di loro proprietà (i cosiddetti melioramenta, ossia le case costruite dai locatari su terreno dell’ente) oppure a restituirle agli enti religiosi i quali, non avendo a loro volta le risorse per ricostruirle, preferivano cederle a bassi canoni a chi poteva investire nel restauro (cfr. tab. A). Scorrendo la nostra fonte si ricava l’impressione che la zona centrale della città (Ponte, Parione, Arenula) fosse disseminata di macerie e che la popolazione rimasta fosse costituita, per lo meno tra i proprietari di immobili, in buona parte da donne, la maggioranza delle quali erano vedove con ‘pupilli’: su 52 case in rovina più della metà sono vendute o acquistate da donne (28), di cui 16 vedove che, avendo perduto il marito, spesso nella tragedia del Sacco, avevano prosciugato a tal punto le loro risorse da dover vendere i ruderi delle case per provvedere al sostentamento proprio e dei figli. Anche nel caso di vendite di case e botteghe in buono stato, concluse negli anni 1528-1534, quasi la metà dei contraenti sono donne (20 su 56 vendite) e 10 di loro sono vedove (cfr. tab. B) che spesso si decidono a vendere l’immobile per pagare i debiti oppure la dote delle figlie o di parenti strette 81. Gli atti di vendita riferiscono che dagli 79

Ibid., vol. 83, c. 211r, 1532 dicembre 6. Ibid., vol. 84, c. 87v, 1533, aprile 8; Giovanni Gaddi, «Camere apostolice clerici et deputati dictis dominis magistris stratarum», ossia presidente delle strade, concede il suo assenso all’operazione. 81 Marzia [di Giacomo Bufalini di Città di Castello] (cfr. Alberini, Il Sacco di Roma, p. 498) vedova di Giulio Alberini e madre di un maschio e due femmine, cede al monastero di S. Maria in Campo Marzio una casa nel rione S. Eustachio di fronte alla chiesa 80

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edifici saccheggiati erano state asportate porte e finestre, abbattuti mura e solai, talvolta anche il tetto e le scale, depredato ogni tipo di legname, ferramenta e marmi; delle tante case incendiate di cui non rimaneva più nulla da vendere e che non sempre hanno lasciato traccia nelle carte, talvolta si recuperavano e si vendevano persino i «muri cremati». Si potrebbe obiettare che nei contratti notarili si utilizzano formule convenzionali che forse non hanno riscontro esatto nella realtà, ma poiché coesistono nello stesso protocollo atti di vendita di case in buone condizioni privi di tali formule, si è portati a pensare che la realtà descritta nelle carte del notaio rispecchi la vera situazione del patrimonio edilizio e dei proprietari nei difficili anni che seguirono il Sacco. L’espediente cui si ricorre spesso in mancanza di denaro è quello di vendere una delle case diroccate e investire il ricavato nella riparazione di altre case, oppure si cede la casa da riparare a chi può spendere per la ricostruzione, inserendo un patto di retrovendita che include il prezzo del rudere più le spese di riparazione, da riscattare dopo un certo numero di mesi o di anni. Girolama, moglie di Antonio Mattuzzi, per ricavare la somma necessaria a ricostruire alcune sue case, nell’estate del 1529, cede con patto di retrovendita a 5 mesi, i resti di una casa data alle fiamme dai soldati spagnoli in piazza S. Apollinare, al nobile Carlo Astalli, con il quale era imparentata dal momento che Carlo era sposato con Giulia Mattuzzi 82, perché la riparasse e lei potesse poi riaverla in buone condizioni pagando le spese di miglioria. Agnese, vedova con un figlio, non avendo più potuto pagare il canone alle bizzocche «propter mala temporum dispositione», vende una parte della sua casa in Colonna, nella parrocchia di S. Stefano del Trullo, per 115 ducati, accettando di condividerne gli spazi con l’acquirente 83. Anche la nobildonna Maria Santacroce, vedova di Matteo Sassi con 2 figli minori, Lucido e Fabio, nel 1530 è costretta per sfamare i figli e pagare i debiti («cum non habeat modum dicta debita satisfaciendi nec dictos filios alendi»), a vendere a Ludovica, moglie di mastro Berardino Castelli, una casetta saccheggiata in Parione forse vicina di S. Maria in Monterone accanto alla proprietà di Marcello Alberini e agli eredi di Bartolomeo della Valle, «ante est via publica et subtus arcus dicte domus est alia via publica», per dotare le figlie Girolama e Vigilia che devono entrare nel convento di S. Maria in Campomarzio, cfr. ASR, Coll. Not. Cap., vol. 84, c. 78v, aprile 1533. Maria Santacroce, vedova di Matteo Sassi, nel 1531, vende una casa devastata dagli imperiali a S. Salvatore delle Coppelle per versare la dote della cognata Faustina al marito di lei Giulio Bonaventura, cfr. ibid., vol. 81, c. 188v, 6 novembre 1531. 82 Ibid., vol. 84, c. 200v, 24 novembre 1533. 83 Ibid., vol. 77, c. 107r, 7 giugno 1529. 359

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Fig. 4 – 1532-1536, Il cortile di Casa Sassi in Roma, rione Parione, incisione da Martin van Heemskerck, Londra, British Museum (print collection)

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alla prestigiosa residenza della famiglia Sassi (fig. 4) 84, per 110 scudi, con l’obbligo per il muratore di restaurarla investendovi almeno 100 scudi e con il patto di poterla riacquistare entro 10 anni 85. Poco più di un anno dopo la vedova Sassi dovette vendere un’altra casa «in parte tegulata et solarata cum porticali… que est sine scalis, portis et fenestris et in multis sui partibus devastata», che si trovava in Colonna a S. Salvatore delle Coppelle, perché dovendo onorare dei debiti e non avendo altro denaro che quello necessario al sostentamento suo e dei figli (il ricavato della vendita della prima casa era stato evidentemente sufficiente a provvedere alla loro sussistenza), non poteva risanare l’edificio; la casa venne venduta all’architetto Giovanni Mangone 86 per 240 ducati, somma che tre testimoni affermano, a tutela dei ‘pupilli’, essere il giusto prezzo 87. Spesso le vedove con figli minori si rivolgono al tribunale del Collaterale, organo che tutela gli interessi di questa categoria, per essere autorizzate a vendere edifici devastati durante il Sacco e gli acquirenti ricorrono a prestiti pur di non lasciarsi sfuggire l’occasione di un acquisto interessante. Così Giulia, vedova di Bernardino Damiani, proprietaria di case devastate, inclusa la sua abitazione tanto che è ospite con i figli in casa di un parente, Mario Boccabella, dovendo restituire un prestito chiesto «ut redimeret filios suos» e poter riparare le case, si fa autorizzare a vendere un edificio saccheggiato nel rione Pigna, che all’epoca del Sacco era ancora in costruzione, costituito da camere, scala, orto, pozzo, vasca, discoperto, per 285 ducati; Giovanni de Scutenta, marsicano, per concludere l’acquisto si fece prestare 200 ducati 84

La casa di Fabio Sassi (figlio di Maria Santacroce e di Matteo Sassi) sorgeva accanto alla chiesa di S. Tommaso in Parione, e intorno al 1535 era dotata di un cortile adorno di statue ed epigrafi, secondo quanto ci ha tramandato un disegno di Martin van Heemskerck, cfr. V. Federici, Della casa di Fabio Sassi in Parione, in «Archivio della Società Romana di Storia patria» n. XX (1897), pp. 479-489 e Lanciani, Storia degli scavi di Roma, pp. 233-235. 85 Ibid., vol. 79, c. 23v, 12 febbraio 1530. La casetta venduta ai Castelli era così composta: oltre alla casa «una stalletta retro granarium et duabus camerettis stramezzatis de muro mattonis supra mattonibus existentibus supra dictam stallettam»; i Castelli non rispettarono il patto di retrovendita e nel 1533 rivendettero ad altri la casa restaurata per 180 scudi (ibid., vol. 84, c. 11v, 13 gennaio 1533). 86 Giovanni Mangone abitava dal 1527 nel palazzo delle Due Torri tra S. Agostino e S. Salvatore delle Coppelle, in una casa che gli era stata data in enfiteusi dal Collegio Capranica; l’acquisto della casa porticata di proprietà della vedova di Matteo Sassi, situata vicino a quella che Mangone aveva in enfiteusi, rappresenta una inedito investimento dell’architetto caravaggino nella zona, cfr. A. Ghisetti Giavarina, Mangone, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, 69 (2007). 87 Ibid., vol. 81, c. 188v, 6 novembre 1531, c. 190r, 8 dicembre 1531; i testi all’atto furono Antonio Petri Mattei Albertoni, Flaminio Tomarozzi, Berardo Conti. 361

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da Ludovico Margani, in casa del quale venne stipulato l’atto, a fronte di un’ipoteca sulla casa 88. Per potersi ritirare in monastero, Margherita, vedova di Mario Normandi, vende per 130 ducati la sua casa saccheggiata in Colonna e l’acquirente, vedova anch’essa, versa la somma direttamente alle bizzocche di Montecitorio che hanno accolto Margherita «ad effectum alendi et gubernandi tempore vite sue» 89. I prezzi delle case appaiono visibilmente crollati sia perché l’offerta è massiccia, sia perché il valore di una proprietà in rovina è ovviamente molto basso 90: nei contratti di vendita è sempre presente la clausola che dichiara che il prezzo pagato è il migliore «in his temporibus» e che si sono esperite ricerche per trovare il miglior offerente prima di procedere alla vendita. Marcello Alberini ricorda che la casa paterna venduta nel 1527 a Camilla Mattei per 400 scudi, ne valeva 2000 prima del Sacco 91. La maggior parte delle case devastate dagli imperiali vengono vendute o cedute nei rioni di Parione, Ponte, Arenula, ove i prezzi oscillano attorno ai 100/200 ducati di media anche se proprio in Parione si registrano somme molto più alte: dai 500 ducati della casa a Pizzo Merolo acquistata da Manetti nel 1532 (tab. A, n. 42), agli 850 ducati pagati nel 1532 dai Massimi a Giulia Cuccini per una casa semidistrutta dagli imperiali sulla via Papale, confinante con le loro case vicino a Campo de’ Fiori 92 (tab. A, n. 38), ai 1.100 scudi incassati nel 1532 dalla moglie di Manetti per una casa con 88

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 40v, 1° luglio 1528. Ibid., vol. 79, c. 139v, 27 agosto 1530. Margherita, vedova di un Normandi, famiglia di antica tradizione romana, godeva anche di un censo di 14 ducati su una casa in Campitelli, sulla via dei Cerroni, composta da sala, camere, cucina, orto e discoperto, che nel 1531 viene venduta per 500 scudi dai fratelli Bevilacqua ad Alteria de Albertonibus, moglie di Battista Petri Matthei de Albertonibus (ibid., vol. 81, c. 168r, 25 settembre 1531). 90 Sulle tematiche della rendita immobiliare urbana, il mercato delle case e l’organizzazione dello spazio all’interno delle mura cittadine nel XV secolo tra i tanti contributi cfr. L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 413-435; M. Vaquero Piñeiro, D. Strangio, La “gabella dei contratti”: spazio urbano e rendita immobiliare a Roma nel Quattrocento, in Roma nel Quattrocento. Topografia e urbanistica, in Roma. Le trasformazioni urbane del Quattrocento, II. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 3-28. 91 Alberini, Il Sacco di Roma, pp. 302-303. 92 I Massimi, come i Caffarelli e i Capizzucchi, appartenevano alle famiglie in grado di attingere alle proprie risorse finanziarie per sfruttare le occasioni offerte dalla vendita di case saccheggiate e per restaurare le proprie «combustas et dirutas» all’epoca del Sacco (cfr. Esposito, Vaquero Piñeiro, I notai del Sacco, pp. 1261, 1263). 89

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due redditizie botteghe, nella centralissima piazza di Parione, venduta ai Cardelli (tab. A, n. 41). Risulta difficile valutare adeguatamente il significato di queste oscillazioni di prezzo poiché le carte non forniscono dettagli sufficienti ed omogenei circa l’ampiezza delle case e l’entità dei danni subiti a causa del Sacco. Qualche utile considerazione può forse scaturire dal confronto tra i dati relativi alle vendite delle 52 case saccheggiate (tab. A) e quelli delle 56 case in buone condizioni (tab. B) rilevati per lo stesso arco cronologico (15281533/34): senz’altro i prezzi di queste ultime sono generalmente parecchio più alti se si considera che il prezzo medio degli immobili in buono stato situati in Parione, Colonna, Arenula e Campo Marzio, è di circa 180/300 ducati per arrivare spesso a 650/1000 e talvolta a 2000 ducati (tab. A, nn. 51-52). Per avere un raffronto tra prezzi e caratteristiche degli edifici venduti, in assenza di parametri uniformi circa l’ampiezza e la qualità delle case, ci si può basare, oltre che sull’ubicazione dell’immobile, sulle pertinenze di esso, che, nel caso degli edifici più costosi, comprendevano strutture destinate alla vendita come botteghe, macello, forno, oppure la comodità di un orto, un cortile, un pozzo, un loggiato, un porticato, e talvolta giardini di ‘melangoli’, torre e colombaia; come la casa in Pigna che il “magnifico e generoso” Giovanni Bernardino Brancaleoni vende a novembre 1528 alla comunità di Fraiano per 1.000 ducati (tab. B, n. 4) o il fondaco dotale di Imperia a via del Pellegrino che il sarto Nicola Pizzighettone aveva acquistato alla fine del 1527 per 2000 fiorini e che sei anni dopo non aveva ancora pagato (tab. B, n. 22). Peraltro anche le case saccheggiate ma dotate di pertinenze potevano arrivare a somme elevate: Giulia de Ioacchinis, vedova di Andrea Serroberti, morto durante il Sacco, e madre di tre figli, acquista nel 1533 da un medico vicentino, Bernardino Guidotti, una casa «pro maiori parte diruta a militibus cesareis» ma provvista di un magazzino (argasterio) sulla via Recta verso l’Immagine di Ponte per 1.000 ducati, lo stesso prezzo che il medico afferma di aver pagato quando a sua volta l’aveva acquistata dalla Curia (tab. A, n. 48). L’altra categoria, oltre alle vedove con figli, che dopo il Sacco cerca faticosamente di risanare il proprio patrimonio edilizio è costituita dagli enti religiosi i quali utilizzano l’antico e sempre valido strumento della locazione ad meliorandum affittando a lungo termine le case danneggiate a muratori, fabbri e carpentieri, che con un investimento iniziale contenuto e la loro manodopera, potevano provvedere agevolmente alle riparazioni. Il convento di S. Agostino ad esempio affitta a terza generazione, per un canone esiguo e un investimento di 200 ducati in 4 anni per le riparazioni, a mastro Benedetto, carpentiere pisano, una casa in Colonna «denudata 363

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et dirupta», poiché «propter mala temporum dispositionem non habeat manualem pecuniam ad illam reparandam» 93. Dopo il 1527 si moltiplicano le detrazioni agli affittuari o lo sgravio totale dal pagamento dei canoni di locazione per i mesi dell’occupazione imperiale 94 e il mercato delle locazioni si assesta su canoni scontati e su periodi di affitto più brevi: nei primi mesi del 1528 due fornai di Treviglio, soci in arte furni, affittano per 3 anni a un conterraneo, Bartolomeo alias Borela, una casa con forno, stufa, camere, cantine e cortile in Campo Marzio «in strata magna Sancti Rochi versus et prope sancta Maria de Populo» per 40 ducati annui che però riducono a 32 ducati «propter ruinam ipsius Urbis et mala tempora conditionem»; i due soci fornai il mese seguente prendono in affitto una casa con forno e stufa in Ponte, accanto alla taverna della Coroncina e alla famiglia della Corona, dietro «certa macella in loco dicto Panico», per 28 ducati i primi due anni e per 38 ducati per gli altri 3 anni, con l’impegno di riparare porte e finestre distrutte dai soldati imperiali 95. Molti gli edifici locati a terza generazione devastati dal Sacco che vengono restituiti agli enti ecclesiastici proprietari perché gli affittuari sono nell’impossibilità di pagare il canone e di riparare l’edificio 96. Non risulta siano state promulgate leggi per alleviare la condizione di proprietari e inquilini che ebbero case distrutte a seguito del Sacco salvo un’interessante notizia emersa a più riprese dai documenti notarili che riferisce di un breve apostolico «in favorem inquilinorum» in vigore almeno dal 1529 97, grazie al quale i canoni delle locazioni stipulate prima del Sacco potevano essere decurtati di un quarto dell’importo per l’arco 93

ASR, Coll. Not. Cap., vol. 79, c. 155r, 17 settembre 1530. La società di S. Maria in Cacaberis condona alla vedova e alla figlia di Pietro da Monferrato il canone di 20 ducati annui di una casa locata a terza generazione, per i mesi in cui «milites imperiales fuerunt in Urbe» (ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 50r, 3 febbraio 1529). I canonici di S. Lorenzo in Damaso condonano il ricavato degli affitti per l’anno 1527 all’esattore dei canoni della chiesa, il quale afferma di aver perduto tutti i denari «in invasione et Sacco Urbis facta seu facto a militibus imperatoris de mense maii dicti anni 1527» e quindi pretende di non dover restituire tali somme (ibid., c. 103r, 8 novembre 1530). 95 ASC, sez. I, Rogiti originali, not. J.M. Butinoni, vol. 279, secondo protocollo, cc. 6r, 10v, gennaio-febbraio 1528. 96 Marsilio barisano restituisce ai canonici di S. Lorenzo in Damaso una casa che suo nonno Antonio aveva preso in locazione a terza generazione, sita in Parione «in platea Berlina veteris», perché «tempore invasionis Urbis per milites imperiales de anno 1527 fuerit et sit penitus diruta» (ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 72v, 8 aprile 1529). 97 Purtroppo, l’apertura contingentata di archivi e biblioteche a causa della pandemia del 2020-2021, ancora in atto al momento in cui si scrive, ha impedito di completare la ricerca presso l’Archivio Segreto Vaticano per rintracciare nello specifico il breve apostolico. 94

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cronologico di sei anni «post ruinam Urbis». Il breve, cui si faceva spesso ricorso, contribuì certamente a sollevare gli affittuari ma fu forse meno gradito ai locatori anche perché spesso i primi pretendevano di ricorrervi senza averne diritto; a tutela dei locatori il notaio inserisce nei patti di locazione stipulati dopo il 1527, la clausola che l’affittuario si impegna a non chiedere il ‘defalco’ «in favorem inquilinorum per sedem apostolicam concessum»98. I canonici di S. Lorenzo in Damaso concedono nell’aprile 1529 la locazione perpetua «ad rehedificandum» di tre case dirute in Parione sulla piazza della chiesa, a un pizzicarolo di Parma, Bernardino Morello di Scorzano, previo consenso della Camera apostolica che Bernardino si impegna ad ottenere a sue spese 99; oltre all’obbligo di restaurare le case, riammattonare la strada senza pretendere il defalco della quarta parte del canone «in favorem inquilinorum», il pizzicarolo dovrà corrispondere un canone annuo di 50 ducati, segno che il valore delle case e dell’attività di pizzicheria che probabilmente vi si sarebbe insediata, era ritenuto molto redditizio. Ancora più esplicito l’atto con cui sempre i canonici di S. Lorenzo in Damaso respingono la pretesa di defalco del canone di una casa in via Florida da parte dell’affittuario, subentrato nella locazione nel 1529 pur essendo il contratto d’affitto precedente al Sacco («iuxta formam brevi apostolici ex quo domus subiacet restitutioni infra sex annos») 100. Con il ritorno del pontefice in città, al quale fece seguito il rientro di gran parte della cittadinanza che si era rifugiata nelle campagne 101, e la lenta ripresa delle attività economiche, ripartono anche gli investimenti immobiliari da parte di quanti potevano contare su una solida capacità finanziaria, indispensabile per approfittare dei bassi prezzi delle case saccheggiate e per avvalersi della legge sull’esproprio, ormai in vigore da quasi cinquant’anni. Ricompaiono via via più numerose le iniziative di recupero e ricostruzione di un patrimonio edilizio gravemente danneggiato e lo sforzo di riprendere i progetti interrotti, di volgere in positivo gli esiti disastrosi del traumatico evento, cui si era aggiunta nel 1530 una piena devastante del Tevere che aveva lasciato la città sott’acqua per giorni; 98

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 73r, 8 aprile 1529. Dopo il Sacco negli atti di locazione perpetua o a terza generazione di case appartenenti ad enti religiosi si trova la clausola «reservato sedis apostolice beneplacito et confirmatione»; il consenso della Camera apostolica era evidentemente indispensabile per procedere a locazioni che implicavano da parte degli enti ecclesiastici una cessione del diritto utile a lunga e lunghissima scadenza ed era certamente venale dato che l’affittuario si impegnava a ottenere a proprie spese tale consenso. 100 ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 75r, 23 agosto 1529. 101 «Et tuttavia ogniuno comincia a ritornare…benchè Roma sia tutta ruinata pure ognuno ci torna volentieri», Modigliani, I Porcari, p. 134. 99

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si può cogliere nelle parole dei testimoni dell’epoca un cauto ottimismo: «come le cose se rassettino et el papa ritorni non si dubita che gente et multiplicarà et trovaràsi partiti al appisonare le case et trovaràsi chi le piglii per qualche anno ad acconciarle» 102. Nonostante il mercato abbondasse di case distrutte dai saccheggi che era possibile acquisire facilmente per somme modeste, una minoranza di personaggi facoltosi continua in questi anni a ricorrere anche ai maestri di strade per ottenere la vendita coatta di una casa vicina alla propria, oppure per conseguire una porzione di suolo pubblico edificabile, investendo somme talora ingenti nell’edificazione di una dimora signorile che rispettasse i parametri dell’ornato pubblico, contribuendo così a una ricostruzione urbana di qualità, come si è visto nel caso della residenza che il mercante Cristiano de Rubeis riesce a realizzare nella piazza del Paradiso in Parione. Tra le vendite di case degli enti ecclesiastici che si concludono con l’applicazione della legge sistina, è degna di nota la vicenda di Girolamo Rufini, enfiteuta della chiesa di S. Tommaso degli Spagnoli in Arenula, il quale era incorso nella sventura di aver da poco investito la somma di 500 ducati per ricostruire una casa di proprietà della chiesa vicino al palazzo del cardinal Farnese, aggiungendovi un viridario, quando l’edificio venne saccheggiato dai soldati imperiali che catturarono lui e i suoi figli costringendoli a pagare taglie ingenti per la loro liberazione. Quasi tre anni dopo i figli di Girolamo, morto in quei tempi funesti, furono costretti, per saldare i debiti contratti dal padre per le taglie, a vendere i melioramenta (in altre parole la casa e il viridario costruiti da Girolamo) non riuscendo più a pagare il canone di 20 ducati annui e neppure a restaurare l’edificio: con l’aiuto dello zio, rettore della chiesa di S. Tommaso, i giovani Rufini vendono la casa saccheggiata a Paolo Girolamo Franchi, mercante genovese, che si impegna a ricostruirla investendovi 300 ducati e a versare 225 ducati ai Rufini, prezzo che, maggiorato del 10% previsto dalla bolla leonina del 1516 per le case degli enti ecclesiastici, era da considerarsi, secondo le parole dello zio, Mario Rufini, più che giusto «maxime his temporibus» 103. A volte la vendita di una casa al vicino facoltoso che intendeva acquisirla a qualsiasi costo per inglobarla nella costruzione del proprio palazzo, veniva imposta al proprietario recalcitrante da precisi ordini dei magistrati di strade: una sentenza datata 1530 e tramandata in originale (fig. 5), venne emessa, a seguito del ricorso dell’acquirente, dai magistrati di strade e dal Camerlengo Agostino Spinola 104, per imporre a Laura Merili, vedo102

Ibid., p. 137. ASR, Coll. Not. Cap., vol. 79, c. 161r, 15 settembre 1530. 104 R. Musso, Spinola, Agostino, in Dizionario Biografico degli Italiani, 93 (2018). 103

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Fig. 5 – 11530, settembre 9, Sentenza originale con cui il camerlengo Spinola e i maestri di strade Domenico Picchi e Domenico Boccamazza impongono a Laura Merili di vendere una sua casa in Parione a Girolamo da Castello, avvocato concistoriale, ASR, Coll. Not. Cap., vol. 1911, c. 199r.

va del notaio Tranquillo de Romaulis, e ai suoi cinque figli di vendere, pena una multa di 500 ducati d’oro, una loro casa in Parione a Girolamo da Castello, avvocato concistoriale, il quale, adducendo la motivazione dell’ornato pubblico, intendeva costruire «unum pulchrum palatium» accorpando la casa di Laura contigua alla sua 105. Un altro personaggio, appartenente alla folta e danarosa categoria degli avvocati concistoriali e dei segretari personali, che approfitta delle vantaggiose offerte del mercato edilizio dopo il Sacco per trasformare la sua abitazione in una «domum pulcram in ornatum civitatis», è Felice Morrone, originario di Fermo e segretario del cardinale Andrea Della Valle 106, che tra il 1532 e il 1533 si accaparra le proprietà confinanti con la sua casa nel rione S. Eustachio. Gli acquisti iniziali riguardano prima un discoperto seu casaleno di Fabrizio e Camillo, figli di Tiberio Quatracci 105

ASR, Coll. Not. Cap., vol. 1911, c. 199r, 9 settembre 1530. Felice Morrone da Fermo viene menzionato per aver venduto il 5 luglio 1533 una tenuta al Quirinale, cfr. Lanciani, Storia degli scavi, vol. IV, Roma 1912, p. 95.

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i quali, «considerantes posse cogi ad dictum casalenum vendendi iuxta formam litterarum apostolicarum Sixti quarti et Leoni X in favorem edificare volentium», consentono a venderlo per 100 ducati contanti; il mese seguente, ad aprile 1532, Morrone spende ancora 100 ducati per un altro casaleno 107 tra la sua casa e quelle dei Quatracci, per estendersi poi alla fine di quell’anno alla casa della vedova di Giulio Quatracci. A novembre 1532 Morrone, appellandosi alle leggi sistina e leonina «in favorem volentium novas domos in Urbe edificare seu iam constructa ampliare et reformare», si assicura prima un parvo discoperto, confinante con la fabbrica della sua domum pulcram, di proprietà delle figlie del defunto Giulio Quatracci, per 85 scudi 108, poi in un solo giorno, ottiene due edifici confinanti con la sua residenza, appartenenti a due vedove: la metà di una casa «ruinosam et indigentem reparationem» con cortile e discoperto, della vedova di Giulio Quatracci, Livia, e delle sue figlie, al prezzo che per decreto dei maestri di strade doveva essere stabilito da due periti 109, e inoltre la casa di Elisabetta de Comitibus, vedova di Cesare Gaietanus, confinante con la casa di Morrone, con quella di Fabrizio Quatracci e con Tarquinio Alberini, pagandola 400 ducati 110. Il potente segretario del cardinale Della Valle lascia traccia nelle carte del notaio de Amannis dell’ambizioso progetto edilizio da realizzare nelle immediate vicinanze del sontuoso palazzo del suo cardinale, da poco completato 111: Morrone intendeva demolire la casa in rovina della vedova Quatracci e della vedova de Comitibus «et illas de novo reficere et edificare et cum sua domo magna, per ipsum noviter a fundamentis edificata, incorporare in ornatum civitatis et sui commoditate», predisponendo inoltre un affaccio del nuovo palazzo sulla strada tra piazza S. Eustachio e le case degli Alberini 112. Nell’anno seguente Felice Morrone acquista per conto del cardinale Della Valle alcuni caseggiati, anch’essi bisognosi di restauro e in parte inabitabili, tra la via Papale e il nuovo viridario annesso 107

ASR, Coll. Not. Cap., vol. 83, c. 55v, 10 aprile 1532; l’acquisto del casaleno dal tutore di un minore, Giovanni Filippo figlio di Nicola Fimeri, è concluso al prezzo di 100 ducati. 108 Ibid., c. 186r, 12 novembre 1532. 109 Ibid., cc. 194r-196r, 20 novembre 1532. La vendita avvenne con la mediazione di Bernardino de Victoriis, esecutore testamentario di Giulio Quatracci, con l’impegno da parte di Morrone a costruire un muro tra la sua proprietà e quella della vedova e delle figlie. 110 Ibid., c. 193v, 20 novembre 1532; anche questa vendita si conclude con la mediazione di Bernardino de Victoriis. 111 Sul palazzo del cardinale Della Valle costruito tra il 1518 e il 1526, cfr. C. Riesebell, Della Valle, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 37 (1989); sul palazzo del fratello del cardinale, Bartolomeo Della Valle, cfr. Verdi, «Pro Urbis decore et ornamento», pp. 395-396. 112 Ibid., vol. 83, c. 194r, 20 novembre 1532. 368

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al palazzo del cardinale 113: le case, solitamente affittate per 20 ducati l’anno, furono acquistate per 800 ducati da una vedova un tempo facoltosa, Antonia già moglie di Leonardo Leni, e dai suoi figli Vincenzo, Nicola e Giuliano, i quali si risolvono alla vendita non potendo provvedere alle riparazioni 114. Tra gli esponenti della piccola aristocrazia curiale che dopo il Sacco mantengono e rafforzano una solida base economica grazie agli investimenti immobiliari, figura il ‘magnifico’ Prospero Mochi, cancelliere generale della guardia del papa e del palazzo apostolico sotto Clemente VII, titolare di svariati incarichi amministrativi e militari già con Leone X e Adriano VI, titolare di uffici camerali e abile speculatore immobiliare 115. Sopravvissuto al Sacco, durante il quale riuscì a salvarsi riparando in Castel S. Angelo, Mochi riportò però pesanti perdite economiche a seguito del tragico evento: oltre a una pesante taglia versata agli invasori per la sua liberazione, ebbe la casa gravemente danneggiata. Forse a seguito di quella terribile circostanza il cancelliere nel 1531, nonostante la morte lo raggiunga più di trent’anni dopo, redige un testamento rimasto finora inedito, dal quale emergono sia i prestiti fatti a parenti e conoscenti all’epoca del Sacco, sia le case che era riuscito a comprare proprio negli anni immediatamente successivi all’invasione, per somme molto elevate 116. La disponibilità economica derivatagli dalla gestione degli uffici camerali e di numerose società d’ufficio gli permise investimenti immobiliari di valore: fino al 1526 Mochi abitava in Campo Marzio mentre nel 1531 possiede una casa in Ponte «a la Imagine donde habito, nova tucta a fundamenti» dotata di 25 stanze con chiostro, giardino e cantine, pagata 3.500 ducati d’oro ai frati di S. Onofrio, provvista di un ponte fatto costruire da Prospero che metteva in comunicazione l’edificio con altre case pagate oltre 1.000 ducati d’oro, dalle quali ricavava 100 ducati l’anno di affitto; era inoltre riuscito ad acquisire per 300 ducati dagli eredi del protomedico pontificio Andrea Vives, che aveva contribuito a far liberare nel 1528 117, una casa in 113

Ibid., vol. 84, c. 167r, 16 settembre 1533. Antonia di Paolo Boncambi di Perugia abitava prima del matrimonio proprio nel rione S. Eustachio; nel 1497 sposa Leonardo Leni portando una dote di 4000 ducati e si trasferisce nella casa del marito nel rione Pigna, dove infatti viene steso l’atto di vendita delle case (forse parte del patrimonio dotale); cfr. I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro. I Leni: uomini d’affari del Rinascimento, Roma 2000, pp. 48-49, 88. 115 F. Crucitti, Mochi, Prospero, in Dizionario Biografico degli Italiani, 75 (2011); Mochi, in qualità di priore della confraternita dell’Annunziata, redige una relazione sul Sacco, cfr. Esposito, Vaquero Piñeiro, I notai del Sacco, p. 1264. 116 ASR, Coll. Not. Cap., vol. 81, c. 94v e sgg.: c. 97rv. 117 Nel 1528 Mochi, su incarico del papa, aveva condotto con successo una trattativa, per la liberazione di Andrea Vives, scrittore delle lettere apostoliche e medico pontificio, 114

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Orietta Verdi

Parione a Pozzo Bianco 118 con una bottega e cinque stanze al pianterreno «tutte in volta», oltre a 16 stanze al piano superiore, da cui poteva ricavare 40 ducati l’anno di affitto. A conclusione di questa prima indagine condotta sulle fonti notarili si può affermare che la ricostruzione del patrimonio edilizio danneggiato dal Sacco comportò un importante trasferimento della proprietà immobiliare dalle mani degli enti religiosi e di molte donne, prevalentemente vedove con figli, parecchie delle quali appartenenti ai ceti dell’aristocrazia municipale e impoverite dai saccheggi, dagli esborsi di denaro per le taglie, dalle necessità legate alla sopravvivenza, a quelle di mercanti, speziali e professionisti titolari di incarichi curiali e di uffici camerali che meglio di altri avevano retto l’urto traumatico dell’invasione grazie alla maggiore disponibilità di denaro derivante dalle loro remunerative attività. La possibilità di acquisire edifici saccheggiati a prezzi molto convenienti investendo nella rendita immobiliare fece di questi ceti sociali i veri artefici del processo di ricostruzione del patrimonio edilizio nelle zone centrali e più densamente abitate della città, dove peraltro si concentrava la maggioranza delle case danneggiate dal saccheggio. Tale processo di rinnovamento, avviatosi in tempi abbastanza celeri, già poco più di un anno dopo il Sacco come conseguenza della massiccia offerta di case in rovina, trasse linfa e alimento dalle agevolazioni che la legislazione edilizia continuava a offrire a romani e forenses, curiali e mercanti romanam curiam sequentes desiderosi di investire nella rendita immobiliare e di affidare a residenze imponenti e sontuose i segni del proprio prestigio.

e di altre persone di origine spagnola residenti a Roma, sequestrate per ritorsione da un gruppo di cittadini romani e di signorotti laziali dopo la partenza dalla città dell’esercito imperiale e tenute prigioniere a Tagliacozzo, Licenza e Vicovaro, cfr. Crucitti, Mochi. 118 Dovrebbe trattarsi della casa che Andrea Vives aveva fatto ricostruire attorno al 1517, acquistando per 770 ducati dalla società di S. Michele Arcangelo in Burgo Sancti Petri una grande casa ruinosa «in contrata Putei Albi» accanto alla sua, ricorrendo alle leggi edilizie e all’intervento dei maestri di strade, cfr. Verdi, «Pro Urbis decore et ornamento», pp. 384385. Se effettivamente si trattasse della stessa casa sarebbe da considerare la considerevole caduta del prezzo di vendita passato da 770 ducati a 300. 370

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Tabella A. Vendita e locazione di case distrutte dal Sacco (1528-1533) Fonti: Archivio di Stato di Roma (ASR), Collegio Notai Capitolini (CNC), not. S. De Amannis, nn. 76-84 Archivio Storico Capitolino (ASC), sez. I, Rogiti originali, not. J.M. Butinoni, n. 279; Archivio Urbano, sez. 66, nn. 49, 50 Case

1

2

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

Campomarzio, strada da S. Rocco a S. Maria del Popolo

40 ducati ridotti a 32

Gennaio 1528

ASC, I, Rogiti orig., J.M. Butinoni, 279, c. 6r

Pigna, ad Macella corvorum

60 duc.

Febbraio 1528

CNC, 76, c. 24v

Ponte, accanto alla taverna La Coroncina 1, dietro macella di Panico

28 duc. per i primi due anni poi 38

Febbraio 1528

ASC, I, Rogiti orig., J.M. Butinoni, 279, c. 10v

Pigna

_

Luglio 1528

ASC, Archivio Urbano sez. 66, tomo 50, c. 40v

Camilla di Nardo bastario/ S. Gio. Malva/ magister David de Fagianis di Treviglio

[Trastevere]

Canone annuo 14 carlini

n. Lucrezia Paluzzelli, ved. del n. Giovan Battista Sanguigni e i figli pupilli Gaspare e Giacomo/nn. Simeone e Nicola Bagattini, mercanti

Ponte, piazza S. Apollinare o di Tor Sanguigna, accanto alla casa e fondaco dell’acquirente

600 ducati

Locazione a 35 mesi Martino e Dotardo con defalco del canone Compagnoni di «propter ruinam Urbis Treviglio, soci in arte et mala tempora» di casa furni/Bartolomeo alias con forno, stufa, camere, Borela fornaio cantine e cortile Vendita di casa «diritam Angelo de Ianziis del solaribus, portis et fenestris a militibus cesaree rione Trevi/Gio. Battista maiestatis, cum parietibus de Ugerio de Monferrato intus et tecto»

3

Locazione a 5 anni di una casa con forno e stufa con obbligo di riparare porte e finestre «propter devastationis illarum per soldati (sic) tempore exercitus imperatoris»

4

Autorizzazione a vendere una casa «sine portis, fenestris et scalis devastatis Giulia ved. di Bernardino per milites» per restituire un Damiani, ospite di Mario prestito «ut redimeret filios Boccabella suo parente, chiede di poter vendere suos captivos in manibus gli immobili dei suoi militibus imperialis exercitus figli, Fausta e Clemente, in tempore diruptionis di 10 e 8 anni Urbis» e riparare «domos devastatas per eosdem milites»

5

6

Istromento dotale in cui sono incluse «tres domunculas insimul iunctas ex quibus una est cum tecto relique vero discoperto et diruto per soldatos exercitus imperatoris tempore quo stetit in Urbe» Vendita di parte della domus maior, «terrinea, solarata et tegulata cum apoteca subtus» per sfamare i figli, date le gravi perdite subite dalle sue tenute di campagna durante il Sacco

--/Martino e Dotardo Compagnoni di Treviglio, soci in arte furni

ASC, I, Rogiti Settembre orig., J.M. Butinoni, 1528 279, c. 59r

Ottobre 1528

CNC, 75, c. 343r

1

Si ha notizia di un ospizio della Corona in Ponte, a Monte Giordano, gestito negli anni Settanta del XV secolo dal fiorentino Giovanni Pini, cfr. Modigliani, Mercati, botteghe, pp. 140, 204.

371

Orietta Verdi

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

7

Vendita di casa «terrinea, Ebesis de Pisis/monastero solarata e tegulata cum sala di Campomarzio, della cameris, tinellis, cantinis, Minerva, dei SS. Gio. e Paolo/n. Elena Orsini, orto, reclaustro, puteo, ved. del magnifico stabulis» che a causa delle devastazioni del Sacco non Tancredi de Raineriis di Perugia rende

8

Vendita di una casa «portis et fenestris ac solariis devastata a militibus cesaree maiestatis» posseduta pro indiviso con l’acquirente

Vincenza Maccaroni, ved. di Gio. Battista Tormatoris di Napoli/ Latino Giovenale Manetti, Silvia Alessandrini

9

Condono del pagamento del canone per i mesi in cui «milites imperiales fuerunt in Urbe»

S. Maria in Cacaberis/ moglie e figlia del q.m Pietro da Monferrato

10

Restituzione di casa locata a 3a gen. «tempore Marsilio Barisano nipote invasionis Urbis per milites di Antonio/S. Lorenzo in Damaso imperialis de anno 1527 fuerit et sit penitus diruta»

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

Campo Marzio S. Nicola dei Prefetti

Canone annuo 120 duc. + 400 duc.

Gennaio 1529

CNC, 77, c. 6v

Arenula, S. Maria in Monticelli

200 duc.

Febbraio 1529

CNC, 77, c. 25r

Febbraio 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 50r

Aprile 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 72v

_

_

Parione, piazza della Berlina vecchia

Canone 10 duc.

Parione, piazza di S. S. Lorenzo in Damaso

Canone annuo 50 duc., restauro delle case, ammattonato della strada senza pretendere il defalco della 4° parte del canone

Aprile 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 73r

11

Locazione in perpetuo «ad S. Lorenzo in Damaso/ rehedificandum»(previo Bernardino di Morello consenso della Camera apostolica che il locatario si de Scorzano, pizzicarolo parmense impegna ad ottenere a sue spese) di 3 case unite dirute

12

Vendita di casa a norma delle leggi edilizie «maxime his temporibus»

q.m Francesca de Seis e figli/Girolamo Coramboni

Colonna, S. Salvatore delle Coppelle

200 duc.

Maggio 1529

CNC, 77, c. 88r

13

Vendita di casa «discopertam et dirutam per milites cesaree maiestatis ad modum casaleni»

Lorenzo Grana, vescovo di Segni/Cristiano de Rubeis, mercante

Parione, piazza della Berlina

145 duc.

Maggio 1529

CNC, 77, c. 99r

14

Vendita di casa, dalla cantina al secondo solaio, poichè «propter mala temporum dispositione, per annos 3 videlicet a Saccu Urbis» non è stato pagato il canone

Agnese, ved. di Bernardino Ferrari/ Bizzocche/Giovanni e Bernardino Cochitti di Vicovaro

Colonna, S. Stefano del Trullo

Canone annuo 12 duc. + 145 duc.

Giugno 1529

CNC, 77, c. 107r

15

Vendita di casa per soddisfare debiti

Giulia, ved. di Silvestro Barbarano/Gio. Antonio Connestabili di Subiaco, avvocato

Ponte, Tor Sanguigna

100 duc.

Giugno 1529

CNC, 77, c. 116r

372

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

16

Locazione in enfiteusi perpetua «ad reparandum et meliorandum» di una casa che «magnam indigeat reparationem» poiché «a militibus imperialibus in parte dirutam»

SS. Celso e Giuliano/ Giovanni e Antonio Sinebarbis

17

Vendita, con patto di retrovendita entro 5 mesi, Girolama, moglie di di casa ossia bottega «discoperta et fere diruta Antonio Mattuzzi/Carlo Astalli que a militibus cesaree maiestatis fuit igne…muris crematis»

Rione

Prezzo

Canone annuo 16 duc. +100 Ponte, Monte Giordano duc. in 10 anni per riparazioni

Data

Segnatura

Luglio 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 76v

Luglio 1529

CNC, 77, c. 120r

Ponte, S. Apollinare

_

Parione, via Florida

Francesco pretende di defalcare la 4° parte del canone «iuxta formam brevi apostolici» ma l’affitto è stato stipulato «post ruinam Urbis»

Agosto 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 75r

Canone annuo 12 duc. + entro 2 anni riparazioni

Agosto 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 79r

18

Accordo circa il defalco della 4a parte del canone, «iuxta formam brevi apostolici», per locazione a 6 anni di casa «post ruinam Urbis»

19

Locazione a vita di una casa «diruta que magna indiget reparatione»

20

Locazione a vita di una casa danneggiata durante il Sacco di Roma

Osp. degli Inglesi/ Antonio de Inferreriis e sua moglie Girolama

Arenula, davanti a S. Girolamo, accanto all’ospedale

Canone di 24 duc. per 2 anni + 50 duc. in riparazioni

Agosto 1529

CNC, 77 c. 158v

21

Locazione per 3 anni dell’albergo della Spada 2, con l’impegno di rifare «portas et fenestras, serraturas necessaria agnatoria et reaptari tectum dicti hospitii»

monastero di S. Paolo fuori le mura/Francesco Brusati di Castronovo, Pavia

Ponte, Monte Giordano

35 duc. annui

Ottobre 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 76r

22

S. Lorenzo in Damaso/ Francesco Pulicati, già di Margherita fiorentina ved.

Ponte, S. Lorenzo in Damaso/ «retro hospitium Imperia curiale bolognese Panonie»

Locazione a 3a generazione di casa «pro maiori parte Canone annuo devastata et diruta tecto 12 duc. + Nicola Casamurata, figli/ [Campo Marzio] et solariis ac sive portis 100 ducati in Annibale da Sezze et fenestris…a militibus riparazioni cesaree maiestatis… a tempore direptionis Urbis»

Gennaio 1530

CNC, 79, c. 4r

2 U. Gnoli, Alberghi e osterie della Rinascenza, Spoleto 1935, pp. 135-136. Forse l’albergo della Spada è quello ricordato come hospitium Panonie in questa tabella, scheda 18, poiché vi alloggiavano molti viaggiatori tedeschi (cfr. ibidem).

373

Orietta Verdi

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

23

Vendita di casa «cum una stalletta retro granarium et duabus camerettis n. Maria Santacroce, ved. stramezzatis (…) di Matteo Sassi, Lucido devastatam portis fenestris e Fabio, figli/Ludovica et solaris et fere dirutam a moglie di Bernardino militibus cesaree maiestatis Castelli tempore occupationis Urbis» con patto di retrovendita

Parione

110 duc.+100 duc. in riparazioni entro 2 mesi

Febbraio 1530

CNC, 79, c. 23v

24

Locazione a 3a generazione di casa «dirutam et desolatam solariis tecto, Osp. degli Inglesi/mastro scalis ac portis et fenestris a Antonio de Biganzolis de militibus cesaree maiestatis Villa Cardano, milanese tempore invasionis et occupationis Urbis ab exercitu cesareo»

Arenula, S. Salvatore in Campo

Canone annuo di 10 scudi

Agosto 1530

CNC, 79, c. 137v

25

Vendita di casa «terrineam et in parte solaratam cum sala et duabus cammeris et discoperto ante se et aliis membris que fuit et est devastata a militibus cesaree maiestatis tempore occupationis Urbis et caret portis et fenestris»

Colonna, parrocchia di S. Lucia de Columna

130 duc. al monastero del Crocifisso delle bizzocche di Monte Citorio, in cambio di vitto e alloggio a vita

Agosto 1530

CNC, 79, c. 139v

26

Locazione a 3a generazione di una casa «denudata et Convento di dirupta, tecto ac portis S. Agostino/Benedetto ac fenestris a militibus di Oliverio Bartolomeo, cesaree maiestatis tempore carpentiere di Pisa e invasionis et occupationis Barbara, moglie Urbis ab exercitu dicte cesaree maiestatis»

27

Vendita dei melioramenta e cessione di canone di una casa con viridario S. Tommaso degli «tectis, solariis ac portis et fenestris, scalis et omnibus Spagnoli/Mario Rufini/ Paolo Girolamo de aliis lignaminibus et Franchis, genovese ferramentis et marmoribus pene denudata tempore Saccus Urbis itaque penitus inhabitabilis»

Case

Margherita, ved. di Mario Normandi/ Aurelia, ved. di Bernardino aromatario

Canone annuo 3 Settembre duc.+200 duc. 1530 in 4 anni in riparazioni

CNC, 79, c. 155r

Canone Arenula, annuo 20 Settembre palazzo card. duc.+225 duc.+ 1530 Farnese e orti dei 300 in 5 anni Capodiferro per riparazioni

CNC, 79, c. 161r

Colonna, S. Maria Maddalena

28

Abbuono delle somme perse durante il Sacco all’esattore dei frutti dei canoni degli inquilini ed enfiteuti per l’anno 1527

S. Lorenzo in Damaso/ Giorgio de Rafaelis de Genevra, canonico della chiesa

Parione

_

Novembre 1530

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 130r

29

Locazione a 3a generazione di due casette «fere dirutas et carentes portis, solariis et tectis dirutis a militibus cesaree maiestatis tempore occupationis Urbis»

Osp. della Trinità e S. Tommaso degli Inglesi/ Costantino da Civita, carrarius

Trastevere, parrocchia di S. Salvatore

Canone annuo 2 ducati +20 ducati in riparazioni in 5 anni

Dicembre 1530

CNC, 79, c. 210v

374

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

30

Vendita di una casa «sine tecto pro maiori parte diruta et detectam a militibus cesareis tempore depopulationis Urbis»

Giulia, ved. di Silvestro Barbarano/Latino Giovenale Manetti

Arenula, tra la chiesa di S. Maria in Monticelli e Lorenzo Marchesi

190 scudi + canoni decorsi non pagati (15 ducati l’anno)

Maggio 1531

CNC, 81, c. 81r

31

Locazione a 3a generazione di una casa devastata «a militibus cesareis tempore depopulationis Urbis» non avendo denaro per le riparazioni

Osp. della Trinità e S. Tommaso degli Inglesi/ Maccario di Camerino

Arenula, in via S. Girolamo vicino S. Maria di Monferrato

Canone annuo di 20 scudi + 50 in riparazioni da spendere in 2 anni

Giugno 1531

CNC, 81, c. 101r

32

Ipoteca su una casa in affitto a fronte di prestito per pagare la taglia a un soldato spagnolo

Parione, Silvia Alessandrini, moglie di L.G. Manetti/ piazza di Parione vicino a S. Maria Francesco Serruberti della Pace speziale di Perugia

Prestito di 130 ducati a fronte di ipoteca

Settembre 1531

CNC, 81, c. 165r

33

Vendita di casa con porticale «vetusta et militibus cesareis tempore occupationis Urbis devastata ac portis, scalis, fenestris et solariis denudata»

n. Maria Santacroce ved. di Matteo Sassi, Lucido e Fabio figli/Giovanni Mangone, architetto

34

Vendita del dominio utile su una casa «terrineam, solaratam et tegulatam cum parvo discoperto retro eam (…) que est sine portis et fenestris, amotis a militibus cesaree maiestatis tempore occupationis Urbis»

35

Locazione a 10 anni di casa con macello «in parte Anastasia ved. del n. discopertam et sine solariis, Giorgio Mattuzzi e portis et fenestris et fere Luigi, figlio/Francesco repleta immunditiis et Serruberti, aromatario di fere totam devastatam a Perugia militibus cesareis tempore occupationis Urbis»

36

Vendita del dominio utile di una casa «devastatam a Serafina de Reprignano, militibus cesareis tempore moglie di Giovanni da occupationis Urbis, (…) San Casciano, fiorentino/ Campo Marzio, cum sit pro maiori parte di fronte all’Osp. Osp. S. Giacomo in devastata et inhabitabilis S. Giacomo Agusta/Pasqua, moglie di reducta nec ipsi habeant in Agusta Paolino di Castronovo, modum illam reparandi Tortona, alias Bottaccia, propter mala temporum barcarolo presentium dispositione et penuria»

Colonna, S. Salvatore delle Coppelle

Campo Marzio, n. Giacomo Antonio Conti/Osp. S. Giacomo sulla via Leonina di fronte ospedale in Agusta/Giovanni S. Giacomo in Calamo, chierico di Agusta Verdun

Parione, piazza Parione, via Saccalupo

240 duc.

45 scudi

Novembre CNC, 81, 1531 c. 188v

Gennaio 1532

Canone annuo 12 scudi+ 300 Gennaio scudi per la 1532 ricostruzione _ affidata a Leonardo Settembre Barone, 1533 architetto di Caravaggio

Canone annuale di 15 giuli e ½+ 4 canoni arretrati+ 41 scudi

Febbraio 1532

CNC, 83, c. 9r

CNC, 83, c. 11v CNC, 84, c. 164r

CNC, 83, c. 13r

375

Orietta Verdi

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

37

Vendita di «domuncula seu casalenum discopertum et pro maiore parti dirutum a militibus cesareis tempore invasionis Urbis»

n. Gio. Domenico Toscanella/n. Latino Giovenale Manetti

Ponte, Pizzo Merolo

100 duc.

Febbraio 1532

CNC, 83, c. 23r

38

Vendita di casa «parafernalem, terrineam, solaratam et tegulatam in parte dirutam a militibus cesareis tempore direptionis Urbis que est inhabitabilis»

Giulia de Cuccinis, moglie di G.B. de Caractolis/ Pietro e Angelo, eredi di Domenico de Massimi

Parione, via Papale, vicino case dei Massimi

850 duc.

Maggio 1532

CNC, 83, c. 93r

39

Riduzione del canone di locazione «vita durante», iniziata nel 1525, di una casa andata in rovina a causa del Sacco «mala temporum preteritorum dispositione»

Osp. della Trinità e S. Tommaso degli Inglesi del rione Arenula/ Banco Giustino, chierico fiorentino

[Arenula]

Canone annuo 50 duc., ridotto a 45+350 duc. in riparazioni

Maggio 1532

CNC, 83, c. 94r

40

Stima dei melioramenta di una casa locata per 6 Canone annuo anni nel marzo 1528 «post 30 duc. + spese Parione, recessum exercitus cesarei Biagio Coleprete/Gaspare Gallo, orefice via del Pellegrino di riparaz. da ab Urbe (…) pro maiori restituire parte demolita erat et maxime portis, fenestris, solariis, scalis»

Maggio 1532

CNC, 83, c. 94r

41

Vendita di casa con sala, camere, tinello, cantine, discoperto e reclaustro, quoquina, stalla e due botteghe, a causa dei debiti «causatis tempora Saccus Urbis»

42

43

44

376

n. Silvia Alessandrini, moglie di Latino Giovenale Manetti/n. Giacomo Cardelli

Vendita di casa e bottega, affittata a un pellimantelli spagnolo e a un pescivendolo, Girolamo De Grossis «sine portis et solariis e fratelli/n. Latino dirutam et devastatam a Giovenale Manetti militibus cesareis tempore depopulatione Urbis cum cantina subtus et uno mezanile diruto» Vendita di una bottega Lucrezia Falconieri, dotale con cameretta moglie di Nicola sul retro e cantina che Pandolfi fiorentino alias «indigeat reparatione Palumbo, fornaio/n. et sit sub puntellis … Pietro Mattes, cum ipsa non habeat giureconsulto manuales pecunias ad illam reparandi» Vendita di una casa «cum Monastero di S. sala, cameris, tinello et orto Cosimato/Lorenzo retro eam, portis et fenestris a militibus cesareis tempore Grana, vescovo di Segni direptionis Urbis denudata e Andrea Grana suo zio …et conquassata»

Parione, verso S. Maria della Pace

1.100 scudi

Giugno 1532

CNC, 83, c. 122v

Parione, Pizzo Merolo

500 duc.

Luglio 1532

CNC, 83, c. 127r

Ponte, via Papale accanto alla domus maior dell’acquirente

150 ducati

Agosto 1532

CNC, 83, c. 158r

Trastevere, via Rua

200 ducati

Agosto 1532

CNC, 83, c. 161r

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

46

Locazione di una casa dove si esercita la gabella dei cavalli «devastata a militibus cesareis tempore direptionis Urbis»

n. Bernardino de Bonis Auguriis/Guidetto Guidetti

Parione, piazza Campo de’ Fiori

Canone annuo di 60 scudi+ 200 scudi in riparazioni

Gennaio 1533

CNC, 84, c. 51v

47

Vendita di casa dotale Francesca, moglie di «diruta et sine tecto et Pietro Giorgio Lanci/ solariis ac portis ablatis, Orazio Damiani, diruta a militibus cesareis aromatario alla Rotonda tempore direptionis Urbis»

Trastevere, piazza S. Maria in Trastevere

60 scudi

Marzo 1533

CNC, 84, c. 51v

48

Ponte, Bernardino Guidotti parrocchia di S. «artium et medicine Vendita di una casa «pro Simeone, doctor magister», maiori parte diruta a militibus cesareis tempore chierico vicentino/Giulia sulla via «Recta magistralis per de Ioacchinis, ved. di direptionis Urbis cum quam itur ad Andrea Serroberti, morto certo argasterio retro» Imaginem Pontis» durante il Sacco

1.000 duc.

Giugno 1533

CNC, 84, c. 99v

49

Locazione in enfiteusi perpetua di una casa con 3 botteghe affittate a uno speziale e a due calzolai «que indigeat reparationem tam propter eius vetustatem tam etiam propter devastationem in ea factam tempore invasionis Urbis»

Giugno 1533

CNC, 84, c. 112r

50

Locazione in enfiteusi perpetua di una casa «que SS.ma Trinità e tempore Saccus Urbis S. Tommaso degli Inglesi/ fuit a militibus cesareis Angelo Glandonius diruta et pro maiori parte chierico feretanus denudata omnibus solariis, portis et fenestris et a dicto Saccu Urbis»

Canone annuo 4 fiorini+ spese di riparazione

Agosto 1533

CNC, 84, c. 150r

51

S. Eustachio, Vendita di «nonnulla Antonia, ved. del n. sulla via che accasamenta pro maiori Leonardo Leni/card. dalla via Papale parte diruta, partim tectata Andrea Della Valle va al palazzo e et solarata et partim assente e per lui a Felice viridario del card. detecta et sine solariis, Morrone suo segretario Della Valle ruinosa»

800 scudi

Settembre 1533

CNC, 84, c. 167r

52

Campo Marzio, piazza di S. Maria Girolamo e Raffaele figli 750 duc.+ in Campomarzio, Vendita, per ripagare dei CNC, 84, di Paolo Biondo, nipoti accanto alle case affrancamento Novembre debiti, di una casa e casetta c. nn. (post di Lucrezia Margani 1533 di Orazio Nari dal censo di 24 censuate «satis vetuste et c. 197r) insieme con la madre duc. annui e di Giovanni ruinose» Gloria/n. Paolo Nari Mangone, architetto

Canone annuo di 20 duc. + Società S. Maria di le spese per Ripa, Monserrato/Faustina, moglie di n. Bernardino piazza Montanara riparazioni, ammattonato, Mosca gettiti

S. Eustachio, vicino la chiesa di S. Nicola de Cesarini e S. Lorenzo in Damaso

Gli enti ecclesiastici o i privati che detengono la proprietà diretta dell’immobile sono indicati subito dopo il nome del venditore in questa sequenza: venditore diritto utile dell’edificio/proprietario diretto/ acquirente del diritto utile. Se nel documento il nome di venditore e/o acquirente è preceduto dalla qualifica di nobilis vir o nobilis domina lo si indica con n. davanti al nome. Le vedove sono accompagnate dall’abbreviazione ved.

377

Orietta Verdi

Tabella B. Vendita e locazione di case (1528-1534) Fonti: Archivio di Stato di Roma (ASR), Collegio Notai Capitolini (CNC), not. S. De Amannis,nn. 76-87 Archivio Storico Capitolino (ASC), sez. I, Rogiti originali, not. J.M. Butinoni, n. 279; Archivio Urbano, sez. 66, nn. 49, 50 Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Prezzo

Data

Segnatura

1

Vendita dei melioramenta Pietro Uccellini, Campo Marzio, ossia di una casa libera vignarolo di Monferrato/ vigna già di da canone che sorge su Angelo Colocci/Giacomo Giacomo 15 canne di terreno di Filippo, pescatore di Ceccarini proprietà diretta di Angelo Bologna Colocci

22 duc.

Febbraio 1528

CNC 76, c. 24v

2

Vendita di casa «a celo usque ad terram, Marcantonio de Pocchis, terrineam, solaratam notaio romano/Pietro et tegulatam cum sala, Cacciabovi cameris et duobus tinellis, puteo»

Colonna

130 duc.

Maggio 1528

CNC 76, c. 105v

3

Vendita del diritto utile perpetuo su tre domuncule simul iunctas, due «terrinee, solorate et Federico Baratutius, tegulate cum salis, cameris scrittore di Penitenzieria/ et tinellis, cantinis et Osp. di S. Giacomo in parvis discopertis retro Augusta, chiesa di S. eis et cum uno puteo Maria del Popolo/n. intermedio ambobus dictis Baldassarre Olgiati, domibus deserviente», mercante la terza casa «imperfecta cum certis parietis elevatis usque ad primum solarem inclusive, sine tecto»

Campo Marzio, strada tra via Lata e la via Leonina

259 duc. + canone annuo di 48 carlini

Novembre 1528

CNC, 75, c. 394r

4

Vendita di una casa «duo n. «magnificus et solaria cum salis, cameris, generosus» Gio. tecto, discoperto, curia, Bernardino Brancaleoni/ puteo, volta sub terra, Bernardo Grasselli, proc. turri, columbaria, et aliis di Fraiano suis edificiis»

Pigna

1000 duc. da versarsi in 18 mesi

Novembre 1528

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 49, c. 56r

5

Vendita di censo di 33 ducati annui su una casa «solorata et tegulata cum duobus apothecis»; le botteghe sono affittate a Albertino pizzicarolo e ai cursori pontifici

n. Silvia Alessandrini, moglie di Latino Giovenale Manetti/ Francesco Serruberti, speziale di Perugia

Parione, piazza S. Lorenzo in Damaso accanto ai beni di Silvia e a piazza Pollarola

Marzo 1529

CNC 77, c. 48v

6

Vendita di censo di 30 ducati su una casa con 2 botteghe

Lorenzo Iacovacci/Elena Orsini

Colonna, S. Maria della Rotonda

200 duc.

