L'istituzione immaginaria della società (parte seconda) [2] 8833908941

L'opera teorica di Castoriadis fa corpo con un progetto politico mirante alla realizzazione dell'autonomia ind

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L'istituzione immaginaria della società (parte seconda) [2]
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Comelius Castori adis. nato nel 1922 in Grecia. vive in Francia dal 1945. Co fondatore del gruppo e della rivista « ocialisme ou Barbarie». ne pri ncipale animatore dal 1948 nl 1966.

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Firenze 1989). primo volume di una tri logia.

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Cornelius Castoriadis

L'istituzione immaginaria della società (parte seconda) Edizione italiana a cura di Fabio Ciaramelli Presentazione di Pietro Barcellona

Bollati Boringhieri

Primo edi zi one gennai o 1995

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1995 Bollat i Boringhieri edi tore s.r.l., Torino, cors o V ittorio Emanuel e 86 I dirini di memo rizzazi one elettronica , di riproduzione e di adat tam ento totale o pnrzi ale con qualsiasi mezzo (compresi i microfil m e le copie lotostatic he) so no riservati S tam pato in Italia dalla Stam pat re di Torino ci 61-98546 ISBN 88-339-0894-1

Tirolo originale L'institution imaginaire de la société II. L'imaginaire social et l'i nstitution e 19 i, Editions du Scuil, Paris Traduzio ne di Fabio Ciara mclli e Fabrizio N icolini, condotta sulla corretta, del 1979

Progetto grafi co della copertina di Louise Fili

4 cd.,

riveduta e

Indice

Introduzione di Pietro Barcellona Nota del curatore Prefazione dell'autore all'edizione originale

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L'istituzione immaginaria della società 3

1.

Il sociale-storico I possibili tipi cli risposte tradizionali, 6 La società e gli schemi della coesistenza, 15 La storia e gli schemi della successione, 23 L'isti tu zione filosofica del tempo, 28 Tempo e creazione, 39 L'istituzione sociale del tempo, 48 Tempo identitario e tempo immaginario, 58 Indistinzione del sociale e dello storico. Astrazioni della sincronia e della diacronia, 66

73

2.L'istituzione sociale-storica: «legein» e «teuchein» La logica identitaria e gli insiemi, 74 L'istituzione sociale degli insiemi, 81 L'appoggio della società alla natura, 84 Il «legcin» e il linguaggio come codice, 95

Aspetti del «legein», 1o4

Aspetti del «teuchein», 14=

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12 5

«Legein», determinatezza, intelletto,

121

Storicità del «legein» e del «teuchein», 136

3.L'istituzione sociale-storica: l'individuo e la cosa Il modo di essere dell'inconscio, 143 La questione dell'origine della rappresentazione, 153 La realtà psichica, 167 Il nucleo monadico del soggetto originario, I7o La rottura della monade e la fase triadica, 178 La costituzione della realtà, 188 La sublimazione e la socializzazione della psiche, 193 Il contenuto sociale-storico della sublimazione, r99 L'individuo e la rappresentazione in generale, 2o4 Il pregiudizio della percezione e il privilegio della «cosa», 217 Rappresentazione e pensiero, 226

4.I significati immaginari sociali I magmi, 231 I significati nel linguaggio, 237 I significati immaginari sociali e la «realtà», 249 I significati immaginari sociali e l'istituzione del mondo, 256 Il modo di essere dei significati immaginari sociali, 263 Immaginario radicale, società istituente, società istituita, 269

275

Note

Introduzione

1.

L'antropologia della mancanza: empirismo e trascendentalismo

E come meravigliarsi se tanti giovani, che rifiutano la loro trasformazione in animali logicistici ma spesso senza avere, proprio a causa del sistema che li ha «educati», la possibilità di dimostrare l'inconsistenza teorica di questo sistema, diano così spesso alla loro rivolta delle forme irrazionalistiche? In realtà, sarebbe ingenuo pensare che il problema del sapere e del suo rapporto con la società possa essere affrontato su un piano meramente logico. Cosa potrebbe in effetti significare mettere in questione l'istituzione sociale della scienza contemporanea, al di fuori di una messa in questione della società istituita? Non vi è politica della scienza e nemmeno scienza della politica, salvo, nei due casi, come mistificazione o pseudotecnica manipolatrice. Vi è soltanto, vi deve essere, politica pensata e pensiero politico, ed è questo che i tempi domandano. E come potrebbe, questa istituzione, essere abolita nella sua forma presente, senza una scossa radicale dell'organizzazione interna del sapere e del lavoro scientifico che gli è congruo? La trasformazione della società che il nostro tempo esige si dimostra inseparabile dall'autosuperamento della ragione. Come quella non ha nulla a che vedere con le mistificazioni dei demagoghi e degli illuminati di tutti i tempi, cosl questo non può essere confuso con le «rivoluzioni» periodicamente proclamate dagli impostori che salgono sui palchi. In ambedue i casi, quanto è in gioco non è soltanto il contenuto di ciò che deve cambiare - il tenore e l'organizzazione del sapere, la sostanza e la funzione dell'istituzione - ma altrettanto e ancora di più il nostro rapporto con il sapere e con l'istituzione; nessun cambiamento essenziale è ormai concepibile se al tempo stesso non è un cambiamento di questo rapporto. Aver intravisto questa possibilità resterà, qualunque cosa avvenga, la grandezza dei nostri tempi e la promessa della sua crisi (C. Castoriadis, Gli incroci del labirinto).

Tutta l'opera di Castoriadis si sporge continuamente oltre la ragione istituita, opponendosi alle forme di pensiero radicate nei

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PIETRO

BARCELLONA

vari campi degli specialismi accademici e riconducibili al nucleo metafisico della logica identitaria. Contro l'individualismo metodologico, che finisce col ricondurre ogni forma dell'agire alla motivazione utilitaristica dell'azione individuale, Castoriadis oppone che l'individuo è già e da sempre una istituzione sociale e che questa lo trascende da ogni parte e in ogni senso. Contro le visioni totalizzanti della società o del sistema che riducono l'individuo a mera contingenza o appendice di un sistema indifferente, Castoriadis oppone che come Atene non è pensabile senza gli ateniesi, così i significati sociali non sono pensabili senza gli individui che li incarnano e la cui psiche sfugge comunque a ogni tentativo di addomesticamento integrale. Contro il realismo gnoseologico che si appella continuamente alla verifica empirica e alla rispondenza delle rappresentazioni alla cosiddetta realtà naturale, Castoriadis oppone il carattere storicosociale del mondo umano e dell'ambiente in cui si svolge l'azione degli individui, e l'impossibilità di pensare un «reale» che non sia · socialmente istituito. Contro il costruttivismo esasperato che finisce col perdere ogni confine tra «racconto» e «realtà», tra reale e immaginario, Castoriadis oppone che, perché ci sia conoscenza, è necessario che almeno qualcosa dell'essere sia conoscibile. L'essere non è trasparente e neppure afferrabile in modo esaustivo, ma se le rappresentazioni del mondo non sono un puro ricalco, non esprimono neanche un arbitrio assoluto. Contro il logicismo della gnoseologia positivistica Castoriadis oppone che non si dà processo conoscitivo senza investimento affettivo sulla ricerca della verità e che non c'è conoscenza senza passione del conoscere: il soggetto epistemico è un soggetto affettivo. La riflessione di Castoriadis in aperta rottura con la logica identitaria che domina incontrastata nel pensiero ereditato e nel pensiero contemporaneo, si struttura a partire da polarità irriducibili e tuttavia coessenziali e codeterminate. A partire dalla pratica psicoanalitica (cui fa riferimento) la quale impone di fare i conti con il postulato pratico della singolarità dell'individuo nella cura, che si accompagna all'evidenza massacrante della sua non singolarità; nel mentre che l'ipotesi della sua riducibilità nella teoria incontra l'evidenza ironica della sua irriducibilità.

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Nella riflessione di Castoriadis si trovano coppie che la logica identitaria non riesce a pensare e a concepire: la coesistenza dell'unità e della molteplicità, la coalescenza dì singolare e universale, la coappartenenza di fatto e diritto, di empirico e trascendentale. Nell'esperienza psicoanalitica il reale è trascendentale; la ragione è di fatto, ma non è un fatto; la riflessività non può essere pensata che a partire dalla riflessività, ma la sua insorgenza si radica nell'effettività della prassi. Non ci si può intendere se l'intendersi non è già istituito, ma l'istituzione della comunicazione discorsiva implica un accadere creativo che si pone come «fatto». L'intersoggettività è una istituzione sociale e non il semplice accordarsi dell'io con il tu. Castoriadis non si esercita sul pensiero degli altri per fornire un ennesimo racconto del mondo e una ennesima versione delle vicende che hanno strutturato l'esserci degli uomini sul pianeta: non appartiene all'ermeneutica dominante, non strizza l'occhio né al costruttivismo, né al decostruttivismo. Si pone di fronte ai problemi e alle domande radicali su cosa dobbiamo e possiamo pensare, cosa siamo gli uni per gli altri, interrogando le pratiche nelle quali siamo immersi. Tutte le grandi narrazioni sul passaggio dallo stato di natura allo stato civile, dalla società naturale alla società artificiale, sono tributarie invece della tradizione metafisica del pensiero ereditato e rappresentano una chiusura al riproporsi di tali domande radicali. Per uscire da questa chiusura bisogna rompere con tutte le tradizioni di pensiero che in qualche modo si collocano entro questo campo e che, anche nelle forme più sofisticate della modernità, ripropongono la dialettica fra natura e cultura, fra natura e artificio in una sorta d'insopprimibile dialettica razionale della storia che trasvaluta l'empiria nel trascendentale della Razionalità astratta, autoreferenziale e autofondata. Bisogna mettere in «questione» il paradigma più diffuso in tutti i campi del sapere contemporaneo che tende a rappresentare il rapporto tra i «bisogni umani» e l'istituzione sociale nei termini di un rapporto di un prima «naturale» e di un dopo «sociale», di una naturalità istintuale che viene plasmata estrinsecamente da una istituzione che esprime la razionalità strumentale (capace di selezionare e ordinare le pulsioni psichiche).

