Alcibiade secondo. Sulla preghiera. Dialoghi socratici. Testo greco a fronte [1 ed.] 8845280578, 9788845280573

"Proprio perché si tratta di uno dei dialoghi socratici più difficili da intendere e da valutare, l'autenticit

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Alcibiade secondo. Sulla preghiera. Dialoghi socratici. Testo greco a fronte [1 ed.]
 8845280578, 9788845280573

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  • I edizione digitale 2015 da ed. Testi a fronte novembre 2015

Table of contents :
Sommario

- Prefazione generale ai dialoghi giovanili di Platone
- Saggio introduttivo
- Per una corretta lettura ermeneutica dell’Alcibiade secondo
- Biografia, cronologia e opere di Platone
- Esplicitazione delle abbreviazioni
- Alcibiade secondo (Sulla preghiera, maieutico)
- Bibliografia specifica

Citation preview

nero PANTONE 152 U

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N U O V A

GIOVANNI REALE

(1931-2014) è stato l’autore di fondamentali contributi sui Presocratici, Socrate, Platone, Aristotele, Seneca, Plotino, di una Storia della filosofia greca e romana (Bompiani, 2004) e, assieme a Dario Antiseri, della Storia della filosofia illustrata, in 12 volumi (Bompiani, 2008). È direttore delle due collane di filosofia di Bompiani, “Il Pensiero occidentale” e “Testi a fronte”. Ha coordinato la traduzione completa dell’opera platonica, ora edita da Bompiani. Le sue opere sono tradotte in quindici lingue.

T R A D U Z I O N E

D I

“In questa collana presentiamo, in volumi singoli, i primi dialoghi platonici, interpretandoli come documenti che attestano in modo assai efficace ‘il pensiero storico’ di Socrate. La lettura di questi Dialoghi ci farà conoscere a fondo Socrate nella grandezza del suo messaggio rivoluzionario.”

Platone, Dialoghi socratici a cura di Giovanni Reale PIANO DELL’OPERA

Giovanni Rea le

11 11 / Alcibiade secondo / Sulla preghiera “Allora, non ti sembra che occorra molta prudenza perché, senza saperlo, non succeda di chiedere grandi mali, credendo che siano beni? [...] Bisogna in primo luogo che venga tolta la nebbia dall’anima per poi presentarti la via per la quale  potrai conoscere il bene e il male”.

12,00 ISBN 978-88-452-8057-3

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www.bompiani.eu

Cover design: Polystudio.

T E S T O

G R E C O

A

F R O N T E

1 Teagete Sulla filosofia 2 Ippia minore Sul falso 3 Ippia maggiore Sul bello 4 Ipparco Sull’avidità di guadagno 5 Amanti Sulla filosofia 6 Carmide Sulla temperanza 7 Lachete Sul coraggio 8 Liside Sull’amicizia 9 Eutidemo Sull’eristica 10  Alcibiade primo Sulla natura dell’uomo 11 Alcibiade secondo Sulla preghiera

BOMPIANI

13/10/15 11:48

Bompiani Testi a fronte Direttore Giovanni Reale

Testo greco a fronte

Prefazione generale, Saggio introduttivo, Nuova traduzione e note di Giovanni Reale Bibliografia specifica di Vincenzo Cicero

BOMPIANI testi a fronte

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-587-7107-5 © 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Realizzazione editoriale: Vincenzo Cicero – Rometta Marea (ME) I edizione digitale 2015 da ed .Testi a fronte novembre 2015

Sommario

Prefazione generale ai dialoghi giovanili di Platone

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Saggio introduttivo Per una corretta lettura ermeneutica dell’Alcibiade secondo

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Biografia, cronologia e opere di Platone

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Esplicitazione delle abbreviazioni

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Alcibiade secondo (Sulla preghiera, maieutico) Bibliografia specifica

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AVVERTENZA

Questo dialogo viene pubblicato dopo la morte di Giovanni Reale, che ne ha curato l’edizione, in un progetto unitario, insieme agli altri dieci dialoghi socratici di Platone. Fino alla sera prima di essere chiamato altrove Reale ha lavorato su questi testi. La nuova traduzione da lui condotta è iniziata nel 2007. Gli undici Saggi introduttivi sono stati rivisti e integrati tra gennaio e il 14 ottobre 2014. Giovanni Reale aveva personalmente consegnato all’Editore quattro dialoghi: Teagete, Amanti, Ippia maggiore e Ippia minore. Il materiale dei sette dialoghi rimanenti è stato recuperato dal suo computer. Si tratta di un lavoro già completato per quanto riguarda i saggi introduttivi, le traduzioni e l’apparato bibliografico di base; solo alcune note sono da integrare con l’aiuto degli allievi e collaboratori. Ecco quanto lui stesso ha scritto nella Prefazione generale che viene pubblicata in apertura di ciascun dialogo: «Sono, questi, gli ultimi dialoghi di Platone di cui noi ci occupiamo […], in quanto […] solo dopo aver studiato a fondo il pensiero di Socrate, siamo stati in grado di interpretarli in modo adeguato, di valutarli nella loro grande importanza e di gustarli». Giorgio Ferri Stretto collaboratore di Giovanni Reale nei suoi ultimi anni di attività

«E [Socrate] pregava gli dèi che gli accordassero semplicemente il bene, poiché riteneva che gli dèi sappiano benissimo ciò che è bene». Senofonte, Memorabili, I 3, 2

Prefazione generale ai dialoghi giovanili di Platone

N.B. Riproduciamo questa Prefazione in tutta la nuova serie dei «dialoghi socratici» di Platone che pubblichiamo nella collana “Testi a fronte”, in quanto contiene i canoni ermeneutici e i criteri generali seguiti nella loro presentazione e interpretazione, per agevolare i lettori che si procurano solo volumi successivi al primo.

1. Giudizi contraddittori sui dialoghi socratici I primi dialoghi platonici sono stati da sempre chiamati «socratici», in quanto prevale in essi la dottrina del maestro, ma sono stati giudicati in maniera contraddittoria. Il giudizio più equilibrato su di essi dato in passato è stato quello di Werner Jaeger, che vogliamo riportare: «Nella lunga serie delle opere platoniche, si rivelano come un gruppo a sé, distinti da comuni caratteristiche, quelli che si sogliono chiamare “dialoghi socratici”: in senso stretto, giacché anche in altre opere Socrate appare figura centrale. Questo gruppo, infatti, rappresenta, si può dire, la forma originaria del dialogo socratico nel suo aspetto più semplice, ancora del tutto aderente alla realtà. Sono tutti di breve estensione, non più lunghi di quanto potrebbe essere nella realtà una conversazione occasionale. Nel punto di partenza e nello scopo, nell’uso del procedimento induttivo e nella scelta degli esempi, in tutto insomma il loro svolgimento, essi mostrano una somiglianza di tratti tipici, che si spiega, evidentemente, col modello reale a cui cercano di aderire» (Paideia, ed. Bompiani, p. 831). Tuttavia, il suo giudizio è rimasto sul generico. Jaeger, infatti, non è entrato, se non limitatamente, nell’interpretazione dei singoli dialoghi giovanili, e non ha individuato le caratteristiche specifiche di fondo che stanno alla base di tali scritti, ma questo è ciò che più conta per la loro esegesi.

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Va comunque detto che non pochi studiosi nei confronti di questi dialoghi sono rimasti perplessi, soprattutto per il fatto che si tratta di opere di carattere per lo più «aporetico», e quindi lasciano il lettore a bocca asciutta, ossia senza una soluzione esplicita del problema trattato, e sono, di conseguenza, difficili da interpretare, e pertanto poco accattivanti. Su alcuni, poi, è caduta la scure dell’atetesi, soprattutto nell’Ottocento e anche nel corso del Novecento. Oggi si tende, in generale, a non ricorrere al criterio della negazione dell’autenticità, a meno che il dialogo non contenga sicuri riferimenti a dottrine posteriori. Noi siamo convinti che i dialoghi di Platone tramandatici dagli antichi come autentici possano essere ritenuti tali, almeno per la maggior parte. In passato, non pochi studiosi hanno ritenuto questi dialoghi assai magri, e quasi privi di contenuti filosofici. H. Maier, per esempio, scrive (tr. it., I, pp. 126 sg.): «Per questi dialoghi sembra valere in modo affatto speciale l’affermazione che “la massa degli accessori mimici non è per nulla proporzionata alla magrezza del contenuto filosofico” (Zeller, I4 p. 526). Ma essi non vogliono affatto offrire un contenuto dottrinale […]. Anzi, il loro Socrate in sostanza non muove alla conquista di concetti etici; ed essi intendono suscitare non interesse scientifico, ma, come il Socrate dell’Apologia, vita morale».

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2. Posizioni inaccettabili dal punto di vista ermeneutico assunte da alcuni studiosi La posizione più estremistica è stata quella assunta da Olof Gigon, il quale, nel suo libro su Socrate del 1947, ha affermato addirittura che di Socrate non possiamo sapere pressoché nulla, e che lo conosciamo meno dei Presocratici, dei quali ci è giunto qualche frammento diretto e autentico, mentre di Socrate ci sono giunte solo testimonianze indirette fra di loro in contraddizione. Tali testimonianze presenterebbero non il Socrate storico, bensì un personaggio creato dalla fantasia degli autori, e di questo sarebbe responsabile soprattutto Platone, ma non solo lui. Anche uno studioso come Gabriele Giannantoni è caduto in posizioni estremistiche, eliminando Platone addirittura per intero dai testimoni del pensiero di Socrate, includendo invece nella sua raccolta perfino alcune testimonianze dei Padri della Chiesa (1971). Si tratta di posizioni del tipo di quelle delle quali si può ben dire, come è stato giustamente rilevato, che la filologia, quando diventa ipercritica, distrugge se medesima. (Si pensi che Giannantoni, dalla successiva raccolta Socratis et Socraticorum Reliquiae del 1990, esclude non solo Platone, ma anche Aristofane e Senofonte, ossia le più importanti testimonianze su Socrate). In particolare, Olof Gigon non ha tenuto conto del fatto assai importante e incontestabile che, data la straordinaria eccezionalità del pensiero di Socrate, non poteva essere compreso dai vari testimoni nella sua profondità e ricchezza e nella sua portata rivoluzionaria, se non in proporzione all’intelligenza, alla sensibilità e all’apertura intellettuale che essi avevano, e quindi in modo diverso e in vari sensi (più che

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mai, in questo caso, si impone la verità della massima medievale quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur). Giannantoni, nella sua raccolta delle testimonianze su Socrate, non ha incluso Platone in quanto dice troppo, ben più del dovuto. L’errore ermeneutico da lui commesso sta nel fatto che il «troppo» non si può correggere semplicemente eliminando in toto l’autore che è responsabile del troppo. 3. Se si elimina Platone, non si comprende Socrate In realtà, se si elimina Platone, Socrate rimane pressoché incomprensibile, e comunque un pensatore di poco conto. Jan Patočka, per esempio, diceva giustamente: «Se escludiamo Platone dalla tradizione socratica, non resta niente di eccelso e di sublime» (Socrate, tr. it., p. 18). E Hans-Georg Gadamer, in occasione di una lunga discussione che abbiamo fatto con lui prima di una intervista nel 2000, durante la quale gli abbiamo donato il nostro volume Socrate che era appena uscito dalla Rizzoli (riedito nella Bur 2001, 20134), in risposta alla nostra domanda sulla operazione che da anni stava conducendo di «ri-socratizzare Platone», ci ha detto testualmente: «Io ho per Socrate grande ammirazione, e con la mia ermeneutica mi sento molto vicino al suo pensiero; però bisogna dire che, se non ci fosse stato Platone, noi di Socrate non sapremmo pressoché nulla. Le ragioni e la struttura funzionale del dialogo con la dinamica delle domande e risposte, fatte in quel modo, che sono tipiche di Socrate, ci vengono rivelate solamente da Platone».

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Questo fa ben comprendere la portata del grave errore ermeneutico di eliminare Platone dalle testimonianze sul pensiero di Socrate. Rimane, però, la domanda cruciale: come facciamo a trarre dal «troppo» che Platone fa dire a Socrate ciò che può essere «storicamente socratico», distinguendolo da ciò che, invece, è platonico e che in vario modo viene messo in bocca a Socrate, il quale viene trasformato da personaggio reale in figura emblematica del vero filosofo? 4. Il modo in cui si può distinguere il pensiero storico di Socrate nei dialoghi platonici Nel tentativo di risolvere questo problema gli studiosi sono giunti, in passato, a esiti del tutto contraddittori, come si può vedere ben documentato nel libro di Vasco de Magalhães-Vilhena (1952). Una buona risposta è venuta da Gerasimos Santas (1994, tr. it. 2003 con nostra introduzione), e soprattutto dall’ultima opera su Socrate di Gregory Vlastos (1991, tr. it. 1998), cui va aggiunta la sua raccolta di saggi del 1994 (tr. it. 2003 con nostra introduzione). Vlastos dichiara espressamente di aver maturato la sua tesi soprattutto sotto l’influsso di Santas, e in parte di Irwin. Questi autori, e Vlastos in modo particolare, mettono in rilievo un dato di fatto molto preciso, a nostro giudizio ben difficilmente controvertibile dal punto di vista ermeneutico. Nei dialoghi giovanili non risultano presenti i concetti-chiave che sono tipici di Platone, e in particolare: 1) la teoria delle Idee nella sua dimensione ontologica e metafisica, con le varie implicazioni e conseguenze che comporta; 2) la divisione dell’a-

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nima nella parte razionale e in quelle irrazionali, con la connessa dottrina dell’immortalità e della metempsicosi. Di conseguenza, poiché in tutti i primi dialoghi Socrate è protagonista in senso assoluto, ma non dice nulla su tali concetti-chiave (o ne fa solo vaghi cenni, spesso assai criptici), allora si può ben ritenere che Platone, nei suoi primi scritti, esprima soprattutto il pensiero del maestro. Vlastos riassume questa sua tesi in modo volutamente provocatorio, ma ben preciso: «Si tratta del vero Socrate, del Socrate della storia? Sì. Ma non è piuttosto Platone? Sì. Può trattarsi di entrambi? Sì» (1998, p. 1, nota 2). E ancora: «Attraverso un “Socrate” di Platone possiamo giungere a conoscere il Socrate della storia – il Socrate che fece la storia, insegnò a Platone e ad altri, modificò il loro pensiero e la loro vita, e attraverso loro cambiò il corso della storia occidentale» (1998, p. 60). Dunque, nei primi dialoghi, Platone presenta soprattutto il messaggio di Socrate. Egli ha pensato tale messaggio a fondo; ma, in ciò che può aver aggiunto, è rimasto, sempre e comunque, in prevalenza anche lo spirito del Socrate storico. Si impone più che mai, a nostro avviso, ciò che Nicolás Gómez Dávila (2007, p. 48) diceva in un suo aforisma: «Per comprendere l’idea altrui è necessario pensarla come propria». Il che significa: per comprendere, bisogna immedesimarsi nell’idea dell’altro, e non imporre all’altro l’idea propria. Sia Santas sia Vlastos ritengono che questo si verifichi in tutti gli scritti giovanili di Platone fino al Gorgia compreso. Noi concordiamo con la loro tesi metodologica di fondo, pur differenziandoci in vari punti. In particola-

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re, siamo convinti che dal gruppo dei dialoghi «socratici» vada tolto il Gorgia, il quale, se presenta molte idee sicuramente socratiche, espresse in maniera egregia, include pure molte idee squisitamente platoniche, in modo anche esplicito e non solo allusivo (si veda quanto diciamo nella nostra introduzione alla traduzione italiana del libro di Santas, 2003, pp. xvi-xvii e nella nostra edizione del Gorgia, Bompiani 2003; 20143, passim). Va rilevato che, di questo, si erano resi conto alcuni studiosi già in passato. H. Maier, per esempio, scriveva: «Il Gorgia ci introduce in un mondo di pensieri del tutto nuovo. La sua “filosofia” non è più la dialettica morale socratica; è invece scienza…» (tr. it., I, p. 136): E ancora: «… dal Gorgia in poi in luogo di Socrate compare per intero e risolutamente Platone» (loc. cit., p. 139). La stessa tesi sostenevano anche Raeder (1905) e Pohlenz (1913). 5. Posizioni estremistiche da evitare Le due posizioni estremistiche da evitare sono le seguenti: 1) trovare nei primi dialoghi troppo poco Platone; 2) cercare di trovare troppo Platone facendo riferimento ai dialoghi successivi. 1) La prima posizione è quella assunta soprattutto da Vlastos, che separa i primi dialoghi dai successivi in modo troppo netto, tanto da scrivere: «Ho parlato di un Socrate in Platone. Ve ne sono due. In segmenti diversi del corpus platonico due filosofi portano quel nome.

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L’individuo è sempre lo stesso. Ma in diversi gruppi di dialoghi pratica filosofie talmente diverse che non potrebbero essere state raffigurate come coabitanti in uno stesso cervello, a meno che non fosse il cervello di uno schizofrenico. Sono così diverse in contenuti e metodi, da risultare opposte l’una all’altra nello stesso modo in cui si contrappongono a una qualsiasi terza concezione filosofica si voglia menzionare, a partire da quella di Socrate» (tr. it. 1969, p. 60). In realtà, se nei «dialoghi socratici» Platone intende presentare soprattutto il pensiero del maestro, introduce anche tutta una serie di allusioni alle tesi che stava maturando – talora, come dicevamo, in modo criptico, ma assai significativo e importante –, al punto che il secondo Platone non comporta affatto un pensiero contrapposto a Socrate, ma uno sviluppo di esso, con la scoperta dei suoi fondamenti metafisici. E anche se si collocano su un nuovo piano, le nuove scoperte rimangono, comunque, in sintonia con lo spirito del maestro, tanto è vero che, quando si spinge decisamente oltre Socrate, Platone ce lo dice espressamente, mutando la figura del protagonista, che diventa, per esempio, lo Straniero di Elea nel Sofista e nel Politico, Timeo nel dialogo omonimo, un Ateniese nelle Leggi. 2) L’altro errore ermeneutico da evitare consiste nel leggere i primi dialoghi di Platone dando eccessivo peso a ciò che viene detto nei dialoghi successivi, e quindi cercando di trovare in essi più di quanto contengono. Infatti, i lettori dei primi dialoghi non potevano affatto far riferimento a dialoghi successivi. Noi riteniamo che le allusioni che Platone fa a sue dottrine successive, e con vaghi cenni addirittura ai

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«Princìpi primi» delle «Dottrine non scritte», siano manifestazioni, più che di dottrine già ben formulate, di fermenti di concetti che stavano maturando nella sua mente, e che, comunque, egli pensava non fosse ancora giunto il momento per comunicarli agli altri, soprattutto nelle sue opere, anche se, nelle letture pubbliche di suoi scritti – che, secondo il costume di allora, doveva fare in circoli di amici, anche prima della fondazione dell’Accademia –, poteva e doveva dire qualcosa di più, per spiegare quelle allusioni. 6. L’ottica in cui presenteremo l’interpretazione dei primi dialoghi di Platone e i fondamenti storici sui quali ci basiamo In questa collana presentiamo, in volumi singoli, i primi dialoghi platonici (oltre a quelli in precedenza già pubblicati come Apologia di Socrate, Critone, Eutifrone, Ione), con ampi Saggi introduttivi, interpretandoli come documenti che attestano in modo assai efficace il «pensiero storico» di Socrate. Puntiamo soprattutto su due assi portanti: 1) quello dell’«ironia», e 2) quello della «dialettica elenctica», che sono i più complessi e i più difficili da intendere, anche per il fatto che solamente Platone li ha compresi e presentati in modo adeguato, mentre gli altri testimoni del pensiero di Socrate non li hanno intesi o addirittura li hanno fraintesi, oppure, come Senofonte, li hanno presentati in modo superficiale e assai riduttivo. All’«ironia» daremo molto rilievo, in quanto, data la sua «unicità», comporta notevoli difficoltà per una adeguata comprensione. Già Boder (1971) si era mosso in questa direzione. Ma, con le nuove interpretazioni dell’i-

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ronia socratica date da Patočka e da Vlastos, riteniamo che si possa procedere molto oltre. Anche la dialettica nelle opere giovanili di Platone è stata studiata da alcuni studiosi (si veda in particolare Heitsch 2004), ma non in quella che a nostro avviso è la giusta ottica dal punto di vista ermeneutico. Si consideri che proprio la «dialettica» costituiva una vera e propria «rivoluzione» operata da Socrate nella tecnica della comunicazione in generale e in particolare, in quanto sostituiva alla tradizionale oralità «mimetico-poetica», sulla quale si era fondata per secoli la cultura dei Greci, la nuova forma di «oralità dialettico-elenctica», che richiedeva ormai la necessità della scrittura. Senza tener in debito conto la grande rivoluzione in atto all’epoca di Socrate e di Platone con il passaggio dalla cultura dell’oralità alla civiltà della scrittura, non si possono intendere i messaggi né del primo né del secondo. Lo studioso che ha aperto questa nuova linea di ricerche è stato Eric Havelock con il suo libro magistrale del 1963 Preface to Plato (tradotto in italiano con il titolo Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, 1973, più volte riedito). Quest’opera di Havelock ha grandi meriti, ma, come abbiamo più volte rilevato (Platone, Rizzoli 1998, Bur 2004, e Socrate, Bur 20134, sopra citato), eccede nell’attribuire la svolta culturale alla scrittura stessa, che, in realtà, era stata scoperta già da alcuni secoli, e si stava imponendo in quegli anni definitivamente, però non tanto come «causa», bensì come «effetto» prodotto dalla svolta culturale impressa dalla cultura dell’epoca e soprattutto dai filosofi. Il nuovo modo di pensare proposto dai filosofi a cominciare da Talete, e in particolare con la dialettica a partire da Zenone di Elea, comportava un mutamento

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concettuale e sintattico del modo di pensare e di comunicare, con il passaggio da un «pensare per immagini e per miti» a un «pensare per concetti». Ma, mentre per i filosofi presocratici naturalisti il nuovo modo di pensare era rimasto in larga misura chiuso nell’ambito di circoli e di scuole, con Socrate si era diffuso fra tutti gli uomini di cultura e anche fra i comuni cittadini: Socrate, infatti, parlava e comunicava i suoi messaggi rivoluzionari con il metodo della «discussione dialettica» non solo nelle palestre e nei simposi, ma anche nelle piazze e nelle botteghe di artigiani. Havelock ritiene che tale metodo, considerato tipico di Socrate, poteva essere di carattere generale e proprio di un nuovo modo di pensare che veniva usato contro l’abitudine dell’uso della «oralità mimeticopoetica». Ma, in realtà, pur ammettendo che in tale rivoluzione di carattere epocale dovettero entrare varie componenti, rimane incontestabile il fatto che proprio Socrate è stato il corifeo dell’«oralità dialettica», e che va attribuita a lui più di quanto pensi Havelock. Tuttavia lo studioso illustra questo fenomeno molto bene. Spiega, infatti, in modo esatto: «Questo era il metodo della dialettica: non necessariamente quella forma evoluta di ragionamento logico concatenato che si trova nei dialoghi di Platone, ma l’espediente originario nella sua forma più semplice, che consisteva nel chiedere a un interlocutore di ripetere quanto aveva detto e di spiegare quel che intendeva dire. In greco le parole che esprimono il dire, lo spiegare e il significato possono coincidere. Vale a dire, la funzione originaria della domanda dialettica era semplicemente quella di costringere l’interlocutore a ripetere una enunciazione già fatta, con la tacita premessa che tale enunciazione aveva qualcosa di insoddisfacente,

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e che era meglio formularla nuovamente. Ora, l’enunciazione in parola, se riguardava importanti questioni di tradizione culturale e di etica, doveva essere di natura poetica e impiegare le immagini e sovente anche i ritmi della poesia. Era tale da invitare a identificarsi con qualche esempio emotivamente efficace, e a ripeterlo più e più volte. Ma il dire “Che cosa intendi dire? Ripetilo” disturbava bruscamente il piacevole compiacimento offerto dalla formula o dall’immagine poetica. Significava usare parole diverse, e queste parole equivalenti non riuscivano poetiche, dovevano essere prosaiche. All’atto in cui veniva posta la domanda, le fantasie dell’interlocutore e dell’insegnante venivano turbate, e il sogno per così dire spezzato, sostituito da qualche spiacevole sforzo di riflessione e di calcolo. In breve, la dialettica, arma che sospettiamo venisse impiegata in questa forma da un intero gruppo di intellettuali nell’ultima metà del quinto secolo, era uno strumento per ridestare la coscienza dal suo linguaggio di sogno e per stimolarla a pensare astrattamente. Nel far ciò, nacque la concezione “io penso intorno ad Achille”, in luogo dell’altra “io mi identifico con Achille”» (op. cit., pp. 171-172). A tutto questo va aggiunta la famosa domanda del «che cos’è», come per esempio «che cos’è il bello», con la quale Socrate costringeva gli interlocutori a passare dalla presentazione di «esempi» al «concetto generale del che cos’è», di cui quegli «esempi» non erano se non una particolare determinazione. Nel procedimento dialettico-elenctico, Socrate tendeva a superare via via la molteplicità degli «esempi» di cose, la molteplicità degli «attributi» più o meno estrinseci connessi con il concetto discusso, per giungere all’unità dell’essenza, e quindi all’espressione definitoria della medesima.

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Noi pensiamo che sia stata soprattutto la dialettica socratica a imporre in modo determinante e definitivo la necessità della scrittura, in quanto i «dialoghi dialettico-elenctici» che Socrate intratteneva con varie persone non potevano essere memorizzati e riutilizzati come avveniva con le opere poetiche. Essi introducevano infatti una nuova terminologia e una nuova sintassi, al punto che nacque il nuovo genere letterario dei «logoi sokratikói», che i suoi discepoli composero in gran numero. Diogene Laerzio (II 122), oltre ai numerosi discorsi socratici redatti dagli allievi del filosofo, ne menziona trentatré composti da un calzolaio di nome Simone, nella cui bottega Socrate talvolta discuteva. 7. Personaggi che hanno compreso la rivoluzione di Socrate Però è stato Platone, più di tutti gli altri, a comprendere la natura e la portata della rivoluzione operata da Socrate, e l’ha fatta ben intendere come una vera e propria «necessità storica», soprattutto nelle sue prime opere. Letti nell’ottica che abbiamo descritto, i dialoghi giovanili di Platone acquistano un senso nuovo e particolarmente significativo. Platone, in questi suoi scritti, più che presentare una nuova definizione delle virtù o delle cose in essi discusse, era interessato a far comprendere il «nuovo metodo» con il quale quei problemi andavano trattati, denunciando gli errori commessi in passato da molti e prospettando la nuova via che bisognava seguire. Platone forniva, tuttavia, anche alcuni spunti utili per una positiva soluzione dei problemi discussi, pur pun-

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tando, prevalentemente, sul «metodo dialettico-elenctico», che costituiva appunto la grande rivoluzionaria novità imposta soprattutto da Socrate. Dunque, è evidente che i dialoghi socratici, se vengono letti in questa ottica, acquistano un ben preciso significato e una particolare importanza, sia dal punto di vista storico, sia dal punto di vista dottrinale e teoretico. A Senofonte importavano soprattutto le conclusioni alle quali Socrate giungeva o faceva giungere gli interlocutori; proprio all’opposto di Platone, cui nei primi scritti interessava, in netta prevalenza, il nuovo metodo da seguire per giungere a determinate conclusioni. Per poter far comprendere la geniale e rivoluzionaria imposizione del nuovo «metodo dialettico-elenctico» da parte di Socrate, che cambiava radicalmente la storia della comunicazione culturale dei Greci, occorreva un genio non meno grande di quello di Socrate medesimo, ossia il genio di Platone. Ricordiamo che la portata della rivoluzione del metodo di Socrate è stata compresa, fra i contemporanei, oltre che da Platone, anche da Aristofane, come terribile e grande nemico, e quindi in senso completamente negativo. Si consideri che un grande nemico può, talvolta, far capire della persona contro la quale polemizza molto più di un moderato e superficiale amico. Bartolone (19992, p. 20) scriveva giustamente: «… è la testimonianza negativa che risulta la più pertinente come la più compromessa nell’incidenza effettiva dell’ethos personale di Socrate, poiché mostra d’aver subito l’urto diretto di essa, cui reagisce investendolo con la massiccia opposizione d’un’accusa, culminante nella sanzione estrema a carico di chi nella propria esistenza lo traduceva e lo celebrava».

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E questo accade proprio con Aristofane, in buona misura. Nelle Nuvole, il commediografo ateniese presenta la dialettica di Socrate come una losca arte che distrugge l’antico ethos dei Greci (si veda la bella traduzione di Del Corno, 1996). Nelle Rane (vv. 1490 sgg., tr. Del Corno), Socrate abbindola gli interlocutori con insulse fole, spregiando la poesia e l’arte tragica: Bello è fare chiacchiere seduti insieme a Socrate, spregiando la poesia e trascurando i sommi princìpi dell’arte tragica. Con discorsi solenni E insulse futilità Passare inerti il tempo È da uomo dissennato.

