La logica di potenza : l’America, le guerre, il controllo del mondo 9788883501272, 8883501276

436 9 9MB

Italian Pages 1 [382] Year 2008

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

La logica di potenza : l’America, le guerre, il controllo del mondo
 9788883501272, 8883501276

Citation preview

La logica di potenza L’autore espone una teoria compiuta delle relazioni fra grandi potenze, dall’av­ vento della guerra moderna con Napoleone Bonaparte fino alla dissoluzione del­ l ’Unione Sovietica e all’incerto decennio del dopo guerra fredda. Le sue recise affermazioni vengono messe alla prova degli avvenimenti storici, riuscendo a da­ re conto del comportamento dei grandi attori del sistema internazionale: Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia; ma anche Cina, Italia e Giap­ pone. La teoria di Mearsheimer è detta realismo offensivo e riprende la tradizio­ ne che da Machiavelli a Lenin ha storicamente guardato con disincanto agli affa­ ri del mondo e al persistente alternarsi di diplomazia e guerra nelle relazioni fra stati. Mearsheimer è contrario all’invasione dell’Iraq, perché ciò indica l ’abban­ dono da parte dell’America del suo saggio e tradizionale ruolo di “bilanciatore d ’oltremare”, al pari della Gran Bretagna. Come ogni volta di fronte alla presen­ za di un egemone, le altre potenze, indipendentemente dai loro orientamenti economici e ideologici, si adoperano per formare una coalizione in grado di con­ trobilanciare il suo smisurato potere. La logica di potenza è un saggio di politica internazionale che non richiede al lettore conoscenze specifiche.

JO H N J . M E A R S H E IM E R è Distinguished Service Professor ofPolitical Science al­ la University ojChicago, dove è co-direttore del Program on International Security Policy. Uno dei più influenti studiosi americani di politica internazionale, scrive regolarmen­ te sulle principali testate statunitensi d’opinione: NewYorkTimes, The New Republic e The Atlantic Monthly.

Euro 19,00

JOHN MEARSHEIMER

La logica di potenza L’America, le guerre, il controllo del mondo

i .

Titolo originale: The Tragedy ofGreat Power Politics Copyright © 2001 John J. Mearsheimer Published in thè United States by W.W. Norton Per l’edizione in lingua italiana Copyright © 2003, 2008 EGEA Università Bocconi Editore

Traduzione del testo: Bruno Amaro Editing: Alex Foti Traduzione delle note: Anna Airoldi Redazione: Massimo Berni Impaginazione: Imagine, Trezzo sull’Adda (MI) Copertina: Alpo, Milano EGEA S.pA.

viale Isonzo, 25 - 20135 Milano tei. 02-58365751 - fax 02-58365753 www.egeaonline.it

e-mail: egea.edizioni@unibocconi. it

ISBN 978-88-8350-127-2 Prima edizione paperback: maggio 2008 Stampa-, GECA, Cesano Boscone (MI)

Questo volume è stam pato su carta F S C proveniente da foreste gestite in conform ità a i rigorosi standard am bientali, economici e sociali defin iti d a l Forest Stew ardship CounciL

INDICE

XIII

Prefazione, di Sergio Romano Ringraziamenti Introduzione

1

1.

IL REALISMO NELLA POLITICA INTERNAZIONALE

27

2.

ANARCHIA E LOTTA PER IL POTERE MONDIALE

51

3.

RICCHEZZA E POTENZA

77

4.

IL PRIMATO DELLA POTENZA TERRESTRE

127

5.

STRATEGIE DI SOPRAVVIVENZA

155

6.

LE GRANDI POTENZE IN AZIONE

213

7.

I BILANCIATORI D’OLTREMARE: STATI UNITI

243

8.

BILANCIAMENTO E SCARICABARILE

303

9.

LE CAUSE DELLA GUERRA TRA GRANDI POTENZE

327

10.

LA POLITICA DI POTENZA NEL XXI SECOLO

366

Indice dei nomi

VI X

PREFAZIONE di Sergio Romano

Questo libro suggerisce anzitutto una breve considerazione sulla università in cui è stato scritto. Come ogni grande istituzione accademica, la University of Chicago è un crocevia di libere intelligenze, provenienti dai più diversi oriz­ zonti della cultura mondiale. Nacque nel 1890, mentre la città si preparava a celebrare contemporaneamente, con una grande esposizione universale, il quarto centenario della «Scoperta» e il proprio impetuoso sviluppo economi­ co. Nel suo atto di nascita sono presenti, simbolicamente affiancati, i due grandi protagonisti della storia americana: la fede e il denaro. La prima era rappresentata dalla American Baptist Education Society e il secondo da John D. Rockefeller, magnate dell’industria petrolifera e fondatore della Standard Oil Company of New Jersey. Con ironia capitalista Rockefeller disse che l’u­ niversità era il suo migliore investimento e completò l’opera con una grande chiesa neogotica e interconfessionale che porta ancora il suo nome. Lo stile neogotico era naturalmente un omaggio alle due grandi «case madri» degli studi accademici americani: Oxford e Cambridge. Ma il modello accademico furono i metodi educativi e il rigore scientifico delle grandi università della Germania guglielmina. Mentre i college della costa orientale erano nati all’ombra della tradizione inglese, la University o f Chicago fu, sin dall’inizio, modernamente «tedesca». Uno dei suoi personaggi più singolari fu un intellet­ tuale neotomista, Robert Hutchins, che ne divenne presidente nel 1929, all’età di trent’anni, e concepì una grande collana editoriale in 54 volumi ( The Great Books ofthe Western World) in cui gli studenti avrebbero trovato le fon­ damenta e i pilastri del pensiero occidentale. Sin dai suoi primi anni la University o f Chicago, quindi, fu illuminata, liberale, interconfessionale e, nel senso corrente della parola, idealista. Ma divenne rapidamente, al tempo stesso, uno dei centri accademici più spregiu­

Prefazione

dicati, nonconformisti e scientificamente sperimentali del mondo accademico americano. Fu qui, in una palestra del campus, che Enrico Fermi realizzò la prima fissione nucleare. Fu qui che Hans J. Morgenthau (uno studioso della politica internazionale, emigrato dalla Germania nella seconda metà degli anni Trenta) insegnò agli americani, dopo lo scoppio della guerra fredda, i rudimenti della realpolitik. E fu qui che Milton Friedman, qualche anno dopo, cominciò a formare i quadri della grande rivoluzione neoliberista degli anni Ottanta. Per più di mezzo secolo la University o f Chicago è stata uno straordinario vivaio di premi Nobel (undici nell’ultimo decennio) e uno dei maggiori centri del realismo politico ed economico degli Stati Uniti. John Mearsheimer insegna a Chicago ed è per molti aspetti il legittimo erede della grande scuola realista di Morgenthau. Spero che il lettore non si lasci ingannare dalla parola Tragedy che campeggia nel titolo americano di questo libro. L’autore non versa lacrime, non ha rimpianti, non nutre illusioni e non coltiva speranze. Come tutti i realisti ha certamente letto Machiavelli, Guicciardini, Hobbes, Cari Schmitt e sa quali preoccupazioni abbiano agitato la mente dei grandi uomini di stato, da Richelieu al conte duca de Olivares, da Cavour a Bismarck, da Churchill a Stalin. I grandi stati, ricorda Mearshei­ mer, non sono né buoni né cattivi, non perseguono la virtù ma l’egemonia, non si conformano alle tavole della legge morale ma alle dure regole della sopravvivenza. Per muoversi nella giungla delle relazioni internazionali occor­ re aggrapparsi ad alcuni assunti fondamentali. Occorre ricordare che la società internazionale è anarchica; che le grandi potenze dispongono di una conside­ revole forza militare e sono quindi, nei loro reciproci rapporti, potenzialmen­ te pericolose; che nessuno stato può essere certo delle intenzioni degli altri; che la principale preoccupazione di ogni stato è la sopravvivenza; che i com­ portamenti dei singoli stati sono tuttavia razionali e quindi attenti a calcolare, per quanto possibile, le reazioni altrui. Mearsheimer sa che la maggioranza dei suoi connazionali non condivide queste premesse, crede ottimisticamente nel progresso e si ostina a giudicare il mondo secondo criteri morali. Ma è convinto che il moralismo dell’opinione pubblica non abbia una influenza determinante sulla politica estera degli Stati Uniti. I governi americani sono costretti ad avvolgere le loro decisioni nelle argomentazioni dell’ottimismo liberale e umanitario, ma parlano, quando si riuniscono a porte chiuse, il linguaggio del potere. Se questo libro fosse stato pubblicato dopo lo scoppio della crisi irachena, Mearsheimer avrebbe consta­ tato che gli ultimi sviluppi della politica estera americana confermano la sua analisi. Quando si è accorto che il disarmo dell’Iraq non giustificava, per una parte della pubblica opinione, il ricorso alle armi, Bush ha sostenuto che la

Prefazione

guerra avrebbe permesso la diffusione della democrazia nel mondo arabo. Ha appiccicato un obiettivo ideale su un obiettivo politico-militare. Se confronta­ to ad altri studiosi realisti come Kenneth Waltz e George F. Kennan, Mearsheimer si spinge quindi più lontano nel descrivere e prescrivere comporta­ menti che un pacifista definirebbe probabilmente cinici e brutali. Mentre il realismo di Waltz è «difensivo», e la ricetta di Kennan, negli anni della guerra fredda, fu il containment della potenza sovietica, l’autore di questo libro prefe­ risce definirsi un «realista offensivo». Ne dà una prova, ad esempio, là dove afferma di non credere che gli stati democratici possano più facilmente, grazie alla somiglianza dei loro sistemi politici, trovare sempre soluzioni pacifiche alle loro divergenze. I valori condivisi di una società nazionale e le regole dei rapporti internazionali appartengono a campi radicalmente diversi della vita sociale. Ogni studioso riflette le circostanze, gli umori, le tendenze e i dibattiti del­ l’epoca in cui formula le sue teorie. Kennan scrisse il suo «lungo telegramma» da Mosca nel febbraio 1946 quando le illusioni di Yalta si erano ormai infran­ te contro la politica delfURSS nei paesi occupati dall’Armata Rossa. Morgenthau pubblicò Politics among Nations nel 1948, mentre la guerra fredda costringeva gli Stati Uniti a una radicale revisione della loro politica estera. Kenneth Waltz pubblicò la sua Theory o f International Politics nel 1979 quan­ do la guerra fredda era divenuta da tempo una coesistenza dialettica, regolata dalle norme di un codice che era stato progressivamente elaborato negli anni precedenti. Anche John Mearsheimer rispecchia le nuove circostanze della politica internazionale dopo la fine della guerra fredda. Tra i suoi libri e alcu­ ne correnti intellettuali che risalgono agli anni della presidenza Reagan, vi è una evidente sintonia. Uomini come John Bolton, Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, Richard Perle (i cosiddetti falchi dell’amministrazio­ ne Bush) sono certamente d’accordo con buona parte delle sue analisi e delle sue prescrizioni. Ma vi è una differenza che occorre mettere in evidenza. Dopo avere riletto con gli strumenti critici del suo «realismo offensivo» i maggiori avvenimenti internazionali dall’Ottocento alla guerra fredda, l’autore di questo libro si chiede quali debbano essere nei prossimi anni le grandi linee della politica estera americana. La sua risposta è questa. Gli Stati Uniti debbo­ no essere egemoni nell’emisfero occidentale e impedire la nascita di un rivale in Europa o in Asia Orientale. Ma non devono necessariamente, per ottenere questo risultato, mantenere una forte presenza militare in Germania, Corea del Sud, Giappone. Se non esiste in Europa, per ora, un concorrente e se la potenza cinese si manifesterà soltanto fra diversi anni, nulla impedisce all’A­ merica, secondo Mearsheimer, di ritirare le sue truppe dalla Germania e, con

Prefazione

maggiore prudenza, dall’Asia nord-orientale. In quelle regioni vi saranno crisi e conflitti, ma non tali da pregiudicare la sicurezza americana. È meglio quin­ di lasciare che la pace in quelle regioni venga garantita dall’equilibrio tra la forze regionali piuttosto che da un intervento americano. Il vero rischio, in una più lunga prospettiva, è rappresentato dalla Cina, l’unica potenza, secon­ do l’autore, che possa un giorno insidiare la potenza americana. E poiché lo sviluppo economico non è, nel realismo offensivo di Mearsheimer, garanzia di minore aggressività, «gli Stati Uniti hanno un forte interesse a una minore cre­ scita dell’economia cinese nei prossimi anni». Le conclusioni del libro sono brusche, realistiche e spoglie di qualsiasi intonazione moralistica. Ma sono pur sempre ispirate a quel calcolo razionale che è fra gli assunti indicati dall’autore all’inizio del suo studio. Il lettore si chiederà quindi se i realisti dell’amministrazione Bush possano veramente definirsi tali o se non abbiano oltrepassato i confini della realpolitik. E realisti­ co considerare l’Iraq una potenziale minaccia all’egemonia americana? È opportuno permettere che Israele, sostenuto dalla pseudo mediazione degli Stati Uniti, impedisca di fatto la nascita di uno stato palestinese? È ragionevo­ le proporsi ambiziosi obiettivi (la democrazia per tutti gli arabi) che rischiano di aggravare la situazione generale della regione? Non è meglio lasciare che la stabilità del Medio Oriente venga garantita dall’equilibro delle forze che si affacciano sul Mediterraneo e sul Golfo Persico? È opportuno confondere due fenomeni - la setta fanatica di Osama bin Laden e il nazional-socialismo di Saddam Hussein — che rappresentano due correnti contrarie e ostili fra loro del mondo arabo-musulmano? Più che realisti gli artefici della nuova politica estera americana sono ultrarealisti, convinti di potere estendere un dominio diretto a zone in cui il l’A­ merica avrebbe potuto continuare a esercitare una influenza mediata e razio­ nale. Alle origini di questa svolta vi è naturalmente il sentimento d’indigna­ zione e insicurezza che ha dominato la società americana dopo gli attacchi ter­ roristici dell’ 11 settembre. Ma vi è anche, e soprattutto, la convinzione che le nuove tecnologie e il denaro profuso nelle spese militari abbiano reso l’Ameri­ ca invincibile e quindi capace di estendere i limiti della sua potenza. Nell’ana­ lisi dei fattori che concorrono a determinare il comportamento delle grandi potenze si è inserito quindi un fattore nuovo, il sentimento della propria imbattibilità, di cui lo stesso Mearsheimer non mancherà di tenere conto nei suoi prossimi studi.

RINGRAZIAMENTI

Se degli argomenti presentati in questo libro sono io responsabile, ho ricevuto grande aiuto nel corso della sua preparazione da un piccolo esercito di indivi­ dui e istituzioni. Numerosi colleghi hanno accettato di spendere parte del loro tempo pre­ zioso leggendo e commentando il manoscritto: il libro è pieno delle loro impronte digitali. Quasi ognuno di questi lettori mi ha indotto ad abbando­ nare un tema malposto, ad aggiungere una nuova argomentazione o a specifi­ carne meglio una esistente. Mi vengono i brividi al pensiero della quantità di idee assurde e di errori fattuali che sarebbero ancora qui tra queste pagine se non fosse per quei commenti. Comunque, non ho accolto tutti i suggerimen­ ti ricevuti e la responsabilità di eventuali problemi non risolti ricade intera­ mente su di me. Ho un profondo debito di gratitudine con Colin Elman, Michael Desch, Peter Liberman, Karl Mueller, Marc Trachtenberg e soprattutto Stephen Walt: non si sono limitati a leggere e commentare una sola volta l’intero manoscrit­ to, ma ne hanno letto e commentato parti più volte. Sono anche grato per i commenti offerti da Robert Art, Deborah Avant, Richard Betts, Dale Copeland, Michael Creswell, Michael Doyle, David Edelstein, Benjamin Frankel, Hein Goemans, Jack Golsdmith, Joseph Grieco, Arman Grigorian, David Herrmann, Eric Labs, Karl Lautenschlager, Christopher Lane, Jack Levy, Michael Mandelbaum, Karen Mingst, Takayuki Nishi, Robert Pape, Barry Posen. Daryl Press, Cynthia Roberts, Robert Ross, Brian Schmidt, Jack Snyder, Stephen Van Evera e Alexander Wendt. Mi scuso con quelli che avessi dimenticato. Devo ringraziare anche una schiera di assistenti ricercatori che hanno lavo­ rato per me nel corso dei tanti anni e che mi sono stati necessari per scrivere

R ingraziam enti

questo libro. Tra loro Roshna Balasubramanian, David Edelstein, Daniel Ginsberg, Andrea Jett, Seth Jones, Keir Lieber, Daniel Marcinak, Justine Rosenthal, John Schussler e Steven Weil. Un ringraziamento speciale ad Alexander Downes, cui si deve in larga parte la realizzazione delle tabelle pre­ senti in questo libro, e che ha compiuto approfondite ricerche su una quantità di argomenti. Mentre la penultima stesura stava per essere completata, il Council on Foreign Relations di New York mi ha scelto come suo Whitney H. Shepardson Fellow per il 1998-99. Questa magnifica fellowship ha come fine aiutare un autore a completare un libro che ha in corso. A questo scopo il Council ha organizzato un gruppo di studio che si è riunito tre volte a New York per discutere vari capitoli del libro. Richard Betts ha fatto un eccellente lavoro come presidente del gruppo, che comprendeva tra i suoi membri Robert Jer­ vis, Jack Levy, Gideon Rose, Jack Snyder, Richard Ullman, Kenneth Waltz e Fareed Zakaria. Non sono mai stati avari di critiche, ma quasi tutte mi sono state preziosissime durante la stesura finale. Il Council mi ha anche permesso di presentare al pubblico alcuni capitoli del libro a San Francisco e a Washing­ ton. Anche in queste occasioni sono emersi utilissimi commenti. A New York, dopo gli incontri con il gruppo di studio del Council, rag­ giungevo in taxi la Columbia University, dove presentavo gli stessi capitoli a un workshop organizzato da due studenti graduate, Arman Grigorian e Holger Schmidt. Gli studenti della Columbia che partecipavano alle sessioni hanno offerto ottimi commenti che mi hanno aiutato a migliorare da vari punti di vista le mie argomentazioni. La University o f Chicago ha svolto un ruolo cardine neU’aiutarmi a scrive­ re questo libro, offrendo un ambiente intellettuale ricco e stimolante oltre che un generoso contributo di ricerca. Uno studioso non potrebbe chiedere rifu­ gio migliore. Qui ho avuto la fortuna di lavorare con una lunga lista di dotto­ randi di talento, che non solo mi hanno costretto ad affilare i miei argomenti ma mi hanno anche insegnato molto sulla teoria e la storia della politica inter­ nazionale. Voglio anche ringraziare lo staff del dipartimento di Politicai Scien­ ce (Kathy Anderson, Heidi Parker e Mimi Walsh) per l’appoggio logistico che mi hanno offerto nel corso degli anni. Desidero poi riconoscere l’annoso debito di riconoscenza che ho con le quattro persone che sono state i miei principali mentori all’inizio della mia carriera. William Schwartz mi ha introdotto allo studio della sicurezza inter­ nazionale quando ero studente universitario a West Point; Charles Powell mi ha seguito dopo la laurea quando frequentavo la University of Southern California; George Quester e Richard Rosecrance infine sono stati i relatori

Ringraziam enti

della mia tesi di dottorato alla Cornell University. Non sarei mai diventato uno studioso, e quindi non avrei mai scritto questo libro, senza il loro soste­ gno e senza l’appoggio delle istituzioni dove loro insegnavano e io studiavo. Per tutto l’aiuto ricevuto, voglio esprimere la mia profonda riconoscenza. Roby Harrington, il mio editor alla Norton, ha avuto l’idea di questo libro e ha lavorato con me al progetto per un lasso di tempo che è andato ben al di là delle sue e delle mie previsioni. Ho molto apprezzato la sua pazienza e la sua saggezza. Tracy Nagle ha fatto un magnifico lavoro di redazione del mano­ scritto, mentre Avery Johnson e Rob Whiteside hanno seguito in maniera eccellente la produzione del libro che avete tra le mani. Infine, ringrazio la mia famiglia per l’insostituibile appoggio morale. Scri­ vere un libro è sempre un processo lungo e penoso. E un po’ come doverti alzare dal letto ogni mattina sapendo che ti aspetta un orso con cui devi lotta­ re per ore e ore. Per avere la meglio sull’orso, aiuta immensamente avere un solido sostegno non solo sull’arena della battaglia intellettuale ma anche a casa. Io ho avuto la fortuna di poter disporre di entrambi. Soprattutto ringra­ zio Pamela, mia moglie, a cui devo così tanto. Questo libro è dedicato a lei.

INTRODUZIONE

Il Novecento è stato un secolo di enorme violenza internazionale. Nella prima guerra mondiale (1914-1918) furono circa nove milioni i morti sui campi di bat­ taglia europei. Quasi cinquanta milioni di persone furono uccise nella seconda (1939-1945), oltre la metà delle quali erano civili. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale il globo sprofondò nella guerra fredda. Nel corso di questo scontro, l’Unione Sovietica e i suoi alleati del Patto di Varsavia non combattero­ no mai direttamente gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO, ma molti milioni furono le vittime nelle guerre combattute, per così dire per procura, in Corea, Vietnam, Afghanistan, Nicaragua, Angola, E1 Salvador e altrove. A milioni mori­ rono anche nei conflitti secondari, ma non meno feroci, combattuti nel corso del secolo, come le guerre russo-giapponesi del 1904-1905 e del 1939, l’intervento alleato nella guerra civile russa dal 1918 al 1920, la guerra russo-polacca del 1920-1921, le varie guerre arabo-israeliane e la guerra Iran-Iraq del 1980-1988. Questo ciclo di violenza si riprodurrà ancora a lungo nel nuovo millennio. Le speranze di pace probabilmente non si realizzeranno, perché le grandi potenze che plasmano il sistema internazionale si temono a vicenda e quindi si contendono il potere. Anzi, conquistare una posizione di potere dominante è il loro obiettivo primario, in quanto è questo il modo migliore per garantirsi la sopravvivenza. La forza garantisce la sicurezza, e la massima forza è la migliore assicurazione contro l’insicurezza. Di fronte a un simile incentivo, gli stati sono destinati a scontrarsi in una competizione in cui ciascuno cerca di assicurarsi il vantaggio sugli altri. E una situazione tragica ma inevitabile, a meno che gli stati che compongono il sistema non si accordino per formare un governo mondiale. Ma poiché una trasformazione di tale entità è una pro­ spettiva tutt’altro che realistica, conflitti e guerre continueranno fatalmente a essere aspetti rilevanti e persistenti della politica mondiale.

xl

Introduzione

Qualcuno potrà contestare questa visione pessimistica ricordando che il X X secolo si è chiuso pacificamente - con la fine della guerra fredda - e che oggi, all’inizio del nuovo secolo, le relazioni tra le grandi potenze sono assai pacifiche. Questo è senz’altro vero, ma prevedere il futuro semplicemente estrapolando dal presente non costituisce solida analisi. Consideriamo che cosa avrebbe suggerito un tale approccio a un osservato­ re europeo all’inizio di ciascuno dei due secoli passati. Nel 1800 l’Europa era nel bel mezzo della guerra rivoluzionaria e delle guerre napoleoniche, che si protrassero per ventitré anni (1792-1815) coinvolgendo tutte le grandi poten­ ze dell’epoca. Estrapolando in avanti da quell’anno cruento, ci si sarebbe aspettati un secolo pieno di conflitti tra grandi potenze. E invece fu di uno dei periodi meno conflittuali di tutta la storia europea. Nel 1900, viceversa, in Europa non c’era guerra che coinvolgesse una grande potenza, e ben pochi segni che ne facessero presagire una in arrivo. Proiettando sul futuro quell’an­ no di quiete ci si sarebbe aspettati modesti conflitti nell’Europa del XX secolo. Le cose, come sappiamo, andarono nella direzione opposta. Le teorie generali della politica internazionale ci offrono utili strumenti per prevedere quanto ci aspetta. Le più utili di queste descrivono in che modo le grandi potenze si comportano normalmente tra loro e spiegano la loro con­ dotta. Una teoria utile dà inoltre buona spiegazione di come le grandi poten­ ze si sono comportate in passato, spiegando anche perché alcuni periodi stori­ ci siano stati più conflittuali di altri. Una teoria capace di soddisfare tali requi­ siti e di aiutarci a guardare indietro per capire il passato deve anche aiutarci a guardare avanti e delineare il futuro. Con questo libro mi propongo di offrire una teoria che abbia tali requisiti. La mia teoria, a cui ho dato il nome di «realismo offensivo», è di natura essen­ zialmente realista; ricade quindi nella tradizione di pensatori realisti quali E.H. Carr, Hans Morgenthau e Kenneth Waltz. I suoi elementi sono poco numerosi e possono essere sintetizzati in poche semplici proposizioni. Per esempio, sottolineo che le grandi potenze cercano di massimizzare la loro quo­ ta di potere mondiale. Sostengo anche che un sistema multipolare di cui fac­ cia parte un paese particolarmente potente —ossia un potenziale egemone tende più di altri a sfociare nella guerra. Queste e altre proposizioni presentate nel libro susciteranno polemiche. In loro difesa cerco di dimostrare che la logica su cui poggiano è solida e convin­ cente. E la verifico usando come banco di prova la documentazione storica. L’evidenza empirica è tratta principalmente dalle relazioni tra grandi potenze a partire dal 1792. Infine, uso la teoria per prevedere la probabile forma delle relazioni future tra le grandi potenze.

Introduzione

Questo libro intende rivolgersi tanto ai colleghi accademici quanto a quei lettori interessati a comprendere le forze centrali che motivano il comporta­ mento delle grandi potenze. Per realizzare questo obiettivo ho cercato di ren­ dere le mie argomentazioni chiare e accessibili anche per chi non è pratico del gergo e dei dibattiti del mondo accademico. Ho cercato di tenere presente il consiglio che il critico letterario Lionel Trilling diede una volta al grande sociologo C. Wright Mills: «Devi immaginare di essere stato invitato a tenere una lezione su un argomento che conosci bene, davanti a una platea composta di professori e studenti provenienti da tutti i dipartimenti di una importante università, più un assortimento di pubblico interessato da una città vicina. Immagina che una simile platea sia di fronte a te e che abbia il diritto di sape­ re; immagina di volere anche tu che quella gente sappia. Adesso comincia a scrivere»1. L’augurio è che i lettori arrivino alla conclusione che il mio sforzo di seguire questo consiglio ha dato i suoi frutti.

XV

Capitolo primo

IL REALISMO NELLA POLITICA INTERNAZIONALE

Sono stati molti in Occidente a credere che la «pace perpetua» tra le grandi potenze fosse finalmente a portata di mano. La fine della guerra fredda, si è detto, ha segnato un punto di svolta nel modo in cui le grandi potenze intera­ giscono tra loro. Saremmo entrati in un mondo in cui ci sono scarse probabi­ lità che le maggiori potenze si mettano in competizione militare tra loro, e tanto meno scendano in guerra, definita come un’impresa obsolescente. Secondo le parole di un autore famoso, la fine della guerra fredda ci aveva portati alla «fine della storia»1. Secondo questa prospettiva risulterebbe che le grandi potenze non si guar­ dano più l’un l’altra come potenziali avversari sul piano militare, ma come membri di una sola grande famiglia di nazioni, una famiglia dal nome di «comunità internazionale». Le prospettive di cooperazione sarebbero state abbondanti in questo promettente mondo nuovo, un mondo che avrebbe dovuto portare prosperità e pace a tutte le grandi potenze. Perfino qualche seguace del realismo, scuola di pensiero che sulle prospettive di pace tra le grandi potenze ha storicamente mantenuto una visione pessimistica, sembrava cedere all’ottimismo imperante, come si può vedere da un articolo della metà degli anni Novanta dal titolo significativo di «Realists as Optimists»2. Purtroppo, l’affermazione che la guerra e la competizione per la sicurezza tra le grandi potenze siano state espunte dal sistema internazionale era falsa allora ed è falsa oggi. Anzi, molti segnali lasciano intendere che la promessa di una pace durevole tra le grandi potenze sia nata già morta. Riflettiamo, per esempio, sul fatto che benché la minaccia sovietica sia scomparsa, gli Stati Uniti mantengono ancora circa centomila militari in Europa e più o meno altrettanti in Asia Orientale. Lo fanno perché convinti che se le truppe USA si ritirassero, con ogni probabilità emergerebbero pericolose rivalità tra le mag-

La logica di potenza

giori potenze di queste regioni. Inoltre, quasi tutti gli stati europei, Regno Unito e Francia compresi, nutrono ancora il profondo, benché celato, sospet­ to che una Germania non più controllata dalla potenza americana possa com­ portarsi aggressivamente; in Asia Orientale i timori nei confronti del Giappo­ ne sono probabilmente ancora più profondi, e senza dubbio più frequente­ mente espressi. Infine, la possibilità di uno scontro tra Cina e Stati Uniti su Taiwan è tutt’altro che remota. Questo non vuol dire che una tale guerra sia probabile, ma la sua eventualità ci ricorda che il rischio di un conflitto armato tra grandi potenze non è scomparso. Il fatto triste è che la politica internazionale è sempre stata una faccenda spietata e pericolosa, e tale con ogni probabilità resterà. Se è vero che l’inten­ sità della loro competizione presenta alti e bassi, le grandi potenze invariabil­ mente si temono e si contendono il potere. Scopo primario di ogni stato è massimizzare la sua quota di potere mondiale, il che vuol dire acquisire potere a spese di altri stati. Ma ogni grande potenza non si limita a battersi per esse­ re la più forte di tutte le altre, anche se questo è un esito auspicato. Il suo fine ultimo è diventare egemone - ossia l’unica grande potenza del sistema. Non esistono potenze dedite allo status quo nel sistema internazionale, salvo per l’occasionale egemone che mira a mantenere la sua posizione domi­ nante sui rivali potenziali. Raramente le grandi potenze si accontentano della distribuzione del potere esistente; al contrario, si trovano ad avere un costan­ te incentivo a modificarla a proprio favore. Quasi sempre hanno intenti revi­ sionisti, e useranno la forza per alterare l’equilibrio di potenza non appena pensano di poterlo fare a un prezzo ragionevole3. A volte sono troppo pesanti i costi e i rischi del tentativo di alterare quell’equilibrio, ma la logica di poten­ za non scompare, a meno che uno stato non raggiunga il fine ultimo dell’ege­ monia. Poiché tuttavia è improbabile che uno stato arrivi a detenere l’egemo­ nia globale, il mondo è condannato alla perpetua competizione tra grandi potenze. Insita in questo incessante inseguimento del potere è la tendenza delle grandi potenze a cercare di cogliere ogni opportunità per modificare a proprio favore la distribuzione del potere mondiale. E la coglieranno se hanno le capa­ cità necessarie. In parole povere, le grandi potenze sono sempre pronte all’o f­ fesa. Una grande potenza però non cerca solo di guadagnare potere a spese di altri stati, ma anche di ridurre il peso delle rivali che tendono a guadagnare potere a sue spese; dunque, difenderà l’equilibrio di potere esistente quando si prospetta un cambiamento che potrebbe favorire un altro stato, mentre cer­ cherà di disturbare quell’equilibrio quando la direzione del cambiamento è a suo favore.

Il realism o nella p o litica in ternazionale

Perché una grande potenza si comporta così? La mia risposta è che la strut­ tura del sistema internazionale fa sì che.anche gli stati che mirano solo a garantire la propria sicurezza siano ugualmente costretti ad assumere ugual­ mente un comportamento reciprocamente aggressivo. Tre sono le componenti del sistema internazionale che combinandosi portano gli stati a temersi a vicenda: 1) l’assenza di un’autorità centrale che, al di sopra degli stati, sia in grado di proteggerli l’uno dall’altro; 2) il fatto che gli stati hanno sempre una qualche capacità militare offensiva; 3) il fatto che uno stato non può mai esse­ re sicuro sulle intenzioni di un altro stato. Posta questa paura —che non può mai essere eliminata del tutto - gli stati concludono che maggiore è la poten­ za che hanno rispetto ai propri rivali, migliori saranno le loro opportunità di sopravvivenza. Anzi, la miglior garanzia di sopravvivenza è di essere egemoni, perché nessun altro stato potrà minacciare seriamente una simile potenza. Questa situazione, che non è stata progettata o voluta consapevolmente da nessuno, è francamente tragica. Grandi potenze che non hanno motivo di com­ battersi —il cui solo interesse è la propria sopravvivenza —non hanno comun­ que altra scelta che perseguire il potere e cercare di dominare gli altri stati del sistema. Questo dilemma si coglie nel commento brutalmente franco pronun­ ciato dallo statista prussiano Otto von Bismarck quando, nei primi anni Ses­ santa del XIX secolo, si profilava la possibilità che la Polonia, stato a quel tem­ po non indipendente, potesse riacquistare la propria sovranità: «Restaurare il regno di Polonia in qualsivoglia foggia o forma equivarrebbe a offrire un alleato al nemico che avesse intenzione di attaccarci». Convinto di ciò, auspicava che la Prussia schiacciasse «questi polacchi finché essi, perduta ogni speranza, si lasci­ no andare a morire; ho tutta la comprensione per la loro situazione, ma se vogliamo sopravvivere non abbiamo altra scelta che spazzarli via»4. Potrà essere deprimente prendere atto che le grandi potenze pensano e agi­ scono in questo modo, ma nostro compito è guardare il mondo così com’è, non come ci piacerebbe che fosse. Per esempio, una delle questioni chiave del­ la politica estera americana è la questione di come si comporterà la Cina se continua ininterrotta la sua rapida crescita economica, che di fatto la sta tra­ sformando in una gigantesca Hong Kong. Molti americani ritengono che una Cina democratica inserita nel sistema capitalista globale non agirà aggressiva­ mente; che anzi si accontenterà dello status quo in Asia Orientale. Secondo questa logica gli Stati Uniti dovrebbero agganciare la Cina per promuoverne l’integrazione nell’economia mondiale, in una politica che contemporanea­ mente tenderebbe a incoraggiare la transizione del paese alla democrazia. Se l’operazione va a buon fine, gli Stati Uniti potranno collaborare con una Cina ricca e democratica a promuovere la pace nel mondo.

La logica di potenza

Purtroppo una politica di engagement è destinata al fallimento. Se la Cina diventerà una potenza economica, quasi certamente tradurrà la sua forza eco­ nomica in forza militare e tenderà a dominare l’Asia Orientale. Che la Cina sia democratica e profondamente inserita nell’economia globale oppure auto­ cratica o autarchica è una circostanza che avrà scarso effetto sul suo comporta­ mento, perché le democrazie hanno a cuore la sicurezza né più né meno delle non democrazie, e l’egemonia è il modo migliore per qualunque stato di garantirsi la sopravvivenza. Naturalmente né i suoi vicini né gli Stati Uniti se ne starebbero con le mani in mano se la Cina dovesse acquistare potere a rit­ mi crescenti. Anzi, cercherebbero di contenerla, probabilmente cercando di formare una coalizione che le faccia da contrappeso. Il risultato sarebbe un’in­ tensa competizione per la sicurezza tra la Cina e i suoi rivali, con il pericolo incombente di una guerra tra grandi potenze sempre in agguato. In breve, dato che la potenza cinese cresce, Cina e Stati Uniti sono destinati a essere avversari.

IL REALISMO OFFENSIVO Il mio libro presenta una teoria realista della politica internazionale che mette in discussione l’ottimismo prevalente sulle relazioni tra grandi potenze. Que­ sta impresa comporta tre compiti specifici. Inizio esponendo le componenti chiave della teoria, a cui ho dato il nome di «realismo offensivo». Fornisco varie argomentazioni sul modo in cui le grandi potenze si rapportano tra loro, sottolineando che sono sempre alla ricerca di opportunità per guadagnare potere a spese l’una dell’altra. Identifico poi le condizioni che rendono più o meno probabile un conflitto. Affermo, per esempio, che i sistemi multipolari sono più inclini alla guerra di quelli bipolari, e che i sistemi multipolari che contengono stati particolarmente potenti - potenziali egemoni - sono i sistemi più pericolosi di tutti. Ma non mi limito ad asserzioni: tento anche di fornire spiegazioni convincenti dei comportamenti e degli esiti che stanno al cuore della mia teoria. In altre paro­ le, espongo la logica causale, il ragionamento, che soggiace a ciascuna delle mie affermazioni. La teoria si concentra sulle grandi potenze perché sono queste ad avere il maggiore impatto su ciò che accade nella politica internazionale5. Le sorti di tutti gli stati - le potenze grandi come quelle minori - sono determinate prin­ cipalmente dalle decisioni e dalle azioni di chi dispone delle maggiori capacità militari. Per esempio, la politica in quasi tutte le regioni del mondo è stata

Il realism o n ella politica in ternazionale

profondamente condizionata dalla competizione tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti tra il 1945 e il 1990. Analogo effetto sulla politica nelle varie realtà regionali l’hanno avuto le due guerre mondiali che hanno preceduto la guerra fredda. Ognuno di questi conflitti era l’espressione della rivalità tra grandi potenze, e ciascuno di essi ha proiettato la sua lunga ombra su ogni parte del globo. Una grande potenza si definisce in larga misura sulla base delle sue capa­ cità militari. Per essere considerato come grande potenza, uno stato deve disporre di risorse militari sufficienti a «vendere cara la pelle» in una guerra convenzionale totale con lo stato più potente del mondo6. Il candidato non deve necessariamente avere la capacità di sconfiggere lo stato leader, ma deve avere una ragionevole possibilità di riuscire a trasformare il conflitto in una guerra di logoramento che lasci lo stato dominante seriamente indebolito, anche se questo stato dominante dovesse finire per vincere la guerra. Nell’era nucleare le grandi potenze devono disporre di un arsenale strategico in grado di sopravvivere a un attacco nucleare, oltre a formidabili forze convenzionali. Nell’improbabile eventualità che uno stato conseguisse la superiorità nucleare su tutti i suoi rivali, esso sarebbe così potente da rimanere l’unica grande potenza del sistema. L’equilibrio nelle armi convenzionali sarebbe sostanzial­ mente irrilevante nel caso che emergesse un egemone nucleare. Il secondo compito che mi sono prefisso in questo libro è dimostrare che la teoria ci dice molto sulla storia della politica internazionale. Poiché la verifica definitiva di ogni teoria sta nella sua adeguatezza a spiegare eventi del mondo reale, ho fatto ogni sforzo per mettere a confronto le mie tesi con l’evidenza storica. Specificamente, l’attenzione è focalizzata sulle relazioni tra le grandi potenze dall’inizio, nel 1792, delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche fino alla fine del XX secolo7. Grande attenzione è rivolta alle grandi potenze euro­ pee perché sono quelle che hanno dominato la politica mondiale per buona parte degli ultimi due secoli. In effetti, finché il Giappone e gli Stati Uniti non raggiunsero lo status di grande potenza, rispettivamente nel 1895 e nel 1898, era l’Europa a ospitare tutte le grandi potenze mondiali. Ciononostan­ te, nel libro compare anche uno studio approfondito della politica dell’Asia Orientale, soprattutto per quanto riguarda il Giappone imperiale tra il 1895 e il 1945, e della Cina negli anni Novanta. Anche gli Stati Uniti figurano in pri­ mo piano nei miei tentativi di testare la teoria del realismo offensivo sulla scorta degli eventi passati. Alcuni degli importanti interrogativi storici su cui ho cercato di fare luce sono:

La logica di potenza

1) Come si spiegano le tre guerre più lunghe e sanguinose della storia moderna - la guerra rivoluzionaria francese e le guerre napoleoniche (1792-1815), la prima guerra mondiale (1914-1918) e la seconda guer­ ra mondiale (1939-1945) - conflitti che hanno coinvolto tutte le mag­ giori potenze del sistema? 2) Come si giustificano i lunghi periodi di relativa pace in Europa tra il 1816 e il 1852, il 1871 e il 1913, e soprattutto fra il 1945 e il 1990, ossia durante la guerra fredda? 3) Come mai il Regno Unito, che alla metà del XIX secolo era di gran lun­ ga il paese più ricco del mondo, non costruì una potente struttura mili­ tare con cui dominare l’Europa? Ossia, perché si comportò diversamen­ te dalla Francia napoleonica, dalla Germania guglielmina, dalla Germa­ nia nazista e dalla Russia sovietica, che tutte tradussero la loro potenza economica in potenza militare, puntando all’egemonia europea? 4) Perché la Germania bismarckiana (1862-1890) fu particolarmente aggressiva tra il 1862 e il 1870, combattendo due guerre contro altre grandi potenze e una con una potenza minore, mentre non lo fu prati­ camente per nulla dal 1871 al 1890, periodo in cui non combattè alcu­ na guerra e in generale cercò di mantenere lo status quo in Europa? 5) Perché Regno Unito, Francia e Russia formarono una coalizione equili­ bratrice contro la Germania guglielmina nel periodo che precedette la prima guerra mondiale mentre non riuscirono a organizzare un’alleanza in grado di contrastare la Germania nazista? 6) Perché il Giappone e gli stati dell’Europa Occidentale unirono le pro­ prie forze con quelle degli Stati Uniti contro l’Unione Sovietica nei pri­ mi anni della guerra fredda, sebbene gli Stati Uniti fossero usciti dalla seconda guerra mondiale disponendo dell’economia più potente del mondo e del monopolio nucleare? 7) Come si spiega l’impiego delle truppe americane in Europa e in Asia Orientale durante il XX secolo? Per esempio, perché gli Stati Uniti atte­ sero fino all’aprile del 1917 per partecipare alla prima guerra mondiale anziché scendere in campo fin dall’inizio, nell’agosto del 1914? E anzi, perché gli Stati Uniti non mandarono truppe in Europa prima del 1914 per impedire lo scoppio della guerra? E, analogamente, perché non si contrapposero alla Germania nazista negli anni Trenta o non inviarono truppe in Europa prima del settembre 1939 per scongiurare lo scoppio della seconda guerra mondiale? 8) Perché Stati Uniti e Unione Sovietica hanno continuato a incrementare i propri arsenali nucleari anche dopo che ciascuno dei due paesi aveva

Il realism o n ella p o litica in ternazionale

raggiunto una sicura capacità di replica in risposta a un’aggressione ato­ mica ? Un mondo in cui ambo le parti possiedono una capacità recipro­ ca di «distruzione assicurata» è generalmente considerato stabile e con un equilibrio nucleare difficile da alterare, ma le due superpotenze han­ no lo stesso speso miliardi di dollari e di rubli cercando di ottenere un vantaggio di first strike. Terzo, utilizzo la mia teoria per formulare previsioni sulla politica delle grandi potenze nel XXI secolo. Qualche lettore troverà azzardato questo sforzo per­ ché lo studio delle relazioni internazionali, come le altre scienze sociali, poggia su basi teoriche meno solide di quelle delle scienze naturali. Inoltre, siccome i fenomeni politici presentano un alto grado di complessità, senza strumenti teorici superiori a quelli di cui disponiamo attualmente una previsione politi­ ca precisa è impossibile. Pertanto, qualsiasi pronostico politico non può essere scevro da errori. Chi come me si avventura in tali previsioni dovrà quindi pro­ cedere con umiltà, badare a non esibire certezze arbitrarie e ammettere che con ogni probabilità la visione retrospettiva rivelerà sorprese ed errori. Nonostante questi rischi, gli scienziati sociali fanno bene ugualmente a usare le loro teorie per formulare previsioni sul futuro. Fare pronostici aiuta a informare il discorso politico perché contribuisce a dare un senso agli eventi che si svolgono nel mondo che ci circonda. E, chiarendo i punti di disaccor­ do, formulare previsioni esplicite aiuta a inquadrare con maggiore chiarezza le idee di chi ha punti di vista in contraddizione. Inoltre, tentare di anticipare eventi nuovi é un buon metodo per testare le teorie delle scienze sociali, per­ ché i teorici non hanno il vantaggio del senno di poi e quindi non sono in grado di adeguare le proprie affermazioni all’evidenza empirica (di cui non possono ancora disporre). In breve, il mondo può essere usato come un labo­ ratorio per decidere quali teorie spieghino meglio la politica internazionale. È in questo spirito che utilizzo il realismo offensivo per scrutare il futuro, consa­ pevole degli azzardi che si corrono cercando di prevedere classi di eventi. Virtù e limiti della teoria Dovrebbe risultare chiaro a questo punto che il libro ha una natura consape­ volmente teorica. Ma fuori delle mura dell’accademia, e soprattutto nel mon­ do politico, la teoria non gode di buona fama. Le teorie delle scienze sociali sono spesso rappresentate come oziose speculazioni di accademici con la testa tra le nuvole, dotate di scarsa attinenza con quanto accade nel «mondo reale». Scrive per esempio Paul Nitze, importante esponente della politica estera ame­

La logica dì potenza

ricana durante la guerra fredda: «Gran parte di quanto gli americani hanno scritto e insegnato dopo la seconda guerra mondiale sotto la rubrica di «scien­ za politica» è [...] di scarso valore, se non controproducente, come guida per la condotta politica»8. Secondo questo punto di vista, la teoria dovrebbe limi­ tarsi esclusivamente all’ambito degli studi accademici, mentre nel loro lavoro quotidiano i policymaker dovrebbero basarsi sul buon senso, l’intuito e l’espe­ rienza pratica. È un punto di vista sbagliato. In realtà nessuno di noi potrebbe capire il mondo in cui viviamo né prendere decisioni intelligenti se non ci fossero le teorie. Anzi, chiunque studi e pratichi la politica internazionale ricorre a una o all’altra teoria per comprendere ciò che lo circonda. Alcuni se ne rendono conto e altri no; qualcuno lo riconosce e altri no; ma non si sfugge al fatto che non saremmo in grado di trarre senso dal mondo complesso che ci circonda senza le semplificazioni offerte dalle teorie. La retorica della politica estera del­ l’amministrazione Clinton, per fare un esempio, è stata pesantemente permea­ ta delle tre principali teorie liberali delle relazioni internazionali: 1) l’afferma­ zione dell’improbabilità che paesi floridi ed economicamente interdipendenti combattano tra loro; 2) l’affermazione che le democrazie non combattono tra loro; 3) l’affermazione che le istituzioni internazionali permettono agli stati di evitare i conflitti armati, concentrandosi sulla costruzione di relazioni coope­ rative. Si consideri come alla metà degli anni Novanta Clinton e compagni hanno giustificato l’allargamento della NATO. Il presidente sosteneva che uno dei principali obiettivi dell’allargamento fosse quello di «consolidare le conquiste democratiche dell’Europa Centrale», perché «le democrazie risolvono pacifica­ mente le loro divergenze». Affermava anche che gli Stati Uniti dovevano favo­ rire un «sistema commerciale aperto», perché «la nostra sicurezza è legata all’interesse che hanno altre nazioni a rimanere libere e aperte e a lavorare con e non contro gli altri»9. Strabe Talbott, compagno di studi di Clinton a Oxford e vicesegretario di stato, ha formulato analoghe affermazioni sull’am­ pliamento della NATO: «Con la fine della guerra fredda, si è resa possibile la costruzione di un’Europa sempre più unita dal comune impegno a creare società aperte e mercati aperti». Spostare i confini della NATO a est, ha soste­ nuto, contribuirebbe «a consolidare il consenso nazionale a favore delle rifor­ me democratiche e di mercato» che già erano prevalenti in paesi come l’Un­ gheria e la Polonia, accrescendo così le prospettive di pace nella regione10. Nello stesso spirito, il segretario di stato Madeleine Albright ha elogiato i fondatori della NATO dichiarando che il «loro risultato fondamentale è stato avviare la costruzione di una [...] rete di istituzioni e disposizioni regolamen­

Il realism o n ella politica in ternazionale

tate che mantengono la pace». «Ma questo risultato non è completo» ha avver­ tito, «e oggi il nostro impegno consiste nel portare a termine il progetto di costruzione postbellico [...] ed espandere l’area del mondo in cui gli interessi e i valori americani possano prosperare»11. Questi esempi dimostrano che le teorie generali sul funzionamento del mondo svolgono un ruolo importante nel permettere ai leader politici di iden­ tificare i fini a cui tendere e i mezzi da adottare per raggiungerli. Ma ciò non vuol dire che dobbiamo abbracciare qualsiasi teoria sia ampiamente diffusa, per popolare che sia, perché ci sono teorie buone e teorie cattive. Per esempio, alcune teorie si occupano di questioni di scarso rilievo mentre altre sono opa­ che e quasi incomprensibili. Altre presentano contraddizioni nella loro logica interna, mentre altre ancora hanno scarso potere esplicativo perché il mondo semplicemente non funziona come da loro previsto. Il trucco sta nel saper distinguere teorie solide da teorie difettose12. Mio scopo è convincere il lettore che il realismo offensivo è una teoria ricca, una teoria che getta una notevole luce sui meccanismi del sistema internazionale. Come accade con tutte le teorie, però, anche la forza esplicativa del reali­ smo offensivo ha i suoi limiti. Alcuni casi contraddicono le sue affermazioni base: casi che il realismo offensivo dovrebbe essere in grado di spiegare ma che non spiega. Tutte le teorie hanno questo problema, ma migliore è la teoria meno numerose saranno le anomalie. Un caso che contraddice il realismo offensivo è quello della Germania del 1905. A quell’epoca la Germania era lo stato più potente d’Europa. I suoi maggiori rivali sul continente erano la Francia e la Russia, che una quindicina d’anni prima avevano stretto un’alleanza per contenere i tedeschi. Il Regno Unito aveva a quel tempo un esercito limitatissimo, in quanto contava sulla Francia e la Russia perché tenessero a bada la Germania. Quando tra il 1904 e il 1905 il Giappone inflisse inaspettatamente una devastante sconfitta alla Russia, escludendola temporaneamente dall’equilibrio europeo di potenza, la Francia fu lasciata praticamente sola contro la possente Germania. Per i tede­ schi era un’occasione straordinaria per schiacciare la Francia e compiere un passo da gigante in direzione dell’egemonia in Europa. Sicuramente era più sensato che la Germania scendesse in guerra nel 1905 che non nel 1914. E invece non prese neppure in considerazione l’ipotesi di una guerra nel 1905, cosa che contraddice le previsioni del realismo offensivo. Fe teorie si imbattono in anomalie perché semplificano la realtà enfatiz­ zando determinati fattori e ignorandone altri. Il realismo offensivo ha tra i suoi presupposti l’idea che il sistema internazionale plasma energicamente il comportamento degli stati. Fattori strutturali quali l’anarchia e la distribuzio­

La logica di potenza

ne del potere sono a mio avviso ciò che più conta nell’interpretazione della politica internazionale. La teoria presta scarsa attenzione agli individui o a considerazioni di politica interna quali l’ideologia di uno stato. Tende a tratta­ re gli stati come scatole nere o palle da biliardo. Voglio dire, non ha alcuna importanza per la teoria qui esposta se la Germania del 1905 fosse governata da Bismarck, dal kaiser Guglielmo o da Adolf Hitler, o se la Germania fosse democratica o autocratica. Quello che è rilevante per la teoria è la quantità relativa di potere detenuta dalla Germania a quel tempo. Avviene però occa­ sionalmente che quei fattori trascurati dominino il processo decisionale di uno stato; in queste circostanze il realismo offensivo non funziona altrettanto bene. In parole povere, a semplificare la realtà si paga sempre un certo prezzo. Inoltre il realismo offensivo non risponde a tutte le domande che si pre­ sentano nella politica mondiale, perché ci saranno casi in cui la teoria giustifi­ ca svariati esiti possibili. Quando questo accade, occorre mettere in gioco altre teorie per raggiungere una lettura più precisa. Gli esperti di scienze sociali dicono che in simili casi la teoria è «indeterminata», situazione non rara con teorie ad ampio raggio come quella del realismo offensivo. Un esempio dell’indeterminatezza del realismo offensivo è il fatto che non sia in grado di spiegare perché tra le superpotenze la competizione per la sicu­ rezza durante la guerra fredda fu più intensa dal 1945 al 1963 che dal 1963 al 199013. La teoria ha anche poco da dire sul tipo di strategia militare — se offensiva o difensiva - che la NATO avrebbe dovuto adottare a fini di deter­ renza nei confronti del Patto di Varsavia in Europa Centrale14. Per rispondere a queste domande è necessario ricorrere a teorie più specialistiche, come la teoria della deterrenza. In ogni caso, tali teorie e le risposte che esse produco­ no non contraddicono il realismo offensivo: lo integrano. In breve, il realismo offensivo è come una potente torcia elettrica in una stanza buia: anche se non in grado di illuminare ogni angolino o oggetto, il più delle volte è uno stru­ mento eccellente per avanzare nell’oscurità. Da questa presentazione dovrebbe risultare chiaro che il realismo offensivo è innanzitutto una teoria descrittiva. Spiega in che modo le grandi potenze si sono comportate in passato e come probabilmente si comporteranno in futu­ ro. M a è anche una teoria normativa. Gli stati devono agire secondo i dettami del realismo offensivo, perché questo delinea il miglior modo per sopravvivere in un mondo irto di pericoli. Ci si potrebbe domandare: se la teoria descrive come agiscono le grandi potenze, perché è necessario stipulare come dovrebbero agire? Le potenti costrizioni del sistema non dovrebbero lasciare alle grandi potenze molte alter­ native se non agire come prevede la teoria. Anche se c’è qualcosa, anzi molto,

Il realism o n ella politica in tem azio n ale

di vero nella descrizione delle grandi potenze come prigionieri costretti in una gabbia di ferro, resta il fatto che a volte - ma non spesso - esse agiscono in contrasto con la teoria. Sono questi i casi anomali di cui si è parlato. Come vedremo, tale comportamento sconsiderato produce invariabilmente risultati negativi. In poche parole, una grande potenza, se vuole sopravvivere, deve comportarsi sempre da bravo realista offensivo. Il perseguimento della potenza Sulla teoria s’è detto abbastanza. Altro occorre dire sulla sostanza delle mie argomentazioni, e per far questo dobbiamo concentrarci sul nocciolo concet­ tuale del «potere». Per tutti i realisti, i calcoli di potenza sono al cuore di come gli stati guardano al mondo che li circonda. Il potere è la valuta corrente della politica delle grandi potenze, e gli stati se la contendono. Il potere è per le relazioni internazionali ciò che la moneta è per l’economia. Questo libro è organizzato intorno a sei domande che riguardano il potere e la potenza. Primo, perché le grandi potenze vogliono sempre più potere? Qual è la logica soggiacente che spiega come mai gli stati si contendono il potere? Secondo, quanto potere vogliono gli stati? Quand’è che una quantità di potere è giudicata sufficiente? Sono due domande di importanza fondamentale perché affrontano le questioni più elementari riguardanti il compor­ tamento delle grandi potenze. La mia risposta a queste domande base, come ho già chiarito, è che la struttura del sistema internazionale incoraggia gli sta­ ti a perseguire l’egemonia. Terzo, che cos’è il potere? Come viene definito e misurato questo concetto cardine? Con buoni indicatori è possibile determinare il livello di potere dei singoli stati, cosa che ci permette poi di descrivere l’architettura del sistema. Specificamente, possiamo identificare quali stati si qualificano come grandi potenze. Partendo da qui, sarà facile determinare se il sistema sia egemonico (diretto da una singola grande potenza), bipolare (controllato da due grandi potenze) o multipolare (dominato da tre o più grandi potenze). Inoltre, cono­ sceremo la forza relativa di ciascuna delle maggiori potenze. Siamo interessati specificamente a sapere se il potere è distribuito più o meno equamente tra loro o se sono presenti sensibili asimmetrie. In particolare, contiene il sistema un potenziale egemone —una grande potenza che sia considerevolmente più forte di ciascuna delle grandi potenze sue rivali? Definendo con precisione il potere ci troviamo inoltre a disporre di una finestra che ci permette di osservare e comprendere il comportamento degli stati. Se gli stati si contendono il potere, sulla natura di questa competizione

La logica di potenza

apprenderemo di più se capiamo più a fondo che cos’è il potere, e quindi che cosa si contendono gli stati. In breve, conoscere meglio la vera natura del potere dovrebbe aiutarci a gettare luce sul modo in cui le grandi potenze com­ petono tra loro. Quarto, quali strategie mettono in atto gli stati per ottenere potere, o per conservarlo quando un’altra grande potenza minaccia di alterare l’equilibrio della sua distribuzione? Ricatto e guerra sono le principali strategie che gli sta­ ti adottano per acquisire potere, mentre il bilanciamento e lo scaricabarile sono le principali strategie usate dalle grandi potenze per conservare la distri­ buzione di potere esistente in presenza di un rivale pericoloso. Con il bilancia­ mento, lo stato minacciato si accolla l’onere di intimidire il suo avversario, destinando consistenti risorse a questo scopo. Con lo scaricabarile, la grande potenza minacciata cerca di indurre un altro stato a farsi carico dell’impegno di intimidire o sconfiggere lo stato che rappresenta la minaccia. Le ultime due domande riguardano le strategie chiave adottate dagli stati per massimizzare la propria quota di potere mondiale. La quinta è: quali sono le cause di guerra? Specificamente, quali fattori relativi al potere rendono più 0 meno probabile che la competizione per la sicurezza si intensifichi e si tra­ sformi in conflitto aperto? Sesto, in quali casi le grandi potenze minacciate bilanciano contro un avversario pericoloso, e quando invece tentano di passa­ re l’onere a un altro stato minacciato? Tenterò di fornire risposte chiare e convincenti a queste domande. Va sot­ tolineato comunque che non tutti i realisti concordano sulle risposte ai sin­ goli quesiti. Il realismo possiede una ricca tradizione teorica, con una lunga storia alle spalle, in cui da sempre sono state frequenti le dispute, anche su punti fondamentali. Nelle pagine che seguono non esaminerò molto approfonditamente le teorie realiste alternative. Chiarirò in che cosa consi­ stono le differenze tra il realismo offensivo e le dottrine realiste rivali, e sfi­ derò queste prospettive alternative su punti specifici, soprattutto per chiarire 1 miei argomenti. Ma non tenterò di esaminare sistematicamente tutte le teo­ rie realiste. Piuttosto, mi concentrerò sull’esposizione della mia teoria del rea­ lismo offensivo e sull’uso che se ne può fare per spiegare il passato e predire il futuro. Naturalmente esistono anche molte teorie non realiste di politica interna­ zionale. Ho già fatto cenno a tre diverse teorie liberali; ce ne sono altre, di non realiste, come il costruttivismo sociale e la politica burocratica, per ricordarne solo due. Analizzerò brevemente alcune di queste teorie quando affronterò la politica delle grandi potenze dopo la guerra fredda (Capitolo 10), soprattutto perché sostanziano molte delle asserzioni secondo le quali la politica interna­

Il realism o nella politica in ternazionale

zionale avrebbe subito un mutamento fondamentale a partire dai 1990. Moti­ vi di spazio mi impediscono però di presentare un esame a tutto campo di queste teorie non realiste. Anche in questo caso l’attenzione del libro sarà con­ centrata sugli argomenti a favore del realismo offensivo. Mi sembra comunque opportuno descrivere a questo punto le teorie che dominano il pensiero sulle relazioni internazionali a livello sia accademico sia politico, e mostrare come il realismo offensivo si differenzia dai suoi numero­ si concorrenti, realisti e non realisti.

