Roma orfica e dionisiaca nella Basilica 'pitagorica' di Porta Maggiore

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Roma orfica e dionisiaca nella Basilica 'pitagorica' di Porta Maggiore

Table of contents :
Prefazione
Introduzione
1. La struttura della Basilica (Significato della Basilica)
2. Il soffitto della navata nord
3. Volta della navata centrale
4. Il catino dell'abside - Il Tuffo
Note

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Domizia Lanzetta

Roma orfica e dionisiaca nella Basilica "pitagorica" di Porta Maggiore

collana di studi t' rin·n·he .wl/l' tradizioni spiriwali

In copertina: Mosaico romano (1° sec. d.C.) con sacra rappresentazione di sacri­ ficio o presagio. Roma - Museo Nazionale Romano.

��MI Simmetria edizioni - associazione culturale Vìa Muggia 10- 00195 Roma Te! 06-37351335 E-mail: [email protected]

Grafica e impaginazione: P. T.

Benedetti

Finito di stampare nel solstizio d'estate 20 1 1 presso la tipografia Stampa Editoriale srl

Le immagini riprodotte sui testi di Simmetria sono in genere disegni originali di proprietà degli autori, in altri casi, sono parziali riproduzioni di opere note e pubblicate in più siti; per le stesse è stata richiesta autorizzazione e qualora ciò non fosse stato possibile l'editore

è a disposizione per regolare le spettanze di eventuali aventi diritto, al momento ignoti.

Prefazione

La "Basilica" di Porta Maggiore a Roma

La casuale e fortunata scoperta nel 1 9 1 7 di un sito di epoca imperiale che aveva conservato quasi intatta una struttura cultuale, ha posto il problema del significato di quella che ben presto fu ritenuta una "basilica" pagana. In una ampia memoria che era una vera e propria sintesi dei risultati raggiunti fino al 1 927 G .Bendinelli (Il Monumento sotterraneo di Porta Maggiore in Roma, in Monumenti antichi, vol. XXXI, a cura della R. Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1 927 , pp.60 1 -85 9 ), poi seguito dal Lugli, riportava un ' abbondante corredo fotografico teso ad illustrare efficacemente i vari aspetti dell ' impor­ tante ritrovamento e, poichè ci si trovava di fronte ad un "monumento sotterraneo", avanzava l ' ipotesi che il sito molto probabilmente fosse stato adibito a rituali funebri e a culti dedicati agli dèi inferi . La vera svolta per la comprensione del significato della "basilica" si ebbe con Jerome Carcopino, lo storico della civiltà latina che poteva vantare una conoscenza molto attenta dei siti archeologici di Ostia e della stessa Roma. Nel 1 930 i suoi studi furono formalizzati in un libro che ha fatto epoca, La basilique pythagoricienne de Porte Majeure à Rome, Paris 1 930. Non si trattava solo di un' analisi del materiale archeologico, ma dello stesso significato di quella che egli chiamava la « basilica» di Porta Maggiore, della sua struttura simbo­ lica, del tipo di spiritualità che sembrava emergere da quelle rovine, della corrente di pensiero e dei culti che con molta verosimiglianza erano stati praticati nel complesso sotterraneo. Nel 1 95 1 J .Bousquet (Les confréres de la Porte Majeure et l' arithmologie pythagoricienne, "Revue Ètudes Grecques", 1 95 1 , pp. 466-47 1 ) potè persino arrivare

a decifrare alcuni aspetti del rituale e del simbolismo numerico che emergevano dalle scoperte , fino a che nel 1 9 7 4 S . Aurigemma in una piccola brochure (La B asilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore in Roma, Istituto Poli grafico dello Stato) riprese, arricchen­ dole con nuove fotografie del sito, le considerazioni del Carcopino. E questo è tutto quello che in modo organico ed ordinato era stato scritto fin ad oggi su questa scoperta archeologica che appare non solo straordinariamente importante per la sostanziale perfezione del sito, ma anche come un unicum di tipo culturale ed architettonico }asciatoci dal mondo antico. L' interpretazione del Carcopino, quasi unanimemente accettata dagli studiosi, anche se con sfumature varie e con molti distinguo, evidenzia come nella "basilica" si trovi una serie di simboli e di strutture mito­ logiche che conducono senza ombra di dubbio verso un complesso dottrinale scaturito dal mondo pitagorico. Anzi, la continuità dei sim­ boli emersa nei vari medaglioni e nei molti stucchi porta addirittura a concludere che nella "basilica" si trova tracciato un itinerario di trasformazione interiore che dall "'inferno terrestre" conduce a poco a poco verso il "paradiso celeste", il simbolo della trasfigurazione del miste cui erano rivolti i ri�uali che si svolgevano nella "basilica". Non solo, ma l ' analisi dei miti raffigurati nei vari medaglioni e nel complesso architettonico, i personaggi scelti con attenzione e con precisa valutazione, la stessa disposizione di alcuni si ti presso i quali i fedeli dovevano fermarsi, conduce a ripercorrere tutto il vasto retaggio interpretato dai pitagorici e rivela la sua essenza fondamentalmente "mistica", la tensione verso la trasformazione interiore, il suo rap­ presentare una specie di "architettura" mitico-narrativa che doveva fare da controparte a quanto il rituale esplicava sul piano pratico in vista della palingenesi dell ' iniziato. Fin qui gli studi che hanno costituito la base erudita che introduce alla comprensione del significato di questo straordinario monumento, ormai chiuso al pubblico e al quale è vietato l ' accesso in vista di 2

restauri che in realtà non sembrano arrivare mai. L' interpretazione proposta da Domizia Lanzetta suppone i risultati di questa schiera di studiosi, il loro impegno, l ' attenzione e la passione con le quali si sono accostati a questi problemi, ma con la volontà di andare oltre i limiti che a volte rendono troppo anguste le inter­ pretazioni precedenti. Forte dei suoi studi sul mondo romano, della conoscenza dei rituali più antichi di Roma e delle sue strutture mitiche e spirituali, l ' Autrice ha affrontato il problema cercando di soffer­ marsi sul percorso spirituale che il miste ammesso ai sacri riti doveva seguire, cercando di decifrare l ' ambito dottrinale espresso dalle varie raffigurazioni mitiche e la probabile struttura rituale che emerge da questo iter interiore. Affiora una nuova prospettiva interpretati va che comincia dal vasto mondo mitologico del dionisismo, analizza poi le formelle e gli stucchi che in quantità rilevante contengono riferimenti al culto apollineo, e conclude nel possibile itinerario di rigenerazione spirituale, il vero obiettivo dei vari rituali. Come ribadisce Lanzetta, all ' entrata del monumento "si viene subito colti da una sensazione di gelo", ma la stessa disposizione delle fine­ stre e il gioco della luce che ne consegue invita ad entrare al tramonto, all ' ora della purificazione del miste, poco prima dell ' inizio dei rituali. Subito, il soffitto dell ' androne d ' ingresso accoglie il visitatore con la rappresentazione del sacrificio del sacro capro, forse lo stesso Dionysos Kemelios, il Dioniso Capretto che Zeus aveva affidato ad Hermes per sottrarlo alla persecuzione della dèa Hera. Segue il soffitto della navata nord che si snoda attraverso la narrazione dello scontro-ordalia di Apollo e Marsia, alla quale fa da corona la coppia Fedra-Ippolito, poi la danza delle Baccanti e infine un enig­ matico accoppiamento Dioniso Sabazio con il Liknon. Siamo in piena ambientazione dionisiaca che sembra persino riprendere alcuni aspetti misteriosofici appartenenti al più antico orfi smo e ai suoi rituali di descensus ad inferos . L a navata centrale è più complessa e riprende alcuni dei miti legati 3

ad Apollo e al sito delfico, ma con la particolarità di non rinunciare al complesso dionisiaco appena attraversato, quasi come la controparte positiva, luminosa e rigeneratrice di un rituale che intende esplicitare l ' unità anteriore al dualismo apparente espresso dai due dèi, Dioniso e Apollo. Eracle, Atena, Ifigenia, Calcante, Chirone, Aristeo, Elettra, i Dioscuri, Elena, Paride, Giasone (ma Lanzetta ritiene che in questo caso si tratta di Frisso, colui che ha posato il Vello d ' oro) , Ganimede, Attis, escono dalla raffigurazione mitologica e sembrano quasi accom­ pagnare l ' iter del fedele, il miste si assimila alla realtà spirituale che essi veicolano, sperimenta un piano di esistenza che non è quello dell' uomo normale, ma quello che appartiene ad ogni iniziato. Forse bisognerebbe trattenersi un attimo sul significato della formella che tratteggia l ' immagine di Trittolemo, l ' Aratore del mitologhemi, presente anche in alcuni frammenti di Publio Nigidio Figulo, il fon­ datore della confraternita pitagorica che si affermò a Roma nel primo secolo a.Cr. e che probabilmente non è estranea alla stessa fondazione di questa straordinaria "basilica", con i suoi simbolici l 08 ( = 36 x 3) metri di lunghezza complessiva e con i suoi 2 8 seggi disposti sapientemente di fronte ad alcune formelle, che dovevano ospitare altrettanti iniziati. 'E, questa, la parte che illustra il "paradiso celeste", la mèta veritiera di tutto il percorso iniziatico, nella quale doveva emergere la dimen­ sione più elevata dell ' uomo, simbolicamente rappresentata come il superamento degli stessi stati celesti nei quali vivono gli dèi , qui considerata una specie di sottile, persistente legame che continua ad impedire l ' abbandono del mondo delle forme e lo svincolamento dal divenire. A questo proposito Domizia Lanzetta si sofferma sul simbolismo del labirinto e sulla Sovrana del Labirinto, svela alcune connessioni con altri cicli mitologici e accosta alcune formelle della "basilica" al complesso significato che Porfirio attribuiva all ' Antro delle Ninfe e allo stesso "ritorno" di Ulisse. L'ultimo capitolo analizza il catino dell' abside, la conclusione dell ' iter iniziati co, là dove si trova 4

raffigurato il tuffo di una fanciulla nuda con in mano un peplo. Come dice Lanzetta, "il tuffo neli ' acqua è uno dei temi più ricorrenti nelle iconografie e nei miti del mondo antico", perciò ricorda il mito di Ino, la sorella di Semele, che si gettò in mare da una rupe e ottenne da Zeus l ' immortalità. 'E un tema tipicamente iniziatico. Il tuffo e l ' immersione nel mare spesso sono il simbolo della trasformazione interiore del miste, il passaggio in una diversa dimensione dell 'esi­ stenza, l ' abbandono delle certezze della realtà ordinaria e della solidità delle sensazioni corporee, l "'immersione" nel mondo sottile dove spesso si sperimenta la "fluidità" soggiacente a quella che ali ' uomo ordinario sembra una solida materialità. La conclusione cui giunge l ' Autrice costituisce la vera novità del libro : Apollo e Dioniso, le due realtà divine che il miste ammesso ai rituali coltivati in questa straordinaria "basilica" si trovava a dovere sperimentare nella loro più impenetrabile essenza, sono le due facce di una medesima tradizione, le due dimensioni nelle quali si specifica la nuova vita spirituale acquisita dal miste . Orfi smo, dionisismo, apollinismo e culto delfico sembrano costituire l ' arcano sottofondo dottrinale sul quale è stata edificata questa misteriosa "basilica". Nuccio D 'Anna

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Tengo a ringraziare il mio editore e curatore Claudio Lanzi che, con somma pazienza, ha riordinato l ' intrico del testo e delle immagini.

Introduzione

Il 23 Aprile del 1 9 1 7 , quasi in coincidenza con il giorno in cui, tradi­ zionalmente, viene celebrata la nascita di Roma, il treno Roma Napoli ebbe un brutto incidente. Improvvisamente la terra si aprì sotto le rotaie e queste rimasero sospese nel vuoto, al di sopra di una voragine. Natu­ ralmente il traffico ferroviario fu interrotto e si cominciò a scavare, per stabilire che cosa avesse provocato lo smottamento. Raggiunti i quattro metri di profondità, venne scoperto un abissale colatoio al termine del quale apparve un ' imponente costruzione sotterranea, costituita da un vestibolo e da una grande sala lunga 1 08 metri. Liberato da detriti e terriccio, il luogo si mostrò in tutto il suo splen­ dore. Il primo ambiente era costituito da un atrio, adorno di pitture policrome e stucchi, a cui faceva seguito una lunga sala divisa in tre navate, con le pareti e le volte coperte da pannelli a stucco, indescri­ vibilmente raffinati. La lunga sala terminava con un' abside grandiosa, nel cui bacino si intravedeva una delicata ed evanescente pittura, anche se notevolmente rovinata. Ovviamente la notizia si sparse rapidamente per tutto il mondo accademico e accorsero subito gli studiosi e gli archeologi più accreditati . Al primo sbalordimento, fece seguito una ridda di supposizioni: secondo Rostovtzeff e Hulhsen, l ' edificio sarebbe stato costruito come luogo di diporto, e quindi l ' edificio non sarebbe stato altro che un criptoportico, approntato per godere della frescura di quella costruzione sotterranea, durante le torride giornate dell 'estate. Questo verrebbe testimoniato dalle raffigurazioni di anfore e tavole apparecchiate, che si susseguono sui muri laterali delle tre navate. Questi oggetti, secondo i due studiosi, confermerebbero semplicemente, la visione della vita che aveva colui che volle edificare questa strana Basilica sotterranea. Vero è che l ' immagine conclusiva, quella cioè del bacino absidale, 7

celebra la leggenda di Saffo, ma ciò vorrebbe semplicemente dire, che il proprietario, oltre che al buon vino e alla buona tavola, si appassionava anche alle più struggenti storie d ' amore. Tuttavia Jerome Carcopino, che più di chiunque altro studiò la B asi­ lica, rifiutò energicamente una simile interpretazione. Per anni egli si dedicò allo studio dell' edificio, restando sbalordito davanti a quella profusione di stucchi e pitture, intuendo che questi fossero portatori di un massaggio arcano, del quale, però, sfuggiva la chiave di lettura che senza dubbio univa le une alle altre quelle molteplici figure. Su una cosa però, la maggior parte degli studiosi è concorde: la Basilica risale al I sec. dopo Cristo, vale a dire a quell 'età che va da Claudio a Nerone e che si conclude con la fine della dinastia Giulio-Claudia. J. Carcopino è certo che il monumento appartenga alla prima parte della dinastia Giulia. Periodo turbolento questo, che si collega agli anni in cui furono al potere Caligola e Tiberio. A detta degli studiosi, la Basilica venne sistematicamente depredata, e poi irrevocabilmente chiusa e sepolta sotto uno strato di terra, che la nascose fino a quel 23 Aprile del 1 9 1 7 . Sembra che il fatto sia avvenuto immediatamente dopo la sua costruzione, per cui non dovette essere in realtà mai vera­ mente aperta. Ce lo dimostrano i soffitti e le arcate del tutto privi dei residui del fumo fuoriuscito dai lampadari, dei quali sono visibili le tracce. Ma quale può essere stata la ragione per cui un edificio così ricco, suggestivo e solenne, fu immediatamente chiuso e depredato dopo la sua costruzione? Fin dai tempi di Tiberio, molti culti stranieri, tra i quali quello ebraico e quello Egizio, furono oggetto di una dura persecuzione. L' imperatore aveva proibito tutte le religioni straniere, costringendo gli adepti a dare alle fiamme i paramenti e le suppellettili rituali'. E non si fermò solamente a questo, perché arrivò a proibire la consultazione degli Aruspici in privato e senza testimoni. Inoltre tentò di distruggere per­ sino gli Oracoli che si trovavano in prossimità dell ' Urbe2• Tutto questo appare strano, in quanto si sa che Tiberio era un profondo 8

conoscitore dell ' Astrologia e si dedicava allo studio e ali ' approfondi­ mento dei miti. Date le caratteristiche del personaggio, viene spontaneo fare un collegamento, sia pure ipotetico e ideale tra lui e l 'enigmatico tempio sotterraneo di Porta Maggiore, e sorge allora il dubbio che possa essere stato proprio lui il persecutore e distruttore del complesso templare o, al contrario, l ' ispiratore della sua costruzione. Nel primo caso, perché terrorizzato dalla morte di Germanico, avve­ nuta a seguito di "Sepulcrorum horrores"; infatti Tacito racconta che, dopo la morte del "Germanico", sotto il pavimento e sotto le mura del suo palazzo ad Antiochia, furono trovati "resti umani , incante­ simi, maledizioni, tavolette di piombo con scolpito sopra il nome di Germanico, assieme a ceneri bruciate e macchiate di sangue oltre ad altri oggetti malefici, con i quali si credeva che le anime dei vivi potessero essere consacrate agli dèi inferi "3• Questa sorta di terrore per l ' occulto perdurò per tutto il tempo in cui regnarono Caligola e Claudio e, ancora sotto Caracalla, era in vigore la pena capitale per chiunque indossasse amuleti contro la malaria4• Inoltre non va dimenticato che nei pressi della B asilica si trovano a tutt ' oggi le tombe di più di una famiglia nobile, tra le quali spicca quella degli Statilii, famiglia a cui apparteneva Tauro Statilio Corvino, condannato da Claudio per aver fomentato contro di lui una rivolta5• Nel secondo caso va considerata la possibilità che i costruttori del singolare monumento seguissero le medesime discipline arcane delle quali gli scrittori antichi ritenevano esperto Tiberio. Secondo Svetonio, infatti , sembra che l ' Imperatore fosse un profondo conoscitore del­ l ' arte divinatoria e che avesse la singolare facoltà di poter vedere nel buio completo, e soprattutto che avesse una vera e propria passione per la mitologia, alla quale si dedicò fino ad indagame i significati più profondi, incrementandone lo studio tra i suoi accoliti6• Per l ' appunto, la quasi totalità degli stucchi sono incentrati su motivi mitologici, con un rilevante riferimento a quelli eroici e a quelli incentrati su 9

determinate divinità. Anche la morte di Tiberio presenta dei lati oscuri, e viene raccontata in termini contraddittori. Si dice anche che, quando il popolo Romano venne informato che l ' Imperatore era deceduto, corse in massa fino al Tevere urlando "Tiberio al Tevere" e prese a pregare la Madre Terra e gli Dèi Mani affinché confinassero la sua ombra tra quelle degli empF. Non è quindi da escludere che l ' opinione pubblica, inferocita dopo la morte del tirannico imperatore, si sia scagliata anche contro coloro che, secondo le dicerie diffuse, si interessavano a quei culti e a quei misteri, legati alla astrologia e al mito, dei quali, come si racconta, Tiberio era appassionato cultore e massimo conoscitore.

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l. La struttura della Basilica (Significato della Basilica)

Per il Lugli e il B andinelli, il luogo doveva essere dedicato a riti funebri e a culti legati agli Dèi inferi . Anche J. Carcopino rileva che le decorazioni sono omologabili e conformi a quelle tombali dell ' epoca imperiale. In effetti , quando si entra nella Basilica, si ha la sensazione di essere al limite della dimensione umana, quasi che si fosse in un universo parallelo e sotterraneo, idealmente simile a quello di un "Mundus", così come gli autori antichi ce lo descrivono. Alcuni riferiscono che, appena ci si entra, si viene subito sopraffatti dalla sensazione che una divinità sia presente; una divinità dal doppio volto e dalla doppia natura, che sviluppi e risolva in se stessa ogni contraddizione possibile. E questa percezione potrebbe essere data dalla profusione di immagini che appaiono nell' atrio e che sembrano sussurrare un messaggio misterioso e fuorviante, ma che ha in sè qualcosa di indicibilmente accattivante e solenne. Un colonnato, un giardino con dei pappagalli, uno stagno dove si bagnano degli uccelli e, sulla riva dello specchio d ' acqua, un airone che con aria assorta li sta osservando. E poi grappoli di frutta e altri uccelli, intenti a tuffare il becco in quelle bacche multicolori. Questa è la scena che accoglie chi ha la ventura di discendere nella penombra dell ' atrio. Ad inquadrare le immagini ci sono candelabri alti e sottili, e poi delle Menadi con timpani e i tirsi. L' atmosfera del luogo è inequivocabilmente dionisiaca. Alzando gli occhi verso la volta ci si accorge di un lucernario, attraverso il quale entra e si espande la luce del sole. Un lucemaio che trasmette l ' idea di un grande occhio che punta lo sguardo, illumina e nutre le creature di quel giardino meraviglioso. La volta è divisa in quattro sezioni e al centro di ognuna di queste Il

spicca un medaglione che incornicia una Menade, effigiata in modo che appaia di scorcio, quasi di spalle. Con l ' immancabile Tirso nella mano destra, procede in groppa a una pantera che volge il capo indietro, quasi che con questo gesto, voglia esprimere l ' idea di un richiamo. Un invito misterioso a seguirla, verso una meta lontana e inconoscibile, verso una promessa a cui conduce un mistico e invisibile thiasos? A tutte le immagini fanno da contorno altri medaglioni, sui quali sono raffigurati leggiadri Amorini e Maschere di Giove Ammone. Alcuni degli Amorini corrono veloci su bighe tirate da caprioli, altri inse­ guono farfalle che paiono fiori. Ciò che attira più di ogni altra cosa l ' attenzione è la figura che occupa una delle inquadrature maggiori : un enigmatico essere alato ritratto mentre si libra verso l ' alto, con in una mano un ' anfora rovesciata e con una giovane donna sulle spalle che ascende assieme a lui verso il cielo. E allora nasce subito il sospetto di trovarsi in un luogo dedicato al culto delle Anime. Perché, proprio nel vestibolo della Basilica, mediante stucchi e pitture quasi del tutto svanite, sono raffigurati: Amorini, Baccanti , Maschere di Giove Ammone e poi ancora fiori e farfalle. E tutto questo ci fa consapevoli che si è entrati nella mitica e mistica dimensione dionisiaca. Perché tutte le immagini dell' atrio sembra vogliano alludere a quel "Giardino di Dioniso", del quale Plutarco ci parla nel De Sera Numinis Vindicta. Anche l ' orifizio, attraverso il quale penetra la luce che illumina il vestibolo, dà la sensazione che si tratti di un ' apertura fatta per congiungere il cielo con l ' abisso. Il fatto è che esso è qui fin dai tempi in cui costruirono la B asilica e ricorda il cratere attorno al quale, come racconta Plutarco, si raccolgono le Anime che devono fare ritorno al mondo materialeB. Quando queste si trovano ancora nella dimensione sovrasensibile, contemplano il giardino di Dionisio dai bordi del cratere e si sentono attirare verso il fondo. Perché dali ' abisso sale il profumo di ogni erba e di ogni fiore che germoglia e sboccia sulla terra; e il profumo è tale , che inebria come il vino e attira le Anime verso una nuova incarnazione. 12

Sempre da lì , da quel cratere che si apre nell ' etere, passò Dioniso quando discese tra gli uomini, ed è da lì che egli transitò, quando sottrasse agli inferi sua madre Semele e la fece ascendere assieme a lui al mondo degli dèi. Al mito della salita al cielo di Semele sembra ispirarsi la scena del­ l ' atrio in cui una figura alata ascende verso il cielo, portando sulle spalle una giovane donna, mentre con una delle sue mani rovescia il contenuto di un' anfora sulla terra. Carcopino vide in questa raffigurazione l ' immagine del Genio del­ l ' Eternità; ma Dioniso fu anche questo per gli Orfici, perché in lui contemplarono l ' inizio e la fine dei cicli universali. Nello splendido dipinto di una coppa apula si vede infatti Arianna, sollevata verso l ' alto da due Eroti che recano, l ' uno, nella mano

Fig. l -Arianna sollevata verso l'alto da due Eroti. Le tre figure si innalzano da un ricco festone fiorito, che simboleggia il giardino di Dionisio. Coppa apula, da Ruvo.

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destra, una fiaccola, e l ' altro, nella sinistra, una si tula. Le tre figure si innalzano in volo da un ricco festone fiorito che, evidentemente, simboleggia il giardino di Dioniso. Si sa che Arianna e Semele sono figure omologhe. Quanto agli Eroti, va tenuto presente che Platone afferma che Eros è quel potente propul­ sore che conduce le Anime all ' intuizione del divino. Infatti, secondo Carolina Lanzani, esisterebbe una identificazione tra Iackos, cioè il Dioniso Eleusino, ed Eros, in quanto entrambi sarebbero la personifi­ cazione dell ' Amore Di vino9• A conferma di ciò, l ' immagine centrale, nella quale si compendia l ' antico dipinto vascolare, ha come motivo principale la rappresentazione dell ' amore tra Dioniso e Arianna. Nella maggior parte delle raffigurazioni vascolari della Magna Grecia, le scene che si riferiscono al dionisismo non mancano mai di sottoli­ neare il mistico rapporto dell' Anima con l ' Amore Universale, nel momento della sua iniziazione, durante la quale la figura di Eros è sempre presente. In questo contesto, l ' Amore e la Morte si fondono e si confondono, e così accade di vederli uniti nelle raffigurazioni delle ceramiche funerarie, nelle quali il trapasso da una dimensione a un ' altra viene inteso come una ierogamia. Allora ci si rende conto che tutti questi Amorini che negli stucchi dell ' atrio della B asilica sono riprodotti mentre inseguono delle farfalle, non sono semplici motivi ornamentali, ma sono lì per alludere alla cattura delle Anime che, avendo oltrepassato la soglia dell ' invisibile, diverranno parte del Thiasos, assieme al quale percorreranno la loro intera vita terrena. La denominazione "Psyche" ha in se il doppio significato di farfalla e di Anima. Questa anima dovrà sperimentare e conoscere, durante il suo percorso, tutte le gioie e tutti i dolori , tutta la luce e tutte le ombre, che sono riposte in seno al Thiasos di Dioniso. Questo è il plausibile messaggio che ci trasmette la Baccante seduta in groppa alla pantera, che noi vediamo galoppare verso un orizzonte velato da tutte le suggestioni del mistero dionisiaco. Il selvaggio felino è l ' alter ego del Dio a cui il Thiasos appartiene. La pantera volge 14

indietro il capo, in un atto di trasparente richiamo alle Anime che dovranno seguirla nel percorso attraverso il mondo sul quale, come in uno specchio, si riflette il volto del Dio. La B accante e la pantera sono il Thiasos stesso, con il quale Dioniso crea, distrugge e muta ogni realtà che incontra. Dal vestibolo della Basilica il myste riceve l ' invito a incamminarsi verso il suo percorso iniziatico, ma anche verso la promessa di una meta sacra. Questo traguardo potrà essere raggiunto solamente se si sarà capaci di di venire un sola cosa con l ' Anima del Thiasos, sulla quale è tracciata l ' enigmatica cifra del più segreto nome del Dio della perennità infinita. Ed è allora da qui che va cominciato il viaggio, nel corso del quale si percorreranno le tre navate che costituiscono il corpo della Basilica. Lì troveremo una profusione di immagini che sembrano riflettersi le

Fig. 2

-

Baccante in groppa a una pantera.

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une nelle altre, come fossero tanti specchi, sui quali si proiettano i volti del Dio Evi o. Alla fine delle navate, dipinte nel bacino dell ' ab­ side, ci saranno le immagini conclusive, ad elargirci il massaggio del quale la B asilica da duemila anni circa è depositaria. J. Carcopino, a motivo del particolare orientamento dell ' atrio e delle navate, ritenne che il momento in cui l ' interno della B asilica riceveva la maggior luce, fosse l ' ora del tramonto e che, di conseguenza, le azioni liturgiche prendessero l ' avvio sul finire della sera.

