Frammenti (testo greco a fronte) 9788886314566

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Frammenti (testo greco a fronte)
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PINDARO

FRAMMENTI a cura di Roberta Sevieri testo greco a fronte

Pindaro trattò tutte le forme della lirica corale: inni, pèani, ditirambi, encomi, tre­ ni, epinici. Dei suoi scritti sono rimasti solo i quattro libri degli Epinici, cioè 45 Odi, nonché 350 frammenti, particolarmente impor­ tanti perché ci fanno conoscere qualcosa della poesia di Pindaro non trasmessa dal­ la tradizione alessandrina. Il poeta si richiama a Esiodo e al ciclo epi­ co, ma rielabora i miti eliminandone le componenti più "laiche» e fornendone una versione quasi nobilitata e, dal punto di vista strutturale, scorciata e asimmetrica: il tutto in un linguaggio elevato e denso di traslati, che mescola vari dialetti e rece­ pisce numerosi elementi omerici.

In copertina: Duride, Atena ristora Eracle stan­ (coppa attica, V sec. a.C.).

co

Di nobile famiglia, Pindaro visse tra il VI e il V sec. a.C. (Cinocefale, Tebe, 518 Argo 438).

-

PINDARO

FRAMMENTI a cura di Roberta Sevieri

testo greco

a

fronte

Prima edizione: febbraio 1999 Seconda edizione: febbraio 20 l O Proprietà letteraria riservata

© 20 l O La Vita Felice - Milano

Titoli originali dell'opera:

YMNOI, TIAIANEI:, ài8YPAMBOI, TIPOl:OliiA, TIAP8ENEIA, KEXClPIEMENA TnN nAPeENEmN, YnoPXHMATA, ErKnMIA, 9PHNOI

ISBN 978-88-86314-56-6 www. lavitafelice.it [email protected]

INTRODUZIONE

Strano destino, quello di Pindaro: celebrato fin dall'antichità come principe indiscusso dei poeti lirici, al primo posto nel canone d'eccellenza compilato dagli alessandrini, l'unico del quale una parte almeno dell'opera sia stata tramandata inin­ terrottamente per via diretta (completa anche di annotazio­ ni marginali di commento), ha peraltro subito guadagnato una fama di oscurità che lo accompagna tuttora, collocando­ lo stabilmente in quella categoria di classici troppo grandi per essere ignorati, ma troppo difficili per essere letti e apprezza­ ti. La sua poesia è stata ed è considerata la quintessenza del­ la complessità, I' esempio perfetto di una parola che vive più di un suono magniloquente che di un contenuto comprensi­ bile, di una solennità un po' vuota e comunque lontana, re­ litto di un'epoca remota e in fondo ormai interessante solo per quei pochi specialisti che vi si dedicano con una passione tan­ to più esclusiva quanto meno apparentemente giustificabile. Un caso disperato dunque? Forse meno di quanto sembri. Ciò che è davvero strano è piuttosto il fatto che tale pessi­ ma reputazione debba accompagnare anche oggi un poeta che più e meglio di molti altri potrebbe invece offrire spunti di interesse per una società come quella contemporanea, im­ mersa in una cultura dominata dalla competitività, dalla ri­ cerca quasi ossessiva del successo e del primato in ogni cam­ po, e dall'espansione inarrestabile dei sistemi di comunica7

zione e di propaganda: tutti ambiti nei quali il principe dei poe­ ti lirici si dimostra, a una lettura attenta e non prevenuta, maestro difficilmente superabile. La parte meglio conservata della produzione di Pindaro è costituita da epinici, ossia odi destinate a celebrare vittorie atletiche nei grandi giochi pa­ nellenici che si tenevano periodicamente a Olimpia, a Oelfi, all'Istmo e a Nemea: che proprio in una società come la no­ stra, in cui personaggi e vittorie sportive godono di una po­ polarità e di un'importanza, sia economica che politica, dif­ ficilmente immaginabile per chi non la viva quotidianamen­ te, Pindaro possa apparire come un poeta bizzarro e oscuro, sembra una vera contraddizione in termini, spiegabile più con il pigro perpetuarsi di schemi preconcetti che con un'ef­ fettiva riflessione sulla sua poesia. Né pare meno ingiustificata la taccia di oscurità e incon­ gruità che normalmente gli viene attribuita, da parte di una cultura che ha ormai da tempo abituato i suoi lettori a una poe­ sia nella quale i nessi logici risultano non certo eliminati ma per lo più sottintesi, lasciati all'opera di integrazione di frui­ tori la cui competenza enciclopedica è parte integrante della poesia stessa, bagaglio necessario per un percorso che autore e pubblico compiono insieme. Forse, fra tutti, il termine "let­ tori" è il solo a poter segnare un vero discrimine fra l'epoca e la poesia di Pindaro e quella attuale: ma se pure è vero che la dimensione orale della cultura greca fino a tutto il V sec. a.C. appare a noi, abituati al supporto della scrittura come alla forma naturale di conservazione e diffusione della produzio­ ne letteraria, segno di insormontabile alterità, è altrettanto innegabile che nuove forme di oralità (o quanto meno di au­ ralità) stanno in vari settori prendendo il sopravvento sul to­ tale dominio della parola scritta che pareva prima stabilmen8

