Liside. Sull'amicizia. Dialoghi socratici. Testo greco a fronte 8845279855, 9788845279850

"In questa collana presentiamo, in volumi singoli, i primi dialoghi platonici, interpretandoli come documenti che a

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Liside. Sull'amicizia. Dialoghi socratici. Testo greco a fronte
 8845279855, 9788845279850

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SOMMARIO
AVVERTENZA
PREFAZIONE GENERALE - AI DIALOGHI GIOVANILI DI PLATONE
1. Giudizi contraddittori sui dialoghi socratici
2. Posizioni inaccettabili dal punto di vista ermeneutico assunte da alcuni studiosi
3. Se si elimina Platone, non si comprende Socrate
4. Il modo in cui si può distinguere il pensiero storico di Socrate nei dialoghi platonici
5. Posizioni estremistiche da evitare
6. L’ottica in cui presenteremo l’interpretazione dei primi dialoghi di Platone e i fondamenti storici sui quali ci basiamo
7. Personaggi che hanno compreso la rivoluzione di Socrate
8. Lo scopo della nostra edizione di questi dialoghi
SAGGIO INTRODUTTIVO - IL LISIDE È UNO DEI DIALOGHI APORETICI PIÙ DIFFICILI DA INTENDERE SE NON SI ENTRA NEL GIUSTO CIRCOLO ERMENEUTICO
I - PRESUPPOSTI ERMENEUTICI DA CUI SI DEVE PARTIRE PER INTENDERE IL LISIDE
1. Perplessità espresse da alcuni studiosi nell’interpretazione del Liside
2. Funzione dialettica essenziale dei due deuteragonisti
3. Il modo in cui gli scritti venivano «pubblicati» all’epoca di Platone
II - ANALISI DETTAGLIATA DEI CONTENUTI DEL LISIDE NELLA LORO ARTICOLAZIONE
1. Il ruolo maldestro con cui Ippotale vorrebbe conquistare l’amante Liside (203 A-206 E)
2. In che cosa consistono l’amicizia e l’amore nel rapporto fra genitori e figli (206 E-210 D)
3. Ritorno di Menesseno e discussione sul problema se l’amico è colui che ama o colui che è amato (211 A-213 C)
4. Il fondamento dell’amicizia non può essere l’uguaglianza
5. L’amicizia non può fondarsi neppure sugli opposti e sui contrari
6. Ciò che non è né buono né cattivo è amico del bene. Ragione di questo
7. L’amicizia tende sempre a un fine, con al vertice il «Primo Amico»
8. L’amicizia come desiderio di ciò di cui si è mancanti e in particolare di ciò che ci è affine
9. La questione del rapporto fra ciò che ci è affine e ciò che è simile e conclusione aporetica del dialogo
III - LE IDEE DI SOCRATE NEL LISIDE
1. Quali sono le connotazioni del pensiero di Socrate che vengono richiamate nel nostro dialogo
2. La professione del non sapere e l’ironia di Socrate
3. Metodo dialettico della confutazione e uso dell’eristica nel nostro dialogo
IV - IL CONCETTO DI AMICIZIA IN SOCRATE E IN PLATONE
1. Il problema dell’amicizia e dell’eros in Socrate secondo Senofonte
2. Senofonte rimane alla superficie del problema dell’amicizia mentre Platone giunge ai suoi fondamenti
3. I fondamenti metafisici dell’amicizia
4. Dimensione cosmica dell’amicizia e dell’eros secondo Platone
BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE
1. Vicende della vita
2. Significative connessioni di Platone col dio Apollo create dall’immaginazione dei Greci
3. Il dialoghi di Platone e la loro autenticità
4. La questione della cronologia degli scritti
ESPLICITAZIONE DELLE ABBREVIAZIONI
LISIDE [Sull’amicizia, maieutico]
PROLOGO - L’INCONTRO DI SOCRAT ECON IPPOTALE E CTESIPPO
PARTE PRIMA - L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA
INTERMEZZO - REIMPOSTAZIONE DELLA DISCUSSIONE
PARTE SECONDA - IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE
BIBLIOGRAFIA SPECIFICA - A CURA DI VINCENZO CICERO
A. EDIZIONI, COMMENTARI E TRADUZIONI
B. STUDI CRITICI E INTERPRETAZIONI

Citation preview

Bompiani Testi a fronte Direttore Giovanni Reale

Testo greco a fronte

Prefazione generale, Saggio introduttivo, Nuova traduzione e note di Giovanni Reale Bibliografia specifica di Vincenzo Cicero

BOMPIANI TESTI A FRONTE

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-587-7211-9 © 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Realizzazione editoriale: Vincenzo Cicero – Rometta Marea (ME) I edizione digitale da edizione Testi a fronte settembre 2015

SOMMARIO

Prefazione generale ai dialoghi giovanili di Platone

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Saggio introduttivo Il Liside è uno dei dialoghi aporetici più difficili da intendere se non si entra nel giusto circolo ermeneutico

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Biografia, cronologia e opere di Platone

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Esplicitazione delle abbreviazioni

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Liside (Sull’amicizia, maieutico)

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Bibliografia specifica

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Indice generale

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AVVERTENZA

Questo dialogo viene pubblicato dopo la morte di Giovanni Reale, che ne ha curato l’edizione, in un progetto unitario, insieme agli altri dieci dialoghi socratici di Platone. Fino alla sera prima di essere chiamato altrove Reale ha lavorato su questi testi. La nuova traduzione da lui condotta è iniziata nel 2007. Gli undici Saggi introduttivi sono stati rivisti e integrati tra gennaio e il 14 ottobre 2014. Giovanni Reale aveva personalmente consegnato all’Editore quattro dialoghi: Teagete, Amanti, Ippia maggiore e Ippia minore. Il materiale dei sette dialoghi rimanenti è stato recuperato dal suo computer. Si tratta di un lavoro già completato per quanto riguarda i saggi introduttivi, le traduzioni e l’apparato bibliografico di base; solo alcune note sono da integrare con l’aiuto degli allievi e collaboratori. Ecco quanto lui stesso ha scritto nella Prefazione generale che viene pubblicata in apertura di ciascun dialogo: «Sono, questi, gli ultimi dialoghi di Platone di cui noi ci occupiamo […], in quanto […] solo dopo aver studiato a fondo il pensiero di Socrate, siamo stati in grado di interpretarli in modo adeguato, di valutarli nella loro grande importanza e di gustarli». Giorgio Ferri Stretto collaboratore di Giovanni Reale nei suoi ultimi anni di attività

«A quanto sembra, si dà il caso che l’amore, l’amicizia e il desiderio siano sempre di ciò che ci è affine». Liside, 221 E

PREFAZIONE GENERALE AI DIALOGHI GIOVANILI DI PLATONE

N.B. Riproduciamo questa Prefazione in tutta la nuova serie dei «dialoghi socratici» di Platone che pubblichiamo nella collana “Testi a fronte”, in quanto contiene i canoni ermeneutici e i criteri generali seguiti nella loro presentazione e interpretazione, per agevolare i lettori che si procurano solo volumi successivi al primo.

1. Giudizi contraddittori sui dialoghi socratici I primi dialoghi platonici sono stati da sempre chiamati «socratici», in quanto prevale in essi la dottrina del maestro, ma sono stati giudicati in maniera contraddittoria. Il giudizio più equilibrato su di essi dato in passato è stato quello di Werner Jaeger, che vogliamo riportare: «Nella lunga serie delle opere platoniche, si rivelano come un gruppo a sé, distinti da comuni caratteristiche, quelli che si sogliono chiamare “dialoghi socratici”: in senso stretto, giacché anche in altre opere Socrate appare figura centrale. Questo gruppo, infatti, rappresenta, si può dire, la forma originaria del dialogo socratico nel suo aspetto più semplice, ancora del tutto aderente alla realtà. Sono tutti di breve estensione, non più lunghi di quanto potrebbe essere nella realtà una conversazione occasionale. Nel punto di partenza e nello scopo, nell’uso del procedimento induttivo e nella scelta degli esempi, in tutto insomma il loro svolgimento, essi mostrano una somiglianza di tratti tipici, che si spiega, evidentemente, col modello reale a cui cercano di aderire» (Paideia, ed. Bompiani, p. 831). Tuttavia, il suo giudizio è rimasto sul generico. Jaeger, infatti, non è entrato, se non limitatamente, nell’interpretazione dei singoli dialoghi giovanili, e non ha individuato le caratteristiche specifiche di fondo che stanno alla base di tali scritti, ma questo è ciò che più conta per la loro esegesi.

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Va comunque detto che non pochi studiosi nei confronti di questi dialoghi sono rimasti perplessi, soprattutto per il fatto che si tratta di opere di carattere per lo più «aporetico», e quindi lasciano il lettore a bocca asciutta, ossia senza una soluzione esplicita del problema trattato, e sono, di conseguenza, difficili da interpretare, e pertanto poco accattivanti. Su alcuni, poi, è caduta la scure dell’atetesi, soprattutto nell’Ottocento e anche nel corso del Novecento. Oggi si tende, in generale, a non ricorrere al criterio della negazione dell’autenticità, a meno che il dialogo non contenga sicuri riferimenti a dottrine posteriori. Noi siamo convinti che i dialoghi di Platone tramandatici dagli antichi come autentici possano essere ritenuti tali, almeno per la maggior parte. In passato, non pochi studiosi hanno ritenuto questi dialoghi assai magri, e quasi privi di contenuti filosofici. H. Maier, per esempio, scrive (tr. it., I, pp. 126 sg.): «Per questi dialoghi sembra valere in modo affatto speciale l’affermazione che “la massa degli accessori mimici non è per nulla proporzionata alla magrezza del contenuto filosofico” (Zeller, I4 p. 526). Ma essi non vogliono affatto offrire un contenuto dottrinale […]. Anzi, il loro Socrate in sostanza non muove alla conquista di concetti etici; ed essi intendono suscitare non interesse scientifico, ma, come il Socrate dell’Apologia, vita morale».

PREFAZIONE AI DIALOGHI GIOVANILI DI PLATONE

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2. Posizioni inaccettabili dal punto di vista ermeneutico assunte da alcuni studiosi La posizione più estremistica è stata quella assunta da Olof Gigon, il quale, nel suo libro su Socrate del 1947, ha affermato addirittura che di Socrate non possiamo sapere pressoché nulla, e che lo conosciamo meno dei Presocratici, dei quali ci è giunto qualche frammento diretto e autentico, mentre di Socrate ci sono giunte solo testimonianze indirette fra di loro in contraddizione. Tali testimonianze presenterebbero non il Socrate storico, bensì un personaggio creato dalla fantasia degli autori, e di questo sarebbe responsabile soprattutto Platone, ma non solo lui. Anche uno studioso come Gabriele Giannantoni è caduto in posizioni estremistiche, eliminando Platone addirittura per intero dai testimoni del pensiero di Socrate, includendo invece nella sua raccolta perfino alcune testimonianze dei Padri della Chiesa (1971). Si tratta di posizioni del tipo di quelle delle quali si può ben dire, come è stato giustamente rilevato, che la filologia, quando diventa ipercritica, distrugge se medesima. (Si pensi che Giannantoni, dalla successiva raccolta Socratis et Socraticorum Reliquiae del 1990, esclude non solo Platone, ma anche Aristofane e Senofonte, ossia le più importanti testimonianze su Socrate). In particolare, Olof Gigon non ha tenuto conto del fatto assai importante e incontestabile che, data la straordinaria eccezionalità del pensiero di Socrate, non poteva essere compreso dai vari testimoni nella sua profondità e ricchezza e nella sua portata rivoluzionaria, se non in proporzione all’intelligenza, alla sensibilità e all’apertura intellettuale che essi avevano, e quindi in modo diverso e in vari sensi (più che

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mai, in questo caso, si impone la verità della massima medievale quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur). Giannantoni, nella sua raccolta delle testimonianze su Socrate, non ha incluso Platone in quanto dice troppo, ben più del dovuto. L’errore ermeneutico da lui commesso sta nel fatto che il «troppo» non si può correggere semplicemente eliminando in toto l’autore che è responsabile del troppo.

3. Se si elimina Platone, non si comprende Socrate In realtà, se si elimina Platone, Socrate rimane pressoché incomprensibile, e comunque un pensatore di poco conto. Jan Patočka, per esempio, diceva giustamente: «Se escludiamo Platone dalla tradizione socratica, non resta niente di eccelso e di sublime» (Socrate, tr. it., p. 18). E Hans-Georg Gadamer, in occasione di una lunga discussione che abbiamo fatto con lui prima di una intervista nel 2000, durante la quale gli abbiamo donato il nostro volume Socrate che era appena uscito dalla Rizzoli (riedito nella Bur 2001, 20134), in risposta alla nostra domanda sulla operazione che da anni stava conducendo di «ri-socratizzare Platone», ci ha detto testualmente: «Io ho per Socrate grande ammirazione, e con la mia ermeneutica mi sento molto vicino al suo pensiero; però bisogna dire che, se non ci fosse stato Platone, noi di Socrate non sapremmo pressoché nulla. Le ragioni e la struttura funzionale del dialogo con la dinamica delle domande e risposte, fatte in quel modo, che sono tipiche di Socrate, ci vengono rivelate solamente da Platone».

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Questo fa ben comprendere la portata del grave errore ermeneutico di eliminare Platone dalle testimonianze sul pensiero di Socrate. Rimane, però, la domanda cruciale: come facciamo a trarre dal «troppo» che Platone fa dire a Socrate ciò che può essere «storicamente socratico», distinguendolo da ciò che, invece, è platonico e che in vario modo viene messo in bocca a Socrate, il quale viene trasformato da personaggio reale in figura emblematica del vero filosofo?

4. Il modo in cui si può distinguere il pensiero storico di Socrate nei dialoghi platonici Nel tentativo di risolvere questo problema gli studiosi sono giunti, in passato, a esiti del tutto contraddittori, come si può vedere ben documentato nel libro di Vasco de Magalhães-Vilhena (1952). Una buona risposta è venuta da Gerasimos Santas (1994, tr. it. 2003 con nostra introduzione), e soprattutto dall’ultima opera su Socrate di Gregory Vlastos (1991, tr. it. 1998), cui va aggiunta la sua raccolta di saggi del 1994 (tr. it. 2003 con nostra introduzione). Vlastos dichiara espressamente di aver maturato la sua tesi soprattutto sotto l’influsso di Santas, e in parte di Irwin. Questi autori, e Vlastos in modo particolare, mettono in rilievo un dato di fatto molto preciso, a nostro giudizio ben difficilmente controvertibile dal punto di vista ermeneutico. Nei dialoghi giovanili non risultano presenti i concetti-chiave che sono tipici di Platone, e in particolare: 1) la teoria delle Idee nella sua dimensione ontologica e metafisica, con le varie implicazioni e conseguenze che comporta; 2) la divisione dell’a-

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nima nella parte razionale e in quelle irrazionali, con la connessa dottrina dell’immortalità e della metempsicosi. Di conseguenza, poiché in tutti i primi dialoghi Socrate è protagonista in senso assoluto, ma non dice nulla su tali concetti-chiave (o ne fa solo vaghi cenni, spesso assai criptici), allora si può ben ritenere che Platone, nei suoi primi scritti, esprima soprattutto il pensiero del maestro. Vlastos riassume questa sua tesi in modo volutamente provocatorio, ma ben preciso: «Si tratta del vero Socrate, del Socrate della storia? Sì. Ma non è piuttosto Platone? Sì. Può trattarsi di entrambi? Sì» (1998, p. 1, nota 2). E ancora: «Attraverso un “Socrate” di Platone possiamo giungere a conoscere il Socrate della storia – il Socrate che fece la storia, insegnò a Platone e ad altri, modificò il loro pensiero e la loro vita, e attraverso loro cambiò il corso della storia occidentale» (1998, p. 60). Dunque, nei primi dialoghi, Platone presenta soprattutto il messaggio di Socrate. Egli ha pensato tale messaggio a fondo; ma, in ciò che può aver aggiunto, è rimasto, sempre e comunque, in prevalenza anche lo spirito del Socrate storico. Si impone più che mai, a nostro avviso, ciò che Nicolás Gómez Dávila (2007, p. 48) diceva in un suo aforisma: «Per comprendere l’idea altrui è necessario pensarla come propria». Il che significa: per comprendere, bisogna immedesimarsi nell’idea dell’altro, e non imporre all’altro l’idea propria. Sia Santas sia Vlastos ritengono che questo si verifichi in tutti gli scritti giovanili di Platone fino al Gorgia compreso. Noi concordiamo con la loro tesi metodologica di fondo, pur differenziandoci in vari punti. In particola-

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re, siamo convinti che dal gruppo dei dialoghi «socratici» vada tolto il Gorgia, il quale, se presenta molte idee sicuramente socratiche, espresse in maniera egregia, include pure molte idee squisitamente platoniche, in modo anche esplicito e non solo allusivo (si veda quanto diciamo nella nostra introduzione alla traduzione italiana del libro di Santas, 2003, pp. XVI-XVII e nella nostra edizione del Gorgia, Bompiani 2003; 20143, passim). Va rilevato che, di questo, si erano resi conto alcuni studiosi già in passato. H. Maier, per esempio, scriveva: «Il Gorgia ci introduce in un mondo di pensieri del tutto nuovo. La sua “filosofia” non è più la dialettica morale socratica; è invece scienza…» (tr. it., I, p. 136): E ancora: «… dal Gorgia in poi in luogo di Socrate compare per intero e risolutamente Platone» (loc. cit., p. 139). La stessa tesi sostenevano anche Raeder (1905) e Pohlenz (1913).

5. Posizioni estremistiche da evitare Le due posizioni estremistiche da evitare sono le seguenti: 1) trovare nei primi dialoghi troppo poco Platone; 2) cercare di trovare troppo Platone facendo riferimento ai dialoghi successivi. 1) La prima posizione è quella assunta soprattutto da Vlastos, che separa i primi dialoghi dai successivi in modo troppo netto, tanto da scrivere: «Ho parlato di un Socrate in Platone. Ve ne sono due. In segmenti diversi del corpus platonico due filosofi portano quel nome.

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L’individuo è sempre lo stesso. Ma in diversi gruppi di dialoghi pratica filosofie talmente diverse che non potrebbero essere state raffigurate come coabitanti in uno stesso cervello, a meno che non fosse il cervello di uno schizofrenico. Sono così diverse in contenuti e metodi, da risultare opposte l’una all’altra nello stesso modo in cui si contrappongono a una qualsiasi terza concezione filosofica si voglia menzionare, a partire da quella di Socrate» (tr. it. 1969, p. 60). In realtà, se nei «dialoghi socratici» Platone intende presentare soprattutto il pensiero del maestro, introduce anche tutta una serie di allusioni alle tesi che stava maturando – talora, come dicevamo, in modo criptico, ma assai significativo e importante –, al punto che il secondo Platone non comporta affatto un pensiero contrapposto a Socrate, ma uno sviluppo di esso, con la scoperta dei suoi fondamenti metafisici. E anche se si collocano su un nuovo piano, le nuove scoperte rimangono, comunque, in sintonia con lo spirito del maestro, tanto è vero che, quando si spinge decisamente oltre Socrate, Platone ce lo dice espressamente, mutando la figura del protagonista, che diventa, per esempio, lo Straniero di Elea nel Sofista e nel Politico, Timeo nel dialogo omonimo, un Ateniese nelle Leggi. 2) L’altro errore ermeneutico da evitare consiste nel leggere i primi dialoghi di Platone dando eccessivo peso a ciò che viene detto nei dialoghi successivi, e quindi cercando di trovare in essi più di quanto contengono. Infatti, i lettori dei primi dialoghi non potevano affatto far riferimento a dialoghi successivi. Noi riteniamo che le allusioni che Platone fa a sue dottrine successive, e con vaghi cenni addirittura ai

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«Princìpi primi» delle «Dottrine non scritte», siano manifestazioni, più che di dottrine già ben formulate, di fermenti di concetti che stavano maturando nella sua mente, e che, comunque, egli pensava non fosse ancora giunto il momento per comunicarli agli altri, soprattutto nelle sue opere, anche se, nelle letture pubbliche di suoi scritti – che, secondo il costume di allora, doveva fare in circoli di amici, anche prima della fondazione dell’Accademia –, poteva e doveva dire qualcosa di più, per spiegare quelle allusioni.

6. L’ottica in cui presenteremo l’interpretazione dei primi dialoghi di Platone e i fondamenti storici sui quali ci basiamo In questa collana presentiamo, in volumi singoli, i primi dialoghi platonici (oltre a quelli in precedenza già pubblicati come Apologia di Socrate, Critone, Eutifrone, Ione), con ampi Saggi introduttivi, interpretandoli come documenti che attestano in modo assai efficace il «pensiero storico» di Socrate. Puntiamo soprattutto su due assi portanti: 1) quello dell’«ironia», e 2) quello della «dialettica elenctica», che sono i più complessi e i più difficili da intendere, anche per il fatto che solamente Platone li ha compresi e presentati in modo adeguato, mentre gli altri testimoni del pensiero di Socrate non li hanno intesi o addirittura li hanno fraintesi, oppure, come Senofonte, li hanno presentati in modo superficiale e assai riduttivo. All’«ironia» daremo molto rilievo, in quanto, data la sua «unicità», comporta notevoli difficoltà per una adeguata comprensione. Già Boder (1971) si era mosso in questa direzione. Ma, con le nuove interpretazioni dell’i-

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ronia socratica date da Patočka e da Vlastos, riteniamo che si possa procedere molto oltre. Anche la dialettica nelle opere giovanili di Platone è stata studiata da alcuni studiosi (si veda in particolare Heitsch 2004), ma non in quella che a nostro avviso è la giusta ottica dal punto di vista ermeneutico. Si consideri che proprio la «dialettica» costituiva una vera e propria «rivoluzione» operata da Socrate nella tecnica della comunicazione in generale e in particolare, in quanto sostituiva alla tradizionale oralità «mimetico-poetica», sulla quale si era fondata per secoli la cultura dei Greci, la nuova forma di «oralità dialettico-elenctica», che richiedeva ormai la necessità della scrittura. Senza tener in debito conto la grande rivoluzione in atto all’epoca di Socrate e di Platone con il passaggio dalla cultura dell’oralità alla civiltà della scrittura, non si possono intendere i messaggi né del primo né del secondo. Lo studioso che ha aperto questa nuova linea di ricerche è stato Eric Havelock con il suo libro magistrale del 1963 Preface to Plato (tradotto in italiano con il titolo Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, 1973, più volte riedito). Quest’opera di Havelock ha grandi meriti, ma, come abbiamo più volte rilevato (Platone, Rizzoli 1998, Bur 2004, e Socrate, Bur 20134, sopra citato), eccede nell’attribuire la svolta culturale alla scrittura stessa, che, in realtà, era stata scoperta già da alcuni secoli, e si stava imponendo in quegli anni definitivamente, però non tanto come «causa», bensì come «effetto» prodotto dalla svolta culturale impressa dalla cultura dell’epoca e soprattutto dai filosofi. Il nuovo modo di pensare proposto dai filosofi a cominciare da Talete, e in particolare con la dialettica a partire da Zenone di Elea, comportava un mutamento

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concettuale e sintattico del modo di pensare e di comunicare, con il passaggio da un «pensare per immagini e per miti» a un «pensare per concetti». Ma, mentre per i filosofi presocratici naturalisti il nuovo modo di pensare era rimasto in larga misura chiuso nell’ambito di circoli e di scuole, con Socrate si era diffuso fra tutti gli uomini di cultura e anche fra i comuni cittadini: Socrate, infatti, parlava e comunicava i suoi messaggi rivoluzionari con il metodo della «discussione dialettica» non solo nelle palestre e nei simposi, ma anche nelle piazze e nelle botteghe di artigiani. Havelock ritiene che tale metodo, considerato tipico di Socrate, poteva essere di carattere generale e proprio di un nuovo modo di pensare che veniva usato contro l’abitudine dell’uso della «oralità mimeticopoetica». Ma, in realtà, pur ammettendo che in tale rivoluzione di carattere epocale dovettero entrare varie componenti, rimane incontestabile il fatto che proprio Socrate è stato il corifeo dell’«oralità dialettica», e che va attribuita a lui più di quanto pensi Havelock. Tuttavia lo studioso illustra questo fenomeno molto bene. Spiega, infatti, in modo esatto: «Questo era il metodo della dialettica: non necessariamente quella forma evoluta di ragionamento logico concatenato che si trova nei dialoghi di Platone, ma l’espediente originario nella sua forma più semplice, che consisteva nel chiedere a un interlocutore di ripetere quanto aveva detto e di spiegare quel che intendeva dire. In greco le parole che esprimono il dire, lo spiegare e il significato possono coincidere. Vale a dire, la funzione originaria della domanda dialettica era semplicemente quella di costringere l’interlocutore a ripetere una enunciazione già fatta, con la tacita premessa che tale enunciazione aveva qualcosa di insoddisfacente,

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e che era meglio formularla nuovamente. Ora, l’enunciazione in parola, se riguardava importanti questioni di tradizione culturale e di etica, doveva essere di natura poetica e impiegare le immagini e sovente anche i ritmi della poesia. Era tale da invitare a identificarsi con qualche esempio emotivamente efficace, e a ripeterlo più e più volte. Ma il dire “Che cosa intendi dire? Ripetilo” disturbava bruscamente il piacevole compiacimento offerto dalla formula o dall’immagine poetica. Significava usare parole diverse, e queste parole equivalenti non riuscivano poetiche, dovevano essere prosaiche. All’atto in cui veniva posta la domanda, le fantasie dell’interlocutore e dell’insegnante venivano turbate, e il sogno per così dire spezzato, sostituito da qualche spiacevole sforzo di riflessione e di calcolo. In breve, la dialettica, arma che sospettiamo venisse impiegata in questa forma da un intero gruppo di intellettuali nell’ultima metà del quinto secolo, era uno strumento per ridestare la coscienza dal suo linguaggio di sogno e per stimolarla a pensare astrattamente. Nel far ciò, nacque la concezione “io penso intorno ad Achille”, in luogo dell’altra “io mi identifico con Achille”» (op. cit., pp. 171-172). A tutto questo va aggiunta la famosa domanda del «che cos’è», come per esempio «che cos’è il bello», con la quale Socrate costringeva gli interlocutori a passare dalla presentazione di «esempi» al «concetto generale del che cos’è», di cui quegli «esempi» non erano se non una particolare determinazione. Nel procedimento dialettico-elenctico, Socrate tendeva a superare via via la molteplicità degli «esempi» di cose, la molteplicità degli «attributi» più o meno estrinseci connessi con il concetto discusso, per giungere all’unità dell’essenza, e quindi all’espressione definitoria della medesima.

PREFAZIONE AI DIALOGHI GIOVANILI DI PLATONE

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Noi pensiamo che sia stata soprattutto la dialettica socratica a imporre in modo determinante e definitivo la necessità della scrittura, in quanto i «dialoghi dialettico-elenctici» che Socrate intratteneva con varie persone non potevano essere memorizzati e riutilizzati come avveniva con le opere poetiche. Essi introducevano infatti una nuova terminologia e una nuova sintassi, al punto che nacque il nuovo genere letterario dei «logoi sokratikói», che i suoi discepoli composero in gran numero. Diogene Laerzio (II 122), oltre ai numerosi discorsi socratici redatti dagli allievi del filosofo, ne menziona trentatré composti da un calzolaio di nome Simone, nella cui bottega Socrate talvolta discuteva.

7. Personaggi che hanno compreso la rivoluzione di Socrate Però è stato Platone, più di tutti gli altri, a comprendere la natura e la portata della rivoluzione operata da Socrate, e l’ha fatta ben intendere come una vera e propria «necessità storica», soprattutto nelle sue prime opere. Letti nell’ottica che abbiamo descritto, i dialoghi giovanili di Platone acquistano un senso nuovo e particolarmente significativo. Platone, in questi suoi scritti, più che presentare una nuova definizione delle virtù o delle cose in essi discusse, era interessato a far comprendere il «nuovo metodo» con il quale quei problemi andavano trattati, denunciando gli errori commessi in passato da molti e prospettando la nuova via che bisognava seguire. Platone forniva, tuttavia, anche alcuni spunti utili per una positiva soluzione dei problemi discussi, pur pun-

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tando, prevalentemente, sul «metodo dialettico-elenctico», che costituiva appunto la grande rivoluzionaria novità imposta soprattutto da Socrate. Dunque, è evidente che i dialoghi socratici, se vengono letti in questa ottica, acquistano un ben preciso significato e una particolare importanza, sia dal punto di vista storico, sia dal punto di vista dottrinale e teoretico. A Senofonte importavano soprattutto le conclusioni alle quali Socrate giungeva o faceva giungere gli interlocutori; proprio all’opposto di Platone, cui nei primi scritti interessava, in netta prevalenza, il nuovo metodo da seguire per giungere a determinate conclusioni. Per poter far comprendere la geniale e rivoluzionaria imposizione del nuovo «metodo dialettico-elenctico» da parte di Socrate, che cambiava radicalmente la storia della comunicazione culturale dei Greci, occorreva un genio non meno grande di quello di Socrate medesimo, ossia il genio di Platone. Ricordiamo che la portata della rivoluzione del metodo di Socrate è stata compresa, fra i contemporanei, oltre che da Platone, anche da Aristofane, come terribile e grande nemico, e quindi in senso completamente negativo. Si consideri che un grande nemico può, talvolta, far capire della persona contro la quale polemizza molto più di un moderato e superficiale amico. Bartolone (19992, p. 20) scriveva giustamente: «… è la testimonianza negativa che risulta la più pertinente come la più compromessa nell’incidenza effettiva dell’ethos personale di Socrate, poiché mostra d’aver subito l’urto diretto di essa, cui reagisce investendolo con la massiccia opposizione d’un’accusa, culminante nella sanzione estrema a carico di chi nella propria esistenza lo traduceva e lo celebrava».

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E questo accade proprio con Aristofane, in buona misura. Nelle Nuvole, il commediografo ateniese presenta la dialettica di Socrate come una losca arte che distrugge l’antico ethos dei Greci (si veda la bella traduzione di Del Corno, 1996). Nelle Rane (vv. 1490 sgg., tr. Del Corno), Socrate abbindola gli interlocutori con insulse fole, spregiando la poesia e l’arte tragica: Bello è fare chiacchiere seduti insieme a Socrate, spregiando la poesia e trascurando i sommi princìpi dell’arte tragica. Con discorsi solenni E insulse futilità Passare inerti il tempo È da uomo dissennato.

E negli Uccelli (vv. 1556 sg., tr. Del Corno) Aristofane rappresenta Socrate «sporco» negli infe ri, in una palude ove raduna le «anime», che per Aristofane sono gli «spiriti» (fantasmi senza in telligenza), in opposizione alla tesi di Socrate che l’uomo è soprattutto la sua anima come in telligenza – tesi che rivoluzionava il modo di pen sare dei Greci impostosi da Omero in poi: Presso gli Ombripodi c’è una palude dove senza lavarsi Socrate aduna gli spiriti (yucagwgei`)…

Nietzsche, ispirandosi proprio ad Aristofane, giudica la dialettica socratica e la sua portata nello stesso modo

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del commediografo, acerrimo nemico del filosofo. Con la sua dialettica Socrate ha agito come una «potenza demonica» che ha scacciato Dioniso. E scrive che a cacciare Dioniso è stato «un dèmone di recentissima nascita, chiamato Socrate. È questo il nuovo contrasto: il dionisiaco e il socratico». La grandiosa opera d’arte della tragedia greca, dunque, perì a causa di Socrate e dei suoi influssi su Euripide (La nascita della tragedia, § 12, p. 83). E ancora: «… riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso, o il nuovo Orfeo che si leva contro Dioniso e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio» (ivi, pp. 88 sg.). Infine, ecco l’affermazione più icastica e sotto molti aspetti più illuminante di Nietzsche, che vede in Socrate con la sua «dialettica» addirittura il negatore e il distruttore della stessa natura dei Greci: «Chi è costui che osa da solo negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Pindaro ed Eschilo, attraverso Fidia, attraverso Pericle, attraverso la Pizia e Dioniso, attraverso l’abisso più profondo e la cima più alta è sicura della nostra stupefatta adorazione? Quale forza demonica è questa, che può ardire di rovesciare nella polvere un tale filtro incantato? Quale semidio è questo, a cui il coro degli spiriti dei più nobili fra gli uomini deve gridare: “Ahi! Ahi! Tu lo hai distrutto, il bel mondo, con polso possente; esso precipita, esso rovina!”» (op. cit., § 13, p. 91). In effetti, Socrate con la sua dialettica ha provocato una svolta epocale nella cultura dei Greci, ossia la fine della cultura dell’oralità mimetico-poetica e la nascita della civiltà del pensare dialettico per concetti, e quindi della scienza. Ed è proprio questo che Platone ci ha spiegato in vari modi nei suoi primi scritti che presentiamo nella loro completezza.