LIBERALISMO VS. REALISMO Liberalismo e realismo sono le due scuole di pensiero che occupano il posto d’onore nel menù teorico delle relazioni internazionali. Quasi tutte le grandi battaglie intellettuali tra gli studiosi della materia si svolgono o sul confine tra realismo e liberalismo o all’interno di questi due paradigmi15. Per illustrare il punto, consideriamo i tre testi realisti più influenti del XX secolo: 1) E.H. Carr, The Twenty Years Crisis, 1919-1939: pubblicato nel Regno Unito poco dopo lo scoppio in Europa della seconda guerra mondiale (1939), è ancora oggi molto letto. 2) Hans Morgenthau, Politics among Nations: pubblicato per la prima vol­ ta negli Stati Uniti agli inizi della guerra fredda (1948), ha dominato il campo delle relazioni internazionali almeno nei due decenni successivi. 3) Kenneth Waltz, Theory o f International Politics-. ha dominato la discipli­ na fin dalla sua apparizione, avvenuta durante la seconda parte della guerra fredda (1979)16. Tutti e tre questi giganti del realismo criticano alcuni aspetti del liberalismo. Per esempio, tanto Carr quanto Waltz contestano l’affermazione liberale secondo la quale l’interdipendenza economica migliorerebbe le prospettive di pace17. Più in generale, Carr e Morgenthau accusano frequentemente i liberali di adottare una visione utopica della politica che, se seguita, condurrebbe gli stati al disastro. Al tempo stesso questi realisti sono in disaccordo tra loro su un certo numero di questioni importanti. Waltz, per esempio, nega l’afferma­ zione di Morgenthau che i sistemi multipolari siano più stabili di quelli bipo­ lari18. Inoltre, mentre Morgenthau sostiene che gli stati tendono a conquistare potere perché ne hanno un desiderio innato, Waltz afferma che è la struttura del sistema internazionale a indurre gli stati a perseguire la potenza per

La logica di potenza

migliorare le prospettive di sopravvivenza. Questi esempi costituiscono solo un piccolo campione delle divergenze tra pensatori realisti19. Diamo ora un’occhiata ravvicinata a liberalismo e realismo, concentrando­ ci prima sui punti base condivisi dalle teorie entro ciascun paradigma, e poi sulle differenze tra specifiche teorie liberali e realiste. Liberalismo La tradizione liberale affonda le sue radici nelFIlluminismo, quel periodo del Settecento europeo in cui tra intellettuali ed esponenti politici circolava la convinzione che la via maestra per migliorare il mondo passasse attraverso l’impiego della ragione20. Di conseguenza, i liberali tendono a essere ottimisti sulle chance di rendere il mondo più sicuro e più pacifico. Molti liberali pen­ sano che sia possibile ridurre il flagello della guerra e accrescere il benessere internazionale. È per questo che le teorie liberali vengono a volte dette «utopi­ stiche» o «idealiste». La visione ottimista che della politica internazionale ha il liberalismo si basa su tre dogmi di base, comuni a quasi tutte le teorie presenti nel paradig­ ma. Primo, i liberali considerano gli stati i principali attori della politica inter­ nazionale. Secondo, sottolineano che le caratteristiche interne degli stati varia­ no considerevolmente, e che queste differenze hanno effetti profondi sul com­ portamento di uno stato21. Inoltre, i teorici liberali spesso sono convinti che determinati assetti interni (per esempio la democrazia) siano di per sé preferi­ bili ad altri (per esempio la dittatura). Per i liberali, quindi, nel sistema inter­ nazionale esistono stati «buoni» e stati «cattivi». Gli stati buoni perseguono politiche cooperative e quasi mai danno il via a una guerra di loro iniziativa, mentre gli stati cattivi provocano conflitti con altri stati e sono inclini a usare la forza per ottenere quello che vogliono22. Ergo, il segreto della pace sta nel popolare il mondo di stati buoni. Terzo, i liberali credono che i calcoli di potenza contino poco nella spiega­ zione del comportamento degli stati buoni. Calcoli politici ed economici di altra natura avrebbero maggior peso, anche se il loro peso varia da teoria a teo­ ria. Gli stati cattivi potrebbero essere motivati dal desiderio di acquisire potere a spese di altri stati, ma questo solo perché sono male indirizzati. In un mon­ do ideale, dove ci sono solo stati buoni, la potenza sarebbe un elemento larga­ mente irrilevante. Tra le varie teorie che si raccolgono sotto l’ampio ombrello del liberalismo, le tre principali menzionate in precedenza sono particolarmente influenti. La prima afferma che un alto livello di interdipendenza tra stati rende improba­

Il realism o n ella politica in ternazionale

bile il conflitto tra di essi23. La radice della stabilità, stando a questa teoria, è la creazione e il mantenimento di un ordine economico liberale che permetta il libero scambio economico tra stati. Un tale ordine rende gli stati più prosperi portando quindi la pace, perché gli stati prosperi sono economicamente più soddisfatti e gli stati soddisfatti sono più pacifici. Molte guerre scoppiano per guadagnare o conservare ricchezza, ma gli stati saranno molto meno orientati alla guerra se sono già ricchi. Inoltre gli stati ricchi dotati di economie interdi­ pendenti rischiano di diventare meno prosperi se si combattono, poiché fini­ rebbero per mordere la mano che li nutre. Una volta stabilita un’ampia rete di legami economici, in breve, gli stati evitano la guerra e possono dedicarsi inve­ ce ad accumulare ricchezze. La seconda teoria, quella della pace democratica, afferma che una demo­ crazia non scende in guerra contro altre democrazie24. Ne consegue che un mondo di soli stati democratici sarebbe un mondo senza guerre. L’argomento qui non è se le democrazie siano meno bellicose delle non democrazie, ma che le democrazie non combattano tra loro. Sono svariate le spiegazioni fornite per la pace democratica, ma c’è scarso accordo su quale sia quella corretta. I pensatori liberali sono però unanimi sul fatto che la teoria della pace demo­ cratica smentirebbe direttamente il realismo e offrirebbe un’efficacissima ricet­ ta per la pace. Infine, alcuni liberali sostengono che le istituzioni internazionali migliora­ no le prospettive di cooperazione tra gli stati e in tal modo riducono sensibil­ mente le probabilità di guerra25. Le istituzioni non sono entità politiche indipendenti che si pongono al di sopra degli stati e li costringono a comportarsi in modo accettabile. Piuttosto, sono degli insiemi di regole che stabiliscono in che modo gli stati debbano cooperare e competere tra loro. Prescrivono forme accettabili di comportamento statuale e bandiscono i comportamenti inaccet­ tabili. Queste norme non vengono imposte agli stati da un qualche Leviatano, dato che a negoziarle sono gli stessi stati, che si impegnano ad attenersi alle regole da essi creati perché è loro interesse farlo. I liberali affermano che que­ ste istituzioni o regole possono modificare radicalmente il comportamento di uno stato. Le istituzioni, dicono, possono scoraggiare gli stati dal calcolare il proprio interesse in base all’effetto che una loro mossa avrebbe sulla posizione di potere relativo, e così sospingono gli stati lontano dalla guerra promuoven­ do la pace. Il realismo All’opposto dei liberali, i realisti hanno una visione pessimista della politica internazionale. Riconoscono che creare un mondo pacifico sarebbe una bella

La logica di potenza

cosa, ma non vedono scorciatoie per evadere le dure realtà della competizione per la sicurezza e della guerra. Creare un mondo pacifico è un’idea sicuramen­ te attraente ma non pratica. «Il realismo», rileva Carr, «tende a porre l’accento sulla potenza irresistibile delle forze esistenti e sul carattere ineludibile delle tendenze esistenti, e a ribadire che la massima saggezza consiste nell’accettare tali forze e tali tendenze e nell’adattarsi a esse»26. Questa visione fosca delle relazioni internazionali si fonda su tre idee di base. Primo, non diversamente dai liberali, i realisti vedono gli stati come i pro­ tagonisti della politica mondiale. Essi però rivolgono la loro attenzione princi­ palmente alle grandi potenze, perché sono queste a dominare e plasmare la poli­ tica internazionale e a provocare le guerre più micidiali. Secondo, i realisti riten­ gono che il comportamento delle grandi potenze è influenzato dall’ambiente esterno più che dalle loro caratteristiche interne. La struttura del sistema inter­ nazionale, con cui tutti gli stati devono fare i conti, è ciò che in larga misura dà forma alle loro politiche estere. I realisti tendono a non stabilire distinzioni net­ te tra stati «buoni» e «cattivi», perché tutte le grandi potenze agiscono in base alla stessa logica, indipendentemente dalla propria cultura, dal sistema politico o dagli individui che sono al governo27. È difficile quindi stabilire un discrimi­ ne tra stati, salvo per le differenze in fatto di potere relativo. In sostanza, le grandi potenze sono come palle da biliardo che variano solo nelle dimensioni28. Terzo, i realisti sostengono che sono i calcoli di potenza a dominare il modo di pensare degli stati, e che questi si contendono il potere. Tale compe­ tizione a volte li obbliga a scendere in guerra, atto considerato uno strumento accettabile di gestione dello stato. Per citare Cari von Clausewitz, il teorico militare del XIX secolo, la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi29. Infine, un carattere che contraddistingue questa competizione è quel­ lo di essere a somma zero, rendendola così spesso intensa e spietata. Gli stati possono occasionalmente cooperare tra loro, ma alla radice i loro interessi sono in conflitto. Le teorie realiste sono numerose e affrontano svariati aspetti del potere, ma due di esse spiccano su tutte le altre: il realismo della natura umana, esposto da Morgenthau in Politics among Nations, e il realismo difensivo, presentato nella sua forma più completa in Theory o f International Politics di Waltz. Ciò che distingue queste due opere dai lavori di altri realisti e le rende al tempo stesso importanti e controverse è il fatto che esse rispondono alle due questio­ ni fondamentali che abbiamo delineato sopra. Specificamente, spiegano per­ ché gli stati perseguono la potenza —ossia hanno qualcosa da dire sulle cause della competizione per la sicurezza —e offrono entrambi una spiegazione della quantità di potere che gli stati ricercano.

Il realism o nella politica in tem azio n ale

Altri eminenti pensatori realisti si propongono di dimostrare che le grandi potenze hanno un profondo interesse per il potere, ma non tentano di spiega­ re perché gli stati competono per ottenerlo o quale sia il livello di potere che gli stati giudicano soddisfacente. In sostanza, forniscono una difesa generale dell’approccio realista ma non offrono una propria teoria della politica inter­ nazionale. Le opere di Carr e del diplomatico americano George Kennan rispondono a questa descrizione. Nel suo fondamentale trattato realista, The Tiventy Years Crisis, Carr critica a fondo il liberalismo e afferma che gli stati sono motivati principalmente da considerazioni di potenza. Eppure, dice poco sul perché gli stati ambiscono alla potenza e su quanto potere vogliono30. Per dirla in soldoni, nel suo libro non c’è teoria. Lo stesso si può dire del ben noto testo di Kennan American Diplomacy, 1900-19503’'. Morgenthau e Waltz, invece, offrono proprie teorie delle relazioni internazionali, ed è per questo che la loro è una presenza dominante nel discorso sulla politica mondiale degli ultimi cinquant’anni. Il realismo della natura umana, noto anche con il nome di «realismo classi­ co», ha dominato lo studio delle relazioni internazionali dalla fine degli anni Quaranta, quando gli scritti di Morgenthau cominciarono a richiamare l’at­ tenzione di un vasto pubblico, fino ai primi anni Settanta32. Esso si fonda sul semplice presupposto che gli stati sono guidati da esseri umani che hanno una innata «volontà di potenza»33. Ossia, gli stati hanno un’insaziabile sete di pote­ re (o, per usare le parole di Morgenthau, «un’illimitata brama di potere»), il che significa che sono alla costante ricerca di occasioni per assumere l’offensi­ va e dominare altri stati34. Poiché tutti gli stati sono dotati di un ,animus domi­ nameli, non c’è senso a discriminare tra stati più e meno aggressivi, e tanto meno dovrebbe esserci spazio nella teoria per potenze dedite allo status quo35. I realisti della natura umana riconoscono che l’anarchia internazionale —l’as­ senza di un’autorità che governi sulle grandi potenze — fa sì che gli stati si preoccupino dell’equilibrio di potenza. Ma questo vincolo strutturale è tratta­ to come determinante di second’ordine del comportamento degli stati. La principale forza trainante nella politica internazionale è la volontà di potenza insita in ogni stato del sistema, che spinge ciascuno di essi a lottare per la supremazia. Il realismo difensivo, che va anche sotto il nome di «realismo strutturale», è entrato in scena nei tardi anni Settanta con la pubblicazione di Theory o f International Politics di Waltz36. A differenza di Morgenthau, Waltz non pre­ suppone che le grandi potenze siano intrinsecamente aggressive in quanto assetate di volontà di potenza, ma parte dall’assunto che gli stati puntino sem­ plicemente a sopravvivere. Più di ogni altra cosa cercano la sicurezza. Ciono­

La logica di potenza

nostante, sostiene che la struttura del sistema intemazionale obbliga le grandi potenze a prestare la massima attenzione all’equilibrio del potere. In particola­ re, l’anarchia costringe gli stati che perseguono la sicurezza a contendersi il potere, perché il potere è il miglior mezzo per sopravvivere. Mentre nella teo­ ria di Morgenthau la natura umana è la causa profonda della competizione per la sicurezza, in quella di Waltz questo ruolo è attribuito all’anarchia37. Waltz però non sottolinea la circostanza che il sistema internazionale forni­ sce alle grandi potenze ottimi motivi per agire aggressivamente allo scopo di guadagnare potere. Egli sembra piuttosto sostenere il contrario: che l’anarchia incoraggi agli stati a comportarsi in modo difensivo e a mantenere anziché alterare l’equilibrio di potenza. «Prima preoccupazione degli stati», scrive, «è conservare la propria posizione nel sistema»38. Si direbbe, come rileva il teori­ co delle relazioni internazionali Randall Schweller, che nella teoria di Waltz sia presente un «pregiudizio a favore dello status quo»39. Waltz riconosce che gli stati hanno incentivo a guadagnare potere a spese dei loro rivali e che è cosa strategicamente sensata agire a tempo opportuno in base a questa motivazione. Ma non approfondisce i dettagli di questa linea di ragionamento. Al contrario, mette in rilievo il fatto che quando le grandi potenze si comportano in modo aggressivo, le vittime potenziali di solito ope­ rano un’azione di riequilibrio contro l’aggressore contrastando i suoi sforzi per guadagnare potere40. Per Waltz, in sintesi, l’azione di bilanciamento dà scacco matto all’aggressione41. Inoltre sottolinea che una grande potenza deve stare attenta a non acquisire troppo potere perché una «eccessiva potenza» tende a indurre altri stati a coalizzarsi contro di lei, mettendola in una condizione peggiore di quella in cui si sarebbe trovata se si fosse astenuta dal cercare mag­ gior potere42. L’ottica di Waltz sulle cause della guerra evidenzia ulteriormente la predile­ zione per lo status quo presente nella teoria. Non vi sono qui cause di conflit­ to profonde o radicate. In particolare, niente suggerisce che si possano ricava­ re benefici sostanziali dalla guerra. In realtà, Waltz dice ben poco sulle cause della guerra, se non affermare che le guerre sono in larga misura frutto di incertezza ed errori di calcolo. In altre parole, se gli stati ragionassero meglio, non scoppierebbero conflitti armati. Robert Jervis, Jack Snyder e Stephen Van Evera appoggiano il discorso dei realisti difensivi concentrando l’attenzione su un concetto strutturale che prende il nome di equilibrio offesa-difesa43. Questi autori affermano che il potere militare può essere classificato a un dato punto del tempo come ten­ denzialmente difensivo o tendenzialmente offensivo. Se la difesa ha un chiaro sopravvento sull’offesa, e quindi l’azione di conquista è difficile, le grandi

Il realism o nella politica in tem azio n ale

potenze avranno scarsi incentivi a impiegare la forza per guadagnare potere e si concentreranno piuttosto sulla protezione di ciò che hanno. Quando la difesa ha il vantaggio, proteggere quanto si ha dovrebbe essere un impegno relativamente facile. Se viceversa è più agevole l’offesa, gli stati saranno forte­ mente tentati di cercare di conquistarsi a vicenda, e il sistema presenterà un alto livello di conflitto. I realisti difensivi sostengono però che il rapporto offe­ sa-difesa è di norma fortemente squilibrato a favore della difesa, rendendo la conquista estremamente difficile44. Insomma, un efficace bilanciamento accoppiato con i vantaggi naturali della difesa sull’offesa dovrebbe scoraggiare le grandi potenze dall’adottare strategie aggressive rendendole invece stati «posizionalisti difensivi»45. La mia teoria del realismo offensivo è anche una teoria strutturale della politica internazionale. Come il realismo difensivo, anche la mia teoria vede le grandi potenze impegnate principalmente a studiare il modo di sopravvivere in un mondo in cui non esiste alcuna agenzia che le protegga l’una dall’altra; esse giungono ben presto alla conclusione che la chiave della sopravvivenza è il potere. Il realismo offensivo diverge dal realismo difensivo sulla questione del­ la quantità di potere che uno stato mira a ottenere. Per i realisti difensivi la struttura internazionale offrirebbe agli stati scarsi incentivi a cercare ulteriori incrementi di potere; li spingerebbe anzi a conservare l’equilibrio di potere esi­ stente. Preservare la potenza, non accrescerla, sarebbe il principale obiettivo degli stati. I realisti offensivi, invece, ritengono che si incontrano raramente nella politica mondiale potenze dedite allo status quo, perché il sistema inter­ nazionale spinge con forza a cercare occasioni per guadagnare potere a spese dei rivali, e ad approfittare di tali occasioni quando i benefìci superano i costi. Il fine ultimo di uno stato è diventare egemone sul sistema46. Dovrebbe risultare evidente che sia nella prospettiva del realismo offensivo sia in quella del realismo della natura umana le grandi potenze sono impegnate nella continua ricerca del potere. La differenza fondamentale tra le due prospet­ tive è che i realisti offensivi respingono l’affermazione di Morgenthau che gli stati sarebbero dotati per natura di personalità di tipo A. Al contrario, i sosteni­ tori del realismo offensivo sono convinti che il sistema internazionale costringe una grande potenza a massimizzare il proprio potere relativo perché questo è il modo ottimale per massimizzare la propria sicurezza. In altri termini, la soprav­ vivenza esige un comportamento aggressivo. Le grandi potenze si comportano aggressivamente non perché vogliano farlo o perché possiedano una pulsione interiore al dominio, ma perché sono costrette a cercare più potere se vogliono massimizzare le probabilità di sopravvivenza. (La Tabella 1.1 sintetizza le rispo­ ste delle principali teorie realiste alle questioni di fondo qui riportate).

La logica di potenza

Tabella 1.1

-

l e p r in c ip a l i t e o r ie r e a list e

Realismo della natura umana

Realismo difensivo

Realismo offensivo

Perché gli stati competono per il potere?

Sete di potere intrinseca agli stati

Struttura del sistema

Struttura del sistema

Quanto potere vogliono gli stati?

Quanto più possibile; stati massimizzano potere relativo con egemonia come fine ultimo

Non molto di più di quanto hanno; stati impegnati a mantenere r equilibrio di potenza

Quanto più possibile; stati massimizzano potere relativo con egemonia come fine ultimo

Nessun articolo o libro sostiene la tesi del realismo offensivo nella maniera sofisticata impiegata da Morgenthau per presentare il realismo della natura umana o da Waltz e altri per esporre il realismo difensivo. Certo, alcuni reali­ sti hanno affermato che il sistema dà alle grandi potenze buoni motivi per agi­ re aggressivamente. Probabilmente la migliore testimonianza a favore del reali­ smo offensivo è un testo, breve e poco noto, scritto durante la prima guerra mondiale da G. Lowes Dickinson, accademico britannico che fu tra i primi sostenitori della Società delle Nazioni47. In The European Anarchy, afferma che responsabile della prima guerra mondiale «non è né la Germania né alcuna altra potenza. Il vero colpevole è l’anarchia europea», che aveva creato potenti incentivi agli stati «per acquisire la supremazia sugli altri per motivi al con­ tempo di sicurezza e di dominio»48. Ciononostante, né Dickinson né altri for­ niscono argomentazioni cogenti in favore del realismo offensivo49. Il mio sco­ po, con questo libro, è colmare tale lacuna.

LA POLITICA DI POTENZA NELL’AMERICA LIBERALE Nonostante i pregi che può avere come strumento di interpretazione della politica del mondo reale e come guida alla formulazione della politica estera, il realismo non è una scuola di pensiero popolare in Occidente. Il messaggio centrale del realismo - che sia sensato che gli stati perseguano egoisticamente la potenza - non riscuote ampie simpatie. E difficile immaginare un moderno leader politico che chieda esplicitamente al pubblico di combattere e morire

Il realism o nella politica in ternazionale

per migliorare l’equilibrio di potenza. Nessun governante europeo o america­ no lo ha fatto durante le due guerre mondiali o durante la guerra fredda. Mol­ ti preferiscono vedere i conflitti tra il proprio stato e gli stati rivali come scon­ tri tra il bene e il male, scontri nei quali loro sono dalla parte degli angeli e gli avversari sono schierati con il demonio. Cosi i leader tendono a dipingere la guerra come una crociata etica o come una contesa ideologica anziché come una lotta per il potere. Il realismo è diffìcile da vendere. Si direbbe che gli americani siano particolarmente poco propensi a pensare in termini di equilibrio di potenza. La retorica dei presidenti del XX secolo, per esempio, è piena di attacchi al realismo. Con Woodrow Wilson si ha probabil­ mente l’esempio più noto di questa tendenza, nella campagna condotta contro la politica dell’equilibrio di potenza durante e immediatamente dopo la prima guerra mondiale50. Ma Wilson non è affatto un caso isolato, e i suoi successori hanno spesso ribadito il suo punto di vista. Negli anni finali della seconda guerra mondiale, per esempio, Franklin Delano Roosevelt dichiarò: «Nel mon­ do del futuro il cattivo uso della forza implicito nell’espressione «politica di potenza» non dovrà più essere il fattore dominante nelle relazioni internaziona­ li»51. Più vicino a noi, Bill Clinton ha esposto una prospettiva assai somigliante a questa, proclamando che «in un mondo in cui la libertà, non la tirannia, avanza, il cinico calcolo della pura politica di potenza semplicemente non è applicabile. E inadeguato alla nuova era»52. Lo stesso tema lo ha esposto soste­ nendo nel 1997 l’allargamento della NATO, affermando che chi denunciava che questa linea politica avrebbe isolato la Russia era guidato dall’erronea con­ vinzione «che la politica territoriale delle grandi potenze del X X secolo domi­ nerà anche il XXI secolo». Invece Clinton si diceva certo e convinto che «l’inte­ resse illuminato, accompagnato da valori condivisi, spingerà i paesi a definire la loro grandezza in modi più costruttivi... obbligandoci a cooperare»53. Perché gli americani non amano il realismo Gli americani tendono a non vedere di buon occhio il realismo perché cozza con i loro valori fondamentali. Il realismo contrasta l’immagine che gli ameri­ cani hanno di se stessi e del mondo esterno54. In particolare, si scontra con il radicato senso di ottimismo e di moralismo che pervade tanta parte della società americana. Il liberalismo invece collima alla perfezione con quei valori. Non sorprende che la linea di politica estera degli Stati Uniti è sembrata spes­ so ricalcare una lezione introduttiva sul liberalismo geopolitico. Gli americani sono sostanzialmente degli ottimisti55. Per loro il progresso in politica, a livello nazionale e internazionale, è qualcosa di auspicabile e pos­

La logica di potenza

sibile. Come tanto tempo fa osservava il pensatore francese Alexis de Tocque­ ville, gli americani sono convinti che «l’uomo sia dotato di una facoltà illimi­ tata di miglioramento»56. Il realismo, viceversa, offre una prospettiva pessimi­ sta sulla politica internazionale. Mostra un mondo saturo di competizioni per la sicurezza e di guerre, e non promette un «rifugio dal male del potere, indi­ pendentemente da come uno si comporti»57. Tale pessimismo è in contrasto con la radicata convinzione americana che con il tempo e l’impegno gli indi­ vidui ragionevoli possano cooperando risolvere importanti problemi sociali58. Il liberalismo offre una prospettiva più ottimista della politica mondiale, e gli americani la trovano naturalmente più attraente dello spettro sinistro disegna­ to dal realismo. Gli americani sono anche portati a credere che la morale svolga un ruolo importante nella politica. Come scrive l’eminente sociologo Seymour Martin Lipset: «Gli americani sono dei moralisti utopici che ce la mettono tutta per istituzionalizzare la virtù, distruggere gli empi ed eliminare istituzioni e prati­ che malvage»59. Questo punto di vista si scontra con la convinzione realista che la guerra è un elemento intrinseco alla vita del sistema internazionale. La mag­ gioranza degli americani tende a vedere la guerra come un’impresa orrenda che dovrà prima o poi essere cancellata dalla faccia della terra. Ricorrervi potrà essere lecito per elevati scopi liberali come combattere la tirannia o diffondere la democrazia, ma è moralmente sbagliato combattere una guerra solo per cambiare o conservare l’equilibrio di potenza. Questo rende l’idea clausewitziana dell’arte della guerra un anatema agli occhi di molti americani60. L’inclinazione moraleggiante degli americani urta inoltre con il fatto che i realisti tendono a non distinguere tra stati buoni e cattivi, differenziando piut­ tosto gli stati in base alle capacità di potenza relative. L’interpretazione realista pura della guerra fredda, per esempio, non riconosce differenze significative alle motivazioni che stavano alla base del comportamento degli americani e dei sovietici durante il conflitto. Secondo la teoria realista, ambo le parti erano spinte da considerazioni di equilibrio di potenza, e ciascuna di esse faceva il possibile per massimizzare il proprio potere relativo. Molti americani si ritrar­ rebbero inorriditi davanti a questa interpretazione della guerra fredda, convin­ ti come sono che gli Stati Uniti erano motivati da buone intenzioni e l’Unio­ ne Sovietica no. I teorici liberali, si sa, distinguono tra stati buoni e stati cattivi, e di norma classificano come i più degni le democrazie liberali dotate di economie di mercato. Non sorprende che gli americani tendano a fare propria questa pro­ spettiva, perché presenta gli Stati Uniti come una forza benigna nella politica mondiale e raffigura i loro rivali, reali o potenziali, come facinorosi mal guida­

Il realism o nella p o litica in ternazionale

ti o in malafede. Com’era prevedibile, questa linea di pensiero ha alimentato l’euforia che ha accompagnato la caduta dell’Unione Sovietica alla fine della guerra fredda. Quando l’«impero del male» è crollato, molti americani (e mol­ ti europei) hanno concluso che la democrazia sarebbe dilagata in tutto il pia­ neta e che nel mondo presto sarebbe scoppiata la pace. Questo ottimismo si basava in gran parte sulla convinzione che l’America democratica sia uno sta­ to virtuoso. Se altri stati emulano gli Stati Uniti, allora il mondo sarà popola­ to da stati buoni, e questa piega degli eventi non può significare altro che la fine dei conflitti internazionali. Retorica vs. pratica Dato che agli americani la realpolitik non piace, il discorso pubblico sulla politica estera statunitense viene di solito espresso nel linguaggio del liberali­ smo. Per questo i pronunciamenti delle élite politiche grondano ottimismo e moralismo. Gli accademici americani sono particolarmente abili nel promuo­ vere il pensiero liberale sul mercato delle idee. Ma a porte chiuse le élite che danno forma alla politica di sicurezza nazionale parlano la lingua della poten­ za, non quella dei principi, e gli Stati Uniti si muovono nel sistema interna­ zionale secondo i dettami della logica realista61. In sostanza, si percepisce una netta separazione tra la retorica pubblica e la conduzione concreta della politi­ ca estera americana. Eminenti realisti hanno spesso accusato la diplomazia USA di essere trop­ po idealista, lamentando che i leader americani non presterebbero sufficiente attenzione all’equilibrio di potenza. Scriveva per esempio Kennan nel 1951: «A mio parere il difetto più grave nella formulazione della nostra passata linea politica sta in quello che definirei un approccio moralistico-legalitario ai pro­ blemi internazionali. Questo approccio corre come una linea rossa lungo tutta la nostra politica estera degli ultimi cinquantanni»62. Secondo questa tesi, non esiste una vera e propria frattura tra la retorica liberale dell’America e il suo comportamento in politica estera, perché gli Stati Uniti razzolerebbero come predicano. Ma questa è un’affermazione sbagliata, come argomenterò a fondo più avanti. La politica estera americana è stata quasi sempre guidata da una logica realista, anche se le dichiarazioni pubbliche dei presidenti possono far pensare altrimenti. Dovrebbe risultare evidente all’osservatore attento che gli Stati Uniti parla­ no in un modo e agiscono in un altro. In effetti, questo aspetto della politica estera americana è sempre stato rilevato dai leader di altri paesi. Già nel 1939, per esempio, Carr rilevava come tra gli stati del continente europeo era diffu­

La logica di potenza

sa l’immagine dei popoli di lingua inglese come «maestri nell’arte di amman­ tare di bene generale i propri egoistici interessi nazionali», aggiungendo che «questa forma di ipocrisia è una peculiarità specifica e caratteristica della men­ talità anglosassone»63. Eppure, la distanza tra retorica e realtà di solito passa inosservata negli Stati Uniti. È un fenomeno che si spiega considerando due fattori. Primo, le politiche realiste talvolta coincidono con i dettami del liberalismo, nel qual caso non c’è conflitto tra il perseguimento della potenza e quello dei principi. In queste circostanze le politiche realiste possono essere giustificate con la retorica liberale senza mettere in discussione le soggiacenti realtà di potere. Quando c’è questa coincidenza, la politica estera si vende senza difficoltà. Per esempio, gli Stati Uniti hanno combattuto il fascismo nella seconda guerra mondiale e il comuniSmo nella guerra fredda per ragioni largamente realiste. Ma entrambi i conflitti erano giustificabili anche secondo principi liberali, e per questo i politici non ebbero difficoltà a smerciarli al pubblico come con­ flitti ideologici. Secondo, quando considerazioni di potenza costringono gli Stati Uniti a operare secondo una linea che contrasta con i principi liberali, ecco che com­ paiono gli imbonitori a raccontare la storia in modo che combaci con gli idea­ li liberali64. Per esempio, alla fine del XIX secolo, le élite americane in genera­ le ritenevano quello tedesco uno stato costituzionale progressista degno di essere emulato. Ma l’opinione americana della Germania cambiò con il dete­ riorarsi delle relazioni tra i due stati, nel decennio precedente la prima guerra mondiale. Quando nell’aprile 1917 gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania, gli americani ormai vedevano la Germania come uno stato più autocratico e militarista dei suoi rivali europei. Analogamente, sul finire degli anni Trenta, molti americani consideravano l’Unione Sovietica uno stato malvagio, anche per la sanguinaria politica inter­ na di Stalin e la sua notoria alleanza con la Germania nazista dell’agosto 1939. Ciononostante, quando nel 1941 gli Stati Uniti unirono le loro forze a quelle dell’Unione Sovietica per combattere il Terzo Reich, il governo USA lanciò una massiccia campagna di pubbliche relazioni per ripulire l’immagine del nuovo alleato dell’America e renderlo compatibile con gli ideali liberali. L’U­ nione Sovietica veniva ora raffigurata come una protodemocrazia, e Stalin divenne Uncle Joe. Com’è possibile non perdere la faccia in questa contraddizione tra retorica e politica? La maggioranza degli americani accetta di buon grado queste razio­ nalizzazioni perché il liberalismo è profondamente radicato nella loro cultura. Di conseguenza non hanno difficoltà a convincersi che si stanno comportan­

Il realism o nella politica in ternazionale

do secondo meritori principi anziché in base a fredde e calcolate considerazio­ ni di potenza65.

IL PIANO D EL LIBRO I restanti capitoli di questo libro si propongono principalmente di rispondere alle sei grandi domande sul potere e la potenza che ho esposto in precedenza. II Capitolo 2, probabilmente il più importante di tutto il libro, espone la mia teoria delle ragioni per cui gli stati si contendono il potere e per cui perseguo­ no l’egemonia. Nei Capitoli 3 e 4 definisco il potere e spiego come si misura. Lo faccio allo scopo di porre le basi di un banco di prova della teoria. E impossibile determinare se gli stati si sono comportati in base ai dettami del realismo offensivo senza sapere cosa sia la potenza e quali diverse strategie vengano adottate dagli stati per massimizzare la loro quota di potere mondiale. Come punto di partenza spiego la distinzione tra potere potenziale e potere militare effettivo, per poi sostenere che gli stati sono profondamente interessati a entrambe le forme. Il Capitolo 3 si concentra sul potere potenziale, che riguarda principalmente la dimensione della popolazione di uno stato e la sua ricchezza. Il Capitolo 4 tratta del potere militare effettivo. È un capitolo parti­ colarmente esteso perché introduco gli argomenti relativi a «il primato della potenza terrestre» e a «il potere frenante dell’acqua»: concetti nuovi che potrebbero suscitare controversie. Nel Capitolo 5 esamino le strategie che le grandi potenze adottano per guadagnare e conservare potere. Questo capitolo comprende una corposa disa­ mina dell’utilità della guerra per acquisire potere. Mi concentro anche sulle due principali strategie - bilanciamento e scaricabarile —adottate dagli stati che si trovano di fronte a un rivale che minaccia di sconvolgere l’equilibrio di potenza. Nei Capitoli 6 e 7 analizzo i precedenti storici per vedere se vi siano prove a sostegno della mia teoria. Specificamente, metto a confronto la condotta delle grandi potenze dal 1792 al 1990 per verificare se il loro comportamento si conforma alle predizioni del realismo offensivo. Nel Capitolo 8 espongo una semplice teoria che spiega in quali circostanze le grandi potenze svolgano azioni di riequilibrio e in quali scarichino su altri tale responsabilità, quindi verifico la teoria testandola sui precedenti storici. Il Capitolo 9 tratta delle cause della guerra. Anche qui propongo una semplice teoria e poi la metto alla prova dei dati empirici.

La logica di potenza

Il Capitolo 10 contesta la diffusa affermazione che la politica internaziona­ le si sarebbe radicalmente trasformata con la fine della guerra fredda, e che le grandi potenze non sarebbero più in competizione per il potere. Dopo un bre­ ve excursus delle teorie su cui si fonda questa prospettiva ottimista, esamino il comportamento delle grandi potenze in Europa e in Asia Orientale tra il 1991 e il 2000. Infine, esprimo le mie previsioni sulla probabilità di conflitti alfinizio del XXI secolo tra le grandi potenze in queste due importanti regioni.

Capitolo secondo

ANARCHIA E LOTTA PER IL POTERE MONDIALE

Le grandi potenze, come intendo dimostrare, sono sempre alla ricerca di opportunità per aumentare il proprio potere a spese delle potenze rivali, aven­ do come fine ultimo il raggiungimento dell’egemonia. Questa prospettiva non prevede l’esistenza di potenze da status quo, a eccezione di quel raro stato che riesca a ottenere il dominio assoluto. Il sistema è popolato invece da grandi potenze che nel profondo nutrono intenzioni revisioniste1. La teoria presenta­ ta in questo capitolo spiega tale competizione per il potere mondiale. Specifi­ camente voglio dimostrare che vi è una logica stringente dietro la mia tesi che le grandi potenze cercano di massimizzare la propria quota di potere mondia­ le. Non è però in questo capitolo che testo il realismo offensivo sulla base del­ l’evidenza storica. Questo importante compito è rimandato ai capitoli succes­ sivi.

PERCHÉ GLI STATI PERSEGUO NO LA POTENZA La mia spiegazione sul perché le grandi potenze si contendono il potere e lot­ tano per l’egemonia poggia su cinque presupposti riguardanti il sistema inter­ nazionale. Nessuno di questi presupposti preso singolarmente impone che gli stati si comportino in maniera competitiva. Insieme, però, prospettano un mondo in cui gli stati hanno ottime ragioni per pensare, e talvolta agire, aggressivamente. In particolare, il sistema incoraggia gli stati a cogliere ogni occasione per massimizzare il proprio potere rispetto ad altri stati. Quanto è importante che questi presupposti siano realistici? Alcuni scien­ ziati sociali affermano che gli assunti su cui si fonda una teoria non devono necessariamente conformarsi alla realtà. L’economista Milton Friedman sostie-

La logica di potenza

ne anzi che le migliori teorie «rivelano presupposti che quali rappresentazioni descrittive della realtà sono assai imprecisi e, in generale, più significativa è la teoria, più irrealistici sono i presupposti»1. Secondo questo punto di vista, l’u­ nica cosa che conta è la solidità esplicativa di una teoria. Se una teoria ci dice molto su come funziona il mondo, non ha la minima importanza che i pre­ supposti che la sorreggono siano realistici o meno. È una posizione che rifiuto. Anche se sono d’accordo sul fatto che la forza esplicativa è il criterio ultimo in base al quale si valuta una teoria, credo anche che una teoria basata su assunti irrealistici o falsi non possa spiegare molto dei meccanismi del mondo3. Una solida teoria si fonda su presupposti solidi. Di conseguenza, ciascuna di queste cinque proposizioni è una rappresentazione ragionevolmente accurata di un importante aspetto della vita nel sistema internazionale. Le cinque proposizioni fondamentali La prima proposizione è che il sistema internazionale è anarchico: il che è diverso dal dire caotico o caratterizzato dal disordine. Sarebbe facile giungere a questa conclusione perché il realismo dipinge un mondo in competizione per la guerra e per la sicurezza. In sé, però, il concetto realista di anarchia nulla ha a che vedere con il conflitto; è un principio ordinatore, che dice che il sistema è costituito da stati indipendenti al di sopra dei quali non c’è un’autorità cen­ trale4. La sovranità, in altre parole, è inerente agli stati perché nel sistema internazionale non esiste un organismo superiore di governo5. Non c’è «gover­ no sui governi»6. Il secondo assunto è che le grandi potenze possiedono per definizione una qualche capacità militare offensiva, che conferisce loro gli strumenti per dan­ neggiarsi ed eventualmente distruggersi a vicenda. Gli stati sono potenzial­ mente pericolosi gli uni per gli altri; alcuni di essi hanno maggior forza mili­ tare di altri e sono quindi più pericolosi. La potenza militare di uno stato si identifica di norma con il particolare armamentario bellico di cui esso dispo­ ne, ma anche se non vi fossero armi gli individui di quegli stati potrebbero comunque usare mani e piedi per aggredire la popolazione di un altro stato. Dopotutto, per ogni gola ci sono due mani che possono stringerla. Il terzo presupposto è che uno stato non può mai essere sicuro di conosce­ re pienamente le intenzioni di un altro stato. Specificamente, nessuno stato può essere certo che un altro stato non userà le proprie capacità militari offen­ sive per attaccarlo. Ciò non vuol dire che gli stati abbiano necessariamente intenzioni ostili. Anzi, tutti gli stati del sistema potrebbero essere ben disposti,

A n arch ia e lotta per il potere m ondiale

ma è impossibile essere certi della giustezza di questa valutazione perché le intenzioni altrui non si possono mai prevedere con una certezza del cento per cento7. Le possibili cause di aggressione sono molte, e nessuno stato può dirsi certo che un altro stato non sia motivato da una di esse8. Inoltre, le intenzioni possono mutare in fretta, per cui le intenzioni di uno stato possono essere benevole un giorno e ostili il giorno dopo. L’incertezza sulle intenzioni è ine­ vitabile, il che significa che uno stato non può mai essere sicuro che le capa­ cità militari di un altro stato non si accompagnino a intenzioni ostili. Il quarto assunto dice che la sopravvivenza è lo scopo principe delle grandi potenze. Specificamente, gli stati cercano di conservare la propria integrità ter­ ritoriale e l’autonomia del proprio ordine politico interno. La sopravvivenza domina sulle altre motivazioni perché uno stato, una volta conquistato, diffi­ cilmente sarà in condizione di perseguire altri obiettivi. Le parole pronunciate dal leader sovietico Josif Stalin nel 1927, mentre il paese era isolato e minac­ ciato di guerra, illustrano bene il punto: «Possiamo e dobbiamo costruire il socialismo. Ma prima dobbiamo sopravvivere»9. Gli stati possono e devono perseguire altre mete, s’intende, ma la sicurezza è l’obiettivo più importante. La quinta proposizione è che le grandi potenze sono attori razionali. Sono consapevoli dell’ambiente circostante e pensano strategicamente a come meglio sopravvivervi. In particolare, studiano le preferenze degli altri stati e come il proprio comportamento può influire sulla condotta di essi, e come il comportamento di questi altri stati può influire sulla loro strategia di soprav­ vivenza. Inoltre gli stati prestano attenzione al lungo termine oltre che alle immediate conseguenze delle loro azioni. Come si è detto, nessuno di questi assunti isolatamente preso impone che di regola le grandi potenze debbano assumere un comportamento reciproca­ mente aggressivo. Esiste sicuramente la possibilità che qualche stato abbia intenzioni ostili, ma il solo presupposto che postula una motivazione comune a tutti gli stati dice che il loro obiettivo principale è la sopravvivenza, un’aspi­ razione di per sé piuttosto inoffensiva. Ma quando si combinano, le cinque proposizioni creano potenti incentivi perché le grandi potenze pensino e agi­ scano aggressivamente le une con le altre. In particolare, ne risultano tre modelli generali di comportamento: timore, autotutela e massimizzazione del potere. Comportamenti di stato Le grandi potenze hanno paura l’una dell’altra. Si guardano con sospetto, paventano sempre una guerra all’orizzonte. Presentiscono il pericolo. Non c’è

La logica di potenza

molto spazio per la fiducia tra stati. Certo, il livello di timore varia nel tempo e nello spazio, ma non può essere azzerato. Dal punto di vista di una grande potenza, tutte le altre sono potenziali nemiche. Un esempio di ciò si può vedere nella reazione del Regno Unito e della Francia alla riunificazione tede­ sca alla fine della guerra fredda. Benché questi tre stati fossero stretti alleati da quasi quarantacinque anni, Regno Unito e Francia cominciarono immediata­ mente a preoccuparsi dei potenziali pericoli di una Germania unita10. La base di questo timore sta nel fatto che in un mondo in cui le grandi potenze hanno la capacità militare di attaccarsi a vicenda, e possono avere motivo di farlo, ogni stato che vuole la sopravvivenza dev’essere come minimo sospettoso nei confronti degli altri stati e poco disposto a fidarsi. Si aggiunga il problema dell’assenza di un «113» internazionale —un’autorità centrale a cui uno stato minacciato possa rivolgersi per aiuto —e gli stati avranno ancor più incentivo a temersi a vicenda. Inoltre non esiste alcun meccanismo, al di là dell’intervento interessato di terze parti, per punire un aggressore. Poiché a volte è difficile scoraggiare i potenziali aggressori, gli stati hanno ogni ragione per non fidarsi l’uno dell’altro e per prepararsi alla guerra. Le possibili conseguenze del cadere vittima di un’aggressione amplificano ulteriormente l’importanza della paura come primus movens della politica mondiale. Le grandi potenze non sarebbero in competizione tra loro se la politica internazionale fosse soltanto un mercato di scambi economici. La competizione politica tra stati è un business molto più rischioso dei semplici rapporti commerciali; essa può portare alla guerra, e la guerra spesso significa morte su vasta scala nei campi di battaglia così come sterminio di civili. Nei casi estremi, la guerra può addirittura portare alla distruzione di interi stati. Le spaventose conseguenze della guerra fanno talvolta sì che gli stati si vedano non soltanto come concorrenti ma come nemici potenzialmente mortali. L’antagonismo politico, in breve, tende a essere intenso perché la posta in gio­ co è alta. Gli stati nel sistema internazionale mirano anche a garantire la propria sopravvivenza. Poiché altri stati costituiscono una potenziale minaccia, e poi­ ché non esiste un’autorità superiore capace di giungere in soccorso su richiesta con un’operazione di pronto intervento, uno stato non può dipendere da altri per la propria sicurezza. Ogni stato tende a vedersi solo e vulnerabile, e quin­ di fa di tutto per provvedere da sé alla propria sopravvivenza. In politica inter­ nazionale, chi fa da sé fa per tre. L’importanza dell’autotutela non impedisce però agli stati di formare alleanze11. Ma le alleanze sono solo temporanei matrimoni di convenienza: l’alleato di oggi potrebbe essere il nemico di domani, e il nemico di oggi l’alleato di domani. Per esempio, nella seconda

A n archia e lotta per il potere m ondiale

guerra mondiale gli Stati Uniti combatterono al fianco della Cina e dell’Unio­ ne Sovietica contro la Germania e il Giappone, ma subito dopo, nella guerra fredda, scambiarono nemici e partner, alleandosi con la Germania Occidenta­ le e il Giappone contro la Cina e l’Unione Sovietica. Gli stati che operano secondo il principio dell’autotutela agiscono quasi sempre nel proprio interesse e non subordinano i propri interessi né a quelli di altri stati né a quelli della cosiddetta comunità internazionale. La ragione è semplice: in un mondo in cui tutti si fanno i propri interessi, l’egoismo paga. Questo vale sia nel breve sia nel lungo periodo, perché se uno stato perde nel breve, potrebbe non essere più in giro a contemplare il lungo periodo. Preoccupati delle vere intenzioni ultime degli altri stati, e consapevoli di operare in un mondo basato sull’autodifesa, gli stati capiscono in fretta che il modo più sicuro per assicurarsi la sopravvivenza è diventare il più potente sta­ to del sistema. Quanto più forte è uno stato rispetto ai suoi potenziali rivali, minori saranno le probabilità che uno di questi lo attacchi mettendone a repentaglio la sopravvivenza. Gli stati deboli saranno riluttanti ad attaccare briga con gli stati potenti perché rischiano la disfatta militare. Anzi, maggiore è il divario di potenza tra due stati, meno probabile sarà che il più debole attacchi il più forte. Né il Canada né il Messico, per esempio, penserebbero mai di attaccare gli Stati Uniti, che sono di gran lunga più potenti dei loro vicini. La condizione ideale è essere l’egemone del sistema. Come dice Imma­ nuel Kant: «E desiderio di ogni stato, o del suo monarca, addivenire a una condizione di pace perpetua conquistando l’intero mondo, se questo fosse possibile»12. La sopravvivenza sarebbe allora praticamente garantita13. Di conseguenza, gli stati dedicano grande attenzione alla distribuzione del potere tra di essi, e compiono uno sforzo speciale per massimizzare la loro quota di potere mondiale. In particolare, tengono d’occhio le opportunità di alterare l’equilibrio di potenza tramite l’acquisizione di incrementi aggiuntivi di potere a spese dei potenziali rivali. Gli stati adottano una varietà di mezzi — economici, diplomatici e militari —per spostare in loro favore l’equilibrio di potenza, anche se così facendo suscitano il sospetto o anche l’ostilità di altri stati. Poiché in situazioni di potere, al guadagno di uno stato corrisponde la perdita di un altro, le grandi potenze tendono ad avere una mentalità da som­ ma zero nelle loro relazioni. Il trucco, naturalmente, è riuscire a essere il vinci­ tore in questa competizione e dominare gli altri stati del sistema. Così, dire che gli stati massimizzano il potere relativo equivale ad affermare che gli stati sono portati a pensare aggressivamente nei confronti di altri stati, anche se il loro fine ultimo è semplicemente la sopravvivenza. In breve, le grandi potenze hanno sempre intenzioni aggressive14.

La logica di potenza

Anche quando raggiunge un netto margine di vantaggio militare sui suoi rivali, una grande potenza continua a cercare ogni occasione per guadagnare più potere. Il perseguimento del potere cessa solo quando viene conseguita l’e­ gemonia. L’idea che una grande potenza possa sentirsi sicura senza dominare il sistema, purché disponga di una «adeguata quantità» di potere, non convince, e per due motivi15. Primo, è difficile valutare quanto potere relativo uno stato debba avere rispetto ai suoi rivali per potersi dire sicuro. Il doppio del potere altrui è una soglia adeguata? O forse il multiplo magico è di averne almeno il triplo? La radice del problema è che i calcoli di potere da soli non determina­ no quale parte vincerà una guerra. Una strategia intelligente, per esempio, tal­ volta permette a stati meno potenti di sconfiggere nemici più potenti. Secondo, determinare la quantità di potere sufficiente diventa ancora più complesso quando le grandi potenze si mettono nell’ottica di considerare la distribuzione relativa del potere a una distanza futura di dieci o vent’anni. Le capacità militari dei singoli stati variano nel tempo, talvolta in maniera cospicua, e spesso è difficile prevedere la direzione e la portata della variazio­ ne nell’equilibrio di potenza. Si ricordi che pochi in Occidente seppero pre­ vedere il crollo dell’Unione Sovietica prima che questo si verificasse. Anzi, durante la prima metà della guerra fredda molti in Occidente temevano che l’economia sovietica avrebbe finito per generare maggiore ricchezza dell’eco­ nomia americana, il che avrebbe provocato un notevole spostamento di potere a sfavore degli Stati Uniti e dei loro alleati. Che cos’ha in serbo il futuro per Cina e Russia o che aspetto avrà l’equilibrio di potenza nel 2020 è difficile prevederlo. Data la difficoltà di determinare l’ammontare di potere che può ritenersi sufficiente per oggi e per domani, le grandi potenze concludono che il modo migliore per garantirsi la sicurezza è conquistare subito l’egemonia, eliminan­ do così ogni possibilità di sfida da parte di un’altra grande potenza. Solo uno stato mal diretto si lascerebbe sfuggire l’occasione di diventare l’egemone di un sistema perché ritiene di avere già una quantità di potere adeguata alla sopravvivenza16. Ma anche se non ha i mezzi per conseguire l’egemonia (e di solito non li ha), una grande potenza continuerà ad agire aggressivamente per accumulare quanto più potere possibile, perché gli stati si trovano quasi sem­ pre in condizioni migliori con più che con meno potere. In breve, gli stati non diventano potenze di status quo finché non arrivano a dominare compietamente il sistema. Tutti gli stati sono condizionati da questa logica, il che vuol dire che non solo cercano ogni opportunità per approfittare l’uno dell’altro, ma operano anche perché altri stati non si approfittino di loro. In fin dei conti, stati rivali

A n archia e lotta per il potere m ondiale

sono spinti dalla stessa logica, e molti riconosceranno che le azioni degli altri stati sono mosse da motivazioni identiche alle proprie. In sintesi, gli stati in ultima analisi prestano attenzione alla difesa non meno che all’offesa. Pensano a conquistare e lavorano per evitare che stati aggressori guadagnino potere a loro spese. Questo si traduce inesorabilmente in un mondo in costante com­ petizione per la sicurezza, dove gli stati sono pronti a mentire, ingannare e ricorrere alla forza bruta se questo li aiuta a guadagnare un vantaggio sui riva­ li. La pace, se la si definisce come stato di quiete o di mutua concordia, non ha molte probabilità di insediarsi in questo mondo. Il «dilemma della sicurezza», uno dei concetti più noti nella letteratura sul­ le relazioni internazionali, riflette la logica di base del realismo offensivo. La sostanza del dilemma è che le misure assunte da uno stato per aumentare la propria sicurezza di norma riducono la sicurezza altrui. E quindi difficile per uno stato accrescere le proprie chance di sopravvivenza senza minare la sicu­ rezza di altri stati. John Herz fu il primo a esporre il dilemma della sicurezza in un articolo del 1950 pubblicato su World Politics'1. Dopo aver delineato la natura anarchica della politica internazionale, egli scrive: «Nello sforzo di garantirsi la sicurezza dagli attacchi, [gli stati] sono portati ad acquisire sempre più potere per sottrarsi all’impatto del potere altrui. Ciò, a sua volta, rende gli altri più insicuri e li spinge a prepararsi al peggio. Poiché nessuno può mai sentirsi totalmente al sicuro in un mondo fatto di unità in concorrenza tra loro, ne segue la competizione per il potere e si instaura il circolo vizioso fra sicurezza e potenza»18. L’implicazione dell’analisi di Herz è chiara: il modo migliore che uno stato ha di sopravvivere nell’anarchia è approfittare di altri stati e guadagnare potere a loro spese. La miglior difesa è un buon attacco. Dato che questo è un messaggio ampiamente recepito, ne segue un’incessante competizione per la sicurezza. Purtroppo, nella misura in cui gli stati operano in condizione di anarchia, si può fare ben poco per mitigare gli effetti collate­ rali del dilemma della sicurezza. Dovrebbe risultare evidente da questa esposizione che con l’affermazione che gli stati tendono a massimizzare il potere si intende che essi sono interes­ sati al potere relativo, non a quello assoluto. La distinzione è importante, per­ ché gli stati che mirano al potere relativo si comportano in modo diverso da quelli che cercano il potere assoluto19. Gli stati che massimizzano il potere relativo sono interessati soprattutto alla distribuzione delle capacità materiali. In particolare, cercano di assicurarsi il maggior margine possibile di potere sui potenziali rivali, perché la potenza è il mezzo più efficace per sopravvivere in un mondo pieno di pericoli. Così, gli stati mossi da considerazioni di potere relativo possono al limite rinunciare a forti incrementi assoluti - in caso tali

La logica di potenza

incrementi diano agli stati rivali un potere ancora maggiore —in cambio di vantaggi nazionali meno consistenti che però si traducono in un maggior mar­ gine di potere rispetto ai rivali20. Gli stati che massimizzano il potere assoluto, invece, guardano solo all’entità dei propri guadagni, non a quelli altrui. Non sono motivati dalla logica deH’equilibrio di potenza, mirano piuttosto ad accumulare potere senza badare all’entità del potere controllato da altri stati. Colgono al volo ogni opportunità di forti guadagni di potere, anche se ciò dovesse procurare vantaggi ancora maggiori a un rivale. Il potere, secondo questa logica, non è un mezzo per raggiungere un fine, la sopravvivenza, ma un fine in sé21. Aggressione calcolata In un mondo in cui gli stati sono portati a cogliere ogni occasione per guada­ gnare più potere c’è evidentemente poco spazio per potenze schierate in difesa dello status quo. Eppure, le grandi potenze non possono agire sempre in base alle proprie intenzioni offensive, perché il loro comportamento è influenzato non solo da ciò che vogliono ma anche dalla capacità di realizzare i propri desideri. Ogni stato potrà anche desiderare di dominare su tutti gli altri, ma non tutti hanno i mezzi non dico per assicurarsi la agognata posizione, ma anche solo per partecipare alla gara. Molto dipende dalla distribuzione della forza militare tra le grandi potenze. Una grande potenza che ha un consisten­ te margine di potere sui suoi rivali è più facile che si comporti aggressivamen­ te, perché ha la capacità oltre che l’incentivo per farlo. Viceversa, le grandi potenze che si trovano di fronte ad avversari potenti saranno meno portate a optare per l’azione offensiva e più preoccupate a difendere l’equilibrio di potere esistente dalle minacce portate da avversari più potenti. Tuttavia, non appena agli stati più deboli si presentasse l’occasione di alterare l’equilibrio a proprio favore, essi non se la lascerebbero sfuggire. Stalin sottolineò bene questo punto alla fine della seconda guerra mondiale: «Ognu­ no impone il proprio sistema fino a dove arriva il suo esercito. Non può esse­ re altrimenti»22. Uno stato può anche avere la capacità militare di assicurarsi un margine di vantaggio su una potenza rivale ma decidere ugualmente che i costi dell’offesa sono troppo alti e non giustificano i vantaggi previsti. In breve, le grandi potenze non sono aggressori scriteriati, così attirati dal guadagno di potere da gettarsi a capofitto in guerre perdenti o in vittorie di Pirro. Al contrario, prima di decidersi a un’azione aggressiva, le grandi poten­ ze riflettono attentamente sull’equilibrio di potere esistente e sulle probabili reazioni di altri stati. Mettono su un piatto della bilancia i costi e i rischi del­ l’aggressione, e sull’altro i probabili benefici. Se i vantaggi non superano i

A n archia e lotta per il potere m ondiale

rischi, se ne stanno tranquille e aspettano un momento più propizio. Né gli stati si lanciano in corse agli armamenti che hanno scarse probabilità di migliorarne la posizione complessiva. Come si vedrà nel Capitolo 3, talvolta essi limitano le spese per la difesa perché spendere di più non darebbe alcun vantaggio strategico oppure indebolirebbe l’economia e quindi, nel lungo periodo, la potenza dello stato23. Per parafrasare Clint Eastwood, uno stato deve conoscere i suoi limiti, se vuole sopravvivere nel sistema internazionale. Ciononostante, capita che di tanto in tanto le grandi potenze sbaglino i calcoli perché devono sempre e fatalmente prendere decisioni importanti in condizioni di informazione imperfetta. Gli stati non hanno quasi mai infor­ mazione completa su ogni situazione che devono affrontare. Ci sono due dimensioni del problema. I potenziali avversari hanno un incentivo a rappre­ sentare in modo fuorviante la propria forza o debolezza e a nascondere i pro­ pri veri obiettivi24. Per esempio, uno stato più debole che cerchi di scoraggiare uno più forte potrà fornire un’immagine esagerata della propria forza tale da sconsigliare un attacco al potenziale aggressore. Viceversa, uno stato incline all’aggressione darà enfasi ai propri obiettivi pacifici esagerando al tempo stes­ so la propria debolezza militare, così che la vittima potenziale non rafforzi gli armamenti e resti vulnerabile in caso di attacco. Probabilmente nessun capo di stato è stato più abile di Adolf Hitler nel trasmettere questa distorsione della realtà. Ma anche se non ci fosse il problema della disinformazione, spesso le gran­ di potenze non sanno con sicurezza come si comporteranno le proprie forze sul campo di battaglia, così come quelle dell’avversario. Per esempio, a volte è difficile determinare in anticipo l’efficacia, sotto il fuoco nemico, di nuove armi o di unità di combattimento mai collaudate. Le manovre in tempo di pace e i war games sono indicatori utili ma imperfetti di ciò che potrebbe avvenire in un vero scontro armato. Combattere una guerra è una faccenda complessa di cui spesso è difficile prevedere l’esito. Ricordiamo che se all’ini­ zio del 1991 gli Stati Uniti e i loro alleati hanno conseguito una vittoria stu­ pefacente e notevolmente facile contro l’Iraq, la maggioranza degli esperti alla vigilia riteneva che l’apparato militare iracheno avrebbe costituito un avversa­ rio temibile tale da opporre una tenace resistenza prima di soccombere alla potenza bellica americana25. Talvolta le grandi potenze sono incerte sulla determinazione degli stati avversari quanto su quella degli alleati. Per esempio, la Germania era convinta che se fosse scesa in guerra contro Francia e Russia nell’estate del 1914, il Regno Unito sarebbe probabilmente rimasto fuori dal conflitto. Saddam Hus­ sein prevedeva che gli Stati Uniti si sarebbero tenuti in disparte quando nell’a­

La logica di potenza

gosto del 1990 invase il Kuwait. Entrambe le previsioni si sono rivelate errate, ma ciascuno dei due aggressori aveva buoni motivi per credere nella correttez­ za della propria valutazione iniziale. Negli anni Trenta, Adolf Hitler pensava che le grandi potenze sue rivali sarebbero state facili da sfruttare e isolare per­ ché ognuna di esse aveva scarso interesse a combattere la Germania ed era invece determinata a indurre qualcun altro ad assumersene l’onere. Aveva visto giusto. In sintesi, le grandi potenze si trovano costantemente ad affronta­ re situazioni in cui devono prendere decisioni importanti disponendo di informazioni incomplete. Non sorprende che talvolta formulino giudizi sba­ gliati finendo per procurarsi seri danni. Tra i realisti difensivi c’è chi arriva ad affermare che i vincoli del sistema internazionale sarebbero così ferrei che l’offesa raramente ha successo e che le grandi potenze aggressive finiscono invariabilmente per essere punite26. Come già detto, questi studiosi sottolineano che: 1) stati minacciati si coalizzano in risposta agli aggressori e alla fine li battono; 2) esiste un equilibrio tra offesa e difesa che di norma è pesantemente spostato in favore della difesa, il che ren­ de la conquista particolarmente difficile. Le grandi potenze, quindi, dovrebbe­ ro accontentarsi dell’equilibrio di potere esistente, senza cercare di alterarlo con la forza. Dopotutto, non ha molto senso per uno stato iniziare una guerra che probabilmente perderà; sarebbe un comportamento autolesionista. Meglio concentrarsi piuttosto sul mantenimento dell’equilibrio di potenza27. Inoltre, poiché gli aggressori raramente hanno successo, gli stati si renderebbero conto che la sicurezza è un bene abbondante e che quindi ab initio non ci sono buo­ ne ragioni per desiderare più potere. In un mondo in cui la conquista rara­ mente paga, gli stati avrebbero intenzioni reciproche relativamente benevole. Se così non avviene, sostengono questi realisti difensivi, la ragione sta proba­ bilmente nella velenosità della politica interna, più che in accorti calcoli su come garantirsi la sicurezza in un mondo anarchico. Non c’è dubbio che esistono fattori sistemici che contrastano l’aggressione, soprattutto l’effetto di riequilibrio a opera degli stati minacciati. Ma i realisti difensivi esagerano l’importanza di queste forze limitanti28. In realtà, la storia offre scarso supporto all’affermazione che l’offesa raramente avrebbe successo. Secondo un autorevole studio, si stima che nelle 63 guerre combattute tra il 1915 e il 1980, il primo ad attaccare ha vinto in ben 39 occasioni: una per­ centuale di successi del 60 per cento circa29. Per fare qualche caso concreto, Otto von Bismarck unificò la Germania conseguendo vittorie militari contro la Danimarca nel 1864, l’Austria nel 1866 e la Francia nel 1870, mentre gli Stati Uniti quali li conosciamo oggi si sono formati in buona parte grazie alle operazioni di conquista del XIX secolo. In quei casi la conquista ha sicura­

A n archia e lotta per il potere m on diale

mente dato buoni frutti. La Germania nazista vinse la guerra contro la Polonia nel 1939 e contro la Francia nel 1940, ma la perse con l’Unione Sovietica tra il 1941 e il 1945. In ultima analisi, la pratica dell’attacco non fu un buon investimento per il Terzo Reich, ma se Hitler e i nazisti si fossero fermati dopo la caduta della Francia e non avessero invaso l’Unione Sovietica, la conquista con ogni probabilità avrebbe pagato eccome. In breve, la storia mostra che l’aggressione a volte ha successo e a volte no. Per un sofisticato massimizzatore di potere, il segreto sta nel capire quando rilanciare e quando passare30.