te acquisito, tanto da poter se non altro instillare il dubbio che anche questo debba veramente rappresentare un ostacolo non superabile. Ciò che davvero appare perduto senza rimedio è il concreto svolgimento della rappresentazione nella quale questa poesia trovava la propria ragione d'essere: la compe­ netrazione di musica, canto e danza in uno spettacolo corale di cui il pubblico non era fruitore passivo ma attore parteci­ pe, o direttamente, o per la mediazione della comune appar­ tenenza a un tessuto sociale compatto e quotidianamente vis­ suto come tale. Ma se la fisionomia precisa di questi elemen­ ti appare inevitabilmente sfuocata, la funzione che essi dove­ vano svolgere è invece chiara e per nulla lontana dall' espe­ rienza della società contemporanea, altrettanto intensamen­ te dedita alla diffusione di informazione e alla creazione di consenso, per mezzo di strumenti retorici che il tempo non ha sostanzialmente mutato né reso sensibilmente più raffinati. Le dinamiche di questa, che si potrebbe definire una vera e pro­

pria comunicazione di massa, sono state negli ultimi decen­ ni attentamente studiate e molti aspetti che in passato aveva­ no suscitato perplessità sono ormai chiariti, anche se altri, com'è naturale, rimangono ancora fonte di discussione. De­ finitivamente assodato, e mai troppo ribadito, è per esempio il carattere fortemente pragmatico della produzione poetica in epoca arcaica, tardo-arcaica e classica, in cui compito del­ l'autore non è comporre versi che gli consentano di esprime­ re individuali moti dell'animo, ma rispondere alle esigenze pratiche della società alla quale appartiene, fornendo i canti destinati a essere eseguiti nelle diverse occasioni, sia pubbli­ che che private, sia religiose che profane (per quanto questi aspetti possano essere effettivamente scindibili in quest'epo9

ca), che scandiscono la vita dei singoli e della comunità: fe­ ste per le vittorie atletiche per esempio, nelle quali la famiglia e gli amici del vincitore dimostrano alla città intera di saper condividere con la collettività la gloria che un individuo ha conquistato, oppure celebrazioni sacre, in onore della divi­ nità alla quale tutti concordemente rivolgono preghiere per la pace e il benessere dello Stato, o ancora matrimoni, funerali, cerimonie iniziatiche in cui le giovani generazioni mostrano di aver compiuto la preparazione alla vita adulta che li atten­ de e per la quale sono ormai pronti. Queste e altre ancora so­ no le occasioni per le quali il poeta viene incaricato di com­ porre i suoi canti, scegliendo dal vasto repertorio del sapere tradizionale (quello di cui la Musa, garante suprema della va­ lidità di ciò che egli può offrire al suo pubblico, gli ispira co­ noscenza) quanto si adatta meglio alle esigenze del momen­ to: contenuti e forme di questa comunicazione sono dunque in larga misura prefissati, o almeno come tali debbono esse­ re presentati all'uditorio, poiché solo ciò che può essere rico­ nosciuto come rispondente ai canoni della tradizione verrà accettato e apprezzato. Ciò non significa che al poeta sia pre­ cluso qualunque intervento creativo: al contrario, la sua su­ prema abilità consiste nel saper ogni volta reinventare quello che il pubblico già sa, offrendogli un canto in cui la tradizio­ ne, che racchiude in sé l'identità collettiva del gruppo, sia re­ sa ogni volta nuova e viva, adatta al mutare dei tempi e delle circostanze. Per questo motivo la dote essenziale del canto è la sua mo­ bilità, la sua capacità di diffondersi e durare nel tempo, en­ trando a far parte a sua volta di quel repertorio dal quale il suo autore ne ha tratto, per così dire, gli elementi costitutivi, e dare vita in questo modo a un nuovo tassello di quel complesso IO