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8. Lo scopo della nostra edizione di questi dialoghi Il nostro progetto di pubblicazione degli undici dialoghi socratici, oltre agli altri dialoghi giovanili già editi in questa collana (Apologia di Socrate, 201312; Critone, 20103; Eutifrone, 20112; Ione, 20113), tende a rivalorizzarli profondamente, sulla base della linea ermeneutica che abbiamo indicato. Riporteremo il testo greco a fronte nella classica edizione di John Burnet, in quanto a nostro avviso rimane la migliore; e su di essa si basa il Lessico con supporto elettronico che è stato curato dal nostro allievo Roberto Radice, con la collaborazione per la parte elettronica di Roberto Bombacigno (2003), complemento della nostra edizione delle opere platoniche. Sono, questi, gli ultimi dialoghi di Platone di cui noi ci occupiamo a fondo, in quanto solo dopo l’acquisizione delle nuove idee di cui abbiamo detto, e solo dopo aver studiato il pensiero di Socrate, siamo stati in grado di interpretarli in modo adeguato, di valutarli nella loro grande importanza e di gustarli, mentre in precedenza, come molti altri studiosi, ci lasciavano perplessi. In particolare, non riuscivamo a comprendere in modo adeguato la ragione della loro conclusione per lo più «aporetica». Chiedevamo ai primi dialoghi platonici di dirci quello che ci saremmo aspettati da essi (ossia di offrirci le definizioni della virtù su cui discutevano), e non quello che l’autore aveva intenzione di dirci (le novità rivoluzionarie del metodo socratico per giungere a quelle definizioni). Già nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso avevamo incominciato a studiare i dialoghi aporetici, affrontando in primo luogo il Lachete

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(1957) e l’Eutifrone (1958, ma l’articolo era già pronto nel 1957), che sono i meno complessi. Ma abbiamo ben presto capito che i dialoghi giovanili di Platone sono assai più difficili da comprendere rispetto a quelli della maturità e della vecchiaia, e che quindi dovevamo seguire un’altra via. Inoltre, abbiamo ben compreso che l’interpretazione di un testo, di un’opera d’arte, di un autore, non può mai giungere a una conclusione definitiva, e abbiamo costatato la verità di ciò che dice Gadamer: «… la messa in luce del senso vero contenuto in un testo o in una produzione artistica non giunge a un certo punto alla sua conclusione; è in realtà un processo infinito. Non solo vengono eliminate sempre nuove cause di errore, sicché il senso vero viene purificato da ogni confusione, ma nascono anche sempre nuove fonti di comprensione, che rivelano insospettate connessioni di significato» (20145, p. 617). E le nuove fonti di comprensione dei dialoghi giovanili sono state quelle illustrate sopra, ossia: 1) l’ironia nella sua portata drammaturgica e concettuale; 2) la nuova tecnica di comunicazione con l’«oralità dialettico-elenctica» che imponeva la necessità della scrittura; cui vanno aggiunte 3) le scoperte connesse con l’ermeneutica di Gadamer, che ci hanno fatto bene comprendere le fonti degli errori di molte interpretazioni dei dialoghi platonici e il vero senso del metodo della domanda-e-risposta di Socrate. Abbiamo tradotto tutti questi dialoghi personalmente, non perché manchino buone traduzioni di essi. Ricordiamo, tra l’altro, che questi dialoghi sono già stati tradotti dalle nostre allieve Maria Luisa Gatti (Cratilo, Alcibiade maggiore, Alcibiade minore,

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Ipparco, Amanti, Eutidemo) e Maria Teresa Liminta (Teagete, Carmide, Lachete, Liside, Ippia maggiore, Ippia minore, Menesseno), e sono pubblicati nella edizione da noi curata di Platone, Tutti gli scritti (Bompiani 20147), e di cui abbiamo tenuto debito conto. Liminta ha anche pubblicato una monografia sull’Ippia maggiore (1974; 19982) e una edizione con traduzione, testo a fronte e commento del dialogo in collaborazione con Hans Krämer (1998). Un’altra nostra allieva, Maria Lualdi, ha pubblicato una monografia sul Liside (1974) e una traduzione con testo a fronte e commento del dialogo, pure con la collaborazione di Hans Krämer (1998). La ragione di questo cospicuo impegno che ci siamo assunti sta nella nostra profonda convinzione che gli scritti di Platone, per essere ben studiati e compresi a fondo, devono essere tradotti direttamente. HansGeorg Gadamer ci diceva proprio questo, e ci spiegava il modo in cui lo aveva imparato alla scuola di Paul Friedländer. Ci diceva anche che Martin Heidegger non aveva capito bene Platone, e che in particolare non aveva compreso il metodo dialettico del dialogo platonico, proprio per la ragione che non aveva mai voluto affrontare in modo diretto e sistematico il testo originale dei dialoghi, come invece aveva fatto per Aristotele. Nel corso della nostra vita di studioso abbiamo tradotto ventidue dialoghi, fra quelli già editi e quelli che pubblichiamo nel 2015. Per questa collana, oltre ai quattro dialoghi già sopra citati, abbiamo curato alcuni dei capolavori di Platone: Protagora, 20123; Gorgia, 20103; Menone, 20103; Fedone, 20136; Simposio, 20149; Fedro, 20135; Timeo, 20135. Inoltre, abbiamo collaborato con Roberto Radice alla traduzione di parte della Repubblica, e abbiamo tradotto pagine essenziali dei

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dialoghi dialettici nel nostro volume Per una nuova interpretazione di Platone (Bompiani 201022), e in questo costante lavoro abbiamo costatato la verità dell’affermazione di Gadamer. Gli undici dialoghi che ora presentiamo vengono editi nel seguente ordine: Teagete, Ippia minore, Ippia maggiore, Ipparco, Amanti, Carmide, Lachete, Liside, Eutidemo, Alcibiade primo, Alcibiade secondo. Abbiamo evitato il più possibile (tranne in casi eccezionali) di entrare in discussioni polemiche con altre interpretazioni, e, per non sovraccaricare quanto diciamo, abbiamo ridotto all’essenziale le citazioni della letteratura secondaria, anche perché, non poche volte, certi autori mostrano di avere conoscenze parziali, e spesso pubblicano opere a scopi in prevalenza accademici, concentrandosi su uno solo o su pochi dialoghi socratici, senza misurarsi con l’«intero». Inoltre alcuni studiosi affrontano questi dialoghi collocandosi completamente al di fuori del giusto circolo ermeneutico, e, soprattutto per quanto riguarda coloro che seguono i criteri della logica formale e della filosofia analitica, si impone la verità egregiamente espressa in una bella metafora da Kierkegaard nel suo Diario: «Succede spesso, nel seguire la via seguita dai commentatori, come è successo a quel viaggiatore diretto a Londra: “È questa la via per Londra?”; “Certo, ma se vuoi giungervi, bisogna che tu inverta la direzione”» (II, p. 25). Pochi hanno compreso in che misura gli studiosi che con le loro ricerche seguono quei metodi si allontanano dalla comprensione dei dialoghi giovanili di Platone. Meglio di tutti, a nostro avviso, ha compreso questo Franco Trabattoni (soprattutto nel suo saggio sul Liside del 2003, in particolare pp. 60-70), con pertinenti rilievi critici, con i quali in larga misura con-

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cordiamo, in quanto spiegano molto bene a certi interpreti come sia necessario che invertano la direzione che seguono, se vogliono giungere alla comprensione di Platone. Vincenzo Cicero (che ringraziamo vivamente) ha preparato per ogni singolo dialogo una bibliografia specifica, e il lettore interessato può quindi trarre da essa tutti gli strumenti per eventuali approfondimenti. Presenteremo in ogni dialogo, oltre a questa Prefazione, un approfondito Saggio introduttivo e note essenziali, mettendo in evidenza quanto abbiamo detto, ossia il senso e la dimensione della «socraticità» di questi scritti nei suoi vari sensi e in particolare nella sua portata storicamente rivoluzionaria. Un singolo dialogo di Platone si capisce molto meglio se si conoscono bene tutti gli altri, in quanto rimane verissimo un principio già illustrato da Schleiermacher nella sua Ermeneutica, secondo il quale si conosce la parte se si conosce il tutto, e viceversa. Noi, allo studio di Platone, abbiamo dedicato tutta la vita, e speriamo di poter far gustare ai lettori anche questi dialoghi in passato considerati «minori», e che sono invece, talora, di livello assai elevato. Dimostriamo in modo dettagliato la verità di ciò che affermava Werner Jaeger in generale: «Solo a condizione di una ingenuità totale, si potrebbe pensare che, per il fatto di non giungere a una scolastica definizione del soggetto in esame, questi dialoghi si rivelino come l’opera di un principiante, che azzardi qui i suoi primi passi infelici su un terreno inesplorato. In realtà il risultato cosiddetto negativo di questi dialoghi “confutatori” o “elenctici” è di tutt’altro significato» (ed. Bompiani, pp. 836 sg.). Jaeger ritiene che il fine di tali dialoghi consista in particolare nello stimolo che producono nel lettore

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ad appassionarsi al problema non risolto e cimentarsi nuovamente su di esso in modo costruttivo. Ma noi troveremo molto di più, e, in particolare, vedremo in che misura questi dialoghi ci faranno conoscere a fondo Socrate nella grandezza del suo messaggio rivoluzionario, ossia, come abbiamo sopra precisato, nella nuova metodologia della dialettica elenctica e nella nuova arte della comunicazione (oltre che nei suoi contenuti), che si impone come un punto di riferimento di carattere epocale, e quindi come una vera e propria «necessità storica». E Platone, nei suoi primi scritti, ci fa capire proprio questo, come nessun altro ha saputo fare.

SAGGIO INTRODUTTIVO IL LISIDE È UNO DEI DIALOGHI APORETICI PIÙ DIFFICILI DA INTENDERE SE NON SI ENTRA NEL GIUSTO CIRCOLO ERMENEUTICO

I PRESUPPOSTI ERMENEUTICI DA CUI SI DEVE PARTIRE PER INTENDERE IL LISIDE

1. Perplessità espresse da alcuni studiosi nell’interpretazione del Liside Non sono mancati nell’Ottocento insigni studiosi che, seguendo una linea interpretativa diffusa a quel tempo, hanno negato l’autenticità del dialogo, come per esempio Ast (1816, pp. 428 sgg.) e Socher (1820, pp. 137 sgg.), e, per quanto a poco a poco superata dai più, anche nel Novecento da qualcuno riproposta (Tejera, 1990). Ma anche altri celebri studiosi, pur non contestandone l’autenticità, lo hanno giudicato un dialogo di scarso valore. Theodor Gomperz per esempio, lo giudicava «un piccolo dialogo» e «come un satellite», mal costruito, con l’introduzione «di una lunghezza che oltrepassa il consueto, e quasi potremmo dire di una lunghezza eccessiva» (nuova ed. 2013, p. 1337), mentre, in realtà, come vedremo, tale introduzione ha una funzione determinante dal punto di vista drammaturgico e dialettico. Anche Schleiermacher, pur considerando troppo «acerbi e severi» certi giudizi dati da alcuni studiosi che non ne accettavano la autenticità, considera il nostro dialogo uno dei primissimi scritti, come un «leggero esercizio», ben al di sotto delle capacità del «maestro più perfetto dell’epoca posteriore» (tr. franc., p. 128). Wilamowitz-Moellendorff (19595, p. 141), poi, riteneva che Platone, nello scrivere questo dialogo non dominasse ancora la materia trattata, in quanto presenta

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pensieri filosofici che «non avevano ancora raggiunto chiarezza», e che, nel suo insieme, il dialogo risulta frammentario. Ma anche da alcuni studiosi dell’area della cultura anglosassone sono stati presentati sul Liside giudizi assai pesanti. Guthrie per esempio, afferma che questo dialogo «non è un successo», in quanto è «un saggio oscuro e maldestro», e che «anche Platone può sonnecchiare» (A History, IV, p. 143). Invece Taylor (tr. it., p. 106), afferma che: «Il dialogo è specialmente interessante come fonte non nominata da cui Aristotele derivò la maggior parte delle questioni discusse in modo più sistematico nelle lezioni che formano l’ottavo e il nono libro dell’Etica Nicomachea. (Il largo uso del Liside fatto in questi libri basta già di per sé a far fallire l’attacco maldestramente mosso da alcuni studiosi ottocenteschi contro la sua autenticità)». E anche Guido Calogero (1928 = 1985, p. 188) sostiene che: «Il piccolo dialogo di Socrate coi due giovinetti Liside e Menesseno è certamente lo scritto in cui Platone ha espresso con la nettezza più suggestiva la serie rigorosa di posizioni e di aporie, sistematicamente e storicamente determinante, da cui doveva di necessità sgorgare la sua nuova idea dell’amore, non più basata su una deduzione cosmologica o su una astratta analisi concettuale, ma direttamente afferrata come pura esperienza e atto dello spirito». E con forte spirito ironico, Szlezák (tr. it., p. 179), a quegli autori che si sentono turbati e frustrati dalla conduzione del dialogo, obietta giustamente che la frustrazione è voluta da Platone stesso, e che «troviamo non frustrante, ma deprimente, l’ingenuità con cui è giudicato il talento di Platone». In realtà, se non si entra nel giusto «circolo ermeneutico», il nostro dialogo è ben difficilmente comprensibile,

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e perciò dovremo tornare a più riprese, a cominciare già dai paragrafi successivi, sui presupposti ermeneutici necessari per intendere questo scritto che, a ragione, viene giudicato assai complesso.

2. Funzione dialettica essenziale dei due deuteragonisti Il dialogo si colloca fra quelli aporetici. Di conseguenza, il suo scopo primario, come abbiamo rilevato anche per gli altri dialoghi aporetici, non è di giungere espressamente a una precisa conclusione sul tema trattato, bensì di spiegare in modo dettagliato gli errori che si devono evitare nel fornire definizioni, e quindi il nuovo modo in cui si deve cercare la soluzione dei problemi, seguendo il metodo rivoluzionario di Socrate della domanda e risposta e della confutazione. In particolare, per leggere e intendere il Liside, bisogna partire da una delle regole di fondo con cui Platone scriveva i suoi dialoghi, i quali non portano come titolo il nome del protagonista, che è per lo più Socrate, bensì il nome del deuteragonista. E i contenuti dei singoli dialoghi vengono presentati nelle proporzioni intellettuali e morali che sono proprie dei personaggi a colloquio con Socrate. I deuteragonisti del Liside sono due ragazzi. Di conseguenza, i contenuti del dialogo non potranno essere presentati se non al livello delle capacità e maturità di quei ragazzi. I due ragazzi erano ottimi «amici» a livello puramente naturale, ma non avevano ancora raggiunto la maturità e il livello spirituale necessari per comprendere l’essenza dell’amicizia e fornirne quindi una definizione. Pertanto, Platone presenta e discute una serie di concetti, che lascia però a livello problematico, come stimoli

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per i giovani, e rimanda la conclusione della discussione, dicendo espressamente, come vedremo, che per giungere alla conclusione ci vorrebbero persone più anziane dei due ragazzi. Stupisce quindi che molti non abbiano compreso questo preciso messaggio, che viene presentato proprio alla fine del dialogo. A Socrate, infatti, vien fatto dire: «Dopo aver detto queste cose avevo l’intenzione di invitare alla discussione qualcun altro dei più anziani. Ma ecco che, come dèmoni, si fecero avanti i pedagoghi, quello di Menesseno e quello di Liside, insieme ai loro fratelli, e li chiamavano e ordinavano loro di tornare a casa, perché era ormai tardi» (223 A- B).

Szlezák giustamente scrive (tr. it., pp. 189 sgg.): «Sarebbe perciò necessario un proseguimento del discorso, però ad un altro livello. Perché questa non sia lasciata alla sensibilità del lettore, Platone fa concludere Socrate con l’osservazione che egli avrebbe voluto “invitare alla discussione uno di coloro che fossero più anziani” rispetto ai due ragazzi. Con questo si richiede un nuovo discorso, difficilmente più breve, e che sicuramente implica maggiori esigenze. Poiché se l’osservazione di Socrate sull’ottenimento “veloce e facile” dell’amicizia nella primissima giovinezza volesse essere un’indicazione ironica al fatto che Liside e Menesseno non sono ancora maturi per la φιliva filosofica, cui qui si fa allusione, e che è ottenibile solo sulla “via più lunga” (makrotevra oJdov~) della dialettica, allora la chiamata di un interlocutore più anziano – invece che, semplicemente, di un altro qualsiasi – è, al tempo stesso, la chiamata a un grado più alto della riflessione».

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3. Il modo in cui gli scritti venivano «pubblicati» all’epoca di Platone Resta comunque il grande problema di rendersi conto del modo in cui i lettori del Liside di quel tempo, che non avevano ancora a disposizione il Simposio che presentava la soluzione del problema, potevano leggere con frutto questo dialogo così complesso. Una prima risposta ci è offerta dal modo in cui, a quei tempi, un libro veniva pubblicato, di cui abbiamo già brevemente parlato nella Prefazione, ma che, per ben comprendere il Liside, dobbiamo approfondire e completare. La pubblicazione di un libro in un’epoca di passaggio dalla cultura dell’oralità alla cultura della scrittura, anche in uno stato di alfabetizzazione ormai avanzato, consisteva nella lettura dello scritto da parte dello stesso autore, seguita da domande fatte dagli ascoltatori con le relative risposte, e quindi con opportune discussioni. Da tempo gli studiosi hanno ben individuato una descrizione, che può considerarsi un esempio modello, di tale forma di pubblicazione nella lettura da parte di Zenone ad Atene del suo libro, con la relativa discussione presentata da Platone nella prima parte del Parmenide (127 A-D). Dopo aver detto che Platone e Zenone erano venuti ad Atene per le grandi Panatenee, ospiti di Pitodoro nel Ceramico, Platone scrive: «Lì appunto si recarono Socrate e molti altri con lui, perché desideravano ascoltare la lettura dello scritto di Zenone, che era stato portato per la prima volta ad Atene in quella occasione». E poco dopo precisa: «Socrate, dopo aver ascoltato la lettura, chiese che fosse

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riletta la prima ipotesi del primo argomento. Finita questa lettura esclamò: “Zenone, che cosa vuoi dire…”».

Dunque, veniva dapprima letto lo scritto per intero, poi venivano fatte domande, cui venivano date risposte, con la dinamica della prosecuzione delle discussioni ben immaginabile. In questo modo, l’autore difendeva e spiegava la sua opera, portandole gli opportuni soccorsi. Insomma, il libro veniva presentato mediante la lettura e la discussione su di esso insieme con l’autore. Per quanto concerne la diffusione della lettura solitaria, che si ritiene sia iniziata verso la fine del V secolo a.C., il primo esempio individuato dagli studiosi è in un passo delle Rane di Aristofane, dove Dioniso dice: «Dunque mentre io, fra me e me, leggevo su la tolda l’“Andromeda”, di schianto il cuor mi punse un desiderio, quale tu non puoi pensare…» (tr. Del Corno, vv. 52-54).

Alla pubblicazione del Liside, certamente Platone doveva fornire agli ascoltatori tutta una serie di chiarificazioni, a vari livelli. Incominciamo dall’analisi del dialogo, per poi fornire gli approfondimenti necessari per la sua comprensione.

II ANALISI DETTAGLIATA DEI CONTENUTI DEL LISIDE NELLA LORO ARTICOLAZIONE

1. Il ruolo maldestro con cui Ippotale vorrebbe conquistare l’amante Liside (203 A-206 E) Socrate, mentre sta recandosi dall’Accademia al Liceo, incontra Ippotale e Ctesippo, che lo invitano a recarsi nella nuova palestra, dove insegna il sofista Micco e dove ci sono bei ragazzi. Quando Socrate chiede chi sia il bel ragazzo del momento, Ippotale cerca di sfuggire alla domanda, dicendo che il bello del momento è diverso per ciascuno, ma Socrate lo costringe a rivelare che il bello del momento è Liside, di cui – dice Ctesippo – Ippotale parla in ogni momento in vari modi, con composizioni in prosa e in versi e che ripete a tutti. Socrate domanda allora a Ippotale di recitare anche a lui le sue declamazioni, precisando quanto segue: «perché io mi renda conto se tu conosci che cosa l’amante deve dire dell’amato, sia di fronte a lui direttamente, sia di fronte ad altri» (205 A).

Già Theodor Gomperz (tr. it., p. 1337), pur lamentando che l’introduzione sia di una lunghezza eccessiva, riconosce che «assume in rapporto all’argomento di cui stiamo parlando un valore straordinario». E rileva giustamente che all’ambiente qui descritto, a differenza degli altri dialoghi, in cui si parla per lo più di sfuggita, è dedicata una particolare cura, e precisa (p. 1338): «Pla-

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tone ci porge agio qui di una veduta a fondo della vita dei ginnasi, i veri campi di cultura di tale inclinazione, che vi germina rigogliosa fra begli efebi, offrenti intera alla vista e senza velo la venustà della propria persona, ed i loro compagni un poco più attempati. Una serie di quadri pieni di vita ci è posta innanzi: una serie di giovani incoronati intenti ad un sacrificio ad Hermes, del quale si celebra la festa; altri che, raggruppati in un angolo del vasto locale, si divertono giocando ai dadi; nello sfondo, i vecchi schiavi alla custodia dei quali i giovanetti sono affidati ripetono in tono sempre più insistente l’esortazione a riprendere la via verso casa, e, messi di cattivo umore per il lungo indugio, borbottano fastidiosamente nei loro gerghi esotici». Ma in questa introduzione, spesso trascurata dagli studiosi, c’è molto di più della splendida descrizione dell’ambiente della palestra, luogo di ritrovo degli Ateniesi di quel tempo. Si tratta, infatti, della precisa presentazione del modo errato di instaurare un rapporto di amicizia, e quindi di trattare l’amato da parte dell’amante. Viene descritto una sorta di «contro-modello» in netta antitesi con il «modello» che presenterà invece Socrate, sia pure in modi spesso allusivi, con la sua dialettica elenctica rivolta a dei ragazzi. Ecco quali sono gli errori commessi da Ippotale, che sono l’antitesi di quello che richiede il vero rapporto di amicizia. a) Ippotale crede di poter conquistare l’amante cantando gli elogi del padre, del nonno e dei parenti e degli antenati, delle loro vittorie nelle Istmiche e nelle Nemee, imitando soprattutto Pindaro, e costringendo gli altri ad ascoltare. Però, facendo questo, dice cose che tutti conoscono e che anche un bambino saprebbe dire, e non fa al-

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tro che pensare all’amato, ma non è in grado di dire nulla di particolare e di consistente. b) Questo procedimento risulta assai ambiguo nella sua natura e negli effetti. Per chi lo fa, infatti, sarà di grande vantaggio a se stesso, se conquista l’amato, in quanto potrà vantarsi di essere vincitore. Ma se avrà insuccesso, farà cadere l’amante nel ridicolo. c) Inoltre, è un errore elogiare l’amato prima di averlo conquistato, in quanto può rendere l’amato superbo e presuntuoso, e quindi più difficile da conquistare. d) Discorsi di questo genere, per giunta, non seducono colui che si vuole conquistare, ma lo possono esasperare, ossia possono spaventare quella che dovrebbe essere la preda, e rendere difficile la sua cattura. e) Tutto questo, in realtà, implica più che un amore per l’altro, un desiderio di possederlo: in effetti, Ippotale, nella discussione non vorrà farsi vedere da Liside, e si nasconderà alla vista di lui, dimostrando, in questo modo, di ignorare in che cosa consista il vero rapporto che l’amante deve avere con l’amato. Ippotale comprende, quindi, che avrebbe molto da apprendere da Socrate, e gli chiede di consigliargli «con quali parole e quali azioni si possa conquistare l’amato» (206 C), e in questo modo si apre la discussione sull’amicizia, e sui vari problemi che essa implica.

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2. In che cosa consistono l’amicizia e l’amore nel rapporto fra genitori e figli (206 E-210 D) Dopo la descrizione dell’incontro di Socrate con Liside e Menesseno, che dimostrano di essere legati da una grande amicizia, mentre la discussione è da poco iniziata, il maestro di ginnastica chiama Menesseno per la celebrazione di un rito, e quindi il colloquio prosegue solo fra Socrate e Liside, incentrato sul tema delle caratteristiche che contraddistinguono l’amicizia e l’amore dei genitori per i figli. Questa sezione viene non poche volte trascurata dagli studiosi, e considerata in certo senso non connessa con il tema centrale del dialogo, mentre, in realtà, Platone mette in gioco concetti-chiave del pensiero socratico mediante un ragionamento assai ben orchestrato. I genitori vorrebbero rendere i figli felici quanto più è possibile. Ma, per aiutarli a raggiungere questo scopo, non permettono loro di fare tutto quello che vogliono. Affidano addirittura a degli schiavi il compito di occuparsi di certe cose. Si pone quindi la domanda: per quale motivo i genitori impediscono ai figli di fare quello che vogliono, per poter essere felici? Liside fornisce una risposta assai limitata, ossia che non ha ancora l’età per fare tutto quello che vuole. Ma Socrate spiega che la ragione è ben altra. I genitori lasciano fare ai figli quello che vogliono per quanto riguarda quelle cose (come per esempio leggere e scrivere) di cui hanno conoscenza. Chi ama, in generale, lascia all’amato la libertà di fare quello che vuole sulla base della conoscenza che possiede per quelle cose. Pertanto, se Liside diventerà sapiente, sulla base della conoscenza che avrà, sarà «utile e buono». Se, invece, non è ancora sapiente, ha bisogno di un maestro.

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Abbiamo sopra spiegato come il modo di comportarsi di Ippotale costituisca una specie di «contro-modello» circa il corretto modo di comportarsi dell’amante rispetto all’amato. Friedländer (tr. it., p. 494) ha giustamente indicato in questo primo colloquio di Socrate con Liside il modello autentico, indicando il nesso strutturale che sussiste fra l’amore e l’educazione che corrisponde al nesso fra l’amore e la conoscenza, e scrive: «Chi veramente ama, educa. Per questo motivo si può usare ora la breve conversazione di Socrate con Liside come modello del giusto modo di rapportarsi ai giovani, in contrasto con il metodo di Ippotale, fatto di adulazione e lusinghe. Rivelando la relazione tra amore e conoscenza e tra amore e educazione, questa sezione fornisce le fondamenta necessarie alla struttura concettuale dell’intero dialogo». Meritano, inoltre, particolare attenzione i precisi rilievi che fa Franco Trabattoni (2003, vol. II, pp. 81 sg.) sul senso secondo cui va intesa la tesi del «fare quello che si vuole» su cui si richiama l’attenzione in questa sezione, in connessione con il problema della felicità: «… per capire che cosa l’uomo veramente vuole, bisogna scoprire che cosa lo rende felice. Che cosa rende l’uomo felice? La felicità dell’uomo consiste, spiega Socrate, nelle attività che garantiscono un frutto, e tali attività sono evidentemente quelle in cui si ha competenza. Collegando gli estremi tra loro, bisogna dunque riconoscere che fa davvero quello che vuole solo chi agisce negli ambiti in cui è competente. Così risulta anche chiaro che Liside, ove potesse liberamente guidare il cocchio di suo padre, o manovrare il telaio di sua madre, non per questo farebbe ciò che vuole; al contrario, poiché guidando il cocchio o manovrando il telaio finirebbe sicuramente per fare qualche danno, sia agli altri sia a se stesso, ne risulta che questa sua “libertà” non coinciderebbe affatto con l’attuazione del suo volere,

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dunque con la realizzazione della sua felicità. Perciò fanno bene i suoi genitori a impedirgli di esercitare determinate attività, proprio perché desiderano che il figlio realizzi quello che vuole, cioè, il suo bene e la sua felicità. – Tutto questo significa che, per Socrate, “fare quello che si vuole” non significa affatto “essere liberi”. Al contrario, come gli esempi dimostrano, fa davvero quello che vuole solo chi sa, e chi sa è vincolato dalle norme della scienza. […] La libertà, di conseguenza, finisce per coincidere con il sapere».

3. Ritorno di Menesseno e discussione sul problema se l’amico è colui che ama o colui che è amato (211 A-213 C) Ritornato Menesseno, presentato ironicamente come un abile «erista», nel senso che vedremo, Socrate riprende la discussione con lui, sollevando il seguente problema: «Quando uno è amico di un altro, chi dei due diventa amico dell’altro, l’amante dell’amato o l’amato dell’amante, o non c’è alcuna differenza?» (212 A-B).

Non ci sarebbe nessuna differenza nel caso che l’uno e l’altro si amassero; ma se chi ama non è ricambiato nel suo amore, oppure è addirittura respinto e odiato, quale dei due si deve dire che è amico dell’altro? Sembrerebbe necessario che non sia sufficiente che uno dei due ami l’altro. Se non sussiste un amore reciproco, sembrerebbe che nessuno dei due sia amico dell’altro e che «… non ci può essere nessuna amicizia, se non c’è amore reciproco» (212 D).

Con notevole abilità dialettica, Platone fa chiamare in causa da Socrate vari esempi particolari, nei quali

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l’uomo ha amicizia con animali (cavalli, quaglie, cani) e anche con cose inanimate (vino, ginnastica, sapienza), pur non essendo ricambiato dal loro amore. In tal caso, amico non è colui che ama, bensì la cosa che viene amata. Socrate rincara inoltre la dose di argomenti, facendo richiamo al fatto che si può amare ed essere amici anche di coloro che ci avversano e addirittura ci odiano, come nel caso dei bambini che odiano padre e madre quando li puniscono, mentre padre e madre continuano ad amarli anche in questi casi. In questo caso, di conseguenza, amico sarebbe non chi ama, bensì chi è amato, mentre nemico sarebbe non colui che odia ma colui che è odiato. Ma se «amico» è non colui che ama, ma ciò che è amato, allora sarebbe «… una grande assurdità, e addirittura impossibile, credo, essere nemico dell’amico e amico del nemico» (213 B).

Le assurdità che ne deriverebbero sarebbero le seguenti: «che spesso si è amici di chi non ci è amico, e lo stesso addirittura di chi ci è nemico, quando si ama chi non ci è amico, o persino chi ci odia e, spesso, si è nemici di chi non ci è nemico o anche ci è amico, quando si odia chi non ci odia, o addirittura si odia chi ci ama» (213 C).

Questo intricato ragionamento è molto ben spiegato da Taylor (tr. it.,1968, p. 111): «Se poi si corregge quella affermazione dicendo che non è l’essere amati ma l’amore che fa di uno un amico, cosicché colui che mi ama è mio amico qualunque sia il mio atteggiamento verso di lui, anche allora risorge il medesimo paradosso di prima, poiché io posso amare una persona che non può sopportarmi. Siccome ab-

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biamo cominciato col mettere da parte l’idea che l’affetto reciproco sia necessario per l’amicizia, sembra che si siano ora esaurite tutte le possibilità, e che si sia dimostrato che una relazione come quella dell’amicizia non esiste». È evidente che il complesso gioco dialettico messo in atto da Socrate fa ampio uso di una tecnica eristica, e che il pericoloso erista è proprio lui, e non Menesseno, come ironicamente era stato presentato. Va comunque tenuto ben presente il fatto che fra l’eristica di Socrate e quella dei Sofisti sussiste una radicale differenza: l’eristica dei Sofisti mira solo a far cadere l’interlocutore in confusione, a lasciarlo in tale confusione e a vantarsi proprio di questo. L’eristica di Socrate mira invece «attraverso gli smarrimenti, a raggiungere una posizione sicura», come giustamente dice Gadamer (St. plat., 1984, II, p. 64). Qui ai due giovani vengono messi in chiaro i tranelli in cui può far cadere il linguaggio che si usa. a) In primo luogo, il problema stesso dal quale è nata la discussione, se «amico» è colui che ama o colui che è amato, nasce da una ambiguità strutturale del termine ILYlo~ «che può essere usato tanto in senso attivo quanto passivo e anche essere usato come sostantivo (essere amico di qualcuno) e come aggettivo (essere caro a qualcuno, o essere amato da qualcuno)» (Friedländer, tr. it., p. 494). E abbiamo visto quali siano le conseguenze prodotte da tale ambiguità. b) Una ulteriore complicazione che tale ambiguità linguistica comporta deriva dal fatto che «ILYlo-» viene usato per comporre aggettivi che indicano l’amore che uno ha per un animale o per una cosa, che non è contraccambiato dall’animale o dalla cosa, e ciononostante si intende questo amore come amicizia che si ha per l’animale o per la cosa.

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In questo caso, l’ambiguità lessicale comporta il fatto che rientrino nell’area semantica ricoperta dal termine «amicizia (Iiliva)» rapporti che non sono propriamente tali. Aristotele nell’Etica Nicomachea (VIII, 1155 b 27 sgg.) precisa quanto segue: «il legame che si instaura con le cose inanimate non si chiama amicizia. Infatti in questo caso l’amicizia non viene ricambiata, né si vuole il bene di quelle cose (infatti sarebbe ridicolo voler bene al vino); al contrario si dice che si deve voler bene all’amico per lui stesso». c) Più difficile da risolvere è la difficoltà sollevata circa la reciprocità di amore richiesta dall’amicizia, dal fatto che i genitori amano i bambini appena nati i quali non sono ancora in grado di amare, e che i figli odiano i padri e le madri quando li puniscono, mentre i genitori li amano anche in questi casi, ossia mentre i figli si ribellano a loro. In realtà, Platone ha spiegato proprio all’inizio della discussione con Liside, che l’amore per i figli consiste nell’operazione complessa della loro formazione e educazione, nel porre limiti a fare ciò che vogliono, ossia nell’imporre loro l’autocontrollo sulla base della conoscenza in generale e del bene in particolare. La reciprocità dell’amore verrà, ma solo in seguito, ossia una volta che l’opera educativa sia stata compiuta. d) La reciprocità di amore e di amicizia che Liside e Menesseno mostrano e vivono a livello spontaneo e naturale è una forma di esperienza immediata, e ben lungi dall’essere criticamente pensata. Alla loro età non poteva essere altrimenti. Le critiche di Socrate non potevano se non avere lo scopo di invitare i due giovani a pensare il problema a livello razionale. Ma i lettori del dialogo, ormai avanti negli anni, sono in grado di pen-

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sare a fondo la questione, e comprendere come la corrispondenza reciproca sia una conquista in sé e per sé superiore. Gadamer (ibidem) dice molto bene: «… non si possono separare in questo modo l’amante e l’amato e neppure si può dire chi sia qui l’amante e chi l’amato. Si ha evidentemente amicizia soltanto là dove una tale questione non si pone più - alla stessa maniera che, come è ovvio, non c’è più amore là dove uno chiede all’altro se lo ami ancora. Naturalmente, il tentativo di pervenire all’amicizia, per così dire, dall’esterno, muovendo cioè dall’esistenza isolata del singolo, è destinato a fallire».

4. Il fondamento dell’amicizia non può essere l’uguaglianza Socrate, a questo punto, affronta il problema per altra via, ossia partendo dalla affermazione di Omero (Odissea, XVII 218): «il simile è amico del simile»

e di Empedocle, (Diels-Kranz, 31 B 90, cfr. I presocratici, Bompiani, Milano 2006, p. 705): «Così il dolce afferra il dolce, l’amaro si slancia verso l’amaro, l’aspro va verso ciò che è aspro, l’ardente è attratto da ciò che è ardente».

Quello che dicono è vero, ma solo a metà, in quanto i buoni sono fra loro simili, mentre non lo sono i malvagi, perché non permangono mai uguali a se stessi, mutano di continuo, e non si può essere simile a chi muta di continuo.

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La conclusione da trarre è pertanto la seguente: i poeti e gli antichi filosofi, dicendo che il simile è amico del simile intendono questo: «che solo il buono può essere amico del buono, mentre il cattivo non può essere amico né di un buono né di un cattivo» (214 D);

e che perciò «gli amici […] sono i buoni» (214 E).

Si noti come, con questo, si giunga al cuore del problema dell’amicizia: gli amici sono uguali in quanto buoni, ossia nella conoscenza e nella ricerca del bene. Però Liside e Menesseno non hanno ancora raggiunto quella maturità intellettuale e morale per comprendere questo, ossia la profondità assiologica dell’«uguale» fondato sul «buono», e il modo riduttivo con cui intendono l’uguale li fa cadere nella trappola che Socrate tende. Ha inteso questo punto molto bene Gadamer (St. plat., 1984, II, p. 65), che scrive: «Ma questa profonda intuizione finale di Platone presuppone una comprensione dell’“uguale” e dell’“amico” totalmente diversa da quella di Liside. Perciò risulta molto facile a Socrate confondere la bella verità platonica, secondo cui si avrebbe amicizia soltanto fra persone buone. Quello che Liside intende con l’aggettivo “uguale”, e in ciò è d’accordo con il suo “amico”, corrisponde a un concetto di “buono” che non ha nulla a che fare con la profonda intuizione di Platone. E perciò egli non può resistere alle domande, volte a confonderlo, che Socrate gli rivolge…». Il ragionamento che Socrate fa per confondere Liside è il seguente: l’amico non è amico del simile, ma piuttosto, il buono è amico del buono. Ma il buono, è «autosuf-

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ficiente», e in quanto tale, non ha bisogno dell’altro. E colui che non ha bisogno di nulla in quanto è autosufficiente, non può desiderare e amare, e un uomo che non ama non può neppure essere un amico. Gli «autosufficienti», in quanto tali, non possono aver bisogno gli uni degli altri, né essere utili a quelli che sono come loro, e un uomo in quanto autosufficiente non può essere amico di un altro uomo autosufficiente. Il senso dell’obiezione è evidente: Liside e il suo amico Menesseno, come sopra dicevamo, non sono ancora maturi per comprendere tali concetti. Però chi è cresciuto spiritualmente e intellettualmente li può ben comprendere. In particolare, oltre a comprendere il senso ben più ampio di «simile» e di «buono», sa bene che «autosufficiente» nel suo vero e profondo senso è il «temperante», ossia colui che sa dominarsi, con tutti i vantaggi che questo comporta sia per sé sia per gli altri. In particolare, inteso in questo senso, l’«autosufficiente» costituisce l’esatto contrario rispetto a quello esaltato dai Sofisti, come per esempio da Ippia di Elide, come abbiamo visto nei due dialoghi a lui dedicati, e in particolare nell’Ippia minore, 368 B-D.

5. L’amicizia non può fondarsi neppure sugli opposti e sui contrari Con riferimento ai versi di Esiodo, il quale afferma che i simili non sono affatto amici, ma si odiano fra di loro (Le opere e i giorni, 25) si potrebbe pensare che, allora, sia vero il contrario, ossia che il fondamento dell’amicizia non sia il simile e l’uguale, ma il dissimile, il disuguale e l’opposto: «… il simile è ben lontano dall’essere amico del simile, ma [...] si verifica il contrario di questo, ossia che chi è contrario

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in sommo grado è sommamente amico di chi è contrario in sommo grado. Infatti, ciascuna cosa desidera il proprio contrario, non il proprio simile: il secco desidera l’umido, il freddo il caldo, l’amaro il dolce, l’acuto l’ottuso, il vuoto il pieno, il pieno il vuoto, e così anche le altre cose secondo lo stesso rapporto. Infatti, il contrario è un nutrimento per il contrario, in quanto il simile non può trarre nessun giovamento dal simile» (215 E).