Aprile 1529

CNC 77, c. 62r

7

Vendita del dominio utile di una casa

Orsolina di Rufino da Parma/Cristiano de Rubeis, mercante

Parione, piazza della Berlina

293 duc.

Luglio 1529

CNC, 77, c. 122r

378

Rione

300 duc. di cui 240 prestati da Marco Antonio Innocenzi, mercante perugino

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

8

Vendita di casa «terrinea solarata e tegulata cum cameris supra» affittata a Michele Bontius, mercante fiorentino, con patto di retrovendita (avvenuta il 28 marzo 1530)

n. Nardo Mancini di Tivoli/n. Aureliano Pettinari di Subiaco

Ponte. strada recta della Cancelleria Vecchia dietro l’ospizio del Pavone 1

250 duc.

Luglio 1529

CNC, 77, c. 128v

9

Versamento del saldo a Ludovico Margani per la vendita di una casa da lui acquistata dalla curia dell’Auditor Camere

n. Ludovico Margani/ Gio. Bernardino Brancaleoni

Ponte, vicino alle case dei Serlupi, di Ciriaco Mattei, Giulia de Militibus

15 duc. a saldo di 1000 duc.

Agosto 1529

ASC, Archivio Urbano, sez. 66, tomo 50, c. 82r

Febbraio 1530

CNC, 79, c. 22v

Canone annuo 40 duc. + lavori di adattamento a bottega

Luglio 1530

CNC, 79, c. 119r

__

Agosto 1530

CNC, 79, c. 124r

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13

14

1

Locazione in enfiteusi perpetua «quondam pecium soli seu terreni vacui ad habendum et edificandum» con l’obbligo di costruirvi un pozzo e una casa abitabile Locazione a 10 anni di un tinello sito sotto la casa della locatrice «cui tinello ab uno corritorium dicte domus, ante est dicta platea, retro est cortilis prefate Cristofore, supra sunt cammere domus eiusdem Cristofore…et in eo apotecam aromatarie exercendi» Ordine di demolizione di una casa in enfiteusi perpetua, già fatta demolire dai maestri di strade per la prosecuzione dei lavori della strada dalle Botteghe Oscure per directum a Campo di Fiori e ricostruita dagli affittuari nonostante i divieti Vendita di casa «terrineam, solaratam et tegulatam cum sala, cammeris, cantina, stabulo et discoperto et cum uno alio membro terrineo a parte retro existenti»

n. Angelo Colocci/ Alessandro di Pavia

Cristofora de Butiis, ved. Giacomo Antonio de Juventis/Cristoforo de Capriolis e Paolo de Mancinis de Formello soci

Campo Marzio, Canone accanto alla annuo casa di Angelo di 7 giuli Colocci e per canna alla vigna di Domenico de’ (14 canne x 7) Massimi

S. Eustachio, piazza S. Maria Rotonda

[ArenulaParione] Nicola Palombi, fornaio piazzetta davanti alle stalle di fiorentino e Vincenzo de Pantanis di Perugia, soci palazzo Orsini in Campo di Fiori

n. Domenico Lelio/n. Francesco Gervasio da Fermo, procuratore in Romana Curia causarum

Parione, parrocchia di S. Tommaso in Parione

1.000 duc. di cui 300 per il diritto utile

Agosto 1530

CNC, 79, c. 130r

Vendita di casa «terrineam Giacomo Antonio de et tinellatam et tegulatam Laurentiis di Viterbo/ cum tinello, cammeris Atalanta Gatteschi, ved. et quoquina, cellario, di Ottaviano de Columna cantina, discoperto et puteo et stabulo»

Trevi, parrocchia di S. Maria in Via Lata

200 duc.

Agosto 1530

CNC, 79, c. 135v

Gnoli, Alberghi e osterie, pp. 120-121.

379

Orietta Verdi

Case

15

16

17

18

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20

21

22

380

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Vendita del diritto utile su una casa «terrineam, solaratam et tegulatam cum cantina subtus eam et cum cortili retro eam et aliis suis membris»

mastro Alfonso Lopes salamantinus/Osp. S. Giacomo degli Illirici/ Raffaele Dominici Iohannis

Campo Marzio, «in via que dicitur Schiavonia» Canone annuo vicino alle case di 42 dei Casali, di bolognini Pompilio Galli aromatario, di Giulia da Bologna curiale

Locazione di una casa

Bartolomeo Federicus/ Nicola Rens (Raince), protonotaio apostolico e segretario del re di Francia

Campo Marzio, vicino alla residenza di Giacomo Pallavicini, vescovo

Canone annuo di 34 scudi

Sentenza con cui il camerlengo A. Spinola e i maestri di strade Domenico Pichi e Prezzo Laura Merili, ved. di Domenico Buccamazzi, stabilito da Tranquillo de Romaulis. commissari apostolici, 2 periti eletti Parione e figli/Girolamo da delegati dalle leggi di di comune Castello, avvocato Sisto IV e Leone X accordo concistoriale «super edificiis fiendis et ampliandis» costringono i proprietari alla vendita di una casa per ampliare la residenza dell’acquirente Locazione a terza Canone di 46 Osp. della Trinità e generazione di una ducati annui+ Ponte, S. Tommaso degli «domum angularem 100 ducati in piazza Inglesi/n. Antonio que indiget necessaria riparazioni in Gargano, chierico diocesi S. Apollinare reparatione» con 4 o 5 3 anni di Pavia botteghe sotto Paolina, ved. di Melchiorre de Bonaparte de Sarzana, risposata Vendita di casa con sala, Campo Marzio, 120 ducati + camere e bottega costruita con Bernabeo Agostino canone annuo sulla via Leonardi di Foligno/ su terreno di Andrea di 37 carlini Leonina Andrea Pontaroli di Pontaroli Parma/Angelotia de Organis Giovanni Francesco Vendita di casa con Vestri, aromatario/n. bottega, cantina e Ponte 135 ducati Fabrizio Agostino de stalla contigua alla casa Celiis di Norcia dell’acquirente Locazione a vita di una parte di palazzo Capranica Canone di «con tutti quelli membri Stefano Capranica/card. Colonna 80 scudi li quali sua signoria teneva Tommaso di San Sisto l’anno avanti il Sacco come se trovano al presente» Patti per il pagamento di una casa dotale detta “il Imperia, ved. di Agostino Parione, de Buccatiis/Nicola fundico” acquistata tra via del Pellegrino Pizighettone, sarto la fine del 1527 e inizio 1528 e non saldata

2000 fiorini (di cui 400 fiorini in contanti + ipoteca sulla casa)

Data

Segnatura

Agosto 1530

CNC, 79, c. 141v

Settembre 1530

CNC, 79, c. 154v

Settembre 1530

CNC, 1911, c. 199r

Dicembre 1530

CNC, 1911, c. 212

Marzo 1531

CNC, 81, c. 47bis

Marzo 1531

CNC, 81, c. 55r

Marzo 1531

CNC, 81, c. 60r

Aprile 1531

CNC, 81, c. 72r

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

23

Locazione a 5 anni di una casa

Silvia Alessandrini, moglie di L.G. Manetti/ Francesco Serruberti speziale di Perugia

24

Vendita di casa con sala camere e cantina, cucina e loggia e una «casuncula pro maiori parte discoperta» accanto

25

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28

Locazione in perpetuum con facoltà di affrancazione dopo tre anni di un «casaleno discoperto»

Vendita di censo annuo perpetuo di 5 ducati su una bottega cum mezanile affittata a mastro Battista merciaio bergamasco, posta sotto la domus magna di Paola, tra un’altra sua bottega e il portone (hostium magnum) della casa Vendita di un parvo discoperto, ossia cortile seu casaleno, di palmi 20x69, confinante con la casa che Felice sta costruendo, e con le case e un altro discoperto dei Quatracci. Vendita di un casaleno confinante su due lati con la casa dell’acquirente e sull’altro lato con le case dei Quatracci

Data

Segnatura

Parione, 72 ducati + in piazza di Parione vicino a 30 ducati di canone annuo S. Maria della Pace

Maggio 1531

CNC, 81, c. 78r

Marco Masci/Giacomo Zaccarella di Norcia

Colonna, via dei Calderari

Maggio 1531

CNC, 81, c. 92r

S. Maria in Cacabaris/ Latino Giovenale Manetti

Arenula, parrocchia di S. Maria in Monticelli confinante con Canone annuo di 7 duc. la casa di Latino Giovenale Manetti e di Lorenzo Marchesi

Gennaio 1532

CNC, 83, c. 2r

Ponte, «prope plateam Turris Sanguinee»

50 duc.

Gennaio 1532

CNC, 83, c. 7r

S. Eustachio, n. Fabrizio e fratelli eredi accanto alla di Tiberio Quatracci/ casa di Felice Felice Morrone, Morrone e alle segretario del card. case e discoperto Andrea della Valle dei Quatracci

100 duc.

Marzo 1532

CNC, 83, c. 36r

S. Eustachio, accanto alla casa Gio. Filippo, figlio di Nicola Fimerii/Felice di Felice Morrone e alle case dei Morrone, segretario del Quatracci sul card. Andrea della Valle retro

100 duc.

Aprile 1532

CNC, 83, c. 55v

Colonna, «in via Pastinorum»

180 duc.

Luglio 1532

CNC, 83, c. 130r

Campo Marzio, via Leonina

45 duc.

Ottobre 1532

CNC, 83, c. 175r

n. Paola Altieri, ved. di Paolo Antonio Sanguigni/bizzocche del monastero di S. Caterina da Siena

29

Vendita di una casa «terrinea, solarata e Pietro Paolo Santini/ tegulata cum sala, cameris card. Alessandro Cesarini supra eam et una apoteca subtus»

30

Vendita del diritto utile di una casa «solarata, sine tecto cum una saletta et una camera, tinello et duabus cantinis» con diritto di attingere acqua dal pozzo della casa di Elena Sclavona

Giacomo de Pizininis, architetto di Bologna/ mastro Perino de Ludinis, architetto di Caravaggio

Rione

Prezzo

310 ducati

381

Orietta Verdi

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

31

Vendita coatta a norma delle leggi edilizie di una casa «ad usum feni»

Mariano de Tutonibus/ Pietro Paolo de Santinis

Colonna, sulla via che sale al Monte Accettorio

48 duc.

Novembre 1532

CNC, 83, c. 185r

32

S. Eustachio accanto alla casa di Felice n. Fabrizio e fratelli eredi Morrone, a quella Vendita coatta a norma di Tiberio Quatracci/ di Livia, ved. di delle leggi edilizie di metà Felice Morrone, Giulio Quatracci di una casa unita pro segretario del card. e a quella degli indiviso Andrea della Valle eredi di Lorenzo Crescenzi

85 duc.

Novembre 1532

CNC, 83, c. 186r, 217v

33

Vendita mediante un intermediario (permuta e cessio iurium) di una casa «terrinea, solarata et tegulata»

S. Eustachio, Elisabetta de Comitibus, accanto al ved. di Cesare parvo discoperto Gaietanus/n. Bernardino acquistato de Victoriis (mediatore)/ da Felice Felice Morrone, Morrone, alla segretario del card. casa di Fabrizio e Andrea della Valle fratelli Quatracci

400 duc.

Novembre 1532

CNC, 83, c. 193v, 194r-196r

34

n. Bernardino de Victoriis, esecutore Vendita, a norma delle testamentario del fu leggi edilizie, di una casa «ruinosam et indigentem Giulio Quatracci/Livia reparationem con parvum ved. di Giulio Quatracci e figlie 2/Felice Morrone, petium cortilis seu discoperti retro» segretario del card. Andrea della Valle

Novembre Dicembre 1532

CNC, 83, c. 194r, 217r

70 ducati

Dicembre 1532

CNC, 83, c. 211r

180 duc. di cui 100 già spesi in riparazioni

Gennaio 1533

CNC, 84, c. 11v

300 ducati

Gennaio 1533

CNC, 84, c. 12r

35

36

37

2

S. Eustachio, accanto alla casa degli eredi di Lorenzo Prezzo da Crescenzi, alla stabilire a cura casa di Livia di 2 periti ved. di Giulio Quatracci e figlie, alla casa in costruzione di Felice Morrone

Acquisto di 3 canne di suolo «ad effectum in eo Parione, edificandi et domum suam chiesa di S. Eustachio/ piazza della Cristiano de Rubeis, ampliandi et extendendi Berlina e piazza mercante usque ad dictam platea del Paradiso Paradisi parvi in ornatu civitatis» Vendita di una casa, già ottenuta dagli eredi di Ludovica, moglie di Matteo Sassi con patto di riparazione e retrovendita, Bernardino Castelli/n. Parione con forno, stalletta e 2 Maffeo Maffei da Brescia miles Sancti Petri camerette sopra la stalletta accanto a un granaio degli eredi Sassi Vendita di una casa, n. Prospero Grifoni/n. con tinello, cantina, sala, camere, discoperto, Maffeo Maffei da Brescia miles Sancti Petri confinante con la casa del venditore

Ponte, sulla via Recta tra Tor Sanguigna e l’Immagine di Ponte

Livia, vedova di Giulio Quatracci, «cum duobus parvis filiabus» risulta nell’elenco delle Mulieres rifugiate in casa del cardinale Andrea della Valle l’8 maggio 1527, cfr. A. Corvisieri, Documenti inediti sul Sacco di Roma nel 1527, Roma 1873, p. 29.

382

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

38

Edificazione di vicolo tra due proprietà da parte di uno dei due proprietari che vuole ampliare la sua casa

Onofrio Rocchini e fratelli/Tommaso Aufer taverniere tedesco «ad signum Galli»

39

Vendita, a norma delle leggi edilizie, di una «apotheca discoperta…et diruta» contigua alla casa degli acquirenti

40

Vendita di casa con bottega, una saletta sopra la bottega, cantina e metà di un discoperto, contigua alla casa del venditore

41

Vendita di due fratelli Gracchi/Gregorio «domuncule simul de Risis da Narni, iunctas» per pagare la giureconsulto dote della sorella che deve entrare in monastero

Rione

Data

Segnatura

12 scudi e 40 bolognini Arenula, per il consenso nella via all’appoggio dell’ospizio della del muro Vacca3 alla casa dei Rocchini

Febbraio 1533

CNC, 85, c. 28r

Marco Antonio e Virgilio Ceccolini/ Baldassarre Blondus

Arenula, vicino piazza Campo de’ Fiori

50 scudi

Febbraio 1533

CNC, 85, c. 63r

Ludovico Pascutti di Perugia, calzolaio/ Sebastiano Trucco napoletano, sarto alla Cancelleria vecchia

Ponte, sulla via Recta della Cancelleria vecchia

350 scudi

Marzo 1533

CNC, 84, c. 50v

Colonna, in contrada «La cerasa»

300 ducati

Marzo 1533

CNC, 84, c. 60v

_

Aprile 1533

CNC, 84, c. 78v

S. Eustachio, di fronte la chiesa di S. Maria in Monterone via Marzia, ved. di Giulio mediante, accanto Alberini e madre di un alla proprietà di maschio e due femmine, Marcello Alberini e degli eredi del Girolama e Vigilia/ fu Bartolomeo Monastero di S. Maria della Valle, «ante in Campo Marzio est via publica et subtus arcus dicte domus est alia via publica»

Prezzo

42

Cessione di una casa in cambio della dote per le figlie che devono entrare in monastero

43

Vendita di casa e macello a norma delle leggi edilizie

n. Paola Picchi, ved.4 e Ettore Muti figlio/ Cristiano de Rubeis, mercante

Parione, piazza della Berlina e piazza del Paradiso

693 duc.

Aprile 1533

CNC, 84, c. 87v

44

Locazione per 5 anni di una casa con tinello, cortile, cantina e con 2 altre pertinenze sopra, previo spurgo della cantina dal fango

Galeotto Ferciolus, avvocato e decano concistoriale/mastro Marco Sanghiza de Mutina, sarto

Ponte, «in conspectu imaginis beate Marie Virginis Sancti Apollinaris»

Canone annuo 14 duc. + costruz. di una scala lapidea e altri lavori

Giugno 1533

CNC, 84, c. 122r

3

Gnoli, Alberghi e osterie, Spoleto 1935, pp. 143-156. Paola Picchi risulta nell’elenco delle Mulieres rifugiate in casa del cardinale Andrea della Valle l’8 maggio 1527, cfr. Corvisieri, Documenti inediti sul Sacco, p. 29. 4

383

Orietta Verdi

Case

45

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Nicola Raince (o Rens), parigino, segretario del re di Francia e domestico del papa/S. Maria in Locazione a 3a generazione Portico, S. Maria della di una casa che necessita Consolazione, S. Maria del Popolo/Francesca riparazioni Piccinni, moglie di Carlo Guglierotti, libraio, e la figlia Marzia Vincenza, figliana del locatore

Rione

Prezzo

Data

Segnatura

Ponte, all’Arco di Parma

Canone annuo di 20 ducati annui + 150 ducati in riparazioni

Settembre 1533

CNC, 84, c. 158v

46

Locazione a 4 anni di 4 magazzini posti sotto la casa dei locatori

nn. Francesco e Pasquale Vacca/n. Marcantonio Innocenzi, mercante

Trastevere, Canone annuo in Ripa Romea 30 ducati

Settembre 1533

CNC, 84, c. 161r

47

Vendita coatta a norma delle leggi edilizie di una casa locata a 3a generazione contigua alla casa dell’acquirente

Capitolo di S. Pietro/ Giovanni Matteo Benzoni enfiteuta/Cola Iacovacci

Prezzo da stabilire a cura di Giuliano Trevi, Maddaleni piazza di Sciarra Capodiferro e Metello Vari, arbitri

Novembre 1533

CNC, 84, c. 194v

48

Vendita di una casa con sala, camera, cantina e tinello e cortile e metà di «turrionis ad usum feni»

Giulio e Fabio Bonaventura/Nicola Muti

Pigna

300 ducati

Novembre 1533

CNC, 84, c. 195v

49

Vendita di casa «cum solari imperfecto, sine scalis et cum quadam gripta existenti sub certo orto ac cum certo parvo discoperto»

Fabrizio Boccamola/ Orazio Damiani, aromatario in piazza Rotonda

Monti, in via recta

50 scudi

Novembre 1533

CNC, 84, c. 196v

Colonna, piazza della Rotonda

650 ducati

50

Vendita di un macello con Osp. di S. Giacomo in Augusta/Mariano de casa «terrinea, solarata, tectata, cum rimessa et Guerris, arcipresbitero di S. Maria Rotonda discoperto retro eam»

Novembre 1533

CNC, 84, c. 198v

51

Vendita della casa di 1.450 duc. abitazione del venditore di cui 300 n. Carlo Astalli e Giulia «terrinea, solarata, + 150 duc. Pigna, Mattuzzi, moglie/ tegulata, cum sala, scomputati accanto alle case Giacomo, Pietro e cameris, quoquina, di Mariano e perché residuo Novembre Paolo de Benzonibus stabulo, cantinis, lovium, 1533 Giulio Altieri e delle doti delle del magnifico Gio. ortum et cum duobus 3 figlie di di Girolamo e giardinis melangolorum ac Girolamo, cancelliere del Francesco Astalli Carlo Astalli, Popolo Romano cortili in qua de presentis spose dei 3 prefatus dominus Carolus Benzoni habitat cum eius familia»

CNC, 84, c. 200v

52

384

Vendita di una casa agli affittuari con patto di retrovendita entro 2 anni

Giacomo, Pietro e Paolo de Benzonibus/ Brianda Gomez e il nipote Ludovico Gomez, uditore del palazzo apostolico

S. Eustachio, sulla via Papale nella piazza di S. Sebastiano denominata “la piazza de Siena”

1000 ducati di cui 800 d’oro largo e 200 d’argento monetato

Novembre 1533

CNC, 84, c. 207v

Iniziative pontificie, strumenti giuridici e investimenti immobiliari a Roma prima e dopo il Sacco: il mercato delle case «pro maiori parte dirute a militibus cesaree maiestatis»

53

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Case

Venditore o locatore/ Acquirente o locatario

Sub-locazione a 10 anni di una casa, adibita ad albergo-taverna, «terrineam, solaratam et tegulatam in qua sit hospitium ad signum Galli»5 che il locatore aveva in affitto a 3a generazione

Sebastiano di Bernardo veneto e Antea, moglie/S. Luigi dei Francesi/Giacomo Locatelli, taverniere milanese

Vendita di una casa «terrinea, solarata et tegulata» con tinello, cantina, una sala e una camera sopra al tinello, un’altra camera sopra al pari della sala e un loggiato uscendo dalla sala; la casa è contigua sia alla casa dell’acquirente che a quella della venditrice Vendita, con patto di retrovendita entro 2 anni, trascorsi 4 anni, di casa «terrineam, solaratam et tegulatam cum cameris et apoteca, cum cantina subtus, cum certo parvo discoperto retro eam, cum una casuncula seu stazio retro dicto discoperto»

Rione

Prezzo

Canone annuo 25 sc. alla chiesa + 50 Ponte, al locatore; piazza Navona anticipo di 250 «retro est sc. a Francesco plateola Frumenti, Clavariorum seu mercante e Scortichiara» creditore di Sebastiano

Data

Segnatura

Gennaio 1534

CNC, 86, c. 33v

Berardina Pallotti, moglie di Lorenzo Marchesi/Latino Giovenale Manetti

Arenula, [S. Maria in Monticelli]

250 ducati

Gennaio 1534

CNC, 87, c. 4v

Vincenzo de Curtis/ Faustina de Leliis

Parione, «in contrata que dicitur lo Pellegrino»

200 duc.

Aprile 1534

CNC, 86, c. 137v

Arenula, sul retro delle case di Raimondo Capodiferro

400 scudi

Giugno 1534

CNC, 86, c. 213r

Caterina, ved. di Ginesio da Prato, risposata con Vendita, per soddisfare i creditori, di casa con sala, Ottaviano Bergonzi da Parma/Vincenzo Vetere, camere, tinello, cucina, discoperto, cantina e stalla mercante di vacche del rione Monti

Gli enti ecclesiastici o i privati che detengono la proprietà diretta dell’immobile venduto o locato sono indicati subito dopo il nome del venditore in questa sequenza: venditore diritto utile dell’edificio/proprietario diretto/acquirente del diritto utile. Se nel documento il nome di venditore e/o acquirente è preceduto dalla qualifica di nobilis vir o nobilis domina lo si indica con n. o nn. se più di uno, davanti al nome. Le vedove sono accompagnate dall’abbreviazione ved.

5

Gnoli, Alberghi e osterie, pp. 90-91.

385

Andrea Fara Spazio urbano, rendita e reti socioeconomiche a Roma tra Quattro e Cinquecento: i Sauli e i Frangipane nel rione Pigna

A partire dagli inizi del Quattrocento la città e il territorio di Roma, così come il composito ambito della Chiesa romana, si palesarono quale uno tra i maggiori centri d’affari dell’epoca: il rientro del papa e della sua corte da Avignone a Roma – ovvero dopo gli eventi del Grande scisma, e quindi in particolare a partire dal pontificato di Martino V, ma soprattutto con Niccolò V – segnò una profonda riorganizzazione degli spazi politici e urbani cittadini e una forte espansione economica al fine di rispondere alla crescente e diversificata domanda di beni e servizi esercitata da una popolazione – romana e non romana, laica e clericale – in rapido aumento 1. Roma diveniva, in altre parole, non solo il centro della Christianitas ma anche la capitale di uno Stato regionale, punto di riferimento di una rete economica e finanziaria assai vasta, ramificata a livello tanto locale quanto internazionale 2. Nel corso del secolo il papato limitò o privò progressivamente le antiche élite urbane sia di potere politico (attraverso il graduale svuotamento delle istituzioni municipali a vantaggio della curia, 1

Per l’espansione demografica di Roma tra Medioevo ed Età moderna, si rimanda ad A. Esposito, La popolazione romana dalla fine del secolo XIV al sacco: caratteri e forme di un’evoluzione demografica, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 37-49; con particolare riferimento al fenomeno immigratorio, si veda M. Sanfilippo, Roma nel Rinascimento: una città di immigrati, in Le forme del testo e l’immaginario della metropoli, a cura di B. Bini, V. Viviani, Viterbo 2009, pp. 73-85; cfr. note successive. 2 Con particolare riferimento alla fase di crescita economica vissuta da Roma a partire dal tardo Trecento e per tutto il Quattrocento, mettendone in evidenza le complesse caratteristiche e linee evolutive, con ulteriore bibliografia, si rimanda a L. Palermo, Sviluppo economico e società preindustriali. Cicli, strutture e congiunture in Europa dal medioevo alla prima età moderna, Roma 1997, pp. 283-319; Id., Espansione demografica e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, in Popolazione e società, pp. 299-326; Id., Fattori della produzione e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, in Roma medievale. Aggiornamenti, a cura di P. Delogu, Firenze 1998, pp. 249-265. 387

Andrea Fara

che si mostrava sempre più quale unico punto di riferimento, pure per la vita cittadina); che economico (tramite concessioni sempre più ampie ai mercanti-banchieri e agli imprenditori di origine forestiera, perché dotati di una maggiore disponibilità di capitali e dunque più adatti a rispondere alle crescenti necessità economiche, finanziarie e di governo del papato e della curia) 3. Alla fine del secolo la situazione si era ormai stabilizzata: in modo evidente e vigoroso la curia esercitava il proprio peso politico ed economico sulla città e sui suoi ceti dirigenti, seppure non venissero del tutto meno momenti di contrasto con la Roma municipale 4. Questi fenomeni ebbero un riflesso anche da un punto di vista urbanistico, con profonde trasformazioni e variazioni nella gerarchia degli spazi politici ed economici 5 e – per quello che qui interessa – con lo sviluppo di un vero e proprio mercato immobiliare in relazione alla formazione della rendita immobiliare urbana (elementi pressoché assenti nell’economia romana dei primi secoli del basso Medioevo, secondo Étienne Hubert) 6. 3

P. Pavan, Permanenze di schemi e modelli del passato in una società in mutamento, in Un pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484), a cura di M. Miglio, F. Niutta, D. Quaglioni, C. Ranieri, Roma 1986, pp. 305-315: 309; cfr. nota successiva. 4 Per il rapporto di altalenante conflittualità e alleanza tra Comune e nobiltà di Roma e papato, si rimanda a C. Gennaro, La «Pax Romana» del 1511, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 90 (1967), pp. 17-60; M. Miglio, Il Senato in Roma medievale, in Il Senato nella storia, II, Il Senato nel Medioevo e nella prima Età moderna, Roma 1997, pp. 117-172; A. Rehberg, Scambi e contrasti fra gli apparati amministrativi della Curia e del comune di Roma. Alcune osservazioni intorno ai decreti comunali dal 1515 al 1526, in Offices et papauté (XIVe-XVIIe siècle). Charges, hommes, destins, a cura di A. Jamme, O. Poncet, Rome 2005, pp. 501-564 (disponibile al sito: http://books.openedition.org/ efr/1213#bodyftn298). Si vedano da ultimo i singoli contributi in: Congiure e conflitti. L’affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 3-5 dicembre 2013, a cura di M. Chiabò, M. Gargano, A. Modigliani, P. Osmond, Roma 2014; e in Roma 1347-1527. Linee di un’evoluzione, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 13-15 novembre 2017, a cura di M. Miglio, I. Lori Sanfilippo, Roma 2020, in particolare i saggi di A. Esch, Sviluppo e affermazione del papato a Roma (pp. 19-28); A. Esposito, Famiglie romane (pp. 79-93); R. Guarino, Feste e spettacoli a Roma nel primo Rinascimento. Tradizioni, spazi, poteri (pp. 129141); S. Notari, Statuti di Roma tra governo repubblicano e signoria pontificia (pp. 157-176); A. De Vincentiis, I romani sudditi dei papi nell’Umanesimo (XIV-XV secc.) (pp. 233-246); A. Modigliani, Tra curia e città (pp. 247-264). 5 Si veda A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età moderna, Roma 1998; cfr. infra, nota 7. 6 Si rimanda a L. Palermo, L’economia, in Roma nel Rinascimento, a cura di A. Pinelli, RomaBari 2007, pp. 49-91, in particolare pp. 61-66 per la terra e la rendita agraria e pp. 66-73 per la rendita immobiliare urbana; cfr. Id., Spazi urbani, rendita e mercato immobiliare nel Rinascimento romano, nel presente volume. Sulla proprietà urbana a Roma nel periodo precedente, in particolare quella ecclesiastica, si vedano le analisi di Étienne Hubert, tra cui almeno: 388

Spazio urbano, rendita e reti socioeconomiche a Roma tra Quattro e Cinquecento: i Sauli e i Frangipane nel rione Pigna

L’affermazione della signoria del papa sull’Urbe implicò, tra l’altro, la riorganizzazione politica e sociale della città, ovvero lo spostamento del centro politico ed economico della stessa verso San Pietro, ovvero un movimento del fulcro politico, economico e finanziario cittadino verso le aree più prossime alla basilica, e in particolare la regione di Ponte, in cui il valore degli immobili e delle rendite crebbe enormemente rispetto a quello di altri rioni divenuti marginali o meno appetibili 7. É. Hubert, Patrimoines immobiliers et habitat à Rome au Moyen Âge: la regio Columnae du XI e siècle au XIV e siècle, in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 101/1 (1989), pp. 133-175; Id., Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIII e siècle, Rome 1990; Id., Economie de la propriété immobilière: les établissements religieux et leurs patrimoines au XIVe siècle, in Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, a cura di É. Hubert, Roma 1993, pp. 175-230; Id., Gestion immobilière, propriété dissociée et seigneuries foncières à Rome aux XIII e et XIV e siècles, in Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XII e-XIX e siècle), a cura di O. Faron, É. Hubert, Rome 1995, pp. 185205; Id., Population et habitat à Rome aux XIIIe et XIVe siècles, in Popolazione e società a Roma, pp. 51-61; Id., Rome au XIVe siècle: population et espace urbain, in «Médiévales», 40 (2001), pp. 43-52; Id., La diversité socio-économique des quartiers romains. L’indicateur du marché immobilier (XIIe-XIV e siècle), in «Rome des quartiers»: des Vici aux Rioni. Cadres institutionnels, pratiques sociales, et requalifications entre Antiquité et époque moderne, Actes du Colloque International, Paris, Sorbonne, 20-21 mai 2005, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Béranger, Paris 2008, pp. 247-260. Ulteriori informazioni sul limitato volume degli investimenti e sulla bassa rendita nel settore immobiliare nella Roma trecentesca sono in J.-C. Maire Vigueur, Capital économique et capital symbolique. Les contradictions de la société romaine à la fin du Moyen Âge, in Gli atti privati nel tardo Medioevo. Fonti per la storia sociale, a cura di P. Brezzi, E. Lee, Roma-Toronto 1984, pp. 213-224. 7 M. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992, pp. 555-569; L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 413-435; Id., Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento, in «Rome des quartiers», pp. 335-351. Sulle vicende costruttive nella Roma quattro-cinquecentesca e le politiche di sviluppo urbano dei pontefici, si rimanda ai singoli contributi in: Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, 2 voll., a cura di G. Simoncini, Firenze 2004; Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, 2 voll., a cura di G. Simoncini, Firenze 2008 e 2011; A. Modigliani, Disegni sulla città nel primo Rinascimento romano: Paolo II, Roma 2009; M. Gargano, Origini e storia. Roma Architettura Città. Frammenti del Rinascimento, Roma 2016 (raccolta di saggi). Con particolare riferimento al rinnovamento della sede papale in S. Pietro, si vedano: I. Ait, Aspetti dell’attività edilizia a Roma: la fabbrica di S. Pietro nella seconda metà del ‘400, in Maestranze e cantieri edili a Roma e nel Lazio. Lavoro, tecniche e materiali nei secoli XIII-XV, a cura di A. Lanconelli, I. Ait, Manziana 2002, pp. 39-53; I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Costruire a Roma fra XV e XVII secolo, in L’edilizia prima della rivoluzione industriale (secoli XIII-XVIII), Atti della “Trentaseiesima Settimana di Studi”, Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, Prato, 26-30 aprile 2004, a cura di S. Cavaciocchi, Prato 2005, pp. 229-284. 389

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Tenendo conto di questo complesso contesto politico, economico e sociale, l’obiettivo del contributo è quello di mettere in evidenza l’importanza, o meglio la non assoluta marginalizzazione, del rione Pigna tra Quattrocento e Cinquecento, sia dal punto di vista economico (rilevando alcuni dati sulla rendita in esso), sia dal punto di vista sociale (mettendo in luce alcuni dei protagonisti che abitarono il rione e descrivendone il pur limitato patrimonio immobiliare; in particolare quello dell’antica famiglia dei Frangipane), ricostruendo quindi le reti socioeconomiche che si poterono tessere tra “vicini di casa” (ovvero tra i Frangipane e le altre nobili famiglie romane abitanti nel medesimo rione, quali per esempio i Porcari o i Leni; e soprattutto tra i Frangipane e i genovesi Sauli, che pure abitarono in Pigna). Si tenta in altre parole di analizzare uno spazio urbano non solo quale fonte di rendita immobiliare, ma pure – e forse soprattutto – quale elemento chiave per la costruzione di una rete socioeconomica più o meno vasta, in gran parte ancora sfuggente, ma in cui gli elementi economici e sociali si sostengono e si stimolano l’un l’altro, mostrando anche per questa via la reciproca funzionalità di interessi che poteva unire le grandi compagnie internazionali e le élite locali. Si tratta evidentemente di prime ipotesi, che certamente andranno corroborate dalla raccolta e dall’elaborazione di ulteriori dati, oltre che confermate e confrontate per altre famiglie e con altre zone della città con simili attributi economici e sociali. 1. Il rione Pigna: uno spazio urbano tra centro e periferia Grosso modo compreso tra Pantheon, Torre Argentina, Botteghe Oscure e piazza San Marco (piazza Venezia), in epoca bassomedievale il rione Pigna mantenne a lungo una posizione politica, economica e sociale di rilievo in quanto prossimo al Campidoglio, il quale, con le sue istituzioni comunali, rappresentava l’immagine e il mantenimento di un esercizio del potere “antico”, antitetico a quello del pontefice sulla città 8. Come detto, la situazione venne progressivamente mutando con l’affermazione 8

Un inquadramento generale in S. Argentini, La topografia medievale: il rione Pigna e la zona circostante il complesso del Collegio Romano, in Il Collegio Romano dalle origini al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma 2003, pp. 45-55; per una descrizione, ancora importante è D. Magnan, La città di Roma ovvero breve descrizione di questa superba città, divisa in quattro tomi ed ornata di 385 stampe in rame, Roma 1779 (Tomo 3. Che contiene la descrizione del 4. rione di Campo Marzo del 5. di Ponte, del 6. di Parione, del 7. della Regola, dell’8. di S. Eustachio, e del 9. della Pigna), disponibile al sito: https://archive. org/details/lacittadiromaovv12magn/page/n511; cfr. note successive. 390

Spazio urbano, rendita e reti socioeconomiche a Roma tra Quattro e Cinquecento: i Sauli e i Frangipane nel rione Pigna

della signoria papale sull’Urbe, lo spostamento del centro cittadino verso San Pietro e il connesso movimento verso la regione di Ponte: quando Roma si “rigirò”, Pigna divenne una “periferia”, ma una periferia ancora “centrale”, importante, in relazione alla vicinanza con l’Area capitolina e alle sue istituzioni, ancora vive – seppure gradualmente schiacciate o fagocitate dai nuovi assetti 9. Anche il mercato e la rendita immobiliari risentirono degli avvenimenti sopra brevemente descritti, che produssero profonde modificazioni nelle gerarchie dell’abitato e, di conseguenza, nella preferenza degli investimenti di settore in un’area piuttosto che in un’altra. Pur considerando i dati a disposizione con la dovuta cautela – in relazione alla frammentarietà delle fonti, alla variazione dei patrimoni immobiliari, alle eccezioni di valore all’interno del singolo rione, per esempio in rapporto alla metratura e/o a una più o meno specifica destinazione d’uso e/o alla presenza o meno del papa e della curia in città e/o alla cadenza dell’anno giubilare, ecc. – il mercato e la rendita immobiliari di Roma evidenziano sia una crescita complessiva del settore in ambito urbano, sia una veloce differenziazione dei prezzi – di vendita e di affitto – tra le singole zone della città. In tal senso furono molte le istituzioni – laiche e religiose – che si impegnarono in una politica di razionalizzazione del proprio patrimonio immobiliare, eliminando i beni detenuti nelle aree periferiche, ovvero compattando il proprio patrimonio immobiliare nelle più redditizie zone centrali dell’Urbe. Vediamo quindi alcuni dati complessivi, abbastanza in linea per le istituzioni romane, in particolare quelle religiose, esaminate dalla recente storiografia10. 9

Furono molte le famiglie romane di antica ascendenza a mantenere importanti incarichi all’interno delle istituzioni municipali, mirando altresì ad acquisire uffici in ambito curiale: in via preliminare, si vedano le liste in C. De Dominicis, Membri del Senato della Roma pontificia. Senatori, Conservatori, Caporioni e loro Priori e Lista d’oro delle famiglie dirigenti (secoli X-XIX), Roma 2009, ad indicem, disponibile al sito: http://www.accademiamoroniana.it/indici/Senato%20romano.pdf; cfr. Pavan, Permanenze di schemi e modelli del passato, passim; A. Esposito, “Li nobili huomini di Roma”. Strategie familiari tra città, curia e municipio, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, pp. 373-388; Rehberg, Scambi e contrasti fra gli apparati amministrativi, passim; cfr. infra, nota 31. 10 M. Vaquero Piñeiro, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de la iglesia de Santiago de los Españoles de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma 1999; S. Dionisi, Proprietà immobiliare e rendita urbana nella Roma del primo Rinascimento, in Quinta settimana di Alti Studi Rinascimentali: l’età di Alfonso I, a cura di G. Fragnito, G. Venturi, Ferrara 2004, pp. 139-146; Ead., Confraternite e rendita urbana: il San Salvatore e il Gonfalone di Roma tra XV e primo XVI secolo, in «Città e storia», 1/1 (2006), pp. 19-34; Ead., Proprietà immobiliare e rendita urbana nella Roma del primo Rinascimento, in «Schifanoia», 26-27 (2004), pp. 139-146; A. Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2004, pp. 49-76; L. Palermo, Il patrimonio immobiliare, 391

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Negli anni Venti del Quattrocento gli immobili più costosi erano quelli in Regola (177 fiorini circa in media), seguito da quelli in Sant’Eustachio (154 fiorini circa), Ponte (148 fiorini circa), Pigna (143 fiorini circa) e Parione (140 fiorini circa), considerati rioni centrali, in cui all’inizio del secolo i prezzi non sono ancora così differenziati tra loro. Colonna si collocava a metà strada tra centro e periferia (113 fiorini), seguito da Monti, il primo dei rioni considerati secondari o di minor pregio (74 fiorini), e dagli altri, Trevi (66 fiorini circa), Sant’Angelo (58 fiorini), Borgo (44 fiorini circa) e Campo Marzio (20 fiorini appena). Nello stesso periodo, per quanto riguarda gli affitti, in media il reddito delle – più redditizie – locazioni annuali oscillava tra il 4,35% e il 10% del valore dell’immobile: Ponte e Parione erano i più richiesti, con canoni medi intorno ai 25 e ai 23 fiorini per una – molto variabile – unità abitativa rispettivamente; Pigna, assieme a Trevi, si situava nelle posizioni più basse, con locazioni addirittura inferiori al fiorino 11. Nel corso del secolo Ponte si conferma quale area di maggior pregio 12, e più in generale, nei rioni centrali della città (oltre Ponte, in particolare la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento, in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer “deutschen” Stiftung in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin 2010, pp. 279-325; I. Ait, Il patrimonio delle clarisse di San Lorenzo in Panisperna tra XIV e XV secolo: prime indagini, in Roma religiosa. Monasteri e città (secoli VI-XVI), a cura di G. Barone, U. Longo, in «Reti Medievali Rivista», 19/1 (2018) (sez. monografica), pp. 453-472, disponibile al sito: http://www.rmojs.unina.it/index.php/rm/article/view/5637; si rimanda inoltre ai casi in esame nel presente volume. Per lo studio di altri patrimoni ecclesiastici, si vedano quindi: A. Esposito Aliano, Un inventario di beni in Roma dell’ospedale di Santo Spirito in Sassia (1322), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 99 (1976), pp. 71-115; Ead., L’inventario delle case e delle vigne dell’ospedale dei Santi Quaranta Martiri di Trastevere (1351), ibidem, 124 (2001), pp. 25-34; É. Hubert, M. Vendittelli, Materiali per la storia dei patrimoni immobiliari urbani a Roma nel Medioevo. Due censuali di beni del secolo XIV, ibidem, 111 (1988), pp. 75-160; e cfr. infine L. Palermo, Gestione economica e contabilità negli enti assistenziali medievali, in L’ospedale, il denaro e altre ricchezze. Scritture e pratiche economiche dell’assistenza in Italia nel tardo Medioevo, a cura di M. Gazzini, A. Olivieri, in «Reti Medievali Rivista», 17/1 (2016) (sez. monografica), pp. 113-131, disponibile al sito: http://www.rmojs.unina.it/index.php/rm/article/view/4922. 11 Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, pp. 560, 563-564. 12 Si rimanda a I. Ait, Ponte optima regio a curialibus frequentata: mercato immobiliare e provvedimenti papali a favore degli inquilini. Prime osservazioni, in Popolazione e immigrazione a Roma nel Rinascimento. In ricordo di Egmont Lee, a cura di A. Esposito, Roma 2019, pp. 83-99, in cui vengono inoltre presi in esame i decreti in favore degli affittuari – in particolare curiali – emanati da Paolo II (il 26 ottobre 1470) e Giulio II (l’11 ottobre 1510): i due documenti, censurando il comportamento spesso speculativo dei proprietari, pongono in evidenza alcune delle complesse strategie sottese agli investimenti immobiliari in questa parte della città. Si veda anche il contributo di A. Caporali, Investimenti immobiliari della famiglia Bini in Banchi durante i pontificati di Leone X e Clemente VIII, nel presente volume. 392

Spazio urbano, rendita e reti socioeconomiche a Roma tra Quattro e Cinquecento: i Sauli e i Frangipane nel rione Pigna

Regola, Sant’Eustachio, Pigna e Parione, ovvero i rioni compresi nell’ansa sinistra del Tevere, caratterizzati da minori spazi edificabili, maggiore densità abitativa, elevata concentrazione delle attività economiche e commerciali), la rendita immobiliare conobbe una crescita pressoché ininterrotta almeno fino al 1479, e in modo più contenuto ancora tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento 13. I primi segnali di stagnazione si palesarono nei quattro o cinque anni immediatamente a ridosso del Sacco, pur considerando la specificità dei singoli rioni 14. Secondo i dati raccolti da Silvia Dionisi per le confraternite del San Salvatore e del Gonfalone, l’andamento della rendita in Pigna per queste istituzioni risulta essere di: 31 ducati dopo il 1480; 46 ducati poco prima del 1495; 40 ducati sul finire del secolo; 35 ducati fino al 1519, con un nuovo aumento a 45 ducati alla vigilia del Sacco, per poi stabilizzarsi sui 40 ducati l’anno dopo il 1527 15. Pure gli affitti conoscono un rialzo dei canoni: ancora Dionisi ricorda per il 1503 l’affitto di un forno «in Calcarari» da parte del Gonfalone al fornaio tedesco Rosso per 14 ducati l’anno, aumentato a 18 ducati nel 1512 16. In parte contrastanti sono i dati relativi al Capitolo di San Pietro raccolti da Alexis Gauvain, il quale evidenzia in Pigna una rendita di: 41 ducati circa nel 1462; 50 ducati circa nel 1478; 32,5 ducati circa nel 1493; 18,5 ducati circa nel 1503 e nel 1510; 21 ducati circa nel 1525 17. I canoni di affitto del Capitolo in Pigna sembrano invece conoscere una diminuzione, passando dai 22 ducati del 1475 ai 12 ducati tra il 1481 e il 1485, quindi ai 7,5 ducati tra il 1493 e il 1495, fino ai poco più di 5 ducati del 1503 18. È probabile che i dati risultino discordanti in relazione alla diversa qualità del patrimonio immobiliare e alle specifiche strategie degli enti. Ad ogni modo, pur con tutte le cautele 13

D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e rendita immobiliare a Roma nel Quattrocento: la “gabella dei contratti”, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. 2. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 3-28: 24. 14 M. Vaquero Piñeiro, A proposito del reddito immobiliare urbano a Roma (1500-1527). Alcune considerazioni sulle fonti e primi approcci, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 113 (1990), pp. 189-207: 199-201. 15 S. Dionisi, Sviluppo economico e rendita urbana. Il caso delle confraternite laicali romane del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e del Gonfalone (1419-1528), Tesi di dottorato, Università Luiss, Roma 2003, p. 303. 16 Ibidem, pp. 278-281. 17 Si veda il contributo di A. Gauvain, Patrimonio e rendita immobiliare urbana del Capitolo di San Pietro tra XV e XVI secolo, nel presente volume, che nel rione Pigna per il Capitolo rileva rendite per: 9 fiorini nel 1405; 12 fiorini nel 1422; circa 20,5 ducati nel 1448; circa 41 ducati nel 1462; circa 50 ducati nel 1478; circa 32,5 nel 1493; circa 18,5 nel 1503 e nel 1510; circa 21 ducati nel 1525. 18 Gauvain, Il patrimonio immobiliare del Capitolo di San Pietro, pp. 64-66. 393

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del caso, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, nel rione Pigna gli immobili sembrano garantire una rendita annua che si aggirava intorno al 5% del valore dell’immobile stesso 19. Bisogna inoltre tener conto che nella decisione di vendere o acquistare, dare o prendere in affitto un immobile, accanto a parametri per così dire oggettivi (qualità, caratteristiche, offerta e domanda, ecc.), si devono riconoscere altri fattori più soggettivi (in relazione al mantenimento di particolari legami di vicinanza, alla conservazione o all’ampliamento dei vincoli familiari tramite specifiche strategie matrimoniali, cessioni o lasciti testamentari, ecc.): ambo gli elementi concorrono alla formazione del prezzo 20. Dunque, se riflettiamo unicamente sui parametri oggettivi, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento certamente Pigna non era tra le zone più appetibili e richieste dell’Urbe; ma se consideriamo pure i fattori soggettivi, quasi ribaltando il ragionamento, il mercato immobiliare interno al rione sembrerebbe avere delle caratteristiche particolari. Nonostante il mutamento dell’assetto politico ed economico dell’Urbe, tra Medioevo ed Età moderna il rione Pigna rappresentava uno spazio ancora importante per la vita politica ed economica della città; e non a caso, infatti, in esso continuava ad essere incardinata molta dell’antica nobilitas romana. Troviamo in questo rione casate di prestigio, prime fra tutte quella dei Porcari (le cui vicende e il cui patrimonio sono stati magistralmente descritti da Anna Modigliani 21) o dei Leni (altrettanto ben messi in evidenza dai lavori di Ivana Ait e Manuel Vaquero Piñeiro) 22, alle quali si possono aggiungere, lo si vedrà, quella dei Frangipane 23. Il ragguardevole livello della proprietà immobiliare raggiunto e conservato nel contesto del rione – queste famiglie infatti non “abbandonano” Pigna, in cui consolidano le proprietà familiari; semmai ampliano i propri investimenti in zone della città divenute più profittevoli – si rifletteva nella localizzazione nell’area stessa di contrade che prendevano il nome della rispettiva famiglia. In altre parole, le famiglie dell’antica nobiltà romana che abitavano in Pigna non vendevano o vendevano poco nell’ambito del rione, 19

Modigliani, I Porcari, p. 374. Vaquero Piñeiro, Il mercato immobiliare, p. 561; cfr. H. Broise, J.-C. Maire Vigueur, Strutture familiari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’arte italiana, vol. 12, Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 97-160. 21 A. Modigliani, La famiglia Porcari tra memorie repubblicane e curialismo, in Un pontificato ed una città, pp. 317-353; Ead., I Porcari, pp. 275-279 e sgg. 22 I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro. I Leni: uomini d’affari del Rinascimento, Roma 2000, pp. 127-145: 134-145. 23 Cfr. infra, nota 26. 20

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in cui semmai tendevano a conservare e razionalizzare la proprietà, in relazione a motivazioni altre, per esempio quelle del lignaggio, non unicamente o immediatamente legate allo sfruttamento della rendita immobiliare 24. Come detto si tratta di ipotesi iniziali; ma ancora agli inizi del Cinquecento, seppure non particolarmente esteso o con una elevata popolazione e densità, il rione di Pigna certamente non “sfigura” nel contesto dell’Urbe. Sulla base della Descriptio Urbis del 1526-1527, Egmont Lee stabiliva il ruolo centrale del rione Ponte (7.621 bocche, 14,2% della popolazione), seguito da Parione (6.315 bocche, 11,8% della popolazione) e Regola (5.537 bocche, 10,3% della popolazione); lo studioso notava inoltre che questi tre rioni, insieme a S. Angelo (3.319 bocche, 6,2% della popolazione), S. Eustachio (3.122 bocche, 5,8% della popolazione) e Pigna (2.862 bocche, 5,3% della popolazione) rappresentavano appena l’8,93% della superficie della città all’interno delle Mura Aureliane, ma ospitavano ben più della metà della popolazione cittadina, ovvero poco meno del 54% 25. 2. Il patrimonio immobiliare dei Frangipane nel rione Pigna tra Quattro e Cinquecento Ma chi abitava il rione Pigna in questo periodo, tra Quattrocento e Cinquecento? Oltre ai menzionati Porcari e Leni, si vuole qui portare all’attenzione il caso dei Frangipane, oggetto di personale indagine 26. Come noto, i Frangipane furono una delle più importanti famiglie aristocratiche di Roma, la cui ascesa è attestata ex plebe intorno alla metà del X secolo e grandemente influente nelle cose romane già alla metà dell’XI secolo. Analogamente ad altre nobili famiglie romane di origine non prettamente baronale-signorile, i Frangipane dovettero la loro prima fortuna all’impegno nello scambio – anche internazionale – di merci e di denaro e, parimenti, al loro posizionamento politico favorevole al papato, di cui furono non solo negotiatores e mercatores di fiducia ma anche sostenitori 24

Un simile orientamento sembra riscontrabile nel mantenimento di scelte economiche più “tradizionali”, nell’ambito della bovatteria ed extra moenia, in particolare nei casali: cfr. infra, note 54 e 63. 25 E. Lee, Gli abitanti del rione Ponte, in Roma capitale, pp. 317-343: 319 e sgg. 26 A. Fara, La famiglia Frangipane di Roma fra conservazione sociale e rinnovamento economico tra Quattro e Cinquecento: prime indagini, in «RR - Roma nel Rinascimento», (2018), pp. 363-390; Id., Domus e palazzi della famiglia Frangipane di Roma tra Quattro e Cinquecento, in Vivere la città. Roma nel Rinascimento, a cura di I. Ait, A. Esposito, Roma 2020, pp. 21-38. 395

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economici e finanziari, e per questo ampiamente ricompensati. Grazie a questa vantaggiosa combinazione di fattori, i Frangipane conquistarono posizioni di vertice all’interno del ceto mercantile e dirigente romano e consolidarono i propri possedimenti, con una forte base immobiliare, a sua volta fondamento dell’influenza politica e sociale della famiglia nella città e nel territorio di Roma. Nell’Urbe il potere dei Frangipane ruotava intorno al complesso di case e torri gradualmente acquisite o costruite fra il Foro, il Palatino, il Circo Massimo, la via Sacra e il Colosseo, che formarono un coerente sistema fortificato, «una sorta di ‘linea Maginot’ che attraversava tutto il Palatino tra i due estremi del Colosseo e del Velabro» 27. In ambito extraurbano la famiglia esercitava il proprio dominio in particolare sul borgo di Terracina, attraverso cui si esprimeva un forte interesse nella provincia di Campagna e Marittima, lungo la via Appia, zona di notevole importanza per gli scambi commerciali tra la Penisola iberica e l’Africa verso le coste tirreniche meridionali dei domini della Chiesa, fino a Roma. Quello dei Frangipane era, a ben vedere, «un potere territoriale e marittimo incentrato sul controllo delle principali vie di accesso alla città e sui porti a Sud di Roma» 28. Tuttavia, verso la fine del XII e soprattutto nel corso del secolo successivo, questa potente famiglia di ascendenza mercantile-bancaria conobbe un crescente declino, assieme ad altri grandi casati aristocratici «incapaci di assumere la nuova fisionomia imposta all’aristocrazia dalle trasformazioni avviate dalla crescita dello Stato, dallo sviluppo delle istituzioni centrali della Chiesa, dai mutamenti verificatisi nel gioco politico comunale in seguito al crescente controllo dei papi» 29. 27

M. Fagiolo, Arche-tipologia degli orti farnesiani, in Gli orti farnesiani sul Palatino, a cura di V. Cazzato, G. Morganti, Roma 1990, pp. 245-251, con citazione a p. 247; con ulteriore bibliografia, si rimanda a Fara, La famiglia Frangipane; cfr. note successive. 28 I. Ait, Per un profilo dell’aristocrazia romana nell’XI secolo: i rapporti commerciali con l’Africa, in «Studi Storici», 38/2 (1997), pp. 323-338: 331; cfr. Ead., All’ombra del papato: interessi e scambi commerciali con il Maghreb (secoli XI-XIII), in Islam i Cristiandat. Islam y Cristiandad, a cura di M.E. Varela, G. Boto, Girona 2014, pp. 119-138; in cui si pone in evidenza l’importanza dei Frangipane e dei Pierleoni per la vita economica e finanziaria della Roma del XII secolo. Per una puntuale analisi relativa alla costruzione del loro «dominio smisurato. Un vasto territorio che, per quanto non compatto, si estendeva da Roma fino al Regno. A partire dai Colli Albani i Frangipane disponevano di tutta l’ampia zona compresa tra la direttrice della Via Latina e la costa tirrenica», si rimanda all’approfondito studio di M.T. Caciorgna, Una città di frontiera. Terracina nei secoli XI-XIV, Roma 2008, pp. 195-228 et passim, e citazione a pp. 200-201. 29 S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma 1993, p. 36; cfr. Id., Nobiltà romana e nobiltà italiana nel Medioevo centrale. Parallelismi e contrasti, in La nobiltà romana nel Medioevo, a cura di S. Carocci, Roma 2006, pp. 15-43. Si vedano in particolare gli studi di M. Vendittelli, Mercanti romani del 396

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I Frangipane sembrano conoscere una ‘nuova’ dinamicità a partire dagli inizi e soprattutto nel corso del Quattrocento, anche qui non a caso, nel contesto della crescita politica ed economica dell’Urbe e dell’affermazione della signoria del papa sulla città, vivendo parimenti la progressiva marginalizzazione politica ed economica delle antiche élite cittadine 30. Come la famiglia dei Porcari, anche quella dei Frangipane visse «i tredici anni del pontificato sistino nella consapevolezza di una profonda contraddizione tra passato e presente, tra la ricerca di un prestigio sociale ancora tutto interno alla città e al rione, e il richiamo della curia, una via che col passare del tempo si mostrava con tutta la forza di una scelta obbligata» 31. Nonostante il decadimento, i Frangipane appaiono ancora fortemente – quasi tenacemente – radicati e attivi nella realtà politica, economica e sociale dell’Urbe. Numerosi sono gli esponenti della famiglia che nel corso del secolo ricoprirono o mantennero importanti incarichi all’interno delle istituzioni municipali, così come restarono forti i legami nell’ambito del ceto dirigente capitolino (con ramificati rapporti familiari, per esempio, coi Piermattei Albertoni, i Leni, i Cenci, i del Bufalo, i Porcari, i Bastardelli) 32. Parimenti essi conservarono un forte impegno economico nella gestione e, laddove possibile, nella dilatazione del patrimonio immobiliare intra et extra moenia – ma si vedrà con quali limiti 33. Dunque, seppure per molti versi decaduti, i Frangipane godevano ancora di bona fama nel panorama romano, la quale si rifletteva in – ed era il risultato della costruzione di – una fitta rete di relazioni matrimoniali primo Duecento «in Urbe potentes», in Roma nei secoli XIII e XIV, pp. 87-135; Id., Mercantibanchieri romani tra XII e XIII secolo. Una storia negata, Roma 2018, in cui l’Autore evidenzia i complessi rapporti tra i mercatores – e le grandi famiglie, tra cui i Frangipane – di Roma, il papato e la curia, anche in relazione alle significative evoluzioni politiche ed economiche che coinvolsero la Chiesa di Roma e le sue strutture nel XII e XIII secolo. In questo contesto, in modo analogo, Caciorgna, Una città di frontiera, pp. 222-228: 226-227 ricorda che la presenza dei Frangipane nei loro domini di Terracina era «intermittente e risentiva delle alterne vicende e degli schieramenti politici sui diversi fronti: comune di Roma, Papato e Impero. […] La decadenza della famiglia era segnata inesorabilmente […] Nel Trecento oltre ai Frangipane denominati de Terracena, o de Setia, troviamo anche de Cisternis o de Civite Novine, i castelli dei quali erano signori. La forma usuale per esprimere l’eponimo era indicativa di un doppio ordine di fattori: la divisione in diversi rami e la localizzazione, che attesta la perdita di centralità che la città di Roma aveva ormai per il lignaggio» (ma cfr. Fara, La famiglia Frangipane, passim, per l’attività politica ed economica e il radicamento sociale della famiglia nella Roma del Quattrocento). 30 Cfr. supra, note 1-4. 31 Modigliani, La famiglia Porcari, p. 327; Ead., I Porcari, passim; cfr. supra, nota 9. 32 Fara, La famiglia Frangipane, passim. 33 Id., Domus e palazzi della famiglia Frangipane, passim. 397

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e patrimoniali, politiche e sociali, che a loro volta permettevano la dilatazione degli affari economici e commerciali della famiglia, in un gioco di specchi in cui la considerazione sociale e l’affermazione economica si sostenevano vicendevolmente. E se gli antichi possedimenti urbani ed extraurbani erano ormai per la maggior parte persi o alienati, la famiglia sembra tentare una ricostruzione del proprio prestigio politico, economico e sociale attraverso un progetto immobiliare all’interno dell’Urbe dotato di una certa coerenza, ma non coronato da pieno successo. Tra le diverse proprietà immobiliari intra moenia, quattro sono quelle principali, ovvero intorno alle quali sembrano concentrarsi gli interessi della famiglia tra Quattro e Cinquecento 34. 2.1. Immobili diversi nel rione Pigna, che insistevano nell’isola compresa tra via del Gesù, Palazzo Altieri, via del Pie’ di Marmo, Santo Stefano del Cacco Nel 1328 una buona parte delle abitazioni dei Frangipane fra l’Arco di Tito, S. Maria in Pallara (S. Sebastiano al Palatino o alla Polveriera) e il Colosseo fu distrutta per volontà di Ludovico il Bavaro, a Roma per l’incoronazione imperiale. Fu forse a causa di ciò che almeno una parte della famiglia passò ad abitare nei pressi delle rovine del tempio di Iside e Serapide (tra via del Gesù, via del Pie’ di Marmo, S. Stefano del Cacco), dove è menzionata nel 1347 35. Nel Quattrocento ebbero la propria dimora in questo nucleo i fratelli Lelio (†1480), Valeriano (1428-1485) e Battista (1445-1501) e poi Giacomo di Valeriano (†1527), arrivando a comprendere un’isola di una certa coerenza 36. Negli anni Settanta del Quattrocento, 34