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La dialettica natura/artificio è sotto questo aspetto un paradigma dominante del pensiero contemporaneo, sin sotto forma di scienza sociale, scienza politica, scienza giuridica, sia sotto forma di filosofia e di epistemologia: da un lato, la massa delle pulsioni, dei bisogni, dei desideri, dall'altro la razionalità strumentale, le istituzioni normative, la tecnica. L'uomo soggetto di bisogni è l'oggetto su cui si esercita la potenza ordinante della ragione moderna. Il precipitato di questi postulati è rappresentato al meglio dall'antropologia negativa di Arnold Gehlen e dall'autoreferenza sistemica della teoria dell'evoluzione sociale di Niklas Luhmann , che strutturano la prassi e l'autorappresentazione della società contemporanea assai più degli epigoni di Nietzsche e Heidegger. Il percorso dall'antropologia di Gehlen alla teoria sistemica di Luhmann è la sintesi più efficace della parabola della modernità. Gehlen ha la pretesa di determinare una vera e propria scienza empirica che spiega il passaggio dalla natura alla società. Secondo Gehlen, l'uomo è un problema biologico singolare, una mostruosità biologica, giacché a differenza dell'animale non possiede organi specializzati a garantire la vita in un ambiente prestabilito. L'imperativo della sopravvivenza che costituisce il nucleo del vivente è messo a repentaglio da un «errore intenzionale» della natura che non lo ha dotato di meccanismi selettivi adeguati a scegliere tra le infinite possibilità del mondo esterno quelle più convenienti allo scopo di conservarsi e riprodursi. Da Nietzsche a Scheler, l'uomo è un animale non ancora consolidato, esposto a un campo di sorprese infinite e, tuttavia, mosso dall'istinto di autoconservazione. Per Gehlen la creatività umana ha in definitiva uno statuto naturalistico e uno sviluppo che la caratterizzano secondo una linea evolutiva quasi deterministica; lo statuto naturalistico della creatività umana ne cancella ovviamente la dimensione sociale. La mancanza originaria è infatti l'espressione di un progetto della natura che ha fatto dell'uomo lo strumento perché la vita si intensifichi fino al punto di governare se stesso, la sua riproduzione e la sua espansione. Questa mancanza originaria di un codice automatico, determina infatti la necessità di istituire un sistema di selezione che trasformi lentamente il mondo delle pulsioni in azioni intenzionali e progressivamente in azioni abituali. Il «progetto della natura» si compie attraverso la metamorfosi

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del mondo pulsionale in un mondo organizzato di desideri e di bisogni che possono essere soddisfatti sulla base di una preventiva regolamentazione delle azioni compatibili con lo scopo della loro soddisfazione. L'evoluzione umana, il processo di civilizzazione è il passaggio continuo dal mondo fluttuante delle pulsioni al mondo ordinato delle azioni intenzionali, orientate secondo uno scopo e convalidate dal successo che si ottiene realizzando la soddisfazione dei desideri. Là dove c'erano le pulsioni debbono subentrare le abitudini, debbono subentrare le regole, gli ordinamenti, l'istituzione. L'istituzione appartiene a questo processo: è ciò che consente di rendere quasi automatico il funzionamento della ragione strumentale; è ciò che permette di ridurre al minimo il rischio d'incertezza sull'esito dell'azione; è per definizione lo strumento di adeguamento tra mezzo e fine, la strutturazione di un calcolo che si traduce in una macchina automatica capace di sostituire l'uomo. È proprio l'istituzione che consente all'uomo di liberare il massimo di desideri che nel corso del processo di civilizzazione ha dovuto in qualche misura controllare e reprimere. Precisamente per Gehlen la cultura, la scienza, la tecnica, le istituzioni sono i «dispositivi esterni» che permettono all'uomo di uscire dalla sua strutturale carenza-eccedenza, e di agire operando selettivamente nello spazio minaccioso e complesso del reale. La cultura, e l'istituzione in cui si incarna, ha il compito di «fissare una gabbia normativa» che realizzi la stessa sicurezza di quella istintuale. Le istituzioni hanno il significato di riprodurre quei comportamenti che si sono rivelati utili alla sopravvivenza e che si pongono come «abitudini già stabilite». L'indeterminatezza naturale dell'essere umano si traduce così nella necessità dell'estraniamento. L'istituzione toglie la plasticità dell'eccesso pulsionale e assicura l'esistenza ponendola al riparo dal rischio dell'indecisione. L'istituzione diventa misura del vivente, giacché consente di fissarlo in una forma conclusa che ne garantisce all'infinito la riproduzione. Allo stesso modo l'accadere tecnico, l'oggettivazione del lavoro sono il risultato di un processo condotto nella specie uomo, inconscio al singolo, la cui motivazione «scaturisce dall'ambito sensoriale della nostra natura». L'istanza della tecnica è la stessa dell'azione:

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la tendenza naturale a diminuire la fatica, a superare la propria carenza organica attraverso strumenti che permettono l'appropriazione del mondo e la soddisfazione dei bisogni. Nella tecnica e nelle istituzioni agiscono motivi inconsci, istinti vitali che caratterizzano in senso evolutivo la costituzione umana nella direzione di una sempre più stringente connessione fra azione ed efficacia, e cioè selezione delle possibilità, memorizzazione e reiterazione delle azioni già sperimentate come utili, incorporazione dell'azione in un «meccanismo». Scompare in questa visione ogni dimensione sociale e storica dell'agire umano, giacché il punto culminante di questo processo è una specie di ora zero in cui la storia si esaurisce e cessa la spinta naturale alla produzione di regole e di strumenti. Al posto della fluttuazione degli istinti e delle pulsioni subentra il «grande apparato» capace di tenere la vita, di conservarla, di assicurarla e di riprodurla. L'antropologia della «mancanza» di Gehlen trova il suo compimento nella teoria del sistema e dell'evoluzione sociale di Luhmann. Niklas Luhmann afferma drasticamente che il termine sistema non può essere inteso né come sinonimo di una soggettività creativa, né come effetto di costruzione soggettiva e neppure come aggregato di soggetti individuali. L'individuo (secondo Luhmann) è mera datità empirica, contingenza verso la quale il sistema sociale è impegnato nel compito autonomo di ridurre la complessità, l'indeterminatezza e la problematicità attraverso la selezione delle alternative di comportamenti possibili in una situazione concreta, obiettivamente aperta a esiti incerti. L'individuo è un puro luogo, un puro ambiente in cui si raccolgono e si intrecciano le trame di un sistema sociale che si articola ormai in status e ruoli tra loro interconnessi secondo regole che sfuggono a ogni comprensione individuale. Lo stesso processo di comunicazione tra gli uomini è definito da Luhmann come un incrociarsi di prestazioni selettive. L'individuo è un mero punto d'incontro di una catena selettiva (di aspettative e di prestazioni, di domande e di risposte istituzionalizzate nel sistema dei ruoli sociali, delle regole e dei codici linguistici) la cui complessità è indipendente dalla capacità di elaborazione cosciente di ciascuno. E del resto, come si realizza l'esperienza individuale se non attraverso la trasmissione da un soggetto all'altro

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di prestazioni selettive che operano la riduzione della complessità del mondo senza sovraccaricare il singolo del compito di porre egli stesso limiti e argini alla pericolosità disordinata e incombente del mondo esterno? Il collegamento delle prestazioni selettive dei sistemi, costituiti dai singoli individui, determina secondo Luhmann l'emergenza del sistema sociale che si costituisce proprio secondo un processo di estraneazione costitutiva, di guisa che la totalità sociale è strutturalmente invisibile al singolo soggetto umano. Non esiste nessun sistema rispetto al quale l'individuo possa essere preso in considerazione come personalità totale, come centro di riferimento e d'imputazione unitaria. E proprio per questo i confini dei diversi sottosistemi non hanno natura fisica, ma sono il risultato di una scelta e di una operazione di adattamento che il sistema compie ridisegnando continuamente i suoi rapporti con l'ambiente, e quindi con la molteplicità degli individui in carne e ossa. La coppia costitutiva della teoria sistemica (e, cioè, il rapporto d'interazione tra sistema e ambiente) è infatti «fondata» sull'idea della complessità del mondo, della sua indeterminatezza problematica e quindi sull'idea che solo attraverso la strutturazione di possibili strategie di comportamento sia possibile una esperienza orientata e non caotica del mondo esterno. Il compito del sistema è essenzialmente quello di ridurre la complessità del mondo e dell'ambiente esterno trasferendola al proprio interno secondo un principio di autorganizzazione che presiede alla differenziazione del sistema in sottosistemi. Proprio questo funzionamento del sistema, questo suo rispondere a una logica assolutamente autoreferenziale, di mantenimento della propria stabilità e di autorganizzazione secondo il principio della differenziazione in ambiti autonomi e in insiemi strutturati di strategie possibili, impedisce di assumere come punto di riferimento la coincidenza dell'agire individuale con la razionalità sistemica. Motivazioni individuali e razionalità sistemica si presentano così come fenomeni incommensurabili. Il sistema rappresenta un principio di unificazione e d'interrelazione tra azioni differenziate che opera in modo assolutamente oggettivo, determinando il proprio orizzonte rispetto alla mutevolezza caotica e pericolosa dell'ambiente esterno.

PIETRO BARCELLON A

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2.