sistema culturale, da tutti condiviso, che rappresenta il retro­ terra comune al poeta e al suo uditorio. Alla mobilità del can­ to corrisponde una spiccata flessibilità delle strutture comu­ nicative, e in particolare dell'articolazione delle voci recitan­ ti, che tanto ha dato da fare alla critica, dedita al frustrante ten­ tativo di fissare in modo definitivo l'identità dell'io parlante, finché non ci si è decisi a riconoscere che la difficoltà è insi­ ta nella natura stessa della comunicazione poetica e funzionale all'esigenza di dare voce non a un singolo personaggio in un momento preciso e irripetibile della storia, ma a quel perso­ naggio in quel momento e a tutti coloro che, in momenti e luoghi differenti, di quello stesso canto si vorranno appro­ priare. Il compito del poeta si presenta quindi essenzialmente co­ me un lavoro di attenta mediazione: fra le esigenze dell' oc­ casione, le aspettative del pubblico e le richieste del com­ mittente in primo luogo, nonché fra la necessità di fornire al­ l'uditorio primario un canto specifico e l'intento di consen­ tire a quello stesso canto di vivere più a lungo della realtà contingente alla quale è destinato, diventando oggetto di riu­ so e acquistando così davvero quell'immortalità che pro­ grammaticamente rientra fra le sue prerogative e i suoi sco­ pi. Per svolgere in modo soddisfacente questo compito, il poeta ha bisogno della collaborazione del suo pubblico, chia­ mato a contribuire in larga misura al processo comunicativo: ciò che l'autore propone all'uditorio non è un oggetto stati­ co e fissato una volta per sempre, ma un tessuto mobile e cangiante di riferimenti incrociati, un cammino aperto in cui di volta in volta il poeta suggerisce agli ascoltatori gli spunti per proseguire o per integrare ciò che egli preferisce sottin­ tendere, attingendo da quell'inesauribile serbatoio che è la Il

memoria collettiva della società, sollecitando il pubblico a scegliere la via da seguire, in un gioco di reciproco condizio­ namento per cui il poeta stesso crea delle aspettative che può poi liberamente disattendere, ma senza mai prescindere da ciò che l'uditorio è effettivamente disposto ad accettare. L esistenza di questo terreno comune, costituito dal patri­ monio mitologico tradizionale e dall'insieme delle conven­ zioni tematiche e formali che definiscono i canoni della co­ municazione poetica, consente alla lirica greca, e a quella di Pindaro in particolare, di raggiungere un grado elevatissimo di densità espressiva, concentrando in pochi versi uno svi­ luppo narrativo o concettuale che gli uditori erano chiamati a completare in base alle proprie competenze: i famigerati "voli pindarici" non sono che l'effetto delle nostre carenze co­ me fruitori, separati da secoli di storia da quella che per il poeta e i suoi ascoltatori era realtà quotidiana e immediata­ mente comprensibile. In questo senso non bisogna lasciarsi ingannare dalle ripe­ tute affermazioni con cui Pindaro destina esplicitamente i suoi canti a un pubblico di intenditori: ((coloro che sanno)) (O­ limpica Il, v. 8 5) non sono altro che il pubblico stesso, del quale il poeta intende rinsaldare il senso di appartenenza a un gruppo omogeneo mediante l'artificio retorico della con­ trapposizione con l'altro, con tutto ciò che è estraneo e per­ ciò stesso oscuro e ostile. Analogamente, le proteste di ingenuità con cui Pindaro più volte proclama di aver sbagliato strada, o di non voler proseguire un discorso intrapreso, per timore di tediare il pub­ blico (per esempio, con l'enumerazione delle vittorie dell'a­ tleta lodato), o di offendere la suscettibilità divina (narrando magari un episodio poco lusinghiero della carriera di un eroe 12

o di un dio), non dovrebbero essere prese alla lettera, come spes­ so è stato fatto, ma essere considerate per ciò che sono: stru­ menti retorici destinati a consentire un agevole passaggio fra le varie sezioni del canto, sottolineando nello stesso tempo l'eccellenza del vincitore o lo straordinario potere del dio e, sem­ pre e soprattutto, l'abilità del poeta, che fra queste diverse e spesso contrastanti esigenze sa mantenere la «via diritta» (Pi ­ tica Xl, v. 39), quella che meglio può condurre alla meta, sia essa la celebrazione di un essere umano o la glorificazione del­ la potenza divina. Nel far questo il poeta, da retore consu­ mato qual è, non si limita a presentare al pubblico il prodot­ to finito, già confezionato e pronto per il consumo, ma lo coinvolge attivamente nel processo di genesi, mostrando il canto come una realtà in fieri, all'interno della quale ogni scelta è ancora teoricamente possibile- e tale sarà ogni volta che il canto verrà eseguito, perché il punto di riferimento che Pindaro ha scelto per situare cronologicamente la propria composizione è quell'istante immediatamente precedente l'i­ nizio della rappresentazione, quando tutto sta per comincia­ re e nulla è ancora accaduto. Rispetto a questo momento, che costituisce il presente relativo di quel microcosmo che è il canto, si definiscono quindi un passato immediato (il mo­ mento in cui il coro, o comunque l'io poetico, dichiara di es­ sere giunto sul luogo della rappresentazione: gli innumere­ voli viaggi che sulla base di queste affermazioni sono stati at­ tribuiti a Pindaro debbono in larga misura essere relegati nel mondo delle chimere) e un futuro prossimo (quello appun­ to in cui il canto prenderà forma, diventando realtà): ciò che è frutto di un'attenta composizione e di una paziente prepa­ razione viene quindi presentato come prodotto dell'improv­ visazione, pronto a mutare direzione per assecondare le ri13