Si tenga presente che «Il termine domus usato nelle fonti documentarie, sebbene evochi una realtà edilizia perfettamente definibile per tipologia e dettagli architettonici, di fatto pone sotto la stessa etichetta un’ampia sfera di realtà morfologiche notevolmente diverse»: Vaquero Piñeiro, A proposito del reddito immobiliare urbano, p. 190; cfr. La casa romana. Nella storia della città dalle origini all’Ottocento, I, a cura di L. Bascià, P. Carlotti, G.L. Maffei, P. Capolino, Firenze 2000, pp. 58-62. 35 F. Sabatini, La famiglia e le torri dei Frangipane in Roma, Roma 1907, pp. 27-28. 36 La residenza in rione Pigna è ricordata in alcuni documenti di Battista Frangipane, in Archivio di Stato di Roma (da ora: ASR), SS. Annunziata, vol. 109, ff. 93r, 347r, 709r, et alia. Il 13 aprile 1473, in relazione al matrimonio con Faustina Bastardelli, figlia di Paolo Bastardelli e Lucrezia Porcari, si registra una spesa di 54 bolognini «per voltare lo tinello de Liello quando feci le nozze»: ivi, ff. 639v. L’espressione «per voltare lo tinello» potrebbe essere interpretata come «vuotare il tino piccolo» o «rifare la volta della stanza dove si mangia»: cfr. M. Trifone, Le carte di Battista Frangipane (1471-1500), nobile romano e mercante di campagna, Heidelberg 1998, pp. 460-461. L’8 febbraio 1473 donna Paola, moglie di Paolo degli Astalli, vendette a Lelio Frangipane l’intera proprietà 398

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in relazione alle sistemazioni sistine, la domus dei Frangipane in Pigna era ricordata lungo il tragitto della via Papalis – lungo la quale, non a caso, tra gli inizi del Cinquecento e il Sacco sarebbero sorti alcuni tra i più importanti palazzi delle famiglie dell’aristocrazia municipale, in “concorrenza” ai più eminenti e facoltosi personaggi della curia 37. Di lì a poco, già nel 1487, il Gonfalone registrava nel proprio catasto una casa in rione Pigna «nella contrada de freapani infra le cose della chiesa de sancto Nicola dello Monte da un canto, da l’altro la dicta chiesia» 38: e si noti qui l’esatta localizzazione di una contrada de freapani in Pigna, in modo analogo ai Porcari e ai Leni. Anche Antonino Frangipane (1474-1546) deteneva alcuni immobili in quest’area «appresso i beni di Battista Frangipani», al quale li cedette nel 1495 39. Nuovi acquisti e allargamenti furono fatti da Giacomo di Valeriano a cavallo tra i due secoli 40, poi da Cencio di Giacomo, di «domus terrinea, et solarata, et tegulata cum duobus solariis […] et […] certo ponte ligneo» in rione Pigna, avendo come confini le proprietà di Evangelista Capodiferro, Valeriano Frangipane e la pubblica via: ASR, Corporazioni religiose femminili, Miscellanea, b. 5342/78, De Albertonibus / De Francipanibus, c.n.n. 37 V. Cafà, The via Papalis in early Cinquecento Rome: a contested space between Roman families and curials, in «Urban History», 37/3 (2010), pp. 434-451: 441, elenca lungo la via Papalis i palazzi Alberini, Sassi, Galli, Mazzatosta, Cosciari, Paparoni, Pichi, Della Valle, Caffarelli, Cesarini e Altieri, evidenziando l’interesse per l’area sia da parte delle famiglie romane che degli uomini di curia, entrambi tesi a sottolineare la propria vicinanza al papa e ai nuovi assetti politici della città, portando spesso i due gruppi in “conflitto” per l’acquisizione degli spazi e la costruzione di nuovi palazzi e/o architetture effimere in occasione di eventi ufficiali. In modo più sfumato, A. Modigliani, Roma al tempo di Leon Battista Alberti (1432-1472). Disegni politici e urbani, Roma 2019, pone in luce il senso di “competizione” tra i due gruppi nella realizzazione di immobili di prestigio, ricordando quindi il palazzo dei Frangipane vicino a quello degli Altieri: ibidem, pp. 194-195. 38 U. Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medievale e moderna, Roma 1939, pp. 211, 248, 283-284, individua la chiesa nella contrada di «Pellicciaria», tra via delle Stimmate e piazza del Gesù. 39 ASR, SS. Annunziata, Pergamene, cass. 324, nn. 82-84 (8 ottobre 1495). Antonino era figlio di Giorgio di Lelio Frangipane e di Geronima Paluzzi Albertoni Pietromattei; rimasto orfano in tenera età, fu allevato dallo zio paterno Battista e dallo zio materno Geronimo, avendo come tutore anche il cardinale Giovan Battista Savelli: cfr. Fara, La famiglia Frangipane, pp. 383-385. Un’altra casa del valore di 700 ducati «sita in angulo Capudcrucis illorum nobilium de Madalenis demolienda pro constructione nove vie que tendit de platea sancti Marci ad domos illorum de Astallis versus palatium cardinalis de cesarinis» fu ceduta da Antonino al nobile napoletano Ascanio Marinelli, risultando poi tra quelle demolite per il trionfo di Carlo V a Roma nel 1536: R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, 4 voll., Roma 1902-1912, vol. 2, pp. 61-62; Gnoli, Topografia, p. 58. 40 Il 13 febbraio 1504, Faustina Bastardelli Porcari, moglie ed erede di Battista Frangipane, ricordava nel suo testamento il nipote Giacomo di Valeriano, a cui lasciava «suam medietatem domus […] iunctam pro indiviso cum alia medietate ipsius Jacobi, sita in Regione 399

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prima del 1549, e da Ortensio, suo figlio naturale, la cui casa è descritta «in regione Pinee e conspectu palatii. dd. de Mutis coherens retro cum bonis eccl. s. Stephani del Cacco» nel 1570 41. A quest’ultimo si ascrivono «plurimi melioramenti notabili» ovvero la trasformazione della proprietà in un palazzo a tre piani con un originale portale in travertino, sormontato dallo stemma dei Frangipane, due leoni affrontati con quattro pani tra le zampe, con angoli smussati e due cariatidi ai lati – oggi decentrato rispetto alla cinque finestre della facciata a causa di ulteriori lavori di ampliamento. Giunto in eredità a Geronimo e Pietro Francesco Frangipane probabili nipoti di Ortensio il 9 ottobre 1586, il complesso fu ceduto dai medesimi a Mario Farnese nel 1607, che acquisì tale «Domus seu Palatium in Regione Pinee», comprendente pure botteghe, dotato di fonte e abbellito da statue, per 14.000 scudi d’oro 42. 2.2. Immobile in piazza San Marco (attuale piazza Venezia), al confine tra Pigna e Trevi Nel 1538-1539 Antonino e il figlio Curzio Frangipane per 600 scudi di moneta acquistarono da Diana degli Astalli e suoi eredi: «domus sitam in regione Pinee in platea sancti Marci de Urbe ubi est conca lapidea». In realtà, come già ricorda Onofrio Panvinio nelle memorie della famiglia da lui redatte, la proprietà era pertinente al capitolo di San Marco, e gli Astalli ne godevano in enfiteusi da tempo, con un fitto di 50 ducati di carlini l’anno. Per concludere la vendita fu dunque necessario il consenso del capitolo, che si ritenne soddisfatto con 30 scudi e un nuovo contratto di enfiteusi per 60 ducati di censo (5 ducati «di più di censo» e 5 ducati per Pinee in loco dicto preta delli pisci»: ASR, Arciconfraternita della SS. Annunziata, vol. 106, ff. 102r-109v: 106v (con una descrizione della proprietà, oggetto di un prossimo studio). Sulla contrada di «Preta de li Pesci» prossima alla «Pellicciaria», Gnoli, Topografia, pp. 211 e 248. 41 Lanciani, Storia degli scavi, vol. 1, p. 172; Gnoli, Topografia, pp. 58, 327. 42 ASR, Collegio dei Notai Capitolini (da ora: CNC), notaio Livio Prata, vol. 1360, ff. 382r-396r (con una descrizione della proprietà, oggetto di un prossimo studio); Corporazioni religiose femminili, Miscellanea, b. 5342/78, De Farneriis, c.n.n.: Mario Farnese acquista da Geronimo e Pietro Francesco Frangipane «una casa overo Palazzo posto nel Rione della Pigna posta nella strada che và dal Giesu alla Minerba incontro al Palazzo della bon. me. del s. Carlo Muti», per atto rogato il 19 settembre 1607, dal notaio Livio Prata, per 10.300 scudi di moneta; cfr. Lanciani, Storia degli scavi, vol. 1, p. 172. Un avviso del 29 settembre 1607 informa che «Il signor Mario Farnese ha comprato il palazzo de signori Frangipani, dove stava il vescovo di Piacenza, fra la chiesa del Jesù et della Minerba, per 14 mila scudi et hora sta su l’andar ad habitarvi quanto prima»: J.A.F. Orbaan, Documenti sul barocco in Roma, Roma 1920, p. 85. 400

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avere «podestà di poterla affrancare»); inoltre, «havendo la casa necessità di diverse sorti di riparatione et massime di fondamenti», si convenne col capitolo una spesa di 300 scudi «nelle cose più necessarie», che lievitarono a ben 2.000 scudi «in manco di octo anni» 43. In tal senso, per ottenere le risorse necessarie alla sistemazione dell’immobile, Antonino dovette impegnare o cedere altre sue proprietà nei rioni Ponte, S. Eustacchio, Parione, Arenula e Pigna stessa44. Per altro si trattava di un ritorno nell’avita Pigna, in cui Antonino aveva già vissuto almeno dal 1494, trasferendosi poi in affitto in Campitelli, nei pressi di piazza Margana, in una «domum magnam cum orto» di proprietà dei Rosa di Terracina intorno al 1514 e almeno fino al 1526-1527 45. È da notare quindi, in questo caso, la cessione di beni immobiliari in altre zone molto più profittevoli per restare in Pigna, 43

ASR, CNC, notaio Stefano Amanni, vol. 96, ff. 168v-174r, (con una descrizione della proprietà, oggetto di un prossimo studio); cfr. O. Panvinio, De gente Fregepania libri quatuor (Biblioteca Apostolica Vaticana, Barberini latini, 2481; Biblioteca Angelica di Roma, ms. 77, a cui si fa riferimento, scritto probabilmente tra il 1554 e il 1556), pp. 319-320: Antonino Frangipane «[…] alli anni del Signore MDXXXIX […] comperò da madonna Diana delli Astalli, mogliere dià di Pietro Vincenzo, le ragioni che haveva in una casa posta nella Piazza di Santo Marco, per prezzo di scudi seicento di moneta. Le ragioni di questa donna erano, che haveva questa casa a terza generazione et nominationi dal capitolo di san Marco, con censo di L ducati di carlini l’anno et il capitolo per prestare il consenso alla compera rihebbe XXX scudi, ma havendo la casa necessità di diverse sorti di riparatione et massime di fondamenti, venne a conventione col capitolo d’havere a spendere CCC scudi nelle cose più necessarie, con havere a pagare cinque ducati di più di censo, et con podestà di poterla affrancare, et in questo caso comprarli altri cinque ducati di più di censo, et fargli in tutto LX. et sopra di ciò ne fu pagato il segno evidente, come appare negli atti di Stefano de Amandis notario, il quale si rogò di tutte queste cose sopradette, et in luogo de i CCC scudi che ci si doveva spendere, si pagorno poi d. 2m in manco di octo anni». Sulla complessa figura di Onofrio Panvinio – che redasse la storia familiare dei Frangipane probabilmente tra il 1554 e il 1556 – si rimanda a S. Bauer, Panvinio, Onofrio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 81, Roma 2014, pp. 36-39; Id., History for Hire in Sixteenth-Century Italy: Onofrio Panvinio’s Histories of Roman Families, in «Erudition and the Republic of Letters», 4 (2019), pp. 397-438; di recente pubblicazione, Id., The Invention of Papal History: Onofrio Panvinio between Renaissance and Catholic Reform, Oxford 2019. 44 Lanciani, Storia degli scavi, vol. 1, p. 172; Gnoli, Topografia, pp. 58, 284, 327; cfr. nota successiva. 45 Per Antonino Frangipane in Pigna: ASR, CNC, notaio Pacifico Pacifici, vol. 1181, f. 500r; notaio Pacifico Pacifici, vol. 1183, f. 4r; in Campitelli: ASR, CNC, notaio Pacifico Pacifici, vol. 1183, f. 21r; vol. 1189, ff. 14v, 34v. In Campitelli Antonino è ricordato nel 1526-1527 con ben 20 bocche: D. Gnoli, Descriptio Urbis o censimento della popolazione di Roma avanti il sacco Borbonico, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 17 (1894), pp. 375-520: 495; Descriptio Urbis: The Roman Census of 1527, ed. E. Lee, Rome 1985, p. 112 (7547); Habitatores in Urbe. The Population of Renaissance Rome - La popolazione di Roma nel Rinascimento, ed. E. Lee, Rome 2006, p. 255 (7547). 401

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evidentemente considerata area di particolare interesse per la famiglia. E probabilmente gli sforzi della famiglia portarono i loro frutti, se l’Amayden poteva scrivere che «Hanno li Frangipani le case nel rione Pigna, nel più bello della piazza di S. Marco appresso alla quale modernamente hanno fabricato, un palazzo cospicuo non anco compiuto» 46. Nello stesso periodo Benedetto Pucci ricordava che Roberto Frangipane, abate di San Vittore di Marsiglia (1585-1622), aveva «di nuovo fabricato il palazzo loro nella piazza di San Marco, vivendo essi tutti insieme con tanta pace, e tanto splendore, che scuoprono chiaramente la vera, e non ordinaria loro Nobiltà»47. 2.3. Immobili vari nell’isola circoscritta dalle vie dell’Umiltà, dell’Archetto, dei Lucchesi e dalla piazza della Pilotta, in rione Trevi Nel 1487 si ricordavano le case della famiglia Tasca a via dell’Umiltà, nel tratto fra via delle Vergini e la Dataria, il cui giardino confinava con la residenza dei Frangipane, pure a via dell’Umiltà, all’angolo occidentale; similmente confinante era una casa di Prospero Colonna. A questo nucleo è ascrivibile la notazione della Descriptio Urbis, che registrava Giacomo Frangipane residente in rione Trevi con 100 bocche (?). Nel 1559 si menzionava pure la «torre del signor Gieronimo [di Giacomo] Friapane» sotto Montecavallo, nella loro dimora al principio di via dell’Umiltà 48. 46

T. Amayden, La storia delle famiglie romane, 2 voll., ed. C.A. Bertini, Roma 1910-1914, vol. 1, pp. 403-409: 408. 47 D.B. Pucci, Genealogia degl’Illustrissimi Signori Frangipani Romani, Venezia 1621, p. 71. La proprietà fu poi ceduta alla famiglia perugina dei Bigazzini; pervenne quindi ai Cenci-Bolognetti, e infine ai Torlonia nel 1806. Per i passaggi e i rifacimenti della proprietà – poi demolita a partire dal 1902, in relazione alla sistemazione di piazza Venezia e alla costruzione del Vittoriano –: Sabatini, La famiglia e le torri, p. 38; Gnoli, Topografia, pp. 283-284; P.P. Pancotto, Palazzo Bolognetti ai SS. XII Apostoli, in Roma borghese. Case e palazzetti d’affitto, a cura di E. Debenedetti, 2 voll., Roma 1995, vol. 2, pp. 165-169; La storia del Palazzo di Venezia dalle collezioni Barbo e Grimani a sede dell’ambasciata veneta e austriaca, a cura di A. Schiavon, M. De Angelis d’Ossat, M.G. Barberini, Roma 2011, pp. 100-103 e sgg. Alle spalle dell’allora piazza San Marco era la dimora romana di Michelangelo, presso contrada Macel de’ Corvi, verso vicolo dei Frangipane: C. Altavista, Le dimore di Michelangelo a Roma. Dalle prime abitazioni alla casa di Macel de’ Corvi, in Michelangelo architetto a Roma, a cura di M. Mussolin, C. Altavista, Cinisello Balsamo 2009, pp. 58-71: 62, con ulteriore bibliografia. 48 Lanciani, Storia degli scavi, vol. 1, p. 172; Gnoli, Topografia, pp. 314, 324; la notazione della residenza di Giacomo Frangipane in rione Trevi è in: Gnoli, Descriptio Urbis, p. 402; Descriptio Urbis: the Roman census, p. 39 (594); Habitatores in Urbe, p. 181 (594), che riferiscono ben 100 bocche (per errore?). 402

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2.4. Il «Palazo antiche de Freapani in r. Campitelli in loco qui dicitur Palazzo magiure prope ecclesiam s. Anastasie in conspectu fontis s. Georgii», al confine tra Campitelli e Ripa Agli inizi del Cinquecento era probabilmente abitato dai fratelli Marcello e Prospero di Cherubino Frangipane. Scomparso Prospero tra il 1512 e il 1514, nel censimento del 1527 Marcello risultava residente ancora in rione Campitelli. La proprietà rimase in seno alla famiglia per tutto il Cinquecento e comprendeva non solo il palazzo ma anche un vasto terreno tra le chiese di S. Teodoro e di S. Giorgio e la via de’ Cerchi, tanto che la contrada era detta «ad Freiapanos»49. Un avviso del 27 agosto 1603 riportava però la notizia che il cardinale Giovanni Battista Deti voleva acquistare il giardino di Girolamo Frangipane (molto probabilmente Girolamo/ Geronimo di Prospero) «havendo anco l’istesso venduto il palazzo paterno per 13 mila scudi al cardinale Tosco [Domenico Toschi]»50, concludendo in modo sarcastico «et così altri sagliono at altri scendono»51. 2.5. Cappelle di famiglia Con un ideale collegamento con gli immobili in via del Gesù la prima e con quelli in piazza San Marco la seconda, e ancora insistenti attorno alla medesima area, si possono aggiungere le cappelle di famiglia in Santa Maria sopra la Minerva (più antica, nel rione Pigna) e San Marcello al Corso (più recente, nel rione Trevi, comunque nella parte prossima a Pigna), a cui i Frangipane erano molto legati, arricchendole attraverso numerosi lasciti testamentari. Il ramo della famiglia residente nel «Palazo antiche» in Campitelli guardava invece alla vicina Santa Maria in Aracoeli (imperniata sull’area capitolina) 52. *** 49

Lanciani, Storia degli scavi, vol. 1, pp. 172, 179; vol. 2, pp. 35-36; Descriptio Urbis: the Roman census, p. 113 (7594); Habitatores in Urbe, p. 255 (7594); Augenti, Il Palatino, pp. 85 e sgg. 50 Tra i massimi teorici del potere teocratico, giurista raffinato, magistrato secolare e Governatore di Roma, autore delle celebri Practicarum Conclusionum Iuris, nel 1605 arrivò a sfiorare l’elezione al soglio pontificio: R. Govoni, Il cardinale Domenico Toschi. Da Castellarano a Roma 1535-1620, a cura di V. Gardenghi, Reggio Emilia 2009. 51 Orbaan, Documenti, p. 85; cfr. G. Carocci, Lo Stato della Chiesa nella seconda metà del secolo XVI. Note e contributi, Milano 1961, p. 181, nota 91. 52 Si rimanda a P. Tosini, The Frangipani Chapel in San Marcello, Rome: Farnesian Devotion, Antiquarian Taste, and Municipal Pride, in Chapels in Roman Churches of the Cinquecento and Seicento: Form, Meaning, Function, a cura di C. Franceschini, S.F. Ostrow, P. Tosini, Milano 2020, pp. 16-37: la cappella fu concessa nel 1554 e formalizzata in modo definitivo nel 1556, venendo dotata tramite 200 scudi, garantiti da un immobile che Curzio (†1554), il fratello Mario e il figlio di questi Muzio Frangipane acquistarono in Arenula da Michele 403

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È da notare come le più importanti proprietà insistessero intorno al Campidoglio: tre in zona Pigna-Trevi e la quarta in Campitelli, nella storica area di insediamento e influenza dei Frangipane; nella stessa zona vi erano pure le due cappelle di famiglia, in Santa Maria sopra la Minerva e San Marcello al Corso. La scelta di insediarsi intorno o nei pressi dell’area capitolina non sembra casuale: questa zona di Roma, come detto, non solo vedeva incardinata molta dell’antica nobilitas romana, ma rappresentava uno spazio fondamentale per la vita politica ed economica dell’Urbe53. Dunque i Frangipane occuparono posizioni – per loro – strategiche all’interno del tessuto urbano, formando – non sappiamo quanto scientemente – un quadrilatero attorno al Campidoglio, quasi a voler richiamare l’analogo progetto posto in essere nei secoli precedenti nell’ambito del Palatino, ma evidentemente non arrivando a costituire un analogo nucleo di potere54. Questo “progetto di riaffermazione familiare” mi pare possa essere confermato dai contemporanei interventi sia in ambito artistico (con la sistemazione e le scelte stilistiche e decorative della cappella di famiglia in San Marcello al Corso, con temi e forme fortemente classici), che storiografico (ricorrendo ai servigi del ben noto Onofrio Panvinio, esperto nel genere gesta familiarum e incaricato di redigere una particolareggiata storia di famiglia, evocandone l’ancestrale origine dalla Gens Anicia): portate avanti tra il 1554 e il 1556, entrambe le operazioni tendevano infatti all’esaltazione dell’antichità, della nobiltà e in definitiva della preminente romanitas del casato 55. Florio da Fabriano; scegliendo una cappella in San Marcello, i Frangipane vollero affermare la propria vicinanza ai Farnese, essi stessi particolarmente legati alla chiesa e all’area. 53 Modigliani, I Porcari, pp. 275-279 e sgg. 54 Vi erano poi altri immobili sparsi sugli antichi domini, in relazione alle casetorri al Palatino (ma per la maggior parte espropriati, diruti e/o in disuso); un’altra casatorre «in regione trastiberim in contrata fragapanorum» (ricordata nel 1322 e nel 1340; con un ideale collegamento con alcuni sepolcri di famiglia in S. Cecilia in Trastevere); una villa sul Viminale (ceduta agli Strozzi nel 1619 per 9.000 scudi d’oro); il cosiddetto «Mons Siccus» (la parte del Circo Massimo sotto il Palatino, verso il lato del Tevere); un «argasterio» in Marmorata (all’angolo occidentale dell’Aventino, fino a S. Maria in Cosmedin); molte vigne (tra cui quelle «in loco nuncupato Testaccio» o fuori Porta lateranense); alcuni «banchi fori piscium» nell’area di Sant’Angelo in Pescheria (cfr. infra); e molto altro ancora; senza dimenticare infine i numerosi casali posseduti tra l’Agro e la Campagna di Roma. Si rimanda ancora a Fara, Domus e palazzi della famiglia Frangipane. 55 Si vedano rispettivamente gli studi di Patrizia Tosini per la cappella Frangipane in San Marcello al Corso (cfr. supra, nota 52) e quelli di Stefan Bauer per Onofrio Panvinio e il suo De gente Fregepania (cfr. supra, nota 43). A ciò si può aggiungere la creazione di particolari legami con famiglie non romane di altissimo livello politico ed economico, 404

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Come per altre importanti famiglie e realtà romane, la mancanza di catasti o bilanci e l’estrema frammentarietà delle fonti a disposizione rendono difficile la ricostruzione della rendita immobiliare; ma, pur considerando questi limiti, bisogna ammettere che nella varia documentazione raccolta 56, al di là dei quattro nuclei sopra descritti, non sembra potersi riscontrare un piano di investimenti immobiliari in ambito urbano di particolare coerenza o rilievo – al contrario di altre prestigiose casate. E questo nonostante ci si trovi ormai alla fine del Quattrocento, ancora in una fase di crescita di questo settore del mercato, seppure, come detto, già prima del Sacco si palesassero i primi segnali di stagnazione 57. Uno dei pochi esempi che attesti il coinvolgimento dei Frangipane in settori economico-commerciali ed economico-finanziari di maggior profitto è quello della gestione di diversi banchi del pesce in Portico d’Ottavia. Un mercato, quello del pesce a Roma, che «durante il XV secolo, in parallelo all’aumento della domanda e degli scambi, vide il crescente interessamento dei gruppi mercantili più dinamici […] riconducibili ad alcune delle famiglie dell’élite municipale cittadina», tra cui i Pierleoni, i Serlupi, i Boccabella e, appunto, in modo preminente, i Frangipane (nelle persone dei fratelli Valeriano e Battista, poi pure Giacomo di Valeriano), tutti impegnati anche in operazioni di credito «attratti anzitutto dalla certezza di ottenere profitti sfruttando le croniche carenze di liquidità di molti operatori del settore» 58. comunque preminenti in ambito cittadino e soprattutto curiale, quali i Sauli e i Farnese: cfr. infra. 56 A differenza di molte altre casate romane, per i Frangipane non è pervenuto un corpus documentario coerente e sembrerebbe che essi stessi non abbiano dato un’importanza fondamentale alla conservazione delle proprie carte – in modo differente, per esempio, agli Orsini, per i quali si veda E. Mori, L’Archivio Orsini. La famiglia, la storia, l’inventario, Roma 2016. Questo vale anche per le carte di Battista Frangipane, più coerenti e numericamente di maggior rilievo: cfr. note 36 e 64 del presente contributo. Ma si veda anche la volontà dell’oligarchia romana a non tramandare documentazione relativa a interessi economici e commerciali non consoni alla nobiltà del lignaggio: cfr. per esempio A. Esposito, Per una storia della famiglia Santacroce nel Quattrocento: il problema delle fonti, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 105 (1982), pp. 203-215; M. Vaquero Piñeiro, Terra e rendita fondiaria a Roma all’inizio del XVI secolo, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di A. Esposito, L. Palermo, Roma 2005, pp. 283-316 per la famiglia Della Valle. 57 Cfr. Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e rendita immobiliare, pp. 3-28: 24; Vaquero Piñeiro, A proposito del reddito immobiliare urbano, pp. 189-207: 199-201. 58 Id., La banca del mercato di S. Angelo in Pescheria: un profilo di lungo periodo, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma 2008, pp. 867-886: 872-873, in relazione alla posizione di preminenza dei Frangipane nella gestione 405

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Sembrerebbe dunque che, come i Cenci, i Leni, i Porcari e altri – ognuno dei quali va comunque considerato nella specificità delle proprie strategie – «Il reticolo delle proprietà urbane si sviluppava […] secondo due principali direttrici: una di allargamento e potenziamento nel rione di appartenenza, per le esigenze di una famiglia in crescita sociale ed economica, secondo la linea seguita dell’élite cittadina; l’altra, di maggiore dinamicità, con acquisti e locazioni finalizzati al maggiore rendimento nei rioni e nelle zone più commerciali della città» 59: ma se la prima di queste direttrici sembra chiara anche per i Frangipane, non così evidente è la seconda. I motivi di questa progressiva e nuova marginalizzazione economica nonostante il non trascurabile impegno della famiglia possono essere molteplici, solo in parte riconducibili alla mancanza di adeguate risorse, comunque da considerare effettiva, nel lungo periodo, proprio in relazione all’inadeguatezza degli investimenti. Del resto, come ricorda Manuel Vaquero nelle sue analisi dedicate alla rendita immobiliare di alcuni importanti enti ecclesiastici romani, ma evidentemente applicabili anche al caso familiare in esame «[…] come qualsiasi altra fonte di benefici, il patrimonio edilizio richiedeva una costante e severa attenzione che si rendeva ancora più indispensabile nei momenti di crisi. Per adeguare questa risorsa alle alterne vicende del mercato ed evitare la sua fossilizzazione in capitale improduttivo e sempre meno qualificato, era imprescindibile adottare politiche di gestione pronte a recepire i nuovi sviluppi della economia, ogni istituzione [e si potrebbe aggiungere ogni famiglia] le scelse in accordo con la propria personalità e le proprie caratteristiche ottenendo risultati diversi, non sempre riconducibili a linee generali comuni» 60. In questo senso, per i Frangipane si nota uno speciale attaccamento al rione Pigna (in cui essi dimoravano, mantenendo stretti rapporti economici e legami di parentela con altre famiglie dell’antica nobiltà romana ivi residenti, tra cui Porcari e Leni) 61 e un maggiore orientamento verso scelte economiche per così dire “tradizionali” (ovvero negli investimenti nell’ambito della bovatteria ed extra moenia, in particolare nei casali, evidentemente con la convinzione che prestigio e ricchezza derivassero ancora dalle terre possedute nell’Agro e nella Campagna e nelle connesse attività). Alla metà del Quattrocento, per esempio, il mercato del bestiame a Roma era della banca e del mercato del pesce di S. Angelo in Pescheria tra Quattro e Seicento; cfr. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio, pp. 168-169; Fara, Domus e palazzi della famiglia Frangipane. 59 Ait, Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro, p. 142. 60 Vaquero Piñeiro, A proposito del reddito immobiliare urbano, p. 202. 61 Sui legami di parentela, ancora Fara, La famiglia Frangipane, passim. 406

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praticamente monopolizzato dalla nobile famiglia dei Mattei, con un giro di affari superiore ai 3.500 ducati, cui seguivano Paolo dello Mezzato del rione Ponte con transazioni per 1.800 ducati, quindi altre nobili famiglie romane, tra cui proprio i Frangipane, con 1.300 ducati, similmente ai Leni e ai Del Bufalo; ultimi i Margani con circa 1.000 ducati. E proprio tra i Frangipane e i Leni di Pigna costanti erano le compravendite di «iuvencos vaccinos» 62. Per la famiglia questo tipo di investimenti non venne mai meno, ed ulteriormente alcuni beni fondiari sembrano essere – a meno di impellenti necessità – quasi inalienabili, e non solo in relazione alla convenienza economica, ma pure al fine di preservare l’immagine di potere e di prestigio della famiglia – al di là di una forte frammentazione della proprietà e di una incapacità di costruire un compatto dominio territoriale. Per esempio, il casale della Petronella fuori porta S. Paolo rimase in ambito familiare per tre secoli (almeno dagli inizi del Trecento fino al Seicento inoltrato); quello di Castelmalnome fuori di Porta Portese per due secoli (dalla fine del Quattrocento fino alla fine del Seicento) 63. La mancanza di un coerente piano di investimenti immobiliari in ambito urbano può essere letta quale indizio delle limitate capacità della famiglia di “intuire” le nuove opportunità di profitto, in relazione a una realtà politica, economica e finanziaria romana che ormai è completamente mutata. In tale direzione si è mossa in particolare Maddalena Signorini, secondo la quale la limitata distribuzione geografica degli scriventi presenti nelle carte di Battista Frangipane – i quali, tranne poche eccezioni, sono romani, o 62 Sulla base della documentazione in ASR, Camera Urbis, Libri gabellarum carnium, regg. 79 (per il 1459), 80 (per il 1461), 81 (per il 1463), si veda I. Ait, Allevamento e mercato del bestiame nella Roma del XV secolo, in La pastorizia mediterranea. Storia e diritto (secoli XI-XX), a cura di A. Mattone, P.F. Simbula, Roma 2011, pp. 830-846; per i commerci tra Frangipane e Leni, si rimanda ad Ait, Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro, p. 106; cfr. anche C. Troadec, «Breviter loquendo tutti paiono vaccari»: l’économie de l’élevage à Rome au XV e siècle, in Società e poteri nell’Italia medievale. Studi degli allievi per Jean-Claude Maire Vigueur, a cura di S. Diacciati, L. Tanzini, Roma 2014, pp. 147-160. 63 Si veda ancora Fara, Domus e palazzi della famiglia Frangipane. In relazione al mantenimento di alcuni beni fondiari che, oltre alle “case di famiglia”, potevano rivestire un valore non solo economico ma pure simbolico, e che quindi si tentava di preservare e tramandare in seno alla famiglia, si veda A. Esposito, Famiglie aristocratiche romane e territorio: i “casali di famiglia”, in Sulle orme di Jean Coste. Roma e il suo territorio nel tardo Medioevo, a cura di P. Delogu, A. Esposito, Roma 2009, pp. 111-118: 113, con esempi di varie famiglie romane; cfr. Modigliani, I Porcari, pp. 394-400; A. Ruggeri, Famiglie aristocratiche romane e territorio: dai nomi di famiglia ai nomi dei casali, in Sulle orme di Jean Coste, pp. 119-169. Analoghe propensioni al mantenimento di case e palazzi di proprietà, del resto, si riscontrano in seno alle famiglie romane già dal periodo precedente: Broise, Maire Vigueur, Strutture familiari, passim.

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al più provenienti dai territori laziale, umbro, abruzzese e campano –, rappresenta «un’ulteriore conferma di come l’economia agraria romana legata allo sfruttamento del casale non riesca a trovare il modo di aprirsi all’esterno, cosicché ben presto, fossilizzata, si esaurirà in se stessa» 64. 3. Nuovi residenti: i Sauli di Genova in regione Pinee Si può almeno parzialmente sfumare il giudizio, perché, come ora si vedrà, non tutta la famiglia si chiuse in sé stessa – sebbene nel lungo periodo il declino dei Frangipane sia indiscutibile. La documentazione disponibile mette in luce altri interessanti legami economici e sociali, probabilmente nati proprio in relazione alla vicinanza abitativa nel rione Pigna. Per alterne vicende, infatti, anche i genovesi Sauli arrivarono ad acquisire – almeno – una dimora – e di rilievo – nel rione Pigna, finendo poi per formare una speciale alleanza esattamente con i Frangipane. Presenti a Roma almeno dall’inizio degli anni Ottanta del Quattrocento, inseriti in una vasta rete di relazioni politiche, economiche e sociali di altissimo prestigio e con entrature ai massimi livelli, gestori di numerosi appalti, fino a divenire depositari generali sotto Giulio II Della Rovere, i Sauli avevano la loro principale residenza «in regione pontis sancti Angeli», nell’area compresa tra la Zecca e la Cancelleria, in una zona come detto di grande interesse, e in cui la presenza dei mercanti e dei banchieri – in particolare fiorentini, ma anche genovesi – al servizio del papa era ben radicata 65. La ricerca di un immobile di grande prestigio si legò quindi alla nomina a cardinale di Bendinelli Sauli (1484ca.-1518), avvenuta nel concistoro del 10 marzo 1511, ancora grazie al favore di Giulio II 66. Come per altri 64 M. Signorini, Alfabetizzazione nella Roma municipale: l’archivio Frangipane (1468-1500), in «Scrittura e Civiltà», 18 (1994), pp. 281-307: 284. 65 A. Fara, Credito e cittadinanza: i Sauli, banchieri genovesi a Roma tra Quattro e Cinquecento, in «Reti Medievali Rivista», 17/1 (2016), pp. 71-104, disponibile al sito: http://www.rmojs.unina.it/index.php/rm/article/view/4919; Id., Banca, credito e cittadinanza: i Sauli di Genova tra Roma e Perugia nella prima metà del Cinquecento, in «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 125/2 (2013), pp. 421-430, disponibile al sito: https://journals.openedition.org/mefrm/1346?lang=en; Id., Banca e finanza: i Sauli di Genova nella Roma di Leone X, in Leone X. Finanza, mecenatismo, cultura, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 2-4 novembre 2015, a cura di F. Cantatore et alii, Roma 2016, pp. 729-738; Id., Genovesi a Roma: i Sauli tra prestigio, visibilità e potere, in Storie romane del Rinascimento, a cura di A. Esposito, Roma 2018, pp. 97-111. 66 Nominato cardinale diacono di S. Adriano al Foro, Bendinelli fu poi cardinale presbitero di S. Sabina dal gennaio 1512; e nel luglio 1516 gli fu confermato il titolo cardinalizio di

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prelati di rango, anche per il neocardinale si prospettavano essenzialmente quattro possibilità: affittare oppure acquistare un palazzo di adeguata magnificenza; comprare una proprietà e rimaneggiarla; costruire un nuovo edificio 67. Tra 1512 e il 1515 si ricorda la casa-palazzo del giovane cardinale Sauli nei pressi della chiesa di S. Agostino a Roma, in un’area compresa tra questo edificio, la chiesa del S. Salvatore alle Coppelle e Tor Sanguigna. Ma è probabile che la sistemazione fosse solo temporanea, in attesa di individuare e assicurarsi una dimora più consona al rango suo e della sua famiglia 68. Infatti, almeno dal 1513, Bendinelli Sauli si interessò alla residenza romana di Francesco Maria Della Rovere: il futuro Palazzo Doria Pamphilj, presso la chiesa di S. Maria in Via Lata, proprio nel rione Pigna. Il primo “palazzo” in situ fu eretto dal cardinale Niccolò Acciapacci (1439-1447), intorno al 1439-1440; la proprietà passò quindi in varie mani, fino all’acquisto da parte del cardinale Fazio Santoro (1503-1510), intimo di Giulio II, che lo riedificò tra il dicembre 1505 e il settembre 1507 servendosi di un allievo del Bramante. Il risultato fu di tale eccellenza che il 21 settembre 1507, visitando il palazzo, lo stesso Giulio II “chiese” al cardinale Santoro di donare l’immobile al nipote Francesco Maria Della Rovere – di lì a breve, nel 1508, divenuto duca d’Urbino 69. Secondo una descrizione del 1510 ad opera di Francesco Albertini, i lavori voluti dal Santoro avevano reso l’edificio davvero magnifico: «sumptuosissimis aedificiis ampliata, cum atrio et porticu et capellis et aula pulcherrima depicta. Omitto viridaria, in quibus sunt vasa marmorea sculpta cum sacrificiis et raptu Sabinarum. S. Maria in Trastevere, tenuto in commendam già dal 1511. Si veda H. Hyde, Cardinal Bendinello Sauli and Church Patronage in Sixteenth century Italy, Woodbridge 2009, passim; A. Fara, Sauli, Bendinelli (Bendinello, Bandinello) II, cardinale, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 90, Roma 2017, pp. 726-729. 67 Si veda in tal senso K.J.P. Lowe, A Florentine Prelate’s Real Estate in Rome Between 1480 and 1524: The Residential and Speculative Property of Cardinal Francesco Soderini, in «Papers of the British School at Rome», 59 (1991), pp. 259-282: 259. Cfr. D.S. Chambers, The Housing Problems of Cardinal Francesco Gonzaga, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 39 (1976), pp. 21-58; M.G. Aurigemma, «Qualis esse debeat domus cardinalis»: il tipo della residenza privata cardinalizia nella cultura antiquaria romana del secondo ’400, in Piranesi e la cultura antiquaria. Gli antecedenti e il contesto, a cura di M. Calvesi, E. La Rocca, Roma 1983, pp. 53-67; Ead., Residenze cardinalizie tra inizio e fine del ’400, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. 2, pp. 117-136; cfr. S. Sperindei, Repertorio delle residenze cardinalizie, ibidem, pp. 137-158. 68 Si vedano i documenti segnalati in Hyde, Cardinal Bendinello Sauli, pp. 71-73: 72 note 6-10. 69 Sperindei, Repertorio delle residenze, p. 137; Hyde, Cardinal Bendinello Sauli, p. 73 note 12-17. 409

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Omitto aquarum conservationem subterraneam, et cameras variis picturis et statuis exornatas, ut eius insignia palmae indicant» 70. A ogni modo Francesco Maria Della Rovere risiedette a Roma raramente, e non sembra fosse particolarmente interessato all’immobile. L’11 dicembre del 1513 veniva dunque stipulato il contratto di affitto tra i procuratori del Della Rovere, Giovanni Battista Bonaventura e Orazio Florio, e il cardinale Bendinelli Sauli, per 400 ducati d’oro l’anno – e l’elevata somma rispecchiava l’ampiezza e il prestigio della dimora prescelta. Ma qualche contrattempo costrinse il cardinale Sauli a rimanere nella sua residenza nei pressi della chiesa di S. Agostino, dal momento che un secondo e definitivo contratto dovette essere firmato il 17 aprile 1515, per la stessa somma e alla presenza di Giovanni Battista Carosino e Sebastiano Bonaventura a nome del Della Rovere. Non sembra che il Sauli abbia intrapreso lavori di rilievo; si ricordano 25 ducati d’oro «pro pretio unius portalis» (28 maggio 1516) e 30 ducati d’oro «pro expensis faciendis pro domo» (26 ottobre 1516)71. La splendida dimora romana del cardinale Bendinelli accoglieva il suo entourage e i membri della famiglia in viaggio o in visita a Roma, divenendo altresì immediatamente luogo d’incontro per personaggi di spicco della società e della cultura del tempo. Nel suo noto Diarium, il cerimoniere pontificio Paride De Grassi ricordava che il cardinale Sauli «non cedebat alicui in fastu et pompa»72, mostrandosi uomo di vasta cultura e protettore 70

R. Lanciani, Il codice Barberiniano XXX, 89 contenente frammenti di una descrizione di Roma del secolo XVI, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 6 (1883), pp. 223-240, 445-496: 459; Ch.L. Frommel, Der römische Palastbau der Hochrenaissance, Tübingen 1973, II, pp. 88-102: 89, 94-96; G. Carandente, Il Palazzo Doria Pamphilij, Milano 1975, pp. 22, 55-56, 309; F. Cappelletti, Le origini cinquecentesche: dal Palazzo Fazio Santoro al Palazzo Aldobrandini al Corso, in Il Palazzo Doria Pamphilij al Corso e le sue collezioni, a cura di A.G. De Marchi, Firenze 1999, pp. 13-29: 14. 71 Hyde, Cardinal Bendinello Sauli, pp. 73-74 note 13-20. 72 Paridis De Grassis Diarium Curiae Romanae, a cura di Ch.G. Hoffmann, in Nova scriptorum ac monumentorum partim rarissimorum, partim ineditorum collectio, Leipzig 1731, vol. I, p. 406. Il giudizio di Paride De Grassi va però considerato all’interno della polemica relativa alla tentata congiura contro Leone X, in cui, secondo le versioni ufficiali degli eventi, furono i cospiratori a tradire la fiducia del pontefice, non sentendosi da questi sufficientemente apprezzati e adeguatamente ricompensati. Si trattava, in realtà, di una complessa manovra di Leone X volta sia ad azzerare l’opposizione in seno al Sacro Collegio, riplasmandolo a suo piacimento con l’elezione di ben 31 nuovi cardinali, più favorevoli alle posizioni medicee; sia a ottenere cospicui finanziamenti, dal momento che in cambio della porpora cardinalizia ognuno dei neoeletti versò tra i 25.000 e i 30.000 ducati. Con ulteriore bibliografia, si rimanda a Fara, Genovesi a Roma: i Sauli, passim; e da ultimo M. Simonetta, Falsitas filia temporis. La congiura dei cardinali, Giovio, Guicciardini e Girolamo Borgia, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2019, pp. 27-51. 410

Spazio urbano, rendita e reti socioeconomiche a Roma tra Quattro e Cinquecento: i Sauli e i Frangipane nel rione Pigna

– tra gli altri – degli umanisti Giovanni Maria Cattaneo (1480ca.-1529/30) (che fu suo segretario), Paolo Giovio (1486ca.-1552) e Giovanni da Vigo (1460ca.-1525) (suoi medici) e Agostino Giustiniani (1470-1536) (illustre studioso e religioso, oltre che suo cugino)73. Coinvolto nella congiura contro Leone X del 1517, non sappiamo se Bendinelli avesse o meno l’intenzione di acquistare l’immobile in cui risiedeva nel rione Pigna; certo è che la rovina e la caduta in disgrazia portarono alla perdita di titoli, di prestigio e di bona fama e pure alla rinuncia della sontuosa quanto dispendiosa dimora presso la chiesa di S. Maria in Via Lata 74. 4. Il rione Pigna come spazio urbano tra rendita immobiliare e reti di sociabilità economica Nondimeno gli affari economici e finanziari dei Sauli nella città e nel territorio romano si dilatarono notevolmente 75. E forse, proprio tra le vie del rione Pigna abitualmente frequentate, nel mentre i romani Frangipane e i genovesi Sauli si erano incontrati, perché «il legame con lo spazio significava contatti con i mercanti forestieri che in esso gravitavano, avendovi l’abitazione o il fondaco» 76. Da una parte, nelle loro dimore in via del Gesù, erano i Frangipane, che tra Quattro e Cinquecento mantenevano un forte coinvolgimento nei tradizionali settori di interesse economico e commerciale della famiglia nell’ambito della città e del territorio di Roma; ma, come molte altre famiglie romane di antica e nobile ascendenza pur legate ai tradizionali ambiti economici e commerciali, anch’essi (o almeno alcuni esponenti della famiglia, attenti al contesto politico ed economico locale romano, e altresì disposti a rischiare i propri patrimoni per accedere alle innumerevoli opportunità di profitto che la Roma papale offriva) tentarono – certamente non sempre 73

Hyde, Cardinal Bendinello Sauli, pp. 75-82, 89-110, con un profilo dei singoli personaggi qui menzionati e numerosi altri esempi; cfr. ancora Fara, Genovesi a Roma: i Sauli, passim. 74 In tal senso è probabile che la famiglia mantenesse la propria residenza nell’immobile «in regione pontis sancti Angeli» tra la Zecca e la Cancelleria, di cui si è detto: nel censimento del 1527 la casa di «Sebastiano de Saulis» è ricordata in «Regio de Ponte» con – le non poche – 14 bocche: Gnoli, Descriptio Urbis, p. 430 («Sebastiano de Paulis»: sic!); Descriptio Urbis: The Roman Census, p. 61 (2636); Habitatores in Urbe, p. 202 (2636). 75 Fara, Banca e finanza: i Sauli di Genova nella Roma di Leone X; Id., Credito e cittadinanza: i Sauli, banchieri genovesi a Roma; Id., Banca, credito e cittadinanza: i Sauli di Genova tra Roma e Perugia. 76 Ait, Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro, p. 139. 411

Andrea Fara

con successo – il “grande salto”, ovvero partecipare al “gioco” del grande capitale mercantile internazionale, alleandosi con diversi grandi mercatores Romanam curiam sequentes, anche per la gestione di alcuni remunerativi uffici dello Stato della Chiesa. Dall’altra parte, nel loro palazzo su via Lata, ai confini del medesimo rione, la potente famiglia genovese dei Sauli, già inclusa ai più alti livelli di curia, desiderosa di un più coerente inserimento nel contesto politico, economico e sociale dell’Urbe, attraverso la ricerca e la costruzione di un collegamento con le antiche e prestigiose élite romane, tra cui esattamente i Frangipane, “vicini di casa” del rione Pigna. Ed ecco quindi da una parte i Frangipane, con Curzio di Antonino al servizio del cardinale Alessandro Farnese, futuro papa Paolo III, e in rapporti con Paolo Giovio 77. E dall’altra i Sauli, essi stessi vicini al Farnese e primi protettori del Giovio, accolto nel palazzo in via Lata dal cardinale Bendinelli 78. E Curzio fu non solo uno dei portionarii Ripe nel 1514 79 e Conservatore nel 1542 80, ma anche socio nella gestione della Tesoreria di Perugia e Umbria, il cui ufficio, tra il 1546 e il 1551, fu di competenza dei genovesi Girolamo, Bartolomeo e Cristoforo Sauli, con la partecipazione pure dei genovesi Pallavicini e Giustiniani e dei fiorentini Ubaldini e Machiavelli 81. 77

T.C. Price Zimmermann, Paolo Giovio. The historian and the crisis of sixteenth-century Italy, Princeton 1995, pp. 202, 213. 78 Il collegamento Frangipane-Giovio-Sauli è, al momento, una semplice ipotesi dettata dagli evidenti legami personali, ma non corroborata dalle fonti; cfr. Fara, Sauli, Bendinelli; e infra nota 81. 79 Archivio Apostolico Vaticano (da ora: AAV), Registra Vaticana, vol. 1211, ff. 97r-105r: 104r (7 gennaio 1514). 80 De Dominicis, Membri del Senato della Roma pontificia, ad indicem. 81 AAV, Diversa Cameralia (da ora: Div. Cam.), vol. 142, ff. 45r-v: «Confirmatio locationis thesaurarie Perusii Curtio de Frangepanibus» (5 settembre 1545); ASR, Camerale I, Tesoreria di Perugia e Umbria, vol. 31, reg. 139: «Entrata e uscita di Girolamo Sauli, tesoriere e in suo nome di Curzio Frangipani e Bartolomeo Sauli soci nella condotta della tesoreria», per l’anno 1546; AAV, Div. Cam., vol. 153, ff. 17v-18r: «Patentes offitii gabelle grosse Curtio de Fragepanibus» (6 dicembre 1547); vari mandati di pagamento ibidem, vol. 146, ff. 63v-64r (17 ottobre 1546), 119v-120r (31 gennaio 1547); vol. 148, f. 14r (20 ottobre 1547); vol. 153, f. 84r (1548); vol. 156, ff. 76v-77r (23 agosto 1548); vol. 159, ff. 163r-v (4 novembre 1549); vol. 162, ff. 43r-v (1° settembre 1550); vol. 163, f. 110r (6 febbraio 1552); vol. 164, ff. 162v-163r (27 gennaio 1551); vol. 165, f. 139r (23 febbraio 1551); vol. 168, ff. 85r-v (23 febbraio 1551); vol. 169, ff. 132r-v (9 settembre 1551), 189v (28 ottobre 1551); vol. 173, f. 20v (4 maggio 1552). Fara, Credito e cittadinanza: i Sauli; Id., Banca, credito e cittadinanza; cfr. F. Guidi Bruscoli, Benvenuto Olivieri, i mercatores fiorentini e la Camera apostolica nella Roma di Paolo III Farnese (1534-1549), Firenze 2000, pp. 26, 163, 168-169. 412

Spazio urbano, rendita e reti socioeconomiche a Roma tra Quattro e Cinquecento: i Sauli e i Frangipane nel rione Pigna

Tra Quattrocento e Cinquecento, il rione Pigna si prospetta dunque come un discreto spazio urbano di rendita (certamente non così elevata rispetto ad altre zone della città – in primis Ponte –, comunque non disprezzabile); ma anche come luogo di incontro e di costruzione di più ampie relazioni economiche e sociali (evidenti nei legami economici e di parentela tra Frangipane, Porcari e Leni ivi dimoranti; e nei rapporti, che per molti versi sfuggono nella loro complessità, tra i Frangipane di Roma – insediatisi intorno al Campidoglio, in particolare nel loro complesso di via del Gesù, poi anche nel palazzo in platea san Marco – e i Sauli di Genova – che vi trovano la loro principale residenza nel palazzo di via Lata, anch’esso prossimo alla platea san Marco, almeno fino alla caduta in disgrazia del cardinale Bendinelli, in relazione agli avvenimenti della congiura contro Leone X). Uno spazio urbano che non viene costruito unicamente quale luogo di rendita economica, ma anche come luogo di rendita sociale, in cui si concretizzano complesse relazioni, in un gioco di specchi in cui, in modo vicendevole, un elemento sostiene, stimola e riproduce l’altro 82, e dove si evidenzia la complementarietà di interessi che poteva unire le grandi compagnie internazionali e le élite locali 83.

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Vaquero Piñeiro, A proposito del reddito immobiliare urbano, p. 191. L. Palermo, Capitali pubblici e investimenti privati nell’amministrazione finanziaria della città di Roma all’epoca di Martino V, in Alle origini della nuova Roma, Roma 1992, pp. 500-535. Come detto, i tentativi di una nuova affermazione portati avanti da alcuni membri dei Frangipane non saranno coronati da pieno successo, restando la famiglia nel suo insieme “intrappolata” in modelli economici ormai obsoleti, che ne causeranno una nuova eclissi: Fara, La famiglia Frangipane.

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Antonella Parisi Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio

Il 14 gennaio del 1506 Felice de Fredis, gentiluomo romano, scavando nella sua vigna alle “Capocce”, sul Colle Oppio, portò alla luce un gruppo scultoreo di eccezionale bellezza. Fu Giuliano da Sangallo, accorso sul luogo assieme a Michelangelo su invito del papa Giulio II, a riconoscere in quel marmo uno dei capolavori dell’antichità: era il Laocoonte, «opus omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum», secondo il giudizio di Plinio il vecchio (NH, XXXVI, 37). La notizia della scoperta si diffuse in fretta e le offerte per l’acquisto non tardarono a venire: «El vicecancelliere ne ha voluto dare al padrone uno uficio di duchati 10 o 20, non l’à voluta dare; ora li Romani la vorrebbono in Capitolio et il papa anche la volle. Vedremo quello che se ne farà; anchora è in casa il padrone, ove sta con reputatione assai», scriveva in una lettera il fiorentino Bonsignore Bonsignori, a pochi giorni dal rinvenimento. Alla fine, fu Giulio II ad aggiudicarsi l’opera, che destinò al giardino del Belvedere – primo e prezioso tassello della sua nascente collezione antiquaria –, offrendo allo scopritore i proventi della gabella della porta S. Giovanni 1. Felice de Fredis aveva comprato quella vigna di 5 pezze con canneto il 14 novembre 1504 dalle suore di S. Caterina da Siena al prezzo di 135 ducati. Se consideriamo che l’investimento alla fine gli fruttò un ufficio del valore di 1500 ducati, comprendiamo che il profitto superava di undici volte la spesa iniziale – per capirci con quella somma avrebbe potuto comprarsi almeno altre undici vigne di pari valore 2. 1 S. Settis, Laocoonte. Fama e stile, Roma 1999; Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, a cura di F. Buranelli, P. Liverani, A. Nesselrath, Roma 2006. 2 Il contratto di acquisto della vigna del Laocoonte è stato identificato da chi scrive in un protocollo del notaio Christofarus Antonii Pauli: Archivio di Stato di Roma, Collegio dei notai capitolini [d’ora in poi ASR, CNC], 132, cc. 225v, 226r-v, 227r-v (14 novembre 1504), pubblicato in R.Volpe, A.Parisi, Alla ricerca di una scoperta: Felice de Fredis

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Questo caso, paradigmatico anche se eccezionale, ci sembra il migliore per introdurci al tema del presente studio. L’idea di sondare le relazioni tra il mercato dei suoli e le antichità è nata da una indagine svolta sulla vigna del de Fredis, tesa a localizzare il luogo del rinvenimento del Laocoonte che Plinio diceva di aver visto «in Titi imperatoris domo», un dato su cui le fonti coeve alla scoperta davano notizie vaghe e discordanti 3. Dallo studio delle carte notarili è emerso un particolare dinamismo del commercio degli immobili nell’area del rinvenimento, il Colle Oppio, un elemento che unito ad una intensa attività di scavo e a un grande numero di reperti, ci ha portato a voler verificare se una parte delle compravendite, in un mercato immobiliare urbano in forte espansione, trovasse ragione nell’interesse per le antichità sepolte 4. Ipotesi che sembra plausibile alla luce di un fenomeno, il collezionismo 5, in grande evoluzione tra ‘400 e ‘500, e e il luogo del ritrovamento del Laocoonte, in «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», 110, 2009, pp. 81-109 (pp. 106-107). Sulla vicenda del premio, che ebbe uno sviluppo molto complesso, conclusosi con l’acquisizione dell’ufficio di scrittore della Curia, si veda ibid., p. 89, n. 35. 3 La vigna di Felice de Fredis sorgeva alle spalle della cisterna delle Terme traianee (le cosiddette Capocce o Sette sale), tra le attuali via Mecenate e via Merulana, in un’area corrispondente agli antichi horti di Mecenate. 4 Il rapporto tra suoli, economia e società è stato indagato da svariate angolature. Su questo si veda fra gli altri: D. Esposito, Vigneti e orti entro le mura: utilizzo del suolo e strutture insediative, in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, II, pp. 205-228; D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento: la «Gabella dei contratti», ibid., pp. 3-28; M. Vaquero Piñeiro, Terra e rendita fondiaria a Roma all’inizio del XVI secolo in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento: studi dedicati a Arnold Esch, a cura di A. Esposito, L. Palermo, Roma 2005, pp. 283-316; A. Cortonesi, Agricoltura in città. Gli orti di Roma fra XIII e XV secolo, in Vivere la città, Roma nel Rinascimento, a cura di I. Ait, A. Esposito, Roma 2020, pp. 85-102. Sulla produzione e commercio del vino a Roma: D. Lombardi, Dalla dogana alla taverna. Il vino a Roma alla fine del Medioevo, Roma 2018. 5 Il tema del collezionismo antiquario è al centro di una vasta letteratura. Repertorio fondamentale, a nostro parere non ancora pienamente sfruttato dagli studi, rimane R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e Notizie intorno le collezioni romane di antichità, Roma 1989-2002 [1 ed. 1902-1912], voll. I-VII. Per la bibliografia si rimanda ad alcune opere di carattere generale: C. Hülsen, Römische Antikengärten des XVI. Jahrhunderts, in «Abhandlungen der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Klasse», 4, 1917, pp. 1-42; C. Franzoni, Rimembranze d’infinite cose. Le collezioni rinascimentali di antichità, in «Memoria dell’antico nell’arte italiana» a cura di S. Settis, I, Torino 1984, pp. 299-360; S. Magister, Censimento delle collezioni d’antichità a Roma: 1471-1503, in «Xenia antiqua», 8, 1999, pp. 129-204; Ead., Censimento delle collezioni d’antichità a Roma (1471-1503): Addenda, in «Xenia antiqua», 10, 2001, pp. 113-54; Collezioni di antichità a Roma fra ‘400 e ‘500, in «Studi sulla cultura dell’antico», VI, a cura di A. Cavallaro, Roma 2007; 416

Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio

di una economia volta alla diversificazione dei settori di investimento. Virtualmente tutto il sottosuolo di Roma aveva tale potenzialità ma certe aree, dove la memoria personale o collettiva collocava con precisione i rinvenimenti, o dove era evidente la presenza di rovine, dovevano presentare agli occhi di un acquirente un valore aggiunto per le ulteriori possibilità di profitto. Tale ipotesi ha orientato la nostra ricerca verso una analisi ad ampio raggio, tesa in primis a sondare le radici del fenomeno, individuabili nella dimensione economica e sociale delle antichità. La prima parte del presente contributo è dedicata infatti al tema dell’opera antica come bene venale, un oggetto posto al centro di un mercato fiorente e fortemente concorrenziale. La seconda mette a fuoco l’attività di scavo, strumento primo per entrare in possesso di quel bene: analizzeremo in particolare le imprese ad fodiendum et cavandum, esplorandole nella base giuridica che le sosteneva e nelle pratiche in cui si declinavano. Infine, la terza parte del contributo intende sondare la questione del mercato dei suoli, attraverso un caso studio, il Colle Oppio, un ambito ben circoscritto dove è possibile effettuare riscontri incrociati – attingendo a fonti di tipo diverso – tra i proprietari, le compravendite delle vigne, gli scavi e le raccolte antiquarie, allineandoli su un largo orizzonte temporale. Il Colle si presta bene al nostro scopo, essendo entro le mura di Roma, in un territorio di particolare interesse archeologico, con rari insediamenti e ampi spazi coltivati a vigna e orti, e ben documentato dalle fonti archivistiche, letterarie e cartografiche. Nel testo si citerà documentazione già nota, pubblicata da Rodolfo Lanciani nella monumentale Storia degli scavi di Roma, ma, laddove possibile, si darà spazio a documenti inediti, riportando in appendice i più significativi. Ancora, in fase di premessa, vogliamo evidenziare che l’attività di scavo aveva un duplice aspetto: era volta al recupero di beni pregiati come sculture o epigrafi ma anche di materiali da destinare alle calcare e all’industria edilizia in generale, o al riuso nella produzione scultorea. La pratica del reimpiego faceva di Roma un unicum nel panorama dei centri urbani europei: questo processo di sfruttamento, che ha accompagnato la città lungo tutto l’arco della sua storia dalla tarda antichità in poi, come è noto, acquista in quest’epoca di particolare fervore architettonico proporzioni considerevoli. Ebbene, in questa sede punteremo l’attenzione sul C. Franzoni, Urbe Roma in pristinam formam renascente. Le antichità di Roma durante il Rinascimento, in «Roma del Rinascimento» a cura di A. Pinelli, Bari 2007, pp. 291336; K.W. Christian, Empire without End: Antiquities Collections in Renaissance Rome, c. 1350–1527, New Haven, CT: Yale University Press, 2010; B. Furlotti, Antiquities in motion: from excavation sites to Renaissance collections, Los Angeles: The Getty Research Institute, 2019. 417