E negli Uccelli (vv. 1556 sg., tr. Del Corno) Ari­ stofane rappresenta Socrate «sporco» negli infe­r i, in una palude ove raduna le «anime», che per Aristofane sono gli «spiriti» (fantasmi senza in­tel­ligenza), in opposizione alla tesi di Socrate che l’uomo è soprattutto la sua anima come in­tel­ligenza – tesi che rivoluzionava il modo di pen­sare dei Greci impostosi da Omero in poi: Presso gli Ombripodi c’è una palude dove senza lavarsi Socrate aduna gli spiriti (yucagwgei`)…

Nietzsche, ispirandosi proprio ad Aristofane, giudica la dialettica socratica e la sua portata nello stesso modo

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del commediografo, acerrimo nemico del filosofo. Con la sua dialettica Socrate ha agito come una «potenza demonica» che ha scacciato Dioniso. E scrive che a cacciare Dioniso è stato «un dèmone di recentissima nascita, chiamato Socrate. È questo il nuovo contrasto: il dionisiaco e il socratico». La grandiosa opera d’arte della tragedia greca, dunque, perì a causa di Socrate e dei suoi influssi su Euripide (La nascita della tragedia, § 12, p. 83). E ancora: «… riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso, o il nuovo Orfeo che si leva contro Dioniso e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio» (ivi, pp. 88 sg.). Infine, ecco l’affermazione più icastica e sotto molti aspetti più illuminante di Nietzsche, che vede in Socrate con la sua «dialettica» addirittura il negatore e il distruttore della stessa natura dei Greci: «Chi è costui che osa da solo negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Pindaro ed Eschilo, attraverso Fidia, attraverso Pericle, attraverso la Pizia e Dioniso, attraverso l’abisso più profondo e la cima più alta è sicura della nostra stupefatta adorazione? Quale forza demonica è questa, che può ardire di rovesciare nella polvere un tale filtro incantato? Quale semidio è questo, a cui il coro degli spiriti dei più nobili fra gli uomini deve gridare: “Ahi! Ahi! Tu lo hai distrutto, il bel mondo, con polso possente; esso precipita, esso rovina!”» (op. cit., § 13, p. 91). In effetti, Socrate con la sua dialettica ha provocato una svolta epocale nella cultura dei Greci, ossia la fine della cultura dell’oralità mimetico-poetica e la nascita della civiltà del pensare dialettico per concetti, e quindi della scienza. Ed è proprio questo che Platone ci ha spiegato in vari modi nei suoi primi scritti che presentiamo nella loro completezza.

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8. Lo scopo della nostra edizione di questi dialoghi Il nostro progetto di pubblicazione degli undici dialoghi socratici, oltre agli altri dialoghi giovanili già editi in questa collana (Apologia di Socrate, 201312; Critone, 20103; Eutifrone, 20112; Ione, 20113), tende a rivalorizzarli profondamente, sulla base della linea ermeneutica che abbiamo indicato. Riporteremo il testo greco a fronte nella classica edizione di John Burnet, in quanto a nostro avviso rimane la migliore; e su di essa si basa il Lessico con supporto elettronico che è stato curato dal nostro allievo Roberto Radice, con la collaborazione per la parte elettronica di Roberto Bombacigno (2003), complemento della nostra edizione delle opere platoniche. Sono, questi, gli ultimi dialoghi di Platone di cui noi ci occupiamo a fondo, in quanto solo dopo l’acquisizione delle nuove idee di cui abbiamo detto, e solo dopo aver studiato il pensiero di Socrate, siamo stati in grado di interpretarli in modo adeguato, di valutarli nella loro grande importanza e di gustarli, mentre in precedenza, come molti altri studiosi, ci lasciavano perplessi. In particolare, non riuscivamo a comprendere in modo adeguato la ragione della loro conclusione per lo più «aporetica». Chiedevamo ai primi dialoghi platonici di dirci quello che ci saremmo aspettati da essi (ossia di offrirci le definizioni della virtù su cui discutevano), e non quello che l’autore aveva intenzione di dirci (le novità rivoluzionarie del metodo socratico per giungere a quelle definizioni). Già nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso avevamo incominciato a studiare i dialoghi aporetici, affrontando in primo luogo il Lachete

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(1957) e l’Eutifrone (1958, ma l’articolo era già pronto nel 1957), che sono i meno complessi. Ma abbiamo ben presto capito che i dialoghi giovanili di Platone sono assai più difficili da comprendere rispetto a quelli della maturità e della vecchiaia, e che quindi dovevamo seguire un’altra via. Inoltre, abbiamo ben compreso che l’interpretazione di un testo, di un’opera d’arte, di un autore, non può mai giungere a una conclusione definitiva, e abbiamo costatato la verità di ciò che dice Gadamer: «… la messa in luce del senso vero contenuto in un testo o in una produzione artistica non giunge a un certo punto alla sua conclusione; è in realtà un processo infinito. Non solo vengono eliminate sempre nuove cause di errore, sicché il senso vero viene purificato da ogni confusione, ma nascono anche sempre nuove fonti di comprensione, che rivelano insospettate connessioni di significato» (20145, p. 617). E le nuove fonti di comprensione dei dialoghi giovanili sono state quelle illustrate sopra, ossia: 1) l’ironia nella sua portata drammaturgica e concettuale; 2) la nuova tecnica di comunicazione con l’«oralità dialettico-elenctica» che imponeva la necessità della scrittura; cui vanno aggiunte 3) le scoperte connesse con l’ermeneutica di Gadamer, che ci hanno fatto bene comprendere le fonti degli errori di molte interpretazioni dei dialoghi platonici e il vero senso del metodo della domanda-e-risposta di Socrate. Abbiamo tradotto tutti questi dialoghi personalmente, non perché manchino buone traduzioni di essi. Ricordiamo, tra l’altro, che questi dialoghi sono già stati tradotti dalle nostre allieve Maria Luisa Gatti (Cratilo, Alcibiade maggiore, Alcibiade minore,

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Ipparco, Amanti, Eutidemo) e Maria Teresa Liminta (Teagete, Carmide, Lachete, Liside, Ippia maggiore, Ippia minore, Menesseno), e sono pubblicati nella edizione da noi curata di Platone, Tutti gli scritti (Bompiani 20147), e di cui abbiamo tenuto debito conto. Liminta ha anche pubblicato una monografia sull’Ippia maggiore (1974; 19982) e una edizione con traduzione, testo a fronte e commento del dialogo in collaborazione con Hans Krämer (1998). Un’altra nostra allieva, Maria Lualdi, ha pubblicato una monografia sul Liside (1974) e una traduzione con testo a fronte e commento del dialogo, pure con la collaborazione di Hans Krämer (1998). La ragione di questo cospicuo impegno che ci siamo assunti sta nella nostra profonda convinzione che gli scritti di Platone, per essere ben studiati e compresi a fondo, devono essere tradotti direttamente. HansGeorg Gadamer ci diceva proprio questo, e ci spiegava il modo in cui lo aveva imparato alla scuola di Paul Friedländer. Ci diceva anche che Martin Heidegger non aveva capito bene Platone, e che in particolare non aveva compreso il metodo dialettico del dialogo platonico, proprio per la ragione che non aveva mai voluto affrontare in modo diretto e sistematico il testo originale dei dialoghi, come invece aveva fatto per Aristotele. Nel corso della nostra vita di studioso abbiamo tradotto ventidue dialoghi, fra quelli già editi e quelli che pubblichiamo nel 2015. Per questa collana, oltre ai quattro dialoghi già sopra citati, abbiamo curato alcuni dei capolavori di Platone: Protagora, 20123; Gorgia, 20103; Menone, 20103; Fedone, 20136; Simposio, 20149; Fedro, 20135; Timeo, 20135. Inoltre, abbiamo collaborato con Roberto Radice alla traduzione di parte della Repubblica, e abbiamo tradotto pagine essenziali dei

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dialoghi dialettici nel nostro volume Per una nuova interpretazione di Platone (Bompiani 201022), e in questo costante lavoro abbiamo costatato la verità dell’affermazione di Gadamer. Gli undici dialoghi che ora presentiamo vengono editi nel seguente ordine: Teagete, Ippia minore, Ippia maggiore, Ipparco, Amanti, Carmide, Lachete, Liside, Eutidemo, Alcibiade primo, Alcibiade secondo. Abbiamo evitato il più possibile (tranne in casi eccezionali) di entrare in discussioni polemiche con altre interpretazioni, e, per non sovraccaricare quanto diciamo, abbiamo ridotto all’essenziale le citazioni della letteratura secondaria, anche perché, non poche volte, certi autori mostrano di avere conoscenze parziali, e spesso pubblicano opere a scopi in prevalenza accademici, concentrandosi su uno solo o su pochi dialoghi socratici, senza misurarsi con l’«intero». Inoltre alcuni studiosi affrontano questi dialoghi collocandosi completamente al di fuori del giusto circolo ermeneutico, e, soprattutto per quanto riguarda coloro che seguono i criteri della logica formale e della filosofia analitica, si impone la verità egregiamente espressa in una bella metafora da Kierkegaard nel suo Diario: «Succede spesso, nel seguire la via seguita dai commentatori, come è successo a quel viaggiatore diretto a Londra: “È questa la via per Londra?”; “Certo, ma se vuoi giungervi, bisogna che tu inverta la direzione”» (II, p. 25). Pochi hanno compreso in che misura gli studiosi che con le loro ricerche seguono quei metodi si allontanano dalla comprensione dei dialoghi giovanili di Platone. Meglio di tutti, a nostro avviso, ha compreso questo Franco Trabattoni (soprattutto nel suo saggio sul Liside del 2003, in particolare pp. 60-70), con pertinenti rilievi critici, con i quali in larga misura con-

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cordiamo, in quanto spiegano molto bene a certi interpreti come sia necessario che invertano la direzione che seguono, se vogliono giungere alla comprensione di Platone. Vincenzo Cicero (che ringraziamo vivamente) ha preparato per ogni singolo dialogo una bibliografia specifica, e il lettore interessato può quindi trarre da essa tutti gli strumenti per eventuali approfondimenti. Presenteremo in ogni dialogo, oltre a questa Prefazione, un approfondito Saggio introduttivo e note essenziali, mettendo in evidenza quanto abbiamo detto, ossia il senso e la dimensione della «socraticità» di questi scritti nei suoi vari sensi e in particolare nella sua portata storicamente rivoluzionaria. Un singolo dialogo di Platone si capisce molto meglio se si conoscono bene tutti gli altri, in quanto rimane verissimo un principio già illustrato da Schleiermacher nella sua Ermeneutica, secondo il quale si conosce la parte se si conosce il tutto, e viceversa. Noi, allo studio di Platone, abbiamo dedicato tutta la vita, e speriamo di poter far gustare ai lettori anche questi dialoghi in passato considerati «minori», e che sono invece, talora, di livello assai elevato. Dimostriamo in modo dettagliato la verità di ciò che affermava Werner Jaeger in generale: «Solo a condizione di una ingenuità totale, si potrebbe pensare che, per il fatto di non giungere a una scolastica definizione del soggetto in esame, questi dialoghi si rivelino come l’opera di un principiante, che azzardi qui i suoi primi passi infelici su un terreno inesplorato. In realtà il risultato cosiddetto negativo di questi dialoghi “confutatori” o “elenctici” è di tutt’altro significato» (ed. Bompiani, pp. 836 sg.). Jaeger ritiene che il fine di tali dialoghi consista in particolare nello stimolo che producono nel lettore

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ad appassionarsi al problema non risolto e cimentarsi nuovamente su di esso in modo costruttivo. Ma noi troveremo molto di più, e, in particolare, vedremo in che misura questi dialoghi ci faranno conoscere a fondo Socrate nella grandezza del suo messaggio rivoluzionario, ossia, come abbiamo sopra precisato, nella nuova metodologia della dialettica elenctica e nella nuova arte della comunicazione (oltre che nei suoi contenuti), che si impone come un punto di riferimento di carattere epocale, e quindi come una vera e propria «necessità storica». E Platone, nei suoi primi scritti, ci fa capire proprio questo, come nessun altro ha saputo fare.

saggio introduttivo per una corretta lettura ermeneutica dell’Alcibiade secondo

I Sull’autenticità e sul significato dell’alcibiade secondo

1. Sulla discussa autenticità dell’Alcibiade secondo L’Alcibiade secondo, pur nel suo contenuto lineare e nella forma semplice con cui è presentato, risulta essere e in effetti è uno dei dialoghi socratici più difficili da intendere e da valutare, per una serie di pregiudizi ermeneutici – non sempre giustificati – sollevati dagli studiosi anche di alto livello. Wilamowitz, per esempio, nel suo celebre Platon (19595, p. 296, nota 1), lo liquidava in poche parole, scrivendo: «Fra gli scritti di Platone ci sono due dialoghi con il titolo Alcibiade. Il piccolo, già nell’antichità riconosciuto come inautentico, del tutto insignificante (ganz unbedeutend) e non contiene nulla di individuale (nichts Individuelles)». Diogene Laerzio (III 57) lo elenca fra i dialoghi autentici, ma già nell’antichità c’era chi lo metteva in dubbio e Ateneo (XI 506 C) attesta che l’Alcibiade secondo «da alcuni era detto di Senofonte». Schleiermacher (tr. fr., 2004, p. 221) respinge categoricamente la possibilità di attribuire il dialogo a Senofonte, in particolare per lo stile, e la considera una tesi «che senza esitazione deve essere respinta da ogni filologo». Ma subito soggiunge: «… non c’è tuttavia bisogno di fatto di una testimonianza per esprimere un giudizio categorico per respingerlo». Un fine conoscitore di Platone come Alfred E. Taylor (tr. it., p. 806) affermava: «È un lavoro mediocre, e che non

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sia di Platone è dimostrato chiaramente dallo stile, da alcune imitazioni dell’Alcibiade primo e da una chiara allusione ad uno dei “paradossi“ stoici, come generalmente si ammette da August Böckh in poi». E a questi giudizi molti altri se ne potrebbero aggiungere. In realtà, il dialogo non è affatto del tutto insignificante e di contenuto mediocre, anche se di dubbia autenticità. A noi, che pure lo consideriamo sospetto, più che riprendere una discussione su tale questione interessa far vedere l’esatta corrispondenza che ha con i primi dialoghi platonici, soprattutto nei contenuti. Interessa in particolare dimostrare come, se non è di Platone, chi l’ha scritto mostra di avere le stesse intenzioni che aveva il giovane Platone. In particolare, l’autore presenta i tratti essenziali del pensiero di Socrate, senza fare riferimento, neppure per cenni, a dottrine propriamente platoniche, che si trovano nei dialoghi della maturità e della vecchiaia. Di conseguenza, l’Alcibiade secondo dovrebbe essere stato composto all’epoca della produzione giovanile di Platone. Una sua supposta tarda composizione lo renderebbe un frutto del tutto fuori stagione, e non si spiegherebbe, né dal punto di vista dottrinale né dal punto di vista storico. 2. Insostenibilità dell’influsso di dottrine dello Stoicismo La tesi che l’autore del dialogo presenta e sviluppa (138 A-140 D), e contro cui prende posizione negativa, sarebbe quella secondo cui tutti i dissennati sono pazzi, tranne il saggio. Tale tesi è stata avvalorata da studiosi come Karl Joel (I, p. 554) e Hans Raeder (1905, p. 23), e si è diffusa in vario modo. Taylor scrive (tr. it., p. 807): «È anche più

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significativo [per la dimostrazione della inautenticità e della tarda composizione del dialogo] che la discussione del “paradosso” stoico, sia forzatamente introdotta nell’argomentazione proprio al suo inizio. Edipo viene tirato in ballo solo come preludio all’osservazione che egli era “pazzo”, e quella che è l’argomentazione principale ristagna, mentre Socrate si abbandona a discutere l’insignificante questione se tutti gli stolti siano anche “pazzi”. L’autore in tal modo tradisce la sua vera preoccupazione, che è quella di attaccare gli stoici. Questo dimostra che la data di composizione non può essere anteriore alla comparsa dello stoicismo, vale a dire ai primi decenni del terzo secolo». Souilhé (1930, p. 10) ha respinto tale tesi in modo categorico, in quanto, a un attento esame del testo, il senso della formula secondo cui i dissennati sono pazzi nel nostro dialogo non è quella propria degli Stoici: «Lungi dall’ammettere, come gli Stoici, che l’ajfrosuvnh possa riportarsi alla maniva, l’autore dell’Alcibiade secondo respinge, al contrario, tale assimilazione. Egli fa della ajfrosuvnh un genere generalissimo che comprende molte specie, una delle quali è maniva». Questo genere, poi, comporta tutta una serie di gradi fino ai più tenui. Noi pensiamo che questo passo si ispiri al metodo della distinzione dei significati dei termini e dei sinonimi, seguendo in certo senso il metodo della sinonimica introdotto da Prodico di Ceo. Data la rilevanza della questione, riteniamo opportuno leggere in anticipo il testo: Socrate – Allora, non ti sembra che essere pazzo sia contrario all’essere assennato? Alcibiade – Sicuramente. Socrate – E non ti sembra che alcuni uomini siano dissennati e altri assennati?

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Alcibiade – Sì, ce ne sono. Socrate – Vediamo, dunque, chi siano costoro. Infatti, abbiamo convenuto, che alcuni uomini sono dissennati, altri assennati, altri ancora pazzi. Alcibiade – Lo abbiamo ammesso. Socrate – Ci sono, poi, uomini sani? Alcibiade – Ci sono. Socrate – E ce ne sono anche altri che sono malati? Alcibiade – Certamente. Socrate – E sicuramente non sono gli stessi? Alcibiade – No. Socrate – Allora, ce ne sono forse anche altri che non sono in nessuna di queste due condizioni? Alcibiade – Proprio no. Socrate – Dunque, è necessario che un uomo sia o malato o non malato. Alcibiade – Mi pare proprio. Socrate – E, allora, sulla assennatezza e sulla dissennatezza hai la stessa convinzione? Alcibiade – Come dici? Socrate – Vorrei sapere se sei del parere che non si possa essere se non assennati o dissennati, o se vi sia come intermedia una terza condizione, che fa essere l’uomo né assennato né dissennato. Alcibiade – Certo che no. Socrate – Allora, è necessario trovarsi in una o nell’altra di queste due condizioni. Alcibiade – Mi pare. Socrate – Ebbene, ti ricordi che hai ammesso che la pazzia è il contrario della assennatezza? Alcibiade – Io sì. Socrate – E hai anche ammesso che non c’è una terza condizione intermedia, che rende un uomo né assennato né dissennato? Alcibiade – Sì, l’ho ammesso. Socrate – E sarebbe possibile che ci fossero due contrari di una medesima cosa? Alcibiade – Niente affatto.

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Socrate – Perciò, si dà il caso che dissennatezza e pazzia siano la stessa cosa. Alcibiade – Sembra. Socrate – Perciò, Alcibiade, dicendo che tutti gli uomini dissennati sono pazzi, diremmo giustamente, per esempio, se fra i tuoi compagni ci sono dei dissennati, come in realtà ce ne sono, e anche fra quelli che sono più avanti negli anni. Suvvia, per Zeus, non pensi che nella Città gli uomini assennati sono pochi, mentre più numerosi sono quelli dissennati, che tu chiami pazzi? Alcibiade – Sì. Socrate – Allora, pensi che dovremmo essere contenti di avere come concittadini così tanti pazzi? E non credi che saremmo già stati percossi, che saremmo stati vittime di quelle cose che i pazzi di solito commettono, e che già da tempo ne avremmo scontato la pena? Sta però attento, mio caro, che le cose non stiano in questo modo. Alcibiade – Allora, Socrate, come stanno le cose? Si dà il caso, infatti, che non stiano come credevo. Socrate – Non lo credo neppure io. Ma bisogna considerare le cose in un altro modo. Alcibiade – In quale modo dici? Socrate – Te lo dirò. Ammettiamo che ci sono alcuni malati, o no? Alcibiade – Sicuramente. Socrate – Allora, pensi che sia proprio necessario che chi è malato sia malato di podagra o di febbre o di oftalmia, o pensi che, senza essere affetto da nessuna di queste malattie, possa essere sofferente di un’altra? Infatti, le malattie sono molte, e non solo queste. Alcibiade – Mi pare. Socrate – Ti pare, dunque, che ogni oftalmia sia una malattia? Alcibiade – Sì. Socrate – E, allora, ogni malattia è forse un’oftalmia? Alcibiade – Certo che no secondo me. Ma non so come dire. Socrate – Però, se mi presterai attenzione lo saprai, e cercando «in due», forse troveremo.

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Alcibiade – Ma io presto attenzione, Socrate, per quanto mi è possibile. Socrate – Allora, non abbiamo forse ammesso che ogni oftalmia è una malattia, mentre non ogni malattia è un’oftalmia? Alcibiade – Lo abbiamo ammesso. Socrate – E mi sembra che lo abbiamo ammesso a giusta ragione. Infatti, tutti quelli che hanno febbre sono malati, mentre non tutti quelli che sono malati hanno febbre, o podagra, o oftalmia, penso. Tutte le cose di questo genere sono malattie, però differiscono, come dicono quelli che chiamiamo medici, per gli effetti che producono. Infatti, ogni malattia produce non per tutti gli stessi effetti, né in modo simile, ma ciascuna malattia secondo la caratteristica che le è propria. Tuttavia, sono tutte quante malattie. Per fare un altro esempio, ammetteremo che ci siano degli artigiani. O no? Alcibiade – Sicuramente. Socrate – E precisamente, non ci sono forse calzolai, carpentieri, scultori e altri in gran numero, che non c’è bisogno di enumerare a uno a uno? Ebbene, essi esercitano parti distinte dell’arte, e sono tutti artigiani, però senza essere tutti costruttori, né calzolai, né scultori, che sono tutti quanti artigiani. Alcibiade – No certo. Socrate – Proprio in questo modo è stata ripartita anche la dissennatezza. Noi chiamiamo pazzi gli uomini che possiedono la parte più grande di essa, e, invece, sciocchi e intontiti quelli che ne possiedono un po’ di meno. Fra coloro invece che preferiscono usare termini eufemistici, alcuni li chiamano esaltati, altri semplicioni, altri ancora ingenui, inesperti e stupidi. Se cerchi, troverai anche molti altri nomi. Sono tutte forme di dissennatezza, ma differiscono fra loro, così come un’arte ci risulta diversa da un’altra arte, e una malattia da un’altra malattia. O come ti pare? Alcibiade – Anche a me pare così.

Questo testo non solo conferma la tesi di Souilhé che il ragionamento non parte affatto dal paradosso stoico,

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ma rende del tutto plausibile la nostra, ossia che, qui, l’autore fa un ragionamento ispirato al metodo della sinonimica di Prodico di Ceo, che Socrate nomina spesso e che Platone chiama in causa non poche volte. 3. Inconsistenza delle prove addotte per far risalire l’opera all’epoca di Arcesilao Anche la chiamata in causa di Arcesilao non regge. Taylor, nella prosecuzione del passo del paragrafo precedente, per avvalorare l’ipotesi della data di composizione dell’opera nei primi decenni del III secolo a.C. scrive: «Al tempo di Arcesilao, capo dell’Accademia dal 278 al 241 a.C., la polemica contro gli Stoici divenne il compito principale della scuola». La tesi era stata già sostenuta da Ernst Bickel (1904, pp. 460-479), che riteneva presente un riferimento alla polemica contro gli Stoici di Arcesilao, soprattutto in questo testo: [146 B - D] Socrate – Ma non ci sembrava necessario, in primo luogo, essere convinti di sapere, o sapere in realtà quello che stiamo prontamente per fare o per dire? Alcibiade – Ci sembrava. Socrate – Allora, se uno fa quello che sa o che crede di sapere, e a questo si aggiunga anche l’utile, questo non sarebbe anche di vantaggio per la Città e per se medesimo? Alcibiade – E come no? Socrate – Se, invece, come credo, uno farà il contrario di queste cose, non sarà di vantaggio né alla Città, né a se medesimo? Alcibiade – Proprio no. Socrate – E allora? Ti sembra che la cosa sia così o in un altro modo? Alcibiade – No, ma così.

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Socrate – Ma non hai detto che chiamavi stolti i più e assennati i meno? Alcibiade – Sì. Socrate – Dunque, diciamo ancora una volta che i più si sbagliano per quanto riguarda il meglio, perché, molte volte, a quanto sembra, si fidano dell’opinione, senza riflettere con la mente. Alcibiade – Lo diciamo, infatti. Socrate – Allora, per i più è vantaggioso non sapere nulla né credere di sapere, se proprio si impegneranno maggiormente a fare quello che sanno o pensano di sapere, e, facendo questo, ne ricaveranno più danno che giovamento.

Arcesilao voleva dimostrare che l’azione morale è possibile anche senza il ritrovamento della Verità e senza la certezza assoluta, dato che è possibile compiere azioni rette, anche senza raggiungere la verità e la certezza assoluta: basta il «ragionevole» o «plausibile». Infatti, chi compie azioni ragionevoli è felice, ma la felicità implica saggezza, e le azioni fatte col criterio del «ragionevole» sono «sagge». E con questo Arcesilao dimostrava, con le armi stesse degli Stoici, essere sufficiente il ragionevole, e che, di conseguenza, erano assurde le pretese della morale superiore del saggio stoico (su Arcesilao si veda G. Reale, Storia…, V, pp. 47-55). In realtà, il testo sopra riportato, non estrapolato ma letto nel suo contesto, dice addirittura il contrario di quanto dice Arcesilao. Souilhé (1930, p. 12) aveva già ben compreso questo, e scriveva che l’autore del nostro dialogo «insiste sul fatto che l’ignoranza è preferibile a una falsa scienza: è quando immagina di sapere ciò che non sa, che uno si attira i più grandi mali. Vuol dimostrare che qualsiasi conoscenza perde la sua utilità se a essa non si accompagna la scienza del bene».

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4. L’infondata chiamata in causa di allusioni ad Alessandro Magno L’autore del nostro scritto a un certo punto parla della tirannide e dell’uomo che desidererebbe diventare tiranno non solo di Atene, ma di tutti i Greci e dell’Europa, e perfino dei barbari: [141 A - C] Socrate – […] Io penso, infatti, che tu per primo, se ti apparisse il dio dal quale stai andando, e, prima ancora che tu gli avessi chiesto qualsiasi cosa, ti domandasse se tu saresti contento di diventare tiranno della Città di Atene, e, nel caso che questo ti sembrasse di poco conto e non abbastanza grande, il dio soggiungesse anche tiranno di tutti quanti gli Elleni; e se, poi, si accorgesse che tu comunque pensi di possedere ancora troppo poco senza avere tutta l’Europa, ti promettesse anche questo, e non solo questo, ma anche, per tuo desiderio, facesse in modo che oggi stesso tutti sapessero che Alcibiade, figlio di Clinia, è tiranno: ebbene, ritengo che tu te ne andresti pieno di gioia, come se avessi ottenuto i più grandi beni. Alcibiade – Sono convinto, Socrate, che lo farebbe chiunque altro, se gli capitassero cose di questo genere. Socrate – Però, non vorresti diventare padrone della terra, né di tutti gli Elleni e dei barbari, in cambio della tua vita.

Solo partendo dal «pregiudizio ermeneutico» che lo scritto sia stato composto in epoca ellenistica, si potrebbe pensare che l’Autore facesse un riferimento alla figura di Alessandro. Infatti, quelli espressi nel testo letto sono pensieri che ricorrono in Platone, a cominciare dal Teagete, dove si legge (125 D-126 A): Socrate – E allora? Anche tu desideri una compagnia di questo genere, ossia quella di un uomo che sia compagno

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d’arte di Callicrite, figlia di Ciane, che «conosce la tirannide», come quello che il poeta diceva, in modo che anche tu possa diventare tiranno nostro e della Città? Teagete – È da un pezzo, Socrate, che mi schernisci e ti prendi gioco di me. Socrate – E perché mai? Non dici di desiderare quella sapienza con la quale comandare tutti i cittadini? E facendo questo, che altro saresti, se non un tiranno? Teagete – Io farei voti, credo, per diventare tiranno, soprattutto di tutti gli uomini, se no, almeno della maggior parte. Lo vorresti anche tu, credo, e tutti quanti gli uomini. E ancor più, forse, per diventare un dio. Però non è questo che io dicevo di desiderare.

Si tenga presente che soprattutto nella presentazione di Callicle nel Gorgia e della figura del tiranno nella Repubblica, Platone esprime perfettamente il suo pensiero, e rivela quello che solo pochi hanno compreso. Il tiranno, soprattutto come viene presentato nella figura di Callicle, per Platone, non è soltanto un personaggio a lui estraneo e quindi solo un nemico da combattere. Callicle molto probabilmente rappresenta anche una tentazione, una parte ribelle che Platone sente urgere in se medesimo, e che vuole schiacciare o domare. Eccellenti rilievi, su questo punto, sono stati fatti per la prima volta da Jaeger e da Hildebrandt. Scrive Jaeger: «Forse non si è pensato abbastanza alla possibilità che Platone abbia avuto nel suo carattere una buona dose di questa indomabile volontà di potenza e che in Callicle egli abbia saputo cogliere una parte di se stesso. Questa parte noi non la vediamo più, sepolta com’è sotto le fondamenta della repubblica platonica. Ma, se Platone fosse stato per natura proprio e soltanto un altro Socrate, questi non avrebbe potuto agire su lui in maniera cosi decisiva e soverchiante. I ritratti dei grandi Sofisti retori e uomini di Stato, che Platone disegna con

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animo così congeniale, dicono ben chiaro che egli portava nella sua anima tutte quelle energie, colle loro attrattive affascinanti e coi loro rischi terribili; ma, disciplinate e costrette da Socrate esse si fusero nell’opera di Platone, come avvenne per la sua natura di poeta, in una superiore unità con lo spirito socratico, e per esso si fecero operanti» (ed. Bompiani, p. 992). E Kurt Hildebrandt, in modo anche più accentuato scrive: «... Callicle può parlare così, poiché Platone descrive in lui, nel suo mondo autentico, la propria tentazione. L’ira di Platone era prossima alla disperazione. Anch’egli è un uomo, anch’egli sente il tormento del sacrificarsi invano. Egli non era un semplice popolano come Socrate, apparteneva alla più ragguardevole nobiltà, già una volta (a 24 anni) era stato vicino ai governanti, e soltanto Socrate parve staccarlo dalla splendida strada. Ora si avvicinava ai quarant’anni, il suo risultato era la solitudine e lo minacciava il pericolo di morire come Socrate; come doveva risuonare seducente la voce di Satana che lo esortava a concludere un patto con Atene e iniziare la carriera che conduce alla potenza, alla gloria, alla ricchezza! È questa l’ora fatale di Platone... Callicle è al tempo stesso due cose: avversario e tentatore...» (tr. it., p. 160). In questo modo si spiegano e si intendono veramente il tono passionale e l’atmosfera, talora veramente rovente, della terza parte del Gorgia (cioè del dialogo SocrateCallicle, che è di gran lunga la più ampia, e, anche, quella decisiva), e i vari riferimenti alla figura del tiranno. In particolare, i passi sopra letti del Teagete («Lo vorresti anche tu, credo, e tutti quanti gli uomini»), e quello del nostro dialogo («Sono convinto, Socrate, che lo farebbe chiunque altro, se gli capitassero cose di questo genere») confermano quanto detto, e dimostrano come sia fuori luogo la chiamata in causa di Alessandro Magno.