chieste dell'uditorio- proprio quelle che esso stesso ha accu­ ratamente sollecitato. Può sembrare strano, a questo punto, che un pubblico, ef­ fettivamente non composto solo da intenditori, né dotato della possibilità, che caratterizza l'approccio alla cultura scrit­ ta, di ripercorrere il testo a piacimento, fosse in grado di non smarrire la strada come il suo poeta a volte proclamava; ma, a parte l'essenziale funzione orientativa svolta in questo sen­ so dalla consuetudine con le convenzioni espressive, è il can­ to stesso a indicare ai suoi fruitori il cammino da seguire, preannunciando e commentando ogni mossa e ogni svolta della propria strategia retorica. Il canto dice ciò che fa e fa ciò che dice: la parola crea la realtà con il medesimo atto enun­ ciativo con cui viene essa stessa a esistere. In questo senso dunque poeta e pubblico sono complici e collaboratori, in u­ na sorta di performance interattiva (e multimediale, visto che coinvolgeva musica, canto e danza) capace di assorbire la realtà dell'occasione e trasformarla in qualcosa di più duraturo del tempo, di portarla a sfiorare (questo è il limite massimo con­ cesso all'uomo) l'immortalità. In questo quadro manca ancora però un aspetto fondamen­ tale, che troppo spesso gli studiosi moderni sono indotti a trascurare, sviati in parte, anche questa volta, dalle stesse pa­ role del poeta: la componente Iudica di tutta questa com­ plessa cooperazione compositiva e interpretativa fra autore e pubblico, ossia la sua essenziale funzione di intrattenimento. Le occasioni per le quali il poeta componeva erano in massi­ ma parte religiose o comunque avevano, sia quelle propria­ mente pubbliche che quelle legate ad avvenimenti privati, u­ na forte componente sacrale, alla quale faceva da corrispetti14

vo la funzione di conservazione e trasmissione del patrimonio culturale della società, che al canto parimenti era affidata. Di questo ruolo pubblico, e dell'investitura divina che la sua po­ sizione di portavoce della Musa comporta, Pindaro non si scorda mai, né consente che se ne scordi il pubblico: l'insistenza sulla propria eccellenza e sulla centralità della poesia come mezzo di integrazione fra individuo e comunità e come stru­ mento di comunicazione fra uomini e dèi è uno dei tratti ri­ correnti e più caratteristici di Pindaro, le cui argomentazioni in proposito sono risultate evidentemente tanto convincenti da indurre la critica moderna ad assolutizzarle, creando quel­ l'immagine del poeta-vate, solenne e un po' paludato, che ha finito per relegarlo nell'affollato Olimpo della poesia subli­ me e noiosa, quella che nessuno legge. Ma la destinazione re­ ligiosa e l'impronta sacrale della lirica arcaica non erano ne­ cessariamente disgiunte da una componente Iudica, destina­ ta a compiacere in primo luogo il dio stesso, che doveva es­ sere allettato a partecipare alla festa in corso dalla sua piace­ volezza, e quindi il pubblico, la cui soddisfazione rappresen­ tava all'atto pratico il criterio di valutazione dell'efficacia del­ la poesia e quindi dell'eccellenza del poeta. Non per nulla Pindaro afferma costantemente di temere il disgusto suscita­ to nell'uditorio dall'eccesso, e di dover quindi variare fre­ quentemente argomento e modalità di presentazione della materia prescelta: la capacità di condensare il molto in breve, nel rispetto delle esigenze di tempo e comprensibilità proprie della fruizione orale, di trovare ogni volta un approccio ori­ ginale che consenta di vedere da una prospettiva nuova ciò che rutti sanno, di variare la scelta di temi e personaggi pur restando all'interno di un repertorio tradizionale, sono rutti aspetti del­ la preoccupazione del poeta di fornire all'uditorio un'espe15

rienza piacevole, un canto che lo diverta e che, accanto alla spe­ cifica funzione religiosa, pubblica o anche privata che sia, svolga anche l'essenziale compito di intrattenimento conna­ turato alla festa. Che nel far questo il poeta sia portato a celebrare se stesso e la propria professionalità non deve stupire: il compito che gli è stato affidato è importante e complesso, e il commit­ tente, sia esso il privato cittadino che gli ha richiesto l'epini­ cio, l'encomio o il compianto funebre, oppure la città che lo ha incaricato di comporre un peana o un ditirambo per una pubblica celebrazione, debbono essere rassicurati di avere fat­ to una buona scelta e - fattore non trascurabile - di avere speso bene il proprio denaro. La professionalità del poeta ha infatti un prezzo, e un prezzo a quanto pare molto elevato, se­ condo ciò che riferiscono fonti antiche: fra poeta e commit­ tente si produce una vera e propria transazione commercia­ le, che normalmente viene proposta al pubblico nelle forme eufemistiche di un rapporto di ospitalità e di amicizia, rego­ lato dal principio di equo contraccambio che presiede al co­ dice morale della società aristocratica, alla quale prevalente­ mente appartengono i datori di lavoro di Pindaro. I.:io poe­ tico si presenta come ospite del committente, del quale loda la splendida generosità, assumendo in questo modo un'iden­ tità che lo porta ad assimilarsi al pubblico, ossia alla comunità intera che di quella festa che la generosità del committente ha appunto finanziato è effettivamente ospite: il problema è, in sostanza, quello di legittimare la propria posizione come in­ termediario fra individuo e società, in questo caso, o come portavoce della società intera, nel caso di canti commissio­ nati da comunità cittadine, come i peani e i ditirambi. Qui l'io poetico può identificarsi direttamente con la collettività 16