Le argomentazioni presentate a favore di tale tesi sono di tre tipi. a) In primo luogo sono chiamati in causa esempi di limitato rilievo, che toccano il problema solo in superficie, come il povero che è amico del ricco, il debole del forte, il malato del medico, chi non sa di chi sa, a motivo del soccorso che ne ricavano. b) In secondo luogo si fa richiamo a concetti derivanti dai Presocratici, e in particolare da Eraclito (DielsKranz, fr. 10, cfr. Bompiani, 2007, pp. 447 sgg.), ossia che ciascuna cosa desidera il proprio contrario (il secco l’umido, il freddo il caldo, l’amaro il dolce, e così di seguito), dal quale trae nutrimento e giovamento, come non può trarre dal simile. Gadamer (St. plat., 1984, II, p 66) rileva giustamente: «Chi accetta tale argomentazione, che considera l’amico e il nemico come opposti naturali alla stessa maniera del caldo e del freddo, evidentemente non sa che cosa in realtà sia l’amicizia. Qui si scambia per amicizia la semplice forza di attrazione». c) In terzo luogo sono chiamati in causa «i sapientoni che sanno contraddire» (216 B), seguendo un metodo critico che porta alle estreme conseguenze quello che dice Eraclito:

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«Subito, contro di noi si scaglieranno contenti quei sapientoni che amano contraddire, e ci domanderanno se l’odio non sia l’estremo contrario dell’amicizia» (216 A-B).

Pertanto, anche questa tesi non regge: come il simile non è amico del simile, così neppure il contrario può essere amico del contrario.

6. Ciò che non è né buono né cattivo è amico del bene. Ragione di questo Se il fondamento dell’amicizia non può essere né l’uguale né l’opposto, si dà il caso che possa essere un intermedio, ossia che quello che non è «né buono né cattivo» sia amico del bello e del bene. In particolare Socrate sottolinea tre punti di grande importanza. a) Ciò che non è né buono né cattivo non può diventare amico di ciò che non è né buono né cattivo, e che quindi è come lui, perché questo non comporterebbe alcun vantaggio. b) Inoltre, ciò che non è né buono né cattivo non dovrebbe essere diventato già del tutto cattivo, perché il cattivo non può diventare amico del buono. c) Ciò che non è né buono né cattivo non deve essere neppure diventato già del tutto buono, in quanto, come si è visto, il simile non può essere amico del simile. La causa per cui ciò che non è né buono né cattivo ricerca il buono come amico, consiste nella presenza in esso di qualcosa di cattivo, che gli fa desiderare il buono di cui è mancante (come il corpo, quando è malato desidera il medico e gli è amico). Tale «presenza» (parousiva), termine che diventerà tecnico in Platone e del quale parleremo più avanti,

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viene qui presentata in modo sfumato, ma già con una significativa precisazione. Non si parla, infatti, di una «presenza» casuale e accidentale, come quella di capelli tinti di color bianco, ma come la presenza del bianco in capelli di persone vecchie. E così la «presenza» del bianco non è casuale, ma reale, e tuttavia si tratta della presenza del male che non ha reso ancora cattiva la persona in cui è presente, e per questo non solo non la priva, ma sollecita in lei «il desiderio dell’amicizia del bene». Si tratta della «presenza di un male» che rimanda oltre se stesso, spingendo alla ricerca del bene. La conclusione che si impone è, allora, la seguente: «Ora dunque, Liside e Menesseno, abbiamo scoperto finalmente che cosa è l’amico e che cosa non è. Diciamo, infatti, che ciò che non è né buono né cattivo per quanto riguarda l’anima, il corpo e ogni altra cosa, in generale, è amico del bene, a causa della presenza in esso di un male» (218 B-C).

Per far comprendere questo concetto originale e profondo, Platone spiega che non sono amici della sapienza gli dèi o coloro che già la posseggono, ma neppure gli ignoranti che non sono in grado di apprendere e che non riconoscono di essere ignoranti; gli amanti di sapienza sono dunque i «filo-sofi», che non sono né ignoranti né sapienti, ossia né buoni né cattivi. Platone anticipa qui, in nuce, concetti che svilupperà in modo mirabile nel Simposio (200 A-206 A).

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7. L’amicizia tende sempre a un fine, con al vertice il «Primo Amico» A questo punto Platone può fare presentare da Socrate il problema che riguarda il fondamento ultimativo dell’amicizia con la chiamata in causa del concetto del suo «fine», che al vertice si rivela essere il «Primo Amico», che coincide con il Bene supremo, e con la ripresa del concetto di Male, secondo il nesso dinamico-relazionale che esso ha con il Bene. È impossibile negare che qui Platone faccia richiamo a quelli che sono i Principi primi, che svilupperà soprattutto nelle «Dottrine non scritte» (nelle quali il Bene sarà identificato con l’Uno e il Male con la Diade indefinita di grande e piccolo), qui presentati in modo sfumato, ma molto chiaro. Di questo parleremo però più avanti. Per ben comprendere il ragionamento qui svolto da Platone, è necessario richiamare due punti-chiave in modo particolare. In primo luogo, bisogna ben intendere l’affermazione di Platone, secondo cui quando uno è amico, è amico di qualcosa o di qualcuno in vista di qualcosa e a causa di qualcosa (e{nekav tou kai; diav ti, 218 D). Il corpo, per esempio, è amico della salute (che è un bene), a causa della malattia. E la conclusione generale che Platone trae è la seguente: «L’amico è amico dell’amico in vista di ciò che è amico, a causa di ciò che è nemico» (219 B).

Questa affermazione può trarre in inganno, e qualcuno potrebbe pensare che Socrate scambi in qualche modo la causa (diav ti) con il fine (e{nekav tou) in maniera indebita, commettendo in qualche modo un errore logico. Ma non è così, come Gadamer (St. plat., 1984, II, p.

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69) ha ben rilevato: «Non si tratta di una confusione logica tra determinazione causale e finale, bensì dell’intimo intrecciarsi delle due determinazioni nell’esperienza reale dell’uomo». I mezzi talvolta coincidono con il fine «in un contesto organizzato in vista di un bene», come nel caso della medicina. In secondo luogo, alcuni sono caduti nell’errore dell’interpretazione del concetto di «Primo Amico». Secondo Platone, infatti, il fine supremo dell’amicizia esclude un procedere all’infinito, in quanto tende a raggiungere un «Primo Amico», per cui diciamo amiche tutte le altre cose: «Allora, non è forse necessario che noi rinunciamo a procedere in questa maniera e che arriviamo a un principio che non rimandi più a un’altra cosa amica, ma giungerà a quello che è il Primo Amico, in vista del quale diciamo che sono amiche anche tutte le altre cose?» (219 C).

E tale «Primo Amico» è il Bene, come si dice espressamente (220 B): «Di questo, dunque, ci siamo liberati, ossia che l’amico non è amico in vista di un altro amico; ma allora, amico è forse il bene?». «Mi sembra».

8. L’amicizia come desiderio di ciò di cui si è mancanti e in particolare di ciò che ci è affine Per trarre le conclusioni del discorso, Platone riprende la discussione sulla funzione del principio del Male nel nascere e nel costituirsi dell’amicizia. Il lettore deve considerare queste pagine con attenzione, in quanto Platone cerca più volte, con giochi iro-

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nici di vario genere, di trarre in inganno colui che legge il testo superficialmente, senza impegnarsi a fondo. I punti-chiave del ragionamento sono i seguenti. La causa del sorgere dell’amicizia è il male. Di conseguenza, se venisse meno il male come «mancanza», una cosa non potrebbe essere amica di un’altra. Proprio dalla mancanza, infatti, nasce il desiderio di ciò di cui si è mancanti (ossia del bene), e quindi il desiderio è il principio dinamico-relazionale dell’amicizia. Platone precisa: «… il desiderio è la causa dell’amicizia, e chi desidera è amico di ciò che desidera e nel momento in cui lo desidera, mentre quello che prima dicevamo sull’amicizia era una sorta di chiacchiera, simile alla composizione di un lungo poema». «Forse sì», disse. «Tuttavia, dissi, ciò che prova un desiderio, prova desiderio per qualcosa di cui è mancante? O no?». «Sicuro». «E ciò che è mancante, è amico di ciò di cui è mancante?». «Mi pare». «Si è mancanti di qualcosa di cui si è privi?». «Come no?» (221 D-E).

9. La questione del rapporto fra ciò che ci è affine e ciò che è simile e conclusione aporetica del dialogo La conclusione, che in realtà è la soluzione del problema discusso, anche se Platone nasconde la cosa con un gioco ironico per terminare con una aporia, è la seguente: «A quanto sembra, si dà il caso che l’amore, l’amicizia e il desiderio siano sempre di ciò che ci è affine, Liside e Menesseno» (221 E).

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E ciò che ci è «affine» è il bene. Il termine usato da Platone è oijkei`on, difficile da tradurre, in quanto ricopre un’area semantica assai estesa e complessa. Il termine deriva da oi\ko~, che significa «casa», e quindi indica ciò che ci fa sentire come a casa, ciò che ci è familiare. Gadamer (St. plat., 1984, II, p. 71) ha spiegato molto chiaramente il significato nel quale il termine oijkei`on viene qui usato, come ciò che appartiene alla casa, all’oi\ko~ nel senso più comune di ciò che è familiare: «Con “ciò che è familiare” viene però anche sempre indicato: ciò che appartiene, qualcosa che mi risponde o a cui io rispondo, perché mi appartiene. Ora Socrate si serve di questa espressione e del suo campo semantico per dire che c’è anche un desiderio rivolto a ciò che ci appartiene. Questo è un desiderio che non cessa una volta soddisfatto, e ciò in cui il desiderio trova soddisfazione non cessa di esserci caro. Ciò che mi appartiene e a cui io appartengo è per me fidato e stabile come tutto ciò che si trova nella mia casa. E Socrate conclude che, quando qualcuno ama un altro come amico, il suo desiderio si rivolge a questi in modo da trovarvi la propria realizzazione. Quello che, in fondo, egli cerca nell’altro è “ciò che gli appartiene”, ed è appunto ciò a conferire legittimità al suo desiderio». E questo «affine» è appunto ciò che è bene. È evidente che ciò che è «affine» indica una realtà ben più complessa di quella indicata dal termine «simile»: indica ciò che è bene, cui si tende con l’amicizia, in quanto il bene è «ciò che appartiene» nel senso più forte in quanto ci fa essere e realizzare ciò che è nostro in senso assoluto. Ma Platone per concludere il dialogo in modo aporetico fa un gioco rovesciato, come se «affine» coincidesse con il «simile», e quindi si ritornasse da capo alla tesi discussa per prima.

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I due ragazzi non potevano, ovviamente, essere in grado di comprendere il gioco ironico di Socrate, e per continuare la discussione sarebbe stato veramente necessario «qualcun altro più anziano» (222 E), per le ragioni che abbiamo spiegato.

III LE IDEE DI SOCRATE NEL LISIDE

1. Quali sono le connotazioni del pensiero di Socrate che vengono richiamate nel nostro dialogo Nel Liside vengono presentati non pochi dei tratti essenziali del pensiero di Socrate, sia in breve, sia in modo esteso. In breve, sono chiamati in causa: a) l’eudemonismo; b) l’intellettualismo; c) l’utilitarismo in senso spiritualistico. Questi concetti sono richiamati soprattutto nella discussione sull’amicizia dei genitori per i figli (207 D 210 A; cfr. Saggio intr., cap. II, § 2). a) Lo scopo cui mira l’amicizia e l’amore dei genitori per i figli consiste nella educazione che cercano di dare loro, in modo che possano «essere felici quanto più è possibile» (207 D; cfr. anche 207 E, 208 D-E). b) Il valore di un uomo dipende dalla sua sapienza, e questo significa che la virtù dell’uomo consiste nella conoscenza. La fiducia che si ha in un uomo dipende dalla conoscenza che possiede (208 E - 210 B). c) Sul concetto di utile e vantaggioso sostenuto da Socrate si è spesso caduti in errore, intendendolo nell’ottica dell’utilitarismo moderno di origine anglosassone, ossia in senso prevalentemente materialistico, mentre Socrate si muove in tutt’altra direzione, in quanto, per lui, l’utile deriva dalla conoscenza del bene, da cui dipende la felicità (210 C-D). In esteso sono chiamati in causa: a) la professione del non sapere; b) l’ironia; c) la dialettica elenctica; d) il concetto di amicizia, di cui parleremo in modo dettagliato.

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2. La professione del non sapere e l’ironia di Socrate Sul non-sapere di Socrate due passi sono particolarmente importanti. Proprio all’inizio Socrate dice: «Quanto a me, in tutte le altre cose non valgo molto e servo a poco, ma il dio mi ha dato la capacità di capire subito chi ama e chi è amato» (204 B-C).

E più avanti, dopo aver detto che l’amicizia gli è in sommo grado cara, più di ogni altra cosa, precisa: «Fin da bambino, c’è qualche cosa che io desidero possedere, così come uno desidera possedere un’altra cosa e un altro un’altra. Uno, infatti, desidera avere cavalli, un altro cani, uno dell’oro, un altro onori. Io, invece, resto indifferente di fronte a questi beni, mentre ardo dal desiderio di avere amici, e vorrei avere un buon amico piuttosto che la migliore quaglia e il miglior gallo del mondo, e, per Zeus, lo preferirei anche a un cavallo e a un cane. Credo, anzi, corpo di un cane, che sarei capace di anteporre un buon amico all’oro di Dario e a Dario stesso, tanto grande è il mio desiderio di amicizia. Perciò, quando vi vedo, te e Liside, rimango colpito e vi ritengo felici, in quanto, pur così giovani, siete stati capaci di procurarvi questo bene velocemente e facilmente. Tu, Menesseno, ti sei procurato un amico velocemente e facilmente, e Liside la tua amicizia. Io, invece, sono tanto lontano da un tale possesso, che non so neppure come uno diventa amico di un altro, ed è proprio questo che voglio domandare a te che ne hai esperienza» (211 E-212 A).

Platone fa mettere in atto da Socrate un gioco ironico assai fine. Nel primo passo afferma la sua ignoranza, ma con l’eccezione delle cose che riguardano l’amicizia e quindi l’amore (come viene ripetuto anche in altri

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dialoghi: Teagete, 128 B; Simposio, 177 D, 128 B, 133 E). Nel secondo passo, invece, nega di avere anche questa conoscenza, e lo fa, fingendo che Liside e Menesseno posseggano quella conoscenza, che sarebbe nata in loro facilmente e velocemente, e che quindi hanno esperienza (conoscenza) dell’amicizia. Il gioco dell’«ironia complessa» è quanto mai evidente. Da un punto di vista naturale e semplicistico si potrebbe credere che i due ragazzi siano davvero amici e che abbiano esperienza dell’amicizia. Ma nell’ottica socratica la loro amicizia spontanea e naturale non implica affatto una conoscenza della natura dell’amicizia, e sono quindi ben lontani dall’averne vera conoscenza, proprio al contrario di Socrate. E in effetti, i due ragazzi dimostreranno di non sapere che cos’è l’amicizia, mentre Socrate si dimostrerà il vero maestro in materia. Un altro passo di squisita ironia si legge poco prima dell’ultimo riportato, in cui Menesseno è presentato come abile a confutare e come un erista, tanto da preoccupare Socrate: «Bisogna che lo faccia [scil. discutere con Menesseno], risposi, dato che tu me lo ordini. Tu, però, tieniti pronto a venire in mio soccorso, se Menesseno iniziasse a confutarmi. O non sai che è uno abile nel contendere a parole? «Certo che lo è, per Zeus – disse –; è proprio per questo che voglio che tu discuta con lui». «Per farmi deridere?», domandai. «Ma no, per Zeus, perché tu lo metta in riga». «Come? Non è semplice, risposi. È un ragazzo assai abile, è discepolo di Ctesippo. E anche lui è qui presente, non vedi?». «Non preoccupartene, Socrate, disse, comincia senz’altro a discutere con lui». «Allora dobbiamo discutere», dissi io» (211 B-C).

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In realtà, Menesseno dimostrerà di avere tutt’altra natura. Parlerà pochissimo, e per lo più a monosillabi. Il vero erista, abile a parlare e a confutare sarà proprio Socrate, che con la sua ironia nel passo letto intende l’esatto contrario di ciò che dice a parole.

3. Metodo dialettico della confutazione e uso dell’eristica nel nostro dialogo Abbiamo già spiegato nel Saggio introduttivo ad altri dialoghi aporetici il senso assai profondo del metodo dialogico creato da Socrate e fatto proprio da Platone in maniera veramente magistrale, nonché la sua straordinaria modernità, tanto che Hans-Georg Gadamer, creatore della ermeneutica contemporanea, lo considera come base della sua teoria. Il dialettico, con le sue domande, traccia la strada che l’interlocutore deve percorrere nel dare risposte, allo scopo di poter pervenire insieme alla verità, o comunque al chiarimento dei problemi posti. Alle risposte date dagli interlocutori segue per lo più la confutazione, che dimostra come la risposta data sia errata, o comunque parziale e insufficiente. Lo scopo della confutazione è ben lungi dall’essere, come per gli eristi, fine a se stessa, in quanto tende a liberare la mente dagli errori e dal falso. L’elenchos è quindi un momento essenziale della dialettica, che si pone pertanto come strutturalmente elenctica o confutatoria. Naturalmente tale metodo disturbava molto i contemporanei, in quanto costituiva una vera e propria rivoluzione del metodo tradizionale fondato soprattutto sull’oralità mimetico-poetica e durato per secoli. Ma va detto che esso disturba anche non pochi lettori moderni, i quali si lamentano, in vario modo, del fatto che

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– in particolare nei dialoghi aporetici – non si giunga a precise conclusioni, ossia alla soluzione dei problemi trattati. Ma in questi dialoghi la metodica socratica ha uno scopo molto diverso da quello che alcuni vorrebbero. Franco Trabattoni (2003, pp. 64 sg.) giustamente scrive: «Sbilanciandomi forse in po’ troppo, potrei dire che per Platone non esistono in generale proposizioni neutre trattabili con la logica formale, ma solo proposizioni speculative nel senso di Hegel. Asserzioni del tipo “i filosofi sono i veri governanti”, “i filosofi conoscono il bene”, “il coraggio è la scienza delle cose da temere e da non temere”, “la virtù è insegnabile”, “l’oggetto del desiderio è il proprio” ecc., non possono essere semplicemente valutate come vere o false, perché possono diventare alternativamente vere o false a seconda di che cosa si intenda, in ciascuna di esse, con “filosofo”, “conoscenza”, “bene”, “temere”, “virtù”, “insegnare”, “desiderio”, “proprio”, ecc. – L’obbligo di farsi carico di questa mobilità di significati appare all’interprete soprattutto durante l’analisi dei dialoghi cosiddetti aporetici, in cui egli deve trovare il modo in cui districarsi dalle tante incongruenze in cui si imbatte, e non può contare sulla stabilità relativamente maggiore tipica dei dialoghi costruttivi. La serrata sequenza di confutazioni, che in quei dialoghi può dare facilmente l’impressione dell’inconcludenza, ha lo scopo di mostrare un varco tra antinomie che sono del tutto insolubili se non si ha la pazienza di sviluppare, mediante l’esercizio dell’elenchos, tutto ciò che in una semplice proposizione assertoria rimane non detto e implicito». Si è spesso parlato di «errori logici» commessi da Socrate e da Platone, soprattutto da parte di studiosi ispirati alla logica formale e alla filosofia analitica,

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con ragionamenti che in realtà capovolgono il senso dialettico-elenctico di quelle affermazioni. Trabattoni (2003, pp. 66-67) precisa: «In realtà, il fatto che certe conclusioni ricavabili dai dialoghi platonici non dipendano da semplici errori commessi dall’autore, è già di per sé evidente dal fatto che tali conclusioni sono spesso paradossali, e che Platone mostra di essere del tutto consapevole di questo stato di cose. Dunque non vi può essere un difetto dovuto alla mancanza degli strumenti “normalizzatori” disponibili a noi moderni, ma ci deve essere piuttosto una consapevole sottolineatura di motivi paradossali invisibili ad una analisi superficiale. Si mette in condizione di imparare qualcosa da Platone, di conseguenza, solo chi è disponibile ad accettare questa provocazione, ossia ad approfondire la natura di alcuni concetti di uso corrente, con il rischio di dovere modificare le proprie opinioni a riguardo, o addirittura di dover accettare, se incapace di confutarle, tesi che fino a quel momento aveva considerato controintuitive». In particolare Trabattoni (2003, p. 67) mira giustamente a dimostrare che nel Liside viene «in parte esposta e in parte supposta una analisi di concetti morali elementari come “desiderio”, “libertà”, “bene”, “fine dell’azione umana” ecc. tale da costringere a ripensare e a mettere in discussione le opinioni correnti, e vedere se per caso certe tesi “paradossali” non siano meglio fondate di quelle “normali”». Per quanto riguarda, poi, l’uso di certi ragionamenti confutatori che sotto certi aspetti possono considerarsi «eristici», e per i quali certi studiosi (come alcuni di quei tempi) considerano Socrate stesso un «erista», va ricordato, come dimostriamo nel Saggio introduttivo all’Eutidemo, quanto segue. Per gli eristi, la confutazione era fine a se stessa, mentre per Socrate ha lo scopo di mettere a problema precise affermazioni, al fine di ottenere

LE IDEE DI SOCRATE NEL LISIDE, III 3

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un loro chiarimento e approfondimento, in funzione del metodo generale proprio della dialettica elenctica. Il fatto, poi, che Liside e Menesseno siano confutati senza giungere ad alcuna conclusione sul concetto di amicizia, dipende dalle ragioni che abbiamo sopra spiegato, ma il lettore non rimane comunque a bocca asciutta, in quanto Platone fornisce precise indicazioni per risolvere il problema, indicazioni che aveva già bene in mente, ma che non riteneva fosse ancora giunto il momento di metterle per iscritto se non in modo allusivo.

IV IL CONCETTO DI AMICIZIA IN SOCRATE E IN PLATONE

1. Il problema dell’amicizia e dell’eros in Socrate secondo Senofonte È certo che proprio con Socrate abbia avuto inizio la riflessione filosofica intorno all’«amicizia». Stabilire quale sia stato il pensiero di Socrate al riguardo non è molto difficile, dato in particolare l’enorme dislivello fra quanto ci riferisce Senofonte e quanto Platone mette in bocca al nostro filosofo su questo argomento. È certo che le trattazioni platoniche, nella misura in cui utilizzano categorie metafisiche ignote a Socrate, non possono attribuirsi a Socrate; ma è anche probabile che Senofonte, dal canto suo, abbia molto semplificato la questione. In ogni caso, da Senofonte si ricava chiaramente che Socrate contribuì notevolmente ad affinare il concetto di amicizia rispetto al concetto che i Greci ne avevano a quel tempo, collegandolo al valore morale (Tutti gli scritti, 2013, II 4, 1-39). Va però detto che nella lunga trattazione sull’amicizia, più che spiegare i fondamenti di essa, Senofonte si sofferma sulle caratteristiche che più interessano particolarmente gli uomini, ossia sui suoi effetti. L’amicizia è considerata «il più grande di tutti i beni» (ibid., II 4, 1). Ecco le motivazioni che adduce: «Paragonato a quale altro bene un buon amico non risulterebbe di molto superiore? Quale cavallo o quale coppia

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SAGGIO INTRODUTTIVO

di buoi è utile come un buon amico? Quale schiavo è così affezionato e fedele? Quale altro bene è così eccezionalmente utile? Il buon amico, infatti, subentra per tutto ciò che manca all’amico per l’organizzazione delle faccende private e pubbliche, e se si deve fare del bene a qualcuno, collabora, se qualche timore turba l’amico, lo aiuta, collaborando alle spese o all’azione, persuadendo o costringendo, e se le cose vanno bene agli amici si rallegra moltissimo, mentre se vanno male li sostiene con il massimo impegno. In tutto ciò che le mani fanno a servizio di ciascuno, che gli occhi vedono, che le orecchie ascoltano, che i piedi camminando portano a termine, in niente di tutto ciò l’amico benefico resta inferiore; e, spesso, quel che uno non ha fatto da sé, non ha visto, non ha udito, non ha portato a termine, in questo l’amico è venuto in soccorso all’amico. Però alcuni cercano di coltivare alberi a causa dei frutti, mentre di questo possesso, che si chiama amico, che porta ogni frutto, i più si curano poco e con negligenza» (ibid., II 4, 5-7).

La condizione per poter avere un buon amico consiste nell’essere noi stessi buoni: Se dobbiamo acquistare un buon amico, dobbiamo essere noi stessi buoni, nelle parole e nelle azioni» (ibid., II 6, 14).

Ma qual è il vero buon amico? Non è certamente colui che sa recarci vantaggi esteriori, in quanto, per esempio, è potente, famoso e ricco. È, invece, l’uomo virtuoso: chi, cioè, possiede quelle prerogative connesse alla virtù, che sopra abbiamo esaminato, ossia l’uomo che è capace di bastare a sé (aujtavrkh~), che ha il dominio di sé (ejgkrathv~) e che possiede le qualità che a queste si connettono. Va comunque rilevato che, anche in questo caso, questi concetti che stanno a fondamento dell’amicizia sono

IL CONCETTO DI AMICIZIA IN SOCRATE E IN PLATONE, IV 2

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espressi quasi di passaggio (cfr. ibid., II 6, 1-2; II 6, 5; II 6, 24) e sono poco esplicitati, soprattutto nella loro funzione di fondamento della vera amicizia. Senofonte rileva, infine, che i malvagi fra loro non possono che essere nemici, o comunque essere in prevalenza nemici. Non può fiorire amicizia neppure fra malvagi e buoni, appunto a cagione della loro diversità. Anche sull’eros Senofonte esprime bei pensieri, soprattutto nella parte finale del Simposio (8, 6 sgg.). Ma, anche in questo caso, Senofonte rimane a grande distanza da ciò che dice Platone nel dialogo omonimo. La grande tesi secondo cui il vero amore non è quello per i bei corpi, ma quello spirituale per le anime viene dimostrata con argomenti generici che rimangono alla superficie della questione e non giungono ai fondamenti metafisici.

2. Senofonte rimane alla superficie del problema dell’amicizia mentre Platone giunge ai suoi fondamenti La testimonianza di Senofonte rimane, comunque, un prezioso documento anche se rimane alla superficie del problema, mentre Platone va molto oltre. Dal primo ci viene detto probabilmente troppo poco, mentre dal secondo ci viene detto certamente di più sull’amicizia, già a partire dal nostro dialogo, sia pure in prevalenza per allusioni, come abbiamo già detto. Il problema che l’interprete si pone è il seguente: per quale ragione Platone aveva bisogno di presentare, come dice Gomperz, «un satellite» come il Liside, per di più apparentemente inconcludente e in certe parti piuttosto oscuro, che gira attorno a un capolavoro inimitabile come il Simposio.

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SAGGIO INTRODUTTIVO

Ma il dialogo ha un preciso significato suo proprio e, per intenderlo, va letto e inteso per se stesso e non come «un satellite» del Simposio. Trabattoni (2003, p. 69) dice giustamente: «Ma per spiegare il Liside in realtà non basta mostrare che il suo disordine argomentativo non è talmente inestricabile da impedire di riconoscervi, dopo una attenta analisi, le medesime asserzioni filosofiche esposte in modo perspicuo nel Simposio. Occorre anche spiegare perché Platone abbia scritto il Liside oltre al Simposio, e mostrare quali esigenze filosofiche lo spingevano a costruire dialoghi aporetici, dimostrazioni scorrette e confutazioni eristiche». E con Rowe (2000, p. 215) aggiunge, riportando le sue stesse parole: «… non c’è nessuna giustificazione per leggere il Liside come se fosse il Simposio o la Repubblica». Seguendo la linea interpretativa che proponiamo, la risposta ci sembra che si imponga in modo preciso. Platone nel Liside presenta il problema dell’amicizia cercando di dare preminenza alla posizione di tale problema seguendo il metodo di Socrate, mettendo in particolare evidenza la portata culturale rivoluzionaria di quel metodo, e quindi con il suo modo tipico di impostare e condurre la discussione con la dialettica elenctica e con l’ironia, con i connessi giochi drammaturgici delle aporie, in dimensione maieutica ed educativa. Platone non poteva certamente non far parlare direttamente Socrate sul problema dell’amicizia, per il motivo che è stato proprio Socrate a introdurre questa tematica a livello filosofico. Tuttavia su tale questione Platone era andato oltre Socrate, già all’epoca della composizione del Liside, ma in quel momento non riteneva opportuno far emergere la sua posizione in primo piano all’interno di un dialogo socratico che doveva rimanere aporetico. I nuovi con-

IL CONCETTO DI AMICIZIA IN SOCRATE E IN PLATONE, IV 3

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cetti che stava maturando o che aveva già guadagnato, che noi riconosciamo alla luce del Simposio, Platone li ha dovuti certamente chiarire nella pubblicazione del dialogo, cioè nella pubblica lettura fatta nella cerchia degli amici, seguendo i criteri che abbiamo cercato sopra di indicare. Quali sono, allora, le novità che Platone già in questo dialogo introduce?

3. I fondamenti metafisici dell’amicizia Socrate pensava certamente che il fondamento dell’amicizia fosse il bene, e probabilmente era sua anche l’espressione «affine» (oijkei`on) nel senso che abbiamo spiegato, in quanto il bene e la sua ricerca fanno parte di noi stessi. Tuttavia, la dinamica con la quale si cerca il bene nell’amicizia Socrate non poteva spiegarla, in quanto richiedeva approfondimenti metafisici, che egli non poteva ancora affrontare, perché gli mancavano gli strumenti necessari, che invece Platone aveva già a disposizione. Come abbiamo visto, Platone aveva ormai ben compreso che l’amicizia non può fondarsi né sulla somiglianza, né sull’attrazione dei contrari, ma doveva nascere da un soggetto «intermedio» fra gli opposti, e che quindi non è né per intero buono, né per intero cattivo, e che tende alla ricerca del bene per eliminare il male. La funzione dialettica della ricerca del bene per superare il male nell’amicizia, non avviene a causa del male, tanto è vero che le cose buone rimarrebbero amiche anche se scomparisse il male. Causa motrice dell’amicizia è il «desiderio», diretto a ciò che ci manca. E ciò che ci manca è sempre un bene, e precisamente un bene a livello sempre più alto, fino a giungere al Primo Amico, ossia

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SAGGIO INTRODUTTIVO

al Bene supremo. È in funzione del Bene supremo che noi amiamo ogni bene particolare. Va notato un particolare sfuggito ai più, ossia il fatto che Platone, invece di parlare dell’Idea del Bene, parla addirittura (219 C) del «principio» (ajrchvv). Inoltre, si fa richiamo a quel «Primo» con il termine prw`ton, che parrebbe far richiamo al principio primo e supremo delle «Dottrine non scritte». Hans Krämer (Arete, p. 500) ha dunque ragione nel dire che «nel punto centrale del Liside (218 C-220 B) non si fa riferimento, come finora si è ritenuto, alla dottrina delle Idee, ma al fondamento dell’essere», ossia a quello che sarà il Principio primo e supremo come Misura suprema delle «Dottrine non scritte», naturalmente in modo allusivo.

4. Dimensione cosmica dell’amicizia e dell’eros secondo Platone Dunque, la ricerca del Bene è ciò che fonda ogni amicizia, come già Socrate aveva ben compreso, ma che solo Platone poteva spiegare a livello teoretico. Fa particolarmente piacere notare come Werner Jaeger si fosse già mosso in questa direzione: «Quell’idea del Bene che appare, negli altri dialoghi socratici, punto fisso di orientamento, si rivela misura assoluta e ultima istanza anche rispetto al problema dell’amicizia» (Paideia, Bompiani, 2003, p. 989). Va però detto che il nesso strutturale dell’amicizia e dell’eros con il Principio primo, che è il Bene e la Misura suprema, sfuggirebbe, se ci si limitasse alla sfera antropologica. In effetti, Platone considera amicizia ed eros in una dimensione addirittura ontologica e cosmica fin dall’inizio. Ancora Werner Jaeger notava che quel «Primo Amico» di cui Platone parla nel Liside, fa riferimento a quella

IL CONCETTO DI AMICIZIA IN SOCRATE E IN PLATONE, IV 4

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norma o legge, che non solo lega vicendevolmente gli uomini e ne regola i comportamenti, ma tiene unite tutte le cose e il mondo intero, come dirà non solo nel Simposio; e precisava: «Già nel Liside […] la forza del primo principio d’ogni amore è intesa al di là del mondo umano: esso è il bene a cui tendono e che desiderano tutte le cose, non noi soltanto. Similmente, anche nel Gorgia, il problema della società umana si inserisce, mediante l’energica negazione del diritto del più forte, nel quadro di una suprema simmetria cosmica, vale a dire nell’accordo di tutte le cose con una misura ultima la cui essenza e il cui valore, peraltro, non sono ancora, in questo dialogo, fissati più precisamente» (Paideia, Bompiani, 2003, p. 990). Naturalmente queste idee nel Liside compaiono in forma prevalentemente allusiva, ma sono ben difficilmente negabili, e fanno ben comprendere i fermenti assai notevoli delle nuove idee che Platone sulla scia di Socrate stava maturando, spingendosi ormai oltre il Maestro.

BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

1. Vicende della vita 428/427 Platone nasce ad Atene. Diogene Laerzio, nell’opera Vite e dottrine dei più celebri filosofi (III 2), ci riferisce che Apollodoro indicava come data di nascita l’ottantesima Olimpiade (428-425 a.C.) nel settimo giorno del mese di Targelione (corrispondente al nostro maggio-giugno, nel giorno in cui gli abitanti dell’Isola di Delo dicevano che fosse nato Apollo). Platone non era il nome imposto dai genitori, che era invece Aristocle (nome di un nonno), ma il soprannome datogli dal maestro di ginnastica, e poi da tutti accettato. Diogene Laerzio ci riferisce questa notizia con altre varianti, nel modo che segue (II 4): «Ricevette l’educazione fisica da Aristone, lottatore di Argo, dal quale gli fu anche mutato il nome in “Platone” in ragione della robustezza del suo fisico, mentre il suo nome era Aristocle, dal nome di un nonno, secondo quanto dice Alessandro nelle Successioni dei filosofi. Alcuni invece affermano che fu chiamato così in ragione dell’ampiezza del suo stile, oppure perché era molto ampio nella fronte, come dice Neante». La prima rimane la notizia più probabile. Nei dialoghi Platone cita se stesso con questo nome (due volte nell’Apologia di Socrate e una volta nel Fedone). Il padre di Platone, Aristone, discendeva da una famiglia che fra i suoi antenati vantava il re

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BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

Codro. Anche la madre Perittione apparteneva a una nobile e potente famiglia. Diogene ci fornisce le seguenti notizie sui genitori di Platone (III 1): «Perittione per stirpe discendeva da Solone. Fratello di Solone era Dropide, di cui fu figlio Crizia (che fu uno dei Trenta tiranni) e Glaucone che ebbe come figli Carmide e Perittione. Da Perittione e da Aristone nacque Platone nella sesta generazione a partire da Solone». Da Perittione e da Aristone nacquero anche Adimanto e Glaucone (gli interlocutori di Socrate nella Repubblica), la figlia di nome Potone, da cui nacque Speusippo, che sarà successore di Platone nella direzione dell’Accademia. 409-407 Periodo della efebia. Stando ad Aristosseno (fr. 11 Wehrli). Proprio in questo periodo Platone avrebbe preso parte per tre volte a campagne militari: a Tanagra, a Corinto e a Delio, dove avrebbe ricevuto anche un premio per il suo valore. 408-407 A vent’anni (o forse anche prima) Platone divenne discepolo di Socrate. Prima di frequentare Socrate, si dedicò all’atletica, alla pittura e all’attività poetica, come ci dice Diogene Laerzio (III 4-5): «Vi sono, poi, alcuni che dicono che egli partecipò pure alla lotta nei Giochi Istmici, secondo quanto afferma anche Dicearco nel primo libro Sui generi di vita. Inoltre affermano che si sarebbe esercitato nella pittura e avrebbe scritto poesie: dapprima ditirambi, poi anche liriche e tragedie» (a cura di Reale, ed. Bompiani). Aristotele nella Metafisica (I 6) ci riferisce che da giovane, e quindi prima dell’incontro con Socrate, Platone aveva frequentato l’eracliteo Cra-

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tilo e che aveva mantenuto la concezione eraclitea per quanto riguarda il mondo sensibile, e scrive: «Platone, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo e seguace delle dottrine eraclitee, secondo le quali tutte le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito. D’altra parte, Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, ma nell’ambito di quelle cercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni. Orbene Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che aveva accolta dagli eraclitei, che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle realtà sensibili: infatti egli riteneva impossibile che la definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, perché soggetti a continuo mutamento. Egli allora denominò queste altre realtà Idee, e affermò che i sensibili esistono accanto a esse e che vengono tutti denominati in base a esse». Alcuni dubitano di questa notizia; ma è impossibile che Aristotele se la sia inventata. Si può discutere sull’interpretazione che ha dato, ma non sui rapporti di Platone con Cratilo, cui ha dedicato un dialogo. È improbabile, invece, la notizia di Diogene Laerzio secondo cui Platone sarebbe diventato «discepolo dell’eracliteo Cratilo» non da giovane, ma dopo la morte di Socrate (III 6). Gli anni passati accanto a Socrate furono decisivi per Platone a tutti gli effetti, sia per il suo pensiero sia per le sue scelte esistenziali. 404

Si conclude la guerra del Peloponneso e si impone la supremazia di Sparta. Ad Atene assumono il governo gli oligarchi con i cosiddetti «Trenta tiranni», fra i quali ebbe

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BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

una posizione di spicco Crizia, zio di Platone, che lo invitò a partecipare al governo. Ma Platone rimase subito deluso e si ritrasse a parte. 403

In seguito alla rivolta dei democratici, Crizia muore nella battaglia di Munichia, e cade il governo dei Trenta tiranni.