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bene archeologico di prestigio, l’oggetto antico destinato al mercato dei beni di lusso, anche se la questione dei materiali di reimpiego – largamente sondata dagli studi – inevitabilmente affiorerà lungo la strada, essendo i due termini di fatto inscindibili, in quanto frutto della medesima attività esplorativa del sottosuolo e di simili logiche di mercato 6. Il valore delle antichità L’oggetto antico, elemento su cui si addensa una pluralità di significati, anche ideologici e simbolici, può essere studiato nella sua dimensione di bene venale. L’acquisto di antichità da parte dei collezionisti metteva in moto, al pari delle committenze artistiche e architettoniche, circolazione di denaro, con ricadute sui processi economici. Benvenuto Cellini nella sua Vita ci racconta di alcuni cercatori di antichità che andavano al seguito di certi villani lombardi che venivano a Roma a zappare le vigne. Questi, lavorando, trovavano medaglie, cammei ed altre gioie che vendevano per pochi soldi ai cercatori che poi le rivendevano ad alti prezzi. Lo stesso Cellini sfruttava tale giro guadagnandoci – come racconta – dieci volte tanto l’investimento iniziale 7. Le gemme e i cammei romani, piccoli oggetti raffinatissimi che ben si adattavano agli spazi esigui degli studioli dei collezionisti, erano particolarmente apprezzati nel ‘400, quando l’arte della glittica, ispirata ai modelli antichi, conobbe una felice fioritura: celebre era la collezione di cammei del cardinale veneziano Pietro Barbo, futuro papa Paolo II, contenente anche gioie e monete, che secondo i calcoli del Müntz valeva 4600 ducati 8. La scoperta del gruppo di Ercole e Telefo nel 1507 a Campo dei Fiori, opera che si aggiunse alla collezione papale, fruttò a un cittadino romano un beneficio di 130 ducati l’anno9. Una rara scultura di Ercole fanciullo, scolpita in basalto verde, fu trovata sul colle Aventino, nella vigna Massimo, e acquistata nel 1571 dai conservatori, che intendevano così 6

Sul tema del reimpiego si veda: M. Vaquero Piñeiro ‘Ad usanza di cave’: Società per l’estrazione di pietre e materiali antichi a Roma in età moderna, in Il reimpiego in architettura: recupero, trasformazione, uso, a cura di J.-F. Bernard, P. Bernardi e D. Esposito, Roma École Française de Rome, 2008, pp. 523-29; D. Esposito, Pietraie e calcarari a Roma: recupero dei materiali da costruzione fra medioevo e età moderna, in História da construçao os materiais, a cura di A. Sousa Melo, M.C. Ribeiro, Braga, CITCEM-LAMOP, 2012, pp. 59-76. 7 B. Cellini, Vita, a cura di E. Camesasca, Milano 1985, pp. 140-141. 8 E. Müntz, Les arts à la cour des papes pendant le XV e et le XVI e siècle, II, Paul II, Paris 1879, pp. 128-159 (p. 140). 9 Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 189. 418

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evitarne l’esportazione, per la somma di 1000 ducati di Camera10. Ecco, abbiamo citato qualche caso sparso, ma la rassegna potrebbe proseguire, visto che la storia degli scavi di Roma, ricostruita con appassionata dedizione da Lanciani, è spesso anche storia di profitti. Tale correlazione è espressa con efficacia da Filippo Strozzi, in una lettera scritta nel settembre del 1514 da Roma a Giovanni di Poppi, per ragguagliarlo sul rinvenimento di un gruppo di cinque sculture – identificate con gli Orazi e Curiazi, in realtà copie in marmo del piccolo donario in bronzo di Attalo, re di Pergamo, che ritraeva personaggi eroici nello stato della sconfitta. La scoperta si era avuta durante i lavori di scavo di una cantina di proprietà di certe monache (non meglio identificate nella lettera) finanziati da Alfonsina Orsini – vedova di Piero dei Medici e cognata di papa Leone X – che, secondo lo Strozzi (che era suo genero, in quanto ne aveva sposato la figlia Clarice), era «la più fortunata donna mai fusse, ché li danari che dà per dio li fruttono più perché se li prestassi a usura» 11. Non c’è dubbio che la scultura antica di particolare qualità e bellezza potesse collocarsi in vetta sulla scala del mercato dei beni di lusso, superando nei prezzi le opere statuarie di nuova fattura: si consideri, a titolo di esempio, il noto episodio del Cupido dormiente scolpito da Michelangelo nel 1495-1496, per il quale il giovane scultore fiorentino, ancora agli inizi di una promettente carriera, fu pagato 30 ducati da Baldassarre del Milanese (cifra che supponiamo non comprendesse il costo del marmo). La scultura poi, opportunamente alterata – si dice che a tale scopo fosse stata sotterrata in una vigna –, fu offerta come antica al cardinale Raffaele Riario per 200 ducati, una cifra che, al di là dell’intento fraudolento dell’operazione, dà la misura della differenza, nella 10

F. Vacca, Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi, Roma 1594, 90, citato in Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 230. 11 Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 213; ibid., III, p. 118. Le sculture, che alla fine dello scavo raggiunsero il numero di sette – conservate oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ai Musei Vaticani e al Louvre – dopo la scoperta furono esposte, assieme ad altre antichità, nel giardino di Palazzo Medici (futuro Palazzo Madama), la prestigiosa residenza che Alfonsina aveva acquistato nel 1509 da Giuliano e Lorenzo dei Medici. Cfr. Christian, Empire without end, pp. 332-339. Filippo Coarelli, seguendo una proposta di Stefania Pafumi, suggerisce l’ipotesi che il gruppo sia stato rinvenuto sotto una casa delle monache di S. Ambrogio della Massima, da porre in relazione col Portico d’Ottavia: cfr. La gloria dei vinti. Pergamo, Atene, Roma a cura di F. Coarelli, Milano 2014, pp. 19 ss. Diversamente dallo studioso, che configura il caso di un acquisto e non di una ricompensa- una tesi che sminuisce il concetto di fortuna espresso dallo Strozzi –, ritengo che il rapporto di patronato tra la nobildonna e le monache, non ancora messo in luce dagli studi, sarebbe la prova fondante per identificare il luogo del rinvenimento del gruppo. 419

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stima dei costi, tra un prodotto nuovo e uno antico12. Il concetto di venalità dei reperti si delinea con nettezza nei casi in cui questi diventano un bene rifugio in mancanza di liquidità, una qualità particolare dei marmi che vediamo emergere in momenti di cesura storica, quando si assiste a ribaltamenti degli assetti sociali. Un assunto questo fondato sullo studio di due documenti che sono, a quanto ci risulta, inediti. Il primo riguarda la famiglia Sassi che possedeva nella casa posta sulla via Papalis, nel Rione Parione, oggi via Fig. 1 – Cortile di casa Sassi, Maarten van Heemskerck, attr., (1532-1535), disegno, del Governo Vecchio, una raffinatisBerlin, Kupferstichkabinett, 2783 sima collezione di antichità, descritta 13 dagli autori e ritratta dagli artisti (fig. 1) . Il 20 gennaio 1531 Maria de Saxis, al cospetto del giudice della curia capitolina, dichiara di aver venduto, a nome dei figli minorenni Decidio e Fabio, al cardinale Paolo Emilio Cesi (1481-1537) una «figuram lapideam nigri coloris» dalla quale i figli «nullam utilitatem percipiunt» (Appendice, Doc. 1) 14. Il Cesi ha offerto in cambio 400 ducati o, in alternativa, una pensione o un beneficio per uno dei due figli del valore pari a 50 scudi l’anno. L’alto investimento del cardinale trova ragione in una sua fervente passione per “le cose antiche” che si materializzò in una delle più importanti collezioni dell’epoca, esposta nel magnifico giardino del palazzo di Borgo, oggi non più esistente 15. 12

N. Baldini, D. Lodico, A.M. Piras, Michelangelo a Roma. I rapporti con la famiglia Galli e con Baldassarre del Milanese, in Giovinezza di Michelangelo, a cura di K.Weil-Garris Brandt, C. Acidini Luchinat, J. David Draper e N. Penny, Firenze-Milano, 1999, pp. 149-162. 13 D. Lodico, La collezione della famiglia Sassi, in Collezioni di antichità, pp. 187-204; Christian, Empire without End, pp. 374-379. La raccolta è citata da Francesco Albertini, Opusculum de mirabilibus novae et veteris Urbis Romae, Basilea 1519 [1 ed. Roma 1510], c. 59r: «In domo saxea apud Parionem sunt statuae pulcherrimae marmoreae et porphiretico lapide scultoreo cum capite et titulo magni Pompei». 14 ASR, 30 notai capitolini [d’ora in poi 30 not. cap.], uff. 23, 11, ad datam. All’atto intestato a Maria de Saxis segue nel protocollo quello a nome del cardinale Cesi, che conferma l’accordo, rogato sotto la stessa data nel suo palazzo di Borgo. 15 Sul palazzo e la collezione Cesi cfr. C. Hülsen, Römische Antikengärten, pp. 1-42; F. Rausa, La collezione del cardinale Paolo Emilio Cesi (1481-1537), in Collezioni di antichità, pp. 205-217. 420

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Nel contratto non troviamo descritto il soggetto dell’opera e quindi si pone il problema della sua identificazione. Se è difficile cercarne le tracce nella collezione Sassi, più agevole è muoversi in quella Cesi, che è meglio documentata. È Ulisse Aldrovandi, il naturalista bolognese autore del testo Delle statue antiche di Roma, compilato nella metà del ‘500, a darci una descrizione della raccolta 16. L’indicazione del colore scuro del marmo ci orienta, nel testo, verso un gruppo ben circoscritto di opere, a partire da «due re cattivi, intieri, vestiti con calzoni a l’antica... di pietra bruniccia», vale a dire le due statue colossali di barbari prigionieri che oggi vediamo, assieme alla Roma trionfante (la cosiddetta Roma Cesi), nel cortile del Palazzo dei Conservatori – opere queste che tuttavia penseremmo acquistate in coppia. Più probabile si tratti di una delle sculture egizie della collezione, di certo provenienti dagli Isei romani, descritte come «un Idolo negro in forma d’una Scimia», «due Crocodili del medesimo marmo» e «due Sfingi di pietra bruniccia» 17. È possibile che l’opera venduta al cardinale sia proprio il citato «idolo negro», che identificheremmo con una statua monumentale in granito bigio rappresentante la dea egizia Sekhmet – con testa di leonessa e non di scimmia, come dice l’Aldrovandi – documentata nella collezione Cesi da un disegno di Maarten Von Heemskerck (1532-1535) ed oggi conservata nella collezione Albani (fig. 2) 18. Ma tornando alla premessa, il dato interessante è che i Sassi vendono la scultura per la difficoltà finanziaria in cui versano a causa delle perdite dovute al Sacco di Roma del 1527: non posseggono più né oro né argento e non sanno come pagare i debiti lasciati dal padre, che supponiamo morto nel tragico evento. Anche il cardinale Cesi aveva sofferto per l’assedio, imprigionato, era stato liberato dietro al pagamento di un riscatto di diecimila scudi. La sua preoccupazione, in tale circostanza, era andata alle antiquae iscriptiones della collezione, visto che i soldati avevano forzato le mura proprio nei pressi del suo giardino 19. Lo stato di difficoltà, che un 16

U. Aldrovandi, Delle statue antiche che per tutta Roma in diversi luoghi et case si veggono in L. Mauro, Le antichità de la città di Roma brevissimamente raccolte da chiunque ne ha scritto o antico o moderno, Venezia 1562, pp. 122-138. 17 Hülsen, Römische Antikengärten, p. 27 (nn. 96-97), p. 32 (nn. 123-124). All’elenco di opere contraddistinte dal colore scuro possiamo aggiungere i «duo leoni di pietra rossiccia» dell’Aldrovandi (ibid., p. 29, nn.106-107) che un’altra fonte contemporanea, il fiammingo Maximilian van Waelscapple, descrive come «Sphinges Aegyptiae duae ex marmore nigro» (ibid., p. 36). 18 Cfr. Forschungen zur Villa Albani. Katalog der Antiken Bildwerke, a cura di P.C. Bol, I-V, Berlin, 1989-1998, IV, n. 548 (tav. 278). 19 A. Ciaconius, Vitae et res gestae Pontificum romanorum et S.R.E. Cardinalium, I-III, 1667, III, p. 402, passo citato da Rausa, La collezione del cardinale Paolo Emilio Cesi, p. 209, n. 37. 421

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Fig. 2 – La dea egizia Sekhmet della collezione Cesi (prima figura a destra), Maarten van Heemskerck (1532-1535), disegno, Berlin, Kupferstichkabinett, 79.D.2, f. 33r

anno prima aveva spinto Maria, rimasta vedova e priva di risorse, a vendere una domus nel Rione Parione, che la furia degli imperiali aveva quasi distrutto 20, avrebbe portato Decidio e Fabio nel 1546 ad alienare, come è noto, altre sculture della raccolta a Ottavio Farnese, fra cui opere di rara bellezza come il l’Apollo citaredo, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ricavandone la cifra considerevole di 1000 scudi d’oro 21. La collezione, messa assieme dai Sassi tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, in un momento di floridezza, ed esibita negli anni come segno di prestigio – un concetto questo ben espresso dallo stemma di famiglia ripetuto in 20

La casa viene venduta da Maria Santacroce, vedova di Matteo Sassi, il 12 febbraio 1530, a Ludovica di Belardino da Castello (ASR, CNC, 1908, cc. 111r-v, 112r-v,113r-v, 114r). Il documento descrive la fabbrica come «devastatam portis fenestris et solariis fere totam dirutam a militibus Cesaris». Non era la domus padronale che risulta documentata anche negli anni successivi (1546) come proprietà Sassi. 21 Il contratto di vendita a Ottavio Farnese, datato 26 giugno 1546, descrive i seguenti pezzi: «Uno hermafrodito di paragone col suo posamento [cioè l’Apollo citaredo], un Marco Aurelio col suo posamento, una statua di porfido col suo posamento, una Sabina di marmo col suo posamento, un quatro di marmo di mezzo rilievo, una testa di Pompeo col busto di marmo, cinque torsi di marmo belli». Cfr. Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 234. 422

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modo quasi ossessivo sulle basi delle statue –, nel capovolgersi della sorte, perde il suo valore simbolico, virtualmente senza prezzo, per riacquistare la sua natura esclusivamente venale, perfettamente stimabile. Il caso discusso ci sembra esemplare per spiegare certe dinamiche del mercato delle antichità, un ambito che in questa fase storica vede confrontarsi soggetti deboli, le famiglie romane di antica tradizione, e soggetti forti, le nuove aristocrazie provinciali, che sfruttano una congiuntura a loro favorevole, una tendenza questa che, come vedremo, connota anche l’ambito del mercato dei suoli. Sui Cesi, illustre famiglia di origine umbra che nel ‘500 trovò fortuna a Roma, e in particolare sul cardinale Paolo Emilio che, come detto, raccolse una importante collezione, ereditata alla sua morte dal fratello Federico (1500-1565), anch’egli cardinale, avremo modo di tornare più avanti. In questo momento ci basti segnalare un altro episodio, che si allinea perfettamente al precedente, confermandone il significato. Si tratta della vendita di una scultura, avvenuta nel 1529, due anni prima del caso precedente, a favore di Iohannes Andree Equitanis de Cesis, canonico di Sant’Eustachio, da parte di Franciscus e Hieronimus de Astallis, figli del defunto Marianus 22. Anche in questo episodio l’acquirente è un esponente della famiglia Cesi e i venditori sono due giovani rappresentanti dell’antica aristocrazia municipale, proprietari di una raccolta antiquaria. L’opera, una statua di marmo alta tre braccia, completa di testa ed arti («quamdam ipsorum venditorum statuam marmoream cum capite brachiis et aliis suis membris et partibus prout in presentiarum reperitam magnitudinis trium brachiorum vel circa»), viene ceduta al canonico – dietro al quale riteniamo si celi il cardinale collezionista – di nuovo per la cifra di 400 ducati. Se volessimo provare a identificarla, in base ai dati disponibili, dovremmo tenere conto dell’altezza (quasi due metri), della sua integrità (fatto molto raro) e dell’alto valore venale. Il pezzo più celebrato della raccolta di Mariano Astalli era una statua di Diana «facta per man di quel che tutto move» secondo la testimonianza del Prospettivo Milanese (1500 ca.), marmo forse coincidente con la femmina bellissima descritta agli inizi del ‘500 in casa di Mariano nella Nota d’anticaglie 23. Sarebbe tentante suggerire che questa è la scultura oggetto del nostro contratto, ma è evidente che al momento non abbiamo elementi probanti in tal senso24. 22

ASR, CNC, 903, cc. 51v-54r (nuova num.). Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 211; Christian, Empire without End, p. 383. 24 L’album di disegni di Pierre Jacques (1572-77) documenta due statue di Diana della collezione Cesi, una lacunosa, ed una integra, che meglio si presterebbe a questa ipotesi. Si veda S. Reinach, L’album de Pierre Jacques, sculpteur de Reims, Paris 1902, tavv. 3, 88b; Hülsen, Römische Antikengärten, pp. 32 (n. 132), 34 (n. 146). Hülsen descrive la Diana 23

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La statua antica è un’opera d’arte che sfugge alle regole del processo della committenza, è oggetto di un mercato non istituzionalizzato 25. Una piazza dagli andamenti imprevedibili, dove nuovi prodotti potevano improvvisamente rendersi disponibili grazie alle scoperte o per motivi contingenti, ad esempio per questioni ereditarie o, come si è visto, per necessità di liquidi. I soggetti coinvolti nel mercato non erano solo i proprietari delle vigne e i collezionisti, ma anche gli scultori, i cavatori, i mercanti d’antichità, i restauratori e i mediatori, una categoria quest’ultima dai contorni fluidi: erano uomini di corte, umanisti, banchieri, artisti, faccendieri che costituivano la chiave di volta dell’intero meccanismo di distribuzione delle opere. Feroce era la concorrenza, l’importante era arrivare prima. Difficile era l’esportazione, per cui si rischiava anche la scomunica, come spiega Antonio della Mirandola in una lettera ad Isabella d’Este, consigliandola di trasportare le antichità sul dorso dei muli che il marito, il marchese Gonzaga, usava per l’invio a Roma di prelibati carpioni, che nessuno avrebbe osato frugare 26. La difficoltà di trovare buone sculture favorì il commercio delle copie e la diffusione dei falsi. Giovanni Ciampolini, uno dei più noti mercanti di antichità dell’epoca, è protagonista di vicende in chiaroscuro. Trovarlo al seguito di alcuni marmorari ingaggiati dai maestri delle strade – come documenta un giudizio del 1484, in cui un sottomastro è accusato della vendita illegale di marmi di proprietà del demanio e Ciampolini ammette di aver acquistato da lui «unum petium magnum marmoris cum litteris antiquis» ed altre cose antiche – non sorprende e dimostra che le vie di acquisizione erano molteplici, lecite e non lecite 27. In tale scenario il possesso di una vigna in un’area interessante diveniva strumento essenziale per eludere le logiche del mercato e attingere direttamente alla fonte. Forse non è un caso se molti artisti investirono liquidità in immobili posti in aree di particolare valore archeologico. Lo scultore Andrea Bregno aveva una proprietà sul Quirinale, dove oggi sono i giardini presidenziali, in un’area compresa tra le vigne dei cardinali, appassionati collezionisti, integra, posta nell’Antiquarium, come una statua di piccole dimensioni, un dato questo che andrebbe forse riconsiderato. 25 Tali dinamiche sono state ben descritte da P. Giudicelli Falguières, La cité fictive. Les collections de cardinaux, à Rome, au XVI e siècle, in Les Carrache et les décors profanes, actes du colloque organisé par l’Ecole française de Rome (Roma, 2-4 ottobre 1986), Roma 1988, pp. 215-333. 26 Lettera datata 21 febbraio 1499, edita in A. Luzio, Isabella d’Este e i Borgia, Milano 1915, p. 44. 27 P.L. Tucci, Laurentius Manlius. La riscoperta dell’antica Roma. La nuova Roma di Sisto IV, Roma 2001, pp. 113-114. 424

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Ippolito Carafa e Domenico Grimani 28; Raffaello possedeva una vigna presso S. Clemente, non lontano da quella dello scultore Lorenzetto, localizzata dalle fonti ai piedi dei SS. Quattro Coronati 29. Ma la vigna più suggestiva era quella di Giulio Romano, all’Esquilino, dove svettava la mole di un antico ninfeo di epoca severiana con due imponenti trofei marmorei, i cosiddetti Trofei di Mario, una proprietà a cui l’artista teneva molto visto che nel testamento redatto nel 1524, prima di partire per Mantova, ne vietò la vendita 30. Il forte legame del proprietario con la terra, un legame speciale dove la proprietà si connota di valenze simboliche, è documentato spesso nei testamenti. Teodoro Gualderoni, notaio del collegio capitolino, aveva una vigna, contigua a quella di Felice de Fredis, dove nel 1518 condusse degli scavi 31. Anch’egli – come tanti rappresentanti dell’élite capitolina – conservava una collezione antiquaria nella sua casa del Rione Colonna. Nelle sue ultime volontà, dettate nel 1551, dispose che la vigna non fosse venduta ad alcuno, soprattutto ai vicini, gli eredi del de Fredis, che in passato aveva denunciato per essersi illecitamente introdotti nella proprietà, rubandogli le chiavi del cancello 32. Gli scavi di antichità tra norme e pratiche L’attività di scavo d’ambito privatistico non sembra trovare limiti in quest’epoca nella legislazione papale, che mirava a tutelare soprattutto gli edifici antichi sopra terra, impedendone la demolizione. Tale norma, che ricalcava l’antica disciplina degli statuti comunali, era stata promulgata da Pio II nella lettera «Quod antiqua aedificia urbis et eius districtus non 28

La vigna sul Quirinale è citata nel testamento dello scultore lombardo. Cfr. S. Maddalo, “Andrea scarpellino” antiquario: lo studio dell’Antico nella bottega di Andrea Bregno, in Roma, centro ideale della cultura dell’Antico nei secoli xv e xvi: da Martino V al Sacco di Roma 1417-1527, a cura di S. Danesi Squarzina, Milano 1989, pp. 229-236. 29 Sulla questione delle due proprietà, per cui si è proposta una identificazione, si veda J. Shearman, Raphael in early modern sources (1483-1602), I-II, New Haven; London: Yale University Press, 2003, I, pp. 489-490. 30 La vigna di tre pezze, con certo edificio rotundo, era stata comprata dal padre di Giulio Romano, Pietro Pippi, il 29 gennaio 1517 per 75 ducati (Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 240). La proprietà in seguito dovette essere ampliata visto che nel testamento dell’artista questa risulta essere di ben otto pezze (ASR, CNC, 1503, c. 42r-v). L’interesse nelle antichità di Giulio Romano è attestato, tra l’altro, dall’acquisto della collezione antiquaria di Giovanni Ciampolini al costo di 180 ducati d’oro (Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 259). 31 Volpe, Parisi, Alla ricerca di una scoperta, p. 94, nota 49. 32 ASR, CNC, 1287, cc. 158r-v, 209r-v; ASR, CNC, 908, terzultimo fascicolo. 425

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diruantur» del 28 aprile 1462, tesa nelle intenzioni del pontefice a mantenere l’«alma Urbe in sua dignitate et splendore» 33. Il sistema delle licenze di scavo, concessione che il testo normativo riconosce come prerogativa esclusiva del pontefice («volumus autem quod nullus praeter Romanum pontificem alicui in praemissis licentiam dare valeat... nisi per bullas vel brevia apostolica...»), lasciando ai conservatori quella di comminare le pene ai trasgressori, in questa fase appare strumento debole e saltuario, applicato non sistematicamente 34. È significativo che nel provvedimento papale non compaiano richiami espliciti alla tutela di beni mobili come statue o rilievi, oggetti che troviamo invece al centro di un divieto di esportazione indirizzato da papa Sisto IV nel 1471 al castellano di Ostia 35. Un progresso in questo senso sarà rappresentato dalla nomina di Raffaello a prefetto degli scavi per la fabbrica di S. Pietro, disposta da papa Leone X il 27 agosto 1515, nomina che comprendeva il compito di vigilare sul taglio indiscriminato delle antiche iscrizioni 36, prassi che (almeno formalmente) veniva condannata anche nello statuto dell’Arte dei marmorai romani 37. Un intervento occasionale quello del papa Medici (di fatto mirato, a nostro avviso, al monopolio dei materiali scavati per la costruzione della nuova basilica piuttosto che a preservare le antichità) che troverà più larga applicazione nel 1534, al termine di una lunga gestazione 33

Concetto ben evidenziato da Vaquero Piñeiro, ‘Ad usanza di cave’, pp. 523-529. Questa è la parte dispositiva del provvedimento di Pio II: «inhibemus ne quis eorum, directe vel indirecte, publice vel occulte, aliquod aedificium publicum antiquum seu aedificii antiquii reliquias supra terram in dicta Urbe vel eius districtu existens, seu existentes, etiam si in eorum praediis rusticis vel urbanis fuerint, demoliri, destruere seu comminuere, aut rumpere seu in calcem convertere» (Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 84). Sulle licenze di scavo: F. Cerasoli, Usi e regolamenti per gli scavi di antichità in Roma nei secoli XV e XVI, in «Studi e documenti di storia e diritto», 18, 1897, pp. 133-149. Si veda anche M. Franceschini, La magistratura capitolina e la tutela delle antichità di Roma nel 16 secolo, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 109, 1986, pp. 141-150. 34 Si vedano i casi di licenze di cava citati da Cerasoli, Usi e regolamenti per gli scavi di antichità, pp. 133-149, che in questa fase sembrano documentare l’eccezionalità della concessione piuttosto che l’esercizio di una prassi consueta. 35 Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 93. Il divieto riguarda l’esportazione di marmi «tam in signis et ymaginibus quam in coliduis atque quacumque forma». 36 Shearman, Raphael in early modern sources, I, pp. 207-208. 37 Le disposizioni statutarie quattrocentesche dell’Arte, riviste a più riprese nel corso del XVI secolo, prescrivevano ai maestri marmorari il rispetto delle antichità: vietavano, ad esempio, di «andare a rompere alcun pezzo de marmoro né per rasone di far calcina o alcuno fondamento[...] a la pena de cinque libre per ciaschuno giorno» (cap. 30) e di «vendere lapide insculpte» (cap. 31). Questa era la teoria, come si sa, lontana dalla pratica. Cfr. A. Kolega, L’archivio dell’Università dei marmorai di Roma (1406-1957), in «Rassegna degli Archivi di Stato», 52, 1992, pp. 509-568, n. 8. 426

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della disciplina di salvaguardia e forse anche di un maturare del comune sentire, quando papa Paolo III elegge commissario delle antichità Latino Giovenale Manetti, uomo colto e di vasta esperienza di amministratore, maturata in curia e in ambito comunale, col compito di sovrintendere alla tutela sia delle antiche fabbriche che dei manufatti come columnae, epitaphia, eulogia, statuae, signa e tabulae 38. Una disciplina di tutela ancora in fieri dunque, fortemente imperfetta, non priva di contraddizioni, nelle cui maglie larghe passa, senza difficoltà, la demolizione di monumenti “iconici”, in ottimo stato di conservazione, come la Meta di Borgo, il mausoleo a piramide sacrificato da Alessandro VI alla costruzione della via Alessandrina in vista del Giubileo del ‘500. Una materia, quella della tutela delle antichità, che si fa terreno di scontro tra le istituzioni: tra l’autorità municipale, istituzionalmente preposta alla loro conservazione, e quella camerale, nella figura dei magistri stratarum, accusati di distruzioni sconsiderate, in evidente contrasto con la norma enunciata; e, ancora, tra la stessa amministrazione capitolina e la classe cardinalizia, supportata dal papa. Tale conflitto si disegna con netti contorni nell’episodio che vede protagonisti il potente porporato milanese Scaramuccia Trivulzio, e il cavatore Franceschino, personaggio controverso, già coinvolto in azioni illecite contro le antichità, che incarcerato per aver spoliato le fondamenta dell’Arco di Noè, nel foro di Nerva, aveva indicato nel cardinale il mandante dell’operazione. La vicenda, terminata con la liberazione del cavatore concessa su ordine del Trivulzio, supportato da un mandato papale, fu stigmatizzata con aspri toni il 19 settembre 1520 dal conservatore Francesco Branca che incitò i romani ad assumere una strenua difesa delle patrie antichità 39. Episodi simili si connotano quindi di più larghi significati, la tutela del monumento si sovrappone alla tutela delle prerogative municipali minacciate dall’ingerenza della corte papale. Una dialettica complessa dunque, trasversale a più piani, punteggiata da episodi di segno contrario. Se da una parte si ricorda il caso di Lorenzo Caffarelli, conservatore all’epoca di Paolo II, che «stracciò et ferì quelli che 38 Lanciani, Storia degli scavi, II, p. 39. Sulla figura del commissario generale alle antichità, inaugurata da Paolo III, si veda R. T. Ridley, To protect the monuments: the papal antiquarian (1534-1870), in «Xenia Antiqua», I, 1992, pp. 117-154. Sulla evoluzione della legislazione dei beni culturali nello Stato Pontificio: M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati preunitari. L’età delle riforme, Milano 1988, p. 13 ss. 39 Lanciani, Storia degli scavi, I, pp. 256-257. Il cardinale Trivulzio risulta in altro modo legato allo sfruttamento di cave: aveva infatti una lapidicina di pietre, evidentemente tufacee, presso Castel Giubileo, sulla via Salaria, locata dal capitolo di S. Pietro, per la quale pagava un canone annuo di 60 ducati. Cfr. Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 264.

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cavavano li travertini delli fondamenti del Culiseo»40, dall’altra abbiamo papa Giulio II che, come si legge nel breve indirizzato a Felice de Fredis per il conferimento del premio di rinvenimento del Laocoonte (23 marzo 1506), non solo non demonizza l’attività di scavo ma addirittura la incoraggia: «E perché non sembrasse né che tu avessi faticato invano e che avessi rinunciato al rimborso delle spese, né che i posteri si astenessero dal ricercare opere di tal fatta, perché ti fosse retribuito un favore pari al tuo servigio e per incoraggiare i posteri a queste fatiche e spese con premi adeguati...»41. In questo scenario, dove la teoria è lontana dalla pratica, dove le procedure non sono strutturate e coerenti e la prospettiva di alti guadagni è concreta, non sorprende che l’attività di scavo del privato trovasse largo campo di azione. Gli accordi di scavo rogati dai notai al principio del ‘500 non contengono nel testo riferimenti a concessione di licenze e sembrano riposare su un assodato principio di legittimità, che era fondato, come vedremo, su una coerente base giuridica. Nello spoglio di tale materiale, abbiamo individuato un unico episodio in cui si profila l’ombra dell’illecito: è il caso dell’accordo sottoscritto il 3 giugno 1506 tra Salvato de Puoco aromatario e magistro Venturino alias bresciano muratore per lo scavo di pietre di marmo e travertino e altri beni sotto la domus del primo: ebbene, tutto sembra in regola, eppure nel contratto Salvato include la clausola che sarà lui a pagare i danni nel caso Venturino o i suoi garzoni siano impediti o carcerati propter dictam cavam 42. Ma il richiamo ad una pena rappresenta una eccezione nel panorama della documentazione a noi nota e ci pone di fronte a una questione di una apparente incongruenza. È possibile – volendo trovare una spiegazione – che lo scavo sotto la casa di Salvato rischiasse di andare a intaccare un’area di interesse pubblico. Un dato certo infatti, in questo contesto ambiguo e discontinuo, è che un limite allo scavo condotto dai privati erano le aree demaniali, sottoposte al regime del fisco. Questione che fu, come è immaginabile, al centro di diversi conflitti: pensiamo al caso dei canonici di S. Nicola in Carcere accusati dai maestri delle strade di compiere scavi in un’area ritenuta di pertinenza demaniale, dove 40 Lanciani, 41

Storia degli scavi, I, p. 132. Traduzione tratta da Settis, Laocoonte, pp. 112-113. Il passo nella versione originale è come segue: «ne tamen vel in frustra laborasse vel impensas abiecisse videaris vel posteri ab indagandis huiusmodi imaginibus retraherentur, ut tuo parem officio gratiam retribueret et posteros collatis rate premiis ad hos labores atque impensas animaret» (AAV, Camera Apostolica, Diversa Cameralia, 57, cc. 235v-236v). 42 ASR, 30 not. cap., uff. 4, 8, cc. 273r-v, 274r. Evidenziamo che il cavatore, Venturinus Iacobini de Brixia, possedeva una vigna in Merolana, in un’area di grande interesse archeologico: cfr. ASR, CNC, 644, c. 204 (15 gennaio 1512) e ASR, CNC, 62, c. 83 (23 novembre 1516). 428

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tuttavia avevano già scavato in passato. Il camerlengo intervenne il 6 gennaio 1506, diffidando i maestri dal molestare i religiosi, pena la scomunica43. Riteniamo che lo studio dell’attività edilizia e di scavo promossa dall’amministrazione camerale, che esula dai fini di questo scritto, potrebbe aprire nuove piste di ricerca per la storia del collezionismo antiquario. È il caso di ricordare, a tale proposito, l’illuminante osservazione di Lanciani in relazione alle opere di rifacimento delle strade extraurbane, operazioni in cui si consentiva agli ufficiali la distruzione dei sepolcri antichi lungo le vie per procurarsi i materiali per i risarcimenti: ebbene, tali restauri avvenivano negli anni precedenti ai giubilei cosicché le scoperte di epigrafi abbondavano ogni quarto di secolo 44. Immaginiamo che chi sovraintendeva ai lavori urbanistici, curando opere come il tracciamento di un condotto fognario o una nuova strada, doveva sovente incappare in marmi preziosi e più facilmente avere occasione di entrarne in possesso, supponiamo anche a titolo di compenso. Riconosciamo le tracce di queste dinamiche in alcuni episodi narrati dalle fonti letterarie: pensiamo alla testimonianza di Flaminio Vacca che vide in casa di Prospero Boccapaduli, già maestro delle strade, alcuni rilievi figurati con «Traiano a cavallo» e dei «prigioni simili a quelli che sono sull’Arco di Costantino», marmi che erano stati trovati a Spolia Christi, presso il Foro traianeo, nel corso dei lavori di apertura delle vie Alessandrina e Bonella, svolti proprio sotto la sua direzione (15671570) 45. O, ancora, è utile citare il caso di Mario Maccaroni, uno dei protagonisti delle imprese edilizie di papa Paolo III: nella sua casa di Macel de’ Corvi, descritta da Aldrovandi, aveva una collezione comprendente una statua equestre e altre antichità provenienti dalle Terme di Caracalla, sito dove aveva personalmente condotto la grande campagna di scavi inaugurata da papa Farnese nel 1546 che portò alla scoperta di opere 43

Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 185. Ibid., I, p. 181. 45 Vacca, Memorie di varie antichità, 9: «Mi ricordo intorno alla Colonna Traiana dalla banda dove si dice Spolia Cristo, essersi cavate le vestigie d’un arco trionfale con molti pezzi d’istorie, quali sono in casa del sig. Prospero Boccapadullo, a quel tempo maestro di strade» (citato da Lanciani, IV, p. 29). I marmi - identificati dalla critica con un rilievo di Villa Medici ed altri reperti conservati al Louvre - erano stati rinvenuti durante i lavori di riqualificazione della contrada del Pantano, commissionati da papa Pio V e dal nipote cardinale Michele Bonelli: in questa occasione furono tracciate la via Alessandrina, che dal Foro di Traiano arrivava fino al tempio della Pace, e la via Bonella, che collegava il nuovo asse con via Baccina attraverso l’arco del Pantano. Il tessuto urbanistico dell’area è stato cancellato dai lavori per la costruzione della via dell’Impero negli anni ’30 del ‘900. Cfr. M. Milella, I ritrovamenti, in AA.VV., Foro Traiano. Contributi per una ricostruzione storica ed architettonica, in «Archeologia Classica», 41, 1989, pp. 55-100 (p. 58). 44

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scultoree magnificenti (tra queste l’Ercole Farnese), oggi conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli 46. E rimanendo in questa zona d’ombra, dove l’interesse pubblico sconfina nell’interesse privato, aggiungiamo un’altra classe di ufficiali che sospettiamo godere di particolari favoritismi: i procuratori fiscali. Il ruolo che li vedeva difendere in giudizio gli interessi della Camera apostolica, li poneva infatti in una condizione di vantaggio, come destinatari di speciali regalie. È quanto avvenne, ad esempio, a Benedetto Valenti, che tenne la carica con grande successo sotto i papi Clemente VII e Paolo III: a Trevi, suo paese natio, il procuratore amante della classicità (chiamò i figli Romulus e Remulus), possedeva una raccolta di antichità di provenienza urbana, con epigrafi e sculture, di cui una parte, per sua stessa ammissione, proveniva «ex amicorum munificentia»47. Se consideriamo che la Camera apostolica gli aveva donato un quadro, attribuito dalle fonti a Sebastiano del Piombo, frutto di una confisca dei beni seguita a un processo per omicidio, comprendiamo su quali canali si potessero muovere questi oggetti d’arte così ambiti dalle élites48. Tornando agli scavi di ambito privato, va evidenziato che dal punto di vista giuridico del ritrovamento, assimilato nella fattispecie della inventio thesauri, vigeva il principio, ereditato dalla giurisprudenza romana, che l’inventore del tesoro ne acquistava integralmente la proprietà se lo aveva 46

Aldrovandi, Delle statue antiche, pp. 266-268 (in Lanciani, Storia degli scavi, II, p. 215): «Nel cortiglio è un cauallo guarnito con coverta, redini, pettorali, e simili cose: non ha testa; e mostra che havesse uno huomo sopra, perche vi appaiono le gambe del cavalcante. Fu ritrovato à le Therme Antoniane [...]. Vi è una testa col busto quasi di tutto rileuo di Antonino Caracalla: era intiera statua, ma cavandosi nelle Therme Antoniane, fu rotta, e guasta [...]. Una testa del Sole di mezzo rilevo con li raggi ritrovato à le Antoniane». Una larga attività del Maccaroni è documentata dalla licenza di condurre scavi «in quibuscumque alme Urbis et illius districtus publicis subterraneis locis» (6 novembre 1546) concessagli per il recupero dei materiali da destinare alla costruzione di Palazzo Farnese (Cerasoli, Usi e regolamenti per gli scavi, doc. IV, pp. 142-143). 47 La collezione, tuttora conservata, è descritta da Francesco Alighieri nel volumetto Antiquitates Valentinae stampato a Roma apud Antonium Bladum nel 1537. Cfr. C. Franzoni, Francesco Alighieri, Benedetto Valenti e le Antiquitates Valentinae, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 19, 2, 1989, pp. 877-891; Francesco Alighieri, Antiquitates Valentinae, a cura di C. Franzoni, Modena 1991. 48 È lo stesso procuratore a ricordare l’episodio in una sua memoria: «La reverenda Camera apostolica del dicto anno 1531, essendo stata justitiata una donna che teniva camera locanda in Borgo, per havere admazato uno in casa sua et publicati tucti soi beni, me donò uno callidissima cona in tavola, la quale ò determinato mandarla ad S. Maria delle Lacrime de Trevij, in la mia altare novamente facta in dicta ecclesia». Cfr. T. Valenti, La chiesa monumentale della Madonna delle lagrime, Roma 1928, pp. 231-238. 430

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trovato nel proprio fondo 49. Regola che nella prassi poteva essere disattesa nei casi di opere di particolare pregio, laddove, come abbiamo visto nella vicenda del Laocoonte, il principio d’autorità annullava ogni diritto del singolo. In linea generale tuttavia il possesso del suolo garantiva il possesso dei reperti. Un contratto di affitto metteva a rischio tale simmetria, per questo il proprietario si garantiva con speciali clausole, nel caso in cui presupponeva l’eventualità di scoperte nel suolo locato. Marco Antonio de Mutis il 30 novembre 1538 affitta a vita a Cosma del Bosco “lotaringio” la sua vigna di sei pezze posta sulla strada tra S. Maria Maggiore e S. Giovanni in Laterano, all’incrocio con la via che porta al Colosseo, con precise disposizioni circa la spartizione di antichità eventualmente rinvenute, in particolare di «lapidum aptorum ad scarpellum seu figure» 50. C’era poi chi si garantiva certi diritti sulla proprietà anche dopo averla ceduta. Lucrezia de Signorili il 28 novembre 1505, ad esempio, vende una vigna presso Capo le Case, con la clausola che le pietre «aptae ad murandum» presenti sul suolo rimangano di sua pertinenza, impegnandosi ad asportarle entro tre mesi 51. Una condizione ancora più stringente è quella imposta in un contratto da Giulio Alberini che il 26 novembre 1516 vende una vigna presso il Colosseo a patto che gli sia consentito di effettuarci scavi per un anno, riservandosi il piombo e lasciando all’acquirente del suolo il marmo e il travertino 52. Scelta non casuale, visto che il piombo era molto redditizio: ne è una prova il caso di Sigismonda, moglie di Pietro Paolo pescivendolo, che il 21 aprile del 1515, cede a Bartolomeo della Valle un 49

A.D. Manfredini, Antichità archeologiche e tesori nella storia del diritto, Torino 2018, pp. 15-36. Come spiega bene l’autore, il thesaurus è descritto dai giuristi romani di III secolo d.C. come «un vecchio deposito di danaro di cui non esiste memoria, e quindi non ha un proprietario, e così ciò che non è di un altro diventa del rinvenitore», un concetto questo destinato ad ampliarsi nel Codice Teodosiano (380 d.C.) con l’aggiunta dei monilia nella definizione dell’oggetto. Fu l’imperatore Adriano (117-138 d.C.) a riformare la norma in materia di rinvenimenti, precedentemente più favorevole al fisco, stabilendo che chi trovava dei tesori in un fondo di sua proprietà acquisiva di diritto quei beni e che invece chi li trovava, fortuitamente e non cercandoli, nel suolo d’altri doveva concederne metà al proprietario. Il testo normativo adrianeo, che conosciamo perché ripreso dalle Istituzioni di Giustiniano, prevedeva anche che al privato spettasse metà di quanto trovato in luogo pubblico o fiscale. 50 ASR, CNC, 96, c. 379v. Cosma del Bosco «lorenese» è citato da Lanciani (Storia degli scavi, I, p. 270) in quanto venditore di «una domus magna in regione Columne prope plateam S. Mauti» a Baldassarre dei Turini di Pescia, alto esponente della corte pontificia, noto alla storia dell’arte come committente di Giulio Romano per la realizzazione di Villa Lante al Gianicolo. 51 ASR, CNC, 929, cc. 405r-v, 406r-v, 409r-v, 410r. 52 ASR, CNC, 58, c. 22r. 431

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condotto di piombo trovato in una vigna presso l’acquedotto Claudio al Laterano per il prezzo non trascurabile di 200 ducati d’oro 53. Lo spoglio dei protocolli notarili permette di individuare clausole di sicurezza sul destino dei reperti anche nei contratti di enfiteusi di enti religiosi, una pratica questa attestata già in epoca alta: il monastero di S. Prassede il 22 giugno 1383, cedendo in locazione perpetua a Andrea di Meolo sette pezze di terra con vigneto, vasche, tini e una torre situati fuori dalla porta Domine in località Septe Tabole – una zona ricca di antichità a un miglio da Porta Nomentana – al prezzo di un fiorino d’oro all’anno, con lo scopo di rendere fruttuoso un suolo a lungo rimasto incolto, si riserva la quarta parte dei beni preziosi rinvenuti, oro, argento, piombo, metallo, ferro o gemme, con la precisazione che le lastre di marmo o travertino scavate non potranno essere rimosse senza uno speciale permesso del capitolo54. Le condizioni di spartizione nei documenti cambiano col mutare del proprietario: i frati di S. Maria sopra Minerva, ad esempio, nel locare in enfiteusi il 14 aprile 1514 una «domus terrinea solarata et tegulata cum sala camera et aliis membris in regione Columna» al prezzo di 7 ducati annui, impongono al magister Sanctus q. Lupi de Placentia, un sarto del Rione Colonna, di costruire a sue spese un pozzo e una cantina, con il patto che a lui vadano i reperti di valore inferiore a un ducato, e che invece sia equamente spartito quanto superi il ducato, dividendo a metà le spese di scavo55. «In Urbe tot erant statuae in publicis locis et privatis quot cives»: così Francesco Albertini, usando le parole di una consumata iperbole, dava conto nella sua guida alle meraviglie di Roma dell’alto numero di opere scultoree presenti nella città antica 56. Una copiosa eredità da cui 53

ASR, CNC, 1121, c. 19r-v. Citato da Lanciani (Storia degli scavi, I, p. 216) che identifica la vigna pertinente ai Della Valle con il sito della Villa Giustiniani Lancellotti, tra via Emanuele Filiberto e via Merulana. 54 Cfr. R. Mosti, Un notaio romano del Trecento. I protocolli di Francesco di Stefano de Caputgallis (1374-1386), Roma 1994, pp. 523-525. 55 ASR, CNC, 1831, cc. 183r-v, 186r-v. Aggiungiamo, ai casi menzionati, quello di Giovanni Lunel, abate di S. Sebastiano, che il 30 novembre 1521 loca a Ludovica de Senis, in nome del padre Pietro Paolo, certi terreni sul vicolo che da Domine quo vadis conduce alla Caffarella con l’accordo che nei successivi tre anni debba «scapsare et scapsari facere et ad optimas vineas et culturam reducere et dare medietatem omnium monetarum vasorum et figurarum cuiuscumque generis metalli [...] ac lapidum marmoreorum tiburtinorum et peperinorum in effossione illarum fortasse reperiendorum», dividendo a metà le spese di scavo (Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 266-267). Lo stesso abate il 2 marzo 1527 prende in affitto per tre anni la vigna della vedova di Felice de Fredis, Girolama Branca, la medesima dove era stato rinvenuto il Laocoonte – in questo caso, significativamente, nel contratto non si accenna a antichità. Cfr. Volpe, Parisi, Alla ricerca di una scoperta, p. 108. 56 Albertini, Opusculum de mirabilibus, c. 56r. 432

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i moderni traevano vantaggio nel quotidiano affaccendarsi nei campi o negli scavi dei cantieri urbani. I rinvenimenti dovevano essere all’ordine del giorno. I disegni dei cortili dei palazzi signorili delineati dagli artisti del Rinascimento mostrano un affastellamento dei pezzi, una esibizione dove la quantità sembra contare quanto la qualità: sono immagini di primo ‘500 che ricordano quelle di secondo ‘800, quando gli sbancamenti per la costruzione dei nuovi quartieri di Roma capitale portavano alla luce marmi copiosi che, in tutta fretta e in ordine sparso, venivano accatastati nei depositi (figg. 3-4). Il segno dell’ordinarietà delle scoperte emerge, seppur sporadico, anche nelle carte dei notai. Nell’inventario, redatto nel 1584, della collezione che era stata del cardinale Andrea della Valle, conservata nel palazzo di famiglia sulla via Papalis, leggiamo che “un torzo d’africano di palmi 5” e “un capitello di Corinto di palmi 3” sono depositati in un pollaio 57. Una nota che regala allo studioso una rara istantanea di ordinaria realtà, simile a quella che restituisce l’inventario di Francesco Porcari, annesso al suo testamento del 27 gennaio 1482 58. Il nobile romano, che nel suo studio ospitava tredici teste di marmo e cinque sculture, fra integre e frammentarie, in una rimessa aveva «unam zappam pro vinea, item zappitellas pro grano XXI» e «multas fracturas epithaphiorum marmoreorum». Frammenti di epitaffi giacciono in un magazzino assieme agli attrezzi dei campi, che immaginiamo ancora sporchi di terra: caso emblematico di quale varietà di raccolto riservasse il suolo romano. Le antichità potevano venire alla luce per caso, durante i lavori per lo scasso di una vigna o per la costruzione di una casa, di una fogna, di un pozzo o di una cantina. Poteva capitare che lo scavo per una latrina portasse alla luce la base di un obelisco 59 o che il rifacimento di una vasca del vino facesse emergere una scultura colossale. Questo accadde, secondo il racconto di Flaminio Vacca, nella vigna Ronconi sul Palatino «dove essendosi crepata la vasca del vino, ed il detto Ronconi facendo levare il lastrico vecchio di detta vasca per rifarvi il nuovo, si scoprì un Ercole compagno di 57

Documento citato da K.W. Christian, Instauratio and Pietas. The della Valle Collections of Ancient Sculpture, in Collepting sculpture in Early Modern Europe (Studies in the History of Art 70, CASVA Symposium Papers XLVII), a cura di N. Penny, E. Schmidt, National Gallery of Art, Washington, New Haven and London 2008, p. 61, n. 79. 58 ASR, CNC, 1738, cc. 95r-99r. A. Modigliani, I Porcari: Storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1994, pp. 116-124. Sulla collezione Porcari: Christian, Empire without End, pp. 354-358. 59 È questo il caso della base iscritta della meridiana di Augusto rinvenuta da un barbiere nel suo orto in Campo Marzio all’epoca di Giulio II, resti che peraltro erano stati già visti dai vicini «conficiendis cellis vinariis». Cfr. Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 178. 433

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Fig. 3 – Collezione antiquaria di Valerio Santacroce, Maarten van Heemskerck (1532-1535), disegno, Berlin, Kupferstichkabinett, 79.D.2, f. 29v

Fig. 4 – Sculture rinvenute durante la costruzione dei nuovi quartieri di Roma capitale, Palazzo Senatorio, Parker 3211 (1874)

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quelli del cortile Farnese» 60. Simili circostanze, che portavano a guadagni non preventivati – l’Ercole fu venduto al granduca Cosimo de’ Medici per ottocento scudi e oggi si trova a Palazzo Pitti, nel cortile dell’Ammannati – emergono dalla letteratura come dagli archivi: il caso citato ci riporta alla mente, per associazione, quello a noi noto di Hieronimus Castronus, mercante palermitano, subditus et vassallus serenissimi regis Hispanie, abitante in Parione, proprietario di una vigna confinante con i muri «palatii Antignani», vale a dire le antiche fabbriche delle Terme di Caracalla. Il 5 agosto 1506 sottoscrisse un accordo con tre muratori fiorentini per il rifacimento di una vasca per il vino e la realizzazione di uno stazzo 61. Il profitto in questo caso non andò al proprietario del suolo, ma agli operai che aggiunsero nel patto, tra le condizioni, la facoltà di cavare nella vigna a loro spese le pietre di muri antichi e pozzolana, senza l’obbligo di defalcarne il valore dal compenso finale del lavoro («capere quantum velint de lapidibus anticaliarum existentibus subtus vineam dicti domini Ieronimi absque aliqua solutione seu defalgatione fienda sed illas et illam effodere eorum expensis»). Castronus è dipinto dalle carte come un imprenditore versatile, titolare a Roma di diritti su un mulino del Tevere, aveva interessi economici anche in Sicilia, dove deteneva un «locum magnum dictum La Sabute cum turribus et domibus in territorio civitatis Panormi» e la gabella sulla «scannatura» del macello di Palermo, così come in Spagna, luogo per cui partì nel 1502 «pro certis suis negotiis peragendis». Il riflesso di questa vocazione agli affari lo ritroviamo anche sul piano degli investimenti immobiliari: nel 1512 il palermitano acquista un’altra vigna, vicino a S. Maria Maggiore, presso l’arco di S. Vito, di nuovo in un’area ad alta densità di ritrovamenti, non lontano da quella del Laocoonte, che rimase monopolio di soggetti spagnoli per decenni 62. Su questa porzione di territorio, densa di antichità come di spunti di riflessione, ritorneremo più tardi. 60

La vigna Ronconi sul Palatino, situata nello stadio del complesso della Domus Flavia, rimasta patrimonio di famiglia dal XVI al XIX secolo, fu sottoposta nel ‘500 a scavi consistenti: cfr. Lanciani, Storia degli scavi, II, pp. 51-52. 61 L’accordo è in ASR, CNC, 267, c. 188 r. La vigna all’Antignano fu rivenduta dal Castronus nel 1514 (ASR, CNC, 1094, cc. 131v-132r). 62 Il contratto di acquisto del suolo presso l’Arco di S. Vito da parte del Castronus è in ASR, CNC, 1094, c. 105r-v. La vigna nel 1509 risulta essere di Iohannes Franciscus florentinus, nel 1511 di magister Iohannes hispanus librarius, nel 1512 del nostro Castronus, nel 1527 di Iohannes Cordellas, protonotario e vescovo spagnolo (Archivio di S. Pietro in Vincoli [d’ora in poi ASPV], M6, Catasto A, c. 7v; ASPV, M 1007, Catasto C, c. 79v). Il suolo rimase dei Cordellas fino al 1565 quando è documentata la vendita da parte di Michele Cordella a Petro Donato de Cesis di «una vinea cum duabus domibus intus ea et aliam domum ad usum hospitii extra dictam vineam contiguam et adherentem arcui infrascripto S.ti Viti [...] in 435

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Un’altra tipologia di rinvenimenti – che qui più ci interessa – si realizzava nel contesto di imprese di scavo. Lanciani ha raccolto una ampia casistica di accordi ad fodiendum, sottoscritti dai proprietari di vigne con cavatori, muratori, scalpellini. Le condizioni dei contratti spesso variano, nei tempi e nelle modalità. Senza soffermarci sui singoli casi, va detto che una distinzione di massima va fatta tra le operazioni di portata modesta, che si risolvono nel giro di pochi mesi, spesso nate da scoperte fortuite, e quelle riconducibili a vere e proprie imprese imprenditoriali a lungo termine. Rientra nella seconda categoria quella documentata dalla società contratta da Hieronimus de Rubeis con Adriana de Saladinis, il 17 marzo 1522 «super lapidicina et petraria pro lapidibus extrahendis... et omne genere lapidum figuratorum et non figuratorum ac etiam omne genere metallorum», che ha una durata di 29 anni, un tempo così dilatato da assicurare ad entrambi una rendita certa e continua. L’accordo, che definisce i minimi dettagli dell’operazione, come le dimensioni della cava da affidare al giudizio di periti, le spese nel caso di crolli, il computo mensile di spese e crediti, la prosecuzione anche nel caso di alienazione del suolo, riguarda due proprietà contigue sull’Aventino, confinanti con la vigna Santacroce, che presumiamo occupate da consistenti resti di antichità visto l’orizzonte temporale quasi trentennale del progetto 63. Leggendo i patti stilati dai notai viene da chiedersi in quale misura le cave incidessero sulle aree coltivate: indicazioni in tal senso compaiono nei contratti dove si prescrive di rispettare le viti nuove, concentrando i lavori su quelle vecchie, o di scavare nell’area corrispondente allo stazzo64. Più in generale le due forme di sfruttamento del suolo appaiono coesistere (fig. 5), fatta esclusione per quei contesti in cui si parla esplicitamente di sodi, da lungo tempo privi di coltivazioni, un dato questo che potrebbe essere la spia di uno sfruttamento largamente intensivo del sottosuolo. Una circostanza questa che ci sembra di riconoscere in un atto intestato ai padri di S. Anastasia che, il 14 ottobre 1501, concedono in enfiteusi a Gabriele Roscio un terreno incolto di due pezze, posto dietro alla chiesa – una zona loco qui d.r l’arco di S. Vito» (ASR, CNC, 1516, c. 113r-v ss.). Per dettagli sul mercante palermitano si veda ASR, CNC, 929, c. 214r-v (16 aprile 1502). 63 Archivio Storico Capitolino (d’ora in poi ASC), Notai, sez. I, 901, sub data. Si noti che Lanciani riporta un contratto simile sottoscritto dai medesimi soggetti il 15 maggio 1510 relativo a una cava di fronte a S. Matteo in Merulana, di cui non abbiamo trovato riscontro: Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 194. 64 Per lo scavo «in vinea veteri et antiqua [...] reservato pastinarium vinea nova» si veda il contratto di Pietro Valterini, proprietario di un suolo alle Sette Sale del 9 ottobre 1526, riportato da Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 280, su cui ritorneremo. La precisazione sullo stazzo è nel contratto sottoscritto da Teodoro Gualderoni per uno scavo nella sua vigna, sempre alle Sette Sale (vedi supra). 436

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Fig. 5 – Lavori nei campi sullo sfondo del cosiddetto tempio di Minerva Medica, Gioacchino Altobelli (1866 ca.), Archivio Fotografico Comunale, Museo di Roma

alle radici del Palatino dove è documentata una larga attività di scavo –, già locato a Iacobo Chiarelli, «cum certis griptis ac certis casarenis partim chopertis partim dischopertis», includendo la clausola che debba reintrodurre la coltivazione a vigna 65. Particolare è il caso degli scavi condotti attraverso vere e proprie gallerie armate, ben documentati sul Colle Oppio, destinate, oltre che al recupero di materiali da reimpiego, alla esplorazione dei vani splendidamente affrescati della Domus Aurea 66. Gli accordi spesso prevedono, terminata l’attività di scavo, la rimessa in sesto del terreno, con opere di livellamento, ma non contemplano clausole per la sicurezza degli scavatori, seppur gli infortuni non dovevano mancare come si apprende dal racconto di Paolo dello Mastro sull’incidente occorso il 10 novembre 1463 a Pietro Paolo Cortese, «famosissimo nel mestiere de marmi, e morì che li cascò sopra una ruina de terra, quando stava nella sua vigna de fronte a Terme, che faceva cavare sotto terra travertini, e esso era andato a vederci»67. 65

ASR, CNC, 1253, cc. 54r-56r. C. Termini, Visitatori e cercatori rinascimentali sul Colle Oppio, in «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», 111, 2010, pp. 353-362.  67 Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 85. 66

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Negli accordi è fondamentale la sezione riservata alle modalità di spartizione dei reperti, cui abbiamo già accennato parlando dei contratti di affitto dei suoli. In genere il proprietario si riserva la parte più preziosa, tutto l’oro e l’argento e i due terzi delle sculture, mentre i materiali da costruzione vengono lasciati allo scavatore oppure divisi a metà. Questo atto che presentiamo, non noto al Lanciani, è un atto di «cessio iurium figure marmoree», rogato il 1° novembre 1512 nell’ambito di una società di scavo (Appendice, Doc. 2) 68. L’aspetto curioso è che il documento viene sottoscritto mentre i lavori sono in corso, con una parte del reperto ancora da riportare alla luce: non sorprende che nel testo si taccia la collocazione della vigna e che il nome del proprietario sia parziale, un espediente evidentemente teso ad evitare il rischio di furti 69. La scultura, scolpita in un marmo alabastrino, descritta come «quidam equus a parte anteriore et a parte posteriore piscis super quo equo est quedam mulier cum vestimento», è identificabile con una figura di Nereide su ippocampo. Uno degli scavatori, magister Iacobus de Monte Ferrato, rinuncia alla sua parte dell’opera, del valore pari a 50 ducati, che cede a Iohannes de Pinis, per saldare un debito che ha contratto con lui per l’acquisto di una vigna. Si può calcolare il valore totale dell’opera rinvenuta nella cava (due quarti per il proprietario, il resto ai due cavatori), che corrispondeva a 200 ducati: l’operazione doveva essere andata a buon fine e ognuno ne aveva tratto profitto nella misura concordata. Diversamente andarono le cose per Marcus Malamerenda e Bartholomeus alias Pisano de Regione Pinee, soci in un’altra compagnia di scavo, che nel 1508 per trovare l’accordo ricorsero a un arbitrato 70. Non ci soffermiamo sui dettagli della controversia, al cui centro era la spartizione dei profitti, ma evidenziamo solo alcuni dati utili 68

ASR, CNC, 895, c. 191r-v. È stato possibile localizzare la vigna, che si trovava fuori porta S. Agnese in località la villa de Acqua Tuza, grazie alla identificazione dell’atto di possessione del bene rogato a favore di Bernardinus de Pedemontium ferrarius il 4 gennaio 1512 (ASR, CNC, 895, cc. 76r-v). Il toponimo Acqua Tuza, attestato già nel Liber Pontificalis, è riferibile all’area situata tra la via Nomentana e la via Tiburtina, all’altezza del primo miglio. Coincide con il toponimo Sette Tavole, come si desume da un atto del 1222 del Tabularium di S. Prassede («extra portam Nomentanam in contrada que vocatur Aquam Tuziam sive Sectem Tabulas»): cfr. D. De Francesco, Chiesa romana e proprietà fondiaria nel suburbio tra il IV secolo e l’età gregoriana, in Suburbium. Il Suburbio di Roma dalla crisi del sistema delle ville a Gregorio Magno a cura di P. Pergola, R. Santangeli Valenzani, R.Volpe, Collection de l’École Française de Rome, Roma: École Française de Rome, 2003, pp. 515-543 (pp. 521-522, nn. 28-35). Inutile dire che l’area, dove già a fine ‘300 sono documentati rinvenimenti, come nel caso sopracitato della vigna di S. Prassede, era ricca di sopravvivenze archeologiche. 70 ASR, CNC, 133, c. 251r-v (15 luglio 1508). 69