Animalità e umanità: la psiche e la società come immaginario radicale

L'opera di Castoriadis si sottrae radicalmente a questa sorta di evoluzionismo naturalistico che finisce col consegnarsi alla totalità raggelante del sistema luhmanniano: l'apriori sistemico che struttura l'essere del mondo. Secondo Castoriadis, come è impossibile e persino ridicolo parlare dell'essere, escludendo gli essenti, così è impossibile parlare della società escludendo gli individui in carne e ossa. L'istituzione sociale, lo storico-sociale «oltrepassa infinitamente qualunque intersoggettività» e il semplice guardarsi in faccia non potrebbe aver luogo, né potrebbe aver senso se non tra soggetti già socializzati. Ma questo non significa che «l'individuo come tale sia contingente rispetto alla società», giacché concretamente la società non può esistere senza l'incarnazione e l'introiezione dei suoi «significati immaginari» da parte degli individui, parlanti e agenti. Creandosi, la società crea gli individui entro e attraverso i quali soltanto può avere esistenza effettiva. Per altro verso, non si può rappresentare l'individuo effettivo come il mero contenitore di una massa di bisogni determinati dalla sua natura biologico-naturale e l'istituzione sociale come la «macchina artificiale» che provvede alla loro soddisfazione secondo le leggi della Ragione calcolante. L'individuo, infatti, è sempre sociale e la «mancanza» è socialmente istituita, giacché individuo e società esistono a partire dalla «rottura» delle regolarità informativo-operazionali del livello biologico-naturale. Per Castoriadis l'individuo umano è da sempre individuo sociale e l'opposizione individuo società è semplicemente falsa. La polarità irriducibile e incancellabile si pone, in realtà, tra psiche e istituzione sociale, ma la psiche non è l'individuo, la psiche diventa individuo unicamente nella misura in cui essa subisce un processo di socializzazione senza il quale non avrebbe nessuna possibilità di accesso al mondo. Più esploriamo la psiche più constatiamo che in tutti i suoi strati sono depositati gli effetti di un processo di socializzazione che ha subìto sin dalla sua genesi. Questo processo di socializzazione è un'attività sociale, mediata sempre da individui in carne e ossa, come la coppia dei genitori, ma non

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è solo questo. Gli individui sono già sempre socializzati e ciò che essi trasmettono Ii trascende ampiamente. All'altro polo della psiche si colloca infatti l'istituzione sociale che è creazione originale del campo storico-sociale, del collettivo umano anonimo e plurale, al quale anche il nostro linguaggio continuamente rinvia. Queste affermazioni non sono una ennesima versione dell'origine dell'individualità e della socialità ma traggono alimento dalle scoperte di Freud e della psicoanalisi (alle quali il pensiero di Castoriadis fornisce uno sviluppo e un contributo originale). Già nello scritto sulle pulsioni del 1915 Freud forniva implicitamente un criterio di differenziazione radicale tra animalità e umanità. Come negli animali anche negli uomini le pulsioni inducono nella psiche una rappresentazione. La differenza compare quando (come osserva Castoriadis) questa rappresentazione appare costante nell'animale e variabile nell'umano. Per ciascuna specie animale la rappresentazione rappresentativa della pulsione è fissa, determinata, codificata. I comportamenti animali sono provocati dalle stesse rappresentazioni stimolatrici e sono standardizzati e costanti. Il vivente non umano funziona secondo la logica dell'autoconservazione e dell'intrinseca funzionalizzazione alla sopravvivenza, dell'autoreferenza e dell'autoriflessività che consente sempre e in modo standardizzato di riferire l'« ambiente» al «per sé». Niente di tutto ciò accade per gli uomini. Il perché di questa differenza si spiega con il fatto che la funzione rappresentativa (componente essenziale dell'immaginazione), mentre in ogni essere vivente è funzionalizzata all'accesso a prodotti determinati, al contrario nell'essere umano è totalmente defunzionalizzata. Anzi il piacere di rappresentazione negli esseri umani tende a prendere il sopravvento sul piacere d'organo, determinando due condizioni affatto peculiari. Da un lato, la necessità, per evitare la «morte» dell'individuo umano, che la fantasia di piacere sia rotta dall'esterno per consentire l'accesso alla realtà e quindi alla sopravvivenza. Per altro verso, l'assenza di vincoli funzionali dell'attività immaginaria degli individui umani rende possibile quel processo di sublimazione attraverso il quale gli uomini possono investire affettivamente in oggetti e attività che non soltanto non

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procurano alcun piacere d'organo, ma la cui creazione e valorizzazione è sociale, e la dimensione essenziale non percepibile. Sotto questo profilo, afferma Castoriadis, la rottura radicale con l'animalità è determinata dall'emergere dell'immaginazione radicale della psiche singola e dell'immaginario sociale, in quanto causa delle istituzioni e quindi degli oggetti e delle attività che possono nutrire la sublimazione. Questo emergere dell'immaginario radicale distrugge la regolazione istintuale dell'animale, fa sorgere l'esigenza del senso e della significazione e risponde a questa esigenza con la creazione sociale e collettiva delle significazioni immaginarie sociali che rendono conto di tutto ciò che si presenta di volta in volta in una società determinata. In questi termini l'autoreferenza e l'autoconservazione sono, al livello del vivente storico-sociale, socialmente istituite a partire dalla creazione delle significazioni immaginarie che pongono le mete e i fini condivisi e sanzionati. Queste significazioni, veicolate da oggetti socialmente istituiti, sono normalmente investite dai singoli individui sotto pena di morte o di follia. In questi termini ciò che viene percepito da ogni singolo individuo come una mancanza o come un bisogno è sempre una creazione sociale.

3.La psiche, il fantasma e l'istituzione sociale della «mancanza»

È su questo tema che Castoriadis fornisce un contributo interessante e originale alla psicoanalisi e pone le condizioni per uno sviluppo inedito della riflessione sul rapporto fra psiche, istituzione sociale, immaginazione e istituzione del reale e del razionale. Tutte le interpretazioni e le versioni che sono state fin qui fornite della dinamica del desiderio e del bisogno trovano il loro punto di partenza nella necessità per il soggetto di colmare, coprire un vuoto, una mancanza che gli sarebbe consustanziale. Anche le teorie psicoanalitiche tendono a rintracciare un primo oggetto perduto, una tragica scissione implicata nella struttura stessa del soggetto. La funzione dell'immaginario sarebbe appunto quella di compensare questa apertura abissale, questa mancanza di essere del soggetto. Il soggetto, si dice, è essenzialmente desiderio e il desiderio si ali-

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XVII

menta della mancanza dell'oggetto. Il desiderio si alimenta soltanto della mancanza di un oggetto desiderato. Ma, come osserva giustamente Castoriadis, come si può parlare di un oggetto che manca, se la psiche non lo ha posto già come desiderabile? E come un oggetto può essere, può divenire desiderabile se non è stato già investito da un affetto? E come può essere stato investito da un affetto se non è stato mai in nessun modo presente? Il desiderio è certo desiderio di un oggetto mancante, ma l'oggetto è mancante solo se il desiderio lo ha istituito. È vano voler ricondurre questo processo a caratteristiche strutturali dell'oggetto o a connotazioni naturali o a determinanti biologiche della costituzione del soggetto. Evidentemente ciò che la psiche fa essere non è dettato, né dalla realtà corporeo-biologica del soggetto, né dai caratteri dell'oggetto, giacché altrimenti sarebbe identico dovunque e sempre; ma non è neanche prodotto in uno stato di libertà assoluta relativamente a tale «realtà», giacché questa non può essere né ignorata, né manipolata in modo totalmente arbitrario. La relazione tra psiche e realtà corporeo-biologica/mondo esterno non è, però, riducibile ai termini del pensiero tradizionale e della logica ontologica ereditata. Bocca e seno, ad esempio, non sono per un neonato, né causa né mezzo e neanche significati significanti in relazione univoca con un significato. Qui entra in gioco la creatività della psiche come immaginazione radicale e l'emergenza della rappresentazione che rendono impraticabile sia l'idea che il seno sia causa di un fantasma sia l'idea che tutto si possa spiegare facendo ricorso al carattere universalmente determinante della pulsione orale. Perché vi sia mancanza per la psiche è necessario che la psiche sia quel che fa essere qualcosa e che la psiche possa far essere qualcosa come mancante. Ciò comporta che essa possa porre come essente ciò che non è, e cosire nderlopresente e raffigurarlo in relazione a una rappresentazione di sé come ciò a cui non manca nulla. Non vi è quindi scoperta dell'oggetto come assente se non sulla base dell'esigenza che nulla debba essere assente, che nulla debba mancare. È solo così che l'oggetto può essere posto come mancante. Tutto ciò - continua Castoriadis - rinvia a un modo di essere originario della psiche, come un rappresentare-rappresentazione a cui non manca nulla, a una intenzione, meta o tendenza sempre

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realizzata e sempre presente. A livello originario non può esservi distinzione tra rappresentazione, intenzione e affetto, ma non vi possono essere neppure oggetti mancanti e desideri. Originariamente la psiche deve dunque pensarsi come una monade chiusa in uno stato di autismo e di assoluta tranquillità psichica. Questo investimento narcisistico originario non può essere che «rappresentazione» di sé, coincidenza di soggetto e oggetto, «occupazione» della «scena» a opera del sé totale. La forma primordiale della psiche è, dunque, la forma riflessiva. Di questo stadio vi sono tracce e indizi indelebili in quello che gli psicoanalisti chiamano il soddisfacimento allucinatorio e nello stesso autismo derivato. Se la pienezza della monade psichica realizza la massima coincidenza di soggetto e oggetto, la presenza totale a se stesso, vota tuttavia il piccolo d'uomo alla morte. Perché il piccolo d'uomo viva è necessario che la chiusura sia violata e che l'oggetto di piacere sia trasformato in oggetto di bisogno. La rottura della monade psichica è sotto questo profilo una violenza necessaria e un immenso atto di amore. Per la seconda volta la vita viene donata attraverso la socializzazione. Da questa rottura ha origine l'interminabile ricerca del senso come tentativo di ritrovare la coerenza tra soggetto e oggetto, il tentativo sempre esperito e mai del tutto compiutamente realizzato e la trasformazione del senso nel processo di socializzazione: e cioè nella creazione sociale dei bisogni e nei mezzi per soddisfarli. La presenza della psiche come immaginario radicale dell'essere vivente umano segna dunque la rottura dell'organizzazione regolata del vivente non umano, istituisce la forma elementare del senso nella sua connotazione solipsistica e monadica dominata dalla legge del piacere assoluto che tende a ricondurre tutto a sé. Ma questa ricerca di senso e piacere, se resta assoluta e radicale, non può che fallire e portare a morte il supporto vivente della psiche, il corpo e la psiche medesima; la psiche umana, deviata dalla necessità originaria così totalizzante, si trova però soddisfatta solo a metà, e cioè sempre parzialmente, attraverso la costruzione sociale dell'individuo. Per questa ragione il seno materno non è per il piccolo d'uomo soltanto la fonte del nutrimento, ma la prima risposta di senso, il primo approccio, la prima apertura al mondo della realtà esterna