I LIMITI DELL’EGEM ONIA Le grandi potenze, come ho sottolineato, cercano di guadagnare potere a spese dei rivali con l’obiettivo di diventare egemoni incontrastati. Una volta che uno stato si trova in questa invidiabile posizione, esso diventa una potenza in dife­ sa dello status quo. C ’è altro da aggiungere, però, sul significato di egemonia. Egemone è quello stato che è così potente da dominare tutti gli altri stati del sistema31. Nessun altro stato ha i mezzi per reggere militarmente il con­ fronto. In sostanza, un egemone è l’unica grande potenza del sistema. Uno stato che sia molto più potente delle altre grandi potenze del sistema non è un egemone, perché, per definizione, si trova di fronte altre grandi potenze. Per esempio, si dice che il Regno Unito alla metà del XIX secolo fosse egemone. Ma non lo era, perché nell’Europa dell’epoca esistevano almeno altre quattro grandi potenze —Austria, Francia, Prussia e Russia —che il Regno Unito non dominava in maniera sostanziale. In realtà, durante quel periodo, il Regno Unito considerava la Francia una grave minaccia all’equilibrio di potenza. L’Europa del XIX secolo era quindi multipolare, non unipolare. Essere egemone significa dominare il sistema, termine che usualmente indica il mondo nella sua interezza. E però possibile applicare il concetto di sistema in modo più ristretto e usarlo per definire regioni particolari, come l’Europa, il Nordest asiatico, o l’emisfero occidentale. È in tal modo possibile distinguere tra egemoni globali, che dominano il mondo, ed egemoni regionali, che dominano determinate aree geografiche. Gli Stati Uniti sono egemoni regionali sull’emisfero occidentale almeno a partire da un secolo fa. Nessun altro stato delle Americhe ha una forza militare sufficiente a contrastarli, ed è per questo che gli Stati Uniti sono ampiamente riconosciuti come l’unica grande potenza della loro regione. La mia tesi, che sviluppo a fondo nei capitoli seguenti, è che, fatto salvo l’improbabile evento che uno stato raggiunga la netta superiorità nucleare, è

La logica di potenza

virtualmente impossibile che un dato stato raggiunga l’egemonia globale. Il principale impedimento al dominio mondiale è la difficoltà di proiettare la potenza oltre gli oceani sul territorio di una grande potenza rivale. Gli Stati Uniti, per esempio, sono lo staro più potente oggi presente sul pianeta. Ma non dominano l’Europa e l’Asia Orientale allo stesso mondo con cui domina­ no sulle Americhe e sugli oceani che vi si affacciano, e non hanno intenzione di conquistare e controllare quelle lontane regioni, principalmente a causa del potere frenante dell’acqua. In sintesi, non c’è mai stato un egemone globale, ed è improbabile che ne possa emergere uno a breve. Il miglior risultato a cui una grande potenza possa aspirare è diventare ege­ mone regionale ed eventualmente controllare un’altra regione che le sia prossi­ ma e accessibile via terra. Gli Stati Uniti sono l’unico egemone regionale della storia contemporanea, sebbene anche altri stati abbiano combattuto guerre importanti per raggiungere l’egemonia regionale: in Asia Orientale il Giappo­ ne imperiale; la Francia napoleonica, la Germania guglielmina e quella nazista in Europa. Ma nessuno è riuscito nell’intento. l’Unione Sovietica, collocata fra Europa e Asia Orientale, ha minacciato di dominare entrambe le regioni durante la guerra fredda. L’Unione Sovietica potrebbe anche aver tentato di conquistare la regione del Golfo Persico, ricca di petrolio, con cui aveva una frontiera in comune. Ma anche se Mosca fosse stata in grado di dominare Europa, Asia Orientale e Golfo Persico, cosa che non fu mai prossima a fare, sarebbe stata comunque incapace di conquistare l’emisfero occidentale e diventare così un autentico egemone globale. Gli stati che raggiungono l’egemonia regionale si adoperano per impedire che grandi potenze in altre regioni li emulino. Gli egemoni regionali, in altre parole, non vogliono nessun pari grado. Così, per esempio, gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo chiave nell’impedire al Giappone imperiale, alla Ger­ mania guglielmina, alla Germania nazista e alla Russia sovietica di pervenire a una supremazia regionale. Gli egemoni regionali cercano di tenere a bada gli aspiranti egemoni di altre regioni perché temono che una grande potenza riva­ le che domini sulla propria regione possa diventare un nemico particolarmen­ te potente, dato che avrebbe le mani libere per dare adito a problemi nel cor­ tile di casa della grande potenza timorosa. Un egemone regionale preferisce che vi siano almeno due grandi potenze a contendersi urialtra regione, perché la loro prossimità le costringerà a concentrare l’attenzione l’una sull’altra anzi­ ché sull’egemone distante. Inoltre se tra loro emerge un potenziale egemone, le altre grandi potenze della regione possono essere in grado di contenerlo da sole, lasciando che l’e­ gemone distante rimanga al sicuro ai margini del campo. Naturalmente, qua­

A n archia e lo tta per il potere m ondiale

lora le grandi potenze locali fossero incapaci di svolgere quel compito, l’ege­ mone lontano prenderà le misure adeguate per fermare lo stato che costituisce una minaccia. Gli Stati Uniti, come abbiamo rilevato, si sono assunti quell’o­ nere in quattro diverse occasioni nel X X secolo, ed è per questo motivo che questo stato viene comunemente definito offshore balancer, il «bilanciatore d’oltremare». Riassumendo, la situazione ideale per una grande potenza è di essere l’uni­ co egemone regionale esistente al mondo. Quello stato sarebbe una potenza da status quo, e farebbe di tutto per preservare la distribuzione di potere esistente. Gli Stati Uniti si trovano oggi in questa invidiabile posizione: dominano l’emi­ sfero occidentale e non esiste alcun egemone in nessun’altra area del mondo. Ma se un egemone regionale si dovesse trovare ad affrontare un concorrente di pari livello, cesserebbe di essere una potenza da status quo. Anzi, farebbe di tutto per indebolire, e anche per distruggere, il suo lontano rivale. E ovvio che entrambi gli egemoni regionali sarebbero motivati dalla stessa logica, cosa che si tradurrebbe in una feroce competizione per la sicurezza.

POTERE E TIM O RE Che le grandi potenze si temano a vicenda è un fatto della vita del sistema internazionale. Ma, come abbiamo notato, il livello di timore varia da caso a caso. Per esempio, l’Unione Sovietica temeva molto meno la Germania nel 1930 che nel 1939. Quanto gli stati si temano a vicenda ha una grande importanza perché la quantità di paura reciproca determina in larga misura l’asprezza della competizione per la sicurezza, oltre che la probabilità che si facciano guerra. Più è profonda la paura, più intensa sarà la competizione per la sicurezza, e più probabile sarà la guerra. E una logica elementare: uno stato impaurito cercherà con ogni mezzo il modo di rafforzare la propria sicurezza, e sarà portato a mettere in atto politiche azzardate pur di raggiungere quello scopo. È quindi importante capire da che cosa dipende la maggiore o minore intensità del timore che gli stati provano reciprocamente. Il timore tra grandi potenze deriva dal fatto che esse invariabilmente dispongono di una certa capacità militare offensiva che possono impiegare gli uni ai danni degli altri, e dal fatto che uno stato non potrà mai dirsi certo che un altro non intenda usare contro di lui quella forza militare. Inoltre, poiché gli stati operano in un sistema anarchico, non c’è santo cui rivolgersi per aiu­ to in caso di aggressione. Se è vero che anarchia e incertezza sulle intenzioni altrui creano tra gli stati queU’ineliminabile livello di tensione che porta a

La logica di potenza

comportamenti di massimizzazione del potere, esse non spiegano il motivo per cui in alcuni momenti quel livello di timore è più alto che in altri. E non lo spiegano perché l’anarchia e la difficoltà di discernere le intenzioni di uno stato sono fatti costanti della realtà, e le costanti non possono spiegare la variazione. La capacità che hanno gli stati di minacciarsi a vicenda, però, varia di caso in caso, ed è il fattore chiave che innalza e riduce i livelli di tensione. Specificamente, quanta più potenza possiede uno stato, tanta più paura gene­ ra nei suoi rivali. La Germania, per esempio, era molto più potente alla fine che all’inizio degli anni Trenta, ed ecco perché i timori sovietici per la Germa­ nia crebbero nel corso del decennio. L’esame di come il potere influenzi il timore fa sorgere una domanda: che cos’è il potere? E importante distinguere tra potere potenziale ed effettivo. Il potere potenziale di uno stato si basa sulla consistenza della sua popolazione e sul suo livello di ricchezza. Queste due risorse sono gli assi portanti della potenza militare. Stati rivali ricchi e molto popolati sono di solito in grado di dotarsi di forze militari formidabili. Il potere effettivo di uno stato è rap­ presentato principalmente dall’esercito e dalle forze aeree e navali che diret­ tamente lo sostengono. Gli eserciti sono l’ingrediente centrale del potere militare, in quanto sono lo strumento principale per conquistare e controlla­ re territorio - obiettivo politico supremo in un mondo di stati territoriali. In breve, la componente chiave del potere militare, perfino nell’era nucleare, è la potenza terrestre. Considerazioni di potere incidono sull’intensità del timore tra stati princi­ palmente in tre modi. Primo, stati rivali che dispongono di forze nucleari che possono sopravvivere a un attacco nucleare e rispondervi, con ogni probabilità si temeranno meno che se non avessero entrambi un arsenale di quel tipo. Durante la guerra fredda, per esempio, il livello di tensione tra le due superpotenze probabilmente sarebbe stato molto più elevato se non fossero state inventate le armi nucleari. La logica è semplice: poiché le armi nucleari posso­ no infliggere a uno stato rivale distruzioni devastanti in un breve periodo di tempo, due rivali nucleari saranno riluttanti a combattersi, il che vuol dire che ciascuna parte avrà meno motivo di temere l’altra. Ma come dimostra la guer­ ra fredda, ciò non significa che una guerra tra potenze nucleari sia del tutto impensabile: esse continueranno ad avere motivo di temersi a vicenda. Secondo, quando le grandi potenze sono separate da vaste estensioni d’ac­ qua, di solito non hanno grande capacità offensiva reciproca, indipendente­ mente dalle dimensioni relative dei loro eserciti. Le grandi distese d’acqua sono ostacoli formidabili che provocano agli eserciti attaccanti notevoli pro­ blemi di proiezione di potenza. Per esempio, il potere frenante dell’acqua spie­

A n archia e lotta p er il potere m ondiale

ga in gran parte perché il Regno Unito e gli Stati Uniti (una volta diventati grandi potenze nel 1898) non siano mai stati invasi da un’altra grande poten­ za. Spiega anche perché gli Stati Uniti non hanno mai cercato di conquistare territorio in Europa o in Asia Orientale, e perché il Regno Unito non ha mai tentato di dominare il continente europeo. Grandi potenze situate sulla stessa massa continentale sono in una posizione molto più idonea per attaccarsi e conquistarsi a vicenda. Questo vale soprattutto per gli stati che hanno un con­ fine in comune. Quindi, le grandi potenze separate dai mari si temeranno meno delle grandi potenze che possono raggiungersi via terra. Terzo, la distribuzione del potere tra gli stati del sistema influisce anch’essa in maniera sensibile sui livelli di timore32. La questione chiave è se il potere sia distribuito più o meno uniformemente tra grandi potenze o se vi siano invece nette asimmetrie di potere. La configurazione del potere che produce più pau­ ra e tensione è quella di un sistema multipolare che contiene un potenziale egemone —quella che io definisco «multipolarità sbilanciata». Per essere un egemone potenziale, non basta diventare il più potente sta­ to del sistema. Potenziale egemone è la grande potenza dotata di capacità militare effettiva e di potere potenziale tali da avere una buona probabilità di dominare e controllare tutte le altre grandi potenze presenti nella sua par­ te di mondo. Un potenziale egemone può non disporre dei mezzi per com­ battere simultaneamente tutti i suoi rivali, ma deve avere eccellenti prospet­ tive di sconfìggere ogni avversario in un confronto uno contro uno, e buone prospettive di sconfiggere alcuni di essi in tandem. La relazione chiave, però, è il gap di potenza esistente tra il potenziale egemone e il secondo sta­ to del sistema in ordine di potenza: ci deve essere un forte divario tra i due per parlare di potenziale egemonia. Per qualificarsi come potenziale egemo­ ne uno stato deve avere —con margine ragionevolmente ampio —l’esercito più formidabile oltre al più consistente potere latente su tutti gli stati situa­ ti nella sua regione. La bipolarità è la configurazione di potere che produce la minor quantità di timore tra le grandi potenze, anche se si tratta di una quantità assolutamen­ te non trascurabile. La paura tende a essere meno acuta in una situazione bipolare perché di norma è presente un certo equilibrio tra i due maggiori sta­ ti del sistema. I sistemi multipolari privi di un potenziale egemone, che io definisco «multipolarità bilanciata», possono anch’essi presentare asimmetrie di potere tra i loro membri, ma tali asimmetrie non saranno tanto pronuncia­ te quanto i dislivelli di potenza creati dalla presenza di un aspirante egemone. Quindi, la multipolarità bilanciata tende a generare meno paure e tensioni della multipolarità sbilanciata, ma di più che la bipolarità.

La logica di potenza

La nostra discussione sul fatto che il livello di timore tra grandi potenze varia con il variare della distribuzione del potere e non in base a valutazioni sulle reciproche intenzioni, solleva una questione strettamente collegata. Nell’esaminare l’ambiente che lo circonda per determinare quali stati costituisca­ no una minaccia alla sua sopravvivenza, uno stato si sofferma soprattutto sul­ le capacità offensive dei potenziali rivali, e non sulle intenzioni dei propri riva­ li. Le capacità, però, non solo possono essere misurate, ma determinano anche se uno stato rivale rappresenti o meno una seria minaccia. In breve, le grandi potenze ricorrono al bilanciamento in relazione alle capacità, non alle inten­ zioni33. Le grandi potenze ovviamente bilanciano rispetto a stati con formidabili forze militari, perché la loro capacità militare offensiva costituisce minaccia tangibile alla loro sopravvivenza. Ma prestano anche grande attenzione a quanto potere latente gli stati rivali controllano, perché stati ricchi e popolosi possono organizzare, e di solito organizzano, potenti eserciti. Cosi, le grandi potenze tendono a temere stati con popolazioni numerose ed economie in rapida espansione, anche se questi non hanno ancora tradotto in potenza mili­ tare la loro ricchezza.

LA GERARCHIA DEGLI O BIETTIVI DI STATO La sopravvivenza, secondo la mia teoria, è la priorità numero uno delle grandi potenze. Nella pratica, però, gli stati perseguono anche obiettivi che non riguardano la sicurezza. Per esempio, le grandi potenze cercano invariabilmen­ te maggiore prosperità economica per migliorare il benessere dei propri citta­ dini. Talvolta cercano di promuovere all’estero una particolare ideologia, come è avvenuto durante la guerra fredda quando gli Stati Uniti cercavano di diffondere la democrazia nel mondo mentre l’Unione Sovietica tentava di esportare il comuniSmo. L’unificazione nazionale è un altro obiettivo che tal­ volta motiva le azioni degli stati, come accadde con la Prussia e il Piemonte nel XIX secolo e con la Germania dopo la guerra fredda. Le grandi potenze inoltre cercano occasionalmente di patrocinare i diritti umani nel mondo. Gli stati possono perseguire uno qualsiasi di questi obiettivi, più numerosi altri non connessi alla sicurezza. Il realismo offensivo riconosce certo che le grandi potenze possono dedi­ carsi a questi obiettivi che non hanno a che fare con la sicurezza, ma non ha molto da dire in proposito, salvo su un punto importante: gli stati possono perseguirli nella misura in cui il comportamento previsto non sia in conflitto

A n archia e lo tta per il potere m on diale

con la logica dell’equilibrio di potenza, il che avviene spesso34. Anzi, la ricerca di questi obiettivi che esulano dalla sicurezza talvolta integra il perseguimento del potere relativo. Per esempio, la Germania nazista si espanse nell’Europa Orientale per motivi tanto ideologici quanto realistici, e le superpotenze sono state in competizione tra loro durante la guerra fredda in base a motivazioni analoghe. Inoltre, una maggiore prosperità economica significa immancabil­ mente maggiore ricchezza, il che ha significative implicazioni per la sicurezza, perché la ricchezza è il fondamento della potenza militare. Stati ricchi possono permettersi possenti forze militari, le quali rafforzano le prospettive di soprav­ vivenza di uno stato. Come rilevò più di cinquant’anni fa l’economista Jacob Viner: «C ’è un’armonia di lungo periodo tra ricchezza e potenza»35. L’unifica­ zione nazionale è un altro obiettivo che di solito integra il perseguimento del­ la potenza. Per esempio, lo stato tedesco unificato che emerse nel 1871 era più potente dello stato prussiano di cui prendeva il posto. Talvolta il perseguimento di obiettivi non di sicurezza ha un effetto presso­ ché nullo sull’equilibrio di potenza, nell’uno o nell’altro senso. Un caso tipico è quello degli interventi umanitari, che tendono a essere operazioni su piccola scala che costano poco e non incidono sulle prospettive di sopravvivenza di una grande potenza. Nel bene e nel male, gli stati raramente sono disposti a versare sangue e risorse per proteggere popolazioni straniere da atrocità loro inflitte, genocidio compreso. Per esempio, malgrado proclami secondo cui la politica estera americana sarebbe impregnata di moralismo, la Somalia (19921993) è l’unico caso negli ultimi cento anni in cui militari statunitensi siano caduti in combattimento per una missione umanitaria. E in quel caso la per­ dita di soli diciotto soldati nel famigerato scontro a fuoco dell’ottobre 1993 fu un tale trauma che i governanti americani ritirarono immediatamente le trup­ pe USA dalla Somalia e si rifiutarono successivamente di intervenire in Ruan­ da quando, nella primavera del 1994, si scatenò la furia genocida degli hutu contro i vicini di etnia tutsi36. Fermare quel genocidio sarebbe stato relativa­ mente facile e non avrebbe avuto alcun effetto sensibile sulla posizione di potere degli Stati Uniti37. M a non si fece nulla. In breve, se il realismo non proscrive gli interventi in difesa dei diritti umani, non necessariamente li pre­ scrive. Talvolta però il perseguimento di obiettivi non di sicurezza si scontra con la logica dell’equilibrio di potenza, e in tal caso gli stati di norma agiscono in conformità ai dettami del realismo. Per esempio, nonostante il loro impegno a diffondere la democrazia nel mondo, durante la guerra fredda gli USA hanno contribuito a rovesciare governi democraticamente eletti e hanno sostenuto diversi regimi autoritari, quando i governanti americani ritenevano che queste

La logica di potenza

azioni avrebbero contribuito a contenere l’Unione Sovietica38. Nella seconda guerra mondiale, le democrazie liberali misero da parte la loro avversione per il comuniSmo e strinsero un’alleanza con la Russia sovietica contro la Germa­ nia nazista. «Detesto il comuniSmo», sottolineò Franklin Roosevelt, ma pur di sconfiggere Hitler «andrei'a braccetto col demonio»39. Analogamente, Stalin dimostrò in più di un’occasione che quando le sue preferenze ideologiche coz­ zavano con considerazioni di potenza, la meglio l’avevano queste ultime. Nel­ l’esempio più lampante del suo realismo, l’Unione Sovietica firmò nell’agosto 1939 un patto di non aggressione con la Germania nazista - il tristemente noto patto Molotov-Ribbentrop — nella speranza che l’accordo soddisfacesse almeno momentaneamente le ambizioni territoriali di Hitler in Europa Orientale e dirottasse la Wehrmacht verso la Francia e il Regno Unito40. Quando una grande potenza si trova di fronte a una minaccia seria, insomma, dà scarso peso all’ideologia nel scegliersi gli alleati41. La sicurezza ha la meglio anche sulla ricchezza quando questi due obiettivi entrano in conflitto, perché «la difesa», come scrive Adam Smith nella Ricchez­ za delle nazioni, «è molto più importante dell’opulenza»42. Smith offre un buon esempio di come si comportano gli stati allorché si trovano costretti a scegliere tra ricchezza e potere relativo. Nel 1651 l’Inghilterra varò il famoso Navigation Act, misura protezionista mirante a danneggiare il commercio olandese con lo scopo ultimo di indebolire l’economia di quel paese. La legge prevedeva che tutte le merci importate in Inghilterra fossero trasportate o su navi inglesi o su navi appartenenti al paese originario dei beni. Poiché gli olandesi producevano direttamente pochi beni, questa misura ne avrebbe colpito pesantemente le attività marittime, componente fondamentale del loro successo economico. Naturalmente il Navigation Act avrebbe danneggiato anche l’economia inglese, soprattutto perché avrebbe privato l’Inghilterra dei vantaggi del libero commer­ cio. «L’atto di navigazione», scrive Smith, «non favorisce il commercio estero, né lo sviluppo di quell’opulenza che da esso può derivare». Ciononostante, Smith considerava quella legislazione «il più saggio di tutti i regolamenti com­ merciali d’Inghilterra», perché faceva più danni all’economia olandese che a quella inglese, e alla metà del XVII secolo l’Olanda era «l’unica potenza navale in grado di mettere a repentaglio la sicurezza d’Inghilterra»43.

LE C O N D IZIO N I DELL’O RDINE M ONDIALE C ’è chi dice che le grandi potenze possono trascendere la logica del realismo lavorando insieme a costruire un ordine internazionale che generi pace e giu­

A n archia e lo tta per il potere m ondiale

stizia. La pace mondiale, sembrerebbe, non può che accrescere la prosperità e la sicurezza di uno stato. Nel corso del XX secolo i leader politici americani hanno sempre mostrato, a parole, una forte adesione a questo punto di vista. Il presidente Clinton, per esempio, dichiarava nel settembre 1993 in un discorso alle Nazioni Unite che «alla nascita di questa organizzazione, 48 anni fa... una nuova generazione di leader capaci, provenienti da molte nazioni, si è fatta avanti per coalizzare gli sforzi del mondo in favore della sicurezza e del­ la prosperità... Oggi la storia ci offre un’occasione ancora più importante... Esprimiamo, dunque, la nostra volontà di sognare più in grande... Facciamo sì che il mondo che lasciamo ai nostri figli sia più sano, più sicuro e più gene­ roso di quello in cui viviamo oggi»44. Nonostante questa retorica, le grandi potenze non collaborano a promuo­ vere l’ordine mondiale fine a se stesso. Ciascuna di esse invece cerca di massi­ mizzare la propria quota di potere mondiale, il che vuol dire che è prima o poi destinata a scontrarsi con l’obiettivo di creare e mantenere un ordine internazionale stabile45. Ciò non vuol dire che le grandi potenze non mirino mai a scongiurare le guerre e mantenere la pace. In effetti, dedicano ogni impegno possibile a impedire quelle guerre da cui rischiano di uscire sconfit­ te. In tali casi, però, il comportamento degli stati è in larga misura orientato da precisi calcoli di potere relativo, piuttosto che dall’impegno di costruire un ordine mondiale a prescindere dai propri interessi. Gli Stati Uniti, per esem­ pio, se durante la guerra fredda hanno speso enormi risorse perché l’Unione Sovietica non scatenasse una guerra in Europa, non lo hanno fatto perché sentivano l’impegno di promuovere la pace nel mondo, ma perché temevano che una vittoria sovietica avrebbe pericolosamente alterato l’equilibrio di potenza46. Lo specifico ordine internazionale che si produce in un dato momento sto­ rico è sostanzialmente il sottoprodotto del comportamento egoistico delle grandi potenze del sistema. La configurazione del sistema, in altri termini, è la conseguenza involontaria della competizione per la sicurezza tra le grandi potenze, non il risultato di un agire concorde degli stati per organizzare la pace. Il tipo di ordine realizzatosi durante la guerra fredda in Europa esempli­ fica questo concetto. Né l’Unione Sovietica né gli Stati Uniti avevano la volontà di istituirlo, né lavorarono insieme a costruirlo. In realtà, nei primi anni della guerra fredda ognuna delle due superpotenze si adoperò con impe­ gno per guadagnare potere a spese dell’altra, cercando al tempo stesso di impedire all’altra di fare altrettanto47. L’assetto instauratosi in Europa all’indo­ mani della seconda guerra mondiale fu la conseguenza non programmata del­ l’intensa competizione per la sicurezza tra le superpotenze.

La logica di potenza

Anche se l’accesa rivalità tra superpotenze è terminata con la fine della guerra fredda nel 1990, la Russia e gli Stati Uniti non hanno cooperato a crea­ re l’ordine attualmente esistente in Europa. Gli Stati Uniti, per esempio, han­ no respinto immediatamente ogni proposta russa di fare dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa il pilastro organizzativo centrale della sicurezza europea (al posto della NATO dominata dagli USA). Inoltre, la Russia era fortemente contraria a un allargamento della NATO, visto come una grave minaccia alla sua sicurezza. Calcolando però che la debolezza russa avrebbe reso impossibile eventuali rappresaglie, gli Stati Uniti hanno ignorato i timori della Russia e spinto la NATO ad accettare come nuovi membri la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia. Nel corso dell’ultimo decennio la Russia si è anche opposta alla politica americana nei Balcani, soprattutto alla guerra del 1999 della NATO contro la Yugoslavia. Anche in questo caso gli Stati Uniti hanno prestato scarsa attenzione alle obiezioni russe e hanno intra­ preso tutti i passi che ritenevano necessari per portare la pace in quella regione instabile. Infine, vale la pena notare che malgrado la Russia si opponga con la massima fermezza a che sia consentito agli Stati Uniti di schierare difese anti­ missilistiche di tipo balistico, è molto probabile che Washington dispiegherà un simile sistema non appena lo riterrà tecnologicamente realizzabile. È vero che talvolta la rivalità tra grandi potenze produce un ordine interna­ zionale stabile, come è avvenuto durante la guerra fredda. Ciononostante, le grandi potenze continuano a cercare ogni opportunità per aumentare la propria quota di potere mondiale, e se si presenta una situazione favorevole, agiscono in modo da minare la stabilità di quell’ordine. Si consideri con quanta energia si sono adoperati gli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta per indebolire l’Unio­ ne Sovietica e rovesciare l’ordine stabile instauratosi in Europa nella seconda parte della guerra fredda48. Ovviamente gli stati che rischiano di rimetterci pote­ re opereranno in modo da scoraggiare l’aggressione e preservare l’ordine esisten­ te. Ma le loro motivazioni saranno sempre egoistiche, centrate sulla logica dell’e­ quilibrio di potenza e non su un qualche impegno per la pace nel mondo. Le grandi potenze non possono impegnarsi al perseguimento di un ordine mondiale pacifico per due ragioni. Primo, è molto difficile che gli stati con­ cordino su una formula generale per assicurare la pace. È fuor di dubbio che gli studiosi di relazioni internazionali non hanno mai raggiunto unanimità di valutazione su quale forma essa debba assumere. Si può dire che esistono tan­ te teorie sulle cause della guerra e della pace quanti sono gli studiosi che si occupano dell’argomento. Ma, cosa più importante, sono i politici a essere incapaci di pervenire a una visione comune su come creare un mondo stabile. Per esempio, alla Conferenza di Versailles dopo la prima guerra mondiale

A n archia e lo tta per il potere m ondiale

emersero consistenti divergenze tra Georges Clemenceau, David Lloyd Geor­ ge e Woodrow Wilson su come dare stabilità all’Europa49. In particolare, sulla questione della Renania, Clemenceau era deciso a imporre alla Germania con­ dizioni più dure che non Lloyd George o Wilson, mentre Lloyd George era il più inflessibile sulle riparazioni di guerra tedesche. Non sorprende che il Trat­ tato di Versailles abbia fatto ben poco per promuovere la stabilità europea. Si consideri inoltre il dibattito americano su come portare stabilità in Europa nella prima fase della guerra fredda50. Gli elementi chiave per assicura­ re un sistema stabile e durevole erano emersi già nei primi anni Cinquanta. Tra questi c’era la partizione della Germania, il posizionamento di forze di ter­ ra americane in Europa Occidentale per scoraggiare un attacco sovietico e il divieto per la Germania Occidentale di sviluppare un arsenale nucleare. All’in­ terno dell’amministrazione Truman, però, vi era disaccordo riguardo agli effet­ ti della divisione della Germania: avrebbe rappresentato una fonte di pace o un motivo di guerra? Per esempio, George Kennan e Paul Nitze, che occupa­ vano posti di rilievo nel Dipartimento di Stato, ritenevano che una Germania divisa fosse una fonte di instabilità, mentre il segretario di stato Dan Acheson era di opinione opposta. Negli anni Cinquanta il presidente Eisenhower tentò di mettere fine all’impegno americano a difesa dell’Europa Occidentale, for­ nendo alla Germania Ovest un suo deterrente nucleare. Questa linea, mai adottata pienamente, causò comunque notevole instabilità in Europa, sfocian­ do direttamente nelle crisi di Berlino del 1958-1959 e del I96051. Secondo, le grandi potenze non possono accantonare le considerazioni di potere e operare per promuovere la pace internazionale, perché non avranno mai la certezza che i propri sforzi saranno coronati dal successo. Se il tentativo fallisce, rischiano di pagare a caro prezzo l’aver messo in secondo piano l’equi­ librio di potenza, perché se un aggressore si presenta alla loro porta non si potrà chiamare il pronto intervento. E questo è un rischio che pochi stati sono disposti a correre. Prudenza vuole, quindi, che si comportino in base alla logi­ ca del realismo. Questa linea di ragionamento spiega perché i piani di sicurez­ za collettiva, che chiedono agli stati di mettere da parte le ristrette preoccupa­ zioni di equilibrio di potenza e di agire invece in base ai più ampi interessi della comunità internazionale, finiscono invariabilmente per essere abortiti52.

LA COOPERAZIONE TRA STATI Dalla precedente esposizione si potrebbe concludere che la mia teoria non prevede alcuna cooperazione tra grandi potenze. M a sarebbe una conclusione

La logica di potenza

4 8

sbagliata. Gli stati possono cooperare, anche se la cooperazione è talvolta diffi­ cile da raggiungere e sempre difficile da sostenere. Due fattori inibiscono la cooperazione: le considerazioni di guadagno relativo e la paura del tradimen­ to53. In ultima analisi le grandi potenze abitano un mondo fondamentalmen­ te competitivo nel quale si vedono come diretti nemici, quantomeno poten­ ziali, e quindi cercano di guadagnare potere a spese l’una dell’altra. Due stati che intendono cooperare devono considerare in che modo saranno distribuiti tra loro profitti e perdite. Possono pensare a questa spartizione in ter­ mini di guadagni assoluti o relativi (si ricordi la distinzione già fatta tra il perse­ guimento del potere assoluto o relativo; qui il concetto è il medesimo). Con i guadagni assoluti, ciascuna delle due parti pensa a massimizzare i propri profit­ ti e non fa troppo caso a quanto guadagna o perde l’altra parte. Ciascuna delle due parti si interessa all’altra solo nella misura in cui il comportamento dell’al­ tra incide sulle proprie probabilità di ricavare il massimo profitto. Nel caso del guadagno relativo, invece, ogni parte considera non solo il proprio guadagno individuale, ma lo soppesa anche in relazione a quello dell’altra parte. Poiché le grandi potenze prestano grande attenzione all’equilibrio del pote­ re, quando considerano l’ipotesi di una cooperazione con altri stati il loro interesse si concentra sui guadagni relativi. Certo, ogni stato tende a massi­ mizzare i propri guadagni assoluti; ma è più importante per uno stato assicu­ rarsi di non ricavare meno, e possibilmente più, dell’altro stato coinvolto nel­ l’accordo. La cooperazione è comunque più diffìcile da raggiungere quando gli stati sono attenti ai guadagni relativi piuttosto che a quelli assoluti54. Que­ sto perché, nel caso la torta si ingrandisca, agli stati interessati ai guadagni assoluti basta assicurarsi anche una minima parte dell’aumento, laddove gli stati che si preoccupano dei guadagni relativi devono anche fare attenzione a come la torta è ripartita, il che complica gli sforzi di cooperazione. Anche il timore di essere ingannati ostacola la cooperazione. Le grandi potenze sono spesso riluttanti a stringere accordi cooperativi, perché temono che l’altra parte tradisca assicurandosi un vantaggio significativo. Questo timore è particolarmente sentito in ambito strategico, generando uno «specia­ le pericolo di defezione», perché la natura del dispositivo militare consente rapidi spostamenti nell’equilibrio di potenza55. Una simile circostanza potreb­ be offrire allo stato che tradisce una finestra di opportunità per infliggere una sconfitta decisiva alla sua vittima. Nonostante queste barriere alla cooperazione, in un mondo realista le grandi potenze cooperano ugualmente. La logica dell’equilibrio del potere spesso induce le grandi potenze a formare alleanze e collaborare contro un nemico comune. Regno Unito, Francia e Russia, per esempio, furono alleati

A n archia e lotta per il potere m ondiale

contro la Germania prima e durante la prima guerra mondiale. Gli stati tal­ volta cooperano unendosi contro un terzo stato, come fecero nel 1939 la Ger­ mania e l’Unione Sovietica contro la Polonia56. Più recentemente, la Serbia e la Croazia si sono accordate per conquistare e spartirsi la Bosnia, anche se gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno impedito l’esecuzione del piano57. Cooperano gli alleati così come i rivali. Dopo tutto, si possono stringere accordi che riflettono grosso modo la distribuzione del potere esistente e met­ tono al riparo da timori di tradimento. I vari accordi sul controllo degli arma­ menti firmati dalle superpotenze durante la guerra fredda illustrano bene il concetto. La base della questione, comunque, è che la cooperazione si svolge in un mondo che è per sua natura competitivo —un mondo in cui gli stati hanno fortissimi incentivi a guadagnare margini di vantaggio sugli altri stati. Questo punto è messo in evidenza dalla situazione della politica europea nei qua­ rantanni che precedettero la prima guerra mondiale. Le grandi potenze coo­ perarono frequentemente nel corso di questo periodo, ma ciò non impedì loro di entrare in guerra il 1° agosto 1914. Anche gli Stati Uniti e l’Unione Sovie­ tica cooperarono in maniera considerevole durante la seconda guerra mondia­ le, ma questa cooperazione non evitò lo scoppio della guerra fredda poco dopo l’awenuta sconfitta di Germania e Giappone. Ancor più sorprendente, forse, è la significativa cooperazione economica e militare che vi fu tra Germa­ nia nazista e Russia sovietica nei due anni prima che la Wehrmacht attaccasse l’Armata Rossa59. Non c’è cooperazione che basti a eliminare la logica domi­ nante della competizione per la sicurezza. Una pace genuina, ossia un mondo in cui gli stati non si contendono il potere, non è pensabile finché il sistema degli stati rimarrà anarchico.

CO N C LU SIO N I In sintesi, la mia tesi afferma che è la struttura del sistema internazionale a indurre le grandi potenze a pensare e ad agire aggressivamente e a ricercare l’e­ gemonia, e non le caratteristiche specifiche dei singoli stati60. Non condivido la teoria di Morgenthau secondo la quale gli stati si comporterebbero invaria­ bilmente in maniera aggressiva perché animati da una innata volontà di potenza. Sostengo piuttosto che la principale motivazione alla base del com­ portamento delle grandi potenze è la sopravvivenza. In condizioni di anarchia, però, l’istinto di sopravvivenza incoraggia gli stati ad agire aggressivamente. Né la mia teoria classifica gli stati come più o meno aggressivi in base ai loro

La logica di potenza

sistemi economici o politici. Il realismo offensivo impone solo un limitatissi­ mo numero di postulati sul comportamento delle grandi potenze, e questi presupposti si applicano indifferentemente a tutte le grandi potenze. Fatte sal­ ve le differenze sulla quantità di potere che ciascuno stato controlla, la teoria tratta allo stesso modo tutti gli stati. Ho esposto la logica che spiega perché gli stati cercano di guadagnare quanto più potere possibile sui loro rivali. Ho detto poco, però, sull’obiettivo di questa volontà: la potenza in sé. I prossimi due capitoli offrono una discus­ sione articolata di questo importante argomento.

Capitolo terzo

RICCHEZZA E POTENZA

Il potere sta al centro della politica internazionale, ma su cosa esso sia e come lo si possa misurare esiste una notevole disparità di vedute. In questo capitolo e nel seguente do la mia definizione di potere e propongo un metodo appros­ simativo ma affidabile per misurarlo. In particolare, sostengo che il potere si basa sulle specifiche capacità materiali di cui uno stato dispone. L’equilibrio del potere, quindi, varia in funzione delle risorse materiali - quali le divisioni corazzate e l’arsenale nucleare —che ciascuna grande potenza controlla. Gli stati hanno due tipi di potere: il potere latente e il potere militare. Queste due forme di potere, pur strettamente collegate, non sono la stessa cosa perché derivano da risorse di diversa natura. Con potere latente mi riferi­ sco agli ingredienti socioeconomici che concorrono alla costruzione della potenza militare; esso si basa in larga misura sulla ricchezza di uno stato e sul­ le dimensioni complessive della sua popolazione. Una grande potenza ha biso­ gno di denaro, tecnologia e personale per costituire la sua forza militare e per affrontare una guerra, e il potere latente di uno stato indica il potenziale grez­ zo a cui può ricorrere quando è in competizione con stati rivali. Nella politica internazionale, però, il potere effettivo di uno stato è in ultima analisi una funzione delle sue forze militari e della loro consistenza in relazione alle forze militari degli stati rivali. Durante la guerra fredda gli Sta­ ti Uniti e l’Unione Sovietica erano gli stati più potenti del mondo perché a confronto delle loro strutture militari quelle degli altri stati scomparivano quasi. Il Giappone non è oggi una grande potenza, benché disponga di una grande e ricca economia, perché ha forze armate ridotte e relativamente deboli, e per la sua sicurezza dipende fortemente dagli Stati Uniti. Quindi, l’equilibrio di potenza è in larga misura sinonimo di equilibrio del potere militare. Definisco il potere soprattutto in termini militari perché il reali-

La logica di potenza

smo offensivo sottolinea che la forza è l’ultima ratio della politica interna­ zionale1. Il potere militare si basa sostanzialmente sulle dimensioni e la forza dell’e­ sercito di uno stato e delle forze aeree e navali che a quell’esercito fungono da appoggio. Perfino in un mondo nucleare, gli eserciti sono il nocciolo della potenza militare. Una forza navale indipendente o una forza aerea strategica non sono idonee alla conquista di un territorio, né sono da sole molto efficaci a imporre concessioni territoriali ad altri stati. Certamente possono contribui­ re al successo di una campagna militare, ma le guerre delle grandi potenze si vincono soprattutto sul terreno. Gli stati più potenti sono quindi quelli che possiedono le più formidabili forze di terra. Nonostante il primato del potere militare, gli stati prestano grande atten­ zione anche al potere latente, perché una forte ricchezza e una popolazione numerosa sono i prerequisiti per la costruzione di formidabili forze militari. Durante la guerra fredda, per esempio, i leader americani erano talmente preoccupati per lo sviluppo economico sovietico e allarmati dai traguardi scientifici raggiunti dai sovietici (come il lancio dello Sputnik nel 1957), che li vedevano come indicazione del fatto che le capacità latenti dell’Unione Sovie­ tica potessero un giorno sorpassare quelle americane. Oggi gli Stati Uniti sono sempre più preoccupati per la Cina, non tanto per la sua macchina militare, ancora relativamente debole, ma perché la Cina ha una popolazione di oltre 1,2 miliardi di abitanti e un’economia in rapida modernizzazione. Qualora dovesse diventare particolarmente ricca, la Cina potrebbe trasformarsi in una superpotenza militare e sfidare gli Stati Uniti. Questi esempi mostrano che gli stati prestano grande attenzione all’equilibrio del potere latente oltre che all’e­ quilibrio del potere militare. Nella prossima sezione chiarisco perché sia giusto definire il potere in ter­ mini di capacità materiali e non, secondo l’approccio adottato da alcuni stu­ diosi, in termini di risultati. Spiego anche perché l’equilibrio di potenza non è un indicatore particolarmente efficace per prevedere il successo militare. Le tre sezioni successive si occupano del potere latente. Prima discuto dell’importan­ za fondamentale della ricchezza per costruire forze militari potenti, descriven­ do gli indicatori di ricchezza che impiego per cogliere il potere latente. Quin­ di, uso alcuni casi storici per dimostrare che l’ascesa e il declino delle grandi potenze negli ultimi due secoli sono stati determinati in buona parte da muta­ menti nella distribuzione della ricchezza tra i principali attori del sistema internazionale. Infine, spiego perché ricchezza e potere militare, benché stret­ tamente connessi, non si equivalgono, e mostro che la ricchezza non può esse­ re usata come misura sostitutiva per la potenza militare. Di conseguenza,

Ricchezza e potenza

sostengo che abbiamo bisogno di indicatori separati per dare conto del potere latente e del potere militare.

LE BASI MATERIALI DEL POTERE Il potere può essere definito in due modi diversi. Secondo la mia definizione, il potere non rappresenta niente di più che le specifiche risorse materiali di cui uno stato dispone. Altri invece lo definiscono in termini di risultato delle inte­ razioni tra stati. Il potere, affermano questi, riguarda il controllo o l’influenza su altri stati: equivale alla capacità che ha uno stato di costringere un altro a fare qualcosa2. Robert Dahl, autorevole esponente di questo punto di vista, afferma che: «A ha potere su B nella misura in cui è in grado di indurre B a fare qualcosa che diversamente non farebbe»3. Il potere dunque, secondo que­ sta logica, esiste solo quando uno stato esercita controllo o influenza, e quindi lo si può misurare solo dopo che l’esito si è prodotto. In parole povere, lo sta­ to più potente è quello che esce vincente da una disputa. Potrebbe sembrare che tra queste due definizioni non esista differenza significativa. Dopotutto, quando due grandi potenze entrano in conflitto, a prevalere non è quella che dispone di maggiori capacità materiali? Alcuni stu­ diosi di politica internazionale sembrano ritenere che a vincere una guerra sarebbe quasi sempre lo stato dotato di maggiori risorse e che, quindi, l’equili­ brio del potere sarebbe un eccellente strumento con cui prevedere a chi andrà la vittoria in caso di conflitto armato. Esistono numerosi studi quantitativi, per esempio, in cui vengono adottate differenti misure di potere per cercare di spiegare l’esito dei conflitti tra stati4. Questa convinzione è alla base anche del famoso argomento di Geoffrey Blainey, secondo il quale le guerre in buona parte scoppiano perché gli stati non riescono a trovare un accordo sull’equili­ brio di potenza, mentre poi il conseguente conflitto stabilisce «una ordinata gerarchia di potere tra vincitori e vinti»5. Se gli stati rivali avessero riconosciu­ to a priori il vero equilibrio, afferma Blainey, non ci sarebbe stata alcuna guer­ ra. Le due parti avrebbero previsto il risultato finale e questo le avrebbe indot­ te a negoziare una risoluzione pacifica basata sulla realtà di potere esistente, piuttosto che combattere una guerra cruenta che avrebbe comunque portato allo stesso esito. Ma è impossibile combinare tra loro queste definizioni del potere, perché l’equilibrio di potenza non è un indicatore affidabile per pronosticare il suc­ cesso militare6. La ragione è che talvolta sono fattori non materiali a dare a un combattente un vantaggio decisivo sull’altro. Tali fattori comprendono tra gli

La logica di potenza

altri la strategia, lo spionaggio, la determinazione, il clima, le malattie. Anche se le risorse materiali da sole non decidono l’esito di una guerra, è indiscutibi­ le che le probabilità di successo sono condizionate in maniera sostanziale dal­ l’equilibrio delle risorse, soprattutto nelle guerre di logoramento in cui le due parti cercano di sfiancarsi a vicenda e di prevalere grazie alla superiorità mate­ riale7. Gli stati evidentemente aspirano a possedere una quantità di potere maggiore, non minore, rispetto ai rivali, perché più risorse uno stato ha a disposizione, maggiori saranno le sue probabilità di vittoria in guerra. Ovvia­ mente è per questo che gli stati tendono a massimizzare la loro quota di pote­ re mondiale. Ciononostante, aumentare la probabilità di successo non vuol dire che il successo sia praticamente certo. Anzi, ci sono state numerose guer­ re in cui il vincitore, pur essendo meno potente o quasi altrettanto potente del vinto, è riuscito a prevalere grazie a fattori non materiali. Consideriamo per esempio la strategia, che è il modo in cui uno stato impiega le proprie forze contro quelle dell’avversario, e che costituisce pro­ babilmente il più importante dei fattori non materiali. Un’accorta strategia a volte permette di conseguire la vittoria a stati meno potenti degli avversari sul campo di battaglia8. I tedeschi, per esempio, impiegarono una strategia di blitzkrieg nella primavera del 1940 per battere gli eserciti britannico e francese, che avevano più o meno la stessa dimensione e potenza della Wehrmacht9. Il famoso Piano Schlieffen, però, non era riuscito a produrre una vittoria tedesca contro gli stessi avversari nel 1914, anche se si potrebbe sostenere che la sua versione originale, più audace di quella poi decisa, fornì il modello per sconfiggere la Francia e il Regno Unito10. Talvolta la strategia conta moltissimo11. La decisiva disfatta inflitta dalla Russia all’armata napoleonica nel 1812 evidenzia come questi fattori non materiali possano perfino aiutare un difen­ sore meno armato a vincere la guerra12. Le forze francesi che aprirono la stra­ da all’invasione della Russia il 23 giugno 1812, superavano numericamente i soldati russi di prima linea di 449.000 a 211.00013. Contando le forze di riserva, Napoleone aveva a disposizione un totale di 674.000 uomini per la campagna di Russia, mentre l’intero esercito russo comprendeva, all’inizio del conflitto, 409.000 soldati regolari. Inoltre le forze francesi erano qualita­ tivamente superiori. Eppure i russi annientarono completamente l’esercito napoleonico nel corso dei sei mesi successivi, riportando una vittoria decisi­ va. Il 1° gennaio 1813, Napoleone si ritrovava con soli 93.000 soldati per combattere: 470.000, un numero incredibile, erano morti e altri 100.000 erano stati fatti prigionieri. I russi, invece, avevano subito la perdita di soli 150.000 uomini.

Ricchezza e potenza

A sconfiggere Napoleone furono le condizioni climatiche, le malattie e l’a­ bile strategia russa. I russi evitarono di ingaggiare la forza di invasione lungo il confine occidentale e si ritirarono invece verso Mosca facendo terra bruciata nel ripiegamento verso est14. L’esercito francese cercò di riagguantare i russi in ritirata e di infliggere loro una sconfìtta definitiva in battaglia, ma il maltem­ po mandò all’aria il piano di Napoleone. Le piogge torrenziali, seguite da un caldo soffocante nelle prime settimane d’invasione, rallentarono gli attaccanti e permisero ai russi di sottrarsi allo scontro. Le malattie e le diserzioni presto divennero flagelli per le forze francesi. Napoleone riuscì infine a ingaggiare l’e­ sercito russo in ritirata nelle battaglie campali di Smolensk (17 agosto) e Borodino (7 settembre). L’esercito francese vinse entrambe le battaglie, ma si trattò di vittorie di Pirro: le sue perdite furono alte, i russi rifiutarono di arrendersi e Grande armée fu trascinata sempre più in profondità nel cuore della Russia. Napoleone occupò Mosca il 14 settembre ma fu costretto a ritirarsi a metà ottobre davanti al continuo rifiuto russo di cessare le ostilità. La successiva ritirata verso occidente fu disastrosa per l’esercito francese, che si sgretolò pur continuando a uscire vincente dalle battaglie con le forze russe inseguitrici15. Le condizioni del tempo ancora una volta giocarono un ruolo importante, con l’inverno che piombava addosso alle forze in ritirata. Pur non avendo mai vinto una sola grande battaglia nella campagna del 1812, il meno potente esercito russo sbaragliò il più potente esercito francese. Dovrebbe essere allora chiaro che Blainey sbaglia quando afferma che non ci sarebbero guerre se gli stati avessero modo di misurare con precisione l’e­ quilibrio di potenza, perché stati meno potenti sono in grado di sconfiggere stati più potenti16. Di conseguenza talvolta sarà uno stato più debole a inizia­ re una guerra con uno più forte. La stessa logica vale per stati dalla potenza approssimativamente uguale. Inoltre, gli stati più deboli a volte tengono testa a stati più forti che minacciano di attaccarli, perché spesso i difensori hanno ottimi motivi di ritenere di essere in grado di combattere, sia pure in condi­ zioni di inferiorità numerica, e vincere. In sostanza, dunque, non è possibile equiparare l’equilibrio delle risorse tangibili con i risultati, perché spesso questi sono profondamente influenzati da fattori non materiali quali la strategia. Nel definire il potere, quindi, occor­ re scegliere tra capacità materiali e risultati come base di definizione: i secondi incorporano sia gli ingredienti non materiali sia gli ingredienti materiali del successo militare. Tre sono i motivi che impediscono di equiparare potere e risultati. Primo, quando ci si concentra sugli esiti diventa praticamente impossibile valutare l’equilibrio del potere prima di un conflitto, giacché l’equilibrio può essere

La logica di potenza

determinato solo dopo che abbiamo visto quale delle due parti ha vinto. Secondo, questo approccio porta talvolta a conclusioni non plausibili. Per esempio, la Russia potè anche sbaragliare le armate napoleoniche nel 1812, ma non era più potente della Francia. Definire il potere in termini di risultati, invece, ci obbligherebbe in pratica a sostenere che la Russia era più potente della Francia. Inoltre, pochi negherebbero che gli Stati Uniti erano uno stato enormemente più potente del Vietnam del Nord, eppure lo stato più debole fu capace di sconfiggere quello più forte nella guerra del Vietnam (19651972) perché fattori non materiali alterarono l’equilibrio delle forze. Terzo, uno degli aspetti più interessanti delle relazioni internazionali è che il potere, che è un mezzo, influisce sui risultati politici, che ne sono i fini17. Ma ci sareb­ be poco da dire in proposito se potenza e risultati fossero indistinguibili; non ci sarebbe differenza tra fini e mezzi. E quindi ci troveremmo di fronte a un circolo vizioso.