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alla conoscenza delle pratiche in uso: coinvolto nell’impresa è il cardinale Raffaele Riario, riteniamo nel suo ruolo di camerlengo, cui spetta un terzo delle pietre in travertino estratte; i due cavatori, oltre che le «pietre, colonne o figure de qualunche spetie», si spartiscono i legnami serviti per lo scavo; al centro del contendere sono due cave contigue, comprendenti una casa comprata dal Pisano, che è – dato interessante – anch’essa oggetto di spoliazione. Uno degli aspetti che più colpisce nei patti delle imprese di scavo è la presenza, tra i promotori, di donne, spesso in condizione di vedovanza, e di enti religiosi, come bene documenta un libro della contabilità del convento dei SS. Silvestro e Martino ai Monti oggetto di un nostro sondaggio 71: le carte registrano nel periodo 1545-1550, insieme ai censi di case e terreni, gli utili prodotti dalla vendita di travertino e di varie antichità estratti da una cava nella vigna dei frati, tra cui spiccano busti di marmo e statue di bronzo ceduti, anche grazie alla mediazione di Antonio antiquario 72, noto mercante di antichità, al cardinale Rodolfo Pio da Carpi, proprietario di una delle più importanti collezioni dell’epoca, raccolta nel palazzo di Campo Marzio e nella sua vigna sul Quirinale – situata nell’area dove poi sarebbe sorto Palazzo Barberini (Appendice Doc. 3) 73. Alla luce di questa notizia, possiamo lanciare l’ipotesi che proprio nel corso di questa campagna di scavi sia stata rinvenuta la celebre testa in basalto di Euripide, con iscrizione greca incisa alla base del collo, documentata nella collezione Carpi, passata nel 1572 al duca Alfonso d’Este ed oggi conservata alla Galleria Estense di Modena: idea suggerita dalla tavola V della rassegna di uomini illustri di Achille Stazio (1569) che raffigura la testa del poeta 71

ASR, Corporazioni religiose soppresse, Carmelitani calzati in SS. Martino e Silvestro ai Monti, 312, Entrate ed Uscite 1543-1559. 72 Antonio Conteschi o Antonietto delle medaglie, uno dei più affermati scavatori e commercianti di antichità della metà del ‘500, fornitore tra gli altri del cardinale Ippolito d’Este, effettua scavi a più riprese nell’area delle Terme di Traiano. Lanciani, che gli dedica una scheda (Storia degli scavi, III, pp. 277-278), riporta il testo dell’iscrizione che l’antiquario fece dipingere sulla facciata della sua casa alle Milizie: «Antonius antiquarius, publicae utilitatis potiusque sui rationem habens eximiorum artificum opera, quae nimia vetustate exesa, aedificiorumque ruina sepulta, ac variis urbis calamitatibus confracta et disiecta pene interierant ingenti labore effossis et collectis, ad superiorem temporum gloriam, nostrorumque admirationem et imitationem instaurandis, pro rerum maximarum augustia fecit, anno Xti nati 1546». È evidente l’intento retorico del testo, dove l’attività di scavo è iscritta tra le opere tese alla pubblica utilità piuttosto che al profitto personale. In questo caso ci troviamo al cospetto di una figura di cavatore socialmente evoluta e professionalmente definita, molto diversa da quella, ancora allo stato embrionale, documentata a Roma tra fine ‘400 e inizi ‘500. 73 Lanciani, Storia degli scavi ,III, pp. 194-200; Hülsen, Römische Antikengärten, pp. 43-84. 439

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con la nota «Apud Rodulfum Pium card. carpensem e thermarum Titi ruinis ut ferunt erutum» (fig. 6) 74. Quanto alle donne impegnate in questo settore, ricordiamo, il nome di Lucretia de Vanolis perugina che affida nel 1522 una vinea petrarum sotto Trinità dei Monti a Bernardino da Como per un tempo di 10 anni a 24 ducati l’anno, col compito di lavorarla e la licenza di condurre scavi 75. La proprietaria del suolo si riserva l’oro, l’argento e le gioie e, caso raramente attestato, pone la condizione di essere presente alle operazioni di scasso. Un’altra imprenditrice è Camilla Alberini, vedova di Antonio de Mantaco, morto nel Sacco, che, forse in difficoltà economica, sfruttò il sottosuolo di una vigna presso S. Teodoro, Fig. 6 – Busto di Euripide del cardinale Rodolfo di Carpi «e thermarum Titi... erutum», incialle pendici del Palatino – opera da Pio sione, Achille Stazio, Inlustrium virorum, 1569, cui nacque una contesa giudiziaria tav. V perché i lavori minarono il palazzo dei Frangipane e lo scavatore, maestro Giuliano scalpellino, fu chiamato in causa per risarcimento danni 76. I dati a disposizione ci inducono a pensare che, come accade in questo momento in altri settori in via di sviluppo come 74

Aquiles Estaço, Inlustrium virorum ut exstant in Urbe expressi vultus, Romae: formis Antonij Lafrerj, 1569, in Lanciani, Storia degli scavi, II, pp. 255-256, fig. 175. Evidenziamo che nei testi antiquari rinascimentali le Terme di Traiano sono denominate Terme di Tito («Terme Titianae»). Si veda ad esempio Pomponio Leto che scrive: «Post ecclesiam Sancti Martini, versus orientem, sunt ruinae thermarum Titi et Vespasiani. Cisternae thermarum Titi vocantur nunc Capacie, idest capaces aquarum» (Excerpta, in Codice Topografico della Città di Roma, a cura di R. Valentini, G. Zucchetti, 1953, IV, p. 432, 14-16). Di fatto le terme costruite e dedicate da Tito nell’80 d.C. sorgevano sulle pendici sudoccidentali del Colle Oppio, di fronte al Colosseo. Segnaliamo inoltre che le fonti sull’origine della testa di Euripide sono discordi, poiché Pirro Ligorio ne colloca il rinvenimento sull’Aventino, e che ne è stata anche messa in dubbio l’antichità: cfr. S. Corsi, Le Antichità Carpi a Ferrara. Cronaca di un acquisto, in «Prospettiva», 69, 1993, pp. 66-69. 75 ASR, CNC, 19, c. 294r-v. 76 ASR, CNC, 1726, c. 55r, in Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 116. 440

Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio

quello alberghiero 77, l’attività di scavo costituisca per la donna una nuova forma di investimento e che alcuni acquisti di suoli siano strumentali a ciò. Il mercato dei suoli e le antichità: il caso studio del Colle Oppio La storia del collezionismo, tra ‘400 e ‘500, disegna una linea ascendente, da fenomeno limitato al giro di curiali, raffinati umanisti, e alle famiglie romane, che ostentano la propria romanità in una società profondamente mutata, a forma di esibizione di potere e di prestigio, nelle magnificenti collezioni dei cardinali e di alti funzionari camerali. L’uso di avere un palazzo in città e una villa in campagna, con vigne e giardini antiquari, rende il terreno con rovine un bene attraente nel mercato degli immobili. Alla possibilità di fare scavi si aggiunge infatti quella di godere di suggestivi scenari dove installare preziose architetture, un fenomeno questo che è stato ben indagato dagli studi 78. Il Quirinale – per la posizione elevata con magnifica vista, l’aria salubre e gli imponenti resti di edifici antichi – rappresentò una sede privilegiata in tal senso. Il cardinale Oliviero Carafa, che sulla parte più alta del colle – laddove, nella metà del ‘500, troviamo la vigna di Ippolito d’Este e, successivamente, il palazzo pontificio – aveva un casino con giardino di delizie, il 3 marzo 1498 ampliò la proprietà comprando da Ambrosina di Capodiferro una vigna di una pezza, «cum domo ruynata, griptis, parietibus in parte circumdantibus» al costo di 80 ducati, un prezzo altissimo rispetto alla media attestata 79. Tale 77

Sul tema si veda I. Ait, Donne in affari: il caso di Roma (secoli XIV-XV), in Donne del Rinascimento a Roma e dintorni a cura di A. Esposito, Roma 2013 (RR inedita 55, saggi), pp. 53-83. 78 R. Samperi, La città delle vigne, dei giardini e delle ville in Roma (fine XV-XVI secolo) in Le trasformazioni urbane nel Cinquecento. Dalla città al territorio, a cura di G. Simoncini, Firenze 2011, pp. 105-157. 79 Il contratto di acquisto della vigna è in ASR, CNC, 1672, cc. 114v-115r. Tale proprietà (confinante «desuper» con «palatium et vinea prefati r.mi cardinalis») andò ad aggiungersi alla domus cum vinea che l’alto prelato aveva acquistato il 5 febbraio 1494 (ASR, CNC, 1738, c. 296r). Il Carafa comunque risulta essersi insediato sul Quirinale in epoca ancora più antica, come documenta un testo di Andrea Brenta, una traduzione del De natura hominis di Ippocrate, con dedica al cardinale napoletano, che si data al 1482-83: cfr. E. Parlato, Cultura antiquaria e committenza di Oliviero Carafa: un documento e un’ipotesi sulla villa del Quirinale, in «Studi Romani», XXXVIII, 1990, nn. 3-4 (lug./dic.), pp. 269-280. Frommel, in uno studio del complesso del Quirinale, ha analizzato i due casini della vigna Carafa, posti uno a nord della tenuta, con loggia e torre, che ha datato alla prima metà del ‘400, e un altro a sud, un palazzetto che secondo lo studioso fu costruito intorno al ‘500. Sulla base di tale lettura, possiamo quindi ipotizzare che la domus citata nella compravendita del 1494 441

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valutazione emerge da una nostra analisi a campione compiuta sugli atti di compravendita nelle carte notarili che devo dire solo avviata, ma che può già offrire interessanti spunti di riflessione. La questione dei prezzi dei suoli in questo tipo di studio è nodale. Capire se un terreno con rovine o di sicura ricchezza archeologica aveva sul mercato un prezzo diverso, aprirebbe nuovi scenari interpretativi. Si delineerebbe infatti la possibilità di postulare una gerarchia degli spazi non abitati, come nel caso del contesto urbano edificato 80. Devo dire che la mia idea a priori era questa e volevo dimostrarla. Per procedere allo studio ho messo a confronto vari contratti di compravendita di vigne, raggruppandoli per aree topografiche e fasce cronologiche. Il sondaggio tuttavia si è dimostrato più complesso del previsto, poiché i contratti presentano tutta una serie di variabili che rendono faticoso il raffronto. I prezzi potevano mutare per la presenza nella vigna di elementi come una domus, una torre, un canneto, di strumenti per la produzione del vino, griptae ad uso di deposito e di cantina, un puteum, un corso d’acqua o per l’esistenza o meno di censi, e il loro maggiore o minore peso, elementi questi che troviamo descritti nei contratti – e per altri aspetti più incerti, non documentati dalle carte, come la quantità e la qualità delle coltivazioni, l’orientamento, l’altitudine, il collegamento ad assi stradali principali, la presenza di sodi e di fossi. Per non parlare dei prezzi di favore che falsano il dato o la necessità del venditore di concludere in fretta l’affare, cedendo il bene a un prezzo concorrenziale. A rendere il quadro più complesso, e i prezzi degli stessi suoli oscillanti, ci sono poi i melioramenta apportati dai proprietari, che ne aumentavano il valore. Per comprendere in che misura questo variava è utile citare il caso di una controversia, dove l’arbitro chiamato a giudicare, il 19 gennaio 1505, stima le migliorie apportate dal possessore di due vigne: 14 ducati per varie opere di scasso del terreno (per l’impianto di coltivazioni e la definizione di fossi e viali) e 45 ducati per il restauro della vasca vinaria e di una conserva dell’acqua oltre che per vari materiali presenti sul suolo, vale a dire «calcina, pozzolana et lapidum sive etiam tegularum et lignaminum» 81. coincida con la fabbrica più antica individuata da Frommel, di cui tuttora si conservano i resti della loggia inglobati da rifacimenti successivi. Cfr. C. L. Frommel, La villa e i giardini del Quirinale nel Cinqucento in Restauri al Quirinale a cura di L. Morozzi, in «Bollettino d’arte», volume speciale, Roma 1999, pp. 15-62 (pp. 16-17). 80 Si veda su questo L. Palermo, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Rinascimento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, Atti della Sessione C23, Eleventh International Economic History Congress (Milano 12-16 settembre 1994), a cura di A. Grohmann, Napoli 1994, pp. 413-435. 81 ASR, CNC, 851, cc. 69v-70r. 442

Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio

Nonostante tali variabili, ragionando sui dati disponibili, è possibile comunque individuare una linea di tendenza generale dei prezzi. Allo stato attuale dell’indagine si può affermare, mantendendo la giusta cautela, che il prezzo di una vigna entro le mura, in aree come il Colle Oppio, il Quirinale, l’Aventino o il Palatino, si aggira nei primi 20 anni del ‘500 mediamente intorno ai 25-30 ducati la pezza. Le aree decentrate come il Vivaro o Testaccio hanno prezzi inferiori, anche della metà, e tali valori scendono sensibilmente fuori le Mura. Mi sembra che tale variazione sia da imputare non certo a fattori archeologici, ma a una maggiore o minore vicinanza al centro urbano. Il dato interessante che è emerso, e che qui interessa evidenziare, è che la presenza di edifici antichi monumentali poteva portare invece a un rialzo dei prezzi anche del doppio o del triplo. Accanto al caso già indicato della vigna Carafa sul Quirinale, sul quale tuttavia, accanto alle antichità, dovette pesare la presenza di una domus in rovina, citiamo, a titolo di esempio, quello di una vigna posta alle falde del Palatino, «suptus Palatio Maiori prope ecclesiam S. Gregorii», di due pezze «cum vascha vaschali tino statio griptis puteo et muraliis» venduta nel 1509 da Caterina de Rubeis a Paulus de Puritatis al prezzo di 110 ducati, vale a dire a 55 ducati la pezza 82. Quindi sul mercato dei suoli le antichità sembrerebbero influire più per gli edifici sopra terra che non per la potenzialità di una ricchezza sommersa. Naturalmente non escludiamo che le rovine fossero considerate, oltre che come strutture perfette per l’ambientazione di vigne antiquarie e utili ambienti di servizio per le attività agricole, anche come indicatori di terreni archeologicamente fertili. La parte speciale interpretata dai suoli archeologici sulla scena del mercato immobiliare romano emerge con evidenza nel caso studio del Colle Oppio che, come detto in premessa, è stato l’elemento ispiratore di questa indagine. La zona presa in esame, corrispondente alla III regione di epoca augustea, è di forte interesse archeologico, come si evince anche solo osservando le piante cinquecentesche dove è facile scorgere resti consistenti di antiche strutture (fig. 7). Delineando a grandi linee la topografia antica, possiamo dire che nella parte orientale dell’area, in direzione delle attuali via Merulana e piazza Vittorio Emanule II, erano gli horti imperiali, ricchi di apparati scultorei di alta qualità, conservati oggi nei più importanti musei del mondo, uno fra tanti il già citato gruppo del Laocoonte; il versante ovest del colle, digradante a sud verso la valle del Colosseo, era invece occupato dell’imponente complesso delle Terme di Traiano e dall’edificio delle Sette Sale, dette anche Capocce, l’antica cisterna delle Terme 82

ASR, CNC, 851, cc. 476v-482v (15 luglio 1509). 443

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Fig. 7 – Veduta del Colle Oppio, Étienne Dupérac, 1577, incisione. In primo piano la cisterna delle Sette Sale

che diede il nome alla contrada 83. Dal nostro studio, che ha ricostruito l’assetto delle proprietà di questa porzione di territorio all’interno di un quadro diacronico, emerge il cambiamento della base sociale degli acquirenti e l’accentuarsi nel tempo dei meccanismi competitivi del mercato. La componente sociale dei soggetti, proprietari e affittuari, tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500, è varia. Lo scenario inizia a cambiare nel primo quarto del ‘500, quando sembra affermarsi una platea di possessori più qualificata, cardinali, alti funzionari municipali e camerali, rappresentanti delle élites provinciali e forestiere, che tendono ad espandere le proprietà e a mantenerne il monopolio entro un gruppo esclusivo. Quello che appare in filigrana è una strategia di controllo dei suoli, chiusi entro le maglie strette di giri clientelari. 83

La grande cisterna delle Terme dovette colpire la fantasia di Nikolaus Muffel che visitò Roma nella metà del ‘400 e la descrisse come una smisurata cantina per il vino: «Ci sono anche tre cantine per il vino, di cui una sta tra San Giovanni e San Pietro in Vincoli e ha nove volte e ogni vano una sua porta. Quando si sta lì dentro si vedono nove porte da qualsiasi punto si guardi e nonostante che sia in rovina vi si possono sistemare circa 1200 cavalli. Al di sopra si vede crescere la vite che, quando l’uva è matura, è più alta di una lancia e ne viene buon vino». Cfr. N. Muffel, Descrizione della città di Roma nel 1452 (RR 2000 Viaggi a Roma, 2), a cura di G. Wiedmann, Bologna 1999, p. 113. 444

Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio

Tale dinamica si delinea con chiarezza nella parte orientale del Colle, dove a partire dagli anni ’20 si afferma la famiglia Cesi, che abbiamo già incontrato nella figura del cardinale e collezionista Paolo Emilio. La misura dell’andamento dei prezzi, che mostra inconfutabili segni di speculazione, viene data dal caso di Giovanni Piacere pittore, che possedeva una vigna presso S. Martino ai Monti, non lontano da dove fu rinvenuto il gruppo del Laocoonte nel 1506. Il maestro aveva acquistato la vigna nel 1501 per 100 ducati, la rivendette nel 1527 al cardinale per 362 ducati, quindi a un prezzo più che triplicato 84. Ciò rilevato, è importante aggiungere – a completare il quadro di una operazione economicamente strategica – che un mese dopo il pittore reinvestì il ricavato della vendita del suolo, come lui stesso dichiara, nell’acquisto di un offitium portionis del valore di 426 ducati 85. Il processo di dilatazione delle proprietà Cesi sull’Esquilino, avviata da Ottavio, presidente della Camera apostolica, e proseguita dai fratelli Paolo Emilio e Federico, ci appare come il segno tangibile dell’espandersi della famiglia umbra nell’agone della corte papale. Nel giro di pochi anni raccolgono, insieme a nuove cariche, un patrimonio immobiliare diviso in due nuclei, uno di nove pezze, esteso tra S. Martino ai Monti (proprietà ben indicata dalla mappa del Bufalini) e l’arco di S. Vito 86, e un 84

ASC, Notai, sez. I, 891, c. 148r (31 agosto 1501); ASR, CNC, 901, cc. 757v-761r (17 febbraio 1527). Abbiamo il sospetto che la notizia del Ligorio su «Giovan Bellino pittore», proprietario di una vigna presso le Terme di Traiano, dove «cavate certe rovine» trovò entro una finestra murata «uno specchio molto grosso» di metallo e legno (Lanciani, Storia degli scavi, II, p. 252), sia da ricondurre al nostro Giovanni Piacere, visto che il nome del Bellino non appare documentato dalle carte notarili fin qui indagate. Su Giovanni Piacere, artista misterioso attestato dalle fonti seicentesche in relazione a vari lavori nelle chiese romane, su cui abbiamo raccolto un piccolo dossier di documenti che ci proponiamo di pubblicare in altra sede, si veda V. Merlo, Giovanni Piacere, un pittore romano tra Pintoricchio e Antoniazzo. Documenti, fonti e ipotesi, in «Bollettino d’arte», 7 serie, anno 102, 35-36, luglio-dicembre 2017, pp. 97-118. 85 È lo stesso Piacere a stabilire il nesso tra la vendita della vigna e l’investimento nell’acquisto dell’ufficio, che poi finì per cedere al fratello, ritenendosi troppo anziano per goderne: ASR, CNC, 895, cc. 549r-v, 568r-v (26 marzo 1527). 86 La proprietà di nove pezze nasce dall’unione della vigna presso S. Martino, comprata da Giovanni Piacere, con una seconda vigna presso l’arco di S.Vito, documentata da un atto di cessione dell’11 luglio 1533 (ASR, CNC, 521, c. 228r-v; lo stesso atto è ibid., c. 232r-v, cc. 236r-v ss.). Il 22 luglio 1537 l’intera proprietà, comprendente «duas vineas petiarum octo vel circa cum omnibus earum iuribus etc. sitas intra menia Urbis et in loco dicto S.to Vito in conspectu ecclesiae S. ti Martini in Montibus», viene ceduta da Iohannes Iacobus de Cesis a Costanza Maria comitissa Manerii: ASR, CNC, 534, cc. 293r-v. Il 20 aprile 1540 è venduta a Lippo Chisellerio, bolognese, abate del monastero di case Nove per 550 scudi: «vineam cum duabus domibus in ea existentibus novem petiarum vel circha cum vasca vascali tino et statio ac cisterna et quadam ecclesia venusta et detecta nuncu445

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altro di sette pezze, sulla strada tra S. Giuliano e S. Matteo 87: si tratta di terreni coltivati a vigna, con alberi da frutto e canneti, su cui sorgono case e rovine, tra cui quelle di «quadam ecclesia venusta et detecta nuncupata Santo Andrea», che in via ipotetica abbiamo identificato, data la posizione, con la scomparsa chiesa di S. Andrea delle Fratte 88. Le mire di Giovanni Giacomo Cesi, che subentrò nel possesso del primo nucleo di terra al fratello Paolo Emilio, morto nel 1537, si appuntarono anche sul colle del Quirinale, dove risulta possedere una vigna di dieci pezze. Una proprietà immersa in un’area ricca di antichità e di grande bellezza, che abbiamo già citato, la cui storia è scandita da nomi altisonanti, come i Carafa, i Grimani, il cardinale Ippolito d’Este, e infine papa Sisto V che scelse di realizzare qui la propria residenza estiva, avviando il grande progetto di costruzione del palazzo pontificio. È il caso di ricordare, per ribadire il concetto di immobile esclusivo, che la stessa vigna comprata dal Cesi sul Quirinale, che nel 1543 vendette al fiorentino Leonardo Boccaccio, funzionario della Camera apostolica 89, tra fine ‘400 e inizi ‘500 era appartenuta – in tutta l’estensione o in parte, non lo sappiamo – allo scultore Andrea Bregno 90. Passiamo ora al versante ovest del colle Oppio e analizziamo le vicende di alcuni nuclei di proprietà che abbiamo selezionato perché illustrano bene le dinamiche di controllo del territorio. Ma prima di procedere, due precisazioni: la prima, di metodo, è che la ricostruzione è stata effettuata con i dati desunti dai catasti e censuali dell’archivio di S. Pietro in pata Santo Andrea in ea existentibus et aliis suis membris sitam intra menia urbis in conspectu ecclesie S.ti Martini in montibus inter arcum S.ti Viti et ecclesiam S.ti Petri ad Vincula» (ASR, CNC, 101, cc. 169v-172r; ASR, CNC, 102, c. 144r ss.). Il 5 marzo 1543 la vigna è riacquistata da Federico Cesi (ASR, CNC, 58, c. 196r; ASR, CNC, 107, cc. 106v-107v). 87 Il 22 novembre 1536 Federico Cesi acquista dall’ospedale di S. Giacomo la detta vigna, già di Lucretia da Clarice (ASR, CNC, 92, cc. 284v, 285 r). 88 La chiesa di S. Andrea delle Fratte fu fondata con un monastero di suore domenicane nel 1270 dal cardinale Ottobono, arciprete di S. Maria Maggiore; nel catalogo delle chiese del 1492 è citata dopo S. Prassede e prima di S. Antonio e S.Vito: cfr. C. Hülsen, Le chiese di Roma nel medioevo, Cataloghi ed appunti, Roma 2000, pp. 69, 184-185. 89 La proprietà fu venduta da Giovanni Giacomo Cesi a Leonardo Boccaccio il 4 aprile 1543 (ASR, CNC, 1413, cc. 379r-v, 380r-v, 381r). Sulle vicende successive della vigna, che era nota col nome de La Bertina, intorno alla quale nacque anche una contesa giudiziaria che vide coinvolti i Cesi, si veda Lanciani, Storia degli scavi, IV, pp. 101-102, 114, dove tuttavia l’autore mostra di non conoscere l’atto di compravendita qui citato, e P. Zampa, La vigna Carafa e la vigna Boccaccio a Monte Cavallo:le fontane del bosco del cardinale Ippolito d’Este, in Ippolito II d’Este: cardinale, principe, mecenate, Atti del Convegno Internazionale di studi, Tivoli, 13-15 maggio 2010, a cura di M. Cogotti, F.P. Fiore, Roma 2013, pp. 163-184. 90 È la vigna citata nel testamento dello scultore, cfr. supra nota 28. 446

Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio

Vincoli, proprietario di buona parte dei suoli, utili perché offrono una immediata visione diacronica dei possessi, dati che abbiamo integrato con quelli tratti dai protocolli dei notai, più puntuali sul versante dei confini e dell’utilizzo dei suoli. La seconda precisazione riguarda il contesto archeologico, perché, sotto gli imponenti resti delle Terme traianee sorgono gli ambienti magnificamente decorati della Domus Aurea, la grandiosa reggia fatta costruire da Nerone dopo l’incendio del 64 d.C. Quindi è bene evidenziare che qui insieme al soprassuolo, aveva una dimensione reale e tangibile anche il sottosuolo, in quanto meta di frequentazione di una variegata moltitudine di visitatori, soprattutto artisti tra i quali le fonti menzionano Raffaello e Giovanni da Udine, che al lume di torce non esitavano ad affrontare pericolose discese nelle cavità per osservare e copiare le grottesche, «una spezie di pitture licenziose e ridicole molto», a dire del Vasari. Un fenomeno questo di cui non troviamo segno nei contratti di compravendita, ma che doveva rendere le vigne insediate in quest’area un bene di particolare attrazione sul mercato, soprattutto per i cultori delle arti e delle antichità. 1) Avviamo dunque l’analisi partendo dalla parte centrale del colle, quella chiusa entro il recinto delle antiche Terme, denominata nei documenti Corte vecchia, ed occupata dalla vigna di S. Pietro in Vincoli (fig. 8, n. 1). Non ci soffermiamo sul dettaglio dei rinvenimenti attestati dalla letteratura antiquaria e dall’archeologia, che ci porterebbe lontano dallo scopo di questo studio. Per dare un’idea della portata del fenomeno ci basti qui citare Flaminio Vacca che scrive al proposito: «Mi ricordo più volte aver visto cavare nelle Terme di Tito, dove ora è il Monastero di San Pietro in Vincoli, molte figure di marmo, ed infiniti ornamenti di quadro: chi volesse narrarli tutti, entrarebbe in un gran pelago» 91. Rimanendo entro i limiti delle attestazioni archivistiche, segnaliamo che tracce di sfruttamento del sottosuolo appaiono già nella seconda metà del ‘400 quando alcune gripte vengono locate dai frati a due marmorari, Benedetto e Stefano di Paolo Cotica, che era il fratello di Domenico, stretto collaboratore del citato grande maestro Andrea Bregno 92. Le operazioni di scavo proseguirono nel ‘500 in modo che supponiamo particolarmente invasivo se la Camera 91

Vacca, Memorie di varie antichità, 116. Il monastero di S. Pietro in Vincoli loca a «Benedicto marmorario de Regione Pinee et Stephano Pauli Cotica duas griptas simul iunctas positas in loco dicto Corte Vecchia ab uno latere tenet una alia gripta in qua est quadam vascha et tinus que est dicti monasterii ante via publica ab alio altera gripta d.ni Stephani de Casalis sub proprietate dicti monasterii»: ASR, CNC, 1629, cc. 139v-140r (25 gennaio 1474). 92

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Fig. 8 – Pianta acquerellata del Colle Oppio tra il Colosseo, S. Pietro in Vincoli e le Sette Sale con localizzazione delle vigne nn. 1-5 (ASR, 30 Not. Cap., Uff. 1, XVIII secolo)

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Mercato dei suoli e collezionismo antiquario a Roma tra ‘400 e ‘500: il caso del Colle Oppio

Fig. 9 – Orto sul declivio sud-ovest di Colle Oppio, tra San Pietro in Vincoli e via del Cardello. In primo piano è la chiesa di Santa Maria della Neve, più in basso villa Silvestri-Rivaldi e, sullo sfondo, la basilica di Massenzio, Parker 1345 (1868-1869)

apostolica nel 1534, in una fase nodale della politica di tutela inaugurata da Paolo III, giunse a vietare ai frati l’ingresso nell’area delle Terme, «in locis antiqualiis ubi fuerunt Therme et Palatium Vespasiani prope et forsan intra bona istius monasterii», pena la scomunica e mille ducati d’oro 93. Di fatto i documenti attestano, accanto alla usuale attività di coltivazione delle vigne, il proseguimento delle esplorazioni – ad esempio nel 1567, quando i frati sottoscrivono un accordo di durata biennale, con spartizione dei reperti, con i fiorentini Mario Spiriti e Bernardo Acciaioli 94 – ed un paesaggio segnato da pesanti sconvolgimenti, con distruzioni e interramenti, uno scenario disegnato da «griptas et loca vetusta demolita et terrarum maiori parte replena longe deterioris conditionis», come si legge in un contratto di enfiteusi del gennaio del 1576 95. 2) Di fronte a S. Pietro in Vincoli, nel declivio digradante verso sudovest, tra il convento e le moderne via del Cardello e del Colosseo, tagliato modernamente dal rettilineo di via degli Annibaldi, si estendeva una vasta 93

ASR, Camerale II, Antichità e belle arti, 3, fasc. 108 (14 novembre 1534). Lanciani, Storia degli scavi, II, pp. 253-254. 95 ASR, CNC, 519, cc. 504r-v, 505r-v, 506r. 94

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area coltivata a vigna, disseminata di rovine (fig. 8, n. 2 - fig. 9). Tale dato, che desumiamo dalle carte dei notai, non ci sorprende visto che ci troviamo nell’antico quartiere delle Carinae, dove le fonti collocano, tra l’altro, prestigiose domus d’età tardo-repubblicana (anche quella di Ottaviano Augusto), il tempio di Tellus e la sede centrale della Prefettura urbana 96. I documenti attestano la presenza di due nuclei di proprietà entrambi di pertinenza di S. Pietro in Vincoli, per una estensione totale pari a circa 8 pezze 97. Tra il 1495 e 1499 ne risulta detentore (almeno in parte) il vescovo viterbese Fazio Santoro, magister domus del cardinale Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II, che era il titolare commendatario della basilica. Il Santoro è un personaggio che conosciamo per altre vie: vescovo di Cesena nel 1504, cardinale di S. Sabina nel 1505, abitava in un palazzo presso S. Maria in via Lata (dove oggi è palazzo Doria Pamphili), che ampliò e fece decorare da Jacopo da Ripanda con un ciclo di affreschi sul tema delle imprese di Traiano e Giulio Cesare (purtroppo scomparsi), impreziosendolo di antichità. Tra queste erano i «vasa marmorea sculta cum sacrificiis et raptu Sabinarum» descritti da Francesco Albertini, il sacerdote fiorentino antiquario che abbiamo già incontrato, cappellano di S. Sabina, oltre che segretario del Santoro 98. Una sensibilità artistica di gusto antiquariale di un cardinale legato al papa Della Rovere, il fondatore delle collezioni vaticane, che bene si inserisce nel nostro paesaggio di vigne e rovine. La terra del Santoro nel 1501 passa a Mariano Cuccini, procuratore fiscale della Camera e, dopo la sua morte, nel 1512, ai suoi eredi 99. Tra il 1526 96

D. Palombi, Tra Palatino ed Esquilino. Velia Carinae Fagutal. Storia urbana di tre quartieri di Roma antica, in «Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte», suppl. 1, Roma 1997, pp. 138-168. 97 ASPV, M6, Catasto A, cc. 1r-v, 2r-v. 98 V. Farinella, Jacopo Ripanda a Palazzo Santoro. Un ciclo di storia romana e le sue fonti classiche, in «Studi Classici e Orientali», 36, 1987, pp. 209-237. Cfr. Albertini, Opusculum de mirabilibus, c. 82v: «Domus Sanctae Mariae in via Lata a reverendissimo Gabrielle Agriensi cardinale tituli Sancti Sergii et Bacchi fundata fuit. Postremo vero a reverendissimo Fatio de Sanctoriis Viterbiensi, card. tituli Sanctae Sabinae, sumptiosissimis aedificiis ampliata, cum atrio et porticu et capellis et aula pulcherrima depicta. Omitto viridaria, in quibus sunt vasa marmorea sculta cum sacrificiis et raptu Sabinarum. Omitto aquarum conservationem subterraneam, et cameras variis picturis et statuis exornatus, ut eius insignia palmae indicant». 99 Su Mariano Cuccini, di nobile famiglia romana, studente utriusque iuris alla Sapienza, un protetto del cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, procurator fisci dal 1497, si veda C. Bianca, Un codice universitario romano: il Vat. Ross. 1028 e Mariano Cuccini in Roma e lo Studium Urbis: spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, a cura di P. Cherubini, Roma 1992, pp. 133-155. Agostino Chigi, il noto banchiere senese, nel 1510 compra proprio dal Cuccini una vigna sul Tevere per ampliare la sua villa alla Lungara. Cfr. Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 196. 450

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e il 1527 la nobile Nicola Mancini, a nome dei figli minorenni, Cesare e Pompilio, investe un totale di ben 535 ducati nell’acquisto del fondo 100. Un contratto di compravendita documenta la presenza nella proprietà di una torre coperta – che supponiamo essere la torre degli Annibaldi –, altre torri scoperte, in rovina o rase al suolo, e molte strutture antiche («inter vineam sodum et cannetum cum vasca vascali tino statiis turri cooperta contigua et aliis turris discopertis et dirrutis et partim quasi solo equatis casarenis griptis variis et diversis parietibus et muris antiquis et edifitiis et aliis suis iuribus»). Comprendiamo quindi le ragioni dell’investimento che trovano conferma negli accordi sottoscritti da Nicola tra gennaio e marzo 1537 con il cavatore Roberto Spinelli, dal quale emerge un’opera di spoliazione per il recupero di travertino e altri materiali così pesante da inficiare la stabilità delle strutture antiche sovrastanti, archi, pilastri e pareti, e renderne necessario l’abbattimento, con finale opera di livellamento del suolo (Appendice, Doc. 4) 101. La descrizione dettagliata delle operazioni rende questo documento eccezionale, perché rappresenta con precisione il modus operandi dei privati nella gestione delle antichità, anche delle strutture emergenti, mirato all’utile e contro ogni norma di tutela dei beni. In seguito, nelle carte dei catasti, compare il nome di Giovanni Gregorio Peruschi, vescovo telesino, che abita in una domus di proprietà 100

Il primo nucleo di quattro pezze, acquistato il 10 febbraio 1526 per 350 ducati, è posto «infra menia Urbis prope ecclesiam S. Petri in Vinculi […] ab uno latere sunt bona S.ti Andree de Portogallo ab alio res ecclesie S. Blasioli ab alio res q. Bartolomei [...] ab alio via publica» (ASR, CNC, 901, cc. 468r-472v). Il secondo nucleo di quattro pezze, comprato il 12 gennaio 1527 per 185 ducati, è una vigna «cum vasca vascale tino statio cannetis et edificiis casarenis[…] in loco vulg. dicto Portugallo […] in opposito ecclesie S. Marie de Portugallo[…] cui a duobus lateribus vere versus viam magnam rectam que tendit ad ecclesiam S. Petri ad Vincula et ab alio versus dictam ecclesiam sunt bona infrascriptorum Cesaris et Pompilii ab alio est via publica et bona illius d.ne Iohanelle de Comitibus dicta via mediante ab alio videlicet ante pro parte est via publica et pro parte alia casareni ut d.r ecclesie S. Marie in Portugallo» (ASR, CNC, 895, cc. 502r-v, 517r). Si veda anche: ASPV, 1012, Memorie 1549 e seguenti, cc. 40r-v, 41r-v.: «quale vigna confina con la banda verso il Coliseo con la strada publica, da piedi con la strada publica e con alcuni orticelli e casette, e nel cantone della via che viene a S.to Pietro in Vincola cioè a pie della spiaggia, con la chiesa di S.to Biagio e uno orticello e casa, per fine alla porta della vigna preditta confina con la via publica». L’indicazione negli atti delle chiese di S. Andrea de Portogallo (corrispondente a S. Maria ad Nives, cfr. M. Armellini, Le chiese di Roma, Roma 1891, p. 142) e di S. Blasiolo (S. Biagio ai Monti, cfr. ibid., pp. 147-148) ci orientano verso l’attuale via del Colosseo e via del Cardello nell’individuare il limite ovest del fondo. 101 ASR, CNC, 905, c. 171r; ibid., cc. 212r-215r. Il 19 gennaio 1529, Nicola Mancini aveva sottoscritto un accordo per la coltivazione del terreno, con alberi e vigne, ad usum boni coloni et optimi patris, con spartizione dei frutti (ASR, CNC, 903, cc. 19v-20r-v, 21r, nuova num.). 451

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di Nicola Mancini, vicino a S. Marco, ed è testimone in vari atti intestati a suo nome. Non è trascurabile il fatto che il prelato sia il fratello di Mario Peruschi, noto procuratore fiscale, che fu il diretto successore di Mariano Cuccini nel prestigioso incarico 102. Il passaggio della vigna al vescovo non ha il consenso formale di S. Pietro in Vincoli, che tuttavia non ne contesta la legittimità: «tutto questo fu fatto per favore e per compiacere al ditto e a qualcunaltro e non con ragione», si legge a tale proposito in un memoriale redatto dai frati 103. Una condiscendenza che si fa spia di un rapporto privilegiato col vescovo, che si era già profilato nei giorni tragici dell’assedio imperiale quando questi aveva sborsato denaro per la salvezza di un gruppo di canonici regolari bolognesi residenti nel convento 104. Insomma, tirando le fila, quanto emerge da questa rassegna è che la vigna è rimasta per decenni nell’ambito dello stesso giro di soggetti, grazie anche ai buoni uffici di speciali protettori, di cui ignoriamo l’identità ma che vari elementi indurrebbero a riconoscere nella famiglia Cesi 105. 102

Mario Peruschi fu protagonista di importanti processi, non ultimo quello contro Martin Lutero per sospetta eresia. L’alta disponibilità economica e il rapporto di interessi con i Cuccini sono documentati dal suo acquisto per 5000 ducati da Iohannes Angelus de Cuccinis di un palazzo di fronte a S. Maria sopra Minerva il 7 gennaio 1529 (ASR, CNC, 903, c. 102r-v nuova num.). Difficile non riconoscere i segni del clientelismo nell’acquisizione da parte del fratello di Mario, Giovanni Gregorio, del vescovado di Massa Marittima, da cui nel 1517 era stato destituito il cardinale senese Alfonso Petrucci, che era stato condannato a morte proprio da una sentenza di Mario Peruschi, pubblico accusatore nel processo, perché reo di aver congiurato, con altri cardinali, contro papa Leone X. La sede vescovile toscana rimase privilegio dei Peruschi anche in seguito, quando Giovanni Gregorio nel 1524 fu trasferito in Campania, alla diocesi di Telese, e passò la carica a Francesco Egidio, figlio di Mario, al quale poi successe il fratello Camillo, che nel 1529 la cederà a Paolo Emilio Cesi. Sui Peruschi si veda Scorribande, lanzichenecchi e soldati ai tempi del Sacco di Roma. Papato e Colonna in un inedito epistolario dall’Archivio Della Valle - Del Bufalo (1526-1527), a cura di P. P. Piergentili, G. Venditti, in «Documenti rari e curiosi dall’Archivio Segreto Vaticano», 3, Roma 2009, pp. 96-100. 103 ASPV, 1012, Memorie 1549 e seguenti, cc. 40r-v, 41r-v. Al Peruschi, nel 1545, subentrò Antonio Sacramore da Rimini, autore, secondo la testimonianza dei frati, della distruzione della chiesa, già in rovina, situata nella proprietà di fronte al portico di S. Pietro in Vincoli, che Armellini identifica con S. Maria in Monasterio. Cfr. M. Armellini, Le chiese di Roma, Roma 1891, pp. 211-212. 104 La somma, che aveva prestato ai canonici regolari del SS. Salvatore di Bologna residenti a S. Pietro in Vincoli, gli viene restituita il 9 novembre 1531: ASR, CNC, 903, cc. 132r-v, 133r-v. 105 La stretta relazione dei Peruschi con i Cesi è documentata, tra l’altro, dagli atti notarili dove compaiono nelle vesti di loro procuratori: questo accade nei due contratti sopra citati, quello per l’acquisto della statua dagli Astalli, sottoscritto dal nostro Giovanni Gregorio Peruschi a nome di Giovanni Andrea Cesi (1529), e quello relativo alla vigna di Giovanni Piacere, firmato da Francesco Egidio Peruschi per il cardinale Paolo Emilio Cesi (1527). 452

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3) Iohannes Nicolaus de Staglia (un nome attestato in varie forme: Nicolaus de Astaglis, Niccolò Stagni) tra gli anni ’30 e ’40 del ‘500 accumula diverse porzioni di territorio presso le Sette Sale (fig. 8, n. 3) 106, in parte provenienti dal patrimonio della moglie Iuliana, figlia di Polissena de Lippis 107. Tra i suoli acquistati risulta anche la vigna appartenuta a Petrus Valterini sutor che nel 1526 vi aveva fatto fare una cava a due muratori lombardi108. Ricordato come venditore di una statua di marmo detta il Commodo109, lo Staglia ha una collezione antiquaria descritta da Ulisse Aldrovandi a cui non sfugge la provenienza dei pezzi: «In casa di M. Nicolo Stagni: presso l’arco di Camillo, è dietro la Minerva. Qui si vede un bellisimo Hercole ignudo, co la pelle del leone sul capo, che li cinge il collo, ma non ha né mani, né piedi, che sarebbe una opera troppo rara. Si vede presso la sua man manca una mano di putto, che egli doveva havere forse in braccio. Vi è poi una statua intiera ignuda: non ha mani, né piedi: chi vuole che fosse di Giove, chi di Nettuno. E sono queste due 106

Ci teniamo a precisare che in questo caso la nostra localizzazione sulla mappa delle vigne Staglia è puramente indicativa: sarà necessario ulteriore lavoro per una definizione più precisa dei confini della proprietà, essendo questa il risultato di diversi accorpamenti. 107 Lanciani, Storie degli scavi, I, p. 211 puntualizza che gli Staglia erano una famiglia diversa dagli Astalli. La vigna di Polissena de Lippis è posta «intra menia urbis in loco dicto Le Septe Sale cui ab uno lat. sunt res d. Augustini della Vecchia ab alio res Petri Cerchagelate ab alio viculus vicinalis et ab alio res d.ni Prosperi de Grifonibus» (3 nov. 1524, ASR, CNC, 523, cc. 27r-v, 28r). Il 28 marzo 1531 Niccolò Staglia acquista da Vincenzo dello Schiavo alias delli Rossi per 81 ducati una vigna di due pezze «positam intra menia urbis loco vulgariter ditto Le Sette sale, cui ab uno latere sunt bona fratrum S.te Crucis que ad presens sunt fratrum dicti S.ti Petri in Vincula ab alio sunt bona d. d. Ioannis Nicolai, que vinea erat cuiusdam magistri Petri sutoris, et alii veriores confines» (ASPV, M661, Instrumenta ab 1433 usque ad 1665, R, cc. 437-439). La posizione di questa vigna, confinante con quella dei frati di S. Croce, è ben delineata dal seguente atto (22 marzo 1531): «quandam ipsorum dominorum prioris et fratrum Sancte Crucis vineam sitam et positam in Urbe prope Sanctum Martinellum in Montibus cui ab uno latere sunt bona dicti Monasterii, a capite est vicus per quem itur ad Septem salas, ab alio via publica, ab alio est vinea d.ne Polixene de Lipsis et Ioannis Nicolai de Stallis cum boschetto intermedio inter ipsos priorem et conventum Sancti Petri ad Vincula» (ASPV, A. 677, Vigna alle Sette Sale, c. 459r). Il 31 marzo 1548 la proprietà dello Staglia si amplia con l’acquisto dalla società della SS. Annunziata della vigna già di Agostino della Vecchia: «vinee empte a dicta societate site intra menia urbis in loco dicto Sette Sale prope ecclesiam S.ti Clementis» (ASR, CNC, 26, c. 64r). 108 9 ottobre 1526: Pietro Valterini commissiona una cava «in quadam ipsius magistri Petri vinea posita intra menia Urbis in loco dicto Sette Sale infra hos fines cui ab uno bona Polisene romane ab alio bona monasterii et fratrum ecclesiae Sancte Crucis ante via et viculus vicinalis vel si qui etc.», in Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 280. 109 Lanciani, Storia degli scavi, III, p. 207. 453

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statue state ritrovate su l’Esquilie presso le Sette Sale in una vigna di questo gentil’huomo» 110. 4) Pietro Rutili (o Rotolanti/Rutilanti), il noto scriba senatus, almeno dal 1510 possiede due vigne poste di fronte al Colosseo, sul declivio compreso tra la via Labicana, la strada che porta a S. Pietro in Vincoli e la grande esedra del recinto delle Terme (fig. 8, n. 4), come bene documenta la mappa di Giovanni Battista Nolli (1748). Il fondo rimane parte del patrimonio familiare fino alla seconda metà del ‘600, quando vengono concesse varie licenze di scavo in relazione all’orto di Dorotea Rotolanti, tra 1659 e 1667, col patto di lasciare intatte le muraglie 111. 5) Contigua ai beni di Pietro Rutili («opposito ecclesie S. Clementis apud Coliseum iuxta res Petri Rotolantis»), e ai beni di Polissena de Lippis, è una vigna, di 4 pezze, di cui possiamo ricostruire i passaggi di proprietà per quasi un secolo (fig. 8, n. 5). Almeno dal 1501 risulta di proprietà di Petrus Tome Acciachaielata pedemantellarius Regionis Trivii (nome attestato anche nelle varianti Acciaccagielata, Acciaccaselata, Ciachagelata) che l’ha acquistata da Hieronimus q. Gabrielis de Minutilis 112. Il suolo rimane patrimonio di famiglia per circa trent’anni, un lungo periodo questo su cui si innestano due eventi degni di nota: una lite con i Rutili sorta nel 1514 intorno a un viale comune alle proprietà che corre «incipiendo a quibusdam griptis antiquis usque ad quandam stratam que vocatur la strada

110

Aldrovandi, Delle statue antiche, p. 251. 22 novembre 1510: Pietro Rotolanti compra una vigna prope Colisseum da Symon de Lentulis, confinante con altra vigna dello stesso Rotolanti (ASR, CNC, 1734, cc. 31v-32r). Per gli scavi del ‘600 cfr. Lanciani, Storia degli scavi, V, pp. 208-210, 243-244. Per un approfondimento sul personaggio si veda Il liber decretorum dello scribasenato Pietro Rutili. Regesti della più antica raccolta di verbali dei consigli comunali di Roma (1515-1526), a cura di A. Rehberg, Roma 2010. 112 Il dato si evince da ASR, CNC, 1123, c. 93r-v. La vigna nel 1501 confina su due lati con quella di Tomas de Pirronibus, avo di Pietro e Paolo Acquagelata: ASR, CNC, 266, cc. 84v (25 novembre 1501). La proprietà poi risulta citata nei seguenti atti: 16 febbraio 1511: «Iulianus q. Matteoli de R. Trivii» dona al «d.v. Iohanni Andree q. Iacobi de Assisio eius nepoti de R. Pontis quandam […] vineam sitam intra menia Urbis in contrada Sancti Petri ad Vincula […] cui ab uno latere tenet vinea Pompili fratris de Recanatis ab alio latere tenet vinea Bone pizoche ab alio latere tenet vinea Petri Acciacca Selata ante est viculus vicinalis» (ASR, CNC, 134, cc. 101v, 115r-v); 14 giugno 1511: «Discr. vir Agabitus de Lapo de R. Trivi»vende a «Georgio de Musis aromatario de R. Colunne» una vigna posta «in loco q. dr. Sancto Clemente Merolana infra hos fines cui ab uno latere tenet filiorum q. magistri Marci de Florentia [è la vigna di Polissena de Lippis], ab alio latere tenet vinea Paulus Acciaccaselata, ab alio latere tenet via publica et viculus vicinalis» (ASR, CNC, 134, c. 136r-v). 111

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del Coloseo», frequentato notte e giorno da buoi 113 e, più utile ai nostri fini, un accordo, datato 3 novembre 1533: si tratta di un contratto di prestazione d’opera fatto da Paradisa Acciacchajelata a Stefanino parmisciano a cui affida il lavoro della vigna a usanza de Roma e insieme gli concede licenza di cavare nelle cave vecchie, riservandosi l’oro l’argento e le figure. La presenza di cave vecchie è significativa perché documenta un’attività di scavo reiterata114. Nel prosieguo della storia della proprietà assistiamo, secondo una dinamica che ormai ci è nota, a un netto cambiamento dello scenario, con l’entrata in gioco di personaggi di rango più elevato: la vigna viene ceduta a Giovanni Gaddi membro della potente famiglia di banchieri fiorentini, fratello del cardinale Niccolò, decano della Camera apostolica, mecenate, collezionista, ma soprattutto rappresentante di un particolare consesso culturale: lo stesso in cui si muovono Benvenuto Cellini, che lo ricorda nell’autobiografia (non senza critiche), Bartolomeo Marliano, l’autore della pianta di Roma antica (1544), suo amico, e il poeta Annibal Caro, che fu suo segretario. Alla luce di questi brevi tratti che ne delineano i gusti e le frequentazioni meglio comprendiamo l’interesse del Gaddi per vigne dense di memorie antiche, perfette per ambientarvi giardini di delizia ed esplorazioni sotterranee. Un interesse che prende forma con l’acquisto nel 1535 per 200 scudi della vigna di Paradisa al Colle Oppio e di una seconda proprietà presso le Terme di Caracalla 115. Il Gaddi risulta inoltre intestatario di un’altra vigna, locata da S. Pietro in Vincoli, posta in Corte Vecchia, presso il grande emiciclo del lato sud-est del recinto, entro il perimetro delle Terme traianee 116. Colpisce il fatto che i religiosi cedano a Giovanni Gaddi camerario un sito che solo tre anni prima era stato oggetto di un fermo divieto di accesso da parte della stessa Camera apostolica. Sono vigne queste di particolare pregio, intorno a cui si addensano frequenti tensioni: nel 1541 il Gaddi porta in giudizio davanti alla magistratura delle strade «Polissena de Lippis super certo petio terre seu 113

ASR, CNC, 1421, c. 466r-v; altre contese, su responsioni, sono documentate nel 1519 con i Minutili (ASR, CNC, 1025, c. 80r-v; ASR, CNC, 1029, c. 86r-v ss.). 114 ASR, SS. Annunziata, 730, Conti ricevute e note di spese, 1489-1732, carta non num. 115 ASR, 30 Not. Cap., Uff. 1, vol. 3, cc. 147v-148r-v (13 ottobre 1536): «Cum sit quod R. p. V. Io. Gaddus Camere Apostolice decanus habeat et possideat unam vineam que olim fuit d.ni Pauli et Petri Acquagelata romanorum et postea d. Paradise eorum matris sitam intra menia urbis in loco seu prope le Sette Sale iuxta aliam vineam eiusdem domini Iohannis». Si veda anche: ASR, SS. Annunziata, 366, Istromenti diversi dal 1545 al 1547, c. 97v (4 luglio 1546): «quondam d.na Paradisa de Ciachagelata vendiderit Iohanni de Gadis eius vineam sitam intra menia urbis et in loco detto il Culiseo [...] pro scutis ducentis». L’acquisto della vigna presso le Terme di Caracalla è segnalato da Lanciani, Storia degli scavi, II, p. 195. 116 ASPV, M417, Catasto B (a. 1514), c. 26r; ASPV 987, Catasto D, c. 83v. 455

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Fig. 10 – Planimetria della Domus Aurea con le soprastanti Terme di Traiano, dalla Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani (1893-1901), tav. 30. La stella indica la sala dalla volta dorata nella vigna Gaddi

canneti et griptibus seu edificiis antiquis et confinibus rebusque aliis» 117. Comprendiamo che la posta in gioco era alta e la questione dei confini nodale, soprattutto alla luce di un sottosuolo di particolare interesse: sotto la vigna Gaddi erano infatti gli ambienti della Domus Aurea, un dato questo che emerge oltre che da un confronto tra la topografia antica delineata dalla Forma Urbis di Lanciani (fig. 10) e quella rinascimentale, da una testimonianza di Ligorio 118 e soprattutto da un disegno di Orazio 117 ASR, CNC, 104, cc. 476v-477r, citato da Lanciani, Storia degli scavi, II, p. 40, che tuttavia localizza erroneamente alle pendici del Celio la vigna al centro della disputa. Per la topografia delle proprietà è interessante il dato, qui documentato, che la vigna di del Gaddi si pone a sud di quella di Polissena de Lippis: «Actum Rome in vinea prefati R.di d.ni costituentis sita intra menia urbis prope Coliseum in contrada que dicitur Septem Salium iusta vineam prefate d.ne Polisene versus meridiem». 118 Ligorio ricorda le grottesche viste «dove fu fatta la vigna di monsignor Jano Gadi chierico di Camera presso delle Therme Traiane» (Lanciani, Storia degli scavi, III, pp. 208-209). L’antiquario napoletano cita la vigna del Gaddi anche in relazione al rinvenimento di un rilievo in marmo con scena erotica, noto come «il letto di Policleto», di cui esistevano varie versioni: Ligorio, Cod. Taur., vol. 14, l. XV, c. 47r: «l’altra tabola simile fu trovata circa alle Terme Traiane, in la parte dove fu la vigna di monsignore Giovan Gadi chierico della Camera apostolica, la quale doppo la morte d’esso signore l’ebbe monsignor Rodolfo Pio cardinale carpense».

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Porta della seconda metà del ‘500, conservato alla Biblioteca Marciana 119. L’autore ha ritratto la “volta dorata” di una delle sale della Domus Aurea, con le sue partizioni geometriche, aggiungendo la seguente didascalia, per noi utilissima: «Nelle Terme di Tito a presso alle Sette Salle nella vigna di Giov. Gadi opera fatta di stucco et ornata di pittura» (fig. 11). Le vicende successive dei suoli confermano il filo rosso che li lega costituito dai nomi di proprietari altolocati. Il giovane Taddeo Gaddi, nipote di Giovanni, arcivescovo destinato nel giro di pochi anni a vestire la porpora, il 10 marzo 1552 dona la vigna a Sebastiano Gualtieri (1513-1566), vescovo di Viterbo 120. Proveniente da una antica famiglia patrizia orvietana, cresciuto alla corte del cardinale Agostino Trivulzio, di cui fu segretario dal 1522 al 1548, lontano parente di Giulio III, il Gualtieri ebbe una lunga carriera, al cui apice si colloca il ruolo di nunzio apostolico presso la corte francese e, più tardi, quello di mediatore tra la curia romana e la chiesa gallicana nel Concilio di Trento 121. La forte vicinanza tra i cardinali Niccolò Gaddi e Agostino Trivulzio, entrambi esponenti del partito filofrancese, proietta la cessione della proprietà al vescovo di Viterbo sullo sfondo di una rete di alleanze politiche e di scambi di favori. A questo riguardo ci chiediamo se le notizie di scavi compiuti presso le Sette Sale nel 1547 dal cardinale Trivulzio, raffinato intellettuale amico dell’umanista Angelo Colocci, che portarono alla luce ben 25 statue integre, così come quelli di Bindo Altoviti, il noto banchiere la cui famiglia era imparentata coi Gaddi (Giovanni Gaddi era figlio di una Antonia di Bindo Altoviti), non possano essere ricondotte nel quadro di tale milieu e a un uso disinvolto del potere e delle relazioni personali per ottenere licenze di scavo da chi deteneva terreni nell’area 122. 119

Ms. It. IV, 149, f. 6 v [=5105], riprodotto in Lanciani, Storia degli scavi, I, p. 258, fig. 161. 120 L’arcivescovo Taddeo Gaddi dona a Sebastiano Gualtieri una vigna comprata dal defunto Giovanni Gaddi da Paradisa de Acquagelata «cum cancello vasca domuncula statio [...]sitam in R. Montium prope theatrum sive Coliseum nuncupatum cui ab uno sunt bona p.i R. P. d. Sebastiani episcopi viterbiensis empta a d. Francesco Bencio, ab alio bona d. Vincentii Rutilii sive Rotolatis ab alio via publica S. Clementis»: ASR, CNC, 1177, c. 271r-v (10 marzo 1552). 121 N. Avanzini, Gualtieri Sebastiano, in DBI, 60, 2003, ad vocem. 122 Sugli scavi del Trivulzio: Pier Santi Bartoli, Memorie di varie escavazioni fatte in Roma e in luoghi suburbani, in F. Nardini, Roma antica, Roma 1741, p. 300: «Nel 1547 fu fatto cavare alla vigna delle Sette Sale ad istanza del cardinal Trivulzio, ove furono trovate da venticinque statue tutte intiere di maravigliosa conservazione, e bellezza, oltre moltissime colonne, e marmi di gran pregio». Sugli scavi dell’Altoviti: Ligorio, Cod. Taur., vol. 7, l. IV, c. 23r: «una base trovata nelle terme Traiane in Roma ch’era uno posamento di una simile Venere, la quale trovò rovinata messer Bindo Altoviti»; Ligorio, Cod. Taur., vol. 15, l. XVII, 457

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Fig. 11 – Il soffitto della sala dalla volta dorata nella vigna de Giovan Gadi, Orazio Porta (seconda metà XVI sec.), disegno, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Ms. Ital. IV 149 (=5105), f. 6v

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La proprietà Gualtieri, anche questa ben documentata dalla mappa del Nolli, si estendeva per una larga porzione di terreno che dalla attuale via Labicana giungeva fin quasi alla cisterna delle Sette Sale: oltre alla vigna Acquagelata-Gaddi, il fondo comprendeva la citata vigna posta entro le Terme di proprietà di S. Pietro in Vincoli, che nel 1546 Alfonso Gualtieri, fratello del vescovo, aveva acquistato da Francesco Bencio, tesoriere generale dell’Umbria123. Sul limite nord-est, a segnare l’antico dominio della famiglia orvietana, sopravvive tuttora un casino di delizie, oggi sede dell’Ufficio di cultura egiziano, dove il nome di Iulius Gualterius, figlio del vescovo, campeggia inciso sull’architrave del portale al primo piano 124. Accanto allo status di Sebastiano Gualtieri, è importante evidenziare il suo rapporto con le antichità, che mantiene sia nelle vesti di collezionista che in quelle di promotore di scavi. Ligorio documenta vari reperti provenienti da scavi condotti nella sua vigna – in cui localizza i templi di Iside e Serapide –, tra i quali molte agate da intagliare, i resti di una grande statua di Serapide col cane tricipite, e una Venere preziosa in marmo pario, identificata dalla critica con la cosiddetta Venere de’ Medici, firmata dal suo artefice, lo scultore attico Kleomenes figlio di Apollodoros, oggi nella Galleria degli Uffizi (fig. 12), che fu stimata ben 400 scudi d’oro 125. c. 214r: «Facendo cavare nella parte dell’Esquilie messer Bindo Altoviti vicino alla chiesa di San Martino de’ Monti in Terme Traiane, furono trovati alcuni ornamenti di imagine di bronzo de animali e degli dei de’ gentili e dopo, essendo abandonata la cava dal detto gentiluomo, fu seguita da alcuni privati cavatori, vi fo trovato questo solo capitello di forma ovato, dell’ordine corinzio, e vi furono scoperte da otto colonne di esso ordine, ch’erano nel mezzo piane alquanto e da due parti rotonde tanto che facevano la figura ovata che vi mostro nella piante della colonna e del capitello, che è ovato e rombo. Le colonne erano del marmo numidico, detto odiernamente granito, un simile e compagno capitello si trova trasportato a San Lazzaro». Si veda Lanciani, Storia degli scavi, II, p. 252. 123 I frati di S. Pietro in Vincoli concedono in enfiteusi per tre generazioni a Sebastiano Gualtieri, a nome del fratello Alfonso, una vigna di tre pezze, posta verso i beni degli eredi di Giovanni Gaddi: ASPV, M661 Instrumenta ab anno 1433 usque ad annum 1665 R, c. 325r (16 novembre 1546). Il 5 aprile 1576 Giulio Gualtieri retrocede dal detto contratto di enfiteusi: ASR, 30 Not. Cap., uff. 30, 31, c. 256r-v ss. 124 Con i dati a disposizione non è possibile stabilire se i Gualtieri finirono per accorpare anche il settore orientale dell’area, prospicente il vicolo delle Sette Sale, corrispondente alla proprietà Pamphili della mappa del Nolli. Quanto è certo che le due famiglie nel ‘600 si imparentarono poiché Vittoria Gualtieri, nipote del vescovo - era nata dal figlio Giulio - sposò Sforza Maidalchini e dall’unione nacque la ben nota Olimpia Maidalchini (1592-1657), che nel 1612 si unì a Pamphilio Pamphili, fratello del futuro papa Innocenzo X. Cfr. C. Benocci, Insediamenti cinquecenteschi sulla via papale a Roma: la Casina Gualtieri sul Colle Oppio nella documentazione moderna, in «Il tesoro delle città», VII, 2011-2012, pp. 57-74. 125 Lanciani, Storia degli scavi, II, pp. 252-253; A. Cecchi - C. Gasparri, La Villa Médicis. Le collezioni del cardinale Ferdinando, vol. 4, Roma 2009, pp. 74-75, n. 64. 459

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A queste esplorazioni condotte dal Gualtieri sul colle Oppio, altre se ne aggiungono, a dire del Ligorio, sulla via Appia e nell’orto di S. Croce in Gerusalemme. Nei nostri documenti abbiamo trovato altre tracce di tale attività, che assume i connotati di una consuetudine di famiglia: il 7 febbraio 1551 Vincentius Gualterius, che non conosciamo ma che supponiamo in qualche modo imparentato col vescovo, loca la vigna posta presso le Sette Sale ad Andrea Cennini, con la promessa di «dare eidem medietatem unius colonne et aliarum lapidum extractarum ex quadam cava per eos facta in dicta vinea»126. Il prelato orvietano ormai anziano, nel 1565, pensò di mettere sul mercato parte della collezione, non vastissima e non tutta antica, comprendente opere di alto interesse come una testa di Omero di marmo nero e la citata statua di Venere 127. Le carte relative alle trattative con i potenziali compratori – personaggi di altissimo rango come Cesare Gonzaga, Alfonso II d’Este e Cosimo de’ Medici – sono note: da esse trapela un chiaro intento speculativo, che portò il vescovo a chiedere la cifra di 4000 scudi d’oro per una raccolta che, a dire degli esperti, non ne valeva più di 2000. 126

ASR, CNC, 27, c. 257r. F.M.Tuena, Un episodio del collezionismo artistico del ‘500: la dispersione della raccolta del vescovo Gualterio, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 33, 1989,1, pp. 85-104.