1.1 Entrare nella cella

All 'entrata della vera e propria cella, si viene subito colti da una sensa­ zione di gelo. Nella penombra che è divenuta più fitta, si intravedono infatti le testimonianze di una tragedia, perché l ' interno del tempio è stato depredato in maniera sistematica e accanita. L' interpretazione del fatto, data da J. Carcopino, fu che per ordine imperiale la Basilica fosse spogliata dei suoi arredi e poi per sempre chiusa, immediatamente dopo la costruzione. Infatti, il pavimento appare come se non fosse mai stato calpestato e sulle arcate, dalle quali pendevano i lampadari, non vi è traccia di fumo, come se questi non fossero mai stati accesi. Ma lo spettacolo per chi entra è ugualmente suggestivo. A partire dal l ' entrata, nel soffitto, è raffigurata una scena in cui si celebrano delle devozioni incentrate su un capretto sacro. Tre donne accanto a un corto pilastro, che per Carcopino dovrebbe essere un altare, sembra stiano celebrando un rito attorno all ' animale. Una delle donne ha con sè un tirso, contrassegno delle B accanti. Quanto al sacro capretto, possiamo riconoscere in lui Dionisos Kemelios, Dioniso Capretto, che Zeus affidò ad Ermes per sottrarlo alle perse­ cuzioni di Hera. Questo aspetto del Dio era particolarmente venerato dai Lacedemoni con un suo speciale culto. Nel Metapontino, invece, era conosciuto come Dioniso sacrificale . Ma quella di capretto è 16

anche la forma con la quale Ermes affidò il Dio bambino a Ino, sua nutrice e sorella di Semele. Nel corto pilastro possiamo riconoscere la colonna spezzata del palazzo di Cadmo, venerata come uno dei più sacri cimeli del Dio, perché commemorava il momento della folgorazione e della discesa agli inferi di Semele. In questo caso le tre donne potrebbero essere le tre figlie di Cadmo, iniziatrici dei tre Thiasoi primordiali, agli albori della presenza del Dio tra gli uomini e quindi della religione dionisiaca. Ma esse potrebbero anche essere le tre ninfe di Nysa, delle quali ci parla Apollodoro, che ebbero Dioniso bambino in custodia e lo allevarono nella lontana e inaccessibile isola di porpora, dalla quale il Dio partì alla conquista del mondo10• Non è infine neppure da escludere che la scena alluda all ' inizio del culto di Dioniso che, come ci racconta un' iscrizione di Perinto, prese l ' avvio dal sacrificio di un capretto. Entrando nella cella vera e propria ci si sente soverchiare da un senso di sbigottimento, perché è come se si entrasse in una dimensione aliena, entro la quale vengono ad intrecciarsi gli enigmi di un culto segreto. Anche Carcopino trovò conturbante la infinita profusione di immagini che rende unico il monumento. Subito dopo avere lasciato l ' atrio ci viene incontro una figura femmi­ nile che tiene in mano una fiaccola accesa. In essa riconosciamo Ecate che, con la sua presenza richiama un culto che, soprattutto in Magna Grecia, è strettamente legato a quello di Dioniso e a quello di Demetra. Osservando la figura vengono alla mente i versi dell ' Inno Omerico a Demetra, nei quali si racconta la discesa agli inferi di Persefone''. Quello della Katabasis della figlia di Demetra fu il momento in cui nella pianura di Nysa la Madre Terra generò il fiore del torpore, che è anche il fiore dell ' inganno. Per nove giorni la Dèa cercò la figlia, stringendo fiaccole ardenti nelle mani, ma, al decimo, le si fece incon­ tro Ecate con un face risplendente. 17

Il nesso tra la religione di Dioniso ed Eleusi, ci viene testimoniato dalle fonti antiche: ad Atene nel corso delle Lenee, feste dionisiache che cadevano nel cuore dell ' inverno, gli Epistates di Eleusi, face­ vano offerte a Demetra, Kore e Plutone e, sempre durante le Lenee, il Daduco di Eleusi invocava Iackol2• Al lato opposto del muro della navata troviamo Diana cacciatrice, armata di arco e faretra. Ecate e Diana sono come le facce opposte di una medesima medaglia, il volto oscuro e quello luminoso di una medesima forma divina. La fitta trina di racconti mitologici, che ricopre le pareti e avvolge i pilastri delle navate, ci racconta di gioie e dolori , di trionfi e umiliazioni, di maledizioni e apoteosi, mentre le sottili figure alate che si interpongono tra i riquadri ci avvertono che l 'universo degli Dèi Superi è popolato da Potenze, pronte a farci ascendere alla dimensione uranica. La presenza di vasi agonistici, situati tra le raffigurazioni di serti ed "oscilla", ci avverte che il percorso sarà difficile e non esente da lotte. A questi si accompagnano altre immagini che rappresentano ceste mistiche, timpani, flauti a doppio becco e tirsi abbandonati al suolo, in scene che vogliono ricordare un certo tipo di riti . Nel primo pannello del muro ovest appare un 'erma itifallica di Priapo,

Fig. 3

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Personaggio vicino a vaso agonistico.

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conficcata nel terreno, accanto a una tomba. L' immagine ci fa venire in mente che, talvolta, nelle iconografie misteriche dell ' Italia Meri­ dionale e di Roma, c ' è per l ' appunto la presenza di un idolo priapico assimilato a Dioniso. Questa bizzarra divinità itifallica era venerata quale custode dei giardini e degli orti, ma era anche considerata l ' im­ magine del principio universale della generazione e rigenerazione, ed è proprio nella sua sconcertante apparenza che va riconosciuta una delle tante maschere di Dioniso, incontrastato Signore del divenire e autore dell ' attività creatrice nel mondo1 3• "Ego sum mortis et vitae locus", si trova scritto in una dedica all ' enig­ matico Dio dei giardini14• Questo concetto può senz ' altro essere esteso a tutta la Basilica, nella quale la scena del simulacro del Dio presso la tomba potrebbe richiamare l ' idea della morte iniziatica e della rinuncia all ' immortalità fi sica, da parte di coloro che, mediante questo tipo di morte, divengono una sola cosa con il Dio della vita. Perché, contemplando le immagini "dolci e funebri"15 di questi giardini effi­ giati sui muri della Basilica, non possiamo non ricordarci di Dioniso Melainoges, il Dioniso oscuro e impenetrabile, legato agli spiriti dei morti . Qui amore e morte si intrecciano, in una funzione unica, che alla fine culmina nel ritorno a una nuova vita. Infatti, alla base della volta, in coincidenza con il muro sud di una delle navate sinistre, scorgiamo la figura velata di una donna che Ermes conduce verso il mondo silenzioso dei Mani. Si tratta di Alce­ sti, l ' eroina protagonista di una delle più struggenti e celebri storie d' amore che, proprio per amore, scelse per sè la morte. Narra Plutarco che gli Dèi dell 'Erebo, colpiti e vinti dall' atto d ' amore di Al cesti, fecero ciò che mai fanno: permisero alla donna di ritornare dal mondo dei morti. In questo mito, del quale parleremo più avanti , viene sottolineato l ' aspetto terribile e implacabile della sorella di Febo, perché Artemide è una divinità nei confronti della quale non si può sbagliare. Talvolta assimilata alla tenebrosa Ecate, può influire sul destino degli uomini 19

e modificare ciò che per loro filano le Moire. Già ali ' entrata della navata ci imbattiamo subito nelle effigi di Arte­ mide e di Ecate, quasi si volesse avvertire chi entra che si troverà a compiere un percorso pericoloso. Come succedeva a coloro che si accingevano a penetrare nel Telesterion di Eleusi, dove, prima di accedere al tempio di Demetra, bisognava passare attraverso il tempietto di Ecate Protyraia (vale a dire di Ecate guardiana della soglia). Anche Lucio, il protagonista della paradossale storia narrata da Apuleio nelle Metamorfosi, prima di cadere nel buio delle sue prove iniziatiche, vede l ' abbagliante candore del simulacro di Arte­ mide, che però getta la sua ombra sul gruppo scultoreo che celebra la fine di Atteone, sbranato dai propri cani. Quanto al mito di Alcesti, va tenuto conto che qui si allude proprio al momento in cui l ' eroina fa ritorno dal mondo sotterraneo. Metafora dell' Anima, disposta ad accettare il sacrificio estremo, per amore di qualcuno o di qualcosa. Qui Apollo entra nella storia, come salvatore di colui che gli è devoto, e ciò avviene grazie al potere del vino con cui il Dio addolcisce l ' implacabilità delle Dèe del destino. Ma il vino è anche la bevanda sacra con la quale Dioniso placa la natura degli esseri più selvaggi e terribili. Osservando nell ' insieme le raffigurazioni che ornano la volta, ci si rende conto che quella di sinistra presenta dei soggetti meno incen­ trati sulle vicende eroiche ed umane, mentre quella centrale celebra le tematiche dei grandi poemi epici e dei miti relativi alle vite di uomini e donne al limite dell' umano. Nella prima, prevalgono figure simboliche e scene cultuali; in quella di centro, vi sono invece riferimenti al contatto tra mondo divino e mondo dei mortali con l ' inserimento, nelle fasce laterali, di immagini che, in apparenza, si rifanno alla vita quotidiana. Nella parte posta al centro del soffitto sono poi messe in risalto scene di apoteosi che richiamano personaggi strettamente collegati ai mondi degli immor­ tali. Si ha perciò la sensazione che, attraverso gli stucchi, si vogliano 20

indicare due percorsi paralleli che si integrano a vicenda e che con­ ducano entrambi alle figure del grande catino absidale. Nell 'esaminare gli stucchi che costellano la navata nord, ci si rende conto che questi presentano, fin dagli inizi, un susseguirsi di figure di Nereidi e di volti di Medusa in una dimensione equorea ed infera. Quelli della navata centrale, invece, solennizzano, tramite due riquadri posti all ' inizio e alla fine del percorso, la ascesa al cielo dei Dioscuri con le Leucippidi. Le due scene danno l ' impressione di volersi ripor­ tare a una dimensione aerea che va a concludersi, nel punto principale, con la visione dell' apoteosi di Ganimede.

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2. Il soffitto della navata nord

Tale soffitto inizia con due stucchi, che si giustappongono, alla destra e alla sinistra del percorso. Entrambi raccontano una storia crudele, nella quale il soggetto è, ancora una volta, l ' implacabilità de li' ira degli Dèi. Protagonista e vittima della storia è Marsya, il Satiro, uno di quegli esseri primordiali che popolano i cortei dionisiaci.

2.1 Apollo

e

Marsya

Marsya traeva dal suo flauto meravigliose melodie, ma ciò avveniva non per suo merito, bensì perché lo strumento possedeva facoltà magiche. Era stato confezionato da Atena e permetteva a chiunque ne fosse in possesso di eseguire motivi di una bellezza travolgente16• Con quel flauto Marsya allietava ed ammaliava a tal punto le genti del bosco e delle montagne, che queste cominciarono a sussurrare che neppure Apollo avrebbe saputo fare di meglio. Venuto a cono­ scenza di ciò, il Dio sfidò il Satiro a misurarsi con lui in una gara, che si tenne alla presenza di re Mida e delle Muse. Costoro avevano il

Fig. 4

-

Il supplizio di Marsya.

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compito di giudicare chi dei due fosse il migliore. L' esito fu che sia Apollo che il Satiro avevano suonato il loro strumenti ugualmente bene. Allora il Dio, infuriato, sfidò Marsya ad eseguire la sua musica con lo strumento rovesciato, così che lo strumento del Satiro restò muto durante la seconda gara. Conseguenza di ciò fu che Apollo condannò Marsya ad essere legato a un pino e scorticato vivo. Quello di Marsya è un mito conosciutissimo e assai popolare, tuttavia il fatto che esso sia presente su uno dei lati della volta nord della navata, proprio in coincidenza dell' entrata, deve metterei sull ' avviso. Perché quello della Basilica è un percorso iniziatico, che spinge chi vi entra a cogliere il significato recondito di tutta una serie di rac­ conti sacri che, per noi moderni, vengono sbrigativamente considerati favole mitologiche. Infatti gli Autori greci e latini della età tardo elle­ nistica mettono in guardia dal prendere alla lettera le storie, sulle quali i miti sono incentrati. Plutarco di Cheronea il quale, oltre che storico, è stato uno dei più alti e sapienti sacerdoti di Apollo Delfico, spiega che i miti sono "Nel loro insieme, il riflesso di una verità superiore che torce il pensiero umano in una direzione sensibile"17• La stessa raccomandazione, di non lasciarsi fuorviare dal significato letterale del mito, ce la rivolgono Satumino Sallustio e Giuliano Imperatore18• Ma cosa hanno voluto comunicare i costruttori della B asilica con questo mito? Probabilmente il fatto che, in esso, si ritrova tutta l' ap­ parente contraddittorietà tra universo apollineo e universo dionisiaco. Perché Marsya, in quanto seguace della Dèa Cibele, è, per sua natura, destinato al sacrificio. Il flauto che lui ha raccolto, dopo che è stato con ira gettato via da Atena, reca su di sè la maledizione della Dèa, che ha visto se stessa riflessa nello specchio d ' acqua di una sorgente, mentre il suo volto si deformava nello sforzo di soffiarvi dentro. Ciò vuol dire che ha scorto la perfezione olimpica del suo volto deturpata dalla tensione di fame uscire il suono. L' ha vista e ha rico­ nosciuto in essa il contrario della armonia divina, ed allora il flauto 23

è stato da lei maledetto. Ma anche questo non può essere preso alla lettera, perché Marsya, creatura divina anch'essa, poteva raggiungere la propria perfezione solamente mediante la catarsi. La voce del flauto accompagna costantemente i cortei dionisiaci che mai si fermano e inseguono un enigmatico orizzonte, verso il quale li conduce Dioniso; orizzonte che raggiungeranno solamente con la catarsi, passando attraverso la terribilità del Dio e i suoi splendori. La voce ammaliante del flauto è perciò un soffio vitale che proviene dali ' alto, e si propaga nelle molteplicità del divenire del mondo. Così come accade a Dioniso, Dio di passione e morte che, vertice divino esso stesso, seguendo la propria immagine riflessa, da Creatore si fa forma creata. Quanto a Marsya, egli non muore veramente, ma il suo sangue effuso si trasforma in fiume, cioè in qualcosa che è metafora del divenire stesso. In realtà protagonisti della storia sono i due strumenti: l ' uno apollineo, l ' altro dionisiaco; l ' uno che induce alla follia catartica del ditirambo, l ' altro che innalza all ' armonia olimpica del Peana. Perché l ' uno è consustanziale all ' altro, come lo erano i riti apollinei e dionisiaci che si celebravano a Delfi.

2.2 Fedra e lppolito

Al tragico destino di Marsya il Satiro, segue il racconto di un altro destino, anche esso tragico, quello di Fedra e Ippolito. Anche questo originato dall ' ira implacabile di un Nume : quella di Afrodite Dèa dell ' amore. L' infelice regina è ritratta mentre, seduta sul suo trono, tende la mano destra a Ippolito che le sta in piedi di fronte. Anche se regina, la donna è in atteggiamento di supplice, dimentica della sua dignità regale, nello stesso tempo vittima e strumento della vendetta di una dèa. Ritto davanti a lei sta Ippolito, serrando nella mano destra la lancia. 24

Il figliastro la fissa imperturbabile, tetragono alle parole d ' amore che la matrigna gli rivolge. Nella Grecia antica si contemplavano quattro forme di follia sacra: quella catartica indotta da Dioniso, quella profetica infusa da Apollo, quella poetica originata dalle Muse e quella amorosa che procedeva da Afrodite. In questo caso, la follia amorosa è il mezzo con il quale la Dèa dell ' amore si serve per agire contro Ippolito. Afrodite è sde­ gnata con lui, perché il giovane, pur essendo bellissimo, rifugge da qualsiasi contatto amoroso. Ippolito consacra tutto se stesso a un tipo di amore uranico, che si esprime nella devozione incondizionata alla vergine Artemide. Ciò, forse era dovuto al fatto che Ippolito era figlio di una regina delle Amazzoni e come tale fanaticamente devota ad Artemide Efesina, il cui veneratissimo santuario era stato voluto proprio da quelle misteriose donne guerriere. Si racconta che Ippolito fosse stato iniziato ai Misteri Eleusini, e che Fedra se ne fosse innamorata vedendolo apparire vestito di bianco e con la corona di mirto degli inziati19 sul capo. Questa era la vendetta di Afrodite contro il giovane principe. Fedra, sentendosi respinta, mutò il suo amore in odio, perché l 'uno non è che l ' aspetto rovesciato dell ' altro. Non potendo sentirsi cingere dalle braccia dell' Amore, l ' infelice regina si gettò in quelle dell 'odio, e allora accusò il figliastro di aver tentato di sedurla. Alla menzogna di Fedra, seguì lo sdegno di Teseo che invocò sul figlio l ' ira di Poseidone. Questa si materializzò nella forma di una foca mostruosa che, uscita dal mare all ' improvviso, fece impazzire i cavalli aggiogati al cocchio su cui viaggiava Ippolito. Il giovane principe perse la vita andandosi a sfracellare contro un oleastro. Secondo Pausania, invece, il figlio di Teseo restò impigliato nelle bri­ glie dei cavalli che, a motivo di ciò, si rigirarono intorno all ' oleastro, che cresceva nei pressi del tempio di Artemide, e in questo modo Ippolito morì impiccato20• Venuta a conoscenza del modo in cui era morto il figliastro, presa dalla disperazione, anche Fedra volle morire impiccandosi a un albero21 • E allora, sempre a quanto ci dice Pausania, 25

l ' anima infelice di Fedra fu condannata a rivivere nell' Ade la sua morte, dondolandosi eternamente su una altalena. Giunti a questo punto, va ricordato che Fedra è sorella di Arianna, la donna divina che più di chiunque altro è legata a Dioniso. Come Arianna, anche Fedra proviene da Creta, così che non si può escludere che dietro la metafora del suo disperato amore per Ippolito si celi qualche antico culto proveniente dall ' isola. In un dipinto vascolare a figure rosse, si vede Cadmo mentre guarda Armonia sua sposa, che si dondola su di una altalena, e in una tomba di Iraclion è stata rinvenuta una enigmatica statuina funebre, ritratta neli ' atto di dondolarsi su di una altalena appesa a due pilastri , che hanno sulla cima due misteriosi uccelli svolazzanti . Ora, in entrambe queste immagini ci sono dei riferimenti a Creta: in quella di Cadmo, in quanto l ' Eroe, nonno di Dioniso è fratello di Europa, che diviene poi madre di Minosse. Nell' altra, il fatto che essa sia posta in una tomba la rende probabilmente connessa a un qualche antico rituale funerario cretese. Alla morte di Ippolito fa però seguito la vita. Artemide, commossa dalla venerazione che il giovane le aveva tributato, indusse Asclepio a ridonargli la vita. In una delle favole di Igino, si legge però che Asclepio fu costretto a prendere negli Inferi il posto del figlio di Teseo. Quanto ad Ippolito, trasportato dalla Dèa a cui era devoto lontano dal luogo in cui era morto, ebbe in dono da Artemide un nuovo aspetto e un nuovo nome e per sempre vive nei pressi del lago di Nemi "sub numine Dianae"22• Certamente il mito di Ippolito e Fedra non è stato messo casual­ mente tra gli stucchi della Basilica. Esso è infatti raffigurato nella formella attigua a quella in cui è presentata la parte iniziale della sfida tra Apollo e Marsya. Questa infatti racconta dell ' ira di un Dio, l ' altra quello di una Dèa, entrambi fratelli, entrambi figli di Latona, principio solare il primo, principio della potenza lunare e notturna la 26

seconda, ma tutti e due i racconti si richiamano al momento che prelude alla vendetta divina. Non v a poi dimenticato che il culto di Diana Aricina era particolar­ mente sentito in Roma, in quanto la Dèa è collegata al mondo delle selve e della rigenerazione. Come lo è del resto anche Asclepio, figlio di Apollo che, non a caso, ha per proprio emblema il serpente. Egli prende il posto di Ippolito per non contravvenire alle implacabili leggi di Dispater e diviene così colui che opera al risanamento della stirpe umana, tramite oracoli incubatori . Secondo il Frazer, proprio nel bosco di Nemi , sacro ad un aspetto di Diana assai prossimo a quello di Ecate, doveva crescere l ' albero dai rami d ' oro, l ' albero della perenne rigenerazione, che Virgilio celebra nel VI libro dell ' Eneide. Con una fronda di questo albero era possibile placare Caronte e farsi traghettare, da vivi , nel regno della regina dei Mani. Ma la parte più occulta e più sacra del mito di lppolito è celata nelle profondità del lago di Nemi23• Quello di Ippolito è certamente un mito che ha in sè più di un riferi­ mento a un iter iniziatico. A cominciare dalla sua morte, seguita da una nuova vita, a cui si accompagna il cambiamento di natura e del nome. La stessa prolusione della tragedia ci presenta Ippolito come un mystes, incoronato di mirto nei pressi del santuario di Demetra Eleusina. Ed Eleusi è la città santa, i cui culti sono spesso richiamati dagli stucchi della Basilica.

2. 3 Le Baccanti

Sempre ai margini della volta nord, preceduta da raffigurazioni di oggetti liturgici, appare la scena della preparazione di un altare. Il soggetto è inequivocabilmente dionisiaco: una Menade che suona il doppio flauto, si avvicina danzando al luogo del sacrificio, altre sue due compagne, l 'una munita di tirso, l' altra con un serto tra le mani, si 27

inchinano davanti ali' altare. È possibile che la raffigurazione si riferisca ad una particolare cerimonia che si teneva a Delfi , davanti alla tomba di Dioniso, e che veniva celebrata in quel periodo de li ' anno, in cui le Tiadi, cioè le Baccanti Delfiche, risvegliavano il ditirambo, vale a dire Dioniso Liknites, il Dioniso piccolo e dormiente nel suo ventilabro. Proprio di fronte a questa scena, è rappresentata la danza tragica di Agave che tiene tra le mani il capo reciso del figlio. La donna brandi­ sce con la destra una corta spada e con la sinistra innalza la testa del giovane re di Tebe. Dietro di lei, una menade percuote un timpano e, davanti a questa, un ' altra Baccante si abbandona ad una danza frene­ tica e selvaggia. Si tratta della rievocazione del momento conclusivo delle Baccanti di Euripide; e nessuno meglio di Euripide riuscì mai a esprimere il meraviglioso mistero della religione di Dioniso. Agave, assieme alle sue due sorelle, fu una delle nutrici del Dio e alle tre principesse, figlie di Cadmo, fanno capo i tre thiasoi primordiali. Ed è proprio contro il thiasos della madre che Penteo scatena la sua perse­ cuzione. A questo atto corrisponde subito la reazione di Dioniso, una reazione automatica, asettica, priva di qualsiasi umano risentimento

Fig. 5 Agave brandisce la testa recisa di Penteo. (Volta della navata di sinistra) -

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ma che è, per questo, assolutamente terrificante. È il persecutore stesso che, inconsapevolmente, attiva la persecuzione del Dio, scegliendo, senza saperlo, l ' aspetto di Dioniso che di più a lui corrisponde. Penteo volle dare la caccia al thiasos delle Baccanti e queste, come in un gioco di specchi, divennero sue cacciatrici. Attraverso gli occhi di Penteo, il Dio prese la forma di un animale feroce e allora, anche agli occhi delle Baccanti, Penteo si trasformò in una belva da abbattere. Questo è il gioco sottile e straniante che Dioniso conduce nel suo universo, che si traduce in una danza vorticosa di immagini che si compongono e si sfaldano, si plasmano e si dissolvono in una ridda di riflessi, sui quali si proietta il Nume del Dio. Infatti le Baccanti videro in Penteo prima un leone, poi un toro, e queste sono entrambe epifanie di Dioniso. E così come il Dio fu fatto oggetto da parte di Penteo di una caccia spietata, anch 'egli venne cacciato; e come il Dio fu smembrato, anche Penteo fu smembrato, perché come Dioniso è cacciatore e preda, così nel suo universo ogni cosa può essere preda e predatore.

2.4 Dionisio Sabazia

e

il Liknon

Procedendo con lo sguardo lungo la volta della navata di sinistra, troviamo in prossimità dell ' abside, l 'una di fronte all ' altra, due scene di culto di importanza basilare. La prima rappresenta un ' offerta fatta a un serpente sacro. In que­ sta, una donna si avvicina con passo lento a un albero, sul quale si vede avvolto un serpente. Nella mano sinistra essa reca una sorta di vassoio, sul quale è posato un largo recipiente, entro cui dovrebbe esserci l ' alimento per il rettile. Da questo, la donna estrae del cibo che, con la mano destra, pone in bocca al serpente. È evidente che si tratta di un animale divenuto domestico e utilizzato nel corso di speciali azioni liturgiche. 29

La scena potrebbe riferirsi a quel particolare cerimoniale dei thiasoi Sabaziani, caratterizzati dalla presenza di rettili. Non che negli altri Baccheia mancassero; infatti nel materiale iconografico, vediamo le Menadi intrattenersi con gran disinvoltura con dei serpenti, tuttavia, nel culto specifico di Dioniso Sabazio, la presenza del sacro rettile è solennizzata al massimo. Demostene ci fornisce uno spaccato di questo tipo di riti nella sua orazione contro Eschine, figlio di una sacerdotessa di Sabazio24• Si trattava di cerimonie notturne, nelle quali l ' avversario di Demostene assisteva la madre, leggendo ad alta voce degli scritti . Demostene ci parla di una "nebrizazione" che portava alla acquisizione della nebride del nuovo adepto, maschio o femmina che fosse. Henri Jeannmaire suppone che questa fosse preceduta da un sacrificio cruento, dalla consumazione di carne cruda e da un "Katharm6s", cioè da una purificazione eseguita dalla esclamazione "Sono fuggito al peggio per trovare il meglio".

Fig.6 - Donna che nutre ritualmente un serpente sacro.

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Il giorno successivo si teneva poi una processione, nella quale i par­ tecipanti procedevano coronati di pioppo bianco, e chi stava alla testa del corteo recava con sè un grosso serpente, che gli si arrotolava attorno alle braccia e alla testa. Prescindendo dalle parole s arcastiche di Demostene, si trattava evi­ dentemente di un culto con riferimenti marcatamente orfici, nei quali a Dioniso si appaia una misteriosa figura femminile di nome Hipta. Ad essa ci si rivolge in un frammento orfico, nel quale viene invocata come vergine Baccante, ma anche Madre e Regina dei monti Frigi e d eli ' Ida che "nei sacri riti agisce assieme a Iacko e Sabazio"25 • Anche in un enigmatico passo di Proclo essa è indicata come colei che "ponendosi sulla testa un canestro e avvolgendovi attorno un serpente, accoglie Dioniso che appartiene al cuore . . . il quale balza verso di lei . . . Madre degli Dèi e dell' Ida"26• A questo punto non si può non riconoscere in Hipta la stessa Rhea-Cibele. Su di un' altra formella, posta di fronte alla scena del serpente, vediamo una donna che si avvicina a braccia tese, portando con sè una cesta che Carcopino interpreta come il "Liknon", vale a dire il sacro ventilabro nel quale è riposto quel qualcosa di indicibile che viene celebrato in uno dei momenti ineffabili della iniziazione dionisiaca. Un ' altra donna che le è seduta di fronte tende le braccia per riceverlo. A sinistra c ' è un albero con accanto una Menade con Tirso. Che cosa di preciso contenesse il Liknon, nessuno può dirlo con precisione. In uno dei dipinti della Villa dei Misteri è raffigurata la Domina, in piedi, e a lei davanti una figura femminile inginocchiata che scopre una cesta coperta da un velo, dentro la quale si scorge un serpente. Ma si tratta proprio del Liknon? In una pittura vascolare a figure rosse, un Liknon è avvolto in veli e posato su una mensa sacra dove è adagiata una maschera di Dioniso barbuto. Di fronte a questa, una donna protende verso il Liknon le braccia cariche di offerte mentre, alle sue spalle, una seconda figura femminile legge qualcosa su un rotolo di pergamena. 31

Per quel che riguarda la Basilica, la raffigurazione del serpente sacro e quella del culto del Liknon sono poste volutamente l ' una di fronte all ' altra, quasi alla fine della navata. Il fatto è che l ' epiteto di liknites viene dato al Dio quando esso si presenta nel suo aspetto più miste­ rioso. Con questo nome infatti Dioniso a Delfi è collegato al Korykion Antron del Parnaso. Questo è il nome con cui il Dio è celebrato nelle feste trieteriche, e indissolubilmente congiunto ad Apollo e all ' aspetto più segreto del suo culto. Ogni due anni le Baccanti partivano dai luoghi più lontani, persino da Atene, e a piedi si recavano in pellegrinaggio a Delfi . Qui giunte, prendevano il nome di Tiadi e, al calare della sera, salivano fin quasi alla vetta del Parnaso. Era un percorso notturno e difficile, rischia­ rato solamente dalla luce delle fiaccole, ma le Tiadi lo affrontavano danzando. Esse andavano a risvegliare il "Ditirambo", altro epiteto di Dioniso e, con questo rito, si dava inizio al periodo che a Delfi era denominato "ditirambico". Ciò succedeva nel primo mese d ' inverno, quando il dominio del luogo passava da Apollo a Dioniso perché, secondo quanto afferma Plutarco, Delfi appartiene ad entrambi. Con­ temporaneamente gli Hosoi, cioè i consacrati di Delfi , tenevano una cerimonia misterica nel luogo dove esisteva il cenotafio (in cui erano custoditi i resti di Dioniso smembrato ). In questo periodo e con queste cerimonie, dice Plutarco, veniva celebrata la morte e la scomparsa del Dio e, nello stesso tempo, la sua perenne resurrezione e rinascita27• La cerimonia raggiungeva il culmine nella Grotta Coricia, che era la grotta del risveglio del Lik­ nites. Secondo Carolina Lanzani, risvegliare il ditirambo avrebbe il significato del risveglio del sole che ha appena oltrepassato il culmine dell ' inverno ; tuttavia, data la complessità e profondità dei contenuti della cerimonia, è da ritenersi che il rito esprimesse qualcosa di assai più ampio ma anche più sfuggente28•

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3. Volta della navata centrale

Su di essa, troviamo un fitto tessuto di raffigurazioni, incentrate su racconti mitologici e rappresentazioni di atti liturgici. A queste si mescolano enigmatiche scene di vita quotidiana, nel cui insieme si intuisce un messaggio recondito, rivolto probabilmente ai seguaci di una dottrina segreta. L' organizzazione del percorso è tale da far affio­ rare, di tanto in tanto, simmetrie e corrispondenze sorprendenti. Ad esempio: una portatrice d ' anfora, all ' inizio del percorso, sembra essere il riflesso di una seconda portatrice d ' anfora che le si staglia di fronte, proprio al concludersi della navata. Che cosa l ' anfora contenga noi non lo sappiamo ; possiamo però rilevare che le due portatrici di idrie, sembrano "specchiarsi" l ' una nell ' altra. Altri esempi sono rappresentati dalle fronde di palma che si susse­ guono e si ripetono dall ' una all ' altra parte della volta; dalle teste di Medusa che si fronteggiano in due riquadri ; dagli Arimaspi e dai Grifoni, sempre in posizione simmetrica, chiusi in due rettangoli. Le palme sono piante solari , che richiamano l ' universo apollineo, mentre le teste di Gorgoni ci ricordano che il loro posto, n eli ' arte Romana, è agli angoli dei coperchi dei sarcofagi, messe lì per bloc­ care, trattenere e pietrificare le forze minacciose che sono sempre in agguato attorno alle urne funerarie. Anche gli Arimaspi e i Grifoni ci parlano della dimensione apollinea e del perenne contrasto tra i favolosi animali con testa d ' aquila e corpo di leone, sacri ad Apollo, e i mostruosi monocoli ladri dell 'oro del Dio della luce.