POPOLAZIONE E RICCHEZZA: IL NERBO DELLA POTENZA MILITARE Il potere latente è costituito dalle risorse sociali a disposizione di uno stato per costruire la sua forza militare18. Anche se c’è sempre una varietà di simili risor­ se, l’ampiezza della popolazione di uno stato e la sua ricchezza sono le compo­ nenti più importanti tra quelle che permettono di generare potenza militare. La demografia conta e molto, perché grandi potenze richiedono grandi eserci­ ti, che possono essere costituiti solo in paesi con ampie popolazioni19. Stati con popolazioni esigue non potranno mai essere grandi potenze. Per esempio, né Israele, con i suoi 6 milioni di abitanti, né la Svezia, con le sue 9 milioni di persone, sono in grado di conseguire la status di grande potenza in un mondo in cui Russia, Stati Uniti e Cina hanno rispettivamente 147 milioni, 281 milioni e 1,24 miliardi di abitanti. L’ampiezza della popolazione ha anche importanti conseguenze economiche, perché solo grandi popolazioni possono produrre grandi ricchezze, altro mattone indispensabile alla costruzione della potenza militare21. La ricchezza è importante perché uno stato non può costituire una forte struttura militare se non dispone del denaro e della tecnologia indispensabili a equipaggiare, addestrare e ammodernare continuamente le sue forze combat­ tenti22. Inoltre, i costi per condurre una guerra tra grandi potenze sono enor­ mi. Per esempio, per tutti i partecipanti, il costo totale diretto della prima guerra mondiale (1914-1918) fu di circa $200 miliardi23. I soli Stati Uniti

Ricchezza e potenza

spesero circa $360 miliardi per combattere le potenze dell’Asse tra il 1941 e il 1945 —circa il triplo del suo Prodotto Nazionale Lordo (PNL) nel 194024. Di conseguenza, le grandi potenze nel sistema intemazionale sono invariabilmen­ te tra gli stati più ricchi del mondo. Anche se popolazione e ricchezza sono ingredienti essenziali del potere militare, io uso la sola ricchezza per misurare il potere potenziale. L’accento sulla ricchezza non dipende dal fatto che essa sia più importante della popola­ zione, ma dal fatto che la ricchezza incorpora entrambe le dimensioni —quel­ la demografica e quella economica —del potere. Come abbiamo notato, uno stato deve avere una grande popolazione per produrre una grande ricchezza. E quindi ragionevole presumere che gli stati che producono grandi ricchezze avranno anche popolazioni numerose. In pratica, non sto ignorando l’ampiez­ za della popolazione, ma solo dando per assodato che questa sarà colta dagli indicatori che uso per misurare la ricchezza. Sarebbe più semplice usare la demografia per misurare il potere latente, perché la popolazione di un paese è più facile da misurare che non la sua ric­ chezza. Ma non è possibile usare la popolazione per misurare il potere latente perché i dati demografici spesso non riflettono le differenze di ricchezza tra gli stati. La Cina e l’India, per esempio, anche durante la guerra fredda erano entrambe più popolose sia deH’Unione Sovietica sia degli Stati Uniti, ma né la Cina né l’India hanno conseguito lo status di grande potenza perché la loro ricchezza non si avvicinava nemmeno lontanamente a quella delle due superpotenze. In sostanza, una popolazione numerosa non assicura una grande ric­ chezza, ma una grande ricchezza richiede una popolazione numerosa. Pertan­ to, soltanto la ricchezza può essere usata isolatamente come misura del potere latente. Il concetto di ricchezza ha vari significati e può essere misurato in diversi modi. Per i miei scopi, però, è indispensabile scegliere un indicatore di ric­ chezza che rifletta il potere latente di uno stato. Specificamente, deve cogliere la ricchezza che uno stato può mobilitare e il suo livello di sviluppo tecnologi­ co. Con «ricchezza da mobilitare» si indicano le risorse economiche di cui uno stato può disporre per costruire la sue forze militari. È più importante della ricchezza complessiva perché ciò che conta non è semplicemente quanto ricco è uno stato, ma quanta parte della sua ricchezza possa destinare alla difesa. È anche importante avere industrie che producono le tecnologie più recenti e sofisticate, perché queste invariabilmente vengono incorporate negli arma­ menti più avanzati. Lo sviluppo dell’acciaio alla metà del XIX secolo e dell’ae­ reo a reazione alla metà del X X secolo, per esempio, hanno modificato profondamente gli arsenali delle grandi potenze. Era imperativo per le grandi

La logica di potenza

potenze dell’epoca essere all’avanguardia in quelle industrie, così come negli altri settori che hanno contribuito a far sorgere formidabili forze militari. Il PNL, che rappresenta l’intera produzione di uno stato nel corso di un anno, è probabilmente l’indicatore più usato per misurare la ricchezza di uno stato. Nel caso specifico lo adotto per misurare la ricchezza solo dal 1960 in avanti, come spiego più sotto. Ma non sempre è un buon indicatore del pote­ re latente, e utilizzarlo nelle circostanze sbagliate può fornire un quadro distorto. Il nocciolo del problema è che il Pnl è sostanzialmente una misura della ricchezza complessiva di uno stato e non sempre coglie importanti diffe­ renze nella ricchezza che può essere mobilitata e nel livello di avanzamento tecnologico dei diversi stati. In ogni modo, il Pnl assolve in maniera soddisfacente al compito di misu­ rare queste due dimensioni della ricchezza quando le grandi potenze in que­ stione si trovano a un livello analogo di sviluppo economico. Per esempio, due economie altamente industrializzate —come il Regno Unito e la Germania nel 1890 o il Giappone e gli Stati Uniti nel 1990 —avranno molto probabilmente settori industriali avanzati di simile livello e grosso modo lo stesso rapporto tra ricchezza complessiva e ricchezza che può essere mobilitata. La stessa logica vale quando si confrontano due società in larga misura agricole, come la Prus­ sia e la Francia nel 1750. Ma il Pnl è un indicatore mediocre del potere latente quando gli stati mes­ si a confronto si trovano a diversi stadi di sviluppo economico. Si consideri cosa può accadere se si usa il Pnl per valutare il potere potenziale di uno stato semindustriale e di uno altamente industrializzato. Il Pnl, che rappresenta il valore di mercato di tutti i beni e servizi che un paese produce in un dato periodo di tempo, è funzione della dimensione e della produttività della forza lavoro di uno stato. La dimensione della forza lavoro di uno stato è direttamente legata all’ampiezza della popolazione, mentre la produttività è collegata al livello di sviluppo economico di quello stato. È quindi possibile che due stati abbiano Pnl simili ma notevoli differenze demografiche e di industrializ­ zazione. Per esempio, uno dei due stati potrebbe avere una base industriale debole ma una popolazione relativamente ampia, una sostanziale porzione della quale è occupata nell’agricoltura, mentre l’altro potrà essere altamente industrializzato ma disporre di una popolazione notevolmente inferiore25. La Gran Bretagna e la Russia rientrano in questo profilo per i cento anni intercorsi tra la caduta di Napoleone (1815) e lo scoppio della prima guerra mondiale (1914). Nel corso di questo lasso di tempo i loro Pnl erano simili, ma il Regno Unito distanziava di molte lunghezze la Russia in termini di pro­ duzione industriale, come mostra la Tabella 3.1. Tuttavia, la Russia era in gra-

Ricchezza e potenza

Tabella 3.1

-

gran

bretagna e

Ru s s ia :

in d ic a t o r i d i r ic c h e z z a e p o p o l a z io n e

,

18 30 -19 13 1830

1860

1880

1900

1913

8,2 10,6

16,1 14,4

23,6 23,3

36,3 32,0

44,1 52,4

Quota della ricchezza europea (%) Gran Bretagna 53 Russia 15

68 4

59 3

37 10

28 11

Energia consumata (milioni TEC) Gran Bretagna Russia -

73,8 1,0

125,3 5,4

171,4 30,4

195,3 54,5

3.880 350

7.870 450

4.979 2.201

7.787 4.925

Quota produzione manifatturiera mondiale (%) Gran Bretagna 19,9 9,5 5,6 7,0 Russia

22,9 7,6

18,5 8,8

13,6 8,2

Potenziale industriale (Gran Bretagna nel 1900 = 100) 45,0 Gran Bretagna 17,5 15,8 Russia 10,3

73,3 24,5

100,0 47,5

127,2 76,6

34,6 100,0

41,2 135,7

45,6 175,1

PNL (miliardi $) Gran Bretagna Russia

Produzione di ferro!acciaio (migliaia t) 690 Gran Bretagna 190 Russia

Popolazione (milioni) Gran Bretagna Russia

23,8 57,6

28,8 76,0

Fonte’, vedi tab. 3.3 e: Paul Bairoch, «Europe s Gross National Produce: 1800-1973», Journal o f European Economie History 5, n. 2 (Fall 1976), p. 281; «International Industrialization Levels from 1750 to 1980», Journal o f European Economie History 11, n. 2 (Fall 1982), pp. 292 e 296; J. David Singer e Melvin Small, National M aterial Capabilities Data, 1816-1985, Ann Arbor, Inter-University Consortium for Politicai and Social Research, February 1993.

do reggere il confronto quanto a ricchezza prodotta, perché la sua immensa popolazione rurale continuò a crescere a ritmo sostenuto per tutto il XIX secolo. Divari nella potenza industriale come quelli esistenti tra Regno Unito e Russia, però, hanno importanti conseguenze per l’equilibrio del potere laten­ te. Primo, gli stati ad alta industrializzazione hanno invariabilmente un sur­ plus di ricchezza molto maggiore da destinare a usi bellici che non gli stati semindustrializzati, soprattutto perché gran parte della produzione agricola viene consumata sul posto dai contadini stessi. Secondo, solo gli stati dotati delle industrie più evolute sono in grado di produrre le grandi quantità di

La logica di potenza

Tabella 3-2 -

Fr a n c i a

e p

R u s s i a /G e r m

a n ia

:

in d ic a t o r i d i r ic c h e z z a

E P O P O L A Z IO N E , 1 8 3 O - I 9 13

1830

1860

1880

1900

1913

8,6 7,2

13,3 12,8

17,4 20,0

23,5 35,8

27,4 49,8

Quota della ricchezza europea (%) 21 Francia Germania 5

14 10

13 20

11 34

12 40

Energia consumata (milioni TEC) Francia Germania -

13,2 15,0

29,1 47,1

48,0 113,0

62,8 187,8

Produzione di ferrolacciaio (migliaia t) Francia 270 Germania 60

900 400

1.730 2.470

1.565 6.646

4.687 17.600

Quota produzione manifatturiera mondiale (%) Francia 5,2 7,9 Germania 4,9 3,5

7,8 8,5

6,8 13,2

6,1 14,8

Potenziale industriale (Gran Bretagna nel 1900 Francia 17,9 9,5 11,1 Germania 6,5

25,1 21A

36,8 71,2

57,3 137,7

Popolazione (milioni) Francia Germania

37,5 45,1

38,9 56,0

39,7 67,0

PNL (miliardi $) Francia Germania

32,4 12,9

37,4 18,0

Nota-, Prussia nei dati relativi a 1830 e 1860, Germania negli anni successivi. Fonte', vedi Tab. 3.1.

armamenti avanzati di cui i militari hanno bisogno per sopravvivere in com­ battimento26. Chi si concentrasse sul solo Pnl sarebbe indotto a pensare che tra il 1815 e il 1915 il Regno Unito e la Russia avessero le economie più possenti in Euro­ pa e che disponessero entrambi dei mezzi per dar vita a formidabili forze mili­ tari e dominare la politica della regione. In effetti, come risulta da un raffron­ to tra la Tabella 3.1 e la Tabella 3.2, in termini di Pnl sia il Regno Unito sia la Russia distaccavano le altre grandi potenze europee per gran parte del periodo considerato. Ma sarebbe una conclusione errata27. La Gran Bretagna aveva certamente più potere latente di ogni altro stato europeo durante l’Ottocento, soprattutto nei decenni centrali del secolo, quelli della cosiddetta Pax Brìtan-

Ricchezza e potenza

nica28. Mentre, come vedremo, l’economia russa versò in uno stato di anemia almeno dalla metà del XIX secolo agli anni Venti del Novecento. La Russia aveva un potere latente relativamente scarso durante questo periodo, il che spiega in gran parte perché il suo apparato militare subì devastanti sconfitte nella guerra di Crimea (1853-1856), nella guerra russo-giapponese (19041905) e nella prima guerra mondiale (1914-1917)29. In sintesi, il Pnl non è in grado di cogliere differenze potenzialmente marcate in fatto di potere latente tra stati industrializzati e stati semindustrializzati. Lo stesso problema si presenta quando si usa il Pnl per confrontare il pote­ re latente della Cina contemporanea con quello del Giappone e degli Stati Uniti. Nonostante il rapido sviluppo che l’ha trasformata nell’ultimo venten­ nio, la Cina è ancora uno stato semindustriale. Circa il 18 per cento della sua ricchezza continua a provenire dall’agricoltura30. Giappone e Stati Uniti inve­ ce, sono stati altamente industrializzati: solo il 2 per cento della loro ricchezza deriva daH’agricoltura. La Cina, però, ha una popolazione che è quasi cinque volte quella degli Stati Uniti e circa dieci volte quella del Giappone. Quindi, se si prende come indicatore il Pnl, l’equilibrio di potere latente tra questi tre stati penderà a favore della Cina. E un problema che sparirà con il tempo, perché la base agraria della Cina continuerà a ridursi (costituiva il 30 per cen­ to nel 1980) via via che la sua economia andrà modernizzandosi. Ma per il momento essa va tenuta in considerazione in qualsiasi analisi utilizzi il Pnl per misurare il potere latente della Cina. Quindi, talvolta il Pnl è una misura affidabile del potere latente, mentre altre volte non lo è. In tali casi, si potrà trovare un indicatore alternativo che meglio colga il potere latente, oppure impiegare il livello di Pnl ma introdu­ cendo le opportune correzioni. Nel misurare l’equilibrio del potere latente per il lungo periodo storico che va dal 1792 al 2 0 0 0 , è impossibile trovare un solo e affidabile indicatore di ricchezza. Innanzitutto, disponiamo di scarsi dati economici per gli anni com­ presi tra il 1792 e il 1815. Il punto in cui ciò crea difficoltà è il Capitolo 8 , quando sorgerà l’interrogativo se la Francia napoleonica avesse più potere latente delle grandi potenze sue rivali, e particolarmente del Regno Unito. Cerco di affrontare il problema riportando quel che dicono gli storici a pro­ posito della ricchezza relativa di Regno Unito e Francia, e anche esaminando le dimensioni delle popolazioni, l’altro mattone della potenza militare. Queste informazioni forniscono un’immagine approssimativa ma probabilmente accurata dell’equilibrio del potere latente nell’età napoleonica. Per misurare il potere latente tra il 1816 e il 1960 mi servo di un indicato­ re composto di facile comprensione che accorda pari peso alla produzione

La logica di potenza

siderurgica di uno stato e al suo consumo di energia. Questo indicatore, che rappresenta efficacemente la potenza industriale di uno stato, riesce bene a cogliere sia la ricchezza che può essere mobilitata sia il livello di sviluppo tec­ nologico nel corso di questo lungo periodo31. Dal 1960 in avanti per misurare la ricchezza uso il Pnl. Sono due i motivi per cui nel 1960 cambio indicatore32. Il primo è che il mio indicatore composto non è più utile dopo il 1970 perché il ruolo dell’acciaio nelle maggiori economie industriali comincia a declinare bruscamente a partire da quel periodo33. E così mi occorreva una misura diver­ sa per il potere potenziale per gli anni successivi al 1970: l’alternativa più ovvia era il Pnl. Secondo, i migliori dati relativi al Pnl disponibili per l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, le due grandi potenze del sistema in quel periodo, partono dal 1960 e arrivano fino alla fine della guerra fredda34. Quindi utiliz­ zo il Pnl per gli ultimi trent’anni della guerra fredda (1960-1990) e per il pri­ mo decennio dell’epoca del dopo guerra fredda (1991-2000), tenendo conto dei limiti del Pnl come indicatore del potere latente della Cina oggi35.

LE BASI E C O N O M IC H E DELLA POTENZA MILITARE Un breve sguardo all’ascesa e al declino delle tre grandi potenze europee durante gli ultimi due secoli conferma la mia affermazione che la ricchezza è alla base della potenza militare e che la ricchezza da sola è un buon indicatore del potere latente. Il profondo mutamento che si produsse nell’equilibrio di potere tra Francia e Germania (Prussia prima del 1870) durante il XIX secolo, oltre alla mutata posizione della Russia nell’equilibrio di potere tra il 1800 e il 2 0 0 0 , mostra il ruolo cruciale della ricchezza nella determinazione della potenza. La Francia napoleonica fu lo stato più potente in Europa tra il 1793 e il 1815; fu anzi prossima a conquistare l’intero continente. In quel periodo la Prussia era probabilmente la più debole delle grandi potenze. Fu battuta net­ tamente dalle armate di Napoleone nel 1806 e in pratica eliminata dall’equili­ brio di potenza europeo fino al 1813, quando approfittò della devastante disfatta francese in Russia per unirsi alla coalizione che nel giugno 1815, a Waterloo, mise fine alla parabola napoleonica. Nel 1900, però, la situazione si era quasi completamente ribaltata, e la Germania guglielmina emergeva come il prossimo egemone potenziale d’Europa, mentre la Francia aveva bisogno di alleati per tenere a bada il vicino tedesco. La Francia e i suoi alleati scesero successivamente in guerra nel 1914 e nel 1939 per impedire alla Germania di dominare l’Europa.

Ricchezza e potenza

I mutamenti nella ricchezza relativa di Francia e Germania durante i cento anni dopo Waterloo spiegano in buona misura lo spostamento nella distribu­ zione della potenza militare tra loro. Come risulta dalla Tabella 3.2, la Francia rimase considerevolmente più ricca della Prussia dal 1816 fino alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, quando Otto von Bismarck trasformò la Prussia in Germania. In effetti, la Germania superò la Francia nella produzione d’ac­ ciaio per la prima volta nel 1870, anno in cui scoppiò la guerra franco-prus­ siana36. Da quel momento fino all’inizio della prima guerra mondiale, il diva­ rio di ricchezza tra la Francia e la Germania continuò ad allargarsi a favore della seconda. Nel 1913, la Germania era ricca circa il triplo della Francia. Questo marcato spostamento nella ricchezza relativa di Francia e Germa­ nia fu dovuto in parte al fatto che la Germania si industrializzò più rapida­ mente della Francia tra la fine del XIX e l’inizio del X X secolo. La causa prin­ cipale, però, fu un significativo mutamento nelle dimensioni delle rispettive popolazioni, cosa che illustra come i cambiamenti nella ricchezza comprendo­ no anche i cambiamenti di popolazione. I dati della Tabella 3.2 mostrano che nel 1830 la Francia aveva sulla Prussia un vantaggio demografico di circa 2,5:1, mentre nel 1913 il vantaggio spettava alla Germania, ed era di circa 1,7:1. Tale ribaltamento demografico fu il risultato di due fattori. Il tasso di natalità francese nel XIX secolo era particolarmente basso, mentre quello tede­ sco era tra i più alti d’Europa. Inoltre, lo stato tedesco unificato che Bismarck costruì intorno alla Prussia aveva una popolazione assai più numerosa della potenza unificante. Così, mentre la Prussia aveva 19,3 milioni di abitanti nel 1865, la Germania ne aveva 34,6 milioni nel 187037. La Russia è un altro caso di stato la cui posizione nell’equilibrio di potenza è stata condizionata in maniera rilevante dalle fortune della sua economia. La Russia era probabilmente il più formidabile tra i rivali militari della Francia napoleonica. Anzi, fu proprio l’esercito russo a svolgere un ruolo chiave nell’abbattere il potere di Napoleone tra il 1812 e il 1815. Si diffuse perfino la paura, all’indomani del crollo della Francia, che la Russia potesse cercare di dominare l’Europa38. Ma dopo il 1815 la Russia non fece alcuna mossa in direzione dell’egemonia. Al contrario, la sua posizione nell’equilibrio di potere europeo declinò nel corso dei cento anni successivi. Come già notato, in que­ sto periodo essa combattè tre guerre contro altre grandi potenze e in tutte subì sconfitte umilianti: nella guerra di Crimea, in quella russo-giapponese e nella prima guerra mondiale. Un raffronto tra le sue performance nelle guerre napoleoniche, nella prima e nella seconda guerra mondiale mostra quanto fosse diventata debole la Rus­ sia nel 1914. Ciascuno di questi conflitti fu dominato da un potenziale ege-

La logica di potenza

mone che invadeva il territorio russo. La Francia napoleonica e la Germania nazista furono in grado di concentrare il grosso delle loro forze militari contro la Russia, anche se entrambe dovettero mantenere parte delle truppe anche in altri teatri39. Ciononostante, la Russia sconfisse entrambi gli aggressori. Durante la prima guerra mondiale, invece, la Germania dispiegò circa due ter­ zi delle sue unità combattenti sul fronte occidentale contro gli eserciti france­ se e britannico, mentre il rimanente terzo combatteva contro i russi sul fronte orientale40. Benché l’esercito tedesco combattesse contro quello russo con una mano - la migliore - legata dietro la schiena, riuscì ugualmente a sconfiggere la Russia e a sbalzarla fuori dalla guerra, impresa che non riuscì né a Napoleo­ ne né a Hitler, che pure combattevano con entrambi le mani libere. Il declino della Russia toccò il nadir negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, quando la Polonia invase la neonata Unione Sovietica assicurandosi importanti vittorie41. L’Armata Rossa ribaltò breve­ mente la situazione prima che i polacchi riprendessero l’iniziativa e conseguis­ sero una vittoria di portata limitata. A partire dai primi anni Trenta, però, i sovietici cominciarono a mettere in piedi una formidabile macchina militare, che ebbe la meglio sull’esercito giapponese in una breve guerra nel 1939 e poi sconfisse la tanto celebrata Wehrmacht tedesca nella seconda guerra mondiale. L’Unione Sovietica era così potente dopo il 1945 che solo gli Stati Uniti pote­ rono impedirle di dominare tutta l’Europa, e rimase una formidabile potenza militare per più di quarant’anni, dalla sconfitta di Hitler fino al 1991, quando si smembrò in quindici stati separati. Gli alti e bassi della potenza militare russa nel corso degli ultimi due seco­ li si spiegano in gran parte con i mutamenti nella posizione della Russia nella gerarchia della ricchezza. Anche se non disponiamo di molti dati sulla ricchez­ za delle grandi potenze tra il 1800 e il 1815, appare chiaro che il Regno Uni­ to e la Francia avevano le economie più forti d’Europa42. Ciononostante non sembra che in quegli anni la Russia fosse meno ricca dell’una o dell’altra potenza in modo decisivo43. Ma quand’anche lo fosse stata, l’economia russa fu comunque ancora in grado di supportare l’esercito russo nella sua lotta contro Napoleone, anche se in vari momenti del conflitto la Russia ricevette aiuti finanziari dal Regno Unito. In breve, non ci sono prove che l’esercito francese disponesse di un vantaggio significativo su quello russo perché la Francia era più ricca della Russia44. La posizione della Russia nell’equilibrio di potenza declinò nettamente nel corso dei settantacinque anni che seguirono la sconfìtta di Napoleone (vedi Tabella 3.3), soprattutto perché in Russia l’industrializzazione si diffuse molto più lentamente che nel Regno Unito, in Francia e in Germania. La carenza

T abella

3.3 -

q u o t e relative d e l l a r ic c h e z z a e u r o p e a ,

1816-1940

1816

1820

1830

1840

1850

1860

1870

1880

1890

1900

1910

1913

1920

1930

1940

Gran Bretagna 43% Prussia/Germania 8% Francia 21% Russia/Unione Sovietica 19% Austria/Ungheria 9% _ Italia

48% 7% 18% 18% 9%

53% 5% 21% 15% 7%

64% 5% 16% 9% 6%

70% 4% 12% 7% 7%

68% 10% 14% 4% 4%

64% 16% 13% 2% 5% 0%

59% 20% 13% 3% 4% 1%

50% 25% 13% 5% 6% 1%

37% 34% 11% 10% 7% 1%

30% 39% 12% 10% 8% 2%

28% 40% 12% 11% 8% 2%

44% 38% 13% 2%

27% 33% 22% 14%

24% 36% 9% 28%

_

_

_

-

-

-

-

-

3%

5%

4%

Nota: per «ricchezza» qui si intende un indice composito che assegna uguale peso alla produzione di ferro/acciaio e all’energia consumata. Per «ricchezza europea» si intende l’output siderurgico e l’input energetico complessivi delle potenze considerate. Per gli anni fra il 1830 e 1850 inclusi si è considerato il solo consumo ener­ getico. Fonte: Singer e Small, National M aterial Capabilities Data.

Ricchezza e potenza

Cì U1

La logica di potenza

industriale russa ebbe importanti conseguenze militari. Per esempio, nel ven­ tennio che precedette la prima guerra mondiale, la Russia non potè permetter­ si di costruire una vasta rete ferroviaria nelle sue regioni occidentali, cosa che le rese difficile mobilitare e spostare rapidamente le sue truppe sul confine russo­ tedesco. La Germania invece aveva un sistema ferroviario ben sviluppato, così che riuscì muovere le sue forze rapidamente verso quel confine. Per correggere fasimmetria, la Francia, che era alleata della Russia contro la Germania, sov­ venzionò la costruzione delle ferrovie russe45. In sostanza, alla vigilia della pri­ ma guerra mondiale, la Russia era uno stato semindustrializzato che stava per scendere in guerra contro una Germania altamente industrializzata46. Non sorprende che l’economia di guerra russa non fosse in grado di soddi­ sfare le esigenze del proprio esercito. La produzione di fucili era in un tale sta­ to che nel 1915 «solo una parte dell’esercito era armata, mentre l’altra aspetta­ va che ci fossero dei caduti per procurarsi le armi»47. Ancora nel 1917 l’arti­ glieria era così carente che la Germania disponeva di 6819 pezzi pesanti men­ tre la Russia ne aveva solo 1430. Jonathan Adelman calcola che nella migliore delle ipotesi solo il 30 per cento delle esigenze di equipaggiamento dell’eserci­ to russo fu soddisfatto nel corso della guerra. Un altro modo di guardare il problema russo consiste nel considerare i seguenti confronti per il periodo che va dal 1914 al 1917: 1) 2) 3) 4)

la la la la

Germania Germania Germania Germania

produsse 47.300 aeroplani; la Russia 3500 produsse 280.000 mitragliatrici; la Russia 28.000 produsse 64.000 pezzi di artiglieria; la Russia 11.700 produsse 8.547.000 fucili; la Russia 3.300.000

Non c’è quindi da stupirsi se nella prima guerra mondiale meno della metà delle forze armate tedesche furono in grado di battere l’intero esercito russo. Brutalmente ma efficacemente, Stalin negli anni Trenta riuscì a modernizza­ re l’economia sovietica, così che all’inizio della seconda guerra mondiale la Ger­ mania godeva solo di un modesto vantaggio, quanto a ricchezza, rispetto all’Unione Sovietica (vedi Tabella 3.3)48. Così, l’economia di guerra sovietica potè competere efficacemente con l’economia di guerra tedesca nel secondo conflit­ to mondiale. Anzi, i sovietici superarono i tedeschi nella produzione praticamente di tutte le categorie di armamento militare negli anni dal 1941 al 1945: 1) l’Unione Sovietica produsse 102.600 aeroplani; la Germania 76.200 2) l’Unione Sovietica produsse 1.437.900 mitragliatrici; la Germania 1.048.500

Ricchezza e potenza

3) l’Unione Sovietica produsse 11.820.500 fucili; la Germania 7.845.700 4) l’Unione Sovietica produsse 92.600 carri armati; la Germania 41.500 5) l’Unione Sovietica produsse 350.300 mortai; la Germania 68.90049 Nessuna meraviglia allora che l’Armata Rossa riuscì a sconfìggere la Wehrmacht sul fronte orientale50. Anche se l’economia sovietica subì enormi danni nella seconda guerra mondiale (vedi Tabella 3.4), l’Unione Sovietica emerse dal conflitto con la più potente economia d’Europa51. Non sorprende che alla fine degli anni Quaran­ ta disponesse di una potenza militare sufficiente a dominare la regione. Ma gli Stati Uniti, molto più ricchi dell’Unione Sovietica (vedi Tavola 3.5), erano determinati a impedirle di diventare un egemone europeo. Nei primi tre decenni dopo la seconda guerra mondiale, l’economia sovietica crebbe rapida­ mente mentre il paese si riprendeva dalla guerra, e il divario di ricchezza con il suo rivale bipolare si ridusse in misura considerevole. Sembrava che la previsio­ ne del segretario generale Nikita Kruscev, che nel 1956 si era vantato che l’U ­ nione Sovietica avrebbe «sepolto» gli Stati Uniti, si potesse davvero realizzare52. L’economia sovietica, però, nei primi anni Ottanta cominciò a perdere col­ pi, perché non riusciva a stare al passo dell’economia americana nello sviluppo dei computer e delle altre tecnologie informatiche53. Questo problema non si

Tabella 3.4 -

q u o t e d i r ic c h e z z a r e l a t iv a

Stati Uniti Germania Unione Sovietica Gran Bretagna Italia

,

19 4 1-19 4 4

1941

1942

1943

1944

54% 22% 12% 9% 3%

58% 23% 7% 9% 3%

61% 23% 7% 9%

63% 19% 9% 9%

-

-

Nota: per «ricchezza» si intende qui il medesimo concetto usato nella Tab. 3.3, fatto salvo che qui si utiliz­ za l’energia prodotta invece dell’energia consumata. Fonte: B.R. Mitchell, International Historical Statistics: The Americas, 1750-1988, 2nd ed., New York, Stockton Press, 1993, pp. 356, 397; International Historical Statistics: Europe, 1750-1988, 3rd ed., New York, Stockton Press, 1992, pp. 457-58, 547; Mark Harrison, Soviet Planning in Peace and War, 1938-1945, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, p. 253. Si veda United States Strategie Bombing Survey (USSBS), The Effects o f Strategie Bombing on thè German War Economy, European War Report 3, Washing­ ton, USSBS, October 31, 1945, pp. 249-52; Patricia Harvey, «The Economie Structure of Hitler’s Europe», in Arnold Toynbee e Veronica M. Toynbee, a cura di, H itler’s Europe, Oxford, Oxford University Press, 1954, pp. 165-282; Adelman, Prelude to thè Cold War: The Tsarist, Soviet, and U.S. Armies in thè Two World Wars, Boulder, Lynne Rienner, 1988, p. 219.

La logica di potenza

Tabella 3.5 -

le su perpo ten ze

Stati Uniti Unione Sovietica

:

q u o t e d i r ic c h e z z a r e l a t iv a

,

19 45-19 9 0

1945

1950 1955

1960 1965

1970 1975

1980 1985

1990

84% 16%

78% 22%

67% 33%

65% 35%

65% 35%

66% 34%

68% 32%

72% 28%

67% 33%

63% 37%

Nota: i dati relativi al 1945, 1950 e 1955 si basano sull’indice composito della Tab. 3.3; a partire dal 1960 utilizzo invece il PNL. Fonte: 1945-55 Singer e Small, National M aterial Capabilities D ata; i dati 1960-90 sul PNL sovietico pro­ vengono da U.S. Arms Control and Disarmament Agency, World M ilitary Expenditures and Arms Transfer Database. È dibattuto se questi dati stimino correttamente l’entità dell’economia sovietica nel periodo 1945-1991. Per mio conto, sono tuttora i migliori disponibili.

manifestò con una brusca caduta del Pnl rispetto agli Stati Uniti, anche se ciò era quanto i leader sovietici si aspettavano sul lungo periodo. Essi riconobbero inoltre che questa incipiente arretratezza tecnologica avrebbe finito per dan­ neggiare anche l’apparato militare sovietico. Il maresciallo Nikolai Ogarkov fu esonerato dalla carica di capo dello stato maggiore generale sovietico nell’esta­ te del 1984 per aver dichiarato pubblicamente che l’industria sovietica stava perdendo posizioni rispetto a quella americana, il che equivaleva ad ammette­ re che l’armamento sovietico sarebbe stato presto inferiore a quello america­ no54. I leader sovietici riconobbero la gravità della situazione e cercarono di correre ai ripari. Ma le loro riforme economiche e politiche presero una brut­ ta piega, scatenando la crisi dei nazionalismi, che non solo permise agli Stati Uniti di vincere la guerra fredda ma portò in breve anche alla disgregazione dell’Unione Sovietica. Questa discussione sull’importanza della ricchezza per la costruzione della macchina bellica indica che la distribuzione del potere latente tra gli stati dovrebbe riflettere più o meno la distribuzione del potere militare, e quindi dovrebbe essere possibile equiparare i due tipi di potere. La mia tesi che le grandi potenze tendono a massimizzare la propria quota di potere mondiale potrebbe rafforzare questa idea, poiché sembrerebbe implicare che tutti gli sta­ ti traducano la loro ricchezza in potere militare approssimativamente allo stes­ so ritmo. Ma non è così, e quindi la forza economica non sempre è un valido indicatore della forza militare.

Ricchezza e potenza

IL DIVARIO TRA POTERE LATENTE E POTERE MILITARE Le alleanze formatesi durante la guerra fredda illustrano i problemi che nasco­ no quando si equiparano ricchezza e potere militare. Gli Stati Uniti rimasero molto più ricchi dell’Unione Sovietica dall’inizio alla fine di quel conflitto, ma 10 furono soprattutto tra il 1945 e il 1955, quando vennero creati la NATO e 11 Patto di Varsavia (vedi Tabella 3.5). Ma il Regno Unito, la Francia, la Ger­ mania Occidentale e l’Italia in Europa, e in Asia il Giappone, optarono per aderire alla coalizione a guida americana mirante a contenere l’Unione Sovie­ tica. Se la ricchezza fosse una misura precisa del potere, quegli stati meno potenti avrebbero dovuto unire le loro forze a quelle dell’Unione Sovietica per tenere sotto controllo gli Stati Uniti, e non il contrario. Dopotutto, se la ric­ chezza è il metro di misura della potenza, gli Stati Uniti erano chiaramente la superpotenza più forte55. Non sempre le realtà della potenza riflettono la gerarchia della ricchezza, e questo per tre motivi. Primo, gli stati trasformano porzioni variabili della loro ricchezza in potenza militare. Secondo, l’efficienza di tale conversione varia da caso a caso, occasionalmente con conseguenze importanti per l’equilibrio di potenza. E, terzo, le grandi potenze adottano tipi diversi di forze militari, e anche queste scelte hanno implicazioni per l’equilibrio militare. Rendimenti decrescenti Gli stati prosperi talvolta decidono di non accrescere le forze militari —anche se in teoria potrebbero permetterselo —perché calcolano che ciò non darebbe loro un vantaggio strategico sui rivali. Spendere di più non ha molto senso quando lo sforzo di difesa di uno stato è soggetto a rendimenti decrescenti (ossia, se le sue capacità militari sono già sul «tratto piatto della curva») o se gli avversari possono facilmente replicare lo sforzo e ripristinare l’equilibrio. In sintesi, se dare il via a una corsa agli armamenti ha scarse probabilità di migliorare la posizione strategica di chi la innesca, questi farebbe bene a resta­ re fermo in attesa di circostanze più favorevoli. Il Regno Unito del XIX secolo è un buon esempio di stato che raggiunse il tratto piatto della curva in termini di guadagno militare derivante da un incremento della spesa per la difesa. Tra il 1820 e il 1890, il Regno Unito era di gran lunga lo stato più ricco d’Europa. Durante quel periodo non control­ lò mai meno del 45 per cento della ricchezza totale delle grandi potenze, e nei due decenni centrali del secolo (1840-1860) ne possedette quasi il 70 per cento (vedi Tabella 3.3). La Francia, che durante quei vent’anni fu il più

La logica di potenza

prossimo concorrente del Regno Unito, non controllò mai più del 16 per cento della forza industriale europea. Nessun altra grande potenza europea ha mai goduto di un margine economico così soverchiarne sui suoi rivali. Se la ricchezza da sola fosse un efficace indicatore di potenza, il Regno Unito sarebbe stato probabilmente la prima potenza egemonica d’Europa, o almeno un potenziale egemone che le altre grandi potenze avrebbero dovuto contro­ bilanciare. Ma la storia documenta con ogni evidenza che non fu così56. Nonostante la sua grande ricchezza, il Regno Unito non edificò mai una forza militare tale da costituire una seria minaccia per Francia, Germania o Russia. Anzi, tra il 1815 e il 1914, il Regno Unito spese per la difesa una percentuale della sua ricchezza molto minore di quelle delle grandi potenze sue rivali57. Il Regno Unito era soltanto uno stato come un altro nell’equilibrio europeo del potere. Di conseguenza le altre grandi potenze non formarono mai una coalizione di bilanciamento per contenere la Gran Bretagna vittoriana, come avvenne inve­ ce con la Francia napoleonica, la Germania guglielmina, la Germania nazista e la Russia sovietica58. Il Regno Unito non organizzò un grande esercito né cercò di conquistare l’Europa perché il tentativo di proiettare la sua potenza al di là della Manica sul continente europeo l’avrebbe posto di fronte a enormi difficoltà. Le grandi distese d’acqua, come vedremo nel prossimo capitolo, tendono a sottrarre capacità offensiva agli eserciti. Al contempo, il medesimo potere frenante del­ l’acqua rendeva particolarmente difficile l’ipotesi che le potenze continentali attraversassero il mare e invadessero il Regno Unito. E così, saggiamente, la terra d’Albione concluse che non aveva alcun senso strategico formare un eser­ cito potente che sarebbe stato di scarsa utilità per l’offesa e di ancor più scarsa utilità per la difesa del territorio. Relativamente al XIX secolo, gli Stati Uniti offrono un altro esempio di stato ricco che mantiene un’organizzazione bellica relativamente ridotta. Gli Stati Uniti nel 1850 erano abbastanza ricchi da qualificarsi come grande potenza, ma è opinione comune che questo status elevato fu raggiunto solo nel 1898, quando cominciarono a dotarsi di una forza militare in grado di competere con quelle delle grandi potenze europee59. La questione è discussa approfonditamente nel Capitolo 7. Qui basti dire che nonostante l’esiguità del loro esercito, gli Stati Uniti furono uno stato fortemente espansionista per tutto il XIX secolo, quando respinsero oltreoceano le grandi potenze europee e ampliarono i loro confini a ovest fino al Pacifico. Gli Stati Uniti erano deter­ minati a raggiungere l’egemonia sull’emisfero occidentale, obiettivo chiara­ mente conseguito all’inizio del X X secolo.

Ricchezza e potenza

L’apparato militare americano rimase molto più ridotto di quelli delle sue controparti europee nella seconda metà del XIX secolo, perché poteva dominare l’emisfero senza eccessivo dispendio di mezzi. Rivali locali quali le varie tribù di indiani americani o il Messico poterono essere battuti anche da un esercito pic­ colo come quello statunitense, e le grandi potenze europee non erano in grado di dare serie preoccupazioni agli Stati Uniti. Non soltanto gli europei dovevano dedicare risorse significative alla difesa dei loro territori dalle aggressioni recipro­ che, ma, indipendentemente da questo, proiettare la forza sul continente ameri­ cano, al di là dell’Atlantico, era un compito estremamente difficile. Talvolta gli stati mettono un freno al loro budget militare perché ritengo­ no che il finanziamento di una politica di difesa aggressiva possa avere un effetto negativo sull’economia, cosa che a sua volta indebolirebbe la forza del­ lo stato, essendo la potenza economica il fondamento di quella militare. Negli anni Trenta, per esempio, i responsabili della politica britannica strinsero i cordoni della borsa per quanto riguardava le spese militari nonostante si tro­ vassero di fronte a molteplici minacce in varie zone del mondo, ritenendo che un aumento consistente avrebbe rovinato l’economia britannica, quella che veniva definita «la quarta forza armata»60. Analogamente, l’amministrazione del presidente Dwight Eisenhower (1953-1961) era dominata da elementi fiscalmente conservatori, che tendevano a vedere in un alto livello di spesa per la difesa un elemento potenzialmente dannoso per l’economia americana. Questa fu una delle ragioni dei tagli a cui negli anni Cinquanta fu sottoposta la spesa militare USA e della maggiore enfasi sulle armi nucleari. Una strategia centrata sul nucleare, si pensava, avrebbe fornito una base per una politica di difesa stabile e fiscalmente sostenibile nel lungo periodo61. Anche gli alleati incidono sul livello di risorse che una grande potenza destina alla propria difesa. Certo, due grandi potenze impegnate in un’intensa competizione per la sicurezza, o che abbiano in corso una guerra tra loro, dedicheranno forti risorse al settore militare. Ma se uno dei due rivali ha degli alleati ricchi e l’altro no, lo stato con amici ricchi dovrà con ogni probabilità investire meno del suo avversario nella difesa. Durante la guerra fredda, per esempio, l’Unione Sovietica destinò alla difesa una percentuale della propria ricchezza maggiore di quella impegnata dagli Stati Uniti62. Questa asimmetria era dovuta in parte al fatto che gli Stati Uniti avevano alleati ricchi come il Regno Unito, la Francia, l’Italia e soprattutto la Germania Occidentale e il Giappone. L’Unione Sovietica, da parte sua, poteva contare solo su alleati poveri come la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Polonia63. Infine, ci sono casi in cui uno stato ricco non può costituire una poderosa forza militare perché è occupato da una grande potenza che vuole mantenerlo

La logica di potenza

in una condizione di debolezza militare. L’Austria e la Prussia, per esempio, furono entrambe sconfìtte e scalzate dalla Francia dal novero delle grandi potenze durante le guerre napoleoniche, e la Francia fu occupata dalla Germa­ nia nazista dalla metà del 1940 fino all’estate del 1944, quando fu finalmente liberata dalle truppe britanniche e americane. Gli Stati Uniti mantennero truppe in Germania Occidentale e in Giappone durante la guerra fredda, e anche se sicuramente furono un occupante benevolo, non permisero né all’u­ no né all’altro dei loro alleati di costruirsi la struttura militare necessaria a diventare una grande potenza. Gli Stati Uniti preferirono mantenere sotto controllo il Giappone anche quando questo, negli anni Ottanta se non prima, era diventato più o meno economicamente potente quanto l’Unione Sovieti­ ca. Per la precisione, i dati a disposizione indicano che il PNL del Giappone divenne più alto di quello dell’Unione Sovietica a partire dal 198764. Questo esempio dimostra che, se tutte le grandi potenze sono stati ricchi, non tutti gli stati ricchi sono grandi potenze. Livelli e dislivelli di efficienza È poco saggio equiparare la distribuzione della potenza economica a quella del­ la forza militare anche per un altro motivo: perché gli stati convertono la ric­ chezza in potenza bellica con diversi gradi di efficienza. C ’è anzi, a volte, un sensibile divario di efficienza tra grandi potenze rivali, un divario che ha un marcato effetto sull’equilibrio del potere. Lo scontro mortale tra Germania nazista e Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale illustra questo punto. Nel 1940 la Germania controllava circa il 36 per cento della ricchezza europea, mentre all’Unione Sovietica spettava circa il 28 per cento (vedi Tabella 3.3). Nella primavera del 1940 la Germania conquistò il Belgio, la Danimarca, la Francia, i Paesi Bassi e la Norvegia e cominciò immediatamen­ te a sfruttarne le economie, accrescendo il proprio vantaggio di ricchezza rispetto all’Unione Sovietica65. Quindi, nel giugno 1941, la Wehrmacht inva­ se l’Unione Sovietica, permettendo alla Germania nel giro di sei mesi di con­ trollare quasi tutto il territorio sovietico a ovest di Mosca, proprietà immobi­ liare di primo livello. Alla fine del 1941 l’Unione Sovietica aveva perduto ter­ ritorio contenente il 41 per cento della sua rete ferroviaria, il 42 per cento degli impianti di produzione elettrica, il 71 per cento dei minerali ferrosi, il 63 per cento del carbone e il 58 per cento della capacità produttiva di acciaio grezzo66. Nella primavera del 1942 la macchina bellica nazista ampliò ulterior­ mente il proprio raggio di azione penetrando in profondità nella regione caueasica ricca di petrolio. Tra il 1940 e il 1942 l’Unione Sovietica perse circa il

Ricchezza e potenza

40 per cento del proprio reddito nazionale67. La Germania, a conti fatti, entro il 1942 deteneva un vantaggio economico di oltre 3 a 1 rispetto all’Unione Sovietica (vedi Tabella 3.4). Nonostante l’amplissimo margine della Germania in termini di potere latente, l’economia di guerra sovietica superò in maniera sorprendente quella tedesca nel corso del conflitto e aiutò a spostare l’equilibrio di potenza a favo­ re dell’Armata Rossa. Come già ricordato, tra il 1941 e il 1945, l’Unione Sovietica produsse 2,2 volte più carri armati e 1,3 volte più aeroplani della Germania. La cosa più incredibile è che i sovietici batterono la produzione della Germania perfino nei primi anni di guerra, quando l’invasione tedesca del territorio sovietico era all’apice e la campagna dei bombardamenti alleati doveva ancora avere effetti tangibili sull’economia di guerra tedesca. L’Unione Sovietica, per esempio, produsse nel 1942 qualcosa come 25.000 carri armati; la Germania 9200. Il rapporto dei pezzi di artiglieria per il 1942 fu di 127.000 a 12.000 a favore dei sovietici68. Questa asimmetria nella produzione di armamenti finì per tradursi in un significativo vantaggio sovietico nell’equi­ librio delle forze di terra. Quando nel giugno 1941 la Germania invase l’U ­ nione Sovietica, questa aveva un leggero vantaggio nel numero di divisioni — 211 a 199 - indicatore chiave della potenza militare. Nel gennaio 1945, però, le divisioni sovietiche erano diventate 473 e quelle tedesche solo 276, e mediamente una divisione dell’Armata Rossa era molto meglio equipaggiata in armi e veicoli che una divisione della Wehrmacht69. Come fu l’Unione Sovietica in grado di produrre una quantità di arma­ mentario tanto maggiore della assai più ricca Germania nazista? Una risposta potrebbe essere che l’Unione Sovietica destinò al settore militare una percen­ tuale più alta della ricchezza disponibile di quanto fece il Terzo Reich. Ma in realtà, tra le due, fu la Germania a dedicare alla difesa una fetta del reddito nazionale leggermente superiore. Nel 1942, per esempio, il margine tedesco sui sovietici in spese militari era del 63 contro il 61 per cento della ricchezza prodotta; nel 1943 del 70 contro il 61 per cento70. I bombardamenti strategi­ ci degli alleati potrebbero anche aver danneggiato la produzione bellica tede­ sca negli ultimi mesi di guerra, ma, come notato, sopra l’Unione Sovietica sta­ va producendo quantità di armi superiori ai tedeschi ben prima che la campa­ gna di bombardamenti cominciasse ad avere effetti significativi sulla produzio­ ne tedesca71. Il motivo principale per cui l’Unione Sovietica produsse così tan­ te armi in più della Germania è che i sovietici furono molto più abili nel razionalizzare l’economa in modo da soddisfare le esigenze della guerra totale. In particolare l’economia sovietica (come quella americana) era organizzata molto meglio di quella tedesca per la produzione di massa degli armamenti72.

La logica di potenza

Diversi tipi di forze armate L’ultimo motivo per cui la ricchezza non è un indicatore affidabile della potenza militare è che gli stati possono dotarsi di diversi generi di forze arma­ te, e il modo in cui lo fanno influisce sull’equilibrio di potenza. L’argomento sarà trattato approfonditamente nel prossimo capitolo. Il punto chiave, qui, è se uno stato ha un grande esercito con significative capacità di proiezione del­ la forza. Durante il periodo che va dal 1870 al 1914, per esempio, quando la spesa per la difesa delle grandi potenze era solo suddivisa tra esercito e marina, il Regno Unito destinava una quota molto più ampia del bilancio militare alla marina di quanto non facessero la Francia o la Germania73. Questi diversi modelli di spesa militare avevano una logica precisa dal punto di vista strategi­ co, poiché il Regno Unito era uno stato insulare che necessitava di una flotta grande e potente per proteggere il commercio marittimo e per trasportare l’e­ sercito al di là delle vaste distese d’acqua che lo separavano dal continente europeo e dalfimmenso impero britannico. La Francia e la Germania, invece, in quanto potenze continentali dotate di imperi molto più ridotti, dipendeva­ no dalla marina molto meno del Regno Unito. E al tempo stesso dipendevano molto più dall’esercito del Regno Unito, perché dovevano preoccuparsi costantemente di una possibile invasione da parte di uno stato confinante. Il Regno Unito aveva molti meno timori di essere attaccato perché a separarlo dalle altri grandi potenze europee aveva quella grande barriera contro le inva­ sioni che è la Manica. Di conseguenza il Regno Unito aveva un esercito mol­ to più ridotto sia della Francia sia della Germania. Inoltre il piccolo esercito britannico aveva scarsa capacità di proiezione del­ la forza contro le altri grandi potenze europee, perché lo stesso ostacolo geo­ grafico che rendeva difficile l’invasione del Regno Unito da parte di un rivale, rendeva difficile per il Regno Unito l’invasione del continente. Il kaiser Guglielmo sintetizzò efficacemente la debolezza militare del Regno Unito quando nel 1911 disse a un visitatore britannico: «Mi scusi se glielo dico, ma le poche divisioni che sareste in grado di mettere in campo non farebbero alcuna apprezzabile differenza»74. In breve, nel corso dei quarantaquattro anni che precedettero la prima guerra mondiale il Regno Unito non fu potente né quanto la Francia né quanto la Germania, pur essendo più ricco della Francia per l’intero periodo e più ricco della Germania per circa tre quarti dello stesso arco di tempo (vedi Tabella 3.3). Dovrebbe risultare evidente che talvolta vi sono importanti differenze nel modo in cui ricchezza e forza sono distribuite tra le grandi potenze, ma che

Ricchezza e potenza

tali asimmetrie contraddicono l’ipotesi che gli stati tengono comportamenti massimizzanti rispetto alla quota di potere mondiale. Per fondate ragioni stra­ tegiche, gli stati non organizzano il proprio assetto militare tutti allo stesso modo, e possono destinare alle forze armate quote differenti della propria ric­ chezza. Inoltre gli stati distillano la potenza militare dalla ricchezza con livelli variabili di efficienza. Tutte queste considerazioni influiscono sull’equilibrio di potenza. Quindi, pur essendo la ricchezza la base della potenza militare, è impossi­ bile equiparare semplicemente la prima alla seconda. E necessario ricorrere a indicatori separati per la potenza militare. Il prossimo capitolo affronta questo compito.

Capitolo quarto

IL PRIMATO DELLA POTENZA TERRESTRE

Il potere in politica internazionale è in larga misura il frutto delle forze milita­ ri che uno stato possiede. Le grandi potenze possono però dotarsi di tipi diversi di forze armate, e dalla composizione di esse derivano importanti implicazioni per l’equilibrio di potenza. I quattro tipi di potere militare di cui gli stati scelgono di disporre - potenza navale indipendente, forza aerea strate­ gica, potere di terra e arma nucleare —vengono analizzati in questo capitolo per determinare come soppesarli uno contro l’altro e per pervenire a una effi­ cace misura della potenza. Nella discussione che segue propongo due punti principali. Primo, la potenza terrestre è la forma dominante di potere militare nel mondo moder­ no. La potenza di uno stato si fonda principalmente sul suo esercito e sulle armi d’aria e di mare che supportano le forze di terra. In parole povere, gli sta­ ti più potenti sono quelli che possiedono gli eserciti più formidabili. Di con­ seguenza, l’equilibrio della potenza terrestre dovrebbe essere in grado di forni­ re da solo un indicatore, approssimativo ma affidabile, della forza relativa di grandi potenze rivali. Secondo, le grandi estensioni marine limitano fortemente la capacità di proiettare potenza delle forze di terra. Quando due eserciti che si fronteggiano devono attraversare una vasta distesa d’acqua come l’Oceano Adantico o la Manica per combattersi, nessuno dei due avrà forte capacità offensiva, indi­ pendentemente dalle caratteristiche quantitative e qualitative delle forze con­ trapposte. Il potere frenante dell’acqua ha grande importanza non solo perché è un aspetto centrale per comprendere la potenza terrestre, ma perché ha con­ seguenze profonde per il concetto di egemonia. Specificamente, la presenza di oceani su gran parte della superficie della Terra rende praticamente impossibi­ le a qualsiasi stato di raggiungere l’egemonia globale. Nemmeno lo stato più

La logica dì potenza

potente del mondo è in grado di conquistare regioni lontane che si possono raggiungere solo via mare. Quindi, le grandi potenze possono soltanto aspira­ re a dominare la regione in cui sono situate, ed eventualmente una regione adiacente a questa raggiungibile via terra. Da oltre un secolo gli esperti di strategia discutono quale forma della potenza militare domini gli esiti della guerra. L’ammiraglio americano Alfred Thayer Mahan proclamò la suprema importanza di una forza navale indipen­ dente nel celebre The Influence ofSea Power upon History, 1660-1783 e in altri scritti1. Successivamente il generale italiano Giulio Douhet affermò il primato dell’aviazione strategica in un testo del 1921 diventato un classico, Il dominio dell’aria?-. Le loro opere sono ancora studiate nelle accademie militari di tutto il mondo. Io sostengo che entrambi sono in errore: lo strumento militare deci­ sivo è il potere di terra. Le guerre le vincono i grandi battaglioni, non le flotte aeree o marine. La potenza più forte è lo stato che ha l’esercito più forte. Qualcuno potrebbe obiettare che l’arma nucleare ha ridotto fortemente l’importanza della potenza terrestre, o rendendo obsoleta la guerra tra grandi potenze o facendo dell’equilibrio nucleare la componente essenziale del potere militare in un mondo competitivo. Non c’è dubbio che la guerra tra grandi potenze sia meno probabile in un mondo nucleare, ma le grandi potenze con­ tinuano a competere per la sicurezza anche all’ombra del nucleare, talvolta intensamente, e la guerra tra loro continua a essere una possibilità molto con­ creta. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, per esempio, hanno portato avanti per quarantacinque anni una ininterrotta competizione per la sicurezza, nono­ stante la presenza di armi nucleari da ambo le parti. Inoltre, a parte l’impro­ babile scenario di una grande potenza che dovesse conseguire la superiorità nucleare, l’equilibrio nucleare conta poco nella determinazione della potenza relativa. Perfino in un mondo nucleare gli eserciti, e le forze aeree e navali che li supportano, sono il nocciolo della potenza militare. I tipi di alleanza che si formarono durante la guerra fredda sono la prova che il potere di terra è la componente principale della potenza militare. In un mondo dominato da due grandi potenze, ci aspetteremmo che altri stati chia­ ve uniscano le loro forze a quelle della grande potenza più debole per conte­ nere quella più forte. Nel corso di tutta la guerra fredda, gli Stati Uniti non solo sono stati sempre molto più ricchi dell’Unione Sovietica, ma in più han­ no goduto di un significativo vantaggio in termini di forze navali, bombardie­ ri strategici e testate nucleari. Ciononostante, Francia, Germania Occidentale, Italia, Giappone, Regno Unito, e successivamente Cina, hanno considerato l’URSS, e non gli Stati Uniti, lo stato più potente del sistema. Infatti, questi stati si sono alleati con gli Stati Uniti contro l’Unione Sovietica, perché teme­

Il prim ato d e lla potenza terrestre

vano l’esercito sovietico più di quello americano3. Oggi la minaccia russa è poco sentita —benché la Russia disponga di migliaia di testate nucleari - per­ ché l’esercito russo è debole e assolutamente non in grado di lanciare una grande offensiva di terra. Qualora dovesse riprendersi e tornare a essere la for­ midabile forza combattente di un tempo, gli Stati Uniti e i suoi alleati europei comincerebbero a preoccuparsi della nuova minaccia russa. Questo capitolo è diviso in otto sezioni. Nelle prime quattro metto a con­ fronto i diversi tipi di potere militare convenzionale, nell’intento di dimostra­ re che il potere terrestre ha la prevalenza sul potere navale indipendente e sul potere aereo strategico. Nella prima sezione descrivo più particolareggiata­ mente questi diversi generi di potere militare e spiego perché quello terrestre sia lo strumento chiave per vincere una guerra. Nelle due sezioni successive esamino le varie operazioni in cui vengono solitamente impiegate le flotte navali e gli squadroni aerei e poi considero l’insieme delle prove costituite dagli effetti che hanno avuto le forze navali e aeree sugli esiti delle guerre tra grandi potenze. Il ruolo della potenza terrestre nella storia militare moderna è esaminato nella quarta sezione. La quinta sezione esamina come i mari riducano nettamente la capacità di proiezione della potenza degli eserciti, spostando così l’equilibrio del potere di terra in misura significativa. L’impatto del nucleare sulla potenza militare è discusso nella sesta sezione. Quindi spiego come misurare la potenza terrestre nella settima sezione, a cui fa seguito una breve conclusione che presenta alcu­ ne implicazioni per la stabilità internazionale che conseguono dalla mia anali­ si del potere e della potenza.

CO NQ UISTA VS. CO ERCIZIO NE La potenza terrestre si fonda sugli eserciti, ma include anche le forze aeronava­ li a loro sostegno. Per esempio, unità navali trasportano gli eserciti oltre vaste estensioni d’acqua e talvolta tentano di far sbarcare forze di terra su litorali ostili. Anche le forze aeree trasportano truppe ma, cosa più importante, aiuta­ no gli eserciti scaricando potenza di fuoco dal cielo. Questi compiti aeronava­ li, però, hanno la funzione di assistere direttamente l’esercito, non di operare indipendentemente da esso. Quindi, questi tipi di operazioni delle armi di cielo e di mare rientrano nell’ambito del potere di terra. Gli eserciti hanno importanza suprema nella condotta della guerra perché sono lo strumento principe per conquistare e controllare territorio, che è il principale obiettivo politico in un mondo di stati territoriali. Le forze aeree e

La logica di potenza

navali semplicemente non riescono a conquistare territorio4. Il celebre stratega navale britannico Julian Corbett esprime bene il rapporto tra esercito e mari­ na: «Poiché gli uomini vivono a terra e non in mare, le grandi controversie tra nazioni in guerra sono sempre state decise - salvo in casi assai rari - o da ciò che un esercito può fare contro la terra e la vita nazionale del nemico, o dal timore di ciò che la flotta consente a un esercito di fare»5. La logica di Corbett si applica tanto all’aviazione quanto alla marina. Forze navali e aeree, però, non devono necessariamente operare come sem­ plici moltiplicatori di potenza per l’esercito. Ciascuna di esse può anche proiettare autonomamente potenza contro stati rivali, come molti entusiasti delle due armi amano sottolineare. La marina, per esempio, può ignorare quanto sta accadendo sul campo di battaglia e porre un blocco navale cercan­ do di isolare l’avversario, mentre le forze aeree possono oltrepassare in volo la zona di battaglia per arrivare a bombardare le città nemiche. Ma blocchi nava­ li e bombardamenti strategici mirano a raggiungere la vittoria costringendo l’avversario alla resa prima che il suo esercito sia sconfitto sul campo. Specifi­ camente, l’obiettivo è far sì che l’avversario si arrenda, distruggendone l’eco­ nomia, minando così la sua capacità di proseguire la guerra oppure infliggen­ do sofferenze su vasta scala alla sua popolazione civile. Checché ne dicano Douhet e Mahan, né la potenza navale indipendente né il dominio aereo strategico sono di grande utilità per vincere grandi guerre. Nessuno dei due strumenti di coercizione è in grado, operando in isolamento, di dare soluzione a una guerra tra grandi potenze. Solo il potere di terra può sperare di vincere da solo un conflitto di grandi dimensioni. La ragione prin­ cipale, come vedremo, sta nel fatto che la coercizione è difficile nei confronti di una grande potenza. In particolare, è difficile distruggere l’economia di un nemico semplicemente sottoponendolo a blocco navale o bombardandolo. Inoltre negli stati moderni, i leader come le popolazioni raramente sono disposti ad arrendersi anche dopo aver subito perdite pesantissime. Se le navi che effettuano il blocco e i bombardieri strategici non possono produrre auto­ nomamente una vittoria, talvolta possono però aiutare gli eserciti a conseguir­ la, danneggiando l’economia che alimenta la macchina bellica dell’avversario. Ma anche in questa funzione più limitata, le forze aeronavali di norma non svolgono niente di più che un ruolo ausiliario. La potenza terrestre domina gli altri tipi di risorse militari per un altro motivo: solo gli eserciti possono speditamente sconfiggere un antagonista. I blocchi navali e i bombardamenti strategici, come si dirà più avanti, non sono in grado di produrre vittorie rapide e decisive in una guerra tra grandi poten­ ze. Sono utili soprattutto per combattere lunghe guerre di logoramento. Ma

Il p rim ato d e lla potenza terrestre

gli stati raramente entrano in guerra, se non ritengono probabile una conclu­ sione rapida. Anzi, la prospettiva di conflitto prolungato è di solito un eccel­ lente deterrente alla guerra6. Di conseguenza, l’esercito è lo strumento princi­ pale di cui dispone una grande potenza per dar inizio a un’aggressione. Il potenziale offensivo di uno stato, in altre parole, è rappresentato principal­ mente dal suo esercito. Diamo ora uno sguardo più approfondito alle differenti funzioni che svol­ gono le forze navali e aeree in guerra, prestando particolare attenzione all’influenza che hanno avuto i blocchi navali e le campagne di bombardamento strategico sugli esiti dei passati conflitti tra grandi potenze.