127

Fig. 12 – Venere dei Medici, I sec. a.C. circa, marmo greco, Firenze, Gallerie degli Uffizi

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Le contrattazioni in questa fase andarono fallite, forse per le eccessive aspettative del Gualtieri, ma dopo la sua morte, nel 1566, furono riprese con successo dal figlio Giulio, che finalmente trovò i giusti acquirenti nel cardinale Ferdinando dei Medici e nel fratello Francesco, granduca di Toscana. È interessante notare che proprio in questi anni il rapporto dei Gualtieri con le antichità del Colle Oppio si rafforza, non grazie a nuove acquisizioni di suoli, ma attraverso il conferimento di una carica municipale: il 27 gennaio 1584 Sebastiano Gualtieri, che supponiamo essere il nipote del vescovo, è nominato dalla Camera capitolina custode delle Sette Sale, un provvedimento che inquadreremmo nell’ambito di una pratica di tutela evoluta verso forme più mature 128. La risoluzione dei conservatori (uno dei quali è Giulio Gualtieri), nata da una doppia esigenza di sicurezza pubblica e di tutela del bene, fu giustificata nel modo che segue: «essendo in detta nostra Città il loco, detto Le Sette Sale, antiquità publicha quasi al tutto ruinata, et dove per la poca cura si commettono molti brutti delitti, ci è pars’opportuno per custodia di detta antiquità fine, che per l’avenire non vi si facci delitto alcuno, né vadia al tutto in rovina, deputarvi un particulari custode, per questo confidati nella diligentia, et integrità di Sebastiano Gualtieri sopra detto nostro cittadino». Una parabola quella tracciata dalla famiglia orvietana che offre diversi spunti di riflessione a chi voglia indagare le dinamiche di affermazione della nuova élite provinciale a Roma, un processo dove il controllo delle antichità, esplicato prima attraverso l’acquisto di suoli, poi con l’investitura di una carica istituzionale, sembra farsi significante dell’appropriazione delle tradizionali prerogative municipali e del compiuto processo di integrazione nei ranghi della classe dirigente urbana. Conclusioni Giunti al termine di questa rassegna, che ha disegnato l’affresco delle proprietà e dei personaggi gravitanti intorno alle rovine del Colle Oppio nel ‘500, possiamo cercare di trarre delle prime conclusioni. Ci pare evidente che lo scenario descritto confermi la possibilità, prospettata in premessa, di stabilire una relazione tra le compravendite dei suoli e le antichità. Maggior parte dei personaggi descritti, possessori di vigne in quest’area, sfrutta il sottosuolo con imprese di scavo e possiede collezioni antiquarie. Per tali soggetti il bene archeologico è un bene venale di cui appropriarsi, 128

ASC, Camera capitolina, credenz.e 6, t. 50, n. 451, c. 27. 461

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da vendere o da tesaurizzare, ed è insieme un indicatore di prestigio e di potere. Una forma di monopolio, favorito da alleanze politiche e relazioni clientelari così come da legami familiari e matrimoniali, mostra uno stato di concorrenza del mercato dei suoli e il timore di perdere il controllo dell’area. Tali dinamiche rendono questa porzione di territorio incredibilmente vitale. Non è un complesso rigido, centrato in via esclusiva sulle attività agricole legate alla sussistenza o a un ristretto mercato cittadino, ma è un sistema fluido, perfettamente integrato con il contesto urbano, con cui condivide i processi sociali e più ampiamente produttivi. In tale prospettiva possiamo affermare che la crescita economica di Roma si riflette anche nell’“industria delle antichità”, che mette in moto i capitali, stimola il mercato dei suoli, favorisce gli investimenti, alimenta l’industria edilizia e il commercio di beni di lusso. L’analisi dei prezzi dei suoli è solo avviata e andrà approfondita. La sfida è verificare se, secondo il modello economico ben noto alla storiografia per l’ambito urbano, il concetto di gerarchia di valore degli spazi si possa applicare anche alle aree non abitate entro le mura.

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Appendice Doc. 1) [1531, gennaio 20]: Maria de Saxis, madre e tutrice di Decidius e Fabius, non avendo liquidità per pagare i debiti dei figli, vende al cardinale Paulus Emilius de Cesis una statua lapidea di colore nero in cambio di 400 ducati o, in alternativa, di una pensione o beneficio a favore di uno dei figli del valore di 50 scudi annuali. ASR, 30 notai cap., Uff. 23, vol. 11, ad datam Eadem die loco et testibus quibus In presentia etc. personaliter constituta coram prefato d. Angelo Rechio de Barbarano iuris utriusque doctore iudice palatino et collaterale Curie Capitoline sedente in suprascripto bancho ligneo quem locum etc. prefata d. Maria mater et tutrix Decidii et Fabii suorum et quondam Mathei de Saxis eius viri filiorum legitimorum [...] promisit quod predicti sui filii sunt in diversis debitis implicati roganturque diversis personis varias pecuniarum summas solvere et non habeant modum in pecunia numerata illas solvere nec dicti sui filii habeant aurum vel argentum aut quid mobile cum omnia in sacho urbis fuerit amissa feceritque diligentiam prout asseruit reperiendo aliquam rem dictis suis filiis minus dannosam et nullam aliam invenerit que minus eisdem damnosa sit quam infrascripta figura lapidea nigri coloris existens ad presens in domo dictorum suorum filiorum ex qua dicti sui filii nullam utilitatem percipiunt fecitque promissionem de reperiendo aliquem qui dictam statuam lapideam emere vellet et neminem invenerit qui magis et utilius predictis suis filiis obtulerit quam rev.mus d. Cardinalis de Cesis qui obtulit velle exponere et solvere pro dicta statua habenda ducatos quatringentos de carlinis veterum monetarum ad rationem x carlinorum pro quolibet ducato infra tempus sex mensium proxime futurorum vel infra eundem tempus assignare uno ex dictis filiis aliquod beneficium seu pensionem ex quo quolibet anno percipiat etc. scuta quinquaginta in urbe et cum ipsa d. Maria vedat oblationem huiusmodi cedentem in evidentem utilitatem dictorum suorum filiorum idcircho sponte etc. […] vendidit etc. prefato rev.mo d. Paulo cardinali de Cesis licet absenti et d. Io. Baptiste de Carusiis eius procuratori et mihi notario presentibus etc. idest prescriptam statuam lapideam nigri coloris sitam in regione Parionis in domu dictorum suorum filiorum ad habendum etc. item simili modo vendidit omnia iura etc. [...] pro pretio et nomine pretii quatringentorum ducatorum de carlinis veterum monetarum ad rationem x carlinorum pro quolibet ducato quos 400 ducatos pretium predictum prefatus Io. Baptista de Carusiis promisit dicte d. Marie presenti quod prefatus r.mus d. cardinalis solvet infra sex menses proxime futuros […] vel infra eundem tempus prefatus r.mus d. cardinalis assignabit pensionem in Urbe uno ex filiis d. Marie que adscendat ad summam quinquaginta scutorum quolibet anno vel aliquem beneficium in Urbe offerri faciet qui sit eiusdem valoris 50 scutorum quolibet anno […]. 463

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Actum Rome in regione Arenulae in domo solite habitationis quondam Georgii de Sanctacroce in qua dicta d.na Maria inhabitabat presentibus d. Paulo de Mancinis et Camillo de Siconcellis notariis rogatis testibus. Doc. 2) 1512, novembre 1: Il cavatore Iacobus de Monte Ferrato cede a Iohannes de Pinis un quarto del valore di una scultura di marmo o alabastro mutila, rinvenuta in una cava, rappresentante una Nereide su ippocampo, pari a 50 ducati. La cessione comprende anche le restanti parti dell’opera ancora nella detta cava. Indictione prima mensis novembris die prima 1512 129 In presentia mei notarii etc. personaliter constitutus providus vir magister Iacobus q. Mactei de Carmingnola de Monte Ferrato de regione Montium sponte etc. cessit et titulo cessionis etc. dedit omnia iura nomina et actiones etc. que quas et quod habet et ei competunt habere aut ei quomodolibet competere possent nunc et in futurum in et super 4a parte cuiusdam figure marmoree seu alabastrine que figura est quidam equus a parte anteriore et a parte posteriore est piscis super quo equo est quedam mulier cum vestimento130 et que figura est aliquantulum mutilata et caret aliquibus partibus. Item similiter cessit omnia iura que habet super aliqua dictarum partium mutilatarum reperienda // [c. 208v] in quadam cava ubi fuit inventa dicta figura in vinea providi viri Bernardi [***] nullo iure etc. ita quod dictus Iacobus etc. agat etc. ad habendum etc. Hanc autem cessionem etc. fecit dictus Iacobus dicto Iohanni de Pinis presenti etc. et quia prefatus Iohannis remisit omnia iura131 etc. que habet [...] occasione L.ta ducatorum de carlinis alias per dictum Iohannem eidem mutuatorum [...] Iacobus confessus fuit fuisse verum debitorem dicti Iohannis in dicta summa [...] nullo iure etc. itaque dictis iuribus etc. agat etc. quos L.ta ducatos asseruit dictus Iacobus fuisse132 exposti per eum in quadam vinea noviter empta per ipsum que 4a pars figure iuncta est pro indiviso cum alia quarta parte providi viri Manicole cargararii romani et aliis duabus quartis partibus prefati Bernardi. Et promisit dictus Iacobus quod omnia iura sunt ipsius etc. alias teneri voluit [de] evictione in forma iuris valida etc. pro quibus etc. obligatus etc. Voluerunt etc. Renuntiaverunt etc. Iuraverunt etc. Rogaverunt etc. Actum Rome in regione Columna in domo et camera d.ni Pauli de [...] presentibus his videlicet provido viro Gabrielle de Vannutiis aromatario romano et Cristoforo ac Iacobo calsolariis romanis de regione Columne prope Magdalena testibus. 129 Cessio iurium figure marmoree 130 segue nec depennato. 131 omnia iura ripetuto due volte. 132

segue eidem depennato.

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aggiunto al margine.

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Doc. 3) 1545-1550: Introiti dei frati dei SS. Martino e Silvestro ai Monti provenienti dalla vendita di vari reperti antichi tra cui sculture, in bronzo e marmo, pili, travertino, ferro, piombo e vasi in metallo rinvenuti in una cava aperta da Iacomo cavatore nella vigna del convento sul Colle Oppio. ASR, SS. Martino e Silvestro ai Monti, b. 312, Introito et esito ab anno 1543 usque 1559 (ad annum) 1545 Dominica in sexagesima que est 8 februarii Ricevuti de piombo per la nostra parte libre 19 1 [iul.] 5 [b.] [...] Dominica p.a quadragesime que est 22 februarii feria 3a Ricevuti da m.o Iacomo cavatore per la terza parte de 9 caretate de travertini cavati in la vigna 30 [iul.] [...] Dominica 3a quadragesime que est 9 martii Ricevuti da mastro Iacomo cavatore de uno busto de figura per nostra parte cioe la metade 12 [iul.] 5 [b.] [...] 1545 Domenica 3a post pascha que est 26 aprilis Ricevuti da m.o Iacomo cavator per la parte de libre tresento de piombo per la mita 30 [iul.] [...] Dominica 4a post pascha que est 3 maii feria 2a Ricevuti de piombo libre cento e trenta per la parte nostra 13 [iul.] [...] Dominica 5a post pascha que est 10 maii Ricevuti de piombo venduto de la cava per la parte nostra de libre ducento e cinquanta 27 [iul.] 5 [b.] Feria 2a Ricevuti de bon cunto de caretate 14 e meza de travertini cioe per la parte nostra 133 a rasone de iulii nove la caretata 30 [iul.] [...] 1545 Dominica in die pentecostes que est 24 maii Ricevuti per la parte nostra de libre dusento e 30 de piombo da m. Iacomo cavatore 23 [iul.] 7 [b.] [...] feria 6a Ricevuti da m.o Iacomo cavatore per la parte nostra de libre dusento de ferro [...] Dominica prima post trinitatem que est 7 iunii Ricevuti da m.o Bernardino scarpellino una caretada de travertino 9 [iul.] // [...] 1546 Dominica in die pentecostes que est 13 iunii Ricevuti da mastro Iacomo cavatore per la nostra parte de caretate diece de travertini cioe arason dela terza parte tocca al convento a raso de iulii diece la caretada 33 [iul] 3 [b.] 1[q.] [...]feria 3a 133

segue a rasone de iulii depennato.

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Ricevuti da mastro Iacomo cavatore per la parte nostra de caretate tre de travertini 10 [iul.] [...] Dominica prima post trinitatem que est 27 iunii Ricevuti da mastro Iacomo cavatore per la parte nostra de una testa de marmoro venduta al R.mo de Carpi 25 [iul.] // [...] Dominica 4a post trinitatem que est 18 iulii Ricevuti da mastro Iacomo cavatore per la parte nostra de vasi de metallo peso libre cento et setanta a bajochi cinque la libra et fu speso per lo beveragio uno iulio per frate Iovanne fiorentino et li compagni resta in nostra parte 42 [iul.]// [...] 1549 [...] Dominica 2a quadragesima que est 17 martii feria 2a Ricevuti de cento e trenta sei libre de piombo a quatrini sette la libra monta giulii 18 9 [b.] feria 6a Ricevuti da monsignor R.mo et Ill.mo cardinale de Carpi per mano de ms. Antonio antichario scudi octo de moneta per la nostra parte de due figure di bronzo ritrovate nella vigna val giulii 80 // [...] 1549 [...] Dominica in Dei pentecostes que est 9 iunii Item ricevuti in piu volte de robba retrovata sotto terra cioe dui pilli et alcuni pezeti di travertino et altre pietre minute e piombo in tutto giulii cento e trenta cinque 135 [iul.] // [...] Item ricevuti de uno pezo de collona de marmaro fino pur ritrovata nella cava giulii dodici 12 [iul.] [...] 1550 [...] Dominica in Albis que est 13 aprilis Item ricevuti de uno busto di statua di marmaro con uno epitaphio giulii sedeci 16 [iul.] [...] Item ricevuti della parte della cava fatta oltre ogni spessa scudi quattrodeci che sono giulii cento e quaranta 140 [iul.] Doc. 4) 1537, marzo 2: La nobile Nicola de Mancinis si accorda con Robertus de Spinellis cavatore circa la prosecuzione degli scavi da lui già avviati nella sua vigna posta presso S. Pietro in Vincoli, concordando i lavori di abbattimento delle antiche strutture e di livellamento dell’area, divenuti necessari a seguito di crolli imprevisti. ASR, CNC, 905, (1537) cc. 212r-215r [c. 212r] Indictione X mensis martii die 2a 1537 In presentia mei notarii cum hoc fuerit et sit [...] quod alias nobilis mulier d. Nicola de Mancinis romana matrona dederit ad fodiendum et cavandum in quadam eius vinea sita prope ecclesiam S. Petri ad Vincula cum nonnullis pactis et conventionibus etc. prout in dicto instrumento ad quod relatio habeatur et quia idem d. Robertus effodere ceperit in quodam loco inter alia existente prope turrim coopertam dicte vinee et versus ecclesiam prefatam et reperiat subtus quendam 466

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murum antiquum cum archis antiquis certam quantitatem lapidum tiburtinorum et pro illis extrahendis paries et pilastra ac arcus ipsi veniunt demoliendi que cum cederent in non modicum dicte domine detrimento et propterea fuit post ruinam alicuius partis dicti muri facta extractio aliquorum lapidum tiburtinorum et ab opera de consensu decessum videlicet in prosequendo ipsam ruinam et extractionem et quia prope dictam // [c. 212v] ac ante et post dictam parietem sunt certe terre bone altitudinis et ruine edifitii quas terras et parietem et ipsam ruinam prefata d. Nicola intendit removeri facere et a facie cuiusdam alicuius parietis moderni existentis ultra dictum murum antiqum subtus quem dicti lapides tiburtini sunt qui murus est versus eandem ecclesiam et sepem dicte vine usque ad faciem turris prefate et ab angulo seu prope ipsum angulum turris per xi palmos et deinde 134 per directum versus griptas existentes in viali magno versus introitum dicte vinee eundo ad dictam griptam et volvendo postea135 versus montem dicte ruine et terras prout facies dictarum griptarum demostrant et ad faciem alterius muri antiqui ubi est certus nichius pro figuris confectus et inde volvendo et faciendo parum anguli et rediendo ad eumdem murum modernum et per directum per faciem dicti muri moderni usque ad parietem ubi erat alias lo gallinaro qui fecit certum angulum et volvit se per viam alterius muri qui tendit versus dictam turrim et obtulerit [...] // [c. 213r] permictere eidem dicto viro Roberto prefato ut possit lapides tiburtinos prefatos et alios quoscumque subtus dictum murum anticum reperiendo extrahere et fodere si idem d. Robertus velit omnes dictas terras et ruinas ac parvi in medio loci sic dessingnati suis sumptibus et expensis removere et alibi ubi melius vedebit proicere et proici facere ac dictum locum sic desingnatum et quidquid infra illud est reducere ad planitiem et ad equalem planitiem cuiusdam vialis magni existentis retro dictam turrem in quadam parte dicte vinee maioris altitudinis quam alia vinea ac et ab angulo dicte turris et per distantiam dictorum xi palmorum ab ea versus dictam cavam idest ubi est finis dictorum xi palmorum distantium a dicta turri eundo per directum versus dictas griptas etiam omnes terras per lineam directam perveniendo ad filum que remaneret versus aliam planitiem statii existentis ante hostium dicte turris et // [c. 213v] removere et levare ac asportari facere in locis magis convenientibus ac etiam quod ultra dictam parietem modernam videlicet in summitatem illius omnes terre que remanebunt ibi explanari debeant ad equalem planitiem remanentis versus sepem dicte vinee et poma granati ibidem existentia, similiter omnibus suis sumptibus et expensis et quod iuxta pacta alias facta omne id quod reperietur in dicta explanatione et ultra planum si fodere voluerit sit commune inter partes iuxta formam dicti predicti instrumenti cui non intelligatur innovari etc. et ista omnia facere per totum xv dies mensis aprilis proxime futuri etc. [...] // [c. 215] Actum Rome in regione Montium in dicta vinea et turri prefata presentibus etc. discretis viris Antonio de Coulemont diocesis Attrebavensis et Donato quondam Marini de Sancto Ginnesio marchiae Anconitanae ad servitium R. p. d. episcopi Telesini de prefatis testibus. 134

per xi palmos et deinde aggiunto al margine con richiamo. volvendo postea aggiunto al margine con richiamo.

135 et

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Daniele Lombardi Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali

L’espansiva fase economica, sociale e demografica che interessò, come noto, la capitale dello Stato Pontificio, a cavallo dei secoli XIV-XV e perdurò fino ai primi decenni del XVI, si può oggi serenamente indicare come un fatto assodato, verso il quale la storiografia, grazie anche agli studi prodotti negli ultimi anni, sembra ormai convergere in modo univoco 1. Ed è per questa ragione che appare quanto meno superfluo da parte mia tornare a riflettervi. Mi sembra, invece, utile richiamare in questa sede le preziose parole che qualche anno fa Arnold Esch spese per spiegare meglio i caratteri essenziali che contraddistinsero questa fase importante della storia dell’Urbe 2: «una città non grande, nella cui economia il settore primario, ovvero la produzione agraria era predominante e dava la sua impronta perfino al ceto dirigente comunale, il gruppo economico dei mercanti bovattieri» e dove, infine, «era elevata la domanda del terziario, 1

Riguardo questi temi la bibliografia è decisamente vasta. Per avere pertanto una visuale d’insieme si rinvia ad alcuni dei volumi più importanti pubblicati e ai saggi ivi contenuti: Un pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484), Atti del Convegno, Roma, 3-7 dicembre 1984, a cura di M. Miglio, F. Niutta, D. Quaglioni, C. Ranieri, Roma 1986 (Littera antiqua, 5); Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), Atti del Convegno, Roma, 2-5 marzo 1992, a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992 (Nuovi Studi Storici, 20); L. Palermo, Sviluppo economico e società preindustriali. Cicli, strutture e congiunture in Europa dal medioevo alla prima età moderna, Roma 1997; Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 2001; Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Roma 2001; J.-C. Maire Vigueur, L’altra Roma. Una storia dei romani all’epoca dei comuni (secoli XII-XIV), Torino 2011; Roma 1347-1527. Linee di un’evoluzione, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, 13-15 novembre 2017, a cura di M. Miglio, I. Lori Sanfilippo, Roma 2020 (Nuovi Studi Storici, 116); Vivere la città. Roma nel Rinascimento, a cura di I. Ait, A. Esposito, Roma 2020; A. Esch, Roma dal Medioevo al Rinascimento, Roma 2021. 2 A. Esch, Economia, cultura materiale ed arte nella Roma del Rinascimento. Studi sui registri doganali romani 1445-1485, Roma 2007 (RR inedita, 36 Saggi), p. 4. 469

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cioè i servizi» quel settore che, allora come oggi, includeva al suo interno, e ne era al contempo fortemente trainato, anche l’operosa «industria del turismo», quella che Luciano Palermo ha definito meglio come il «terziario avanzato» 3. È, dunque, proprio nel contesto di questi specifici ambiti – agricoltura da una parte, e mondo dell’accoglienza a pagamento dall’altra – che vanno rintracciati alcuni dei fattori in grado di giocare un ruolo fondamentale nelle fortunate sorti socio-economiche della Roma rinascimentale. Nella fattispecie, poi, sono almeno due i peculiari “spazi economici” che emergono in maniera più concreta da questo quadro: le vigne e le taverne4. Come, infatti, hanno messo bene in luce i tanti lavori rivolti a queste tematiche, Roma appare un particolare caso d’indagine nel panorama degli studi sulle realtà urbane dell’Occidente medievale. Innanzitutto, per quanto concerne gli spazi vitati, nessuna città poteva contarne – insieme agli orti e alle aree verdi più volte indagate da Alfio Cortonesi – un numero così elevato all’interno delle sue mura: questi spazi coprivano, infatti, più dei tre quarti della superficie intramuraria, ovvero circa 1.000 ettari dei 1.400 totali 5. Anzi fino a gran parte del XII secolo – prima della comparsa in maniera sostanziale dell’unità agro-pastorale del casale nella Campagna Romana che, come noto, col tempo ebbe evidenti ricadute sull’espansione della viticoltura locale 6 – anche al di fuori della cinta muraria, secondo 3

L. Palermo, L’economia, in Roma del Rinascimento, p. 80. Sul ruolo e l’importanza di questi due spazi mi permetto di rinviare al mio recente volume D. Lombardi, Dalla dogana alla taverna. Il vino a Roma alla fine del Medioevo, Roma 2018 (RR inedita 75, saggi). In tale contesto risultano poi fondamentali i lavori di A. Cortonesi, Colture, pratiche agrarie e allevamento nel Lazio bassomedievale. Testimonianze dalla legislazione statutaria, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 101 (1978), pp. 97-219; Id., Le spese “in victualibus” della “Domus Helemosine Sancti Petri” di Roma, in «Archeologia Medievale», 8 (1981), pp. 193-225; Id., Vini e commercio vinicolo nel Lazio tardo medievale, in Il vino nell’economia e nella società italiana Medioevale e Moderna, Atti del Convegno di studi, Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987, Firenze 1988 (Quaderni della Rivista di Storia dell’agricoltura, 1), pp. 129-145; Id., Terre e signori nel Lazio medioevale. Un’economia rurale nei secoli XIII-XIV, Napoli 1988; Id., Il lavoro del contadino. Uomini, tecniche, colture nella Tuscia tardomedievale, Bologna 1988; Id., Ruralia. Economie e paesaggi del Medioevo italiano, Roma 1995; Id., Cereali e vino nella Roma tardomedievale, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma 1998, pp. 327-333; M.T. Caciorgna, Vite e vino a Velletri alla fine del trecento, in Cultura e Società nell’Italia medievale. Studi offerti a Paolo Brezzi per il suo 75° compleanno, Roma 1988, pp. 157-170; A.M. Corbo, La viticoltura romana nel secolo XV e la vigna di Nicolò V, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 115 (1992), pp. 115-132. 5 Maire Vigueur, L’altra Roma, p. 18. 6 Sull’origine, sull’evoluzione storica e i protagonisti del casale romano si vedano: C. Gennaro, Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento (da una ricerca su registri notarili), in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio 4

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Chris Wickham 7, il paesaggio vitivinicolo faceva sentire il suo peso specifico, continuando di fatto ad insistere – come «un trapasso senza cesure» usando le parole di Alfio Cortonesi 8 –, quasi ininterrottamente su un’area molto vasta, pari a 20-25 chilometri dalla città stessa, tanto da riuscire a lambire anche la zona tradizionalmente più famosa per la coltura delle viti, quella dei Castelli Romani. E questo semplicemente perché nessuna delle città europee, neanche tra le più grandi del tempo, poteva portare in eredità dall’età classica un così particolare segno distintivo come la grandezza del territorio occupato dalla capitale dell’Impero Romano, la più capiente realtà urbana – soprattutto dal punto di vista demografico (con circa un milione di abitanti) – del mondo antico 9. Muratoriano», 78 (1967), pp. 155-203; J.-C. Maire Vigueur Les «casali» des églises romaines à la fin du Moyen Âge (1348-1428), in «Mélanges de l’Ecole française de Rome» (MoyenAge, Temps Modernes), 86 (1974), pp. 63-136; A. Cortonesi, L’economia del casale romano, in Alle origini della nuova Roma, pp. 589-601; J. Coste, Scritti di topografia medievale. Problemi di metodo e ricerche sul Lazio, a cura di C. Carbonetti, S. Carocci, S. Passigli, M. Vendittelli, Roma 1996 (Nuovi Studi Storici, 30); S. Carocci, M. Vendittelli, L’origine della Campagna Romana: casali, castelli e villaggi nel XII e XIII secolo, Roma 2004 (Miscellanea della Società Romana di Storia Patria, 47); A. Ruggeri, Famiglie aristocratiche romane e territorio: dai nomi di famiglia ai nomi dei casali, in Sulle orme di Jean Coste. Roma e il suo territorio nel tardo medioevo, a cura di P. Delogu, A. Esposito, Roma 2009, pp. 119-169. 7 C. Wickham, Roma medievale. Crisi e stabilità di una città, 900-1150, Roma 2013, pp. 141-142, dove tra l’altro lo storico inglese fa interessanti osservazioni riguardo la grande precocità di Roma alle specializzazioni vitivinicole rispetto all’Italia e all’Europa. Per una panoramica su queste tematiche si veda anche P. Delogu, La storia economica di Roma nell’alto medioevo. Introduzione al seminario, in La storia economica di Roma nell’alto Medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici, Atti del Seminario, Roma, 2-3 aprile 1992, a cura di L. Paroli, P. Delogu, Firenze 1993 (Biblioteca di Archeologia Medievale, 10), pp. 11-29; Id., Il passaggio dall’Antichità al Medioevo, in Roma medievale, pp. 3-40. Più in generale, invece, per un inquadramento storiografico sulla viticoltura europea in età medievale si vedano: G. Archetti, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998; Vino y viñedo en la Europa medieval, Pamplona 1996; La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento, Atti del Convegno, Monticelli Brusati-Antica Fratta 5-6 ottobre 2001, a cura di G. Archetti, Brescia 2003; A. Cortonesi, S. Passigli, Agricoltura e allevamento nell’Italia medievale. Contributo bibliografico, 1950-2010, in Reti Medievali, Firenze 2016 (Monografie, 26), pp. 73-85; e il recente saggio di M. Matheus, Trasformazioni strutturali nell’economia vitivinicola europea e nel consumo di vino nel Tardo Medioevo, in Oeconomica. Studi in onore di Luciano Palermo, a cura di A. Fara, D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Viterbo 2016, pp. 149-170. 8 Cortonesi, Terre e signori nel Lazio medioevale, p. 78. 9 Fin dall’Antichità, Roma godette di una ampia gamma di spazi, solitamente attigui alle abitazioni, dove i cittadini in maniera più o meno rilevante realizzavano orti e giardini privati. La maggior parte delle ville romane extra-urbane era invece contraddistinta dalla coltura estensiva della vigna, dove lo scopo ultimo di questa tipologia di coltivazione 471

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Ma anche per quel che concerne le locande, le osterie e più in generale il comparto alberghiero, Roma, come sottolineato qualche anno fa da Giovanni Cherubini, rappresenta un modello di studio sui generis 10. Il numero di esercizi connessi con quest’ultimo – tanto quelli in città (diverse centinaia) quanto quelli fuori – non trovano facilmente riscontro in altri contesti urbani della fine del Medioevo finora studiati. Ebbene questi due “mondi”, le vigne e le taverne per l’appunto, benché appartenenti a settori diversi (primario e terziario), trovarono un elemento di perfetta sintesi nel vivace mercato vinicolo dell’Urbe che ogni anno vedeva circolare – parlando di solo vino romano – circa 3.000.000 di litri, e forse anche più, con un giro di affari stimato tra i 30.000 e i 40.000 fiorini d’oro (grafici 1 e 2) 11. andava ben oltre il semplice autoconsumo della famiglia del proprietario: essa mirava infatti a soddisfare il mercato interno della città e le necessità direttamente connesse al consumo dei suoi numerosi abitanti, cfr. R. Volpe, Il suburbio, in Roma antica, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 2000, pp. 183-210: 197-198. A partire poi dal IV secolo d.C., la maggior parte degli spazi urbani, grazie alle donazioni degli imperatori, era passata nelle mani degli enti ecclesiastici di nuova fondazione che tra l’altro detenevano già il controllo di molte terre fuori dalle mura cittadine. La contrazione demografica registrata tra il tardo Antico e l’Alto Medioevo, la contestuale riduzione dell’abitato e la conseguente disomogenea distribuzione della popolazione a macchia di leopardo avrebbero poi determinato l’aumento dell’incolto in molte parti della città, in special modo in quelle periferiche a ridosso delle mura Aureliane. Questa serie di eventi decise in maniera inequivocabile sulle successive trasformazioni del paesaggio urbano romano, all’interno del quale – a differenza della gran parte delle città italiane ed europee – moltissime risultavano essere le aree verdi dentro la cinta muraria. Queste aree divennero l’ambiente ideale per l’impianto di nuove vigne che cominciarono ad espandersi in maniera esponenziale, soprattutto per iniziativa dei conventi e monasteri cittadini. Non solo, a questa proliferazione di orti e campi vitati intramuranei si unì poi anche quella delle terre presenti nelle zone suburbane, contraddistinte da questo tipo di coltura già dall’età antica. Ne derivava quindi un quadro vitivinicolo uniforme, che partendo dal centro cittadino si proiettava senza soluzione di continuità per diversi chilometri verso la campagna romana: quasi come se le possenti mura Aureliane non rappresentassero affatto un ostacolo all’espansione, cfr. D. Esposito, Vigneti e orti entro le mura: utilizzo del suolo e strutture insediative, in Roma: le trasformazioni urbane nel Quattrocento. II. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 205-228: 207. A questo proposito di recente Jean-Claude Maire Vigueur ha parlato de «il vuoto e il pieno» a proposito delle vaste aree distribuite tra incolto e zone abitate, sottolineando tra le altre cose come in realtà «il processo che ha condotto all’accentramento della popolazione verso l’ansa del Tevere non è stato così rapido né così brutale come lo ha descritto Krauthaimer», cfr. Maire Vigueur, L’altra Roma, p. 12. 10 G. Cherubini, La taverna nel basso Medioevo, in Il tempo libero, economia e società (Loisirs, Leisure, Tiempo Libre, Frezeit), secc. XIII-XVIII, Atti della Ventiseiesima Settimana di studi, Prato, 18-23 aprile 1994, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze 1995, pp. 525-555: 531. 11 Lombardi, Dalla dogana alla taverna, pp. 189-192. 472

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Grafico 1 – Produzione vinicola romana in base ai registri doganali (in botti romane di litri 525,06). Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 190. In asterisco sono contrassegnate le annate per le quali non sono pervenuti alcuni dati quantitativi: sono infatti assenti le registrazioni attinenti alle gabelle del mosto e del vino romano venduto a Borgo San Pietro.

Grafico 2 – Giro d’affari annuale intorno al mercato del vino romano (in fiorini d’oro di camera di 72 bolognini a fiorino)) Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 192. Con asterisco sono contrassegnate le annate per le quali non sono pervenuti dati su alcune gabelle (es. mosto e Borgo).

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Un mercato poi che, similmente ad altre aree dell’Italia tardomedievale, conobbe un momento davvero favorevole durante il Quattrocento, ovvero sull’onda della stabilità dei prezzi del grano che – come ricorda Gabriella Piccinni – incentivò, tra le altre cose, la coltura della vite, orientando le scelte dei viticoltori verso l’impianto di vitigni più ricercati e confacenti ad una domanda sempre più diversificata all’interno delle città 12. Diamo, dunque, uno sguardo prima alla situazione delle vigne per poi rivolgere brevemente l’attenzione anche alle locande e taverne urbane in maniera da comprenderne meglio caratteristiche, peso specifico e valore finanziario non soltanto all’interno dell’importante mercato immobiliare romano ma anche, e più in generale, in seno all’intera economia cittadina rinascimentale. Le vigne «Martedì a dii 13 de aprile 1445 fo nelle parti de Roma una si grossa ielata che desertao onne povero homo, et li ricchi non ne fecero bene, che in tutta terra de Roma che forsa ve so 20000 vigne, non credo che ne remanessero 200 che non fossero brusciate» 13. Il drammatico quadro descritto dal cronista Paolo di Lello Petrone, al termine della nefasta gelata che colpì l’Urbe e il suo contado nell’aprile del 1445, è uno dei tanti eventi noti agli storici della città, soprattutto per il dato che il Petrone propone relativamente alla massiccia presenza in quel periodo di vigne sul territorio urbano ed extra-urbano, circa 20.000. Si tratta in effetti di un numero davvero rilevante ma che, stando ad analisi più accurate su una fonte cinquecentesca, un registro della Presidenza delle Strade, sembrerebbe quanto meno un po’ esagerato o non più attuale rispetto ad una presenza vitivinicola che subì non pochi e importanti cambiamenti con l’approssimarsi dell’Età Moderna. Il registro al quale faccio riferimento è quello relativo alle «taxae viarum», ovvero quelle imposte pagate al Comune romano dai possessori di case, terreni e vigneti al fine di contribuire finanziariamente

12 G. Piccinni, La proprietà della terra, i percettori dei prodotti e della rendita, in Storia dell’Agricoltura italiana, vol. II, Il Medioevo e l’Età Moderna (secoli VI-XVIII), a cura di G. Pinto, C. Poni, U. Tucci, pp. 145-168: 163; A.I. Pini, Vite e vino nel Medioevo, Bologna 1989, p. 24. 13 Paolo di Lello Petrone, La Mesticanza, a cura di F. Isoldi, Città di Castello 1910 (RIS2, 24/2), p. 52. La stessa famiglia del Petrone aveva almeno una vigna di 4 pezze circa (un ettaro) situata fuori porta di Castello nel luogo detto Monte Secco, cfr. ibidem, p. LXXV.

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al rifacimento di strade confinanti con le loro proprietà 14. L’immagine che si ricava da questa preziosa fonte – seppure parziale in quanto ad essere rilevate nel documento sono solo alcune aree del territorio romano – è quella di una frequente e alta concentrazione di vigne – e in misura minore di canneti e orti – distribuite in modo non sempre omogeneo all’interno di molti quadranti della città 15. Tra i vari casi da ricordare in questa sede almeno due risultano quelli più interessanti, soprattutto per la precisione degli ordini di grandezza utilizzati nella fonte e per le tante informazioni che se ne ricavano sui proprietari di vigne 16. Nel 1525, ad esempio, il cosiddetto «Jettito delle vigne de Ponte Molli» indicava ben 35 vigne distribuite sui 53 ettari nell’area «extra muros» che costeggiava il Tevere dopo Ponte Milvio (fig. 1) 17. 14

Il registro e il relativo fondo sono conservati presso l’Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Presidenza delle Strade, t. 445. Della riscossione di questa tipologia di imposte cittadine si occupavano da anni i «magistri edificiorum et stratarum Urbis», un’antica magistratura del Comune di Roma la cui documentazione è stata oggetto di diversi ed importanti studi, cfr. L. Schiapparelli, Alcuni documenti dei “Magistri aedificiorum urbis” (secoli XIII e XIV), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 25 (1902), pp. 5-60; E. Re, Maestri di strada, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 43 (1920), pp. 5-102; C. Scaccia Scarafoni, L’antico statuto dei «Magistri stratarum» e altri documenti relativi a quella magistratura, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 50 (1927), pp. 239-308; C. Carbonetti Vendittelli, La curia dei magistri edificiorum Urbis nei secoli XIII e XIV e la sua documentazione, in Rome aux XIII et XIV siècles. Cinq études réunies par Étienne Hubert, Roma 1993, pp. 3-42; O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma 1997 (RR inedita, 14 Saggi). 15 Alcuni dei quadranti ricordati nella fonte, suddivisi per anni relativi al periodo di riscossione dell’imposta, corrispondono attualmente a: via Flaminia, subito fuori Porta del Popolo (ASR, Presidenza delle Strade, t. 445, c. 108r-v, anno 1525); Largo di Santa Susanna (ibidem, cc. 105r-106r, anno 1526); Porta San Lorenzo (ibidem, cc. 201r-202r, anno 1544); Prati di Nerone (ibidem, cc. 436r-439v, anno 1562). 16 ASR, Presidenza delle Strade, t. 445, c. 108r-v. Per quanto concerne gli ordini di grandezza il documento fa riferimento al numero di pezze romane (1 pezza = 2.640 mq) con cui si misuravano generalmente i terreni e i campi in area urbana e suburbana. Aspetto quest’ultimo affatto marginale perché oltre a permettere di avere un buon livello di precisione nello stabilire la reale superficie in ettari occupata dalle vigne, consente anche di immaginare, insieme ai nomi dei possessori di vigne citati nel testo della fonte, i potenziali valori economici di alcune di esse. Penso, ad esempio, alla vigna di ben 22 pezze – circa 6 ettari – posseduta dal canonico di San Pietro, Innocenzo dei Cosciari, di antica e nobile famiglia romana: questo immenso campo vitato, stando grosso modo ai prezzi del tempo, poteva aggirarsi intorno ad un valore di mercato di 250-300 fiorini d’oro, dunque una cifra davvero importante. Ma nella fonte si fa riferimento pure ad altri casi interessanti relativi a membri di altre casate romane come: Giorgio Santacroce o Gentile Boccapaduli entrambi con una vigna di 10 pezze (più di 2 ettari) situata al di fuori di Porta del Popolo a lato della via Flaminia. 17 Ibidem. 475

Fig. 1 – Estensione (53 ha) e n. di vigne (35) nella zona compresa tra Porta del Popolo e Ponte Milvio (1525) Fonte: ASR, Presidenza delle strade, t. 445, c. 108r-v. Elaborazione su base cartografica di Google Earth.

Fig. 2 – Estensione (280 ha) e n. di vigne (120) nell’area fuori Porta Castel Sant’Angelo (1562) Fonte: ASR, Presidenza delle strade, t. 445, cc. 436r-439v. Elaborazione su base cartografica di Google Earth.

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Diversi anni dopo, nel 1562 – e qui vengo al secondo esempio – il quadrante ad essere, invece, sottoposto a tassazione era quello fuori Porta Castel Sant’Angelo «usque ad viam Spinellorum», ovvero quell’area più nota come Prati di Nerone, dove sappiamo che la famiglia Spinelli aveva diverse proprietà 18. Al suo interno si contavano ben 120 vigne insistenti su un’area di 280 ettari (fig. 2). Sulla base, quindi, di questi primi dati e sulla scorta della ricostruzione di Susanna Passigli della cintura delle vigne estese fuori le mura per un raggio di 3-5 km – pari ad un’area di oltre 10.000 ettari – è possibile ipotizzare per la Roma quattrocentesca un numero di vigne compreso più verosimilmente tra le 11.000 e le 18.000 unità, dunque abbastanza al di sotto delle 20.000 descritte dal cronista Paolo di Lello Petrone nella sua cronaca; tenendo ben presente, tuttavia, che la variabile in questo contesto è costituita dalla grandezza dell’appezzamento, e che il taglio più comune oggetto di compravendita oscillava al tempo tra le 2 e le 4 pezze, ovvero tra mezzo ettaro e un ettaro (fig. 3).

Fig. 3 – L’estensione della cintura delle vigne romane nel XV secolo al di fuori della città

Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 187. Elaborazione grafica a cura di Susanna Passigli. La carta è stata ricavata partendo dalla prima raffigurazione in pianta dell'Agro Romano di Giovanni Battista Cingolani intitolata Topografia geometrica dell’Agro Romano, redatta nel 1692 e pubblicata in P.A. Frutaz, Le carte del Lazio, II, Roma 1972, tavv. 160-165, in particolare tavv. 161 e 164. È possibile distinguere nettamente, grazie a una diversa caratterizzazione grafica dai limiti ben precisati e indicante l'ordinamento colturale di tipo intensivo (vigne, canneti, orti), la irregolare superficie di terreno estesa fra le mura urbane e la fascia composta dal mosaico dei casali dell'Agro, contraddistinti ciascuno da un numero progressivo (3-5 km). 18

ASR, Presidenza delle Strade, t. 445, cc. 436r-439v. Come ricorda Rodolfo Lanciani, Tommaso Spinelli, mercante fiorentino e banchiere pontificio, fin dal 1452 possedeva almeno una vigna «a pie’ del monte Vaticano sulla via Trionfale», cfr. R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, vol. I, Roma 1913, p. 55. 477

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Questo permette, tra l’altro, di poter stimare a grandi linee anche il valore economico di questo vasto patrimonio fondiario collegato agli spazi vitati. Stando, infatti, ai prezzi stabili del periodo per le vigne, calcolati da Manuel Vaquero Piñeiro e Donatella Strangio, – mediamente circa 40-50 fiorini d’oro – si può sostenere che esso oscillasse complessivamente tra i 500.000 e un milione di fiorini d’oro 19. Una cifra davvero considerevole ma che si può ragionevolmente affermare essere al di sotto dell’effettiva entità economica raggiunta al tempo da tutti gli appezzamenti vitati insistenti sull’area urbana ed extra-urbana della Roma rinascimentale. Non fosse altro perché molte compravendite – talvolta anche monetariamente cospicue – non vennero mai registrate, nei libri della gabella dei contratti, ovvero l’imposta dovuta sulle contrattazioni immobiliari, in quanto allora molti dei contraenti, con la complicità forse dei notai, eludevano il fisco evitando di denunciare il passaggio dei loro beni ai gabellieri 20. Nel pieno Quattrocento, dunque, a Roma il mercato delle vigne si presentava «condizionato da un’offerta costantemente sovrabbondante e da un sistema degli scambi di conseguenza totalmente sbilanciato a favore della domanda»21, in un quadro, comunque, in cui – mi sembra opportuno precisarlo – molti romani investivano contestualmente il loro denaro nell’acquisto di spazi vitati presenti anche in altre zone, come quelle prossime all’Urbe: tra cui Tivoli ma soprattutto Frascati e Velletri, verso le quali li spingeva la ricerca della buona qualità dei fermentati ivi prodotti da importare per incrementare l’approvvigionamento del mercato interno 19 D. Strangio, M. Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento: la «Gabella dei contratti», in Roma: le trasformazioni urbane nel Quattrocento. vol. II. Funzioni urbane e tipologie edilizie, a cura di G. Simoncini, Firenze 2004, pp. 3-28: 21. Le stime dei due studiosi sono state in realtà calcolate sulla base dell’unità monetaria del fiorino romano o corrente, una moneta di conto – non realmente circolante – in uso tra gli operatori economici della Roma tardomedievale. In questa sede, per mantenere una certa uniformità in tutto il testo di questo mio lavoro, ho preferito rapportarla al fiorino d’oro di camera (di 72 bolognini) più o meno pari al doppio del valore del fiorino corrente (35-36 bolognini). Per gli aspetti legati all’uso della moneta nell’Urbe si rinvia a L. Palermo, I mercanti e la moneta a Roma nel primo Rinascimento, in Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di A. Esposito, L. Palermo, Roma 2005, pp. 243-281; I. Ait, Cudi facere in dicta seccha nisi ducatos romanos. Prime considerazioni sulla monetazione a Roma durante i pontificati di Martino V ed Eugenio IV, in «Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica», 57 (2011), pp. 157-172. 20 Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, p. 9. Più in generale sul tema delle frodi a Roma, mi permetto di rinviare a D. Lombardi, «Et per lo peccato de mectere l’acqua nello vino»: le frodi sul vino nella Roma del XV secolo, in «RR roma nel rinascimento», 2015, pp. 73-92. 21 Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, p. 21.

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cittadino 22. Ma al di là di questo, l’ampia base documentaria notarile di cui disponiamo, e sulla quale mi sono soffermato, permette di individuare anche alcune peculiari caratteristiche di questo mercato 23. Innanzitutto, come è stato possibile constatare attraverso la documentazione, nella maggior parte dei casi le compravendite interessavano per lo più vigne di grandezza pari a 2-4 pezze, fino ad arrivare a quelle meno frequenti da 10-12 pezze, più o meno 2-3 ettari, solitamente nelle mani di cittadini facoltosi o enti religiosi e laici che ne mantenevano il dominio eminente, cedendone eventualmente il dominio utile ai viticoltori interessati a coltivarne il terreno, non solo per l’autoconsumo familiare, ma anche per scopi commerciali. In questo variegato e complesso contesto, in cui ad essere coinvolta era praticamente tutta la cittadinanza e gli enti ecclesiastici e laici – tra i principali detentori del patrimonio fondiario romano – non c’era angolo del territorio che non fosse costantemente interessato da contrattazioni. Si acquistavano tanto vigneti insistenti in aree urbane, come quelle studiate da Daniela Esposito 24, spesso costipate e ricche di ruderi – come il Colosseo, il Celio, le Terme di Caracalla, il Circo Massimo anche detto «lo Circulo» o «Cerchium» – quanto quelle dal “più ampio respiro” – nel senso di maggiori spazi verdi a disposizione – come quelle vicine alla basilica di San Giovanni in Laterano o la Chiesa di Santa Susanna, senza dimenticare poi i vigneti appoggiati lungo le dorsali dei colli romani (il Palatino, il Pincio, l’Aventino, il Gianicolo, ecc.) e quelli, infine, coltivati a ridosso delle porte cittadine e da lì verso gli spazi aperti e sconfinati fuori dalle mura urbane ovvero lungo le vie consolari e l’Agro Romano (fig. 4) 25.

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D. Lombardi, Il distretto vitivinicolo del Lazio meridionale e l’impatto produttivocommerciale sul mercato di Roma nel Quattrocento, in «Pazzi innocui che consumano il tempo a frugare vecchie carte». Raccolta di saggi per il centenario de I Comuni di Campagna e Marittima di Giorgio Falco, volume I, Roma 2020, pp. 175-201. 23 Si tratta di circa trecento atti estrapolati dai protocolli dei notai romani, distribuiti dalla metà del Quattrocento al primo Cinquecento. In questa sede, ovviamente, darò conto di volta in volta in nota solo dei documenti più interessanti. 24 D. Esposito, Vigneti e orti entro le mura: utilizzo del suolo e strutture insediative, in Roma: le trasformazioni urbane nel Quattrocento, pp. 205-228. 25 Molte delle vigne fuori le mura sono peraltro segnalate nel saggio di A. Lanconelli, L’Agro Romano, in Il Territorio del Municipio Roma XVI. Storia, immagini, documenti, a cura di L. Londei, A. Pompeo, Roma 2009, pp. 9-23. 479

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Fig. 4 – La presenza di vigne ed orti dentro le mura urbane Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 186. In grigio scuro le vigne, in grigio chiaro gli orti. Dati ricostruiti dal CROMA (Centro per lo Studio di Roma - Università degli Studi Roma Tre) sulla base della pianta settecentesca di Giovanni Battista Nolli.

In secondo luogo, poi, non tutte le contrattazioni avevano lo stesso tenore economico, neanche quando si era in presenza di vigne dalle medesime caratteristiche. I casi da ricordare sarebbero molti ma in questa sede mi limiterò a citarne solo alcuni tra i più rappresentativi: ad esempio quello di una vigna, con tanto di vasca e vascale per la pigiatura, di 2 pezze nell’area intramuraria ricca di appezzamenti vitati di Castro Pretorio, «in loco qui dicitur Vivaro», che nel gennaio del 1486 veniva venduta dall’Ospedale del San Salvatore a Tertulia moglie di Francesco de Lellis al prezzo abbastanza contenuto di 65 fiorini correnti (circa 30 fiorini d’oro) 26. Un anno dopo la vendita di un’altra vigna di pari estensione ma posizionata 26

ASR, Trenta Notai Capitolini, Uff. 4 vol. 2, c. 230v. Tertulia avrebbe dovuto però continuare a fornire un censo annuale all’Ospedale del Salvatore pari a una «caballatam musti ad vasam tempore vendimiarum». Per quanto concerne la ricostruzione topografica e toponomastica del luogo denominato volgarmente anche Vivario, a causa della probabile presenza in età imperiale di un «vivaio di belve che i romani importavano per le venationes», cfr. U. Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma 1939, p. 348. 480

Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali

sul Gianicolo appena fuori porta San Pancrazio, «in loco qui dicitur lo Pallazetto», ammontava invece a 120 fiorini correnti, ovvero 60 fiorini d’oro, dunque il doppio della precedente 27. I contraenti erano questa volta due tavernieri della città, Domenico di Lello Ermando, in qualità di venditore e, tra l’altro, anche importante mercante-grossista di vino romano – tanto da arrivarne in un anno a smerciare fino a 3.000 litri all’ingrosso 28 – e un tale Jannaccaro in qualità di acquirente 29. I due casi appena menzionati ci portano subito verso una domanda: perché una valutazione così diversa sul prezzo di due vigne di pari dimensioni? La risposta va probabilmente ricercata almeno in un paio di motivi. Il primo: la buona posizione della vigna dei due osti rispetto all’altra, proprio sulla sommità del Gianicolo, dove Andrea Bacci, esperto medico ed enologo del XVI secolo, aveva individuato «sopra le lievi collinette volte a mezzogiorno essendo il suolo sempre arsiccio e sabbioso» una delle poche zone davvero favorevoli ad una produzione vinicola romana di qualità, generalmente, invece, nota per i suoi pessimi fermentati, tanto poi da spingere lo stesso Bacci a sostenere che di solito tutti i tavernieri possessori di vigne in questa area «quando hanno tra mani qualche vin generoso del luogo come a dire dei colli di San Pancrazio per venderlo più caro lo battezzano per vin Latino o di Centula od anche per mite Clarello», ovvero vini a tal punto di buona qualità da essere venduti astutamente dagli osti romani per vini bianchi più costosi e d’importazione 30. Il secondo motivo, invece, è con tutta probabilità collegato allo stato di ormai matura produzione vinicola cui era giunta al momento della compravendita questa vigna di collina che passava di fatto da un navigato taverniere-viticoltore all’altro senza soluzione di continuità, mantenendo dunque verosimilmente inalterata anche la resa produttiva di vino, necessaria e funzionale, tra l’altro, alla domanda del mercato 31. 27

ASR, Trenta Notai Capitolini, Uff. 4 vol. 1, c. 267r-v. ASR, Camera Urbis, reg. 115. 29 ASR, Camera Urbis, regg. 99 e 116. 30 Andrea Bacci, De Naturali Vinorum Historia de Vinis Italiae Et de Conviviis Antiquorum Libri Septem, Roma 1596, traduzione integrale dei libri 5 e 6 a cura di G. Cometti, in «Annali di viticoltura ed enologia», 8 (1875), fasc. 48, pp. 41-43. 31 Non va altresì dimenticato che in Italia, fra la fine del Trecento ed il Quattrocento, si era ormai profondamente radicata tra i viticoltori e gli agronomi la convizione legata alla migliore qualità dei vini de «monte», ovvero di collina, rispetto ai vini «de plano», ossia di pianura: nel primo caso si prediligeva la qualità nel secondo invece la quantità. Per questi aspetti cfr. J.L. Gaulin, Tipologia e qualità dei vini in alcuni trattati di agronomia italiana (sec. XIV-XVII), in Dalla vite al vino. Fonti e problemi della vitivinicoltura italiana medievale, a cura di J.L. Gaulin, A.J. Grieco, Bologna 1994, pp. 61-83: 65; G.M. Varanini, Le strade 28

481

Daniele Lombardi

Contestualmente a questi ultimi motivi potevano però entrare in gioco anche altri fattori che portavano a far crescere il prezzo di una vigna rispetto ad un’altra di pari grandezza: tra questi la presenza o meno di suppellettili e attrezzature adatte alla produzione vinicola o ad altri scopi. A questo riguardo appare quanto mai calzante l’atto di compravendita di una vigna di sole 2 pezze e mezza, poco più di mezzo ettaro, di proprietà di Caterina nobile moglie del defunto «Tome de Constolis» del rione Sant’Angelo, venduta nel maggio del 1466 al rilevante prezzo di 130 ducati d’oro a Vannozza moglie del «quondam» Mattia Muti, quest’ultima, tra l’altro, ne possedeva già una a poca distanza, al cosiddetto «Cerchium» (il Circo Massimo) 32. Dunque questa vigna intramuraria, ben esposta – come ricorda il documento – sulla collinetta di fronte al convento di San Sisto, e vicina alla Chiesa di San Cesareo «de Appia», al momento di essere venduta era fornita di tutta una lunga serie di strutture che portavano inevitabilmente a far lievitare il suo prezzo: «statio, vasca et vascale et tino» ma soprattutto una «domus» con loggia, provvista di camere, cucina e una fonte dalla quale attingere l’acqua. A fare la differenza nelle compravendite tra Quattro e Cinquecento erano anche altri criteri di valutazione che potevano portare, come noto, alla formazione del prezzo finale delle vigne. Molti di questi criteri erano funzionali a rispondere non solo al vivace mercato vinicolo dell’Urbe ma anche alle singole esigenze dei soggetti interessati. Nel 1488, infatti, il mercante, speziale e gestore di taverne, Evangelista dello Crapolo, che già possedeva una vigna subito fuori porta Castel Sant’Angelo, decideva di acquistarne un’altra di una pezza e mezza, confinante con quest’ultima, al prezzo di ben 42 ducati d’oro 33. Una cifra piuttosto alta considerato il fazzoletto di terra su cui insisteva questo piccolo vigneto. Un vigneto però che una volta acquistato poteva tornare estremamente utile ai fini di Evangelista, il quale, oltre ad espandere le sue proprietà, vedeva potenzialmente incrementata la propria produzione vinicola, sia per l’autoconsumo familiare, sia per i tanti clienti della vicinissima taverna-fraschetta del Paradiso di cui era proprietario da tempo 34. Anzi, l’importante prossimità del vino. Note sul commercio vinicolo nel tardo Medioevo (con particolare riferimento all’Italia settentrionale), in La civiltà del vino, pp. 635-663: in particolare p. 652 e p. 661. 32 ASR, Collegio dei Notai Capitolini, 1164, cc. 127r-128r e cc. 128v-129v. Grosso modo le due vigne dovevano essere distanti circa un chilometro l’una dall’altra. 33 ASR, Collegio dei Notai Capitolini, 642, cc. 95v-96r. La vigna era ubicata esattamente fuori le mura «extra portam Castelli et portam Viridariam». 34 Su Evangelista dello Crapolo e la sua ricca taverna-fraschetta del Paradiso mi permetto di rinviare al mio recente saggio D. Lombardi, Osti, ostesse, tavernieri e albergatori: luci ed 482

Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali

logistica che lo stesso era riuscito a concretizzare con gli accorpamenti delle sue vigne e la vicina locanda aveva di fatto permesso allo stesso mercante di realizzare una vera e propria “filiera corta” del vino, permettendogli così non solo di abbattere molti dei costi di gestione e trasporto del prodotto, ma anche di salvaguardare le stesse qualità organolettiche del fermentato che notoriamente pativano gli eccessivi spostamenti su carri o some di animali 35. In sintesi a Roma, come si è brevemente visto, finché il traffico del vino locale, oltre ad essere funzionale al normale sostentamento alimentare dei romani, continuò a rappresentare una discreta fonte di reddito, anche gli investimenti sottesi al mercato delle vigne proseguirono ad interessare, almeno fino ai mutamenti del primo Cinquecento, in modo più o meno concreto una variegata moltitudine di soggetti 36. Con alcune piccole distinzioni però. Mentre gli appartenenti ai grandi enti ecclesiastici e laici – in qualità di principali percettori del patrimonio viticolo cittadino – sembravano allora “accontentarsi” delle più tranquille e classiche forme di rendita fondiaria37, tutti gli altri soggetti economici implicati (viticoltori, mercanti-grossisti, osti ecc.)38, sembravano essere invece decisamente più ombre dell’attività ricettiva nel Quattrocento, in Vivere la città, pp. 39-53: 43-44. 35 Per importanti spunti in merito alle problematiche connesse con il trasporto del vino nel Medioevo si rinvia all’interessante lavoro con bibliografia sul tema di D. Ognibene, Il viaggio del vino nel tardo Medioevo. Problematiche, appunti e suggestioni, in Il vino dei templari. Ricerche a Bologna tra archivistica, iconografia, archeologia, palinologia e genetica, Tuscania (Vt) 2018, pp. 51-67. 36 Come, infatti, ricorda Daniela Esposito, l’assetto del paesaggio vitivinicolo romano, qui appena accennato, cominciò a mutare soltanto nell’ultimo scorcio del XV secolo quando, alle funzioni di carattere prettamente agricolo connesse alla coltura della vite, subentrò una nuova concezione, d’impronta classica, del giardino e della vigna concepiti come luoghi ameni, finalizzati, dunque, più all’ostentazione del prestigio raggiunto dai cardinali e dalle casate dell’aristocrazia romana piuttosto che al sostentamento delle famiglie o al mercato cittadino, cfr. Esposito, Vigneti e orti entro le mura, p. 228. 37 E per queste forme si intendono soprattutto i censi in quantità di mosto e vino che solitamente venivano versati dai vignaioli durante l’anno agli enti ed istituzioni che detenevano il dominio eminente delle vigne e che, comunque, in regime di «surplus» potevano finire per essere reimmessi in circolazione dagli stessi enti sul mercato urbano generando così ulteriori utili per questi ultimi. Per le interessanti considerazioni riguardo la gestione dei censi da parte degli enti ecclesiastici si rinvia a M. Vaquero Piñeiro, I censi consegnativi. La vendita delle rendite in Italia nella prima età moderna, in «Rivista di Storia dell’agricoltura», 47/1 (2007), pp. 59-94. 38 Questi soggetti, non di rado a Roma erano identificabili con un’unica figura, e grazie alle loro spiccate capacità imprenditoriali erano in grado di controllare l’intera filiera del vino, passando cioè dalla produzione, alla distribuzione all’ingrosso e al minuto di vino romano nelle locande senza soluzione di continuità. Per questi aspetti cfr. Lombardi, Dalla dogana alla taverna, pp. 259-260. 483

Daniele Lombardi

attratti da forme speculative legate ad ogni genere di profitto, in particolare quelle connesse con lo smercio del vino al minuto nelle tante taverne e osterie cittadine, non a caso anche queste spessissimo di loro proprietà (tabelle 1 e 2) 39.