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Socrate viene condannato a morte. Della condanna furono responsabili in larga misura i democratici, che avevano ripreso saldamente il potere. Questo convinse Platone che, per il momento, era bene tenersi lontano dalla vita politica militante. È probabile la notizia che ci viene riferita da Diogene Laerzio, secondo la quale Platone si sarebbe recato a Megara con alcuni socratici presso Euclide. Forse si recò a Megara per evitare persecuzioni che potevano venirgli inflitte, in quanto seguace di Socrate. Sono questi gli anni in cui maturò la sua idea di vera politica. Nella Lettera VII scrive: «Da giovane anch’io feci l’esperienza che molti hanno condiviso. Pensavo, non appena divenuto padrone del mio destino, di volgermi all’attività politica». Ma dal partecipare alla vita politica lo trattenne, ben presto, la profonda corruzione degli uomini di governo e del loro costume e delle stesse leggi, che egli scoprì essere ingiuste in Atene, ma anche fuori di Atene. Ed ecco, allora, le sue conclusioni: «Di fronte a tali episodi [si riferisce ad una serie di episodi di corruzione politica che culminarono nella condanna a morte di Socrate], a uomini siffatti che si occupavano di politica, a tali leggi e costumi, quanto più, col passare degli anni, riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto. Senza uomini devoti

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e amici fidati non era possibile combinare nulla e d’altra parte non era per niente facile trovarne di disponibili, dato che ormai il nostro Stato non era più retto secondo i costumi e il modo di vivere dei padri ed era impossibile acquisirne di nuovi nell’immediato. Il testo delle leggi, e anche i costumi andavano progressivamente corrompendosi a un ritmo impressionante, a tal punto che uno come me, all’inizio pieno di entusiasmo per l’impegno nella politica, ora, guardando a essa e vedendola completamente allo sbando, alla fine fu preso da vertigini. Solo i filosofi avrebbero potuto riscattare la politica. In verità, non cessai mai di tenere sott’occhio la situazione, per vedere se si verificavano miglioramenti o riguardo a questi specifici aspetti oppure nella vita pubblica nel suo complesso, ma prima di impegnarmi concretamente attendevo sempre l’occasione propizia. A un certo punto mi feci l’idea che tutte le città soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia». 388

Platone si reca in Italia meridionale, spinto dal desiderio di conoscere la comunità dei Pitagorici. Dalla Lettera VII (388 C) sappiamo che ha conosciuto Archita. Durante questo viaggio si reca

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BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

a Siracusa presso il tiranno Dionigi I, che probabilmente egli sperava di convertire alla filosofia intesa nel senso espresso nel Gorgia, composto o subito prima o subito dopo il viaggio in Italia. A Siracusa stringe forte amicizia con Dione, parente del tiranno, in cui Platone credette di individuare un discepolo che sarebbe potuto diventare refilosofo. Dionigi si irrita fortemente con Platone, al punto da farlo vendere come schiavo a Egina. Fortunatamente, a Egina si trovava il socratico Anniceride di Cirene, che lo liberò. Diogene (III 20) scrive: «Lo riscattò, essendo lì presente per caso, Anniceride di Cirene, al prezzo di venti mine – altri parlano di trenta – e lo rimandò ad Atene presso gli amici. Questi ultimi inviarono subito ad Anniceride il denaro da lui pagato per il riscatto: denaro che egli non accettò, dicendo che non soltanto loro erano degni di avere a cuore Platone. Alcuni, poi, dicono che anche Dione avrebbe mandato il denaro, e che Anniceride non volle riceverlo, ma comperò per Platone anche il piccolo giardino situato nell’Accademia». Diogene (III 6-7) riferisce anche di altri viaggi fatti da Platone, che non possono essere categoricamente esclusi, ma che non sono confermati da altre fonti. Dopo essere stato a Megara, si sarebbe recato a Cirene presso Teodoro il matematico. Dopo essere stato in Italia «… passò in Egitto, presso i profeti. Dicono che anche Euripide lo avrebbe accompagnato lì e che, ammalatosi in quello stesso luogo, fu guarito dai sacerdoti, grazie alla cura a base di acqua marina; perciò in qualche luogo egli dice: Il mare lava tutti i mali degli uomini. Ma anche Omero dice che gli Egizi sono medici al di sopra di tutti gli uomini. Platone decise allora di incontrarsi anche con i Magi; però dovette rinunciarvi, a motivo delle guerre dell’Asia».

ANNI 387 SS

387 ss.

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La fondazione dell’Accademia è quasi certamente da collocare negli anni immediatamente successivi al primo viaggio di Platone in Italia. Platone, convintosi dell’inutilità della sua partecipazione immediata alla politica militante, per le ragioni che già sappiamo, aveva maturato un disegno di ben più vasto raggio: egli intendeva preparare mediatamente, ossia tramite la filosofia, i futuri «veri politici», cioè gli uomini che sarebbero stati in grado di rinnovare lo Stato alle radici. Occorreva, dunque, fondare una vera e propria Scuola: un organismo che, analogamente alle comunità pitagoriche, perseguisse l’educazione e la formazione di chi ne diveniva membro, secondo piani di studio ben congegnati e secondo metodi sistematicamente determinati. Per poter realizzare questo, Platone acquistò un appezzamento di terreno e un edificio, che restarono poi proprietà della Scuola. Quale fosse la precisa fisionomia giuridica di questa scuola è una questione che resta ancora non risolta. La tesi che è rimasta per lungo tempo dominante, ma che da qualche tempo è stata messa in dubbio, considerava l’Accademia come una specie di «tiaso» religioso consacrato alle Muse. E una comunità di studio che si radunava per coltivare il più alto sapere ben rientrava, nel concetto del Greco e in particolare dell’Ateniese, sotto la generale concezione di una comunità sacra al culto di Apollo e delle Muse. Intanto, va precisato che i membri dell’Accademia non erano «studenti» nel senso moderno della parola. Ai giovani si affiancavano anche uomini anziani; probabilmente tutti dovevano contribuire al finanziamento delle spese di esercizio e dovevano prendere anche alcuni pasti in comune. Forse non esistevano neppure statuti

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BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

scritti della Scuola, e tutta la regolamentazione dipendeva dal suo capo. Inoltre, lo scopo ultimo dell’Accademia non erano il sapere e la scienza perseguiti solo nella loro astrattezza, ma ricercati altresì – come abbiamo sopra già rilevato – per la loro valenza etico-politica. Per la prima volta nell’Accademia convennero personalità, anche straniere, di diversissima formazione e anche di opposte attitudini spirituali. Ben al di là dell’orizzonte socratico, vi fecero trionfale ingresso aritmetica, geometria e astronomia. Con l’Accademia ebbe rapporti Eudosso, capo di una Scuola matematica e astronomica. Abbiamo, inoltre, testimonianze che provano la presenza nell’Accademia di medici provenienti dalla Sicilia. E questi personaggi, con il loro insegnamento, che dovette essere in qualche modo regolato, promossero nella Scuola una serie di dibattiti assai fecondi. E così – anche se non ancora a livello programmatico – di fatto, e sia pure per una breve stagione, questo incontro di uomini e di insegnamenti diversi nell’Accademia produsse altresì un incontro delle scienze che essi coltivavano, e i vari membri dell’Accademia poterono, per la prima volta, udire insieme queste diverse voci, i loro confronti e i loro scontri, come prima di allora non era stato possibile. Ben a ragione, dunque, la posterità sceglierà proprio il nome dell’«Accademia» platonica per designare quelle istituzioni in cui le varie forme di sapere vengono coltivate ed elaborate al più alto livello. 367

Platone si reca una seconda volta in Sicilia, a Siracusa. A Dionigi I era successo il figlio Dionigi

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II, che, si credeva, avrebbe potuto realizzare il programma di Platone ben più che non il padre. In realtà, Dionigi II si rivela subito essere come il padre. Esilia Dione, con l’accusa di tramare contro di lui, e trattiene Platone quasi come prigioniero. Diogene Laerzio (III 21) scrive: «Una seconda volta Platone venne in Sicilia presso Dionigi il Giovane per chiedergli un po’ di terra e alcuni uomini che vivessero secondo la sua costituzione. E Dionigi, benché avesse promesso, non mantenne fede. Alcuni, poi, dicono che Platone corse anche pericolo di vita, in quanto avrebbe persuaso Dione e Teodota alla liberazione dell’isola. Fu in quella occasione, inoltre, che Archita il Pitagorico scrisse una lettera a Dionigi, lo pregò in favore di lui, e riuscì a salvarlo e a farlo tornare ad Atene». 365

Soprattutto in seguito allo scoppio di una guerra che impegna personalmente Dionigi II, Platone riesce tornare ad Atene.

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Platone si reca una terza volta a Siracusa. Dione, che si era rifugiato ad Atene, lo convinse ad accogliere il pressante invito di Dionigi II a ritornare, sperando di placare il tiranno. Ma i rapporti con Dionigi si aggravarono subito, e di molto. Solo per l’intervento dei Tarantini, Platone riuscì a salvarsi.

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Dione riesce a prendere il potere a Siracusa.

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Dione viene ucciso da una congiura capeggiata da Callippo.

348/347 Platone muore ad Atene all’età di ottanta anni.

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BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

2. Significative connessioni di Platone col dio Apollo create dall’immaginazione dei Greci Platone è stato connesso con Apollo, e su questo rapporto sono nati numerosi aneddoti, raccolti da A.S. Riginos (1976, pp. 9-32), che vorrebbero comprovare la «natura apollinea» di Platone. Questi aneddoti sono nove. Il primo riguarda la nascita di Platone collegata ad Apollo nel modo seguente: il padre avrebbe avuto un avvertimento da Apollo stesso di non unirsi fisicamente alla moglie fino a quando il figlio non fosse nato. Diogene Laerzio scrive (III 2): «Aristone avrebbe voluto fare violenza a Perittione, la quale era nell’età opportuna per l’unione nuziale, ma non vi riuscì. Dopo aver desistito dai tentativi di violenza, vide l’apparizione di Apollo: e da quel momento egli la lasciò pura dal congiungimento fino al parto». Il secondo riguarda la data di nascita: Platone sarebbe nato, come già abbiamo detto, «nel settimo giorno del mese Targelione, nello stesso giorno in cui i Delfi dicono che nacque Apollo» (Diogene Laerzio, III, 2). Il terzo (narrato da un Anonimo nei Prolegomena ad Platonis Philebum, 2, 21-27) è questo: dopo la nascita, la madre «condusse il piccolo sul monte Imetto, allo scopo di offrire un sacrificio ad Apollo dio del monte e alle Ninfe. E avendolo qui deposto, al suo ritorno lo ritrovò con la bocca piena di miele. Erano venute delle api a portare al piccolo del miele, presagendo che ciò che sarebbe uscito fuori dalla sua bocca sarebbe stato “più dolce che il miele”, per dirlo col poeta». Il quarto, che pure già conosciamo, riguarda un sogno divinatorio avuto da Socrate, così riferito da Diogene Laerzio (III, 5): «Si racconta che Socrate abbia sognato di tenere sulle ginocchia un piccolo cigno, il quale mise subito le ali e volò cantando dolcemente, e che il giorno successivo si presentò a lui Platone, e Socrate abbia dichiarato che il cigno era appunto lui».

CONNESSIONI DI PLATONE COL DIO APOLLO

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Il quinto riguarda un sogno premonitore avuto da Platone prima della sua morte, in cui vide se stesso diventato un cigno, che volava di albero in albero, ponendo in difficoltà i cacciatori che non poterono catturarlo (Anonimo, cit., I, 29 sgg.). Il sesto consiste nella qualifica che gli venne data di «uomo divino e apollineo» (ibid., 1, 26-41), desumendo tale qualifica dall’affermazione che da Platone viene messa in bocca a Socrate nel Fedone, che dice di essere «compagno di servizio dei cigni» (Platone veniva incluso da alcuni nella catena aurea delle nascite di Apollo, insieme a Socrate e a Pitagora). Il settimo aneddoto è il seguente. Platone morì a 81 anni, considerato numero apollineo: infatti, le Muse sono nove, e moltiplicando nove per nove si ha 81 (ibid. 61, 1 sgg.). L’ottavo aneddoto narra di una donna che presentò all’Oracolo di Delfi il quesito se le fosse lecito erigere a Platone una statua fra quelle degli dèi, ed ebbe come risposta che doveva far questo, in quanto Platone era guida di una «divina saggezza» e che, pertanto, se avesse fatto questo, avrebbe avuto in cambio il favore degli dèi (ibid. 6, 9 sgg.). Il nono aneddoto riguarda un altro oracolo secondo cui, per volere di Febo Apollo, sarebbero dovuti nascere due medici speciali: Asclepio figlio di Apollo, medico del corpo, e Platone, medico dell’anima. Diogene Laerzio, III, 45 ha composto questi due epigrammi assai significativi. Un primo dice: «Se in Grecia Febo non avesse fatto nascere Platone, come avrebbe potuto curare con le lettere le anime degli uomini? Infatti suo figlio Asclepio è medico del corpo, mentre Platone lo è dell’anima immortale». E un altro: «Febo fece nascere per i mortali Asclepio e Platone, l’uno per la salute dell’anima, l’altro del corpo».

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BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

3. Il dialoghi di Platone e la loro autenticità Gli scritti pervenutici sotto il nome di Platone sono 36. Il loro ordinamento è opera di Trasillo (un Medioplatonico che visse ai tempi di Tiberio), il quale, però, ha seguito un criterio e ha portato a termine un’opera a lui precedente. Trasillo ha diviso i 36 scritti in nove tetralogie, basandosi, nella formazione dei gruppi di quattro, sul loro contenuto, anche se talora il nesso fra le opere risultava assai tenue. PRIMA TETRALOGIA 1. Eutifrone, 2. Apologia di Socrate, 3. Critone, 4. Fedone. SECONDA TETRALOGIA 5. Cratilo, 6. Teeteto, 7. Sofista, 8. Politico. TERZA TETRALOGIA 9. Parmenide, 10. Filebo, 11. Simposio, 12. Fedro. QUARTA TETRALOGIA 13. Alcibiade primo, 14. Alcibiade secondo, 15. Ipparco, 16. Amanti. QUINTA TETRALOGIA 17. Teagete, 18. Carmide, 19. Lachete, 20. Liside. SESTA TETRALOGIA 21. Eutidemo, 22. Protagora, 23. Gorgia, 24. Menone. SETTIMA TETRALOGIA 25. Ippia maggiore, 26. Ippia minore, 27. Ione, 28. Menesseno. OTTAVA TETRALOGIA 29. Clitofonte, 30. Repubblica, 31. Timeo, 32. Crizia. NONA TETRALOGIA 33. Minosse, 34. Leggi, 35. Epinomide, 36. Lettere. Questo ordinamento è diventato canonico nell’antichità, ma anche è stato consacrato dalla grande edizione critica moderna di John Burnet.

AUTENTICITÀ E CRONOLOGIA DEI DIALOGHI PLATONICI

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In primo luogo, va rilevato che in questo gruppo di opere è contenuto tutto quello che Platone ha scritto. Tutti i dialoghi che gli Antichi hanno citato come suoi ci sono. Se ne è aggiunto qualcuno inautentico, o comunque di dubbia autenticità. Nel secolo XIX la questione dell’autenticità fu al centro di vivacissimi dibattiti, quasi del tutto spentisi nel XX secolo. Rimangono dubbi soprattutto su alcuni dialoghi cosiddetti socratici, di cui noi dimostreremo invece l’autenticità. L’Epinomide è ritenuto opera di Filippo di Opunte. Delle Lettere è considerata autentica, a partire dalle precisazioni fatte da U. von Wilamowitz Moellendorff, in particolare, la settima. Già la tradizione ci ha tramandato come inautentiche alcune opere, che quindi non sono incluse nelle 36. Sono le seguenti: Sul giusto, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Definizioni.

4. La questione della cronologia degli scritti La questione della cronologia dei dialoghi è nata in tempi moderni ed è stata introdotta da K.F. Hermann nella sua opera Geschichte und System der platonischen Philosophie (Heidelberg 1839), e si è rapidamente sviluppata, fino a essere assunta come un canone ermeneutico di basilare importanza per interpretare e comprendere Platone. Dai più recenti studi è però emerso che essa non è risolubile se non in maniera assai parziale. In effetti, Platone era ben lungi dal possedere solo quelle dottrine che metteva per iscritto, man mano che componeva i singoli dialoghi. E dunque, quando non parla di una certa dottrina che noi moderni riterremmo utile in quel dato scritto, non vuol dire affatto che non l’avesse ancora scoperta. Infatti, in ogni suo dialogo Platone adegua il contenuto alle capacità dell’anima del deuteragonista, tacendo

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BIOGRAFIA, CRONOLOGIA E OPERE DI PLATONE

espressamente quelle cose che il personaggio scelto come interlocutore di Socrate non può essere in grado di capire. In generale, se anche si potesse fissare la cronologia di tutti i dialoghi, ciò che ne deriverebbe non sarebbe la parabola dell’evoluzione spirituale di Platone, perché egli maturava le sue dottrine dapprima nell’ambito dell’oralità e solo successiva mente le fissava per iscritto a scopo ipomnematico, mentre alcune di esse (anche se poche, ma le più determinanti) aveva deciso di non fissarle per iscritto. L’unico criterio affidabile per ricostruire una successione dei dialoghi è quello fondato sullo stile, che, però, darebbe più l’idea dell’evoluzione di Platone scrittore che non pensatore. Indicazioni esterne e oggettive per la datazione o per lo meno per la successione dei dialoghi sono le seguenti. Aristotele nella Politica (II 6, 1264 b 24-27) attesta che le Leggi sono state scritte dopo la Repubblica. Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, III 37) ci dice che alcuni riferivano che le Leggi sono rimaste in tavolette di cera e che le pubblicò Filippo di Opunte, dopo la morte di Platone. Le indicazioni interne ai dialoghi stessi, quindi fornite per bocca di Platone medesimo, sono le seguenti. Timeo, 17 B - 19 B, rimanda alla Repubblica, riassumendola, mentre in 20 B-C preannuncia il Crizia, e in quest’ultimo dialogo conferma la successione (107 A-B). Al Sofista segue il Politico, come si dice espressamente in quest’ultimo dialogo, 257 A e 258 B, e come nel primo dialogo, in 217 A, si preannuncia. Nel Sofista, poi, in 217 C, sembra farsi riferimento al Parmenide (cfr. 127 B 2 e C 4 s.), e in 216 A al Teeteto. Nella critica alla scrittura condotta nel Fedro, infine, come i più recenti studi hanno messo in evidenza, Platone rinvia al contenuto della Repubblica e al suo metodo: confronta Fedro, 276 C e 276 E - 277 A con Repubblica, II 376 D 9 - E 4 e VI 501 E, e la documentazione che diamo nel no-

CRONOLOGIA DEI DIALOGHI PLATONICI

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stro volume Per una nuova interpretazione di Platone, Bompiani 201022 , pp. 83 sgg. Un’altra indicazione significativa si può ricavare da Teeteto, 143 C, che sembra una chiara affermazione di Platone di voler evitare il dialogo indiretto con la continua inframmezzata espressione «e io dissi»; e, dunque, sembra di poter ricavare che dal Teeteto in poi tutti i suoi dialoghi sono stati composti in modo diretto e che quindi nessuno dei dialoghi scritti in forma indiretta è posteriore al Teeteto. Avvalendosi anche di una serie di ricerche stilometriche, molti studiosi sono in certa misura d’accordo nel fissare quest’ordine di pubblicazione dei dialoghi della vecchiaia: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi. In questo periodo cade sicuramente anche il Fedro. Il momento creativo culminante del capolavoro della Repubblica va collocato molto probabilmente verso la metà degli anni Settanta. E a questo periodo della maturità vanno anche riferiti dialoghi come Cratilo, Simposio, Fedone. Il periodo della maturità si apre con la fondazione dell’Accademia, che risale al ritorno di Platone dal primo viaggio in Italia meridionale, ossia nel 387 a.C. Subito prima di partire, o appena tornato, Platone dovette pubblicare il Gorgia. E certamente subito dopo la fondazione dell’Accademia deve aver pubblicato il Menone, che, in un certo senso, ne è il programmatico manifesto. L’Eutidemo segue il Menone, perché ne presuppone le dottrine in modo sistematico. Tutti gli altri dialoghi di sfondo socratico e apparentemente aporetici sono detti giovanili: alcuni sono stati composti presumibilmente anche prima della morte di Socrate (quindi prima del 399), mentre la stesura degli altri si è protratta fino all’epoca del ritorno dal primo viaggio in Italia meridionale e della fondazione dell’Accademia (387 a.C.).

ESPLICITAZIONE DELLE ABBREVIAZIONI delle opere espressamente citate nella Prefazione generale, nel Saggio introduttivo e nelle Note

Aristofane, Le nuvole, tr. Del Corno Aristofane, Le nuvole, a cura di Giulio Guidorizzi. Introduzione e traduzione di Dario Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 1996. Gli uccelli, tr. Del Corno Aristofane, Gli uccelli, a cura di Giuseppe Zanetto. Introduzione e traduzione di Dario Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 19974. Le rane, tr. Del Corno Aristofane, Le rane, a cura di Dario Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 19943. Ast Friedrich Ast, Platons Leben und Schriften, Leipzig 1816. Bartolone 19992 Filippo Bartolone, Socrate. L’origine dell’intellettualismo dalla crisi alla libertà. A cura di Vincenzo Cicero. Prefazione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 19992. Boder 1973 Werner Boder, Die sokratische Ironie in den platonischen Frühdialogen, Amsterdam 1973. Burnet, si veda Platonis Opera Calogero 1928 Guido Calogero, Per l’interpretazione del Liside, del Simposio e del Fedro, Bestetti & Tuminelli, Milano-Roma 1928; ora in

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ESPLICITAZIONE DELLE ABBREVIAZIONI

G. Calogero, Scritti minori di filosofia antica, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 229-249. Diels – Kranz, vedi Presocratici Diogene Laerzio, a cura di Reale Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi. Testo greco a fronte. A cura di Giovanni Reale, con la collaborazione di Giuseppe Girgenti e Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano 2005. Esiodo, Le opere e i giorni, a cura di Cesare Cassanmagnago, Bompiani, Milano 2009. Friedländer, tr. it. Paul Friedländer, Platone. Introduzione di Giovanni Reale. Traduzione e note e apparati di Andrea Le Moli, Bompiani, Milano 2004; 20142 (il titolo originale è Platon, uscito in tedesco in tre volumi, De Gruyter, Berlin/New York 1964-1975). Gadamer, St. plat. Hans-Georg Gadamer, Studi platonici, 2 voll. Trad. di Giovanni Moretto, Marietti, Casale Monferrato, 1983 (I) e 1984 (II). Gadamer, Bompiani Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo. Traduzione e apparati di Gianni Vattimo. Introduzione di Giovanni Reale. Testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 2000; 20145 (titolo originale Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, più volte riedito). Gatti 1991, 20147 Maria Luisa Gatti, trad. di Cratilo, Alcibiade maggiore, Alcibiade minore, Ipparco, Amanti, Eutidemo, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milani 1991; Bompiani, Milano 20147. Giannantoni 1971 Gabriele Giannantoni, Socrate. Tutte le testimonianze da Aristotele e Senofonte ai Padri cristiani. Introduzione e indici

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di Gabriele Giannantoni. Traduzioni di Gabriele Giannantoni, Marcello Gigante, Renato Laurenti, Benedetto Marzullo, Enza Celluprica, Matia Clotilde De Felice, Anna Maria Ioppolo, Angelo Panvini, Laterza, Bari 1971. Giannantoni 1990 Gabriele Giannantoni, Socratis et Socraticurum Reliquiae, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. G., Bibliopolis, Napoli 1990. Gigon 1947 Olof Gigon, Sokrates. Sein Bild in Dichtung und Geschichte, Tübingen – Basel 1947; 19943. Gomperz nuova ed. 2013 Theodor Gomperz, Pensatori greci. Storia della filosofia antica dalle origini ad Aristotele e alla sua scuola. Traduzione di Luigi Bandini, Introduzione di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2013. Guthrie, A History William Keith Chambers Guthrie, A History of Greek Philosophy, voll. I-VI, Cambridge 1962-1981. Havelock tr. it. Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Laterza, Roma – Bari 1973, più volte riedita (titolo originale: Preface to Plato, 1963). Hegel, tr. Cicero Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Platone (secondo l’edizione postuma del 1833 delle Lezioni sulla Storia della Filosofia curate da Karl Ludwig Michelet). Revisione critica del testo tedesco (e raffronto con l’ed. Garniron – Jaeschke), note e apparati di Vincenzo Cicero. Testo tedesco a fronte, Rusconi, Milano 1998. Heitsch Ernst Heitsch, Platon und die Anfänge seines dialektischen Philosophierens, Göttingen, 2004.

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ESPLICITAZIONE DELLE ABBREVIAZIONI

Irwin 1973 Terence Henry Irwin, Plato’s Moral Theory: The Early and Middle Dialogues, Oxford 1977. Jaeger, Paideia, ed. Bompiani Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco. Traduzione di Luigi Emery e Alessandro Setti. Introduzione di Giovanni Reale. Indici di Alberto Bellanti, Bompiani, Milano 2003; 20113; l’opera raccoglie in un solo volume i tre pubblicati in precedenza, come nell’edizione originale, dalla Nuova Italia nel 1937, 1955, 1959. (Titolo orig.: Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, il primo volume era uscito già nel 1934; il secondo e il terzo volume sono usciti prima in lingua inglese nel 1943 e 1944, e subito dopo anche in Germania nel 1944 e 1947). Krämer, Arete Hans Joachim Krämer, Arete bei Platon und Aristoteles. Zum Wesen und zur Geschichte der platonischen Ontologie, Schippers, Amsterdam 1967 (rist. anast. dell’ed. 1959). Krämer si veda Liminta 1998 e Lualdi 1998. Liminta 1974, 19982 Maria Teresa Liminta, Il problema della bellezza. Autenticità e significato dell’Ippia Maggiore di Platone, Celuc, Milano 1974; Vita e Pensiero, Milano 19982. Liminta 1991; 20147 Maria Teresa Liminta, trad. di: Teagete, Carmide, Lachete, Liside, Ippia maggiore, Ippia minore, Menesseno, Rusconi, Milano 1991; Bompiani, Milano 20147. Lualdi 1974 Maria Lualdi, Il problema della philia e il Liside platonico, Milano 1974. Lualdi 1998 Maria Lualdi, Platone, Liside. Saggio introduttivo di Hans Krämer. Analisi e interpretazione del dialogo, traduzione,

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note e apparati di Maria Lualdi, Testo greco a fronte, Rusconi, Milano 1998. Omero, tr. Calzecchi Onesti Omero, Odissea. Prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Testo originale a fronte, Einaudi, Torino 1972. Platonis Opera. Recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, voll. 5, Oxford 1900-1907 (presenta le opere di Platone suddivise in tetralogie secondo il criterio proposto da Trasillo; rimane l’edizione complessiva di riferimento). Platone 20147 Platone, Tutti gli scritti, con la collaborazione di Maria Luisa Gatti, Claudio Mazzarelli, Maurizio Migliori, Maria Teresa Liminta, Roberto Radice, Rusconi, Milano 1991; Bompiani, Milano 20147. Platone, Repubblica. Saggio introduttivo, saggio integrativo, bibliografia e indici di Giovanni Reale. Traduzione e note di Roberto Radice con la collaborazione per alcune parti di Giovanni Reale e lessico di Roberto Radice, Bompiani, Milano 2009. Serie dei dialoghi di Platone a cura di Reale pubblicati in questa collana: Platone, Eutifrone, Bompiani, Milano 20112. Platone, Apologia di Socrate, Bompiani, Milano 201311. Platone, Critone, Bompiani, Milano 20103. Platone, Fedone, Bompiani, Milano 20136. Platone, Simposio, Bompiani, Milano 20149. Platone, Fedro, Bompiani, Milano 20135. Platone, Teagete, Bompiani, Milano 201311.

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ESPLICITAZIONE DELLE ABBREVIAZIONI

Platone, Protagora, Bompiani, Milano 2014. Platone, Gorgia, Bompiani, Milano 20103. Platone, Menone, Bompiani, Milano 20103. Platone, Ione, Bompiani, Milano 20113. Platone, Timeo, Bompiani, Milano 20135. Nuova serie dei dialoghi giovanili di Platone a cura di Reale pubblicati in questa collana nel 2015 con bibliografie specifiche di Vincenzo Cicero: Platone, Teagete, Bompiani, Milano 2015. Platone, Ippia minore, Bompiani, Milano 2015. Platone, Ippia maggiore, Bompiani, Milano 2015. Platone, Ipparco, Bompiani, Milano 2015. Platone, Amanti, Bompiani, Milano 2015. Platone, Carmide, Bompiani, Milano 2015. Platone, Liside, Bompiani, Milano 2015. Platone, Lachete, Bompiani, Milano 2015. Platone, Eutidemo, Bompiani, Milano 2015. Platone, Alcibiade primo, Bompiani, Milano 2015. Platone, Alcibiade secondo, Bompiani, Milano 2015. Pohlenz 2013 Max Pohlenz, Aus Platos Werdezeit, Berlin 1913. Presocratici, ed. Bompiani I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz. A cura di Giovanni Reale, con la collaborazione di Diego Fusaro, Maurizio Migliori, Salvatore Obinu, Ilaria Ramelli, Maria Timpanaro Cardini,

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Angelo Tonelli. Realizzazione editoriale e Indici di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2006, più volte riedito. Radice – Bombacigno 2003 Lexicon I, Plato edited by Roberto Radice in collaboration with Ilaria Ramelli and Emmanuele Vimercati, electronic edited by Roberto Bombacigno, Biblia, Milano 2003. Raeder 1905 Hans Raeder, Platons philosophische Entwicklung, Leipzig 1905. Reale 1957 Giovanni Reale, Il «Lachete» platonico e la dottrina delle Idee, in «Pier Lombardo» I 3 (1957), pp. 48-70. Reale, Platone 1998 Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998; Bur, Milano 2004. Reale, Socrate 2001, 20134 Giovanni Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000; Bur, Milano 2001; 20134. Reale 20072 Platone, Simposio. A cura di Giovanni Reale. Testo critico di John Burnet, Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001; 20072. Reale 201022 Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “Dottrine non scritte”, con testi greci di tutti i passi citati, Bompiani, Milano, ventiduesima edizione 2010. Rowe 2000 Christopher Rowe, The Lysis and the Symposium aporia and euporia?, in T.M. Robinson - L. Brisson (edd.), Plato: Euthydemus, Lysis, Charmides. Proceedings of the V

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ESPLICITAZIONE DELLE ABBREVIAZIONI

Symposium Platonicum. Robinson, Academia Verlag. Sankt Augustin 2000, pp. 204-216. Santas, 1994, tr. it. 2003 Gerasimos Xenophon Santas, Socrate. La filosofia dei dialoghi giovanili di Platone. Introduzione di Giovanni Reale. Traduzione di Francesca Filippi, Vita e Pensiero, Milano 2003 (titolo originale: Socrates: Philosophy in Plato’s Early Dialogues, London – Boston 1979). Schleiermacher, Ermeneutica Friedrich D. E. Schleiermacher, Ermeneutica. Testo tedesco a fronte. Introduzione, impostazione editoriale, traduzione e apparati di Massimo Marassi, Bompiani, Milano 2000. Senofonte, tr. De Martinis Senofonte, Tutti gli scritti socratici. Apologia di Socrate – Memorabili – Economico – Simposio. A cura di Livia De Martinis. Saggio introduttivo di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2013. Socher 1820 Joseph Socher, Über Platons Schriften, Lentner, München 1820. Szlezák tr. it. Thomas A. Szlezák, Platone e la scrittura della filosofia. Analisi di struttura dei dialoghi della giovinezza e della maturità alla luce di un nuovo paradigma ermeneutico. Introduzione e traduzione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1988; titolo originale: Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie. Interpretationen zu den frühen und mittleren Dialogen, de Guyter, Berlin 1985. Taylor, tr. it. Alfred Edward Taylor, Platone. L’uomo e l’opera. Presentazione di Mario Dal Pra. Traduzione di Mario Corsi, La Nuova Italia, Firenze 1968 (titolo originale: Plato: the Man and his Work, London 1926; 19496).

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Tejera 1990 Victorino Tejera, On the form and authenticity of Lysis, «Ancient Philosophy», 10 (1990), pp. 173-191. Trabattoni 2003 Franco Trabattoni, Il «Liside»: un’introduzione all’etica platonica, in Platone, Liside, a cura di Franco Trabattoni. II, Testo italiano con saggi di Mauro Bonazzi, Andrea Capra, Franco Trabattoni, LED, Milano 2003, pp. 47-171. Vlastos 1994, tr. it. 2003 Gregory Vlastos, Socratic Studies. Edited by Myles Burnyeat, Cambridge 1994 (traduzione italiana: Studi socratici. Introduzione di Giovanni Reale. Traduzione di Francesca Filippi, Vita e Pensiero, Milano 2003). Vlastos 1991, tr. it. Gregory Vlastos, Socrates: Ironist and Moral Philosopher, Cambridge University Press, Cambridge 1991 (traduzione italiana con il titolo: Socrate, il filosofo dell’ironia complessa, a cura di Andrea Blasina, La Nuova Italia, Firenze 1998). Wilamowitz-Moellendorff Ulrich von Wilamowitz Moellendorff, Platon. Sein Leben und seine Werke, prima edizione Berlin 1919-1920. Bearbeitet und mit einem Nachwort versehen von Bruno Snell, 5. Auflage, Berlin 1959. Zeller Eduard Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt, 3 voll., 1844-1852; seconda edizione in 5 voll., 1855-1868; la quinta edizione, iniziata nel 1892, è l’ultima curata dall’autore.