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5. Conclusioni ermeneutiche sulle riflessioni sopra fatte Nel secolo scorso solo Manfred Forderer (1960, pp. 25 sgg.) sosteneva l’autenticità del dialogo (citato da Erler, 2007, p. 294). Anche noi saremmo di questo parere, sia pure in via ipotetica e con qualche dubbio. Tuttavia, siamo profondamente convinti che sia molto difficile provare l’autenticità di un’opera, ma siamo anche convinti che sia altrettanto difficile dimostrarne in modo incontrovertibile l’inautenticità, soprattutto quando si tratta di un’opera che viene presentata dagli antichi fra quelle autentiche (Diogene Laerzio, III 57). Il fatto che qualcuno degli antichi l’abbia considerata spuria e attribuita a Senofonte, non dimostra, in ogni caso, che si tratti di un’opera di età ellenistica, e si tratta comunque di un’opinione isolata e che dagli studiosi moderni è stata respinta. La corretta comprensione di un dialogo come l’Alcibiade secondo è possibile solo se non si parte da convinzioni preconcette, che condizionano dal punto di vista ermeneutico in modo radicale, come ha dimostrato Gadamer. Infatti, la considerazione che molti passi sono derivati da altri dialoghi come l’Alcibiade primo e le Leggi, può essere esattamente capovolta, non presupponendo in partenza che il nostro dialogo sia un’opera spuria di epoca posteriore. Molti passi dell’Alcibiade secondo, a nostro avviso, potrebbero essere un anticipo di quanto in modo più sviluppato viene detto in dialoghi successivi. È vero che lo scritto non è a livello dei capolavori platonici, ma non è ragionevole pensare che Platone potesse e dovesse scrivere solo capolavori. Tutti i grandi autori hanno prodotto opere minori accanto alle maggiori. È vero che il personaggio Alcibiade è «troppo evanescente, privo di qualsiasi atteggiamento che lo carat-

sull’autenticità e sul significato dell’alcibiade secondo, I 5

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terizzi in modo coerente con la tradizione» (Arrighetti, 20124, p. 28), e che si arrende continuamente a Socrate. Però si dimentica che la figura di Alcibiade costituisce non tanto un ritratto del personaggio reale, quanto un personaggio ricreato dalla fantasia a partire da quello reale. Nel rapporto di Alcibiade con Socrate filosofo, Platone vedeva il rapporto ideale del maestro con un giovane particolarmente dotato, con le potenzialità di un vero allievo. In qualche modo quel rapporto prefigura il rapporto di Platone con Dione. È vero che, per certi aspetti, il nostro dialogo appare «troppo dogmatico» (Arrighetti, 20124, p. 28). Ma questo non basta per negarne l’autenticità, in quanto anche in altri dialoghi giovanili l’ironia e la dialettica elenctica sono molto presenti. Ma una prova della misura in cui, dal punto di vista ermeneutico, il pre-giudizio della inautenticità del dialogo condiziona non solo nell’intendere certe cose in certi modi ma addirittura possa accecare, lo dimostra una affermazione come questa di Arrighetti: «Inoltre ci sono vari elementi che rafforzano la perplessità: per prima cosa costituirebbe un unicum inspiegabile la composizione di due dialoghi col medesimo titolo» (Arrighetti, 20124, p. 27). Ma nel catalogo delle opere di Platone i due Alcibiade non costituiscono un unicum di due dialoghi con lo stesso titolo, ci sono anche l’Ippia maggiore e l’Ippia minore (a meno che non si consideri inautentico il primo Ippia). In ogni caso, certe conclusioni tratte anche da coloro che negano l’autenticità dello scritto, ma l’hanno studiato a fondo, sono esatte, come quelle di Souilhé (1930, p. 13): «D’altronde la struttura stessa del piccolo dialogo in cui si succedono tutte le varietà di composizione, discorso consecutivo, commento a poeti, discussione dialettica di andamento capriccioso e talvolta paradossale, ricorda da vicino il modo dei primi scritti platonici».

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Lo stesso Arrighetti (20124, p. 29) conclude: «Dunque, si ha l’impressione che chi ha composto il dialogo non solo avesse una perfetta conoscenza dell’opera platonica ma né intendesse aggiungere o modificare alcunché di quella, né volesse, ed è interessante, allontanarsi dalla tematica e dai toni dell’Alcibiade primo; forse il suo scopo era solo quello di dimostrare che un elemento secondario presente in quel dialogo, appunto la supposta preghiera di Alcibiade, fosse suscettibile di uno sviluppo autonomo in un’opera apposita». Dicendo questo, di fatto si ammette, collocandosi al di fuori del pregiudizio della inautenticità del dialogo, che il dialogo non può essere se non di Platone o di un suo sosia. In conclusione, se l’Alcibiade secondo ricorda tanto da vicino i primi dialoghi platonici, non si può collocare la sua composizione in età ellenistica. In ogni caso, va letto insieme ai primi dialoghi di Platone come significativa testimonianza del pensiero di Socrate.

II analisi dei contenuti dell’alcibiade secondo

1. Incontro di Socrate con Alcibiade e posizione del problema Socrate incontra Alcibiade mentre sta recandosi a pregare un dio, il cui nome non viene indicato, e solleva i problemi che comporta la preghiera agli dèi. In primo luogo, Socrate mette in rilievo il fatto che per quanto riguarda le cose che in genere gli uomini chiedono nelle loro preghiere, sia in privato che in pubblico, gli dèi si comportano in modo diverso. Infatti, a) ad alcuni concedono in generale le cose che chiedono, mentre ad altri non le concedono; b) in particolare, ad alcuni concedono le cose specifiche che chiedono, ad altri no. In secondo luogo, Socrate spiega la ragione per cui bisogna chiedere cose agli dèi con molta prudenza, in quanto può succedere che si chiedano cose che si ritengono beni, che invece sono mali. Questo è successo per esempio a Edipo, il quale ha chiesto agli dèi che i figli dividessero con la spada l’eredità paterna. Ma da questo derivarono grandi mali. Alcibiade precisa, però, che Edipo era un pazzo, e che solo un pazzo può chiedere quello che lui ha chiesto agli dèi.

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2. Analisi del significato dei termini assennatezza, dissennatezza e pazzia L’affermazione fatta da Alcibiade in riferimento a Edipo solleva il problema della pazzia e la discussione su di esso. Gli uomini possono dividersi in due grandi gruppi: gli assennati e i dissennati, e non esiste una terza posizione intermedia, in quanto non ci possono essere uomini né assennati né dissennati. La pazzia, come quella di Edipo, non può essere qualcosa di diverso dalla dissennatezza, in quanto una cosa può avere un solo contrario e non due, e, di conseguenza, dissennatezza e pazzia sono la stessa cosa. Tuttavia questa tesi, formulata in questo modo, non regge. Infatti, gli uomini assennati sono pochi, mentre i dissennati sono i più. Pertanto, se dissennatezza e pazzia coincidessero in senso assoluto, noi vivremmo fra la maggioranza di uomini che sono pazzi, con le conseguenze ben immaginabili che ne deriverebbero. L’autore presenta allora precisazioni e distinzioni terminologiche assai fini. Gli uomini sono in generale o sani o malati. Però ci sono molte malattie fra loro diverse, e chi è malato soffre di una delle varie malattie e non di tutte, che sono certo malattie, ma fra loro differenti. Analogamente, l’arte è una, ma distinta in molte e differenti parti. Ci sono infatti costruttori, calzolai, scultori e così di seguito, pur essendo tutti quanti artigiani. Così è anche per la dissennatezza: ci sono varie forme di essa, così come si è visto per le malattie e per le arti. Sono pazzi coloro che hanno gran parte di dissennatezza, mentre altri hanno dissennatezza in minor misura, come gli sciocchi, gli intontiti, gli incapaci e gli stupidi. Queste sono, infatti, tutte quante «forme di

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stoltezza, ma differiscono fra loro come un’arte risulta diversa da un’altra arte, e una malattia da un’altra malattia» [140 C]. 3. Precisazioni sulla natura degli assennati e dei dissennati L’autore precisa, quindi, quali siano le connotazioni essenziali degli assennati e dei dissennati. I primi sono coloro che «non sanno né l’una né l’altra di queste cose» [140 E]. Di conseguenza, i dissennati, non sapendo quello che devono fare e dire, faranno cose che «non dovrebbero né fare né dire», senza rendersi conto di quello che fanno. Edipo, in realtà, ha avuto grandi mali da quello che chiedeva agli dèi, ma non pensava di chiedere beni. Altri invece sono convinti di chiedere dei beni nelle loro preghiere, che poi si rivelano essere dei mali. Alcibiade si comporterebbe in questo modo, se gli fosse promesso dal dio di diventare tiranno di Atene, di tutti gli Elleni e dei barbari, e lui accettasse, senza rendersi conto dei mali che ne deriverebbero. A conferma di questo vengono portati vari esempi, a cominciare dalla sorte toccata ad Archelao tiranno della Macedonia, proseguendo con la descrizione dei mali toccati a coloro che hanno tanto desiderato ottenere la carica di generale, oppure chiesto agli dèi di avere figli che sono stati cattivi o sono morti prima del tempo. Noi dovremmo chiedere agli dèi nelle nostre preghiere che ci concedano solo dei beni, sia che sappiamo chiederli oppure no, e che eliminino i mali, come giustamente dice un poeta.

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4. In che senso l’ignoranza, che di per sé è un male, in certi casi per alcuni può essere un bene L’ignoranza in quanto tale è dunque un male. Tuttavia, precisa Socrate, «per alcuni uomini, in certe circostanze, l’ignoranza di certe cose è un bene, mentre, per altri, è un male» [143 B]. Rimane saldo il principio secondo cui è sempre un male non sapere che cosa sia il meglio, ossia l’ignoranza di ciò che è bene. Però, se ad Alcibiade venisse improvvisamente in mente di uccidere Pericle, suo tutore e amico, pensando che questo sia per lui il meglio, e tentasse di mettere in atto questa sua intenzione, ma non riconoscesse Pericle, questa ignoranza sarebbe per lui un bene. E lo stesso sarebbe stato per Oreste, il quale non avrebbe ucciso la madre, se non l’avesse riconosciuta. Pertanto «ignorare cose come queste, è meglio per coloro che si trovano in tali condizioni e che hanno intenti di questo genere. […] L’ignoranza di alcune cose e per alcuni che si trovano in certe situazioni è un bene e non un male, come poco fa credevi» [144 C-D]. 5. La grande tesi di Socrate sulla scienza del Bene e sulla sua superiorità su tutte le altre scienze La tesi secondo cui «si dà il caso che il possesso delle altre scienze, senza che sia accompagnato dalla scienza del meglio, poche volte è utile, mentre nella maggior parte dei casi è di danno per chi l’ha» [144 D], che costituisce uno dei grandi assi-portanti del pensiero di Socrate, viene qui presentata ad Alcibiade come cosa nuova e sconcertante: «forse la cosa ti sembrerà assurda» [144 D].

analisi dei contenuti dell’alcibiade secondo, iI 4-5

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Il termine usato è a[topon, che è assai forte. In effetti, la tesi capovolgeva il pensiero comune dei Greci e anche, per certi aspetti, quello dei Sofisti. Questa è una affermazione che ben si spiegherebbe in bocca al giovane Platone o a un autore coevo, mentre ben difficilmente si spiegherebbe in bocca a un tardo falsario, in quanto era ormai una tesi ben nota a tutti. Viene poi messo in evidenza il fatto che alcuni ritengono di saper dare consigli alla Città sulla guerra, sulle costruzioni di mura e su fortificazioni di porti e sui rapporti da tenere con le altre Città. Però costoro potrebbero dare buoni consigli alla Città solo nel caso che conoscessero ciò che è meglio fare e quando è meglio, e quindi essere assennati. L’autore precisa che le varie conoscenze tecniche, come per esempio l’ippica, l’auletica, l’arte della guerra e tutte le altre arti, sono di vantaggio solo se unite alla conoscenza del come e del quando sia meglio far uso di esse. Una Città nella quale predominassero dei tecnici privi della conoscenza del meglio, sarebbe una Città di scarso valore. Infatti, costoro commetterebbero un gran numero di errori, fidandosi della opinione, e non essendo capaci di riflettere su ciò che sia meglio fare, e quindi farebbero gran danno a sé e alla Città. Pertanto, l’autore conferma la verità della tesi di Socrate, ossia «il possesso delle altre scienze, senza la scienza di ciò che è meglio, poche volte è di vantaggio, mentre il più delle volte danneggia chi l’ha» [144 A]. E in maniera assai forte ribadisce: «Bisogna, dunque, che una Città o un’anima che voglia vivere in modo giusto, si tenga stretta a questa scienza, proprio come chi è malato al medico e chi vuol navigare in modo sicuro al pilota. Infatti, senza di essa, quanto più favorevole spira il vento della sorte per quanto riguarda il

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possesso delle ricchezze o il vigore del corpo o qualcos’altro di questo genere, tanto maggiori saranno gli errori che, necessariamente, a quanto sembra, ne deriveranno. E colui che è in possesso di molte conoscenze e di molte cognizioni tecniche, ma è privo di questa scienza e si lascia portare da ciascuna delle altre conoscenze, non si troverà forse veramente e giustamente in una violenta tempesta, in quanto, come credo, si trova in alto mare senza pilota, e non potrà proseguire ancora molto tempo nella vita? Pertanto, credo che anche in questo caso cadano a proposito le parole del poeta, il quale biasima uno che “sapeva molte cose” ma, aggiunge, le sapeva “tutte male”» [146 E-147 B].

6. Che cosa gli uomini devono chiedere nelle preghiere agli dèi Alcibiade, a questo punto, sembra essere convinto in larga misura di quanto è stato detto, ossia che si deve essere molto prudenti riguardo a tutte le cose, per non cadere nell’errore di chiedere agli dèi nelle preghiere cose che si credono beni mentre sono mali, e non essere quindi costretti a invocare gli dèi e chiedere il contrario di quello che si era prima chiesto. Aveva quindi ragione, dice Socrate, quel poeta che diceva: Zeus re, dacci i beni, sia che li chiediamo nella preghiera, [sia che non li chiedano ma allontana i mali, anche se li chiediamo nella preghiera.

L’autore fa quindi richiamo alle preghiere che fanno gli Spartani, che concordano con quello che ha detto il poeta. Infatti, contrariamente agli Ateniesi e a tutti gli altri Elleni, che offrono agli dèi grandi doni e sontuose cerimonie, gli Spartani pregano gli dèi con riservatezza,

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ossia in modo assai misurato, chiedendo che vengano loro concesse cose buone e belle. Per questo motivo, gli dèi accolgono le preghiere degli Spartani, ben più che quelle degli Ateniesi con le loro fastose cerimonie. La stessa cosa gli dèi hanno fatto con i Troiani, che erano loro invisi, e non hanno accolto il sacrificio di cento buoi loro offerto mentre allestivano l’accampamento. A questo punto l’autore fa una affermazione assai forte, ossia che gli dèi non si possono «corrompere mediante doni come un cattivo usuraio» [149 E]. E, per fornire una spiegazione dell’affermazione prima fatta della superiorità della preghiera degli Spartani su quella degli Ateniesi, Socrate fa un ragionamento di grande profondità morale, che abbiamo scelto come epigrafe e abbiamo riportato anche sopra al paragrafo 5, che, a nostro avviso, suona come veramente platonico. 7. Conclusioni del dialogo A questo punto, Socrate invita Alcibiade a rimandare le sue preghiere al dio, per non correre il rischio di chiedere dei mali, nella errata convinzione che siano dei beni. Pertanto, per poter pregare il dio in maniera conveniente deve prima imparare come deve comportarsi con gli dèi e con gli uomini. Però, perché Alcibiade possa imparare questo, occorre che ci sia qualcuno che sappia insegnarglielo. E costui è chi si prende cura di lui. Ma prima di tutto, occorre che venga dissipata la nebbia che è nella sua anima, per poter incamminarsi sulla via della conoscenza del bene e del male. Alcibiade accoglie il messaggio di Socrate e, per ringraziarlo, incorona il suo capo con la ghirlanda che aveva preparato per la preghiera al dio.

III concetti-chiave del pensiero socratico nell’alcibiade secondo

1. Quali sono le idee di Socrate presentate o espressamente richiamate Come abbiamo cercato di evidenziare nell’esposizione del dialogo, risulta evidente la griglia pressoché completa dei concetti-chiave del pensiero di Socrate. a) Abbiamo visto in che senso e in che misura l’ignoranza sia la causa di tutti i mali. b) La conoscenza del meglio, ossia del Bene, viene presentata come conoscenza suprema per l’uomo, che gli permette di fare e di dire quello che bisogna fare e dire. c) In particolare viene messa in grande rilievo la tesi (espressamente presentata come cosa nuova e sconcertante) secondo la quale tutte le altre scienze particolari sono di scarsa importanza, se non sono accompagnate dalla scienza del Bene. L’avere molte scienze (polumaqiva) e molte cognizioni tecniche (polutecniva) senza la conoscenza del meglio ci fa trovare nella tempesta e nei pericoli del mare senza avere un pilota. Questa tesi viene espressa molto bene anche nel Carmide. In un passo [174 B-D] che mette conto leggere: «Ma la scienza di cui parli in particolare, dissi io, è quella con la quale si conosce che cosa?». «È quella con la quale si conosce il bene e il male», rispose. «Sciagurato, dissi io, è da un pezzo che mi fai girare in-

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torno, nascondendomi che non il vivere secondo scienza ci permette di agire bene e di essere felici, né il vivere secondo tutte le altre scienze, ma è soltanto il vivere secondo questa scienza, che è unica, e che è quella del bene e del male. Infatti, Crizia, se tu vuoi togliere questa scienza da tutte le altre scienze, forse la medicina sarà meno capace di far guarire, l’arte del calzolaio di fabbricare calzari, e così quella del tessere e del fare vestiti, l’arte del timoniere sarà meno capace nell’evitare di farci morire per mare e la strategia in guerra?». «Proprio per nulla», disse. «Ma, caro Crizia, se questa venisse a mancare, rimarrebbe esclusa per noi la possibilità che ciascuna di queste cose venga condotta bene e con vantaggio». «Dici il vero».

d) La scienza del meglio è «anche la scienza dell’utile» [145 C]. Si tratta di una tesi da molti fraintesa, in quanto viene considerata una forma di «utilitarismo», cadendo nell’errore ermeneutico di intendere questo termine nel senso codificato dalla moderna filosofia anglosassone. In realtà, per Socrate l’utile coincide con il meglio, ossia con il Bene, e quindi viene inteso in senso non materiale ma prevalentemente spirituale. Leggiamo un passo del Menone [87 C - 89 A] che risolve molto chiaramente il problema: «Socrate – … bisognerà esaminare se la virtù sia scienza oppure diversa dalla scienza. Menone – Anche a me sembra che […] bisogna fare questa indagine. Socrate – E allora? Non affermiamo che la virtù sia un bene? Resta saldo per noi che sia un bene? Menone – Certamente! Socrate – Allora, se c’è anche qualche altro bene diverso dalla scienza, la virtù potrebbe non essere scienza;

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se, invece, non c’è alcun bene che la scienza non comprenda in sé, allora, ammettendo che essa non sia una scienza, faremo una esatta supposizione. Menone – È così. Socrate – E siamo noi buoni a causa della virtù? Menone – Sì. Socrate – E, se siamo buoni, siamo anche utili. Tutto ciò che è buono, infatti, anche utile. O no? Menone – Sì. Socrate – E la virtù è utile? Menone – Certamente, in base a quello che abbiamo ammesso. Socrate – Esaminiamo, dunque, prendendole singolarmente, quali sono le cose che ci giovano. La salute, la forza, la bellezza, la ricchezza: diciamo utili queste cose e quelle come queste? Menone – Sì. Socrate – Ma noi diciamo che queste cose talvolta anche nuocciono. Tu dici diversamente, oppure così? Menone – No, ma così. Socrate – Considera, ora, che cosa sia che guida ciascuna di esse quando giovano, e quale quando nuocciono. Non giovano, forse, quando ci sia retto uso di esse, e nuocciono quando non ci sia retto uso? Menone – Certamente. Socrate – Inoltre, esaminiamo anche le cose che sono relative all’anima. Ci sono alcune cose che tu chiami temperanza, giustizia, coraggio, facilità nell’apprendere, memoria e magnanimità e tutte le altre di questo genere? Menone – Io sì. Socrate – Osserva, allora, quelle che di queste ti sembra che non siano scienza: non ti sembra che talora nuocciono e talora giovano? Il coraggio, per esempio, se non è assennatezza ma temerarietà: non è forse vero che quando un uomo è audace senza senno ne riceve danno, e quando lo è con senno ne riceve vantaggio? Menone – Sì. Socrate – E non è forse così anche per la temperanza

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e per la prontezza di apprendimento: se sono imparate ed esercitate con senno sono giovevoli, senza senno sono invece dannose. Menone – Sicuramente. Socrate – Dunque, in generale, le cose che l’anima intraprende e nelle quali persevera, quando il senno fa da guida, hanno un felice risultato, quando c’è invece dissennatezza, conducono al risultato opposto. Menone – Sembra. Socrate – Se, dunque, la virtù è qualcosa che è nell’anima e qualcosa di necessariamente utile, essa deve essere intelligenza, dal momento che tutte le cose relative all’anima in sé e per sé non sono né giovevoli né dannose, ma, a seconda che si aggiunga intelligenza o dissennatezza, diventano giovevoli o dannose. In base a questo ragionamento, essendo la virtù utile, deve essere una forma di intelligenza. Menone – Sembra anche a me. Socrate – E allora, non è così anche per le altre cose: la ricchezza e quelle di questo genere, di cui prima si diceva che talvolta sono buone e talora nocive? Come la saggezza, facendo da guida, rende al resto dell’anima le proprietà dell’anima stessa, mentre la dissennatezza le rende nocive, così, a sua volta anche l’anima, usando e guidando queste rettamente, le rende utili, non rettamente, invece, nocive. Menone – Certamente. Socrate – E rettamente guida l’anima che ha senno ed erroneamente quella dissennata? Menone – È così. Socrate – E non si deve, allora, dire in generale così: per l’uomo tutte le cose dipendono dall’anima, le cose che sono relative all’anima medesima dipendono dalla conoscenza, se debbono essere buone. In base a questo ragionamento la conoscenza verrebbe a essere ciò che è utile. Ora affermiamo che la virtù è utile? Menone – Certamente».

concetti-chiave del pensiero socratico nell’alcibiade secondo, iIi 2

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e) Nel finale dell’Alcibiade secondo, poi, si fa richiamo al vero maestro, come a colui che si prende cura dell’allievo, togliendo la nebbia dalla sua anima, ossia le errate convinzioni, aiutandolo a «conoscere il bene e il male». f ) Anche la tesi di Socrate, secondo la quale il vero uomo è la sua anima, emerge con chiarezza, anche se non è sviluppata, soprattutto nel passo in cui si dice che gli dèi guardano ben più che alle cerimonie e ai sacrifici in loro onore, «all’anima, per vedere se uno sia pio e giusto» [149 E]. 2. L’uso dell’ironia Anche l’ironia ha un ruolo nel nostro dialogo, anche se in maniera piuttosto contenuta. Proprio introducendo il discorso risolutivo sulla natura della preghiera, l’autore fa il gioco ironico più forte che si incontra nel dialogo. Fino a questo punto Socrate ha fatto girare Alcibiade come in circolo, facendogli via via rifiutare quello che dava per certo, suggerendogli via via nuove idee. Ma, a questo punto, Socrate rovescia la cosa, dando la colpa di tutto questo allo stesso Alcibiade, facendolo quindi autore del complesso gioco dialettico, e dice [147 E-148 A]: «Suvvia, per Zeus! Vedi, infatti, quanto sia grande la difficoltà e di che tipo sia, e da essa mi sembra che anche tu sia coinvolto. Ti rigiri in su e in giù, senza fermarti mai, e quello che sembrava certo, questo, a sua volta, lo rifiuti, e non ti sembra più allo stesso modo».

Analoga immagine ironica si trova anche nel Carmide [174 B-C], dove fa girare Crizia in circolo, e ironicamente dice che è Crizia stesso che fa questo:

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«Sciagurato, dissi io, è da un pezzo che mi fai girare intorno, nascondendomi che non il vivere secondo scienza ci permette di agire bene e di essere felici, né il vivere secondo tutte le altre scienze, ma è soltanto il vivere secondo questa scienza, che è unica, e che è quella del bene e del male».

Inoltre, citando un verso tratto dal Margite, attribuito a Omero, e accingendosi a fornire una sua particolare interpretazione, presenta i poeti e il modo di interpretarli con squisita ironia [147 B-D]: «E, invece, è detto proprio a proposito. Però, carissimo, questo poeta parla per enigmi, come quasi tutti gli altri. Infatti, tutta quanta la poesia è per natura enigmatica, e il primo venuto non riesce a comprenderla. E poi, oltre a essere tale per natura, quando si impadronisce di un uomo geloso, che non vuole mostrarci la sua sapienza, ma nascondercela il più possibile, allora è assai difficile comprendere che cosa ciascuno di loro pensi. Infatti, tu certamente non crederai che il più divino e sapiente dei poeti, Omero, ignori che non è possibile sapere male. È lui, infatti, che afferma di Margite che sapeva molte cose, ma le sapeva tutte male. Però egli parla per enigmi, ponendo “male” invece di “un male” e “sapeva” invece di “sapere”. Così composto, il verso non rientra nella forma metrica, ma quello che il poeta intendeva dire è che quello sapeva molte cose, ma che per lui era un male sapere tutte queste cose. Perciò, è chiaro che, se per lui era un male sapere molte cose, era un buono a nulla, almeno se si deve prestar fede alle cose che si sono dette prima».

Concetti, questi, che si accordano perfettamente con quanto viene detto nell’Ippia minore [369 D-372 A] e nel Protagora [338 E-347 A]. Infine, un gustoso tocco ironico si può vedere nella espressione «tutti quelli che chiamiamo medici» [140

concetti-chiave del pensiero socratico nell’alcibiade secondo, Iii 3

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B] in riferimento alla presentazione delle differenze fra le varie malattie. Ci sembra che colga perfettamente nel segno Donatella Puliga (20125, p. 173, nota 4), che scrive: «Si noti la venatura polemica di questa circonlocuzione: Socrate vuole probabilmente significare che l’autentica ijatreiva, la vera arte della medicina, è quella che si prende cura dell’anima, e che egli stesso pratica». 3. La dialettica elenctica nell’Alcibiade secondo In primo luogo va notato che l’autore presenta il discorso dialettico come un «cercare insieme per trovare la verità», e lo dice espressamente per esortare Alcibiade che si trova in difficoltà nel rispondere alle domande: «cercando insieme in due, forse troveremo» [140 A]. Tutto quanto il dialogo, inoltre, procede per domande e risposte, e con questo metodo Socrate mette via via Alcibiade sulla giusta strada, confutando puntualmente le sue risposte, fino a convincerlo di aver bisogno di un maestro per imparare. In particolare va notato come alla fine del dialogo, la confutazione degli errori di cui è vittima Alcibiade, è presentata come una operazione che deve proseguire anche in futuro «per togliere la nebbia dall’anima» [150 E], ossia le errate opinioni, in quanto Alcibiade si è dichiarato ormai disponibile, ma ha bisogno di un maestro che lo aiuti. E Socrate stesso gli dice: «Perciò, è necessario che tu attenda, finché abbia imparato come bisogna comportarsi con gli dèi e con gli uomini».