Denominazione dell’istituzione

Quantità di vino romano all’ingrosso venduto (in barili di 58,34 litri e corrispettivo valore in botti)

Stima del ricavo della vendita in fiorini d’oro di camera

Acquirente, locanda, rione di vendita

(valore medio di 6 fiorini la botte)

Tor de’ Specchi

87 (9,5 BOTTI)

54

Vannino lombardo; Renzo della Corona; Stefano di Benevento

San Nicola della Colonna

78 (8,5 BOTTI)

48

Renzo funaro

SS. San Salvatore e Santa Balbina

77 (8,5 BOTTI)

48

Renzo Francesco e Antonio sarto

Ospedale del San Salvatore

60 (6,5 BOTTI)

36

/

San Quirico

45 (5 BOTTI)

30

Giovanni francioso alle Mole; Stefano al Gallo

Santa Maria in Monticelli

35 (4 BOTTI)

23

Andrea scozio, in Arenula

San Paolo alla Regola

24 (2,5 BOTTI)

15

Gaspare Lucarello

Santa Maria di Arca Noè

24 (2,5 BOTTI)

15

Protonotaro Savelli

Ospedale dei tedeschi – Santa Maria dell’Anima

8

5

/

Tab. 1 – Alcuni degli enti religiosi/laici dediti alla vendita di vino romano all’ingrosso (1478) Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 295.

39

Interessanti osservazioni a questo riguardo sono quelle proposte da L. Palermo, Il patrimonio immobiliare, la rendita e le finanze di S. Maria dell’Anima nel Rinascimento, in S. Maria dell’Anima. Zur Geschichte einer “deutschen” Stiftung in Rom, a cura di M. Matheus, Berlin, 2010, pp. 279-325. 484

Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali

Nome

Quantità di vino romano all’ingrosso venduto (in barili di 58,34 litri e corrispettivo valore in botti)

Stima del ricavo della vendita in fiorini d’oro di camera (valore medio di 6 fiorini la botte)

Acquirente, locanda, rione di vendita

Antonio dello Dammaro

161 (17,8 BOTTI)

107

Mulecta; in Borgo; Giacomo di Novara alla Fede; Coluzza Cafeo; Renzo Maccione; Antonio Mezato

Domenico Stefanelli

138 (15,3 BOTTI)

92

Pietro Mazzabufali; Giovanni tedesco libraio in Campitelli; Renzo Porticappa

Vello di Stefano

120 (13,3 BOTTI)

Angelotto Teoli

114 (12,6 BOTTI)

76

Nardo Cacaforo; Domenico di Benevento

Girolamo di Renzo Altieri

115 (12,7 BOTTI)

76

Vannino in Ponte; Renzo Domenico funaro

Giuliano di Renzo Altieri

109 (12,1 BOTTI)

73

Domenico di Lello a Ripa Romea; Frati dell’Aracoeli; Pietro Pedone

Messere Giuliano Biondo

110 (12,2 BOTTI)

73

Antonio Luca Matteo

Cristofano di Novara

75 (8,3 BOTTI)

50

Santo Spalvera

Renzo Castellani

70 (7,7 BOTTI)

47

Alessio Petrucciolo e Filippo Semiolo

Riccardo Sanguigni

67 (7,4 BOTTI)

45

Francesco di Civita; Matteo schiavone

44

Lorenzo e Gerardo fornaciari

37

Giovanni Mascione

34

Giovanni tedesco; l’oste all’Angelo

Giovanni Boccamazza Paolo Teoli Francesco Teoli

66 (7,3 BOTTI) 63 (6,2 BOTTI) 51 (5,6 BOTTI)

80

Mazzone lombardo a Cerqua; Renzo Francesco

Tab. 2 – Principali mercanti di vino romano all’ingrosso (1478) Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 298.

485

Daniele Lombardi

Le taverne «Erano in Roma questo anno del giubileo hosterie milleventidue, che tengono insegna di fuori. Et senza insegna anche uno grande numero» 40. Con queste parole il cronista fiorentino Giovanni Rucellai dipingeva la situazione del ricco giubileo del 1450, con uno sguardo innegabilmente interessante su uno dei principali motori dell’economia urbana: quello dell’ospitalità a pagamento. Anche qui, come si è visto, torna un dato quantitativo da non sottovalutare assolutamente, soprattutto per la precisione, fin quasi nel dettaglio fornita dalla cronaca del Rucellai: la presenza in città di ben 1.022 osterie. È possibile dare credito alle sue informazioni? Ebbene, al di là dell’improbabilità che lo stesso cronista abbia effettivamente contato le locande una ad una, direi che il dato anche se un po’ sovradimensionato non è affatto così lontano dalla realtà del tempo. Attraverso le indagini effettuate sui registri quattrocenteschi delle gabelle del vino al minuto è infatti possibile quantificare tra 500 e 700 il numero di locali in cui si vendeva vino e si ospitavano persone nella Roma del Rinascimento (fig. 5) 41. Ciò tuttavia non deve sorprendere perché a Roma, come hanno dimostrato bene gli studi di Ivana Ait e Donatella Strangio, il fenomeno economico legato all’industria alberghiera era ben avviato fin dal XIV secolo, tanto che all’interno del comparto dell’ospitalità si contava almeno un migliaio di operatori che, in frangenti particolari come l’Anno Santo, raddoppiavano senza difficoltà il loro numero 42. A questo fondamentale segmento dell’economia urbana prendevano parte persino gli uomini del clero delle chiese cittadine, come nel caso studiato recentemente da Alexis Gauvain, del parroco Ansuino da Anticoli che a pagamento dava da dormire e da bere vino – anche frodando il fisco – ai suoi tanti ospiti 43. Vi partecipavano poi attivamente gli ebrei, come ricorda Anna Esposito, impiantando, come molti che agivano in questo campo, delle vere e 40

G. Marcotti, Il Giubileo del 1450 secondo una relazione di Giovanni Rucellai, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 4 (1881), pp. 563-580: 563. 41 D. Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 302. 42 Senza contare poi tutti quei soggetti attivi nel settore, come garzoni e inservienti, raramente ricordati nelle fonti; cfr. I. Ait, D. Strangio, “Turisti per … ventura”. L’attività alberghiera a Roma nel Rinascimento, in Storia del Turismo. Le imprese, a cura di P. Battilani, Milano 2011, pp. 13-44; Lombardi, Osti, ostesse, tavernieri, pp. 38-39. 43 A. Gauvain, Una storia dalla Roma del Quattrocento. Quaderni di Ansuino di Anticoli, parroco in Roma e beneficiato vaticano (1468-1502), Città del Vaticano 2014, p. 58. Sull’edizione dei quaderni privati del parroco Ansuino si veda Id., Memorie di Ansuino de Blasiis sacerdote e notaio a Roma (1468-1502), Roma 2017 (RR inedita 71, saggi). 486

Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali

Fig. 5 – Distribuzione dei locali e punti di vendita di vino a Roma (circa 600) nella seconda metà del XV secolo Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 323.

proprie società per l’esercizio «ad artem taberne» con la finalità forse di rivendervi pure vino kosher, ma poi anche moltissimi stranieri e donne 44. Il settore creava dunque un giro d’affari talmente rilevante da essere difficilmente trascurato dagli imprenditori e soggetti economici della città. Ogni anno bisogna pensare che circa 100.000 fiorini d’oro venivano incassati dalla sola vendita di vino romano e forestiero effettuata nei tanti locali cittadini, e il dato aumentava a 130.000 fiorini d’oro nel caso del giubileo. Senza contare poi tutti gli altri importanti profitti che scaturivano annualmente dai servizi offerti dalle strutture di questo genere (vitto, alloggio, stallaggio, ecc.) che a loro volta innescavano un indotto che allo stato attuale è impossibile calcolare ma che richiamava senza alcun dubbio un gran numero di maestranze specializzate insistenti in città: falegnami, per realizzare panche, tavole, sgabelli per gli avventori, bottai per le botti 44

Lombardi, Osti, ostesse, tavernieri, pp. 47-48. 487

Daniele Lombardi

e i barili, bicchierai per le migliaia di bicchieri, materassai, per l’approntamento dei letti, e poi mulattieri per il trasporto di ogni genere di prodotti o merce (vino, olio, fieno, legname, ecc.). Ebbene in un contesto come quello appena descritto l’intero patrimonio immobiliare cittadino che faceva capo al settore dell’ospitalità romana doveva ammontare a non meno del rilevante valore di 300.000 fiorini d’oro, tenendo conto del prezzo medio di circa 500 fiorini d’oro assegnato al momento della vendita alla maggior parte di queste strutture. Anche qui la formazione del prezzo finale era comunque dettata da alcuni importanti fattori: l’ampiezza del locale, la sua posizione (il rione o il luogo più o meno centrale, come piazza Campo de’ Fiori o Santa Maria Rotonda importanti centri di traffico commerciale e passaggio); la dotazione o meno di suppellettili ed elementi vari (tavoli, panche, letti, cucina, forno, pozzo ecc.); per finire con opportune e specifiche “proposte commerciali” che spesso giocavano un ruolo non secondario nella determinazione del valore dell’immobile 45. È quanto, ad esempio, ritroviamo in un atto del 1471 di una taverna di Porta Castello, probabilmente appoggiata o ricavata all’interno delle stesse mura urbane, in cui la locanda veniva offerta contestualmente a chi prendeva in appalto anche la gestione e il controllo fiscale delle persone e delle merci che transitavano attraverso la medesima porta: un sistema dunque per ingolosire l’eventuale compratore attraverso una sorta di formula, ancora molto attuale, del cosiddetto “due per uno” 46. In tale ambito, tuttavia, al contrario di quanto osservato per il vivace mercato delle vigne, si registrano nelle fonti soltanto «episodiche testimonianze di taverne o alberghi» oggetto di compravendita 47. Ma quando ciò avviene si nota subito come questa tipologia di immobili al momento del passaggio di proprietà da un soggetto all’altro superava non di poco la soglia dei 1.000 fiorini d’oro di valore. Ne è un classico esempio l’osteria della Vacca acquistata da Vannozza Cattanei – amante di papa Alessandro VI Borgia – a quasi 2.870 ducati di carlini in due tranche, osteria che poi garantì a lei e in seguito all’Ospedale del Salvatore – che la ricevette dalla stessa Vannozza – 45

Per quanto concerne tutti questi aspetti, oltre al mio recente volume Lombardi, Dalla dogana alla taverna, pp. 317-351, rinvio agli specifici saggi che trattano l’argomento di A. Modigliani, Taverne e osterie a Roma nel tardo Medioevo: tipologia, uso degli spazi, arredo e distribuzione nella città, pp. 19-45; I. Ait, Taverne e locande: investimenti e gestione a Roma nel XV secolo, pp. 55-76, entrambi contenuti nel volume Taverne locande e stufe a Roma nel Rinascimento, Roma 1999 (RR inedita 23, saggi). 46 ASR, CNC, 1764, c. 96v. 47 Strangio, Vaquero Piñeiro, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, p. 17. 488

Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali

una rendita annuale di ben 280 ducati annui 48. E questo perché le taverne, le osterie e le stufe – anche queste ultime con il loro «balneum» offrivano ospitalità e vino ai loro clienti 49 – nella maggior parte dei casi venivano sfruttate al massimo delle loro potenzialità dai legittimi proprietari che evitavano di privarsene, se non in casi molto rari o per ragioni probabilmente di estrema necessità e magari tentando di frazionarne la proprietà prima di una eventuale e parziale vendita 50. Per esse si ricorreva, invece, spessissimo a due precise forme di gestione. La prima tra le più frequenti, maggiormente soggetta ai rischi d’impresa ma anche quella con più margini di profitto, era la conduzione societaria in quote. In questo caso il proprietario dell’immobile – solitamente un ricco mercante come Prospero Santacroce, Giuliano Gallo, Giacomo di Renzo Stati per ricordarne solo alcuni tra i più importanti – al quale spettavano quindi gran parte degli utili, in qualità di socio maggioritario, allestiva la struttura di tutto quello che le occorreva, masserizie, suppellettili, ma soprattutto vino. Vino che lo stesso mercante provvedeva poi a recuperare in parte dalle sue vigne – abbattendo così enormemente i costi di produzione – o importandolo in prima persona con vetturali di sua fiducia per la via di terra, oppure via mare servendosi dei suoi tanti contatti con i patroni forestieri di navi presenti nel porto di Ripa, per poi consegnarlo nelle mani dei soci minoritari ai quali lasciava invece di sovente solo “le briciole” della società 51. Questi ultimi, solitamente tavernieri navigati – «che se mostravano angeli et poi erano cani» secondo il cronista trecentesco Buccio di Ranallo che così li definisce nel 1350 52 – insieme a semplice manodopera, spesso senza esperienza, che non di rado proveniva da altri comparti lavorativi (calzolai, sarti, barbieri, alcuni dei quali caduti in disgrazia finanziaria) venivano 48

Ait, Strangio, “Turisti per … ventura”, p. 26. A. Esposito, Stufe e bagni pubblici a Roma nel Rinascimento, in Taverne locande e stufe, pp. 77-93. 50 ASR, Collegio dei Notai Capitolini, 1134, c. 800r-v. Così ad esempio agiva il 18 settembre 1481 Antonia moglie di Francesco de Mazzeis del rione Sant’Eustachio prima di vendere alle sue sorelle metà di un terzo della sua «domus sive taberne delle Sorice» situata sulla piazza di Santa Maria Rotonda. Oppure come faceva Faustina de Tozzolis nel settembre 1490 al momento di cedere a Lucrezia Porcari solo la quarta parte della sua locanda della Corona a Campo de’ Fiori, cfr. A. Modigliani, I Porcari. Storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, Roma 1994 (RR inedita 10, saggi), p. 417. 51 Lombardi, Osti, ostesse, tavernieri, p. 52. 52 Buccio di Ranallo, Cronaca aquilana rimata, a cura di V. De Bartholomeis, Roma 1907, (Fonti per la Storia d'Italia, XLI), p. 194. Il breve passo si riferisce alla venuta a Roma del cronista aquilano durante il giubileo del 1350 e alla sua personale esperienza vissuta nei giorni di permanenza in città di cui ha lasciato interessanti e dettagliate descrizioni. 49

489

Daniele Lombardi

spesso sfruttati al massimo dal socio maggioritario che li obbligava con stringenti patti stipulati davanti ad un notaio alla dura e imprevedibile attività quotidiana, a contatto con avventori di ogni genere, sempre pronti ad alzare troppo il gomito ed in grado di trasformare una banalissima serata di piacevoli bevute in un vero inferno per l’oste e i suoi numerosi clienti (grafici 3 e 4) 53.

Grafico 3 – Principali proprietari di taverne e loro profitti sulla vendita di vino nel 1475 Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 333.

53

Lombardi, Osti, ostesse, tavernieri, pp. 51-53. Per esemplificare ricordo solo il caso del mercante di vino e gestore di taverne Paolo Orsini. Costui tra il 1486 e il 1487 costituiva a più riprese con alcuni osti e ostesse almeno tre società per la conduzione della sua taverna nel centrale rione Regola: la prima con gli osti parmigiani Pellegrino e Lario di Antonio; la seconda con i coniugi tedeschi, Luca e Margherita, la terza infine con lo scozzese Andrea Donati «tabernarius de Urbe». I tre sodalizi, che ebbero tutti breve durata, prevedevano da parte di costoro, oltre alla normale conduzione della taverna, al cui interno vi erano anche cucina, stanze e letti, anche la vendita al minuto del vino approvvigionato dallo stesso Orsini; il compenso per il lavoro da essi svolto veniva così fissato: 1 carlino (1/10 di ducato) per ogni botte di vino venduta e per altre spese. Paolo invece a conti fatti – per esempio vendendo una botte di buon vino Greco al dettaglio – poteva arrivare a ricavare circa 160 volte in più di quanto riuscissero a guadagnare i suoi osti. 490

Tra rendita e profitto: vigne e taverne negli spazi urbani romani rinascimentali

Grafico 4 – Principali osterie e taverne con i loro profitti sulla vendita di vino nel 1475 Fonte: Lombardi, Dalla dogana alla taverna, p. 325.

La seconda modalità, invece, che aveva caratteristiche tipiche della classica rendita immobiliare, era quella di cedere solitamente in affitto a terzi il locale e l’attività commerciale per un periodo variabile da qualche mese ad un paio di anni (talvolta anche per periodi più lunghi), sfruttando così al massimo anche le formule assai speculative e tipiche di Roma legate all’ormai noto rialzo generale dei prezzi di locazione degli immobili soprattutto in occasione di eventi importanti, quali i giubilei oppure le venute di imperatori o regnanti in città. Anche in questo caso a farne maggiormente ricorso, con canoni di locazione che Ivana Ait ha calcolato in circa il 10% del valore dell’immobile (di solito più del doppio di un affitto per una casa), erano soprattutto gli enti ecclesiastici e laici della città, ovvero quegli stessi enti che ritroviamo, come visto, particolarmente attivi anche all’interno del mercato delle vigne 54. Ricordo tra i tanti possibili, il già citato caso dell’Ospedale del Salvatore per l’osteria della Vacca, ma anche 54

Ait, Taverne e locande, p. 61. A questo proposito, per la gestione a Roma della rendita immobiliare da parte di un ente laico, come l’Ospedale tedesco di Santa Maria dell’Anima, si rinvia a Palermo, Il patrimonio immobiliare, pp. 286-291. 491

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il caso della taverna della Volpe di proprietà del noto convento dei frati di Sant’Agostino, con una rendita di 10 ducati annui 55. Ma al di là di chi si affidasse ad una o all’altra formula è chiaro che i vantaggi che se ne potevano trarre erano ovviamente tanti e soprattutto funzionali alle necessità e alle aspettative di ogni singolo soggetto economico coinvolto attivamente nel settore ricettivo romano (mercanti, osti, ecc.). Un settore che – e lo ribadisco concludendo questo mio breve lavoro – dal Rinascimento in poi – rispetto a quello che accadde invece fin dall’inizio dell’Età Moderna con il mercato immobiliare delle vigne (non più intese però prettamente come luogo di produzione vinicola, quali erano state concepite durante il Medioevo e fino a tutto il Quattrocento, ma come quel locus amoenus che sarà poi più che altro considerato dalle cinquecentesche famiglie nobili e cardinalizie romane) – non conobbe sostanziali «black out», anzi si allineò armonicamente alla curva di prestigio economico raggiunta dalla città soprattutto all’avvento del “Grand Tour” che, come noto, oltre ad assegnare definitamente a Roma il suo ruolo di centro urbano tra i più importanti del turismo europeo di «ancien régime» stimolò ancor di più, trascinandolo con sé, anche tutto il vivacissimo mercato immobiliare connesso con la prolifica industria alberghiera cittadina.

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Archivio della Curia Generalizia degli Agostiniani, Provincia Romana, Oo 2, c. 6v. Sono davvero grato ad Antonella Mazzon per la segnalazione di questo interessante documento e per aver voluto condividere con me alcuni importanti passaggi storici relativi alla vicenda immobiliare della taverna della Volpe. Tra questi vale la pena di ricordare: la sua posizione, ovvero lungo la via Retta, nei pressi della chiesa di S. Salvatorello (o meglio S. Salvatore in Primicerio); i suoi numerosi passaggi di gestione/proprietà, nell’arco temporale che va dal 1463 al 1501, con i nomi di moltissimi tavernieri della città noti attraverso i registri delle gabelle del vino (es. Stefano di Cola Croce, Prospero Boccaccio, ecc.); infine, lo stato di grave degrado in cui era caduto l’immobile sul finire del Quattrocento. Più in generale sulla storia del convento rinvio al recente saggio e alla bibliografia ivi citata di A. Mazzon, Gli agostiniani conventuali nel Quattrocento a Roma. Sant’Agostino e i suoi dintorni, in «Reti medievali Rivista», 19,1 (2018), pp. 473-500, consultabile anche in rete sul sito: http://rivista.retimedievali.it. 492

Maurizio Gargano Abitare la modernità. Roma nel XV e XVI secolo: la residenza tra casa e bene voluttuario*

«Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano del piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze»: così scrive Giambattista Vico nell’Assioma LXVI contenuto nei suoi Principj di scienza nuova dintorno alla comune natura delle nazioni 1. Tralasciando i maggiori timori che spesso assalgono lo storico, il rischio – cioè – di cadere nel peccato mortale del vituperato “anacronismo storico”, questa sorprendente intuizione di Giambattista Vico coglie un aspetto peculiare, su cui soffermarsi a riflettere, assai più di quanto non abbiano colto talune riflessioni di autorevoli storici dell’architettura dell’Età umanistico-rinascimentale: riflessioni pur dotte e ineludibili. Vico coglie indirettamente lo spirito che ha spinto una determinata committenza a realizzare quegli edifici che hanno contribuito alla trasformazione dei modi dell’abitare dalla cosiddetta Età di Mezzo all’altrettanta cosiddetta Età Rinascimentale (figg. 1 e 2). Si tornerà sulla validità, in tal senso, di questo assioma di Giambattista Vico. Ma ora è il caso di procedere lentamente, attraverso alcune considerazioni introduttive alle questioni accennate nel titolo di queste riflessioni. L’inaugurazione nel giugno del 1453 della Mostra dell’Acqua di Trevi, nell’omonimo e centrale rione romano, sottolinea un aspetto della “modernizzazione” della obsoleta Roma medievale 2 (fig. 3). L’interesse dei vari *

Il presente testo scaturisce da una ricerca condotta dall'Autore in collaborazione con Giuliana Mosca e ancora in corso nel Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi ROMATRE. Le figure riportate qui appresso sono comuni ad entrambi i contributi. 1 Giambattista Vico, Principj di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni… Corretta, Schiarita e notabilmente Accresciuta, Assioma LXVI, Napoli 1744. 2 Cfr. M. Gargano, Niccolò V. La città tra renovatio e restitutio, in Origini e Storia. Roma Architettura Città, RR inedita, 67 saggi, Ed. Roma nel Rinascimento, Roma 2006, pp. 27-62. 493

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papi rivolto progressivamente alle infrastrutture della città – acquedotti, fontane, ponti, argini del fiume, piazze, strade – si affianca emblematicamente agli esordi dei noti e sempre più consistenti investimenti economici nell’architettura religiosa e civile dei secoli XV-XVI. Alle architetture che hanno segnato le origini della cosiddetta età umanistico-rinascimentale, contribuendo alle trasformazioni della tradizionale facies architettonica di Roma si associa, infatti, un non secondario interesse per le “opere pubbliche”, per interventi “a scala urbana” spesso posti su un piano eccessivamente marginale dalla più acclarata storiografia. E proprio questo genere di attenzioni disvela la lenta, quanto abile e dissimulata, strategia pontificia volta al dominio indiscusso nella gestione della città di Roma. Sotto la forma di “doni” alla cittadinanza, elargiti con consistenti sovvenzioni di denaro, i papi attraverso la progressiva appropriazione delle Magistrature comunali (le tradizionali magistrature deputate alla gestione delle Acque, delle Strade e degli Edifici 3, di stretta competenza municipale), si avviano a diventare gli indiscussi “gestori” della “cosa pubblica”. Di concerto, 3 Vasta è la letteratura in merito; si rimanda qui sinteticamente a C. Re, Statuti della città di Roma del sec. XIV, Roma 1883, passi relativi; a L. Schiapparelli, Alcuni documenti dei Magistri aedificiorum Urbis (secc. XII e XIV), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 25 (1902), pp. 5-60 in cui è analizzata la letteratura sull’argomento. A riprova di una Magistratura già efficiente nei secoli precedenti il XIV, vd. anche M. Bardi, Facultates magistratus curatorum viarum aedificiorumque publicorum et privatorum alme urbis, Romae 1565; A. Brugiotti Epitome iuris viarum et fluminis praxim rei aedilis compraehendes et aliquid de immunitate, Roma 1669, Cap. III «De facultatibus magistri viarum»; C. Scaccia Scarafoni, L’antico statuto dei magistri stratarum, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 50 (1927), pp. 239-308. Ulteriori contributi sulle competenze dei Magistri sono ricavabili da P. Cherubini, A. Modigliani, D. Sinisi, O. Verdi, Un libro di multe per la pulizia delle strade sotto Paolo II (21 luglio-12 ottobre 1467), ibid., 107 (1984), in part. cfr. O. Verdi, Il «Liber inventionum» nell’Archivio della Presidenza delle Strade, pp. 55-73 e relativi rimandi bibliografici, o anche da O. Verdi, Maestri di edifici e di strade di Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma 1997 (RR inedita 14). Sulle attività dei magistri aedificiorum nella seconda metà del Quattrocento e sulle loro competenze, non più soltanto conservative, ma volte anche ad «ampliare, trasformare e creare ex novo», si veda in particolare quanto scrivono Schiaparelli, Alcuni documenti…cit., pp. 15-18; Scaccia Scarafoni, L’antico statuto dei «Magistri stratarum» cit., pp. 244-245 e O. Verdi. Da ufficiali capitolini a commissari apostolici. I maestri delle strade e degli edifici di Roma tra XIII e XVI secolo, in Il Campidoglio e Sisto V, a cura di L. Spezzaferro, M.E. Tittoni, Catalogo della Mostra, Roma 20 Aprile-31 maggio 1991, Roma 1991, pp. 54-75. Cfr. anche C. Carbonetti Vendittelli, Documentazione inedita riguardante i magistri edificiorum urbis e l’attività della loro curia nei secoli XIII e XIV, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 113 (1990), pp. 169-188 e, della stessa, La curia dei magistri edificiorum Urbis nei secoli XIII e XIV e la sua documentazione, in Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, a cura di É. Hubert, Roma 1993, pp. 1-42.

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con tali iniziative i vari pontefici tendono ad affermare progressivamente una totale auctoritas – temporale, oltre che spirituale – divenendo i reali promotori delle trasformazioni dell’aspetto urbano della città: tendenza spesso contestata con ripetute e ineffettuali congiure ordite dalle forze repubblicane che ne avevano inteso l’ambizioso e malcelato disegno. Testimonianze significative, sotto quest’aspetto, rimangono le imprese relative alla “ricostruzione” di Ponte Sisto 4 (figg. 4-7), e le realizzazioni di nuove, “moderne” viae rectae quali, ad esempio, Via Alessandrina, Via della Lungara o Via Giulia. Iniziative, alle quali aggiungere gli interventi di restauro e consolidamento ai ponti sul Tevere e agli antichi acquedotti romani con relative mostre dell’acqua o semplici vasche d’acqua o fontane. Imprese, tutte, che segnano una vera e propria “modernizzazione” della città medievale, disvelando la vera natura del ricorso a simbologie dell’età classica da parte dei vari papi: all’insegna, dunque, di una rinnovata Liberalitas (un puntuale cura rerum publicarum ) di spiccato sapore augusteo. Imprese non certo modeste e assai più efficaci, per la “nuova” edificazione della Roma papale, di quanto la Magnificentia delle opere di architettura riuscisse a mostrare 5 (figg. 5 e 6). Il complesso intreccio o, meglio, l’articolata dialettica tra infrastrutture ed edifici residenziali trova nelle vicende legate all’apertura della Via Alessandrina un emblematico ed aurorale esempio: una strada – recta – e articolate modalità dell’abitare capaci, entrambe, di fissare le origini di quella “modernità” che assume consistenza proprio a partire da questa singolare ed eccezionale impresa a scala urbana e architettonica (figg. 8-12). Un’impresa 4

Sulla ricostruzione di Ponte Sisto, vd. M. Gargano, Sisto IV Il ‘Pons Ruptus’: tecniche, simbologie e finalità di una ricostruzione, in Il modo di costruire, Roma 1990, pp. 219-238; Id., Nuove acquisizioni su Ponte Sisto (1473-1475), in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n. ser., 21 (1993 ma 1994), pp. 29-38; Id., Note sul gettar-ponti a Roma nel XV secolo. Ponte Sisto: tra Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci, in «Rassegna di Architettura e Urbanistica», 84-85 (1996), pp. 15-27; Id., Sisto IV. Celebrazioni di un Pontifex Maximus, in Origini e Storia, pp. 137-188. 5 Per gli interessi dei vari papi rivolti a questo genere di iniziative e alla questione della “contrapposizione” Magnificentia e Liberalitas, cfr. Gargano, Origini e Storia, capitoli relativi. In tal senso, merita essere sottolineato quanto chi scrive abbia ciclicamente cercato di attirare l’attenzione storiografica verso quelle imprese rivolte – umanisticamente all’antica – nei confronti delle cosiddette “opere pubbliche”, e come il cura rerum publicarum svelasse anche il peculiare interesse dei papi per l’emulazione di quel genere di iniziative infrastrutturali (strade consolari nazionali e internazionali, ponti, acquedotti, fontane, terme, reti fognarie e cloache per la raccolta delle acque piovane e delle “acque nere”, realizzate dalla Repubblica e dall’Impero romano) che avevano reso l’antica Roma, per l’appunto, anche sotto quest’aspetto, un esempio non trascurabile della dialettica esistente tra Liberalitas e Magnificentia: dialettica a cui ispirarsi e, dunque, da fare “rinascere” con analoghe ed imitative finalità. 495

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carica di plurali valenze che prendono corpo, non casualmente, a ridosso del Giubileo del 1500: data e iniziativa non certo da sottovalutare (fig. 13). Ambedue “cerniere” paradigmatiche tra il XV e il XVI secolo, alludendo ovviamente a quanto queste periodizzazioni abbiano di fatto contribuito a connotare e segnare le sensibili trasformazioni storiche succedutesi nel corso di questi due secoli: trasformazioni che hanno coinvolto ovviamente la stessa immagine della città di Roma. E dunque proprio l’impresa dell’apertura della nuova via recta promossa da papa Alessandro VI Borgia, anche in virtù della varietà di architetture che si attesteranno lungo il suo tracciato, arricchisce e dilata il senso di quella indicata “cerniera” cronologica. Un ruolo di “cerniera”, allora, distintivo e peculiare anche sotto l’aspetto architettonico e, dunque, non solo dal punto di vista urbano e cronologico. Una cerniera – parallelamente ai rinnovati e suddetti interessi a scala urbana per le infrastrutture pubbliche – capace di “imperniare” le vicende specificamente architettoniche tra la persistenza o promozione di tradizionali modalità dell’abitare con “nuove” tipologie edilizie: con nuovi edifici modernamente all’antica (ai quali si avrà modo di fare cenno). “Case”, dunque, dalle sperimentate e secolari forme tipologiche vengono contestualmente e cronologicamente poste in dialettica con l’irruzione di abitazioni caratterizzate da novità tipologico-dimensionali. Nel nuovo tracciato della Via Alessandrina, lo stesso “disegno” della Piazza Scossacavalli – sita centralmente lungo il percorso della via – sembra voler ribadire, ulteriormente, la funzione di cerniera tra tradizione e modernità dei modi insediativi (figg. 14 e 15). Nella porzione della nuova strada che si distende dalla preesistente platea antistante alla basilica di San Pietro fino a Piazza Scossavalli, prenderanno progressivamente corpo edifici residenziali di “nuova” concezione tipologico-dimensionale, nel tratto che prosegue da quest’ultima piazza fino alla Mole Adriana verranno invece valorizzate o realizzate ex-novo tipologie residenziali di più tradizionale e modesta concezione. Lungo il percorso di questa nuova, “moderna” via recta – che pure servirà da modello per alcune altre successive imprese infrastrutturali ed edilizie – si assiste a un emblematico “confronto-scontro” di tipologie: la ri-proposizione del tipo di “casa in serie”, “a schiera”, posta in conflitto, epocale, con la “nuova” proposta abitativa rappresentata dal cosiddetto palazzo rinascimentale ispirato ai modi abitativi all’antica 6, tipici dell’Età classica. 6

Intorno a questo specifico e dibattuto aspetto, confluito in una vasta letteratura, si segnalano sinteticamente, Simonetta Valtieri, Il palazzo del principe. Il palazzo del cardinale. Il palazzo del mercante. L’architettura delle abitazioni nel Rinascimento, Roma 1988; Christoph Luitpold Frommel, Abitare all’antica: il Palazzo e la Villa da Brunelleschi a Bramante, in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, a cura di 496

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La Via Alexandrina – con le opere di architettura che si attesteranno lungo il percorso di questa nuova arteria in un arco cronologico che raggiunge il papato di Leone X Medici e oltre – si afferma, dunque, come una sorta di frammento “teleologico”, la “tessera” illuminante dell’esistenza di quel più vasto “mosaico” che prenderà progressivamente forma nel corso dei secoli successivi 7. Un mosaico di eterogenee imprese, di spiccata marca pontificia, che contribuiranno a trasformare l’aspetto della “vecchia” Roma medievale e municipale in una sempre più “moderna” e trionfante capitale di un nuovo Stato: lo Stato pontificio. Una varietà di iniziative di committenza papale H. Millon, V. Magnago Lampugnani, Milano 1994, pp.183-230; Arnaldo Bruschi, L’architettura dei palazzi romani della prima metà del Cinquecento, in Palazzo Mattei di Paganica e l’Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 3-109 e, ovviamente, si rimanda alle note bibliografiche contenute nei testi qui segnalati. Sulle “case in serie”, aspetto non approfonditamente indagato al pari del “palazzo”, si vedano le stimolanti considerazioni già svolte da P. Tomei, Le case in serie nell’edilizia romana dal ‘400 al ‘700, in «Palladio», 2, 1938, pp. 83-92; sulle “case” d’abitazione a Roma si veda anche H. Broise, Les maisons d’habitation à Rome aux XVe et XVIe siècles, in D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes européennes (XIIIe-XVIe siécle), Roma 1989. Tipologie e categorie residenziali, quest’ultime, che la segnalata ricerca in corso tenderà a porre al centro dello studio e in particolare risalto. Riguardo la varietà di residenze riscontrabili lungo la nuova Via Alessandrina cfr. anche, qui, G. Mosca, Architettura e infrastrutture urbane nella Roma del primo Rinascimento: iniziative edilizie e trasformazioni architettoniche intorno all’apertura della via Alessandrina in Borgo, contributo che – nei suoi specifici e autonomi confini – è intrecciato ai suddetti temi di ricerca a cui s’è fatto cenno. 7 Sulle vicende relative all’apertura della Via Alessandrina, si rimanda a M. Gargano, Verso l’Anno Santo del 1500: la Via Alessandrina tra «magnificentia» e «liberalitas», in «Topos e Progetto», l (1999), pp. 31-42; Id., Alessandro VI. Città e architettura tra Magnificentia e Liberalitas, in Origini e Storia, pp. 201-220 e rimandi bibliografici nelle note. Per l’area di Borgo, nell’intreccio sociale economico e urbano, contributi significativi sono in L. Palermo, Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento e in A. Esposito, Borgo tra Medioevo e Rinascimento: prime indagini sulle dinamiche demografiche e sociali, rispettivamente in Rome des Quartiers, éd. par Manuel Royo, Étienne Hubert et Agnès Bérenger, Paris 2008, alle pp. 335-350 e alle pp. 367-381. Riguardo a una delle figure emergenti, per l’acquisizione di importanti proprietà immobiliari a Roma e, in particolare, per la costruzione di una “dimora” tra Borgo Sant’angelo e Borgo Nuovo, lungo la Via Alessandrina (ved. qui illustrazioni relative), cfr. K.J.P. Lowe, Questions of income and expenditure in Renaissance Rome: a case study of Cardinal Francesco Armellini, in «Studies in Church Histories», 24 (1987), pp. 175-188; Id., Church and Politics in Renaissance Italy: The Life and Career of Cardinal Francesco Soderini, 1453-1524, Cambridge University Press, 2010 e id., A Florentine prelate’s real estate in Rome between 1480 and 1524: the residential and speculative property of Cardinal Francesco Soderini, Cambridge Univerity Press, 2013. Su Francesco Soderini a Roma si rimanda anche ad A. Antinori, Baldassarre Peruzzi e le case Soderini in Borgo, «Palladio», n.s. Anno X, 19 (1997), pp. 39-52 e, in particolare, a F. Salvestrini, Soderini, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 93 (2018), ad vocem, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma. 497

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che, anche attraverso il “recupero”, la “rinascita” di simbologie di classica memoria, contribuiranno a caratterizzare la costante e ciclica esistenza della dialettica tra Magnificentia e Liberalitas, a cui si è già accennato: due modalità di un duplice ed emblematico agire da non sottovalutare. Una ostentata o dissimulata autocelebrazione intorno alle quali si dispiegherà il disegno costantemente perseguito dai vari papi di trasformare e gestire autonomamente la renovatio urbis della “nuova” Roma pontificia. Una Liberalitas di sapore augusteo, dunque: interesse per un peculiare aspetto dell’Età classica, manifestato allora attraverso le progressive attenzioni rivolte alle “opere pubbliche”, alla “cosa pubblica”, alla «res publica», «pro peregriorum et populorum commoditate», come di frequente riportato nelle epigrafi celebrative di imprese a scala urbana, ad uso pubblico, appunto (fig. 6). Opere pubbliche, quindi, infrastrutture (strade, piazze, ecc.), come consueta e ineludibile cifra della “modernizzazione” di una qualsivoglia città: o di una res publica christiana, qual era appunto la renovatio Romae vagheggiata dai vari papi. Opere pubbliche, intese come volàno, come traino, come impulso propulsivo per le conseguenti trasformazioni urbane contrassegnate dall’edificazione di architetture “civili” (e non solo quindi “religiose” o “militari”). Un volàno per architetture civili capaci di testimoniare e caratterizzare, su vasta scala, quella necessaria “qualità diffusa” che solitamente contribuisce a delineare l’aspetto “moderno” dell’architettura di una città, e della “nuova” Roma: una peculiare facies architettonica, insomma, intesa come qualità identitaria propria di una specifica imago urbis, dell’immagine di una città capace di soddisfare, anche sul piano residenziale-abitativo, la generale querimonia del Platina che lamentava l’assenza, a Roma, di «civitatis facies». Ed è proprio l’intreccio dialettico, all’antica, tra Liberalitas e Magnificentia a garantire e motivare nel corso del XV secolo la coesistenza di bene pubblico e interesse privato nella gestione della città. Una “rinata” Liberalitas che anche attraverso l’apertura di una nuova strada tende dunque a far rinascere i fasti infrastrutturali e urbani della Roma imperiale. Una strada recta, tracciata ex-novo – come nell’emblematico caso della Via Alexandrina – tesa quindi a ribadire una “magnifica” impresa all’antica, di sapore augusteo. Una nuova arteria stradale che dalla città leonina indicava un agire da perseguire anche nel cuore della città dei Romani, così come sporadicamente accadrà in seguito. Una strada con una piazza nel cuore del “rettifilo” e architetture civili – preesistenti e di nuova edificazione – che trarranno profitto proprio da questo nuovo tracciato (fig. 14). Abitazioni dislocate in “case in serie” (“a schiera”) con botteghe, si contrapporranno alla singolare “magnificenza” di “palazzi” che prenderanno forma ai lati della 498

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strada e nella piazza. Tra la tipologia di quel genere di case – preesistenti o ampliate – e i modelli di “palazzo” rilevabili, negli anni, lungo quella nuova arteria, si articolerà sempre più la frattura tra l’abitare diffuso - la “casa in serie” (“a schiera”, intesa essenzialmente come bene residenziale primario, necessario, dai costi contenuti) e l’abitare in un “palazzo”. Un palazzo, maestoso e monumentale, originato e destinato a mostrarsi come una sorta di status symbol – per quanto determinato da plurali motivazioni – che appare forse più come “bene voluttuario”, che non come “bene primario”: come esigenza esclusivamente, meramente residenziale. Sembra di assistere, assi precocemente, al sorgere di quello che un architetto del XX secolo – Adolf Loos 8 – teorizzerà intorno a ciò che è proprio di una “casa” e ciò che riguarda, invece, il “monumento”: l’Architettura – nel suo affrancarsi dell’accezione più comune di “edilizia”. Ed è noto a tutti quanto il cosiddetto Palazzo rinascimentale sarà oggetto di grande interesse storiografico al pari – e forse più – dell’architettura religiosa o militare. Un genere di residenza urbana, un “palazzo di città” che la storiografia architettonica ha tradizionalmente caricato di valori quasi più “monumentali” – “estetici” – che prettamente “residenziali”. Un genere insediativo che è stato spesso enfaticamente associato alla ricordata definizione di «Architettura» tratteggiata da Adolf Loos e inteso, quindi, come manufatto artistico-rappresentativo-monumentale, piuttosto che come un genere tipologico basato sul valore d’uso tipico della “casa” e sulla sua ineludibile funzione primaria: “dare-dimora”, subordinando questo basilare aspetto al privilegiato processo estetico-ideativo-progettuale rappresentato dalla celebrata tipologia del Palazzo rinascimentale. Il “nuovo” genere di palazzo che prenderà dunque vita e forma sulla “nuova” Via Alexandrina, contrapponendosi alle “case in serie”/”a schiera” – situando i suoi singoli modelli nella parte del percorso della strada già sottolineato in apertura – segnerà il destino di quel sorgere di “palazzi” che si riveleranno, tuttavia, come episodi isolati, disseminati, sparsi nel tessuto urbano e, quindi, non sempre in grado di fare-città, pur riuscendo “magnificamente”, talvolta, a fare-architettura, com’è noto. Si innesca allora, sotto quest’aspetto, la progressiva netta separazione tra generi, tipologie e modalità dell’abitare, come pure – parallelamente – si assiste alla divaricazione delle attenzioni rivolte a quella dialettica classicheggiante a cui si è fatto più volte riferimento: una divaricazione, una decisiva frattura, cioè, tra Liberalitas e Magnificentia. Una dialettica da non sbilanciare, e 8

Cfr. A. Loos, Architektur (1910) in Ins Leere Gesprochen (1921) e Trotzdem (1931), trad. it. Architettura, testi compresi in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972, pp. 253-254. 499

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assai nota a quanti cercavano di far rivivere, di far “rinascere”, gli antichi splendori di Roma, tentando di farsene gli eredi più degni. In proposito, basta ricordare i testi relativi di Giovanni Pontano, ben tenuti in considerazione già nel corso del XV secolo 9. E di questa dialettica sono testimonianza evidente le varie medaglie celebrative che riportano esplicitamente simboli e diciture inneggianti alla Liberalitas (e al relativo cura rerum publicarum) riscontrabili nel recupero traslato del noto rito del congiarium cesaro-augsteo. Esemplare e significativa è la medaglia attribuita ad Adriano Fiorentino e coniata con il profilo del cardinale Raffaele Riario: tra le varie mansioni, direttamente coinvolto nella gestione dell’iniziativa dell’apertura della Via Alexandrina, come pure nelle questioni relative all’edificazione del palazzo romano della Cancelleria. Medaglia, nel cui rovescio appare appunto l’emblema e la scritta Liberalitas (fig. 16). La Via Alexandrina assume, di conseguenza, una significativa rilevanza, degna di essere ancora rivisitata per estrarne ed evidenziarne le straordinarie peculiarità: per tornare a riflettere sulla persistenza o sulla trasfigurazione di quella suddetta dialettica. La Liberalitas, insomma, onorata e celebrata con l’apertura di una strada ad uso pubblico: con la realizzazione di un’opera pubblica. E la Magnificentia 10, che pure traspare dalla natura dell’impresa, si manifesta ancora di più attraverso la progressiva realizzazione dei palazzi attribuiti 9

Cfr. G. Pontano, I trattati delle virtù sociali, a cura di F. Tateo, Roma 1965: in partic. ved. De liberalitate (1493), pp. 180, 184; De Magnificentia, p. 234. Per l’importanza del trattato di G.Pontano, «De Magnificentia», nell’elaborazione del concetto rinascimentale dell’arte, cfr. F. Tateo, La poetica di G. Pontano in «Filologia Romanza», VI, 1959, pp. 277-303, 337-369. Su pontano, tra i vari studi, ved. anche sinteticamente, S. Sbordone, Saggio di Bibliografia delle opere e della vita di Giovanni Pontano, in «Quaderni dell’accademia pontaniana», 3, 1982. 10 Solo a scopo sintetico-indicativo intorno alle quaestioni legate alla Magnificentia e alla Liberalitas – oltre a quanto già indicato qui, in n. 5 – si rimanda anche ai contributi di H. Kloft, Liberalitas Principis, Herkunft und Bedeutung, Cologne-Vienna 1970; A. D. Fraser Jenkins, Cosimo de’ Medici’s Patronage of Architecture and the Theory of Magnificence, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXXIII (1970), pp. 162-170; S. Lang, Sforzinda, Filarete and Filelfo, nello stesso «Journal... », XXXV (1972), pp. 391-397 e, in partic. pp. 394-395; L. Green, Galvano Fiamma, Azzone Visconti and the Classical Theory of Magnificence, ancora in «Journal... », LIII (1990), pp. 98-113; R. A. Goldthwaite, Wealth and the Demand of Art in Italy 1300-1600, Baltimore-London 1993, trad, it. Ricchezza e domanda nel mercato dell’arte in Italia dal Trecento al Seicento, Edizioni Unicopli, Milano 1995, in partic. pp. 215-235; P. Spilner, Giovanni di Lapo Ghini and a Magnificent New Addition to the Palazzo Vecchio, Florenz, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 52 (1993), pp. 457-460; M. Warnke, Liberalitas principis, in Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento. 14201530, a cura di A. Esch, C. L. Frommel, Torino 1995, pp. 83-92 e, nello stesso testo, 500

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ai protagonisti della cosiddetta architettura rinascimentale (Bramante, Raffaello, e a seguire): palazzi che sovrappongono i rispettivi “nuovi” connotati tipologici alla realizzazione della Via Alexandrina. Lo spirito e la natura di un’impresa – che va nel senso dell’antica Liberalitas – risultano allora dilatati dalla Magnificentia dei ben noti palazzi Caprini, Jacopo da Brescia, Branconio dell’Aquila o Castellesi da Corneto: edifici ovviamente incentivati dall’esistenza della strada, come accadeva e come accade nelle più classiche manifestazioni di sviluppo e miglioria delle città (figg. 15 e 17-20). L’antica Roma, con l’espansione territoriale del suo impero e con le sue città di fondazione, costellate dalla fitta ed estesa rete delle vie consolari, ne è testimonianza evidente. Le infrastrutture e le strade: “pietre miliari” di una Storia assai nota agli umanisti e ai committenti di architettura del periodo. La Magnificentia, tuttavia, se concentrata esclusivamente sullo “stupire” (pur necessario “per assoggettare”, come del resto accadrà per l’architettura della Roma Triumphans barocca seicentesca), per quanto si riveli certamente “strategica” nella gestione politica delle dinamiche urbane, non risulta altresì in grado di conferire alla città una immagine unitaria e identitaria su vasta scala: un’immagine urbana definita formalmente e tipologicamente. Un’immagine urbana ben determinata e conformata – per l’appunto – da “tipologie” diffuse e non, invece, caratterizzata da “modelli” isolati, sparsi e disseminati nel tessuto urbano. Un tessuto che ne risulta, in tal modo, frammentato – monumentale, forse – costellato certamente da emergenze monumentali ma non funzionale a una diffusa “qualità urbana”, a una apprezzabile qualità, a scala territoriale, degna di questa definizione. La Magnificentia risalta e risulta perciò funzionale – nei cosiddetti “palazzi rinascimentali” – per soddisfare i bisogni di un rango da elevare socialmente, per autocelebrare uno status e un ruolo sociale raggiunti, come pure per soddisfare progressivamente crescenti bisogni voluttuari ma non, certo, bisogni necessari: i bisogni primari di una casa. In tal senso torna alla mente il monito, citato inizialmente, di Giambattista Vico: «Gli uomini [corsivi nostri] prima sentono il necessario; dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano del piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze». E dunque, insistendo sulla dialettica Liberalitas-Magnificentia, sulle suggestioni innescate sul piano infrastrutturale e residenziale dalle vicende M. Winner, Papa Sisto IV quale exemplum virtutis magnificentiae nell’affresco di Melozzo da Forlì, pp. 171-195. 501

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relative all’apertura e alla progressiva realizzazione della Via Alexandrina, è il caso di azzardare qualche sintesi conclusiva in merito a un’impresa a scala urbana e architettonica che sembra suscitare ancora qualche interrogativo e che fornisce spunti per proseguire studi, ricerche e sottolineature. La qualità diffusa di “case” – di tipologie tradizionali ben definite, quali ad esempio quelle “in serie” o “a schiera” riscontrabili pure nel tracciato della Via Alexandrina – sembra indicare la via sul come tenere in vita lo spirito di una Liberalitas di sapore classicheggiante: segnala come riuscire a soddisfare il bisogno di “case per la collettività”, configura i modi dell’abitare collettivo, di un abitare diffuso e ad uso pubblico. Non quindi un singolo “palazzo” esclusivamente destinato alla residenza di una élite. Una qualità diffusa, insomma, capace anche di stimolare investimenti in grado di produrre ricchezza, senza “immobilizzarla”, come spesso invece capita nella maestosità auto-rappresentativa e voluttuaria dei palazzi rinascimentali, degli “immobili” rinascimentali e di quelli successivi ispirati, appunto, a “elitarie” modalità dell’abitare. Il modello del “palazzo isolato”, tipologicamente e morfologicamente definito, oltrepassando le specifiche e diverse ragioni originarie – da continuare a indagare e comprendere nella sua natura ideativa ed evolutiva – sembra sempre più orientato a soddisfare “bisogni voluttuari”, piuttosto che “bisogni necessari”: “beni voluttuari”, motivati dal piacere di un consumo autoreferenziale, destinato a rivelarsi sterile socialmente o fine a sé stesso. Un “bene-palazzo” destinato, frequentemente, ad alienare la stessa ricchezza investita per realizzarlo. È sotto questa luce che continua ad echeggiare il monito di Giambattista Vico: «Gli uomini […] si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze». Alle appena accennate sintesi conclusive, può essere inoltre aggiunto e avanzato qualche azzardo critico-interpretativo delle questioni articolate fin qui. I modelli aurorali del cosiddetto Palazzo rinascimentale romano (realizzati proprio nella porzione della Via Alexandrina che li accoglierà), celebrati anche per la loro “magnificenza”, riveleranno sempre più la loro natura di beni esplicitamente voluttuari e non certo primari: edifici autocelebrativi, autoreferenziali, spesso addirittura destinati alla “immobilizzazione” di capitali e allo «istrappazzar le sostanze». Le cospicue somme di denaro necessarie alla costruzione di quel genere di palazzo sono comunque tali da giustificarne l’impiego. Ingenti somme di denaro che producono in ogni caso dei profitti, anche se di varia ed eterogenea natura, e che traguardano il guadagno diretto, immediato. Notevoli quantità di denaro investito che non produce appositamente apprezzabili e concreti “ricavi” o guadagni. Un impiego di denaro, allora, finalizzato alla sottolineatura di un autorevole 502

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status sociale, per ribadirlo o per acquisirne uno di più elevato rango. Un “profitto”, insomma, che oltrepassa la materialità del guadagno immediato, e che ne dilata il mero significato monetario. Un profitto, inoltre, incrementato, accresciuto o ridimensionato anche dal successo e dalla fortuna critica del sito su cui il palazzo viene edificato. Si tratta, dunque, di un profitto di vario genere e di natura diversificata, piuttosto che di un diretto ricavo o guadagno materiale: di frequente, infatti, non si è in presenza di un investimento direttamente produttivo quanto, piuttosto, di una sensibile “diseconomicità” generata da costi maggiori dei ricavi. E non sono sufficienti, in tal senso, neppure i ricavi generati dalle botteghe, che talvolta sono presenti in questo genere di palazzi, per produrre un adeguato guadagno rispetto ai costi necessari per la realizzazione di simili “imprese” 11. 11

Il nucleo centrale della ricerca a cui si è fatto inizialmente riferimento – e di cui il presente testo intende essere una sorta di “saggio-traccia” – ruota particolarmente intorno a questa vexata questio: mettere a fuoco – cioè – al di là delle questioni tipicamente tipologico-formali, le controverse funzioni e i ruoli svolti, a partire dal XV e XVI secolo, dal cosiddetto Palazzo Rinascimentale nella complessità del mercato immobiliare e nelle dinamiche sociali delle città da cui questo genere tipologico ha preso slancio. In quest’ottica, specificamente riguardo la città di Firenze, si rimanda qui sinteticamente a R. Goldthwaite, The Florentine palace as domestic architecure, in «American Historical Review», 77 (1972), pp. 977-1012 e id., The Building of Renaissance Florence. An economic and social history, Baltimore 1982; nonché, alle tesi differenziate, di R. Goldthwaite, Il contesto economico fiorentino nel Rinascimento. Investimento, cantieri, consumi, e di F. W. Kent, Il palazzo, la famiglia, il contesto politico, rispettivamente in Annali di Architettura, 2 (1990), rispettivamente alle pp. 53-58 e alle pp. 59-72. Analisi, quest’ultime, prese a pretesto e come innesco della ricerca in questione per ri-definire il “palazzo rinascimentale” nelle sue specificità e criticità nel contesto originario di quel genere insediativo messo a punto nella Roma quattro-cinquecentesca, come s’è qui già accennato. Oltre a cercare di cogliere la vera natura dei costi e di quanto questi vengano effettivamente ammortizzati materialmente, determinati, giustificati da profitti diretti o indiretti, mutuati da rendite fondiarie – “esogene” o “endogene” da mettere ben a fuoco – la presente indagine tenderà a confrontare, come già indicato, gli effetti a scala urbana generati dalla nascente dialettica scaturita dalla ricerca dei “nuovi” modi dell’abitare all’antica – il “palazzo” rinascimentale, per l’appunto – contrapposto alle modalità insediative – le “case a schiera” o “in serie” – di tradizionale o nuova concezione. Alla vasta letteratura specifica – già sinteticamente indicata qui in n. 6 – per il complesso contesto romano in cui prende vita il genere di palazzo in questione, meritano essere segnalati: L. Palermo, Le finanze pontificie all’epoca di Leone X, in Leone X: finanza, mecenatismo, cultura, a cura di F. Cantatore et alii, Roma 2005, pp. 45-58; A. Esposito, Vivere a Roma. Uomini e case nel primo Cinquecento (dai censimenti del 1517 e 1527), a cura di A. Esposito e M.L. Lombardo, numero monografico di “Archivi e cultura”, n.s. 39 (2006) [ma 2008]; Economia e società a Roma tra Medio evo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di A. Esposito, L. Palermo, Roma 2005 e il volume collettivo Vivere la città. Roma nel Rinascimento, a cura di I. Ait, 503

Maurizio Gargano

L’investimento nella “magnificenza” di un palazzo si contrappone, in tal modo, all’impiego di denaro per le opere pubbliche – a quella forma di Liberalitas di sapore augusteo – contribuendo, nel contempo, a cancellare il tessuto urbano tradizionale connotato da insulae residenziali: trascurando, inoltre, anche l’eventualità di potenziali e redditizi investimenti di denaro nella tipologia di quel genere di “case in serie” o “a schiera” che avrebbe risposto ai concreti e più diffusi bisogni primari dell’abitare urbano. Un genere tipologico-abitativo di “case” da affittare, dai costi di realizzazione contenuti e che, dotato anche di botteghe, avrebbe inoltre contribuito a garantire redditi o profitti materiali adeguati, e tali da motivarne o giustificarne gli investimenti. Il progressivo interesse per la magnificenza di un singolo palazzo – contrapposto alla casa in serie o a schiera – sembra porre il cosiddetto Palazzo Rinascimentale tra i maggiori responsabili della ulteriore “disgregazione” dell’immagine architettonica della città di Roma. Una città caratterizzata della secolare e casuale coesistenza di emergenze o rovine monumentali del passato con-fuse con la presenza delle antiche insulae residenziali. Una confusione tipologica generalizzata, che lo stesso palazzo rinascimentale non è stato in grado di “regolarizzare”. La pur celebrata fortuna storica di quel genere di palazzi – si intende qui porre in risalto – sposterà definitivamente l’equilibrio dialettico tra la Liberalitas e la Magnificentia a vantaggio di quest’ultima, trascurando le attenzioni verso l’originario spirito classicheggiante della Liberalitas: un corollario ineludibile di quella aulica antiquitas inseguita nei sogni di Renovatio Urbis Romae. Una dialettica sempre più trascurata e circoscritta intorno alla Magnificentia delle opere di architettura, a scapito di imprese infrastrutturali. E scarsa eco avranno, in questo particolare ambito, le esortazioni del protonotario apostolico Paolo Cortesi, lanciate dalle pagine del suo De Cardinalatu, che invitavano a una sobria frugalitas anche nel realizzare o nell’ornare le residenze di quegli stessi cardinali che ne erano spesso i committenti 12. A. Esposito, Roma 2020 di cui, in particolare, si segnalano la relazione introduttiva di A. Esch e i saggi di A. Fara, G. Alexis, M. Vaquero Piñeiro, I. Ait. 12 Tratti biografici di Paolo Cortesi sono in R. Ricciardi, Cortesi, Paolo, Dizionario Biografico degli Italiani, 29 (1983) ad vocem; per il testo di Cortesi, dedicato a papa Giulio II e redatto intorno al 1510, cfr. indicativamente K. Weil-Garris, J.F. D’Amico, The Renaissance Cardinal’s Ideal Palace: a Chapter from Cortesi’s De Cardinalatu, in «Memoirs of the American Academy in Rome», XXXV/I (1980), pp. 45-123. in partic. p. 47; E. Guerra, Il De cardinalatu di Paolo Cortesi, in La formazione delle élites in Europa dal Rinascimento alla Restaurazione, a cura di A. Cagnolati, Roma 2011, pp. 85-98. 504

Abitare la modernità. Roma nel XV e XVI secolo: la residenza tra casa e bene voluttuario

Una tendenza, in sintesi, incapace di raccogliere le indicazioni derivate dalle occasionali preesistenze o dalle sporadiche realizzazioni di “case in serie” o “a schiera” (figg. 21-28) capaci – loro sì – di ridisegnarne una città modernamente e tipologicamente omogenea, in sintonia con le città capitali europee del periodo e dei secoli a venire: con le residenze urbane dei secoli successivi. Come avrà modo di indicare, nel corso del XVIII secolo, Francesco Milizia ai suoi allievi, invitandoli a visitare e studiare l’architettura domestica inglese dove: “…come in un bosco ben formato non si vede alcun albero sorpassar troppo gli altri, perché quasi tutti sono ben cresciuti e presso a poco di ugual grandezza”, pur avendo avuto – la stessa Inghilterra – personalità di spicco come Isaac Newton, John Alexander Locke, Pope, o Inigo Jones 13.