e parlare a suo nome, oppure presentarsi come suo incarica­ to nel delicato dialogo con la divinità; qualunque sia la stra­ da che il poeta presceglie, suo compito rimane quello di of­ frire al pubblico un canto che, mentre ripercorre gli eventi storici o mitici e riafferma i valori culturali e sociali che defi­ niscono la fisionomia specifica della comunità, rappresenti anche un'occasione di divertimento e di festa- quel diverti­ mento che anche i lettori moderni, nonostante i molti seco­ li e i molti libri che da quelle occasioni li separano, forse pos­ sono ancora recuperare. L'immagine del poeta ispirato, serio e solenne nella sua mis­ sione sacerdotale di educatore della società, non è peraltro un'e­ sclusiva della critica moderna, ma trova sostegno già in buo­ na parte dell'aneddotica antica, che ha rapidamente deformato i tratti della vita e della professionalità di Pindaro sulla base di ricorrenti schemi di tipo eroico-sacrale, trasformandone la figura (come è successo a molti altri poeti antichi) in senso decisamente agiografico. Il fiorire di notizie che affollano le sei biografie antiche (quattro nei codici medievali, una su papiro, più la voce del lessico enciclopedico di Suidas, X sec. d.C.) è dovuto in larga misura anche al fatto che già per la generazione successiva alla sua la poesia di Pindaro presen­ tava ormai molti lati oscuri, a causa della progressiva scom­ parsa delle occasioni alle quali essa era in origine destinata: il venir meno del contesto, parte integrante dell'originale si­ stema di segni che costituiva la comunicazione poetica, si traduce in una serie di lacune nella comprensione del testo, che i lettori tendono a colmare a partire dal testo stesso, per lo più attribuendo all'autore Pindaro in quanto persona a­ nagrafica ciò che appartiene in realtà solo alla sua persona 17

poetica. Una volta che queste incrostazioni siano state tolte, di tutto ciò che l'antichità ha tramandato in relazione a Pin­ daro ben poco si salva: nacque a Tebe, in un anno compre­ so fra il 522 e il 518 a.C., e la sua attività poetica è colloca­ bile fra il 4 98 e il 44 6-444 a.C., senza che fra queste due da­ te sia effettivamente possibile scorgere una reale linea di e­ voluzione e sviluppo, poiché la sua poesia presenta una straor­ dinaria coerenza e compattezza, segnata dall'impronta di u­ na personalità artistica pienamente consapevole fin dal suo primo manifestarsi. Di un suo apprendistato ad Atene par­ lava la critica antica, di suoi frequenti spostamenti alle cor­ ti dei committenti, come Ierone di Siracusa, Terone di A­ grigento, Arcesilao di Cirene, o comunque nelle varie loca­ lità dove le sue odi venivano rappresentate (Egina, Rodi, Del­ fi, Atene, Corinto, Argo, per nominarne solo alcune) , han­ no spesso parlato anche gli studiosi moderni, senza che tut­ tavia sussistano in proposito prove o certezze di sorta; quel­ lo che appare invece fuori discussione è la vastità della sua fa­ ma, testimoniata appunto dalla varietà dei luoghi in cui la sua poesia era richiesta. Ciò che, in queste diverse località e in al­ tre ancora, accomunava i destinatari di questa produzione poetica era l'appartenenza a un mondo, quello aristocratico, che condivideva, pur nella varietà delle sue possibili manife­ stazioni politiche, un'ideologia socio-culturale sostanzial­ mente omogenea, che trova appunto nella poesia pindarica la sua più compiuta espressione: la scala di valori etici e po­ litici che informa di sé le odi di Pindaro è quella del suo u­ ditorio e, soprattutto, della sua committenza, così come la scel­ ta di un particolare evento mitico da narrare, di un eroe da celebrare o anche di un luogo da ricordare non sono frutto dell'arbitrio capriccioso e imperscrutabile del poeta, ma la 18