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3.1 Eracle e Atena

Tra queste immagini, iscritte in due spazi che si fronteggiano, sono riprodotte due effigi: quella di Eracle ed Atena e quella di Calcante e Ifigenia. Nella prima, l ' Eroe è raffigurato con la consueta leontis, la faretra sul dorso, la clava nella destra e il capo coronato di alloro. Egli avanza verso la Dèa che sembra essere lì pronta a riceverlo. Con ogni probabilità si vuole alludere all ' apoteosi di Eracle, che segue alla sua morte straziante. Perché la morte non è la conclusione della vita del figlio di Alcmena, ma è la soglia oltre la quale si apre per lui il mondo divino. Dopo le dodici fatiche, mediante le quali purifica la terra, dopo il trascorrere di una vita fatta di splendori abbaglianti e oscurità abissali, egli approda al sacrificio di se stesso sulla cima del­ l ' Oeta. Sulla pira che arde il suo corpo immane, avviene la scissione dell ' ombra e della luce che hanno caratterizzato la sua vita terrena. La parte oscura diviene il suo "E'LùwJ...o v", che si aggirerà per sempre neli ' ombra dell ' Ade ; quella luminosa salirà invece ali ' Olimpo, dove Atena lo accoglierà e darà voto favorevole perché egli divenga un dio tra gli altri dèi. Qui nella Basilica, Atena lo attende per farlo salire sulla sua quadriga e portarlo con sè nel consesso degli Dèi. Per quel che ci riguarda, è importante ciò che dice Virgilio nelle Georgiche, cioè che Giove avrebbe disposto per lui il rito di una seconda nascita29• Ed è su questo che, probabilmente, si incentra il messaggio che i costruttori della Basilica vollero scrivere sulla volta della navata centrale, a partire dal suo primo pannello. A detta di Apollonio Rodi o, Eracle, prima di intraprendere l ' ultima fatica, si era fatto iniziare da Eumolpo ai Misteri di EleusP0• Tale evento getta una luce tutta speciale sull ' Eroe, in quanto nella Basi­ lica ci sono numerosi accenni al culto delle Dèe Elusine. Va infatti rilevato che il processo di divinizzazione di Eracle è preceduto dalla purificazione nel fuoco, e questo ci richiama i versi 237 -240 del l ' Inno 34

a Demeter, nel quale si parla del rito compiuto dalla Dèa sul piccolo Demofonte " . . . Lo ungeva d ' ambrosia come il figlio di un Dio, dol­ cemente soffiando su di lui e stringendolo al seno. Di notte lo celava sulla vampa del fuoco, come un tizzone"31 • Analogamente Hera, nel rito della seconda nascita dell' Eroe, lo avvicina al suo seno come se lo allattasse. In questo modo, egli rinasce quale figlio di una Dèa32• Più avanti, tra gli stucchi della B asilica, ritroveremo nuovamente Eracle ed ulteriori motivi allusivi al mistero della sua iniziazione.

3.2 Ifigenia e Calcante

Sull ' altro pannello, quello posto allo stesso livello della scena di Eracle e Atena, si trovano raffigurati Ifigenia e Calcante. Entrambi i rettangoli sono posti l ' uno di fronte ali ' altro, quasi dovessero essere due scene gemelle. Entrambe solennizzano un atto sacrificate, effet­ tuato al fine di giungere a una purificazione. A seguito di questa

Fig. 7

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Calcante prepara Ifigenia al sacrificio.

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si ha, nel primo caso, un ' apoteosi, nel secondo, una trasmutazione dall ' umano al divino. Non per niente, il nome che porta la vergine figlia di Agamennone è un appellativo di Artemide, il cui significato è "Colei che governa con forza le nascite".33 Tutto ebbe inizio da un atto di empietà del re di Micene, che volle a tutti i costi penetrare in un bosco sacro alla dèa dove uccise un bellissimo capretto maculato, offendendolo poi in sacrificio. Il fatto provocò l ' ira della sorella di Febo che, per punire la tracotanza del re, fece calare il vento, indispensabile alle navi Greche per veleggiare alla volta di Troia. Ciò, poteva essere espressione dell ' ira divina ma anche forse un avvertimento. L' episodio, nel suo insieme, è avvolto nell ' alone cupo del Fato, e Calcante vi appare come la voce e l ' interprete del Destino stesso. Calcante è colui che può vedere oltre le cose terrene, perché la sua sapienza è il mezzo del quale gli Dèi si servono affinché gli uomini abbiano la possibilità di scegliere. Egli predisse ai Greci che l ' impresa sarebbe stata lunga e dolorosa e che pochi di essi avrebbero fatto ritorno alle loro case ; il vento cadde e le navi Achee restarono inchiodate alle rive dell' Aulide. Questa potrebbe anche essere una metafora per indicare la caduta della forza vitale, che solamente il sacrificio della giovane figlia del capo dell 'esercito potrà ripristinare. A questo punto i Greci avrebbero potuto lasciar perdere Elena e dimen­ ticare l ' offesa fatta agli Atridi da Paride. Ma Agamennone è disposto a tutto pur di portare a termine l ' impresa. Con l ' inganno chiama la figlia in Aulide e, con la falsa promessa di uno sposo, la sacrifica per placare l ' ira di Artemide. Per Pindaro questa fu la seconda grande colpa di Agamennone. Se da un lato riuscì a placare la Dèa con questo sacrificio, dall ' altro si rese colpevole di aver versato il sangue di una vergine , che si sarebbe poi rivoltato contro Agamennone stesso e le schiere degli AcheP4. Secondo Euripide, invece, la fanciulla sarebbe stata salvata 36

da Artemide stessa, che l ' avrebbe trasportata nella Tauride, facendone la sacerdotessa del suo culto e del suo santuario, vale a dire di uno degli aspetti più terribili e sanguinari di Artemide.35 Entrambi i pannelli, che contraddistinguono l ' inizio del percorso iniziatico della B asilica, sono quindi incentrati sull ' idea del sacrificio doloroso, effettuato al fine di purificare Eracle e Agamennone dalla "vj3pu;", nei confronti degli Dèi e degli uomini. Inoltre, in entrambi i miti il presagio pare essere il motivo conduttore : Eracle si reca sul­ l ' Oeta dopo che l ' oracolo di Delfi gli ha ordinato di andarvi, e Ifigenia viene chiamata in Aulide e poi condotta al sacrificio, in obbedienza al vaticinio dell ' indovino Calcante. Non è quindi da escludere che nella B asilica si svolgessero riti con fun­ zione oracolare, sul tipo di quelli Teurgici, come ci vengono descritti da Giamblico, nei Misteri degli Egizi e dei Caldei.36 Conferma di ciò, potrebbe essere data dalla presenza di quattro maschere di Ammone, poste agli angoli delle estremità della volta centrale. Si tratta di una sezione dell ' arcata che viene a formare un ampio e lungo rettangolo entro il quale sono iscritti due pannelli, anche questi rettangolari, che si fronteggiano, e tra questi un rettangolo più grande collocato in posizione centrale. Nei primi due, sono presenti una scena cam­ pestre ed un' altra dal contenuto bizzarro , del quale parleremo in seguito. Quello quadrangolare, situato in posizione centrale, ricorda chiaramente il mito dei Dioscuri e delle Leucippidi . Come rileva Carcopino, le maschere di Ammone fungono spesso da ornamento alle urne funerarie del I sec.d.C. Ma Ammone ha anche una sostan­ ziale valenza oracolare. In Egitto, e precisamente nel l ' Oasi di Siwa, sorgeva un tempio e soprattutto un Oracolo dedicato a Zeus Ammone, lo Zeus che porta sul capo le coma di ariete. Questo era uno dei santuari più venerati dell ' antichità, al punto che Alessandro Magno, prima di morire, ordinò che il suo corpo fosse sepolto presso questo tempio, dove il Mace­ done era venuto a cercare il suo padre divino. Oltretutto, anche in un 37

racconto antichissimo, riportato da Henri Jeannmaire (del quale però lo studioso non cita la fonte) , si narra di un giovane paggio del re di Biblo, caduto improvvisamente in uno stato di estasi profetica, in quanto posseduto proprio dallo spirito di quel Dio37• Zeus Ammone ci riporta ancora una volta a Dioniso. Infatti in una versione Libica dei miti dionisiaci, Bacco è definito figlio di Zeus Ammone e di Amaltea, una delle regina dell' Africa occidentale38•

3.3 Chirone e Aristeo

Tra le due maschere di Ammone si trova un ampio rettangolo, che delimita due pannelli che si fronteggiano. Quello di sinistra raffigura un giovane uomo dall ' aspetto efebico in atteggiamento bellicoso, come se stesse esercitandosi nella lotta. Il Centauro Chirone, davanti a lui, sembra essere intento ad insegnargliene le mosse. Per Salvatore Aurigemma dovrebbe trattarsi di Achille. Carcopino invece è indeciso tra i molteplici allievi del sapiente Centauro. Sempre per Carcopino, Chirone rappresenterebbe la perfezione della sapienza, ma nell 'elenco di coloro che ebbero il suo divino insegnamento spicca il nome di Aristeo. Figlio di Apollo e della vergine cacciatrice Cirene, Aristeo nacque proprio per il consiglio che Chirone diede ad Apollo, affinché il Dio avesse un figlio immortale e purissimo custode di greggi, nonché protettore degli uomini, i quali lo avrebbero venerato sommamente39• Appena nato, Ermes lo affidò alle Ore e alla Madre Terra che, bagnan­ dogli le labbra con il nettare e l ' ambrosia, lo rese simile a un immortale. In un secondo tempo, Apollo medesimo si occupò di lui, portandolo a Chirone, perché venisse da lui educato. Dalle Ninfe Aristeo apprese l ' arte medica e quella profeti ca, e agli uomini insegnò come ricavare olio dalle olive e come trasformare il latte in formaggio. Ma Aristeo è soprattutto legato alle api e al miele e da lui gli uomini 38

impararono come costruire alveari. Dietro la sua accattivante appa­ renza, si nasconde una natura sostanzialmente oscura ed inquietante. Fu lui, infatti, a inseguire Euridice nel giorno in cui questa si accingeva a sposarsi. La fanciulla nell ' intento di sfuggirgli, prese a correre e venne morsa da un serpente che le procurò la morte col suo veleno. Come già detto, gli esegeti dell 'età tardo-antica raccomandano di non prendere mai alla lettera i miti, ma di ricercarne il significato riposto. In questo caso va tenuto presente il carattere orfico del racconto. Nel nome stesso del personaggio, si può cogliere il senso di ciò che lui è realmente "il Dio migliore": questo significa Aristeo. Quindi al di là del ragazzo, figlio della Ninfa, va identificata una forma divina con carat­ teristiche misteriche. Il fatto è che, talvolta, dietro una divinità minore o addirittura un semplice eroe si cela l ' aspetto più oscuro di un dio. Lo stesso Chirone è una delle immagini più enigmatiche, germogliate dalla dimensione spirituale del mondo ellenico . Egli è l ' essere primordiale, infinitamente sapiente e misericordioso, che prende su di se le colpe del Titano Prometeo e accetta di morire per sottrarlo alle inenarrabili sofferenze, inflitte a lui dalla legge implacabile del Fato, della quale Zeus è il custode. Egli insegna molte cose ai propri allievi, ma il cuore del suo insegnamento è probabilmente la giustizia e la compassione. Forse per questo il pannello che lo ritrae è posto di fronte a quello che riproduce Elettra, personaggio centrale in una storia di sangue e vendetta. Aristeo è uno dei figli di Apollo Sterminatore , assai prossimo al Signore dell ' Ade. Egli, su consiglio di Chirone, si unisce alla Ninfa, simbolo dell ' elemento umido che sovrintende alle cose mortali . Rappresenta il punto iniziale del mito d i Orfeo, dal quale prende l ' avvio la dottrina iniziati ca che da lì trae il nome. Orfeo è connesso a quel canto magico, riflesso dell ' armonia universale, che Apollo intreccia col suo strumento. Ma Orfeo, oltre che la musica e i canti, ama di amore ardente la bella Euridice, un nome il suo che la dice lunga sul personaggio, perché significa "Colei che giudica in un vasto 39

territorio".40 Per il Kerenyi, un personaggio che possiede un simile nome si avvicinerebbe molto alla Signora degli Inferi. E qui entra in scena Aristeo che, innamoratosi anch 'egli di Euridice, prende ad inseguirla. Fu allora che la ragazza, morsa da un serpente alla caviglia, morì e la sua anima scese nell' Ade eterno. Ma il serpente è il modo con cui gli Dèi degli inferi esprimono la loro natura buia e sotterranea. Trasportato nell ' ambito dei racconti sacri, questo di Euridice appare come un rapimento, e, mentre Ari­ steo si presenta come un Apollo Infero, il serpente sembra essere la metafora della sua natura sotterranea. Perché Aristeo, tra le altre cose, ereditò dal padre la scienza oracolare, che caratterizza proprio l ' Apollo Delfico, l ' Apollo del serpente. Giuliano Imperatore avverte che, talvolta, quando si parla di figli nati da un dio, si tratta in realtà di una manifestazione del Dio medesimo41 • Questo concetto si addice assai bene ad un contesto come quello della Basilica, dove le scene mitologiche che costellano le volte e le pareti si rivestono di un significato ineffabile. Per cui, in Euridice, potremmo riconoscere la personificazione delle verità arcane che si nascondono nel mondo invisibile delle Anime, che l ' emblematica figura di Orfeo ama più di ogni cosa. Aristeo, secondo quel che Vir­ gilio narra nelle Georgiche, è colui che fu in grado di provocare la nascita di nuove api dai corpi in dissoluzione di buoi e giovenche42• Una storia strana, questa, come lo sono sovente quelle dei miti, ma che qui ben si adatta al contesto del luogo. Perché le api, a quel che dice Porfirio nel De Antro Nimpharum, sono le Anime purificate che rinascono dalla dissoluzione di quanto è terreno e mortale (i buoi)43, e poi si innalzano verso il cielo portando con loro la capacità di raccogliere tutte le essenze e tutti gli aromi dei fiori della terra, con i quali elaborano il miele, alimento divino della età aurea.

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3.4 Elettra

Dal lato opposta della struttura, c ' è una figura femminile, identifi­ cata come Elettra. Se da una parte della volta è celebrata l ' idea della purificazione, neli ' altra il discorso si incentra su coloro che devono essere purificati . Elettra è un personaggio mediante il quale si rievoca l ' immane tragedia dei discendenti di Atreo, della giusta vendetta e, quindi, della purificazione che ne consegue. Davanti a entrambi i pannelli troviamo delle fronde di palma, la pianta presso cui nacque Apollo, Signore della luce. Al di là di queste, sem­ pre una di fronte ali ' altra, vediamo una scena campestre ed una che raffigura quattro bizzarri personaggi, due uomini e due donne. Le due figure maschili, poste ali ' esterno del gruppetto, indossano un buffo cap­ pello appuntito, e uno di questi tiene nella sinistra una lunga bacchetta. Quanto alle due donne, una è ritratta con un' anfora sul capo e sembra stia per fuggire, come fosse spaventata da ciò che sta avvenendo, l ' altra, invece, pare prendere parte a quello che i due uomini stanno facendo, e tende le mani verso un tavolino rotondo che poggia su tre piedi. Su questo sono disposti una moltitudine d' oggetti . È probabile che i due uomini e una delle donne stiano tentando di compiere un ' operazione magica. Noi non sappiamo se essi alla fine ci riescano, ma anche se così fosse, la tipologia dei personaggi fa venire in mente un passo dei "Misteri" di Giamblico, dove viene fatta la distinzione tra i veri Teurgi e coloro che, con trucchi, cercano di copiarne vanamente i riti , non riuscendo ad ottenere altro che fantasmi, vale a dire vane immagini,

Fig. 8

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Maghi che si accingono a compiere una magia.

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Fig. 9

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Particolare della Fig. 8 .

simili a quelle che si proiettano su uno specchio44• Al contrario, la scena che si trova dirimpetto a questa esalta il lavoro dei campi, sacro a Demetra, qui raffigurato all ' interno di una sorta di recinto sacro.

3.5 l Dioscuri

Tra questi due stucchi, in posizione centrale, entro un grande pannello di forma quadrata, si scorge una sottile ed evanescente figura di donna, riversa tra le braccia di un giovane, identificato come uno dei Di oscuri. Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che la scena rappresenti il rapimento di una delle Leucippidi. In questo caso noi non sappiamo di quale delle due figlie di Leucippo si tratti. Sappiamo solamente che questa, che è raffigurata nel settore iniziale della volta, è identica a quella che si trova alla fine, in prossimità dell ' abside, dove la scena si ripete con l ' altro Dioscuro e l ' altra Leucippide. In realtà i Dioscuri sono i gemelli più celebri della mitologia Greca, e pure gemelle sono le figlie di Leucippo che i figli di Zeus rapiscono. 42

I nomi delle due fanciulle sono: Febe e Ilaira, nomi questi che sot­ tintendono l ' idea della luce splendente, il che ben si adatta a delle anime purificate. Pindaro nella Nemea X45, elogia l ' amore che il fratello immortale nutre per quello mortale, un amore tale che lo spinge a rinunziare alla vita celeste per alternarsi con lui nell 'oscurità dell' Ade. E il mito, come per Pindaro, anche per i seguaci delle dottrine Orfiche doveva essere la metafora di quanto alcuni esseri divini amino la stirpe umana, della quale sono fratelli (come risulta dal passo "Uno è degli uomini, uno degli Dèi il genere, da una madre traiamo il respiro ambedue"). A motivo di questo amore, Polluce è disposto, in un certo senso, a morire e quindi a conoscere il regno di Persefone. Tuttavia, al di là del mito narrato da Pindaro, i Dioscuri in età Ellenistica e tardo pagana sono uno dei tasselli de li ' antico culto dei Cabiri e dei Telchini. Essi sono gli Dèi salvatori per eccellenza. Le loro effigi si trovano spesso sui sarco­ fagi e nei luoghi funerari, dove soprattutto è messo in rilievo l ' uovo da cui sono nati. Ma l ' uovo è anche uno dei simboli maggiormente presenti presso le steli funerarie dei seguaci di Orfeo. Per essi, infatti,

Fig. I O - Dioscuro rapisce una Leucippide. (Volta della navata centrale)

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i due fratelli sono entità cabiriche e fanno parte, di conseguenza, della enigmatica schiera dei Grandi Dèi di Samotracia. Con il rapimento delle Leucippidi ha inizio l ' inimicizia tra i Dio­ scuri, Idas e Linceo, che si concluderà con la morte di Castore e con la divisione perpetua dei due fratelli. La Leucippide, così come è raffigurata nella B asilica, appare come una figura eterea, che sembra essere priva di vita. Le due sorelle vengono rapite dal santuario di Afrodite, vale a dire della Dèa della morte nella vita, ma i loro nomi ci parlano di luce che, come l ' Anima degli inziati, si accenderà e comincerà a risplendere solo dopo la discesa agli inferi, compiuta assieme a uno dei due Dèi Salvatori. Questo potrebbe essere il motivo per cui questa immagine è posta in posizione così rilevante rispetto alla maggior parte delle altre.

3. 6 Elena e Paride

Oltre la scena della quale abbiamo parlato, divisi da fronde di palma stilizzate, ci sono altre due formelle che si fronteggiano. In quella posta nel lato nord, si vede un giovane uomo che ha sul capo un berretto frigio e nella mano sinistra un vincastro, mentre con la mano destra stringe l ' avambraccio di una donna, anch 'essa giovane, che lui sembra voler tirare dolcemente verso di sé. La donna lo fissa e pare esitare, eppure dal movimento dei piedi si capisce che lo sta seguendo, anche se con passo incerto. La scena è intesa come il rapimento di Elena da parte di Paride. Se prima ci siamo occupati dei Dioscuri ora, con questa lastra, non ci allontaneremo troppo da essi, perché Elena è loro sorella. In uno splendido stucco di età adrianea, quindi abbastanza vicina al periodo in cui venne eretta la B asilica, si vedono i Dioscuri che, assieme ad Elena, emergono dalle due metà dell ' uovo appena dischiuso; l ' aquila di Zeus fa piovere su di loro un liquido divino 44

che potrebbe essere ambrosia. Ma questa cade solamente sul neo­ nato posto al centro del trio che, senza dubbio, è Polluce. Dal lato di Castore, due figure, una maschile e l' atra femminile, osservano la scena, mentre alle spalle di Elena una donna tende verso il capo di lei la mano destra. Si ritiene che questa figura ritragga Clitemnestra, personaggio che si adatta assai bene alla fatale sposa di Menelao. Perché a Ramnunte Elena era considerata figlia di Nemesi, la dèa terribile nata dalla Notte. Certamente non a caso in questo settore della volta della Basilica vengono celebrati i discendenti di Atreo. Come già accennato, i Dioscuri , sia in Grecia che a Roma, erano considerati divinità cabiriche legate agli antichissimi culti di Samo­ treia, ritornati in auge tra le classi colte dell ' età tardo antica. Per quel poco che si sa, momento culminante di tali misteri doveva essere la purificazione da una colpa inenarrabile; e quale colpa più spaventosa di quella di Atreo che, dopo avere ucciso i figli di Tieste, li dette da mangiare all ' inconsapevole padre? Il fatto è che tutta la genia di Atreo appare macchiata da colpe terribili e le loro storie grondano sangue: Agamennone sacrifica la propria figlia, per poter veleggiare

Fig. I l - Elena e Paride. (Volta della navata centrale)

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alla volta di Troia, e sarà poi a sua volta scannato come un bue da sua moglie Clitemnestra e dal di lei amante. Che dire poi di Oreste, che uccise la propria madre per vendicare il padre e che poi verrà per sempre braccato dalle Erinni? ! Nel mondo dei miti Greci non esiste una dinastia regale, che più di quella di Atreo abbia per protagonista la morte e la vendetta. Morte e vendetta che si rincorrono senza interruzione, come una sorta di malefico cerchio. L' unico a salvarsi è proprio Menelao che, come racconta Omero, accede ai Campi Elisi senza dover passare attraverso la morte46• Il motivo non ci viene detto, ma potrebbe essere dovuto al fatto che, mediante lui, si attuò la giustizia divina personificata da Elena, o più probabilmente perché, essendo venuto a contatto diretto con Proteo, divenne l ' immagine vivente dell ' iniziato. Quanto a Paride, per S aturnino S alustio egli è " l ' anima che vive secondo la sensazione, e non vede nel mondo altre potenze al di fuori della bellezza". Ciò vuoi dire che in esso va individuata l ' anima quando questa si lascia condurre solamente dalle apparenze, quindi da ciò che c ' è di più fuorviante e ingannevole47• Nella scena che la Basilica ci propone, Paride è ritratto mentre attira a sè Elena, che si mostra falsamente riluttante. Il fatto è che l ' inganno non è propriamente la menzogna, ma un qualcosa che sposta di con­ tinuo la linea della verità. Ed Elena è anche questo, perché possiede le droghe potenti , con le quali è in grado di donare l ' illusione della felicità; sa parlare con tutti gli accenti e tutte le voci che sono più care al cuore degli uomini. Questo infatti fece quando, girando per tre volte intorno al cavallo fatale, si rivolse a ognuno degli Achei, con la voce della donna che ognuno di essi amava. Il che vuoi dire che, nel messaggio dei costruttori della Basilica, Elena personifica l ' ingannevole illusione che P aride attira a sè, e che sarà all ' origine della rovina e della distruzione di Troia. Con queste immagini viene a sottolinearsi l ' idea della colpa iniziale, che si protende di genera46

zione in generazione su tutta la stirpe, come accadde per la colpa del fondatore delle mura di Ilio, che si macchiò di empietà nei confronti degli dèi. Tale colpa sarà lavata con il fuoco e con il sangue e ciò avverrà proprio con la venuta di Elena-Nemesi, della quale Paride è inconsapevole mediatore. Ma nell ' economia religiosa del mondo ellenico, anche l ' ignoranza è una colpa, come ci viene tramandato nell ' inno omerico a Demetra48•

3. 7 Giasone e il Vello d 'Oro o Frisso

Il pannello di fronte a quello di Elena e Paride ci parla di Giasone e della conquista del Vello d ' oro. Ciò vuoi dire che l ' attenzione di chi guarda deve passare dalla tragica epopea delle guerre troiane a quella inquietante e magica degli Argonauti. Qui l ' eroe è Giasone che , a differenza degli altri , viene protetto dagli dèi. Nel pannello è ritratto inginocchiato su di un tavolo, forse una mensa sacra, data la presenza, accanto a questo, di un altro tavolo più piccolo, sul cui piano è poggiato uno scrigno che potrebbe contenere incensi o droghe magiche confezionate da Medea. Giasone appare completamente nudo, a prescindere da un drappo svo­ lazzante che gli scende dalla spalla sinistra. Nella mano destra stringe un coltello e nella sinistra sembra reggere una fiaccola. Di fronte a lui Medea, con il capo velato e abbigliata con una veste che le ricade fino ai piedi con pieghe pesanti, tende una patera verso un grosso serpente, che si snoda da un vecchio albero contorto, posto tra lei e Giasone. La scena ha in se qualcosa di strano, con Giasone che sembra stare in bilico sulla mensa, e con quella sciarpa che svolazza al soffio di un improbabile venticello. Più che il protagonista delle Argonautiche, qui l ' eroe sembra piuttosto un imberbe fanciulletto, con dimensioni notevolmente minori rispetto a quelle di Medea che, invece, con mo vi­ mento ieratico, porge con la sinistra il cibo al serpente, mentre con la 47

destra fa cadere una polvere magica sulla testa piatta del rettile. Il vello dell ' animale divino, appeso per la coda a uno dei rami nodosi del vecchio albero, viene spinto da un refolo di vento verso Giasone. Ma a questo punto ci si chiede se la figura efebica che sta davanti a Medea sia davvero Giasone, a meno che le sue dimensioni ridotte rispetto a quelle della maga non vogliano testimoniare l ' inferiorità d eli ' eroe nei confronti della donna. E allora viene da domandarsi che cosa rappresentasse, per i frequentatori della B asilica, la potente maga della Colchide. Anche Giasone fu affidato da fanciullo alle cure di Chirone il Cen­ tauro e anche il suo nome reca in sè l ' idea di qualcosa di speciale. Il nome dell 'eroe significa infatti "Colui che risana". Nel racconto di Apollonio egli è descritto come un essere splendido e terribile, che avanza con due lance tra le mani, ammantato di una pelle di pantera e lunghi capelli inanellati che gli scendono a coprire