13

«Né men l’Inghilterra ha ora, un Newton, un Locke, un Pope, un Jones, eppure ella è adesso florida più che mai in ogni genere scientifico, e di Arti. Non v’è bisogno, che ogni età spicchi ugualmente feconda d’alcuni ingegni straordinariamente sublimi, e risplendenti. Anzi il non comparire in una Nazione alcun valent’uomo sopra gli altri di gran lunga eminente, può esser talvolta effetto di una coltura universalmente estesa; come in un bosco ben formato, non si vede alcun albero sorpassar troppo gli altri, perché quasi tutti sono ben cresciuti, e presso a poco di egual grandezza.»: da F. Milizia, Princìpi di architettura civile, Tomo Primo, ed. Bassano 1804, p. 10; sul tema cfr., anche, M. Gargano, Francesco Milizia e l’architettura inglese del XVIII secolo, in Francesco Milizia e il neoclassicismo in Europa, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Bari-Roma 1998, pp. 154-175. 505

Giuliana Mosca Interventi urbani e architettura a Roma all’apertura della via Alessandrina in Borgo * La via Alessandrina in Borgo, voluta e inaugurata da papa Alessandro VI Borgia (1492-1503) in occasione dell’Anno Santo del 1500, rappresenta com’è noto la prima strada retta concretamente tracciata nella Roma dei papi post-avignonesi alla cui realizzazione si lega la promozione di un programma edilizio strettamente correlato all’opera infrastrutturale 1 (fig. 29). Lungo i fronti della via furono costruiti, entro la prima metà *

Il testo scaturisce da una ricerca ancora in corso nel Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi ROMATRE; vengono qui ripresi dati già presentati in G. Mosca, Architettura e infrastrutture urbane nella Roma del primo Rinascimento: alcune considerazioni intorno all’apertura della via Alessandrina in Borgo, in “Annali di Architettura”, 33 (2021), pp. 13-24. 1 Sulla via Alessandrina, tra la vasta bibliografia, si veda almeno M. L. Madonna, Un’operazione urbanistica di Alessandro VI: la via Alessandrina in Borgo, in Le arti a Roma sotto Alessandro VI, dispensa del corso di Storia dell’Arte Moderna prof. M. Calvesi, Il Bagatto, Roma 1981, pp. 4-9; H. Günther, Die Straßenplanung unter den MediciPäpsten in Rom (1513 - 1534), in «Jahrbuch des Zentralinstituts für Kunstgeschichte», 1 (1985), pp. 237-293, in partic. pp. 287-293; E. D. Howe, Alexander VI, Pinturicchio and the fabrication of the Via Alessandrina in the Vatican, in An architectural progress in the Renaissance and Baroque, a cura di H. Millon, S. Scott Munshower, 2 voll., Pennsylvania State University, University Park-Pa 1992, vol. I, pp. 64-93; G. Petrucci, L’apertura della via Alessandrina: idee e progetti, realizzazione, “derivazioni” cinquecentesche, in E. Guidoni, G. Petrucci, Urbanistica per i Giubilei. Roma, via Alessandrina: una strada “tra due fondali” nell’Italia delle corti (1492-1499), Ed. Kappa, Roma 1997; M. Gargano, Verso l’Anno Santo del 1500: la Via Alessandrina tra “magnificentia” e “liberalitas”, in Topos e Progetto. Il Topos come meta, Roma 1999, pp. 31-42; Id., Alessandro VI e l’antico: architettura e opere pubbliche tra Magnificentia e Liberalitas, in Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI, a cura di M. Chiabò, S. Maddalo, M. Miglio, A. M. Oliva, Roma nel Rinascimento, Roma 2001, tomo II, pp. 549-570; Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, a cura di G. Simoncini, vol. II, Funzioni urbane e tipologie edilizie, Leo S. Olschki, Firenze 2004, pp. 227-231; A. Branchi, Alexander VI’s plans for Rome, in Early Modern Rome 1341-1667, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 13-15 maggio 2010, a cura di P. Prebys, Ferrara 2011, pp. 548-555. 507

Giuliana Mosca

del XVI secolo, alcuni tra i più innovativi edifici civili residenziali del Rinascimento romano: palazzi caratterizzati da novità tipologiche, formali, dimensionali alla cui definizione contribuì il crescente interesse di architetti e committenti per l’Antico che, dagli ultimi anni del pontificato Borgia, cominciò ad assumere i tratti di un legame sempre più diretto e specifico con i modelli dell’architettura romana classica 2. Proprio il carattere anticheggiante dei palazzi edificati sul nuovo rettifilo fu tra i fattori che, secondo l’interpretazione da tempo formulata da Maria Luisa Madonna, concorsero ad attribuire alla via Alessandrina «l’aspetto di una vera e propria strada degli antichi» 3 (fig. 11). Le vicende che portarono alla realizzazione della strada sono state ampiamente indagate, al pari della storia e dell’architettura degli edifici che su di essa si attestavano, in diversi casi oggi non più esistenti o profondamente alterati 4. Alcuni spazi di ricerca appaiono invece tutt’ora aperti sul tema dei rapporti che legano l’opera infrastrutturale alle dinamiche edilizie innescate, o comunque derivate, dalla definizione del nuovo tracciato 5. Per provare ad avanzare qualche considerazione in merito, sembra utile tornare brevemente sulle fasi principali dell’impresa della via Alessandrina per cercare di individuare quali operazioni siano concretamente riconducibili all’apertura del rettifilo, ovvero cosa comportò materialmente tale intervento che, 2

A. Bruschi, L’architettura a Roma al tempo di Alessandro VI: Antonio da Sangallo il Vecchio, Bramante e l’Antico. Autunno 1499-Autunno 1503, in «Bollettino d’Arte», 29 (1985), pp. 67-90, in partic. pp. 67-69. Per la storia e i caratteri architettonici dei palazzi realizzati tra fine XV e prima metà del XVI secolo lungo la via Alessandrina si rinvia in particolare a C. L. Frommel, Der Römische Palastbau der Hochrenaissance, 3 voll., Tübingen 1973; A. Bruschi, Edifici privati di Bramante a Roma: palazzo Castellesi e palazzo Caprini, in «Palladio», 4 (1989), pp. 5-44; Id., L’architettura dei palazzi romani della prima metà del Cinquecento, in Palazzo Mattei di Paganica e l’Enciclopedia italiana, a cura di G. Spagnesi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 3-109, passim. 3 Madonna, Un’operazione urbanistica, p. 6. L’idea che la via Alessandrina fosse stata concepita come un percorso di carattere “trionfale” è sostenuto, oltre che da Maria Luisa Madonna, anche da Eunice Howe. Si veda in proposito Howe, Alexander VI, Pinturicchio, p. 66. 4 Sulle trasformazioni che hanno interessato l’area dei Borghi nel tempo si rimanda essenzialmente a A. Cambedda, La demolizione della Spina dei Borghi, Roma 1990; C. Parisi, L. Petacco, La Spina. Dall’Agro Vaticano a Via della Conciliazione, Roma 2016; F. Angelucci, La Spina dei Borghi (1848-1930): trasformazioni e restauri attraverso i fondi dell’Archivio Storico Capitolino, Wuppertal 2017. Per la storia, in particolare, di palazzo Caprini R. Dal Mas, G. Spagnesi, Roma: dalla casa di Raffaello al palazzo dei Convertendi, «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n.s., 53 (2010). 5 Il contributo più approfondito in tal senso sembra essere Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, pp. 27 e segg. L’autrice indaga come la struttura di Borgo venga «modificata in maniera radicale» dall’apertura della via Alessandrina, con un’analisi di scala preminentemente urbana. 508

Interventi urbani e architettura a Roma all’apertura della via Alessandrina in Borgo

secondo alcune interpretazioni, si innestò sulle tracce di un preesistente percorso viario 6 e assorbì in parte, almeno nel tratto iniziale verso San Pietro, il tracciato della via Sistina 7. In mancanza di nuove fonti, e stante l’incerta attendibilità del noto documento che ricorda la concessione assegnata nell’aprile del 1496 dall’Ospedale di Santa Maria della Consolazione ad Adriano Castellesi, al tempo chierico di Camera, per l’estrazione di pietra destinata alla costruzione del suo palazzo «in via Alexandrina burgi S. Petri» 8, la prima fonte che attesti esplicitamente la volontà di papa Alessandro VI di realizzare la nuova strada in Borgo resta il verbale del Concistoro del 18 gennaio 1499, nel quale si fa menzione della «via nova fienda ad palatium» 9. Il mese seguente, nell’ambito dell’adunanza concistoriale del 20 febbraio 1499, 6

P. Adinolfi, La Portica di S. Pietro ovvero Borgo nell’Età di Mezzo, Roma 1859. Kate J.P. Lowe identifica la via Alessandrina con la preesistente via Saligata, si veda K. J.P. Lowe, A Florentine prelate’s real estate in Rome between 1480 and 1524. The residential and speculative property of Cardinal Francesco Soderini, in «Papers of the British School at Rome», 59 (1991), pp. 259-282, in partic. p. 260. Sulla topografia di Borgo si veda anche G. Lepri, L’urbanistica di Borgo e Vaticano nel Medioevo, Roma 2004. 7 Madonna, Un’operazione urbanistica, p. 6; Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, p. 35. 8 Il documento è stato pubblicato da Pietro Pericoli in P. Pericoli, L’Ospedale di S. Maria della Consolazione di Roma dalle origini ai giorni nostri, Imola 1879, p. 50, nota 1. Attualmente, tuttavia, non si dispone dell’originale, datato al 14 aprile 1496, ma soltanto di una seconda versione del documento risalente al 1500 e conservato in Archivio di Stato di Roma (d’ora in avanti ASR), Ospedale di S. Maria della Consolazione, 33, c. 94r. L’autenticità della fonte citata da Pericoli è stata messa in dubbio da Domenico Gnoli in D. Gnoli, La Cancelleria e altri palazzi di Roma attribuiti a Bramante, in «Archivio Storico dell’Arte», 1892, 5, p. 343, nota 1. Cfr. Frommel, Der Römische Palastbau, vol. II, p. 207, doc. 1 e nota 1. Rodolfo Lanciani considera il documento vero nella «sostanza», dal momento che il reimpiego di materiali antichi, tra cui elementi provenienti dalla Basilica Emilia, nella costruzione del palazzo di Adriano Castellesi risulta comprovata da diverse fonti. Si veda R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, vol. I, Roma 1902, pp. 93-94. Un indizio, tuttavia, dell’inattendibilità del documento potrebbe consistere nel fatto che nella concessione datata da Pericoli al 1496 Adriano Castellesi è denominato protonotarius apostolicus. Tuttavia, Castellesi ricevette il titolo di protonotario apostolico «post tantam supplicationem» soltanto il 14 ottobre 1497. Cfr. J. Burckardi, Liber notarum ab anno 1483 usque ad annum 1506, a cura di E. Celani, Rerum Italicarum Scriptores (d’ora in avanti RIS), ser. II, tomo XXXII, vol. II, S. Lapi, Città di Castello, 1911-1942, p. 57. 9 L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, vol. III, Desclée, Roma 1959, p. 621, nota 3. Il documento è conservato presso Archivio Apostolico Vaticano (d’ora in avanti AAV), Archivio Concistoriale, Acta Vicecancellarii, 1, c. 29r-v. Per un quadro d’insieme sulla documentazione nota relativa alla via Alessandrina si vedano Günther, Die Straßenplanung, pp. 289-293; Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, pp. 73-81. 509

Giuliana Mosca

Raffaele Riario ricevette l’incarico di consultare maestri di strade e “architetti” per tracciare la via «a porta Castri ad palatium» 10, secondo un percorso che sembra a questa data «già perfettamente individuato» 11. Come si sa, i lavori iniziarono probabilmente entro i primi del mese di aprile 1499 e il 24 dicembre dello stesso anno, alla vigilia del Giubileo, la strada fu inaugurata 12. Nel 1500, infine, con la bolla Etsi universis il pontefice sancì che i proprietari, gli usufruttari e gli inquilini degli immobili e dei terreni posti sui due lati della strada si impegnassero a costruire nuove fabbriche o a riqualificare quelle esistenti elevando in entrambi i casi gli edifici fino all’altezza stabilita di 7 canne (circa 15,64 metri) 13. O, nell’impossibilità di adempiere a tale impegno, si accordassero con altri disponibili a edificare alle condizioni fissate dalla bolla. Per lo svolgimento dei lavori il documento fissava un arco di tempo estremamente ridotto, tanto da apparire «manifestatamente inverosimile» 14: le nuove costruzioni – quanto meno sul lato prospiciente la via – avrebbero dovuto essere compiute nel tempo di due mesi, pena «la requisizione e la confisca da parte della Camera Apostolica di ogni diritto di proprietà piena o di uso o di usufrutto» delle case, dei fondi e dei terreni in questione 15. Quando la nuova via recta fu inaugurata, in realtà, mancavano ancora lavori di pavimentazione e finitura e la definizione del tracciato viario e del suo ingombro non era probabilmente del tutto compiuta16. Questo dato, già indirettamente suggerito dalle testimonianze che riconducono ai pontefici successori di Alessandro VI il completamento della via Alessandrina17, sembra emergere anche da un interessante e inedita concessione in enfiteusi 10

Pastor, Storia dei Papi, p. 621, nota 3. AAV, Archivio Concistoriale, Acta Vicecancellarii, 1, c. 35r. 11 Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, p. 35. 12 Burckardi, Liber notarum, RIS, ser. II, tomo XXXII, vol. II, pp. 191-192. 13 AAV, Reg. Vat., 874, cc. 35v-37r. M. Bardus, Facultates magistratus curatorum viarum, aedificiorumque publicorum, & privatorum alme urbis, aedilium curulium, antiquitus nuncupati, Roma 1565, pp. NN-RR. Una versione tradotta della bolla è pubblicata in Roma. Le trasformazioni urbane, pp. 281-284. 14 Roma. Le trasformazioni, p. 283, nota 90, 91. 15 Ivi, p. 283. 16 Secondo Eunice Howe «the Jubilee did not mark the completion of the Via Alessandrina, but rather the opening», in Howe, Alexander VI, Pinturicchio, p. 66. 17 Si pensi, ad esempio, alla nota testimonianza di Francesco Albertini (1510), secondo cui la via Alessandrina «ab Alexandro VI inchoata tuae [Giulio II] vere beatitudinis tempore perfecte […]». F. Albertini, Mirabilia Rome: opusculum de mirabilibus nove et veteris Urbis Rome, Roma 1510, p. 54. Diverse testimonianze documentarie attestano, inoltre, lo svolgimento di lavori per la pavimentazione della strada sotto Giulio II (1503-1513) e Leone X (1513-1521). Cfr. Günther, Die Straßenplanung, pp. 291-292; C. L. Frommel, Palazzo 510

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perpetua da parte di Paolo e Francesco de Pinis a tale Bartolomea de Pucciola risalente al mese di febbraio del 1502 e relativa a un terreno in Borgo situato versus Metam, ovvero la cosiddetta Meta Romuli 18. Il terreno, di dimensioni 2,5 canne in larghezza per 10 canne in profondità, confinava davanti con la «viam noviter instructam», cioè la via Alessandrina, e venne affittato con la condizione che se la lunghezza del suolo disponibile fosse stata ridotta «propter dictam viam noviter construendam seu quamcumque aliam causam» il canone dovuto dalla locataria sarebbe stato ridotto19. L’anno seguente, nel marzo 1503, si dichiara che la superficie del terreno è stata effettivamente ridotta da 25 a 18 canne, anche se non si esplicita la causa di tale riduzione 20. Sembra in ogni caso ragionevole dedurne che, in questi ultimi anni del pontificato alessandrino, le operazioni per la definizione del sedime della nuova via recta non fossero ancora giunte a piena conclusione. Com’è stato del resto osservato da Giulia Pertucci, nella parte orientale di Borgo, dove sorgevano la chiesa e il convento di Santa Maria in Traspontina nella sua originaria posizione 21 e la Meta, l’intervento per la realizzazione della strada doveva risultare ben più complesso rispetto alla porzione occidentale dell’area, cioè in direzione di piazza Scossacavalli e della basilica di San Pietro, a causa delle preesistenze edilizie e monumentali che caratterizzavano la zona 22 (fig. 30). Il problema dell’entità delle demolizioni che interessarono la Meta solleva l’ancor più controversa questione del ruolo che il monumento antico rivestì nel programma alessandrino per la nuova strada 23, questione che esula dai temi a cui si Jacopo da Brescia, in Raffaello architetto, a cura di C. L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano 1984, pp. 157-153, in partic. p. 157. 18 ASR, Corporazioni religiose maschili, Carmelitani calzati in Santa Maria in Traspontina, 19, cc. 18r-19v. Cfr. anche Parisi, Petacco, La Spina. Dall’Agro Vaticano, p. 227. Sulle relazioni tra il progetto e la realizzazione della via Alessandrina e la Meta Romuli si veda in particolare Madonna, Un’operazione urbanistica; B. M. Peebles, La “Meta Romuli” e una lettera di Michele Ferno, in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», 12 (1936), pp. 21-63. 19 ASR, Corporazioni religiose maschili, Carmelitani calzati in Santa Maria in Traspontina, 19, c. 18r. 20 Ibidem, c. 19r. 21 Prima della sua ricostruzione nel XVI secolo, la chiesa si trovava in prossimità dalla platea Castelli, prossima a Castel Sant’Angelo e al ponte Sant’Angelo. M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IX al XIX, Roma 1891, pp. 773-774. 22 Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, p. 36. 23 La questione è affrontata in particolare da Madonna, Un’operazione urbanistica; Petrucci, L’apertura della via Alessandrina; Gargano, Verso l’Anno Santo del 1500. Nell 1499, la Meta veniva identificata come «metae ruptae pro strata papali noviter facta», cfr. ASR, Corporazioni religiose maschili, Carmelitani calzati in Santa Maria in Traspontina, 19, c. 22r. 511

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rivolge il presente contributo e pertanto non sarà qui affrontata. Riguardo al complesso di Santa Maria in Traspontina, invece, sembra possibile affermare che le demolizioni imposte dal progetto infrastrutturale furono consistenti 24. In alcuni contratti di enfiteusi relativi a case situate in Borgo di proprietà della confraternita si fa riferimento alla necessità di procedere alla costruzione di nuove strutture per i frati a causa delle demolizioni delle strutture del convento imposte da Alessandro VI 25. Demolizioni volute «tum pro munimine arcis Castri Sancti Angeli, tum pro Urbis decore» e forse collegate, dunque, non soltanto all’apertura della strada ma anche alle precedenti opere di fortificazione di Castel Sant’Angelo 26. Nella zona più a Ovest del quartiere, oltre la chiesa di San Giacomo a Scossacavalli, la definizione della nuova strada fu invece probabilmente agevolata dalla presenza di spazi vuoti, scarsamente edificati o ancora occupati da edifici in rovina 27. È noto infatti che, oltre la metà del XV secolo, buona parte del patrimonio immobiliare in Borgo versava ancora in condizioni fatiscenti dopo la fase di declino vissuta dal quartiere negli anni dello Scisma 28. Proprio la porzione di Borgo compresa tra piazza Scossacavalli e la basilica di San Pietro risulta particolarmente interessante dal punto di vista delle dinamiche e delle trasformazioni edilizie che seguirono all’apertura della strada: qui si concentravano, già prima degli interventi borgiani, le residenze delle figure più illustri insediate in Borgo 29 24

Ciò viene già ipotizzato da Giulia Petrucci, ma senza riscontri documentari. Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, p. 36. 25 ASR, Corporazioni religiose maschili, Carmelitani calzati in Santa Maria in Traspontina, 15, cc. 86r e segg.; ivi, 19, cc. 88v-95r. 26 In una prima versione del documento si fa riferimento alla necessità di ricostruire e riqualificare le strutture del convento «propter destructionem domorum prefate ecclesie factam de mandato felicis recordationis Alexandri pape sexti» (ASR, Corporazioni religiose maschili, Carmelitani calzati in Santa Maria in Traspontina, 15, c. 86r). In una seconda versione dell’atto, invece, si specifica che Alessandro VI «quamplurimas domos […] eorumque conventum sive monasterium solo adequari iusserit atque fecerit» (ASR, Corporazioni religiose maschili, Carmelitani calzati in Santa Maria in Traspontina, 19, c. 88v). Entrambi i documenti sono datati 12 ottobre 1506. 27 Cfr. Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, pp. 35-36. 28 S. Passigli, Il territorio delle parrocchie romane durante i secoli XIV, XV e XVI, in Popolazione e società a Roma dal Medioevo all’età contemporanea, Il Calamo, Roma 1998, pp. 63-91; A. Esposito, Borgo tra Medioevo e Rinascimento: prime indagini demografiche e sociali, in Rome des Quartiers: des “vici” aux “Rioni”: cadres institutionnels, pratiques sociales, et requalifications entre Antiquité et époque moderne, a cura di M. Royo, É. Hubert, A. Bérenger, De Boccard, Paris 2008, pp. 367-381, in partic. p. 370. 29 In quest’area, prima dell’apertura della via Alessandrina risiedevano ad esempio Francesco Soderini, Andrea della Valle, Francesco Cibo. Si veda in proposito Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, pp. 29-34. 512

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e qui trovò collocazione, dopo l’inaugurazione della via Alessandrina, la maggior parte dei nuovi palazzi, realizzati su iniziativa di committenti legati all’ambito ecclesiastico e curiale – su questo aspetto si tornerà in seguito – che scelsero quest’area del quartiere probabilmente perché più prestigiosa per la sua vicinanza alla basilica Vaticana 30, con una conseguente sempre più netta diversificazione, sociale e materiale, rispetto all’area urbana situata tra piazza Scossacavalli e il complesso di Santa Maria in Transpontina, popolata da «una piccola borghesia costituita prevalentemente da artigiani» 31. Negli stessi anni in cui, per quanto sappiamo, presero avvio gli interventi per la realizzazione della via Alessandrina, a Ovest di piazza Scossacavalli si registrano iniziative che sembrano documentare una tendenza a espandere il costruito verso il sedime della futura nuova strada: è quanto suggeriscono, ad esempio, due contratti risalenti rispettivamente all’ottobre 1498 e all’aprile 1499. Si tratta della concessione in enfiteusi da parte dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia di due case terrinee e solarate situate sulla Carriera Santa a due professionisti, il barbiere Tommaso della Porta e lo speziale Filippo Raimondi 32. Le due case corrispondono rispettivamente alla proprietà accanto alla quale, entro un paio d’anni, sarebbe stata iniziata la fabbrica del palazzo di Adriano Caprini, probabilmente su progetto di Bramante, acquisito nel 1517 da Raffaello 33; l’altra, quella affittata a Filippo aromatario, consiste nella casa immediatamente successiva in direzione della basilica di San Pietro, proprietà venduta poi nel 1515 dallo stesso Filippo a Bartolomeo Zen e passata nel 1522 al cardinale Pietro Accolti 34 (fig. 31). Nei contratti del 1498-1499 le due domus vengono assegnate agli affittuari con l’obbligo di compiere miglioramenta edilizi e con la possibilità di alcuni ampliamenti: a Filippo Raimondi viene concesso di ingrandire la casa utilizzando lo spazio sul retro dell’abitazione per costruire «quantum se extendunt antiqui muri stuphe», cioè fino al livello delle murature di 30

Sulle trasformazioni urbane di Borgo in termini di gerarchizzazione degli spazi si veda specialmente L. Palermo, Borgo nella gerarchia degli spazi urbani a Roma nel Rinascimento, in Rome des Quartiers, pp. 335-350. Cfr. anche Esposito, Borgo tra Medioevo e Rinascimento. 31 Esposito, Borgo tra Medioevo e Rinascimento, p. 375. 32 ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1444, cc. 131v-139r; ivi, 193, cc. 126r-127r; 1444, c. 155v. 33 Sulla storia di palazzo Caprini, tra la vasta letteratura disponibile, si rinvia essenzialmente a Frommel, Der Römische Palastbau, vol. II, pp. 80-87; Bruschi, Edifici privati di Bramante; C. L. Frommel, La città come opera d’arte: Bramante e Raffaello, in Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, a cura di A. Bruschi, Milano 2002, pp. 79-80; Dal Mas, Spagnesi, Roma: dalla casa di Raffaello. 34 ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 193, cc. 55v e segg. (23 marzo 1515); ivi., cc. 187v-188r (11 ottobre 1522). 513

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un’antica stufa 35. Tale stufa corrisponde all’edificio sulle cui preesistenze, com’è noto, entro il 1510 prese avvio la fabbrica di palazzo Caprini 36. La costruzione doveva essere situata all’angolo della piazza Scossacavalli e, dopo l’apertura della via nova, finì per attestarsi direttamente sulla via Alessandrina. L’ampliamento previsto per la proprietà concessa a Filippo Raimondi, quindi, può essere interpretato nel senso di un’estensione della residenza in direzione della nuova strada. Processi di riqualificazione del costruito esistente erano, del resto, già in atto in Borgo almeno dal pontificato di Niccolò V (1447-1455) e chiaramente non stupisce che, nel caso in questione come in altri casi, si immaginasse di espandere la domus esistente utilizzando lo spazio libero comunemente situato alle spalle della residenza. Tuttavia, è interessante notare come, dopo il tracciamento della via Alessandrina, nel maggio 1500 lo stesso Filippo ottenesse in concessione lo spazio di terreno attestato sul nuovo asse stradale e situato di fronte alla sua casa rivolta alla Carriera Santa, affinché vi costruisse secondo le indicazioni fissate da Alessandro VI attraverso la Etsi universis 37. E, ancora, il fatto che un Philippum aromatarium sia tra i nomi citati personalmente nella stessa bolla e sollecitati dal pontefice a costruire sulla via Alessandrina 38. Per ciò che riguarda la proprietà assegnata a Tommaso della Porta, il contratto prevedeva la possibilità per l’enfiteuta di disporre di metà di una domuncula posta sul retro dell’abitazione principale – che, come precedentemente detto, si affacciava sulla Carriera Santa – per poter ricavare un secondo ingresso alla residenza, come già accadeva per la casa del suo vicino Filippo 39. Questa seconda entrata alla domus non sembra essere pensata, almeno in questa fase, come un punto di comunicazione diretta con la via Alessandrina, ma è documentato che ben presto i titolari degli immobili con affaccio principale sulla Carriera Santa cominciarono a orientarsi verso il nuovo asse stradale. Nel maggio del 1500, ad esempio, il vescovo di Santa Giusta, Gaspare Torrellas, presentò all’Ospedale di Santo 35

ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1444, c. 131v. Nel 1510, l’Ospedale di Santo Spirito concesse in affitto a Giovanni della Rovere una casa situata probabilmente nell’angolo tra piazza Scossacavalli e la Carriera Santa, confinante con la casa di Tommaso della Porta e con la residenza degli eredi di Adriano Caprini in cui abita il vescovo Alessandrino. A questa data, dunque, il palazzo doveva essere ormai costruito. Bruschi, Edifici privati di Bramante, p. 34; cfr. anche Frommel, Der Römische Palastbau, vol. II, pp. 80 e segg. 37 Ivi, 193, c. 189r-v. 38 AAV, Reg. Vat. 874, c. 35v. 39 «[…] ut dicta apoteca seu domus ac magister Thomas et Sancta uxor habeant exitum et commoditatem retro et duos exitus seu introytus teneat et possideat», ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1444, c. 155v. 36

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Spirito una richiesta per la “messa in comune” di un muro con la proprietà confinante al fine di ricavare un adeguato ingresso nella sua casa, anch’essa situata sulla Carriera Santa, «ad exeundum in viam Alexandrinam» 40. L’anno seguente, nel maggio 1501, il citato Tommaso della Porta entrò in disputa con il protonotario apostolico Adriano Caprini da Viterbo per l’uso di una porzione di una domus discoperta – quindi diruta e disponibile per nuova edificazione – che era stata assegnata dall’Ospedale di Santo Spirito a Tommaso e che Caprini richiedeva invece gli fosse concessa «in perpetuum ad faciendum suum palatium sine qua comode illud facere non potest»41. Il palazzo in questione è chiaramente palazzo Caprini, che il protonotario apostolico intendeva costruire sulla via Alessandrina utilizzando il sito della vecchia stufa ricevuto in enfiteusi perpetua dallo stesso Ospedale nel giugno del 1500 42. La casa contesa era evidentemente situata anch’essa a ridosso della via nova e fu concessa a Caprini per la prosecuzione della fabbrica della sua residenza 43. L’episodio, ben noto e in genere considerato per il suo valore di testimonianza della storia edilizia di palazzo Caprini, fornisce in realtà un’indicazione significativa riguardo ai processi di trasformazione edilizia e alle iniziative di committenza che con l’apertura della nuova strada interessarono, in particolare, questa porzione di Borgo. Specialmente se si tiene conto del fatto che altri episodi di conflitto per il controllo di proprietà e terreni attestati sul nuovo rettifilo risultano verificarsi pressoché negli stessi anni. Una contesa simile ma dagli sviluppi più lunghi e articolati contrappose il vescovo, poi cardinale (1503), Francesco Soderini a Febo Brigotti, medico dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia44. Ben prima degli interventi alessandrini in Borgo, Soderini aveva iniziato ad acquisire il controllo di 40

Ivi, 193, cc. 195v-196r. L’assegnazione dell’antica stufa ad Adriano Caprini per la costruzione del suo palazzo risale, com’è noto, al 5 giugno 1500 (ASR, Ospedale di S. Spirito, 1444, cc. 173v-178r). Il compromesso stipulato tra Adriano Caprini e Tommaso della Porta, datato invece al 23 maggio 1501, è conservato in ASR, Ospedale di S. Spirito, 194, cc. 29v-30r. Cfr. in particolare Frommel, Der Römische Palastbau, vol. II, p. 80. 42 Arnaldo Bruschi data l’inizio della costruzione del palazzo agli anni 1504-1506, considerando dunque questi contratti di enfiteusi del 1500-1501 come una testimonianza dell’intenzione del protonotario apostolico di dare avvio alla fabbrica. Si veda in merito Bruschi, Edifici privati di Bramante, p. 34. 43 Tommaso della Porta abitava ancora in questa casa nel 1520, quando il barbiere impegnò l’immobile come garanzia per la dote nuziale della figlia Giulia. Alla stipula dei patti matrimoniali partecipò Raffaello in qualità di testimone. Si veda B. Agosti, M. Corso, Un additamento documentario per Raffaello e primi cenni sulla committenza del cardinale Francesco Armellini de’ Medici, in «Horti Hesperidum», 2018, pp. 365-383. 44 Sulla figura del cardinale Francesco Soderini e sulle sue iniziative edilizie si rimanda specialmente a Lowe, A Florentine prelate’s; Ead., Church and politics in Renaissance Italy: 41

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immobili posti lungo la via Saligata – secondo Kate Lowe, forse coincidente con un preesistente tracciato su cui si impostò la via Alessandrina – e aveva commissionato la costruzione del proprio palazzo sulla via Sistina 45. Nell’agosto del 1499, l’Ospedale di Santo Spirito assegnò in enfiteusi a Febo Brigotti un terreno situato sulla nuova via recta voluta dal pontefice, confinante davanti con la piazza del cardinale di San Clemente, ovvero piazza Scossacavalli, e sul retro con le proprietà del vescovo Soderini 46. A questa prima assegnazione ne seguì un’altra il mese successivo, ugualmente a favore di Brigotti per una casa posta sempre sulla piazza Scossacavalli, tra la via Alessandrina e il palazzo del vescovo Soderini, con un «certum spatium ante ipsam usque in viam Alexandrinam» 47. Nemmeno un mese dopo (21 ottobre 1499) la stipula di questo secondo contratto, la proprietà assegnata a Brigotti fu ceduta al vescovo Soderini per volontà di papa Alessandro VI 48. Nel relativo documento si afferma esplicitamente che il pontefice ha ordinato – «voluit et mandavit» – che la locazione a favore di Febo Brigotti non avesse luogo e che, come da sentenza emessa dal Governator Urbis, la proprietà fosse invece assegnata a vita al Soderini, affinché questi potesse beneficiarne in usufrutto e ricostruire l’edificio a sue spese49. Stando a quanto riportato nella revoca della concessione, dunque, il pontefice intervenne direttamente a vantaggio del prelato, garantendo di fatto a quest’ultimo la possibilità di costruire in un’area che godeva di una posizione di assoluto prestigio sulla nuova strada. Si torni a questo punto a considerare la bolla Etsi universis emessa nel 1500: nella bolla, il pontefice dichiara di aver dato inizio l’anno precedente (1499) alla realizzazione della via recta denominata Alessandrina e, desiderando che fossero costruiti sui due lati del rettifilo «domos et edifitia […] pro maiori dicte vie ornamento», di aver affidato al Governator Urbis, Pietro Isvalies, e al vescovo di Assisi, Geremia Contughi, il compito di sollecitare proprietari, usufruttuari e locatari di beni posti lungo la via a innalzare edifici «iuxta altitudinem et mensuram super hoc ordinatam»50 o ad accordarsi con altri interessati a costruire sulla nuova strada. Tuttavia, nonostante le intimazioni del Governatore, the life and career of Cardinal Francesco Soderini (1453-1524), Cambridge University Press, Cambridge 1993. 45 Lowe, A Florentine prelate’s, p. 260. 46 ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 193, cc. 136v-137r e 138r-139r. 47 ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 193, cc. 145r-146v. Il documento conferma inoltre, indirettamente, che almeno in quest’area la nuova strada fu tracciata attraverso spazi liberi o scarsamente edificati. 48 ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 193, c. 152 r-v. 49 Ivi, c. 152r. 50 AAV, Reg. Vat. 874, c. 35v. 516

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gli abitanti non hanno dato seguito a quanto ordinato né si curano della «deformitatem» della via, che resta perciò incompiuta 51. Di conseguenza, per rendere pienamente effettivo quanto stabilito, il papa interviene a fissare ufficialmente attraverso la bolla altezza degli edifici da realizzare, tempi di esecuzione e conseguenze dei mancati adempimenti. L’assegnazione della proprietà al vescovo Soderini nel 1499 per volontà del papa e su sentenza del Governator Urbis ribadisce quanto descritto nella premessa alla bolla papale del 1500, che dunque sembra effettivamente dare carattere ufficiale e programmatico a un processo di riqualificazione edilizia dei fronti della nuova strada già incoraggiato e in parte avviato prima dell’emissione del documento. Nel settembre del 1505 Febo Brigotti e il cardinale Soderini, nella persona del suo procuratore, stipularono una permuta in sostituzione di un precedente accordo (1504), in base alla quale Brigotti riceveva una casa sulla via Sistina «cum uno casaleno in via Alexandrina» e il cardinale volterrano otteneva invece la casa e il terreno sulla via Alessandrina che il medico aveva avuto dall’Ospedale di Santo Spirito 52. Infine, nel 1509, lo stesso Ospedale concesse in enfiteusi perpetua al cardinale certas domunculas con terreno sempre attestate sulla nuova strada in prossimità di piazza Scossacavalli, al confine con il sito su cui sarebbe poi sorto il palazzo del cardinale Adriano Castellesi da Corneto 53. Nell’area così progressivamente acquisita sulla via Alessandrina, Francesco Soderini promosse la costruzione non di una nuova residenza per se stesso – l’abitazione del cardinale in Borgo rimase anche in seguito il palazzo sulla via Sistina – bensì di un complesso di case d’affitto a schiera o cosiddette “in serie” (fig. 1), spesso confuse con il palazzo Soderini per via del fronte imponente e unitario dell’edificio, che in altezza raggiungeva lo sviluppo di 7 canne prescritto dalla bolla pontificia 54 (fig. 34). La costruzione del complesso di case dovette iniziare entro il 1509 55 ma non era probabilmente ancora completata nel 1510, quando Bramante fu chiamato, in qualità di architetto del papa, a esprimere un giudizio definitivo sulla 51

Ibid. ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 197, cc. 71r-74v. Cfr. Lowe, A Florentine prelate’s, p. 262. 53 ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 218, cc. 110r-113v. 54 Sulle case Soderini si veda P. Tomei, Le case in serie nell’edilizia romana dal ’400 al ’700, in «Palladio», 2 (1938), pp. 83-92; A. Antinori, Baldassarre Peruzzi e le case Soderini in Borgo, in «Palladio», 19 (1997-1998), pp. 39-52. 55 Lowe, A Florentine prelate’s, p. 264. 52

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contesa tra il cardinale e Febo Brigotti, che lo stesso Soderini desiderava portare a conclusione «ad ogni modo» 56. Il sistema di case in serie edificate in Borgo su committenza del cardinale Soderini rappresenta un caso esemplare del processo di modernizzazione e “razionalizzazione” a cui il tipo tradizionale della casa a schiera con bottega va incontro tra XV e XVI secolo, un’evoluzione che può essere colta immediatamente confrontando la pianta delle case del complesso con la pianta di alcune delle case-bottega di proprietà dell’Ospedale di Santo Spirito situate sulla Carriera Santa 57. Ancora nel XVII secolo, queste conservavano la configurazione medievale di case a uso “unifamiliare”, con fronte di limitata estensione e un accentuato sviluppo in profondità, scandito da ambienti di dimensioni anche molto diverse, contenenti al loro interno la scala di accesso al piano o ai piani superiori, senza spazi di distribuzione e di conseguenza interdipendenti l’uno rispetto all’altro 58 (figg. 32, 33). A tale assetto rispondevano, probabilmente, anche le case terrinee et solarate concesse in affitto a Tommaso della Porta e a Filippo Raimondi di cui si è trattato precedentemente. Nelle case Soderini – caratterizzate tutte dallo stesso impianto ripetuto in serie – la scala è situata invece al centro dell’abitazione per permettere accesso autonomo e distinto alla bottega e alla sovrastante residenza e, di conseguenza, l’organizzazione distributiva garantisce il migliore sfruttamento dello spazio disponibile. Come hanno dimostrato gli studi di Kate Lowe, il cardinale volterrano concepì con ogni probabilità la costruzione di tale complesso come forma di investimento per la propria famiglia e, dunque, non a caso scelse di destinare la più prestigiosa e redditizia delle aree da lui controllate in Borgo – quella sulla via Alessandrina – per la realizzazione dell’immobile, adottando all’interno per le singole case un impianto che permettesse di massimizzare la resa economica. L’imponenza del complesso, assimilabile appunto a un palazzo, garantiva d’altro canto un sicuro ritorno 56

A. Rossi, Nuovi documenti su Bramante, in «Archivio Storico dell’Arte», 1 (1888), pp. 134137. Nella sentenza emessa da Bramante è riportato il tenore di una lettera inviata da Soderini all’architetto, che il cardinale chiama «amico carissimo», pregandolo di informarsi sullo stato dei fatti e giudicare in coscienza riguardo «la causa de mastro Phebo, lo quale noi desideramo che la termini ad ogni modo». Il documento è conservato presso Archivio Storico Capitolino (d’ora in avanti, ASC), Archivio Urbano, sez. LXVI, vol. 10, cc. 131r-133r. 57 Si veda ad esempio, ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1460. 58 Cfr. H. Broise, Les maisons d’habitation à Rome aux XV e et XVIe siècles: les leçons de la documentation graphique, in D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation de l’espace dans les ville européennes (XIIIe-XVIe siècles), a cura di J.-Cl. Maire Vigueur, École Française de Rome, Roma 1989, pp. 607-629, in partic. p. 614. 518

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d’immagine cosicché «the whole complex therefore satisfied the demands of both ostentation and financial necessity»59. La modernizzazione dell’assetto interno del tipo tradizionale di residenza con bottega riscontrabile nelle case Soderini si rintraccia, in realtà, in molte delle case a schiera costruite o riqualificate sulla via Alessandrina e, più in generale, in Borgo e nel resto della città al passaggio tra XV e XVI secolo 60. Un processo che nel tempo interessò anche fabbriche più articolate come, ad esempio, il palazzo situato proprio sulla via Alessandrina abitato da Marcello Cibo e, poi, da Francesco Cibo (fig. 35), diviso in due case distinte riorganizzate internamente con l’inserimento di spazi di distribuzione per ottenere, evidentemente, un uso separato e più efficiente degli spazi di residenza e degli spazi commerciali 61 (fig. 36). Negli stessi anni in cui si procedeva alla costruzione delle case Soderini, veniva realizzato, sul fronte opposto della strada, il palazzo del protonotario apostolico Adriano Caprini al quale si deve un diverso tipo di rinnovamento della residenza associata alla presenza di spazi di commercio: una «organica e razionale proposta tipologica di palazzo privato con botteghe»62, in cui il piano terreno è destinato a botteghe d’affitto con mezzanino distinte e separate dalla residenza del committente al piano nobile attraverso un opportuno assetto distributivo che consente un utilizzo indipendente dei due livelli, differenziati nel trattamento esterno – rivestimento a bugnato al piano basamentale commerciale, facciate articolate dall’ordine architettonico al piano nobile – e dunque riconoscibili anche formalmente nel loro diverso carattere, «fisico e sociale» 63 (fig. 19). Il richiamo all’Antico, applicato anche 59

Lowe, A Florentine prelate’s, p. 268. Si tratta di un processo che interessa, in generale, l’edilizia abitativa con botteghe al piano terreno a partire almeno dalla fine del XV secolo. Si veda in proposito almeno A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età moderna, Roma nel Rinascimento, Roma 1998, p. 130. Sul ruolo degli spazi commerciali nell’architettura di Borgo, M. G. D’Amelio, Edilizia commerciale e abitativa nel Borgo vaticano a Roma (XV-XVII secolo), in Il mercante patrizio. Palazzi e botteghe nell’Europa del Rinascimento, a cura di D. Calabi, S. Beltramo, Milano 2008, pp. 139-166. 61 L’edificio, già posseduto da Marcello Cibo, fu assegnato a Francesco e Lorenzo Cibo nel 1517. Nel 1554, il palazzo fu riacquisito dall’Ospedale di Santo Spirito e dal Capitolo di San Pietro e diviso in due distinte proprietà. ASR, Ospedale di Santo Spirito in Sassia, 1083, cc. 29r-30v; Ivi, cc. 35r-38v. 62 Bruschi, Edifici privati di Bramante. 63 F. Nevola, Home Shopping: Urbanism, Commerce and Palace design in Renaissance Italy, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 70 (2011), fasc. 2, pp. 153-173, in partic. p. 160. Sul tema del palazzo con botteghe nella Roma del Rinascimento si veda sinteticamente D’Amelio, Edilizia commerciale; C. Conforti, Palazzi con botteghe nella Roma moderna, in Il mercante patrizio, pp. 131-137. 60

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nella concezione di un nuovo disegno di facciata per le botteghe incluse nel palazzo, rappresenta la via attraverso cui si giunge, in tal caso, a una soluzione di immobile di uso misto e plurale che benefici in forma duplice della posizione vantaggiosa sul nuovo asse stradale: ovvero tramite il pieno sfruttamento del piano terreno per fini commerciali e, al contempo, la valorizzazione in termini di prestigio della dimora del committente. Ancora un ulteriore, differente declinazione di un’idea nuova di residenza si manifesta, all’incirca nello stesso torno di anni, sempre in corrispondenza della porzione della via Alessandrina prossima alla piazza di San Giacomo in Scossacavalli, dove verosimilmente entro il 1504 prese avvio la costruzione del palazzo del cardinale Adriano Castellesi da Corneto 64 (fig. 18). L’edificio, come già accennato, si trovava immediatamente a Est dell’area su cui sarebbe da lì a poco sorto il complesso di case di Francesco Soderini, area di cui Castellesi in parte si appropriò occupandola «in edificatione sui palacii» 65. Oltre alla contemporaneità delle fabbriche e alla vicinanza dei siti, alcune puntuali corrispondenze legano l’edificio del cardinale Soderini e il palazzo Castellesi: dotati sostanzialmente della stessa estensione lungo la via Alessandrina, rappresentano le uniche due fabbriche che, per quanto finora noto, raggiunsero effettivamente l’altezza di sette canne prescritta dalla bolla Etsi universis 66. Le due strutture si fiancheggiavano come l’incarnazione di due diverse facce di una moderna espressione dell’abitare: l’aggregazione di case-tipo da affitto e il modello del palazzo di rappresentanza “all’antica”, privo di botteghe al piano terreno e, per la prima volta a Roma, articolato secondo «un impianto che evocasse quello della casa degli antichi» di ispirazione vitruviana 67. Castellesi acquisì il controllo del sito su cui sarebbe poi sorto il suo palazzo nel 1501, quando il Capitolo di San Pietro gli assegnò la proprietà di alcune domus con terreno che erano state precedentemente affittate a tale Tommaso serviens armorum. La properità fu stimata nel suo insieme per il valore di 800 ducati, ma, come hanno dimostrato gli studi di Alexis Gauvain, il cardinale impose al Capitolo «cum mandato pape et verbis minatoris» di concedergli 64

Su palazzo Castellesi, poi Giraud-Torlonia, si rimanda sinteticamente a Frommel, Der Römische Palastbau, vol. II, pp. 207-215; Bruschi, Edifici privati di Bramante, pp. 10-30. 65 ASR, Ospedale di Santo Spirito in Sassia, 218, cc. 111r. 66 Arnaldo Bruschi ha ipotizzato che il progetto elaborato da Bramante per il palazzo di Adriano Castellesi prevedesse per la facciata dell’edificio una configurazione in parte diversa da quella poi attuata e che, in questa prima versione, l’elevazione del palazzo corrispondesse propriamente all’altezza fissata dalla bolla pontificia. Si veda in merito Bruschi, Edifici privati di Bramante. 67 Ivi, p. 24. 520

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gratuitamente il sito «ut ipse edificaret ibi palatium» affermando che quella era la volontà del pontefice68. Nuovamente, come nel caso delle proprietà concesse ad Adriano Caprini e a Francesco Soderini, il controllo di un’area direttamente attestata sulla nuova via retta passa nelle mani di un facoltoso esponente dell’ambito curiale, a svantaggio e in sostituzione del precedente titolare. Per quanto riguarda in particolare i cardinali Soderini e Castellesi, non si può escludere – anzi pare assai probabile – che i legami personali diretti tra i due prelati e il pontefice possano aver inciso sul loro coinvolgimento nelle operazioni che accompagnarono la definizione della via Alessandrina 69. Tuttavia, più in generale, almeno in questa prima fase di riconfigurazione edilizia dell’area successiva all’apertura del rettifilo, le iniziative di committenza di curiali ed ecclesiastici paiono essere esplicitamente favorite. Che Alessandro VI fosse interessato a incoraggiare l’investimento in opere edilizie da parte di tale genere di committenti lo si comprende, del resto, dal fatto che l’emissione della bolla Etsi universis sia stata preceduta dal rinnovo, nel 1494, della bolla sistina del 1474 tramite cui si riconosceva agli ecclesiastici la possibilità di trasmettere in eredità per via testamentaria gli edifici costruiti a Roma e nel suo territorio entro una certa distanza dalla città anche investendo denari provenienti da benefici religiosi 70. E in una direzione simile era forse orientata l’incalzante scadenza temporale di due mesi fissata dalla bolla del 1500 per il completamento delle fabbriche da avviare sulla via Alessandrina: una scadenza difficilmente onorabile, come già detto, che avrebbe probabilmente indotto i proprietari dei suoli 68

A. Gauvain, Una storia dalla Roma del Quattrocento. Quaderni di Ansuino di Anticoli, parroco in Roma e beneficiato vaticano (1468-1502), Città del Vaticano 2014, p. 56, nota 63. 69 Adriano Castellesi e Francesco Soderini condividevano, oltre a un rapporto di conoscenza di lunga data, l’amicizia con umanisti e letterati tra cui Raffaele Maffei da Volterra, Iacopo Gherardi, Paolo Cortesi. Raffaele Maffei, in particolare, vicino insieme ad altri intellettuali al cardinale Raffaele Riario, entrò certamente ben presto a conoscenza del programma alessandrino per la nuova strada in Borgo, come del resto testimonia la lettera inviatagli da Michele Ferno nel maggio 1499. Sulla biografia di Adriano Castellesi e di Francesco Soderini si veda sinteticamente G. Fragnito, Adriano Castellesi, in Dizionario Biografico degli Italiani (d’ora in avanti DBI), vol. XXI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1978, pp. 665-671; F. Salvestrini, Francesco Soderini, in DBI, vol. XCIII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma (2018), a.v. 70 P. Partner, Sisto IV, Giulio II e la Roma rinascimentale: la politica sociale di una grande iniziativa edilizia, in L’età dei Della Rovere, «Società Savonese di Storia Patria. Atti e Memorie», n.s., 25 (1989), pp. 81-89; M. Vaquero Piñeiro, Una città da cambiare: intorno alla legislazione edilizia di Sisto IV, in Sisto IV. Le Arti a Roma nel primo Rinascimento, a cura di F. Benzi e C. Crescentini, Roma 2000, pp. 426-433. Il provvedimento per il rinnovo della bolla sistina Etsi universis promulgato da Alessandro VI è conservato in AAV, Reg. Vat. 874, cc. 12v-14r. 521

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a cedere i diritti di edificazione a committenti dotati di risorse tali da poter più agevolmente attuare le prescrizioni pontificie. È stato del resto già evidenziato come Alessandro VI «sollecitò e favorì il trasferimento della residenza di molti curiali di diverso ordine e grado» in generale nel quartiere di Borgo, giungendo anche a sostenere a spese della Camera Apostolica il pagamento dell’affitto per residenze destinate ai propri uomini di fiducia 71. Un’azione che rinnova e conferisce nuovo impulso a una tendenza già affermatasi in passato e che, con le dovute distinzioni, richiama evidentemente alla mente il progetto per un quartiere curiale in Borgo immaginato da papa Niccolò V e descritto da Giannozzo Manetti nella Vita del pontefice 72. Con il progetto descritto nella biografia niccolina, il programma delineato da Alessandro VI per la nuova strada in Borgo sembra condividere anche l’idea di un rettifilo fiancheggiato da costruzioni continue e uniformi, capaci di assicurare «bellezza e utilità insieme» 73. Ma, com’è stato giustamente osservato, se la strada ad palatium immaginata da Niccolò V doveva essere riservata ad artigiani di medio livello, la via recta ad palatium voluta da Alessandro VI si configura come un percorso solenne di accesso alla residenza vaticana 74. E dunque gli edifici costruiti sui due lati di tale tracciato non avranno più la dimensione di botteghe con un solo piano residenziale sovrastante, come nel progetto niccolino, ma al contrario dovranno rispettare un limite minimo di grandezza, essere uniformemente innalzati usque ad debitam mensuram 75. 71

A. Modigliani, Uso degli spazi pubblici nella Roma di Alessandro VI, in Roma di fronte all’Europa, vol. II, pp. 521-548, in partic. p. 535. 72 Sui programmi di Niccolò V per Borgo si veda almeno T. Magnuson, The project of Nicholas V for rebuilding the Borgo Leonino in Rome, in «The Art Bulletin», XXXVI (1954), pp. 89-115; C. Burroughs, Below the Angel: an urbanistic project in the Rome of Pope Nicholas V, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XLV (1982), pp. 94-124; M. Tafuri, Cives esse non licere: Niccolò V e Leon Battista Alberti, in Id., Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Einaudi, Torino 1992, pp. 33-88; A. Modigliani, “Ad urbana tandem edificia veniamus”. La “Vita Nicolai quinti” di Giannozzo Manetti: una rilettura, in Leon Battista Alberti: architetture e committenti, Atti del Convegno internazionale, Firenze-Rimini-Mantova, 12-16 ottobre 2004, a cura di A. Calzona, J. Connors, F. P. Fiore, C. Vasoli, 2 voll., Firenze 2009, vol. II, pp. 513-559. 73 Su questo aspetto si veda anche F. Cantatore, In margine alla Vita di Giannozzo Manetti: scrittura e architettura nella Roma di Niccolò V, in Leon Battista Alberti. Architetture e committenti, a cura di A. Calzona, J. Connors, F. P. Fiore e C. Vasoli, 2 voll., Firenze 2009, vol. II, pp. 561-588, in partic. p. 568. 74 Modigliani, Uso degli spazi, p. 536. 75 Giorgio Simoncini ha associato le prescrizioni previste in merito all’altezza degli edifici lungo la via Alessandrina al «tipo della strada ideale» previsto da Leon Battista Alberti. Cfr. Roma. Le trasformazioni, p. 229. 522

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Un impulso, forse, a superare la frammentazione del tessuto edilizio di un rione come Borgo nel quale, come già ricordato, persistevano ancora in pieno Quattrocento strutture dirute e spazi inedificati e, come ricordato da Michele Ferno nella nota lettera a Raffaele Maffei da Volterra del 1499, delle due strade esistenti che conducevano ai palazzi vaticani, una «iam luto immersa est», l’altra «praeter illam sinuositatem, omni obscenitate referta»76. Se nella testimonianza di Michele Ferno la dignità della nuova via recta si contrappone alle oscenità che deturpano la preesistente via Santa a causa della sua sinuositas, nella bolla alessandrina del 1500 alla deformitas della strada ancora imperfecta fa da contrappunto il decoro che la costruzione dei nuovi edifici potrà apportare alla via e alla città intera. Ed è su questo punto che il documento insiste, tanto da imporre che, nell’impossibilità di completare le nuove fabbriche, fossero portate a conclusione nei termini previsti quanto meno le loro facciate77. Ma l’apertura della nuova strada «non costituiva solo un evidente segno di vantaggio per la viabilità, era la stessa struttura economica», connessa alla dimensione urbana, «che ne usciva trasformata» 78. Sul piano dei processi di rinnovamento architettonico, la definizione del nuovo tracciato viario rappresentò come si è visto la premessa per la realizzazione di edifici che, attraverso soluzioni tipologiche e formali aggiornate, rispondevano – in modo diverso, talvolta quasi contrapposto: si pensi alle case Soderini e al palazzo Castellesi – alla valorizzazione dell’area innescata dalla strada. In tutti i casi qui considerati, dal funzionale complesso di case d’affitto del cardinale Soderini, al palazzo all’antica con piano basamentale commerciale del dignitario apostolico Caprini, fino all’exemplum di nuova «domus senatoria» costituito dal palazzo del cardinale Castellesi 79, le novità sperimentate negli impianti e nei linguaggi architettonici intrecciano ineludibilmente le opportunità economiche, rappresentative e simboliche offerte dall’area urbana di Borgo con l’apertura della via nova Alexandrina 80.

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Peebles, La “Meta Romuli”, p. 39. AAV, Reg. Vat. 874, c. 36v. 78 Palermo, Borgo nella gerarchia, p. 350. 79 Bruschi, Edifici privati di Bramante, p. 14. 80 Sulla valorizzazione economica del rione Borgo durante il pontificato di Alessandro VI e, in particolare, dopo l’apertura della via Alessandrina si rimanda essenzialmente a Palermo, Borgo nella gerarchia. 77

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Fig. 1 – Case ‘in serie’ o ‘a schiera’, nel tratto di Borgo Nuovo/Via Alexandrina, tra il vicolo dell’Erba e via dell’Arco della Purità (seconda metà del XV sec. - Perizia 1563, in Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 6409, p. II)

Fig. 2 – Palazzo Caprini (dis. attrib. a Palladio, RIBA)

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Fig. 3 – Nuova Mostra dell’Acqua di Trevi, assetto del 1453, da Roma antica e modema, a cura di Gio. Domenico Franzini 1660, p. 770, riprodotta in P. LETAROULLY, Edifices de Rome moderne, Bruxelles 1866, p. 709

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Fig. 4 – Anonimo, Inaugurazione del ponte Sisto, Roma, ospedale di Santo Spirito in Sassia

Fig. 5 – Riproduzione di medaglia del pontificato sistino con, in evidenza, il «cura rerum publicarum» (da F. Bonanni, Numismata Pontificum Romanorum quae a tempore Martini V usque ad annum M.DC. XCIX, Roma 1699, vol. I, p. 91, particolare)

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Fig. 6 – Una delle due epigrafi quattrocentesche poste alla testata sinistra di Ponte Sisto

Fig. 7 – Ponte Sisto, acquaforte di Antonio Acquaroni (da Ponti antichi sul Tevere e sull’Aniene, 1836. Roma, Calcografia Nazionale)

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Fig. 8 – Ricostruzione schematica del Borgo Vaticano con, in evidenza, il percorso della via Alessandrina e il posizionamento della Meta Romuli (disegno M. Gargano)

Fig. 9 – Maarten van Heemskerck (attrib.), veduta dell’area di Borgo con la via Alessandrina, Roma sec. XVI (da Die römische Skizzenbücher von Marten van Heemskerck, hrsg. von Ch. Hülsen und H. Hegger, Berlino 1913, I, f. 58v)

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Fig. 10 – Tracciato della via Alessandrina, con accesso al palazzo vaticano, rilevabile dall’incisione di Maarten van Heemskerck, 1533, (da Die römische Skizzenbücher cit., I, tav. 17).

Fig. 11 – Giovanni Antonio Dosio (attrib.), disegno della via Alessandrina dalla platea antistante la basilica di S. Pietro, 1560 ca. (da H. Egger, Römische Veduten, Vienna 1932, I, tav. 16)

Fig. 12 – Via Alessandrina: tratto finale del tracciato della strada con, sulla sinistra, il palazzo Branconio dell’Aquila e, sullo sfondo, il piazzale antistante la basilica di S. Pietro con la Loggia delle Benedizioni, dis. attribuito a Maarten van Heemskerck, sec. XVI, (da Die römische Skizzenbücher cit., II, f. 53r)

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Fig. 13 – Bolla emessa da papa Alessandro VI Borgia in occasione dell’apertura della Via Alessandrina in Borgo, in Archivio Apostolico Vaticano (già Archivio Segreto Vaticano), Reg. Vat., 874 cc. 35v-37r, f. 35v.

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Fig. 14 – Via Alessandrina con la Piazza Scossacavalli: una ‘cerniera’ dei modi dell’abitare tra ‘tradizione’ e ‘novità’, tracciato rilevabile dal Catasto piano-Gregoriano del 1824 (ASR, rione XIV, Borgo, ff. V-VI)

Fig. 15 – Una fotografia con la chiesa di San Giacomo Scossacavalli e il Palazzo Castellesi da Corneto-Giraud-Torlonia

Fig. 16 – Adriano Fiorentino (attrib.), Liberalitas, dritto (a sin.) e rovescio (a des.) di una medaglia di Raffaele Riario, ante 1488

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Fig. 17 – Palazzo Jacopo da Brescia (prima della distruzione a seguito dei lavori per l’apertura di Via della Conciliazione)

Fig. 18 – Palazzo Castellesi da Corneto-Giraud-Torlonia (a sin., inc. di G. Vasi)

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Fig. 19 – Palazzo Caprini (ricostruzione di A. Lafréry, Speculum Romanae Magnificentiae, 1549, Albo H 56-2, tav. 101)

Fig. 20 – Palazzo Branconio dell’Aquila (dis. attrib. a Giovan Battista Naldini, Firenze, Uffizi. Gabinetto Disegni e Stampe, 230 Ar)

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Figg. 21-24 – Quattro esempi di ‘case in serie’ o ‘a schiera’ sulla Via Alessandrina

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Figg. 25-28 – Quatto esempi di ‘case in serie’ o ‘a schiera’ sulla Via dei Coronari

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Fig. 29 – Veduta di Roma edita da Sebastiano Münster (1550). Particolare di Borgo con la via Alessandrina

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Fig. 30 – Configurazione dei lotti di Borgo prima e dopo l’apertura della via Alessandrina (da G. Petrucci, L’apertura della via Alessandrina, cit., pp. 29, 43)

Fig. 31 – Ricostruzione schematica delle proprietà attestate su piazza Scossacavalli intorno al 1499, a sinistra, e intorno al 1510, a destra (disegno G. Mosca)

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Fig. 32 – Casa in Borgo (ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1460, c. 3r)

Fig. 33 – Casa in Borgo (ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1460, c. 8r)

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Fig. 34 – Prospetto delle case Soderini sulla via Alessandrina, XVII secolo (ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1460, c. 36r)

Fig. 35 – Pianta del palazzo di Marcello e Lorenzo Cibo sulla via Alessandrina, 1553 circa (ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1083, c. 28)

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Fig. 36 – Pianta e prospetto di una delle due case ottenute dalla suddivisione del palazzo già di Marcello e Lorenzo Cibo, XVII secolo (ASR, Ospedale di S. Spirito in Sassia, 1460, c. 31r)

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ISBN 978-887-311-517-5