precisa risposta alle aspettative del pubblico, e probabilmente alle esplicite richieste del committente, fosse pubblico o pri­ vato. Quello che la poesia trasmette all'uditorio è l'immagi­ ne paradigmatica della realtà, trasfigurata e resa perenne nel mito; ma la valenza normativa di questo mondo mitico, po­ polato di dèi ed eroi ai quali viene spesso ricondotta l'origi­ ne della comunità o della famiglia destinataria del canto, conferma che punto di partenza e di arrivo del messaggio poetico è la vita quotidiana, in funzione della quale figure ed eventi della sfera mitica sono assunti come coordinate di riferimento, tanto più facilmente soggetti all'opera di adat­ tamento e revisione da parte del sapiente poeta, quanto me­ no suscettibili di mutamento e decadenza vengono fatti ap­ parire nella sua poesia. In questo senso sembra tutto sommato poco giustificato l'estremo rilievo che negli ultimi tempi è stato conferito alla questione delle modalità di rappresentazione della poesia pin­ darica, in particolare per quanto riguarda gli epinici, dei qua­ li si è messa in dubbio l'esecuzione corale, per cui non esi­ stono (come peraltro è abbastanza ovvio) testimonianze ef­ fettive, privilegiando l'ipotesi di un'esecuzione solistica, da parte del poeta stesso o comunque di un suo portavoce. La que­ stione riguarda in primo luogo gli epinici, ma investe anche gli altri generi (e a dire il vero appartiene a un più vasto fe­ nomeno di revisione, in sé pienamente giustificato, delle tra­ dizionali classificazioni della lirica arcaica, nonché alla delicata questione dell'identificazione dell'io lirico); anche a prescin­ dere dalle molte motivazioni che consigliano di continuare a considerare l'esecuzione corale come il modello prevalente, anche se certamente non l'unico (e in particolare, per quan­ to riguarda il riuso, un passaggio dal coro a un solista è qua19

si ceno), occorre ricordare che la voce del poeta è sempre e co­ munque una voce pubblica, come del resto è necessario che sia, in una società in cui la vita del singolo ha senso solo in quanto parte di un tessuto collettivo, sia familiare che socia­ le, che conferisce valore alle sue azioni, nel momento in cui le riconosce come rispondenti ai propri canoni etici. Compi­ to del poeta è appunto quello di tributare la lode in cui si e­ sprime quest'approvazione sociale, o dispensare il biasimo che censura il comportamento di chi non si adegua alle norme del gruppo: non l'espressione dei suoi personali sentimenti occorrerà quindi cercare nella sua poesia, ma la compiuta ma­ nifestazione di quel complesso di valori, ideali, interessi, a­ spirazioni che concorrono a formare l'immagine che di se stessi e della propria storia i destinatari del canto erano di­ sposti ad accettare e a diffondere. Della produzione poetica di Pindaro sono sopravvissuti per via diretta i quattro libri di epinici, Olimpiche, Pitiche, Nemee, lstmiche, tramandati dai codici medievali; punto di partenza del processo di trasmissione dovettero essere in primo luogo le famiglie e le comunità committenti, che conservavano u­ na copia del testo originale; da qui è possibile che si siano formate raccolte parziali, a base locale, alle quali dovettero attingere gli studiosi alessandrini che dal III sec. a.C. inizia­ rono l'imponente opera di raccolta, catalogazione e com­ mento di tutta la letteratura greca. Fu uno di questi filologi, Aristofane di Bisanzio, che, fra la fine del III e l'inizio del II sec. a. C., curò un'edizione complessiva dell'opera di Pinda­ ro, dividendola in 17 libri, ordinati poi in base a un criterio che collocava al primo posto le odi (due libri di iporchemi, u­ no di encomi, uno di trenodie, quattro di epinici); in mez­ zo, nell'ambigua posizione «agli dèi e agli uomini)), un libro di cosiddetti ed enigmatici "parteni separati". La sopravvi­ venza dei frammenti di questa ricca produzione è stata dovuta in parte alle citazioni in opere di autori più tardi (si tratta di passi brevi e decontestualizzati) , in parte alla generosità del­ le sabbie egiziane, che hanno restituito ampi squarci di papiro, specie dal libro dei Peani (spesso in condizioni molto lacunose); qualche raro e fortunato caso di parziale coincidenza ha con­ sentito di integrare resti dell'una e dell'altra provenienza, for­ nendo testi meglio leggibili. Qui si è cercato di presentare tutto quanto è disponibile, seguendo in linea di massima l'or­ dinamento e la ricostruzione dell'edizione critica di riferi­ mento, curata da H. Maehler per la Bibliotheca Teubneriana (Leipzig 1989); si sono esclusi solo quei frammenti di mini­ mo contenuto semantico o quelli in condizioni troppo di­ sperate; allo scopo di consentire una lettura meno accidentata sono state accolte, ogni volta che è stato possibile, le propo­ ste di integrazione che apparivano più soddisfacenti e meno avventurose - una scelta ovviamente arbitraria, come tutte le scelte, e che non pretende di restituire le precise parole del poeta, ma solo di suggerire un possibile sviluppo del pensie­ ro, in attesa del nuovo brandello di papiro che di questi e di altri tentativi, come già più volte è accaduto in passato, fac­ cia giustizia.