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e dei significati sociali, e la madre non è soltanto un contenitore di latte, ma una istituzione sociale che inaugura il processo di sublimazione e di socializzazione. Il bambino che parla non è più il soggetto della pulsione e già il parlare comporta un investimento affettivo su un significato sociale immaginario. 4. L'immaginario sociale e la creazione dei signifi cati L'istituzione sociale permette a1Ia psiche di sopravvivere proponendole un'altra fonte e un'altra modalità di senso: la significazione immaginaria e sociale, la possibilità di ricondurre tutto a tale significazione, processo interminabile così come la domanda di senso è insaturabile. L'istituzione della società è istituzione delle significazioni immaginarie e sociali che conferiscono senso a tutto ciò che si presenta dentro e fuori la società. La significazione immaginaria e sociale fa essere le cose come quelle cose determinate, le pone come essenti, come quelle che sono; essa è principio di esistenza, principio di pensiero, principio di azione. La storia è creazione, è creazione di forme di vita: le forme storico-sociali non sono deducibili né da leggi naturali, né da leggi storiche. La società è autocreazione, ciò che crea la società e la storia è la società istituente che si oppone alla società istituita, alla chiusura dei significati immaginari, a1la loro pretesa assolutizzazione. La società istituente è l'immaginario sociale inteso in senso radicale e originario come magma di significati che si oppone all'immaginario della psiche e lo limita alterandone i contenuti. L'istituzione della società è creazione di un mondo umano di cose, di realtà, di linguaggi, di norme, di valori, di modi di vita e di morte, di oggetti per cui viviamo e di altri per cui moriamo, ma prima di ogni altra cosa è creazione d'individui sociali in cui l'istituzione della società è incorporata é introiettata. In questo senso è praticamente vera l'affermazione di Freud che la realtà è la società. Tutto ciò presuppone la necessità di accettare l'esistenza di un piano d'essere ignoto all'ontologia ereditata, lo storico-sociale come collettivo anonimo e il suo modo d'essere in quanto immaginario

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radicale e creatore di significati. Se non si vuole ridurre il problema della significazione a un fenomeno biologico, come finisce per fare in pratica lo stesso Habermas, bisogna parlare dell' istituzione sociale dello storico-sociale come di un livello di essere che si dà le sue leggi d'essere, come una vera e propria creazione ontologica. Quando il collettivo umano anonimo e plurale crea l'istituzione e il significato non opera una combinazione di elementi che si trovano sparsi di fronte a sé. Contestualmente la società crea la «forma istituzione» e per mezzo di questa forma si crea in quanto società. La creazione rimanda alla creazione - come scrive ancora Castoriadis -, a partire da un punto di origine inaccessibile e che si sostiene su proprietà del primo strato naturale dell'essere umano come essere biologico. Ogni creazione storica ha luogo sopra, all'interno e attraverso la società istituita. L'aspetto sociale di questo processo è appunto l'insieme delle istituzioni in cui è costantemente immerso l'essere umano fin dalla nascita e in primo luogo l'altro sociale, a partire dalla madre che si prende cura di lui, essendo già a sua volta socializzata in un mondo determinato, nonché il linguaggio parlato da quest'altro sociale. In termini più generali si può fare riferimento a tutte le istituzioni che hanno per scopo l'educazione dei «nuovi venuti», ciò che i greci chiamavano paideia: la famiglia, le generazioni, i riti, la scuola, i costumi, le leggi. La validità effettiva delle istituzioni è garantita, infatti, dal processo mediante il quale il piccolo mostro che vagisce diventa individuo sociale, e non può diventarlo se non dopo avere interiorizzato almeno in parte le istituzioni che conferiscono il senso al mondo storico-sociale. È sotto questo profilo che può essere affermato il principio per cui la psiche non può esistere se non viene socializzata. Ciò significa che essa riceve anzitutto la sua immagine del mondo e anche di se stessa, i suoi oggetti d'investimento, i suoi criteri di valutazione, le sue fonti di piacere e di dispiacere dalla società in cui si trova e dai rapporti in cui è immersa. Queste immagini, questi rapporti sono investiti appassionatamente dalla psiche singola così come dal collettivo sociale in cui si trova e senza questo investimento non potrebbero esistere né l'una né altra. Queste considerazioni non sono né empiriche né trascendentali - scrive Castoriadis - esse appartengono alla ontologia dell'essere umano individuale e collettivo e del suo

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rapporto con il mondo che egli crea e fa essere facendosi essere. Questo essere e questo rapporto non esistono che in quanto storicosociali ed è qui la dimensione centrale di tutti i problemi con cui il pensiero contemporaneo deve misurarsi: la coalescenza di empirico e trascendentale, di fatto e diritto. 5.La critica della logica identitaria e l'istituzione sociale della

filosofia e della democrazia: il progetto dell'autogoverno La logica identitaria che definisce implicitamente Io statuto della filosofia e le categorie dell'ontologia ereditata, impedisce invece di pensare la molteplicità irriducibile e la differenza dei livelli dell'essere; perciò non riesce neanche a dare una risposta al perché esistano forme così diverse di società, forme così diverse d'istituzioni, di culture ecc.; così come non riesce a spiegare perché e in che cosa le teorie si distinguono l'una dall'altra e perché il sapere umano è segnato da così clamorose discontinuità. Non riesce a pensare lo storico-sociale come uno specifico livello d'essere dove è possibile cogliere la «strana» dialettica fra reale e immaginario, mediante la quale ciascuna società si costituisce organizzando la propria sopravvivenza in funzione di significati sociali immaginari, che tuttavia strutturano contestualmente l'istituzione del reale e del razionale come condizioni di effettività degli stessi rapporti sociali. Così come non riesce a pensare alla costituzione dell'individuo come socializzazione parziale della psiche e alla costituzione del reale come istituzione sociale di un mondo comune di oggetti e significati che rendono effettivi i rapporti fra gli individui, e definiscono la intersezione/differenza fra mondo privato e mondo pubblico. L'articolazione di diversi registri dell'immaginario, del reale e del razionale è possibile solo concependo lo storico-sociale come uno specifico livello d'essere che attraverso l'istituzione sociale fa essere un mondo storico come creazione originaria, come «creazione ontologica» e tuttavia né arbitraria, né incoerente: non arbitraria perché pur non essendo un mero ricalco della realtà naturaie (che può essere detta in una infinità di modi), consente di organizzarla operativamente (le categorie suppongono che ciò che è sia categorizzabile), né incoerente giacché, pur mancando la garan-

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zia di una razionalità assoluta, la comunicazione umana comporta la coerenza del discorso (nessun linguaggio adopererà Io stesso termine per designare le nubi del cielo e le vacche sulla terra, e quando ciò accade come nella poesia - ad esempio, «i mandriani di pallida nebbia» di Lorca - si tratta pur sempre di metafore che presuppongono «l'uso abituale della lingua»). E, in verità, non ci sarebbe linguaggio se ogni volta la parola si potesse rinviare da qualsiasi parte e in qualsiasi modo, e neppure se ogni volta il rinvio fosse a un unico significato rigorosamente circoscritto. Il reale e il sapere non personificano né la realizzazione e la corrispondenza totale, né l'assenza completa. La peculiarità di questo specifico livello d'essere che definisce lo storico-sociale, per l'appunto, non può essere colta dentro un pensiero che identifica pensiero ed essere, soggetto e oggetto, ma soltanto a partire dallo specifico rapporto che intercorre fra la psiche (immaginazione radicale) e l'istituzione sociale che ne attua la socializzazione mediante la costituzione del reale, l'accesso al linguaggio comune e al fare efficace, e che è a sua volta opera dell'immaginario sociale come potere creativo del collettivo umano impersonale, forma-formante che si dà nelle diverse forme sociali storicamente istituite, ma allo stesso tempo le ingloba e le trascende. Lo storico-sociale è in questi termini il «luogo» della creazione delle forme d'essere, l'irruzione del!' alterità radicale che non si lascia dedurre da nessun presupposto o fondamento. Solo l'alterità radicale oltrepassa la mera diversità, che è equivalenza funzionale, scambiabilità (rispetto a cui la singolarità si dà sempre come indicibile), e istituisce la differenza come creazione di nuove figure d'essere, non incluse nell'essere determinato (o determinabile) della logica identitaria. In questo senso lo scarto fra essere determinato e a-essere dell'indeterminazione è una differenza di livelli d'essere non spiegabile dentro il pensiero dell'identico, che si ripete ma non si innova mai, si riarticola, ma sempre sulla base di una riconducibilità a un insieme secondo una logica puramente combinatoria e una logica di adattamento evolutivo del sistema all'ambiente. La società in quanto creazione di un eidos peculiare, è, invece, di per sé istitutiva della differenza fra essere determinato e immaginario radicale come modo d'essere dello storico-sociale, indeterminazione che incessantemente si determina e si oltrepassa. Que-