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4. La natura della vera preghiera secondo Socrate Fortunatamente Senofonte ci riferisce, in una densa pagina dei Memorabili (I 3, 2-4), il pensiero di Socrate sul problema della preghiera agli dèi, che conviene leggere: «E pregava gli dèi che gli accordassero semplicemente il bene, poiché riteneva che gli dèi sappiano benissimo ciò che è bene; pensava che coloro che pregano per avere oro, o argento, o un potere tirannico o altre cose simili non agiscono diversamente che se pregassero per i dadi, per una battaglia o per qualche altra cosa che è evidentemente incerto come possa andare a finire. Benché offrisse sacrifici modesti, in relazione ai suoi scarsi beni, non riteneva di essere da meno di coloro che ne offrivano molti e grandi perché avevano molte e grandi ricchezze. Diceva, infatti, che non sarebbe bello da parte degli dèi gradire di più i sacrifici grandi di quelli piccoli (infatti, spesso, finirebbero per essere loro più gradite le offerte dei cattivi che quelle dei buoni), e che per gli uomini non varrebbe la pena vivere, se agli dèi fossero più graditi i sacrifici dei malvagi di quelli dei buoni; ma riteneva che gli dèi gradissero in particolar modo gli onori provenienti dai più pii. E spesso lodava questo verso: “Per quanto puoi, compi sacrifici agli dèi immortali”; e diceva che “per quanto puoi” era un buon consiglio verso gli amici e verso gli ospiti e per ogni stile di vita rispettabile. Se, poi, gli sembrava che gli venisse dagli dèi qualche indicazione, sarebbe stato più difficile convincerlo ad agire contro queste indicazioni, che persuaderlo a prendere come guida un cieco che non conosceva la strada invece di uno che ci vedeva e la conosceva. Inoltre, accusava di pazzia quelli che agiscono contro le indicazioni degli dèi, per evitare di essere giudicati male dagli uomini; egli, poi, disprezzava tutte le opinioni umane in confronto al consiglio proveniente dagli dèi».

Come ben si vede, dice le stesse cose che leggiamo nell’Alcibiade secondo, e quindi conferma che si tratta

concetti-chiave del pensiero socratico nell’alcibiade secondo, Iii 4

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veramente di pensieri di Socrate, e costituisce un documento essenziale per un possibile ricupero dell’autenticità del dialogo. Va ricordato che chi nell’antichità supponeva che l’Alcibiade secondo potesse essere dello stesso Senofonte, pensava, evidentemente, alla corrispondenza concettuale di quanto si dice nel dialogo con quanto si dice nei Memorabili. Taylor (tr. it., p. 806, nota 18) ha espresso la stessa convinzione: «Questo spiega forse perché il dialogo fu da alcuni attribuito a Senofonte (Ateneo, 506 E) benché non abbia alcuna affinità col suo stile». Platone stesso ha ripreso in parte tali idee di Socrate. Quanto ci dice nelle Leggi (VII 801 A-B), per esempio, ben lungi dall’essere la fonte cui attinge l’autore dell’Alcibiade secondo, si impone come l’esatto contrario, e può correttamente essere considerato una ripresa di ciò che è detto nel nostro dialogo. Leggiamo questo testo: «Ecco la legge che io porrei come terza: gli autori dei testi dei canti sacri non devono dimenticare che questi ultimi, in quanto preghiere, sono richieste rivolte agli dèi. Bisogna quindi che mostrino di avere abbastanza senno da non chiedere inavvertitamente un male per un bene. Ne vedremmo davvero delle belle, se una tale preghiera andasse ad effetto!».

Anche in un altro passo delle Leggi (888 C-D) ritorna un concetto che leggiamo nell’Alcibiade secondo: «[…] mi sono imbattuto in alcuni – non molti invero – che hanno continuato ad attribuire agli dèi questi due caratteri: o che essi, pur esistendo, non si occupano delle faccende umane; ovvero che, pur occupandosene, sono facilmente placabili con sacrifici e preghiere. E se mi darai retta, prendi tempo, prima di farti un’idea il più possibile chiara su

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questo argomento, ben valutando se le cose stanno in un modo piuttosto che nell’altro, sentendo l’opinione degli altri, e soprattutto quella del legislatore».

Nell’Alcibiade secondo [149 E] si condanna inoltre severamente la convinzione di coloro che credono che gli dèi si possano corrompere mediante doni e sacrifici: «Non credo, infatti, che gli dèi siano tali che si possano corrompere mediante doni come un cattivo usuraio. […] Sarebbe, infatti, terribile che gli dèi guardassero ai nostri doni e ai sacrifici, ma non all’anima, per vedere se uno sia pio e giusto».

E nell’Eutifrone [14 C-15 B] viene espressa la stessa tesi in modo dettagliato: rivolgersi agli dèi con doni e sacrifici per ottenere ciò che chiediamo significa ridurre la preghiera a una forma di commercio fra uomini e dèi, ossia un dare per avere. Il pensiero di Platone su questo tema è stato da lui espresso soprattutto nella preghiera finale del Fedro, in cui, fra le quattro richieste che vengono fatte, tre sono socratiche e quella finale in sommo grado platonica, come ora vedremo. 5. La preghiera del filosofo secondo Platone La preghiera finale del Fedro, è stata da tempo considerata la più bella preghiera scritta da un filosofo pagano, ed è la seguente [279 B - C]: Fedro – Ma ora andiamo, perché anche l’opprimente calura se n’è andata. Socrate – Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi, prima di metterci in cammino?

concetti-chiave del pensiero socratico nell’alcibiade secondo, Iii 5

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Fedro – Perché no? Socrate – O caro Pan, e voi altri dèi che siete in questo luogo! 1) Concedetemi di diventare bello di dentro. 2) E che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo con quelle che ho dentro! 3) Che io possa considerare ricco il sapiente. 4) E che possa avere una quantità di oro quanta nessun altro potrebbe prendersi e portarsi via, se non il temperante! Abbiamo bisogno ancora di altro, o Fedro? Per me ho pregato in giusta misura. Fedro – Mi unisco con te in questa preghiera, perché le cose degli amici sono comuni.

Le prime due richieste agli dèi contenute nella preghiera riguardano ciò che è interiore e ciò che è esteriore e il loro giusto rapporto. Le ultime due richieste si incentrano invece su ciò che costituisce la vera ricchezza. Il significato delle prime tre richieste si coglie immediatamente. Invece, il significato della quarta, fortemente allusivo, richiede una attenta spiegazione. 1) La prima richiesta della preghiera riguarda la bellezza interiore. Per capire la richiesta nel giusto modo, però, bisogna ricordare l’enorme importanza che il Greco attribuiva alla bellezza (si ricordi che la guerra di Troia è legata alla bellezza di Elena). La grande conquista della filosofia (con alla testa appunto Platone) consiste nella interiorizzazione della bellezza. La bellezza fisica non è se non il grado più esteriore e più basso della bellezza stessa. La vera bellezza è quella interiore, l’armonia intima dell’anima e dello spirito, ossia la vera ajρ; ετhv, e dunque l’attuazione dell’essenza dell’uomo, ossia il tendere a conoscere e a mettere in atto, nella misura del possibile, il bene e il bello. 2) La seconda richiesta riguarda l’accordo che l’uomo deve realizzare fra ciò che è «interiore» e ciò che è «este-

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saggio introduttivo

riore», ossia fra ciò che è spirituale e ciò che è legato al corporeo. Le cose interiori sono i valori dell’anima, le cose esteriori sono i beni materiali e ciò che è a essi legato. Con questo, come si è da tempo rilevato, Socrate non manifesta affatto un disprezzo per le cose esteriori, ma una loro subordinazione a quelle interiori, ossia sottolinea i giusti rapporti gerarchici. Ma la richiesta è un monito che suona in modo sferzante per l’uomo d’oggi. Infatti, nel mondo d’oggi molti uomini cercano ben più che l’essere, l’apparire, il look. Non importa ciò che sei, ma ciò che hai. Anzi, non importa ciò che sei, ma ciò che gli altri credono che tu sia e che tu abbia. 3) Nella terza richiesta della preghiera viene espressa un’idea che è tipica della cultura dei Greci, e in particolare dei filosofi (ma non solo). Più volte Platone ripete nei suoi scritti l’affermazione che non è l’oro (e in genere la ricchezza) il vero bene, e che la sapienza ha assai più valore di esso. 4) La quarta richiesta, infine, è stata per molto tempo fraintesa, ed è platonica al più alto livello. Si è creduto che Socrate chiedesse agli dèi di avere l’oro in quella giusta misura che basta per vivere, il minimo necessario. Ma questo non solo è un tema non-socratico, ma una richiesta del genere non ha alcuna connessione con la tematica del dialogo, e suonerebbe quindi decisamente fuori posto. In realtà, per «oro» non si può in alcun modo intendere l’oro materiale, ma è una immagine metaforica che indica la sapienza stessa. Così, come nella terza richiesta Socrate chiede di considerare «ricco il sapiente», in que-

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sta quarta con la metafora dell’«oro» richiede in modo esplicito quella ricchezza che consiste nella «sapienza». Che questa sia l’esegesi esatta viene comprovato dall’espressione «prendersi e portarsi via», che nell’originale greco corrisponde alla formula del «far bottino», portarsi via il più possibile, e quindi indica non un minimum, bensì un maximum. Ma per comprendere bene la richiesta bisogna anche intendere in maniera adeguata la parola «temperante», che significa colui che ha «auto-dominio», «moderazione» fondata sulla razionalità. E allora il senso della richiesta si comprende in modo perfetto: il filosofo sa che non può chiedere al dio di avere tutto quanto l’oro della sapienza, perché la sapienza nel suo intero è possesso che conviene solo al dio. Però può chiedere di poterne avere il più possibile (si noti la poetica e squisita tinta ironica dell’espressione «prendersi e portarsi via», «fare il più grosso bottino possibile»), però sempre non oltre il giusto limite concesso all’uomo (il temperante). Si ricordi che Eros è filo-sofo, ossia quel cercatore del bello-buono-vero, mai privo di sapienza, ma neppure mai saturo, e sempre in cerca dell’ulteriore possesso di essa, sapendo che può avere sempre di più, ma non tutto quanto l’oro della sapienza. Konrad Gaiser, che è stato lo studioso che per primo ha dato la giusta interpretazione di questa quarta richiesta della preghiera del filosofo, scrive: «Pertanto, con la preghiera della “quantità” di sapienza che nessun altro al di fuori del “temperante” è in grado di guadagnare, il filosofo non esprime soltanto il desiderio di averne soltanto una parte modesta, ma ne desidera la massima quantità che l’uomo possa raggiungere: desidera l’avvicinamento alla sapienza “divina” nella maggior misura possibile. Il temperante che conosce i limiti dell’uomo, proprio me-

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saggio introduttivo

diante la conoscenza di se stesso perviene alla pienezza raggiungibile dall’uomo al più alto grado. Colui che sa di non possedere la pienezza della sapienza divina e non presume, quindi, di essere un perfetto sapiente, consegue più di tutti la possibilità di ottenere solamente tanto quanto è possibile della inesauribile sapienza divina». La preghiera del filosofo è davvero la preghiera che solo chi crede nei valori spirituali può recitare, in quanto chiede di poter avere la bellezza spirituale interiore, di saper subordinare l’esteriore all’interiore, di saper riconoscere nella sapienza la vera ricchezza, di poter guadagnare il massimo di questa ricchezza (l’oro della sapienza) che l’uomo per sua natura nella giusta misura possa avere. Già Herder, nella sua Kalligone del 1800, giustamente scriveva: «Sempre, o amici, il suo dialogo con Fedro deve restare per noi caro, il platano lungo l’Ilisso sotto il quale il dialogo si svolge deve restare un luogo sacro e la preghiera di Socrate a conclusione del dialogo deve restare la nostra preghiera».

Biografia, cronologia e opere di Platone

1. Vicende della vita 428/427 Platone nasce ad Atene. Diogene Laerzio, nel­ l’opera Vite e dottrine dei più celebri filosofi (III 2), ci riferisce che Apollodoro indicava come data di nascita l’ottantesima Olimpiade (428-425 a.C.) nel settimo giorno del mese di Targelione (cor­ rispondente al nostro maggio-giugno, nel giorno in cui gli abitanti dell’Isola di Delo dicevano che fosse nato Apollo). Platone non era il nome imposto dai genitori, che era invece Aristocle (nome di un nonno), ma il soprannome datogli dal maestro di ginnastica, e poi da tutti accettato. Diogene Laerzio ci rife­ risce questa notizia con altre varianti, nel modo che segue (II 4): «Ricevette l’educazione fisica da Aristone, lottatore di Argo, dal quale gli fu anche mutato il nome in “Platone” in ragione della ro­ bustezza del suo fisico, mentre il suo nome era Aristocle, dal nome di un nonno, secondo quan­ to dice Alessandro nelle Successioni dei filosofi. Alcuni invece affermano che fu chiamato così in ragione dell’ampiezza del suo stile, oppure perché era molto ampio nella fronte, come dice Neante». La prima rimane la notizia più probabile. Nei dialo­ ghi Platone cita se stesso con questo nome (due vol­ te nell’Apologia di Socrate e una volta nel Fedone). Il padre di Platone, Aristone, discendeva da una famiglia che fra i suoi antenati vantava il re

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biografia, cronologia e opere di platone

Codro. Anche la madre Perittione apparteneva a una nobile e potente famiglia. Diogene ci forni­ sce le seguenti notizie sui genitori di Platone (III 1): «Perittione per stirpe discendeva da Solone. Fratello di Solone era Dropide, di cui fu figlio Crizia (che fu uno dei Trenta tiranni) e Glaucone che ebbe come figli Carmide e Perittione. Da Pe­ rittione e da Aristone nacque Platone nella sesta generazione a partire da Solone». Da Perittione e da Aristone nacquero anche Adimanto e Glaucone (gli interlocutori di Socrate nella Repubblica), la figlia di nome Potone, da cui nacque Speusippo, che sarà successore di Platone nella direzione dell’Accademia. 409-407 Periodo della efebia. Stando ad Aristosseno (fr. 11 Wehrli). Proprio in questo periodo Platone avrebbe preso parte per tre volte a campagne militari: a Tanagra, a Corinto e a Delio, dove avrebbe rice­ vuto anche un premio per il suo valore. 408-407 A vent’anni (o forse anche prima) Platone divenne discepolo di Socrate. Prima di frequentare Socrate, si dedicò al­ l’atle­tica, alla pittura e all’attività poetica, come ci dice Diogene Laerzio (III 4-5): «Vi sono, poi, al­ cuni che dicono che egli partecipò pure alla lotta nei Giochi Istmici, secondo quanto afferma anche Dicearco nel primo libro Sui generi di vita. Inoltre affermano che si sarebbe esercitato nella pittu­ ra e avrebbe scritto poesie: dapprima ditirambi, poi anche liriche e tragedie» (a cura di Reale, ed. Bompiani). Aristotele nella Metafisica (I 6) ci riferisce che da giovane, e quindi prima dell’incontro con Socrate, Platone aveva frequentato l’eracliteo Cra­

anni 409-404

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tilo e che aveva mantenuto la concezione eraclitea per quanto riguarda il mondo sensibile, e scrive: «Platone, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo e seguace delle dottrine eraclitee, secon­ do le quali tutte le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito. D’altra parte, Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, ma nell’ambito di quelle cercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni. Orbene Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che aveva accolta dagli eraclitei, che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle realtà sensibili: infatti egli riteneva impossibile che la definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, per­ ché soggetti a continuo mutamento. Egli allora denominò queste altre realtà Idee, e affermò che i sensibili esistono accanto a esse e che vengono tutti denominati in base a esse». Alcuni dubitano di questa notizia; ma è im­ possibile che Aristotele se la sia inventata. Si può discutere sull’interpretazione che ha dato, ma non sui rapporti di Platone con Cratilo, cui ha dedica­ to un dialogo. È improbabile, invece, la notizia di Diogene Laerzio secondo cui Platone sarebbe di­ ventato «discepolo dell’eracliteo Cratilo» non da giovane, ma dopo la morte di Socrate (III 6). Gli anni passati accanto a Socrate furono de­ cisivi per Platone a tutti gli effetti, sia per il suo pensiero sia per le sue scelte esistenziali. 404

Si conclude la guerra del Peloponneso e si impone la supremazia di Sparta. Ad Atene assumono il governo gli oligarchi con i cosiddetti «Trenta tiranni», fra i quali ebbe

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biografia, cronologia e opere di platone

una posizione di spicco Crizia, zio di Platone, che lo invitò a partecipare al governo. Ma Platone ri­ mase subito deluso e si ritrasse a parte. 403

In seguito alla rivolta dei democratici, Crizia muore nella battaglia di Munichia, e cade il gover­ no dei Trenta tiranni.

399

Socrate viene condannato a morte. Della condanna furono responsabili in larga misura i democratici, che avevano ripreso salda­ mente il potere. Questo convinse Platone che, per il momento, era bene tenersi lontano dalla vita politica militante. È probabile la notizia che ci viene riferita da Diogene Laerzio, secondo la qua­ le Platone si sarebbe recato a Megara con alcuni socratici presso Euclide. Forse si recò a Megara per evitare persecuzioni che potevano venirgli in­ flitte, in quanto seguace di Socrate. Sono questi gli anni in cui maturò la sua idea di vera politica. Nella Lettera VII scrive: «Da giova­ ne anch’io feci l’esperienza che molti hanno con­ diviso. Pensavo, non appena divenuto padrone del mio destino, di volgermi all’attività politica». Ma dal partecipare alla vita politica lo tratten­ ne, ben presto, la profonda corruzione degli uo­ mini di governo e del loro costume e delle stesse leggi, che egli scoprì essere ingiuste in Atene, ma anche fuori di Atene. Ed ecco, allora, le sue conclusioni: «Di fronte a tali episodi [si riferisce ad una serie di episo­ di di corruzione politica che culminarono nella condanna a morte di Socrate], a uomini siffatti che si occupavano di politica, a tali leggi e costu­ mi, quanto più, col passare degli anni, riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi alla po­ litica mantenendomi onesto. Senza uomini devoti

anni 403-388

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e amici fidati non era possibile combinare nulla e d’altra parte non era per niente facile trovarne di disponibili, dato che ormai il nostro Stato non era più retto secondo i costumi e il modo di vivere dei padri ed era impossibile acquisirne di nuovi nell’immediato. Il testo delle leggi, e anche i co­ stumi andavano progressivamente corrompen­ dosi a un ritmo impressionante, a tal punto che uno come me, all’inizio pieno di entusiasmo per l’impegno nella politica, ora, guardando a essa e vedendola completamente allo sbando, alla fine fu preso da vertigini. Solo i filosofi avrebbero potu­ to riscattare la politica. In verità, non cessai mai di tenere sott’occhio la situazione, per vedere se si verificavano miglioramenti o riguardo a questi specifici aspetti oppure nella vita pubblica nel suo complesso, ma prima di impegnarmi concreta­ mente attendevo sempre l’occasione propizia. A un certo punto mi feci l’idea che tutte le città sog­ giacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buo­ na filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che pri­ vato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche del­ lo Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fos­ se essa stessa votata alla filosofia». 388

Platone si reca in Italia meridionale, spinto dal desiderio di conoscere la comunità dei Pitagorici. Dalla Lettera VII (388 C) sappiamo che ha co­ nosciuto Archita. Durante questo viaggio si reca

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a Siracusa presso il tiranno Dionigi I, che proba­ bilmente egli sperava di convertire alla filosofia intesa nel senso espresso nel Gorgia, composto o subito prima o subito dopo il viaggio in Italia. A Siracusa stringe forte amicizia con Dione, parente del tiranno, in cui Platone credette di individuare un discepolo che sarebbe potuto diventare refilosofo. Dionigi si irrita fortemente con Platone, al punto da farlo vendere come schiavo a Egina. Fortunatamente, a Egina si trovava il socratico Anniceride di Cirene, che lo liberò. Diogene (III 20) scrive: «Lo riscattò, essendo lì presente per caso, Anniceride di Cirene, al prezzo di venti mine – altri parlano di trenta – e lo rimandò ad Atene presso gli amici. Questi ultimi inviarono subito ad Anniceride il denaro da lui pagato per il riscat­ to: denaro che egli non accettò, dicendo che non soltanto loro erano degni di avere a cuore Platone. Alcuni, poi, dicono che anche Dione avrebbe mandato il denaro, e che Anniceride non volle ri­ ceverlo, ma comperò per Platone anche il piccolo giardino situato nell’Accademia». Diogene (III 6-7) riferisce anche di altri viaggi fatti da Platone, che non possono essere categoricamente esclusi, ma che non sono confermati da altre fonti. Dopo essere stato a Megara, si sarebbe reca­ to a Cirene presso Teodoro il matematico. Dopo essere stato in Italia «… passò in Egitto, presso i profeti. Dicono che anche Euripide lo avrebbe ac­ compagnato lì e che, ammalatosi in quello stesso luogo, fu guarito dai sacerdoti, grazie alla cura a base di acqua marina; perciò in qualche luogo egli dice: Il mare lava tutti i mali degli uomini. Ma anche Omero dice che gli Egizi sono medici al di sopra di tutti gli uomini. Platone decise allora di incontrarsi anche con i Magi; però dovette rinun­ ciarvi, a motivo delle guerre dell’Asia».

anni 387 ss

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387 ss. La fondazione dell’Accademia è quasi certamente da collocare negli anni immediatamente succes­ sivi al primo viaggio di Platone in Italia. Platone, convintosi dell’inutilità della sua par­ tecipazione immediata alla politica militante, per le ragioni che già sappiamo, aveva maturato un di­ segno di ben più vasto raggio: egli intendeva pre­ parare mediatamente, ossia tramite la filosofia, i futuri «veri politici», cioè gli uomini che sarebbe­ ro stati in grado di rinnovare lo Stato alle radici. Occorreva, dunque, fondare una vera e propria Scuola: un organismo che, analogamente alle co­ munità pitagoriche, perseguisse l’educazione e la formazione di chi ne diveniva membro, secondo piani di studio ben congegnati e secondo metodi sistematicamente determinati. Per poter realiz­ zare questo, Platone acquistò un appezzamento di terreno e un edificio, che restarono poi proprie­ tà della Scuola. Quale fosse la precisa fisionomia giuridica di questa scuola è una questione che resta ancora non risolta. La tesi che è rimasta per lungo tempo dominante, ma che da qualche tempo è stata mes­ sa in dubbio, considerava l’Accademia come una specie di «tiaso» religioso consacrato alle Muse. E una comunità di studio che si radunava per colti­ vare il più alto sapere ben rientrava, nel concetto del Greco e in particolare dell’Ateniese, sotto la generale concezione di una comunità sacra al cul­ to di Apollo e delle Muse. Intanto, va precisato che i membri dell’Acca­ demia non erano «studenti» nel senso moderno della parola. Ai giovani si affiancavano anche uomini anziani; probabilmente tutti dovevano contribuire al finanziamento delle spese di eser­ cizio e dovevano prendere anche alcuni pasti in comune. Forse non esistevano neppure statuti

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biografia, cronologia e opere di platone

scritti della Scuola, e tutta la regolamentazione dipendeva dal suo capo. Inoltre, lo scopo ultimo dell’Accademia non erano il sapere e la scienza perseguiti solo nella loro astrattezza, ma ricercati altresì – come abbiamo sopra già rilevato – per la loro valenza etico-politica. Per la prima volta nell’Accademia convennero personalità, anche straniere, di diversissima for­ mazione e anche di opposte attitudini spiritua­ li. Ben al di là dell’orizzonte socratico, vi fecero trionfale ingresso aritmetica, geometria e astro­ nomia. Con l’Accademia ebbe rapporti Eudosso, capo di una Scuola matematica e astronomica. Abbiamo, inoltre, testimonianze che provano la presenza nell’Accademia di medici provenienti dalla Sicilia. E questi personaggi, con il loro in­ segnamento, che dovette essere in qualche modo regolato, promossero nella Scuola una serie di di­ battiti assai fecondi. E così – anche se non ancora a livello program­ matico – di fatto, e sia pure per una breve stagione, questo incontro di uomini e di insegnamenti di­ versi nell’Accademia produsse altresì un incontro delle scienze che essi coltivavano, e i vari membri dell’Accademia poterono, per la prima volta, udi­ re insieme queste diverse voci, i loro confronti e i loro scontri, come prima di allora non era stato possibile. Ben a ragione, dunque, la posterità sceglierà proprio il nome dell’«Accademia» platonica per designare quelle istituzioni in cui le varie forme di sapere vengono coltivate ed elaborate al più alto livello. 367 Platone si reca una seconda volta in Sicilia, a Siracusa. A Dionigi I era successo il figlio Dionigi

anni 367-347

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II, che, si credeva, avrebbe potuto realizzare il programma di Platone ben più che non il padre. In realtà, Dionigi II si rivela subito essere come il pa­ dre. Esilia Dione, con l’accusa di tramare contro di lui, e trattiene Platone quasi come prigionie­ ro. Diogene Laerzio (III 21) scrive: «Una secon­ da volta Platone venne in Sicilia presso Dionigi il Giovane per chiedergli un po’ di terra e alcuni uomini che vivessero secondo la sua costituzione. E Dionigi, benché avesse promesso, non manten­ ne fede. Alcuni, poi, dicono che Platone corse an­ che pericolo di vita, in quanto avrebbe persuaso Dione e Teodota alla liberazione dell’isola. Fu in quella occasione, inoltre, che Archita il Pitagorico scrisse una lettera a Dionigi, lo pregò in favore di lui, e riuscì a salvarlo e a farlo tornare ad Atene». 365

Soprattutto in seguito allo scoppio di una guerra che impegna personalmente Dionigi II, Platone riesce tornare ad Atene.

361

Platone si reca una terza volta a Siracusa. Dione, che si era rifugiato ad Atene, lo convinse ad acco­ gliere il pressante invito di Dionigi II a ritornare, sperando di placare il tiranno. Ma i rapporti con Dionigi si aggravarono subito, e di molto. Solo per l’intervento dei Tarantini, Platone riuscì a salvarsi.

360

Dione riesce a prendere il potere a Siracusa.

357

Dione viene ucciso da una congiura capeggiata da Callippo.

348/347 Platone muore ad Atene all’età di ottanta anni.

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biografia, cronologia e opere di platone

2. Significative connessioni di Platone col dio Apollo create dall’immaginazione dei Greci Platone è stato connesso con Apollo, e su questo rapporto sono nati numerosi aneddoti, raccolti da A.S. Riginos (1976, pp. 9-32), che vorrebbero comprovare la «natura apollinea» di Platone. Questi aneddoti sono nove. Il primo riguarda la nascita di Platone collegata ad Apollo nel modo seguente: il padre avrebbe avuto un avver­ timento da Apollo stesso di non unirsi fisicamente alla mo­ glie fino a quando il figlio non fosse nato. Diogene Laerzio scrive (III 2): «Aristone avrebbe voluto fare violenza a Perittione, la quale era nell’età opportuna per l’unione nu­ ziale, ma non vi riuscì. Dopo aver desistito dai tentativi di violenza, vide l’apparizione di Apollo: e da quel momento egli la lasciò pura dal congiungimento fino al parto». Il secondo riguarda la data di nascita: Platone sarebbe nato, come già abbiamo detto, «nel settimo giorno del mese Targelione, nello stesso giorno in cui i Delfi dicono che nac­ que Apollo» (Diogene Laerzio, III, 2). Il terzo (narrato da un Anonimo nei Prolegomena ad Platonis Phi­lebum, 2, 21-27) è questo: dopo la nascita, la madre «condusse il piccolo sul monte Imetto, allo scopo di offrire un sacrificio ad Apollo dio del monte e alle Ninfe. E avendolo qui deposto, al suo ritorno lo ritrovò con la bocca piena di miele. Erano venute delle api a portare al piccolo del miele, presagendo che ciò che sarebbe uscito fuori dalla sua bocca sarebbe stato “più dolce che il miele”, per dirlo col poeta». Il quarto, che pure già conosciamo, riguarda un sogno divinatorio avuto da Socrate, così riferito da Diogene Laerzio (III, 5): «Si racconta che Socrate ab­ bia sognato di tenere sulle ginocchia un piccolo cigno, il quale mise subito le ali e volò cantando dolcemen­ te, e che il giorno successivo si presentò a lui Platone, e Socrate abbia dichiarato che il cigno era appunto lui».

connessioni di platone col dio apollo

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Il quinto riguarda un sogno premonitore avuto da Platone prima della sua morte, in cui vide se stesso diven­ tato un cigno, che volava di albero in albero, ponendo in dif­ ficoltà i cacciatori che non poterono catturarlo (Anonimo, cit., I, 29 sgg.). Il sesto consiste nella qualifica che gli venne data di «uomo divino e apollineo» (ibid., 1, 26-41), desumendo tale qualifica dall’affermazione che da Platone viene messa in bocca a Socrate nel Fedone, che dice di essere «compagno di servizio dei cigni» (Platone veniva incluso da alcuni nella catena aurea delle nascite di Apollo, insieme a Socrate e a Pitagora). Il settimo aneddoto è il seguente. Platone morì a 81 anni, considerato numero apollineo: infatti, le Muse sono nove, e moltiplicando nove per nove si ha 81 (ibid. 61, 1 sgg.). L’ottavo aneddoto narra di una donna che presentò all’O­ racolo di Delfi il quesito se le fosse lecito erigere a Platone una statua fra quelle degli dèi, ed ebbe come risposta che doveva far questo, in quanto Platone era guida di una «divi­ na saggezza» e che, pertanto, se avesse fatto questo, avreb­ be avuto in cambio il favore degli dèi (ibid. 6, 9 sgg.). Il nono aneddoto riguarda un altro oracolo secondo cui, per volere di Febo Apollo, sarebbero dovuti nasce­ re due medici speciali: Asclepio figlio di Apollo, medico del corpo, e Platone, medico dell’anima. Diogene Laerzio, III, 45 ha composto questi due epigrammi assai significativi. Un primo dice: «Se in Grecia Febo non avesse fatto nascere Platone, come avrebbe potuto curare con le lettere le anime degli uomini? Infatti suo figlio Asclepio è medico del corpo, mentre Platone lo è dell’anima immortale». E un altro: «Febo fece nascere per i mortali Asclepio e Platone, l’uno per la salute dell’anima, l’altro del corpo».