I LIMITI DELLA POTENZA NAVALE Una marina che voglia proiettare la sua potenza contro uno stato rivale deve prima assicurarsi il dominio del mare, che è la missione fondamentale delle for­ ze navali7. Dominio del mare significa il controllo delle linee di comunicazio­ ne che s’intrecciano sulla superficie dell’oceano, così che il naviglio commer­ ciale e militare di uno stato possa muoversi in libertà. Perché una marina abbia il dominio di un oceano, non è necessario che controlli tutto il mare in ogni momento, ma deve essere in grado di controllare le zone strategicamente importanti ogni volta che intende usarle, e negare al nemico la possibilità di fare altrettanto8. Il dominio del mare si può conseguire distruggendo la flotta nemica in battaglia, bloccandola nei porti, o negandole l’accesso a rotte mari­ ne cruciali. Una forza navale che domina gli oceani ha libertà di muoversi su quelle acque ma deve ancora trovare il modo di proiettare la sua potenza contro la homeland del rivale; il dominio del mare in sé non assicura questa capacità. Una marina può svolgere tre diverse forme di proiezione della forza, ma solo in appoggio diretto all’esercito, non agendo autonomamente. L'attacco anfibio si ha quando una flotta trasporta truppe al di là di un vasto specchio d’acqua e le sbarca sul territorio controllato da una grande potenza rivale9. Le forze attaccanti incontrano resistenza armata quando stan­ no per sbarcare o poco dopo. Il loro obiettivo è impegnare e sconfiggere gli eserciti del difensore e di conquistare in parte, se non nella totalità, il suo ter­ ritorio. L’invasione alleata della Normandia il 6 giugno 1944 è un esempio di attacco anfibio. Sbarchi anfibi, viceversa, si hanno quando le truppe trasportate via mare non incontrano quasi resistenza, allorché mettono piede in territorio nemico,

La logica di potenza

riuscendo a stabilire una testa di ponte e avanzare nell’entroterra prima di ingaggiare le forze avversarie10. La penetrazione di truppe britanniche nel Por­ togallo, controllato dalla Francia durante le guerre napoleoniche, di cui parle­ remo, è un esempio di sbarco anfibio; un altro è lo sbarco di unità dell’eserci­ to tedesco in Norvegia nella primavera del 1940. Il trasporto truppe da parte di una flotta comporta il trasferimento di forze di terra al di là di un oceano e il loro sbarco su territorio controllato da forze amiche, a partire dal quale entreranno in combattimento conto l’esercito nemico. La marina di fatto funge da servizio traghetto per l’esercito. La flotta americana svolse questa funzione nella prima guerra mondiale, quando tra­ sportò in Francia le truppe dagli Stati Uniti, e di nuovo nella seconda guerra mondiale, quando le traghettò dagli Stati Uniti al Regno Unito. Di questi diversi generi di operazioni anfibie parleremo più avanti, quando vedremo in che modo l’acqua limita l’impatto bellico degli eserciti. Qui basti dire che l’in­ vasione dal mare di un territorio difeso da una grande potenza rivale è di soli­ to un’operazione da far tremare i polsi. E che il trasporto truppe è la missione più facile11. Ci sono anche due modi in cui la marina può essere usata autonomamen­ te per proiettare potenza ai danni di un altro stato. Con il bombardamento navale, città nemiche o un gruppo di obiettivi militari scelti, di solito lungo la costa, vengono sottoposti al tiro sostenuto dei cannoni di bordo o al lancio di missili dalle navi e dai sottomarini o da velivoli in decollo dalle portaerei. L’o­ biettivo è esercitare coercizione sull’awersario, provocando danni alle sue città o spostando l’equilibrio militare in suo sfavore. Non è una strategia seria: il bombardamento navale è guerra a colpi di spillo, e ha scarso effetto sullo stato che ne è bersaglio. Anche se all’epoca della marineria a vela (1500-1850) spesso i porti veni­ vano bombardati dalla flotta nemica, questa non era in grado di convogliare sui suoi bersagli tanta potenza di fuoco da costituire qualcosa di più di un fastidio12. Inoltre il fuoco navale non aveva gittata sufficiente a raggiungere bersagli situati nell’interno. Orazio Nelson, il famoso ammiraglio britannico, sintetizzò la futilità dei bombardamenti navali effettuati da velieri affermando: «Una nave è sciocca se attacca un forte»13. L’industrializzazione delle flotte dopo il 1850 accrebbe in misura significativa non solo la potenza di fuoco dei natanti, ma anche la loro gittata. Tuttavia, l’industrializzazione ebbe un effetto ancora più profondo sulla capacità delle forze stanziate a terra di stanare e affondare le navi, come diremo più avanti. Tanto che in tempo di guerra, le flotte di superficie del XX secolo si sono di solito tenute bene al largo delle coste nemiche14. Cosa più importante è però rilevare che se una grande poten­

Il p rim ato d e lla potenza terrestre

za intendesse piegare un avversario con una campagna di bombardamento convenzionale, ricorrerebbe senza dubbio alla forza aerea e non alla marina. Per i due grandi teorici navali dei tempi moderni, Corbett e Mahan, il blocco navale è l’asso nella manica della marina nella guerra tra grandi potenze. Il blocco, che Mahan definisce «la più micidiale e terribile caratteristica della potenza marittima», opera strangolando l’economia dello stato rivale15. L’o­ biettivo è tagliare le vie di mare dell’avversario —impedire alle sue importazio­ ni di attraversare le acque e metterlo nell’impossibilità di esportare beni e materiali verso il mondo esterno. Una volta troncato il commercio marittimo, ci sono due modi con cui un blocco navale può piegare alla resa una grande potenza rivale. Primo, esso può infliggere gravi danni alla popolazione civile del nemico, soprattutto tagliando le importazioni di generi alimentari e rendendo la vita miserevole, se non impossibile, alla gente comune. Se una parte consistente della popola­ zione soffre e muore, l’appoggio popolare alla guerra svanirà, e il risultato può essere che il popolo si rivolti o che il governo si veda costretto a mettere fine alla guerra per paura di rivolte. Secondo, un blocco può indebolire a tal punto l’economia del nemico che questi non sarà più in grado di continuare la lotta. Probabilmente, il modo migliore per conseguire questo risultato è tagliare ogni accesso a un’importazione critica, come il petrolio. Le flotte che compiono il blocco di solito non fanno distinzioni tra questi due approcci, ma cercano di ridurre quanto più sia possibile il commercio marittimo di un avversario, nella speranza che uno dei due approcci dia i suoi frutti. In ogni caso, un blocco non produce una vittoria rapida e decisiva, perché occorre molto tempo prima che una flotta assediante riesca a incidere sull’economia di un avversario. Gli stati in linea di massima attuano il blocco navale impedendo al com­ mercio transoceanico di raggiungere lo stato bersaglio. Il Regno Unito, per esempio, si è storicamente affidato alla sua flotta di superficie per bloccare sta­ ti rivali come la Francia napoleonica e la Germania guglielmina. Anche i sot­ tomarini possono essere usati per sabotare il commercio marittimo di uno sta­ to, come tentò di fare la Germania con il Regno Unito in entrambe le guerre mondiali, e come fecero gli Stati Uniti contro il Giappone nel secondo con­ flitto mondiale. Gli americani usarono anche natanti di superficie, l’aviazione con base a terra e l’installazione di mine per isolare il Giappone. Ma non sem­ pre sono necessarie le navi per mettere in atto un blocco. Uno stato che domi­ ni un continente e ne controlli i porti maggiori può interrompere i traffici tra gli stati situati su quel continente e quelli ubicati altrove, bloccando così anche gli stati esterni alla regione dominata. Il Sistema Continentale napoleo­

La logica di potenza

nico (1806-13), che era organizzato ai danni del Regno Unito, rientra in que­ sto modello. Storia dei blocchi navali In epoca moderna ci sono otto casi in cui una grande potenza ha tentato di piegarne un’altra mediante un blocco navale in tempo di guerra: 1) la Francia pose il blocco al Regno Unito e 2) il Regno Unito fece altrettanto con la Fran­ cia durante le guerre napoleoniche; 3) il blocco navale francese alla Prussia nel 1870; 4) il blocco tedesco al Regno Unito e 5) il blocco di Gran Bretagna e Stati Uniti ai danni di Germania e Austria-Ungheria nella prima guerra mon­ diale; 6) nella seconda guerra mondiale la Germania bloccò il Regno Unito e 7) Regno Unito e Stati Uniti bloccarono Germania e Italia; 8) gli Stati Uniti bloccarono il Giappone nel corso della secondo conflitto mondiale. Il blocco dell’Unione alla Confederazione durante la guerra civile americana (18611865) potrebbe costituire un nono caso, anche se nessuna delle due parti era tecnicamente una grande potenza; esaminerò ugualmente la circostanza in questa sede16. Studiando questi casi occorre porsi due domande. La prima: ci sono prove che un blocco navale possa da solo costringere alla resa un nemico? La secon­ da: può un blocco contribuire in misura sostanziale alla vittoria degli eserciti di terra? Ossia, l’influenza di un blocco sull’esito finale di una guerra ha possi­ bilità di essere decisiva, più o meno al pari delle forze terrestri, o solo margi­ nale? L’economia britannica fu certamente danneggiata dal Sistema Continenta­ le di Napoleone, ma il Regno Unito non uscì dalla guerra e alla fine si trovò dalla parte vincente17. Il blocco britannico ai danni della Francia napoleonica non potè causare guasti sensibili all’economia francese, non particolarmente vulnerabile a un blocco navale18. Nessuno studioso sostiene seriamente che il blocco britannico abbia svolto un ruolo chiave nella caduta di Napoleone. Il blocco francese ai danni della Prussia nel 1870 non ebbe quasi effetto sull’eco­ nomia prussiana, e meno ancora sull’esercito prussiano, che infatti conseguì una vittoria decisiva su quello francese19. La campagna sottomarina tedesca contro i trasporti marittimi britannici durante la prima guerra mondiale minacciò seriamente nel 1917 di far uscire il Regno Unito dalla guerra, ma alla fine il blocco fallì e l’esercito britannico ebbe un ruolo fondamentale nel­ la sconfitta della Germania guglielmina nel 191820. In quello stesso conflitto la flotta britannica e quella americana imposero a loro volta a Germania e Austria-Ungheria un blocco che danneggiò gravemente le economie di quei

Il prim ato d ella potenza terrestre

paesi, provocando grandi sofferenze tra i civili21. Ciononostante, i tedeschi si arresero solo dopo che le armate del kaiser, che non erano mai state seriamen­ te condizionate dagli effetti del blocco, furono disfatte in combattimento sul fronte occidentale nell’estate del 1918. Anche l’Austria-Ungheria dovette esse­ re sconfitta sul campo. Nella seconda guerra mondiale Hitler lanciò un’altra campagna di guerra sottomarina sguinzagliando gli U-Boot contro il Regno Unito, ma di nuovo non riuscì a distruggere l’economia britannica e a scalzare il Regno Unito dal­ la guerra22. In quello stesso conflitto, il blocco angloamericano ai danni della Germania nazista non ebbe effetti significativi sull’economia tedesca, non più particolarmente vulnerabile a quel tipo di strategia23. Né il blocco degli Allea­ ti fece molti danni all’economia italiana, e certamente ebbe scarso peso sulla decisione dell’Italia di uscire dalla guerra nella metà del 1943. Quanto alla guerra civile americana, l’economia confederata fu danneggiata dal blocco del­ l’Unione, ma non crollò, e il generale Robert E. Lee si arrese solo dopo che i suoi eserciti erano stati pesantemente sconfìtti in battaglia. Inoltre gli eserciti di Lee non furono sconfitti per una carenza di approvvigionamenti dipenden­ te dal blocco24. Quello del blocco navale posto dagli Stati Uniti al Giappone durante la seconda guerra mondiale è l’unico caso in cui la strategia abbia sconquassato l’economia di un avversario, provocando gravi danni alle sue forze militari. Inoltre è l’unico caso tra i nove considerati di coercizione riuscita, perché il Giappone si arrese prima che il suo esercito territoriale di due milioni di uomini a difesa dell’arcipelago fosse sconfitto in battaglia25. È indubbio che il blocco abbia svolto un ruolo centrale nel mettere il Giappone in ginocchio, ma lo fece in tandem con la potenza di terra americana, che svolse un ruolo altrettanto importante nel determinare la vittoria. La decisione del Giappone nell’agosto 1945 di accettare la resa incondizionata merita di essere esaminata attentamente, perché il caso è controverso e perché ha implicazioni significati­ ve per l’analisi dell’efficacia della forza aerea strategica oltre che dei blocchi navali26. Un modo utile per riflettere su quale fu il fattore scatenante che indusse il Giappone ad arrendersi sta nel distinguere ciò che avvenne prima dell’agosto 1945 da ciò che si verificò nelle prime due settimane di quel mese cruciale. Alla fine del luglio 1945 il Giappone era una nazione sconfitta, come i suoi leader avevano riconosciuto. L’unica questione ancora in bilico era se fosse possibile evitare la resa senza condizioni, che gli Stati Uniti esigevano. La sconfìtta era inevitabile perché nel corso dei tre anni precedenti l’equilibrio del potere di terra si era spostato decisamente a sfavore del Giappone. L’eserci­

La logica di potenza

to giapponese, con le sue forze aeronavali di appoggio, era sull’orlo del collas­ so a causa del devastante blocco navale americano, e perché si era logorato in protratti combattimenti su due fronti. Il continente asiatico era il fronte occi­ dentale del Giappone e le sue armate si erano impantanate fin dal 1937 in una dispendiosa guerra con la Cina. Il fronte orientale del Giappone era costituito dal suo impero di isole nel Pacifico occidentale, dove gli Stati Uniti erano il nemico principale. Le forze di terra americane, certo con un impressionante supporto aeronavale, avevano sconfitto il grosso delle forze giapponesi che tenevano le isole, e nell’autunno del 1945 si apprestavano a invadere il Giap­ pone stesso. Alla fine del luglio di quell’anno erano ormai quasi cinque mesi che l’avia­ zione americana gettava bombe incendiarie in quantità sulle grandi città giap­ ponesi, infliggendo enormi devastazioni alla popolazione civile. Ciononostan­ te, la durezza della campagna di bombardamenti non era riuscita né a indurre il popolo giapponese a esercitare pressioni sul suo governo perché ponesse fine alla guerra né a spingere i leader del paese a considerare seriamente l’idea di gettare la spugna. Il Giappone, piuttosto, era alle corde perché il suo esercito era stato decimato dal blocco navale e da anni di debilitanti combattimenti di terra. Eppure, continuava a rifiutare la resa incondizionata. Perché il Giappone continuava a tener duro? Non perché i suoi capi rite­ nessero che un esercito indebolito fosse in grado di sventare l’invasione ameri­ cana del proprio suolo. In realtà, era un fatto ampiamente riconosciuto che gli Stati Uniti disponessero della forza militare necessaria a conquistare il paese. I governanti giapponesi rifiutavano di accettare la resa incondizionata perché erano convinti che fosse possibile negoziare una fuoriuscita dalla guerra che non compromettesse la sovranità del Giappone. La chiave di ciò consisteva nel far capire agli Stati Uniti che avrebbero dovuto pagare un forte tributo di san­ gue per conquistare il Giappone. La minaccia di una vittoria a caro prezzo, ragionavano, avrebbe reso gli Stati Uniti più malleabili sul versante diplomati­ co. Inoltre le autorità giapponesi speravano che l’URSS, che fino a quel momento si era tenuta fuori dalla guerra nel Pacifico, agisse da mediatrice nei colloqui di pace, aiutando a elaborare un accordo che non contemplasse la resa incondizionata. Due eventi all’inizio dell’agosto 1945 diedero la spinta finale per convince­ re i capi giapponesi, portandoli ad accettare la resa senza condizioni. Le bom­ be atomiche sganciate su Hiroshima (6 agosto) e Nagasaki (9 agosto) e lo spettro di altri attacchi nucleari indussero alcune élite del paese, compreso l’imperatore Hirohito, a premere affinché fossero abbandonate immediata­ mente le ostilità. L’ultima goccia fu la decisione sovietica di unirsi alla guerra

Il prim ato d e lla potenza terrestre

contro il Giappone l’8 agosto 1945, cui seguì il giorno successivo l’attacco sovietico al Kwantung, l’esercito nipponico stazionato in Manciuria. Non solo questo sviluppo cancellava ogni possibilità di usare la mediazione sovietica per negoziare un accordo di pace, ma per di più il Giappone adesso era in guerra contemporaneamente con l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Inoltre la rapida disfatta del Kwantung a opera dell’Armata Rossa suggeriva che anche l’eserci­ to territoriale sarebbe crollato senza creare troppe difficoltà, di fronte alle for­ ze di invasione americane. Per farla breve, il 9 agosto 1945 la strategia del Giappone per una resa condizionata era in pezzi, e il fatto venne riconosciuto dai militari giapponesi che erano, soprattutto l’esercito, il principale ostacolo all’abbandono della guerra. L’evidenza che emerge da questi casi di blocchi navali suggerisce due con­ clusioni sulla loro utilità nel vincere una guerra. Primo, il blocco da solo non è in grado di costringere un nemico alla resa. La futilità di tale strategia è dimostrata dal fatto che nessun belligerante ha mai cercato di metterla in atto. Inoltre i dati storici mostrano che anche i blocchi usati parallelamente alla potenza terrestre raramente sono riusciti nella coercizione, rivelando la genera­ le inidoneità alla coazione dei blocchi. Nei nove casi esaminati sopra, lo stato che ha posto in essere il blocco navale ha vinto cinque volte e perso quattro. In quattro delle cinque vittorie, però, non vi fu coercizione: il vincitore era semplicemente riuscito a battere l’esercito dell’altro stato. Nell’unico caso di coercizione riuscita, il blocco compiuto dalla flotta USA ai danni del Giappo­ ne fu solo parzialmente responsabile del risultato finale. Il potere di terra contò come minimo tanto quanto il blocco. Secondo, raramente i blocchi conseguono il risultato di indebolire l’eserci­ to nemico, e quindi raramente contribuiscono in maniera sensibile al successo di una campagna di terra. Il massimo che si possa dire a favore dei blocchi è che essi in qualche caso aiutano le forze di terra a vincere una guerra prolun­ gata danneggiando l’economia dell’avversario. In effetti, il blocco imposto al Giappone è l’unico caso rilevato in cui tale mossa abbia avuto un’importanza pari a quella del potere terrestre per vincere una guerra di grandi potenze. Perché i blocchi falliscono Numerosi sono i fattori che spiegano l’impatto limitato dei blocchi navali sul­ le guerre tra grandi potenze. Talvolta falliscono nel loro obiettivo perché la flotta bloccante è tenuta ferma in mare e non può tagliare le linee di comuni­ cazione marittima della vittima. La marina britannica e quella americana tol­ sero efficacia al blocco tedesco in entrambi i conflitti mondiali, rendendo

La logica di potenza

pericoloso ai sommergibili tedeschi ravvicinarsi alle unità alleate abbastanza da lanciare i loro siluri. Inoltre i blocchi talvolta tendono a diventare permea­ bili nel corso di una guerra protratta, o per falle presenti nel dispositivo o per­ ché qualche stato neutrale si comporta da porto franco. Il Sistema Continen­ tale, per esempio, si erose nel corso del tempo perché Napoleone non potè sbarrare completamente il continente europeo al commercio britannico. Anche quando un blocco arresta praticamente tutto il commercio maritti­ mo dello stato bersaglio, il suo impatto è di solito limitato per due motivi. Primo, le grandi potenze trovano sempre modo di battere un blocco, per esempio mediante il riciclaggio, l’ammasso di scorte e la sostituzione di mate­ rie prime. Il Regno Unito dipendeva pesantemente dalfimportazione di derra­ te alimentari prima di entrambe le grandi guerre, e i blocchi tedeschi nel cor­ so dei conflitti miravano a ridurre in sottomissione i britannici portandoli alla fame. Il Regno Unito affrontò questa minaccia alla sua sopravvivenza aumen­ tando drasticamente la produzione di generi alimentari27. Quando nella seconda guerra mondiale la Germania si vide sbarrata la fornitura di gomma da lattice, studiò la produzione di un sostituto sintetico28. Inoltre le grandi potenze possono conquistare e sfruttare stati vicini, soprattutto in seguito all’avvento della ferrovia. La Germania nazista, per esempio, sfruttò a fondo le economie occupate del continente europeo durante la seconda guerra mon­ diale, riducendo fortemente l’impatto del blocco alleato. I moderni stati burocratici sono particolarmente idonei ad adeguare e razionalizzare le loro economie in modo da contrastare un blocco navale in caso di guerra. Mancur Olson dimostra questo punto in The Economics o f Wartime Shortage, che mette a confronto i blocchi ai danni del Regno Unito nelle guerre napoleoniche, nella prima e nella seconda guerra mondiale29. Rileva che «le maggiori perdite di forniture alimentari la Gran Bretagna le subì nella seconda guerra mondiale, seguita dalla prima guerra mondiale, e infine, a distanza, dalle guerre napoleoniche». Al tempo stesso, il Regno Unito era più dipendente dalle importazioni alimentari durante il X X secolo che nel periodo napoleonico. Quindi ci si aspetterebbe che «la sofferenza per carenza di cibo» fosse stata massima nella seconda guerra mondiale e minima al tempo di Napoleone. Ma Olson scopre che è vero il contrario: le sofferenze dovute a mancanza di alimenti nel periodo napoleonico «furono probabilmente molto più gravi che in ciascuno dei due conflitti mondiali». La spiegazione che egli dà di que­ sto risultato controintuitivo è che le capacità amministrative dello stato bri­ tannico crebbero notevolmente durante il periodo considerato, così che la sua capacità di riorganizzare l’economia in tempo di guerra e di alleviare gli effetti

Il prim ato della potenza terrestre

del blocco era «minimamente avvertibile nel periodo napoleonico, di più nel­ la prima guerra mondiale, e avvertibile al massimo nel corso della seconda guerra mondiale». Secondo, le popolazioni degli stati moderni possono sopportare enormi sofferenze senza insorgere contro i loro governi30. Non esiste un solo caso nel­ la storia in cui un blocco navale o una campagna di bombardamento strategi­ co volti a colpire la popolazione del nemico abbiano provocato sollevazioni contro il governo preso a bersaglio. Se mai, si direbbe che «queste punizioni suscitino più rabbia popolare contro l’attaccante che contro il governo bersa­ gliato»31. Si consideri il Giappone nella seconda guerra mondiale. Non solo la sua economia venne devastata dal blocco navale americano, ma in più fu sot­ toposto a una campagna di bombardamenti che distrusse vasti tratti di territo­ rio urbano e uccise centinaia di migliaia di civili. Eppure il popolo giapponese sopportò stoicamente la terribile punizione inflitta dagli Stati Uniti, esercitan­ do solo flebili pressioni sul governo perché si arrendesse32. Infine, le élite che governano raramente sono indotte ad abbandonare una guerra dalle atrocità che subiscono le loro popolazioni. Si potrebbe anzi affer­ mare che più sofferenze subisce una popolazione più è diffìcile per dei capi di governo cessare le ostilità. Alla base di questa affermazione, che sembrerebbe contraddire il buonsenso, sta il fatto che una sconfitta cruenta accresce di mol­ to la probabilità che una volta finita la guerra la gente cerchi di vendicarsi dei capi che l’hanno condotta della distruzione. Quindi, quei leader avranno un potente incentivo a ignorare le sofferenze inflitte alla popolazione e a combatte­ re fino in fondo nella speranza di poter strappare la vittoria e salvare la pelle33.

I LIMITI DELLA POTENZA AEREA STRATEGICA Esistono paralleli importanti fra l’uso che gli stati fanno dell’aviazione nel cor­ so di una guerra e l’uso che fanno della marina. Mentre la flotta deve conqui­ stare il controllo del mare prima di poter proiettare la sua forza contro stati rivali, le forze aeree debbono assicurarsi quello dei cieli, o raggiungere quella che si definisce comunemente superiorità aerea, prima di poter bombardare forze nemiche al suolo o attaccare direttamente la nazione antagonista. Se un’aviazione non controlla lo spazio aereo, le sue unità d’attacco soffriranno quasi certamente perdite sostanziali, rendendo difficile, se non impossibile, proiettare potenza contro il nemico. I bombardieri americani, per esempio, condussero incursioni su vasta scala contro le città tedesche di Regensurg e Schweinfurt nell’agosto e l’ottobre del

La logica di potenza

1943 senza disporre della superiorità aerea su quella parte della Germania. Di conseguenza, i bombardieri soffrirono perdite proibitive, costringendo gli Stati Uniti a mettere fine agli attacchi finché, all’inizio del 1944, si resero disponibi­ li i caccia di scorta a lungo raggio34. Durante i primi giorni della guerra del Kippur nell’ottobre 1973, l’aviazione militare israeliana (IAF) tentò di fornire il sostegno desiderato alle proprie forze di terra in difficoltà lungo il canale di Suez e sulle alture del Golan. Ma il fuoco senza tregue dei missili terra-aria e della contraerea egiziana e siriana costrinsero la IAF a revocare la missione35. Una volta ottenuto il controllo dei cieli, le forze aeree possono effettuare tre tipi di operazioni di proiezione della potenza, in appoggio alle unità dell’e­ sercito che combattono al suolo. Nel loro ruolo di appoggio aereo ravvicinato, l’aeronautica militare sorvola il campo di battaglia e fornisce un sostegno tat­ tico diretto alle forze amiche che operano sul terreno. Obiettivo principale della forza aerea è distruggere le truppe nemiche dall’alto, svolgendo in prati­ ca la funzione di «artiglieria volante». Questa missione richiede un preciso coordinamento tra le forze d’aria e di terra. V,interdizione comporta attacchi aerei contro le retrovie dell’esercito nemico, soprattutto per distruggere rifor­ nimenti e truppe del nemico o per ritardarne l’avvicinamento alla linea del fronte. Gli obiettivi comprendono depositi di rifornimenti, unità di riserva, l’artiglieria a lunga gittata e le linee di comunicazione che attraversano le retrovie del nemico raggiungendo la linea del fronte. L’aviazione fornisce anche il trasporto aereo, trasferendo truppe e materiali sul teatro di combatti­ mento o muovendoli al suo interno. Queste missioni, evidentemente, aumen­ tano semplicemente la potenza dell’esercito. Ma una forza aerea può anche, con il bombardamento strategico, proiettare autonomamente la forza contro un avversario, portando attacchi diretti sul territorio del nemico, indipendentemente da quanto avviene sul campo di battaglia36. Questa funzione ha fatto talvolta affermare che le forze aeree sono da sole in grado di vincere una guerra. Non sorprende che gli entusiasti della potenza aerea tendano a patrocinare l’impiego di bombardamenti strategici, anche se funzionano più o meno come il loro equivalente marittimo, il blocco navale37. Scopo comune dei bombardamenti strategici e dei blocchi navali è costringere il nemico alla resa o creando condizioni insopportabili per le popolazioni civili o minando l’economia, cosa che avrà l’effetto finale di inde­ bolire le forze combattenti. I propugnatori del bersagliamento economico tal­ volta sostengono l’utilità di attacchi all’intera base industriale del nemico, ten­ denti a distruggerla in toto. Altri auspicano attacchi mirati a una o più «com­ ponenti critiche», come gli impianti petroliferi, fabbriche dei cuscinetti a sfe­ ra, di macchine utensili, dell’acciaio oppure le reti di trasporto - il tallone

Il prim ato della potenza terrestre

d’Achille dell’economia del nemico38. Dalle campagne di bombardamenti strategici, come dai blocchi navali, non è possibile attendersi una vittoria age­ vole e pronta. NeH’ultimo decennio alcuni sostenitori della potenza aerea hanno afferma­ to che i bombardamenti strategici possono assicurare la vittoria decapitando la dirigenza politica del nemico39. Specificamente, sarebbe possibile usare i bom­ bardieri per uccidere i leader politici di uno stato rivale o per isolarli dalla loro gente attaccandone i mezzi di comunicazione e le forze di sicurezza che assicu­ rano loro il controllo sulla popolazione. A quel punto, si auspica che elementi più disponibili del campo avverso insceneranno un colpo di stato e negozie­ ranno la pace. I teorici della decapitazione aerea sostengono inoltre che sareb­ be possibile isolare un leader politico dalle sue forze militari, privandolo della capacità di comandarle e controllarle. Vediamo altri due punti sulle capacità autonome della forza aerea prima di esaminare l’evidenza storica. I bombardamenti strategici, che qui identifichia­ mo con attacchi non nucleari portati al territorio nazionale del nemico, è dal 1945 che non costituiscono un genere importante di potenza militare, ed è improbabile che la situazione cambi in un futuro prevedibile. Con lo sviluppo delle armi nucleari alla fine della seconda guerra mondiale, le grandi potenze hanno evitato di minacciarsi a vicenda con bombardieri convenzionali, riser­ vando questa funzione agli ordigni atomici. Durante la guerra fredda, per esempio, né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica hanno mai elaborato un pia­ no di bombardamento strategico nell’eventualità di una guerra di superpoten­ ze. I due stati hanno invece programmato estensivamente l’impiego degli arse­ nali nucleari per colpire il territorio nemico. Ma i bombardamenti strategici di vecchio stampo non sono del tutto scomparsi. Le grandi potenze continuano a servirsene contro le potenze mino­ ri, come hanno fatto l’URSS negli anni Ottanta ai danni dell’Afghanistan e gli Stati Uniti contro l’Iraq e la Yugoslavia negli anni Novanta40. Avere la capacità materiale di bombardare uno stato piccolo e debole, però, non conta molto quando si valuta l’equilibrio di forza militare tra grandi potenze. Ciò che con­ ta sono gli strumenti militari che le grandi potenze intendono usare tra di loro e fra questi i bombardamenti strategici non ci sono più. Cosi, la mia analisi sulla forza aerea indipendente riguarda principalmente il periodo tra il 1915 e il 1945, e non il recente passato, il presente o il futuro. I precedenti storici comprendono quattordici casi di bombardamenti stra­ tegici: cinque riguardano attacchi di grandi potenze ad altre grandi potenze, negli altri nove sono potenze minori che vengono attaccate da grandi potenze. Le campagne tra grandi potenze rivali forniscono il materiale più importante

La logica di potenza

per determinare come valutare l’equilibrio di forza militare tra le grandi potenze. Nonostante questo, prendo in esame anche i casi riguardanti le potenze minori, perché qualcuno potrebbe pensare che questi —in particolare le campagne aeree USA contro l’Iraq e la Yugoslavia - forniscano la prova che una grande potenza può usare le forze aeree per piegare un’altra grande poten­ za. Ma non è così, come risulterà evidente. Storia dei bombardamenti strategici I cinque casi in cui una grande potenza ha tentato di piegare una grande potenza rivale con bombardamenti strategici si presentano nella prima guerra mondiale, quando 1) la Germania bombarda le città britanniche; e nella seconda guerra mondiale, quando: 2) la Germania colpisce ancora le città bri­ tanniche, 3) il Regno Unito e gli Stati Uniti bombardano la Germania, 4) il Regno Unito e gii Stati Uniti attaccano l’Italia, e 5) gli Stati Uniti bombarda­ no il Giappone. I nove casi in cui una grande potenza ha tentato di piegare una potenza minore con l’uso strategico della forza aerea comprendono: 1) l’Italia contro l’Etiopia nel 1936; 2) il Giappone contro la Cina dal 1937 al 1945; 3) l’U ­ nione Sovietica contro la Finlandia nella seconda guerra mondiale; gli Stati Uniti contro: 4) la Corea del Nord nei primi anni Cinquanta, 5) il Vietnam del Nord alla metà degli anni Sessanta, e 6) di nuovo contro il Vietnam del Nord nel 1972; 7) l’Unione Sovietica contro l’Afghanistan negli anni Ottanta; e gli Stati Uniti e i loro alleati contro: 8) l’Iraq nel 1991 e 9) la Yugoslavia nel 1999. Questi quattordici casi vanno valutati alla luce degli stessi due interrogati­ vi che ci siamo posti a proposito della precedente analisi dei blocchi navali. Il primo è: ci sono prove che il bombardamento strategico possa da solo costrin­ gere un nemico alla resa? Il secondo: è in grado il bombardamento strategico di contribuire in misura sostanziale alla vittoria degli eserciti di terra? Vale a dire, ci si aspetta che l’influenza dei bombardamenti strategici sull’esito finale di una guerra sia decisiva, più o meno equivalente a quella delle forze terrestri, oppure marginale? Bombardare grandi potenze Le offensive aeree tedesche contro le città inglesi nella prima e nella seconda guerra mondiale non solo non hanno costretto il Regno Unito alla resa, ma entrambi i conflitti sono stati persi dalla Germania41. Inoltre non ci sono pro­ ve che l’una o l’altra di queste campagne di bombardamento abbiano seria­

Il prim ato d ella potenza terrestre

mente danneggiato la capacità militare del Regno Unito. Quindi, se qualche elemento a favore dell’influenza decisiva dei bombardamenti strategici c’è, va cercato in linea di massima nei bombardamenti alleati dei territori delle cosid­ dette potenze dell’Asse — Germania, Italia e Giappone —nella seconda metà della seconda guerra mondiale. Esistono buoni motivi per essere scettici sull’affermazione che i bombardamenti ebbero un ruolo centrale nel determinare l’esito del conflitto. In ciascu­ no dei tre casi, il bombardamento dello stato bersaglio non giunse a livelli massicci se non quando era ormai abbondantemente chiaro che ognuna delle tre nazioni si avviava alla sconfitta. La Germania, per esempio, entrò in guer­ ra con il Regno Unito nel settembre 1939 e con gli Stati Uniti nel dicembre 1941. Si arrese nel maggio 1945, anche se era chiaro fin dalla fine del 1942, se non prima, che avrebbe perso la guerra. L’ultima grande offensiva della Wehrmacht contro l’Armata Rossa si ebbe a Kursk nell’estate del 1943, e sortì un esito fallimentare. Dopo prolungate discussioni, nel gennaio 1943 gli Alleati decisero alla conferenza di Casablanca di lanciare una pesante campagna di bombardamenti strategici contro la Germania. Ma l’offensiva aerea prese l’av­ vio solo lentamente, e i bombardieri non cominciarono ad attaccare il Terzo Reich che nella primavera del 1944, quando gli Alleati finalmente riuscirono a strappare la superiorità aerea alla Germania. Perfino lo storico Richard Overy, convinto che la potenza aerea svolse un ruolo cardine nell’esito vittorioso del­ la guerra contro la Germania, riconosce che fu solo «durante l’ultimo anno di guerra [che] la campagna di bombardamenti raggiunse il pieno regime»42. L’Italia entrò in guerra con il Regno Unito nel giugno 1940 e contro gli Stati Uniti nel dicembre 1941. Ma a differenza della Germania, l’Italia uscì dal conflitto nel settembre 1943, prima di essere stata conquistata. I bombar­ damenti alleati contro l’Italia iniziarono a pieno regime nel luglio 1943, circa due mesi prima della resa. A quel punto, comunque, l’Italia era sull’orlo di una disfatta catastrofica. Il suo esercito era decimato e non più in grado di difendere il territorio dall’invasione43. Al punto che quando nel luglio 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia, fu la Wehrmacht a fornire il grosso della dife­ sa all’Italia. La guerra del Giappone con gli Stati Uniti ebbe inizio nel dicembre 1941 e si concluse nell’agosto 1945. Massicci bombardamenti aerei del Giappone presero il via nel marzo 1945, circa cinque mesi prima della resa. A quel pun­ to, però, era chiaro che il Giappone aveva perso la guerra, e che si trovava davanti alla prospettiva di una resa senza condizioni. Gli Stati Uniti avevano distrutto l’impero nipponico nel Pacifico e praticamente eliminato quanto rimaneva della flotta giapponese nella battaglia del Golfo di Leyte dell’ottobre

La logica di potenza

1944. Inoltre i danni provocati all’economia giapponese dal blocco navale americano si avvertirono già nel marzo 1945, con profonde conseguenze negative sull’esercito giapponese, in gran parte impantanato in una guerra impossibile da vincere con la Cina. Il fatto è che queste campagne di bombardamento strategico furono realiz­ zabili solo in una fase avanzata della guerra, quando le potenze dell’Asse erano già malridotte e si avviavano alla sconfitta. Altrimenti gli stati bersagliati non sarebbero stati vulnerabili a un sostenuto attacco aereo. Gli Stati Uniti, per esempio, non furono in grado di condurre una massiccia campagna di bom­ bardamenti contro il Giappone finché non ebbero distrutto gran parte della sua flotta navale e aerea e fin quando non riuscirono ad aprirsi la strada con le armi arrivando in prossimità dell’arcipelago che costituisce il paese. Solo allo­ ra i bombardieri americani furono abbastanza vicini da poter liberamente sfer­ rare attacchi contro il Giappone. Allo stesso modo, gli Stati Uniti non potero­ no impiegare con efficacia i propri bombardieri strategici contro la Germania finché non si furono assicurati la superiorità aerea sul Terzo Reich. Questo dif­ ficile compito richiese tempo e fu realizzabile solo perché la Germania stava impegnando enormi risorse per combattere l’Armata Rossa. Il più che si possa dire di queste tre campagne alleate di bombardamento è che aiutarono a finire avversari già sulla strada della disfatta —non proprio una conferma della tesi di chi afferma che la potenza aerea indipendente fu arma decisiva nella seconda guerra mondiale. Più limitatamente, si potrebbe soste­ nere che quelle campagne strategiche aiutarono a chiudere prima la guerra, e che consentirono agli Alleati di assicurarsi condizioni migliori di quelle che sarebbero state possibili altrimenti. A parte il caso delfltalia, però, i fatti sem­ brano dimostrare che i bombardamenti strategici ebbero scarso effetto sull’esi­ to di questi conflitti. Consideriamo i singoli casi più in dettaglio. Gli Alleati tentarono di piegare la Germania alla resa colpendo la popola­ zione civile e distruggendone l’economia. La campagna contro le città tede­ sche, di cui fecero parte i tristemente famosi bombardamenti al fosforo e alla benzina di Amburgo e di Dresda, distrusse oltre il 40 per cento delle aree urba­ ne delle settanta maggiori città del paese, uccidendo circa 305.000 civili44. Il popolo tedesco, però, accettò fatalisticamente la punizione, e Hitler non si sentì minimamente sollecitato alla resa45. Non c’è dubbio che gli attacchi aerei alleati, insieme con l’avanzata delle forze di terra, all’inizio del 1945 avevano minato la base industriale tedesca46. Ma a quel punto la guerra era quasi finita e, cosa più importante, la distruzione dell’industria tedesca non era ancora suf­ ficiente a costringere Hitler a cessare le ostilità. Alla fine, le armate americane, britanniche e sovietiche dovettero lo stesso conquistare la Germania47.

Il prim ato della potenza terrestre

La campagna aerea ai danni dell’Italia fu estremamente modesta a parago­ ne dei massicci bombardamenti inflitti alla Germania e al Giappone48. Alcuni obiettivi economici furono colpiti, ma non fu fatto alcun tentativo di radere al suolo la base industriale del paese. Gli Alleati cercarono anche di infliggere sofferenze alla popolazione, ma nel periodo compreso fra l’ottobre 1942 e l’a­ gosto 1943 le vittime italiane furono circa 3700, una cifra contenuta rispetto ai 303.000 tedeschi (tra il marzo 1942 e l’aprile 1945) e i 900.000 giapponesi (tra il marzo e l’agosto 1945) uccisi dal cielo. Nonostante la mortalità limita­ ta, la campagna di bombardamenti cominciò a scuotere le élite di governo ita­ liane nell’estate del 1943 (quando fu intensificata) e accrebbe la pressione per­ ché si arrendessero quanto prima. Ciononostante, il motivo principale per cui a quel punto l’Italia desiderava disperatamente abbandonare la guerra —cosa che fece l’8 settembre 1943 —fu che l’esercito italiano era in brandelli e non aveva la benché minima probabilità di fermare l’invasione alleata49. L’Italia era destinata alla sconfitta ben prima che la campagna dall’aria cominciasse a sor­ tire effetti. Così, al massimo, si può dire che l’offensiva aerea alleata contro l’I­ talia probabilmente spinse il paese fuori dal conflitto uno o due mesi prima di quanto sarebbe comunque accaduto. Quando alla fine del 1944 ebbe inizio la campagna americana di bombar­ damenti sul Giappone, l’obiettivo iniziale era usare bombe ad alto potenziale che contribuissero a distruggere l’economia giapponese, già ridotta in ginoc­ chio dal blocco navale USA50. Fu ben presto chiaro, però, che questa strategia aerea non avrebbe danneggiato seriamente la base industriale del paese. Quin­ di, nel marzo 1945, gli Stati Uniti decisero piuttosto di colpire la popolazione civile giapponese tempestando le città di bombe incendiarie51. Questa letale campagna aerea, che durò per cinque mesi, fino alla fine della guerra, uccise circa 785.000 civili, e costrinse quasi 8,5 milioni di persone a sfollare dalle loro case52. Anche se il Giappone si arrese nell’agosto 1945, prima che gli Sta­ ti Uniti invadessero e conquistassero il suo territorio nazionale — facendo di questa strategia un caso di coercizione riuscita —la campagna aerea svolse solo un ruolo secondario nella decisione del Giappone di cessare le ostilità. Come già detto, responsabili del risultato furono principalmente il blocco navale e le forze (anfibie) di terra, anche se il bombardamento atomico e la dichiarazione sovietica di guerra (entrambi dell’inizio di agosto) contribuirono a dare il col­ po di grazia al Giappone. La coercizione fallì in tre dei cinque casi in cui lo stato bersaglio era una grande potenza: le offensive aeree tedesche contro il Regno Unito nella prima e nella seconda guerra mondiale e la campagna alleata contro la Germania nazista. Inoltre i bombardamenti strategici non svolsero un ruolo chiave nella

La logica di potenza

vittoria alleata sulla Wehrmacht. Anche se l’Italia e il Giappone furono costretti alla resa nella seconda guerra mondiale, entrambi questi successi dipesero in larga misura da fattori diversi dalla forza aerea indipendente. Con­ sideriamo a questo punto cos’è successo in passato, quando una grande poten­ za ha spedito i suoi bombardieri contro potenze minori. Bombardare potenze minori Nonostante la significativa asimmetria di forze, nei nove casi in cui bombar­ dieri strategici di una grande potenza abbiano colpito una potenza minore, ciò non ha dato luogo a coercizione se non in quattro dei casi considerati. L’I­ talia bombardò città e villaggi etiopici nel 1936, usando talvolta gas venefi­ ci53. Ciononostante, l’Etiopia non si arrese, costringendo l’esercito italiano a conquistare l’intero paese. Il Giappone bombardò le città cinesi tra il 1937 e il 1945, facendo un gran numero di vittime tra i civili54. Ma la Cina non si arrese e alla fine gli Stati Uniti sconfissero in maniera decisiva il Giappone. Gli Stati Uniti condussero la campagna di bombardamenti Rolling Thunder contro il Vietnam del Nord dal 1963 al 1968. Il cui scopo era costringere Hanoi a smettere di alimentare la guerra dei vietcong in Vietnam del Sud e accettare l’esistenza di un Vietnam del Sud indipendente55. Lo sforzo fallì e la guerra andò avanti. L’Unione Sovietica condusse una campagna di bombardamenti contro i centri abitati dell’Afghanistan tra il 1979 e il 1989 allo scopo di costringere i ribelli afghani a cessare le ostilità contro il governo di Kabul appoggiato dai sovietici56. Alla fine furono i sovietici, non i ribelli, ad abbandonare la guerra. Infine, all’inizio del 1991, gli Stati Uniti lanciarono un’offensiva strategica aerea contro l’Iraq per costringere Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait, che aveva occupato con il suo esercito nell’agosto 199057. La campagna non ebbe però l’effetto di piegare Saddam, e gli Stati Uniti e i loro alleati dovettero ricorrere alle forze di terra per portare a compimento la missione. Questa campagna di bombardamenti va notata perché gli Stati Uniti adottarono la strategia della decapitazione: cercarono di uccidere Saddam dall’aria, e tenta­ rono anche di isolarlo dalla sua popolazione e dalle sue forze militari in Kuwait. La strategia fallì su tutti i piani58. La coercizione riuscì in quattro dei casi in cui erano coinvolte potenze minori, ma i bombardamenti strategici mostrano di aver svolto un ruolo peri­ ferico nel raggiungimento del risultato in tutti i casi tranne uno. Quando, il 30 novembre 1939, l’Unione Sovietica invase la Finlandia, Josif Stalin lanciò una modesta campagna di bombardamenti contro i centri abitati del paese,

Il prim ato d e lla potenza terrestre

uccidendo circa 650 civili59. Da tutti i punti di vista, l’operazione ebbe scarsis­ simo peso sulla decisione della Finlandia di abbandonare la guerra nel marzo 1940 prima che fosse sconfìtta e conquistata dall’Armata Rossa. La Finlandia smise di combattere perché riconobbe che il suo esercito era numericamente troppo inferiore e non aveva alcuna probabilità di vincere la guerra. Durante la guerra di Corea, gli Stati Uniti tentarono di costringere la Corea del Nord a cessare le ostilità colpendola dal cielo60. Tale sforzo si com­ pose in realtà di tre diverse campagne. Dalla fine del luglio 1950 fino alla fine di ottobre di quell’anno, i bombardieri americani si concentrarono sui cinque maggiori centri industriali nordcoreani. Tra il maggio e il settembre 1952, i bersagli principali furono le centrali idroelettriche intorno a Pyongyang, la capitale, e nel resto del paese. I bombardieri americani colpirono le dighe tra il maggio e il giugno del 1953, mirando a inondare le risaie nordcoreane e ridurre la popolazione alla fame per spingere il nemico alla resa. Poiché l’armistizio che mise fine alla guerra fu firmato solo il 27 luglio 1953, le prime due campagne chiaramente non determinarono la cessazione del conflitto. Anzi, dalle prove a disposizione risulta che nessuna delle due operazioni influì in maniera tangibile sul comportamento nordcoreano. Anche se la campagna per distruggere il raccolto del riso precedette immedia­ tamente la firma dell’armistizio, il bombardamento delle dighe della Corea del Nord non riuscì a mettere a repentaglio il raccolto di riso e indurre una care­ stia. Se infine la Corea del Nord fu costretta a firmare l’armistizio, questo dipese anzitutto dalle minacce nucleari del presidente Eisenhower e dalla con­ clusione che nessuna delle due parti disponeva della necessaria combinazione di volontà e capacità materiale per alterare la situazione di stallo che si era determinata sul terreno. In breve, gli attacchi aerei convenzionali non portaro­ no al successo della coercizione. Dopo la fallita campagna Rolling Thunder (1965-1968) contro il Vietnam del Nord, gli Stati Uniti lanciarono la campagna di bombardamenti designata Linebacker nel 197261. Il Vietnam del Nord finì per firmare un accordo per il cessate il fuoco all’inizio del 1973, che permise agli Stati Uniti di ritirarsi dal­ la guerra e di ritardare ulteriori offensive di terra nordvietnamite in Vietnam del Sud. Benché tecnicamente si trattasse di un caso di coercizione riuscita, l’accordo non fece che posporre al 1975 la vittoria finale del Vietnam del Nord. Comunque, i bombardamenti strategici svolsero un ruolo marginale nell’indurre il Vietnam del Nord ad accettare il cessate il fuoco. Contrariamente alla percezione diffusa al tempo, i bombardieri americani inflissero relativamente pochi danni alla popolazione civile nordvietnamita. Circa 13.000 nordvietnamiti morirono in seguito all’offensiva aerea del 1972,

La logica di potenza

un livello di sofferenze che difficilmente avrebbe spinto un nemico determina­ to come il Nord Vietnam a cedere alle richieste americane62. Il motivo princi­ pale per cui il governo di Hanoi accettò il cessate il fuoco nel gennaio 1973 era che l’aviazione USA aveva frustrato l’offensiva di terra nordvietnamita del­ la primavera del 1972, creando cosi un forte incentivo per il Nord Vietnam ad agevolare il rapido ritiro di tutte le forze americane dal Vietnam prima di riprendere l’offensiva. La firma del cessate il fuoco ebbe esattamente questo esito, e due anni dopo il Vietnam del Nord conseguì una vittoria militare totale sul Sud, che combattè le sue ultime battaglie senza l’appoggio della for­ za aerea americana. A prima vista, la recente guerra condotta dalla NATO contro la Yugoslavia sembrerebbe l’unico caso in cui la forza aerea strategica sia da sola riusci­ ta a piegare un avversario63. Gli Stati Uniti e i suoi alleati cominciarono a bombardare la Yugoslavia il 24 marzo 1999. Il loro obiettivo era costringere il presidente yugoslavo Slobodan Milosevic a cessare la repressione della popolazione albanese nel Kosovo e far entrare le truppe NATO in quella pro­ vincia. La campagna aerea durò settanta giorni. Milosevic cedette alle richie­ ste della NATO l’8 giugno del 1999. La NATO non lanciò un attacco di ter­ ra nel Kosovo, anche se l’UCK, i ribelli dell’esercito di liberazione kosovaro, continuarono a impegnare le forze di terra yugoslave nel corso di tutta la campagna. Non disponiamo di molte testimonianze sul motivo per cui Milosevic capitolò, ma sembra chiaro che i bombardamenti non fecero molto per mette­ re in ginocchio la Yugoslavia e che i soli bombardamenti non sono stati responsabili del risultato finale64. La campagna di bombardamenti fu inizial­ mente un’operazione su piccola scala, perché i responsabili della NATO erano convinti che Milosevic si sarebbe dichiarato vinto dopo pochi giorni di puni­ zione dall’aria. Benché peggiorasse il trattamento di fronte al fallimento di questo approccio, la NATO non aveva la volontà politica di infliggere soffe­ renze significative alla Yugoslavia. Di conseguenza, i bombardieri NATO si adoperarono per non uccidere civili yugoslavi, attaccando un numero limitato di obiettivi economici e politici. La campagna aerea fece circa cinquecento vit­ time tra i civili65. Non sorprende quindi che non esistono prove che Milosevic abbia gettato la spugna in seguito a pressioni da parte della popolazione per­ ché cessassero le sofferenze. Si direbbe che siano svariati i fattori che spiegano la decisione di Milosevic di cedere alle richieste della NATO. La minaccia di ulteriori attacchi dall’aria fu probabilmente un fattore chiave, ma altri due elementi ebbero un’impor­ tanza almeno pari. La NATO stava iniziando i preparativi per una massiccia

Il prim ato d e lla potenza terrestre

invasione terrestre della Yugoslavia e alla fine di maggio l’amministrazione del presidente Clinton mandò un messaggio chiaro a Milosevic tramite i russi: se non si fosse arreso, la NATO avrebbe presto mandato truppe di terra nel Kosovo. Inoltre la Russia, che era l’alleato chiave della Yugoslavia e che si era opposta nettamente alla guerra, essenzialmente passò dalla parte della NATO all’inizio del giugno, esercitando forti pressioni su Milosevic perché ponesse fine immediatamente al conflitto. La NATO inoltre alleggerì alquanto le sue condizioni per rendere l’accordo più appetibile al leader yugoslavo. In breve, la campagna aerea da sola non produsse la vittoria contro la Yugoslavia, anche se sembra essere stata un fattore importante. L’evidenza che emerge da questi quattordici casi supporta le seguenti con­ clusioni sull’utilità dei bombardamenti strategici. Primo, i bombardamenti strategici da soli non sono in grado di piegare alla resa un nemico. Salvo il caso della Yugoslavia, nessuna grande potenza (o alleanza di grandi potenze) ha mai cercato di vincere una guerra puntando esclusivamente sulle forze aeree, e anche in quel caso la NATO ha dovuto minacciare un’invasione di terra perché la coercizione su Milosevic avesse efficacia. Negli altri tredici casi, i bombardamenti strategici sono stati fin dall’inizio impiegati in tandem con le forze terrestri. Questi dati mostrano la futilità dell’affidarsi ai soli bombar­ damenti strategici. Inoltre non ci sono prove sufficienti a dimostrare che le passate campagne aeree abbiano così marcatamente influito sull’esito della guerra per dire che i bombardamenti strategici di per sé possano portare alla resa di una grande potenza. Anche quando il bombardamento strategico è sta­ to usato parallelamente alle forze di terra, i dati mostrano che gli attacchi aerei strategici una sola volta hanno avuto un ruolo primario nel definire l’esito bel­ lico. I bombardamenti strategici in generale non sono in grado da soli di ope­ rare coercizione. Si noti che in nove casi su quattordici, la grande potenza che è ricorsa a operazioni aeree strategiche ha vinto la guerra. In tre di questi nove casi, però, il vincitore non ha piegato il suo avversario ma ha dovuto sconfiggerlo sul ter­ reno: l’Italia contro l’Etiopia, gli Alleati contro la Germania nazista e gli Stati Uniti contro l’Iraq. Nei rimanenti sei casi, la grande potenza che ha impiega­ to la forza aerea strategica è riuscita a esercitare coercizione sull’avversario. I bombardamenti strategici, però, hanno svolto un ruolo subordinato nel deter­ minare l’esito di cinque di questi sei casi: gli Stati Uniti contro il Giappone, l’Unione Sovietica contro la Finlandia, gli Alleati contro l’Italia e gli Stati Uni­ ti contro la Corea e il Vietnam (1972). In ciascuno di questi casi la potenza terrestre è stata la chiave della vittoria, anche se il blocco navale si rivelò un ingrediente essenziale per il successo USA contro il Giappone.

La logica di potenza

La guerra del Kosovo è l’unico caso in cui bombardamenti strategici hanno svolto un ruolo chiave nel produrre una riuscita coercizione. Ma il caso non deve indurre all’ottimismo sull’utilità della potenza aerea indipendente. Non solo la Yugoslavia era una potenza minore particolarmente debole, sola contro i potenti Stati Uniti e i loro alleati europei, ma ci furono altri fattori, accanto alla campagna aerea, che indussero Milosevic a cedere alle richieste della NATO. La seconda lezione da trarre dai dati storici è che i bombardamenti strate­ gici raramente sono efficaci per indebolire gli eserciti nemici, e quindi rara­ mente contribuiscono in maniera significativa al successo di una campagna di terra. Durante la seconda guerra mondiale la potenza aerea indipendente in qualche modo aiutò le grandi potenze a vincere confronti prolungati contro grandi potenze rivali, ma svolse un ruolo solo sussidiario in quelle vittorie. Nell’era nucleare, le grandi potenze hanno impiegato questo strumento coer­ citivo solo contro potenze minori, non una contro l’altra. Ma anche contro stati più deboli, i bombardamenti strategici hanno mostrato più o meno la stessa efficacia che avevano contro le grandi potenze. In breve, è difficile sot­ tomettere un avversario bombardandolo. Perché le campagne di bombardamento falliscono

100

I bombardamenti strategici tendono a non funzionare per gli stessi motivi per cui i blocchi navali normalmente non sono in grado di piegare un avversario: le popolazioni civili possono assorbire una quantità enorme di sofferenze e privazioni senza sollevarsi contro il loro governo. Il politologo Robert Pape sintetizza succintamente la documentazione storica su attacchi aerei e rivolte popolari: «In un periodo di oltre settantacinque anni, la storia della potenza aerea è ricca di tentativi di alterare il comportamento degli stati attaccando o minacciando di attaccare masse di civili. La conclusione incontrovertibile che si trae da queste campagne è che gli attacchi aerei non inducono i cittadini a rivoltarsi contro i loro governi. [...] In realtà, nelle oltre trenta campagne stra­ tegiche finora messe in atto, l’aviazione non è mai riuscita a indurre nessuno a scendere in strada a pretendere alcunché»66. Inoltre le moderne economie industriali non sono strutture fragili, facili da distruggere, sia pure con massic­ ci bombardamenti. Parafrasando Adam Smith, nell’economia di una grande potenza ci sono ampi margini per i disastri. E la decapitazione? Come si è detto, questa strategia fallì contro l’Iraq nel 1991. Fu tentata anche in altre tre occasioni, nessuna delle quali è stata inclu­ sa nella discussione precedente perché trattasi di attacchi su scala molto picco-

Il prim ato d ella potenza terrestre

la. In ogni caso, la strategia in tutti e tre i casi non riuscì a produrre i risultati desiderati. Il 14 aprile 1986 gli Stati Uniti bombardarono la tenda di Muhammar Gheddafì. Morì la figlia del leader libico, ma lui rimase illeso. E opinione comune che l’attentato terroristico al volo 103 della Pan Am nei cieli della Scozia, due anni dopo, fosse la rappresaglia per quel tentativo fallito di assassi­ nio. Il 21 aprile 1996 i russi presero di mira e uccisero Dzhokhar Dudayev, leader delle forze ribelli in Cecenia. Lo scopo era costringere i ceceni a cessare la guerra di secessione dalla Russia, accettando condizioni favorevoli al Crem­ lino. Invece, i ribelli giurarono di vendicare la morte di Dudayev, e qualche mese dopo (agosto 1996) le truppe russe venivano (temporaneamente) espul­ se dalla Cecenia. Infine, gli Stati Uniti lanciarono un breve attacco di quattro giorni contro l’Iraq nel dicembre 1998. L’operazione Desert Fox, come fu chia­ mata in codice l’iniziativa, non era che un altro tentativo di abbattere Sad­ dam; anche questo fallì67. La decapitazione è una strategia stravagante. Nonostante il caso di Dudayev, è particolarmente difficile in tempo di guerra localizzare e uccidere un leader politico rivale. Ma anche quando ciò riesce, è poco probabile che la politica del successore sia sostanzialmente diversa da quella del predecessore liquidato. Questa strategia poggia su un’antica convinzione americana: che gli stati ostili siano essenzialmente composti da cittadini benevoli controllati da leader malvagi. Rimossa la testa, si pensa, le forze del bene trionferanno e la guerra cesserà in breve. Non è una strategia promettente. Uccidere uno speci­ fico leader non garantisce che a sostituirlo non sia uno dei suoi più vicini luo­ gotenenti. Per esempio, se anche gli Alleati fossero riusciti a sopprimere Adolf Hitler, probabilmente si sarebbero ritrovati con Martin Bormann o Hermann Goring al suo posto, e nessuno dei due sarebbe stato un gran miglioramento rispetto a Hitler. Inoltre, leader malvagi come Hitler spesso godono di diffuso sostegno popolare: non solo talvolta rappresentano il punto di vista delle pro­ prie società, ma il nazionalismo tende a favorire stretti legami tra capi politici e le popolazioni, soprattutto in tempo di guerra, quando tutti gli interessati si trovano a fronteggiare una potente e comune minaccia esterna69. Una variante di questa strategia, quella che cerca l’isolamento della leader­ ship politica dal grosso della popolazione, è anch’essa illusoria. I leader hanno molteplici canali per comunicare con la loro gente, ed è praticamente impos­ sibile per una forza aerea troncarli tutti simultaneamente e tenerli chiusi per un periodo prolungato. Per esempio, i bombardieri possono essere adatti a danneggiare le telecomunicazioni di un avversario, ma non riescono a fermare i giornali. Sono anche inadatti a distruggere la polizia segreta e altri strumenti di repressione. Infine, organizzare un colpo di stato in tempo di guerra che

101

La logica di potenza

porti al potere leader amici in uno stato nemico è un compito di estrema dif­ ficoltà. Altrettanto difficilmente realizzabile è isolare un leader politico dalle sue forze militari. In questa variante della strategia la chiave del successo sta nel tagliare le linee di comunicazione tra il teatro bellico e la dirigenza politica. Ci sono due ragioni, però, per cui tale strategia è destinata al fallimento. I leader hanno molteplici canali per comunicare con i militari, oltre che con la popo­ lazione, e i bombardieri non possono interromperli tutti simultaneamente e meno ancora possono tenerli inattivi a lungo. Inoltre, governanti che paventi­ no questa eventualità possono delegare anticipatamente l’autorità a coman­ danti militari appropriati. Durante la guerra fredda, per esempio, entrambe le superpotenze prevedevano una simile evenienza in caso di decapitazione nucleare. Dai precedenti storici risulta con evidenza che blocchi navali e bombardamenti strategici occasionalmente influiscono sull’esito di una guerra tra grandi potenze, ma raramente svolgono un ruolo decisivo nel determinare il risultato finale. Gli eserciti e le forze aeronavali che li appoggiano sono i principali strumenti per determinare quale parte vincerà in una guerra tra grandi poten­ ze. Le forze di terra rappresentano il tipo di potenza militare convenzionale più formidabile di cui si possa dotare uno stato70. Anzi, è raro il caso in cui una guerra tra grandi potenze non sia terminata dallo scontro tra due eserciti e dall’espulsione dal teatro di guerra di uno di essi. Anche se parte della storia in merito è stata discussa nelle sezioni e nei capitoli precedenti, un breve excursus sulle guerre tra grandi potenze dal 1792 in poi dimostrerà che le guerre si vincono sul terreno.