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sto livello fa essere anche la differenza fra immaginario, come creazione di senso di una società, e l'istituzione sociale del «reale» e del «razionale». Solo in questa prospettiva è possibile «riconoscere l'autonomia e l'indeterminatezza relative della prassi, la possibilità dell'azione come inizio radicale, la sua creatività etico-politica» (Ciaramelli). La società istituendosi di volta in volta istituisce altresì la differenza (e la relazione) fra le «figure» del pensiero e le forme d'essere (ciò che è, è pensabile, ma non lo è in modo esaustivo, e reciprocamente il pensiero non è trasparente a se stesso), giacché essa esiste in questa differenza che non consente né di ridurre la società a pura combinazione di elementi già precostituiti e definiti, né di ridurla a pura organizzazione della funzione della sopravvivenza biologica. Il trascendimento dell'essere biologico naturale e l'irridueibilità della società e degli individui a pura manifestazione della razionalità oggettiva del vivente, fanno della società ciò che essa è: una forma d'essere che si dà ogni volta le sue leggi (che non sono mai riducibili a codice istintuale, né ad attuazioni pratiche di princìpi preesistenti logici). Solo a queste condizioni è pensabile un progetto politico che mira all'esplicita/consapevole autoistituzione della società, e quindi la politica e la democrazia come fare umano riflessivo sempre aperto all'interrogazione radicale e all'irruzione dell'attività (di un altro ordine). Solo collocandosi sul piano dell'esperienza dello storico-sociale, dell'esperienza della pluralità di forme sociali in cui si dà la costituzione sociale degli individui e lo schema originario della loro reciproca coesistenza, è possibile, infatti, configurare la politica come interrogazione radicale sulla legge, su che cosa possiamo e dobbiamo fare, senza cercare risposte nel libro e nei profeti, nella ragione o nella natura, ma esclusivamente nella prassi umana. La società è opera dell'uomo, è una creazione del campo storico-sociale, dove è in azione da sempre il potere istituente del collettivo anonimo, dell'umano impersonale. La politica è la società che pone riflessivamente le proprie istituzioni, l'instaurazione nella storia di una istanza riflessiva e deliberante. In questi termini la politica coincide con l'istituzione sociale della filosofia e della democrazia, con la posizione del problema della verità e della interrogazione radicale su cosa è giusto e non

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è giusto fare e con la consapevolezza che la legittimità di questa domanda implica che la «giustizia» (la legge giusta) sia «opera degli uomini» e della società e che non ci sia, per contro, né legge extrasociale (divina), né Ragione immutabile. E che proprio per questo non ci può essere mai verità assoluta, né giustizia totale. La politica coincide con l'agire riflessivo di una ragione che si crea in un movimento senza fine, di volta in volta individuale e sociale. La posizione dell'interrogazione su che cosa dobbiamo pensare e che cosa dobbiamo fare è una creazione sociale di un eidos storico nuovo: l'autoriflessività come possibilità di sottrarsi alla catena dei condizionamenti esterni e di introdurre nelle relazioni che determinano/mo tivano l'azione il risultato del proprio processo di pensiero. Questa creazione è un fatto che istituisce contestualmente un dover essere: il diritto di interrogarsi su quale legge e perché, su quale verità e in che modo, e il vincolo di rispondere argomentando ragionevolmente, secondo la razionalità comunicativa. Perciò non è possibile alcuna fondazione e dimostrazione della riflessività, giacché non è possibile riflettere senza presupporre la riflessività; tuttavia una volta posta essa comporta delle conseguenze e dei vincoli coessenziali: l'impossibilità di far ricorso ad altro che non siano «argomentazioni ragionevoli» (logon didonai). La politica è la forma riflessiva del processo di socializzazione; coincide, cioè, con il progetto di darsi le proprie leggi, di prendere in mano il proprio destino e di costruire gli individui sociali come «soggetti riflessivi e autonomi». La politica come autoistituzione della società e degli individui sociali è perciò inscindibile dalla passione per la «partecipazione», per la democrazia e l'autogoverno e dal reciproco riconoscimento dei soggetti nella loro differenza e pluralità irriducibile.

6. L'indisponibilità dell'origine e l'articolazione dei livelli d'essere: oltre l'ontologia generale della logica identitaria L'autoistituzione della società, la creazione riflessiva di signi ficati non può, tuttavia, mai essere totale autotrasparenza, trasparenza della società e dell'individuo a se stessi, giacché essi non

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potranno mai disporre dell'origine, non potranno mai legare insieme origine del mondo e origine della società, significazione dell'essere ed essere della significazione, senza ricadere nella logica identitaria e nella eteronomia, e in definitiva nella «religione». Il problema del «significato del significato» è già posto nello spazio della significazione e questo a sua volta entro il livello della istituzione sociale come creazione originaria del campo storicosociale, come livello di essere che si dà le sue leggi di essere. Non si tratta, qui, semplicemente di un argomento «logico», ma della esplicitazione dell'idea stessa di creazione, emergenza di un livello ontologico che si presuppone e si dà da sé i mezzi per essere. Il vivente presuppone il vivente: il «programma genetico» non può funzionare senza che i prodotti del suo funzionare siano già disponibili. L'istituzione presuppone l'istituzione: essa non può esistere senza che individui fabbricati da essa la facciano esistere. Questo circolo originario primordiale è il circolo della creazione. Il sorgere della significazione - dell'istituzione, della società - è creazione e autocreazione: è manifestazione dell'essere come di-là-da-essere. Le questioni dell'origine, del fondamento, della causa, del fine, sono poste nella e dalla società: ma la società - e la significazione - non «ha» origine, fondamento, causa, fine altri che essa medesima. Essa è la sua stessa origine - ecco che cosa vuol dire autocreazione. Essa non ha la sua origine vera ed essenziale in qualche cosa che sarebbe esterna a lei medesima, e non ha fine diverso da quello della sua esistenza come società che-pone-quei-fini.

La significazione emerge per coprire il Caos, per rispondere alla mancanza di senso, al non-senso che consegue alla «rottura» dell'organizzazione regolata dal vivente biologico naturale facendo essere un modo d'essere che si pone come alternativa al vincolo delSignificato Assoluto e necessitante e alla Contingenza della fluttuazione magmatica dei significati senza criterio selettivo. Ma il Caos minaccia dall'inizio e per sempre l'istituzione dei significati; poiché questo emergere non ha nessuna «ragione d'essere», e la significazione è, alla fine, puro fatto che in se stesso non ha e non può «avere significazione»: la significazione non può doppiarsi su se medesima. Perché qualcosa «abbia senso e significazione» sul terreno dello storico-sociale, deve situarsi di qua dalla necessità assoluta e di là dalla assoluta contingenza, giacché il necessario ha altrettanto poca significazione di ciò che è assolutamente contingente. La significazione sociale è insieme di là e di qua dalla necessità e dalla contingenza; è sempre altrove.

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Sotto due forme, dunque, l'umanità continua, prolunga, ricrea il Caos, l'Abisso, il Senza-Fondo da cui essa emerge, Caos psichico, Senza-Fondo dell'immaginazione radicale della psiche: Abisso sociale, Senza-Fondo dell'immaginario sociale, creatore della significazione e della istituzione. E nello stesso tempo essa deve affrontare il Caos, l'Abisso, il Senza-Fondo dell'universo.

La significazione è, ipso facto, donazione di senso a ciascuna cosa e inserzione di questa cosa in relazioni di senso: è, ogni volta, creazione di un mondo correlativo alle significazioni immaginarie sociali e dipendente da queste. Ma il mondo tout court non si lascia ridurre a tale significazione. Esso è sempre anche altra cosa ed è più di quello che è (posto come esistente): il mondo sfugge verso l'alterità assoluta del non-senso. Di questo Abisso l'umanità ha senza dubbio oscura esperienza fino dal suo primo giorno. Senza dubbio è questa l'esperienza che segna e sigilla la sua uscita dalla mera animalità. L'uomo è un animale inconsciamente filosofo, che si è posto il problema della filosofia molto tempo prima che la filosofia esistesse come riflessione esplicita: ed è animale poeta, che ha dato nell'immaginario la risposta a questi problemi. Nascita, morte, sogno, desiderio, caso, proliferazione indefinita degli enti, identità e alterità dei soggetti, immensità dello spazio, ritorno delle stagioni e irreversibilità del tempo: in un certo senso nominati, designati, colti da sempre nel e dal linguaggio; in un altro senso sempre anche nuovi, anche diversi, anche di-là. Manifestazione essa stessa dell'emergenza dell'essere, l'umanità ha rotto fin dall'inizio la semplice regolazione biologica, all'apparenza e per i nostri occhi chiusa su se stessa. L'uomo è infatti il solo vivente che rompe la chiusura informazionalerappresentativa-cognitiva nella quale e per la quale ogni altro vivente è.