Fig. 1 2 - Medea esorcizza il serpente che è a guardia del vello d'oro. (Volta della navata centrale)

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le ampie spalle. Una figura che ricorda in modo sorprendente Dioniso. Egli si presenta così abbigliato al re Pelia e calzato con un sandalo solo. Questo particolare richiama uno dei dipinti della Villa Dei Misteri dove, per l ' appunto, Dioniso appare con ai piedi un solo sandalo. Nella tradizione mistica del mondo ellenico, colui che calza un solo sandalo è una figura sinistra, prossima al mondo degli inferi . Ma Giasone è il conquistatore del Vello d ' Oro, e a Giasone i Dioscuri sono vicini, in quanto partecipi della spedizione degli Argonauti. Mai come nel mito degli Argonauti, i Cabiri, i Telchini e i Grandi Dei di Samotracia vengono ricordati in maniera tanto rilevante. Perché anche qui si parla di una colpa, una terribile colpa, commessa dalle donne di Lemno che massacrarono tutti gli uomini dell ' isola ad eccezione di Toante padre di Ipsipile, figlio di Dioniso (forse anche una specie di suo doppio). Anche in questo caso si tratta dello sterminio di coloro che appartengono alla stessa famiglia. In un passo di Fozio49 si legge che i Cabiri, divinità dell ' isola, abban­ donarono Lemno, patria degli Efesti, entità primordiali affini ai Cabiri e ai Grandi Dei di Samotracia. È importante soffermasi su tale argomento, perché nella Basilica ci sono dei non trascurabili richiami al misterioso culto di Samotracia. Quanto a Giasone, esso tenne fede al suo nome e risanò la situazione sposando la regina Ipsipile. A motivo di questa unione, nell ' isola tornarono i Cabiri, portando con loro il vino per la cerimonia, segno questo del loro legame con Dioniso (che è poi il Grande Kabeiros, raffigurato nel frammento vasco l are del Kabirion di Te be) . Diodoro Siculo racconta che Giasone e gli altri Argonauti raggiunsero poi la vicina Samotracia e lì furono iniziati ai misteri e assistettero all ' apparizione dei Grandi Dei50• In apparenza sembra che tra tutti questi miti, ricordati nei pannelli della Basilica, non ci sia alcun legame; tuttavia, al di là dell 'immediata apparenza, che li fa sembrare slegati gli uni dagli altri, si intuisce 49

uno schema sotterraneo che invece li unisce. Infatti, meditando sugli ultimi pannelli che abbiamo esaminato, si ha la sensazione che si sia voluta trasmettere l ' idea della colpa tremenda, che solamente tramite una iniziazione particolare potrà essere cancellata. Ci si rende allora conto che tra i personaggi che popolano le vicende mitologiche fino ad ora narrate esiste un nesso logico neanche troppo occultato. Osservando la figura di uno dei Dioscuri, risulta evidente come essa sia narrativamente collegata sia a quella di Elena che a quella degli Argonauti. Questi ultimi giunsero nella mitica Colchide solamente dopo essere stati iniziati ai mi steri di Samotracia. Nel mito qui raffigurato ciò che colpisce maggiormente è la stranezza dei particolari : Giasone, su una mensa che potrebbe anche esser considerata un altare, i due enigmatici oggetti che ha tra le mani e poi il vecchio albero secco dai cui rami pende il vello aureo. Tutto ciò ci fa pensare che quello effigiato potrebbe non essere Giasone, bensì Frisso, nel momento in cui, dopo aver sacrificato l ' ariete a Zeus Lafistio, ne appende il vello all ' albero che si trova nel recinto di Are s. E questa ipotesi ci introdurrebbe in un ' altra storia terribile che riconduce sempre a Dioniso e al dionisismo. Perché la scena pare essere bipartita dall ' albero secco, una pianta infelice, come a quei tempi erano considerate le piante prive di vita. Anche perché la storia potrebbe alludere alla stirpe di Atamante, padre di Frisso, con il quale si interrompe la sua discendenza umana. Con questi due riquadri , posti nella prima sezione della volta, termi­ nano le storie di eroi, delle tragedie e delle colpe della casa di Atreo. Forse da questo punto in poi, procedendo nella Basilica, ci si inoltra in un altro tipo di storie, orficamente intese come iniziatiche, il cui settore è probabilmente influenzato dall ' immagine dell' apoteosi di Ganimede.

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3.8 Ganimede e Attis

Ai bordi dei lati estremi nord e sud della volta appaiono, simmetrica­ mente poste le une di fronte alle altre, scene di giovani che si allenano in una palestra. A ridosso di queste ce n ' è una, in cui è rappresentato un momento di un matrimonio, e un' altra, in cui è raffigurata una scuola. Il tutto sembra formare un lungo rettangolo, ai cui angoli ci sono i quattro volti della Gorgone Medusa. Ciò che più sorprende è che, nella zona più interna della volta, proprio attorno al pannello che contiene l ' apoteosi di Ganimede, per ben quattro volte si ripete la figura del dio Attis. Egli indossa una tunica manicata sopra gli anaxyris e porta sul capo il caratteristico berretto frigio. Contigua alla raffigurazione della palestra si trova la scena del matri­ monio, a cui prima abbiamo accennato. Nella prima scena, i partecipanti alla esercitazione ginnica sono, in parte, veri e propri bambini o pre-adolescenti . Data l ' età, essi si tra­ stullano ancora con spade giocattolo e con il gioco della palla. Nella seconda scena, invece (vale a dire nella seconda palestra, effigiata a ridosso della scuola) i protagonisti non sono più dei bambini, bensì ragazzi, alcuni dei quali hanno già oltrepassato l ' adolescenza. Que­ sti , infatti si esercitano nella corsa, nella lotta e nel vero e proprio combattimento. È possibile che, con queste scene, si voglia sottolineare il passaggio da una età all ' altra, e quindi da una preparazione più Iudica a una più impegnativa. Forse si tratta di riferimenti che vogliono alludere alla preparazione mistico iniziatica. Va infatti notato che entrambe le scene, sono situate nella zona più esterna, rispetto a tutte le altre. Infatti , subito dopo, spostata verso il centro della volta, troviamo la scena del matrimonio e quella di una scuola. Nella prima viene solennizzato il momento dell ' unione tra un uomo e una donna, nell ' altra quella che dovrebbe essere la preparazione cultu­ rale di un gruppo di individui ancora acerbi. Tuttavia quest' ultima ha 51

Fig. 1 3 - Scena di matrimonio Dextrarum iunctio. (Volta della navata centrale)

in se elementi enigmatici e provocatori. Perché il gruppo dei fanciulli, che costituisce l 'elemento vitale di tutto l ' insieme, è in netto contrasto con la figura miserevole, vecchia e incartapecorita de li ' insegnante, che siede curvo e cadente su di un povero seggio, avvolto fino al collo in un manto che pare essere anch ' esso vecchio e cadente. Questa del maestro è una figura a sè stante, che stride con quella dei fanciulli, due dei quali sembrano essere in stretto rapporto con una enigmatica maschera teatrale, posta sulla cima di un paletto. Un terzo fanciullo avanza silenziosamente alle spalle del maestro, in atteggia­ mento strano, come se eseguisse un passo di danza. Ciò che sorprende è la nudità dei ragazzi, perché, nelle raffigurazioni dell 'epoca, i fanciulli che frequentano la scuola non sono mai ritratti nudi, ma indossano la loro brava tunichetta o addirittura la pretexta. Qui invece sono "vestiti" di una nudità che si potrebbe definire rituale. Il ragazzo di destra pare sopraggiungere all ' improvviso e silenziosamente alle spalle del maestro, che non lo vede e non lo sente arrivare, quasi appartenesse a una dimensione diversa. Anche gli altri compagni, assorti nella con­ templazione della maschera fi ssa su un palo, non si accorgono di lui . 52

Osservandolo meglio, si scoprono molte somiglianze con alcune scene di riti dionisiaci, come quella dipinta su di un' oinochoe del Metropo­ litan Museum, o quella iniziatica della Villa dei Misteri, oppure con la testa dei cortei dionisiaci in molti dipinti vascolari. Contigua alla palestra dei più piccoli, si trova la scena del matrimonio, che si giustappone a quella della scuola. In questa si vedono i due sposi nel momento della "dextrarum iunctio". Nel lato sinistro, dalla parte della sposa, si vede una fanciullina che si china per raccogliere lo strascico dell' abito nuziale, mentre, dietro di lei, si intravede una donna, forse la madre della sposa, abbigliata elegantemente. Dali ' altro lato, dietro lo sposo, c ' è un uomo, forse il padre del neo-marito, con indosso una toga voluminosa. In tutto il settore nord della navata centrale, vediamo inserito l ' ele­ mento femminile. Il Cumont è persuaso che tutte le scene or ora descritte appartengano solamente in apparenza al normale quotidiano e che, dietro di esse, si celi un' intenzione morale che viene comparata ai vari periodi di esistenza umana. Per Carcopino, invece, la rappre­ sentazione del matrimonio è particolarmente importante, al punto da poterlo considerare simile a una iniziazione.

Fig. 1 4 - Scena di una scuola. Un enigmatico fanciullo avanza silenziosamente alle spalle del maestro. (Volta della navata centrale)

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Non bisogna dimenticare che, all ' epoca, si credeva che qual siasi momento della vita fosse sottoposto a particolari divinità. Nel nostro caso abbiamo le palestre sotto il patronato di Hermes e di Apollo, la scuola sotto quello di Atena, il matrimonio sotto quello di Hera. Inoltre, la presenza della maschera teatrale nella raffigurazione della scuola si richiama inequivocabilmente a un rito dionisiaco. Queste scene sembrano voler delimitare proprio le formelle che celebrano il dio Atti s , e sono quattro , così come per quattro volte si ripete l ' immagine del dio. Non è quindi da escludere che ci sia un riferimento ai quattro ele­ menti sub-lunari . Divise le une dalle altre da palmette stilizzate ed Eroti , ci vengono presentate le quattro formelle, sulle quali si vede il Dio Attis in atteggi amento sofferente . l , l . Secondo Carcopino, la figura • ' del Dio rappresenterebbe l ' at­ ' tesa della resurrezione. Per altri l studiosi esse contraddi stingue­ • �c � . .. rebbero l ' Atti s funerario, pro­ prio perché ritratto con la testa china, l ' e spre s s ione dolente • ed un imponente bastone nella mano sinistra. _ .c . Il culto di Attis e della Grande � . Madre Cibele, era uno dei più . seguiti nella tarda antichità. Sia ..""' • il suo culto che il suo rito sono , ' di origine Frigia, provenienti ., c ioè da un luogo particol ar­ • • . .. mente sentito nel la tradizione romana, perché in relazione con Fig. 1 5 - Attis dolente.

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la venuta di Enea nel Lazio. Ne danno testimonianza le rovine del tem­ pio che alla Dèa venne innalzato sul Palatino, il Phrigianum sul colle Vaticano, e il grandioso santuario di Ostia antica dove, all 'estremità sud-orientale, si vedono ancora i resti del sacello dedicato ad Attis . I l mito riguardante questa divinità presenta più versioni che, anche se apparentemente contrastanti, nella sostanza convergono tutte verso un ' escatologia di tipo salvifico. In quella tramandataci da Arnobio, retore della fine del III secolo, si parla di Agdistis, un essere bi-sessuale, selvaggio e assolutamente primordiale, figlio del cielo e della terra. Grazie alla sua androginia, questo essere primitivo possedeva una potenza terrificante, tale che le altre entità divine se ne sentivano minacciate. Allora Dioniso, serven­ dosi di uno stratagemma che ha come punto centrale la trasmutazione dell' acqua in vino, fece in modo che la selvaggia creatura si evirasse da sola. Il suo sangue, caduto sulla terra feconda, proprio nel momento in cui avveniva la separazione del maschile dal femminile, germo­ gliò e dal suolo crebbe un mandorlo meraviglioso. La figlia del re di Pessinunte, affascinata dai suoi frutti straordinari, se ne pose uno in seno e, a motivo di ciò, dopo il tempo necessario generò un bambino bellissimo, a cui fu dato il nome di Attis . Il re padre, sdegnato per l ' accaduto, ordinò di imprigionare la figlia e abbandonare il piccolo tra le selve delle montagne, Ma la Grande Madre Cibele, incantata dalla bellezza del neonato, provvide a farlo allattare da un caprone. In seguito il re Mida decise di farlo sposare con sua figlia ma, durante la cerimonia nuziale, apparve improvvisamente Agdistis che si era in precedenza follemente innamorata di Attis. Per tale ragione, suonando con la sua syrinx un ' aria stregata, fece impazzire tutti i presenti. Attis, colto anche lui da follia, corse sotto un pino e si evirò, gridando "A te Agdistis". A seguito di ciò, Attis morì e dal suo sangue, caduto sulla terra, nacquero le prime viole mai nate prima nel mondo5 1 • I n questa versione del mito, non s i parla della sua resurrezione, ma si racconta che i suoi capelli ed il suo dito mignolo continuarono a 55

crescere, nonostante lui fosse morto. Arnobio è un autore molto tardo, ciò nonostante può avere attinto il racconto da fonti antichissime, per cui questa versione potrebbe essere quella originaria, quella cioè proveniente dalla Frigia, prima che subisse elaborazioni varie. Nella versione di Salustio, invece, ad innamorarsi di Attis fu la stessa Cibele, che vedendo lo coricato presso il fiume Gallos, lo volle presso di sè e, come prova del suo amore, gli donò un pileus coperto di stelle.

Fig. 1 6 - Attis si lascia convincere da Eros a seguire la Ninfa, personificazione del mondo deperibile. (Casa del gioielliere Pinario Ceriale - Pompei)

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Però un giorno accadde che il giovane si imbattesse in una Nimpha bellissima, dalla quale fu a tal punto incantato, che abbandonò il cielo in cui abitava con la Grande Madre e seguì la Nimpha sulla terra. Cibele, infuriata, lo fece impazzire e lui, in preda alla follia, corse sotto un pino dove si evirò e, lasciati i suoi genitali alla Nim­ pha, abbandonò la terra, risalì al cielo da dove era venuto, e riprese a vivere accanto alla Dèa Madre. Senza subbio quello di Attis, in tutte e due le versioni, è un mito strano, incomprensibile per noi, ma del quale gli esegeti del paganesimo tardo conoscevano il senso. Infatti il suo significato venne da essi valutato sia in chiave cosmogonica che propriamente iniziatica. Nella B asilica troviamo la figura di Attis al culmine della volta centrale, quasi fosse l ' acme di tutti i racconti misteri ci affidati agli stucchi che disseminano la volta. Satumino Salustio, nel llep i Oemvzai z6aJ10V52, spiega che Attis è il Gran Demiurgo della dimensione che ha in sè le polarità della nascita e della morte. Quanto al fiume Gallos, esso sarebbe l ' amma sso stellare della galassia, da cui proviene il corpo, soggetto alla distruzione (sia della terra che del firmamento). Quanto alla tiara di stelle, dono della Grande Madre, si riferirebbe al potere conferito dalla Dèa su tutte le potenze celesti. Il suo amore per la Nimpha indicherebbe la naturale propensione del Demiurgo verso il mondo degli esseri mortali. La Nimpha, simbolo dell ' elemento umido e delle cose che periscono, si contrappone ali ' elemento igneo e immortale della dimensione uranica. Ma, terminato il suo compito, il Demiurgo lascia le potenze della generazione (la Nimpha), e ristabilisce il giusto equilibrio. A questo punto, Salustio avverte che tutto questo non accadde in nessun tempo, ma avviene "sempre". Non è da escludere che in questa frase ci sia un richiamo al tutto "con­ temporaneo", del quale si avrebbe l 'esperienza durante l "'Epopteia", vale a dire nell ' attimo in cui l ' iniziato è ali ' acme dell ' esperienza misterica e riceve la visione "unitaria dal i ' alto". Possiamo perciò 57

intuire la ragione per cui, nella volta centrale della B asilica, le quat­ tro effigi di Attis sembrano ricoprire il ruolo di colonne portanti alla immagine del così detto Ganimede, sollevato in alto dalla figura alata di Eros. Spiega Salustio che ogni Anima è in qualche modo un Attis caduto dal cielo per essersi unito alla Nimpha, e per questo si trova in uno stato di prostrazione e dolore. Un simile concetto sembra attagliarsi perfettamente alle quattro imma­ gini dolenti dell ' Attis che vediamo nella B asilica. Qui, non viene celebrato l' Attis Creatore, Demiurgo e Signore degli astri, in tutto il suo trionfante splendore, ma il Dio sofferente, caduto nei quattro elementi sub-lunari, ma che è tuttavia in attesa del suo ritorno al mondo degli enti divini. Si potrebbe obiettare che Salustio visse parecchio tempo dopo la costruzione della Basilica, ma è probabile che simili concetti fossero già presenti nel primo e nel secondo secolo dopo Cristo. In quell'epoca infatti la visione spirituale delle classi più colte si fa più iniziatica, vale a dire che acquisisce elementi Orfico-Pitagorici nei quali gli Dèi non sono più separati gli uni dagli altri , ma costituiscono un qualcosa di unitario, che si esprime con molte forme e con molteplici nomi. Il che vuoi dire che, raggiunto il culmine della volta centrale,

Fig. 17

-

Eros rapisce Ganimede. (Volta della navata centrale)

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dobbiamo dimenticarci della suddivisione tra una divinità e l ' altra. Pitagorismo, Orfìsmo, Teurgia ed Ermetismo si mescolano e tendono a contemplare i miti e le forme divine in una prospettiva molto par­ ticolare, puntando l ' attenzione sulle costanti di un determinato mito e scorgendo, nelle sue varianti, i risvolti di un medesimo messaggio. In quest' ottica, non c ' è nè conflitto nè contraddizione tra la morte di Attis narrata nel racconto di Amobio ed in quella narrata da Salustio. Quindi, considerando anche la scena di Ganimede in questa prospet­ tiva, la figura che vediamo sollevata verso l ' alto da Eros è sì Gani­ mede, ma è anche l ' Anima che, al tocco meraviglioso di Attis, viene estratta dalla terra. Perché l ' Anima umana, a quel che dice Giuliano Imperatore, grazie all ' aiuto del Dio dei sette raggi, diviene ebbra e tramite questa ebbrezza ritrova la propria origine divina53• Ganimede è Attis , come lo sono anche Adone, Osiride e Dioniso. Ne consegue che la figura che tiene la grande fi accola nella mano sinistra è il simbolo della avvenuta iniziazione, mentre l ' aspersione del capo con il contenuto della brocca che tiene nella mano destra (purtroppo ora non più visibile) non può che alludere all'ambrosia, che ha la facoltà di rendere immortale chi è destinato ad ascendere al mondo degli dèi e diventare egli stesso un dio.

3.9 Le colpe dei Troiani

Andando avanti, oltre il punto centrale della volta, ritroviamo il ciclo eroico troiano. Infatti, nei due pannelli successivi, rivediamo Elena in compagnia di Ulisse, mentre nell ' altro un po ' più a sud, c ' è uno stucco in cui è raffigurato Eracle mentre libera Esione. Sia i personaggi maschili che quelli femminili di queste due formelle hanno a che vedere con le colpe della città di Troia. Infatti entrambi gli Eroi sono collegati alla distruzione della città. Esione era figlia di Laomedonte, l ' ingannatore, lo spergiuro che in 59

cambio della costruzione delle mura di Ilio, aveva promesso agli dèi i suoi meravigliosi cavalli. Allora Poseidone fece sorgere attorno alla città delle mura speciali, invalicabili per qualsiasi nemico. Quando però il Dio reclamò il compenso pattuito, Laomedonte si rifiutò di tener fede alla parola data. Poseidone, infuriato, fece sorgere dal mare un mostro orribile che prese a devastare tutto il territorio. Consul­ tato l ' oracolo di Apollo, questo disse che, per liberarsi di un simile flagello, era necessario esporre Esione, figlia del re spergiuro, sulla riva del mare in balia del mostro. Laomedonte, allora, promise di cedere i suoi celebri cavalli a chi fosse stato capace di liberare dal mostro la città ed Esione. Eracle, che era sempre in cerca di guadagni e avventure, attirato dal premio posto in palio, si recò subito a Troia dove trovò Esione eh�, abbigliata in maniera sontuosa, era già stata condotta sulla riva del mare per essere consegnata al mostro. Aiutato da Atena sua protettrice, Eracle uccise la creatura orribile e salvò così la città ed Esione. Ma Laomedonte, anche questa volta, non volle tener fede ai patti e allora Eracle, colto da uno dei suoi celebri furori, mise la città a ferro e fuoco. Questa fu la prima volta che Troia venne distrutta. Eracle, sempre più spietato, uccise tutti i figli maschi dello spergiuro, ad eccezione del più giovane, che si chiamava Priamo, e che fu salvo perché Esione donò ad Eracle il suo meraviglioso velo da sposa. Questo doveva avere delle proprietà magiche, perché a Roma faceva parte dei sette "Pignora Fatalia", vale a dire di quegli amuleti che con il loro potere rendevano invincibile l ' Urbe. Nello stucco, Eracle è ritratto con la consueta leontis sulle spalle, nell' atto di tendere l ' arco all ' indirizzo dell'essere mostruoso. Sulla destra, Esione è legata strettamente ad una roccia. Carcopino rileva che si tratta di un tipo frequente nelle raffigurazioni funebri che si trovano su sarcofagi pompeiani e gallo-romani e che, di conseguenza, rientra pienamente nella iconografia funeraria del ­ l ' età imperiale . Giustamente egli ritiene che tale immagine rappre­ senti l ' Anima salvata dalla morte. Tuttavia, nel nostro caso, non va 60

dimenticato che la scena è inserita in un percorso che ha carattere iniziatico, e non può quindi essere disgiunta dai significati delle altre immagini che le si abbinano e la precedono. Infatti, Carcopino rileva anche che Eracle fa parte dell' equipaggio della mitica nave Argo, nel quale predomina la figura di Orfeo. Va però anche tenuto conto del reiterato riferimento al mare, con tutto ciò che di simbolico si trova in esso e che quindi il mostro che noi vediamo nello stucco allude a quei "pericoli del mare" dei quali parla Virgilio nell ' Eneide, e che il mystes dovrà affrontare durante il suo percorso iniziatico. La particolare figura di Esione che, salvata da Eracle, dona a costui il suo velo nuziale per dar modo alla stirpe regale di Troia di continuare, ha una doppia valenza: salva, ma ha bisogno di essere salvata grazie al velo nuziale e al matrimonio con Telamone, compagno di Eracle e anche lui argonauta. C ' è chi distrugge e c ' è chi salva. Esione salvò con un matrimonio l ' ultimo erede della dinastia Troiana, e con un matrimonio Elena, invece, distrusse tutti i discendenti di colui che da Esione era stato salvato. In entrambe le raffigurazioni che nella Basilica ci parlano di lei , Elena è sempre ritratta in conversari con un qualche eroe: prima con Paride, ora con Odisseo.

3.10 Elena e il Palladio

Sia la figura maschile che quella femminile dello stucco sono rappre­ sentate con caratteristiche misteriose : la donna, che viene general­ mente identificata con Elena, è qui ritratta assisa su di un seggio, con un atteggiamento elegante e maestoso. Del tutto discinta nella parte superiore del corpo, ha quella inferiore velata da un tessuto, che le risale poi sulla spalla destra, con un movimento morbido e leggero. Tiene il gomito destro appoggiato a una colonnetta e, con l ' incavo 61

del braccio sinistro, regge il simulacro di una divinità femminile, che ha sul capo un elmo e brandisce uno scudo e una lancia. Di fronte a lei, c ' è un uomo nudo, con un unico drappo poggiato sulla gamba sinistra. Egli le sta davanti e tiene il piede sinistro posato sopra una sorta di cubo di pietra. La posizione in cui costui è effigiato ricorda quelle di Calcante e Pava Tarchies, così come sono rappresentati su alcuni specchi Etruschi. Semplice coincidenza? Per Carcopino, la nudità della figura maschile avrebbe un significato rituale. Secondo Madame Strong, citata da Carcopino, le due figure sarebbero quelle di Ifigenia e di Oreste, appena giunto nella Tauride. Guardando con attenzione il piccolo idolo, sembra trattarsi proprio del Palladio. Se così fosse, le scene delle due formelle potrebbero fare riferimento a due importanti "Pignora Fatalia" di Roma: il velo di Esione e il Palladio. Oppure anche questo è casuale? Ad ogni modo, l ' abbigliamento della donna qui riprodotto più che a una sacerdotessa di Artemide si addice ad Elena. Potremmo perciò riconoscere nella figura maschile Menelao che, dopo la presa di Troia, si precipita nel palazzo, spada in pugno, con l ' intenzione di uccidere la moglie fedifraga. Ma questa si denuda davanti a lui, mostrandole il seno, e allora Menelao, incantato da tanta bellezza, ci ripensa e la riprende con sè. Ma la presenza di Elena nella scena del Palladio confermerebbe che la figura maschile è proprio Ulisse. Infatti, nella stessa Odissea, si narra che Ulisse, travestito da schiavo, si presentò nella casa di Elena che lo riconobbe, gli fece il bagno e lo rivestì con vesti preziose. Dionigi di Alicarnasso sostiene che Ulisse si fosse introdotto nella città allo scopo di rubare proprio il Palladio, oppure un sua copia. In questo caso la scena assumerebbe un significato del tutto singolare, perché sia per Apollodoro che per Euripide (oltre che per alcuni sco­ liasti Latini) la Elena sposa di Paride non sarebbe stata che una copia della vera Elena figlia di Zeus54• La scena lascerebbe intendere l ' idea dell ' inganno, perché il Palladio che Elena regge non sarebbe quello 62

vero, così come Elena che noi vediamo assisa, in atteggiamento regale davanti a colui che supponiamo Ulisse, non sarebbe la vera Elena. La presenza del Palladio, allora, potrebbe avere due significati : il primo presuppone che la scena voluta dai costruttori della B asilica si riferisca ad una versione del mito a loro nota e che a noi è scono­ sciuta. Il secondo che questa sia una metafora, sul tipo di quella che Giamblico utilizza per raccomandare ai suoi lettori di non lasciarsi fuorviare da certi rituali magici, con i quali vengono evocate non vere e proprie divinità, ma ingannevoli fantasmi. Nel nostro caso, sempre che si tratti di Elena e di Ulisse, essi potreb­ bero personificare l ' idea dell ' illusione e dell ' inganno. Ulisse discende infatti da Autolico, che a sua volta discende da Hermes , divinità potente, ma anche principio universale dell ' astuzia e dell ' inganno. Elena, ipostasi di Nemesi, personificherebbe la conseguenza della illusione medesima. Talvolta, infatti, sembra rivestire lo stesso ruolo delle Sirene, che è quello di servirsi della voce e delle parole per tra­ scinare chi le ascolta alla morte e alla rovina. Così, infatti, la vediamo agire, attorno al cavallo fatale, dono degli Achei: far si che ognuno di loro oda le voci delle proprie spose, il richiamo del focolare lontano. Elena, proprio come le Sirene, ha la facoltà di scendere nel cuore di coloro che si sentono in pericolo e si disperano, facendo loro credere che in lei, e solamente in lei, verrà appagato il desiderio massimo che alberga nel loro cuore. Se, come dice Dionigi di Alicamasso, quella che volle per se Paride non è la vera Elena, ne consegue che colui che la ama, non ama la vera figlia di Zeus, ma un ' illusione micidiale.