Roberta Sevieri

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BIBLIOGRAFIA

Suggerire una bibliografia pindarica esauriente è pressoché impossibile, dal momento che si tratta di uno degli autori più studiati e discussi della letteratura greca; la maggior parte de­ gli studi sono inoltre di natura strettamente specialistica, e molti in lingua straniera; in compenso però esistono repertori bibliografici ricchi e accurati: si indicheranno quindi solo al­ cuni titoli per un primo orientamento, rimandando per un e­ lenco più completo e ragionaw·a: P.A. Bernardini, Rassegna critica delle edizioni, traduzioni e studi pindarici dal 1958 al 1964 (1965), in , che in Pindaro indica la ca­ pacità del poeta di affrontare argomenti impegnativi e di va­ sta portata; la dea Temis appartiene al complesso cultuale del santuario delfico, dove aveva preceduto Apollo come dispen­ satrice di oracoli. Dopo la lacuna, argomento del canto è il mito della successione dei templi di Delfi: il primo (del qua­ le qui si parlava nella parte perduta) era fatto con l'alloro pro­ veniente dalla valle di Tempe, quella dove Apollo stesso ave­ va colto l'alloro per incoronarsi dopo l'uccisione del serpente Pitone; il secondo, costruito con cera d'api e piume d'uccel­ li, fu trasportato dal vento nella terra favolosa degli Iperborei (vv. 63-64), dove Apollo trascorreva i mesi invernali; il terzo, la cui descrizione occupa la parte più consistente del testo su­ perstite (65 ss.), era opera degli dèi, un prodigio di perfezio­ ne interamente fatto di bronzo, con sei Ammaliatrici d'oro poste come acroteri. La voce di queste Celedoni (probabil­ mente simili alle Sirene come aspetto) incantava a tal punto l'animo dei visitatori che essi non erano più capaci di andar­ sene e morivano: per questo, gli dèi stessi annientarono la lo­ ro opera. Nel mito si esprime l'incapacità umana di tollerare la continuità, anche di ciò che è dolce, come spesso afferma 190

Pindaro per giustificare la ricerca di varietà e brevità nei suoi canti; il tempio successivo fu quello in pietra costruito da Trofonio e Agamede, figli di Ergino (cfr. Inno OmericoAdA­ pollo, 294-299; secondo Pausania, era quello che andò di­ strutto nell'incendio del 548 a.C.). 68-70: dopo i templi che appartengono al regno della na­ tura inanimata (l'alloro) e a quello animale (cera e piume), l'uso estensivo del bronzo e dell'oro caratterizza questo tem­ pio come appartenente alla sfera divina, così come l'impiego della pietra per l'ultimo della serie ne segnala la dimensione umana. Recenti scavi nel santuario di Apollo Daphnephoros a Eretria hanno rivelato le rovine di una costruzione (metà VIII sec. a.C. ca.) i cui muri erano costituiti da rami intrec­ ciati, probabilmente destinati a essere ricoperti da foglie d'al­ loro: non è inverosimile immaginare qualcosa di simile anche a Delfi. Come l'alloro aveva una parte essenziale nel rituale delfico, anche api e uccelli erano legati a rituali profetici; il termine «alato)) con cui questo tempio viene indicato dalle fonti (1t'téptvoç) ha un significato architettonico preciso (in­ dica un tempio con peristasi), così come d'altra parte è atte­ stata l'esistenza di santuari arcaici ricoperti di bronzo (come il tempio di Atena Chalkioikos a Sparta) o anche d'oro. 82-87: Atena e Mnemosine attribuiscono alla voce delle Pizie delfiche la conoscenza profetica, facendone le interme­ diarie del messaggio divino, che gli uomini non si sono di­ mostrati in grado di sopportare direttamente; la somiglianza fra il canto delle Celedoni e le parole della Pizia è segnalato, oltre che dalla presenza della madre delle Muse, simbolo del canto, come dispensatrice della conoscenza profetica insieme con Atena, anche dalla formula utilizzata per indicarne il con­ tenuto (vv. 83-84), che ricalca quella epica per esprimere la co191

noscenza che le Muse possiedono e ispirano al cantore (cfr. E­ siodo, Teogonia 31-32, 36-39). Listituzione della divinazio­ ne consente quindi agli uomini di venire a conoscenza dei di­ segni divini, così come compito delle Muse è quello di cele­ brare nel canto l'ordine di Zeus (cfr. Inno 1): non a caso Apollo guida il coro delle Muse nel canto e nella danza. La verità di Apollo prende ora il posto dell' «antico inganno» delle Am­ maliatrici, ma sia l'una che l'altro rientrano nella sfera di com­ petenza delle figlie di Mnemosine (come affermano le Muse di Esiodo, Teo gonia 26-28, esse sanno dire ccmolte cose false simili a quelle vere»). Peana VIIla: argomento del peana, di cui è sconosciuta la com­ mittenza e la destinazione, è la profezia con cui Cassandra rie­ voca e interpreta il sogno avuto da Ecuba quando era incinta di Paride, nel quale si preannunciava la distruzione della città per causa del figlio che stava per nascere. Il vaticinio di Cas­ sandra è probabilmente da collocarsi nel momento in cui Pa­ ride ccsi affrettava» alle navi per partire alla volta della Grecia, nel viaggio fatale da cui sarebbe tornato con Elena. Il motivo del sogno di Ecuba, sconosciuto a Omero, è accennato nelle Troiane di Euripide (919-922), ma la profezia di Cassandra al momento della partenza di Paride compare già nel poema ci­ dico Cypria (menzionato nella Crestomazia di Proda, 319a 21). Normalmente in questo sogno, come è citato nelle fon­ ti più tarde, Ecuba genera una fiaccola ardente, prefigurazio­ ne del fuoco che devasterà Troia; qui invece Cassandra mescola al sogno la propria visione profetica e pone le fiaccole accese nelle cento mani di un mostro. Il collegamento con Apollo è rappresentato qui da Cassandra stessa, profetessa amata dal dio: il ritornello rituale del peana poteva quindi essere pro192