LA DOM INANZA DEGLI ESERCITI Negli ultimi due secoli vi sono state dieci guerre tra grandi potenze, tre delle quali furono conflitti epocali che videro coinvolte tutte le grandi potenze: la guerra rivoluzionaria francese e le guerre napoleoniche (1792-1815), la prima guerra mondiale (1914-1918) e la seconda guerra mondiale (1939-1945); quest’ultima in realtà comportò due conflitti distinti, uno in Asia e l’altro in Europa. AH’indomani della rivoluzione francese, la Francia combattè nel corso di ventitré anni una serie di guerre contro diverse coalizioni di grandi potenze europee, comprendenti Austria, Prussia, Russia e Regno Unito. L’esito di pres­ soché tutte le campagne fu determinato da battaglie campali tra eserciti rivali,

Il prim ato della potenza terrestre

non da scontri fra flotte in mare aperto. Si consideri, per esempio, l’impatto che ebbe sul corso della guerra la famosa battaglia navale di Trafalgar. La mari­ na britannica inflisse una sconfitta decisiva alla flotta francese il 21 ottobre 1805, il giorno dopo che Bonaparte aveva riportato una schiacciante vittoria sull’Austria nella battaglia di Ulm. La vittoria marittima della Gran Bretagna ebbe però scarso peso sulle fortune di Napoleone. Anzi, nel corso dei due anni seguenti le armate napoleoniche ottennero i loro massimi trionfi, sconfiggen­ do gli austriaci e i russi ad Austerlitz (1805), i prussiani a Jena e ad Auerstadt (1806) e i russi a Friedland (1806)71. Inoltre il Regno Unito pose il blocco al continente europeo e Napoleone al Regno Unito. Ma nessuno dei due blocchi influì sensibilmente sul risultato della guerra. In realtà, il Regno Unito fu costretto a inviare un esercito sul continente per combattere le forze di Bonaparte in Spagna. L’esercito britan­ nico e ancor di più l’esercito russo, che nel 1812 decimò le forze francesi nel cuore della Russia, furono i responsabili dell’uscita di scena di Napoleone. L’equilibrio del potere di terra fu anche il principale elemento che deter­ minò la vittoria nella prima guerra mondiale. In particolare, l’esito fu deciso da lunghe e sanguinose battaglie sul fronte orientale tra gli eserciti tedesco e russo, e sul fronte occidentale tra le forze tedesche e degli Alleati (britannici, francesi e americani). I tedeschi riportarono una stupefacente vittoria a est nell’ottobre 1917, quando l’esercito russo collasso e la Russia dovette abban­ donare la guerra. I tedeschi arrivarono quasi a ripetere la prodezza sul fronte occidentale nella primavera del 1918, ma gli eserciti britannico, francese e americano resistettero; poco dopo l’esercito tedesco andò in pezzi, e con ciò l’ i l novembre 1918 la guerra cessò. Sul risultato finale i bombardamenti stra­ tegici non giocarono praticamente alcun ruolo. Il blocco angloamericano del­ la Germania sicuramente contribuì alla vittoria, ma costituì un fattore secon­ dario. La Grande Guerra, come fu chiamata in seguito, fu essenzialmente decisa dai milioni di soldati che sui due fronti combatterono e spesso moriro­ no nelle cruentissime battaglie di Verdun, Tannenberg, Passchendaele e delle Somme. L’esito della seconda guerra mondiale in Europa fu determinato da batta­ glie combattute tra eserciti rivali appoggiati da forze aeronavali. La potenza di terra nazista fu responsabile pressoché esclusiva dell’ondata di vittorie tedesche nella prima fase della guerra: contro la Polonia nel settembre 1939, contro la Francia e il Regno Unito tra il maggio e il giugno 1940, e contro l’Unione Sovietica tra il giugno e il dicembre 1941. La direzione degli eventi si ribaltò a sfavore del Terzo Reich a partire dall’inizio del 1942 e nel maggio 1945 Hitler era ormai morto e i suoi successori si erano arresi senza condizioni. I tedeschi

103

La logica di potenza

1 04

furono battuti in maniera decisiva sul campo, soprattutto dall’Armata Rossa sul fronte orientale, che nel raggiungere l’obiettivo perse l’enormità di otto milioni di soldati ma riuscì a causare da sola almeno i tre quarti dei caduti di guerra tedeschi72. Anche gli eserciti britannico e americano diedero il loro contributo a sfiancare la Wehrmacht, ma svolsero un ruolo considerevolmente inferiore rispetto alle forze sovietiche, soprattutto perché sbarcarono sul suolo francese solo nel giugno 1944, meno di un anno prima che la guerra finisse. La campagna alleata di bombardamenti strategici non riuscì nell’intento di mettere in ginocchio l’economia tedesca se non fino all’inizio del 1945, quan­ do l’esito della guerra si era già deciso sul campo. E comunque la potenza aerea da sola non arrivò a danneggiare in maniera grave la base industriale tedesca; gli eserciti angloamericani, che strinsero la morsa intorno al Terzo Reich, svol­ sero anch’essi un ruolo fondamentale nello sforzo. La flotta britannica e quella americana imposero il blocco navale alla Germania, ma anche ciò ebbe un impatto secondario sull’esito della guerra. In breve, l’unico modo per battere una potenza continentale formidabile come la Germania nazista è sconfiggerne l’esercito in sanguinose battaglie terrestri e conquistarla. Blocchi navali e bom­ bardamenti strategici possono aiutare in qualche misura la causa, ma con tutta probabilità conserveranno un carattere eminentemente marginale. Gli americani tendono a pensare che la metà asiatica della seconda guerra mondiale ebbe inizio quando, il 7 dicembre 1941, Pearl Harbor venne attac­ cata. Ma il Giappone era sul sentiero di guerra in Asia fin dal 1931 e prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra, il Sol Levante aveva già conquistato la Manciuria, buona parte della Cina settentrionale e parte dell’Indocina. Imme­ diatamente dopo Pearl Harbor le forze giapponesi conquistarono gran parte del Sudest asiatico, e praticamente tutte le isole del settore occidentale del Pacifico. L’esercito fu il principale strumento di conquista del Giappone, anche se spesso era la flotta a dover trasportare le truppe nella zona dei com­ battimenti. Il Giappone condusse una campagna di bombardamenti strategici contro la Cina, ma fu un totale fallimento (come abbiamo già visto in questo stesso capitolo). Inoltre, a partire dal 1938, il Giappone tentò di tagliare alla Cina l’accesso al mondo esterno per mezzo di un blocco navale, che ridusse drasticamente l’afflusso di armi e merci verso la Cina. Ciononostante, l’eserci­ to cinese continuò a tenere duro sul campo, rifiutandosi di arrendersi al nemi­ co giapponese73. In breve, la potenza terrestre fu la chiave dei successi militari giapponesi nella prima fase della seconda guerra mondiale. Le sorti del Giappone cambiarono nel giugno 1942, quando la marina americana conseguì una eccezionale vittoria sulla flotta imperiale a Midway. Nel corso dei tre anni seguenti, il Giappone si logorò in una prolungata guer-

Il prim ato d e lla potenza terrestre

ra su due fronti, arrivando infine alla resa incondizionata nell’agosto 1945. Come già notato, il potere di terra svolse un ruolo cardine nella sconfitta del Giappone. Il blocco navale americano al territorio giapponese, però, fu anch’esso un fattore decisivo nel conflitto. I bombardamenti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki, certamente provocarono tremende sofferenze nelle città prese a bersaglio, ma svolsero un ruolo solo secondario nella sconfitta del Giappone. Questa è l’unica guerra tra grandi potenze della storia moderna in cui le forze terrestri da sole non furono le principali responsabili del risultato finale, ma dove uno o l’altro dei due strumenti di coercizione - le potenza aerea o quella navale - svolsero un ruolo più che ausiliario. Altre sette guerre tra grandi potenze sono state combattute negli ultimi duecento anni: la guerra di Crimea (1853-1856), la guerra d’indipendenza italiana del 1859, la guerra austro-prussiana (1866), la guerra franco-prussiana (1870-1871), la guerra russo-giapponese (1940-1945), la guerra civile russa (1918-1921), e la guerra sovietico-giapponese (1939). In nessuno di questi casi ci furono bombardamenti strategici, e solo la guerra russo-giapponese ebbe una dimensione navale significativa, anche se nessuna delle due parti pose il blocco al paese nemico. Le flotte avversarie combatterono principalmente per il dominio del mare, importante perché la parte che ha il controllo delle acque ha un vantaggio nello sbarco delle truppe sul teatro delle operazioni74. Tutti e sette i conflitti furono decisi sul campo di battaglia nello scontro tra eserciti nemici. Infine, anche l’esito di un grande conflitto convenzionale durante la guer­ ra fredda sarebbe stato in gran parte determinato dagli eventi sul fronte cen­ trale, dove avrebbero dovuto scontrarsi gli eserciti della NATO e del Patto di Varsavia. Certamente le forze aeree tattiche in appoggio a questi eserciti avreb­ bero influenzato gli sviluppi sul terreno. Ma peso decisivo sulla guerra l’avreb­ be avuto il modo in cui gli eserciti rivali si sarebbero comportati l’uno contro l’altro. Nessuna delle due parti avrebbe lanciato una campagna di bombardamenti strategici, dopo l’avvento dell’arma nucleare. Inoltre non c’era alcuna seria possibilità che gli alleati della NATO usassero la forza navale indipen­ dente a proprio vantaggio, in primo luogo perché l’URSS non era vulnerabile a un blocco quanto lo era stato il Giappone durante la seconda guerra mon­ diale75. I sottomarini sovietici probabilmente avrebbero tentato di tagliare le vie di comunicazione marittime tra gli Stati Uniti e l’Europa, ma sicuramente avrebbero fallito, come avevano fallito i tedeschi in entrambi i conflitti mon­ diali. Com’era già accaduto con la Francia napoleonica, con la Germania guglielmina e con la Germania nazista, una guerra egemonica contro l’Unione Sovietica sarebbe stata decisa sul campo dallo scontro degli eserciti.

105

La logica di potenza

IL POTERE FRENANTE DELL’ACQUA C ’è un aspetto particolarmente importante della potenza terrestre che merita di essere esaminato più attentamente: come le vaste estensioni d’acqua limiti­ no nettamente la capacità di proiezione della forza di un esercito. L’acqua di norma non è un serio ostacolo per una flotta che trasporti forze di terra attra­ verso un oceano per deporle su territorio amico. Ma diventa una barriera insormontabile quando le unità navali tentano di sbarcare un esercito su terri­ torio controllato e ben difeso da una grande potenza nemica. La flotta dunque si trova in condizione di netto svantaggio quando tenta operazioni anfibie contro potenti forze a terra, le quali hanno forti probabilità di ributtare in mare gli invasori. In linea generale, gli assalti di terra attraverso un confine comune sono imprese molto più agevoli. Gli eserciti che devono varcare un ampio specchio d’acqua per attaccare un avversario bene armato dispongono invariabilmente di scarsa capacità offensiva. Perché l ’acqua intralcia gli eserciti

10 6

Il problema fondamentale che la flotta deve affrontare quando mette in atto un’invasione è l’esistenza di limiti significativi al numero di uomini e alla potenza di fuoco che è possibile impiegare in un’operazione anfibia76. Così è diffìcile per una flotta sbarcare su una costa nemica forze d’assalto abbastanza potenti da avere la meglio sulle truppe poste a difesa. La natura specifica del problema è cambiata passando dall’epoca dei velieri all’età industriale77. Prima degli anni Cinquanta del XIX secolo, quando le navi avanzavano grazie alla forza del vento, le flotte erano considerevolmente più mobili degli eserciti. Non solo gli eserciti dovevano superare ostacoli quali montagne, fore­ ste, paludi e deserti, ma in più non disponevano di accesso a buone strade e tanto meno a ferrovie o veicoli motorizzati. Gli eserciti di terra si muovevano quindi lentamente e avevano notevoli difficoltà a difendere la costa da un’in­ vasione dal mare. La flotta che deteneva il dominio del mare, invece, era in grado di muoversi con rapidità sull’oceano e sbarcare truppe sulla costa nemi­ ca ben prima che un esercito di terra potesse raggiungere il punto di sbarco per contrastare l’invasione. All’epoca dei velieri, essendo tali sbarchi relativa­ mente facili da mettere in atto, quasi mai una grande potenza effettuava un assalto anfibio contro il territorio di un’altra grande potenza; piuttosto si pre­ feriva eseguire lo sbarco dove l’avversario non disponeva di grandi forze. In effetti, in Europa non fu realizzato alcun assalto anfibio fra il 1648, anno di

Il p rim ato della potenza terrestre

fondazione del sistema degli stati, e la metà del XIX secolo, quando le navi a vapore cominciarono a prendere il posto delle navi a vela. Nonostante la relativa facilità con cui era possibile sbarcare truppe in terri­ torio nemico, la flotta non era in grado di sbarcare a terra forze consistenti e appoggiarle per lunghi periodi. Le flotte a vela avevano limitate capacità di tra­ sporto, e quindi raramente erano capaci di fornire il supporto logistico occor­ rente a forze d’invasione per sopravvivere in territorio ostile78. Né erano in gra­ do di portare rapidamente rinforzi e i necessari rifornimenti. Inoltre l’esercito nemico, che combatteva sul proprio terreno, avrebbe prima o poi raggiunto la forza anfibia, con ottime probabilità di sconfiggerla in battaglia. Di conse­ guenza, le grandi potenze nell’età della marina a vela lanciarono pochissime operazioni anfibie in Europa sia contro il territorio di grandi potenze nemiche sia contro territori da esse controllati. Anzi, non ce ne fu nessuna nel corso dei due secoli che precedettero il 1792, anno d’inizio delle guerre napoleoniche, nonostante il fatto che durante questo periodo le grandi potenze europee fos­ sero costantemente in lotta tra loro79. Gli unici due sbarchi anfibi avvenuti in Europa durante l’età della vela furono l’operazione anglo-russa in Olanda (1799) e l’invasione britannica del Portogallo (1808). Le forze provenienti dal mare furono sconfitte in entrambi i casi, come diremo più avanti. L’industrializzazione della guerra nel XIX secolo rese più praticabili le inva­ sioni anfibie su vasta scala, ma queste rimanevano comunque proibitive in pre­ senza di un avversario bene armato80. Dal punto di vista degli invasori, lo svi­ luppo più favorevole fu che i nuovi battelli a vapore avevano maggiore capacità di carico dei velieri, e non erano condizionati dal variare dei venti. Di conse­ guenza, rispetto ai loro predecessori, i piroscafi a vapore potevano sbarcare sul­ le coste nemiche maggiori quantità di truppe e sostenerle per periodi di tempo più lunghi. «La navigazione a vapore», ammoniva lord Palmerston nel 1845, aveva «reso ciò che prima era invalicabile da parte di una forza militare [la Manica] niente di più che un fiume varcabile con un ponte a vapore»81. Ma Palmerston esagerava di molto il rischio di invasione cui si esponeva il Regno Unito, se si tengono in conto gli altri sviluppi tecnologici che lavorava­ no a sfavore delle forze trasportate via mare. In particolare, lo sviluppo degli aeroplani, dei sottomarini e delle mine subacquee aumentava la difficoltà di raggiungere le coste nemiche, mentre lo sviluppo degli aeroplani e delle ferro­ vie (e in seguito delle strade asfaltate, degli autocarri e dei carri armati) rende­ vano particolarmente difficile alle forze anfibie di prevalere dopo essere state sbarcate. Le ferrovie, che si diffusero in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla metà del XIX secolo, giocarono un ruolo importante nelle guerre per l’unifi-

107

La logica di potenza

108

cazione tedesca contro l’Austria (1866) e la Francia (1870-1871), e nella guer­ ra civile americana (1861-1865)82. Le forze anfibie, per definizione, non trag­ gono vantaggio dalle ferrovie. Inoltre forze trasportate via mare non possono portare con loro materiale ferroviario ed è diffìcile impossessarsi e utilizzare — almeno nel breve periodo —la rete ferroviaria del nemico. Le ferrovie, comun­ que, accrescono notevolmente le possibilità di un esercito di sventare un’ope­ razione anfìbia, perché permettono al difensore di concentrare rapidamente forze consistenti sul luogo di sbarco. Grazie ai treni, inoltre, le truppe arrivano sul campo di battaglia in eccellente forma fisica, evitando l’affaticamento del­ le marce a piedi. Inoltre le ferrovie sono un ottimo strumento per sostenere un esercito impegnato in combattimento contro una forza anfibia. Per queste stesse ragioni, lo sviluppo all’inizio del Novecento di strade asfaltate e veicoli motorizzati e meccanizzati avvantaggiarono ulteriormente l’esercito stanziato a terra rispetto all’invasore proveniente dal mare. Sebbene gli aeroplani fossero impiegati per la prima volta in combattimen­ to negli anni Dieci del Novecento, fu solo negli anni Venti e Trenta che si cominciò a studiare l’utilizzo delle portaerei in appoggio alle operazioni anfi­ bie83. Ciononostante, uno stato territoriale sottoposto ad assalto via mare si avvantaggia della forza aerea molto più che le forze anfìbie, perché la terrafer­ ma può fare da base di decollo a un numero molto più alto di velivoli che non una manciata di portaerei84. Uno stato territoriale è in sostanza un’enorme portaerei capace di accogliere un numero illimitato di aeroplani, mentre una vera portaerei può contenerne solo un numero ridotto. Pertanto, a parità di altre condizioni, lo stato territoriale dovrebbe essere in grado di controllare lo spazio aereo e di usare questo vantaggio per inchiodare le forze anfìbie sulle spiagge o prima che raggiungano la costa. Naturalmente la forza in arrivo dal mare è in grado di contenere il problema se può contare su una propria avia­ zione basata a terra. Per esempio, le forze sbarcate in Normandia nel giugno 1944 poterono contare sul forte appoggio degli apparecchi stazionati in Inghilterra. Le forze aeree con base a terra hanno anche la possibilità di affondare unità navali nemiche. E davvero pericoloso porre forze navali in prossimità della costa di una grande potenza che disponga di una formidabile forza aerea. Tra il marzo e il dicembre del 1942, per esempio, i convogli alleati che transitava­ no tra i porti britannici e islandesi e il porto sovietico di Murmansk dovevano costeggiare la Norvegia, dov’erano stanziate considerevoli forze aeree tedesche. Questi aerei seminarono la distruzione tra i convogli fin verso la fine del 1942, quando la potenza aerea tedesca nella regione subì una sostanziale ridu­ zione85. Dunque, anche se ha il dominio del mare, una flotta non può acco-

Il p rim ato d e lla potenza terrestre

stare uno stato territoriale a meno che non abbia anche il controllo dello spa­ zio aereo, e questo è difficile da conseguire con le sole portaerei, perché le for­ ze aeree stazionate a terra sono di regola numericamente assai superiori a quel­ le dislocate in mare. Anche i sottomarini furono impiegati per la prima volta nella prima guer­ ra mondiale, soprattutto dai tedeschi contro le unità alleate nelle acque intor­ no al Regno Unito e nell’Atlantico86. Sebbene la campagna sottomarina tede­ sca finì per fallire nell’intento, si ebbe la dimostrazione che una grande flotta di sommergibili era in grado di distruggere con relativa facilità navi mercanti­ li prive di scorta. I sottomarini tedeschi inoltre portarono una seria minaccia alla formidabile flotta di superficie del Regno Unito, che passò la guerra a gio­ care al gatto con il topo inseguendo la marina tedesca nel Mare del Nord. In effetti, i comandanti della flotta britannica vivevano nella paura costante dei sottomarini tedeschi, anche quando si trovavano nei propri porti. Ma soprat­ tutto temevano di doversi avventurare nel Mare del Nord e trovarsi nei pressi delle coste tedesche, dove i sottomarini potevano essere in agguato. «Il perico­ lo dei sottomarini», rileva lo storico navale Paul Halpern «contribuì a fare del Mare del Nord qualcosa di simile, per le grandi navi, alla terra di nessuno che stava tra gli opposti schieramenti di trincee. Ci si avventurava solo se si dove­ va proprio»87. La minaccia dei sottomarini alle navi di superficie ha importan­ ti implicazioni per la flotta che intende lanciare un assalto anfibio contro la costa di un avversario. In particolare, un nemico dotato di una temibile forza sottomarina potrebbe affondare le forze d’invasione prima che raggiungano la costa, o affondare buona parte delle navi impegnate nei cannoneggiamenti in appoggio alle forze di terra dopo lo sbarco, paralizzando così le truppe sulla spiaggia sotto il fuoco nemico. Infine le mine marine, ordigni esplosivi ancorati sotto il pelo dell’acqua che scoppiano se urtati da una nave di passaggio, aumentano la difficoltà di invadere uno stato territoriale dal mare88. Le mine marine furono usate effica­ cemente per la prima volta durante la guerra civile americana, ma il loro impiego su vasta scala risale alla prima guerra mondiale. Tra il 1914 e il 1918 gli stati combattenti seminarono in mare qualcosa come 240.000 mine, che influirono in maniera sensibile sull’andamento della guerra89. Le unità di superficie semplicemente non riescono a passare indenni attraverso acque pesantemente minate: bisogna prima disinfestare la zona, e in tempo di guer­ ra questo è un compito difficile quando non impossibile. Uno stato territoria­ le può dunque utilizzare efficacemente le mine per difendere le proprie coste dall’invasione. Nella guerra del Golfo, l’Iraq, per esempio, ha minato le acque al largo del Kuwait prima che gli Stati Uniti e i loro alleati cominciassero ad

109

La logica di potenza

ammassare le forze preparandosi all’invasione. Quando il 24 febbraio 1991 ebbe inizio la guerra sul terreno, i marine non presero d’assalto le spiagge kuwaitiane ma rimasero sulle loro navi ancorate nel golfo90. Anche se particolarmente difficili da portare a termine, in determinate cir­ costanze le operazioni anfibie contro la terraferma controllata da una grande potenza sono comunque realizzabili. In particolare, hanno buone probabilità di riuscita contro una grande potenza che si trovi sull’orlo di una sconfìtta catastrofica, perché la vittima non disporrà dei mezzi per difendersi. Inoltre potranno avere successo contro grandi potenze impegnate a difendere vasti territori. In tali casi, è probabile che le truppe di difesa siano disperse lungo un ampio schieramento, lasciando il territorio esposto ad attacchi in zone periferiche. In realtà, sbarchi anfibi incontrastati sono possibili se le forze di difesa di una grande potenza sono dispiegate in maniera sufficientemente rare­ fatta. Una circostanza particolarmente conveniente si presenta quando il difensore sta combattendo una guerra su due fronti, perché in questo caso una porzione considerevole delle sue forze sarà bloccata su un fronte lontano dal­ l’invasione dal mare91. In tutti i casi, la forza d’invasione dovrà avere una net­ ta superiorità aerea sulle zone di sbarco, così che l’aviazione possa fornire un appoggio aereo ravvicinato e impedire ai rinforzi nemici di raggiungere la testa di ponte92. Ma se nessuna di queste circostanze è presente, e la grande potenza schie­ rata in difesa può impiegare una parte sostanziale della propria capacità mili­ tare contro le forze anfibie, le forze di terraferma hanno la quasi certezza di infliggere una sconfitta devastante agli invasori. Quindi, esaminando i prece­ denti storici, dovremmo aspettarci di trovare casi di operazioni anfibie dirette contro una grande potenza, solo quando sono presenti le circostanze descritte sopra. Assalti dal mare contro consistenti forze di terra saranno quindi decisa­ mente rari. Storia delle operazioni anfibie Una breve ricapitolazione delle invasioni dal mare fornisce abbondanti prove del potere frenante dell’acqua. Non c’è un solo caso in cui una grande poten­ za abbia lanciato un assalto anfibio contro un territorio ben difeso da un’altra grande potenza. Prima della Grande Guerra, alcuni strateghi navali britannici auspicavano l’invasione della Germania dal mare, allo scoppio di un conflitto generale europeo93. L’idea però fu considerata suicida sia dai pianificatori mili­ tari sia dai politici civili. Corbett sicuramente rifletteva il pensiero comune sull’argomento quando nel 1911 scriveva: «Per quanto noi si possa sconfigge-

Il prim ato d e lla potenza terrestre

re la flotta del nemico, la sua situazione non peggiorerà di molto. Avremo aperto la via all’invasione, ma ogni grande potenza continentale riderà del nostro tentativo di invadere con una sola mano»94. Il cancelliere tedesco Otto von Bismarck evidentemente fece proprio questo quando gli chiesero come avrebbe reagito se l’esercito britannico fosse sbarcato sulle coste della Germa­ nia. La sua risposta sarebbe stata: «Chiamerò la polizia locale e li farò arresta­ re!»95. Il Regno Unito non considerò seriamente l’idea di invadere la Germa­ nia né prima né dopo lo scoppio della prima guerra mondiale e inviò invece il suo esercito in Francia, dove prese posto accanto all’esercito francese sul fron­ te occidentale. Una strategia simile il Regno Unito la adottò dopo l’invasione tedesca della Polonia, il 1° settembre 1939. Durante la guerra fredda gli Stati Uniti e i loro alleati non presero mai in seria considerazione l’idea di sferrare un attacco anfibio contro l’URSS96. Inol­ tre i politici americani riconobbero durante la guerra fredda che se l’esercito sovietico avesse occupato l’Europa Occidentale, sarebbe stato pressoché impossibile per le forze statunitensi e britanniche lanciare un secondo sbarco in Normandia per riprendere il controllo del continente europeo97. Con ogni probabilità, l’Unione Sovietica non si sarebbe trovata impegnata in una guerra su due fronti e così sarebbe stata in grado di concentrare in Francia quasi tut­ te le sue divisioni migliori. Inoltre i sovietici avrebbero disposto di una formi­ dabile forza aerea da usare contro le forze d’invasione. Praticamente tutti i casi occorsi nella storia moderna di assalti anfìbi a un territorio controllato da una grande potenza si sono verificati in presenza del­ le circostanze speciali sopra elencate. Durante le guerre rivoluzionarie e napo­ leoniche (1792-1815), per esempio, la marina britannica condusse due sbar­ chi anfibi e un solo assalto anfibio su territorio controllato dalla Francia. Entrambi gli sbarchi fallirono, mentre l’assalto ebbe successo. Gran Bretagna e Russia sbarcarono truppe nell’Olanda controllata dalla Francia il 27 agosto 179998. Loro obiettivo era portare la Francia, che era già impegnata in combattimenti con gli eserciti austriaco e russo in Europa Cen­ trale, a combattere una guerra su due fronti. Ma, poco dopo che le forze anglorusse furono sbarcate in Olanda per aprire il secondo fronte, la Francia conseguì vittorie chiave sull’altro fronte. A quel punto l’Austria abbandonò la guerra, lasciando la Francia libera di concentrare i propri mezzi militari contro le forze d’invasione, fin dall’inizio scarsamente equipaggiate e rifornite (era l’e­ poca della vela). Per evitare il disastro, gli eserciti britannico e russo fecero die­ tro front, cercando di abbandonare l’Olanda via mare. Ma non riuscirono a lasciare il continente e furono costretti alla resa il 18 ottobre 1799, meno di due mesi dopo lo sbarco iniziale.

La logica di potenza

112

Il secondo sbarco anfibio ebbe luogo sulla costa portoghese nell’agosto 1808, in un momento in cui la macchina bellica bonapartista era seriamente impegnata nella vicina Spagna". A quel tempo il Portogallo era sotto il con­ trollo di un contingente francese piccolo e debole, cosa che permise al Regno Unito di sbarcare delle truppe su una striscia di litorale controllata da combat­ tenti portoghesi amici. La forza di invasione britannica espulse l’esercito fran­ cese dal Portogallo e poi passò in Spagna per impegnare il grosso delle armate francesi presenti nella penisola iberica. Ridotto a mal partito dalle forze di Napoleone, l’esercito britannico dovette evacuare via mare la Spagna nel gen­ naio 1809, sei mesi dopo essere sbarcato in Portogallo100. In entrambi i casi, gli sbarchi iniziali furono possibili in quanto il grosso delle truppe francesi era impegnato altrove e la marina britannica riuscì a trovare una zona di sbarco sicura in territorio ostile. Appena si trovarono a doversi scontrare con le potenti forze francesi, le forze anfibie dovettero però ripiegare in tutta fretta verso le spiagge. I militari britannici lanciarono un assalto anfìbio riuscito contro le forze francesi ad Abukir, in Egitto, l’8 marzo 1801. I difensori erano in realtà quan­ to restava dell’esercito che Napoleone aveva portato in Egitto nell’estate del 1798101. Poco dopo la marina britannica tagliava le linee di comunicazione di quell’esercito con l’Europa, destinandolo così alla distruzione. Riconoscendo la situazione strategicamente fosca che si trovava di fronte, Napoleone rientrò furtivamente in Francia nell’agosto 1798. Così, quando nel 1801 la Gran Bre­ tagna invase l’Egitto, le forze francesi sul posto avevano passato tre anni a infiacchirsi ed erano in pessima forma per combattere una guerra. Inoltre era­ no guidate da un comandante particolarmente incompetente. Così, le truppe d’assalto britanniche si trovarono di fronte in Egitto un avversario tutt’altro che formidabile. Anzi, l’esercito francese non si diede pena di difendere le spiagge di Abukir, dando prova assai scarsa di sé nelle battaglie successive con le truppe britanniche. Le forze francesi in Egitto si arresero il 2 settembre 1801. La guerra di Crimea (1853-1856) è uno dei due casi nella storia moderna in cui una grande potenza invade il territorio di un’altra grande potenza dal mare (l’altro è lo sbarco alleato in Sicilia nel luglio 1943). Nel settembre 1854, circa 53.000 soldati britannici e francesi sbarcarono nella penisola di Crimea, un tratto remoto di territorio russo che si protende sul Mar Nero102. Il loro scopo era strappare alla Russia il controllo del Mar Nero, catturando la base navale di Sebastopoli difesa da circa 45.000 russi103. L’operazione era uno sbarco anfibio, non un assalto anfibio. Le forze anglofrancesi toccarono terra a una cinquantina di miglia a nord di Sebastopoli, dove non incontrarono alcu-

Il prim ato d e lla potenza terrestre

na resistenza finché non ebbero costituito una testa di ponte e si furono inol­ trati in profondità nell’entroterra. Nonostante la notevole inettitudine dimo­ strata da britannici e francesi, nel settembre del 1855 Sebastopoli cadde. Poco dopo la Russia perse la guerra; il trattato di pace fu firmato a Parigi all’inizio del 1856. Numerose circostanze eccezionali spiegano il caso Crimea. Innanzitutto, il Regno Unito e la Francia minacciavano la Russia in due teatri di guerra molto distanti tra loro: il Mar Baltico e il Mar Nero. Ma essendo il Baltico vicino alle città russe più importanti, mentre il Mar Nero ne era lontano, la Russia tene­ va il grosso del suo esercito nelle vicinanze del Baltico. Anche dopo lo sbarco delle truppe anglofrancesi in Crimea, le forze russe nella regione baltica rima­ sero al loro posto. Secondo, la possibilità di un attacco dell’Austria alla Polonia teneva bloccate altre truppe russe, che in caso contrario avrebbero potuto esse­ re inviate in Crimea. Terzo, la rete dei trasporti e delle comunicazioni nella Russia della metà del XIX secolo era primitiva, e quindi risultava difficile alla potenza zarista rifornire le sue forze intorno a Sebastopoli. Il feldmaresciallo Helmuth von Moltke, artefice delle vittorie prussiane contro l’Austria (1866) e la Francia (1870-1871), riteneva che: «Se nel 1856 la Russia avesse avuto la strada ferrata fino a Sebastopoli, la guerra avrebbe certamente avuto un altro esito»104. Infine, Regno Unito e Francia in Crimea avevano obiettivi limitati: non minacciavano seriamente di estendere la conquista e certamente non minacciavano di muoversi verso nord per infliggere una sconfitta decisiva alla Russia. Solo un assalto anglofrancese dal mare attraverso il Baltico avrebbe potuto portare a una vera e propria disfatta della Russia. Ma la Russia manten­ ne nella regione forze sufficienti a scoraggiare un attacco del genere. Durante la prima guerra mondiale non vi fu alcuna invasione dal mare contro un territorio controllato dalla Germania o da altre grandi potenze. La disastrosa campagna di Gallipoli fu l’unica grande operazione anfìbia del con­ flitto105. Le forze britanniche e francesi tentarono di conquistare la penisola di Gallipoli, che faceva parte della Turchia ed era d’importanza critica per l’ac­ cesso al Mar Nero. La Turchia non era una grande potenza, ma era alleata del­ la Germania, anche se truppe tedesche non combatterono al fianco di quelle turche. Ciononostante, i turchi fermarono le truppe alleate sulle spiagge e finirono per costringerle a ritirarsi via mare da Gallipoli. Numerose operazioni anfibie si svolsero nella seconda guerra mondiale contro territori controllati da una grande potenza. Nel teatro europeo, forze britanniche e americane lanciarono cinque grandi assalti dal mare106. Le forze alleate sbarcarono in Sicilia nel luglio 1943, quando l’Italia era ancora in guer­ ra (anche se in procinto di uscirne), e nell’Italia peninsulare nel settembre

La logica di potenza

1943, subito dopo l’uscita dell’Italia dalla guerra. Entrambe le invasioni ebbe­ ro successo. Dopo aver conquistato l’Italia meridionale, gli Alleati lanciarono un’invasione su vasta scala sbarcando ad Anzio, nel gennaio 1944108. L’obietti­ vo era piegare il fianco dell’esercito tedesco sbarcando un grosso contingente una novantina di chilometri a ridosso delle linee nemiche. Anche se lo sbarco procedette bene, l’operazione di Anzio fu un fallimento. La Wehrmacht inchiodò le truppe d’invasione nella zona di sbarco, dove rimasero bloccate finché l’esercito tedesco non cominciò a ritirarsi verso nord, in direzione di Roma. Le ultime due invasioni furono portate contro le forze tedesche che occupavano la Francia: in Normandia nel giugno 1944 e nel sud della Francia nell’agosto dello stesso anno. Entrambe ebbero successo e contribuirono alla caduta della Germania nazista109. Lasciando per il momento da parte Anzio, gli altri quattro assalti ebbero successo solo in parte, perché gli Alleati godevano di una schiacciante superio­ rità aerea in ciascuno dei casi, il che voleva dire che l’artiglieria aerea era squi­ librata a favore delle forze di sbarco e non dei difensori. La potenza aerea degli Alleati fu usata anche per ostacolare il movimento dei rinforzi tedeschi verso le aree di sbarco, il che diede tempo agli Alleati di ricostituire le proprie forze prima di dover ingaggiare lo scontro con le unità principali della Wehrmacht. Inoltre la Germania, che stava occupando e difendendo l’Italia e la Francia quando si verificarono queste invasioni, combatteva su due fronti e il grosso delle sue forze era impegnato sul fronte orientale110. Le truppe tedesche in Ita­ lia e in Francia dovevano anche coprire vasti tratti di costa, assottigliando così la linea di difesa e rendendola vulnerabile agli assalti anfìbi degli Alleati, con­ centrati in punti particolari lungo le coste. Provate a pensare se lo sbarco in Normandia fosse avvenuto contro una Wehrmacht che controllava lo spazio aereo sopra la Francia e non era in guerra con l’Unione Sovietica: gli Alleati non avrebbero osato invadere. Il successo dello sbarco ad Anzio fu dovuto a questi stessi fattori: decisiva superiorità aerea e limitata resistenza tedesca nei luoghi dello sbarco. Gli Alleati, però, non si mossero abbastanza in fretta da sfruttare il vantaggio ini­ ziale e assicurarsi il successo totale. Non solo furono lenti a portarsi nell’entroterra dalla testa di ponte, ma in più l’aviazione alleata non riuscì a impedire alla Wehrmacht di trasferire forze significative nell’area di sbarco, dove riusci­ rono a contenere la forza d’invasione. Inoltre non fu fatto nessuno sforzo per far arrivare rinforzi alle unità sbarcate, soprattutto perché l’operazione di Anzio non aveva molta importanza ai fini dell’esito della campagna d’Italia. Le operazioni anfibie nel teatro del Pacifico durante la seconda guerra mondiale rientrano in due categorie. Nei due mesi immediatamente successivi

Il prim ato della potenza terrestre

a Pearl Harbor, il Giappone condusse una cinquantina di sbarchi e assalti anfì­ bi nel Pacifico occidentale contro territori difesi principalmente da truppe bri­ tanniche ma anche americane111. I bersagli comprendevano Malaysia, Borneo britannico, Hong Kong, Filippine, Timor, Giava, Sumatra e Nuova Guinea, per citarne solo alcuni. Quasi tutte queste operazioni anfibie ebbero successo, facendo del Giappone un vasto impero insulare entro la metà del 1942. I suc­ cessi anfibi dei giapponesi furono dovuti alle circostanze speciali descritte sopra: superiorità aerea sui siti di sbarco e forze alleate deboli e isolate, impos­ sibilitate a difendere le lunghe coste loro affidate112. Durante la seconda guerra mondiale le invasioni anfibie condotte dagli USA contro isole tenute dai giapponesi nel Pacifico furono cinquantadue113. Queste campagne erano essenziali per distruggere l’impero insulare che il Giappone aveva costruito nella fase precedente della guerra grazie a operazioni anfibie. Alcune delle invasioni americane furono su scala limitata, e in molti casi si trattò di sbarchi che non incontrarono resistenza. In altri casi, come a Okinawa, gli esiti dello sbarco si rivelarono micidiali per le forze d’invasione, quando queste si spostarono nell’interno incontrando una strenua resistenza giapponese. Tarawa, Saipan e Iwo Jima comportarono grandi assalti dal mare contro litorali pesantemente difesi. Praticamente, tutti questi sbarchi ebbero successo, anche se il prezzo della vittoria fu a volte molto alto. Questo notevole risultato fu dovuto in parte alla superiorità aerea america­ na. Come rileva PUS Strategie Bombing Survey: «I nostri sbarchi hanno avu­ to sempre successo perché il dominio dell’aria è stato sempre conseguito nel­ l’area obiettivo prima che venisse tentata l’operazione»114. Il controllo delfaria non solo significò che le forze d’invasione americane potevano contare su un solido supporto aereo, mentre i giapponesi ne erano privi, ma permise anche agli Stati Uniti di concentrare le proprie forze contro particolari isole del peri­ metro dell’impero giapponese del Pacifico e tagliare il flusso di rifornimenti e rinforzi a quegli avamposti115. «In questo modo i punti di difesa del perimetro divennero guarnigioni isolate non più raggiungibili dai rinforzi - passibili cia­ scuna di distruzione individuale»116. Inoltre il Giappone stava combattendo una guerra su due fronti e solo una piccola parte del suo esercito era stanziata sulle isole del Pacifico; il grosso dell’esercito si trovava stanziato in Asia conti­ nentale e nello stesso Giappone. Infine, vale la pena di notare che quando nell’agosto 1945 la seconda guer­ ra mondiale finì, gli Stati Uniti stavano studiando un piano d’invasione del Giappone. Non c’è dubbio che le forze americane avrebbero assaltato le isole principali del Giappone se questo non si fosse arreso, e che l’invasione avreb­ be avuto successo.

La logica di potenza

Operazioni anfibie erano praticabili contro il Giappone a partire dalla seconda metà del 1945, perché il Giappone era una grande potenza colpita a morte, e le forze di assalto dovevano sostanzialmente assestargli il colpo di grazia. Tra la battaglia di Midway nel giugno 1942 e la presa di Okinawa nel giugno 1945, le forze armate americane erano riuscite a distruggere le forze giapponesi nel Pacifico117. Nell’estate del 1945 l’impero giapponese del Paci­ fico era ormai in rovina e quanto restava della sua marina, un tempo formi­ dabile, era pressoché impotente contro la macchina bellica americana. L’eco­ nomia giapponese, che all’inizio della seconda guerra mondiale era un ottavo di quella americana, nella primavera del 1945 era ormai in pezzi118. Inoltre per l’estate del 1945, l’aviazione nipponica, come la marina, era ormai annientata, il che voleva dire che gli aerei americani dominavano incontrasta­ ti i cieli sopra il Giappone. Tutto ciò che rimaneva a difesa del suolo giappo­ nese era l’esercito. Ma anche qui la sorte arrise agli Stati Uniti, perché più della metà delle unità di terra giapponesi erano bloccate sul continente asiati­ co, da dove non avrebbero potuto influire su un’invasione americana119. In breve, nell’estate del 1945 il Giappone era una grande potenza solo di nome, e cosi per i responsabili militari americani un’invasione era praticabile. Ma pure in queste condizioni, essi erano determinati a fare di tutto per evitare un assalto anfìbio contro il Giappone, perché temevano un alto numero di per­ dite umane120. Potenze continentali e potenze insulari I precedenti storici forniscono anche un’altra prospettiva per guardare alla dif­ ficoltà di assaltare dal mare il territorio di una grande potenza rispetto all’invaderla via terra. Specificamente, è possibile distinguere tra stati insulari e con­ tinentali. Uno stato insulare è la sola grande potenza su un vasto tratto di ter­ raferma circondato dal mare. Possono esserci altre grandi potenze sul pianeta, ma devono essere tenute separate dallo stato insulare da grandi estensioni d’acqua. Il Regno Unito e il Giappone sono ovvi esempi di stati insulari, in quanto occupano ciascuno una grande isola. Gli Stati Uniti sono anch’essi una potenza insulare, perché sono l’unica grande potenza dell’emisfero occidenta­ le. Uno stato continentale, invece, è una grande potenza situata su una vasta estensione di terra occupata anche da una o più altre grandi potenze. La Fran­ cia, la Germania e la Russia sono evidenti esempi di stati continentali. Una grande potenza insulare può essere attaccata solo dal mare, mentre una potenza continentale può essere attaccate dal mare e da terra, posto che il suo territorio non sia totalmente interno121. A causa del potere frenante del-

Il p rim ato della potenza terrestre

l’acqua, ci si attende che gli stati insulari siano molto meno esposti alle inva­ sioni degli stati continentali, e che gli stati continentali siano invasi da terra molto più spesso che dal mare. Per verificare l’argomento, consideriamo bre­ vemente la storia di due grandi potenze insulari, il Regno Unito e gli Stati Uniti, e di due grandi potenze continentali, la Francia e la Russia, esaminando in particolare quante volte ognuna di esse sia stata invasa da un altro stato, e se queste invasioni siano avvenute via terra o via mare. Nel 1945 la Gran Bretagna era una grande potenza da oltre quattro secoli, periodo nel quale era stata impegnata in innumerevoli guerre. Nel corso di questo lungo periodo, però, non era mai stata invasa da un’altra grande poten­ za, e tanto meno da una potenza minore122. Certo, talvolta gli avversari minacciarono di inviare forze di invasione oltre la Manica, ma nessuno riuscì mai a inviare navi d’assalto. La Spagna, per esempio, progettò di invadere l’In­ ghilterra nel 1588. Ma la sconfìtta dell’Armada spagnola quello stesso anno, al largo delle coste inglesi, annientò le forze navali che avrebbero dovuto scorta­ re l’esercito spagnolo al di là della Manica123. Napoleone e Hitler consideraro­ no entrambi l’idea di invadere il Regno Unito, ma nessuno dei due fece il ten­ tativo124. Come il Regno Unito, nemmeno gli Stati Uniti sono mai stati invasi da quando nel 1898 divennero una grande potenza125. La Gran Bretagna lanciò una serie di incursioni su vasta scala contro il territorio americano durante la guerra del 1812, e il Messico attaccò il Texas nella guerra del 1846-1848. Quei conflitti, però, si svolsero molto prima che gli Stati Uniti acquisissero lo status di grande potenza, e comunque nemmeno allora né Regno Unito né Messico minacciarono seriamente di conquistare gli Stati Uniti126. Cosa più importante, non c’è stata alcuna seria minaccia di invadere gli Stati Uniti da quando divennero una grande potenza alla fine del XIX secolo. In realtà, gli Stati Uniti sono forse la grande potenza più sicura della storia, soprattutto perché è sempre rimasta separata dalle altre grandi potenze del mondo da due immensi fossati —l’Atlantico e il Pacifico. La questione diventa sostanzialmente diversa quando spostiamo l’attenzio­ ne sulla Francia e la Russia. La Francia è stata invasa sette volte da eserciti nemici a partire dal 1792, e tre volte su sette è stata conquistata. Durante le guerre rivoluzionarie e napoleoniche (1792-1815), eserciti rivali attaccarono la Francia in quattro diverse occasioni (1792, 1793, 1813, 1815), infliggendo infine una sconfitta decisiva a Napoleone durante l’ultima delle invasioni. La Francia fu invasa e sconfitta dalla Prussia nel 1870-1871 e ricevette un’altra visita dalfesercito tedesco nel 1914, ma nella prima guerra mondiale la Fran­ cia riuscì a sfuggire alla sconfitta. La Germania colpì ancora una volta nel

La logica di potenza

1940, e questa volta conquistò la Francia. Queste sette invasioni avvennero tutte da terra; la Francia non è mai stata invasa dal mare127. La Russia, altro stato continentale, è stata invasa cinque volte negli ultimi due secoli. Nel 1812 Napoleone si spinse fino a Mosca, e Francia e Regno Unito assaltarono la penisola di Crimea nel 1854. La Russia fu invasa e subì una sconfitta decisiva dall’esercito tedesco nella prima guerra mondiale. Poco dopo, nel 1921, la Polonia, che non era una grande potenza, invase l’Unione Sovietica di recente fondazione. I tedeschi invasero di nuovo la Russia europea nell’estate del 1941, dando inizio a una delle campagne più sanguinose della storia. Tutte queste invasioni ebbero luogo via terra, salvo l’attacco anglofran­ cese in Crimea128. In sintesi, nessuna delle nostre grandi potenze insulari (Regno Unito e Sta­ ti Uniti) è mai stata invasa, mentre entrambe le nostre grandi potenze conti­ nentali (Francia e Russia) sono state invase, per un totale di dodici volte dal 1792. Questi stati continentali sono stati assaltati via terra undici volte, una sola volta dal mare. La lezione da trarre è che le grandi estensioni d’acqua ren­ dono estremamente difficile per un esercito invadere un territorio difeso da una grande potenza bene armata. La discussione finora si è mantenuta sulle forze militari convenzionali, sot­ tolineando che la potenza terrestre è più importante sia della potenza navale indipendente sia della potenza aerea strategica per vincere una guerra tra gran­ di potenze. Poco si è detto, però, su come incidano sulla potenza militare le armi nucleari.

LE ARMI NUCLEARI E L’EQUILIBRIO DI POTENZA 118

Le armi nucleari sono - in senso puramente militare - rivoluzionarie, sempli­ cemente perché possono provocare in tempi brevi livelli di distruzione senza precedenti129. Durante gran parte della guerra fredda, per esempio, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano la capacità materiale di distruggersi a vicenda come società funzionanti in pochi giorni, se non poche ore. Cionono­ stante, non c’è accordo su come le armi nucleari influiscano sulla politica del­ le grandi potenze, e in particolare sull’equilibrio di potenza. Qualcuno affer­ ma che le armi nucleari eliminano la competizione per la sicurezza tra grandi potenze, in quanto stati nucleari non oserebbero attaccarsi a vicenda per pau­ ra di essere annientati. La precedente discussione sulla potenza bellica conven­ zionale, secondo questo punto di vista, sarebbe in larga misura irrilevante in epoca nucleare. Ma altri sostengono il contrario: poiché le armi nucleari sono

Il prim ato della potenza terrestre

orrendamente distruttive, nessun leader razionale le userebbe mai, neppure per autodifesa. Così, le armi nucleari non ostacolano in modo significativo la competizione per la sicurezza, e l’equilibrio della potenza militare convenzio­ nale ha ancora una grande importanza. Io affermo che nell’improbabile evento che una singola grande potenza raggiunga la superiorità nucleare, questa diventerebbe un egemone, il che in pratica significa che non avrebbe più grandi potenze rivali con cui competere per la sicurezza. Le forze convenzionali, in un mondo del genere, contano poco per l’equilibrio di potenza. Ma nella situazione più probabile, quella in cui vi siano due o più grandi potenze dotate di forze di rappresaglia nucleari in grado di sopravvivere a un attacco, la competizione per la sicurezza conti­ nuerà e il potere di terra rimarrà la componente chiave della potenza militare. E comunque indiscutibile che la presenza del nucleare renda gli stati più cauti nell’impiego reciproco della forza militare di qualsivoglia genere. La superiorità nucleare Nella sua forma più esplicita e nota, la superiorità nucleare esiste quando una grande potenza ha la capacità materiale di distruggere la società di un avversa­ rio senza timore di una sostanziale rappresaglia contro la propria società. In altre parole, la superiorità nucleare significa che uno stato può trasformare una grande potenza rivale in «una rovina fumante e radioattiva», rimanendo essa stessa sostanzialmente illesa130. Quello stato potrebbe anche usare il proprio arsenale militare per distruggere le forze convenzionali dell’avversario, anche qui senza temere una rappresaglia nucleare. Il modo migliore per uno stato di raggiungere la superiorità nucleare è dotarsi di armi nucleari e al tempo stesso fare in modo che nessun altro stato ne abbia. Uno stato che ha il monopolio nucleare non ha, per definizione, di che preoccuparsi di rappresaglie qualora ricorresse ai propri ordigni nucleari. In un mondo di due o più stati nucleari, uno di questi può raggiungere la superiorità se riesce a sviluppare la capacità di neutralizzare le armi nucleari dei rivali. Per ottenere tale superiorità uno stato potrebbe o conseguire la capacità di «colpire per primi alla grande» gli arsenali nucleari degli avversari o svilup­ pare la capacità di difendersi dai loro attacchi nucleari131. La superiorità nucleare, però, non è raggiunta semplicemente quando uno stato ha un nume­ ro sensibilmente più alto di armi nucleari di un altro stato. Una simile asim­ metria non è rilevante se riesce a sopravvivere a un primo attacco atomico una parte dell’arsenale nucleare inferiore sufficiente a infliggere una massiccia rap­ presaglia allo stato che vanta la superiorità nucleare.

La logica di potenza

120

Quello stato che si assicuri la superiorità nucleare assoluta su tutti i suoi rivali diventa a tutti gli effetti l’unica grande potenza del sistema, perché il vantaggio di potenza concesso a quello stato è davvero enorme. L’egemone nucleare può minacciare di ricorrere al proprio potente arsenale per infliggere distruzioni di massa agli stati rivali, eliminandoli praticamente come entità politiche funzionanti. Le potenziali vittime non sarebbero in grado di effet­ tuare rappresaglie di pari livello —ed è questo a rendere credibile la minaccia. L’egemone nucleare potrebbe anche usare le sue armi letali contro obiettivi militari, per esempio per colpire grandi concentrazioni di forze di terra nemi­ che, basi aeree, unità navali o punti chiave del sistema di comando e controllo dell’avversario. Anche in questo caso, lo stato preso di mira non avrebbe una capacità militare commisurata, lasciando così all’egemone nucleare il vantag­ gio decisivo, indipendentemente dall’equilibrio delle forze convenzionali. Ogni grande potenza vorrebbe acquisire la superiorità nucleare, ma è poco probabile che ciò si verifichi spesso, e quando accade è diffìcile che la situazio­ ne resista a lungo132. Di sicuro, i rivali non nucleari faranno di tutto per acquisire anche loro un arsenale atomico, e una volta ottenutolo, sarebbe dif­ ficile, anche se non impossibile, per una grande potenza ristabilire la superio­ rità mettendosi al riparo da un attacco nucleare133. Gli Stati Uniti, per esem­ pio, hanno avuto il monopolio nucleare dal 1945 al 1949, ma anche in quel breve periodo non si è trattato di una superiorità nucleare significativa134. Durante quegli anni non solo l’arsenale nucleare dell’America era limitato, ma inoltre il Pentagono non aveva ancora sviluppato mezzi efficaci per portarle sui bersagli appropriati in Unione Sovietica. Quando nel 1949 l’URSS fece esplodere la sua prima bomba atomica, gli USA tentarono, senza riuscirci, di conseguire la superiorità nucleare sui loro rivali. Né i sovietici furono mai in grado di ottenere un vantaggio nucleare decisivo sugli americani durante la guerra fredda. Così, ciascuna delle due par­ ti fu costretta ad accettare il fatto che indipendentemente da come usasse le proprie forze nucleari, con ogni probabilità l’altra avrebbe conservato una for­ za di rappresaglia tale da infliggere danni inaccettabili all’attaccante. Questo «stallo alla texana» prese il nome di M utual Assured Destruction (distruzione reciproca assicurata; in sigla MAD, che non a caso vuol dire «pazzo»), perché entrambe le parti con ogni probabilità sarebbero state distrutte se una delle due avesse iniziato una guerra nucleare. Per quanto ogni stato desideri trascen­ dere la MAD e conseguire la superiorità nucleare, è improbabile che ciò avvenga nel futuro prevedibile135.

Il p rim ato della potenza terrestre

La potenza militare in un mondo MAD Un mondo MAD è altamente stabile al livello nucleare perché nessuna grande potenza ha un incentivo a dar inizio a una guerra nucleare che non può vince­ re; una guerra, anzi, che con ogni probabilità porterà alla sua distruzione come società funzionante. Eppure, resta valida la domanda: che effetto ha questo equilibrio del terrore sulle prospettive di una guerra convenzionale tra grandi potenze nucleari? Secondo certe scuole di pensiero, è così improbabile che in un mondo MAD si ricorra alle armi nucleari, che le grandi potenze sono libe­ re di combattere guerre convenzionali quasi come se le armi nucleari non esi­ stessero. L’ex segretario alla Difesa Robert McNamara, per esempio, sostiene che: «Le armi nucleari non hanno la minima efficacia dal punto di vista mili­ tare. Sono totalmente inutili - salvo che per scoraggiare l’avversario dall’usarle»136. Le armi nucleari, secondo questa logica, avrebbero scarso effetto sul comportamento degli stati a livello convenzionale, e quindi le grandi potenze sarebbero libere di impegnarsi nella competizione per la sicurezza, né più né meno che come facevano prima che le armi nucleari fossero inventate137. Il problema di questo punto di vista è che poggia su un presupposto indi­ mostrato: che le grandi potenze possano nutrire la quasi certezza che una guerra convenzionale su vasta scala non degenererà in un conflitto nucleare. In realtà, non sappiamo molto sulla dinamica dell’escalation dal livello con­ venzionale a quello nucleare, perché (fortunatamente) non ci sono precedenti storici cui rifarsi. Ciononostante, una nutrita letteratura scientifica sostiene che esistono ragionevoli probabilità che una guerra convenzionale tra potenze nucleari possa diventare atomica138. Quindi, le grandi potenze che operano in un mondo MAD potrebbero essere molto più caute nell’ipotizzare una guerra convenzionale tra di loro di quanto non lo sarebbero in assenza di armi nucleari. Una seconda scuola di pensiero afferma che le grandi potenze in un mon­ do MAD non hanno molti motivi di preoccuparsi dell’equilibrio convenzio­ nale, perché le grandi potenze nucleari semplicemente non si attaccano a vicenda con forze convenzionali per timore di un’escalation nucleare139. Le grandi potenze sono notevolmente al sicuro in un mondo MAD, si sostiene, e quindi non hanno molte ragioni di competere per la sicurezza. Le armi nucleari hanno reso la guerra tra grandi potenze praticamente impensabile e hanno quindi reso obsoleto il detto di Cari von Clausewitz secondo cui la guerra altro non è che una prosecuzione della politica con altri mezzi. In pra­ tica, l’equilibrio del terrore avrebbe privato d’importanza l’equilibrio della potenza di terra.

La logica di potenza

122

Il problema di questa prospettiva è che va all’estremo opposto sulla que­ stione dell’escalation. In particolare, si fonda sul presupposto che sia probabi­ le, se non automatico, che una guerra convenzionale passi al livello nucleare. Inoltre presuppone che tutte le grandi potenze pensino che non vi siano distinzioni significative tra i due tipi di conflitto. Ma, come sottolinea la pri­ ma scuola di pensiero, l’indiscutibile orrore associato alle armi nucleari dà ai responsabili politici potenti incentivi per fare di tutto affinché una guerra convenzionale non degeneri in nucleare. Di conseguenza, è possibile che una grande potenza nucleare giunga alla conclusione che potrebbe combattere una guerra convenzionale contro un rivale nucleare senza che la guerra si trasformi in conflitto nucleare, soprattutto se la potenza attaccante mantiene limitati i propri obiettivi e non minaccia di sconfiggere in maniera decisiva il suo avver­ sario140. Una volta riconosciuta questa possibilità, le grandi potenze non han­ no altra scelta che competere per la sicurezza a livello convenzionale, non mol­ to diversamente da come facevano prima dell’avvento del nucleare. Risulta chiaro dall’esperienza della guerra fredda che le grandi potenze che operano in un mondo MAD sono altrettanto impegnate in un’intensa compe­ tizione per la sicurezza, e prestano molta attenzione alle forze convenzionali, specialmente all’equilibrio di potenza a terra. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovie­ tica si sono contesi alleati e basi in tutto il mondo dall’inizio della loro rivalità dopo la seconda guerra mondiale, fino alla fine per dissoluzione di uno dei contendenti, circa quarantacinque anni dopo. È stata una lotta lunga e aspra. A quanto pare né i nove presidenti americani né le sei leadership sovietiche accettarono l’argomento secondo il quale sarebbero stati così sicuri in un mondo MAD da potersi disinteressare di quanto avveniva al di fuori dei loro confini. Inoltre, nonostante i loro vasti arsenali nucleari, le due parti investiro­ no immense risorse nelle forze convenzionali, ed entrambe erano profonda­ mente interessate all’equilibrio delle forze di terra e di cielo in Europa, oltre che in altre parti del mondo141. Ci sono inoltre altri elementi che fanno dubitare dell’affermazione che sta­ ti con una capacità di distruzione assicurata siano notevolmente sicuri e non debbano troppo temere l’eventualità di combattere una guerra convenzionale. Nel 1973 Egitto e Siria sapevano che Israele possedeva armi nucleari, ma cio­ nonostante lanciarono massicce offensive di terra contro Israele142. In realtà, l’offensiva siriana sulle alture del Golan, situate alle soglie di Israele, aprì bre­ vemente uno spiraglio all’esercito siriano, dandogli la possibilità di penetrare nel cuore del paese. Scontri scoppiarono anche tra Cina e Unione Sovietica lungo il fiume Ussuri nella primavera del 1969, minacciando di trasformarsi in guerra vera e propria143. Al tempo sia la Cina sia l’URSS avevano arsenali

Il prim ato d e lla potenza terrestre

nucleari. La Cina attaccò le forze americane in Corea nell’autunno del 1950, benché non possedesse armi atomiche, mentre gli Stati Uniti avevano un arse­ nale nucleare, pur se limitato. Le relazioni tra India e Pakistan nell’ultimo decennio gettano ulteriori dubbi suH’afFermazione che le armi nucleari riducono il ruolo della competi­ zione di sicurezza e inducono gli stati a comportarsi come se disponessero di sicurezza in abbondanza. Benché a partire dalla fine degli anni Ottanta, sia India sia Pakistan si sono dotati di armi nucleari, tra loro la competizione per la sicurezza non è sparita. Anzi, i due paesi si sono trovati di fronte a una gra­ ve crisi nel 1990 e si sono combattuti in scontri di frontiera (con oltre mille morti in battaglia) nel 1999144. Infine, si consideri come oggi Russia e Stati Uniti, che mantengono anco­ ra immensi arsenali nucleari, guardino alle forze convenzionali. La decisa opposizione della Russia all’allargamento della NATO mostra quanto essa tema l’idea che le forze convenzionali NATO possano avvicinarsi ai suoi con­ fini. La Russia evidentemente non dà peso all’argomento secondo cui la sua forza di rappresaglia nucleare le fornirebbe la sicurezza assoluta. Anche gli Sta­ ti Uniti sembrano pensare che ci sia da preoccuparsi per l’equilibrio conven­ zionale in Europa. Dopotutto, l’espansione della NATO è stata attuata nella convinzione che la Russia prima o poi possa cercare di conquistare territorio in Europa Centrale. Inoltre gli Stati Uniti continuano a esigere che la Russia rispetti i limiti fissati dal Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Euro­ pa, firmato il 19 novembre 1990, prima della caduta dell’Unione Sovietica. Dunque, l’equilibrio del potere di terra resta l’ingrediente centrale della potenza militare nell’era nucleare, anche se indubbiamente le armi nucleari rendono meno probabile una guerra tra grandi potenze. Adesso che abbiamo provato la tesi a favore del primato della potenza terrestre, è il momento di spiegare come misurarla.

LA MISURA DELLA POTENZA MILITARE La valutazione dell’equilibrio del potere di terra richiede un processo a tre sta­ di. Primo, occorre stimare la dimensione e la qualità relative degli eserciti con­ trapposti. È importante considerare la consistenza delle forze sia in tempo di pace sia dopo una mobilitazione, perché spesso gli stati mantengono un ridot­ to esercito permanente che si espande rapidamente quando le riserve vengono richiamate in servizio attivo.

La logica di potenza

124

Non c’è un modo semplice per misurare la potenza di eserciti rivali, soprattutto perché la loro forza dipende da una varietà di fattori, che tendono tutti a variare da un esercito all’altro: 1) il numero dei militari; 2) la loro qua­ lità; 3) il numero delle armi; 4) la loro qualità; 5) il modo in cui questi milita­ ri e queste armi sono organizzati per la guerra. Un buon indicatore della potenza di terra dovrà tener conto di tutti questi input. Confrontare il nume­ ro delle unità combattenti negli opposti eserciti, siano esse brigate o divisioni, è a volte un modo efficace per misurare gli equilibri di terra, anche se è essen­ ziale tenere conto delle differenze quantitative e qualitative esistenti tra queste unità. Durante la guerra fredda, per esempio, era difficile calcolare l’equilibrio convenzionale tra NATO e Patto di Varsavia, perché esistevano sostanziali dif­ ferenze nelle dimensioni e nella composizione dei vari eserciti sul fronte cen­ trale145. Per risolvere questo problema, il Dipartimento della Difesa USA uti­ lizzò come misura base della capacità delle forze di terra l’unità di calcolo ADE (.Armored Division Equivalerli, ossia «divisione corazzata equivalente»). L’ADE si basava principalmente sulla valutazione della quantità e della qualità di armamenti di ciascun esercito146. Lo scienziato politico Barry Posen in seguito apportò un importante miglioramento alla misura, che divenne un efficace indicatore della forza relativa tra eserciti in Europa147. Anche se in diversi studi si è tentato di misurare l’equilibrio delle forze in particolari casi storici, nessuna delle indagini disponibili ha mai confrontato sistematicamente e approfonditamente i livelli di forza di diversi eserciti su lunghi periodi di tempo. Di conseguenza, non esistono buone banche di dati a cui attingere per misurare il potere militare negli ultimi due secoli. La crea­ zione di un simile database richiederebbe un impegno enorme che andrebbe al di là dei limiti di questo libro. Perciò, quando nei prossimi capitoli valuterò la forza di eserciti avversari, raccoglierò i dati a disposizione su dimensioni e qualità degli eserciti in questione e dovrò accontentarmi di indicatori di potenza militare piuttosto approssimativi. Comincerò contando il numero dei soldati in ciascun esercito, cosa abbastanza agevole, e poi tenterò di tener con­ to degli altri quattro fattori che influiscono sulla potenza di un esercito, cosa più difficile. Il secondo stadio per valutare l’equilibrio del potere di terra consiste nel computare nell’analisi ogni forza aerea appoggi l’esercito148. Dobbiamo fare l’inventario degli apparecchi nelle due parti, concentrandoci sui numeri a disposizione e sulla qualità. Va tenuto conto anche dell’efficienza dei piloti oltre che: 1) dei sistemi di difesa aerea con base a terra; 2) delle capacità di ricognizione; 3) dei sistemi di comando in battaglia.