3.1 l l Pigmei e l 'indisciplina

Con questi due pannelli, ha termine il grande ciclo mitologico incentrato sulle epopee eroiche. Nella parte terminale della volta, è presente un ampio rettangolo centrale, entro il quale il soggetto non è 63

distinguibile ma, di faccia a questo, troviamo due riquadri posti l ' uno di fronte all ' altro, anche questi di forma rettangolare, sui quali sono raffigurati, da un lato, una danza orgiastica (che sembra essere di tipo dionisiaco) e dall' altro una scena campestre che ha per protagonista l ' enigmatico popolo dei Pigmei. Secondo il racconto di Marziano Capella, citato dal Carcopino, il popolo dei Pigmei fu, a motivo della sua insolenza, condannato a vivere in continua lotta con le gru. Carcopino ritiene che queste figure grottesche servano a ricordare l ' indisciplina e il disordine morale uniti alla megalomania. Essi, quindi, sarebbero il riflesso interiore di tutti coloro che non hanno saputo trovare in se stessi una disciplina per la loro anima. Va tuttavia ricordato che intorno al II e III sec. d.C. ci fu il riaffiorare di antichissimi culti misterici, che sembrano aver preceduto quelli dionisiaco-eleusini. Si tratta di forme e motivi iniziatici che si crede provenissero dalle antichissime genti pelasgiche. In questo caso, la presenza dei Pigmei in una delle tavole conclusive della volta centrale avrebbe un significato tutt' altro che semplice. Racconta Erodoto che Cambise, impadronitosi dell ' Egitto, volle penetrare nel santuario di Efesto e, vedendo il simulacro del dio, lo schernì perché aveva le fattezze di un Pigmeo. Dopo ciò, egli decise di introdursi anche nel santuario dei Cabiri, dove era lecito entrare solo ai sacerdoti. Ma anche qui si trovò di fronte a delle statue cul­ tuali simili a quelle di Efesto e gli fu spiegato che i Cabiri sono per l ' appunto figli di questo dio55• In una iscrizione rinvenuta nella sacra isola di Imbros, uno dei centri misterici del culto Cabirico, assieme ai nomi dei grandi Titani pare siano menzionati anche i Pataiki , cioè i Pigmei. Secondo Karolyi Kereni , invece, ciò non sarebbe stato possibile se ai Cabiri non si fossero attribuiti , nello stesso tempo, caratteri titanici e caratteri di nani56• Del resto anche lo stesso Carcopino non esclude che, nei due giovani che lottano nudi nella parete nord, si possano riconoscere due Cabiri . Egli è in dubbio se identificarli come tali, oppure vedere in 64

essi una ulteriore raffigurazione dei Dioscuri. Per lo studioso francese il fatto che questi non indossino il pileus , potrebbe far protendere per la prima interpretazione, tuttavia non va dimenticato che i Dioscuri, proprio a motivo del pileus e tenendo conto della tradizione Romana (come assicura Varrone), sono essi stessi considerati "Grandi Dèi", vale a dire Cabiri. Tornando alla scena dei Pigmei della volta centrale, rileviamo come la stessa sia sorprendentemente simile ad una raffigurazione su un dipinto vascolare del Kabirion di Tebe. In questa sono presenti uccelli palustri dalle lunghe gambe come : cicogne, aironi , e gru . Queste ultime appaiono in lotta con l ' enigmatico popolo dei Pigmei. Ma le immagini più indicative si trovano dipinte su dei cocci, divenuti celebri. Su di uno di questi, si scorge la figura di un dio che sembra essere un Dioniso di tipo arcaico, troneggiante e severo. Il suo nome, scritto in alto al di sopra del capo, è Kabiros: con la mano destra sor­ regge un kantaros e tiene lo sguardo fi sso su un giovane di aspetto efebico, al di sopra del quale è scritto "Pais, cioè Figlio". Costui attinge, con atteggiamento solenne, del vino da un grande cratere. Poco più avanti si vede un essere grottesco, di aspetto alquanto primordiale. Il Kerenyi lo interpreta come il primo uomo, ma l ' atteggiamento con cui è ritratto comunica un ' idea di timore e disagio, probabilmente dovuta alla consapevolezza della sua inerme nudità. La scena si conclude con una coppia, costituita da un uomo e una donna entrambi bellissimi, anche se di aspetto primordiale, che sembrano essere sul punto di baciarsi. Protolaos, questo è il nome dell 'essere indifeso, vuole pro­ babilmente personificare la fragilità dell' uomo appena creato. Su di un altro frammento vascolare, sempre del Kabirion di Tebe, vengono presentati proprio i Pigmei, nella loro eterna lotta contro le gru. Rozzi e ridicoli, essi si battono contro esseri alati che vivono tra le canne di una regione palustre. Talvolta i Pigmei sembrano vincere e uccidono le gru per cibarsene, ma spesso cadono uccisi e divorati da queste. Secondo il Kerenyi , la scena si riferirebbe alle prove a 65

cui vengono sottoposti gli iniziandi, durante le quali, dapprincipio, sembrano soccombere, ma poi raggiungerebbero la loro meta spiri­ tuale. In questa ottica i Pigmei sarebbero le anime degli iniziati, che, ancora imperfette (l ' aspetto grottesco e deforme) , verrebbero sotto­ poste a delle prove in grado di metterli in una situazione di tormento e derisione57• Un ' ulteriore ipotesi potrebbe far scorgere nei Pigmei le anime empie, e nelle gru una sorta di guardiani della soglia che cercano di ricacciare queste nel loro mondo sotterraneo. Secondo il mito, il popolo dei Pigmei vivrebbe oltre che sulle rive dell ' Oceano, anche in luoghi sotterranei, come del resto gli Hefastoi, altro nome che viene dato ai Cabiri che, nella letteratura antica, sono sempre collocati al confine di realtà antitetiche. Essi infatti ci appaiono tal­ volta empi , altre volte pii, alcune come Nani, altre volte come Titani; in certi casi nemici e in altri salvatori del genere umano. Dagli Autori latini apprendiamo del risorgere in epoca tarda di questi antichi misteri , che sembrano essere alle spalle di quelli Eleusini. Non per niente la figura femminile sul coccio del Kabirion di Tebe, porta il nome Krateia, cioè la Forte, che è l ' appellativo di Demetra. Con tale nome la dèa viene celebrata nel momento culminante del rito, quando lo Ierofante, nel Telesterion di Eleusi, mostra agli iniziati la mistica spiga e proclama "Colei che è Signora, la Forte ha generato il Forte" anche se in questo caso viene usato il termine "Brimo"58•

3. 12 Altri stucchi della navata centrale

Nel lato opposto sembra essere effigiato un thiasos danzante, con una donna che, inginocchiata, esegue con una tibia un aria frigia. Tra le due scene c ' è un altro riquadro, sul tipo dei due che si trovano nella zona centrale della volta. Purtroppo la scena che gli stucchi dovevano rappresentare è andata completamente distrutta. Però le immagini di Arimaspi e Grifoni, poste agli angoli estremi della volta, ci rammentano 66

la dimensione apollinea e si pongono in posizione assolutamente sim­ metrica rispetto agli altri Grifoni e Arimaspi posti negli altri due angoli della volta. Come a dire che questo mistico percorso viene sigillato nei due punti terminali della volta, ricordandoci l ' eterno contendere di mitici esseri favolosi che, incessantemente, lottano fra loro, i primi per difendere, gli altri per impadronirsi dell ' oro di Apollo. Per quel che riguarda gli stucchi al di fuori delle pareti e dei pilastri, ne vanno considerati specialmente due che ornano le facciate di un pilastro della navata centrale. Su quello di destra troviamo ancora la presenza di Eracle; su quello di sinistra abbiamo quella di Trittolemo. Eracle è ritratto mentre porta a conclusione la sua penultima fatica (l ' unica delle dodici ad essere ricordata nella B asilica) , nella quale riceve, da una delle Esperidi, i frutti meravigliosi di un albero divino. Nell ' altro lato del pilastro troviamo l 'eroe eleusino Trittolemo ritratto nel momento in cui riceve le sacre spighe da Demetra. La scelta fatta da coloro che vollero la B asilica non può essere senza significato, perché entrambi i personaggi sono legati a due divinità potenti. L'uno, dopo essersi nutrito del latte della sposa del re degli Dèi, muta il pro­ prio nome di essere mortale (Alcide) in quello di Eracles, che vuol dire "Gloria di Era". L' altro, paredro e figlio adottivo della Grande Dèa dei Misteri, è colui che propaga tra gli uomini il simbolo della iniziazione eleusina.

3.13 L'undicesima fatica di Eracle

Se fra le dodici fatiche è stata scelta l ' undicesima, vuol dire che in essa è stato individuato il contenuto maggiormente misteriosofico. L' Eroe deve impadronirsi dei frutti dell' albero con il quale la Madre Terra sancì il matrimonio tra Zeus ed Era. Questo cresce in un giardino misterioso, collocato al di là di qualsiasi luogo conosciuto. Per sapere quale sia il percorso per giungervi, Eracle deve costringere Nereo 67

a rivelargl ielo. Nereo è un antico dio marino, che ha la facoltà di mutarsi in qualsiasi forma ed elemento del mondo naturale. Assieme a questa, egli possiede un ' altra facoltà: quella di conoscere il futuro e ogni altra cosa che ai mortali è celata. Allora Eracle si reca dalla antica divinità e, resistendo a tutte le trasformazioni, lo costringe ad assecondarlo, facendosi dire come raggi ungere l ' ignoto e lontano paese delle Esperidi. Da un frammento di Eschilo, apprendiamo che l ' Eroe ottenne dal vecchio dio l ' unico mezzo con il quale raggiungere le correnti di Okean6s ed approdare in quel luogo lontanissimo: la coppa d ' oro con la quale il Sole raggiunge i prati di Ambrosia, dove rigenera se stesso e i suoi cavalli si riposano59• Lì giunto, Eracle si trova davanti Ladone, il serpente figlio di Echidna, un terrificante essere primordiale. Il rettile aveva la prerogativa di can­ tare dolcemente e di non addormentarsi mai. In alcuni dipinti vascolari esso è raffigurato mentre, attorno al tronco dell ' albero, protende la testa verso le Esperidi che accompagnano, con il suono del flauto, il canto meraviglioso del serpente. In alcune versioni si racconta che Erac le Io abbia ucciso, mentre in altre si dice che, con dei filtri magici, Io abbia sol amente addormentato. La conclusione univoca però, è che

Fig. 1 8 Eracle e le Esperidi - Dipinto vascolare del pittore Astea. L' Eroe poggia il piede destro su una pietra squadrata, mentre attende di ricevere le mele d'oro. -

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l ' Eroe sia riuscito a portare a termine la sua impresa e abbia ottenuto i frutti d' oro dell' albero degli dei. Il fatto avrebbe a tal punto intimorito Euristeo, che egli non volle accettarli. Allora Eracle li consegnò ad Atena che li avrebbe restituiti alle Esperidi che ripresero a custodirli nel magico giardino. Questo bel mito, scelto dagli adepti dei culti della Basilica, presenta notevoli allusioni a molteplici tematiche di carattere iniziatico. Prima fra tutte la lotta con un essere ultraterreno e la capacità di costringerlo a fare qualcosa che esso rifiuta di fare. Ritroviamo questa tematica nelle leggende della Roma arcaica, ed esattamente nell 'episodio in cui re Numa, dopo avere imprigionato gli Dèi campestri Fauno e Pico, li obbliga ad evocare Giove Elicio ed ottiene la "Pax Deo­ rum" assieme all ' Ancile, uno dei sacri "pignora fatalia". Ugualmente Menelao costringe Proteo a rivelargli il futuro, così come Giacobbe impone all ' Angelo di dargli la sua benedizione. È evidente che tutte queste storie sono l ' espressione figurata di una lotta condotta dal l ' iniziato per accedere a una determinata dimen­ sione interiore . Va aggiunto anche che , nella mede sima fatica,

Fig. 1 9 - Giardino delle Esperidi. Vaso Attico a figure rosse - IV sec.a.C. Museo Archeologico di Napoli.

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Eracle deve sottoporsi alla prova dell' astuzia, in cui dovrà liberarsi dal "peso" del cielo stellato. Anche in questo caso egli ha a che fare con una divinità primordiale, la cui mansione è quella di sorreggere sulle sue spalle il peso del cielo. Perché Atlante è, in effetti, l ' Axis Mundi , attorno al cui capo ruota tutto il firmamento. Anzi sembra essere l ' albero dal quale si dirama l ' intera creazione. Quanto ad Eracle, sia pure per breve tempo, dovrà prendeme il posto, dovrà essere ciò che eternamente è Atlante: una ipostasi di Uranos, vale a dire quella entità divina che personifica l ' immensità degli abissi stellari. Nel l ' ottica dei sistemi Orfici, i miti sono traslazioni di esperienze mistiche inenarrabili. Per gli Orfeo-Telesti, Eracle è uno degli allievi di Orfeo, come si apprende da un passo di Alcimedonte60• Ben note sono le lamine di Turi, nelle quali l ' iniziato proclama di essere figlio della Terra e del Cielo Stellato. Solo dopo questa prova ed esperienza, il figlio di Alcmena può final­ mente raggiungere l ' enigmatica Eritia, l ' isola rossa, sulla quale fio­ risce il giardino delle Esperidi e cresce l ' albero della vita. Vi arriva viaggiando nell a coppa del S ole data a lui da Nereo , padre delle Nereidi che, come ci tramanda l ' inno orfico, trasmisero agli uomini i Misteri di Dioniso e di Persefone61 • Non è allora da escludere che l ' isola rossa sia proprio Nisa, l ' isola di porpora del figlio di Semele, da identificarsi anche con i Campi Elisi descritti da Aristofane, ai quali giungono gli iniziati, dove danzano nella prateria di rose rosse. E rossa è, per Virgilio, la luce che illumina i giardini dove dimorano le anime dei Beati, che gioiscono ascoltando il suono ineffabile che Orfeo trae dalla sua arpa divina. Quanto a Ladone, non sempre viene considerato un mostro terribile. Infatti , in un dipinto vascolare del pittore Astea, il giardino appare popolato da un nugolo di Numi. L' Oceanina Calipso nutre il serpente alzando verso di lui una patera ed Eracle lo contempla con religioso rispetto. L' Eroe poggia il piede destro sopra una grossa pietra qua­ drangolare, in maniera simile a come vengono ritratti, sugli specchi 70

Etruschi, coloro che si accingono a vaticinare. Al centro della scena i frutti d' oro dell' albero rifulgono di un magico splendore. In un simile contesto, il significato delle mele acquisisce una valenza oracolare, quasi che nella loro immagine sia riposta l ' idea di una sapienza arcana a cui gli iniziati possono attingere. Quella sapienza che, strappata agli dèi e alla misteriosa Eritia, alla fine ritorna al luogo in cui è stata rubata, come avvenne per i frutti dell ' albero dell ' isola divina. In un passo dell ' inno Alla Madre degli Dèi, Giuliano Imperatore dice che, nel periodo in cui cadono le festività dedicate alla Dèa, non è lecito nutrirsi dei frutti dorati degli alberi , perché questi simboleg­ giano il premio della segreta iniziazione ai misteri e meritano rispetto e venerazione, a motivo dei loro originari archetipi62•

3.14 Trittolemo

Sull 'altro lato del pilastro si trova Trittolemo. Così come Eracle, anche Trittolemo è legato a una potente divinità femminile. Con Trittolemo entriamo più che mai nel mondo della mistriosofia antica. Egli, come Eracle, appare civilizzatore e moderatore dei costumi e nessuno, più di Trittolemo, fa parte del meraviglioso mistero della religione della Terra. Il nome stesso dell ' Eroe si modella sul verbo "Tribo" che vuol dire trebbiare, e questo suggerisce subito l ' idea della semina e del raccolto del grano. Ma ciò che più interessa è il fatto che si tratta del personaggio chiave della leggenda Eleusina. Nel celebre Inno Omerico a Demetra, egli è presentato come uno dei principi della città di Eleusi a cui la Dèa trasmette i suoi sacri misteri. Secondo il racconto di Apollodoro, invece, egli è un mandriano, figlio di Celeo, che ebbe la capacità di riconoscere Demetra anche sotto le spoglie di una comune mortale. L' eroe era stato testimone del rapimento di Persefone e, quindi, fu in grado di raccontare alla Dèa che la fanciulla divina era stata trascinata da Aidoneus nel suo regno 71

sotterraneo. L' episodio ci fa capire che, in Trittolemo, possiamo rav­ visare uno di quegli esseri capaci di riconoscere gli dèi dietro le loro maschere e scorgere ciò che avviene nella dimensione dell ' invisibile. Quindi, anche in questo caso, sono presenti le stesse facoltà oracolari , delle quali è provvisto anche Ercole. Sia a Tivoli che ad Ostia, infatti , i templi dedicati a Ercole sono per l ' appunto templi oracolari. Questo ci fa supporre che, fra le tante cose che caratterizzavano la Basilica, vi fosse anche l ' arte oracolare. A seguito del riconoscimento, la Dèa fece dono a Trittolemo delle sacre messi e di un cocchio che, come quello di lei, era trainato da due serpenti . Sempre nella medesima versione, Trittolemo è detto fratello di Eumolpo e Demofonte. Eumolpo sarà capostipite degli Eumolpidi , vale a dire della stirpe sacra degli Ierofanti di Eleusi. Demofonte spesso verrà fuso e confuso con lo stesso Trittolemo. Sia Eracle che Trittolemo, entrambi effigiati sulle due facce del medesimo pilastro, hanno in comune il fatto di essere stati cullati e nutriti da delle Dèe. Fu, in effetti, come se fossero prima morti e poi rinati , con una nuova natura e in una nuova dimensione. Nella versione di Apollodoro, a morire è il piccolo Demofonte, mentre colui che riceve da Demetra l' iniziazione è Trittolemo. Questa parte del racconto poteva essere un punto di riferimento per chi , essendo stato iniziato a misteri, aveva subìto il rituale cambiamento del nome. Ma per quel che ci riguarda la cosa più interessante è che, secondo Pausania6\ Trittolemo sarebbe figlio di Orfeo, ossia un suo alter-ego. In effetti Demetra, prima di mandare Trittolemo per il mondo a spar­ gere le sacre sementi , gli trasmette l ' essenza delle sue leggi. L' impor­ tanza del rito eleusino, contemplato in chiave Ortica nella Basilica di Porta Maggiore, viene messo in luce dall ' immagine di una figura femminile che, su di una delle pareti della navata centrale, è ritratta con due fi accole ardenti tra le mani. Generalmente è interpretata come Ecate, anch 'essa importantissima nel mito eleusino, ma non è da escludere possa essere identificata come Demetra stessa. Infatti 72

nell ' Inno omerico è detto che la dèa, mentre è alla ricerca della figlia, illumina il suo cammino servendosi di due fiaccole. Che simili immagini poetiche vadano viste in chiave orfica, ce lo fa capire anche Pausania, nel momento in cui afferma che l ' Inno omerico a Demetra fu composto da Museo figlio di Orfeo. Contemplare i miti e i riti in chiave orfica, significa comprendere che si tratta di verità divine delle quali il mondo sensibile è allegoria. Lo stesso simbolo sacro della spiga poteva essere comunicato solamente in modo simbolico. Essa veniva mietuta in silenzio e poi mostrata, mentre in alternanza si manifestavano tenebra e luce64• A quel punto gli iniziati proclama­ vano la nascita del sacro fanciullo "Brimos". Ippolito Romano, nelle sue Confutazioni, ci dice che per gli Eleusini l ' astensione della spiga era un ' allusione al "mistero grande", mera­ viglioso e perfettissimo, da contemplare in silenzio "Perché questa spiga è l ' astro grande e perfetto che proviene dall' uomo senza figura che, come lo Ierofante di Eleusi di notte e tra molti fuochi, grida la nascita del divino fanciullo"65• Nascita oppure rinascita, potremmo chiederci. Certo è che il nome Trittolemo proviene dal verbo trebbiare, come già dicemmo, e quindi richiama la separazione del frumento dalla paglia; ma vuole anche dire triturare, macinare, smembrare. Di modo che, in Trittolemo, potremmo riconoscere l ' essenza della stessa spiga e la sua personi­ ficazione. Giocando col termine greco che indica la spiga, "I1u p6ç", ci accorgiamo che è identico al genitivo di "Ilup" , che vuoi dire fuoco. Così che il significato sarebbe "del fuoco" oppure "nato dal fuoco", e allora ci troveremmo davanti a un appellativo di un essere divino, anzi l ' essere divino per eccellenza, cioè Dioniso, del quale uno degli appellativi più significativi è "Pyrigenétes", che vuoi pro­ prio dire "nato dal fuoco".

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3.15 11 Volumen

A ridosso degli ultimi pilastri della navata centrale, ci sono le figure di due donne, una delle quali ha un timpano nelle mani. Più in basso vi sono degli stucchi che rappresentano torce, crateri, siringhe e flauti, vale a dire tutto l ' armamentario di un corteo dionisiaco. Per quanto riguarda le due figure femminili, Carcopino ritiene che si tratti di Muse o di B accanti, ma è nel versante estremo della navata, dalla parte dell' atrio, che le figure celebrano inequivocabilmente i misteri dionisiaci. Nella curvatura del muro ovest, al terzo pannello verso l ' entrata, si vede un personaggio femminile che, stando seduto, tiene gli occhi fissi su un rotolo svolto. Una scena analoga la si trova anche nei pressi dell ' abside. In questa, una ragazza, con un rotolo di papiro tra le mani, si avvicina a una matrona, anche questa seduta, che legge qualcosa scritto in un volumen. È ovvio che, sia nella prima che nella seconda, siano rappresentati i momenti prolusivi di una iniziazione misterica. Di questo è convinto anche lo stesso Carcopino e, certamente non a torto, ne rileva la somiglianza con quelli della Villa dei Misteri a Pompei. Ma in quelli della B asilica, a differenza di quelli di Pompei , manca del tutto l ' elemento maschile. Q u i abbiamo una esclusiva presenza di donne : la matrona assisa sul suo seggio, la bambina, una Baccante armata del sacro tirso e un ' altra donna, intenta a svolgere un suo volumen. È noto che dopo gli incresciosi episodi del boschetto di Stimula, l ' assetto e i programmi delle confraternite dionisiache furono sotto­ posti a una severa disciplina. È così probabile che, come avveniva ad Alessandria al tempo di Tolomeo IV Filopatore, anche nelle città italiche ci fosse l ' obbligo di rendere noti i nomi dei componenti il Thiasos e la tradizione a cui questo faceva capo. L'episodio di Stimula, narrato da Tito Livio, risale al 1 86 a.C. ma la sua ombra continuò a pesare sui Thiasoi anche molte generazioni dopo. 74

Protagonista degli avvenimenti è la liberta !spala Fecenia. Costei, a un dato momento, denunciò al pretore e al Senato di Roma quel che accadeva nel corso di riti notturni nella conventicola dionisiaca a cui apparteneva. Accusò gli adepti di darsi a pratiche scandalose e di aver tentato di impadronirsi dei beni di alcuni ricchi personaggi che si erano lasciati irretire dai capi del Thiasos. Inoltre li accusò di avere perpetrato omicidi rituali66• Ci fu un' inchiesta severissima e, per tutta Roma, esplose un clima di terrore. Il thiasos in questione fu sciolto, e molti dei suoi adepti ven­ nero condannati a morte o imprigionati. A quanto raccontava !spala, i riti notturni si tenevano in un boschetto dell ' Aventino, intorno al quale erano sorte diverse ville e domus patrizie. In ciò si può trovare una analogia con la posizione nella quale si trovava la B asilica al momento della persecuzione. Anch 'essa era stata costruita tra par­ chi e giardini, attorno ai quali sorgevano ricche abitazioni. Dai dati archeologici risulta che la B asilica fu chiusa e depredata in maniera sistematica immediatamente dopo la sua costruzione e non si può escludere che i suoi frequentatori siano stati spietatamente persegui­ tati, nello stesso modo in cui lo furono quelli del boschetto di Stimula. È anche possibile che ciò sia avvenuto perché le autorità costituite paventassero che, nella conventicola di Porta Maggiore, vi fosse un riemergere di quel tipo di tradizione e di dottrina che, secoli prima, aveva imperversato nella Roma "bene". Dal racconto che fece la liberta e cortigiana !spala Fecenia sembra che, inizialmente, il thiasos di Stimula fosse frequentato da donne e solamente in seguito vi si siano aggiunti anche degli uomini. Ciò ci riporta alle raffigurazioni della Basilica, nella quale la preparazione ai riti di iniziazione sembra essere stata appannaggio esclusivo dell' elemento femminile.

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3.16 11 Fanciullo e la Pelle

Generalmente i motivi che caratterizzano le immagini delle inizia­ zioni dionisiache sono contrassegnati dalla presenza di un fanciullo. Questo lo si può notare in una particolare decorazione della Farnesina a soggetto dionisiaco, dove è raffigurata una donna che tiene sulle ginocchia un bambino. Anche in una villa Pompeiana, dove sono rappresentate le sequenze di una telete dionisiaca, osserviamo la presenza di un fanciullo, ritratto nel l ' atto di leggere un misterioso testo scritto su un volumen. È possibile che si trattasse della lettura semi-cantata di uno degli Inni orfici, considerati di grande importanza nelle liturgie dionisiache della età ellenistica. Nel caso della Basilica, invece, a leggere sono la matrona seduta sul seggio e la donna che sta alla sua destra e che le si avvicina con il rotolo in mano. Che si tratti di una iniziazione ai misteri di Bacco ce lo suggerisce il tirso, che la donna che si avvicina tiene in mano. La presenza della ragaz­ zina, invece, ci pone davanti a un interrogativo di non facile rispo­ sta. Forse personifica l ' Anima che, ancora acerba, si affida alle cure di altre Anime divenute più mature e realizzatesi grazie alla già avvenuta iniziazione. Ma è assai più probabile che si tratti di una fanc iulla reale, fornita di facoltà medianiche che, con Fig. 2 0 - Lettura d i u n testo sacro. Villa dei Misteri - Pompei I sec. d.C. l ' aiuto di "Carmina" magici -

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cantilenati, entrasse in uno stato di possessione. Cosa che è molto probabile accadesse durante la celebrazione dei misteri, a quel che racconta Ispala: "Quasi con la mente smarrita, col corpo scosso da movimenti frenetici, gli uomini pronunciano parole profetiche, le donne, acconciate da Baccanti, coi capelli sparsi, corrono al Tevere per immergervi delle fiaccole che ritirano dali' acqua ancora che fiam­ meggiano"67. Non è da escludere che qualcosa di simile avvenisse anche nella Basilica, entro la quale pare vi fosse la presenza di una qualche vasca o bacino, che pare avesse una parte rilevante nella liturgia. Quelli che si svolgevano nella Basilica è probabile fossero riti eclet­ tici, ma a sfondo dionisiaco. Ad ulteriore conferma di ciò, in fondo alla navata centrale, proprio a ridosso dell ' abside, c ' è la traccia di una cathedra, che doveva avere l ' aspetto solenne di un trono. Per Carcopino si tratterebbe del seggio sul quale sedeva colui che era considerato il personaggio più venerabile della confraternita. Da qui egli avrebbe seguito le liturgie che venivano celebrate nel santuario. Tuttavia non va dimenticato ciò che ci dice Esichio, proprio a pro­ posito del trono, presente durante il rito di iniziazione : "Attorno a questo" egli racconta" si celebrava l ' intronizzazione di colui che era contemplato in assoluto come il "Re''68• Su di un cratere attico del museo di Copenaghen, è raffigurata una scena liturgica, nella quale è ritratto un personaggio del tipo "Dioniso Barbuto" che, seduto su una specie di trono, tiene nella mano sinistra un thirso e nella destra un cantaro. Davanti a lui, una donna alza le mani in atto di preghiera e, in un frammento orfico, del quale ci è pervenuto solamente il titolo, si parla espressamente di una Thronismai bacchica, a cui presiedeva la Grande Madre degli Dèi69. Inoltre, da quanto apprendiamo da un passo di Platone, sembra che attorno al trono, nel corso della cerimonia della intronizzazione, venisse eseguita una danza sacra "È come nelle iniziazioni compiute dai Coribanti , quando intronizzano colui che deve essere iniziato. Anche lì ci sono 77

danze e giochi . . . "70• Queste parole possono gettare un poco di luce sulle scene di gare ginniche e dei giocolieri che vediamo sulla volta della navata centrale. A quel che dice Platone, il seggio presente nel luogo non è lì per servire da trono al sommo Ierofante, bensì per il Mystes che sta ricevendo l ' iniziazione. H. Jeannmaire sottolinea l ' importanza di alcune scene incise su di una pisside del periodo tardo. Su questa è raffigurato Dioniso appena nato, che viene posto su di un trono. Ai lati , due Coribanti eseguono una danza armata e una figura femminile solleva verso il bambino uno specchio, al quale Dioniso rivolge tutta la sua attenzione, contemplando la propria immagine riflessa. Qui siamo all' acme dell' Orfi smo dionisiaco, che celebra la nascita dell' ultimo Re dell'universo e il suo "diasparagm6s", grazie al quale ha inizio la nascita del mondo. H. Jeannmaire ritiene che in questo momento liturgico, con il quale si dava principio ai misteri , vi fosse la presenza di un bambino, che veniva adagiato sul trono come fosse una culla. Questo era il momento nel quale andava evocata la morte e la resurrezione di un Dio Fan­ ciullo, per il quale la morte non è morte, ma transustanziazione della

Fig. 21 - Dionisio viene intronizzato - Rilievo da una pisside d' avorio. Museo Civico Archeologico di Bologna.