LISIDE [Sull’amicizia, maieutico]

PROLOGO L’INCONTRO DI SOCRATE CON IPPOTALE E CTESIPPO

ΔEporeuovmhn me;n ejx ΔAkadhmeiva~ eujqu; Lukeivou th;n e[xw teivcou~ uJpΔ aujto; to; tei`co~: ejpeidh; dΔ ejgenovmhn kata; th;n pulivda h|/ hJ Pavnopo~ krhvnh, ejntau`qa sunevtucon ÔIppoqavlei te tw`/ ÔIerwnuvmou kai; Kthsivppw/ tw`/ Paianiei` kai; a[lloi~ meta; touvtwn neanivskoi~ aJqrovoi~ sunestw`s i. kaiv me prosiovnta oJ ÔIppoqavlh~ ijdwvn, «W Swvkrate~, e[fh, poi` dh; poreuvh/ kai; B povqen… ΔEx ΔAkadhmeiva~, h\n dΔ ejgwv, poreuvomai eujqu; Lukeivou. Deu`ro dhv, h\ dΔ o{~, eujqu; hJmw`n. ouj parabavllei~… a[xion mevntoi. Poi`, e[fhn ejgwv, levgei~, kai; para; tivna~ tou;~ uJma`~… Deu`ro, e[fh, deivxa~ moi ejn tw`/ katantikru; tou` teivcou~ perivbolovn tev tina kai; quvran ajnew/gmevnhn. diatrivbomen dev, h\ dΔ o{~, aujtovqi hJmei`~ te aujtoi; kai; a[lloi pavnu polloi; kai; kaloiv. 204A “Estin de; dh; tiv tou`to, kai; tiv~ hJ diatribhv… 203A

1 Queste prime parole richiamano una metafora cara a Platone: il cammino come simbolo dell’indagine filosofica. Proprio in questo dialogo il tema è sviluppato con grande chiarezza (213 E). 2 Accademia è il nome del luogo, a circa sette miglia a nord di Atene, presso il fiume Cefiso, con boschetti e giardini, dove Platone collocò la sua scuola intorno al 387 a.C. 3 Il Liceo era uno dei tre grandi ginnasi fondati ad Atene nel VI secolo a.C.; si trovava ai piedi del monte Licabetto in un luogo sacro ad Apollo Licio (ȜȪțİȚȠȢ, difensore delle greggi contro i lupi). In questo luogo Aristotele fondò la sua scuola intorno al 335 a.C.

[Socrate incontra Ippotale e Ctesippo e viene invitato a visitare una nuova palestra]

Camminavo per la strada1 che corre all’esterno delle 203A mura e sotto le mura stesse dall’Accademia2 verso il Liceo3. Quando sono giunto all’altezza della porta posteriore, dove si trova la fonte di Panope4, là incontrai Ippotale5, figlio di Ieronimo, e Ctesippo6 del demo di Peania, e insieme a loro altri giovani7. Non appena mi vide giungere, Ippotale, disse: «Socrate, da dove vieni B e dove vai?» «Vengo dall’Accademia e vado verso il Liceo». «Vieni qui direttamente con noi. Non cambieresti strada? Ne varrebbe proprio la pena», disse. «Ma dove mi inviti a venire, e da chi? », dissi io. «Là, disse, mostrandomi, proprio di fronte alle mura, un recinto con la porta aperta. È lì che passiamo il tempo noi e molti altri bei giovani». «Che cos’è questo posto, e come passate il tempo?». 204A 4 Panope era una delle cinquanta Nereidi (cfr. Dizionario etimologico della mitologia greca, www.demgol.units.it), dalla fonte a lei dedicata venivano irrigati i giardini del Liceo. 5 Ippotale può essere un personaggio di fantasia. Diogene Laerzio parla di un Ippotale di Atene, discepolo di Platone (Vite dei filosofi, Bompiani, Milano 2005, III 45), ma è improbabile che si tratti della stessa persona. 6 Ctesippo era un discepolo di Socrate, citato sia nel Fedone, (59 B) fra i discepoli presenti alla morte di Socrate, sia nell’Eutidemo, (273 A, 274 B-D. 7 Il termine greco neanivsko~ indica i ragazzi tra i 14 e i 18 anni.

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LISIDE, 204 A-D

Palaivstra, e[fh, newsti; wj/kodomhmevnh: hJ de; diatribh; ta; polla; ejn lovgoi~, w|n hJdevw~ a[n soi metadidoi`men. Kalw`~ ge, h\n dΔ ejgwv, poiou`nte~: didavskei de; tiv~ aujtovqi… So;~ eJtai`rov~ ge, h\ dΔ o{~, kai; ejpainevth~, Mivkko~. Ma; Diva, h\n dΔ ejgwv, ouj fau`lov~ ge aJnhvr, ajllΔ iJkano;~ soILsthv~. Bouvlei ou\n e{pesqai, e[fh, i{na kai; i[dh/~ tou;~ o[nta~ aujtovqi ªaujtou`º… B Prw`ton hJdevw~ ajkouvsaimΔ a]n ejpi; tw`/ kai; ei[seimi kai; tiv~ oJ kalov~. “Allo~, e[fh, a[llw/ hJmw`n dokei`, w\ Swvkrate~. Soi; de; dh; tiv~, w\ ÔIppovqale~… tou`tov moi eijpev. Kai; o}~ ejrwthqei;~ hjruqrivasen. kai; ejgw; ei\pon: «W pai` ÔIerwnuvmou ÔIppovqale~, tou`to me;n mhkevti ei[ph/~, ei[te ejra/`~ tou ei[te mhv: oi\da ga;r o{ti ouj movnon ejra`/~, ajlla; kai; povrrw h[dh ei\ poreuovmeno~ tou` e[rwto~. eijmi; dΔ ejgw; ta; me;n a[lla fau`lo~ C kai; a[crhsto~, tou`to dev moiv pw~ ejk qeou` devdotai, tacu; oi{w/ tΔ ei\nai gnw`nai ejrw`ntav te kai; ejrwvmenon. Kai; o}~ ajkouvsa~ polu; e[ti ma`llon hjruqrivasen. oJ ou\n Kthvs ippo~, ΔAstei`ovn ge, h\ dΔ o~, o{ti ejruqria`/~, w\ ÔIppovqale~, kai; ojknei`~ eijpei`n Swkravtei tou[noma: ejan; dΔ ou|to~ kai; smikro;n crovnon sundiatrivyh/ soi, parataqhvsetai uJpo; sou` ajkouvwn qama; levgonto~. hJmw`n gou`n, w\ Swvkrate~, ejkkekwvfwke ta; D w\ta kai; ejmpevplhke Luvs ido~: a]n me;n dh; kai; uJpopivh/, eujmariva 8

Di questo personaggio non si sa nulla. Trabattoni (Platone. Liside, Editrice Led, Milano 2003, vol. II, p. 18, nota 6) ipotizza una derivazione da mikkov~ (forma dorica per mikrov~), che farebbe pensare a una valenza ironica: il sofista Piccolo. 9 Affermazioni di questo tipo sono ricorrenti nei dialoghi platonici (ad esempio in Teagete, 128 B), ma vanno intese alla luce dell’«ironia complessa»: in un certo senso sono vere e in un altro sono false (cfr. Saggio intr., cap. III, § 2). 10 Liside è presentato come appartenente a una famiglia ricca e importante: di suo padre Democrate, che «è molto conosciuto», e di suo nonno Liside «tutta la Città canta» le ricchezze e le vittorie nelle feste più importanti. Però non sappiamo se questo gio-

PROLOGO. L’INCONTRO DI SOCRATE CON IPPOTALE E CTESIPPO

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«È una palestra costruita di recente, e ci intratteniamo per lo più in discussioni, alle quali ci piacerebbe che prendessi parte anche tu». «Fate bene – dissi io –, e chi insegna?». « Micco8, un tuo amico e ammiratore», rispose. «Per Zeus, risposi, non è certo un uomo da poco, ma un notevole Sofista». «Allora, vuoi seguirci per vedere chi c’è lì?», disse. «Prima vorrei però volentieri sapere qual è la ragione B per cui devo entrare, e chi lì è il bello». «Ognuno di noi ha le proprie preferenze, Socrate», rispose. «E per te, chi è, Ippotale? Dimmelo».

[Gli scritti composti da Ippotale per l’amato] Alla domanda arrossì. E io dissi: «Ippotale, figlio di Ieronimo, non mi devi dire se ami qualcuno o no. So bene che non solo sei innamorato, ma che ti sei spinto molto avanti sulla strada dell’amore. Quanto a me, in tutte le altre cose non valgo molto e servo a poco9, ma il dio mi ha C dato la capacità di capire subito chi ama e chi è amato». Nel sentire queste parole, arrossì ancora di più. Allora Ctesippo disse: «Questa è bella, Ippotale, che tu arrossisca e sia riluttante a dire a Socrate il nome. In effetti, basterebbe che Socrate parlasse anche per poco tempo con te, e sarebbe torturato nel sentirselo ripetere di continuo, fino alla nausea. Quanto a noi, Socrate, ci ha assordato, a forza di ripeterci il nome di Liside10. D vane sia realmente esistito. È giovane, bello, ricco e si trova nella migliore condizione per avere molti amici: il protagonista ideale di un dialogo sull’amicizia.

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LISIDE, 204 D - 205 B

hJmi`n ejstin kai; ejx u{pnou ejgromevnoi~ Luvs ido~ oi[esqai tou[noma ajkouvein. kai; a} me;n katalogavdhn dihgei`tai, deina; o[nta, ouj pavnu ti deinav ejstin, ajllΔ ejpeida;n ta; poihvmata hJmw`n ejpiceirhvsh/ katantlei`n kai; suggravmmata. kai; o{ ejstin touvtwn deinovteron, o{ti kai; a[/dei eij~ ta; paidika; fwnh`/ qaumasiva/, h}n hJma`~ dei` ajkouvonta~ ajnevcesqai. nu`n de; ejrwtwvmeno~ uJpo; sou` ejruqria`/. E “Estin dev, h\n dΔ ejgwv, oJ Luvs i~ nevo~ ti~, wJ~ e[oike: tekmaivromai dev, o{ti ajkouvsa~ tou[noma oujk e[gnwn. Ouj ga;r pavnu, e[fh, ti; aujtou` tou[noma levgousin, ajllΔ e[ti patrovqen ejponomavzetai dia; to; sfovdra to;n patevra gignwvskesqai aujtou`. ejpei; eu\ oi\dΔ o{ti pollou` dei`~ to; ei\do~ ajgnoei`n tou` paidov~: iJkano;~ ga;r kai; ajpo; movnou touvtou gignwvskesqai. Legevsqw, h\n dΔ ejgwv, ou|tino~ e[stin. Dhmokravtou~, e[fh, tou` Aijxwnevw~ oJ presbuvtato~ uJov~. Ei\en, h\n dΔ ejgwv, w\ ÔIppovqale~, wJ~ gennai`on kai; neaniko;n tou`ton to;n e[rwta pantach`/ ajnhu`re~: kaiv moi i[qi ejpivdeixai a} 205A kai; toi`sde ejpideivknusai, i{na eijdw` eij ejpivstasai a} crh; ejrasth;n peri; paidikw`n pro;~ aujto;n h] pro;~ a[llou~ levgein. Touvtwn dev ti, e[fh, staqma`/, w\ Swvkrate~, w|n o{de levgei… Povteron, h\n dΔ ejgwv, kai; to; ejra`n e[xarno~ ei\ ou| levgei o{de… Oujk e[gwge, e[fh, ajlla; mh; poiei`n eij~ ta; paidika; mhde; suggravfein. Oujc uJgiaivnei, e[fh oJ Kthvs ippo~, ajlla; lhrei` te kai; maivnetai. Kai; ejgw; ei\pon: «W ÔIppovqale~, ou[ ti tw`n mevtrwn devomai B ajkou`sai oujde; mevlo~ ei[ ti pepoivhka~ eij~ to;n neanivskon, ajlla;

PROLOGO. L’INCONTRO DI SOCRATE CON IPPOTALE E CTESIPPO

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Se poi beve, anche quando ci svegliamo dal sonno ci sembra di sentire il nome di Liside. Ascoltare le cose che ci racconta, quando ci parla, sarebbe già tremendo, ma non è così tremendo come quando ci sommerge coi poemi e con le prose! Ma è ancora più tremendo, quando canta le lodi dell’amato con una strana voce, che noi siamo costretti ad ascoltare e sopportare! E ora arrossisce alla tua domanda!». «Liside, dissi, deve essere giovane, a quanto sembra; E me ne rendo conto dal fatto che, nel sentire il suo nome, non lo conosco». «È vero, rispose, poche volte lo chiamiamo con il suo nome, ma lo chiamiamo piuttosto con il nome del padre, che è molto conosciuto. Però so bene che l’aspetto del ragazzo non ti può essere ignoto; infatti, basta questo solo perché si faccia notare». «Dunque, mi si dica di chi è figlio», dissi. «È il figlio maggiore di Democrate, del demo di Aissone», rispose. «Bene, dissi, Ippotale! Che giovane e nobile da ogni punto di vista è questo amore che hai trovato. Ora, però, fa’ sentire anche a me, come fai sentire a loro, le sue lodi, perché io mi renda conto se tu conosci che cosa l’amante 205A deve dire dell’amato, sia di fronte a lui direttamente, sia di fronte ad altri». «Socrate, prendi in seria considerazione le sue chiacchiere?», disse. «Ma come, neghi di amare il giovane di cui parla costui?», risposi. «No, disse. Però nego di scrivere versi e prose per lui». «Non sta bene, disse Ctesippo, ma vaneggia e dice cose senza senso». E allora io dissi: «Ippotale, non ti chiedo di farmi ascoltare versi o canti, se ne hai composti per il tuo ama- B

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LISIDE, 205 B-D

th`~ dianoiva~, i{na eijdw` tivna trovpon prosfevrh/ pro;~ ta; paidikav. ”Ode dhvpou soi, e[fh, ejrei`: ajkribw`~ ga;r ejpivstatai kai; mevmnhtai, ei[per, wJ~ levgei, uJpΔ ejmou` ajei; ajkouvwn diateqruvlhtai. Nh; tou;~ qeouv~, e[fh oJ Kthvs ippo~, pavnu ge. kai; gavr ejsti katagevlasta, w\ Swvkrate~. to; ga;r ejrasth;n o[nta kai; diaferovntw~ tw`n a[llwn to;n nou`n prosevconta tw`/ paidi; i[dion C me;n mhde;n e[cein levgein o} oujci; ka]n pai`~ ei[poi, pw`~ oujci; katagevlaston… a} de; hJ povli~ o{lh a[/dei peri; Dhmokravtou~ kai; Luvs ido~ tou` pavppou tou` paido;~ kai; pavntwn pevri tw`n progovnwn, plouvtou~ te kai; iJppotroILva~ kai; nivka~ Puqoi` kai; ΔIsqmoi` kai; Nemeva/ teqrivppoi~ te kai; kevlhsi, tau`ta poiei` te kai; levgei, pro;~ de; touvtoi~ e[ti touvtwn kronikwvtera. to;n ga;r tou` ÔHraklevou~ xenismo;n prwv/hn hJmi`n ejn poihvmativ tini dihv/ei, wJ~ dia; th;n tou` ÔHraklevou~ suggevneian oJ provgono~ aujtw`n D uJpodevxaito to;n ÔHrakleva, gegonw;~ aujto;~ ejk Diov~ te kai; th`~ tou` dhvmou ajrchgevtou qugatrov~, a{per aiJ grai`ai a[/dousi, kai; a[lla polla; toiau`ta, w\ Swvkrate~: tau`tΔ ejsti;n a} ou|to~ levgwn te kai; a[/dwn ajnagkavzei kai; hJma`~ ajkroa`sqai.

11 Pitiche erano feste in onore di Apollo Pizio, celebrate a Delfi ogni tre anni; le Istmiche ricorrevano invece a Corinto ogni due anni ed erano in onore di Poseidone; le Nemee, infine, si tenevano ogni due anni in onore di Zeus: prima nella valle di Nemea, poi ad Argo. In questi luoghi, oltre a Olimpia, venivano celebrati i più importanti giochi panellenici, in occasione dei quali veniva composto ed eseguito il tipo di poesia encomiastica caro a Ippotale. 12 kronikwvtera, letteralmente: «del tempo di Crono», questo termine veniva usato in senso dispregiativo per indicare qualcosa di antiquato.

PROLOGO. L’INCONTRO DI SOCRATE CON IPPOTALE E CTESIPPO

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to, ma il tuo pensiero, per vedere come ti comporti nei confronti del tuo amato». «Te lo dirà, rispose, certamente costui. Infatti, lo sa molto bene e se lo ricorda, se, come dice, a forza di ascoltarmi, ha le orecchie assordate». «Sì, per gli dèi – disse Ctesippo – lo so e me ne ricordo molto bene. E c’è anche da ridere, Socrate. Infatti, essere innamorato e non pensare ad altro che all’amato, ma non essere in grado di dirgli nulla di particolare, cosa che neppure un bambino non sarebbe in grado di dire, non è for- C se ridicolo? Le cose che tutta la Città canta di Democrate e di Liside, nonno del ragazzo, e di tutti i parenti, ossia le loro ricchezze, gli allevamenti di cavalli e le vittorie nelle Pitiche, nelle Istmiche, nelle Nemee11, con quadrighe e cavalli da corsa: sono queste le cose che mette in versi e canta all’amato, oltre a cose ancor più remote di queste12. L’altro ieri, in un suo poema, ci raccontava dell’ospitalità ricevuta da Eracle13 e di come un antenato avesse accolto Eracle, proprio grazie a questa parentela, in quanto lui D stesso era figlio di Zeus e di una figlia del fondatore del demo, tutte storie che raccontano donne vecchie e molte altre simili, Socrate. Queste sono le cose che canta, e che noi siamo costretti a sentire!».

13 Eracle (che significa «gloria di Hera») è un eroe, simbolo della lotta dell’uomo con la morte. Una prima tradizione colloca la sua nascita a Tirinto, nel regno di Argo, teatro delle prime sei delle sue dodici «fatiche»; una seconda (già nota a Omero) colloca la sua nascita a Tebe e gli assegna il patronimico «Alcide», che significa «forte»; una terza lo considera un dio, figlio di Zeus e perseguitato proprio da Hera, che cerca di ucciderlo nella culla e lo fa impazzire da adulto (cfr. Dizionario di antichità classiche di Oxford, Roma 1981).

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LISIDE, 205 D - 206 B

Kai; ejgw; ajkouvsa~ ei\pon: «W katagevlaste ÔIppovqale~, pri;n nenikhkevnai poiei`~ te kai; a[/dei~ eij~ sauto;n ejgkwvmion… ΔAllΔ oujk eij~ ejmautovn, e[fh, w\ Swvkrate~, ou[te poiw` ou[te a[/dw. Oujk oi[ei ge, h\n dΔ ejgwv. To; de; pw`~ e[cei… e[fh. E Pavntwn mavlista, ei\pon, eij~ se; teivnousin au|tai aiJ wj/daiv. eja;n me;n ga;r e{lh/~ ta; paidika; toiau`ta o[nta, kovsmo~ soi e[stai ta; lecqevnta kai; aj/sqevnta kai; tw`/ o[nti ejgkwvmia w{sper nenikhkovti, o{ti toiouvtwn paidikw`n e[tuce~: ejan; dev se diafuvgh/, o{sw/ a]n meivzw soi eijrhmevna h\/ ejgkwvmia peri; tw`n paidikw`n, tosouvtw/ meizovnwn dovxei~ kalw`n te kai; ajgaqw`n ejsterhmevno~ 206A katagevlasto~ ei\nai. o{sti~ ou\n ta; ejrwtikav, w\ ILvle, sofov~, oujk ejpainei` to;n ejrwvmenon pri;n a]n e{lh/, dediw;~ to; mevllon o{ph/ ajpobhvsetai. kai; a{ma oiJ kaloiv, ejpeidavn ti~ aujtou;~ ejpainh`/ kai; au[xh/, fronhvmato~ ejmpivmplantai kai; megalauciva~: h] oujk oi[ei… “Egwge, e[fh. Oujkou`n o{sw/ a]n megalaucovteroi w\s in, dusalwtovteroi givgnontai… Eijkov~ ge. Poi`ov~ ti~ ou\n a[n soi dokei` qhreuth;~ ei\nai, eij ajnasoboi` qhreuvwn kai; dusalwtotevran th;n a[gran poioi`… B Dh`lon o{ti fau`lo~. Kai; me;n dh; lovgoi~ te kai; wj/dai`~ mh; khlei`n ajllΔ ejxagriaivnein pollh; ajmousiva: h\ gavr…

PROLOGO. L’INCONTRO DI SOCRATE CON IPPOTALE E CTESIPPO

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[Il modo maldestro con cui Ippotale cerca di conquistare con i suoi scritti l’amato Liside] E io, dopo aver sentito questo, dissi: «Ippotale, sei veramente ridicolo! Prima di aver ottenuto la vittoria, componi versi e canti un encomio per te stesso». «Ma non è per me che lo compongo, Socrate». «Tu non lo credi», dissi io. «Che cosa intendi dire?», chiese. «Più che a tutti gli altri, questi canti sono rivolti a te. E Infatti, se conquisterai un amato di questo tipo, le tue parole e i tuoi versi saranno per te un vanto e veri encomi come per un vincitore, per aver conquistato un amato come questo; ma, se ti sfuggirà, quanto più grandi saranno state le tue parole di elogio dell’amato, tanto più sarai ridicolo, una volta che sei stato privato della conquista di tanta bellezza e bontà. Colui che è sapiente in amore, 206A caro, non loda l’amato, prima di averlo conquistato, per il motivo che teme il futuro e non sa quale sarà l’esito. Per di più, i belli, quando qualcuno li loda e li esalta, diventano superbi e presuntuosi, o non credi?». «Lo credo», disse. «E non è vero che, quanto più inorgogliscono, tanto più diventano difficili da conquistare?». «Naturalmente». «Che impressione ti farebbe un cacciatore se, nel cacciare, spaventasse la preda e rendesse più difficile la sua cattura?». «Evidentemente, un incapace». B «E non è forse una grande rozzezza14 comporre versi e canti, non per sedurre, ma per esasperare la preda. Non è così?». 14

Il termine greco è ajmousiva, mancanza di armonia.

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LISIDE, 206 B-E

Dokei` moi. Skovpei dhv, w\ ÔIppovqale~, o{pw~ mh; pa`s i touvtoi~ e[nocon sauto;n poihvsei~ dia; th;n poivhsin: kaivtoi oi\mai ejgw; a[ndra poihvsei blavptonta eJauto;n oujk a[n se ejqevlein oJmologh`sai wJ~ ajgaqov~ potΔ ejsti;n poihthv~, blabero;~ w]n eJautw`/. Ouj ma; to;n Diva, e[fh: pollh; ga;r a]n ajlogiva ei[h. ajlla; dia; C tau`ta dhv soi, w\ Swvkrate~, ajnakoinou`mai, kai; ei[ ti a[llo e[cei~, sumbouvleue tivna a[n ti~ lovgon dialegovmeno~ h] tiv pravttwn prosILlh;~ paidikoi`~ gevnoito. Ouj rJav/dion, h\n dΔ ejgwv, eijpei`n: ajllΔ ei[ moi ejqelhvsai~ aujto;n poih`sai eij~ lovgou~ ejlqei`n, i[sw~ a]n dunaivmhn soi ejpidei`xai a} crh; aujtw`/ dialevgesqai ajnti; touvtwn w|n ou|toi levgein te kai; a[/dein fasiv se. ΔAllΔ oujdevn, e[fh, calepovn. a]n ga;r eijsevlqh/~ meta; Kthsivppou tou`de kai; kaqezovmeno~ dialevgh/, oi\mai me;n kai; aujtov~ soi provseisi < ILlhvkoo~ gavr, w\ Swvkrate~, diaferovntw~ D ejstivn, kai; a{ma, wJ~ ÔErmai`a a[gousin, ajnamemeigmevnoi ejn taujtw`/ eijs in oi{ te neanivskoi kai; oiJ pai`de~ < provseisin ou\n soi. eij de; mhv, Kthsivppw/ sunhvqh~ ejsti;n dia; to;n touvtou ajneyio;n Menevxenon: Menexevnw/ me;n ga;r dh; pavntwn mavlista eJtai`ro~ w]n tugcavnei. kalesavtw ou\n ou|to~ aujtovn, eja;n a[ra mh; prosivh/ aujtov~. Tau`ta, h\n dΔ ejgwv, crh; poiei`n. Kai; a{ma labw;n to;n E Kthvs ippon prosh`/a eij~ th;n palaivstran: oiJ dΔ a[lloi u{steroi hJmw`n h\/san.

15 Hermes è considerato il messaggero di Zeus, il protettore dei viandanti, dei mercanti, dei ladri, dei rétori e, in epoca classica, il protettore dei giovani e dei loro esercizi ginnici. 16 Menesseno, in questo dialogo, viene presentato come un giovane dotato di notevoli capacità dialettiche ma ancora incapace di riflessione approfondita; nel dialogo che porta il suo nome è

PROLOGO. L’INCONTRO DI SOCRATE CON IPPOTALE E CTESIPPO

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«Direi proprio». «Allora, Ippotale, stai attento di non renderti colpevole di tutte queste cose, a motivo della tua arte poetica. D’altra parte, credo che non vorrai sostenere che uno che danneggia se stesso con la poesia sia un buon poeta, in quanto nuoce a se medesimo?». «No, per Zeus, disse; sarebbe del tutto privo di senso. Ma è proprio per questo che desidero parlare con te, So- C crate, e, se ti è possibile, consigliami con quali parole o azioni si possa conquistare l’amato». «Non è facile a dirsi, risposi. Però, se tu volessi farlo discutere con me, forse potrei mostrarti che cosa è opportuno comunicargli, invece di quelle storie che, secondo costoro, tu continui a raccontare e a cantare». «Ma non è difficile, disse. Se tu entri con Ctesippo, ti metti a sedere e cominci a discutere, credo che egli si avvicinerà a te, perché, Socrate, ha molta voglia di ascoltare. Inoltre, proprio perché oggi si celebra la festa D di Hermes15, si trovano qui riuniti giovani e ragazzi. Si accosterà certamente a te. In caso contrario, egli conosce molto bene Ctesippo, per via di Menesseno16, che è suo cugino, e a Menesseno è legato da amicizia più che a qualsiasi altro. Basterà che Ctesippo lo chiami, se non verrà da solo». «Allora, facciamo così», dissi. E, nello stesso tempo, preso sotto braccio Ctesippo, entrai nella palestra. E tut- E ti gli altri ci seguirono.

ancora presentato come un giovane molto sicuro di sé che aspira alla vita politica. Nel Fedone (49 B) compare tra i discepoli che assistono alla morte di Socrate.

PARTE PRIMA L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

Eijselqovnte~ de; katelavbomen aujtovqi tequkovta~ te tou;~ pai`da~ kai; ta; peri; ta; iJerei`a scedovn ti h[dh pepoihmevna, ajstragalivzontav~ te dh; kai; kekosmhmevnou~ a{panta~. oiJ me;n ou\n polloi; ejn th`/ aujlh`/ e[paizon e[xw, oiJ dev tine~ tou` ajpoduthrivou ejn gwniva/ hjrtivazon ajstragavloi~ pampovlloi~, ejk formivskwn tinw`n proairouvmenoi: touvtou~ de; perievstasan a[lloi qewrou`nte~. w|n dh; kai; oJ Luvs i~ h\n, kai; eiJsthvkei ejn 207A toi`~ paisiv te kai; neanivskoi~ ejstefanwmevno~ kai; th;n o[y in diafevrwn, ouj to; kalo;~ ei\nai movnon a[xio~ ajkou`sai, ajllΔ o{ti kalov~ te kajgaqov~. kai; hJmei`~ eij~ to; katantikru; ajpocwrhvsante~ ejkaqezovmeqa < h\n ga;r aujtovqi hJsuciva < kaiv ti ajllhvloi~ dielegovmeqa. peristrefovmeno~ ou\n oJ Luvs i~ qama; ejpeskopei`to hJma`~, kai; dh`lo~ h\n ejpiqumw`n proselqei`n. tevw~ me;n ou\n hjpovrei te kai; w[knei movno~ prosievnai, e[peita oJ Menevxeno~ B ejk th`~ aujlh`~ metaxu; paivzwn eijsevrcetai, kai; wJ~ ei\den ejmev te kai; to;n Kthvs ippon, h[/ei parakaqizhsovmeno~: ijdw;n ou\n aujto;n oJ Luvs i~ ei{peto kai; sumparekaqevzeto meta; tou` Menexevnou. prosh`lqon dh; kai; oiJ a[lloi, kai; dh; kai; oJ ÔIppoqavlh~, ejpeidh; pleivou~ eJwrv a ejILstamevnou~, touvtou~ ejphlugisavmeno~ prosevsth h|/ mh; w[/eto katovyesqai to;n Luvs in, dediw;~ mh; aujtw`/ ajpecqavnoito: kai; ou{tw prosestw;~ hjkroa`to. 17

In pratica, giocavano a pari e dispari usando, in questo caso, pezzetti di osso d’agnello sagomati in figure (astragali), in altri casi (v. il testo, subito sotto) venivano usati dadi, fave, noci o mandorle. Un giocatore nascondeva nelle mani un certo numero di astragali e gli altri dovevano indovinare se il numero fosse pari o dispari. 18 Quanti partecipavano o assistevano a un sacrificio vestivano di bianco e portavano corone di fiori sul capo.

[Incontro di Socrate con Liside e con Menesseno]

Entrati, vedemmo che i ragazzi avevano terminati i sacrifici, e, poiché le cerimonie erano ormai concluse, giocavano agli astragali17, tutti molto ben vestiti18. Molti di loro si divertivano fuori nel cortile, alcuni, invece, in un angolo dello spogliatoio, giocavano a pari e dispari con un gran numero di dadi che prendevano da alcuni cestelli; e molti stavano intorno a guardarli. Con loro c’era anche Liside, che se ne stava lì in piedi fra i ragazzi e i giovani col capo incoronato e con un aspetto tale da meritare non 207A solo la fama di bello, ma anche di bello e buono19. E noi, dopo esserci spostati dalla parte opposta, perché là c’era tranquillità, discutevamo fra di noi. Liside si girava frequentemente, guardandoci, ed era evidente che desiderava unirsi a noi. Però restava incerto ed esitava ad avvicinarsi a noi da solo. E subito dopo, Menesseno giunse dal cortile, interrompendo il suo gioco nel cortile, e, come B vide me e Ctesippo, venne a sedersi con noi. Liside, non appena lo vide, lo seguì e si sedette accanto a lui. Allora, si avvicinarono anche gli altri, tra i quali anche Ippotale, che, vedendo molti intorno a noi, quasi nascondendosi dietro di loro, andò a mettersi in una posizione in cui riteneva che Liside non potesse vederlo, in quanto temeva di infastidirlo con la sua presenza e così ascoltava. 19

Questa espressione (kalo;~ kai; ajgaqov~) indica la più alta aspirazione del mondo classico: unire la bellezza fisica a quella spirituale, al massimo grado.

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LISIDE, 207 B-E

Kai; ejgw; pro;~ to;n Menevxenon ajpoblevya~, «W pai` Dhmofw`nto~, h\n dΔ ejgwv, povtero~ uJmw`n presbuvtero~… ΔAmILsbhtou`men, e[fh. Oujkou`n kai; oJpovtero~ gennaiovtero~, ejrivzoitΔ a[n, h\n dΔ ejgwv. Pavnu ge, e[fh. Kai; mh;n oJpovterov~ ge kallivwn, wJsauvtw~. ΔEgelasavthn ou\n a[mfw. Ouj mh;n oJpovterov~ ge, e[fhn, plousiwvtero~ uJmw`n, oujk ejrhvsomai: ILvlw gavr ejston. h\ gavr… Pavnu gΔ, ejfavthn. Oujkou`n koina; tav ge ILvlwn levgetai, w{ste touvtw/ ge oujde;n dioivseton, ei[per ajlhqh` peri; th`~ ILliva~ levgeton. Sunefavthn. D ΔEpeceivroun dh; meta; tou`to ejrwta`n oJpovtero~ dikaiovtero~ kai; sofwvtero~ aujtw`n ei[h. metaxu; ou\n ti~ proselqw;n ajnevsthse to;n Menevxenon, favskwn kalei`n to;n paidotrivbhn: ejdovkei gavr moi iJeropoiw`n tugcavnein. ejkei`no~ me;n ou\n w[/ceto: ejgw; de; to;n Luvs in hjrovmhn, «H pou, h\n dΔ ejgwv, w\ Luvs i, sfovdra ILlei` se oJ path;r kai; hJ mhvthr… Pavnu ge, h\ dΔ o{~. E Oujkou`n bouvlointo a[n se wJ~ eujdaimonevstaton ei\nai… Pw`~ ga;r ou[… Dokei` dev soi eujdaivmwn ei\nai a[nqrwpo~ douleuvwn te kai; w|/ mhde;n ejxeivh poiei`n w|n ejpiqumoi`… Ma; DivΔ oujk e[moige, e[fh. C

20

Il riferimento è a un proverbio molto noto, forse ripreso da una massima pitagorica: koina; ta; tw`n ILYlwn, le cose degli amici sono in comune. 21 Il maestro di ginnastica (paidotrivbh~) aveva anche compiti di sorveglianza dei riti religiosi che si tenevano nella palestra.

I. L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

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Io, rivolto a Menesseno, dissi: «Figlio di Demofonte, C chi di voi due è maggiore di età?». «Ne discutiamo», rispose. «E discutete anche su chi è più nobile?». «Naturalmente», rispose. «E anche allo stesso modo su chi è più bello?». Scoppiarono a ridere tutti e due. «Non vi chiederò chi di voi due è più ricco. Siete infatti amici. Non è così?». «E molto!», risposero. «Si dice che i beni degli amici siano un loro comune possesso20; e così tra voi non c’è alcuna disparità, se è vero quanto dite della vostra amicizia». Confermarono.

[Prima riflessione sull’amicizia: i genitori che amano i figli insegnano loro a non fare tutto ciò che vogliono] Dopo questo, stavo [D] per domandare chi di loro fosse D più giusto e più sapiente. Però nel frattempo un tale si è avvicinato, ha fatto alzare Menesseno, riferendogli che il maestro di ginnastica21 lo chiamava. Mi pareva che stesse celebrando un rito sacro. Egli quindi se ne andò, e io mi rivolsi a Liside, dicendo: «Liside, non è forse vero che tuo padre e tua madre ti amano moltissimo?». «Certo», rispose. «E vorrebbero che tu fossi felice in sommo grado?». E «E come no?». «E ti sembra che sia felice un uomo che sia schiavo, e che non possa fare le cose che desidera?». « Per Zeus, no!», disse.