nunciato da lei come invocazione, con una suggestiva coinci­ denza di narrazione mitica e celebrazione reale. Peana IX: composto in occasione di un�eclisse di sole (per la qua:le sono in discussione due date, quella parziale del 17 feb­ braio 478 a.C. e quella totale del 30 aprile 463 a.C.), il pea­ na si apre con un proemio fortemente occasionale, imper­ niato sul terrore umano di fronte all'incomprensibile prodi­ gio divino, del quale vengono enumerati possibili significati. Motivo conduttore di questa parte è quello del rovesciamen­ to delle consuetudini e delle leggi di natura: come l'astro che dà la luce si è oscurato in pieno giorno, così ogni regola può essere sovvertita (cfr. Archiloco, fr. 122 W.), il mare può ro­ vesciarsi sulla terra (v. 16), o l'intera razza umana può essere annientata (v. 20). I.: immagine tradizionale del sole che com­ pie il suo viaggio su un carro tirato da cavalle veloci (v. 7; c­ fr. Mimnermo, fr. 7 Gent.-Pr.), genera le metafore della «Via della saggezza)) (per gli uomini, v. 4) e del «sentiero di tene­ bra)) (per il sole, v. 5). Questa parte iniziale era molto celebre e citata nell'antichità; una lacuna impedisce di comprendere in che modo fosse effettuata la transizione alla parte succes­ siva, in cui invece appare in primo piano la figura del poeta e il suo impegno professionale, che a sua volta introduce i personaggi tipici della mitologia locale tebana: Melia, Tene­ ro, Cadmo, Zeto, e il santuario dell'Ismenion, sede della ce­ rimonia. Uno scolio informa che Tenero, del quale nell'ulti­ mo verso conservato si dice che si dirigeva verso l'Euripo (lo stretto che divide l'isola d'Eubea dalla Grecia continentale), esercitò la sua arte profetica nella wna di Aulide, che si affaccia appunto sull'Euripo (dal porto di Aulide partì la spedizione greca contro Troia). 193

Peana X: uno dei frammenti peggio conservati; praticamen­ te nulla si riesce a evincere da questi pochi versi; nella parte che precedeva, ancora più lacunosa, si leggono i nomi dello Stige, il fiume infernale, e dell'eroe Icadio, figlio di Apollo e di una ninfa, e connesso con una festa (celebrata il venti del mese, come indica il suo nome, ((ventesimo)) letteralmente) del­ fica e con la dedica di un altare, del quale probabilmente si nar­ rava la fondazione. Peana XII: l'unica parte superstite di questo componimento riguarda la nascita di Apollo e Artemide a Delo, un tema che Pindaro trattò più volte, apportandovi anche innovazioni si­ gnificative rispetto alla versione epica rappresentata dall'In­ no Omerico AdApollo: per esempio, il fatto che Apollo e Ar­ temide fossero gemelli, e poi soprattutto la storia di Asteria e la caratteristica di Delo come isola prima galleggiante, con il nome di Ortigia, poi fissa (invece, l'Inno Omerico sembra considerare Delo e Ortigia due località distinte: vv. 14-16). Per contro, Pindaro ignora volutamente i lunghi dolori inflitti a Latona partoriente dalla gelosia di Era e dal disinteresse di Zeus, per ribadire anzi esplicitamente che la nascita dei divi­ ni gemelli fu veloce e gioiosa (come sottolineato anche dalla presenza di Ilizia, divinità che presiede ai parti, assente nella versione dell'Inno Omerico per volontà di Era), e avvenne sotto lo sguardo vigile di Zeus. Un analogo atteggiamento di consapevole (e sottolineata) alterazione del mito, sempre al­ lo scopo di mitigare le dolorose conseguenze delle infedeltà coniugali di Zeus ai danni delle sue amate, si osserva nella Nemea l, 35-36, dove il dato tradizionale del lunghissimo travaglio di Alcmena viene esplicitamente rifiutato. 1-5: l'inizio, molto lacunoso, sembra riferirsi all'occasione 194

attuale, come indicato dalla presenza delle Muse, che rap­ presentano il canto, destinato a celebrare Asteria, ossia Delo, come luogo di nascita dei gemelli divini. 5-8: l'offerta di greggi che giunge da Naso è