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sua essenza divina in tutto quel che verrà a esistere. Secondo il Kerenyi, durante il rito, il sacrificio del bambino si ese­ guiva servendosi di una vittima sostitutiva71 • In realtà nel corso degli scavi, sono venute alla luce, in una cavità al fondo dell' abside, gli scheletri di un cane e di un porcellino. Un altro scheletro, sempre di porcellino, è stato rinvenuto nei pressi dell ' atrio. Secondo Carcopino, questo deve essere stato trascinato fin lì dall' acqua che lo ha strappato a un altare posto all ' entrata della navata centrale. Sembra che questo altare avesse la forma di una pelle di animale get­ tata al suolo71 • Non è quindi da escludere che, se effettivamente vi fosse stata un ' ara confezionata in questa forma, si fosse voluto alludere al "passaggio nella pelle" di coloro che venivano iniziati . Non è detto alla pelle di quale animale si riferisse l ' altare della B asilica, ma le pelli ferine, che gli iniziati ai vari culti indossavano, erano svariate. Dal "Dios Kodion", vello di pecora del culto eleusino, a quelle di capra, cervo e pantera di quello dionisiaco. Nell ' Egitto antico, la cerimonia veniva chiamata "meskent", ed era considerata come una palingenesi dell' iniziato, a sua volta assimilato a Osiride: "Io ti saluto: ecco la pelle, ove il tuo divino Ka rinnova la sua vita" ; in un'altra allocuzione, l ' animale sacrificato sembra dovesse essere un asino, in quanto collegato al dio Set "Si sono fatti per te i proficui riti e il buon avvolgimento nella pelle di Set tuo avversa­ rio . . . ' m . Tutto questo rimanda alla paradossale vicenda dell 'Asino d 'Oro, dietro la quale Apuleio ci narra la sua vicenda di iniziato ai misteri di Iside e Osiride che, in epoca tarda, fu omologato a Dioniso. Non a caso i sacerdoti Egizi e le Baccanti hanno per contrassegno le pelli di capra, di cervo o di pantera. Sembra dunque scontato che la "Thronesis" del mystes dovesse rical­ care l ' iter iniziatico di Dioniso che, appena intronizzato, secondo la dottrina Orfica, viene proclamato Re dell ' ultimo ciclo universale e, contemplando la propria immagine riflessa, la segue trasformando se stesso nell' universo intero. 79

3.17 L' Uomo

e

Priapo

Dali ' atrio ai muri della navata centrale, si susseguono dei paesaggi stilizzati che, per Carcopino, richiamano l ' idea della morte e dell 'ol­ tretomba. Sono raffigurazioni di giardini e santuari ali ' aperto, nei quali si scorgono drizzarsi dal suolo colonne e portici, alberi contorti, recinti sacri, oscilla e betyli, sormontati da oggetti simili a timpani ovali o uova giganti. In quest' ultimo caso, il riferimento all ' Orfismo sarebbe lampante, perché in esso l ' uovo è espressione del ritorno alle origini e quindi si adatta assai bene alla tematica funeraria che con­ traddistingue le figure della parete sud della navata centrale. Ma per gli Orfeo-Telesti, l ' uovo è anche l ' involucro che custodisce l ' essere meraviglioso che Orfeo chiamò Fanes, a motivo del suo splendore74 e che per Malais è l ' essere di luce che squarciò le tenebre primordialF5 . Citando un frammento Orfico, Macrobio ci dice che per Orfeo, Fanes e Dioniso sono una medesima cosa76• Infatti ai piedi dei recinti sacri , rappresentati sulla parete, giacciono ceste, cimbali, flauti a doppia canna e tirsi, che sembrano essere stati abbandonati dopo la celebra­ zione di un qualche rito. Non lontano da questi si scorge un ' erma di Priapo ltifallico, confic­ cata nel terreno accanto a delle tombe. In effetti si tratta di un tipo di paesaggio che si ripete abbastanza di frequente nelle scene di iniziazione dionisiaca del periodo tardo. Lo vediamo sullo sfondo di uno dei cubicola della Villa dei Misteri ed anche nelle raffigurazioni dei dipinti della Farnesina. Su di una lastra marmorea di Palazzo dei Conservatori a Roma, in una scena di inziazione ai misteri bacchici, si vede una donna seduta fissare una maschera. Di fronte a lei c ' è un piccolo tempio, che potrebbe essere anche un cenotafio, alle cui spalle un personaggio nudo bacia la testa di un ' erma. Nel registro superiore, preceduti da un dadoforo, un uomo e una donna, con le mani incrociate sul ventre, le tengono dietro. Alle spalle di questi , un ' erma i ti fallica, che probabilmente 80

rappresenta Priapo, è girata dalla parte opposta al luogo verso cui i componenti del gruppo stanno andando. Il tutto avviene in una grotta, dentro la quale cresce un albero. Come si può notare, si tratta di un tipo di paesaggio assai simile a quelli effigiati nella B asilica. Anche nella Villa dei Misteri, nel cubiculum della Domina, un uomo e forse una donna, entrambi nudi, presentano un fallo posto su di un vassoio a un personaggio assiso su di un seggio, posto a ridosso di una roccia, che potrebbe alludere a un paesaggio rupestre o a una grotta.

Fig. 22 - Scena di iniziazione dionisiaca. Dagli orti di Mecenate. Palazzo dei Conservatori - Roma.

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Nelle due feste che a Nasso venivano dedicate ad Arianna, quella a carattere funebre aveva per emblema una maschera, ricavata dal legno di fico, materiale usato per confezionare i simulacri di Priapo77• Pausania il Periegeta racconta che, visitando il luogo dove si narrava ci fosse la tomba di Semele, vide un oggetto ritenuto particolarmente sacro, incorniciato di bronzo. Sembra che l ' oggetto in questione fosse caduto dal cielo assieme alla folgore che incenerì Semele. L' oggetto cultuale, a detta di Pausania, era ligneo e la denominazione con la quale veniva indicato era quella di Dionisos Kadmeios. Per il Kerenyi, in esso si ravviserebbe un idolo fallico, con il quale si voleva raffi­ gurare il "Pais" dei misteri che si celebravano nel Kabirion di Tebe78• L' immagine di Priapo della B asilica sembra averci trascinato un po' troppo lontano, ma non è così, perché bisogna tener conto del fatto che l ' epoca della quale ci stiamo occupando era quella del massimo eclettismo religioso, nell ' ambito del quale, come dice il Kerenyi "il culto dionisiaco assurge a religione cosmica e cosmopolita"79•

3.18 1l Toro

Continuando il nostro percorso, ci viene incontro uno stucco par­ ticolarmente interessante, che si trova nella parte sud della navata centrale , quasi a ridosso dell ' abside. Purtroppo esso è molto dan­ neggiato, tuttavia è possibile distinguere ancora due figure maschili, con in mezzo a loro la forma di un toro. Dei due, uno sembra essere di statura imponente, vestito di una tunica fluttuante che gli arriva fino alle ginocchia e con un berretto frigio sul capo. L' altro uomo, di corporatura più modesta, è completamente nudo e non indossa nessun copricapo. Tra loro, c'è il toro che, con atteggiamento mansueto, volge il capo a destra, verso il proprio dorso. La figura maschile sembra stia accarezzando l ' animale ali ' attaccatura del collo. Carcopino reputa il significato della scena inesplicabile, e vi trova delle analogie con 82

un affresco pompeiana, il quale sembra voler riprodurre un episodio della fondazione di Troia. Anche in questo caso, un toro è ritratto tra due personaggi, dei quali uno indossa un berretto frigio e tiene un pedum nella mano, l ' altro è un efebo nudo. Nel nostro caso, invece, protagonista della storia pare essere proprio il toro, in quanto esso è la figura centrale, ed è in lui che va ricercato il significato della scena, perché non è nel mito, bensì nel culto e secondo il rito cha va considerata l ' immagine. È necessario allora chiedersi, quali siano i culti dove la presenza di un toro sacro e divino sia centrale. All ' epoca in cui la B asilica fu costruita, in Roma aveva già preso rilevanza la religione di Iside nella quale, come racconta Plutarco, il toro Apis era l ' immagine dell ' Anima di Osiride. Tuttavia l ' abbiglia­ mento di uno dei personaggi ci fa subito scartare l ' ipotesi che si tratti di Apis . Va però tenuto conto del fatto che, al tempo dei frequentatori della Basilica, in Roma andava prendendo piede il culto del Dio Sole Invitto Mitra. Carcopino esclude che nella B asilica vi sia un qualsiasi riferimento al Mithraismo, tuttavia uno dei due personaggi dello stucco porta il berretto frigio e, dal suo atteggiamento, sembrerebbe impartire ordini alla figura maschile nuda. Nel paganesimo tardo, due sono i culti nei quali il berretto frigio è emblema centrale: quello di Mitra e quello di Attis. Nel primo caso, l 'uomo alto che con fare solenne si rivolge al giovane nudo che sta accarezzando il toro, potrebbe essere un "Pater", vale a dire uno dei massimi sacerdoti del culto. Quanto all ' altro, potremmo ravvisare in esso un "Nimphus", cioè un iniziato al secondo grado dei misteri di Mitra. Sembra che costoro avessero l ' incarico rituale di celebrare il "Transitus", durante il quale il toro da sacrificare nel corso del "Taurobolium" veniva ritualmente trascinato verso il luogo del sacrificio. Inoltre, proprio in questa occasione, anche gli iniziati agli altri gradi vengono spesso ritratti nudi accanto al Pater. È anche possibile che, al momento del taurobolium, colui che doveva sotto­ porsi al lavacro di sangue compisse il rito privo di vestiti. 83

Noi non sappiamo di preciso quali fossero le sequenze delle iniziazia­ zioni ai misteri di Mithra, tuttavia l ' immagine del toro era un elemento centrale, sia nel rito che nel mito della religione mithraica. A tutto ciò va però anche aggiunto che, proprio nell 'età della quale ci stiamo occupando, andava affermandosi il culto solare che proclamava la discesa delle Anime attraverso i cieli, la salita dell 'Anima del misthes mediante i gradi di iniziazione, fino al raggiungimento del cielo delle stelle fi sse e oltre ancora. Forse proprio per questo, e non a torto, Car­ copino vede nei due pannelli, che si fronteggiano agli angoli nord-sud dell 'abside, un richiamo a certi segni zodiacali. In uno, con la presenza di due ragazzi che lottano, Carcopino vede un riferimento al segno dei Gemelli, l ' altro a quello del Toro, sottolineando il fatto che entrambi i segni appartengono alla stagione primaverile. I primi sarebbero per lui Castore e Polluce, che brillano nel cielo quando l ' anno trapassa dalla primavera all 'estate ; quanto al segno del Toro, esso sfolgora nel momento in cui si sta per raggiungere il culmine della primavera. In ciò, lui vede un ' allusione al Toro che rapì Europa e la portò da Si don e a Creta. Tuttavia ammette che, bizzarramente, i due Gemelli mancano del contrassegno dei Dioscuri, vale a dire il pileus. Purtroppo i costruttori delle B asilica non hanno lasciato niente di scritto, e quindi , a meno che le figure da loro proposte non siano chia­ ramente decifrabili con un ben preciso mito, ogni discorso su queste immagini non può che essere ipotetico. Per cui sia nei Gemelli che nel Toro, si possono trovare molteplici riscontri e significati . Ad ogni modo, l ' ipotesi che fa pensare al culto di Mitra, in relazione alla scena dei due uomini e del toro, non è del tutto da scartare, considerando che, al l ' epoca, questo culto andava prendendo sempre più piede.

3.19 Attis

o

Mithra ?

La tendenza all 'eclettismo, nella dimensione religiosa del periodo, fa si 84

che ognuna di queste ipotesi, nell' ambito del sempre più preponderante culto solare, possa assimilarsi ad una miriade di forme divine. In quella di Attis, per esempio, la presenza del Toro si fa sentire con il Taurobolium, sacrificio questo che ha in comune con il Mithraismo. Anche se così fosse, si tratterebbe sempre di una religione misterica dove, anche in questo caso, il Dio indossa un berretto frigio e talvolta, come possiamo constatare, il santuario dedicato ali ' uno pare essere il proseguimento dell ' altro. Un esempio di questo genere lo troviamo a Ostia, dove il tempio della Magna Mater si congiunge quasi al Mithreo degli Animali, posto all ' angolo sud-ovest del santuario stesso. Perché il culto di Cibele accomuna in sè tutto ciò che di più suggestivo ed enigmatico si può trovare nelle religioni misteri che: dali ' idea della morte e resurrezione, a quella cosmogonica legata al sacrificio di un Dio, a quella della palingenesi finale della creazione intera. Non per niente l ' immagine di Attis si ripete per ben quattro volte al centro della navata principale. Nella dimensione spirituale del medio e tardo paganesimo, oramai orficizzato, può succedere che Attis sia sostanzialmente Mithra e quest ' ultimo Dioniso. Soprattutto quando il culto solare raggiunge il suo culmine, quando cioè tutto viene conglobato nella idea metafisica di un sole Spirituale, del quale quello materiale e visibile ne è la espressione figurata. Ma questa è anche l ' epoca in cui la Grande Madre Cibele si moltiplica nelle forme divine conosciute, con i nomi di Afrodite e Demetra. Attis viene allora contemplato come la personificazione della impronta sublime che sigilla tutto quel che viene a esistere. In questa ottica, gli dèi vanno riconosciuti nel profondo della propria Anima e in tutto ciò che ci circonda. A questo punto tutto diviene simbolo e i miti sono, come ci insegna Plutarco di Cheronea, delle verità divine che torcono il pensiero umano verso una direzione sensibile80•

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3.20 Oggetti rituali

Molti degli oggetti rituali utilizzati nelle liturgie, anche di epoca medio-tarda, provengono dal mondo antico, da quel mondo antico che resterà sempre la base sulla quale poggiano gli aspetti esteriori della religiosità ellenistico-romana. Qui nella B asilica, per esempio, abbiamo la presenza di tavole votive nell ' incavo della volta dell ' abside. Si tratta di mense sulle quali sono disposte varie cose, consacrate "alla" o "alle" divinità degli accoliti. Su di una mensa sono posati dei serti, su di un ' altra c ' è una cista e una seconda corona, nella terza infine, che si trova effigiata questa volta nella navata di sinistra, una profusione di oggetti rituali : una ciotola, una mezzina, due patere, un ' anfora e, sospesa sopra di questa, una grande corona di foglie, dalla quale scende una tenia e, appoggiato alla mensa, un imponente ramo di palma. Interessante è esaminare alcuni di questi oggetti che richiamano il significato che, probabilmente, veniva attribuito alle offerte. Prima di tutto le mense stesse, che ricordano la preparazione di un altare (scena che abbiamo già esaminato nella parte bassa della volta nord). In tale scena si nota una Baccante che, accennando una riverenza, depone un serto davanti all ' altare. Questo, con ogni probabilità, dovrà essere appoggiato sopra uno dei lati dell' altare stesso oppure verrà messo, quale preliminare del rito, sulla fiamma dell' ara, accesa per il sacrificio. I serti sono sempre presenti nelle azioni liturgiche del paganesimo greco-ellenistico (e anche in quelle più propriamente romane). Questi venivano abbandonati alle onde del mare, sullo spec­ chio d ' acqua di laghi, di fonti e di sorgenti , oppure appesi ai rami degli alberi di boschi sacri, o infine disposti attorno a delle pietre speciali dedicate a una qualche divinità, della quale segnalavano la presenza. Le corone esprimono l ' idea della Vittoria, vale a dire di un ' astrazione personificata del mistero divino riposto nel miracolo dell' unione tra cielo e terra. La Vittoria simboleggia il frutto nato 86

da quest' unione primordiale. Spiega Varrone che la Dèa è raffigu­ rata con una corona sul capo o tra le mani, in quanto l ' intreccio del serto indica il legame (vincire) dal cui verbo la Dèa medesima trae il nome8 1 • È quindi più che probabile che la presenza di serti e di corone nel corso dei sacrifici volesse simboleggiare l 'unione che, in quella occasione, si materializzava tra divinità e fedeli. Quanto alla mensa in se stessa, si tratta senza dubbio di una "trapeza", facente parte dell ' arredo liturgico, e sulla quale venivano depositati gli oggetti sacri usati nel corso del sacrificio. In un dipinto vascolare a figure rosse, si vede una giovane Baccante con un serto sul capo mentre, su di un altare, sta sacrificando un capretto. Accanto all ' altare si trova per l ' appunto una trapeza, con sopra posata un' anfora, mentre un' altra partecipante al rito sta per depositare sulla mensa degli oggetti contenuti in un recipiente largo e piano. La cista posta sulla seconda mensa dello stucco della Basilica potrebbe contenere incensi e altre resine profumate, con i quali, come ci dice Plutarco, si "chiamavano" gli dèi. Ma il contenuto più interessante è senza dubbio quello della terza trapeza. Qui, accanto ad un attin­ gitoio, vediamo due patere e presso di esse un ' anfora. Quest 'ultima, che si trova anche nel dipinto vascolare che abbiamo menzionato,

Fig. 23

-

Mensa votiva.

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accoglie presumibilmente acqua lustrale, mentre la mezzina serviva probabilmente a distribuire il vino da un cratere poco lontano. Le patere, che ordinariamente venivano utilizzate per offrire agli dèi cibi e bevande, sono qui sistemate in modo simmetrico, ai lati dell ' anfora. Ciò fa pensare che i personaggi che dovevano eseguire la libagione, fossero due, o che due fossero le divinità a cui le libagioni fossero indirizzate. Oppure, volendo continuare il paragone con il dipinto del vaso attico, si potrebbe pensare che il vino con il quale il sacrificio veniva celebrato dovesse essere ottenuto dopo la "Kraterizein", vale a dire la consacrazione del cratere. Infatti, nel dipinto vascolare (sul registro superiore), è raffigurata una B accante che, con una patera nella mano destra, è sul punto di attingere del vino, già consacrato, da un grande cratere. La posizione centrale dell' anfora del nostro stucco può suggerire che la stessa non contenga soltanto acqua lustrale, ma rappresenti un invito per tutti coloro che si accingevano a compiere la libagione (a disporsi in uno stato di massima purezza) . Non è inoltre da scartare l ' idea che questa voglia evocare l ' altra anforetta, quella raffigurata sulla volta dell ' atrio e che un ero te tiene tra le mani. L' erote è ritratto mentre irrora con il contenuto prezioso dell' anfora una farfalla. Ma noi sappiamo che la farfalla è anche l ' immagine d eli ' Anima, che poi ritroviamo personificata nella figura di una Psyche nel pannello estremo della navata di destra.

3.21 Arianna

e

il Labirinto

Procedendo verso l 'estremo limite della navata, ci troviamo davanti a uno stucco che rappresenta l ' arrivo di un Anima nell ' Isola dei Beati . Essa viene condotta da una Baccante al cospetto di una troneggiante figura femminile, con un tirso posato sulle ginocchia, che gli studiosi identificano con Arianna. Questo perché, poco più giù , ma sempre 88

sulla volta della stessa navata, un altro stucco propone la figura di Teseo nel momento in cui riceve il magico gomitolo con il quale potrà orientarsi nel labirinto. L' incontro di Teseo con Arianna è uno dei punti chiave della religione di Dioniso. Oltretutto, va rilevato che gli stucchi che ornano la navata prendono l ' avvio da una scena che ha per soggetto una iniziazione dionisiaca e terminano con un ' altra che rappresenta la B accante Arianna nel­ l ' isola dei Beati . Friederich Nietzsche si chiese chi fosse mai Arianna, ma per rispon­ dere a questa domanda, bisogna chiedersi che cosa sia il labirinto82• Su di una lastra marmorea trovata ad Agrumentum, è raffigurato un labirinto in tutta la sua inquietante vastità. Esso è costituito da una

Fig. 24 - Arianna accoglie le Anime che raggiungono le Isole dei Beati.

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immensa croce che pare ripartire, con le sue quattro braccia, l ' intero mondo. I quattro settori che si dipartono dalla croce sono a loro volta suddivisi da altre quattro linee oblique, che dividono il labirinto in otto spicchi. Al centro della grande croce, chiuso dentro un riquadro c ' è il Minotauro. Sul margine destro, immediatamente al di fuori del labirinto, una iscrizione avverte che, chi vi resta chiuso dentro, perde la vita. Oltre al quadrato formato dallo schema labirintico, iscritti dentro un rettangolo, si vedono incisi i diverticoli di un ulteriore labirinto entro i quali, all ' interno di caselle quadrangolari, sono dipinte piccole rose con petali che ricordano croci bi-corna. Quanto ai diverticoli del lato destro, questi sono interrotti dalla scia di una nave che viaggia verso il centro del labirinto maggiore. All ' angolo superiore destro del rettangolo che tutto circoscrive, c ' è un disco chiuso dentro un ulteriore cerchio, ombreggiato di scuro, e che potrebbe alludere al disco lunare o solare. Nella nave che punta verso il centro del grande labirinto possiamo riconoscere, senza ombra di dubbio, la nave su

Fig. 25

-

Il labirinto di Agrumentum. Africa settentrionale.

90

cui viaggia Teseo, ma contemporaneamente suggerisce l ' idea dell ' iter iniziatico che il Mystes deve compiere per raggiungere il centro. Le piccole rose dei venti a quattro petali fanno pensare che si riferi­ scano alla girandola dei quattro elementi, mentre i diverticoli che le contornano, al pericolo che l ' iniziando corre di perdersi tra essi. Apuleio, nella parte finale dell ' Asino d ' Oro, accenna al passaggio da lui fatto attraverso i quattro elementi. Ma il momento di maggior pericolo, quello più temibile per il Mystes, è senza dubbio quello in cui entra nel percorso straniante del vero e proprio labirinto. Non per niente due scomparti della volta, sulla quale questo mito è ricordato, recano le immagini di Nereidi e mostri marini. Le prime, come dice l ' inno Orfico83, trasmisero agli uomini i misteri dionisiaci (quindi vanno considerate quali guide del viaggio) , mentre i secondi rappre­ senterebbero i guardiani della soglia e, in quanto tali, osteggiatori del percorso. Ma per poter raggiungere la prima tappa del viaggio è necessario essere, come lo fu Teseo, figli di Poseidone, e poi si deve essere capaci di farsi amare dalla "Signora del Labirinto".

3.22 La Signora del Labirinto

Per comprendere meglio cosa rappresenti la "Signora del Labirinto", bisogna riferirsi ai Feaci. La nave di Teseo è infatti pilotata da Feace, capostipite di quel popolo enigmatico e figlio anch ' esso del Dio del mare. Quello dei Feaci era un popolo misterioso, che possedeva navi intel­ ligenti, con una delle quali Odisseo potè far ritorno alla propria casa. Egli, però, non fu sbarcato in un punto qualsiasi di ltaca, bensì nei pressi di una grotta sacra. Per Porfirio, il viaggio di Ulisse finisce praticamente lì, perché il suo punto di arrivo è proprio quella grotta misteriosa nella quale sono riposti i segreti dell ' esistenza, e nella quale palpita il mistero di tutto 91

quel che viene a esistere. Tale grotta contiene anfore colme di acqua e di favi. E ciò ci riporta ad Arianna, perché è lei , la "Signora del Labirinto", nome questo che le viene dato su di una antica lastra di argilla Cretese, sulla quale è anche scritto che a lei va offerto in sacri­ ficio il miele84• Infatti è lei, e solamente lei, a possedere il segreto di come uscire dal labirinto. Simbolo di questo segreto è un gomitolo, che Dedalo donò ad Arianna facendola così Signora del Labirinto. Nella iscrizione della lastra di Adrumentum, il vero pericolo pare essere costituito non tanto dal mostro mezzo uomo-mezzo toro, quanto dal labirinto in se stesso. Ma è Arianna che possiede il gomitolo grazie al quale è possibile orientarsi e uscire da quel luogo terribile. Cosa è un gomitolo se non un labirinto, vale a dire un qualcosa che pur contenendo un 'unica strada, appare invece come un intreccio di mille linee diverse? Arianna sa come ridurre a unicità il groviglio di strade che costitui­ scono il labirinto, perché Arianna rappresenta quella potenza divina che trasforma l ' inganno in verità. Qui, nello stucco della Basilica, essa è ritratta troneggiante e ha quindi l ' aspetto di Regina dell ' Elysion, di signora delle Anime, quasi fosse una seconda Persefone. A lei è sacro il miele, il cibo meraviglioso che viene elaborato dalle api che, guarda caso, secondo la credenza degli antichi nascono proprio dai buoi. Le api infatti , sono in grado di raccogliere varie "potenze" e trasformarle in una sostanza unica e straordinaria: il miele. Soffermandosi sul significato recondito del miele, Macrobio, nei Saturnalia, fa dire alle api : "Di tutto raccogliamo affinché da tutto si faccia "uno" come un numero è fatto di singole cose"85• Ma che cosa sono le api se non Anime che vivono secondo giustizia? ! 86

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3.23 Le Danaidi

Nel secondo pannello, immediatamente dopo quello della catechesi di cui abbiamo già parlato, due donne sono ritratte ne li' atto di riem­ pire un pithos . La prima sta già versando il liquido nel recipiente; la seconda, subito dopo di lei, sta aspettando il suo turno. La scena è stata intesa come la pena alla quale gli dèi hanno condannato le Danaidi. Tuttavia, non essendoci traccia della dispersione de li' acqua, è possibile che la scena si riferisca ad un altro episodio del mito delle Danaidi, che non tratta della più conosciuta storia di delitti, di vendette, di amore e di colpe inenarrabili. Si racconta che Danao, gemello di Egitto, fosse stato costretto a lasciare i l suo regno, la Libia, per sottrarsi ali ' ira del fratello, in quanto non aveva voluto acconsentire alle nozze delle sue figlie con i figli di lui. Dopo aver vagato, assieme alle ragazze, per vari paesi, Danao approdò con la sua nave a doppia prora, presso Lerna. Qui annunciò, agli abitanti di Argo, che gli dèi avevano stabilito che lui si

Fig. 26 - Le Danaidi ritratte nell' atto di riempire di acqua una giara.