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LISIDE, 207 E - 208 C

Oujkou`n ei[ se ILlei` oJ path;r kai; hJ mhvthr kai; eujdaivmonav se ejpiqumou`s i genevsqai, tou`to panti; trovpw/ dh`lon o{ti proqumou`ntai o{pw~ a]n eujdaimonoivh~. Pw`~ ga;r oujciv… e[fh. ΔEw`s in a[ra se a} bouvlei poiei`n, kai; oujde;n ejpiplhvttousin oujde; diakwluvousi poiei`n w|n a]n ejpiqumh`/~… Nai; ma; Diva ejmev ge, w\ Swvkrate~, kai; mavla ge polla; kwluvousin. Pw`~ levgei~… h\n dΔ ejgwv. boulovmenoiv se makavrion 208A ei\nai diakwluvousi tou`to poiei`n o} a]n bouvlh/… w|de dev moi levge. h]n ejpiqumhvsh/~ ejpiv tino~ tw`n tou` patro;~ aJrmavtwn ojcei`sqai labw;n ta;~ hJniva~, o{tan aJmilla`tai, oujk a]n ejw`/evn se ajlla; diakwluvoien… Ma; DivΔ ouj mevntoi a[n, e[fh, ejw`/en. ΔAlla; tivna mhvn… “Estin ti~ hJnivoco~ para; tou` patro;~ misqo;n fevrwn. Pw`~ levgei~… misqwtw`/ ma`llon ejpitrevpousin h] soi; poiei`n o{ti a]n bouvlhtai peri; tou;~ i{ppou~, kai; prosevti B aujtou` touvtou ajrguvrion telou`s in… ΔAlla; tiv mhvn… e[fh. ΔAlla; tou` ojrikou` zeuvgou~ oi\mai ejpitrevpousivn soi a[rcein, ka]n eij bouvloio labw;n th;n mavstiga tuvptein, ejw`/en a[n. Povqen, h\ dΔ o{“, ejw`/en… Tiv dev… h\n dΔ ejgwv: oujdeni; e[xestin aujtou;~ tuvptein… Kai; mavla, e[fh, tw`/ ojreokovmw/. Douvlw/ o[nti h] ejleuqevrw/… Douvlw/, e[fh. Kai; dou`lon, wJ~ e[oiken, hJgou`ntai peri; pleivono~ h] se; to;n uJovn, kai; ejpitrevpousi ta; eJautw`n ma`llon h] soiv, kai; ejw`s in C poiei`n o{ti bouvletai, se; de; diakwluvousi… kaiv moi e[ti

I. L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

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«Allora, se tuo padre e tua madre ti amano e desiderano che tu sia felice, è evidente che si prendono cura perché tu sia felice». «Come no?», disse. «Allora, ti lasciano fare quello che ti pare, senza rimproverarti mai di niente e senza impedirti di fare quello che desideri?». «No, per Zeus, Socrate, mi impediscono veramente molte cose!». «Che dici? proseguii, vogliono che tu sia felice e ti impediscono di fare quello che vuoi? Spiegami questo: se tu 208A desiderassi salire su uno dei carri di tuo padre, prendendone le redini nell’occasione di una gara, non te lo permetterebbero, ma te lo impedirebbero?». «Non me lo permetterebbero proprio, per Zeus!», rispose. «E a chi, invece lo permetterebbero?». «C’è un auriga, che riceve compenso da mio padre». «Che cosa dici? Permettono a un salariato, piuttosto che a te di fare quello che vuoi con i cavalli, e per di più lo B pagano per questo?». «Che c’è di strano?», disse. «Però, penso che ti lasceranno almeno condurre una coppia di muli e frustarli, se vuoi». «Ma come potrebbero permettermelo?». «E allora? A nessuno è permesso frustarli?», domandai. « Certo, al mulattiere!», rispose. «È uno schiavo o un uomo libero?». «Uno schiavo», disse. «Dunque, a quanto pare, hanno considerazione maggiore addirittura per uno schiavo che per te, loro figlio, e a lui più che a te affidano le loro cose e a lui lasciano fare ciò che vuole, mentre a te lo impediscono. C

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LISIDE, 208 C-E

tovde eijpev. se; aujto;n ejw`s in a[rcein seautou`, h] oujde; tou`to ejpitrevpousiv soi… Pw`~ gavr, e[fh, ejpitrevpousin… ΔAllΔ a[rcei tiv~ sou… ”Ode, paidagwgov~, e[fh. Mw`n dou`lo~ w[n… ΔAlla; tiv mhvn… hJmevterov~ ge, e[fh. «H deinovn, h\n dΔ ejgwv, ejleuvqeron o[nta uJpo; douvlou a[rcesqai. tiv de; poiw`n au\ ou|to~ oJ paidagwgov~ sou a[rcei… “Agwn dhvpou, e[fh, eij~ didaskavlou. D Mw`n mh; kai; ou|toiv sou a[rcousin, oiJ didavskaloi… Pavntw~ dhvpou. Pampovllou~ a[ra soi despovta~ kai; a[rconta~ eJkw;n oJ path;r ejILvsthsin. ajllΔ a\ra ejpeida;n oi[kade e[lqh/~ para; th;n mhtevra, ejkeivnh se eja`/ poiei`n o{ti a]n bouvlh/, i{nΔ aujth`/ makavrio~ h\/~, h] peri; ta; e[ria h] peri; to;n iJstovn, o{tan uJfaivnh/… ou[ ti gavr pou diakwluvei se h] th`~ spavqh~ h] th`~ kerkivdo~ h] a[llou tou tw`n peri; talasiourgivan ojrgavnwn a{ptesqai. E Kai; o}~ gelavsa~, Ma; Diva, e[fh, w\ Swvkrate~, ouj movnon ge diakwluvei, ajlla; kai; tuptoivmhn a]n eij aJptoivmhn. ÔHravklei~, h\n dΔ ejgwv, mw`n mhv ti hjdivkhka~ to;n patevra h] th;n mhtevra… Ma; DivΔ oujk e[gwge, e[fh.

I. L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

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Dimmi ancora questo: ti permettono almeno di avere la responsabilità di guidare te stesso, o non ti permettono neppure questo?». «E come potrebbero permettermelo?», domandò. «Allora qualcuno ti guida?». «Questo qui, che è un pedagogo»22, disse. «È forse uno schiavo?». «Certo, è uno dei nostri», rispose. «È terribile, dissi io, che uno che è libero sia guidato da uno schiavo! E che cosa fa questo pedagogo per guidarti?». «Naturalmente mi accompagna dal maestro», rispose. «E, per caso, non sono forse anche i maestri a guidarti?». «È evidente». «Allora, tuo padre ti impone una gran quantità di pa- D droni e di guide! Ma, quando torni a casa da tua madre, almeno lei, perché tu sia felice, ti lascerà fare quello che vuoi con la lana e col telaio, quando tesse? Non ti proibirà certo di toccare la spatola e la spola o qualcun altro degli strumenti di cui si serve nel suo lavoro?». E lui, ridendo, rispose: «Per Zeus, Socrate, non solo E me lo proibisce, ma se li toccassi, mi picchierebbe». «Per Eracle, esclamai, hai forse combinato qualche grosso guaio a tuo padre e a tua madre?». «Per Zeus, io no», rispose.

22

Il pedagogo (paidagwgov~) ad Atene era lo schiavo che accompagnava un ragazzo da casa a scuola e viceversa.

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209A

B

C

LISIDE, 208 E - 209 C

ΔAllΔ ajnti; tivno~ mh;n ou{tw se deinw`~ diakwluvousin eujdaivmona ei\nai kai; poiei`n o{ti a]n bouvlh/, kai; diΔ hJmevra~ o{lh~ trevfousiv se ajeiv tw/ douleuvonta kai; eJni; lovgw/ ojlivgou w|n ejpiqumei`~ oujde;n poiou`nta… w{ste soi, wJ~ e[oiken, ou[te tw`n crhmavtwn tosouvtwn o[ntwn oujde;n o[felo~, ajlla; pavnte~ aujtw`n ma`llon a[rcousin h] suv, ou[te tou` swvmato~ ou{tw gennaivou o[nto~, ajlla; kai; tou`to a[llo~ poimaivnei kai; qerapeuvei: su; de; a[rcei~ oujdenov~, w\ Luvs i, oujde; poiei`~ oujde;n w|n ejpiqumei`~. Ouj gavr pw, e[fh, hJlikivan e[cw, w\ Swvkrate~. Mh; ouj tou`tov se, w\ pai` Dhmokravtou~, kwluvh/, ejpei; tov ge tosovnde, wJ~ ejgw\/mai, kai; oJ path;r kai; hJ mhvthr soi ejpitrevpousin kai; oujk ajnamevnousin e{w~ a]n hJlikivan e[ch/~. o{tan ga;r bouvlwntai auJtoi`~ tina ajnagnwsqh`nai h] grafh`nai, sev, wJ~ ejgw\/mai, prw`ton tw`n ejn th`/ oijkiva/ ejpi; tou`to tavttousin. h\ gavr… Pavnu gΔ, e[fh. Oujkou`n e[xestiv soi ejntau`qΔ o{ti a]n bouvlh/ prw`ton tw`n grammavtwn gravfein kai; o{ti a]n deuvteron: kai; ajnagignwvskein wJsauvtw~ e[xestin. kai; ejpeidavn, wJ~ ejgw\/mai, th;n luvran lavbh/~, ouj diakwluvousiv se ou[te oJ path;r ou[te hJ mhvthr ejpitei`naiv te kai; ajnei`nai h}n a]n bouvlh/ tw`n cordw`n, kai; yh`lai kai; krouvein tw`/ plhvktrw/. h] diakwluvousin… Ouj dh`ta. Tiv potΔ a]n ou\n ei[h, w\ Luvs i, to; ai[tion o{ti ejntau`qa me;n ouj diakwluvousin, ejn oi|~ de; a[rti ejlevgomen kwluvousi…

I. L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

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[La fiducia che si ha in un uomo si fonda sulle conoscenze che possiede] «Ma per quale ragione, allora, ti impediscono a gran forza di essere felice e di fare quello che vuoi, ti tengono tutto il giorno schiavo di qualcuno, e, per dirla in breve, non ti lasciano fare pressoché nulla di quello che tu desideri? A quanto sembra, dalle tue così grandi ricchezze non ti viene alcun vantaggio, ma tutti ne hanno a disposizione più di te, né hai 209A potere sul tuo corpo, che è così nobile, ma anche questo è un altro che lo cura e che ne ha responsabilità; tu, invece, Liside, non comandi a nessuno, e non fai quello che desideri fare». «Ma non ho ancora l’età, Socrate», rispose. «No, figlio di Democrate, non è questo che lo impedisce, perché c’è almeno un caso, come penso, in cui tuo padre e tua madre si fidano di te e non aspettano che tu abbia l’età. Infatti, quando vogliono farsi leggere o scrivere qualche cosa, penso che innanzi tutto è a te che si B rivolgono fra quanti sono in casa. O no?». «Sicuramente», rispose. «Quindi in questo caso sta a te decidere come vuoi quale delle lettere scrivere per prima; e la stessa cosa succede per il leggere. E, come credo, anche quando tu prendi la lira23 né tuo padre né tua madre ti proibiscono di tendere e di allentare la corda che vuoi, di pizzicarla e farla vibrare col plettro. O te lo proibiscono?». «Certo che no». «Quale, allora, potrebbe essere, Liside, la ragione per cui, in casi come questi, non ti pongono ostacoli, mentre C te li pongono in quelli di cui dicevamo poco fa?». 23 L’educazione musicale era molto importante per un giovane ateniese, doveva comunicare all’anima il senso dell’armonia e dell’ordine (cfr. Repubblica, IV 425 A).

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LISIDE, 209 C-E

”Oti oi\mai, e[fh, tau`ta me;n ejpivstamai, ejkei`na dΔ ou[. Ei\en, h\n dΔ ejgwv, w\ a[riste: oujk a[ra th;n hJlikivan sou perimevnei oJ path;r ejpitrevpein pavnta, ajllΔ h|/ a]n hJmevra/ hJghvshtaiv se bevltion auJtou` fronei`n, tauvth/ ejpitrevyei soi kai; auJto;n kai; ta; auJtou`. Oi\mai e[gwge, e[fh. Ei\en, h\n dΔ ejgwv: tiv dev… tw`/ geivtoni a\rΔ oujc oJ aujto;~ o{ro~ D o{sper tw`/ patri; peri; sou`… povteron oi[ei aujto;n ejpitrevyein soi th;n auJtou` oijkivan oijkonomei`n, o{tan se hJghvshtai bevltion peri; oijkonomiva~ eJautou` fronei`n, h] aujto;n ejpistathvsein… ΔEmoi; ejpitrevyein oi\mai. Tiv dΔ… ΔAqhnaivou~ oi[ei soi oujk ejpitrevyein ta; auJtw`n, o{tan aijsqavnwntai o{ti iJkanw`~ fronei`~… “Egwge. Pro;~ Diov~, h\n dΔ ejgwv, tiv a[ra oJ mevga~ basileuv~… povteron tw`/ presbutavtw/ uJei`, ou| hJ th`~ ΔAsiva~ ajrch; givgnetai, ma`llon a]n ejpitrevyeien eJyomevnwn krew`n ªejmbavlleinº o{ti a]n E bouvlhtai ejmbalei`n eij~ to;n zwmovn, h] hJmi`n, eij ajILkovmenoi parΔ ejkei`non ejndeixaivmeqa aujtw`/ o{ti hJmei`~ kavllion fronou`men h] oJ uJo;~ aujtou` peri; o[you skeuasiva~… ÔHmi`n dh`lon o{ti, e[fh. Kai; to;n mevn ge oujdΔ a]n smikro;n ejavseien ejmbalei`n: hJma`~ dev, ka]n eij bouloivmeqa draxavmenoi tw`n aJlw`n, ejwv/h a]n ejmbalei`n. Pw`~ ga;r ou[…

I. L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

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«Perché, penso, di questi ho conoscenza e di quelli no», rispose. «Certamente, carissimo, dissi io. Di sicuro non è l’età che tuo padre aspetta per affidarti tutte le sue cose, ma è il giorno in cui deciderà che tu sei diventato più sapiente di lui, proprio in quel giorno ti affiderà se stesso e tutti i suoi beni». «Lo penso pure io», rispose. «Ammettiamolo, continuai. E poi? Il tuo vicino non vorrà comportarsi come tuo padre secondo le stesse norme nei tuoi confronti? Non credi che vorrà affidarti D l’amministrazione della sua casa, quando si renda conto che tu sei più saggio di lui nell’amministrazione, o vorrà dirigerla lui stesso?». «Penso che la affiderà a me». «E allora? Non credi che gli Ateniesi vorranno affidarti i loro affari, quando si renderanno conto che sei sapiente quanto basta?». «Penso di sì». «Per Zeus, dissi io, e che cosa farebbe il Gran Re?24 Concederebbe forse al suo figlio maggiore, cui spetta il governo dell’Asia, di mettere nel brodo, mentre la carne cuoce, quelle cose che vuole, piuttosto che a noi se an- E dassimo da lui e gli dimostrassimo che ne sappiamo più di suo figlio sull’arte di preparare il cibo?». «È evidente che si fiderebbe di noi», rispose. «E, mentre a lui non permetterebbe di aggiungere neppure una piccola cosa, a noi permetterebbe anche di gettare il sale in gran quantità, se lo volessimo». «Come no?». 24

È il re di Persia, simbolo di magnificenza e nemico dei Greci numero uno. All’epoca di Platone è Artaserse II Memnone (436358 a. C.) salito al trono nel 404 a. C.

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LISIDE, 209 E - 210 C

Tiv dΔ eij tou;~ ojfqalmou;~ oJ uJo~; aujtou` ajsqenoi`, a\ra ejwh/v a]n aujto;n a{ptesqai tw`n eJautou` ojfqalmw`n, mh; ijatro;n hJgouvmeno~, h] kwluvoi a[n… Kwluvoi a[n. ÔHma`~ dev ge eij uJpolambavnoi ijatrikou;~ ei\nai, ka]n eij bouloivmeqa dianoivgonte~ tou;~ ojfqalmou;~ ejmpavsai th`~ tevfra~, oi\mai oujk a]n kwluvseien, hJgouvmeno~ ojrqw`~ fronei`n. ΔAlhqh` levgei~. «ArΔ ou\n kai; ta\lla pavnta hJmi`n ejpitrevpoi a]n ma`llon h] eJautw`/ kai; tw`/ uJei`, peri; o{swn a]n dovxwmen aujtw`/ sofwvteroi ejkeivnwn ei\nai… ΔAnavgkh, e[fh, w\ Swvkrate~. Ou{tw~ a[ra e[cei, h\n dΔ ejgwv, w\ ILvle Luvs i: eij~ me;n tau`ta, B a} a]n frovnimoi genwvmeqa, a{pante~ hJmi`n ejpitrevyousin, ”Ellhnev~ te kai; bavrbaroi kai; a[ndre~ kai; gunai`ke~, poihvsomevn te ejn touvtoi~ o{ti a]n boulwvmeqa, kai; oujdei;~ hJma`~ eJkw;n ei\nai ejmpodiei`, ajllΔ aujtoiv te ejleuvqeroi ejsovmeqa ejn aujtoi`~ kai; a[llwn a[rconte~, hJmevterav te tau`ta e[stai < ojnhsovmeqa ga;r ajpΔ aujtw`n < eij~ a} dΔ a]n nou`n mh; kthswvmeqa, ou[te ti~ hJmi`n ejpitrevyei peri; aujta; poiei`n ta; hJmi`n dokou`nta, ajllΔ ejmpoC diou`s i pavnte~ kaqΔ o{ti a]n duvnwntai, ouj movnon oiJ ajllovtrioi, ajlla; kai; oJ path;r kai; hJ mhvthr kai; ei[ ti touvtwn oijkeiovterovn ejstin, aujtoiv te ejn aujtoi`~ ejsovmeqa a[llwn uJphvkooi, kai; hJmi`n e[stai ajllovtria: oujde;n ga;r ajpΔ aujtw`n ojnhsovmeqa. sugcwrei`~ ou{tw~ e[cein…

210A

I. L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

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«E, se suo figlio avesse un male agli occhi, sapendo che non è medico, glieli lascerebbe toccare, o glielo proi- 210A birebbe?». «Glielo proibirebbe». «Se, invece, supponesse che noi fossimo dei medici, anche se volessimo aprirgli gli occhi e cospargerglieli con cenere, io non penso che lo proibirebbe, in quanto ci riterrebbe esperti in medicina». «Dici il vero». «E a noi, più che a se stesso e al figlio, affiderebbe anche tutte le altre cose in cui gli sembrassimo più sapienti di loro»25. «Necessariamente, Socrate», rispose.

[L’amico inteso come colui che è sapiente, buono e utile] «Allora, caro Liside, è davvero così, dissi; tutti ci affideranno tutte quelle cose in cui siamo diventati saggi, El- B leni e barbari, uomini e donne, e in queste cose potremo fare ciò che vogliamo e nessuno vorrà esserci di ostacolo, ma in esse saremo liberi, comanderemo agli altri e tali cose saranno nostre, e da esse trarremo vantaggio. Invece, in quelle cose che non saranno nostre, nessuno ci lascerà liberi di fare quello che ci pare; anzi, tutti ci ostacoleranno per quanto sarà loro possibile, e non solo gli C estranei, ma anche il padre e la madre e altri ancora, se mai ci fosse qualcuno di più intimo di costoro, e non ne trarremo alcun vantaggio. Sei d’accordo che le cose stanno in questo modo?». 25 La sequenza logica è la seguente: chi è esperto in qualche cosa è anche utile, produce vantaggi e quindi è meritevole di amicizia (cfr. 209 C-E, 210 A-D).

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LISIDE, 210 C-D

Sugcwrw`. «ArΔ ou\n tw/ ILvloi ejsovmeqa kaiv ti~ hJma`~ ILlhvsei ejn touvtoi~, ejn oi|~ a]n w\men ajnwfelei`~… Ouj dh`ta, e[fh. Nu`n a[ra oujde; se; oJ path;r oujde; a[llo» a[llon oujdevna ILlei`, kaqΔ o{son a]n h\/ a[crhsto~. D Oujk e[oiken, e[fh. ΔEa;n me;n a[ra sofo;~ gevnh/, w\ pai`, pavnte~ soi ILvloi kai; pavnte~ soi oijkei`oi e[sontai < crhvs imo~ ga;r kai; ajgaqo;~ e[sh/ < eij de; mhv, soi; ou[te a[llo~ oujdei;~ ou[te oJ path;r ILvlo~ e[stai ou[te hJ mhvthr ou[te oiJ oijkei`oi. oi|ovn te ou\n ejpi; touvtoi~, w\ Luvs i, mevga fronei`n, ejn oi|~ ti~ mhvpw fronei`… Kai; pw`~ a[n… e[fh. Eij dΔ a[ra su; didaskavlou devh/, ou[pw fronei`~. ΔAlhqh`. OujdΔ a[ra megalovfrwn ei\, ei[per a[frwn e[ti.

I. L’INCONTRO DI SOCRATE CON LISIDE E IL TEMA DELL’AMICIZIA

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«Sono d’accordo», rispose. «E allora, potremo essere amici di qualcuno e qualcuno potrà esserci amico in quelle cose in cui non potremo essere utili?». «No, certo», disse. «Dunque, né tuo padre ti è amico, né altri può essere amico di alcun altro nella misura in cui sia inutile». «Sembra di no», disse. D «Però, se tu, ragazzo, diventerai sapiente, tutti ti ameranno e tutti ti saranno intimi, in quanto sarai utile e buono. In caso contrario, proprio nessuno, neppure tuo padre e tua madre e i tuoi parenti ti saranno amici. Allora, ti pare possibile, Liside, pensare di sé alla grande quelle cose in cui non si è ancora in grado di pensare?». «E come si potrebbe?», disse. «Allora, tu hai bisogno di un maestro, se non sei ancora sapiente». «Vero!». «E non pensare di te alla grande, se non sei ancora in grado di pensare». «Per Zeus, Socrate, sono d’accordo», disse.

INTERMEZZO REIMPOSTAZIONE DELLA DISCUSSIONE

Ma; Diva, e[fh, w\ Swvkrate~, ou[ moi dokei`. Kai; ejgw; ajkouvsa~ aujtou` ajpevbleya pro;~ to;n ÔIppoqavlh, kai; ojlivgou ejxhvmarton: ejph`lqe gavr moi eijpei`n o{ti Ou{tw crhv, w\ ÔIppovqale~, toi`~ paidikoi`~ dialevgesqai, tapeinou`nta kai; sustevllonta, ajlla; mh; w{sper su; caunou`nta kai; diaqruvptonta. katidw;n ou\n aujto;n ajgwniw`nta kai; teqorubhmevnon uJpo; tw`n legomevnwn, ajnemnhvsqhn o{ti kai; prosestw;~ lanqavnein to;n Luvs in ejbouvleto: ajnevlabon ou\n ejmauto;n kai; 211A ejpevscon tou` lovgou. kai; ejn touvtw/ oJ Menevxeno~ pavlin h|ken, kai; ejkaqevzeto para; to;n Luvs in, o{qen kai; ejxanevsth. oJ ou\n Luvs i~ mavla paidikw`~ kai; ILlikw`~, lavqra/ tou` Menexevnou, smikro;n prov~ me levgwn e[fh: «W Swvkrate~, a{per kai; ejmoi; levgei~, eijpe; kai; Menexevnw/. Kai; ejgw; ei\pon, Tau`ta me;n su; aujtw`/ ejrei`~, w\ Luvs i: pavntw~ ga;r prosei`ce~ to;n nou`n. Pavnu me;n ou\n, e[fh. Peirw` toivnun, h\n dΔ ejgwv, ajpomnhmoneu`sai aujta; o{ti B mavlista, i{na touvtw/ safw`~ pavnta ei[ph/~: eja;n dev ti aujtw`n ejpilavqh/, au\qiv~ me ajnerevsqai o{tan ejntuvch/~ prw`ton. ΔAlla; poihvsw, e[fh, tau`ta, w\ Swvkrate~, pavnu sfovdra, eu\ i[sqi. ajllav ti a[llo aujtw`/ levge, i{na kai; ejgw; ajkouvw, e{w~ a]n oi[kade w{ra h\/ ajpievnai. ΔAlla; crh; poiei`n tau`ta, h\n dΔ ejgwv, ejpeidhv ge kai; su; keleuvei~. ajlla; o{ra o{pw~ ejpikourhvsei~ moi, ejavn me ejlevgcein ejpiceirh`/ oJ Menevxeno~: h] oujk oi\sqa o{ti ejristikov~ ejstin… E

Il termine è ejριστικǗς, letteralmente: amante delle contese o «erista». L’eristica era la tecnica finalizzata a confutare con ogni mezzo le tesi avversarie per far prevalere le proprie (cfr. Saggio intr., cap. II § 3). 26

[Ritorna Menesseno e Ctesippo si unisce al gruppo]

A queste parole, guardai verso Ippotale, e per poco non E mi tradii. Infatti, stavo per dirgli: «È così, Ippotale, che bisogna dialogare con l’amato, umiliandolo e temperandone l’orgoglio, e non, come fai tu, esaltandolo e viziandolo». Ma, accorgendomi che era agitato e turbato per le cose che si erano dette, mi ricordai che, pur essendo presente, desiderava rimanere nascosto a Liside. Perciò mi ripresi e mi trattenni dal parlare. Proprio in quel momento, Menesseno era tornato 211A e si era seduto vicino a Liside, nel posto da cui si era prima alzato. E Liside, con un tono da fanciullo e amichevole, di nascosto da Menesseno, mi disse a bassa voce: «Socrate, ripeti anche a Menesseno quanto hai detto a me». Ed io dissi: «Glielo dirai tu, Liside; infatti, mi hai ascoltato con estrema attenzione». «Proprio con grande attenzione», rispose. «Allora, dissi io, cerca di ricordartele il più possibile per riferirgliele in modo chiaro; se ti sfuggisse qualcosa, B interrogami di nuovo alla prima occasione». «Lo farò senz’altro, disse, stai certo, Socrate. Ma tu digli qualcos’altro, in modo che possa ascoltare anch’io, fino a quando non giunga l’ora di tornare a casa». «Bisogna che lo faccia, risposi, dato che tu me lo ordini. Tu, però, tieniti pronto a venire in mio soccorso, se Menesseno iniziasse a confutarmi. O non sai che è uno abile nel contendere a parole?»26.

140

LISIDE, 211 B-E

Nai; ma; Diva, e[fh, sfovdra ge: dia; tau`tav toi kai; bouvlomaiv se aujtw`/ dialevgesqai. ”Ina, h\n dΔ ejgwv, katagevlasto~ gevnwmai… Ouj ma; Diva, e[fh, ajllΔ i{na aujto;n kolavsh/~. Povqen… h\n dΔ ejgwv. ouj rJav/dion: deino;~ ga;r oJ a[nqrwpo~, Kthsivppou maqhthv~. pavresti dev toi aujtov~ < oujc oJra`/~… < Kthvs ippo~. Mhdenov~ soi, e[fh, melevtw, w\ Swvkrate~, ajllΔ i[qi dialevgou aujtw`/. Dialektevon, h\n dΔ ejgwv. Tau`ta ou\n hJmw`n legovntwn pro;~ hJma`~ aujtouv~, Tiv uJmei`~, e[fh oJ Kthvs ippo~, aujtw; movnw eJstia`sqon, hJmi`n de; ouj D metadivdoton tw`n lovgwn… ΔAlla; mhvn, h\n dΔ ejgwv, metadotevon. o{de gavr ti w|n levgw ouj manqavnei, ajllav fhsin oi[esqai Menevxenon eijdevnai, kai; keleuvei tou`ton ejrwta`n. Tiv ou\n, h\ dΔ o{“, oujk ejrwta`/~… ΔAllΔ ejrhvsomai, h\n dΔ ejgwv. kaiv moi eijpev, w\ Menevxene, o} a[n se e[rwmai. tugcavnw ga;r ejk paido;~ ejpiqumw`n kthvmatov~ tou, w{sper a[llo~ a[llou. oJ me;n gavr ti~ i{ppou~ E ejpiqumei` kta`sqai, oJ de; kuvna~, oJ de; crusivon, oJ de; timav~: ejgw; de; pro;~ me;n tau`ta prav/w~ e[cw, pro;~ de; th;n tw`n ILvlwn kth`s in pavnu ejrwtikw`~, kai; bouloivmhn a[n moi ILvlon ajgaqo;n genevsqai ma`llon h] to;n a[riston ejn ajnqrwvpoi~ o[rtuga h] ajlektruovna, kai; nai; ma; Diva e[gwge ma`llon h] i{ppon te kai; kuvna < oi\mai dev, nh; to;n kuvna, ma`llon h] to; Dareivou crusivon C

27 Le quaglie e i galli erano usati dagli Ateniesi come animali da combattimento (cfr. Alcibiade I, 120 B) e anche come doni d’amore.

INTERMEZZO. REIMPOSTAZIONE DELLA DISCUSSIONE

141

«Certo che lo è, per Zeus – disse –; è proprio per questo che voglio che tu discuta con lui». C «Per farmi deridere?», domandai. «Ma no, per Zeus, perché tu lo metta in riga». «Come? Non è semplice, risposi. È un ragazzo assai abile, è discepolo di Ctesippo. E anche lui è qui presente, non vedi?». «Non preoccupartene, Socrate, disse, comincia senz’altro a discutere con lui». «Allora dobbiamo discutere», dissi io. Mentre ci scambiavamo tra noi queste parole, Ctesippo disse: «Perché riservate questo banchetto per voi soli, e non ci fate partecipi dei vostri discorsi?». D «Certo, dissi, partecipate pure. Questi non comprende bene alcune delle cose che dico, ma è convinto che Menesseno, invece, le capisca e mi esorta a fargli domande». «Perché allora, disse, non gli fai domande?»

[Dialogo tra Socrate e Menesseno: amico è chi ama o chi è amato?] «Gli farò sicuramente domande, dissi, e tu, Menesseno, rispondi alle domande che ti faccio. Ecco la condizione in cui mi trovo. Fin da bambino, c’è qualche cosa che io desidero possedere, così come uno desidera possedere un’altra cosa e un altro un’altra. Uno, infatti, desidera avere cavalli, un altro cani, uno dell’oro, un altro onori. E Io, invece, resto indifferente di fronte a questi beni, mentre ardo dal desiderio di avere amici, e vorrei avere un buon amico piuttosto che la migliore quaglia e il miglior gallo del mondo27, e, per Zeus, lo preferirei anche a un cavallo e a un cane. Credo, anzi, corpo di un cane, che sarei

142

LISIDE, 211 E - 212 C

kthvsasqai dexaivmhn polu; provteron eJtai`ron, ma`llon ãde;Ã h] aujto;n Darei`on < ou{tw~ ejgw; ILlevtairov~ tiv~ eijmi. uJma`~ 212A ou\n oJrw`n, sev te kai; Luvs in, ejkpevplhgmai kai; eujdaimonivzw o{ti ou{tw nevoi o[nte~ oi|oi tΔ ejsto;n tou`to to; kth`ma tacu; kai; rJa/divw~ kta`sqai, kai; suv te tou`ton ou{tw ILvlon ejkthvsw tacuv te kai; sfovdra, kai; au\ ou|to~ sev: ejgw; de; ou{tw povrrw eijmi; tou` kthvmato~, w{ste oujdΔ o{ntina trovpon givgnetai ILvlo~ e{tero~ eJtevrou oi\da, ajlla; tau`ta dh; aujtav se bouvlomai ejrevsqai a{te e[mpeiron. Kaiv moi eijpev: ejpeidavn tiv~ tina ILlh`/, povtero~ potevrou B ILvlo~ givgnetai, oJ ILlw`n tou` ILloumevnou h] oJ ILlouvmeno~ tou` ILlou`nto~: h] oujde;n diafevrei… Oujdevn, e[fh, e[moige dokei` diafevrein. Pw`~ levgei~… h\n dΔ ejgwv: ajmfovteroi a[ra ajllhvlwn ILvloi givgnontai, eja;n movno~ oJ e{tero~ to;n e{teron ILlh`/… “Emoige, e[fh, dokei`. Tiv dev… oujk e[stin ILlou`nta mh; ajntiILlei`sqai uJpo; touvtou o}n a]n ILlh`/… “Estin. Tiv dev… a\ra e[stin kai; misei`sqai ILlou`nta… oi|ovn pou ejnivote dokou`s i kai; oiJ ejrastai; pavscein pro;~ ta; paidikav: C ILlou`nte~ ga;r wJ~ oi|ovn te mavlista oiJ me;n oi[ontai oujk ajntiILlei`sqai, oiJ de; kai; misei`sqai. h] oujk ajlhqe;~ dokei` soi tou`to… Sfovdra ge, e[fh, ajlhqev~. Oujkou`n ejn tw`/ toiouvtw/, h\n dΔ ejgwv, oJ me;n ILlei`, oJ de; ILlei`tai… Naiv.

INTERMEZZO. REIMPOSTAZIONE DELLA DISCUSSIONE

143

capace di anteporre un buon amico all’oro di Dario28 e a Dario stesso, tanto grande è il mio desiderio di amicizia. Perciò, quando vi vedo, te e Liside, rimango colpito e vi 212A ritengo felici, in quanto, pur così giovani, siete stati capaci di procurarvi questo bene velocemente e facilmente. Tu, Menesseno, ti sei procurato un amico velocemente e facilmente, e Liside la tua amicizia. Io, invece, sono tanto lontano da un tale possesso, che non so neppure come uno diventa amico di un altro, ed è proprio questo che voglio domandare a te che ne hai esperienza. Dimmi: quando uno è amico di un altro, chi dei due diventa amico dell’altro, l’amante dell’amato o l’amato B dell’amante, o non c’è alcuna differenza?». «Sembra anche a me che non ci sia alcuna differenza». «Come dici? domandai, diventano tutti e due amici l’uno dell’altro, anche se uno solo è amico dell’altro?». «Mi sembra», disse. «E allora? Non succede che chi ama non sia ricambiato dall’amato?». «Succede, sì». «E allora? Non succede che, in alcuni casi, chi ama sia addirittura odiato dall’amato? Talvolta agli amanti succede proprio questo nel rapporto con i loro amati; C pur amando di un grande amore, alcuni ritengono di non essere ricambiati, altri ritengono addirittura di essere odiati. O ti sembra che non sia vero?». «È proprio vero!», disse. «Pertanto, in un caso di questo genere, dissi, l’uno ama e l’altro è amato?». «Sì». 28 Dario, il ricchissimo re dei Persiani, regnò dal 521 al 485 a. C.; tentò l’invasione della Grecia, ma venne bloccato e sconfitto a Maratona nel 490 (cfr. Menesseno, 240 A-C).

144

LISIDE, 212 C - 213 A

Povtero~ ou\n aujtw`n potevrou ILvlo~ ejstivn… oJ ILlw`n tou` ILloumevnou, ejavnte kai; ajntiILlh`tai ejavnte kai; mish`tai, h] oJ ILlouvmeno~ tou` ILlou`nto~… h] oujdevtero~ au\ ejn tw`/ toiouvtw/ oujdetevrou ILvlo~ ejstivn, a]n mh; ajmfovteroi ajllhvlou~ ILlw`s in… D “Eoike gou`n ou{tw~ e[cein. ΔAlloivw~ a[ra nu`n hJmi`n dokei` h] provteron e[doxen. tovte me;n gavr, eij oJ e{tero~ ILloi`, ILvlw ei\nai a[mfw: nu`n dev, a]n mh; ajmfovteroi ILlw`s in, oujdevtero~ ILvlo~. Kinduneuvei, e[fh. Oujk a[ra ejsti;n ILvlon tw`/ ILlou`nti oujde;n mh; oujk ajntiILlou`n. Oujk e[oiken. OujdΔ a[ra ILvlippoiv eijs in ou}~ a]n oiJ i{ppoi mh; ajntiILlw`s in, oujde; ILlovrtuge~, oujdΔ au\ ILlovkunev~ ge kai; ILvloinoi kai; ILlogumnastai; kai; ILlovsofoi, a]n mh; hJ soILva aujtou;~ ajntiILlh`/. h] ILlou`s i me;n tau`ta e{kastoi, ouj mevntoi ILvla E o[nta, ajlla; yeuvdeqΔ oJ poihthv~, o}~ e[fh o[lbio~, w|/ pai`dev~ te ILvloi kai; mwvnuce~ i{ppoi kai; kuvne~ ajgreutai; kai; xevno~ ajllodapov~… Oujk e[moige dokei`, h\ dΔ o{~. ΔAllΔ ajlhqh` dokei` levgein soi… Naiv. To; ILlouvmenon a[ra tw`/ ILlou`nti ILvlon ejstivn, wJ~ e[oiken, w\ Menevxene, ejavnte ILlh`/ ejavnte kai; mish`/: oi|on kai; ta; 213A newsti; gegonovta paidiva, ta; me;n oujdevpw ILlou`nta, ta; de;

29

Cfr. Saggio intr., cap. II § 3, punti a) e b). Solone, fr. 17, cfr. Gentili B. - Prato C., Poetae elegiaci: testimonia et fragmenta, Teubneriana, vol. 1701, Berlino 1988. L’espressione «cavalli dall’unica unghia» (mwvnuce~) è usata per distinguerli dagli ovini che hanno l’unghia fessa. Di questo frammento esiste una traduzione di Giovanni Pascoli (Poemi convivia30

INTERMEZZO. REIMPOSTAZIONE DELLA DISCUSSIONE

145

«E quale dei due è amico dell’altro? L’amante dell’amato, anche se non è ricambiato, e anche se viene odiato, o l’amato dell’amante? Oppure in questo caso nessuno dei due è amico dell’altro, se fra loro non c’è amore reciproco?». D «Mi pare che le cose stiano proprio così». «Allora, ci pare che le cose stiano diversamente da come ci pareva prima. Allora, infatti, si diceva che, se uno dei due ama l’altro, entrambi sono amici; adesso, invece, che, se l’uno e l’altro non si amano reciprocamente, nessuno è amico dell’altro». «È probabile», disse. «Dunque, non ci può essere nessuna amicizia, se non c’è amore reciproco». «Sembra di no». «Pertanto, non sono amici dei cavalli coloro che non sono ricambiati nell’amicizia dai cavalli29, né amici delle quaglie, né dei cani, del vino, della ginnastica, né della sapienza coloro che non sono ricambiati nell’amicizia dalla sapienza. O ciascuno ama queste cose, anche se non gli E sono amiche, e allora si è ingannato il poeta che dice: Felice colui che ha per amici fanciulli, [cavalli dall’unica unghia, e cani da caccia e un ospite che viene da lontano?30 «A me non sembra che si inganni», rispose. «Ti sembra invece che dica la verità?». «Sì». «Allora, a quanto sembra, ciò che è amato è amico di chi ama, Menesseno, sia se non lo ama, sia anche se lo odia. Questo succede ai bambini appena nati, che, da li: Solon, Mondadori, Milano 1974) dove compare «cavalli solidunghi» o «di solid’unghia».