Contemporaneamente, in una scissione assoluta e in una assoluta solidarietà tra di loro, sorgono sia la monade psichica - essenzialmente - folle, a-reale, creazione una volta per tutte e fonte di una creazione in perpetua continuità (Abisso in noi stessi, flusso rappresentativo-affettivo-intenzionale indeterminato), sia lo storicosociale, creazione una volta per tutte della significazione e dell'istituzione, e fonte di creazione continua, Abisso come immaginario sociale o società istituente, origine della creazione come storia, della creazione-distruzione delle significazioni e delle istituzioni particolari e insorgenza di nuove significazioni. Ma proprio perché pone il problema della significazione, la

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società non può chiudersi all'interno della sua esistenza reale giacché i suoi significati e le sue leggi non possono essere ricondotti né alla realtà né alla razionalità (il cui modo d'essere è determinato dall'immaginario, dall'attribuzione di senso). L 'umanità non può essere chiusa nella sua esistenza «reale». Il che vuol dir e che essa fa l'esperienza dell'Abisso, del non-senso. Nello stesso tempo, essa è stata fino ad oggi incapace di accettare semplicemente questa esperienza. Questo fatto può sembrare paradossale, ma è evidente non appena ci si ri fl etta: fin dall'origine e sempre la religione risponde all'incapacità degli umani di accettare quello che è stato malamente chiamato «trascendenza», cioè di accettare il Caos e di accettarlo come Caos, di affrontare, in piedi, l'Abisso. Quello che s'è potuto chiamare il «bisogno di religione» corrisponde al rif iuto degli umani di riconoscere l'alterità assoluta, il limite di ogni signif icazione stabilita, il rovescio inarrivabile che si costituisce in ogni angolo per dove si penetri, la morte che alberga in ogni vita, il non-senso che cir conda e penetra ogni senso. Assegnando una origine extrasociale, «trascendente», all'istituzione come all'essere della società, la religione realizza, anche qui, una formazione di compromesso. Essa riconosce che la società non si riduce mai a quello che è, riconosce che la sua esistenza «reale», «empir ica» non la esaurisce. Che, per esempio, il funzionamento della società istituita non può render conto della sua istituzione, perché la presuppone: che nessuna «causa», «ragione», «fattore» immanenti, determinati, «intramondani» (dunque «intrasociali» nel senso della società istituita) possono spiegare, e ancora meno fondare, il «perché» e il «per che» della istituzione della società in generale e del suo essere-così ogni volta specif ico. M a nello stesso tempo la religione ricopre l'Abisso, il Caos, il Senza-Fondo che la società è per se stessa, occulta nel suo essere autocreaz ione, origine e fonte immotivata del suo istituirsi. Nega l'immaginario radicale e mette al suo posto una creazione immaginaria particolare. Vela l'enigma dell'esigenza della significazione - che la società fa nascere e che fa nascere la società - imputando alla società una signifi cazione che le verrebbe da altrove. L 'origine, la causa, il fondamento delle società è la società stessa, come società istituente. E fino ad oggi tutto questo non ha potuto esser riconosciuto. La società non ha potuto riconoscere in se stessa la propria origine: riconoscersi come quella che fa sorgere il problema della significaz ione, generando risposte immotivate a questo problema, risposte incarnate nella e strumentate dalla sua istituzione. Vedersi come creazione, fonte della sua istituzione, possib ilità sempre presente di alterazione di tale istituzione. Riconoscersi come sempre più e sempre altra cosa di quello che è. Riconoscimento, senza alcun

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dubbio, estremamente difficile. È caratteristico che il pensiero filosofico abbia saputo, dall'origine , riconoscere più o meno il Caos generatore/distruttore della psiche, l'Abisso nel soggetto singolare, fosse anche solo sotto dei titoli maldestri o inappropriabili; ma che nulla di analogo fino ad ora abbia potuto essere pensato nel dominio dello storico-sociale la cui alterazione, instaurazione, esistenza stessa sono sempre state considerate come effetto o conseguenza di cause esterne olla società. Per queste ragioni le società umane tendono a vivere nella eteronomia. Al contrario l'autonomia è la consapevolezza del fatto che la società si autoistituisce, istituendosi. Autoistituzione esplicita e riconosciuta equivale al riconoscimento, da parte della società, di sé come fonte e origine: accettazione dell'assenza di ogni Norma o Legge extrasociale che si imporrebbe dall'esterno alla società. E, per questa via, anche apertura permanente del problema abissale: quale potrebbe essere la misura della società se non esiste nessuna unità di misura extrasociale? Quale può e quale deve essere la legge, se nessuna norma esterna sta per servirle da termine di paragone? quale può essere la strada sul!'Abisso, una volta compreso che è assurdo attribuire ali'Abisso una figura precisa, fosse pure quella di una Idea, Valore, Senso determinati una volta per tutte?

Il problema della società autonoma è anche questo: fino a quando l'umanità avrà bisogno di nascondere l'Abisso del mondo e di se medesima dietro simulacri istituiti? La risposta non potrà esser data, se mai lo potrà, altrimenti che, nello stesso momento, e sul piano collettivo e sul piano individuale. In rutteddue i piani essa presuppone una alterazione radicale del rapporto con la significazione. Non sono autonomo se non sono origine di quello che sarà (arché ton esonenon, diceva Aristotele) e mi so come tale. Quello che sarà, quello che farò, se è da intenderlo in modo banale, non riguarda il mucchio di fieno verso cui mi dirigerò preferendolo a un altro simile ed equidistante, ma il senso di quello che farò: dei miei atti, della mia vita. Senso che non è contingente né necessario: ma che è oltre o altrove. Non potrebbe essere necessario se non nel solipsismo più assoluto; e contingente potrebbe esserlo solo se mi ponessi, in rapporto a me stesso, in una posizione di esteriorità totale. Analogamente una società autonoma è una società che si autoistituisce esplicitamente. Come dire: essa è consapevole del fatto che le significazioni, nelle e per le quali vive ed è in quanto società, sono opera sua: e sa perciò che non sono né necessarie né contingenti. Nella prospettiva di Castoriadis, dunque, il carattere ontologico dello storico-sociale, l'idea della creazione ontologica è la sola

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via per uscire dall'indifferenza del circolo ermeneutico (dalla contingenza assoluta dei significati) e dall'arroganza della metafisica classica e della logica identitaria (la necessità dei significati). Per attingere questo livello è, tuttavia, necessaria la rinuncia a ogni ontologia unitaria, a ogni presunta identificazione dell'origine della società e dell'origine del mondo. Resta l'enigma di come il nostro immaginario possa produrre costrutti teorici praticamente efficaci, come le nostre categorie possano, per quanto lacunose e frammentarie, produrre una organizzazione effettiva del nostro rapporto con il mondo non riducibile allo storico-sociale. Anche la creazione ontologica dello storico-sociale deve in qualche modo far riferimento a qualche cosa che è altrove e tuttavia si presenta anche entro il campo storico-sociale, sia pure in modo non esaustivo, sempre parziale e sfuggente. È questa a mio avviso la feconda aporia del pensiero di Castoriadis che riapre l'interrogazione laddove la razionalizzazione della modernità sembrava averla per sempre negata. PIETRO BARCELLONA

Nota bibliografica

Per l'elaborazione di questa introduzione ho ritenuto utile avvalermi degli altri scritti di Cornelius Castoriadis che arricchiscono e sviluppano le tesi già contenute in L'Istituzione immaginaria della società, in modo da fornire al lettore tutte le coordinate della sua riflessione. In particolare ho utilizzato i saggi contenuti nel volume Le monde morcelé. Les carrefour du labyrinthe. III, Seul, Paris 199o (molti dei quali sono app arsi in traduzione italiana anche su «MicroMega»); la traduzione italiana di Les Carrefour du labyrinthe, Seuil, Paris 1978 (Gli incroci del labirinto, Hopeful Monster, Firenze 1988, trad. it. di M. G. Conti Bicocchi e F. Lepore); il testo dell'intervento pubblicato in La passione del conoscere, a cura di L. Preta, Laterza, Roma-Bari 1993; la traduzione della conferenza su Istituzione della società e religione, gentilmente fornitami dal dott. Riccardo Currado. Per gli altri riferimenti bibliografici e in particolare per Arnold Gehlen e Niklas Luhmann mi sia consentito rinviare ai miei scritti, Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia, Editori Riuniti, Roma 1993 e Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della ragionefunzionalista, Bollati Boringhieri, Torino 1994, dove le teorie di questi autori sono più ampiamente esposte e dibattute anche con l'apporto del pensiero di Castoriadis, che mi ha offerto inoltre la chiave per ripensare inoltre il mio precedente approccio al problema della istituzione sociale e della tecnica. P.B.

Nota del curatore

L'institution imaginaire de la société, l'opus magnum di Cornelius Castoriadis, pubblicato a metà degli anni settanta, consta di due testi di dimensioni pressoché uguali, intitolati rispettivamente Marxisme et théorie révolutionnaire (pp. 13-230) e L'imaginaire social et l'institution (pp. 233-498), che sviluppano senza dubbio un discorso unitario e coerente, ma che rispondono a esigenze congiunturali diverse, come spiega lo stesso autore nella Prefazione all'edizione originale. La presente versione italiana, che fa seguito a quelle nelle principali lingue europee, esce vent'anni dopo la pubblicazio ne dell'originale francese, in un clima politico-filosofico profondamente mutato rispetto agli anni settanta. Tenendo conto di ciò, è parso necessario e opportuno pubblicare separatamente la sola parte seconda dell'opera, omettendo per il momento il saggio sul marxismo pubblicato nella sua parte prima. Il motivo dominante di questo testo, inizialmente apparso «a puntate» negli ultimi numeri di «Socialisme ou Barbarie» nel 1964-65, appare oggi assai meno attuale e dirompente, forse proprio in virtù di una sua assimilazione generalizzata. Il lungo dibattito con le pretese del «marxismo» - del suo economicismo e del suo determinismo, della sua «filosofia della storia» -, accompagnato da un'articolata critica del funzionalismo e dello strutturalismo, vi culminava nella scoperta della loro radicale incapacità di render conto del carattere immaginario dell'istituzione della società, e nella necessità d'imporre al discorso teorico della filosofia e delle scienze umane una curvatura inedita, che assumesse in maniera esplicita i risultati della

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NOTA DEL CURATORE

psicoanalisi. Ciò costituisce certo ancor oggi il nucleo germinale del pensiero di Castoriadis, per così dire la sua par destruens, ma per il lettore ha ormai forse soprattutto il valore di una testimonianza. Il saggio pubblicato come parte seconda dell'opera, scritto circa un decennio dopo, e qui tradotto, affronta esplicitamente la questione lasciata aperta dalla scoperta dell'immaginario sociale come impensato nel discorso dominante nelle scienze umane e nella teoria politica, egemonizzate nel corso degli anni sessanta dal «marxismo», dal funzionalismo e dallo strutturalismo. Castoriadis, divenuto nel frattempo psicoanalista, rielaborando e approfondendo le intuizioni che erano alla base delle precedenti polemiche, le organizza all'interno di un progetto politico e filosofico originale, dandovi forma compiuta in un testo articolato e complesso, nel quale confluiscono la passione dell'antico militante, il rigore del teorico e l'autoriflessione dell'esperienza psicoanalitica. In questo senso, L'imaginaire social et l'institution non è solo la seconda parte di L'institution imaginaire de la société, ma è già in se stesso un testo autonomo, fornito di una sua fisionomia unitaria, che può esser letto separatamente, e che in ogni caso si è ormai conquistato un posto ben preciso sulla scena del pensiero contemporaneo. F.C.