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sostituisce al re, che in quel momento regnava. Gli abitanti del luogo, però, non vollero dar credito alle sue parole. Allora, dalle montagne, scese un lupo che aggredì le mandrie del re e ne uccise il toro. Danao, identificando nel lupo una epifania di Apollo, costruì in onore del Dio un tempio dedicato ad Apollo Lykeios, cioè Apollo Lupo. Dopo ciò, Danao divenne talmente potente che da lui presero il nome una parte dei Pelasgi. Quanto alle sue figlie, esse importarono dall 'Egitto le "Tesmoforie". Sembra poi che Danao e le sue figlie si siano spostati verso l ' Argolide, dove trovarono una siccità terribile originata dall' ira di Poseidone. Allora Danao mandò le ragazze in cerca dell ' acqua, ordinando loro di trovare anche il modo di placare il Dio. Fra di esse c ' era Amimone, che fece in modo che Poseidone si invaghisse di lei. Volendo compiacere la fanciulla, il Dio scagliò il suo tridente contro il suolo e, quando lo estrasse, dai buchi prodotti dai denti nel terreno, sprizzarono tre zampilli di acqua limpida e freschissima87 così che la regione, per merito di Amimone, ebbe la possibilità di dissetarsi. Questo racconto ci dà la possibilità di esaminare una quantità di simboli che ben si adattano alle tematiche della navata e anche alle altre, diffuse per tutta la Basilica. Prima di tutto il richiamo alle Danaidi (ammesso che si tratti proprio di esse) che, con aria felice, riempiono un pithos dal quale non si scorge dispersione d' acqua. La scena potrebbe rappresentare il bottino delle Danaidi al ritorno dalle fonti di Lerna; bottino ottenuto da Amimone placando Poseidone con un atto d' amore che ridona la vita alle coltivazioni. Il fatto è che, in Amimone, possiamo riconoscere uno degli aspetti di Demetra, quale Signora delle acque sotterranee, mentre le tre bocche della sorgente potrebbero essere un riferimento al regno sotterraneo, cioè al terzo regno·. Il nome stesso della Danaide vuoi dire "Colei che nasce perfetta" ; nome questo che ben si addice alla Dèa che diede agli uomini le leggi con le quali trarre dalla natura il sostentamento. 94

Demetra è la sposa di Poseidone, quando il Dio si manifesta in forma di stallone e la Dèa in quello di cavalla selvaggia, entrambi animali simbolo del mondo sotterraneo. Ma lo stesso nome potrebbe anche alludere alla nascita dell ' Anima, dopo che questa ha placato l ' ira di Demetra Erinni, venerata per l ' appunto n eli ' Argolide. Infatti è a Lema che Eracle portò a termine la sua seconda fatica uccidendo l ' Idra, episodio che, in uno degli affreschi della catacomba gnostica della via Latina, viene equiparato alla resurrezione di Lazzaro. E a Lema, sempre secondo il mito, Danao fece erigere due templi : uno dedicato a Eracle Salvatore e l ' altro a Demetra. A tutto questo biso­ gna aggiungere che Danao e le sue figlie andavano raminghi di terra in terra e, con il nome di Danaidi , venivano riconosciuti i Pelasgi provenienti dali ' Argolide. Tra essi, nei loro miti remoti collegati ai culti Cabirici, c ' è sempre la presenza di uccelli palustri, quindi di lagune, paludi e laghi. E, come già notammo, di accenni ai culti Cabirici, nella Basilica ce ne sono tanti. Nel mito che stiamo trattando è assai significativo l ' intervento di Apollo Lykeios, cioè di Apollo Lupo, epifania con la quale, secondo Igino, il Dio apparirebbe quale sterminatore dei nemici.

3.24 Apollo e Artemide

Infatti troviamo Apollo oltre il pannello che rappresenta, forse, Neot­ tolemo. Esso è raffigurato con indosso il lungo chitone talare, seduto su di un seggio, nell ' atto di conferire con sua sorella Artemide che stringe un cerbiatto nella mano sinistra. In quella sorta di catechismo che è il Ilep i OeiiJv zai zoaf.W V di Satumino Salustio, apprendiamo che Apollo è una delle tre divinità che elargiscono l ' armonia al mondo, mentre sua sorella e tra quelle che lo animano88• Nello stucco, Artemide è ferma davanti a lui, come se volesse offrire in sacrificio al fratello il cerbiatto che tiene in 95

mano. Il cerbiatto è emblema dell ' incessante correre della Luna, nel cui cielo ha inizio il mondo materiale, perché Apollo, come latros, è colui che guarisce e come Aigeos è l ' Apollo dalla pelle di capra, l ' Apollo purificatore89• E questo sottolinea l 'enigmatico rapporto che unisce Apollo a Dioniso. Oltre il pannello finale dei Campi Elisi, in un altro riquadro, quasi all ' inizio della volta, viene riproposta una scena bacchica che fa pen­ sare che l ' Apollo presente nello stucco sia l ' Apollo Delfico, l ' Apollo del "Conosci te stesso", che è poi strettamente legato a Dioniso.

3.25 Ermes e A/cesti

Ma c ' è una scena, della quale è già stato fatto cenno, posta tra quella del supposto Neottolemo e quella bacchica, che giustifica la presenza di Apollo e Artemide in questo contesto, e dà un senso a tutte le altre figurazioni della volta: quella, cioè, nella quale si vede Hermes Psi­ copompo che conduce Alcesti nel regno degli inferi . Si tratta di una storia d' amore e abnegazione, nella quale la protago­ nista dona ciò che un essere umano ha di più prezioso per la salvezza di colui che ama. Alcesti è figlia di Pelia, il crudele e tirannico re di Iolco. Andata sposa ad Admeto, costui, il giorno delle nozze, si dimenticò di sacrificare ad Artemide che, infuriata, decise di farlo morire. Apollo però, protettore del re tessalo, convinse le Moire ad accettare, al posto di Admeto, un suo familiare che lo amasse a tal punto da prenderne il posto nell' Ade. Il padre e la madre del giovane si rifiutarono di sacrificarsi fino a questo punto, ma Alcesti chiese ed ottenne di prendere lei il posto dell ' amatissimo sposo. Nel momento in cui Thanatos stava per trascinare via la giovane regina, fu raggiunto da Eracle, che si trovava ospite nel palazzo. Eracle lottò con lui, lo vinse e sottrasse Alcesti ali ' Erebo. Si racconta che gli stessi Signori degli inferi, commossi dal gesto della giovane donna, non insistettero 96

per trattenere la loro preda. Ma qui, nello stucco della Basilica, a portar via dal mondo dei vivi Alcesti è Hermes Psicopompo. Non è quindi da escludere che, come Hermes è raffigurato in sostituzione di Thanatos, nell' altro pannello sia Artemide a sostituire le Moire. Come già dicemmo, in quella scena la Dèa pare offrire il cerbiatto al fratello, oppure, più semplicemente, glielo mostra. Nell ' ambito della simbologia del mondo antico accade spesso che tutto il significato di una storia venga a essere sintetizzato da un sim­ bolo. Qui Artemide mostra al fratello il cerbiatto, che è il suo stesso emblema e che talvolta essa usa in sostituzione della vittima da lei richiesta (come accadde in una delle versioni di Ifigenia in Aulide). Esiste una certa corrispondenza tra il mito di Alcesti e quello di Arianna: entrambe sono figlie di re potenti e crudeli, entrambe vengono sottratte al regno degli Inferi, la prima da un Eroe, la seconda da un Dio. Entrambe muoiono a causa del loro amore, l ' una per fedeltà verso il proprio sposo, l ' altra per l ' infedeltà dell ' Eroe a cui si era data. Nel mito di Arianna si narra che la principessa cretese venne abbandonata da Teseo nell' isola di Nasso, mentre era addormentata. Sembra che, a seguito di ciò, disperata per essere stata così crudelmente abbandonata, sia morta di parto. Secondo un ' altra versione, invece, essa fu ridestata da Dioniso e ricevette da lui la corona boreale. Ma il sonno in cui cade Arianna rammenta quello raccontato da Plutarco e in cui cade l ' iniziato. Costui, infatti, è colui che più di ogni altro è in grado di amare ; "Il vero Amante, infatti, quando ha raggiunto l ' aldilà e ha frequentato la "bellezza", come è giusto mette le ali, si trova in uno stato iniziatico e continua a "danzare" verso l ' alto, tripudiando in compagnia del proprio Dio, finchè giunge di nuovo ai Campi della Luna e di Afrodite. Lì si addormenta, per poi "riprendere una nuova vita"90• Perché il cielo della Luna è quel luogo dove le Anime vanno quando si staccano dal corpo, e dove il nascere inverte il suo moto. Lì regna Lachesi91 • Questo è il luogo dove, secondo il saggio di Cheronea, arrivano le Anime che hanno compiuto il loro viaggio nel divenire. 97

Allora, nell ' isola di Nasso, potremmo riconoscere il luogo arcano dove le Anime che hanno raggiunto il loro compimento, possono approdare. Perché il termine "iniziazione" in greco si modella sul verbo "·n:Mw" che vuoi dire "porto a compimento". Infatti Arianna è colei che, nell ' iconografia funeraria, raggiunge il trionfo nel momento in cui celebra il suo matrimonio, forse dopo la morte, con il suo Dio.

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4. Il catino dell'abside - Il Thffo

Ed ora veniamo al dipinto del catino dell ' abside, nel quale si compen­ diano i significati misterici di tutte le figure presenti nella Basilica. In esso, secondo Carcopino, è contenuto il messaggio iniziatico riposto nella dottrina misterica perseguita dai frequentatori della Basilica. Le effigi sono molto rovinate, tuttavia vi si scorge una giovane donna, avvolta in un mantello svolazzante, che sembra sul punto di lanciarsi

Fig. 27

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Saffo si lancia dalla rupe Leukade.

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da uno scoglio, in un abisso marino popolato da esseri fantastici. Essa ha nella mano sinistra un ' arpa a sette corde , mentre con la destra stringe un lembo del mantello, che gli si gonfia attorno al capo, quasi a formare un nimbo. Tra le onde che ribollono, un 'entità divina pare attenderla, reggendo tra le mani un lungo velo bianco. La donna fissa il drappo tenuto dal dio marino e tiene sospeso il piede sull ' abisso, in un atteggiamento che richiama quasi l ' idea di un passo di danza. Alle sue spalle un Erote (non è da escludere si tratti proprio di Eros), la sospinge verso il mondo misterioso di quei flutti. Di fronte alla donna, seduto su di una roccia, c'è un uomo dall ' aspetto giovanile che si tiene malinconicamente il volto tra le mani. Più in alto, su di un masso, si intravede la figura di Apollo Arciere. Un braccio di mare tumultuoso divide l'una scena dall' altra. Carcopino ha creduto di vedere nell 'uomo la personificazione della solitudine spirituale dei non iniziati al Pita­ gorismo. Quanto alla donna, i più la identificano con la poetessa Saffo, così come viene descritta nei versi della Heroides di Ovidio. Quello del tuffo nell ' acqua è uno dei temi più ricorrenti nella ico­ nografi a e nei miti del modo antico. A cominciare dalla tomba del tuffatore a Paestum, dove si vede un giovane che, dall ' alto di una colonna, si tuffa in un luminoso spumeggiante mare. Si tratta di una pittura tombale, e quasi la totalità degli studiosi è convinta che questa scena voglia riferirsi al moinento di passaggio da un mondo a un altro. La colonna, dalla quale il giovane si tuffa, si innalza verso il cielo e termina in alto con un capitello dorico che ha tutta l ' aria di un trampolino, dal quale si lancia il protagonista della vicenda. Dietro questa prima colonna, se ne stagliano altre due che, nella loro solennità, suggeriscono l ' idea di un tempio o di un recinto sacro. Per Giuliano Imperatore il mare è simbolo dell ' aspetto più occulto del mondo sotterraneo. Tuttavia non è detto che per il giovane di Paestum il suo tuffarsi voglia indicare solamente il momento del pas­ saggio nell ' al di là; perché le tre colonne che si innalzano misteriose e solenni contro lo sfondo di un cielo azzurro sono contrassegnate, 1 00

nel fusto, da sette tacche orizzontali, che si susseguono verso l ' alto, come fossero delle scansioni e che raggiungano il loro compimento proprio approdando al numero sette. Sull ' importanza di questo numero ci dà testimonianza Apuleio nei­ l 'Asino d ' Oro. Infatti, quando Lucio Asino inizia il recupero della sua forma umana, dopo aver percepito la presenza della divinità nella malia ineffabile della Luna, si immerge per sette volte nel mare, ram­ mentandosi di quanto quel numero fosse divino. Allora si potrebbe concludere che, certamente non a caso, le corde d eli ' arpa che l a giovane donna tiene i n mano sono per l ' appunto i n numero d i sette, le stesse del l ' eptacordo pitagorico. Essa è ritratta mentre, con movimento aereo, come stesse eseguendo un danza, tende il piede destro al di sopra del baratro, sollecitata a farlo dali ' Erote che le sta alle spalle. Quest'ultimo somiglia ad Eros, e con il suo gesto ricorda l ' Eros sposo di Psiche della favola apuleiana, e l ' Eros Antheros del quale Pausania vide l ' altare visitando Atene92• Vale a dire un Eros dalle connotazioni funebri, che somiglia tanto a Thanatos e allo stesso Hades93• Plutarco, nel De Sera Numinis Vindicta , ci narra una strana storia: Tespesio era un giovanotto che conduceva una vita piuttosto disor­ dinata. Un brutto giorno cadde (guarda caso) proprio da una rupe e morì. Durante i funerali celebrati tre giorni dopo, ali ' improvviso tornò in vita e, a coloro che gli si erano affollati intorno, raccontò della sua esperienza neli ' al di là. Egli disse che il momento del trapasso fu per lui come quando ci si tuffa in acqua da una barca. Poi, quando la parte razionale si separò dal corpo, ebbe l ' impressione di respirare come mai aveva fatto. La cosa più sorprendente fu che si trovò a poter guardare in ogni direzione "come se l ' anima si fosse trasformata in un unico occhio". Ed allora si accorse che la sua anima era trasportata da una luce meravigliosa, come fosse a bordo di una barca che navigava su di un mare liscio e sereno. A un dato momento incontrò un parente, che lo avvertì che il suo nome era cambiato, e che ora non si chiamava 101

più Arideo, ma che il suo nuovo nome era Tespesio94• Il racconto di Plutarco è ricco d ' elementi inziatici : il cambiamento del nome, il mutamento totale dei valori della vita, infine la capa­ cità di poter vedere contemporaneamente in ogni direzione, con un unico sguardo, cosa che rammenta l ' Epopteia, ossia la "visione totale dali ' alto", della quale parlano le fonti a proposito dell ' iniziazione massima. Poi c ' è la luce che lo guida, lungo un mare divino, come fosse a bordo di una nave. Questa immagine ci riporta alla pittura dell' abside, dove vediamo il dio marino tenere tra le mani un lungo drappo che si piega in maniera da prendere l ' aspetto di una nave. Tutto questo fa supporre che, dietro il racconto trasmessoci da Plutarco, ci fosse in realtà il ricordo di una esperienza iniziati ca e che l ' avventura di Tespesio alludesse non a una morte fi sica, ma ad una iniziatica. Ma non è tutto, perché, in generale, n eli ' ambito del mito, il tuffo nel mare o comunque nelle acque, assume quasi sempre il valore di una palingenesi, di una trasmutazione dali 'umano al divino. Così ci racconta Ovidio, a proposito di nostro padre Enea, quando da uomo fu trasformato in essere immortale. Allora il dio del fiume Numicio fece cadere su di lui l ' acqua contenuta nella sua urna divina, e il fluire perenne del fiume lo trasportò nei gorghi del mare dove prendono forma le entità immortali . Un mare che è la metafora dell ' eterno fluire, dal quale incessantemente muore e rinasce l ' intera creazione. Questo mare, entro cui Enea acquisisce la natura divina95, è l ' arcana corrente verso cui Hermes guida le Anime. Così accadde a Glauco, secondo Ovidio. Anche Glauco inizia la sua avventura partendo da una rupe che, anche se non è detto esplicita­ mente, noi riconosciamo come la Leukade, la mitica roccia ai piedi della quale scorre il Grande Okean6s . . . : " . . . lì le anime vanno oltre le correnti di Oceano . . . oltre la rupe Leukade . . . " . E lì Glauco si immerge e incontra gli Dèi primordiali che lo trasformano da mortale in immortale. La maggior parte degli studiosi identifica la rupe, dalla quale la gio1 02

vane donna della B asilica sta per lanciarsi , con la Leukade e, per tale ragione, ritengono che la figura femminile rappresenti Saffo. Nella leggenda, la poetessa di Lesbo si sarebbe uccisa per amore del bellis­ simo Faone, gettandosi dalla rupe Leucade che, nella tradizione, era la rupe da cui si lanciavano i suicidi per amore. Ma a questo punto viene fatto di chiedersi che cosa ci stia a fare una suicida per amore nella raffigurazione conclusiva della iconologia iniziatica del luogo. Per trovare un motivo sufficientemente valido, ricordiamo che anche un altro personaggio femminile, questa volta assolutamente mitico, si gettò in mare da una rupe e ottenne da Zeus l ' immortalità96• S i tratta d i Ino, sorella d i Semele. I n tutti i racconti, essa appare come la nutrice di Dioniso, ma le versioni mutano, soprattutto ali ' epilogo della storia, che è contrassegnato dal salto nel mare. Questa dram­ matica conclusione segue alla fuga che, in alcuni dei racconti , è legata all ' inseguimento da parte di Atamante suo sposo, colto da follia; in altri , invece, essa appare come una B accante che , colta dalla "Mania" bacchica, fugge attuando in questo modo la formula rituale del Thiasos di Eschine "sono fuggito al peggio per trovare il meglio" e, raggiunta la Moluride, si tuffa nel mare. Quel che a noi interessa è però il fatto che Ino, con l ' aggiunta del l ' appellativo di Leukotea (cioè Dèa B ianca) , la ritroviamo nell' Odissea, impegnata a salvare Ulisse, affinché l ' Eroe possa raggiungere indenne l ' isola dei Feaci. E qui è necessario soffermarsi sul lungo velo bianco che la divinità marina tiene tra le mani. Infatti la donna dell ' abside ha lo sguardo fi sso proprio sul velo e il suo unico rapporto pare essere con il Tritone, come se da questo e solamente da questo dovesse venirle la salvezza da quel che è ineluttabile. Il mare, entro il quale sta per precipitare, ha un aspetto tempestoso, come tempestoso era il mare di Ulisse durante il suo ultimo naufragio. Ma fu proprio allora che a lui apparve la salvezza, personificata da Leukotea, la Dèa Bianca che gli donò un velo bianco, grazie al quale gli fu consentito di approdare 1 03

all ' enigmatica isola dei Feaci. Apollonio Rodio, nel commentare questo passo del poema omerico, ci dice che il velo bianco di Leukotea è da identificarsi con il nastro purpureo, che gli iniziati ai misteri di S amotracia portavano sem­ pre legato attorno alla vita per esorcizzare i pericoli del mare97• È ovvio che non intendesse parlare del mare "fi sico" solamente, ma di qualcosa della quale il mare fi sico è l 'espressione figurata. Infatti, quando Ulisse raggiunge l ' isola di Alcinoo, dopo aver superato i pericoli del mare grazie al velo magico di Leukotea, fa conoscenza con un popolo che possiede delle navi intelligenti che vanno per il mare senza bisogno di essere pilotate. Durante il viaggio di ritorno verso ltaca, cade addormentato. Il che vuol dire che viene colto dal famoso sonno iniziatico del quale abbiamo già parlato. Il risveglio avviene nei pressi di una grotta sacra, entro la quale egli depone i doni ricevuti da Alcinoo re dei Feaci. Per Porfirio, l ' Antro delle Ninfe, in cui Ulisse entra assieme alla Dèa Atena, è praticamente il punto di arrivo del suo viaggio. In tale antro ottiene la visione di qualcosa che appartiene alla dimensione invisibile. Davanti a una delle entrate della grotta, c ' è un ulivo, l ' al­ bero che è sacro ad Atena, che in questo caso appare quale "Pronoia" , cioè Provvidenza. "Essa e le entità che operano nell ' antro" sono l a "Verde Sapienza" dalla quale i l "Demiurgo" trae la vittoria e la dona a coloro che sono gli atleti della vita".98 Queste parole di Porfirio ci riportano alle immagini delle Vittorie alate, delle quali pullula la Basilica. Lì , nell ' antro di ltaca, ci sono due porte99, una fatta per i mortali e per gli uomini frivoli, l ' altra per gli immortali e per gli uomini valenti , cioè gli iniziati. Ed è proprio davanti a quest' ultima porta, quella cioè che ha davanti l 'ulivo, che i Feaci depongono Ulisse ancora addormentato, assieme ai doni da loro a lui elargiti. Perché Ulisse, a quanto ci dice Porfirio, era considerato dagli esegeti della sua epoca "l 'immagine di colui che attra­ versa per gradi la generazione, dopo di che è ristabilito presso coloro 1 04

che sono oltre ogni tempesta e non hanno esperienza del mare"100• Ed il mare, nelle esegesi di Porfirio è il simbolo della sostanza materiale. Quanto alle due entrate della grotta, queste si riferiscono ai due rami del Grande Okeanos, dai quali provengono le forme degli dèi e i corpi degli esseri mortali, perché Okeanos è la grande corrente alla quale tutto torna di ciò che muore, e tutto nasce di ciò che è immortale. Questa idea del dualismo, che sarebbe alla radice del divenire, la incontriamo in Plutarco, quando egli ci parla del terzo principio da cui tutto proviene, entro il quale "il movimento" si fonde con l ' in­ telletto nel cielo del Sole101 , che si trova sotto il dominio della Moira Atropo. Questo sarebbe il principio universale che confina col cielo della Luna, dove la generazione si intreccia alla dissoluzione. Alla luce di questa simbologia, osservando la raffigurazione dell ' ab­ side, non possiamo far a meno di notare che, nella scena, un braccio di mare si incunea tra due rupi che si fronteggiano : una è quella di destra, da dove la giovane donna sta per lanciarsi nei gorghi di quel mare, nel l ' altra un enigmatico personaggio siede tenendo il volto nascosto tra le mani. L' una viene spinta da un Erote o dallo stesso Dio del l ' Amore, l ' altro ha accanto a se Apollo, talvolta assimilato allo stesso Sole. Quasi tutti gli studiosi identificano il giovane dolente con Faone, il mitico pescatore che, per aver traghettato Afrodite al di là del mare senza chiedere alcun compenso, ebbe in cambio dalla dèa il dono della giovinezza e una tale bellezza che la poetessa Saffo se ne inna­ morò perdutamente. Non essendo però da lui corrisposta, colta dalla disperazione, essa si gettò in mare dall' alto della rupe Leukade. Faone e Saffo assumono perciò un significato simbolico, perché il mare su cui si affaccia la rupe Leukade è l ' Okeanos, cioè la radice della creazione, e perché fu nella sua stessa corrente che il pescatore Glauco, come racconta Ovidio, si immerse pregando e rivolgendosi agli Dèi primordiali, agli Dèi che già "erano", prima della prima luce e del primo suono. 1 05

La cosiddetta Saffo tiene tra le mani una cetra a sette corde, emblema delle Muse, figlie di Mnemosine, Ninfa della sorgente omonima e per­ sonificazione dell ' antico ricordo dell' Anima. Ma l ' arpa a sette corde è anche il contrassegno di Apollo, quando il Dio si presenta come colui che armonizza il mondo1 02• Tuttavia, ammesso che le due figure dell ' abside rappresentino Saffo e Faone, ciò non ci fa comprendere che cosa abbiano voluto comunicare gli adepti che frequentavano la Basilica, e quale interpretazione quindi si debba dare ai due personaggi e alla loro storia. Possiamo solamente rilevare che le rupi rappresentate sono due, divise entrambe implacabilmente da un braccio di mare che potrebbe essere il simbolo della storia stessa. Nè ci è chiaro perché una misteriosa entità marina stia attendendo Saffo con un velo bianco tra le mani, un velo che pare voler ricordare quello che Leukotea prestò a Ulisse, affinché raggiungesse un' isola che, dopo il passaggio del re di Itaca, divenne per sempre invisibile e introvabile per i mortali103 • Quello che ci lascia più perplessi è il fatto che Faone sieda così malin­ conicamente sull ' altra sponda, che sembra essere per l ' eternità divisa da quella su cui Saffo, spinta da Amore, sta per gettarsi. Questo ci ricorda le parole di Platone che, nel dialogo sull' Amore, dice che se non è presente Amore non esiste iniziazione.

4.1 Apollo

e

Dionisio

Ma perché Faone ha vicino a sé l ' Apollo Arciere, inesorabile datore di morte con le sue frecce "misericordiose", e non l ' Apollo C itaredo? L' immagine potrebbe voler ricordare Delfi, anche se non sono presenti accanto a lui il tripode e il serpente che, comunque, potrebbero essere nascosti dietro le scrostature e le muffe provocate dali ' umidità del· l ' ambiente. Se così fosse, verrebbe a configurarsi un significato tutto speciale nei confronti del percorso iniziatico che comincia dal vestibolo e si conclude nelle immagini del catino absidale. Vorrebbe dire che 1 06

questo iter prenderebbe l ' avvio con Dioniso e terminerebbe nel nome e nell ' immagine di Apollo. Apparentemente le due divinità sembrano l ' una all ' altra polari, e addirittura c ' è chi le vede in contrasto tra loro. Ma non è così, perché il rapporto che le unisce è strettissimo. Pitagora, che fu considerato figlio di Apollo, a quel che racconta Giamblico, venne chiamato così dal padre, a motivo di una profezia dell ' Oracolo di Delfi. Narra Giamblico che a Mnemarco, recatosi al santuario del Dio Pitio assieme alla moglie che era in attesa di un figlio, venne vaticinato che il nasci turo sarebbe stato un dono di Apollo ali ' umanità. Impres­ sionato dalle parole della sacerdotessa, quando il bambino nacque lo chiamò Pitagora da Pito, e volle che la moglie, che si chiamava Partenide, mutasse il proprio nome in Piteide. Inoltre, a motivo del responso nel quale si diceva che l ' anima del figlio sarebbe stata per sempre unita al Dio, fece costruire a sua spese un tempio in onore di Apollo Pitid04• Il racconto mette in luce lo stretto legame che esiste tra il Pitagorismo e Delfi . Ma Delfi appartiene tanto ad Apollo quanto a Dioniso. Si racconta infatti che Zeus, scacciati con la folgore i Titani che avevano dilaniato Dioniso, raccolse le

Fig. 28 - Delfi. Pietra con le tracce del tripode di Apollo.

1 07

membra sparse del figlio e le affidò ad Apollo che le seppellì a Delfi , nei pressi del suo tripode. Ovviamente il Dioniso di cui si parla qui non è il Dioniso Tebano figlio di Semele, bensì quello della tradizione Orfica, quello nato in una grotta misteriosa, nella quale Persefone era intenta a tessere un mantello per il padre, mantello sul quale era raffi­ gurato l 'universo intero. Si racconta anche che Zeus, invaghitosi della figlia, penetrò nella grotta e si unì a lei in forma di serpente. Secondo Diodoro S iculo, anche Persefone, in quella occasione, si sarebbe mutata in serpente105 • Da questa unione nacque Dioniso, il Dioniso dalle coma di toro, il Dioniso coronato di serpenti106• Ma il fanciullo Dioniso fu sorpreso dai Titani mentre si trastullava con i suoi giocat­ toli divini. Questi si avvicinarono a lui con i volti imbiancati di terra calcarea, lo afferrarono e lo dilaniarono, riducendo il suo corpo in sette

Fig. 29 -Apollo assiso sul Tripode. Museo Nazionale di Atene.