146

LISIDE, 213 A-C

kai; misou`nta, o{tan kolavzhtai uJpo; th`~ mhtro;~ h] uJpo; tou` patrov~, o{mw~ kai; misou`nta ejn ejkeivnw/ tw`/ crovnw/ pavntwn mavlistav ejsti toi`~ goneu`s i ILvltata. “Emoige dokei`, e[fh, ou{tw~ e[cein. Oujk a[ra oJ ILlw`n ILvlo~ ejk touvtou tou` lovgou, ajllΔ oJ ILlouvmeno~. “Eoiken. Kai; oJ misouvmeno~ ejcqro;~ a[ra, ajllΔ oujc oJ misw`n. Faivnetai. Polloi; a[ra uJpo; tw`n ejcqrw`n ILlou`ntai, uJpo; de; tw`n ILvlwn B misou`ntai, kai; toi`~ me;n ejcqroi`~ ILvloi eijs ivn, toi`~ de; ILvloi~ ejcqroiv, eij to; ILlouvmenon ILvlon ejsti;n ajlla; mh; to; ILlou`n. kaivtoi pollh; ajlogiva, w\ ILvle eJtai`re, ma`llon de; oi\mai kai; ajduvnaton, tw`/ te ILvlw/ ejcqro;n kai; tw`/ ejcqrw`/ ILvlon ei\nai. ΔAlhqh`, e[fh, e[oika~ levgein, w\ Swvkrate~. Oujkou`n eij tou`tΔ ajduvnaton, to; ILlou`n a]n ei[h ILvlon tou` ILloumevnou. Faivnetai. To; misou`n a[ra pavlin ejcqro;n tou` misoumevnou. ΔAnavgkh. Oujkou`n taujta; hJmi`n sumbhvsetai ajnagkai`on ei\nai C oJmologei`n, a{per ejpi; tw`n provteron, pollavki~ ILvlon ei\ nai mh; ILvlou, pollavki~ de; kai; ejcqrou`, o{tan h] mh; ILlou`n ti~ ILlh`/ h] kai; misou`n ILlh`/: pollavki~ dΔ ejcqro;n ei\nai mh; ejcqrou` h] kai; ILvlou, o{tan h] ãmh;Ã misou`n ti~ mish`/ h] kai; ILlou`n mish`/. Kinduneuvei, e[fh. Tiv ou\n dh; crhswvmeqa, h\n dΔ ejgwv, eij mhvte oiJ ILlou`nte~ ILvloi e[sontai mhvte oiJ ILlouvmenoi mhvte oiJ ILlou`ntev~ te kai; ILlouvmenoi… ajlla; kai; para; tau`ta a[llou~ tina;~ e[ti fhvsomen ei\nai ILvlou~ ajllhvloi~ gignomevnou~… Ouj ma; to;n Diva, e[fh, w\ Swvkrate~, ouj pavnu eujporw` e[gwge.

31

Qui Socrate gioca a fare l’erista (v. nota 2 e Saggio intr., cap. II, § 3).

INTERMEZZO. REIMPOSTAZIONE DELLA DISCUSSIONE

147

un lato, non sono ancora in grado di amare, e, dall’altro, 213A quasi odiano il padre e la madre quando vengono da loro puniti, ma che, anche in questi momenti, rimangono cari ai loro genitori, più di ogni altra cosa». «Mi pare che sia proprio così», disse. «Dalle cose che abbiamo detto, amico non è colui che ama, ma colui che è amato». «Sembra». «Ed è nemico colui che è odiato, non colui che odia». «Sembra». «Allora, molti sono amati dai nemici, odiati dagli amici, e sono amici dei nemici e nemici degli amici, se amico B è l’amato e non l’amante. Tuttavia, carissimo, è una grande assurdità, e addirittura impossibile, credo, essere nemico dell’amico e amico del nemico». «Credo che tu abbia ragione, Socrate», disse. «Se, dunque, è impossibile, chi ama dovrebbe essere amico dell’amato». «Pare». «E chi odia, a sua volta, nemico dell’odiato». «Necessariamente». «Allora, siamo costretti a trarre le stesse conclusioni di prima, ossia che spesso si è amici di chi non ci è amico, C e lo stesso addirittura di chi ci è nemico, quando si ama chi non ci è amico, o persino chi ci odia e, spesso, si è nemici di chi non ci è nemico o anche ci è amico, quando si odia chi non ci odia, o addirittura si odia chi ci ama»31. «Si dà il caso che sia così», disse. «Che cosa dovremo fare, allora, dissi, se non potranno essere amici né coloro che amano né coloro che sono amati, e nemmeno quelli che amano sono riamati? Dovremo forse dire che, al di là di tutto questo, ci sono altri ancora che possono diventare reciprocamente amici?». «Per Zeus, Socrate, non so proprio che cosa dire».

PARTE SECONDA IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

«Ara mhv, h\n dΔ ejgwv, w\ Menevxene, to; paravpan oujk ojrqw`~ ejzhtou`men… Oujk e[moige dokei`, w\ Swvkrate~, e[fh, oJ Luvs i~, kai; a{ma eijpw;n hjruqrivasen: ejdovkei gavr moi a[kontΔ aujto;n ejkfeuvgein to; lecqe;n dia; to; sfovdra prosevcein to;n nou`n toi`~ legomevnoi~, dh`lo~ dΔ h\n kai; o{te hjkroa`to ou{tw~ e[cwn. ΔEgw; ou\n boulovmeno~ tovn te Menevxenon ajnapau`sai kai; ejkeivnou hJsqei;~ th`/ ILlosoILva/, ou{tw metabalw;n pro;~ to;n E Luvs in ejpoiouvmhn tou;~ lovgou~, kai; ei\pon: «W Luvs i, ajlhqh` moi dokei`~ levgein o{ti eij ojrqw`~ hJmei`~ ejskopou`men, oujk a[n pote ou{tw~ ejplanwvmeqa. ajlla; tauvth/ me;n mhkevti i[wmen < kai; ga;r calephv tiv~ moi faivnetai w{sper oJdo;~ hJ skevyi~ < h|/ de; ejtravphmen, dokei` moi crh`nai ijevnai, skopou`nta ªta;º kata; 214A tou;~ poihtav~: ou|toi ga;r hJmi`n w{sper patevre~ th`~ soILva~ eijs i;n kai; hJgemovne~. levgousi de; dhvpou ouj fauvlw~ ajpofainovmenoi peri; tw`n ILvlwn, oi} tugcavnousin o[nte~: ajlla; to;n qeo;n aujtovn fasin poiei`n ILvlou~ aujtouv~, a[gonta parΔ ajllhvlou~. levgousi dev pw~ tau`ta, wJ~ ejgw\/mai, wJdiv < aijeiv toi to;n oJmoi`on a[gei qeo;~ wJ~ to;n oJmoi`on B kai; poiei` gnwvrimon: h] oujk ejntetuvchka~ touvtoi~ toi`~ e[pesin… D

32 33

Cfr. nota 1. Omero, Odissea, XVII 218.

[Ripresa della discussione fra Socrate e Liside: il simile è amico del simile?]

«Menesseno, non sarà forse il caso che noi non abbiamo D condotto bene la ricerca?», dissi. «Non mi sembra, Socrate [che sia stata ben condotta]», rispose Liside. E mentre diceva questo, arrossì. Mi pareva che quello che aveva detto gli fosse sfuggito inavvertitamente, per la grande attenzione con cui aveva seguito il nostro discorso, ed era evidente che era questo il suo atteggiamento mentre ascoltava. Io, allora, volendo concedere un sollievo a Menesseno, e compiaciuto dell’amore della sapienza di Liside, volgendomi a lui, continuai la discussione e dissi: «Mi sembra, Liside, che tu dica il vero, che, se noi avessimo E condotto giustamente la nostra indagine, non saremmo usciti di strada in questo modo. Ma non dobbiamo più procedere per questa via; infatti, la ricerca appare come una strada difficile da percorrere32. Riprendiamo invece quella strada sulla quale ci eravamo avviati, proseguendo la ricerca sulle orme dei poeti. Per noi, infatti, i poeti sono come dei padri e guide. In verità, non è di scarsa 214A importanza quello che dicono, quando esprimono il loro pensiero su quelli che si possono dire amici, avvicinandoli gli uni agli altri. Essi dicono, se non sbaglio, più o meno questo: Sempre il dio conduce il simile verso il simile e glielo fa conoscere33. Non ti è mai capitato di sentire questi versi?».

B

152

LISIDE, 214 B-D

“EgwgΔ, e[fh. Oujkou`n kai; toi`~ tw`n sofwtavtwn suggravmmasin ejntetuvchka~ tau`ta aujta; levgousin, o{ti to; o{moion tw`/ oJmoivw/ ajnavgkh ajei; ILvlon ei\nai… eijs i;n dev pou ou|toi oiJ peri; fuvsewv~ te kai; tou` o{lou dialegovmenoi kai; gravfonte~. ΔAlhqh`, e[fh, levgei~. «ArΔ ou\n, h\n dΔ ejgwv, eu\ levgousin… “Isw~, e[fh. “Isw~, h\n dΔ ejgwv, to; h{misu aujtou`, i[sw~ de; kai; pa`n, ajllΔ hJmei`~ ouj sunivemen. dokei` ga;r hJmi`n o{ ge ponhro;~ C tw`/ ponhrw`/, o{sw/ a]n ejggutevrw prosivh/ kai; ma`llon oJmilh`/, tosouvtw/ ejcqivwn givgnesqai. ajdikei` gavr: ajdikou`nta~ de; kai; ajdikoumevnou~ ajduvnatovn pou ILvlou~ ei\nai. oujc ou{tw~… Naiv, h\ dΔ o{“. Tauvth/ me;n a]n toivnun tou` legomevnou to; h{misu oujk ajlhqe;~ ei[h, ei[per oiJ ponhroi; ajllhvloi~ o{moioi. ΔAlhqh` levgei~. ΔAllav moi dokou`s in levgein tou;~ ajgaqou;~ oJmoivou~ ei\nai ajllhvloi~ kai; ILvlou~, tou;~ de; kakouv~, o{per kai; levgetai peri; aujtw`n, mhdevpote oJmoivou~ mhdΔ aujtou;~ auJtoi`~ ei\nai, ajllΔ D ejmplhvktou~ te kai; ajstaqmhvtou~: o} de; aujto; auJtw`/ ajnovmoion ei[h kai; diavforon, scolh`/ gev tw/ a[llw/ o{moion h] ILvlon gevnoitΔ a[n. h] ouj kai; soi; dokei` ou{tw~… “EmoigΔ, e[fh. Tou`to toivnun aijnivttontai, wJ~ ejmoi; dokou`s in, w\ eJtai`re, oiJ to; o{moion tw`/ oJmoivw/ ILvlon levgonte~, wJ~ oJ ajgaqo;~ tw`/ ajgaqw`/ movno~ movnw/ ILvlo~, oJ de; kako;~ ou[te ajgaqw`/ ou[te kakw`/ oujdevpote eij~ ajlhqh` ILlivan e[rcetai. sundokei` soi…

34

Il riferimento è ai pensatori presocratici impegnati nello studio della natura, in particolare a Empedocle, sostenitore del ruolo dell’amicizia e dell’odio nell’attrazione e repulsione tra simili e dissimili (cfr. 31 B 22 Diels – Kranz). Rispetto ai poeti che fanno rife-

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

153

«Sì», disse. «E non ti sei mai imbattuto anche negli scritti dei più sapienti34, che dicono le stesse cose, ossia che, di necessità, il simile sempre è amico del simile? E questi sono sapienti che discutono e scrivono opere sulla natura e sul tutto». «Dici il vero», rispose. «E dicono bene?», domandai. «Forse», disse. «Forse, dissi io, per metà, forse per intero, ma noi non comprendiamo. Ci sembra, infatti, che un malvagio, quanto più si avvicina a un altro malvagio, e lo frequenta, C tanto più lo odia. Infatti commette ingiustizie, e fra chi commette ingiustizie e chi le subisce è impossibile che ci sia amicizia. Non è così?». «Sì», rispose. «Allora, la metà del detto non sarebbe vera, se i malvagi sono fra loro simili. «Dici il vero». «Mi sembra, piuttosto, che dicano che i buoni sono fra loro simili e amici, mentre i cattivi, come si dice di loro, non sono mai simili neppure fra di loro, ma mutevoli e instabili. Ma ciò che non permane uguale a se stesso, ma D diventa diverso, è difficile che diventi simile o amico a un altro. O non sembra anche a te che sia così?». «Sì, anche a me», disse. «Perciò, secondo me, o caro, è a questo che alludono in modo enigmatico, quando dicono che il simile è amico del simile, ossia che solo il buono può essere amico del buono, mentre il cattivo non può essere amico né di un buono né di un cattivo. Pare anche a te?». rimento a un dio, questi sapienti usano un linguaggio più scientifico («di necessità») rinforzando il concetto. È come se Socrate dicesse: tutte le fonti in nostro possesso sostengono questa tesi.

154

LISIDE, 214 D - 215 B

Katevneusen. “Ecomen a[ra h[dh tivne~ eijs i;n oiJ ILvloi: oJ ga;r lovgo~ hJmi`n E shmaivnei o{ti oi} a]n w\s in ajgaqoiv; Pavnu ge, e[fh, dokei`. Kai; ejmoiv, h\n dΔ ejgwv. kaivtoi dusceraivnw tiv ge ejn aujtw`/: fevre ou\n, w\ pro;~ Diov~, i[dwmen tiv kai; uJpopteuvw. oJ o{moio~ tw`/ oJmoivw/ kaqΔ o{son o{moio~ ILvlo~, kai; e[stin crhvs imo~ oJ toiou`to~ tw`/ toiouvtw/… ma`llon de; w|de: oJtiou`n o{moion oJtw/ou`n oJmoivw/ tivna wjfelivan e[cein h] tivna blavbhn a]n poih`sai duvnaito, o} mh; kai; aujto; auJtw`/… h] tiv a]n paqei`n, o} mh; kai; uJfΔ 215A auJtou` pavqoi… ta; dh; toiau`ta pw`~ a]n uJpΔ ajllhvlwn ajgaphqeivh, mhdemivan ejpikourivan ajllhvloi~ e[conta… e[stin o{pw~… Oujk e[stin. ’O de; mh; ajgapw`/to, pw`~ ILvlon… Oujdamw`~. ΔAlla; dh; oJ me;n o{moio~ tw`/ oJmoivw/ ouj ILvlo~: oJ de; ajgaqo;~ tw`/ ajgaqw`/ kaqΔ o{son ajgaqov~, ouj kaqΔ o{son o{moio~, ILvlo~ a]n ei[h… “Isw~. Tiv dev… oujc oJ ajgaqov~, kaqΔ o{son ajgaqov~, kata; tosou`ton iJkano;~ a]n ei[h auJtw`/… Naiv. ÔO dev ge iJkano;~ oujdeno;~ deovmeno~ kata; th;n iJkanovthta. Pw`~ ga;r ou[… B ÔO de; mhv tou deovmeno~ oujdev ti ajgapwv/h a[n.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

155

Disse di sì. «Allora, sappiamo ormai chi sono gli amici. Infatti il nostro discorso dimostra che essi sono i buoni». E «Mi pare che sia proprio così», disse.

[Il simile in quanto simile non può essere utile all’amico] «Pare anche a me, dissi. Però in quel ragionamento c’è qualche cosa che non mi convince. Allora seguimi, per Zeus. Vediamo insieme i sospetti che ho. Il simile è amico del simile in quanto simile, ma il simile è anche utile a chi è come lui? O per dire meglio: quale vantaggio o danno qualunque cosa simile potrebbe procurare a un’altra simile, che essa stessa non potrebbe procurarsi? O che cosa potrebbe subire che essa stessa non potrebbe comportare a se medesima? E le cose che si trovano in questa 215A situazione, come potrebbero amarsi l’una con l’altra, se non sono in grado di procurarsi alcun soccorso? Ti sembra possibile?». «No». «E ciò che non è amato, come può essere amico?». «In nessun modo». «E allora? Il simile non è amico del simile; ma almeno il buono potrebbe essere amico del buono, non però in quanto simile, ma in quanto buono?». «Forse». «E come? Il buono in quanto buono non potrebbe in quanto tale essere sufficiente a se stesso?». «Sì». «E chi è sufficiente, non ha bisogno proprio perché è sufficiente». «Come no?». «E chi non ha bisogno di nulla, non può neppure amare». B

156

LISIDE, 215 B-D

Ouj ga;r ou\n. ’O de; mh; ajgapwv/h, oujdΔ a]n ILloi`. Ouj dh`ta. ÔO de; mh; ILlw`n ge ouj ILvlo~. Ouj faivnetai. Pw`~ ou\n oiJ ajgaqoi; toi`~ ajgaqoi`~ hJmi`n ILvloi e[sontai th;n ajrchvn, oi} mhvte ajpovnte~ poqeinoi; ajllhvloi~ < iJkanoi; ga;r eJautoi`~ kai; cwri;~ o[nte~ < mhvte parovnte~ creivan auJtw`n e[cousin… tou;~ dh; toiouvtou~ tiv~ mhcanh; peri; pollou` poiei`sqai ajllhvlou~… Oujdemiva, e[fh. C )Lvloi dev ge oujk a]n ei\en mh; peri; pollou` poiouvmenoi eJautouv~. ΔAlhqh`. “Aqrei dhv, w\ Luvs i, ph`/ parakrouovmeqa. a\rav ge o{lw/ tini; ejxapatwvmeqa… Pw`~ dhv… e[fh. “Hdh potev tou h[kousa levgonto~, kai; a[rti ajnamimnhv/ skomai, o{ti to; me;n o{moion tw`/ oJmoivw/ kai; oiJ ajgaqoi; toi`~ ajgaqoi`~ polemiwvtatoi ei\en: kai; dh; kai; to;n ÔHsivodon ejphvgeto mavrtura, levgwn wJ~ a[ra < kai; kerameu;~ keramei` kotevei kai; ajoido;~ ajoidw`/ D kai; ptwco;~ ptwcw`/, kai; ta\lla dh; pavnta ou{tw~ e[fh ajnagkai`on ei\nai mavlista ta; oJmoiovtata ãpro;sà a[llhla fqovnou te kai; ILlonikiva~ kai; e[cqra~ ejmpivmplasqai, ta; dΔ ajnomoiovtata ILliva~: to;n ga;r

35

Esiodo, Le opere e i giorni, in Id., Tutte le opere, Bompiani, Milano 2009, p. 179.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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«Proprio no». «E chi non prova affetto, non può amare». «Certo che no». «E chi non ama non può neppure essere amico». «Sembra di no». «Allora, come potranno, secondo noi, i buoni essere amici dei buoni, se, stando lontani, non si desiderano gli uni gli altri, in quanto bastano a se stessi anche se separati, e, quando sono vicini, non hanno bisogno gli uni degli altri? Per quale motivo uomini di questo genere potrebbero considerarsi importanti gli uni per gli altri?». «Per nessun motivo», disse. «Però non potrebbero essere neppure amici, se non si C ritengono importanti gli uni per gli altri». «È vero!».

[Anche gli opposti non possono essere amici fra di loro] «Guarda un po’, Liside, come abbiamo sbagliato strada. Ci stiamo forse ingannando su tutto?». «In che modo?», disse. «Una volta da un tale ho sentito dire, e proprio ora mi torna alla memoria, che il simile con il simile e i buoni con i buoni, sarebbero nemici in sommo grado; e citava come testimone anche Esiodo, quando dice: Il vasaio odia il vasaio, l’aedo odia l’aedo e il mendico il mendico35. E anche in tutto il resto diceva che è necessario che le cose tra loro più simili siano le une verso le altre colme di invidia, di inimicizia, di odio e che, al contrario, le più dissimili, siano colme di amicizia. Infatti, il povero deve

D

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LISIDE, 215 D - 216 B

pevnhta tw`/ plousivw/ ajnagkavzesqai ILvlon ei\nai kai; to;n ajsqenh` tw`/ ijscurw`/ th`~ ejpikouriva~ e{neka, kai; to;n kavmnonta tw`/ ijatrw`/, kai; pavnta dh; to;n mh; eijdovta ajgapa`n to;n eijdovta kai; ILlei`n. E kai; dh; kai; e[ti ejpexhv/ei tw`/ lovgw/ megaloprepevsteron, levgwn wJ~ a[ra panto;~ devoi to; o{moion tw`/ oJmoivw/ ILvlon ei\nai, ajllΔ aujto; to; ejnantivon ei[h touvtou: to; ga;r ejnantiwvtaton tw`/ ejnantiwtavtw/ ei\nai mavlista ILvlon. ejpiqumei`n ga;r tou` toiouvtou e{kaston, ajllΔ ouj tou` oJmoivou: to; me;n ga;r xhro;n uJgrou`, to; de; yucro;n qermou`, to; de; pikro;n glukevo~, to; de; ojxu; ajmblevo~, to; de; keno;n plhrwvsew~, kai; to; plh`re~ de; kenwvsew~, kai; ta\lla ou{tw kata; to;n aujto;n lovgon. trofh;n ga;r ei\nai to; ejnantivon tw`/ ejnantivw/: to; ga;r o{moion tou` oJmoivou 216A oujde;n a]n ajpolau`sai. kai; mevntoi, w\ eJtai`re, kai; komyo;~ ejdovkei ei\nai tau`ta levgwn: eu\ ga;r e[legen. uJmi`n dev, h\n dΔ ejgwv, pw`~ dokei` levgein… Eu\ ge, e[fh oJ Menevxeno~, w{~ ge ouJtwsi; ajkou`sai. Fw`men a[ra to; ejnantivon tw`/ ejnantivw/ mavlista ILvlon ei\nai… Pavnu ge. Ei\en, h\n dΔ ejgwv: oujk ajllovkoton, w\ Menevxene… kai; hJmi`n eujqu;~ a{smenoi ejpiphdhvsontai ou|toi oiJ pavssofoi a[ndre~, B oiJ ajntilogikoiv, kai; ejrhvsontai eij oujk ejnantiwvtaton e[cqra ILliva/… oi|~ tiv ajpokrinouvmeqa… h] oujk ajnavgkh oJmologei`n o{ti ajlhqh` levgousin… ΔAnavgkh. «ArΔ ou\n, fhvsousin, to; ejcqro;n tw`/ ILvlw/ ILvlon h] to; ILvlon tw`/ ejcqrw`/… Oujdevtera, e[fh. ΔAlla; to; divkaion tw`/ ajdivkw/, h] to; sw`fron tw`/ ajkolavstw/, h] to; ajgaqo;n tw`/ kakw`/…

36

Il riferimento è a quei sofisti specializzati nella formulazione di due tesi opposte che si escludono a vicenda (antilogie). In questo caso opporrebbero a Esiodo le tesi di Eraclito (il divenire è dato dal continuo conflitto di contrari). Eraclito, fr. 10, cfr. I pre-

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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essere amico del ricco e il debole del forte per il soccorso che ne possono avere e così pure il malato del medico. E colui che non sa, ama chi sa e gli è amico. E proseguiva poi E ancora, in modo più solenne, dicendo che il simile è ben lontano dall’essere amico del simile, ma che si verifica il contrario di questo, ossia che chi è contrario in sommo grado è sommamente amico di chi è contrario in sommo grado. Infatti, ciascuna cosa desidera il proprio contrario, non il proprio simile: il secco desidera l’umido, il freddo il caldo, l’amaro il dolce, l’acuto l’ottuso, il vuoto il pieno, il pieno il vuoto, e così anche le altre cose secondo lo stesso rapporto. Infatti, il contrario è un nutrimento per il contrario, in quanto il simile non può trarre nessun giovamento dal simile. In verità, mio caro, nel dire queste 216A cose era arguto. A voi, domandai, che ne pare?». «Bene, almeno a sentirle così!», rispose Menesseno. «Diremo, allora, che il contrario è in sommo grado amico del contrario?». «Certamente». «Bene, dissi io, non è strano Menesseno? Subito, contro di noi si scaglieranno contenti quei sapientoni che amano contraddire36, e ci domanderanno se l’odio non sia l’estremo contrario dell’amicizia. E noi, che cosa potremo rispondere a loro? Non sarà forse necessario am- B mettere che hanno ragione?». «Sarà necessario». «Allora, ci domanderanno, il nemico è amico dell’amico o l’amico del nemico?». «Né l’una né l’altra cosa», disse. «Ma il giusto lo è dell’ingiusto, il temperante dell’intemperante, il buono del cattivo?». socratici (a cura di G. Reale), Bompiani, Milano 2006, p. 343 (cfr. Saggio intr., cap. II, § 5).

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LISIDE, 216 B-D

Oujk a[n moi dokei` ou{tw~ e[cein. ΔAlla; mevntoi, h\n dΔ ejgwv, ei[per ge kata; th;n ejnantiovthtav tiv tw/ ªILvlw/º ILvlon ejstivn, ajnavgkh kai; tau`ta ILvla ei\nai. ΔAnavgkh. Ou[te a[ra to; o{moion tw`/ oJmoivw/ ou[te to; ejnantivon tw`/ ejnantivw/ ILvlon. Oujk e[oiken. C “Eti de; kai; tovde skeywvmeqa, mh; e[ti ma`llon hJma`~ lanqavnei to; ILvlon wJ~ ajlhqw`~ oujde;n touvtwn o[n, ajlla; to; mhvte ajgaqo;n mhvte kako;n ILvlon ou{tw pote; gignovmenon tou` ajgaqou`. Pw`~, h\ dΔ o{~, levgei~… ΔAlla; ma; Diva, h\n dΔ ejgwv, oujk oi\da, ajlla; tw`/ o[nti aujto;~ eijliggiw` uJpo; th`~ tou` lovgou ajporiva~, kai; kinduneuvei kata; th;n ajrcaivan paroimivan to; kalo;n ILvlon ei\nai. e[oike gou`n D malakw`/ tini kai; leivw/ kai; liparw`/: dio; kai; i[sw~ rJa/divw~ diolisqaivnei kai; diaduvetai hJma`~, a{te toiou`ton o[n. levgw ga;r tajgaqo;n kalo;n ei\nai: su; dΔ oujk oi[ei… “Egwge. Levgw toivnun ajpomanteuovmeno~, tou` kalou` te kai; ajgaqou` ILvlon ei\nai to; mhvte ajgaqo;n mhvte kakovn: pro;~ a} de; levgwn manteuvomai, a[kouson. dokei` moi wJsperei; triva a[tta ei\nai gevnh, to; me;n ajgaqovn, to; de; kakovn, to; dΔ ou[tΔ ajgaqo;n ou[te kakovn: tiv de; soiv…

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Di questo proverbio si ignora l’esatta formulazione; se ne trova un’eco nell’Elegia 15-18 di Teognide, che attribuisce alle Muse queste parole: «che il bello è amico, il brutto non è amico» (v. 17, o{tti kalo;n ILYlon ejstiv, to; dΔ ouj kalo;n ouj ILYlon ejstiv); in Lirici greci. Poeti elegiaci, Mondadori, Milano 1992, Libro I, p. 75. 38 Anticipazione del nesso strutturale tra Bene e Bello (e Verità) sviluppato nel Filebo (65 A). Cfr. Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 473. 39 L’esistenza di questa terza categoria (cose che «non sono né buone né cattive») è affermata dai sofisti Protagora e Polo (Protagora, 351 D e Gorgia 467 E) ma confutata da Socrate (Gorgia,

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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«Non mi sembra proprio che sia così». «Però, dissi io, se è per contrarietà che una cosa è amica, è necessario che queste cose siano amiche». «È necessario». «Allora, il simile non è amico del simile, né il contrario del contrario». «Pare di no».

[Proseguimento della discussione di Socrate con i due amici: ciò che non è né buono né cattivo è amico del bene e del bello] «Proseguiamo allora la nostra ricerca, in modo che l’ami- C cizia non ci resti ancora più nascosta, e che non sia nessuna di queste cose, ma l’amico del buono non sia né il buono né il cattivo». «Come dici?», domandò. «Per Zeus, dissi io, non lo so, ma, in realtà, ho le vertigini per la difficoltà del discorso, e forse, come dice l’antico proverbio, amico è il bello37. Il bello sembra infatti come qualche cosa di morbido, liscio, lucente. Forse, sci- D vola via e si sottrae a noi facilmente, appunto perché tale. Dico, infatti, che il bene è bello38. Non credi?». «Io sì». «Propongo, dunque, come per presagio, che ciò che non è né buono né cattivo è amico del bello e del buono. Senti su che cosa si basano i miei presagi. Mi sembra che, per così dire, ci siano tre generi di cose: il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo39. E a te?». 468 C). Qui Socrate introduce questa categoria per prendersi gioco del modo di discutere dei Sofisti e la riprenderà e la smonterà fino alla fine del dialogo.

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LISIDE, 216 D - 217 B

Kai; ejmoiv, e[fh. Kai; ou[te tajgaqo;n tajgaqw`/ ou[te to; kako;n tw`/ kakw`/ ou[te E tajgaqo;n tw`/ kakw`/ ILvlon ei\nai, w{sper oujdΔ oJ e[mprosqen lovgo~ eja`/: leivpetai dhv, ei[per twv/ tiv ejstin ILvlon, to; mhvte ajgaqo;n mhvte kako;n ILvlon ei\nai h] tou` ajgaqou` h] tou` toiouvtou oi|on aujtov ejstin. ouj ga;r a[n pou tw`/ kakw`/ ILvlon a[n ti gevnoito. ΔAlhqh`. Oujde; mh;n to; o{moion tw`/ oJmoivw/ e[famen a[rti: h\ gavr… Naiv. Oujk a[ra e[stai tw`/ mhvte ajgaqw`/ mhvte kakw`/ to; toiou`ton ILvlon oi|on aujtov. Ouj faivnetai. 217A Tw`/ ajgaqw`/ a[ra to; mhvte ajgaqo;n mhvte kako;n movnw/ movnon sumbaivnei givgnesqai ILvlon. ΔAnavgkh, wJ~ e[oiken. «ArΔ ou\n kai; kalw`~, h\n dΔ ejgwv, w\ pai`de~, uJfhgei`tai hJmi`n to; nu`n legovmenon… eij gou`n qevloimen ejnnoh`sai to; uJgiai`non sw`ma, oujde;n ijatrikh`~ dei`tai oujde; wjfeliva~: iJkanw`~ ga;r e[cei, w{ste uJgiaivnwn oujdei;~ ijatrw`/ ILvlo~ dia; th;n uJgiveian. h\ gavr… Oujdeiv~. ΔAllΔ oJ kavmnwn oi\mai dia; th;n novson. B Pw`~ ga;r ou[… Novso~ me;n dh; kakovn, ijatrikh; de; wjfevlimon kai; ajgaqovn.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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«Anche a me», rispose. «E che né il buono sia amico del buono, né il cattivo del cattivo, né il buono del cattivo, come non ci permet- E te di dire neppure il ragionamento di prima. Resta allora che, se un qualcosa è amico di qualcosa, ciò che non è né buono né cattivo sia amico del buono o di qualche cosa che sia tale quale esso è. Nulla, infatti, potrebbe, in alcun modo, diventare amico del cattivo». «È vero». «E neppure il simile del simile, abbiamo detto poco fa. O no?». «Sì». «E a ciò che non è né buono né cattivo non sarà amico ciò che, a sua volta, è quale esso è». «Sembra di no». «Dunque, solo ciò che non è né buono né cattivo si dà 217A il caso che possa diventare amico del buono». «È necessario, come pare».

[Ciò che non è né buono né cattivo è amico del bene per la presenza del male] «Allora, ragazzi, non vi pare che quello che ora abbiamo detto ci possa condurre sulla giusta via? Se prendiamo in esame il corpo sano, troviamo che non ha bisogno della scienza medica né di soccorso; è sufficiente a se medesimo, cosicché nessuno che goda di buona salute, è amico del medico a causa della sua salute. O no?». «Nessuno». «Ma il malato, credo, lo è a causa della malattia». «Come no?». B «Ma la malattia è un male, mentre l’arte medica è qualcosa di utile e di buono».

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LISIDE, 217 B-D

Naiv. Sw`ma dev gev pou kata; to; sw`ma ei\nai ou[te ajgaqo;n ou[te kakovn. Ou{tw~. ΔAnagkavzetai dev ge sw`ma dia; novson ijatrikh;n ajspavzesqai kai; ILlei`n. Dokei` moi. To; mhvte kako;n a[ra mhvtΔ ajgaqo;n ILvlon givgnetai tou` ajgaqou` dia; kakou` parousivan. “Eoiken. Dh`lon dev ge o{ti pri;n genevsqai aujto; kako;n uJpo; tou` C kakou` ou| e[cei. ouj ga;r dhv ge kako;n gegono;~ e[ti a[n ti tou` ajgaqou` ªou|º ejpiqumoi` kai; ILvlon ei[h: ajduvnaton ga;r e[famen kako;n ajgaqw`/ ILvlon ei\nai. ΔAduvnaton gavr. Skevyasqe dh; o} levgw. levgw ga;r o{ti e[nia mevn, oi|on a]n h\/ to; parovn, toiau`tav ejsti kai; aujtav, e[nia de; ou[. w{sper eij ejqevloi ti~ crwvmativ tw/ oJtiou`n ªtiº ajlei`yai, pavrestivn pou tw`/ ajleifqevnti to; ejpaleifqevn. Pavnu ge. «ArΔ ou\n kai; e[stin tovte toiou`ton th;n crovan to; ajleifqevn, oi|on to; ejpovn… D Ouj manqavnw, h\ dΔ o{~. ΔAllΔ w|de, h\n dΔ ejgwv. ei[ tiv~ sou xanqa;~ ou[sa~ ta;~ trivca~ yimuqivw/ ajleivyeien, povteron tovte leukai; ei\en h] faivnointΔ a[n… FaivnointΔ a[n, h\ dΔ o{~. Kai; mh;n pareivh gΔ a]n aujtai`~ leukovth~. Naiv.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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«Sì». «Il corpo in quanto corpo non è né buono né cattivo». «È così». «Ed è invece a causa della malattia che il corpo è costretto ad aver desiderio e a essere amico della medicina». «Mi sembra». «Dunque, ciò che non è né buono né cattivo diventa amico del buono a causa della presenza40 di un male». «Sembra». «Ma, è evidente che questo si verifica prima che diventi esso stesso cattivo a causa del male che ha in sé, perché, diventato cattivo, non potrebbe in alcun modo C desiderare il buono ed essergli amico. Dicevamo, infatti, che è impossibile che il cattivo sia amico del buono». «Veramente impossibile». «State attenti a quello che dico. Dico, infatti, che alcune cose hanno le caratteristiche di ciò che in esse è presente, invece altre no. Se, per esempio, uno tinge qualche oggetto di un certo colore, in qualche modo il colore è presente nell’oggetto tinto cui è stato applicato». «Certamente». «Ma questo oggetto, una volta tinto, diventa tale quale il colore che gli è stato messo sopra?». «Non comprendo», rispose. D «Ecco la spiegazione, dissi. Se uno tingesse con biacca i tuoi capelli biondi, essi sarebbero bianchi o sembrerebbero tali?». «Sembrerebbero», rispose. «Però, in essi sarebbe presente una bianchezza». «Sì». 40

Sul tema della «presenza» (›αρουσiva), che qui viene introdotto, cfr. Saggio intr., cap. II, § 6.