Il prim ato della potenza terrestre

Terzo, dobbiamo considerare la capacità di proiezione della forza insita negli eserciti, prestando particolare attenzione all’esistenza di vaste estensioni marine che possano limitarne la capacità offensiva. Se acqua c’è, e se dall’altra parte si trova un alleato, bisogna calcolare la capacità delle flotte di proteggere il movimento di truppe e rifornimenti da e verso quell’alleato. Ma se una grande potenza può varcare le acque solo assalendo direttamente il territorio che sta dall’altra parte, e questo è ben difeso da una grande potenza, allora la valutazione della potenza navale è probabilmente inutile, perché simili assalti anfibi sono raramente possibili. Quindi, le forze navali che potrebbero appog­ giare l’esercito sono raramente utili, e quindi solo in rari casi può avere rile­ vanza strategica un giudizio sulle loro capacità. In quelle speciali circostanze in cui le operazioni anfibie contro il territorio di una grande potenza avversaria sono fattibili, però, è essenziale valutare la capacità della flotta in questione, di proteggere le forze in fase di sbarco.

C O N CLU SIO N I Gli eserciti, insieme con le forze aeree e navali di appoggio, sono la forma fon­ damentale del potere militare nel mondo moderno. Le vaste estensioni d’ac­ qua, però, limitano fortemente la loro capacità di proiezione di potenza, e le armi nucleari riducono in misura marcata la probabilità che eserciti di grandi potenze vengano a scontrarsi. Ciononostante, anche in un mondo nucleare, il potere terrestre rimane il re. Questa conclusione presenta due implicazioni per la stabilità tra le grandi potenze. Gli stati più pericolosi nel sistema internazionale sono le potenze continentali dotate di grandi eserciti. Nei fatti, sono questi stati ad aver inizia­ to la maggior parte delle guerre di conquista contro altre grandi potenze nel passato, e quasi sempre hanno attaccato altre potenze continentali, piuttosto che le potenze insulari difese dalle acque che le circondano. Questa generaliz­ zazione trova chiari riscontri nella storia europea degli ultimi due secoli. Durante gli anni di guerra quasi ininterrotta compresi tra il 1792 e il 1815, la Francia fu il principale aggressore, conquistando o cercando di conquistare altre potenze continentali come l’Austria, la Prussia e la Russia. La Prussia attaccò l’Austria nel 1866, e benché nel 1870 fosse la Francia a dichiarare guerra alla Prussia, la decisione fu direttamente provocata da Bismarck, che invase e conquistò la Francia. La Germania iniziò la prima guerra mondiale con il piano Schlieffen, che mirava a gettare la Francia fuori dalla guerra per­ ché i tedeschi potessero poi piegare a est e sconfiggere la Russia. La Germania

125

La logica di potenza

iniziò la seconda guerra mondiale con separate offensive di terra contro la Polonia (1939), la Francia (1940) e l’Unione Sovietica (1941). Nessuno dei precedenti aggressori tentò di invadere il Regno Unito o gli Stati Uniti. Durante la guerra fredda, lo scenario principale che occupò i responsabili del­ la pianificazione militare della NATO fu un’invasione sovietica dell’Europa Occidentale. È invece improbabile che una potenza insulare lanci una guerra di conqui­ sta contro un’altra grande potenza, perché dovrebbe attraversare una vasta estensione d’acqua per portarsi sull’obiettivo. Gli stessi fossati che proteggono le potenze insulari ostacolano anche la loro capacità di proiettare forza. Né gli Stati Uniti né il Regno Unito, per esempio, hanno mai minacciato seriamente di conquistare un’altra grande potenza. I responsabili del governo britannico non contemplarono l’ipotesi di dar inizio a una guerra contro la Germania guglielmina né contro quella nazista, e durante la guerra fredda i politici ame­ ricani non progettarono mai seriamente una guerra di conquista contro l’U ­ nione Sovietica. Sebbene Regno Unito e Francia dichiarassero guerra alla Rus­ sia nel marzo 1854 e poi invadessero la penisola di Crimea, il Regno Unito non aveva alcuna intenzione di conquistare la Russia. Intervenne nella guerra in corso tra Turchia e Russia allo scopo di mettere sotto controllo l’espansione russa nella regione intorno al Mar Nero. L’attacco giapponese agli Stati Uniti a Pearl Harbor nel dicembre 1941 potrebbe apparire un’altra eccezione a questa regola, perché il Giappone è uno stato insulare e colpì per primo una grande potenza. Il Giappone però non invase alcuna regione degli Stati Uniti, e i leader giapponesi di sicuro non pensarono mai di conquistare l’America. Il Giappone mirava unicamente a farsi un impero nel Pacifico occidentale, appropriandosi delle varie isole situa­ te tra sé e le Hawaii. Il Giappone diede inizio anche a guerre contro la Russia nel 1904 e nel 1939, ma in nessuno dei due casi la invase o pensò di conqui­ starla. Quelle aggressioni, invece, miravano essenzialmente al controllo della Corea, della Manciuria e della Mongolia esterna. Infine, dato che gli oceani limitano la capacità degli eserciti di proiettare la forza, e che le armi nucleari riducono le probabilità di scontro tra gli eserciti delle grandi potenze, il mondo più pacifico sarebbe probabilmente quello in cui tutte le grandi potenze fossero stati insulari detentori di arsenali nucleari capaci di sopravvivere a un attacco atomico149. Questo conclude la discussione del potere e della potenza. Capire che cosa è la potenza dovrebbe fornire importanti elementi sul comportamento degli stati, soprattutto sul modo con cui cercano di massimizzare la loro quota di potere mondiale. E questo l’argomento del prossimo capitolo.

Capitolo quinto

STRATEGIE DI SOPRAVVIVENZA

È il momento di considerare come operano le grandi potenze per massimizza­ re la loro quota di potere mondiale. La prima cosa da fare è esporre gli obiet­ tivi specifici che gli stati perseguono nella loro competizione per il potere. La mia analisi di tali obiettivi poggia sulla discussione del potere proposta nei capitoli precedenti. Specificamente, sostengo che le grandi potenze puntano a raggiungere l’egemonia sulla loro regione. A causa della difficoltà di proiettare forza al di là di vaste estensioni marine, è improbabile che uno stato arrivi a dominare l’intero globo. Le grandi potenze vogliono anche essere ricche anzi, molto più ricche delle rivali - perché la potenza militare ha un fonda­ mento economico. Inoltre le grandi potenze aspirano a possedere le forze di terra più potenti della regione, perché gli eserciti e le forze aeronavali che li appoggiano sono l’ingrediente base della potenza militare. Infine, le grandi potenze cercano la superiorità nucleare, anche se questo è un obiettivo parti­ colarmente difficile da conseguire. Il passo successivo consiste nell’analizzare le varie strategie che gli stati usa­ no per modificare l’equilibrio di potenza a proprio vantaggio o per impedire ad altri stati di alterarlo a loro danno. La guerra è la principale strategia che gli stati adottano per acquisire potere relativo. Il ricatto è un’alternativa più attraente per raggiungere determinati risultati, perché si basa sulla minaccia di ricorrere alla forza, e non sul suo uso effettivo. E quindi è relativamente esen­ te da costi. Il ricatto però di norma è difficile da realizzare, perché è probabile che una grande potenza preferisca combattere prima di sottostare alle minacce di un’altra grande potenza. Un’altra strategia per acquistare potere è quella del bait and bleed, «falli scannare tra loro», con cui uno stato cerca di indebolire i suoi rivali provocando una guerra lunga e costosa fra loro. Ma anche questo schema è di difficile attuazione. Una variante più promettente di questa stra­

127

La logica di potenza

tegia è quella del dissanguamento, in cui uno stato opera per far si che la guer­ ra in cui è impegnato un avversario sia protratta e mortifera. Bilanciamento e scaricabarile sono le principali strategie cui ricorrono le grandi potenze per evitare che un aggressore alteri i'equilibrio di forze1. Con il bilanciamento, gli stati minacciati si impegnano seriamente a contenere in prima persona l’avversario pericoloso. In altre parole, sono pronti ad accollarsi l’onere di scoraggiare, e in caso di bisogno di combattere, l’aggressore. Con lo scaricabarile, gli stati cercano di indurre un’altra grande potenza a bloccare l’aggressore mentre essi rimangono in posizione defilata. Gli stati minacciati di norma preferiscono lo scaricabarile al bilanciamento, soprattutto perché nel primo caso evitano il costo di combattere l’aggressore nell’evenienza di una guerra. Le strategie di appeasement e di bandwagoning sono particolarmente ineffi­ caci nei confronti di un aggressore. Entrambe prevedono la concessione di potere a uno stato rivale, cosa che in un sistema anarchico è una ricetta sicura per provocarsi danni. Con il bandwagoning, vale a dire «saltare sul carro del vincitore», lo stato minacciato abbandona la speranza di impedire all’aggresso­ re di guadagnare potere a sue spese e unisce le sue forze a quelle del suo peri­ coloso nemico, per ottenere almeno una piccola parte del bottino di guerra. L'.appeasement è una strategia più ambigua. Chi la pratica mira a modificare il comportamento dell’aggressore, facendogli blandizie e concessioni nella spe­ ranza che il gesto, rendendolo più sicuro, riduca o elimini l’incentivo all’ag­ gressione. Pur essendo queste due strategie inefficaci e pericolose, perché potrebbero far pendere l’equilibrio di potere a sfavore dello stato minacciato che le mette in atto, esporrò alcune circostanze speciali in cui potrebbe essere sensato per uno stato concedere potere a un altro. È luogo comune nella letteratura sulle relazioni internazionali considerare che bilanciamento e saltare sul carro siano le strategie chiave a disposizione di una grande potenza minacciata, e che la grande potenza opti invariabilmente per bilanciare contro un avversario pericoloso2. Non credo ciò sia esatto. Sal­ tare sul carro del vincitore potenziale, come ho detto, non è un’opzione pro­ duttiva in un mondo realista, perché anche se lo stato che vi ricorre può otte­ nere maggiore potere assoluto, l’aggressore ne guadagna di più. La vera scelta in un mondo realista è tra il bilanciamento e lo scaricabarile, e gli stati minac­ ciati preferiscono, ogni volta che sia possibile, la seconda opzione alla prima3. Infine, applico la mia teoria al ben noto argomento realista secondo il quale Ximitazione delle pratiche riuscite di una grande potenza rivale sarebbe importante conseguenza della competizione per la sicurezza. Mentre ricono­ sco la correttezza della sostanza del punto, sostengo che si tende a dare dell’i­

S trate g ie di sopravviven za

mitazione una definizione troppo limitata, includendovi solo l’adozione di comportamenti difensivi e non anche di quelli aggressivi. Inoltre le grandi potenze sono attente anche a'Ninnovazione, che spesso significa trovare modi ingegnosi di guadagnare potere a spese di stati rivali. Questo capitolo prende in esame numerose strategie a cui gli stati ricorrono, ma l’attenzione si con­ centra principalmente su tre di esse: la guerra, ossia la principale strategia per guadagnare incrementi addizionali di potere, mentre il bilanciamento e lo scaricabarile sono le principali strategie per conservare l’equilibrio di potere esistente. Una spiegazione di come gli stati minacciati scelgano se bilanciare o se trasferire la responsabilità ad altri è offerta nel Capitolo 8, mentre il Capi­ tolo 9 fornisce la spiegazione delle circostanze in cui gli stati propendono per la guerra.

GLI O BIETTIVI DEGLI STATI Anche se ho sottolineato che le grandi potenze cercano di massimizzare la propria quota di potere mondiale, devo ancora trattare di ciò che tale com­ portamento reca con sé. Questa sezione esaminerà i diversi obiettivi che gli stati perseguono e le strategie che adottano per assicurarsi un maggior potere relativo. Egemonia regionale Le grandi potenze mirano a raggiungere quattro obiettivi di base. In primo luogo, ricercano l’egemonia regionale. Uno stato desidererebbe di massimizza­ re la propria sicurezza anche se dominasse finterò mondo, ma l’egemonia glo­ bale non è realizzabile, se non nell’improbabile eventualità che di acquisire la superiorità nucleare sui rivali (vedi oltre). Il fattore limitante cruciale, come si è visto nel capitolo precedente, sta nella difficoltà di proiettare poternza al di là di ampie estensioni d’acqua, il che rende impossibile a una grande potenza la conquista e il dominio di regioni da cui è separata da un oceano. Gli ege­ moni regionali possono certamente sferrare poderosi attacchi, ma sarebbe un suicidio lanciare assalti anfibi al di là di oceani contro territori controllati e difesi da un’altra grande potenza. Non sorprende che gli Stati Uniti, unico egemone regionale nella storia moderna, non abbiano mai preso in seria con­ siderazione l’idea di conquistare l’Europa o l’Asia Orientale. Una grande potenza può pensare di conquistare una regione vicina raggiungibile via terra, ma sarebbe ancora ben lontana dal conseguire l’egemonia globale.

129

La logica di potenza

Anche se ogni grande potenza aspira a essere egemone regionale, poche hanno la probabilità di raggiungere questa condizione. Come già detto, gli Stati Uniti sono l’unica grande potenza che abbia dominato la sua regione nel­ la storia moderna. Due sono i motivi per cui gli egemoni regionali tendono a essere una specie rara. Pochi stati hanno i requisiti indispensabili per tentare di conquistare l’egemonia. Per qualificarsi come potenziale egemone, uno stato deve essere considerevolmente più prospero dei suoi rivali locali e deve posse­ dere l’esercito più potente della regione. Negli ultimi due secoli solo un numero esiguo di stati ha soddisfatto questi criteri: la Francia napoleonica, la Germania guglielmina, la Germania nazista, l’Unione Sovietica durante la guerra fredda e gli Stati Uniti. Inoltre, anche se uno stato ha i mezzi per aspi­ rare all’egemonia, le altre grandi potenze del sistema cercheranno di impedir­ gli in ogni modo di diventare egemone regionale. Nessuna delle grandi poten­ ze appena citate, per esempio, è stata in grado di sconfiggere tutti i rivali per conseguire l’egemonia regionale. La massima ricchezza

132

Secondo, le grandi potenze mirano a massimizzare la quantità di ricchezza mondiale che controllano. Gli stati sono interessati alla ricchezza relativa, per­ ché la potenza economica sta alla base della potenza militare. In termini prati­ ci, ciò vuol dire che le grandi potenze danno grande importanza alla prospet­ tiva di avere un’economia potente e dinamica, non solo perché ciò migliora il benessere collettivo, ma anche perché è un modo affidabile per guadagnare vantaggio militare sui rivali. «Autoconservazione nazionale e crescita economi­ ca», afferma Max Weber, «sono due facce della stessa medaglia»5. La situazione ideale per uno stato consiste nel godere di forte crescita economica, mentre le economie dei rivali crescono lentamente o quasi per nulla. Per inciso, le grandi potenze tendono a vedere gli stati particolarmente prosperi, o che si muovono verso quella condizione, come serie minacce, indi­ pendentemente dal fatto che possiedano o meno una formidabile capacità militare. Dopotutto, la ricchezza può essere sempre convertita abbastanza age­ volmente in potenza bellica. Un esempio calzante è quello della Germania guglielmina tra la fine del XIX e l’inizio del XX. Il semplice fatto che la Ger­ mania avesse una grande popolazione e un’economia dinamica bastò a spaven­ tare le altre grandi potenze europee, anche se il comportamento della Germa­ nia ci mise del suo per alimentare quei timori6. Timori analoghi esistono oggi nei confronti della Cina, che ha una popolazione enorme e un’economia che sta compiendo una rapida modernizzazione. Viceversa, le grandi potenze ten­

S trate g ie di so pravviven za

dono a temere in minor grado gli stati in discesa nella classifica mondiale del­ la ricchezza. Gli Stati Uniti, per esempio, temono la Russia meno di quanto temessero l’Unione Sovietica, perché la Russia non controlla la stessa quantità di ricchezza mondiale che controllava l’URSS nei suoi tempi migliori; la Rus­ sia non può dotarsi di un esercito altrettanto potente di quello del suo prede­ cessore sovietico. Se l’economia della Cina dovesse oggi deragliare senza più riprendersi, i timori che essa suscita come potenza asiatica scemerebbero fino a scomparire. Le grandi potenze cercano anche di impedire alle grandi potenze rivali di dominare le aree del mondo che generano ricchezza. Nell’epoca moderna que­ ste aree sono di norma popolate dagli stati industriali più avanzati, ma posso­ no anche essere occupate da stati meno sviluppati in possesso di materie prime di importanza critica. Le grandi potenze talvolta tentano di dominare direttamente queste regioni, e come minimo cercano di assicurarsi che nessuna di esse cada sotto il controllo di una grande potenza rivale. Aree che contengono scarsa ricchezza intrinseca hanno scarso interesse per le grandi potenze7. Durante la guerra fredda, per esempio, gli strateghi americani concentraro­ no l’attenzione su tre regioni al di fuori dell’emisfero occidentale: Europa, Asia Orientale e Golfo Persico8. Gli Stati Uniti erano determinati a far sì che l’Unione Sovietica non dominasse nessuna di quelle aree. Difendere l’Europa Occidentale era la priorità strategica numero uno dell’America in quanto regione ricca minacciata direttamente dall’esercito sovietico. Il controllo sovie­ tico del continente europeo avrebbe spostato bruscamente l’equilibrio di potenza a sfavore degli Stati Uniti. L’Est asiatico era strategicamente impor­ tante in quanto il Giappone, uno degli stati più ricchi al mondo, si trovava ad affrontare la minaccia sovietica, sia pure meno grave di quella subita dall’Eu­ ropa Occidentale. Gli Stati Uniti erano interessati al Golfo Persico soprattutto a causa del petrolio, che alimenta anche le economie dell’Asia e dell’Europa. Di conseguenza, le forze armate americane erano in larga misura concepite per essere pronte a combattere in queste tre aree del mondo. Gli Stati Uniti dedi­ carono minore attenzione all’Africa, al resto del Medio Oriente, al Sudest asia­ tico e al subcontinente asiatico, perché in queste regioni vi era scarso potere potenziale. Preminenza 7telpotere di terra Terzo, le grandi potenze mirano a dominare l’equilibrio del potere di terra perché questo è il modo migliore per massimizzare la propria quota di poten­ za militare. Nella pratica, ciò vuol dire che gli stati organizzano sia potenti eserciti sia forze aeree e navali che li appoggiano. Ma non destinano tutti i

La logica di potenza

fondi per la difesa al potere di terra. Come vedremo più sotto, dedicano con­ siderevoli risorse all’acquisizione di armi nucleari; talvolta anche alla formazio­ ne di forze navali indipendenti e di forze aeree strategiche. Ma poiché il pote­ re di terra è la forma dominante della potenza militare, gli stati aspirano ad avere l’esercito più formidabile nella loro parte di mondo. La superiorità nucleare

134

Quarto, le grandi potenze cercano di assicurarsi la superiorità nucleare sui rivali. In un mondo ideale, lo stato in questione sarebbe l’unico ad avere un arsenale nucleare, il che gli darebbe la capacità di devastare gli avversari senza timore di rappresaglie. Questo enorme vantaggio militare farebbe dello stato nucleare l’egemone globale, nel qual caso la mia trattazione dell’egemonia regionale sarebbe irrilevante. Inoltre l’equilibrio della potenza terrestre sarebbe di minore importanza in un mondo dominato da un egemone nucleare. E però difficile conseguire e mantenere la superiorità nucleare perché gli stati rivali faranno di tutto per sviluppare una loro forza nucleare di rappresaglia. Come ho sottolineato nel Capitolo 4, le grandi potenze con ogni probabilità finiranno per trovarsi a operare in un mondo di potenze nucleari con la capa­ cità garantita di distruggere i propri nemici - un mondo di distruzione reci­ proca assicurata, un mondo MAD. Alcuni studiosi, soprattutto tra i realisti difensivi, sostengono che non avrebbe senso per gli stati perseguire la superiorità nucleare in un mondo M AD9. In particolare, non dovrebbero dotarsi di armi tattiche e di contrattac­ co (counterforce) - quelle cioè capaci di colpire l’arsenale nucleare dell’altra parte — né dotarsi di sistemi difensivi capaci di abbattere le testate nucleari nemiche in arrivo, perché l’essenza di un mondo MAD è che nessuno stato può mai dirsi certo di riuscire a distruggere tutte le armi nucleari dell’avversa­ rio, restando cosi vulnerabile alla devastazione nucleare. Sarebbe più sensato, essi argomentano, che ogni stato fosse effettivamente vulnerabile alle armi nucleari dell’altra parte. Due motivazioni sono alla base dell’affermazione che gli stati nucleari non dovrebbero cercare di conseguire la superiorità nucleare. La MAD è una potente forza di stabilità, quindi non ha senso indebolirla. Inoltre è praticamente impossibile guadagnare un significativo margine milita­ re dotandosi di armi nucleari tattiche e di difesa antimissile. Per quanto sofi­ sticati possano essere questi sistemi, è pressoché impossibile combattere e vin­ cere una guerra nucleare, perché le armi atomiche sono così devastanti che tutte le parti in causa finiranno per essere annientate dal conflitto. Dunque, non ha molto senso pensare in termini di vantaggio militare a livello nucleare.

S trategie di sopravviven za

Diffìcilmente, però, le grandi potenze si accontenteranno di vivere in un mondo MAD e con ogni probabilità cercheranno mezzi per assicurarsi la superiorità sugli avversari nucleari. Se è indubbio che un mondo MAD rende meno probabile la guerra tra grandi potenze, uno stato si sentirà più sicuro se disporrà della superiorità nucleare. Specificamente, una grande potenza che opera in condizioni MAD ha comunque grandi potenze rivali da tenere d’oc­ chio, ed è comunque esposta a un attacco nucleare che, per quanto improba­ bile, è sempre possibile. Una grande potenza che consegue la superiorità nucleare, d’altra parte, è un egemone e in quanto tale non ha grandi rivali da temere. Cosa più importante, non deve più subire la minaccia di un attacco nucleare. Quindi, gli stati hanno un potente incentivo a essere egemoni nucleari. Questo ragionamento non nega che una significativa superiorità nucleare sia meta particolarmente difficile da raggiungere. Nonostante questo, gli stati perseguiranno il vantaggio nucleare a causa dei grandi benefici che esso promette. In particolare, gli stati si doteranno di consistenti armamenti tattici e controffensivi e si impegneranno a sviluppare sistemi difensivi efficaci nella speranza di guadagnare la superiorità nucleare. Riassumendo, ogni grande potenza persegue quattro obiettivi principali: 1) essere l’unico egemone regionale del globo; 2) controllare la maggior percen­ tuale possibile di ricchezza mondiale; 3) dominare l’equilibrio del potere di terra nella propria regione; 4) disporre della superiorità nucleare. Passiamo adesso dagli obiettivi alle strategie, cominciando con le strategie che gli stati adottano per accrescere il proprio potere relativo.

STRATEGIE PER GUADAGNARE POTERE Guerra La guerra è la strategia più controversa che le grandi potenze possano impie­ gare per accrescere la propria quota di potere mondiale. Non solo essa porta morte e distruzione, talvolta su vasta scala, ma nel X X secolo è iniziata anche la moda di sostenere che la conquista non paga e che quindi la guerra è un’im­ presa inutile. L’opera più famosa che esprime il concetto è probabilmente La grande illusione di Norman Angeli, pubblicata pochi anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale10. Questo tema è al centro anche degli scritti di molti studiosi contemporanei di politica internazionale. Nonostante questo, si tratta di una tesi errata: la conquista può ancora migliorare la posizione di potere di uno stato.

La logica di potenza

136

L’idea che la guerra sia un’impresa fallimentare assume essenzialmente quattro forme. Qualcuno suggerisce che l’aggressore perde sempre. Ho rispo­ sto a questa affermazione nel Capitolo 2, dove ho messo in evidenza che gli stati che hanno dato inizio a una guerra hanno finito per vincerla circa il 60 per cento delle volte. Altri sostengono che gli armamenti nucleari rendono praticamente impossibile che le grandi potenze si combattano fra loro, a causa del pericolo di mutuo annientamento. Ho affrontato l’argomento nel Capito­ lo 4, affermando che le armi nucleari rendono solo meno probabile, ma non obsoleta, la guerra tra grandi potenze. Certamente nessuna delle grandi poten­ ze dell’era atomica si è mai comportata come se la guerra con altre grandi potenze fosse cancellata dall’ambito del possibile. Le altre due prospettive sostengono che le guerre si possono vincere, ma che la conquista porta solo a vittorie di Pirro. Le due posizioni si concentrano rispettivamente sui costi e sui benefìci della guerra. Questi due concetti sono in realtà collegati, perché gli stati che progettano un’aggressione, invariabil­ mente soppesano costi e benefìci attesi. La tesi dei costi, che ha richiamato molta attenzione negli anni Ottanta, afferma che la conquista non paga perché porta alla creazione di imperi, e che mantenere un impero comporta costi così alti che la crescita economica in patria rallenta bruscamente. Non solo, ma alti livelli di spesa per la difesa con il tempo indeboliscono l’economia di uno stato, finendo per eroderne la posi­ zione nell’equilibrio di potenza. Ergo, le grandi potenze si procurerebbero più vantaggi creando ricchezza che conquistando territorio straniero11. Secondo la tesi dei benefici, la vittoria militare non paga perché i conqui­ statori non riuscirebbero a sfruttare a proprio vantaggio le economie avanzate odierne, soprattutto quelle costruite intorno alle tecnologie dell’informazio­ ne12. La radice del problema del conquistatore è che il nazionalismo rende dif­ ficile sottomettere e manipolare la popolazione di uno stato sconfitto. Il vinci­ tore può ricorrere alla repressione, ma ci sono molte probabilità che questa gli si ritorca contro, di fronte a una resistenza popolare di massa. Inoltre la repres­ sione non è realizzabile nell’età dell’informazione, perché le economie basate sulla conoscenza devono essere aperte per poter funzionare senza intoppi. Così se il conquistatore reprime, finirà in pratica per uccidere la gallina dalle uova d’oro. Se però per non stringe il torchio, nello stato sconfitto prolifereranno idee sovversive rendendo probabile un’insurrezione13. È indubbio che talvolta le grandi potenze si trovano di fronte a circostanze in cui i costi probabili della conquista sono alti e i benefici attesi ridotti. In questi casi, non ha senso iniziare una guerra. Ma l’affermazione generica che la conquista quasi sempre mandi in rovina l’aggressore, senza quindi arrecargli benefici tangibili, non regge a un esame approfondito.

S trategie di so pravvivenza

Ci sono molti esempi di stati che si sono ingranditi armi alla mano senza per questo danneggiare la propria economia. Gli Stati Uniti nella prima metà del XIX secolo e la Prussia tra il 1862 e il 1870 sono i più calzanti: l’aggres­ sione pagò profumatamente, in termini puramente economici, per entrambi gli stati. Inoltre non sono molti gli studi a sostegno dell’affermazione che alti livelli di spese belliche necessariamente danneggino l’economia di una grande potenza14. Gli Stati Uniti, per esempio, destinano somme enormi alla difesa fin dal 1940, e la loro economia è oggi invidiata da tutto il mondo. Il Regno Unito aveva un immenso impero e la sua economia finì per perdere il vantag­ gio competitivo, ma pochi economisti attribuiscono il suo declino economico ad alti livelli di spesa militare. In realtà, il Regno Unito ha storicamente speso assai meno delle grandi potenze sue rivali15. Probabilmente, il caso che meglio supporta l’affermazione che grossi budget militari rovinino l’economia di uno stato è quello della dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta. Ma gli specialisti non sono concordi sulle cause del crollo dell’econo­ mia sovietica e ci sono buone ragioni per pensare che fu dovuto a profondi problemi strutturali nell’economia più che alle spese militari16. Quanto all’argomento dei benefìci, un conquistatore può sfruttare l’econo­ mia di uno stato vinto anche nell’età dell’informazione. £ possibile estrarre ricchezza da uno stato occupato imponendo tasse, confiscando produzione industriale, o anche confiscando impianti industriali. Peter Liberman dimo­ stra nel suo studio fondamentale sull’argomento che contrariamente al punto di vista di Algell e altri, la modernizzazione non solo rende le società indu­ striali bersagli più ricchi e pertanto più remunerativi, ma rende anche più faci­ le - e non più difficile —la coercizione da parte del conquistatore17. Egli nota per esempio che nonostante il loro «potenziale sovversivo», le tecnologie infor­ matiche hanno anche una dimensione «orwelliana» che facilita in misura con­ siderevole la repressione. «Conquistatori coercitivi e repressivi», afferma, «pos­ sono far pagare a una società moderna sconfitta il tributo di una grossa fetta del suo surplus economico»18. Durante la seconda guerra mondiale, per esempio, la Germania riuscì «gra­ zie ai soli trasferimenti finanziari [...] a mobilitare una media annua del 30 per cento del reddito nazionale francese, il 42-44 per cento del reddito nazio­ nale anteguerra olandese, belga e norvegese, e almeno il 25 per cento del red­ dito nazionale anteguerra ceco»19. Durante la seconda guerra mondiale la Ger­ mania riuscì a estrarre significative risorse economiche anche dall’Unione Sovietica. I sovietici restituirono poi il favore nei primi anni della guerra fred­ da sfruttando a proprio vantaggio l’economia della Germania Orientale20. Nonostante questo, l’occupazione non è esente da costi per il conquistatore, e

La logica di potenza

13 8

ci sono casi in cui i costi insiti nello sfruttamento dell’economia di un altro stato superano i benefici. Tuttavia, talvolta la conquista frutta eccellenti divi­ dendi. È anche possibile per il conquistatore guadagnare potere confiscando risor­ se naturali come petrolio o derrate alimentari. Per esempio, una grande poten­ za che conquistasse l’Arabia Saudita ricaverebbe sicuramente significativi benefici economici dal controllo del petrolio saudita. Fu questo il motivo per cui nei tardi anni Settanta gli Stati Uniti crearono la loro forza di rapido impiego: temevano che l’URSS invadesse l’Iran e si appropriasse della ricca area petrolifera del Khuzestan, con il conseguente aumento della potenza sovietica21. Inoltre, una volta occupato l’Iran, i sovietici sarebbero stati nella posizione migliore per minacciare l’Arabia Saudita e gli altri stati ricchi di petrolio. Durante le due guerre mondiali, la Germania mirò a guadagnare l’ac­ cesso al grano e ad altri beni agricoli prodotti nell’Unione Sovietica, per nutri­ re facilmente e a buon mercato la propria popolazione22. I tedeschi puntarono anche al petrolio e ad altre risorse sovietiche. Ma anche respingendo l’idea che la conquista paghi dividendi economici, ci sono altri tre modi in cui un aggressore vittorioso può spostare l’equilibrio di potenza a suo favore. L’occupante può impiegare parte della popolazione dello stato vinto nel suo esercito o come forza lavoro coatta nel suo paese. La macchina militare napoleonica, per esempio, faceva uso di manodopera rac­ colta negli stati sconfitti23. In effetti, quando nell’estate del 1812 la Francia attaccò la Russia, solo metà circa della forza d’invasione — che disponeva in totale di 674.000 uomini - era di nazionalità francese24. Anche la Germania nazista impiegò nel proprio esercito soldati di stati conquistati. Per esempio, «delle trentotto divisioni SS esistenti nel 1945, nessuna era composta interamente di tedeschi, e diciannove erano formate in larga misura da reclute stra­ niere»25. Inoltre il Terzo Reich ricorse massicciamente al lavoro forzato. Sem­ bra che arrivassero fino a 7,6 milioni i lavoratori civili e i prigionieri di guerra stranieri al lavoro in Germania nell’agosto 1944, un quarto cioè del totale del­ la forza lavoro tedesca26. Inoltre, talvolta la conquista paga perché il vincitore riesce a guadagnare territorio strategicamente importante. In particolare, gli stati possono procu­ rarsi una zona cuscinetto che li aiuta a difendersi dagli attacchi di un altro sta­ to, o che può essere usata per lanciare un attacco contro uno stato rivale. Per esempio, la Francia studiò seriamente la possibilità di annettersi la Renania prima e dopo che la Germania venisse sconfitta nella prima guerra mondia­ le27. La posizione strategica di Israele si trovò certamente rafforzata nel giugno 1967 con l’occupazione della penisola del Sinai, delle alture del Golan e della

S trategie di so p ravviven za

Cisgiordania a seguito della guerra dei sei giorni. l’Unione Sovietica entrò in guerra con la Finlandia neU’inverno 1939-1940 per conquistare territorio, il che avrebbe aiutato l’Armata Rossa a contrastare un’invasione nazista28. La Wehrmacht, da parte sua, conquistò parte della Polonia nel settembre 1939 e la usò come trampolino di lancio per l’invasione, nel giugno 1941, dell’Unio­ ne Sovietica. Infine, la guerra può spostare l’equilibrio di potere a favore del vincitore eliminando lo stato vinto dal novero delle grandi potenze. Gli stati conquistatori possono realizzare questo obiettivo in vari modi. Possono distruggere uno stato rivale, uccidendo la maggior parte della sua popolazione ed eliminando­ lo così del tutto dal sistema internazionale. Raramente gli stati ricorrono a questa drastica opzione, ma prove di tal genere di comportamento esistono. I romani, per esempio, annientarono Cartagine, e c’è motivo di pensare che Hitler avesse intenzione di cancellare per sempre la Polonia e l’Unione Sovie­ tica dall’Europa29. La Spagna annientò gli imperi azteco e inca in Centro e Sudamerica, e durante la guerra fredda entrambe le superpotenze temettero che l’altra volesse lanciare con i propri missili nucleari un «primo attacco tra­ volgente» che avrebbe cancellato l’avversario. Gli israeliani sembrano temere che gli stati arabi, se arrivassero a infliggere una sconfitta decisiva a Israele, imporrebbero una pace cartaginese30. Oppure, i conquistatori potrebbero annettere lo stato sconfitto. Austria, Prussia e Russia, per esempio, si sono spartite la Polonia quattro volte negli ultimi tre secoli31. Il vincitore potrebbe anche studiare l’ipotesi di disarmare e neutralizzare lo stato sconfitto. Gli alleati adottarono questa strategia contro la Germania dopo la prima guerra mondiale, e nei primi anni della guerra fred­ da Stalin considerò l’idea di creare una Germania unificata ma militarmente debole32. Il celebre Piano Morgenthau proponeva che la Germania post-hitle­ riana fosse deindustrializzata e smembrata in due stati largamente agricoli, così che non potesse più dotarsi di potenti forze armate33. Infine, gli stati vin­ citori potrebbero dividere la grande potenza sconfìtta in due o più stati, come fece la Germania con l’Unione Sovietica nella primavera del 1918 con il Trat­ tato di Brest-Litovsk, e come fecero il Regno Unito, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica con la Germania dopo la seconda guerra mondiale. Ricatto Uno stato può guadagnare potere a spese di un rivale senza entrare in guerra, se minaccia di usare la forza militare contro il suo avversario. La coercizione operata con le minacce e l’intimidazione, non l’uso diretto della forza, produ­

139

La logica di potenza

140

ce l’effetto desiderato34. Se funziona, il ricatto è chiaramente preferibile alla guerra, in quanto raggiunge i suoi obiettivi senza costi di sangue. Il ricatto però difficilmente produrrà sensibili alterazioni nell’equilibrio di potere, soprattutto perché le minacce da sole di solito non bastano a indurre una grande potenza a fare concessioni significative a una grande potenza rivale. Le grandi potenze, per definizione, hanno una formidabile forza militare ed è quindi improbabile che cedano alle minacce senza combattere. Il ricatto può essere più efficace contro potenze minori che non abbiano per alleato una grande potenza. Ciononostante, si danno casi di ricatto riuscito anche contro una grande potenza. Per esempio, nel decennio che precedette la prima guerra mondiale, la Germania tentò in quattro occasioni di intimidire i suoi rivali europei, riu­ scendoci una sola volta35. Iniziò un’offensiva diplomatica sul Marocco, con la Francia e il Regno Unito, nel 1905 e di nuovo nel 1911. Benché fosse sicura­ mente più potente sia della Francia sia del Regno Unito, e probabilmente anche di entrambi gli stati combinati insieme, la Germania subì in entrambi i casi una sconfitta diplomatica. Negli altri due casi, tentò di indurre la Russia a fare concessioni nei Balcani. Nel 1909 l’Austria annetté la Bosnia senza alcuna sollecitazione da parte tedesca. Quando la Russia protestò, la Germania usò la minaccia della guerra per costringerla ad accettare il fatto compiuto. Il ricatto in questo caso funzionò perché l’esercito russo non si era riavuto dalla schiac­ ciante sconfìtta subita nella guerra russo-giapponese (1904-1905) e non era quindi nella condizione di affrontare in guerra il potente esercito tedesco. La Germania tentò ancora d’intimidire i russi nell’estate del 1914, ma a quel punto l’esercito russo si era ripreso dalla sconfitta di dieci anni prima. I russi puntarono i piedi e il risultato fu la prima guerra mondiale. Di altri tre ben noti casi di ricatto solo uno ebbe un effetto significativo sull’equilibrio di potenza. Il primo fu una disputa nel 1898 tra il Regno Uni­ to e la Francia per il controllo di Fascioda, un forte strategicamente importan­ te posto alle sorgenti del Nilo36. Il Regno Unito ammonì la Francia a non ten­ tare di conquistare nessun tratto del Nilo, perché ciò avrebbe minacciato il controllo britannico dell’Egitto e quindi del canale di Suez. Quando il Regno Unito seppe che la Francia aveva inviato una forza di spedizione a Fascioda, le intimò di ritirarla se non voleva la guerra. La Francia fece marcia indietro, perché sapeva che il Regno Unito avrebbero vinto la guerra se fosse scoppiata e perché i francesi non volevano accendere un conflitto con il Regno Unito quando erano già preoccupati dal delinearsi della minaccia tedesca sulla fron­ tiera orientale. Il secondo caso riguarda la famosa crisi di Monaco del 1938, quando Hitler minacciò la guerra per costringere il Regno Unito e la Francia a

S trate g ie di sopravviven za

permettere alla Germania di appropriarsi dei Sudeti, che al tempo facevano parte della Cecoslovacchia. Il terzo caso risale all’autunno del 1962, quando gli Stati Uniti obbligarono l’Unione Sovietica a rimuovere i missili balistici da Cuba. Di questi casi, solo Monaco ebbe un effetto avvertibile suU’equilibrio di potenza. Bait and bleed Quella del «falli scannare fra loro» è un terzo tipo di strategia che uno stato può adottare per accrescere il proprio potere relativo. La strategia consiste nell’indurre due rivali a impegnarsi in una guerra prolungata, così che si dissan­ guino tra di loro, mentre chi ha suscitato il conflitto resta ai bordi del campo mantenendo intatta la propria forza militare. Per esempio, durante la guerra fredda gli americani temettero che una terza parte potesse surrettiziamente provocare uno scontro nucleare tra le due superpotenze37. Inoltre una delle superpotenze potrebbero aver pensato d’indurre la rivale a dar inizio a una guerra perdente nel Terzo Mondo. Per esempio, gli Stati Uniti avrebbero potuto spingere l’Unione Sovietica a farsi invischiare in conflitti come quello dell’Afghanistan. Ma non era questa la politica americana. In realtà, sono pochi nella storia moderna gli esempi di stati che perseguono la strategia del bait and bleed. Il miglior caso che posso trovare di questa strategia è il tentativo russo, all’indomani della rivoluzione francese (1789), di indurre l’Austria e la Prussia a iniziare una guerra con la Francia, lasciando così libera la Russia di espande­ re il proprio potere in Europa Centrale. Nel novembre del 1791 la sovrana rus­ sa, Caterina la Grande, disse al suo segretario: «Mi sto scervellando per trovare il modo di spingere le corti di Vienna e Berlino a intervenire negli affari fran­ cesi [...] Ci sono motivi di cui non posso parlare; voglio coinvolgerle in quel­ le faccende per avere le mani libere. Ho molte questioni in sospeso, ed è neces­ sario che si tengano occupate e fuori dalla mia strada»38. Anche se nel 1792 l’Austria e la Prussia entrarono effettivamente in guerra con la Francia, le solle­ citazioni russe ebbero scarso peso sulla loro decisione. Avevano già le loro buo­ ne e impellenti ragioni per accendere un conflitto con la Francia. Un altro caso che richiama la strategia dell’«aizzali per farli scannare tra loro» riguarda Israele39. Nel 1954 Pinhas Lavon, ministro della Difesa israelia­ no, spedì un gruppo di terroristi a far saltare importanti obiettivi americani e britannici nelle città egiziane di AJessandria e del Cairo. Lo scopo era alimen­ tare tensione tra il Regno Unito e l’Egitto, nella speranza che questa avrebbe persuaso il Regno Unito ad abbandonare il proposito di ritirare le truppe dal-

141

La logica di potenza

le basi intorno al canale di Suez. Il commando fu intercettato e l’operazione si concluse in un fiasco. Il problema fondamentale di questa strategia, come dimostra l’affare Lavon, sta nella difficoltà di attirare stati rivali in una guerra che altrimenti non combatterebbero. Sono ben rare le occasioni di provocare contrasti tra stati senza esporsi, o almeno senza suscitare sospetti negli stati coinvolti. Inol­ tre gli stati che vengono aizzati molto probabilmente riconoscono il pericolo di impegnarsi in una guerra prolungata, mentre l’aizzatore se ne sta tranquillo in disparte guadagnando potere relativo a costo zero. Gli stati, con ogni pro­ babilità, eviteranno di cadere in una simile trappola. Infine, c’è sempre il peri­ colo, per chi adotta questa strategia, che uno degli stati consegua una vittoria rapida e decisiva e finisca per guadagnare potere anziché perderlo. Dissanguamento

142

Il dissanguamento è la variante più promettente della precedente strategia. L’obiettivo e far sì che una qualsiasi guerra tra i propri rivali degeneri in un conflitto lungo e costoso che ne fiacchi le energie. In questa versione non c’è alcuna esca; i rivali sono entrati in guerra autonomamente, e lo scopo princi­ pale del dissanguatore è far sì che essi si sfiniscano tra loro mentre lui si tiene fuori dai combattimenti. Da senatore, Harry Truman aveva in mente questa strategia quando, reagendo all’invasione nazista dell’Unione Sovietica nel giu­ gno 1941, dichiarò: «Se vediamo che la Germania sta vincendo dobbiamo aiutare la Russia, e se sta vincendo la Russia dobbiamo aiutare la Germania: che si ammazzino tra di loro il più possibile»40. Anche Lenin aveva in mente questa strategia quando fece uscire l’Unione Sovietica dalla prima guerra mondiale mentre la scontro tra Germania e Allea­ ti (Regno Unito, Francia e Stati Uniti) continuava sul fronte occidentale. «Concludendo ora una pace separata», dichiarò il 20 gennaio 1918, «ci libe­ riamo di entrambi i gruppi imperialisti che si combattono tra loro. Possiamo trarre vantaggio dalla lotta, che rende difficile per loro trovare un accordo a nostre spese, e usare questo periodo, ora che abbiamo le mani libere, per svi­ luppare e rafforzare la rivoluzione socialista». Come sottolinea John WheelerBennett: «Pochi documenti illustrano altrettanto succintamente [...] la com­ prensione che Lenin aveva del ruolo della realpolitik nella gestione dello sta­ to»41. Gli Stati Uniti impiegarono anch’essi questa strategia contro l’URSS in Afghanistan negli anni Ottanta42.

S trategie di sopravviven za

STRATEGIE CO N TRO GLI AGGRESSORI Una grande potenza non cerca solo di accrescere il suo potere rispetto alle grandi potenze rivali, ma vuole anche impedire loro di guadagnare potere a sue spese. Tenere sotto controllo i potenziali aggressori a volte è abbastanza semplice. Poiché le grandi potenze massimizzano la quota di potere mondiale, investono pesantemente nella difesa e di norma si dotano di temibili forze di combattimento. Questa imponente capacità militare di solito basta a scorag­ giare gli stati rivali dal mettere in discussione l’equilibrio di potenza. Ma occa­ sionalmente entrano in scena grandi potenze altamente aggressive, più diffici­ li da contenere. Stati particolarmente potenti, come lo sono gli egemoni potenziali, rientrano sempre in questa categoria. Per affrontare questi aggres­ sori, le grandi potenze minacciate possono scegliere tra due strategie: bilancia­ mento e scaricabarile. Invariabilmente, preferiscono la seconda, ma a volte non hanno altra alternativa che bilanciare contro la minaccia incombente. Bilanciamento Con l’azione di bilanciamento una grande potenza si assume direttamente la responsabilità di impedire a un aggressore di alterare l’equilibrio di potere esi­ stente43. L’obiettivo iniziale è scoraggiare l’aggressore, ma se ciò fallisce, lo sta­ to che bilancia sarà pronto a entrare nella guerra che ne risulterà. Gli stati minacciati possono adottare tre misure per far scattare il bilanciamento. Pri­ mo, tramite i canali diplomatici (e mediante le azioni descritte di seguito), possono mandare chiari segnali all’aggressore sul fatto che sono fermamente determinati a mantenere l’equilibrio di potere esistente, anche se questo dovesse significare una guerra. L’enfasi nel messaggio del bilanciatore cade sul confronto, non sulla conciliazione. In pratica, si traccia una linea per terra e si ammonisce l’aggressore di non attraversarla. Gli Stati Uniti hanno adottato questa politica con l’Unione Sovietica per tutta la guerra fredda; la Francia e la Russia hanno fatto lo stesso con la Germania precedentemente la prima guer­ ra mondiale44. Secondo, gli stati minacciati possono agire per creare un’alleanza difensiva che li aiuti a contenere l’avversario pericoloso. Questa manovra diplomatica, detta anche «bilanciamento esterno», è limitata in un mondo bipolare, perché non vi sono grandi potenze che possono fare da partner in un’alleanza, anche se è sempre possibile allearsi con potenze minori45. Durante la guerra fredda, per esempio, sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica non avevano altra scelta che allearsi con potenze minori, essendo loro le uniche grandi potenze del sistema. Gli stati minacciati danno molta importanza alla possibilità di trova-

143

La logica di potenza

re partner, perché in un’alleanza i costi di contenere l’aggressore vengono ripartiti - considerazione particolarmente importante se scoppia una guerra. Inoltre il reclutamento di alleati accresce la potenza di fuoco che si contrappo­ ne all’aggressore, il che a sua volta aumenta la probabilità che la deterrenza abbia efficacia. Nonostante questi vantaggi, il bilanciamento esterno ha il suo lato negati­ vo: spesso è lento e inefficiente. La difficoltà di far funzionare senza intoppi un’alleanza è sintetizzata nel commento di quel generale francese che, alla fine della prima guerra mondiale, disse: «Dato che ho visto come funzionano le alleanze, ho perso un po’ dell’ammirazione che avevo per Napoleone [che qua­ si sempre combatte senza alleati contro alleanze]»46. Formare rapidamente una coalizione di bilanciamento e farla funzionare è spesso difficile, perché coordi­ nare gli sforzi di futuri alleati, anche quando c’è ampio accordo su ciò che bisogna fare, richiede tempo. Gli stati minacciati di solito litigano su come vanno divisi gli oneri tra i membri dell’alleanza. Dopotutto, gli stati sono attori egoisti, dotati di potenti incentivi a minimizzare i costi che pagano per contenere un aggressore. A complicare questo problema c’è il fatto che i mem­ bri di un’alleanza hanno la tendenza a scaricarsi a vicenda le responsabilità, come vedremo più avanti. Infine, c’è la probabilità di attriti tra i membri del­ la coalizione sullo stato che dovrà guidare l’alleanza, soprattutto per quanto riguarda la formulazione della strategia. Terzo, gli stati minacciati possono bilanciare contro un aggressore mobili­ tando proprie risorse aggiuntive. Per esempio, ricorrendo a un aumento della spesa per la difesa, oppure alla coscrizione obbligatoria. Questa azione, defini­ ta comunemente «bilanciamento interno», corrisponde nel senso più pieno alla pratica del contare sulle proprie forze. Ma, di solito, vi sono limiti signifi­ cativi alla quantità di risorse aggiuntive che uno stato minacciato può mobili­ tare contro l’aggressore, perché le grandi potenze normalmente già destinano una larga percentuale delle loro risorse alla difesa. Poiché cercano di massimiz­ zare la quota di potere mondiale, gli stati in pratica sono costantemente impe­ gnati in un’opera di bilanciamento interno. Ciononostante, quando si trovano di fronte un avversario particolarmente aggressivo, le grandi potenze taglieran­ no le inefficienze del sistema e cercheranno modi ingegnosi per aumentare di colpo la spesa militare. Esiste però una circostanza eccezionale in cui una grande potenza aumen­ terà la spesa per la difesa allo scopo di scoraggiare un aggressore. Bilanciatori d’oltremare come il Regno Unito e gli Stati Uniti tendono ad avere forze armate relativamente ridotte, quando non ne hanno bisogno per contenere un potenziale egemone in un’area strategicamente importante. Di norma, posso-

S trategie di sopravviven za

no permettersi un esercito ridotto perché i loro rivali tendono a concentrare la loro attenzione sugli omologhi continentali, e perché il potere frenante del­ l’acqua garantisce loro notevole sicurezza. Quindi, quando un bilanciatore esterno ha bisogno di contrastare un potenziale egemone, tenderà ad ampliare nettamente le dimensioni e la potenza delle sue unità combattenti, come fece­ ro gli Stati Uniti nel 1917, quando entrarono nella prima guerra mondiale, e nel 1940, un anno prima di entrare nella seconda guerra mondiale. Scaricabarile Lo scaricabarile è la principale alternativa al bilanciamento di cui dispone una grande potenza minacciata47. Chi vi ricorre tenta, rimanendo in disparte, di indurre un altro stato ad accollarsi il carico di scoraggiare ed eventualmente combattere un aggressore. Lo «scaricante» riconosce pienamente la necessità di impedire all’aggressore di aumentare la propria quota di potere mondiale, ma cerca un altro stato minacciato da quell’aggressore perché se ne assuma l’one­ roso compito. Gli stati minacciati possono prendere quattro iniziative per facilitare lo sca­ ricabarile. Primo, possono cercare buone relazioni diplomatiche con l’aggres­ sore, o almeno non far nulla per provocarlo, nella speranza che limiti le sue attenzioni a quella destinata a «caricarsi il barile». Alla fine degli anni Trenta, per esempio, Francia e Unione Sovietica tentarono di scaricarsi a vicenda l’o­ nere di far fronte alla minaccia mortale della Germania nazista. Ciascuno dei due cercò di mantenere buone relazioni con Hitler, nella speranza che pren­ desse di mira l’altro. Secondo, lo scaricante di solito mantiene relazioni fredde con lo stato destinato a raccogliere il peso, non solo perché il distacco diplomatico lo aiuta a coltivare buone relazioni con l’aggressore, ma anche perché non vuole tro­ varsi trascinato in una guerra al fianco del «caricato»48. Scopo del primo, dopotutto, è evitare lo scontro armato con l’aggressore. Non sorprende, quin­ di, l’atmosfera di ostilità malcelata nelle relazioni tra Francia e Unione Sovieti­ ca negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale. Terzo, una grande potenza può mobilitare proprie risorse addizionali per far funzionare lo scaricabarile. Si potrebbe pensare che essa possa permettersi di assumere un approccio sostanzialmente rilassato alla spesa militare, dato che l’obiettivo della strategia è portare qualcun altro a contenere l’aggressore. Ma, a parte il caso eccezionale del bilanciamento esterno di cui si è parlato, questa conclusione è sbagliata. Anche non considerando che gli stati massi­ mizzano comunque il potere relativo, chi effettua lo scaricabarile ha altre due

145

La logica di potenza

146

buone ragioni per cercare di aumentare la spesa per la difesa. Costruendosi delle proprie difese, tale stato si rende un bersaglio impegnativo, dando così all’aggressore incentivo a volgere la sua attenzione verso un altro stato, quello su cui si scarica il peso. La logica è elementare: più potente è lo stato minac­ ciato, minori saranno le probabilità che un aggressore lo attacchi. Natural­ mente, il destinatario dell’azione di scaricabarile dovrà disporre dei mezzi necessari a contenere l’aggressore senza per definizione poter contare sull’aiu­ to dello scaricante. Gli scaricanti si dotano di temibili forze militari anche per motivi di profi­ lassi. In un mondo in cui due o più stati tentano di ricorrere allo scaricabarile, nessuno stato può avere la sicurezza che l’onere non finirà per toccare a lui, mettendolo così nella condizione di dover affrontare da soli l’aggressore. È meglio essere preparati all’eventualità. Negli anni Trenta, per esempio, né la Francia né l’Unione Sovietica potevano dirsi sicure che non sarebbero restate con la patata bollente in mano, rimanendo sole a opporsi alla Germania nazi­ sta. Ma anche se a uno stato riesce la mossa dello scaricabarile, c’è sempre la possibilità che l’aggressore consegua una vittoria rapida e decisiva e subito dopo attacchi colui che ha messo in atto la strategia. Così, a uno stato convie­ ne migliorare le proprie difese come polizza di assicurazione in caso di falli­ mento dello scaricabarile. Quarto, a volte è sensato che chi attua la strategia permetta o addirittura faciliti la crescita di potere del destinatario dell’onere di reazione. Quest’ulti­ mo, così, avrà migliori probabilità di contenere lo stato aggressore, con conse­ guente miglioramento delle prospettive dello scaricante di rimanere dietro le quinte. Tra il 1864 e il 1870, per esempio, il Regno Unito e la Russia si ten­ nero da parte e consentirono alla Prussia di Bismarck di conquistare territorio nel cuore dell’Europa e di creare un Reich tedesco unificato notevolmente più potente del suo predecessore prussiano. Il Regno Unito calcolava che una Ger­ mania unita avrebbe non solo scoraggiato l’espansione russa e francese nel cuore dell’Europa, ma avrebbe anche distolto la loro attenzione dall’Africa e dall’Asia, dove minacciavano l’impero britannico. I russi, da parte loro, auspi­ cavano una Germania unita che tenesse a bada Austria e Francia e aiutasse a soffocare le aspirazioni nazionali polacche. L ’attrattiva dello scaricabarile Lo scaricabarile e la formazione di una coalizione che operi da contrappeso rappresentano evidentemente due opposte modalità di comportamento nei confronti di un aggressore. Esiste però una forte tendenza allo scaricabarile

S trate g ie di sopravviven za

anche all’interno delle coalizioni di bilanciamento, pur se il pericolo che que­ sto mandi in pezzi l’alleanza agisce da freno dissuasivo. Nei primi anni della prima guerra mondiale, per esempio, le autorità britanniche cercarono di ridurre al minimo gli oneri di combattimento delle loro truppe sul fronte occidentale e di far sì che i partner dell’alleanza, Francia e Russia, si accollasse­ ro il gravoso compito di sfiancare l’esercito tedesco49. Il Regno Unito sperava così di poter usare le sue truppe ancora fresche per vincere le battaglie finali contro la Germania e dettare le condizioni di pace. Il Regno Unito avrebbe così «vinto la pace», perché sarebbe uscito dalla guerra in posizione di sostan­ ziale vantaggio rispetto sia ai tedeschi sconfitti sia ai francesi e ai russi, provati dal conflitto. Gli alleati del Regno Unito, però, non tardarono a mangiare la foglia, costringendo l’esercito inglese a fare tutta la sua parte nel tremendo compito di dissanguare l’esercito tedesco. Come sempre, gli stati tengono alla potenza relativa50. Il tentativo britannico di fare da battitore libero rispetto agli alleati, insie­ me con la storia che riportiamo nei Capitoli 7 e 8 , sono la prova del potente impulso a ricorrere allo scaricabarile tra paesi minacciati. Le grandi potenze, in effetti, mostrano chiaramente di preferire lo scaricabarile al bilanciamento. Il motivo di questa preferenza è che la prima opzione di solito offre una dife­ sa «a buon mercato». Dopotutto, lo stato che si carica il peso paga i notevoli costi di combattere l’aggressore nel caso che la deterrenza fallisca e scoppi la guerra. Naturalmente, chi impiega questa strategia a volte destina somme con­ siderevoli alle spese militari, per facilitare lo scaricabarile e proteggersi dall’eve­ nienza che l’operazione non vada a buon fine. Lo scaricabarile ha anche una dimensione offensiva, che può renderlo ancora più allettante. Specificamente, se l’aggressore e lo stato su cui viene sca­ ricato il peso restano coinvolti in una guerra lunga e costosa, l’equilibrio di potenza molto probabilmente si sposterà a favore dello scaricante, il quale si troverà in condizione di dominare il mondo postbellico. Gli Stati Uniti, per esempio, entrarono nella seconda guerra mondiale nel dicembre del 1941, ma il loro esercito sbarcò in Francia solo nel giugno del 1944, meno di un anno prima che la guerra finisse. Così, il peso di logorare la formidabile Wehrmacht cadde in larga misura sulle spalle dell’Unione Sovietica, che pagò un prezzo micidiale per arrivare a Berlino51. Anche se gli Stati Uniti avrebbero preferito invadere la Francia prima del 1944, e furono così «scaricatori» involontari, è indiscutibile che si avvantaggiarono fortemente del fatto di aver rimandato lo sbarco in Normandia a una data in cui sia l’esercito tedesco sia quello sovieti­ co avevano accusato colpi gravissimi52. Non c’è da meravigliarsi che Stalin cre­ desse che Regno Unito e Stati Uniti stessero di proposito lasciando che Ger-

147

La logica di potenza

148

mania e Unione Sovietica si dissanguassero a vicenda in modo che da bilan­ ciatori esterni potessero dominare l’Europa del dopoguerra53. Scaricare su un altro il peso è un’opzione attraente anche quando uno sta­ to si trova di fronte a più rivali pericolosi, ma non ha la forza militare per affrontarli tutti contemporaneamente. Lo scaricabarile potrebbe aiutare a ridurre il numero delle minacce. Per esempio, il Regno Unito dovette far fron­ te a tre avversari minacciosi negli anni Trenta - Germania, Italia e Giappone ma non disponeva dei mezzi militari per tenerli tutti e tre sotto controllo. Tentò di alleviare il problema passando alla Francia l’incombenza di affrontare la Germania, per potersi così concentrare su Italia e Giappone. Lo scaricabarile non è però una strategia a prova di errore. La principale controindicazione è che il destinatario dell’onere potrebbe non riuscire a con­ trollare l’aggressore, lasciando lo scaricante in una posizione strategicamente precaria. Per esempio, la Francia non era in grado di contrastare da sola la Germania nazista, e quindi nel marzo 1939 il Regno Unito dovette formare con lei una coalizione di contrappeso contro Hitler. A quel punto, però, Hitler controllava tutta la Cecoslovacchia ed era troppo tardi per contenere il Terzo Reich; la guerra scoppiò cinque mesi dopo, nel settembre 1939. Duran­ te questo stesso periodo l’Unione Sovietica scaricò con successo il peso sulla Francia e il Regno Unito e poi si fece da parte, aspettando che la Germania si impegnasse con i due stati in una guerra lunga e sanguinosa. Ma la Web rmacht travolse la Francia in sei settimane nella primavera del 1940, lasciando Hitler libero di attaccare l’URSS senza avere troppo di cui preoccuparsi sul proprio fianco occidentale. Usando lo scaricabarile, anziché impegnare la Ger­ mania contemporaneamente alla Francia e al Regno Unito, i sovietici finirono per combattere una guerra molto più dura. Inoltre nei casi in cui lo scaricante permette allo stato a cui trasferisce il peso di aumentare la propria potenza militare c’è il rischio che quest’ultimo finisca per diventare così potente da minacciare di alterare l’equilibrio di pote­ re esistente, come accadde con la Germania dopo la sua unificazione nel 1870. Bismarck, di fatto, si adoperò per mantenere qull’equilibrio nei vent’an­ ni successivi all’unità tedesca. In effetti, una Germania unita servì a tenere sot­ to controllo la Russia e la Francia sul continente europeo, come auspicava il Regno Unito. Ma la situazione cambiò radicalmente dopo il 1890, con la Germania che diventava sempre più potente, finendo per cercare di dominare l’Europa con la forza. Lo scaricabarile in questo caso fu, nel migliore dei casi, un successo a doppio taglio sia per il Regno Unito sia per la Russia: efficace nel breve ma disastroso nel lungo periodo.