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3. Il dialoghi di Platone e la loro autenticità Gli scritti pervenutici sotto il nome di Platone sono 36. Il loro ordinamento è opera di Trasillo (un Mediopla­ tonico che visse ai tempi di Tiberio), il quale, però, ha se­ guito un criterio e ha portato a termine un’opera a lui pre­ cedente. Trasillo ha diviso i 36 scritti in nove tetralogie, basando­ si, nella formazione dei gruppi di quattro, sul loro contenu­ to, anche se talora il nesso fra le opere risultava assai tenue. Prima tetralogia 1. Eutifrone, 2. Apologia di Socrate, 3. Critone, 4. Fedone. Seconda tetralogia 5. Cratilo, 6. Teeteto, 7. Sofista, 8. Politico. Terza tetralogia 9. Parmenide, 10. Filebo, 11. Simposio, 12. Fedro. Quarta tetralogia 13. Alcibiade primo, 14. Alcibiade secondo, 15. Ipparco, 16. Amanti. Quinta tetralogia 17. Teagete, 18. Carmide, 19. Lachete, 20. Liside. Sesta tetralogia 21. Eutidemo, 22. Protagora, 23. Gorgia, 24. Menone. Settima tetralogia 25. Ippia maggiore, 26. Ippia minore, 27. Ione, 28. Menesseno. Ottava tetralogia 29. Clitofonte, 30. Repubblica, 31. Timeo, 32. Crizia. Nona tetralogia 33. Minosse, 34. Leggi, 35. Epinomide, 36. Lettere. Questo ordinamento è diventato canonico nell’antichità, ma anche è stato consacrato dalla grande edizione critica moderna di John Burnet.

autenticità e cronologia dei dialoghi platonici

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In primo luogo, va rilevato che in questo gruppo di opere è contenuto tutto quel­lo che Platone ha scritto. Tutti i dia­ loghi che gli Antichi hanno citato come suoi ci sono. Se ne è aggiunto qualcuno inautentico, o comunque di dubbia au­ tenticità. Nel secolo XIX la questione dell’autenticità fu al centro di vivacissimi dibattiti, quasi del tutto spentisi nel XX se­ colo. Rimangono dubbi soprattutto su alcuni dialoghi cosid­ detti socratici, di cui noi dimostreremo invece l’autenticità. L’Epinomide è ritenuto opera di Filippo di Opunte. Delle Lettere è considerata autentica, a partire dalle pre­ cisazioni fatte da U. von Wilamowitz Moellendorff, in par­ ticolare, la settima. Già la tradizione ci ha tramandato come inautentiche al­ cune opere, che quindi non sono incluse nelle 36. Sono le seguenti: Sul giusto, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Definizioni. 4. La questione della cronologia degli scritti La questione della cronologia dei dialoghi è nata in tempi moderni ed è stata in­trodotta da K.F. Hermann nella sua opera Geschichte und System der platonischen Philosophie (Heidelberg 1839), e si è rapidamente sviluppata, fino a es­ sere assunta come un canone ermeneutico di basilare im­ portanza per interpretare e comprendere Platone. Dai più recenti studi è però emerso che essa non è risolubile se non in maniera assai parziale. In effetti, Platone era ben lungi dal possedere solo quelle dottrine che metteva per iscritto, man mano che compo­ neva i singoli dialoghi. E dunque, quando non parla di una certa dottrina che noi moderni riterremmo utile in quel dato scritto, non vuol dire affatto che non l’avesse ancora scoperta. Infatti, in ogni suo dialogo Platone adegua il con­ tenuto alle capacità dell’anima del deuteragonista, tacendo

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biografia, cronologia e opere di platone

espressamente quelle cose che il personaggio scelto come interlocutore di Socrate non può essere in grado di capire. In generale, se anche si potesse fissare la cronologia di tutti i dialoghi, ciò che ne deriverebbe non sarebbe la para­ bola dell’evoluzione spirituale di Platone, perché egli matu­ rava le sue dottrine dapprima nell’ambito dell’oralità e solo successiva­mente le fissava per iscritto a scopo ipomnemati­ co, mentre alcune di esse (anche se poche, ma le più deter­ minanti) aveva deciso di non fissarle per iscritto. L’unico criterio affidabile per ricostruire una successio­ ne dei dialoghi è quello fondato sullo stile, che, però, da­ rebbe più l’idea dell’evoluzione di Platone scrittore che non pensatore. Indicazioni esterne e oggettive per la datazione o per lo meno per la successione dei dialoghi sono le seguenti. Aristotele nella Politica (II 6, 1264 b 24-27) attesta che le Leggi sono state scritte dopo la Repubblica. Diogene La­ erzio (Vite dei filosofi, III 37) ci dice che alcuni riferivano che le Leggi sono rimaste in tavolette di cera e che le pubbli­ cò Filippo di Opunte, dopo la morte di Platone. Le indicazioni interne ai dialoghi stessi, quindi fornite per bocca di Platone medesimo, sono le seguenti. Timeo, 17 B - 19 B, rimanda alla Repubblica, riassumen­ dola, mentre in 20 B-C preannuncia il Crizia, e in quest’ul­ timo dialogo conferma la successione (107 A-B). Al Sofista segue il Politico, come si dice espressamente in quest’ultimo dialogo, 257 A e 258 B, e come nel primo dia­ logo, in 217 A, si preannuncia. Nel Sofista, poi, in 217 C, sembra farsi riferimento al Parmenide (cfr. 127 B 2 e C 4 s.), e in 216 A al Teeteto. Nella critica alla scrittura condotta nel Fedro, infine, come i più recenti studi hanno messo in evidenza, Platone rinvia al contenuto della Repubblica e al suo metodo: con­ fronta Fedro, 276 C e 276 E - 277 A con Repubblica, II 376 D 9 - E 4 e VI 501 E, e la documentazione che diamo nel no­

cronologia dei dialoghi platonici

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stro volume Per una nuova interpretazione di Platone, Bom­ piani 201022 , pp. 83 sgg. Un’altra indicazione significativa si può ricavare da Teeteto, 143 C, che sembra una chiara affermazione di Platone di voler evitare il dialogo indiretto con la continua infram­ mezzata espressione «e io dissi»; e, dunque, sembra di poter ricavare che dal Teeteto in poi tutti i suoi dialoghi sono stati composti in modo diretto e che quindi nessuno dei dialoghi scritti in forma indiretta è posteriore al Teeteto. Avvalendosi anche di una serie di ricerche stilometriche, molti studiosi sono in certa misura d’accordo nel fissare quest’ordine di pubblicazione dei dialoghi della vecchiaia: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi. In questo periodo cade sicuramente anche il Fedro. Il momento creativo culminante del capolavoro della Repubblica va collocato molto proba­bilmente verso la metà degli anni Settanta. E a questo periodo della maturità van­ no anche riferiti dialoghi come Cratilo, Simposio, Fedone. Il periodo della maturità si apre con la fondazione del­ l’Accademia, che risale al ritorno di Platone dal primo viag­ gio in Italia meridionale, ossia nel 387 a.C. Subito prima di partire, o appena tornato, Platone dovet­ te pubblicare il Gorgia. E certamente subito dopo la fonda­ zione dell’Accademia deve aver pubblicato il Menone, che, in un certo senso, ne è il programmatico manifesto. L’Eutidemo segue il Menone, perché ne presuppone le dottrine in modo sistematico. Tutti gli altri dialoghi di sfondo socratico e apparente­ mente aporetici sono detti giovanili: alcuni sono stati com­ posti presumibilmente anche prima della morte di Socrate (quindi prima del 399), mentre la stesura degli altri si è pro­ tratta fino all’epoca del ritorno dal primo viaggio in Italia meridionale e della fondazione dell’Accademia (387 a.C.).

Esplicitazione delle abbreviazioni delle opere espressamente citate nella Prefazione generale, nel Saggio introduttivo e nelle Note

Adamietz 1969 Joachim Adamietz, Zur Erklärung des Hauptteils von Platons Charmides 164 A-175 D, in «Hermes», 97 (1969), pp. 35-57. Ammendola 1930 Platone, Carmide. Testo critico, introduzione e commento di Giuseppe Ammendola, Napoli 1930. Anacreonte Anacreon – Anacreonte, Introduzione, testo critico, traduzio­ ne, studio sui frammenti papiracei, a cura di Bruno Gentili, Ateneo, Roma 1958. Annas 1985 Jiulia Annas, Self-knowledge in Early Plato, in «Platonic Investigations», a cura di D. O’Meara, Washington 1985, pp. 111-138 Anonimo, Proleg. Plat. Philos. Anonymus Prolegomena to Platonic Philosophy by Leendert Gerrit Westerink, Amsterdam 1962. Aristofane, Le nuvole, tr. Del Corno Aristofane, Le nuvole, a cura di Giulio Guidorizzi. Introduzione e traduzione di Dario Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 1996. Aristofane, Le nuvole, tr. Grilli Aristofane, Le nuvole. Introduzione, traduzione e note di Alessandro Grilli. Testo greco a fronte, Bur, Milano 2001.

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esplicitazione delle abbreviazioni

Gli uccelli, tr. Del Corno Aristofane, Gli uccelli, a cura di Giuseppe Zanetto. Intro­ duzione e traduzione di Dario Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 19974. Le rane, tr. Del Corno Aristofane, Le rane, a cura di Dario Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 19943. Tesmoforiazuse, tr. Del Corno Aristofane, Le donne alle Tesmoforie. A cura di Carlo Prato. Traduzione di Dario Del Corno, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 2001. Aristosseno fr. 1, si veda Wehrli Aristotele, Metafisica tr. Reale Aristotele, Metafisica, testo greco a fronte. Introduzione, tra­ duzione, note e apparati di Giovanni Reale. Appendice biblio­ grafica di Roberto Radice, Bompiani, Milano 201311. Ast Friedrich Ast, Platons Leben und Schriften, Leipzig 1816. Bartolone 19992 Filippo Bartolone, Socrate. L’origine dell’intellettualismo dalla crisi alla libertà. A cura di Vincenzo Cicero. Prefazione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 19992. Boder 1973 Werner Boder, Die sokratische Ironie in den platonischen Frühdialogen, Amsterdam 1973. Burnet, si veda Platonis Opera Colli 1977 Giorgio Colli, La sapienza greca. Volume I: Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma, Adelphi, Milano 1977.

esplicitazione delle abbreviazioni

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Diehl, Ernst Diehl, Anthologia lyrica graeca, 2 voll., Leipzig 1925. Diels – Kranz, vedi Presocratici Diogene Laerzio, a cura di Reale Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi. Testo greco a fronte. A cura di Giovanni Reale, con la collaborazio­ ne di Giuseppe Girgenti e Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano 2005. Erler, tr. it. Michael Erler, Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone. Esercizi di avviamento al pensiero filosofico. Traduzione di Claudio Mazzarelli, introduzione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1991. Titolo originario: Der Sinn der Aporien in den Dialogen Platons: Übungsstücke zur Anleitung im philosophischen Denken. De Gruyter, Berlin/New York 1987. Erler 2007 Michael Erler, Platon, nella collana Die Philosophie der Antike, herausgegeben von Hellmut Flashar 2/2, Bern 2007. Erodoto, Storie Erodoto e Tucidide. Introduzione di Giovanni Pugliese Car­ ratelli. Erodoto, traduzione di Augusta Izzo D’Accini. Tucidide, traduzione di Claudio Moreschini. Note a cura di Gianfranco Maddoli, Sansoni, Firenze 1967. Friedländer, tr. it. Paul Friedländer, Platone. Introduzione di Giovanni Reale. Traduzione e note e apparati di Andrea Le Moli, Bompiani, Milano 2004; 20142 (il titolo originale è Platon, uscito in tede­ sco in tre volumi, De Gruyter, Berlin/New York 1964-1975). Gadamer, Intervista 2000 Le interviste da noi fatte a Gadamer sono state originariamen­ te pubblicate sul Sole 24 Ore, poi varie volte riedite, e da ulti­

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esplicitazione delle abbreviazioni

mo in: Giovanni Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle “Dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2008, pp. 527-550. Gadamer, Bompiani Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo. Traduzione e apparati di Gianni Vattimo. Introduzione di Giovanni Reale. Testo te­ desco a fronte, Bompiani, Milano 2000; 20145 (titolo origina­ le Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, più volte riedito). Gentili, si veda Anacreonte Giannantoni 1971 Gabriele Giannantoni, Socrate. Tutte le testimonianze da Aristotele e Senofonte ai Padri cristiani. Introduzione e indici di Gabriele Giannantoni. Traduzioni di Gabriele Giannantoni, Marcello Gigante, Renato Laurenti, Benedetto Marzullo, Enza Celluprica, Matia Clotilde De Felice, Anna Maria Iop­ polo, Angelo Panvini, Laterza, Bari 1971. Giannantoni 1990 Gabriele Giannantoni, Socratis et Socraticurum Reliquiae, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. G., Bibliopolis, Napoli 1990. Gigon 1947 Olof Gigon, Sokrates. Sein Bild in Dichtung und Geschichte, Tübingen – Basel 1947; 19943. Gloy 1986 Karen Gloy, Platons Theorie der ejpisthvmh eJauth`~ im Charmi­ des als Vorläufer der modernen Selbstbewusstseinstheorien, in «Kant–Stu­dien», 77 (1986), pp. 137-164. Gómez Dávila 2001 Nicolás Gómez Dávila, Tra poche parole. Introduzione di Franco Volpi, traduzione di Lucio Sessa, Adelphi, Milano 2007.

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Grilli, si veda Aristofane, Le nuvole Havelock tr. it. Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Laterza, Roma – Bari 1973, più volte riedita (titolo originale: Preface to Plato, 1963). Hegel, tr. Cicero Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Platone (secondo l’edizione postuma del 1833 delle Lezioni sulla Storia della Filosofia cura­ te da Karl Ludwig Michelet). Revisione critica del testo tedesco (e raffronto con l’ed. Garniron – Jaeschke), note e apparati di Vincenzo Cicero. Testo tedesco a fronte, Rusconi, Milano 1998. Heitsch Ernst Heitsch, Platon und die Anfänge seines dialektischen Philosophierens, Göttingen, 2004. Hermann Karl Friedrich Hermann, Geschichte und System der platonischen Philosophie, Heidelberg 1839; New York 19762. Horn 1893 Ferdinand Horn, Platonstudien, Tempsky, Wien 1893. Irwin 1973 Terence Henry Irwin, Plato’s Moral Theory: The Early and Middle Dialogues, Oxford 1977. Irwin 1979 Terence Henry Irwin, Plato’s Gorgias, Oxford 1979. Jaeger, Paideia, ed. Bompiani Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco. Tra­ duzione di Luigi Emery e Alessandro Setti. Introduzione di Giovanni Reale. Indici di Alberto Bellanti, Bompiani, Milano 2003; 20113; l’opera raccoglie in un solo volume i tre pubbli­ cati in precedenza, come nella edizione originale, dalla Nuova

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esplicitazione delle abbreviazioni

Italia nel 1937, 1955, 1959. (Titolo originale: Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, il primo volume era usci­ to già nel 1934; il secondo e il terzo volume sono usciti dappri­ ma in lingua inglese nel 1943 e nel 1944, e subito dopo anche in Germania nel 1944 e nel 1947). Judeich 1905, 19312 Walther Judeich, Topographie von Athen, München 19312. Kierkegaard, Diario Søren Kierkegaard, Diario. A cura di Cornelio Fabro. Terza edizione riveduta e ampliata, 12 volumi, Morcelliana, Brescia 1980-1983. Kirchner 1901 Johannes Ernst Kirchner, Prosopographia Attica, I, Berlin 1901. Krämer si veda Liminta 1998 e Lualdi 1998. Liminta 1974, 19982 Maria Teresa Liminta, Il problema della bellezza. Autenticità e significato dell’Ippia Maggiore di Platone, Celuc, Milano 1974; Vita e Pensiero, Milano 19982. Liminta 1991; 20147 Maria Teresa Liminta, trad. di: Teagete, Carmide, Lachete, Liside, Ippia maggiore, Ippia minore, Menesseno, Rusconi, Mi­ lano 1991; Bompiani, Milano 20147. Liminta 1998 Maria Teresa Liminta, Platone, Ippia Maggiore. Saggio intro­ duttivo di Hans Krämer. Analisi e interpretazione del dialogo, traduzione, note e apparati di Maria Teresa Liminta. Testo greco a fronte, Rusconi, Milano 1998. Lualdi 1974 Maria Lualdi, Il problema della philia e il Liside platonico, Milano 1974.

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Lualdi 1998 Maria Lualdi, Platone, Liside. Saggio introduttivo di Hans Krämer. Analisi e interpretazione del dialogo, traduzione, note e apparati di Maria Lualdi, Testo greco a fronte, Rusconi, Milano 1998. Magalhães-Vilhena 1952 Vasco de Magalhães-Vilhena, Le problème de Socrate. Le Socrate historique et le Socrate de Platon, Paris 1952. Maier tr. it. Heinrich Maier, Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia. Traduzione di Giovanni Sanna, La Nuova Italia, 2 volumi 1943; 19702 (titolo originale: Sokrates: sein Werk und seine geschichtliche Stellung, Tübingen 1913). Martens 1973 Ekkerhard Martens, Das selbstbezügliche Wissen in Platons «Charmides», München 1973. Moreschini, vedasi Tucidide Nietzsche, Nascita della tragedia Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia – Considerazioni inattuali. Versione di Sossio Giametta e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1972, più volte riedita (Volume III, tomo I delle «Opere di Friedrich Nietzsche». Edizione italiana con­ dotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari). Omero, tr. Calzecchi Onesti Omero, Odissea. Prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Testo originale a fronte, Einaudi, Torino 1972. Platonis Opera. Recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, voll. 5, Oxford 1900-1907 (presenta le ope­ re di Platone suddivise in tetralogie secondo il criterio propo­ sto da Trasillo; rimane l’edizione complessiva di riferimento).

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Platone 20147 Platone, Tutti gli scritti, con la collaborazione di Maria Luisa Gatti, Claudio Mazzarelli, Maurizio Migliori, Maria Teresa Liminta, Roberto Radice, Rusconi, Milano 1991; Bompiani, Milano 20147. Platone, Repubblica. Saggio introduttivo, saggio integrativo, bi­ bliografia e indici di Giovanni Reale. Traduzione e note di Roberto Radice con la collaborazione per alcune parti di Giovanni Reale e lessico di Roberto Radice, Bompiani, Milano 2009. Serie dei dialoghi di Platone a cura di Reale pubblicati in questa collana: Platone, Eutifrone, Bompiani, Milano 20112. Platone, Apologia di Socrate, Bompiani, Milano 201311. Platone, Critone, Bompiani, Milano 20103. Platone, Fedone, Bompiani, Milano 20136. Platone, Simposio, Bompiani, Milano 20149. Platone, Fedro, Bompiani, Milano 20135. Platone, Teagete, Bompiani, Milano 201311. Platone, Protagora, Bompiani, Milano 2014. Platone, Gorgia, Bompiani, Milano 20103. Platone, Menone, Bompiani, Milano 20103. Platone, Ione, Bompiani, Milano 20113. Platone, Timeo, Bompiani, Milano 20135.

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Nuova serie dei dialoghi giovanili di Platone a cura di Reale pubblicati in questa collana nel 2015 con bibliografie specifiche di Vincenzo Cicero: Platone, Teagete, Bompiani, Milano 2015. Platone, Ippia minore, Bompiani, Milano 2015. Platone, Ippia maggiore, Bompiani, Milano 2015. Platone, Ipparco, Bompiani, Milano 2015. Platone, Amanti, Bompiani, Milano 2015. Platone, Carmide, Bompiani, Milano 2015. Platone, Liside, Bompiani, Milano 2015. Platone, Lachete, Bompiani, Milano 2015. Platone, Eutidemo, Bompiani, Milano 2015. Platone, Alcibiade primo, Bompiani, Milano 2015. Platone, Alcibiade secondo, Bompiani, Milano 2015. Pohlenz 2013 Max Pohlenz, Aus Platos Werdezeit, Berlin 1913. Presocratici, ed. Bompiani I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz. A cura di Giovanni Reale, con la collaborazione di Diego Fusaro, Maurizio Migliori, Salvatore Obinu, Ilaria Ramelli, Maria Timpanaro Cardini, Angelo Tonelli. Realizzazione editoriale e Indici di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2006, più volte riedito.

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Prodico di Ceo, n. 84 Diels – Kranz; traduzione in I Presocra­ tici, ed Bompiani sopra cit., pp. 1670-1693. Radice – Bombacigno 2003 Lexicon I, Plato edited by Roberto Radice in collaboration with Ilaria Ramelli and Emmanuele Vimercati, electronic edi­ ted by Roberto Bombacigno, Biblia, Milano 2003. Radt, si veda Sofocle Raeder 1905 Hans Raeder, Platons philosophische Entwicklung, Leipzig 1905. Reale 1957 Giovanni Reale, Il «Lachete» platonico e la dottrina delle Idee, in «Pier Lombardo» I 3 (1957), pp. 48-70. Reale 1959 Giovanni Reale, L’Eutifrone, il concetto di santo e la prima teoria platonica delle Idee, in «Rivista di Filosofia neoscolastica», LI (1959), pp. 311-333. Reale, Platone 1998 Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998; Bur, Milano 2004. Reale, Socrate 2001, 20134 Giovanni Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000; Bur, Milano 2001; 20134. Reale 20072 Platone, Simposio. A cura di Giovanni Reale. Testo critico di John Burnet, Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001; 20072. Reale 201022 Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “Dottrine non scritte”, con testi greci di tut­

esplicitazione delle abbreviazioni

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ti i passi citati, Bompiani, Milano, ventiduesima edizione 2010. Reale, Storia, vol. II Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana. Vol. II. Sofisti, Socrate e Socratici minori, Bompiani, Milano 20063. Riginos 1976 Alice Swift Riginos, The Anecdotes Concerning the Life and Writings of Plato, Brill, Leiden 1976. Rossetti 2008 Livio Rossetti, Socrate enkrates, in «Zbornik Matice srpske za klasicne studije», 10 (2008), 65-79. Santas, 1994, tr. it. 2003 Gerasimos Xenophon Santas, Socrate. La filosofia dei dialoghi giovanili di Platone. Introduzione di Giovanni Reale. Traduzione di Francesca Filippi, Vita e Pensiero, Milano 2003 (titolo originale: Socrates: Philosophy in Plato’s Early Dialogues, London – Boston 1979). Schleiermacher, Ermeneutica Friedrich D. E. Schleiermacher, Ermeneutica. Testo tedesco a fronte. Introduzione, impostazione editoriale, traduzione e apparati di Massimo Marassi, Bompiani, Milano 2000. Senofonte, Elleniche, testo greco a fronte, cura di Giovanni Daverio Rocchi, Bur, Milano 2002, 20124. Senofonte, tr. De Martinis Senofonte, Tutti gli scritti socratici. Apologia di Socrate – Me­ morabili – Economico – Simposio. A cura di Livia De Martinis. Saggio introduttivo di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2013. Sofocle, Fr. 14 Radt Tragicorum Graecorum Fragmenta. Vol. IV Sophocles. Edidit

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esplicitazione delle abbreviazioni

Stefan Radt, Göttingen 1977; Editio correctior et addendis aucta, Göttingen 1999. Solone Solone, Frammenti dell’opera poetica. Premessa di H. Maehle, introduzione e commento di M. Noussia, traduzione di M. Fantuzzi, Bur, Milano 2001. Stefanini 1932 Luigi Stefanini, Platone, 2 voll., Cedam, Padova 1932, 19492, 19913. Szlezák tr. it. Thomas A. Szlezák, Platone e la scrittura della filosofia. Analisi di struttura dei dialoghi della giovinezza e della maturità alla luce di un nuovo paradigma ermeneutico. Introduzione e traduzione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1988; titolo originale: Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie. Interpretationen zu den frühen und mittleren Dialogen, de Guyter, Berlin 1985. Taylor, tr. it. Alfred Edward Taylor, Platone. L’uomo e l’opera. Presentazione di Mario Dal Pra. Traduzione di Mario Corsi, La Nuova Italia, Firenze 1968 (titolo originale: Plato: the Man and his Work, London 1926; 19496). Trabattoni 2003 Franco Trabattoni, Il «Liside»: un’introduzione all’etica platonica, in Platone, Liside, a cura di Franco Trabattoni. II, Testo italiano con saggi di Mauro Bonazzi, Andrea Capra, Franco Trabattoni, Led, Milano 2003, pp. 47-171. Tucidide Tucidide, Le storie, traduzione di Claudio Moreschini, in: Ero­ doto e Tucidide. Introduzione di Giovanni Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1967.

esplicitazione delle abbreviazioni

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Vlastos 1994, tr. it. 2003 Gregory Vlastos, Socratic Studies. Edited by Myles Burnyeat, Cambridge 1994 (traduzione italiana: Studi socratici. Intro­ duzione di Giovanni Reale. Traduzione di Francesca Filippi, Vita e Pensiero, Milano 2003). Vlastos 1991, tr. it. Gregory Vlastos, Socrates: Ironist and Moral Philosopher, Cam­bridge University Press, Cambridge 1991 (traduzione italiana con il titolo: Socrate, il filosofo dell’ironia complessa, a cura di Andrea Blasina, La Nuova Italia, Firenze 1998). Wehrli Fritz Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft II: Aristoxenos, Basel 1965; 19672. Wilamowitz-Moellendorff Ulrich von Wilamowitz Moellendorff, Platon. Sein Leben und seine Werke, prima edizione Berlin 1919-1920. Bearbeitet und mit einem Nachwort versehen von Bruno Snell, 5. Auflage, Berlin 1959. Zeller Eduard Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt, 3 voll., 1844-1852; seconda edizione in 5 voll., 1855-1868; la quinta edizione, iniziata nel 1892, è l’ultima curata dall’autore. Zeppi 1969 Platone, Eutidemo. Traduzione di Andreina Zeppi Tutta, in­ troduzione commento e note di Stelio Zeppi, La Nuova Italia, Firenze 1969.

alkibiadhs deuteros [peri; eujch`", maieutikov~]

alcibiade secondo [Sulla preghiera, maieutico]

prologo

138A

Swkraths «W ∆Alkibiavdh, a\rav ge pro;~ to;n qeo;n proseuxovmeno~ poreuvh/… Alkibiadhs Pavnu me;n ou\n, w\ Swvkrate~. Swkraths Faivnh/ gev toi ejskuqrwpakevnai te kai; eij~ gh`n blevpein, w{~ ti sunnoouvmeno~. Alkibiadhs Kai; tiv a[n ti~ sunnooi`to, w\ Swvkrate~…

B

Swkraths Th;n megivsthn, w\ ∆Alkibiavdh, suvnnoian, w{~ g∆ ejmoi; dokei`. ejpei; fevre pro;~ Diov~, oujk oi[ei tou;~ qeouv~, a} tugcavnomen eujcovmenoi kai; ijdiva/ kai; dhmosiva/, ejnivote touvtwn ta; me;n didovnai, ta; d∆ ou[, kai; e[stin oi|~ me;n aujtw`n, e[sti d∆ oi|~ ou[… Alkibiadhs Pavnu me;n ou\n. Swkraths Oujkou`n dokei` soi pollh`~ promhqeiva~ ge prosdei`sqai, o{pw~ mh; lhvsetai auJto;n eujcovmeno~ megavla kakav, dokw`n d∆ ajgaqav, La cosa più grande è conoscere che cosa è bene e che cosa è male e chiedere agli dèi solo ciò che è bene. Cfr. Saggio introduttivo, cap. III, § 4. 1

[Occorre molta prudenza nel chiedere nelle preghiere le cose agli dèi]

Socrate Alcibiade, stai andando, dunque, a pregare il dio? Proprio così, Socrate.

138A

Alcibiade

Socrate Sembri corrucciato e con lo sguardo a terra, come se stessi riflettendo su qualcosa. Alcibiade E su che cosa si dovrebbe riflettere, Socrate? Socrate Sulla cosa più grande1, Alcibiade, almeno come mi sem- B bra. Perché, per Zeus, dimmi, non credi che gli dèi, per quanto riguarda le cose che si dà il caso che chiediamo, e in privato e in pubblico, alcune volte ce le concedono, altre volte no, e che ad alcuni le concedono, mentre ad altri no? Sicuramente.

Alcibiade

Socrate Allora, non ti sembra che occorra molta prudenza, perché, senza saperlo, non succeda di chiedere grandi mali,

106

C

alcibiade secondo, 138 b-c

oiJ de; qeoi; tuvcwsin ejn tauvth/ o[nte~ th`/ e{xei, ejn h|/ didovasin aujtoi; a{ ti~ eujcovmeno~ tugcavnei… w{sper to;n Oijdivpoun aujtivka fasi;n eu[xasqai calkw`/ dielevsqai ta; patrw`/a tou;~ uJei`~: ejxo;n aujtw`/ tw`n parovntwn aujtw`/ kakw`n ajpotrophvn tina eu[xasqai, e{tera pro;~ toi`~ uJpavrcousin kathra`to: toigarou`n tau`tav te ejxetelevsqh, kai; ejk touvtwn a[lla polla; kai; deinav, a} tiv dei` kaq∆ e{kasta levgein… Alkibiadhs ∆Alla; su; mevn, w\ Swvkrate~, mainovmenon a[nqrwpon ei[rhka~: ejpei; tiv~ a[n soi dokei` tolmh`sai uJgiaivnwn toiau`t∆ eu[xasqai…

prologo

107

credendo che siano beni, mentre dal canto loro gli dèi in quel momento si trovano nella condizione di concedere quelle cose per le quali vengono pregati? Così, per esempio, di Edipo si narra che abbia chiesto che i suoi figli C spartissero con la spada l’eredità paterna2. Avrebbe potuto chiedere l’allontanamento dei mali presenti, e invece, con le sue invocazioni, se ne attirò altri, oltre a quelli che aveva. E, in tal modo, questi mali si realizzarono, e ne derivarono altri da essi, molti e terribili, che non occorre esporre a uno a uno. Alcibiade Ma tu, Socrate, hai parlato di un uomo pazzo. Infatti, chi mai, secondo te, avendo la mente sana, avrebbe osato rivolgere agli dèi preghiere come queste?