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LISIDE, 217 D - 218 B

ΔAllΔ o{mw~ oujdevn ti ma`llon a]n ei\en leukaiv pw, ajlla; parouvsh~ leukovthto~ ou[te ti leukai; ou[te mevlainaiv eijs in. ΔAlhqh`. ΔAllΔ o{tan dhv, w\ ILvle, to; gh`ra~ aujtai`~ taujto;n tou`to crw`ma ejpagavgh/, tovte ejgevnonto oi|ovnper to; parovn, leukou` E parousiva/ leukaiv. Pw`~ ga;r ou[… Tou`to toivnun ejrwtw` nu`n dhv, eij w|/ a[n ti parh`/, toiou`ton e[stai to; e[con oi|on to; parovn: h] eja;n me;n katav tina trovpon parh`/, e[stai, eja;n de; mhv, ou[… Ou{tw ma`llon, e[fh. Kai; to; mhvte kako;n a[ra mhvtΔ ajgaqo;n ejnivote kakou` parovnto~ ou[pw kakovn ejstin, e[stin dΔ o{te h[dh to; toiou`ton gevgonen. Pavnu ge. Oujkou`n o{tan mhvpw kako;n h\/ kakou` parovnto~, au{th me;n hJ parousiva ajgaqou` aujto; poiei` ejpiqumei`n: hJ de; kako;n poiou`sa ajposterei` aujto; th`~ te ejpiqumiva~ a{ma kai; th`~ 218A ILliva~ tou` ajgaqou`. ouj ga;r e[ti ejsti;n ou[te kako;n ou[te ajgaqovn, ajlla; kakovn: ILvlon de; ajgaqw`/ kako;n oujk h\n. Ouj ga;r ou\n. Dia; tau`ta dh; fai`men a]n kai; tou;~ h[dh sofou;~ mhkevti ILlosofei`n, ei[te qeoi; ei[te a[nqrwpoiv eijs in ou|toi: oujdΔ au\ ejkeivnou~ ILlosofei`n tou;~ ou{tw~ a[gnoian e[conta~ w{ste kakou;~ ei\nai: kako;n ga;r kai; ajmaqh` oujdevna ILlosofei`n. leivpontai dh; oiJ e[conte~ me;n to; kako;n tou`to, th;n a[gnoian, B mhvpw de; uJpΔ aujtou` o[nte~ ajgnwvmone~ mhde; ajmaqei`~, ajllΔ e[ti hJgouvmenoi mh; eijdevnai a} mh; i[sasin. dio; dh; kai; ILlosofou`s in

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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«Però non sarebbero per niente più bianchi, ma, pur essendo presente la bianchezza, non sarebbero né bianchi né neri». «Vero». «Ma, caro mio, quando sarà la vecchiaia a portare questo colore su di essi, allora saranno tali e quali il loro colore, ossia bianchi per la presenza del bianco». E «Come no?». «Allora, io ti domando questo: se in una cosa è presente un’altra, la cosa che la possiede sarà essa pure come quella che è presente, oppure risulta essere presente in un determinato modo, altrimenti no?». «Penso che sia piuttosto così», rispose. «E ciò che non è né buono né cattivo per la presenza di qualche male, qualche volta non è ancora cattivo, talaltra, invece, è già diventato tale». «Sicuramente». «E quando, dunque, nonostante la presenza del male, non sia diventato ancora cattivo, questa stessa presenza gli fa desiderare il bene. Invece, se la presenza del male lo ha già reso cattivo, essa lo priva del desiderio e dell’amicizia del bene. Infatti, esso non è più né buono né cattivo, 218A bensì cattivo. E ciò che è cattivo abbiamo visto che non è amico del buono». «Certo che no». «Pertanto potremmo dire che anche coloro che sono già sapienti, sia dèi sia uomini, non sono più amici della sapienza. E non sono neppure amici della sapienza quelli che sono tanto ignoranti da essere cattivi, perché nessun uomo cattivo o ignorante ama la sapienza. Restano coloro che hanno in sé questo male dell’ignoranza, ma non sono ancora diventati del tutto privi di giudizio e incapaci di apprendere, anzi riconoscono di non sapere quello B che non sanno. È per questo che sono amanti della sa-

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LISIDE, 218 B-D

oiJ ou[te ajgaqoi; ou[te kakoiv pw o[nte~, o{soi de; kakoi; ouj ILlosofou`s in, oujde; oiJ ajgaqoiv: ou[te ga;r to; ejnantivon tou` ejnantivou ou[te to; o{moion tou` oJmoivou ILvlon hJmi`n ejfavnh ejn toi`~ e[mprosqen lovgoi~. h] ouj mevmnhsqe… Pavnu ge, ejfavthn. Nu`n a[ra, h\n dΔ ejgwv, w\ Luvs i te kai; Menevxene, panto;~ ma`llon ejxhurhvkamen o} e[stin to; ILvlon kai; ou[. fame;n ga;r C aujtov, kai; kata; th;n yuch;n kai; kata; to; sw`ma kai; pantacou`, to; mhvte kako;n mhvte ajgaqo;n dia; kakou` parousivan tou` ajgaqou` ILvlon ei\nai. Pantavpasin ejfavthn te kai; sunecwreivthn ou{tw tou`tΔ e[cein. Kai; dh; kai; aujto;~ ejgw; pavnu e[cairon, w{sper qhreuthv~ ti~, e[cwn ajgaphtw`~ o} ejqhreuovmhn. ka[peitΔ oujk oi\dΔ oJpovqen moi ajtopwtavth ti~ uJpoyiva eijsh`lqen wJ~ oujk ajlhqh` ei[h ta; wJmologhmevna hJmi`n, kai; eujqu;~ ajcqesqei;~ ei\pon: Babai`, w\ Luvs i te kai; Menevxene, kinduneuvomen o[nar peplouthkevnai. D Tiv mavlista… e[fh oJ Menevxeno~. Fobou`mai, h\n dΔ ejgwv, mh; w{sper ajnqrwvpoi~ ajlazovs in lovgoi~ tisi;n toiouvtoi~ ªyeudevs inº ejntetuchvkamen peri; tou` ILvlou. Pw`~ dhv… e[fh. »Wde, h\n dΔ ejgwv, skopw`men: ILvlo~ o}~ a]n ei[h, povterovn ejstivn tw/ ILvlo~ h] ou[… ΔAnavgkh, e[fh. Povteron ou\n oujdeno;~ e{neka kai; diΔ oujdevn, h] e{nekav tou kai; diav ti…

41 Platone introduce un interessante parallelo tra la cattiveria e l’ignoranza per poi definire «filosofo» chi «non è né buono né cattivo», anche se il termine non ha riferimenti con la «bontà» ma con la «sapienza» (σοφivα). Nel Simposio (204 B) il filosofo sarà definito come colui che sta in mezzo tra il sapiente e l’ignorante.

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pienza, ossia filosofi, quelli che non sono ancora né buoni né cattivi41. I cattivi non amano la sapienza, ma neppure i buoni. Infatti, nei discorsi che abbiamo fatto prima, ci è sembrato che il contrario non sia amico del contrario né il simile del simile. O non ve ne ricordate?». «E bene», dissero. «Ora dunque, Liside e Menesseno, abbiamo scoperto finalmente che cosa è l’amico e che cosa non è. Diciamo, infatti, che ciò che non è né buono né cattivo per quanto riguarda l’anima, il corpo e ogni altra cosa, in generale, C è amico del bene, a causa della presenza in esso di un male». Furono del tutto d’accordo, e convennero che era veramente così.

[Si è amici in vista del raggiungimento di un fine] Io stesso mi rallegravo molto, come un cacciatore che con soddisfazione tiene in pugno quello a cui dava la caccia. Ma poi, non so da quale parte, mi venne uno stranissimo sospetto che ciò che avevamo scoperto insieme non fosse vero e subito rattristato, dissi: «Ahimè, Liside e Menesseno, corriamo il rischio di esserci arricchiti solo di un sogno». «E perché mai?», domandò Menesseno. D «Temo, dissi io, che sull’amicizia ci siamo imbattuti in discorsi come quelli dei ciarlatani». «E come?», domandò. «Esaminiamo la cosa in questo modo, dissi: quando uno è amico, è amico di qualcuno o no?». «Necessariamente», disse. «E lo è, dissi, senza alcun motivo, o in vista di qualcosa e per un motivo?».

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LISIDE, 218 D - 219 B

”Enekav tou kai; diav ti. Povteron ILvlou o[nto~ ejkeivnou tou` pravgmato~, ou| e{neka ILvlo~ oJ ILvlo~ tw`/ ILvlw/, h] ou[te ILvlou ou[te ejcqrou`… E Ouj pavnu, e[fh, e{pomai. Eijkovtw~ ge, h\n dΔ ejgwv: ajllΔ w|de i[sw~ ajkolouqhvsei~, oi\ mai de; kai; ejgw; ma`llon ei[somai o{ti levgw. oJ kavmnwn, nundh; e[famen, tou` ijatrou` ILvlo~: oujc ou{tw~… Naiv. Oujkou`n dia; novson e{neka uJgieiva~ tou` ijatrou` ILvlo~… Naiv. ÔH dev ge novso~ kakovn… Pw`~ dΔ ou[… Tiv de; uJgiveia… h\n dΔ ejgwv: ajgaqo;n h] kako;n h] oujdevtera… 219A ΔAgaqovn, e[fh. ΔElevgomen dΔ a[ra, wJ~ e[oiken, o{ti to; sw`ma, ou[te ajgaqo;n ou[te kako;n ão[nÃ, dia; th;n novson, tou`to de; dia; to; kakovn, th`~ ijatrikh`~ ILvlon ejstivn, ajgaqo;n de; ijatrikhv: e{neka de; th`~ uJgieiva~ th;n ILlivan hJ ijatrikh; ajnhv/rhtai, hJ de; uJgiveia ajgaqovn. h\ gavr… Naiv. )Lvlon de; h] ouj ILvlon hJ uJgiveia… )Lvlon. ÔH de; novso~ ejcqrovn. Pavnu ge. B To; ou[te kako;n ou[te ajgaqo;n a[ra dia; to; kako;n kai; to; ejcqro;n tou` ajgaqou` ILvlon ejsti;n e{neka tou` ajgaqou` kai; ILvlou. Faivnetai. ”Eneka a[ra tou` ILvlou ãtou` ILvlouà to; ILvlon ILvlon dia; to; ejcqrovn. “Eoiken.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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«In vista di qualcosa e per un motivo» «E quella cosa in vista della quale l’amico è amico dell’amico, è amica o non è né amica né nemica?». E «Non riesco a seguirti», disse. «È naturale, dissi io, ma, forse, in quest’altro modo mi seguirai; e credo che anch’io riuscirò a vedere meglio quello che dico. Il malato, dicevamo, poco fa, è amico del medico; o non è così?». «È vero». «E non è forse amico del medico a causa della malattia, in vista della salute?». «Sì». «E la malattia è un male?». «Come no?». «E la salute? Domandai, è un bene o un male, o né l’uno né l’altro?». 219A «È un bene», disse. «Dicevamo dunque, a quanto pare, che il corpo che non è né buono né cattivo e che a causa della malattia, ossia a causa di un male è amico della medicina, e la medicina è un bene; ma la medicina ottiene l’amicizia in vista della salute, e anche la salute è un bene. O no?». «Sì». «La salute, è una cosa amica o nemica?». «È una cosa amica». «E la malattia è una cosa nemica?». «Certamente». «Dunque, ciò che non è né male né bene, a causa di ciò B che è male e nemico, è amico del bene in vista di ciò che è buono e amico». «Sembra». «Allora, l’amico è amico dell’amico in vista di ciò che è amico, a causa di ciò che è nemico». «Sembra».

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LISIDE, 219 B-D

Ei\en, h\n dΔ ejgwv. ejpeidh; ejntau`qa h{komen, w\ pai`de~, provsscwmen to;n nou`n mh; ejxapathqw`men. o{ti me;n ga;r ILvlon tou` ILvlou to; ILvlon gevgonen, ejw` caivrein, kai; tou` oJmoivou ge to; o{moion ILvlon givgnetai, o{ famen ajduvnaton ei\nai: ajllΔ o{mw~ tovde skeywvmeqa, mh; hJma`~ ejxapathvsh/ to; nu`n legovC menon. hJ ijatrikhv, famevn, e{neka th`~ uJgieiva~ ILvlon. Naiv. Oujkou`n kai; hJ uJgiveia ILvlon… Pavnu ge. Eij a[ra ILvlon, e{nekav tou. Naiv. )Lvlou gev tino~ dhv, ei[per ajkolouqhvsei th`/ provsqen oJmologiva/. Pavnu ge. Oujkou`n kai; ejkei`no ILvlon au\ e[stai e{neka ILvlou… Naiv. «ArΔ ou\n oujk ajnavgkh ajpeipei`n hJma`~ ou{tw~ ijovnta~ h] ajILkevsqai ejpiv tina ajrchvn, h} oujkevtΔ ejpanoivsei ejpΔ a[llo D ILvlon, ajllΔ h{xei ejpΔ ejkei`no o{ ejstin prw`ton ILvlon, ou| e{neka kai; ta; a[lla fame;n pavnta ILvla ei\nai… ΔAnavgkh. Tou`to dhv ejstin o} levgw, mh; hJma`~ ta\lla pavnta a} ei[pomen ejkeivnou e{neka ILvla ei\nai, w{sper ei[dwla a[tta o[nta aujtou`, ejxapata`/, h\/ dΔ ejkei`no to; prw`ton, o} wJ~ ajlhqw`~ ejsti ILvlon. ejnnohvswmen ga;r ouJtwsiv: o{tan tiv~ ti peri; pollou` poih`tai, oi|ovnper ejnivote path;r uJo;n ajnti; pavntwn tw`n a[llwn crhmavtwn protima`/, oJ dh; toiou`to~ e{neka tou` to;n

42

Cfr. Saggio intr., cap. II, § 7.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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[Tutte le cose sono amiche in vista di un «Primo Amico»] «Sia pure così; e poiché siamo ormai giunti a questo punto, ragazzi, facciamo attenzione a non cadere in un inganno. Lascio da parte che l’amico diventi amico dell’amico e il simile diventi amico del simile, e che abbiamo dimostrato che non è possibile. Esaminiamo, invece, questo, in modo che non ci tragga in inganno quello che ora si è detto. La medicina, abbiamo detto, è una cosa amica in C vista della salute». «Sì». «La salute, allora, è una cosa amica». «Certo». «E, se è cosa amica, lo è in vista di qualcosa». «Sì». «E in vista di qualcosa amica, per essere conseguenti rispetto a ciò che prima abbiamo ammesso». «Certamente». «E di conseguenza, anche questa cosa amica non dovrà forse essere amica in vista di un’altra cosa amica?». «Sì». «Allora, non è forse necessario che noi rinunciamo a procedere in questa maniera e che arriviamo a un principio che non rimandi più a un’altra cosa amica, ma giungerà a quello che è il Primo Amico42, in vista del quale D diciamo che sono amiche anche tutte le altre cose?». «È necessario». «È questo che intendo dire, che tutte le altre cose che abbiamo detto essere amiche in vista di esso, non ci ingannino come sue immagini, come se fossero quel Primo che è il vero Amico. Ebbene, riflettiamo su questo: quando qualcuno considera di grande valore qualcosa, per esempio il caso di un padre che ponga un figlio al di sopra di tutte le altre cose, un uomo come questo, in quanto

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LISIDE, 219 E - 220 B

uJo;n peri; panto;~ hJgei`sqai a\ra kai; a[llo ti a]n peri; pollou` poioi`to… oi|on eij aijsqavnoito aujto;n kwvneion pepwkovta, a\ra peri; pollou` poioi`tΔ a]n oi\non, ei[per tou`to hJgoi`to to;n uJo;n swvsein… Tiv mhvn… e[fh. Oujkou`n kai; to; ajggei`on, ejn w|/ oJ oi\no~ ejneivh… Pavnu ge. «ArΔ ou\n tovte oujde;n peri; pleivono~ poiei`tai, kuvlika keramevan h] to;n uJo;n to;n auJtou`, oujde; trei`~ kotuvla~ oi[nou h] to;n uJovn… h] w|dev pw~ e[cei: pa`sa hJ toiauvth spoudh; oujk ejpi; touvtoi~ ejsti;n ejspoudasmevnh, ejpi; toi`~ e{nekav tou paraskeuazomevnoi~, ajllΔ ejpΔ ejkeivnw/ ou| e{neka pavnta ta; 220A toiau`ta paraskeuavzetai. oujc o{ti pollavki~ levgomen wJ~ peri; pollou` poiouvmeqa crusivon kai; ajrguvrion: ajlla; mh; oujdevn ti ma`llon ou{tw tov ge ajlhqe;~ e[ch/, ajllΔ ejkei`nov ejstin o} peri; panto;~ poiouvmeqa, o} a]n fanh`/ o[n, o{tou e{neka kai; crusivon kai; pavnta ta; paraskeuazovmena paraskeuavzetai. a\rΔ ou{tw~ fhvsomen… Pavnu ge. Oujkou`n kai; peri; tou` ILvlou oJ aujto;~ lovgo~… o{sa gavr B famen ILYla ei\nai hJmi`n e{neka ILvlou tino;~ eJtevrou, rJhvmati fainovmeqa levgonte~ aujtov: ILvlon de; tw`/ o[nti kinduneuvei ejkei`no aujto; ei\nai, eij~ o} pa`sai au|tai aiJ legovmenai ILlivai teleutw`s in. Kinduneuvei ou{tw~, e[fh, e[cein. Oujkou`n tov ge tw`/ o[nti ILvlon ouj ILvlou tino;~ e{neka ILvlon ejstivn… ΔAlhqh`. E

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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considera il figlio al di sopra di tutto, non dovrà consi- E derare importanti anche altre cose? Per esempio, se si accorgesse che il figlio ha bevuto la cicuta, non terrebbe in grande considerazione il vino, pensando che esso potrebbe salvare il figlio?43». «E allora?», rispose. «E non farebbe questo anche con il recipiente in cui fosse contenuto il vino?». «Certo». «Allora, terrà in maggior conto una coppa d’argilla o due o tre cotile44 di vino rispetto a suo figlio? Non sarà piuttosto così: che tutto il suo interesse è rivolto non tanto agli oggetti che si è procurato a un certo scopo, quanto al fine per cui quelle cose sono state procurate? Capita 220A che noi spesso diciamo di tenere in gran conto l’oro e l’argento, però questo non è vero, perché quello che noi teniamo in conto più di ogni altra cosa è ciò che risulta essere lo scopo in vista del quale ci procuriamo l’oro e ogni altra cosa. «Certamente». «E lo stesso ragionamento non vale anche per l’amicizia? Infatti, tutte quelle cose che diciamo essere amiche in vista di qualche altra cosa amica, le chiamiamo così B solo a parole. Si dà il caso che il vero amico sia ciò a cui tendono tutte quelle che sono dette amicizie». «Si dà il caso che sia proprio così», disse. «Dunque ciò che è veramente amico, è amico non in vista di un’altra cosa amica». «È vero».

43

Il vino era considerato un antidoto della cicuta. Mescolando la cicuta al vino si poteva, in certi casi, ottenere un farmaco. 44 La cotila corrisponde, circa, a un quarto di litro.

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LISIDE, 220 B-E

Tou`to me;n dh; ajphvllaktai, mh; ILvlou tino;~ e{neka to; ILvlon ILvlon ei\nai: ajllΔ a\ra to; ajgaqovn ejstin ILvlon… “Emoige dokei`. C «ArΔ ou\n dia; to; kako;n to; ajgaqo;n ILlei`tai, kai; e[cei w|de: eij triw`n o[ntwn w|n nundh; ejlevgomen, ajgaqou` kai; kakou` kai; mhvte ajgaqou` mhvte kakou`, ta; duvo leifqeivh, to; de; kako;n ejkpodw;n ajpevlqoi kai; mhdeno;~ ejfavptoito mhvte swvmato~ mhvte yuch`~ mhvte tw`n a[llwn, a} dhv famen aujta; kaqΔ auJta; ou[te kaka; ei\nai ou[te ajgaqav, a\ra tovte oujde;n a]n hJmi`n crhvs imon ei[h to; ajgaqovn, ajllΔ a[crhston a]n gegono;~ ei[h… eij D ga;r mhde;n hJma`~ e[ti blavptoi, oujde;n a]n oujdemia`~ wjfeliva~ deoivmeqa, kai; ou{tw dh; a]n tovte gevnoito katavdhlon o{ti dia; to; kako;n tajgaqo;n hjgapw`men kai; ejILlou`men, wJ~ favrmakon o]n tou` kakou` to; ajgaqovn, to; de; kako;n novshma: noshvmato~ de; mh; o[nto~ oujde;n dei` farmavkou. a\rΔ ou{tw pevfukev te kai; ILlei`tai tajgaqo;n dia; to; kako;n uJfΔ hJmw`n, tw`n metaxu; o[ntwn tou` kakou` te kai; tajgaqou`, aujto; dΔ eJautou` e{neka oujdemivan creivan e[cei… “Eoiken, h\ dΔ o~, ou{tw~ e[cein. To; a[ra ILvlon hJmi`n ejkei`no, eij~ o} ejteleuvta pavnta ta; a[lla E < e{neka eJtevrou ILvlou ILvla e[famen ei\nai ejkei`na < oujde;n ªde;º touvtoi~ e[oiken. tau`ta me;n ga;r ILvlou e{neka ILvla kevklhtai, to; de; tw`/ o[nti ILvlon pa`n toujnantivon touvtou faivnetai pefukov~: ILvlon ga;r hJmi`n ajnefavnh o]n ejcqrou` e{neka, eij de; to; ejcqro;n ajpevlqoi, oujkevti, wJ~ e[oikΔ, e[sqΔ hJmi`n ILvlon. Ou[ moi dokei`, e[fh, w{“ ge nu`n levgetai.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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[Se non ci fosse il male come nemico, non ci sarebbe neppure l’amicizia] «Di questo, dunque, ci siamo liberati, ossia che l’amico non è amico in vista di un altro amico; ma allora, amico è forse il bene?». «Mi sembra». «Il bene, allora, è forse amato a causa del male, e la C cosa sta in questi termini, ossia se dei tre generi di realtà di cui abbiamo parlato poco fa, il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo, ne restassero due e il male fosse tolto di mezzo e non si congiungesse a nulla, né al corpo né all’anima, né ad altre cose che abbiamo detto non essere di per sé né cattive né buone, il bene non ci sarebbe di nessuna utilità, ma risulterebbe inutile? Se, infatti, non ci fosse nulla che ci recasse danno, noi non avremmo più bisogno di alcun aiuto, e così sarebbe evi- D dente che eravamo amici e amavamo il bene a causa del male, in quanto il bene è un farmaco per il male, e il male è una malattia; ma, se non c’è malattia, non c’è nessun bisogno di un farmaco. Allora, il bene ha una tale natura, ed è amato a causa del male da noi che siamo realtà intermedia tra il bene ed il male; ma, in sé e per sé, non ha nessuna utilità?». «Così pare», disse. «Allora, quello che per noi è Amico, a cui tendono tutte le altre cose che noi dicevamo essere amiche in vi- E sta di un altro amico, non assomiglia affatto a esse. Queste, infatti, sono dette amiche in vista di un altro amico, mentre il vero amico è per natura del tutto contrario. Infatti, ci è risultato essere amico a causa di un nemico, ma, se il nemico si allontana, a quanto pare, non ci è più amico». «Mi pare di no, almeno per ciò che si dice ora».

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LISIDE, 220 E - 221 C

Povteron, h\n dΔ ejgwv, pro;~ Diov~, eja;n to; kako;n ajpovlhtai, oujde; peinh`n e[ti e[stai oujde; diyh`n oujde; a[llo oujde;n tw`n toiouvtwn… h] peivnh me;n e[stai, ejavnper a[nqrwpoiv te kai; ta\ lla zw`/a h\/, ouj mevntoi blaberav ge… kai; divya dh; kai; aiJ a[llai ejpiqumivai, ajllΔ ouj kakaiv, a{te tou` kakou` ajpolwlovto~… h] geloi`on to; ejrwvthma, o{ti potΔ e[stai tovte h] mh; e[stai… tiv~ ga;r oi\den… ajllΔ ou\n tovde gΔ i[smen, o{ti kai; nu`n e[stin peinw`nta blavptesqai, e[stin de; kai; wjfelei`sqai. h\ gavr… Pavnu ge. B Oujkou`n kai; diyw`nta kai; tw`n a[llwn tw`n toiouvtwn pavntwn ejpiqumou`nta e[stin ejnivote me;n wjfelivmw~ ejpiqumei`n, ejnivote de; blaberw`~, ejnivote de; mhdevtera… Sfovdra ge. Oujkou`n eja;n ajpolluvhtai ta; kakav, a{ ge mh; tugcavnei o[nta kakav, tiv proshvkei toi`~ kakoi`~ sunapovllusqai… Oujdevn. “Esontai a[ra aiJ mhvte ajgaqai; mhvte kakai; ejpiqumivai kai; eja;n ajpovlhtai ta; kakav. Faivnetai. Oi|ovn te ou\n ejstin ejpiqumou`nta kai; ejrw`nta touvtou ou| ejpiqumei` kai; ejra`/ mh; ILlei`n… Oujk e[moige dokei`. C “Estai a[ra kai; tw`n kakw`n ajpolomevnwn, wJ~ e[oiken, ILvlΔ a[tta. Naiv. Oujk a[n, ei[ ge to; kako;n ai[tion h\n tou` ILvlon ti ei\nai, oujk a]n h\n touvtou ajpolomevnou ILvlon e{teron eJtevrw/. aijtiva~ ga;r ajpolomevnh~ ajduvnatovn pou h\n e[tΔ ejkei`no ei\nai, ou| h\n au{th hJ aijtiva. ΔOrqw`~ levgei~. Oujkou`n wJmolovghtai hJmi`n to; ILvlon ILlei`n ti kai; diav ti:

221A

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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«Per Zeus, dissi, se scomparirà il male, non ci saranno più né fame né sete e nessun’altra cosa come queste? Op- 221A pure ci sarà la fame, se continueranno a esserci uomini e altri viventi, ma non sarà dannosa? E così ci saranno sete e altri desideri, ma non saranno cattivi, una volta che non ci sia più il male? O è ridicola la domanda che cosa ci sarà o non ci sarà? E chi, infatti, lo sa? Per ora, sappiamo questo, che il soffrire la fame è dannoso, ma talvolta anche vantaggioso. O no?». «Certo». «Allora, sia chi ha sete sia chi prova tutti gli altri desi- B deri come questi, alcune volte ha desideri utili, altre volte dannosi, altre volte né utili né dannosi». «Certamente». «Dunque, se i mali venissero meno, perché mai dovrebbero venir meno con essi quelle cose che non sono mali?». «Non c’è alcun motivo». «Quei desideri che non sono né buoni né cattivi continueranno a esserci, anche se i mali verranno meno». «Sembra». «E allora è possibile che chi desidera e ama, non sia amico di ciò che desidera e ama?». «Non credo». «Allora, continueranno ad esserci alcune cose ami- C che, come sembra, anche se i mali verranno meno». «Sì». «Ma se fosse proprio il male la causa del sorgere dell’amicizia, una volta che questo sia venuto meno, nessuna cosa potrebbe essere amica di un’altra. Infatti, venuta meno la causa, sarebbe impossibile che continuasse a esserci quello di cui questo era causa». «Dici bene». «Noi avevamo concordato che l’amico è amico di qualche cosa a causa di qualcos’altro, e non pensavamo

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LISIDE, 221 C-E

kai; wj/hvqhmen tovte ge dia; to; kako;n to; mhvte ajgaqo;n mhvte kako;n to; ajgaqo;n ILlei`n… ΔAlhqh`. D Nu`n dev ge, wJ~ e[oike, faivnetai a[llh ti~ aijtiva tou` ILlei`n te kai; ILlei`sqai. “Eoiken. «ArΔ ou\n tw`/ o[nti, w{sper a[rti ejlevgomen, hJ ejpiqumiva th`~ ILliva~ aijtiva, kai; to; ejpiqumou`n ILvlon ejsti;n touvtw/ ou| ejpiqumei` kai; tovte o{tan ejpiqumh`/, o} de; to; provteron ejlevgomen ILvlon ei\nai, u{qlo~ ti~ h\n, w{sper poivhma makro;n sugkeivmenon… Kinduneuvei, e[fh. ΔAlla; mevntoi, h\n dΔ ejgwv, tov ge ejpiqumou`n, ou| a]n ejndee;~ h\/, E touvtou ejpiqumei`. h\ gavr… Naiv. To; dΔ ejndee;~ a[ra ILvlon ejkeivnou ou| a]n ejndee;~ h\/… Dokei` moi. ΔEndee;~ de; givgnetai ou| a[n ti ajfairh`tai. Pw`~ dΔ ou[… Tou` oijkeivou dhv, wJ~ e[oiken, o{ te e[rw~ kai; hJ ILliva kai; hJ ejpiqumiva tugcavnei ou\sa, wJ~ faivnetai, w\ Menevxenev te kai; Luvs i.

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

181

che ciò che non è né buono né cattivo amasse il bene a causa del male?». «Vero». «Invece ora, pare che sia diversa la causa dell’amare e D dell’essere amato». «Pare».

[Causa dell’amicizia è il desiderio] «Allora dunque, in realtà, come stavamo dicendo poco fa, il desiderio è la causa dell’amicizia, e chi desidera è amico di ciò che desidera e nel momento in cui lo desidera, mentre quello che prima dicevamo sull’amicizia era una sorta di chiacchiera, simile alla composizione di un lungo poema». «Forse sì», disse. «Tuttavia, dissi, ciò che prova un desiderio, prova desiderio per qualcosa di cui è mancante? O no?». E «Sicuro». «E ciò che è mancante, è amico di ciò di cui è mancante?». «Mi pare». «Si è mancanti di qualcosa di cui si è privi?». «Come no?».

[L’amicizia è desiderio di ciò che è affine] «A quanto sembra, si dà il caso che l’amore, l’amicizia e il desiderio siano sempre di ciò che ci è affine45, Liside e Menesseno». 45

Cfr. Saggio intr., cap. II, § 9.

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LISIDE, 221 E - 222 C

Sunefavthn. ÔUmei`~ a[ra eij ILvloi ejsto;n ajllhvloi~, fuvsei ph/ oijkei`oiv ejsqΔ uJmi`n aujtoi`~. Komidh`/, ejfavthn. Kai; eij a[ra ti~ e{tero~ eJtevrou ejpiqumei`, h\n dΔ ejgwv, w\ 222A pai`de~, h] ejra`/, oujk a[n pote ejpequvmei oujde; h[ra oujde; ejILvlei, eij mh; oijkei`ov~ ph/ tw`/ ejrwmevnw/ ejtuvgcanen w]n h] kata; th;n yuch;n h] katav ti th`~ yuch`~ h\qo~ h] trovpou~ h] ei\do~. Pavnu ge, e[fh oJ Menevxeno~: oJ de; Luvs i~ ejs ivghsen. Ei\en, h\n dΔ ejgwv. to; me;n dh; fuvsei oijkei`on ajnagkai`on hJmi`n pevfantai ILlei`n. “Eoiken, e[fh. ΔAnagkai`on a[ra tw`/ gnhsivw/ ejrasth`/ kai; mh; prospoihvtw/ ILlei`sqai uJpo; tw`n paidikw`n. B ÔO me;n ou\n Luvs i~ kai; oJ Menevxeno~ movgi~ pw~ ejpeneusavthn, oJ de; ÔIppoqavlh~ uJpo; th`~ hJdonh`~ pantodapa; hjILvei crwvmata. Kai; ejgw; ei\pon, boulovmeno~ to;n lovgon ejpiskevyasqai, Eij mevn ti to; oijkei`on tou` oJmoivou diafevrei, levgoimen a[n ti, wJ~ ejmoi; dokei`, w\ Luvs i te kai; Menevxene, peri; ILvlou, o} e[stin: eij de; taujto;n tugcavnei o]n o{moiovn te kai; oijkei`on, ouj rJav/dion ajpobalei`n to;n provsqen lovgon, wJ~ ouj to; o{moion tw`/ oJmoivw/ kata; th;n oJmoiovthta a[crhston: to; de; a[crhston ILvlon C oJmologei`n plhmmelev~. bouvlesqΔ ou\n, h\n dΔ ejgwv, ejpeidh; w{sper mequvomen uJpo; tou` lovgou, sugcwrhvswmen kai; fw`men e{terovn ti ei\nai to; oijkei`on tou` oJmoivou…

II. IL SIMILE, IL PRIMO AMICO E IL DESIDERIO DI CIÒ CHE È AFFINE

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Tutti e due acconsentirono. «Dunque, se voi siete amici l’uno dell’altro, è perché per natura siete fra voi affini». «Proprio così», dissero. «E, se qualcuno, dissi, desidera un altro, ragazzi, o lo ama, non potrebbe desiderarlo né amarlo né essergli 222A amico, se non si desse il caso che fosse in qualche modo affine all’amato, nell’anima, o in qualche carattere dell’anima o nei modi o nell’aspetto». «Certamente», disse Menesseno, Liside invece tacque. «E sia, dissi io. Ci è parso chiaro, dunque, che si è amici di ciò che, per natura, ci è affine». «Sembra», disse. «Allora è necessario che l’amante genuino e non fittizio sia ricambiato dall’amato». Liside e Menesseno manifestarono un lieve assenso, mentre Ippotale, per la gioia, divenne di tutti i colori.

[Ciò che è affine coincide con ciò che è simile?] Allora io, volendo riesaminare il discorso, dissi: «Se ciò B che è affine differisce in qualche cosa da ciò che è simile, allora, a quanto pare, Liside e Menesseno, potremmo veramente dire che cos’è l’amicizia; ma, se si dà invece il caso che simile e affine siano la medesima cosa, non è facile eliminare il discorso che abbiamo fatto prima, ossia che il simile è inutile nei confronti del simile a motivo della sua somiglianza. D’altra parte, è assurdo ammettere che ciò che è inutile sia amico. Allora, non C volete che noi ammettiamo e diciamo, ebbri come siamo di discorsi, che ciò che è affine è qualcosa di diverso da ciò che è simile?».

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LISIDE, 222 C-E

Pavnu ge. Povteron ou\n kai; tajgaqo;n oijkei`on qhvsomen pantiv, to; de; kako;n ajllovtrion ei\nai… h] to; me;n kako;n tw`/ kakw`/ oijkei`on, tw`/ de; ajgaqw`/ to; ajgaqovn, tw`/ de; mhvte ajgaqw`/ mhvte kakw`/ to; mhvte ajgaqo;n mhvte kakovn… D Ou{tw~ ejfavthn dokei`n sILvs in e{kaston eJkavstw/ oijkei`on ei\nai. Pavlin a[ra, h\n dΔ ejgwv, w\ pai`de~, ou}~ to; prw`ton lovgou~ ajpebalovmeqa peri; ILliva~, eij~ touvtou~ eijspeptwvkamen: oJ ga;r a[diko~ tw`/ ajdivkw/ kai; oJ kako;~ tw`/ kakw`/ oujde;n h|tton ILvlo~ e[stai h] oJ ajgaqo;~ tw`/ ajgaqw`/. “Eoiken, e[fh. Tiv dev… to; ajgaqo;n kai; to; oijkei`on a]n taujto;n fw`men ei\nai, a[llo ti h] oJ ajgaqo;~ tw`/ ajgaqw`/ movnon ILvlo~… Pavnu ge. ΔAlla; mh;n kai; tou`tov ge wj/ovmeqa ejxelevgxai hJma`~ aujtouv~: h] ouj mevmnhsqe… Memnhvmeqa. E Tiv ou\n a]n e[ti crhsaivmeqa tw`/ lovgw/… h] dh`lon o{ti oujdevn… devomai ou\n, w{sper oiJ sofoi; ejn toi`~ dikasthrivoi~, ta; eijrhmevna a{panta ajnapempavsasqai. eij ga;r mhvte oiJ ILlouvmenoi mhvte oiJ ILlou`nte~ mhvte oiJ o{moioi mhvte oiJ ajnovmoioi mhvte oiJ ajgaqoi; mhvte oiJ oijkei`oi mhvte ta; a[lla o{sa dielhluvqamen