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pezzi; poi presero le sue membra le gettarono in una caldaia ribollente e infine, estrattele da lì, le infilzarono ad una ad una in sette spiedi e le posero ad arrostire sulla fiamma viva107• Richiamato dal profumo delle carni del figlio, Zeus comparve al sinistro banchetto, scacciò con il fulmine i Titani, raccolse e riunì le membra del fanciullo. Secondo gli Orfici, dalle ceneri dei Titani nacquero la vite e la stirpe umana. Ma il racconto va avanti, acquisendo sempre più connotazioni orfiche, quindi misteriosofiche. Si racconta quindi che Zeus avrebbe raccolto dalle ceneri il cuore di Dioniso108, consegnandolo ad Atena che, a sua volta, lo pose in un ventilabro. Da ciò, sembra che sia derivato l ' appellativo di Dioniso Liknites, aspetto importantissimo nelle liturgie delfiche in quanto le Tiadi, (B accanti Delfiche), nelle notti d' inverno salivano alla grotta Coricia e vi celebravano un rituale solenne. Ciò accadeva quando Apollo era assente, era lontano, quando si tratteneva nella enigmatica terra degli lperborei (vale a dire in quel momento dell ' anno in cui Delfi era solo per Dioniso) . Tutto questo però, non deve far pensare a una reale separazione e incompatibilità tra i due esseri divini ma, al contrario, ad una palese complementarità, che viene sottolineata nel momento in cui essi sono raffigurati in coppia, come si può vedere ad esempio in un vaso dell ' Ermitage. Lì Dioniso e Apollo sono ritratti sotto una palma, pianta particolarmente legata al figlio di Lato n a, nell ' atto di tenersi la mano. Attorno a loro il thiasos dionisiaco impazza. Ed è proprio a Delfi che, più che in qualsiasi altro luogo, si celebra l ' affinità tra i due Dèi. È qui che essi si dividono il tempio sul quale da un lato è effigiato Apollo con le Muse, dall ' altro Dioniso con le Tiadi. Infatti , non si può fare a meno di notare che nella B asilica, in tutto il percorso della navata, si ha una preponderanza di scene rituali a carattere dionisiaco mentre, alla fine dell' itinerario, vale a dire nel momento conclusivo del percorso stesso, viene solennizzato l ' elemento apollineo. Senza pericolo di sbagliare si può anche affermare che il vestibolo è dedicato a Dioniso, 1 09

mentre l ' abside finale ad Apollo. Nel primo troviamo l ' esaltazione delle Menadi e del menadismo, nell ' altro quello di una giovane donna che concentra su se stessa l ' idea dell' armonia universale. A questa armonia, assieme ad Apollo, sono preposte le Muse, figlie di Mnemosine, la Ninfa misteriosa, alla cui sorgente vanno a dissetarsi gli Iniziati per purificarsi dall ' oblio indotto in loro dalla vita terrena. Ma non è tutto, perché nel vestibolo abbiamo l ' apoteosi di una donna, anch 'essa giovane, che viene portata verso l ' Olimpo o l ' Empireo da una figura alata, probabilmente identificabile con Eros. Che sia Eros o un Erote, oppure il Genio dell 'Eternità, come molti sostengono, non fa grande differenza. Entrambe le figure alate sono presenti ali ' inizio e alla fine della B asilica. La prima come prolusione a tutto ciò che verrà in seguito, l ' altra come conclusione e punto di arrivo. Entrambe le figure alate agiscono nei confronti di una giovane donna, portando verso l ' alto quella del vestibolo e spingendo verso il basso quella dell ' abside, nell ' abisso equoreo che ribolle sotto una rupe misteriosa. L' una inserita in un contesto di vari pannelli di chiara connotazione dionisiaca, l ' altra con l 'evocazione dell' idea apollinea nelle due forme principali: quella del Dio quale Arciere e forse Pizio, e quella del Dio conduttore delle Muse, figlie della Dèa dalla quale la fonte del ricordo trae origine. Entrambe le raffigurazioni suggeriscono l ' idea di una palingenesi. Quello che disorienta maggiormente, però, è il fatto che nella rappre­ sentazione del vestibolo la palingenesi pare già avvenuta, mentre in quella dell ' abside sembra che la protagonista sia solamente sul punto di compierla. In entrambe le scene sono tuttavia presenti degli oggetti enigmatici: il velo, tenuto dalla divinità marina e l ' anfora rovesciata, tenuta dali ' entità alata del vestibolo. Che cosa contiene l ' anfora? Anche un Amorino, in uno dei riquadri centrali dell ' atrio, si dà un gran da fare con un' anfora. Una figura che, sia pur con delle varianti, si trova incisa anche su un cammeo che rappresenta l ' apoteosi di Augusto. Carcopino interpreta l ' anfora della 1 10

scena del vestibolo come la separazione delle ceneri, cioè dei residui mortali della protagonista, dall 'Anima che sta ascendendo alle stelle. Tenendo però conto del fatto che l ' immagine è parte del contesto dio­ nisiaco della Basilica, è più probabile che l ' anfora che Eros rovescia verso la terra contenga del vino, quel vino di Dioniso che è simbolo del Fuoco divino e che "raggiunge nell 'umido il proprio compimento". Vino che cadendo dall ' alto sulla terra fa si che venga intrisa e penetrata dal nume del Dio Evi o che, grazie all ' amore che lo lega ad Arianna, moltiplica se stesso in tutte le cose sulle quali si proietta. In Arianna possiamo riconoscere l ' Anima Mundi, che Dioniso ama più di ogni cosa. Infatti la sua immagine è celebrata anche sulla volta della navata sud, in cui compare come figura troneggiante e severa davanti alle Anime che raggiungono i Campi Elisi. Ma anche nel­ l ' abside regna l ' idea dell ' amore, perché le due figure, in apparenza umane che vi sono effigiate, sono per l ' appunto protagoniste di una strana leggenda d ' amore. Faone è infatti un personaggio in stretto rapporto con Afrodite che, in alcune versioni, è madre di Eros e, in tutte le altre, incontrastata Dèa dell' amore. Da lei Faone viene consa­ crato perché accettò di traghettarla senza chiederle alcun compenso, accogliendo nella sua barca, cioè nella sua vita, il principio universale dell ' amore. Quel Principio universale che, in senso lato, è la "coniuc­ tio oppositorum", vale a dire ciò che unisce il mondo dei mortali a quello degli Immortali. In seguito a tale consacrazione Faone rinasce a nuova vita, ritorna bello e giovane per sempre. È possibile che il suo nome, Faone, derivi dal termine greco "cioç", che contiene in se l ' idea di "tornare alla luce", di "rinascere di nuovo". Ma Faone è anche un traghettatore, anzi il "Traghettatore" , che quando prende a bordo della sua barca la Dèa dell ' Amore, cessa di essere vecchio, perde il suo aspetto orribile e risplende per la sua beltà e giovinezza. Questa considerazione ci fa riconoscere in lui l "'Eros" della "fabella" di Apuleio, in cui il misterioso sposo di Psyche viene da lei creduto un orrendo serpente, ma che, nel momento in cui lei lo scorge, appare III

come il più bello degli Dèi . Questo avviene nel corso di una strana notte , alla luce incerta di una lucerna che, spargendo la sua luce tutt'intorno, squarcia l ' invisibilità da cui lui è avvolto. S i sa che la storia di Psyche è inserita a metà del libro delle Meta­ morfosi, quasi fosse la chiave per decodificare la vicenda dell ' uomo che, dopo essere stato trasformato in asino, ritorna alla sua forma primitiva. Ma noi sappiamo anche che il racconto di Apuleio è una maniera simbolica con la quale l ' autore allude e celebra la sua espe­ rienza iniziatica ai misteri di Iside e Osiride, che tradotti in termini greci equivalgono a quelli di Demetra e Dioniso-lacco. Perciò, anche quello che vediamo rappresentato nel bacino dell ' abside è la sintesi di un mito e, in quanto tale, presenta delle convergenze con altri miti. Così come gli Dèi, che per gli Orfeo-Telesti si assimilano e si confon­ dono gli uni con gli altri, anche i personaggi che popolano i miti, cioè i racconti sacri delle religioni più antiche, servono a richiamare alla coscienza le intuizioni misteriche che questi personificano. Soprattutto, ci insegna Saturnino Salustio nel "llep i Bewv zai z6aJ1ov, che essi vanno osservati integrando vari livelli : quello propriamente umano e psichico, quello cosmico e infine quello teologico. In conformità a ciò, un medesimo personaggio e una stessa forma divina, sono in grado di richiamare molteplici valenze e più significati. Con questi presupposti, in Faone possiamo riconoscere sia colui che rinasce alla luce di una nuova vita grazie alla iniziazione, sia il traghettatore che, con il suo battello, congiunge l ' Erebo alla terra dei vivi, sia l' enig­ matico sposo di Psyche che è tanto simile a Thanatos o addirittura al Dio degli inferi. Così come è possibile riconoscere, nella Saffo della Basilica, la stessa Pyche della favola apuleiana. Coloro che hanno voluto che fosse effigiata questa scena nel bacino dell ' abside devono aver cercato di trasmettere un messaggio acces­ sibile completamente solo a chi era stato iniziato ai molteplici culti misterici, dei quali era ricca l ' epoca. Tuttavia, seguendo una certa logica, è forse possibile provare ad individuame alcuni aspetti . 1 12

L'elemento centrale, infatti, sembra essere costituito dalla misteriosa entità marina che tiene il velo tra le mani. Riteniamo che tale figura possa essere il cuore del messaggio. Essa attende la donna che, spinta dall ' Erote, è sul punto di compiere il tuffo in quell 'enigmatico braccio di mare. Tale donna è talmente presa dalla visione del velo che sta nelle mani dell 'entità marina, che non manifesta nessuna paura o esitazione; pur accingendosi a fare qualcosa di pericoloso, essa non teme niente: una divinità primordiale è lì ad accoglierla, con il divino amuleto che la proteggerà da qualsiasi esito infausto e pericolo del mare. Non è quindi da scartare l ' idea che la scena sia un richiamo al momento giusto nel quale affrontare il trauma iniziatico, che, a quel che raccontano, è sempre presente nell ' istante dell ' "Epopteia", vale a dire durante il culmine dell ' iniziazione. Nell' Erote, possiamo perciò riconoscere anche l ' alato Kair6s, personificazione dell ' attimo giusto e propizio e del conseguimento del l ' avvenuta armonia tra mondo umano e mondo divino. Solamente allora l ' Anima del mystes troverà, nell ' abisso marino, un Nume che l ' attenderà con il prodigioso velo tra le mani. Come giustamente ha rilevato Carcopino, questo velo è tenuto in maniera tale da richiamare l ' idea di una nave. Anche Iside, nella descrizione che della Dèa fa Apuleio, nel momento in cui si rivela a Lucio - Asino, tiene nella mano sinistra il "cymbium", vale a dire una lampada a forma di nave, e nell ' altra il sistro, lo strumento con il quale accorda in modo perfetto gli elementi che costituiscono la crea­ zione109. Anche nel caso di Lucio, la visione della Dèa con il cymbium in mano stava a significare che l ' iniziando era sul punto di uscire dai pericoli del mare e dalle traversie del viaggio. La stessa cosa accadde a Ulisse che, nel bel mezzo della furia dei marosi, all ' improvviso scorse Ino Leukotea, seduta accanto a lui, sulla zattera. Apollonia Rh odio, nel suo commento all ' Odissea, la definisce "Ph6sphoros", portatrice di luce1 10, così come è la stella del mattino. Come una folaga, la Dèa giunge fino a lui dagli orizzonti più lontani del 1 13

mare e gli consegna il velo divino che gli consentirà di raggiungere l ' isola dei Feaci. Questo enigmatico popolo discende da Poseidone e dai Giganti, vale a dire da una genia di esseri primordiali. Vive in un 'isola, lontana da tutte le rotte e a cui nessuno dei comuni mortali è in grado di approdare. Solamente Ulisse vi riesce, grazie ali ' aiuto divino, simboleggiato dal velo che sancisce la raggiunta "Pax Dèo­ rum", della quale l ' isola di Alcinoo è la simbolica immagine. È allora probabile che chi volle fosse rappresentata la scena abbia anche voluto alludere ai significati reconditi che, in età tardo-antica, venivano dati agli avvenimenti descritti nei poemi omerici. Qui il velo è stato dipinto a forma di nave, come se con esso si dovesse indicare il mezzo tramite il quale approdare all ' isola, dove gli abitanti, invisibili a tutti, si manifestano ai naviganti durante le procelle di un mare che essi percorrono a bordo di navi "veloci come il pensiero" e prive di timone e timoniere, perché in simbiosi con la mente dei nocchieri. Proprio Omero, dovendo descrivere il rapporto tra nave e timonieri usa esplicitamente il termine "mentale" , perché gli equipaggi tra· scorrono le rotte marine in uno stato di inesplicabile fusione del pensiero con la loro nave. Infatti si tratta di un popolo a cui gli Dèi non si nascondono, anzi, siedono assieme a loro quando banchettano, come fanno gli Iperborei, a cui l 'universo degli invisibili si manifesta quotidianamente. E, quasi a volere celebrare questa realtà, sull ' altra rupe, traviamo Apollo Arciere. Sfortunatamente le figure sono a tal punto rovinate che bisogna andare avanti per deduzione. Carcopino ci illustra la scena nel seguente modo "un uomo è assiso; girato verso destra e si nasconde tristemente il volto tra le mani. Il resto della scena si recita al di fuori di lui come se egli fosse bandito senza ritorno. Al più alto del registro, Apollo, sopra le rocce dell 'isola, è sistemato come su un piedistallo, Egli brandisce il suo arco nella mano sinistra e sembra incoraggiare con la voce e il gesto una donna decisa a fendere a nuoto il braccio di mare che li separa e ad attendere il cenno di rassicurazione che il Dio le indirizza". 1 14

Il che vuol dire che Carcopino vede in Faone un personaggio chiuso nella propria malinconia. Malinconia forse dovuta a una separazione, o alla nostalgia per qualcosa di irraggiungibile e perduto. Ma ciò urta contro la logica, perché vien fatto di chiedersi come mai il personag­ gio, dopo avere acquisito la bellezza e avere recuperato la giovinezza, debba manifestare un così grande dolore. Non potrebbe allora essere che il suo atteggiamento sia non di dolore ma di riflessione? Vale a dire che stia in realtà ricercando qualcosa che si trova non al di fuori, ma dentro se stesso, qualcosa che sia la visione intima di una luce interiore. Al di sopra di lui domina il Dio di Delfi , nel suo aspetto inquietante di implacabile arciere che, con le sue frecce, dona una dolce morte. Forse Faone è in ascolto della musica del Dio, quella musica che apre la strada al Sole dopo le brume invernali e quando: "Cantano gli usignoli (al suo giungere) e le rondini e le cicale"1 1 1 • Quando cioè, torna la bellezza della primavera e dell 'estate e tutto rifiorisce per il ritorno del Dio. E allora in Faone, che nasconde malinconicamente il viso tra le mani, potremmo riconoscere Amore stesso che, separato da Psyche, ha per­ duto le ali. L' aerea figura femminile, infatti, è tenuta lontana da lui da qual braccio di mare e porta con se l ' arpa a sette corde, con la quale si canta il Peana, che è il carme apollineo e che riconduce l 'Anima alla primavera della creazione. Tra l ' arco e la lyra c'è una misteriosa affinità, tanto che Eraclito vide, in entrambi gli oggetti, il simbolo del ricon­ giungimento di due realtà diverse1 12• Ciò vuol significare l ' essenziale unità di due forme divine che, all 'esterno, appaiono diverse e divise. Così come sono Apollo e Dioniso: il primo, secondo Walter Otto,1 1 3 vuole chiarezza e forma, quindi l a distanza; i l secondo, invece, l ' eb­ brezza e il contatto. Ed è per questo che, nella B asilica, vediamo l ' atrio dionisiaco giustapporsi all ' abside apollineo. L' uno non è che l ' aspetto rovesciato dell' altro. Nel "De Apud Delphos", Plutarco racconta di un pellegrinaggio com­ piuto da Ammonio all ' oracolo di Apollo. Il saggio Ammonio non è 1 15

solo; assieme a lui percorrono la via sacra altre cinque persone, tra le quali si trova lo stesso Plutarco. Essi camminano soffermandosi a contemplare i cimeli che riguardano il Dio. Camminano e discutono. Fra loro sorgono controversie e incomprensioni sulla natura degli Dèi e delle cose, sulla veridicità del vaticinio, sul mistero dell ' intuizione divina. Durante il cammino si trovano davanti ad enigmi e si sentono assaliti da perplessità. Ciò nonostante, anche nell' apparente disaccordo delle personali visioni, continuano tutti insieme ad avanzare verso il sacro tripode, simbolo della verità che tutto domina nel sovrasensibile. Il punto centrale dei loro ragionamenti è la natura del Dio di Delfi e del numero cinque suo ierogramma. Questo ha la particolarità che moltiplicato per se stesso, termina sempre con se stesso, come fa la natura che riprendendosi il frumento nel suo aspetto di seme, dopo un lungo travaglio, riappare con quel che era all ' inizio1 14• Si tratta di una chiara allusione alla morte e alla resurrezione delle Anime che hanno compiuto il viaggio oscuro attraverso il travaglio della iniziazione. Ma questo riguarda anche la "causa" iniziale, che ordina il cosmo perché essa, mediante la sua perenne mutazione, crea il mondo. E tutto questo, spiega Plutarco, concerne la natura di Apollo e Dioniso, il quale "è partecipe non meno di Apollo alle cose di Delfi . Perché la Divinità, nel suo complesso, è si eterna e inaccessibile ma è però spinta a trasformare se stessa continuamente, perché talvolta è fuoco increato che arde e risplende, altre volte invece accade che entri nel divenire e si trasformi in aria, terra, stelle, boschi e ogni altra cosa che popola il mondo. Ed è per questo che si parla della passione del Dio, della sua morte, del suo smembramento ed è questo che esprime la frenesia del Ditirambo che si giustappone alla dolcezza e serenità del Peana. Perché il dio è sempre lo stesso, solamente che quando esprime col fuoco la sua natura e tende ad assimilare tra loro le cose esistenti , si chiama Apollo ma quando entra nel divenire, cambia il suo aspetto e si muta in innumerevoli forme, allora anche il suo nome muta ed è venerato con il nome di Dioniso" . In altre parole, 1 16

la prima è la Divinità che "arde e risplende" e che è al di fuori del mondo, la seconda è sempre la medesima "che però arde e risplende nel divenire e si manifesta come Mondo" 1 1 5• Anche nella Basilica ci troviamo davanti a un percorso che, nel vesti­ bolo, richiama l ' idea del divenire e di un Dio immanente, unita alla promessa di ritorno alla forma originaria (Arianna sollevata dal Dio Amore). Percorrendo l ' oscurità delle tre navate si viene accolti dalle immagini che celebrano gli Eroi e le Eroine, contrassegno di tappe inquietanti che l ' Anima dovrà conoscere e toccare. Alla fi ne però, essa ritroverà se stessa nelle figure che sono raffigurate nell ' abside, dove l ' arpa a sette corde, tenuta in mano da Saffo, ci farà sapere che siamo passati dal Ditirambo al Peana, e che il velo di Leukotea è lì ad attenderla, per trasformarla in entità divina e per farle raggiun­ gere l ' isola dei Feaci, dove eternamente perdura la primavera della creazione. Ma, arrivata lì , non dovrà farsi incantare dai giardini di Alcinoo, dovrà invece lasciarsi cadere, come accadde a Psyche, nel sonno ineffabile degli iniziati, mediante il quale raggiungerà la grotta misteriosa che è simile al cuore del divenire, dove potrà finalmente conoscere il perché dell ' inizio e della fine di tutte le cose.

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Note

Svetonio, Vita dei Cesari XXXVI, Rizzoli, Milano, 1 989 -

2 3

4

Svetonio, Op. cit. - LXIll Tacito, Anna/es - II, 69, Mondadori, Milano, 1 994

Il Conflitto tra Paganesimo e Cristianesimo

nel /V sec., A.A. , La sopravvivenza

delle arti Magiche, Laterza, Bari, 1 970 5 6

Svetonio, Op. cit. - XIII Svetonio, Op. cit. - LXX

7

Svetonio, Op. cit. - LXXV

8

Plutarco, De Sera Numinis Vìndicta, Adelphi, Milano, 1 982, p.27

9

Carolina Lanzani, Religione Dionisiaca, Fratelli Melita, Genova, 1 987

10

C. Kereniy, Dèi ed Eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano, 1 982, p.2 1 2

11

Inni Omerici, a cura di Filippo Càssola, Mondadori, 1 98 1 , vv. 40-60

12

H . Jeanmaire, Dioniso, Einaudi, 1 972

13

Giuliano Imperatore, In no alla Madre degli Dèi, a cura di Renato del Ponte, Ge­ nova MCMLXXXIII

14

J Carcopino, La basilica Neo-Pitagorica di Porta Maggiore, p.99

15

Questo è il modo con cui le chiama Carcopino, Op. cit.

16

Robert Graves, I Miti Greci, Longanesi, Milano, 1 977

17

Plutarco, De Iside, cap. 20, Sansoni, Firenze, 1 962

18

Salustio, Sugli Dèi e il Mondo, Ar, Padova e Giuliano Imperatore, Op. cit., Inno alla Madre degli Dèi

19

C. Kerenyi, Op. cit. , p.2 1 3

20

Pausania, Periegesi della Grecia - II, 32, l O

21

Pausania, Op. cit. , X, 29, 3

22

Ovidio, Metamorfosi - XV, 76 1 ,

1 18

23

Stazio, Liber Silvarum, p.837

24

H. Jeanmaire, Dioniso, p.94, Einaudi, Torino, 1 972.

25

Inni Orfici a cura di Giuseppe Faggin, 3 1 , Asram Vidya, Roma, 1 986

26

Colli, Orphica, 4(B59), Proclo, Commento a Platone, La Sapienza Greca, Adelphi, Milano, 1 977

27

Plutarco, De E Apud Delphos

28

Carolina Lanzani, La religione Dionisiaca , p. 1 3 3-34, Fratelli Melita, Genova, 1 987

29

Kerenyi, Op. cit. , p. 1 9 1



Kerenyi, Dei ed eroi della Grecia

31

Kerenyi, Op.cit. , p. 1 7 , vv. 235-240

32

Kerenyi Op.cit., p. l 07

33

Kerenyi, Op.cit. , Pausania, VITI, 47, 4

34

Pindaro, Pitica XI, vv. 1 5-20

35

Euripide, Ifigenia in Tauride, 27, Kerenyi Dèi ed Eroi, Op.cit., p.3 1 2

36

Giamblico, I Misteri, p.56-68. , Sebastiani, Milano

37

H. Jeanmaire, Dionisio, p. I O l , Einaudi, Torino, 1 972

38

H. Jeanmaire, Op.cit. , p.367

39

C. Kerenyi, Op.cit. , p. l 22

40

C. Kerenyi, Op.cit., p.208

41

Giuliano Imperatore, Contro il Cinico Eraclio, p.529, La Restaurazione del Paganesimo, Melita, Genova, 1 988

42

Virgilio, Georgiche IV, vv. 3 1 5-560

43

Porfirio, L 'Antro delle Ninfe

44

Giamblico, Misteri

45

Pindaro, Nemea X, vv. 50-70

46

Odissea, Libro IV

47

Salustio, Sugli Dèi e il Mondo

1 19

48

In no Omerico a Demetra, vv. 256-260

49

C. Kerenyi, Miti e misteri, Op. cit.

50

C. Kerenyi, Op. cit.

51

C. Kerenyi, Op. cit., Amobio, Adversus Nationes, Il Saggiatore, Milano, 1 972

52

Salustio, Op.cit.

53

Giuliano Imperatore, Inno alla Madre degli Dèi

54

Apollodoro, Op.cit.

55

Erodoto, Le Storie

56

C. Kerenyi, Op.cit. , p. l 68

57

C. Kerenyi, I Misteri dei Cabiri, p. 1 68, da Mito e Misteri, Boringhieri, 1 990, To­ rino

58

Colli, I.n Sapienza Greca, p. 1 1 5, Adelphi, Milano, 1 98 1

59

Colli, Op.cit. Fram., 39



Colli, Op.cit. , p.203

61

Inni Orfici, Alle Nere idi

62

Giuliano Imperatore, Op.cit.

63

Colli, p.239, Op.cit.

64

Colli, Diane Cassio, p. 1 1 3

65

Testi Gnostici Cristiani, Laterza

66

Dumezil, I.n Religione Romana Arcaica, Rizzoli, 1 977

67

Georges Dumezi l, l.n Religione Roma na Arcaica, p.442-43 , Rizzoli , Milano, 1 977

68

H. Jeanmaire, p.247, Op.cit.

69

C. Kerenyi, Dioniso, Adelphi, Milano, 1 993, p.247



C. Kerenyi, Op.cit., p.249

71

C. Kerenyi, Op.cit., p.249

72

J. Carcopino, Op.cit. , p.236

1 20

73

Boris de Rachewiltz, Egitto Magico Religioso, Melita, 1 989, p. l 24-27

74

G. Colli, Orphica, La Sapienza Greca, Adelphi, Milano, 1 98 1 , p.235

75 76

G. Colli, Op. cit. , p.235

77

C . Kerenyi, Dioniso, Adelphi, Milano , 1 993, p. 1 86

78

C. Kerenyi, Op.cit. , p. l 88

79

C. Kerenyi, Op.cit. , p.347

80

Plutarco, De /side, Sansoni, Firenze , 1 962

81

Varrone, De Lingua latina, U.T.E.T Torino , 1 979

82

C. Kerenyi, Op.cit. , p. l 02

83

Op.cit., p. 1 7

84

C. Kerenyi, Op.cit. , p. 1 02

85 86

Macrobio, I Saturnali, l. 2 1 -20, U.T.E.T. , Torino , 1 977, p.294

87

Robert Graves, Op.cit., p.248

88

Sallustio, Op.cit. , p. l 6

89

Walter Otto, Gli Dèi della Grecia, La Nuova Italia, Firenze, 1 968, p.3 1

90

Plutarco, Amatorius, p.93

91

Plutarco, De Genio Socratis, P. 105

92

Pausania, Guida della Grecia, Libro I, 30

93

Pausania, Op.cit., p. 1 67

94

Plutarco, Op.cit. , p. 1 65- 1 72

95 96

Ovidio, Metamorfosi, vv. 895-965 R. Graves, Op.cit. , p. 280

97

K. Kerenyi, Op.cit. , p.2 1 8

98

Porfirio, Op.cit., p.6 1

99

Porfirio, Op.cit., p.44

H. Jeanmaire, Op.cit. , p.4 1 2

Porfirio, L'Antro delle Ninfe, Archè, Milano , 1 974

12 1

100 101 102 1 03 1 04 1 05 106 1 07 108 1 09 1 10 111 1 12

1 13 1 14 1 15

Porfirio, Op.cit. , p 62 Plutarco, Op.cit., p . l 04- 1 05 Salustio, Sugli Dèi e il Mondo Omero, Odissea Giamblico, Vita Pitagorica, p.4-5 , Laterza, 1 973 Diodoro Siculo, C. Kerenyi, Dei ed Eroi, Op.cit. Euripide, Colli, p.55, Op.cit. C. Kerenyi, Dei ed Eroi, Op.cit., p.2 1 9 Orphicorum Fragmenta, Kem - C. Kerenyi, Dei ed Eroi, p.3 10, Op.cit.

Apuleio, Metamorfosi, p.430, Mondatori, Milano, 1 988 Detienne, Il Mito, p. l 72, Laterza, Bari, 1 982 Walter Otto, Inno ad Apollo Pitio, p.820, Op.cit. Eraclito, Fragm 5 1 , a cura di Antonio Capizzi, Edizioni dell' Ateneo e Bizzarri, 1 979 Walter Otto, Op.cit., p.94 Plutarco, De Apud Delphos Plutarco, De Apud Delphos, 9-F-389-B

122

collaM di .uudi e ricen·he l'U/Je tradi::.ioni spirituoli

VOLUMI PUBBLICATI

Mistica e religioni Didaché, V. L. Guidetti Breve commento al Pater, A. di Tuscolo

Il Mistico Silenzio di S,

Serafino di Sarov, V. Dordolo

Filosofia Mistica, A. Smimov L 'Arca della Creazione, P. Beneito Amore Divino e Amore Umano, R. Simini Alle radici del Cristia nesimo : i Copti, C . Caroli Ibn Al- 'Arabi -

Il segreto dei 99

nomi di Dio, P. Beneito

Energie Divine, A. De Luca

Mitologia etnologia La ruota degli Dèi, F. Pacini La caverna cosmica, A. Bonifacio

Il sacro arcaico, M. Giannitrapani I Veda di Artù , L. Moschella Mitologia del Rito - da Odisseo ai Luperci, A. M. Del Bello - D. Lanzetta, con una

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Il

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Scienza sacra Hermetica geometria, A. Graziotti Ritmi e Riti, C. Lanzi Ritmi della scienza sacra, C. Lanzi La Porta ermetica di Rivodutri, A. M. Partini - C. Lanzi

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Aforismi, jiabe arcaiche Storia di un .filosofo molto stanco, Oz Nahali Gusci di Noce sul Fiume Giallo, Lu-Dzao-Cian-Li Coversazio ni con L 'A ngelo, Oz Nahali Piccoli Pensieri, C. Lanzi Giardino d ' inverno, A. di Tuscolo

Simmetria,

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Atti dei convegni pubblicati La spada, la dama, i cavalieri e la Croce (Roma 2004).

Astrologia e Mito (Roma 2006) La Preghiera del cuore (Norcia 2006)

I quaderni di Simmetria L 'attenzione spirituale, C. Lanzi

Il cinema dietro

lo schermo, A. De Luca - S. Vordemann

L 'arte dell 'icona, V. Dordolo La scienza postmoderna e il cristianesimo, J. Andres

Il Fiore della

Vìta negli utensili in rame a Isili, G. Sanna