Prefazione dell'autore all'edizione originale

Questo libro potrà sembrare eterogeneo, anzi in un certo senso lo è, e alcune spiegazioni sulle circostanze della sua composizione non saranno inutili al lettore. La prima parte di esso' è costituita da Marxismo e teoria rivoluzionaria, pubb licato su «Socialisme ou Barbarie» tra l'aprile 1964 e il giugno 1965,' che costituiva a sua volta l'interminabile prolungamento di una Nota sulla filosofia e la teoria marxista della storia, diffusa nella primavera del r959 insieme con un testo dedicato a Ilmovimento rivoluzionario nel capitalismo moderno.' Quando la pubblicazione di «Socialisme ou Barbarie» è stata sospesa, il seguito inedito di Marxismo e teoria rivoluzionaria, in gran parte già redatto, è rimasto tra le mie carte. Scritta sotto la pressione delle scadenze imposte dalla pubblicazione della rivista, questa prima parte è già in se stessa non un lavoro fatto ma un lavoro in fieri. Disobbedendo a tutte le regole della composizione, i muri dell'edificio sono esibiti gli uni dopo gli altri man mano che vengono edificati, ancora circondati dalle impalcature, dai mucchi di terra e di pietra, dai pezzi di travi e dalle cazzuole sporche. Senza teorizzarla, mi faccio carico di questo tipo di presentazione, inizialmente dettato da fattori «esterni». Dovrebbe essere una banalità universalmente accettata che, nel caso del lavoro di riflessione, smantellare le impalcature e ripulire i dintorni dell'edificio, piuttosto che apportare qualcosa al lettore, gli toglie un che di essenziale. Qui siamo agli antipodi dell'opera d'arte: non vi è nessuna costruzione compiuta o da portare a termine; oltre ai risultati e più di essi, qui conta il lavoro della rifles-

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CORNEJJUS CASTORIADIS

sione, ed è forse soprattutto questo che un autore può mostrare, se ha qualcosa da mostrare. La presentazione del risultato come totalità sistematica e levigata - ciò che in realtà esso non è mai-, o addirittura la presentazione del processo di costruzione come processo logico ordinato e pienamente padroneggiato dall'autore (come, per ragioni pedagogiche ma erroneamente, fanno spesso parecchie opere filosofiche) non può che rafforzare nel lettore la nefasta illusione (verso cui egli, come tutti, è naturalmente già predisposto) che l'edificio sia stato costruito per lui, e che egli deve solo, se vuole, abitarlo. Ma pensare non significa costruire cattedrali o comporre sinfonie. La sinfonia, se c'è, dev'essere creata dal lettore nelle sue orecchie. Quando s'è presentata la possibilità di una pubblicazione complessiva, mi è parso chiaro che il seguito inedito di Marxismo e teoria rivoluzionaria dovesse essere ripreso e rielaborato. Le idee già delineate e formulate nella parte di Marxismo e teoria rivoluzionaria pubblicata nel 1964-65 - idee relative alla storia come creazione ex nihilo, alla società istituente e alla società istituita, all'immaginario sociale, all'istituzione della società come opera propria della società stessa, al sociale-storico come modo di essere misconosciuto dal pensiero ereditato - si erano nel frattempo trasformate per me da punti di arrivo in punti di partenza, fino a impormi di ripensare tutto muovendo da esse. Il riesame della teoria psicoanalitica (a cui ho dedicato il meglio degli anni tra il 1965 e il 1968), la riflessione sul linguaggio (tra il 1968 e il 1971), un nuovo studio, in questi ultimi anni, della tradizione filosofica, hanno confermato in me tale convincimento, mentre mi mostravano ancora una volta che nel pensiero ereditato tutto si tiene, tutto è intimamente coerente e adeguato al mondo che lo ha prodotto e che esso stesso ha contribuito a formare. Gli schemi di questo pensiero sono i risultati di uno sforzo trenta volte secolare di un gran numero di geni incomparabili, ma è anche vero - è una delle idee centrali di questo libro - che in essi e per loro tramite si esprime, si affina, si elabora tutto quanto l'umanità ha potuto pensare da centinaia di migliaia d'anni: tali schemi, perciò, in un certo senso riflettono le tendenze stesse dell'istituzione della società. Non vi è chi non veda quanto sia grande l'influenza che essi esercitano sulle nostre menti. Tale influenza potrebbe essere scossa, nella misura del pos-

PREF AZI ONE ALL'EDIZI ONE ORIGINALE

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sibile, unicamente attraverso la dimostrazione precisa e dettagliata, caso per caso, dei limiti di tale pensiero e delle necessità interne che; in base al suo modo di essere, lo hanno spinto a trascurare e occultare ciò che per me è l'essenziale: ma questo non può essere un obiettivo raggiungibile nello spazio d'un libro, e nemmeno di diversi libri. Bisognava dunque trascurare o semplicemente evocare di sfuggita una serie di argomenti a mio avviso non meno importanti di quelli qui affrontati: in particolare, l'istituzione e il funzionamento della società istituita, la divisione della società, l'universalità e l'unità della storia, la possibilità stessa di una delucidazione del sociale-storico come quella qui tentata, la rilevanza e le implicazioni politiche di questo lavoro. L'aspetto propriamente filosofico della questione dell'immaginario e dell'immaginazione è stato ugualmente riservato a un altro libro, L'élément imaginaire, che sarà pubblicato tra breve. In questo senso, neanche la seconda parte dell'edizione originale di questo libro è un edificio compiuto. Sarebbe ridicolo tentare di sostituire qui la discussione di tali problemi con alcune frasi o paragrafi. Su un solo punto vorrei attirare l'attenzione del lettore, per evitare malintesi. Ciò che, a partire dal 1964, ho definito immaginario sociale - termine in seguito ripreso e utilizzato spesso a sproposito - e, più in generale, ciò che chiamo immaginario, non ha niente a che vedere con le rappresentazioni correnti connesse a questo nome. In particolare, non ha niente a che vedere con quello che alcune correnti psicoanalitiche chiamano «immaginario», cioè con lo «speculare», il quale è evidentemente solo immagine di e immagine rispecchiata, ossia riflesso, o ancora sottoprodotto dell'ontologia platonica (eidolon), anche se coloro che ne parlano ne ignorano la provenienza. L'immaginario non deriva dall'immagine allo specchio o nello sguardo dell'altro. Piuttosto, lo «specchio» stesso e la sua possibilità, e l'altro come specchio, sono opere dell'immaginario, che è creazione ex nihilo. Coloro che parlano di «immaginario» intendendo lo «speculare», il riflesso o il «fittizio», non fanno che ripetere, spesso senza saperlo, l'affermazio ne - in virtù della quale restano per sempre incatenati a un qualche sotterraneo della famosa caverna - secondo la quale è necessario che questo mondo sia immagine di qualcosa. L'immaginario di cui parlo non è immagine di. E creazione incessante ed essenzialmente indeterminata (sociale-

CORNELIUS CASTORIADIS

storica e psichica) di figure/forme/immagini, a partire da cui soltanto si può parlare di «qualche cosa». Quelle che noi chiamiamo «realtà» e «razionalità» sono le opere di questo immaginario. È la stessa idea dell'immagine di a sorreggere e fondare da sempre la teoria come Sguardo che osserva ed esamina quel che esiste. Ciò che in questa sede mi propongo non è una teoria della società e della storia, nell'accezione ereditata del termine teoria. È una delucidazione, e questa delucidazione, anche se assume inevitabilmente un andamento astratto, è indissociabile da un intento e dai progetti politici. Qui più che altrove, l'idea di teoria pura è una finzione incoerente. Non esistono luoghi o punti di vista esterni alla storia e alla società, o «logicamente anteriori» ad esse, in cui ci si possa collocare per farne la teoria: per esaminarle, contemplarle, affermare la necessità determinata del loro esser-così, «costituirle», rifletterci o rifletterle nella loro totalità. Ogni pensiero della società e della storia appartiene esso stesso alla società e alla storia. Ogni pensiero, qualunque esso sia e qualunque sia il suo «oggetto», non è altro che un modo e una forma del fare sociale-storico. Esso può ignorarsi come tale, ed è quello che succede il più delle volte, per necessità, come dire, interna. E il fatto di prenderne coscienza non lo fa uscire dal suo modo di essere, in quanto dimensione del fare sociale-storico, ma può permettergli di essere lucido rispetto a se stesso. Ciò che chiamo delucidazione è il lavoro con cui gli uomini tentano di pensare quel che fanno e di sapere quel che pensano. Anch'essa è una creazione sociale-storica. La divisione aristotelica fra theoria, praxis e poiesis è derivata e seconda. La storia è essenzialmente poiesis: non già poesia imitativa, bensì creazione e genesi ontologica entro e attraverso il fare e il rappresentare/dire degli uomini. Questo fare e questo rappresentare/dire si istituiscono storicamente, da un certo momento in poi, come fare pensante o pensiero che si fa. Questo fare pensante è compiutamente tale nel caso del pensiero politico e della delucidazione del sociale-storico che esso implica. L'illusione della theoria ha, da molto tempo, nascosto questo fatto. Un ulteriore parricidio è qui ineluttabile. Il male comincia anche quando Eraclito ha osato dire: «Ascoltando non me, ma il logos, siate persuasi che ...». Certo, si doveva lottare sia contro l'autorità personale, sia contro la semplice opinione, l'arbitrio incoe-