«Le maledizioni folli di Edipo in delirio […] Il ferro crudele ha estratto a sorte la terra che toccherà a ciascuno…», Eschilo, Sette contro Tebe, 720-740, in Eschilo, Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie, Bompiani, Milano 2011, p. 147. 2

parte prima discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

Swkraths To; maivnesqai a\rav ge uJpenantivon soi dokei` tw`/ fronei`n… Alkibiadhs Pavnu me;n ou\n. D

Swkraths “Afrone~ de; kai; frovnimoi dokou`s in a[nqrwpoi ei\nai tinev~ soi… Alkibiadhs Ei\nai mevntoi. Swkraths Fevre dhv, ejpiskeywvmeqa tivne~ pot∆ eijs i;n ou|toi. o{ti me;n gavr eijs iv tine~, wJmolovghtai, a[fronev~ te kai; frovnimoi, kai; mainovmenoi e{teroi. Alkibiadhs ÔWmolovghtai gavr. Swkraths “Eti de; uJgiaivnontev~ eijs iv tine~… Alkibiadhs Eijs ivn.

[Tentativo di identificare assennatezza e pazzia]

Socrate Allora, non ti sembra che essere pazzo sia contrario all’essere assennato? Sicuramente.

Alcibiade

Socrate E non ti sembra che alcuni uomini siano dissennati e al- D tri assennati? Sì, ce ne sono.

Alcibiade

Socrate Vediamo, dunque, chi siano costoro. Infatti, abbiamo convenuto, che alcuni uomini sono dissennati, altri assennati, altri ancora pazzi. Lo abbiamo ammesso.

Alcibiade

Socrate Ci sono, poi, uomini sani? Ci sono.

Alcibiade

112

alcibiade secondo, 138 d - 139 a

Swkraths Oujkou`n kai; ajsqenou`nte~ e{teroi… Alkibiadhs 139A

Pavnu ge. Swkraths Oujkou`n oujc oiJ aujtoiv… Alkibiadhs Ouj gavr. Swkraths «Ar∆ ou\n kai; e{teroiv tinev~ eijs in, oi} mhdevtera touvtwn pepovnqasin… Alkibiadhs Ouj dh`ta. Swkraths ∆Anavgkh gavr ejstin a[nqrwpon o[nta h] nosei`n h] mh; nosei`n. Alkibiadhs “Emoige dokei`. Swkraths Tiv dev… peri; fronhvsew~ kai; ajfrosuvnh~ a\rav ge th;n aujth;n e[cei~ su; gnwvmhn… Alkibiadhs Pw`~ levgei~…

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

113

Socrate E ce ne sono anche altri che sono malati? Certamente.

Alcibiade

Socrate E sicuramente non sono gli stessi? No.

Alcibiade

Socrate Allora, ce ne sono forse anche altri che non sono in nessuna di queste due condizioni? Proprio no.

Alcibiade

Socrate Dunque, è necessario che un uomo sia o malato o non malato. Mi pare proprio.

Alcibiade

Socrate E allora? Sulla assennatezza e sulla dissennatezza hai la stessa convinzione? Come dici?

Alcibiade

139A

114

alcibiade secondo, 139 a-b

Swkraths Eij dokei` soi oi|ovn te ei\nai h] frovnimon h] a[frona, h] e[sti ti B dia; mevsou trivton pavqo~, o} poiei` to;n a[nqrwpon mhvte frovnimon mhvte a[frona… Alkibiadhs Ouj dh`ta. Swkraths ∆Anavgkh a[r∆ ejsti; to; e{teron touvtwn peponqevnai. Alkibiadhs “Emoige dokei`. Swkraths Oujkou`n mevmnhsai oJmologhvsa~ uJpenantivon ei\nai manivan fronhvsei… Alkibiadhs “Egwge. Swkraths Oujkou`n kai; mhde;n ei\nai dia; mevsou trivton pavqo~, o} poiei` to;n a[nqrwpon mhvte frovnimon mhvte a[frona ei\nai… Alkibiadhs ÔWmolovghsa gavr. Swkraths Kai; mh;n duvo ge uJpenantiva eJni; pravgmati pw`~ a]n ei[h…

3 Cfr. Protagora, 332 C: «… per ognuno dei contrari esiste un unico contrario e non molti». Trad. G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2001, p. 827.

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

115

Socrate Vorrei sapere se sei del parere che non si possa essere se non assennati o dissennati, o se vi sia come intermedia una terza condizione, che fa essere l’uomo né assennato B né dissennato. Certo che no.

Alcibiade

Socrate Allora, è necessario trovarsi in una o nell’altra di queste due condizioni. Mi pare.

Alcibiade

Socrate Ebbene, ti ricordi che hai ammesso che la pazzia è il contrario della assennatezza? Io sì.

Alcibiade

Socrate E hai anche ammesso che non c’è una terza condizione intermedia, che rende un uomo né assennato né dissennato? Sì, l’ho ammesso.

Alcibiade

Socrate E sarebbe possibile che ci fossero due contrari di una medesima cosa?3

116

alcibiade secondo, 139 b-d

Alkibiadhs Oujdamw`~. C

Swkraths ∆Afrosuvnh a[ra kai; maniva kinduneuvei taujto;n ei\nai. Alkibiadhs Faivnetai. Swkraths Pavnta~ ou\n a]n favnte~, w\ ∆Alkibiavdh, tou;~ a[frona~ maivnesqai ojrqw`~ a]n faivhmen: aujtivka tw`n sw`n hJlikiwtw`n ei[ tine~ tugcavnousin a[frone~ o[nte~, w{sper eijs iv, kai; tw`n e[ti presbutevrwn. ejpei; fevre pro;~ Diov~, oujk oi[ei tw`n ejn th`/ povlei ojlivgou~ me;n ei\nai tou;~ fronivmou~, a[frona~ de; dh; tou;~ pollouv~, ou}~ dh; su; mainomevnou~ kalei`~… Alkibiadhs “Egwge.

Swkraths Oi[ei a]n ou\n caivronta~ hJma`~ ei\nai meta; tosouvtwn mainomevnwn D politeuomevnou~, kai; oujk a]n paiomevnou~ kai; ballomevnou~, kai; a{per eijwvqasin oiJ mainovmenoi diapravttesqai, pavlai dh; divkhn dedwkevnai… ajlla; o{ra, w\ makavrie, mh; oujc ou{tw~ tau`t∆ e[cei.

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

Niente affatto.

117

Alcibiade

Socrate Perciò, si dà il caso che dissennatezza e pazzia siano la C stessa cosa. Sembra.

Alcibiade

Socrate Perciò, Alcibiade, dicendo che tutti gli uomini dissennati sono pazzi, diremmo giustamente, per esempio, se fra i tuoi compagni ci sono dei dissennati, come in realtà ce ne sono, e anche fra quelli che sono più avanti negli anni. Suvvia, per Zeus, non pensi che nella Città gli uomini assennati sono pochi, mentre più numerosi sono quelli dissennati, che tu chiami pazzi? Sì.

Alcibiade

Socrate Allora, pensi che dovremmo essere contenti di avere come concittadini così tanti pazzi? E non credi che sa- D remmo già stati percossi, che saremmo stati vittime di quelle cose che i pazzi di solito commettono, e che già da tempo ne avremmo scontato la pena? Sta’ però attento, mio caro, che le cose non stiano in questo modo.

118

alcibiade secondo, 139 d -e

Alkibiadhs Pw`~ a]n ou\n pot∆ e[coi, w\ Swvkrate~… kinduneuvei ga;r oujc ou{tw~ e[cein w{sper wj/hvqhn. Swkraths Oujd∆ ejmoi; dokei`. ajlla; th`/dev ph/ ajqrhtevon. Alkibiadhs Ph`/ pote levgei~… Swkraths ∆Egw; dhv soiv ge ejrw`. uJpolambavnomevn gev tina~ ei\nai nosou`nta~: h] ou[… Alkibiadhs Pavnu me;n ou\n. E

Swkraths «Ar∆ ou\n dokei` soi ajnagkai`on ei\nai to;n nosou`nta podagra`n h] purevttein h] ojfqalmia`n, h] oujk a]n dokei` soi kai; mhde;n touvtwn peponqw;~ eJtevran novson nosei`n… pollai; ga;r dhvpou gev eijs i, kai; oujc au|tai movnai. Alkibiadhs “Emoige dokou`s in. Swkraths ∆Ofqalmiva soi ou\n dokei` pa`sa novso~ ei\nai…

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

119

[Soluzione del problema: distinzione in gradi della dissennatezza] Alcibiade Allora, Socrate, come stanno le cose? Si dà il caso, infatti, che non stiano come io credevo. Socrate Non lo credo neppure io. Ma bisogna considerare le cose in un altro modo.

In quale modo, dici?

Alcibiade

Socrate Te lo dirò. Ammettiamo che ci sono alcuni malati, o no? Sicuramente.

Alcibiade

Socrate Allora, pensi che sia proprio necessario che chi è malato E sia malato di podagra o di febbre o di oftalmia, o pensi che, senza essere affetto da nessuna di queste malattie, possa essere sofferente di un’altra? Infatti, le malattie sono molte, e non solo queste. Mi pare.

Alcibiade

Socrate Ti pare, dunque, che ogni oftalmia sia una malattia?

120

alcibiade secondo, 139 e - 140 b

Alkibiadhs Naiv. Swkraths «Ar∆ ou\n kai; pa`sa novso~ ojfqalmiva… Alkibiadhs Ouj dh`ta e[moige: ajporw` mevntoi ge pw`~ levgw.

140A

Swkraths ∆All∆ eja;n e[moige prosevch/~ to;n nou`n, suvn te duvo skeptomevnw tuco;n euJrhvsomen. Alkibiadhs ∆Alla; prosevcw, w\ Swvkrate~, eij~ duvnamin th;n ejmhvn. Swkraths Oujkou`n wJmologhvqh hJmi`n ojfqalmiva me;n pa`sa novso~ ei\nai, novso~ mevntoi oujk ei\nai pa`sa ojfqalmiva… Alkibiadhs ÔWmologhvqh.

Swkraths Kai; ojrqw`~ gev moi dokei` oJmologhqh`nai. kai; ga;r oiJ purevttonte~ pavnte~ nosou`s in, ouj mevntoi oiJ nosou`nte~ pavnte~ purevttousin oujde; podagrw`s in oujdev ge ojfqalmiw`s in, B oi\mai: ajlla; novso~ me;n pa`n to; toiou`tovn ejsti, diafevrein dev fasin ou}~ dh; kalou`men ijatrou;~ th;n ajpergasivan aujtw`n. ouj ga;r pa`s in ou[te o{moiai ou[te oJmoivw~ diapravttontai, ajlla;

Cercare la verità «insieme» è un punto chiave del metodo (elenctico) di discussione di Socrate. Cfr. Carmide 158 D-159 A e G. Reale, Carmide, Saggio introduttivo, cap. II, § 2, Bompiani, Milano 2015. 4

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

Sì.

121

Alcibiade

Socrate E, allora, ogni malattia è forse un’oftalmia? Alcibiade Certo che no, secondo me. Ma non so come dire. Socrate Però, se mi presterai attenzione lo saprai, e cercando «in 140A due»4, forse troveremo. Alcibiade Ma io presto attenzione, Socrate, per quanto mi è possibile. Socrate Allora, non abbiamo forse ammesso che ogni oftalmia è una malattia, mentre non ogni malattia è un’oftalmia? Lo abbiamo ammesso.

Alcibiade

Socrate E mi sembra che lo abbiamo ammesso a giusta ragione. Infatti, tutti quelli che hanno febbre sono malati, mentre non tutti quelli che sono malati hanno febbre, o podagra, o oftalmia, penso. Tutte le cose di questo genere B sono malattie, però differiscono, come dicono quelli che chiamiamo medici5, per gli effetti che producono. Infatti, 5 «…quelli che chiamiamo medici» è un’espressione con una sfumatura polemica: è noto che per Socrate la vera medicina è solo quella che si prende cura dell’anima.

122

alcibiade secondo, 140 b-d

kata; th;n auJth`~ duvnamin eJkavsth: novsoi mevntoi pa`saiv eijs in. w{sper dhmiourgouv~ tina~ uJpolambavnomen: h] ou[… Alkibiadhs Pavnu me;n ou\n. Swkraths Oujkou`n tou;~ skutotovmou~ kai; tevktona~ kai; ajn driantopoiou;~ kai; eJtevrou~ pamplhqei`~, ou}~ tiv dei` kaq∆ e{kasta levgein… e[cousi d∆ ou\n dieilhfovte~ dhmiourgiva~ mevrh, C kai; pavnte~ ou|toiv eijs i dhmiourgoiv, ouj mevntoi eijs i; tevktonev~ ge oujde; skutotovmoi oujd∆ ajndriantopoioiv, oi} suvmpantev~ eijs i dhmiourgoiv. Alkibiadhs Ouj dh`ta. Swkraths Ou{tw~ me;n toivnun kai; th;n ajfrosuvnhn dieilhfovte~ eijs iv, kai; tou;~ me;n plei`ston aujth`~ mevro~ e[conta~ mainomevnou~ kalou`men, tou;~ d∆ ojlivgon e[latton hjliqivou~ te kai; ejmbronthvtou~: oiJ de; ejn eujfhmotavtoi~ ojnovmasi boulovmenoi katonomavzein oiJ me;n megaloyuvcou~, oiJ de; eujhvqei~, e{teroi D de; ajkavkou~ kai; ajpeivrou~ kai; ejneouv~: euJrhvsei~ de; kai; e{tera polla; ajnazhtw`n ojnovmata. pavnta de; tau`ta ajfrosuvnh ejstivn, diafevrei dev, w{sper tevcnh tevcnh~ hJmi`n katefaivneto kai; novso~ novsou: h] pw`~ soi dokei`… Alkibiadhs ∆Emoi; me;n ou{tw~.

6 Qui Socrate sembra rifarsi agli insegnamenti di Prodico di Ceo che, attivo nella seconda metà del V secolo a.C., fu maestro dell’arte del discorso, introducendo una novità originale, che stupì i contemporanei, la «sinonimica», ossia la distinzione dei vari sinonimi nelle loro sfumature di significati. Socrate qui non lo fa direttamente, ma cita Prodico assai spesso con rispetto misto a ironia (cfr. Teagete, 127 E, trad. G. Reale, Bompiani, Milano 2015; e Saggio intr., cap. I, § 2).

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

123

ogni malattia produce non per tutti gli stessi effetti, né in modo simile, ma ciascuna malattia secondo la caratteristica che le è propria. Tuttavia, sono tutte quante malattie. Per fare un altro esempio, ammetteremo che ci siano degli artigiani. O no? Sicuramente.

Alcibiade

Socrate E precisamente, non ci sono forse calzolai, carpentieri, scultori e altri in gran numero, che non c’è bisogno di enumerare a uno a uno? Ebbene, essi esercitano parti distinte dell’arte, e sono tutti artigiani, però senza esse- C re tutti costruttori, né calzolai, né scultori, che sono tutti quanti artigiani. No certo.

Alcibiade

Socrate Proprio in questo modo è stata ripartita anche la dissennatezza. Noi chiamiamo pazzi gli uomini che possiedono la parte più grande di essa, e, invece, sciocchi e intontiti quelli che ne possiedono un po’ di meno. Fra coloro, invece, che preferiscono usare termini eufemistici, alcuni li chiamano esaltati, altri semplicioni, altri ancora ingenui, D inesperti e stupidi.6 Se cerchi, troverai anche molti altri nomi. Sono tutte forme di dissennatezza, ma differiscono fra loro così come un’arte ci risulta diversa da un’altra arte, e una malattia da un’altra malattia. O come ti pare? Anche a me pare così.

Alcibiade

124

alcibiade secondo, 140 d -e

Swkraths Oujkou`n ajp∆ ejkeivnou pavlin ejpanevlqwmen. h\n ga;r dhvpou kai; ejn ajrch`/ tou` lovgou, skeptevon ei\nai tou;~ a[fronav~ te kai; fronivmou~, tivne~ pot∆ eijs ivn. wJmolovghto ga;r ei\naiv tina~: h\ ga;r ou[… Alkibiadhs Naiv, wJmolovghtai. E

Swkraths «Ar∆ ou\n touvtou~ fronivmou~ uJpolambavnei~, oi} a]n eijdw`s in a{tta dei` pravttein kai; levgein… Alkibiadhs “Egwge. Swkraths “Afrona~ de; potevrou~… a\rav ge tou;~ mhdevtera touvtwn eijdovta~… Alkibiadhs Touvtou~. Swkraths Oujkou`n oi{ ge mh; eijdovte~ mhdevtera touvtwn lhvsousin auJtou;~ kai; levgonte~ kai; pravttonte~ a{tta mh; dei`… Alkibiadhs Faivnetai.

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

125

[Nelle preghiere bisogna chiedere solamente beni con assennatezza] Socrate Perciò, torniamo ancora al punto di prima. All’inizio della discussione dicevamo che bisognava esaminare gli assennati e gli stolti, e chi fossero costoro. Infatti, avevamo ammesso che ce ne sono. O no? Alcibiade Sì, l’abbiamo ammesso. Socrate Consideri forse assennati coloro che sanno le cose che si E devono fare e che si devono dire? Io, sì.

Alcibiade

Socrate E quali consideri dissennati? Non sono forse coloro che non sanno né l’una né l’altra di queste cose? Sono questi.

Alcibiade

Socrate Allora, coloro che non sanno né l’una né l’altra cosa, diranno e faranno, senza saperlo, le cose che non dovrebbero né dire né fare? Sembra.

Alcibiade

126

141A

B

alcibiade secondo, 141 a-c

Swkraths Touvtwn mevntoi e[legon, w\ ∆Alkibiavdh, kai; to;n Oijdivpoun ei\nai tw`n ajnqrwvpwn: euJrhvsei~ d∆ e[ti kai; tw`n nu`n pollou;~ oujk ojrgh`/ kecrhmevnou~, w{sper ejkei`non, oujd∆ oijomevnou~ kakav sfisin eu[cesqai, ajll∆ ajgaqav. ejkei`no~ me;n w{sper oujd∆ hu[ceto, oujd∆ w[/eto: e{teroi dev tinev~ eijs in oi} tajnantiva touvtwn pepovnqasin. ejgw; me;n ga;r oi\maiv se prw`ton, ei[ soi ejmfanh;~ genovmeno~ oJ qeo;~ pro;~ o}n tugcavnei~ poreuovmeno~, ejrwthvseien, pri;n oJtiou`n eu[xasqaiv se, eij ejxarkevsei soi tuvrannon genevsqai th`~ ∆Aqhnaivwn povlew~: eij de; tou`to fau`lon hJghvsaio kai; mh; mevga ti, prosqeivh kai; pavntwn tw`n ÔEllhvnwn: eij dev se oJrwv/h e[ti e[latton dokou`nta e[cein, eij mh; kai; pavsh~ Eujrwvph~, uJpostaivh soi kai; tou`to, ãkai; tou`toà mh; movnon uJpostaivh, ãajll∆à aujqhmerovn sou boulomevnou wJ~ pavnta~ aijsqhvsesqai o{ti ∆Alkibiavdh~ oJ Kleinivou tuvrannov~ ejstin: aujto;n oi\mai a[n se ajpievnai pericarh` genovmenon, wJ~ tw`n megivstwn ajgaqw`n kekurhkovta. Alkibiadhs ∆Egw; me;n oi\mai, w\ Swvkrate~, ka]n a[llon oJntinou`n, ei[per toiau`ta sumbaivh aujtw`/.

C

Swkraths ∆Alla; mevntoi ajntiv ge th`~ sh`~ yuch`~ oujd∆ a]n th;n pavntwn ÔEllhvnwn te kai; barbavrwn cwvran te kai; turannivda boulh­ qeivh~ soi genevsqai. Alkibiadhs Oujk oi\mai e[gwge. pw`~ ga;r a[n, mhqevn gev ti mevllwn aujtoi`~ crhvsesqai… Euripide, Fenicie, 67-69, «[Edipo] è appestato dal destino, e scaglia contro i suoi figli le maledizioni più blasfeme…» in Eschilo, Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie, cit., p. 2509. 8 Cfr. Saggio intr., cap. I, § 4. 7

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

127

Socrate E dicevo, Alcibiade, che uno di questi uomini era anche 141A Edipo. Però, anche al giorno d’oggi, troverai molti che, pur non essendo presi dall’ira come lui, non credono di chiedere nelle loro preghiere dei mali, bensì dei beni. Edipo, invece, nelle sue preghiere non chiedeva dei beni, ma neppure pensava di farlo7. Però, ci sono altri ai quali succede il contrario. Io penso, infatti, che tu per primo, se ti apparisse il dio dal quale stai andando, e, prima ancora che tu gli avessi chiesto qualsiasi cosa, ti domandasse se tu saresti contento di diventare tiranno della Città di Atene, e, nel caso che questo ti sembrasse di poco conto e non abbastanza grande, il dio soggiun- B gesse anche tiranno di tutti quanti gli Elleni; e se, poi, si accorgesse che tu comunque pensi di possedere ancora troppo poco senza avere tutta l’Europa, ti promettesse anche questo, e non solo questo, ma anche, per tuo desiderio, facesse in modo che oggi stesso tutti sapessero che Alcibiade, figlio di Clinia, è tiranno: ebbene, ritengo che tu te ne andresti pieno di gioia, come se avessi ottenuto i più grandi beni8. Alcibiade Sono convinto, Socrate, che lo farebbe chiunque altro, se gli capitassero cose di questo genere. Socrate Però, non vorresti diventare padrone della terra, né di C tutti gli Elleni e dei barbari, in cambio della tua vita9. Alcibiade Non credo davvero. Come potrei volerlo, senza trarne godimento?

128

alcibiade secondo, 141 c-e

Swkraths Tiv d∆ eij mevlloi~ kakw`~ te kai; blaberw`~ crh`sqai… oujd∆ a]n ou{tw~… Alkibiadhs Ouj dh`ta. Swkraths ÔOra`/~ ou\n wJ~ oujk ajsfale;~ ou[te ta; didovmena eijkh`/ devcesqaiv te D ou[te aujto;n eu[cesqai genevsqai, ei[ gev ti~ blavptesqai mevlloi dia; tau`ta h] to; paravpan tou` bivou ajpallagh`nai. pollou;~ d∆ a]n e[coimen eijpei`n, o{soi turan nivdo~ ejpiqumhvsante~ h[dh kai; spoudavsante~ tou`t∆ aujtoi`~ paragenevsqai, wJ~ ajgaqovn ti pravxante~, dia; th;n turannivda ejpibouleuqevnte~ to;n bivon ajfh/ revqhsan. oi\mai dev se oujk ajnhvkoon ei\nai e[niav ge cqizav te kai; prwi>za; gegenhmevna, o{te ∆Arcevlaon to;n Makedovnwn tuvrannon ta; paidikav, ejrasqevnta th`~ turannivdo~ oujqe;n h|tton h[per ejkei`no~ tw`n paidikw`n, ajpevkteine to;n ejrasth;n E wJ~ tuvrannov~ te kai; eujdaivmwn ajnh;r ejsovmeno~: katascw;n de; trei`~ h] tevttara~ hJmevra~ th;n turannivda pavlin aujto;~ ejpibouleuqei;~ uJf∆ eJtevrwn tinw`n ejteleuvthsen. oJra`/~ dh; kai; tw`n

9 Cfr. Alcibiade primo, 105 C, dove Socrate afferma il contrario: «non mi sembra che ti accontenteresti di vivere solamente in queste condizioni, senza poter riempire del tuo nome e della tua potenza, per così dire, l’umanità tutta quanta». (trad. G. Reale, Bompiani, Milano 2015). 10 Questa espressione (cqizav te kai; prwi>za;) compare in Omero, Iliade II, 303, viene usata spesso da Platone, ad es. in Gorgia 470 D. 11 Di Archelao, re di Macedonia dal 413 al 399 a.C. e figlio naturale di Perdicca II, Platone parla più di una volta: Gorgia, 470 D; Teagete, 124 D, cit., note 20 e 21. Della morte di Archelao (nello stesso anno della morte di Socrate) esistono più versioni; secondo Diodoro Siculo (Biblioteca Storica, XIV, 37, 6) fu ucciso accidentalmente da Cratero, che egli amava, durante una caccia. Secondo

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

129

Socrate Ma se potessi trarne godimento in malo modo e a tuo danno? Neppure così? Certo che no.

Alcibiade

[Mali che derivano da beni cercati o accettati in modo dissennato] Socrate Vedi, allora, come non sia sicuro da pericoli né accettare in modo sconsiderato cose che vengono donate, né chiederle con preghiere, se si dovessero subire dei danni D per queste, o addirittura se si dovesse perdere la vita. E potremmo parlare di molti uomini che, per aver bramato la tirannide ed essersi molto impegnati per ottenerla, convinti di fare il proprio bene, persero poi la vita per le insidie cui sono stati esposti dalla tirannide. Ma credo che non ti siano sconosciuti alcuni fatti avvenuti «ieri e ieri l’altro»10, quando Archelao11, tiranno della Macedonia, venne ucciso dal suo amato, che bramava la tirannide non meno di quanto Archelao bramasse i suoi favori, e lo uccise per diventare insieme tiranno e uomo felice. Tuttavia, dopo aver tenuto il potere della tirannia per tre E o quattro giorni, pure lui fu vittima di un complotto, e fu ucciso da alcuni altri. E vedi anche quanti dei nostri citAristotele (Politica, V 10, 1311 B) Archelao fu assassinato da una congiura capeggiata da Cratero, che dopo pochi giorni fu ucciso da Oreste, figlio di Archelao.

130

alcibiade secondo, 141 e - 142 d

hJmetevrwn politw`n < tau`ta ga;r oujk a[llwn ajkhkovamen, ajll∆ aujtoi; parovnte~ oi[damen < o{soi strathgiva~ ejpiqumhvsante~ h[dh kai; tucovnte~ aujth`~ oiJ me;n e[ti kai; nu`n fugavde~ th`sde th`~ povlewv~ eijs in, oiJ de; to;n bivon ejteleuvthsan: oiJ de; a[rista dokou`nte~ aujtw`n pravttein dia; pollw`n kinduvnwn ejlqovnte~ kai; fovbwn ouj movnon ejn tauvth/ th`/ strathgiva/, ajll∆ ejpei; eij~ th;n eJautw`n kath`lqon, uJpo; tw`n sukofantw`n poliorkouvmenoi poliorkivan oujde;n ejlavttw th`~ uJpo; tw`n polemivwn dietevlesan, w{ste ejnivou~ aujtw`n eu[cesqai ajstrathghvtou~ ei\nai ma`llon h] B ejstrathgh < kevnai. eij me;n ou\n h\san oiJ kivndunoiv te kai; povnoi fevronte~ eij~ wjfevleian, ei\cen a[n tina lovgon: nu`n de; kai; polu; toujnantivon. euJrhvsei~ de; kai; peri; tevknwn to;n aujto;n trovpon, eujxamevnou~ tina;~ h[dh genevsqai kai; genomevnwn eij~ sumforav~ te kai; luvpa~ ta;~ megivsta~ katastavnta~. oiJ me;n ga;r mocqhrw`n dia; tevlou~ o[ntwn tw`n tevknwn o{lon to;n bivon lupouvmenoi dihvgagon: tou;~ de; crhstw`n me;n genomevnwn, C sumforai`~ de; crhsamevnwn w{ste sterhqh`nai, kai; touvtou~ oujde;n eij~ ejlavttona~ dustuciva~ kaqesthkovta~ h[per ejkeivnou~ kai; boulomevnou~ a]n ajgevnhta ma`llon ei\nai h] genevsqai. ajll∆ o{mw~ touvtwn te kai; eJtevrwn pollw`n oJmoiotrovpwn touvtoi~ ou{tw sfovdra katadhvlwn o[ntwn, spavnion euJrei`n o{sti~ a] n h] didomevnwn ajpovscoito h] mevllwn di∆ eujch`~ teuvxesqai pauvsaito a]n eujcovmeno~: oiJ de; polloi; ou[te a]n turannivdo~ didomevnh~ ajpovscointo a]n ou[te strathgiva~ oujd∆ eJtevrwn D pollw`n, a} parovnta blavptei ma`llon h] wjfelei`, ajlla; ka]n eu[xainto a]n genevsqai, ei[ tw/ mh; parovnta tugcavnei: ojlivgon de; ejpiscovnte~ ejnivote palinw/dou`s in, ajneucovmenoi a{tt∆ a] n to; prw`ton eu[xwntai. ejgw; me;n ou\n ajporw` mh; wJ~ ajlhqw`~

142A

Calunniatori e ricattatori di professione. Componimento poetico o discorso nel quale si ritrattano opinioni già professate, illustrando i motivi del cambiamento. 12 13

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

131

tadini – perché queste cose non le abbiamo sentite dire da altri, ma noi stessi siamo testimoni diretti –, che bra- 142A mavano di ottenere la carica di generale e vi erano riu­ sciti, sono ancor oggi banditi da questa Città, o hanno perso addirittura la vita. Invece, coloro per i quali sembra sia andata meglio, sono passati attraverso molti pericoli e paure, non solo nelle campagne militari, ma anche dopo esser tornati in patria, vennero assediati dai sicofanti12, non meno che dai nemici in guerra, al punto che alcuni di loro avrebbero desiderato non esser mai stati comandanti, piuttosto che esserlo stati. Se, però, i peri- B coli e le fatiche avessero portato dei vantaggi, ci sarebbe stata una qualche ragione, invece avviene per lo più il contrario. Troverai, poi, che anche per quanto riguarda i figli succedono le medesime cose. Ci sono alcuni che, dopo aver pregato per averne e averli avuti, sono piombati nelle peggiori sventure e sofferenze. Alcuni, infatti, in quanto i loro figli furono cattivi fino alla fine, hanno trascorso tutta la vita nelle sofferenze; altri, invece, che ebbero buoni figli, subirono tuttavia delle disgrazie, e C così li persero. Anche questi, sono caduti in sventure non minori rispetto a quelle dei primi, tanto che avrebbero desiderato che non fossero nati, piuttosto che fossero nati. Ma, anche se questi e molti altri esempi simili sono assai evidenti, capita di rado di trovare uno che o rifiuti questi doni che gli vengono offerti, o che, potendo riceverli mediante la preghiera, si trattenga dal chiederli. I più non rifiuterebbero né la tirannide, nel caso venisse loro offerta, né la carica di generale, né molte altre cari- D che, le quali, una volta ottenute, recano danni piuttosto che giovamento; anzi, pregherebbero di averle, qualora non le avessero. Però, dopo poco tempo, talvolta cantano la palinodia13, ritrattando tutto quello che prima avevano pregato di avere. Pertanto, mi domando se non sia vera-

132

alcibiade secondo, 142 d - 143 a

mavthn qeou;~ a[nqrwpoi aijtiw`ntai, ejx ejkeivnwn favmenoi kakav sfisin ei\nai: oiJ de; kai; aujtoi; sfh`/sin ei[te ajtasqalivaisin E ei[te ajfrosuvnai~ crh; eijpei`n, uJpe;r movron a[lge∆ e[cousi. kinduneuvei gou`n, w\ ∆Alkibiavdh, frovnimov~ ti~ ei\nai ejkei`no~ oJ poihthv~, o}~ dokei` moi fivloi~ ajnohvtoi~ tisi; crhsavmeno~, oJrw`n aujtou;~ kai; pravttonta~ kai; eujcomevnou~ a{per ouj bevltion h\n, ejkeivnoi~ de; ejdovkei, koinh`/ uJpe;r aJpavntwn aujtw`n eujch;n poihvsasqai: levgei dev pw~ wJdiv < 143A Zeu` basileu`, ta; me;n ejsqlav, fhsiv, kai; eujcomevnoi~ kai; ajneuvktoi~ a[mmi divdou, ta; de; deila; kai; eujcomevnoi~ ajpalevxein keleuvei. ejmoi; me;n ou\n kalw`~ dokei` kai; ajsfalw`~ levgein oJ poihthv~: su; d∆ ei[ ti ejn nw`/ e[cei~ pro;~ tau`ta, mh; siwvpa.

i. discussione su assennatezza, dissennatezza e pazzia

133

mente a torto che gli uomini «incolpino» gli dèi, dicendo che sono l’origine dei propri mali, mentre sono essi stessi che, «con le loro scelleratezze» o stoltezze, come si voglia dire, «si procurano dolori oltre la loro sorte»14. Si dà E il caso, Alcibiade, che fosse saggio quel poeta che, come mi pare, avendo degli amici dissennati, nel vederli fare e chiedere con preghiere cose che per loro non erano il meglio, come invece a loro sembrava, compose per tutti costoro una preghiera, che dice all’incirca così: Zeus re, dacci i beni, sia che li chiediamo nella preghiera, sia che non li chiediamo ma allontana i mali, anche se li chiediamo nella preghiera15.

Mi sembra che il poeta dica bene e in modo sicuro. Tu, però, se hai obiezioni, non devi tacere.

Omero, Odissea, I 32-34. Non conosciamo il poeta citato da Platone, ma una preghiera molto simile a questa compare in una raccolta di circa 3.700 epigrammi greci scoperta nel 1607: Antologia Palatina, X, 108. Cfr. Arrighetti, 20124, p. 181, nota 9. 14 15

143A

parte seconda discussione su scienza del bene e preghiera

Alkibiadhs Calepovn, w\ Swvkrate~, ejsti;n ajntilevgein pro;~ ta; kalw`~ eijrhmevna: ejkei`no d∆ ou\n ejnnow`, o{swn kakw`n aijtiva hJ a[gnoia toi`~ ajnqrwvpoi~, oJpovte, wJ~ e[oike, lelhvqamen hJma`~ aujtou;~ B dia; tauvthn kai; pravttonte~ kai; tov ge e[scaton eujcovmenoi hJmi`n aujtoi`~ ta; kavkista. o{per ou\n oujdei;~ a]n oijhqeivh, ajlla; tou`tov ge pa`~ a]n oi[oito iJkano;~ ei\nai, aujto;~ auJtw`/ ta; bevltista eu[xasqai, ajll∆ ouj ta; kavkista. tou`to me;n ga;r wJ~ ajlhqw`~ katavra/ tini; ajll∆ oujk eujch`/ o{moion a]n ei[h. Swkraths ∆All∆ i[sw~, w\ bevltiste, faivh a[n ti~ ajnhvr, o}~ ejmou` te kai; C sou` sofwvtero~ w]n tugcavnoi, oujk ojrqw`~ hJma`~ levgein, ou{tw~ eijkh`/ yevgonta~ a[gnoian, ei[ ge mh; prosqeivhmen th;n e[stin w|n te a[gnoian kai; e[stin oi|~ kai; e[cousiv pw~ ajgaqovn, w{sper ejkeivnoi~ kakovn. Alkibiadhs Pw`~ levgei~… e[sti ga;r oJtiou`n pra`gma o{tw/ dh; oJpwsou`n e[conti a[meinon ajgnoei`n h] gignwvskein…

16

Cfr. Saggio intr., cit., cap. II, § 4.

[Il non sapere che cosa sia il bene è un male assai grande]

Alcibiade È difficile, Socrate, contraddire le cose che sono ben dette. Penso, quindi, di quanti mali l’ignoranza sia causa per gli uomini, in quanto, come pare, senza saperlo, a causa di essa, noi stessi facciamo e addirittura invochiamo con B preghiere i mali peggiori. Nessuno, però, crederebbe a questo. Anzi, ciascuno crederebbe di essere capace di chiedere per sé i beni più grandi, ma non i mali più grandi. Una cosa come questa, per dirla in modo giusto, sembrerebbe simile a una maledizione, e non a una preghiera. Socrate Ma forse, carissimo, uno che fosse più sapiente di me e di te, direbbe che non parliamo in modo giusto, biasiman- C do l’ignoranza senza riflettere, a meno che non diciamo anche che, per alcuni uomini e in certe circostanze, l’ignoranza di certe cose è un bene, mentre, per altri, è un male16. [In quali condizioni l’ignoranza non è un male] Alcibiade Come dici? C’è forse qualche cosa che per qualcuno, in quale che sia la circostanza, sia meglio ignorare invece di conoscere?

138

alcibiade secondo, 143 c-e

Swkraths “Emoige dokei`: soi; d∆ ou[… Alkibiadhs Ouj mevntoi ma; Diva. Swkraths ∆Alla; mh;n oujde; ejkei`nov sou katagnwvsomai, ejqevlein a[n se pro;~ th;n eJautou` mhtevra diapepra`cqai a{per ∆Orevsthn fasi; kai; to;n ∆Alkmevwna kai; eij dhv tine~ a[lloi ejkeivnoi~ D tugcavnousi taujta; diapepragmevnoi. Alkibiadhs Eujfhvmei pro;~ Diov~, w\ Swvkrate~. Swkraths Ou[toi to;n levgonta, w\ ∆Alkibiavdh, wJ~ oujk a]n ejqevloi~ soi tau`ta pepra`cqai, eujfhmei`n dei` se keleuvein, ajlla; ma`llon poluv, ei[ ti~ ta; ejnantiva levgoi, ejpeidh; ou{tw soi dokei` sfovdra deino;n ei\nai to; pra`gma, w{st∆ oujde; rJhtevon ei\nai ou{tw~ eijkh`/. dokei`~ d∆ a]n to;n ∆Orevsthn, eij ejtuvgcane frovnimo~ w]n kai; eijdw;~ o{ti bevltiston h\n aujtw`/ pravttein, tolmh`sai a[n ti touvtwn diapravxasqai… Alkibiadhs Ouj dh`ta. E

Swkraths Oujdev ge a[llon oi\mai oujdevna.

17 Vengono qui citati i due più famosi matricidi dell’antichità. Oreste uccise la madre, Clitennestra, per vendicare il padre, Agamennone, che lei aveva ucciso per vendicare la figlia Ifigenia, sorella di Oreste, uccisa da Agamennone per ottenere il favore degli dèi nella guerra contro Troia (Euripide, Oreste, in Eschilo, Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie, cit.). Anche Alcmeone uccise

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

Mi pare di sì. A te no? Proprio no, per Zeus!

139

Socrate Alcibiade

Socrate Ebbene, non ti accuserò del fatto che tu abbia avuto intenzione di compiere nei confronti di tua madre quello che si narra di Oreste e di Alcmeone17, e, forse, di altri che D compirono le stesse azioni. Alcibiade Non dire queste cose, per Zeus, Socrate! Socrate Alcibiade, non devi proprio far tacere chi dice che tu non vorresti aver compiuto questo, ma chi dicesse piuttosto il contrario, dal momento che questa azione ti pare così terribile, da non poter essere detta neppure così, casualmente. Ti sembra che Oreste, se per caso fosse stato assennato e avesse avuto conoscenza di quello che per lui era meglio, avrebbe osato commettere un’azione di questo genere? Proprio no!

Alcibiade

Socrate E neppure nessun altro, penso. la madre Erifile, per vendicare la morte del padre Anfiarao, che era stato spinto dalla moglie a partecipare alla spedizione contro Tebe che gli costò la vita. Cfr. Omero, Odissea, XV 244-248.

E

140

alcibiade secondo, 143 e - 144 a

Alkibiadhs Ouj mevntoi. Swkraths Kako;n a[ra, wJ~ e[oiken, ejsti;n hJ tou` beltivstou a[gnoia kai; to; ajgnoei`n to; bevltiston. Alkibiadhs “Emoige dokei`. Swkraths Oujkou`n kai; ejkeivnw/ kai; toi`~ a[lloi~ a{pasin… Alkibiadhs Fhmiv. Swkraths “Eti toivnun kai; tovde ejpiskeywvmeqa: ei[ soi aujtivka mavla parestaivh, oijhqevnti bevltion ei\nai, Perikleva to;n seautou` 144A ejpivtropovn te kai; fivlon, ejgceirivdion labovnta, ejlqovnta ejpi; ta;~ quvra~, eijpei`n eij e[ndon ejstiv, boulovmenon ajpoktei`nai aujto;n ejkei`non, a[llon de; mhdevna: oiJ de; fai`en e[ndon ei\nai < kai; ouj levgw ejqevlein a[n se touvtwn ti pravttein: ajll∆ eij, oi\ mai, dovxei soi, o{per oujqe;n kwluvei dhvpou tw`/ ge ajgnoou`nti to; bevltiston parasth`naiv pote dovxan, w{ste oijhqh`nai kai; to; kavkistovn pote bevltiston ei\nai: h] oujk a]n dokei` soi… Alkibiadhs Pavnu me;n ou\n.

All’età di circa quattro anni Alcibiade rimase orfano di padre e fu affidato a Pericle, insieme al fratello Clinia. 18

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

No davvero.

141

Alcibiade

Socrate Allora, come sembra, sono un male l’ignoranza del meglio e il non sapere che cosa sia il meglio. Mi pare.

Alcibiade

Socrate E non lo è anche per Oreste e per tutti quanti gli altri? Dico di sì.

Alcibiade

Socrate Consideriamo ancora anche questo. Mettiamo il caso che, all’improvviso, ti venisse in mente, nella convinzione che questo sia il meglio, di prendere un pugnale, e di recarti da Pericle, tuo tutore e amico18, e, giunto alla 144A porta, domandassi se egli sia in casa, con l’intenzione di uccidere proprio lui e nessun altro, e ti venisse risposto che è in casa. Ebbene, non sto dicendo che tu vorresti compiere qualcosa di questo genere; ma, penso, nel caso che ti venisse in mente questo, dal momento che nulla impedisce che venga in mente proprio questo a chi non conosce ciò che è meglio, così da ritenere che il più grande male sia talora il più grande bene. Tu non la pensi così? Certamente.

Alcibiade

142

B

alcibiade secondo, 144 b-c

Swkraths Eij ou\n parelqw;n ei[sw kai; ijdw;n aujto;n ejkei`non ajgnohvsai~ te kai; oijhqeivh~ a]n a[llon ei\naiv tina, a\r∆ e[ti a]n aujto;n tolmhvsai~ ajpoktei`nai… Alkibiadhs Ouj ma; to;n Diva, oujk a[n moi dokw`. Swkraths Ouj ga;r dhvpou to;n ejntucovnta, ajll∆ aujto;n ejkei`non o}n hjbouvlou. h\ gavr… Alkibiadhs Naiv. Swkraths Oujkou`n kai; eij pollavki~ ejgceiroi`~, aijei; de; ajgnooi`~ to;n Perikleva, oJpovte mevlloi~ tou`to pravttein, ou[pote a]n ejpivqoio aujtw`/. Alkibiadhs Ouj dh`ta. Swkraths Tiv dev… to;n ∆Orevsthn dokei`~ a[n pote th`/ mhtri; ejpiqevsqai, ei[ ge wJsauvtw~ hjgnovhsen… Alkibiadhs

C

Oujk oi\mai e[gwge. Swkraths Ouj ga;r dhvpou oujd∆ ejkei`no~ th;n prostucou`san gunai`ka oujde; th;n oJtouou`n mhtevra dienoei`to ajpoktei`nai, ajlla; th;n aujto;~ auJtou`.

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

143

Socrate Se, dunque, dopo esser entrato nella casa e averlo visto, non lo riconoscessi, e lo scambiassi per un altro, oseresti B ancora ucciderlo? Alcibiade No, per Zeus, non credo. Socrate Infatti, non intendevi uccidere il primo che ti fosse capitato davanti, ma quello che volevi uccidere. Non è così? Sì.

Alcibiade

Socrate Perciò, anche se tu ripetessi molte volte questo tentativo, e di continuo non riconoscessi Pericle, giunto sul punto di compiere l’atto, non lo assaliresti mai. Proprio no.

Alcibiade

Socrate E allora? Pensi che Oreste avrebbe assalito sua madre, se non l’avesse riconosciuta proprio in questo modo? Non credo.

Alcibiade

Socrate Infatti, neppure lui intendeva uccidere la prima donna che avesse incontrato, né una qualsiasi madre, ma proprio la sua.

C

144

alcibiade secondo, 144 c-d

Alkibiadhs “Esti tau`ta. Swkraths ∆Agnoei`n a[ra tav ge toiau`ta bevltion toi`~ ou{tw diakeimevnoi~ kai; toiauvta~ dovxa~ e[cousin. Alkibiadhs Faivnetai. Swkraths ÔOra`/~ ou\n o{ti hJ e[stin w|n te a[gnoia kai; e[stin oi|~ kai; e[cousiv pw~ ajgaqovn, ajll∆ ouj kakovn, w{sper a[rti soi ejdovkei… Alkibiadhs “Eoiken. D

Swkraths “Eti toivnun eij bouvlei to; meta; tou`to ejpiskopei`n, a[topon a]n i[sw~ a[n soi dovxeien ei\nai. Alkibiadhs Tiv mavlista, w\ Swvkrate~… Swkraths ”Oti, wJ~ e[po~ eijpei`n, kinduneuvei tov ge tw`n a[llwn ejpisthmw`n kth`ma, ejavn ti~ a[neu tou` beltivstou kekthmevno~ h\/, ojligavki~

19

Cfr. Saggio intr., cit., cap. II, § 5.

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

È così.

145

Alcibiade

Socrate Allora, ignorare cose come queste, è meglio per coloro che si trovano in tali condizioni e che hanno intenti di questo genere. Sembra.

Alcibiade

Socrate Vedi, allora, che l’ignoranza di alcune cose e per alcuni che si trovano in certe situazioni è un bene e non un male, come poco fa credevi. Sembra.

Alcibiade

[Senza la scienza del Bene le altre scienze sono di scarsa utilità] Socrate Se ora vuoi sottoporre a esame quello che segue, forse la D cosa ti sembrerà assurda19. Che cosa, Socrate?

Alcibiade

Socrate Per dirla in breve, si dà il caso che il possesso delle altre scienze, senza la scienza di ciò che è meglio, poche vol-

146

alcibiade secondo, 144 d - 145 a

me;n wjfelei`n, blavptein de; ta; pleivw to;n e[conta aujtov. skovpei de; w|de. a\r∆ oujk ajnagkai`ovn soi dokei` ei\nai, o{tan ti mevllwmen h[toi pravttein h] levgein, oijhqh`nai dei`n prw`ton hJma`~ eijdevnai E h] tw`/ o[nti eijdevnai tou`q∆ o} a]n proceirotevrw~ mevllwmen h] levgein h] pravttein… Alkibiadhs “Emoige dokei`. Swkraths Oujkou`n oiJ rJhvtore~ aujtivka h[toi eijdovte~ sumbouleuvein h] oijhqevnte~ eijdevnai sumbouleuvousin hJmi`n eJkavstote, oiJ me;n peri; polevmou te kai; eijrhvnh~, oiJ de; peri; teicw`n oijkodomiva~ h] kai; limevnwn kataskeuh`~: eJni; de; lovgw/, o{sa dhv pote hJ povli~ 145A pravttei pro;~ a[llhn povlin h] aujth; kaq∆ auJthvn, ajpo; th`~ tw`n rJhtovrwn sumboulh`~ pavnta givgnetai. Alkibiadhs ∆Alhqh` levgei~. Swkraths ”Ora toivnun kai; ta; ejpi; touvtoi~. Alkibiadhs ‘An dunhqw`. Swkraths Kalei`~ ga;r dhvpou fronivmou~ te kai; a[frona~… Alkibiadhs “Egwge. 20 Cfr. Alcibiade primo, 117 D: «Socrate – Comprendi, dunque, che anche gli errori che si commettono nell’agire derivano da questa ignoranza, vale a dire dal fatto che, non sapendo, si crede di sapere?» (trad. G. Reale, Bompiani, Milano 2015).

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

147

te è di vantaggio, mentre il più delle volte danneggia chi l’ha. Considera la questione nel modo che segue: non ti sembra necessario che, quando stiamo per fare o per dire qualcosa, in primo luogo bisogna credere che noi sappiamo, oppure che sappiamo veramente quello che pronta- E mente stiamo per dire o per fare?20 Mi pare.

Alcibiade

Socrate Così, per esempio, gli oratori, in quanto sanno consigliare o in quanto sono convinti di saperlo fare, ci danno consigli ogni volta, gli uni sulla guerra e sulla pace, gli altri sulla costruzione di mura o sulla fortificazione di porti. In breve, ci danno consigli su tutto quello che la Città fa in rapporto con un’altra o per sé, e tutto questo viene fat- 145A to per i consigli degli oratori. Dici il vero.

Alcibiade

Socrate Allora, sta’ attento a quello che segue. Se sono capace.

Alcibiade

Socrate Tu chiami alcuni uomini assennati, altri stolti? Io, sì.

Alcibiade

148

alcibiade secondo, 145 a-b

Swkraths Oujkou`n tou;~ me;n pollou;~ a[frona~, tou;~ d∆ ojlivgou~ fro­ nivmou~… Alkibiadhs Ou{tw~. Swkraths Oujkou`n prov~ ti ajpoblevpwn ajmfotevrou~… Alkibiadhs Naiv. B

Swkraths «Ar∆ ou\n to;n toiou`ton sumbouleuvein eijdovta, cwri;~ tou` povteron bevltion kai; o{te bevltion, frovnimon kalei`~… Alkibiadhs Ouj dh`ta. Swkraths Oujdev ge oi\mai o{sti~ to; polemei`n aujto; oi\de cwri;~ tou` oJpovte bevltion kai; tosou`ton crovnon o{son bevltion. h\ gavr… Alkibiadhs Naiv. Swkraths Oujkou`n oujde; ei[ tiv~ tina ajpokteinuvnai oi\den oujde; crhvmata ajfairei`sqai kai; fugavda poiei`n th`~ patrivdo~, cwri;~ tou` oJpovte bevltion kai; o{ntina bevltion…

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

149

Socrate E chiami stolti i più, e assennati i meno? È così.

Alcibiade

Socrate E ti riferisci agli uni e agli altri guardando a qualcosa? Sì.

Alcibiade

Socrate E allora, dici forse assennato uno che sappia dare con- B sigli, però senza conoscere che cosa sia meglio e quando sia meglio? Proprio no.

Alcibiade

Socrate E non chiami assennato, credo, neppure uno che conosce l’arte della guerra in sé, senza però sapere quando né per quanto tempo si debba fare. È così? Sì.

Alcibiade

Socrate E quindi non chiami assennato neppure uno che sappia uccidere o confiscare beni ed esiliare dalla patria, però senza sapere quando sia meglio e contro chi sia meglio?

150

alcibiade secondo, 145 b-d

Alkibiadhs Ouj mevntoi. C

Swkraths ”Osti~ a[ra ti tw`n toiouvtwn oi\den, eja;n me;n parevphtai aujtw`/ hJ tou` beltivstou ejpisthvmh < au{th d∆ h\n hJ aujth; dhvpou h{per kai; hJ tou` wjfelivmou: h\ gavr… < Alkibiadhs Naiv. Swkraths Frovnimon dev ge aujto;n fhvsomen kai; ajpocrw`nta suvmboulon kai; th`/ povlei kai; aujto;n auJtw`/: to;n de; mh; toiou`ton tajnantiva touvtwn. h] pw`~ dokei`… Alkibiadhs ∆Emoi; me;n ou{tw~.

Swkraths Tiv d∆ ei[ ti~ iJppeuvein h] toxeuvein oi\den, h] au\ pukteuvein h] D palaivein h[ ti th`~ a[llh~ ajgwniva~ h] kai; a[llo ti tw`n toiouvtwn o{sa tevcnh/ oi[damen, tiv kalei`~ o}~ a]n eijdh`/ to; kata; tauvthn th;n tevcnhn bevltion gignovmenon… a\r∆ ouj to;n kata; th;n iJppikh;n iJppikovn…

Questa tesi «costituisce uno degli assi portanti del pensiero di Socrate», Saggio intr., cap II, § 5. 21

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

Certo che no.

151

Alcibiade

Socrate Lo sarà, allora, colui che conosce qualcuna di queste cose, C se a un tempo a essa si accompagna la scienza del meglio, e questa è anche la scienza dell’utile21. Non è vero? Sì.

Alcibiade

Socrate Perciò, lo considereremo assennato e consigliere capace di svolgere il suo compito sia per la Città sia per se stesso, mentre a chi non è come lui daremo il nome contrario. Come ti sembra? Mi sembra giusto così.

Alcibiade

[Esempi portati a dimostrazione della tesi che senza la scienza del bene le altre scienze sono di scarso valore] Socrate E, allora, se uno fosse esperto nell’andare a cavallo, o nel tirare con l’arco, o nel fare il pugilato o la lotta o qualche altro esercizio agonistico o anche qualcun’altra di que- D ste cose che si imparano mediante l’arte, con che nome chiameresti colui che conosce ciò che secondo quest’arte è meglio? Per quanto riguarda l’ippica, non lo chiameresti cavaliere?

152

alcibiade secondo, 145 d - 146 a

Alkibiadhs “Egwge. Swkraths To;n dev ge oi\mai kata; th;n puktikh;n puktikovn, to;n de; kat∆ aujlhtikh;n aujlhtikovn, kai; ta\lla dhvpou ajna; lovgon touvtoi~: h] a[llw~ pw~… Alkibiadhs Ou[k, ajll∆ ou{tw~. Swkraths Dokei` ou\n soi ajnagkai`on ei\nai to;n peri; touvtwn ti E ejpisthvmona o[nta a[ra kai; a[ndra frovnimon ei\nai, h] pollou` fhvsomen ejndei`n… Alkibiadhs Pollou` mevntoi nh; Diva. Swkraths Poivan ou\n oi[ei politeivan ei\nai toxotw`n te ajgaqw`n kai; aujlhtw`n, e[ti de; kai; ajqlhtw`n te kai; tw`n a[llwn tecnitw`n, ajnamemeigmevnwn d∆ ejn touvtoi~ ou}~ a[rti eijrhvkamen tw`n te aujto; to; polemei`n eijdovtwn kai; aujto; to; ajpokteinuvnai, pro;~ de; kai; ajndrw`n rJhtorikw`n politiko;n fuvshma fuswvntwn, aJpavntwn de; touvtwn o[ntwn a[neu th`~ tou` beltivstou ejpisthvmh~ kai; tou` eijdovto~, oJpovte bevltion eJni; eJkavstw/ touvtwn crh`sqai 146A kai; pro;~ tivna… Alkibiadhs Fauvlhn tina; e[gwge, w\ Swvkrate~.

Allusione ai Sofisti. In Eutidemo 271 C, 272 A-B, Socrate dei due Sofisti, Eutidemo e Dionisodoro, ironicamente dice: «la loro sapienza è straordinaria, Critone. Tutti e due sono onniscienti in modo straordinario […] nessuno potrebbe in alcun modo essere in grado di opporsi loro, tanto abili sono divenuti nel combattere con le parole e nel confutare quello che viene detto di volta in volta, tanto nel caso che sia falso quanto nel caso che sia vero». Trad. G. Reale, Bompiani, Milano 2015. 22

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

Sì.

153

Alcibiade

Socrate E, credo, gli daresti il nome di pugile per quanto riguarda il pugilato, di flautista per quanto riguarda l’auletica e così, analogamente, negli altri casi come questi. O gli daresti un nome diverso? No, proprio così .

Alcibiade

Socrate Allora, ti sembra che, sia necessario che colui che è esperto in una di queste arti sia anche un uomo assennaE to, oppure diremo che gli manca ancora molto? Alcibiade Sì, per Zeus, gli manca molto. Socrate E che cosa pensi di una Città formata da bravi arcieri e flautisti, e poi ancora da atleti e da altri esperti nelle arti, e, mescolati con questi, quelli di cui abbiamo parlato poco fa, che hanno conoscenza solo dell’arte della guerra e di quella di uccidere, e inoltre anche da oratori, gonfi di presunzione politica22, ma tutti quanti privi della scienza del meglio e senza che ci sia uno che sappia quando e con chi sia meglio servirsi di ciascuna di tali 146A azioni? Alcibiade Direi che è una Città che vale poco, Socrate.

154

alcibiade secondo, 146 a-c

Swkraths Faivh~ ge a]n oi\mai oJpovtan oJrwv/h~ e{na e{kaston aujtw`n filotimouvmenovn te kai; nevmonta to; plei`ston th`~ politeiva~ touvtw/ mevro~, i{n∆ aujto;~ auJtou` tugcavnei kravtisto~ w[n: levgw de; to; kat∆ aujth;n th;n tevcnhn bevltiston gignovmenon: tou` de; th`/ povlei te kai; aujto;n auJtw`/ beltivstou o[nto~ ta; polla; dihmarthkovta, a{te oi\mai a[neu nou` dovxh/ pepisteukovta. B ou{tw~ de; touvtwn ejcovntwn, a\ra oujk a]n ojrqw`~ levgoimen favnte~ pollh`~ tarach`~ te kai; ajnomiva~ mesth;n ei\nai th;n toiauvthn politeivan… Alkibiadhs ∆Orqw`~ mevntoi nh; Diva. Swkraths Oujkou`n ajnagkai`on hJmi`n ejdovkei oijhqh`nai dei`n prw`ton hJma`~ eijdevnai h] tw`/ o[nti eijdevnai tou`to o} a]n proceivrw~ mevllwmen h] pravttein h] levgein… Alkibiadhs ∆Edovkei. Swkraths Oujkou`n ka]n me;n pravtth/ a{ ti~ oi\den h] dokei` eijdevnai, parevphtai de; to; wjfelivmw~, kai; lusitelouvntw~ hJma`~ e{xein C kai; th`/ povlei kai; aujto;n auJtw`/… Alkibiadhs Pw`~ ga;r ou[…

Euripide, Antiope, fr. 183; citato anche nel Gorgia, 484 E: «Si verifica infatti il detto di Euripide, secondo il quale ciascuno brilla in una data cosa e a questa è portato, “dedicando ad essa la maggior parte del giorno/perché in essa si trova ad essere supe23

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

155

Socrate Diresti questo, credo, rendendoti conto che ciascuno di essi è pieno di ambizione e dedica la maggior parte della vita nella Città «a ciò in cui riesce più forte di se stesso»23, ossia a eccellere nella propria arte. Invece, per quanto concerne ciò che è meglio per la Città e per se stesso commette il maggior numero di errori, in quanto, penso, si fida dell’opinione, senza riflettere. Stando così B le cose, non saremmo nel giusto, dicendo che una Città come questa è vittima di grande confusione e illegalità? Giusto, per Zeus.