PR EFAZI ONE ALL' EDIZION E OR IGINALE

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rente, il rifiuto di rendere agli altri conto e ragione di quanto si dice: logon didonai. Ma non ascoltate Eraclito. Questa umiltà non è che il colmo dell'arroganza. Non è mai il logos che ascoltate; è sempre qualcuno, così com'è, là dove sta, che parla a suo rischio e pericolo, ma anche al vostro. E ciò che, nel caso del «teorico puro», può esser considerato postulato necessario di responsabilità e di controllo del suo dire, è necessariamente diventato nei pensatori politici copertura filosofica dietro cui essi parlano. Parlano in nome dell'essere e dell'eidos dell'uomo e della città, come Platone; parlano in nome delle leggi della storia o del proletariato, come Marx. Quel che hanno da dire - che può essere, ed è certamente stato, infinitamente importante - vogliono metterlo al riparo dietro l'essere, la natura, la ragione, la storia, gli interessi di una classe «in nome della quale» si esprimerebbero. Ma nessuno mai parla in nome d'un altro, a meno di esservi espressamente delegato. Al massimo, gli altri possono riconoscersi in ciò che dice, e questo non «prova» nulla, poiché quel che viene detto può indurre e a volte induce un «riconoscimento» di cui nulla permette di affermare che sarebbe esistito senza questo discorso, né che lo convalidi senz'altro. Milioni di tedeschi «si sono riconosciuti» nel discorso di Hitler e milioni di «comunisti» in quello di Stalin. Il politico, e il pensatore politico, tiene un discorso sotto la propria responsabilità. Il che non significa che questo discorso sia incontrollabile: esso fa appello al controllo di tutti. Né che sia semplicemente «arbitrario»; se lo è, nessuno lo ascolterà. Ma il politico non può fare proposte, prendere decisioni o elaborare progetti invocando una presunta «teoria» rigorosa né presentandosi come portavoce di una categoria determinata. Di teorie rigorosamente rigorose non ve ne sono neanche in matematica: come potrebbero esservene in politica? E nessuno è mai, se non occasionalmente, il vero portavoce di una determinata categoria; se poi lo fosse, sarebbe ancor necessario dimostrare che il punto di vista di tale categoria valga per tutti, il che ci riporta al problema precedente. Non si deve ascoltare un politico che parla in nome di...; appena ha pronunciato tali parole, inganna o s'inganna, poco importa. Più d'ogni altro, il politico e il pensatore politico parla in nome proprio e sotto la propria responsabilità. Il che costituisce, evidentemente, la modestia suprema.

CORNELIUS CASTORIADIS

Il discorso del politico e il suo progetto sono controllabili pubblicamente in un gran numero di aspetti: è facile immaginare, e anche mostrare, esempi storici di pseudoprogetti incoerenti. Ma un tale discorso e progetto non è controllabile nel suo nucleo centrale, se questo nucleo ha un qualche valore, e non Io è neppure il movimento degli uomini con cui esso deve incontrarsi per non rimanere lettera morta. Infatti l'uno e l'altro, e la loro uni one, pongono, creano, istituiscono non soltanto nuove forme d'intelligibilità, ma nuove forme del fare, del rappresentare, del valere socialestorico: nuove forme che non si lasciano discutere e vagliare semplicemente in base ai criteri vigenti della ragione istituita. L'uno e l'altro, e la loro unione, non esistono se non come momenti e forme del fare istituente, dell'autocreazione della società. Dicembre 1974

L'istituzione immaginaria della società

I.

Il sociale-storico

Ci proponiamo qui di delucidare la questione della società e quella della storia, che in realtà formano un'unica e sola questione, quella del sociale-storico. A questa delucidazione, il contributo che il pensiero ereditato può apportare è frammentario, forse soprattutto negativo: diagramma dei limiti di un modo di pensare ed esibizione delle sue impossibilità. Affermazione, questa, che può sorprendere, vista la qualità e quantità di ciò che, almeno dai tempi di Platone, e particolarmente nel corso degli ultimi secoli, è stato fornito dalla riflessione in questo campo. Ma questa stessa riflessione - salvo episodi germinali, folgorazioni senza seguito, momenti di comparsa intrattabile dell'aporia - non si è essenzialmente impegnata a sviluppare e approfondire la questione, bensì al contrario a occultarla ogni volta che usciva allo scoperto, respingendola non appena affiorava. In questo occultamento e in questa riduzione del sociale-storico, sono stati all'opera Io stesso meccanismo e le stesse motivazioni che hanno provocato l'occultamento e la riduzione della questione dell'immaginazione e dell'immaginario: e le ragioni profonde sono identiche. Da una parte, la riflessione ereditata non è mai giunta a mettere in evidenza l'oggetto proprio della questione e a considerarlo in se stesso. Anzitutto, esso vi si trova quasi sempre smembrato tra una società, riferita all'altro da sé e in generale a una norma, a un fine o a un telos fondati altrove, e una storia in cui tale società s'imbatte, e che vale o come perturbazione rispetto a quella norma, o come sviluppo, organico o dialettico, verso tale norma, fine o

CAPITOLO PRIMO

telos. Così l'oggetto in questione, l'essere proprio del sociale-storico, s'è trovato costantemente deportato verso qualcosa d'altro da sé, e riassorbito da esso. Le vedute più profonde e più vere sul socialestorico, quelle che ci hanno insegnato di più, e senza le quali non potremmo che balbettare ancora nell'incoerenza, si trovano sempre implicitamente subordinate a un'esteriorità: e anche questo appartiene all'essenza e alla storia del pensiero. Questa esteriorità - O questo altrove- è ciò verso cui esse mirano a trascinare le cose che dicono sul sociale-storico. Ciò che domina a tergo la riflessione ereditata sulla società e sulla storia, ciò malgrado cui essa vi scopre tutto quanto giunge a scoprirvi, è, per esempio, il posto della società e della storia nell'economia divina della creazione o nella vita infinita della ragione, oppure è la loro possibilità di favorire o ostacolare il compimento dell'uomo come soggetto etico, o il loro carattere di trasformazione ultima dell'esistente naturale, o la relazione della materia sociale e della sua corruzione o instabilità storica (il suo carattere di indefinito-indeterminato, apeiron, ossia determinato dall'esser-privo di determinatezza: ciò che sempre diviene, aei gignomenon) alla forma e norma della comunità politica determinata e stabile, il che implica la subordinazione dell'esame della prima alle esigenze della seconda, alle esigenze, cioè, della buona forma della buona comunità, anche quando si tratta di negarne la possibilità. 1 Così anche la rappresentazione, l'immaginazione, l'immaginario non sono mai stati considerati in se stessi, ma sono stati sempre riferiti ad altro - sensazione, intellezione, percezione, realtà -, sottomessi alla normatività incorporata all'ontologia ereditata, subordinati al punto di vista del vero e del falso, ridotti a strumenti di una funzione, a mezzi valutati per il loro possibile contributo al compimento di quello scopo che è la verità o l'accesso al vero essente, al realmente essente (ontos on). Così, infine, non ci si è preoccupati di sapere che cosa significa fare, qual è l'essere del fare e che cosa il fare fa essere, ossessionati da questa sola domanda: che cosa significa fare bene o fare male? Non si è pensato il fare, perché se ne sono voluti pensare solo i due momenti parziali dell'etica e della tecnica. E non li si sono nemmeno veramente pensati, giacché non si era pensato il fare di cui erano momenti, e se ne era in anticipo annullata la sostanza igno-

II. SOCIALE-STORICO

rando il fare come far essere e subordinandolo a queste determinazioni parziali, che sono in realtà prodotti del fare, ma che venivano presentate come assoluti, fondati altrove, cioè sulla base del bene e del male (di cui efficienza e inefficienza sono derivati). D'altra parte, la riflessione sulla storia e sulla società si è sempre situata nel campo e dentro i confini della logica-ontologia ereditata: e non avrebbe potuto fare altrimenti. Società e storia non possono essere oggetti di riflessione, se non sono. Ma che cosa sono, come sono, in che senso sono? La regola classica dice: non si devono moltiplicare gli enti senza necessità. Più profondamente, però, vige un'altra regola: non si deve moltiplicare il senso di: essere, è necessario che essere abbia un unico senso.2 Questo senso, determinato dall'inizio alla fine come determinatezza - peras per i greci, Bestimmtheit per Hegel - escludeva già di per se stesso che si potesse riconoscere un tipo di essere che sfugge essenzialmente alla determinatezza, come il sociale-storico o l'immaginario. Perciò, che lo abbia saputo o no, voluto o no, e anche nei casi in cui ha potuto tendere esplicitamente al contrario, il pensiero ereditato è stato necessariamente portato a ridurre il sociale-storico ai modi primordiali di essere che conosceva o credeva di conoscere - per averli costituiti e quindi determinati -, a farne una variante, una combinazione o una sintesi degli enti corrispondenti: cosa, SO ggetto, idea o concetto. Società e storia, di conseguenza, si trovavano subordinate a operazioni e funzioni logiche già assicurate, e sembravano pensabili mediante categorie di fatto stabilite per comprendere alcuni esistenti particolari, ma poste dalla filosofia come universali. Si tratta di due aspetti dello stesso movimento, di due effetti indissociabili dell'imposizione al sociale-storico della logica-ontologia ereditata. Se il sociale-storico è pensabile mediante categorie ché] valgono per gli altri enti, dev'essere essenzialmente omogeneo j a questi; il suo modo d'essere non pone problemi particolari, si i lascia riassorbire entro l'essere-ente totale. Inversamente, se es-J sere vuol dire essere-determinato, società e storia possono essere soltanto se, al tempo stesso, sono determinati il loro posto nell'ordine totale dell'essere (come risultato di cause, mezzo di fini o momento di un processo), il loro ordine interno e la relazione necessaria tra i due; ordini, relazioni, necessità plasmate in forma