Alcibiade

Socrate Ma non ci sembrava necessario, in primo luogo, essere convinti di sapere, o sapere in realtà quello che stiamo prontamente per fare o per dire? Ci sembrava.

Alcibiade

Socrate Allora, se uno fa quello che sa o che crede di sapere, e a questo si aggiunga anche l’utile, questo non sarebbe anche di vantaggio per la Città e per se medesimo?24 C E come no?

Alcibiade

riore a se medesimo”». Trad. G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 895. 24 V. nota 21.

156

alcibiade secondo, 146 c-d

Swkraths ∆Ea;n dev g∆ oi\mai tajnantiva touvtwn, ou[te th`/ povlei ou[t∆ aujto;n auJtw`/… Alkibiadhs Ouj dh`ta. Swkraths Tiv dev… kai; nu`n e[ti wJsauvtw~ soi dokei` h] a[llw~ pw~… Alkibiadhs Ou[k, ajll∆ ou{tw~. Swkraths «Ar∆ ou\n e[fhsqa kalei`n tou;~ me;n pollou;~ a[frona~, tou;~ d∆ ojlivgou~ fronivmou~… Alkibiadhs “Egwge. Swkraths Oujkou`n famen pavlin tou;~ pollou;~ dihmarthkevnai tou` beltivstou, wJ~ ta; pollav ge oi\mai a[neu nou` dovxh/ pe pisteukovta~. Alkibiadhs D

Fame;n gavr. Swkraths Lusitelei` a[ra toi`~ polloi`~ mhvt∆ eijdevnai mhde;n mhvt∆ oi[esqai eijdevnai, ei[per ge ma`llon proqumhvsontai pravttein me;n

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

157

Socrate Se, invece, come credo, uno farà il contrario di queste cose, non sarà di vantaggio né alla Città, né a se medesimo? Proprio no.

Alcibiade

Socrate E allora? Ti sembra che la cosa sia così, o in un altro modo? No, ma così.

Alcibiade

Socrate Ma non hai detto che chiamavi stolti i più, e assennati i meno? Sì.

Alcibiade

Socrate Dunque, diciamo ancora una volta che i più si sbagliano per quanto riguarda il meglio, perché, molte volte, a quanto sembra, si fidano dell’opinione, senza riflettere con la mente. Lo diciamo, infatti.

Alcibiade

Socrate Allora, per i più è vantaggioso non sapere nulla né credere di sapere, se proprio si impegneranno maggiormente

D

158

alcibiade secondo, 146 d - 147 a

tau`ta a{tt∆ a]n eijdw`s in h] oijhqw`s in eijdevnai, pravttonte~ de; blavptesqai ta; pleivw ma`llon h] wjfelei`sqai. Alkibiadhs ∆Alhqevstata levgei~. Swkraths ÔOra`/~ ou\n, o{te g∆ e[fhn kinduneuvein tov ge tw`n a[llwn E ejpisthmw`n kth`ma, ejavn ti~ a[neu th`~ tou` beltivstou ejpisthvmh~ kekthmevno~ h\/, ojligavki~ me;n wjfelei`n, blavptein de; ta; pleivw to;n e[conta aujtov, a\r∆ oujci; tw`/ o[nti ojrqw`~ ejfainovmhn levgwn… Alkibiadhs Kai; eij mh; tovte, ajlla; nu`n moi dokei`, w\ Swvkrate~. Swkraths Dei` a[ra kai; povlin kai; yuch;n th;n mevllousan ojrqw`~ biwvsesqai tauvth~ th`~ ejpisthvmh~ ajntevcesqai, ajtecnw`~ w{sper ajsqenou`nta ijatrou` h[ tino~ kubernhvtou to;n ajsfalw`~ 147A mevllonta plei`n. a[neu ga;r tauvth~, o{sw/per a]n lamprovteron ejpourivsh/ to; th`~ tuvch~ h] peri; crhmavtwn kth`s in h] swvmato~ rJwvmhn h] kai; a[llo ti tw`n toiouvtwn, tosouvtw/ meivzw aJmarthvmata ajp∆ aujtw`n ajnagkai`ovn ejstin, wJ~ e[oike, givgnesqai. oJ de; dh; th;n kaloumevnhn polumaqivan te kai; polutecnivan kekthmevno~, ojrfano;~ de; w]n tauvth~ th`~ ejpisthvmh~, ajgovmeno~ de; uJpo; mia`~

25 La polumaqiva, la pura erudizione senza la conoscenza del Bene, non serve a nulla: questa affermazione è ricorrente in Socrate; cfr. Protagora, 315 B-C; Ippia minore, 368 B-D, Amanti, 133 C.

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

159

a fare quello che sanno o pensano di sapere, e, facendo questo, ne ricaveranno più danno che giovamento. Dici cose verissime.

Alcibiade

Socrate Allora, vedi che, quando dicevo che si dà il caso che il possesso delle altre scienze, senza la scienza di ciò che E è meglio, poche volte è di vantaggio, mentre il più delle volte danneggia chi l’ha, non avevo forse veramente ragione? Alcibiade Anche se non allora, adesso invece mi sembra proprio giusto, Socrate.

[Solo la conoscenza del Bene permette all’uomo di vivere in modo giusto] Socrate Bisogna, dunque, che una Città o un’anima che voglia vivere in modo giusto, si tenga stretta a questa scienza, proprio come chi è malato al medico, e chi vuol navigare in modo sicuro al pilota. Infatti, senza di essa, quanto più 147A favorevole spira il vento della sorte per quanto riguarda il possesso delle ricchezze o il vigore del corpo o qualcos’altro di questo genere, tanto maggiori saranno gli errori che, necessariamente, a quanto sembra, ne deriveranno. E colui che è in possesso di molte conoscenze25 e di molte cognizioni tecniche, ma è privo di questa scien-

160

B

alcibiade secondo, 147 a-d

eJkavsth~ tw`n a[llwn, a\r∆ oujci; tw`/ o[nti dikaivw~ pollw`/ ceimw`ni crhvsetai, a{te oi\mai a[neu kubernhvtou diatelw`n ejn pelavgei, crovnon ouj makro;n bivou qevwn… w{ste sumbaivnein moi dokei` kai; ejntau`qa to; tou` poihtou`, o} levgei kathgorw`n pouv tino~, wJ~ a[ra polla; me;n hjpivstato e[rga, kakw`~ dev, fhsivn, hjpivstato pavnta. Alkibiadhs Kai; tiv dhv pote sumbaivnei to; tou` poihtou`, w\ Swvkrate~… ejmoi; me;n ga;r oujd∆ oJtiou`n dokei` pro;~ lovgon eijrhkevnai.

Swkraths Kai; mavla ge pro;~ lovgon: ajll∆ aijnivttetai, w\ bevltiste, kai; ou|to~ kai; a|lloi de; poihtai; scedovn ti pavnte~. e[stin te C ga;r fuvsei poihtikh; hJ suvmpasa aijnigmatwvdh~ kai; ouj tou` prostucovnto~ ajndro;~ gnwrivsai: e[ti te pro;~ tw`/ fuvsei toiauvth ei\nai, o{tan lavbhtai ajndro;~ fqonerou` te kai; mh; boulomevnou hJmi`n ejndeivknusqai ajll∆ ajpokruvptesqai o{ti mavlista th;n auJtou` sofivan, uJperfuw`~ dh; to; crh`ma wJ~ duvsgnwston faivnetai, o{ti pote; noou`s in e{kasto~ aujtw`n. ouj ga;r dhvpou ”Omhrovn ge to;n qeiovtatovn te kai; sofwvtaton poihth;n ajgnoei`n dokei`~ wJ~ oujc oi|ovn te h\n ejpivstasqai kakw`~ < ejkei`no~ gavr D ejstin oJ levgwn to;n Margivthn polla; me;n ejpivstasqai, kakw`~ dev, fhsiv, pavnta hjpivstato < ajll∆ aijnivttetai oi\mai paravgwn to; kakw`~ me;n ajnti; tou` kakou`, to; de; hjpivstato ajnti; tou` ejpivstasqai: givgnetai ou\n sunteqe;n e[xw me;n tou` mevtrou, e[sti d∆ o{ ge bouvletai, wJ~ polla; me;n hjpivstato e[rga, kako;n d∆ h\n ejpivstasqai aujtw`/ pavnta tau`ta. dh`lon ou\n o{ti ei[per h\n aujtw`/ kako;n to; polla; eijdevnai, fau`lov~ ti~ w]n ejtuvgcanen, ei[per ge pisteuvein dei` toi`~ proeirhmevnoi~ lovgoi~. Citazione dal Margite (v. infra 147 C-D), poema parodico che gli antichi attribuivano a Omero. Il titolo riguarda un personaggio sciocco e maldestro (μάργος) citato anche da Aristotele (Etica a Nicomaco, VI 7, 1141). 26

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

161

za e si lascia portare da ciascuna delle altre conoscenze, non si troverà forse veramente e giustamente in una violenta tempesta, in quanto, come credo, si trova in alto B mare senza pilota, e non potrà proseguire ancora molto tempo nella vita? Pertanto, credo che anche in questo caso cadano a proposito le parole del poeta, il quale biasima uno che «sapeva molte cose» ma, aggiunge, le sapeva «tutte male»26. Alcibiade E perché mai cade a proposito questo detto del poeta, Socrate? A me sembra, infatti, che sia del tutto fuori luogo. Socrate E, invece, è detto proprio a proposito. Però, carissimo, questo poeta parla per enigmi, come quasi tutti gli altri. Infatti, tutta quanta la poesia è per natura enigmatica, e il primo venuto non riesce a comprenderla. E poi, oltre C a essere tale per natura, quando si impadronisce di un uomo geloso, che non vuole mostrarci la sua sapienza, ma nascondercela il più possibile, allora è assai difficile comprendere che cosa ciascuno di loro pensi. Infatti, tu certamente non crederai che il più divino e sapiente dei poeti, Omero, ignori che non è possibile sapere male. È lui, infatti, che afferma di Margite che sapeva molte cose, D ma le sapeva tutte male. Però egli parla per enigmi, ponendo «male» invece di «un male» e «sapeva» invece di «sapere». Così composto, il verso non rientra nella forma metrica, ma quello che il poeta intendeva dire è che quello sapeva molte cose, ma che per lui era un male sapere tutte queste cose. Perciò, è chiaro che, se per lui era un male sapere molte cose, era un buono a nulla, almeno se si deve prestar fede alle cose che si sono dette prima.

162

E

alcibiade secondo, 147 e - 148 b

Alkibiadhs ∆All∆ ejmoi; me;n dokei`, w\ Swvkrate~: h\ calepw`~ g∆ a]n a[lloi~ tisi; pisteuvsaimi lovgoi~, ei[per mhde; touvtoi~. Swkraths Kai; ojrqw`~ gev soi dokei`. Alkibiadhs Pavlin au\ moi dokei`.

Swkraths ∆Alla; fevre pro;~ Diov~ < oJra`/~ ga;r dhvpou th;n ajporivan o{sh te kai; oi{a, tauvth~ de; kai; suv moi dokei`~ kekoinwnhkevnai: metaballovmenov~ gev toi a[nw kai; kavtw oujd∆ oJtiou`n pauvh/, ajll∆ o{ti a]n mavlistav soi dovxh/, tou`to kai; ejkdedukevnai au\ 148A kai; oujkevti wJsauvtw~ dokei`n < eij ou\n soiv g∆ e[ti kai; nu`n ejmfanh;~ genovmeno~ oJ qeo;~ pro;~ o}n tugcavnei~ poreuovmeno~ ejrwthvseie, pri;n oJtiou`n eu[xasqaiv se, eij ejxarkevsei soi ejkeivnwn ti genevsqai w|nper kai; ejn ajrch`/ ejlevgeto, ei[te kai; aujtw`/ soi ejpitrevyeien eu[xasqai, tiv pot∆ a]n oi[ei h] tw`n par∆ ejkeivnou didomevnwn lambavnwn h] aujto;~ eujxavmeno~ genevsqai tou` kairou` tucei`n… Alkibiadhs ∆Alla; ma; tou;~ qeouv~, ejgw; me;n oujqe;n a]n e[coimiv soi eijpei`n, B w\ Swvkrate~, ou{tw~: ajlla; mavrgon tiv moi dokei` ei\nai, kai; wJ~

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

163

Alcibiade Mi pare proprio, Socrate. Difficilmente potrei prestar E fede ad altri discorsi, se non prestassi fede a questi. Socrate Quello che pensi è giusto. Alcibiade Lo dico di nuovo, mi sembra così.

[Vera e falsa preghiera] Socrate Suvvia, per Zeus! Vedi, infatti, quanto sia grande la difficoltà e di che tipo sia, e da essa mi sembra che anche tu sia coinvolto. Ti rigiri in su e in giù, senza fermarti mai, e quello che sembrava certo, questo, a sua volta, lo rifiuti, e non ti sembra più allo stesso modo. Se, allora, il dio dal 148A quale stai andando, ti apparisse di nuovo, e, prima che tu gli abbia chiesto in preghiera qualcosa, ti domandasse se a te piacerebbe ottenere qualcuna delle cose di cui prima si parlava, oppure se ti permettesse di chiedergli nella preghiera quello che tu stesso desideri, che cosa pensi che accetteresti delle cose che ti verrebbero da lui donate, rivolgendogli tu stesso una preghiera perché questo avvenga? Alcibiade Per gli dèi, Socrate, non saprei proprio che risposta darti. Però, mi sembra una impresa rischiosa. In verità, ci vuole B molta prudenza, per non chiedere nella preghiera, sen-

164

alcibiade secondo, 148 b-e

ajlhqw`~ pollh`~ fulakh`~, o{pw~ mh; lhvsei ti~ auJto;n eujcovmeno~ me;n kakav, dokw`n de; tajgaqav, e[peit∆ ojlivgon ejpiscwvn, o{per kai; su; e[lege~, palinw/dh`/, ajneucovmeno~ a{tt∆ a]n to; prw`ton eu[xhtai. Swkraths «Ar∆ ou\n oujci; eijdwv~ ti plevon hJmw`n oJ poihthv~, ou| kai; ejn ajrch`/ tou` lovgou ejpemnhvsqhn, ta; deila; kai; eujcomevnoi~ ajpalevxein ejkevleuen… Alkibiadhs “Emoige dokei`. Swkraths Tou`ton me;n toivnun, w\ ∆Alkibiavdh, kai; Lakedaimovnioi to;n poihth;n ejzhlwkovte~, ei[te kai; aujtoi; ou{tw~ ejpeskemmevnoi, kai; ijdiva/ kai; dhmosiva/ eJkavstote paraplhsivan eujch;n eu[contai, ta; kala; ejpi; toi`~ ajgaqoi`~ tou;~ qeou;~ didovnai keleuvonte~ au\ sfivs in aujtoi`~: pleivw d∆ oujdei;~ a]n ejkeivnwn eujxamevnwn ajkouvseien. toigarou`n eij~ to; parh`kon tou` crovnou oujdevnwn h|tton eujtucei`~ eijs in a[nqrwpoi: eij d∆ a[ra kai; sumbevbhken aujtoi`~ w{ste mh; pavnta eujtucei`n, ajll∆ ou\n ãoujà D dia; th;n ejkeivnwn eujchvn, ejpi; toi`~ qeoi`~ d∆ ejsti;n w{ste oi\mai kai; didovnai a{tt∆ a[n ti~ eujcovmeno~ tugcavnh/ kai; tajnantiva touvtwn. bouvlomai dev soi kai; e{terovn ti dihghvsasqai, o{ pote h[kousa ªtw`n presbutevrwnº tinw`n, wJ~ ∆Aqhnaivoi~ kai; Lakedaimonivoi~ diafora`~ genomevnh~ sunevbainen ajei; th`/ povlei hJmw`n w{ste kai; kata; gh`n kai; kata; qavlattan oJpovte mavch gevnoito dustucei`n kai; mhdevpote duvnasqai krath`sai: tou;~ ou\n ∆Aqhnaivou~ ajganaktou`nta~ tw`/ pravgmati kai; ajporoumevnou~ E tivni crh; mhcanh`/ tw`n parovntwn kakw`n ajpotroph;n euJrei`n, bouleuomevnoi~ aujtoi`~ dokei`n kravtiston ei\nai pevmyanta~ C

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

165

za accorgersi, dei mali, nella convinzione che siano invece dei beni, e per non dovere, poco dopo, come dicevi, cantare una palinodia, pregando di ottenere l’opposto di quello per cui prima si era pregato. Socrate Allora, non sapeva forse qualcosa più di noi il poeta che ho ricordato all’inizio del discorso, il quale chiedeva di tener lontani i mali anche da coloro che li chiedevano nelle preghiere? Mi sembra.

Alcibiade

Socrate Allora, Alcibiade, anche gli Spartani, sia che l’abbiano C detto per imitare il poeta, sia che l’abbiano pensato essi stessi, sia in privato sia in pubblico elevano sempre una preghiera simile a questa, e chiedono agli dèi di donare loro in aggiunta alle cose buone le cose belle. Nessuno potrebbe udire gli Spartani chiedere qualcosa di più. Pertanto, fino a ora, questi uomini sono fortunati non meno di altri. E anche se è successo loro di non avere fortuna in tutto, non dipese dalla loro preghiera, ma dal fatto che D spetta agli dèi, credo, donare quelle cose che vengono chieste nella preghiera, o il contrario di queste. Voglio, poi, narrarti anche un altro caso, che una volta ho sentito narrare da alcuni vecchi. Era sorta una contesa fra Ateniesi e Spartani, e alla nostra Città succedeva sempre in battaglia, per terra e per mare, di avere sfortuna e di non poter mai vincere. Gli Ateniesi, allora, sdegnati per questo fatto, e non sapendo con quale mezzo trova- E re una via d’uscita dai mali presenti, tennero consiglio, e pensarono che la cosa migliore fosse quella di mandare

166

alcibiade secondo, 148 e - 149 c

pro;~ “Ammwna ejkei`non ejperwta`n: e[ti de; pro;~ touvtoi~ tavde, ªkai;º ajnq∆ o{tou pote; Lakedaimonivoi~ oiJ qeoi; ma`llon nivkhn didovasin h] sfivs in aujtoi`~, oi} pleivsta~, favnai, me;n qusiva~ kai; kallivsta~ tw`n ÔEllhvnwn a[gomen, ajnaqhvmasiv te kekosmhvkamen ta; iJera; aujtw`n wJ~ oujdevne~ a[lloi, pompav~ te polutelestavta~ kai; semnotavta~ ejdwrouvmeqa toi`~ qeoi`~ 149A ajn∆ e{kaston e[to~, kai; ejtelou`men crhvmata o{sa oujd∆ a|lloi suvmpante~ ”Ellhne~: Lakedaimonivoi~ dev, favnai, oujdepwvpot∆ ejmevlhsen oujde;n touvtwn, ajll∆ ou{tw~ ojligwvrw~ diavkeintai pro;~ tou;~ qeouv~, w{ste kai; ajnavphra quvousin eJkavstote kai; ta\lla pavnta oujk ojlivgw/ ejndeestevrw~ timw`s in h[per hJmei`~, crhvmata oujde;n ejlavttw kekthmevnoi th`~ hJmetevra~ povlew~. ejpei; dh; eijrhkevnai tau`ta kai; ejperwth`sai tiv crh; pravttonta~ aujtou;~ tw`n parovntwn kakw`n ajpallagh;n euJrei`n, a[llo me;n B oujqe;n ajpokriqh`nai to;n profhvthn < to;n ga;r qeo;n oujk eja`n dh`lon o{ti < kalevsanta de; aujtovn, ∆Aqhnaivoi~, favnai, tavde levgei “Ammwn: fhsi;n a]n bouvlesqai auJtw`/ th;n Lakedaimonivwn eujfhmivan ei\nai ma`llon h] ta; suvmpanta tw`n ÔEllhvnwn iJerav. tosau`ta eijpei`n, oujkevti peraitevrw. thvn g∆ ou\n eujfhmivan oujk a[llhn tinav moi dokei` levgein oJ qeo;~ h] th;n eujch;n aujtw`n: e[sti C ga;r tw`/ o[nti polu; diafevrousa tw`n a[llwn. oiJ me;n ga;r a[lloi ”Ellhne~ oiJ me;n crusovkerw~ bou`~ parasthsavmenoi, e{teroi d∆ ajnaqhvmasi dwrouvmenoi tou;~ qeouv~, eu[contai a{tt∆ a]n tuvch/

Antica divinità egiziana. Ammone era considerato il padre fisico del Faraone e a lui spettava il bottino di guerra. I Greci lo conobbero e lo identificarono con Zeus quando conquistarono Cirene nel VII secolo a.C., dove era venerato in particolare nell’oasi libica di Siwa. Nel tempio di Ammone a Siwa c’era un oracolo molto noto e molto autorevole che veniva consultato quasi quanto l’oracolo di Apollo a Delfi. Cfr. Enciclopedia Treccani e Arrighetti, 20124 cit., p. 199, nota 15. 27

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

167

a consultare l’oracolo di Ammone27. Oltre ad altre cose, gli posero anche la domanda perché gli dèi concedessero la vittoria agli Spartani invece che a loro, e dicevano: «Noi, che facciamo i sacrifici più grandi e più belli di tutti gli Elleni, noi che abbiamo ornato i loro templi di offerte come nessun altro popolo, che ogni anno abbiamo dedicato agli dèi le cerimonie più ricche e splendide, e abbia- 149A mo speso più che tutti gli altri Elleni insieme. Invece gli Spartani, soggiungevano, non si sono mai presi cura di alcuna di queste cose, ma, anzi, si curano così poco degli dèi, al punto da sacrificare ogni volta addirittura animali deformi, e da onorarli in tutte le altre cose in modo assai inferiore rispetto a noi, pur possedendo ricchezze non inferiori a quelle della nostra Città»28. Dopo che ebbero detto queste cose ed ebbero domandato che cosa dovessero fare per trovare il modo di allontanare i mali in cui si trovavano, il profeta non rispose a nient’altro, in quanto, B evidentemente, il dio non glielo permetteva, ma, chiamato l’inviato, disse: «Ammone dice agli Ateniesi di preferire la riservatezza degli Spartani a tutti i sacrifici di tutti quanti gli Elleni». Disse questo, e non aggiunse altro. Riguardo alla riservatezza, mi sembra che il dio non volesse riferirsi ad altro che alla loro preghiera: infatti, essa è in realtà molto diversa da quella degli altri. In effetti, tutti gli C altri Elleni offrono, alcuni, buoi dalle corna dorate, altri doni votivi, chiedendo nella preghiera molte cose a caso, che a volte sono beni, a volte mali. Così gli dèi, sentendo che essi fanno preghiere inopportune, non accettano né Cfr. Alcibiade primo, 122 E: «… presso tutti quanti i Greci nel loro insieme non c’è tanto oro e argento quanto ce n’è a Sparta in possesso dei privati. Infatti, il denaro affluisce da molte generazioni da tutti i Greci e spesso anche dai barbari, mentre non ne esce mai». Trad. G. Reale, Bompiani, Milano 2015. 28

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alcibiade secondo, 149 c - 150 b

tau`ta, a[nte ajgaqa; a[nte kakav: blasfhmouvntwn ou\n aujtw`n ajkouvonte~ oiJ qeoi; oujk ajpodevcontai ta;~ polutelei`~ tautasi; pompav~ te kai; qusiva~. ajlla; dokei` moi pollh`~ fulakh`~ dei`sqai kai; skevyew~ o{ti pote; rJhtevon ejsti; kai; mhv. EuJrhvsei~ de; kai; par∆ ÔOmhvrw/ e{tera paraplhvs ia touvtoi~ D eijrhmevna. fhsi;n ga;r tou;~ Trw`a~ e[paulin poioumevnou~ e[rdein ajqanavtoisi telhevssa~ eJkatovmba~: th;n de; kni`san ejk tou` pedivou tou;~ ajnevmou~ fevrein oujrano;n ei[sw hJdei`an: th`~ d∆ ou[ ti qeou;~ mavkara~ datevesqai, oujd∆ ejqevlein: mavla gavr sfin ajphvcqeto “Ilio~ iJrh; kai; Privamo~ kai; E lao;~ ejummelivw Priavmoio: w{ste oujde;n aujtoi`~ h\n prouvrgou quvein te kai; dw`ra telei`n mavthn, qeoi`~ ajphcqhmevnou~. ouj ga;r oi\mai toiou`tovn ejsti to; tw`n qew`n w{ste uJpo; dwvrwn paravgesqai oi|on kako;n tokisthvn: ajlla; kai; hJmei`~ eujhvqh lovgon levgomen, ajxiou`nte~ Lakedaimonivwn tauvth/ periei`nai. kai; ga;r a]n deino;n ei[h eij pro;~ ta; dw`ra kai; ta;~ qusiva~ ajpoblevpousin hJmw`n oiJ qeoi; ajlla; mh; pro;~ th;n yuchvn, a[n ti~ o{s io~ kai; 150A divkaio~ w]n tugcavnh/. pollw`/ ge ma`llon oi\mai h] pro;~ ta;~ polutelei`~ tauvta~ pompav~ te kai; qusiva~, a}~ oujde;n kwluvei polla; me;n eij~ qeouv~, polla; d∆ eij~ ajnqrwvpou~ hJmarthkovta~ kai; ijdiwvthn kai; povlin e[cein ajn∆ e{kaston e[to~ telei`n: oiJ dev, a{te ouj dwrodovkoi o[nte~, katafronou`s in aJpavntwn touvtwn, w{“ fhsin oJ qeo;~ kai; qew`n profhvth~. kinduneuvei gou`n kai; para; qeoi`~ kai; par∆ ajnqrwvpoi~ toi`~ nou`n e[cousi dikaiosuvnh te B kai; frovnhsi~ diaferovntw~ tetimh`sqai: frovnimoi de; kai; divkaioi oujk a[lloi tinev~ eijs in ªh]º tw`n eijdovtwn a} dei` pravttein kai; levgein kai; pro;~ qeou;~ kai; pro;~ ajnqrwvpou~. bouloivmhn d∆ a]n kai; sou` puqevsqai o{ti pot∆ ejn nw`/ e[cei~ pro;~ tau`ta.

29 Omero, Iliade, VIII, 549. La citazione immediatamente precedente e quella immediatamente successiva non hanno riscontro nei codici dell’Iliade che ci sono pervenuti.

ii. discussione su scienza del bene e preghiera

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quelle cerimonie pompose, né quei sacrifici. A me pare, invece, che ci sia bisogno di molta precauzione e riflessione su quello che talora si deve dire, oppure non dire. E troverai anche in Omero altri esempi simili a questi. Egli dice, infatti, che i Troiani, nel preparare l’accampamento, D «facevano ecatombi perfette agli immortali», e che i venti portavano dalla pianura in cielo l’odore delle vittime, «dolce, ma gli dèi beati non se le divisero né le vollero»29. Essi, infatti, «avevano molto in odio la sacra Ilio e Priamo e il suo popolo dalla forte lancia». E così, per i Troia­ E ni non era di nessun vantaggio fare sacrifici e offerte, in quanto erano invisi agli dèi. Non credo, infatti, che gli dèi siano tali che si possano corrompere mediante doni come un cattivo usuraio30. Però anche noi faremmo un discorso assurdo, pensando di essere superiori agli Spartani in questo modo. Sarebbe, infatti, terribile che gli dèi guardassero ai nostri doni e ai sacrifici, ma non all’anima, per vedere se uno sia pio e giusto. Penso, invece, che guar- 150A dino a questo ben di più che a quelle cerimonie pompose e ai sacrifici, che ogni anno privati e Città possono offrire senza difficoltà, anche se hanno commesso molte colpe verso degli dèi e verso degli uomini. Invece, poiché gli dèi non si lasciano corrompere dai doni, disprezzano tutte queste cose, come affermano il dio e il profeta degli dèi. Perciò, si dà il caso che presso gli dèi e presso gli uomini che hanno senno, siano onorate soprattutto la giustizia e B la temperanza. Temperanti e giusti non sono altri, se non coloro che sanno che cosa si deve fare e dire nei confronti degli dèi e degli uomini. Però, mi piacerebbe sapere che cosa pensi tu su queste cose.

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Cfr. Saggio intr., cap. III, § 4.

conclusioni

Alkibiadhs ∆All∆ ejmoi; mevn, w\ Swvkrate~, oujk a[llh/ ph/ dokei` h] h|/per soiv te kai; tw`/ qew`/: oujde; ga;r a]n eijko;~ ei[h ajntivyhfon ejme; tw`/ qew`/ genevsqai. C

Swkraths Oujkou`n mevmnhsai ejn pollh`/ ajporiva/ favskwn ei\nai, o{pw~ mh; lavqh/~ seauto;n eujcovmeno~ kakav, dokw`n de; ajgaqav… Alkibiadhs “Egwge.

Swkraths ÔOra`/~ ou\n wJ~ oujk ajsfalev~ soiv ejstin ejlqei`n pro;~ to;n qeo;n eujxomevnw/, i{na mhd∆ a]n ou{tw tuvch/, blasfhmou`ntov~ sou ajkouvwn oujqe;n ajpodevxhtai th`~ qusiva~ tauvth~, tuco;n de; kai; e{terovn ti prosapolauvsh/~. ejmoi; me;n ou\n dokei` bevltiston ei\ nai hJsucivan e[cein: th`/ me;n ga;r Lakedaimonivwn eujch`/ dia; th;n megaloyucivan