S trate g ie di sopravviven za

Anche se questi potenziali problemi meritano sicuramente attenzione, in ultima analisi non diminuiscono di molto l’attrattiva dello scaricabarile. Le grandi potenze non attuano la strategia pensando che possa sfociare in un fal­ limento. Al contrario, si aspettano che abbia successo. Altrimenti, scartereb­ bero lo scaricabarile e formerebbero una coalizione di bilanciamento con gli altri stati del sistema minacciati. Ma è difficile predire il futuro nella politica internazionale. Chi avrebbe previsto nel 1870 che la Germania sarebbe diven­ tata lo stato più potente d’Europa entro l’inizio del X X secolo, scatenando due guerre mondiali? Né si può dire che il bilanciamento sia un’alternativa allo scaricabarile esente da rischi. Anzi, il bilanciamento è spesso inefficace, e gli stati che si coalizzano per fare da contrappeso talvolta subiscono sconfitte catastrofiche, com’è accaduto al Regno Unito e alla Francia nella primavera del 1940. Dovrebbe essere evidente che lo scaricabarile a volte produce gli stessi risultati della strategia del bait and bleed. Specificamente, quando la prima strategia porta alla guerra, lo scaricante, come chi cerca di godere fra i due liti­ ganti, migliora la propria posizione di potere relativo, restando in disparte mentre i suoi rivali maggiori si dissanguano. Inoltre, entrambe le strategie pos­ sono fallire allo stesso modo, se uno dei combattenti consegue una vittoria rapida e decisiva. Ciononostante, c’è un’importante differenza tra le due stra­ tegie: lo scaricabarile è in primo luogo una tattica di deterrenza, con lo scon­ tro armato come opzione di ripiego, mentre il bait and bleed punta specifica­ mente a provocare una guerra.

STRATEGIE DA EVITARE 149

Qualcuno afferma che bilanciamento e scaricabarile non sono le uniche strate­ gie che uno stato minacciato può adottare contro un avversario pericoloso. Alternative possibili, si sostiene, sono Xappeasement e il bandwagoning. Ma questo è sbagliato. Entrambe le strategie prevedono la concessione di potere a un aggressore, cosa che viola la logica dell’equilibrio di potenza e aumenta il pericolo per lo stato che le adotta. Una grande potenza che ha a cuore la pro­ pria sopravvivenza non dovrebbe ricorrere né all’una né all’altra. Il bandwagoning si ha quando uno stato unisce le sue forze a quelle di un avversario più potente, concedendo che il suo formidabile nuovo partner gua­ dagni una quota sproporzionata del bottino che conquisteranno insieme54. La distribuzione del potere, in altre parole, si sbilancerà ulteriormente a sfavore di chi è saltato sul carro e a favore dello stato che il carro conduce. Saltare sul

La logica di potenza

150

carro dei vincitori è una strategia da deboli. Il suo sottinteso è che se uno sta­ to è molto inferiore a un suo rivale non ha senso opporsi alle sue pretese per­ ché l’avversario si prenderà comunque quello che vuole con la forza e inflig­ gerà nel farlo pesanti sofferenze. Chi salta sul carro altrui deve solo sperare nella benevolenza dell’altro. Il famoso detto di Tucidide per cui «chi è forte fa quel che può e chi è debole quel che deve» coglie l’essenza della logica di bandwagoning5. Questa strategia, che viola il canone basilare del realismo offensivo secondo il quale gli stati massimizzano il potere relativo —è adottata raramen­ te dalle grandi potenze, perché esse dispongono, per definizione, dei mezzi con cui opporre una ragionevole resistenza ad altre grandi potenze, e perché certamente hanno incentivo a sostenere lo scontro. Al bandwagoning ricorro­ no soprattutto le potenze minori che si trovano ad affrontare da sole una gran­ de potenza ostile56. Queste non hanno altra scelta che cedere al nemico, per­ ché sono deboli e isolate. Chiari esempi di bandwagoning sono le decisioni di Bulgaria e Romania di allearsi con la Germania nazista nelle prime fasi della seconda guerra mondiale e poi di passare al fianco dell’Unione Sovietica verso la fine della guerra57. Con l’appeasement uno stato minacciato fa a un aggressore concessioni che spostano l’equilibrio di potenza a favore di quest’ultimo. L’appeaser di solito accetta di cedere in parte o in toto il territorio di un terzo stato al suo potente nemico. Lo scopo di questa concessione è una modificazione del com­ portamento: spingere l’aggressore in una direzione più pacifica e possibilmen­ te trasformarlo in una potenza dedita allo status quo58. La strategia poggia sul presupposto che il comportamento aggressivo dell’avversario dipende in larga misura da un acuto senso di vulnerabilità strategica. Quindi, ogni passo intra­ preso per ridurre questa insicurezza ridurrà, e possibilmente eliminerà, la motivazione che può portare a una guerra. L’appeasement realizza questo obiettivo - così si afferma —dato che permette all’appeaser di dimostrare le proprie buone intenzioni spostando l’equilibrio militare a favore dello stato minacciante, rendendolo così quest’ultimo meno vulnerabile, più sicuro e in ultima analisi meno aggressivo. A differenza del bandwagoner, che non fa alcuno sforzo per contrastare l’aggressore, l’appeaser si attiva per controllare la minaccia. Ma, come il bandwagoning, l’appeasement contraddice i dogmi del realismo offensivo e quindi è una strategia inconsistente e pericolosa. Diffìcilmente trasformerà il nemico pericoloso in un avversario più malleabile e comprensivo, e tanto meno in uno stato pacifico. L’appeasement viceversa tenderà a stimolare, non a ridurre, la sete di conquista di uno stato aggressore. È indubbio che se uno

S trate g ie di sopravviven za

stato concede una sostanziale quantità di potere a un rivale acutamente insicu­ ro, questo presumibilmente vedrà migliorare le proprie prospettive di soprav­ vivenza. Tale ridotto livello di paura potrebbe, a sua volta, ridurre l’incentivo del rivale a spostare l’equilibrio di potenza a suo favore. Ma la buona notizia è solo una parte della storia. In realtà, altre due considerazioni fanno saltare questa logica di promozione della pace. L’anarchia internazionale, come si è detto, fa sì che gli stati cerchino ogni opportunità di guadagnare incrementi aggiuntivi di potere a spese l’uno dell’altro. Poiché le grandi potenze sono pro­ grammate per l’offesa, uno stato accontentato con ogni probabilità interpre­ terà ogni concessione di potere da parte di un altro stato come un segno di debolezza —come la prova che l’appeaser non è disposto a difendere l’equili­ brio di potenza. Lo stato che riceve la concessione continuerà quindi a spinge­ re per riceverne ancora. Sarebbe assurdo che uno stato non guadagnasse quan­ to più potere possibile, perché le prospettive di sopravvivenza crescono con l’accumularsi degli incrementi di potere. Inoltre per uno stato che abbia otte­ nuto l’appeasement, le prospettive di ottenere ancora più potere vengono accresciute —probabilmente in maniera sostanziale —dalla potenza aggiuntiva che gli è stata concessa dall’appeaser. In breve, l’appeasement ha ogni probabi­ lità di rendere più e non meno pericoloso un rivale già pericoloso.

C O N C ED ER E POTERE PER M OTIVI REALISTI Ci sono però circostanze speciali in cui una grande potenza potrebbe concede­ re potere a un altro stato senza per questo agire contrariamente alla logica del­ l’equilibrio di potenza. Come già notato, talvolta ha senso, per chi opera lo scaricabarile su un altro stato, permettere che questo guadagni potere se ciò accresce le prospettive di contenere l’aggressore. Inoltre, se una grande poten­ za si trova ad affrontare contemporaneamente due o più aggressori, ma non ha né le risorse per controllarli entrambi né un alleato su cui scaricare l’onere, Io stato sotto assedio probabilmente dovrà stabilire una priorità tra le due minac­ ce e permettere che l’equilibrio si sposti a sfavore del male minore, così da liberare risorse per far fronte alla minaccia primaria. Con un po’ di fortuna, la minaccia secondaria diventerà una rivale della primaria, rendendo così possi­ bile stringere un’alleanza con la prima contro la seconda. Questa logica spiega in parte il riawicinamento del Regno Unito agli Stati Uniti all’inizio del X X secolo59. A quel tempo gli Stati Uniti erano chiaramen­ te la potenza dominante nell’emisfero occidentale, anche se il Regno Unito conservava ancora interessi significativi nella regione, cosa che spesso aveva

La logica di potenza

portato a serie dispute con gli americani. Esso però decise di abbandonare la regione e stabilire buone relazioni con gli Stati Uniti, in parte perché il Regno Unito, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, non era nelle condizioni di affrontare gli Stati Uniti nel suo cortile di casa. Ma il Regno Unito si trovava anche a far fronte a crescenti minacce in altre regioni del globo, soprattutto l’ascesa della Germania in Europa, potenzialmente una minaccia molto mag­ giore di quanto fossero gli Stati Uniti al di là dell’oceano. Questo mutamento di scenario geopolitico spinse il Regno Unito a fare concessioni agli americani in modo da poter concentrare le proprie risorse contro la Germania. Alla fine la Germania minacciò anche gli Stati Uniti, facendo sì che americani e britan­ nici combattessero insieme come alleati contro di lei in entrambe le guerre mondiali. Infine, concedere potere a un avversario pericoloso potrebbe avere senso come strategia di breve periodo per prendere il tempo necessario a mobilitare le risorse necessarie a contenere la minaccia. Lo stato che fa la concessione deve non solo trovarsi in una posizione di debolezza di breve termine, ma deve anche avere una superiore capacità di mobilitazione sul lungo periodo. Pochi casi di questo tipo di comportamento si possono trovare nella storia. L’unico caso di cui io sia al corrente è quello del patto di Monaco del settem­ bre 1938, con cui il Regno Unito e la Francia permisero che i Sudeti (parte integrante della Cecoslovacchia) fossero assorbiti dalla Germania nazista, in parte perché i responsabili britannici ritenevano che l’equilibrio di potenza favorisse il Terzo Reich ma che nel tempo questo si sarebbe spostato a favore del Regno Unito e della Francia. In realtà, dopo Monaco l’equilibrio si spostò a detrimento degli Alleati: probabilmente avrebbero fatto meglio a entrare in guerra con la Germania nel 1938 per la Cecoslovacchia anziché nel 1939 per la Polonia60.

C O N CLU SIO N I C ’è un’ultima questione su cui vale la pena soffermarsi relativamente al modo in cui gli stati agiscono per guadagnare e conservare potere. Kenneth Waltz ha dato notorietà alla tesi secondo cui la competizione per la sicurezza induce le grandi potenze a imitare le pratiche di successo dei loro avversari61. Gli stati subiscono un processo di socializzazione che li porta, egli sostiene, a «confor­ marsi a comuni pratiche internazionali». In effetti, non hanno altra scelta se vogliono sperare di sopravvivere al gioco sporco della politica mondiale. «La stretta giustapposizione di stati promuove la loro somiglianza mediante gli

S trate g ie di so pravvivenza

svantaggi che sorgono dal non conformarsi alle pratiche di successo»62. Waltz collega questo concetto dell’imitazione al comportamento riequilibratore: gli stati, afferma, imparano che devono controllare gli avversari che minacciano di sconvolgere l’equilibrio di potenza. Il risultato di questa tendenza alla somi­ glianza è evidentemente la conservazione dello status quo. Dopotutto, il bilan­ ciamento mira a conformare, e opera in direzione del mantenimento, non del­ l’alterazione dell’equilibrio di potenza. Questo è né più né meno che realismo difensivo. Esiste, questo è certo, una forte tendenza degli stati a imitare le pratiche riuscite in altri stati del sistema. È anche logico identificare il bilanciamento con una strategia che gli stati possono voler imitare, anche se non è chiaro perché gli stati abbiano bisogno di essere socializzati per bilanciare contro un aggressore. La struttura del sistema dovrebbe da sola spiegare perché gli stati bilanciano contro rivali pericolosi o usare altri stati perché li contengano. Ma Waltz trascura due aspetti strettamente collegati del comportamento statuale che rendono la politica internazionale orientata più all’offesa e più pericolosa di quanto egli non ammetta. Gli stati non imitano soltanto i com­ portamenti riusciti di bilanciamento, ma anche le aggressioni riuscite. Per esempio, un motivo per cui gli Stati Uniti si adoperarono per annullare la conquista del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990-1991 fu il timore che altri stati potessero concludere che l’aggressione paga e dar così inizio ad altre guerre di conquista63. Inoltre le grandi potenze non si limitano a imitare a vicenda le pratiche riuscite, ma apprezzano anche l’innovazione64. Gli stati cercano nuovi modi per guadagnare vantaggio sugli avversari, sviluppando nuove armi, dottrine miliari innovative o strategie ingegnose. Vantaggi sostanziali spesso vanno agli stati che si comportano in maniera imprevista, ed è per questo che gli stati temono tanto le sorprese strategiche65. Il caso della Germania nazista eviden­ zia questo punto. Hitler sicuramente emulò le pratiche riuscite dei suoi rivali europei, ma mise anche in atto strategie inedite che a volte riuscirono a coglie­ re di sorpresa i suoi avversari. La competizione per la sicurezza, in altre parole, spinge gli stati a deviare dalla pratica condivisa oltre che conformarsi a essa66. Sintetizzando, ho spiegato in che modo gli stati massimizzano la quota di potere mondiale, concentrandomi sugli specifici obiettivi che essi perseguono e sulle strategie che adottano per raggiungere tali obiettivi. Ora, passo a esa­ minare l’evidenza storica per determinare se esistano prove che le grandi potenze cerchino costantemente di guadagnare vantaggio sui rivali.

153

Capitolo sesto

LE GRANDI POTENZE IN AZIONE

La mia teoria, esposta nel Capitolo 2, si prefigge di spiegare perché le grandi potenze tendono ad avere intenzioni aggressive e perché mirano a massimiz­ zare la loro quota di potere mondiale. In quel capitolo, ho cercato di fornire un solido fondamento logico per l’affermazione che raramente si incontrano nel sistema internazionale potenze dedite allo status quo, e che stati partico­ larmente potenti di solito perseguono l’egemonia regionale. La capacità ulti­ ma di persuasione della mia teoria, però, dipende dall’efficaria con cui riesce a spiegare il comportamento storico concreto delle grandi potenze. Esistono prove sufficienti che le grandi potenze pensano e agiscono secondo quanto prevede il realismo offensivo? Per rispondere affermativamente alla domanda e mostrare che il realismo offensivo fornisce il miglior resoconto disponibile del comportamento delle grandi potenze, devo dimostrare 1 ) che la storia della politica delle grandi potenze riguarda principalmente lo scontro fra stati revisionisti, e 2 ) che le uniche potenze da status quo che compaiono nella storia sono egemoni regio­ nali —ossia stati che hanno raggiunto l’apice della potenza. In altre parole, le prove devono dimostrare che le grandi potenze cercano tutte le occasioni per guadagnare potere e, non appena queste si presentano, le sfruttano senza indugio. Deve anche dimostrare che le grandi potenze non si tirano indietro quando hanno a disposizione i mezzi per spostare l’equilibrio di potere in loro favore, e che la sete di potere non si esaurisce una volta che gli stati ne hanno in grande abbondanza. Invece, gli stati potenti mirano all’egemonia regionale ogni volta che se ne presenta la possibilità. Infine, dovrebbero essere pochi i casi storici di governanti che affermano di essere soddisfatti della quota di potere mondiale acquisita quando hanno le capacità per guadagnarne di più. In effetti, dovremmo quasi sempre trovare esempi di capi di stato che ritengo-

La logica di potenza

156

no indispensabile guadagnare più potere per accrescere le prospettive di sopravvivenza del proprio stato. Dimostrare che il sistema internazionale è popolato da potenze revisioniste non è cosa facile, perché l’universo dei casi possibili è vasto1. Dopotutto, le grandi potenze sono in competizione tra loro da secoli, e c’è fin troppo mate­ riale sul comportamento degli stati, per testare la mia ipotesi. Per rendere gestibile l’indagine, questo studio assume quattro prospettive riguardo ai pre­ cedenti storici. Benché sia naturalmente ansioso di trovare prove a conferma del realismo offensivo, faccio un serio sforzo per argomentare contro me stes­ so, cercando prove che potrebbero confutare la mia teoria. Specificamente, cerco di rivolgere pari attenzione ai casi di espansione e di non espansione per mostrare che i casi di non espansione sono in larga misura il risultato di una riuscita politica di deterrenza. Tento anche di impiegare standard uniformi nel misurare i vincoli all’espansione nei casi esaminati. Primo. Esamino il comportamento in politica estera delle cinque grandi potenze che hanno dominato gli ultimi 150 anni: il Giappone dalla restaura­ zione Meiji nel 1868 fino alla sconfitta nella seconda guerra mondiale; la Ger­ mania dall’ascesa al potere di Otto von Bismarck nel 1862 fino alla disfatta finale di Adolf Hitler nel 1945; l’Unione Sovietica dal suo sorgere nel 1917 fino al crollo nel 1991; la Gran Bretagna/Regno Unito dal 1792 al 1945; e gli Stati Uniti dal 1800 al 19902. Preferisco esaminare ampi periodi della storia di ciascuno stato anziché eventi puntuali, perché ciò aiuta a mostrare che specifi­ ci atti di aggressione non furono casi di comportamento aberrante dettato da motivi di politica interna ma, come predice il realismo offensivo, parte di uno schema più ampio di comportamento aggressivo. Giappone, Germania e Unione Sovietica sono casi che forniscono forte sostegno alla mia teoria. Furono quasi sempre alla ricerca di opportunità di espandersi tramite la conquista, e quando vedevano un’apertura, usualmente vi si gettavano. Guadagnare potere non temperava le loro propensioni offensi­ ve, anzi le acuiva. In realtà, tutte e tre le grandi potenze puntavano all’egemo­ nia regionale. La Germania e il Giappone combatterono guerre epocali per perseguire questo obiettivo; solo gli Stati Uniti e i loro alleati poterono dissua­ dere l’Unione Sovietica dal tentare di conquistare l’Europa. Inoltre esistono numerose prove del fatto che i responsabili politici di questi stati parlassero e agissero da realisti offensivi. Certamente, è difficile trovare le prove che i lea­ der esprimessero soddisfazione per l’equilibrio di forza esistente, soprattutto allorché il loro stato aveva la capacità di alterarlo a suo favore. In sintesi, con­ siderazioni di sicurezza appaiono la principale forza trainante delle politiche aggressive di Germania, Giappone e Unione Sovietica.

Le grandi potenze in azione

Potrebbe sembrare, viceversa, che Regno Unito e Stati Uniti abbiano nel passato adottato comportamenti che contraddicono il realismo offensivo. Per esempio, il Regno Unito fu lo stato di gran lunga più prospero in Europa per gran parte del XIX secolo, ma non fece alcun tentativo di tradurre la sua consi­ derevole ricchezza in potenza militare e così conquistare l’egemonia regionale. Sembrerebbe dunque che il Regno Unito non fosse interessato a guadagnare potere relativo, benché avesse i mezzi per farlo. Durante la prima metà del XX secolo, sembrerebbe che gli Stati Uniti abbiano trascurato svariate opportunità di proiettare potenza in Asia e in Europa, seguendo invece una politica estera isolazionista —non proprio a dimostrazione di un comportamento aggressivo. Ciononostante, sosterrò che il comportamento fattuale sia del Regno Uni­ to sia degli Stati Uniti si conforma alle previsioni del realismo offensivo. Gli Stati Uniti perseguirono aggressivamente l’egemonia sull’emisfero occidentale durante il XIX secolo, principalmente per massimizzare le proprie prospettive di sopravvivenza in un mondo ostile. L’America riuscì nel suo intento, ed è l’unica fra le grandi potenze della storia moderna ad aver conseguito l’egemo­ nia regionale. Gli Stati Uniti non tentarono di acquisire territorio né in Euro­ pa né in Asia durante il X X secolo, a causa della grande difficoltà di proiettare potenza al di là dell’Atlantico e del Pacifico. Tuttavia, in queste aree strategica­ mente importanti ha storicamente agito da bilanciatore esterno. Il potere fre­ nante dell’acqua spiega anche perché il Regno Unito non abbia mai tentato di dominare l’Europa nel XIX secolo. Poiché richiedono discussione dettagliata, il caso americano e quello britannico sono trattati nel prossimo capitolo. Secondo. Esamino la condotta di politica estera dell’Italia dalla sua istitu­ zione come stato unitario nel 1861 fino alla sconfitta nella seconda guerra mondiale. Qualcuno riconosce che le potenze più grandi cercano ogni occa­ sione per guadagnare potere, ma continua però a pensare che le altre, soprat­ tutto quelle minori, si comportano come potenze da status quo. L’Italia rap­ presenta un buon test per questa argomentazione, perché fu chiaramente «la minore delle grandi potenze» per l’intero periodo in cui ebbe un ruolo nella politica europea3. Benché carente in potenza militare, i suoi governanti erano costantemente alla ricerca di opportunità per guadagnare potere, e quando si presentò l’occasione raramente esitarono ad approfittarne. Inoltre i politici ita­ liani erano spinti a essere aggressivi essenzialmente da considerazioni di equili­ brio di potenza. Terzo. Qualcuno potrebbe concedere che «è molto limitato il numero di casi in cui uno stato forte e dinamico ha cessato di espandersi per sazietà o fis­ sato limiti alle proprie mire», ma affermare comunque che quelle grandi potenze sono state insensate a comportarsi aggressivamente, perché ciò spesso

La logica di potenza

158

ha portato alla catastrofe4. Quegli stati, alla fin fine, sarebbero stati più sicuri se si fossero dedicati a preservare l’equilibrio di potenza, piuttosto che tentare di alterarlo con la forza. Questo comportamento autolesionista non si spiega con la logica strategica ma è il risultato di politiche sbagliate sollecitate da gruppi di interesse egoistici sul fronte interno. Spesso i realisti difensivi adot­ tano questa linea argomentativa. I loro esempi preferiti di comportamento autodistruttivo sono il Giappone prima della seconda guerra mondiale, la Germania prima della prima guerra mondiale e la Germania prima della seconda guerra mondiale: ciascuno di questi stati subì schiaccianti disfatte militari nella guerra che ne seguì. Contesto la linea generale delfargomento; esamino con estrema attenzione i casi della Germania e del Giappone e con­ cludo che l’evidenza mostra che queste due potenze non hanno avuto un com­ portamento autolesionista, dovuto a maligne ragioni di politica interna. Infine, esamino la corsa al nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica durante la guerra fredda. I realisti difensivi suggeriscono che una volta che rivali dotati di armamenti nucleari abbiano sviluppato la capacità di distrug­ gersi reciprocamente in quanto società funzionanti, dovrebbero essere soddi­ sfatti del mondo che hanno creato e non cercare di cambiarlo. In altre parole, dovrebbero diventare potenze nucleari dedite alla conservazione dello status quo. Secondo il realismo offensivo, invece, quelle potenze nucleari rivali non accetteranno semplicemente la mutua distruzione assicurata (MAD) ma si impegneranno a guadagnare la superiorità nucleare rispetto all’altra parte. Tenterò di mostrare che le politiche degli armamenti nucleari di entrambe le superpotenze collimarono in larga misura con le predizioni del realismo offen­ sivo. Con l’eccezione dei casi americano e britannico, di cui parleremo nel pros­ simo capitolo, tratto qui i quattro casi storici che ho proposto nell’ordine sopra elencato. Cominciamo dunque con l’esame della politica estera giappo­ nese dalla restaurazione Meiji fino a Hiroshima.

GIAPPONE (1868-1945) Prima del 1853 il Giappone aveva scarsi contatti con il mondo esterno, in particolar modo con gli Stati Uniti e le grandi potenze europee. Più di due secoli di isolamento autoimposto avevano lasciato in eredità al Giappone un sistema politico feudale e un’economia che lo ponevano al di fuori del novero dei principali stati industriali del tempo. La grandi potenze usarono la gunboat diplomacy per aprire il Giappone all’economia internazionale negli anni

Le grandi potenze in azione

Cinquanta dell’Ottocento, costringendolo ad accettare una serie di trattati commerciali ineguali. Al tempo stesso le grandi potenze si adoperavano per controllare territorio sul continente asiatico. Il Giappone non aveva modo di contrastare questi sviluppi: era in balia delle grandi potenze. Reagì alla sua sfavorevole posizione strategica imitando le grandi potenze sia in patria sia all’estero. I governanti giapponesi decisero di riformare il siste­ ma politico per competere economicamente e militarmente con l’Occidente. Come disse nel 1887 il ministro degli Esteri giapponese: «Ciò che dobbiamo fare è trasformare il nostro impero e il nostro popolo, rendere l’impero simile ai paesi dell’Europa e il nostro popolo simile ai popoli dell’Europa. In altre parole, dobbiamo dare vita a un nuovo impero in stile europeo in Estremo Oriente»5. La restaurazione Meiji del 1868 fu il primo importante passo sulla via del rinnovamento6. Anche se l’enfasi maggiore nei primi anni della modernizza­ zione cadde sulla politica interna, il Giappone cominciò quasi immediatamen­ te ad agire come una grande potenza sulla scena mondiale7. La Corea fu il pri­ mo bersaglio della conquista nipponica e alla metà degli anni Novanta del XIX secolo risultava ormai evidente che il Giappone si avviava a controllare parti consistenti del continente asiatico; alla fine della prima guerra mondiale era altrettanto chiaro che il Giappone puntava ormai all’egemonia sull’Asia. Le tendenze offensive del Giappone rimasero solidamente intatte fino al 1945, quando il Mikado venne definitivamente sconfitto nella seconda guerra mon­ diale. Durante il periodo di quasi ottant’anni intercorso tra la restaurazione Meiji e la resa nella baia di Tokyo, il Giappone approfittò praticamente di ogni spostamento favorevole nell’equilibrio mondiale di potenza per agire aggressivamente e accrescere la propria quota di potere8. Gli esperti di politica estera giapponese concordano quasi unanimemente sul fatto che il Giappone fu costantemente alla ricerca di opportunità per espandersi e conquistare potere tra il 1868 e il 1945, e che preoccupazioni di sicurezza dettarono in larga misura il suo comportamento. Scrive per esempio Nobutaka Ike: «Retrospettivamente si direbbe che il tema ricorrente dell’epo­ ca fosse la guerra, o la sua concreta esecuzione o la sua preparazione [...] L’e­ videnza porta a ipotizzare che la guerra fosse parte integrante del processo di modernizzazione giapponese»9. Perfino Jack Snyder, esponente autorevole del realismo difensivo riconosce che «dalla restaurazione Meiji dei 1868 fino al 1945, tutti i governi giapponesi furono espansionisti»10. Riguardo alle motivazioni del Giappone, Mark Peattie riflette la tesi preva­ lente quando rileva che «la sicurezza —o per meglio dire l’insicurezza - rispet­ to all’avanzare della potenza occidentale in Asia sembra, in base all’evidenza,

159

La logica di potenza

essere stato il fattore dominante nell’acquisizione dei territori che diedero vita all’impero giapponese»11. Perfino E.H. Norman, critico incisivo del carattere autoritario della restaurazione Meiji, conclude che tutte le lezioni della storia «ammonivano gli statisti Meiji che non ci sarebbero state tappe intermedie tra la condizione di nazione sottoposta e quella di impero vittorioso in crescita»12. Il generale Ishiwara Kanji ribadì energicamente il punto al processo di Tokyo sui crimini di guerra nel maggio 1946, quando contestò il pubblico ministero americano con queste parole: Ha mai sentito parlare del commodoro Perry? Non conosce nulla della storia del suo stesso paese? [...] Il Giappone dell’eraTokugawa credeva nell’isolamento; non voleva avere niente a che fare con gli altri paesi e aveva sprangato le sue porte. Poi dal vostro paese arrivò Perry con le sue navi nere per aprire quelle porte; puntò le sue grosse can­ noniere contro il Giappone e avvertì: «Se non trattate con noi, farete i conti con que­ ste; aprite le vostre porte e negoziate anche con altri paesi». E poi quando il Giappone aprì le sue porte e cercò di avere relazioni con gli altri paesi, vide che tutti quei paesi erano spaventosamente aggressivi. E così per la sua difesa prese il vostro paese a mae­ stro e si dedicò ad apprendere come essere aggressivi. Si può dire che siamo diventati vostri discepoli. Perché non convocate Perry dall’altro mondo e non lo processate come criminale di guerra?13 Obiettivi e rivali

160

Il Giappone era principalmente interessato a controllare tre aree sul continen­ te asiatico: Corea, Manciuria e Cina. La Corea era l’obiettivo primario perché situata a breve distanza dal Giappone (vedi la Carta 6.1). Molti responsabili politici giapponesi sicuramente concordavano con l’ufficiale tedesco che aveva definito la Corea «un pugnale puntato al cuore del Giappone»14. La Manciu­ ria era al secondo posto nella lista dei bersagli perché anch’essa situata dall’al­ tra parte del Mar del Giappone. La Cina era una minaccia più lontana sia del­ la Corea sia della Manciuria, ma era comunque una seria preoccupazione per­ ché aveva il potenziale per dominare l’intera Asia, se solo avesse deciso di modernizzare il sistema politico ed economico. Come minimo, il Giappone voleva mantenere la Cina debole e divisa. Il Giappone si interessò anche, in tempi diversi, ad acquisire territorio nel­ la Mongolia esterna e in Russia. Inoltre cercò di conquistare vaste porzioni del Sudest asiatico, riuscendo a realizzare questo obiettivo nei primi anni della seconda guerra mondiale. In più, aveva nel mirino diverse isole che si trovano al largo del continente asiatico. Tra queste Formosa (oggi Taiwan), le Pescadores, Hainan e le Ryukyu. La storia degli sforzi del Giappone per raggiungere

Le grandi potenze in azione

Carta 6.1

- o b ie t t iv i d e l l ’e s p a n s io n e

g ia p p o n e s e in a s ia

,

1868-1945

l’egemonia, però, si svolse essenzialmente sul continente, coinvolgendo la Corea, la Manciuria e la Cina. Infine, il Giappone conquistò un gran numero di isole nel Pacifico occidentale dopo che entrò in guerra con la Germania nel 1914 e con gli Stati Uniti nel 1941. Né la Cina né la Corea furono in grado di contrastare le ambizioni impe­ riali del Giappone, anche se la Cina collaborò con le grandi potenze alleate per frenare la spinta giapponese all’egemonia regionale tra il 1937 e il 1945. A differenza del Giappone, che avviò la modernizzazione dopo i primi contatti con l’Occidente, Cina e Corea rimasero economicamente arretrate fino a mol-

La logica di potenza

to dopo il 1945. Di conseguenza, il Giappone guadagnò considerevole van­ taggio militare sulla Cina e la Corea alla fine del XIX secolo e fu successiva­ mente in grado di annettersi la Corea e di conquistare ampie porzioni della Cina. Il Giappone avrebbe potuto dominare il continente asiatico all’inizio del X X secolo se non fosse stato contrastato dalle grandi potenze. Russia, Regno Unito e Stati Uniti svolsero ruoli chiave nel contenere il Giappone tra il 1895 e il 1945. La Russia fa parte dell’Asia quanto dell’Euro­ pa, cosa che la qualifica come grande potenza sia asiatica sia europea. Nei fat­ ti, la Russia fu la principale grande potenza rivale del Giappone in Asia Orien­ tale, e fu l’unica grande potenza a scontrarsi sul continente con le armate giap­ ponesi. Ovviamente, la Russia aveva le proprie ambizioni imperiali sul Norde­ st asiatico, contrapponendosi al Giappone per il controllo di Corea e Manciùria. Ciononostante, ci furono fasi, come durante la guerra russo-giapponese (1904-1905), in cui la Russia fu militarmente così debole da non poter far fronte al Giappone. Il Regno Unito e gli Stati Uniti svolsero anch’essi un ruo­ lo nel contenimento del Giappone, anche se puntarono soprattutto sulla potenza economica e navale e non sugli eserciti. La Francia e la Germania furono per lo più attori non protagonisti sullo scacchiere estremorientale. Storia dell’espansione del Giappone Nei primi decenni dopo la restaurazione Meiji la politica estera giapponese si concentrò sulla Corea, che rimaneva isolata dal mondo esterno, benché fosse considerata stato vassallo della Cina15. Il Giappone era determinato a forzare l’apertura della Corea dal punto di vista diplomatico ed economico, più o meno come avevano fatto le potenze occidentali con il Giappone alla metà del secolo. Ma i coreani resistevano agli approcci giapponesi, cosa che determinò accesi dibattiti in Giappone tra il 1868 e il 1873 sull’opportunità di ricorrere alla forza per raggiungere l’obiettivo. La decisione finale fu di lasciar perdere la guerra e concentrarsi invece sulle riforme interne. Nel 1875, però, una squa­ dra di ricognizione giapponese si scontrò con forze costiere coreane. La guerra fu evitata per un soffio quando la Corea accettò di firmare il Trattato di Kangwah (febbraio 1876), che apriva tre porti coreani al commercio giapponese e dichiarava la Corea stato indipendente. Ma la Cina continuava a considerare la Corea uno stato vassallo, il che condusse inevitabilmente a un’intensa rivalità cino-nipponica sulla Corea. Alla fine del 1884 scoppiarono scontri a fuoco tra truppe giapponesi e cinesi di stanza a Seoul. Ma la guerra fu evitata perché le due parti temevano che le grandi potenze europee avrebbero tratto vantaggio da un loro conflitto. Ciò-

Le grandi potenze in azione

nonostante, la competizione fra Cina e Giappone sulla Corea continuò e nel­ l’estate del 1894 scoppiò un’altra crisi. Questa volta il Giappone decise di scendere in guerra con la Cina e di risolvere la questione sul campo di batta­ glia. Il Giappone sconfìsse rapidamente la Cina e impose un duro trattato di pace16. Con il trattato di Shimonoseki, firmato il 17 aprile 1895, la Cina cedeva la penisola di Liaodong, Formosa e le Pescadores al Giappone. La peni­ sola di Liaodong feceva parte della Manciuria e comprendeva l’importante città marittima di Port Arthur. Inoltre la Cina era costretta a riconoscere l’in­ dipendenza della Corea, il che in pratica significava che quest’ultima sarebbe diventata un satellite del Giappone e non più della Cina. Il Giappone si assi­ curava anche importanti diritti commerciali in Cina e riscuoteva una forte indennità, lasciando pochi dubbi sul fatto che stava diventando un attore importante della politica asiatica. Le grandi potenze, soprattutto la Russia, erano allarmate dalla crescente forza del Giappone e dalla sua repentina espansione sul continente asiatico. Russia, Francia e Germania decisero di rettificare la situazione: pochi giorni dopo la firma del trattato di pace, obbligarono il Giappone a restituire la peni­ sola di Liaodong alla Cina. I russi erano determinati a impedire al Giappone di controllare anche solo parte della Manciuria, perché intendevano control­ larla essi stessi. La Russia chiarì anche che avrebbe conteso al Giappone il con­ trollo della Corea. Formosa e le Pescadores vennero lasciate al Sol Levante. Con questo «triplice intervento» la Russia prendeva il posto della Cina come rivale del Giappone per il controllo di Corea e Manciuria17. All’inizio del XX secolo la Russia era la forza dominante in Manciuria, avendovi trasferito truppe in gran numero durante la rivolta dei Boxer (1900). Né il Giappone né la Russia erano in grado di avere la meglio in Corea, soprattutto perché i politici coreani misero abilmente le due potenze una con­ tro l’altra in modo tale da evitare di farsi divorare dall’una o dall’altra. Il Giap­ pone trovò inaccettabile questo scenario strategico e offrì alla Russia un sem­ plice accordo: la Russia poteva dominare la Manciuria se il Giappone avesse potuto controllare la Corea. Ma la Russia rispose negativamente e il Giappone procedette a risolvere il problema scendendo in guerra contro la Russia all’ini­ zio del febbraio 190418. Il Giappone riportò una clamorosa vittoria sia in mare sia in terra, che si tradusse nel trattato di pace firmato a Portsmouth, New Hampshire, il 5 set­ tembre 1905. L’influenza della Russia in Corea terminava, e d’ora in avanti sarebbe stato il Giappone a dominare la penisola coreana. Inoltre la Russia tra­ sferì il controllo della penisola di Liaodong al Giappone, con annessa ferrovia della Manciuria meridionale. La Russia cedette anche la metà sud dell’isola di

163

La logica di potenza

164

Sakhalin, che controllava dal 1875. Il Giappone aveva ribaltato l’esito del tri­ plice intervento e guadagnato una vasta presenza sul continente asiatico. Il Giappone si mosse rapidamente per consolidare le sue acquisizioni, annettendosi la Corea nell’agosto del 19IO19. Dovette procedere con maggior cautela in Manciuria, perché la Russia manteneva ancora un grosso esercito nel Nordest asiatico e aveva seri interessi sulla Manciuria. Inoltre gli Stati Uni­ ti erano allarmati dalla crescente potenza del Giappone e cercavano di conte­ nerla, rafforzando la Russia per usarla come contrappeso al Giappone. Di fronte a questo nuovo scenario strategico, il Giappone concordò con la Russia, nel luglio 1907, di dividere la Manciuria in sfere separate d’influenza. Ricono­ sceva inoltre gli speciali interessi della Russia sulla Mongolia esterna, mentre la Russia riconosceva il predominio giapponese in Corea. Il Giappone diede prova di voler continuare nella sua politica offensiva quando il 1° agosto 1914 scoppiò la prima guerra mondiale. In meno di un mese entrò in guerra al fianco degli alleati, conquistando subito le isole del Pacifico controllate dalla Germania (le Marshall, le Caroline e le Marianne) e Tsingtao, città controllata dai tedeschi sulla penisola cinese di Shandong. La Cina, che a quel tempo si trovava nel pieno di un violento sconvolgimento politico e in precaria situazione strategica, chiese al Giappone di restituire il controllo di quelle città. Il Giappone non solo respinse la richiesta ma, nel gennaio 1915, presentò alla Cina le famigerate «Ventuno richieste», che impo­ nevano importanti concessioni economiche e politiche che avrebbero finito per trasformare la Cina in uno stato vassallo del Giappone, come la Corea20. Gli Stati Uniti costrinsero il Giappone a rinunciare alle richieste più radicali e la Cina a malincuore accettò le rimanenti nel maggio 1915. Da questi eventi risultava evidente l’intenzione del Giappone di dominare prima o poi la Cina. Le ambizioni di politica estera del Giappone si misero nuovamente in luce nell’estate del 1918, quando le sue truppe invasero la Manciuria del nord e la Russia stessa in seguito alla rivoluzione bolscevica (ottobre 1917)21. La Russia era nel mezzo di una sanguinosa guerra civile e il Giappone inter­ venne di concerto con il Regno Unito, la Francia e gli Stati Uniti. Le poten­ ze occidentali, che stavano ancora combattendo con gli eserciti del kaiser sul fronte ovest della guerra, speravano con l’intervento di far rientrare la Russia nella guerra contro la Germania. In pratica, ciò significava aiutare le forze antibolsceviche a vincere la guerra civile. Anche se il Giappone contribuì con settantamila uomini alla forza di intervento alleata, più di ogni altra grande potenza, mostrò scarso interesse a combattere i bolscevichi per dedicarsi inve­ ce a consolidare il controllo sulle aree che occupava: la parte settentrionale dell’isola di Sakhalin, il nord della Manciuria e la Siberia orientale. L’inter-

Le grandi potenze in azione

vento nipponico in Russia fu difficile fin dall’inizio, a causa delle avverse condizioni climatiche, della popolazione ostile e della vastità del territorio occupato. Quando i bolscevichi trionfarono nella guerra civile, il Giappone cominciò a ritirare le truppe dalla Russia, lasciando la Siberia nel 1922 e Sakhalin nel 1925. Alla fine della prima guerra mondiale gli Stati Uniti ebbero la netta sensa­ zione che il Giappone si fosse allargato troppo e si prepararono a rettificare la situazione. Alla Conferenza di Washington dell’inverno 1921-1922, gli Stati Uniti costrinsero il Giappone ad accettare tre trattati che in pratica annullava­ no i guadagni ottenuti dai giapponesi in Cina durante la prima guerra mon­ diale e imponevano limiti alle dimensioni delle flotte americana, britannica e giapponese22. Questi trattati includevano molta retorica sulla necessità di coo­ perazione in future crisi e sull’importanza di mantenere lo status quo politico in Asia. Ma il Giappone rimase subito insoddisfatto dei trattati di Washing­ ton, perché era deciso a espandere il proprio impero in Asia, mentre i trattati erano progettati per contenerlo. I capi del Giappone però firmarono ugual­ mente perché sentivano di non essere in grado di sfidare le potenze occidenta­ li, appena uscite vittoriose dalla prima guerra mondiale. In realtà, il Giappone non fece molto per alterare lo status quo per tutti gli anni Venti, un decennio relativamente pacifico in Asia come in Europa23. Ma nei primi anni Trenta il Giappone era già tornato alle sue pratiche aggressive, e la sua politica estera divenne sempre più. bellicosa nel corso del decennio24. Il 18 settembre 1931 l’esercito del Kwangtung si adoperò per crea­ re il casus belli con la Cina25. L’«incidente di Mukden», come venne poi chia­ mato, fu il pretesto per scendere in guerra e conquistare tutta la Manciuria. L’esercito del Kwangtung vinse rapidamente il conflitto e nel marzo 1932 il Giappone si attivò per istituire lo stato «indipendente» del Manchukuo, di fatto colonia giapponese. Con Corea e Manciuria solidamente sotto il suo controllo entro l’inizio del 1932, il Giappone si pose come obiettivo di dominare la Cina stessa. In effet­ ti, aveva cominciato a spingersi in Cina già prima dell’istituzione ufficiale del Manchukuo26. Nel gennaio 1932 c’erano stati scontri a Shanghai tra l’esercito cinese e unità navali giapponesi. Il Giappone fu costretto a inviare truppe di terra a Shanghai e la battaglia che ne seguì durò quasi sei settimane prima che il Regno Unito, nel maggio 1932, organizzasse una tregua. All’inizio del 1933 truppe giapponesi entrarono in Jehol e Hopei, due province del nord della Cina. Quando, a fine maggio del 1933, fu raggiunta una tregua, il Giappone manteneva il controllo di Jehol, e i cinesi furono costretti ad accettare una zona smilitarizzata nella fascia settentrionale di Hopei.

165

La logica di potenza

Se qualcuno nutriva ancora dubbi sulle intenzioni del Giappone, l’ 8 aprile 1934 il suo ministro degli Esteri fece un’importante dichiarazione, procla­ mando che l’Asia Orientale apparteneva alla sfera d’influenza del suo paese e ammonendo le altre grandi potenze a non aiutare la Cina nella lotta con il Giappone. In pratica, il Giappone confezionava una propria versione della dottrina Monroe per l’Asia Orientale27. Il Giappone finalmente lanciò un assalto su vasta scala contro la Cina sul finire dell’estate del 193728. Nel momento in cui Hitler invadeva la Polonia, il 1° settembre 1939, il Giappone controllava già ampi tratti della Cina settentrionale e diverse enclavi lungo la costa cinese. Alla fine degli anni Trenta, il Giappone fu anche coinvolto in una serie di conflitti di frontiera con l’Unione Sovietica, con un paio di battaglie impor­ tanti a Chungkuefung (1938) e Nomihhan (1939)29. I comandi dell’esercito del Kwangtung erano intenzionati a espandersi oltre la Manciuria, nella Mon­ golia esterna e all’interno della stessa URSS. L’Armata Rossa inflisse sconfitte decisive all’esercito del Kwangtung in entrambi gli scontri e il Giappone perse presto l’appetito per un’ulteriore espansione verso nord. Due eventi critici in Europa nei primi anni delia seconda guerra mondiale - la caduta della Francia nella primavera del 1940 e l’invasione tedesca dell’U­ nione Sovietica l’anno dopo — aprirono nuove opportunità di aggressione giapponese nel Sudest asiatico e nel Pacifico occidentale30. Il Giappone ne approfittò ma fini per trovarsi in una guerra con gli Stati Uniti che durò dal dicembre 1941 all’agosto 1943, da cui uscì definitivamente sconfitto ed elimi­ nato dal novero delle grandi potenze.

16 6

GERMANIA ( 1862-1945) Negli anni dal 1862 al 1870 e dal 1900 al 1945, la Germania si dedicò ad alterare l’equilibrio di potenza europeo e ad aumentare la propria quota di potere militare. Accese numerose crisi e conflitti nel corso di questi due perio­ di, compiendo due tentativi di dominare l’Europa nel X X secolo. Tra il 1870 e il 1900 il principale interesse tedesco fu preservare, non modificare, l’equili­ brio di potere esistente. Ma la Germania non era diventata una potenza sazia, come dimostrò nella prima metà del X X secolo. Il motivo del suo comporta­ mento non aggressivo alla fine dell’Ottocento fu che a quel tempo non aveva una potenza sufficiente a sfidare i suoi rivali. L’orientamento aggressivo della politica estera tedesca era motivato princi­ palmente da calcoli strategici. La sicurezza è sempre stato un tema scottante

Le grandi potenze in azione

per la Germania a causa della sua collocazione geografica: è situata nel centro dell’Europa con scarse barriere difensive naturali sia a est sia a nord, il che la rende esposta alle invasioni. Di conseguenza, i leader tedeschi sono sempre stati attenti a cogliere ogni occasione per guadagnare potere e migliorare le prospettive di sopravvivenza del paese. Con questo non si vuole negare che anche altri fattori influenzassero la politica estera tedesca. Si consideri, per esempio, il comportamento tedesco sotto i suoi due capi più famosi, Otto von Bismarck e Adolf Hitler. Anche se è abitualmente considerato il maestro della Realpolitik, Bismarck era motivato anche dal nazionalismo oltre che da moti­ vazioni di sicurezza quando causò le guerre del 1864, 1866 e 1870-1871, vin­ cendole tutte31. Specificamente, non solo cercava di ampliare i confini della Prussia per renderla più sicura, ma era determinato a creare uno stato tedesco unitario. E indubbio che le aggressioni hitleriane fossero motivate in buona parte da un’ideologia razzista assai radicata. E però altrettanto vero che al centro della visione di Hitler della politica intemazionale vi fossero genuini calcoli di potenza32. Dal 1945 gli studiosi dibattono il grado di continuità che lega i nazisti ai loro predecessori. Nel mondo degli specialisti delle relazioni interna­ zionali, però, c’è ampio consenso sul fatto che Hitler non rappresentò una rot­ tura netta con il passato ma pensò e agì come i leader tedeschi che erano venuti prima di lui. David Calleo esprime bene il punto: «In politica estera, le analogie tra la Germania imperiale e quella nazista sono assai evidenti. Della prima Hitler condivideva l’analisi geopolitica: le stesse convinzioni sul conflit­ to tra nazioni, la stessa sete di egemonia sull’Europa e le stesse motivazioni. La prima guerra mondiale, era in grado di affermare, non aveva fatto altro che dare ulteriore conferma di quell’analisi geopolitica»33. Anche senza Hitler e la sua ideologia letale, la Germania sicuramente si sarebbe comportata da stato aggressivo entro la fine degli anni Trenta34. Obiettivi e rivali Francia e Russia sono stati i due principali rivali della Germania dal 1862 al 1945, benché per brevi periodi le relazioni russo-tedesche fossero amichevoli. Le relazioni franco-tedesche, invece, furono quasi sempre ostili per l’intero periodo. Il Regno Unito e la Germania andarono abbastanza d’accordo prima del 1900, ma a partire dall’inizio del secolo le relazioni si guastarono e il Regno Unito, come la Russia e la Francia, finì per combattere con la Germa­ nia in entrambe le guerre mondiali. L’Austria-Ungheria era il peggior nemico della Germania nei primi anni del regno bismarckiano, ma i due stati diven­ nero alleati nel 1879 e rimasero legati fino alla dissoluzione, nel 1918, del-

167

La logica di potenza

l’impero asburgico. Le relazioni tra Italia e Germania furono in generale buo­ ne dal 1862 al 1945, anche se nella prima guerra mondiale l’Italia combattè contro la Germania. Gli Stati Uniti combatterono contro la Germania in entrambi i conflitti mondiali, ma per il resto non vi fu una significativa riva­ lità tra i due paesi nel corso di quegli otto decenni. La lista degli obiettivi dell’aggressività tedesca per il periodo che va dal 1862 al 1945 è lunga, perché dopo il 1900 i piani di espansione della Germa­ nia divennero ambiziosi. La Germania guglielmina, per esempio, non solo ambi a dominare l’Europa, ma cercò anche di diventare una potenza mondia­ le. Questo progetto ambizioso, noto come Weltpolitik, comprendeva l’acquisi­ zione di un vasto impero coloniale in Africa35. Ma l’obiettivo principe della Germania nella prima metà del XX secolo fu l’espansione sul continente euro­ peo a spese della Francia e della Russia, piano che cercò di attuare in entram­ be le guerre mondiali. La Germania si pose mete più limitate fra il 1862 e il 1900, come vedremo, perché non era abbastanza potente da conquistare l’Eu­ ropa. L’espansione della Germania

16 8

Bismarck raccolse le redini del governo prussiano nel settembre 1862. Non esisteva ancora uno stato tedesco unificato, ma un assortimento di entità poli­ tiche germanofone sparse nel centro d’Europa e legate debolemente fra loro nella Confederazione tedesca, all’interno della quale i due membri più poten­ ti erano l’Austria e la Prussia. Nel corso dei nove anni successivi, Bismarck distrusse la confederazione per fondare uno stato tedesco unitario considere­ volmente più potente della Prussia di cui prendeva il posto36. Realizzò questo compito provocando e vincendo tre guerre. La Prussia si alleò con l’Austria nel 1864 per sconfiggere la Danimarca e poi con l’Italia nel 1866 per sconfig­ gere l’Austria. Infine, sconfisse la Francia nel 1870, rendendo così parte del nuovo Reich tedesco anche le province francesi dell’Alsazia e della Lorena. Non c’è dubbio che fra il 1862 e il 1870 la Prussia si comportò come avrebbe previsto il realismo offensivo. Bismarck divenne cancelliere della nuova Germania il 18 gennaio 1871, e rimase in carica per diciannove anni, finché il 2 0 marzo 1890 il kaiser Guglielmo lo licenziò37. Benché nel corso di quel ventennio la Germania fosse lo stato più potente sul continente europeo, non combattè alcuna guerra e la sua diplomazia tese principalmente a non alterare l’equilibrio di potenza. Anche quando Bismarck lasciò l’incarico, la politica estera tedesca mantenne essenzialmente la stessa rotta per un altro decennio. Solo all’inizio del XX

Le grandi potenze in azione

secolo la diplomazia della Germania si fece aggressiva e i suoi leader comincia­ rono a pensare seriamente di usare la forza per espandere i confini tedeschi. Come si spiega questo iato trentennale di comportamento sostanzialmente pacifico? Come mai Bismarck, così portato all’aggressione nei primi nove anni della sua carica, si orientò alla difesa nei successivi diciannove anni come can­ celliere della Germania? Non certo perché ebbe un’improvvisa illuminazione diventando «genio diplomatico pacifista»38. In realtà, ciò accadde perché egli e i suoi successori capirono giustamente che l’esercito tedesco aveva conquistato tutto il territorio che poteva senza provocare una guerra tra grandi potenze, che con ogni probabilità la Germania avrebbe perso. Questo punto risulta chiaro quando si considera la geografia dell’Europa del tempo, la probabile reazioni delle altre grandi potenze europee, e la posizione della Germania nel­ l’equilibrio di potenza. C ’erano poche potenze minori ai confini orientali e occidentali della Ger­ mania. Anzi non ce nera nessuna sul confine orientale, sui erano poste la Rus­ sia e l’Austria-Ungheria (vedi Carta 6.2). Ciò voleva dire che era difficile per la Germania conquistare nuove terre senza invadere il territorio di un’altra grande potenza - come la Francia o la Russia. Inoltre fu evidente agli occhi dei leader tedeschi nel corso di tutto quel trentennio che se la Germania aves­ se invaso la Francia o la Russia, si sarebbe ritrovata a combattere —forse anche con il Regno Unito —una guerra su due fronti. Vediamo cosa accadde nelle due maggiori crisi franco-tedesche del periodo. Durante la «Crisi della guerra in vista» del 1875, Regno Unito e Russia chiari­ rono che non sarebbero rimasti a guardare mentre la Germania schiacciava la Francia, come avevano fatto nel 187039. Durante la «Crisi Boulanger» del 1887, Bismarck aveva buone ragioni per pensare che la Russia avrebbe aiutato la Francia se fosse scoppiata una guerra franco-tedesca40. Quando questa crisi si risolse, Bismarck negoziò il famoso Trattato di Rassicurazione (13 giugno 1887) tra la Germania e la Russia. Il suo scopo era tenere aperti i rapporti con lo zar russo e scongiurare un’alleanza militare tra Francia e Russia. Ma, come sottolinea George Kennan, Bismarck probabilmente si rese conto «che nell’e­ ventualità di una guerra franco-tedesca sarebbe stato impossibile, trattato o no, impedire alla Russia di muovere in breve tempo contro i tedeschi». Ogni dubbio sulla questione fu dissipato tra il 1890 e il 1894, quando la Francia e la Russia strinsero un’alleanza contro la Germania. Pur essendo lo stato più potente in Europa tra il 1870 e il 1900, la Germa­ nia non era un egemone potenziale, e pertanto il potere di cui disponeva non bastava a darle la sicurezza di poter battere Francia e Russia contemporanea­ mente, e tanto meno queste due più il Regno Unito. In realtà, la Germania prò-

La logica di potenza

C a r t a 6 .2 -

l ’e u r o p a n e l

19 14

170

babilmente avrebbe trovato già nella sola Francia un formidabile avversario pri­ ma del 1900. Gli egemoni potenziali, come abbiamo visto nel Capitolo 2, pos­ siedono l’esercito più potente e più ricchezza di ogni altro stato della regione. La Germania aveva l’esercito numero uno in Europa, ma non era sostan­ zialmente più potente dell’esercito francese al volgere del XIX secolo. L’eserci-

Le grandi potenze in azione

T a b e lla 6 .1

-

c o n s is t e n z a d e g l i e s e r c it i e u r o p e i,

1875

1880

18 7 5 -18 9 5

1885

1890

1895

Esercito Potenziale Esercito Potenziale Esercito Potenziale Esercito Potenziale Esercito Potenziale permanente bellico permanente bellico permanente bellico permanente bellico permanente bellico

Austria-Ungheria Regno Unito Francia Germania Russia Italia

278.470 192.478 430.703 419.738 765.872 214.667

838.700 539.776 1.000.000 1.394.541 1.213.259 460.619

239.615 194.512 502.697 419.014 884.319 214.667

771.556 571.769 2.000.000 1.304.541 2.427.853 460.619

284.495 188.657 523.833 445.392 757.238 250.000

1.071.034 577.334 2.500.000 1.535.400 1.917.904 1.243.556

336.717 210.218 573.277 492.246 814.000 262.247

1.818.413 618.967 2.500.000 2.234.631 2.220.798 1.221.478

354.252 222.151 598.024 584.734 868.672 252.829

1.872.178 669.553 2.500.000 3.000.000 2.532.496 1.356.999

Nota: il «potenziale bellico» (a cui The Statesmans Year-Book si riferisce come al «piede di guerra» di un eser­ cito) rappresenta il numero totale di uomini che si troverebbe nell’esercito immediatamente dopo la mobi­ litazione; comprende quindi il personale in servizio permanente nell’esercito di un paese più tutte le riserve, per quanto male addestrate possano essere. Questi dati vanno presi cum grano salis perché si tratta solo di stime, e includono molti riservisti addestrati solo parzialmente, e talvolta non addestrati affatto. The State­ smans Year-Book non cita il piede di guerra per il Regno Unito; ho ottenuto il dato sommando le varie riser­ ve, milizie e forze volontarie elencate sotto l’esercito britannico permanente in patria e nell’impero. Fonti: tutte le cifre sono tratte da The Statesmans Year-Book, vari anni, tranne quelle per il potenziale bellico della Francia nel 1875 e nel 1880 e per l’esercito permanente dell’Italia, che sono stime dell’autore. Gli anni e i numeri di pagina sono i seguenti (gli anni si riferiscono all’edizione dello Statesmans Year-Book): AustriaUngheria: 1876, p. 17; 1881, p. 17; 1886, p. 19; 1891, p. 350; 1896, p. 356; Regno Unito: 1876, pp. 22627; 1881, pp. 224-25; 1886, pp. 242-43; 1891, pp. 55-56; 1896, pp. 55-56; Francia: 1876, p. 70; 1881, p. 70; 1886, p. 76; 1891, p. 479; 1895, p. 487; Germania: 1876, p. 102; 1881, p: 102; 1886, p. 108; 1891, pp. 538-39; 1896, pp. 547-48; Russia: 1876, p. 371; 1882, p. 380; 1887, p. 430; 1891, pp. 870, 872; 1896, pp. 886, 888; Italia: 1876, p. 311; 1881, p. 311; 1886, p. 337; 1891, p. 693; 1896, p. 702.

to tedesco era il più consistente fra i due nei primi anni successivi alla guerra franco-prussiana (1870-1871) e alla fine del XIX secolo (vedi Tabella 6.1). Anche se la Francia aveva nel suo esercito più soldati di quanti ne avesse la Germania negli anni Ottanta e nei primi Novanta dell’Ottocento, il vantaggio numerico era poco significativo, perché dovuto al fatto che la Francia —a dif­ ferenza della Germania —aveva un grosso serbatoio di riservisti male addestra­ ti che poco avrebbero inciso sull’esito di una guerra tra i due paesi. In genera­ le, l’esercito tedesco aveva un netto vantaggio qualitativo sulla controparte francese, anche se il gap non era cosi marcato come lo era stato nella guerra franco-prussiana42. Riguardo alla ricchezza prodotta, la Germania godette di un sensibile mar­ gine di vantaggio sulla Francia e la Russia dal 1870 al 1900 (vedi Tabella 3.3). Ma nello stesso periodo il Regno Unito era molto più ricco della Germania. Per esempio, la Germania controllava il 20 per cento della ricchezza europea nel 1880, mentre la Francia ne controllava il 13 per cento e la Russia il 3. Il Regno Unito però costituiva il 59 per cento della ricchezza totale, cosa che le concedeva un vantaggio di quasi 3:1 sulla Germania. Nel 1890 la quota della

La logica di potenza

172

Germania era salita al 25 per cento, mentre le cifre per la Francia e la Russia erano rispettivamente il 13 e il 5 per cento. Ma il Regno Unito controllava ancora il 50 per cento della ricchezza europea, il che gli dava un vantaggio di 2:1 sulla Germania. In sintesi, un’aggressione tedesca durante l’ultimo trentennio del XIX seco­ lo sarebbe probabilmente sfociata in una guerra tra grandi potenze che la Ger­ mania non era in condizioni di vincere. Il Secondo Reich avrebbe finito per combattere simultaneamente contro due o tre grandi potenze e non disponeva di sufficiente potenza relativa per vincere una guerra di quel genere. La Ger­ mania era abbastanza potente da far suonare Fallarme nel Regno Unito, in Francia e in Russia al primo segnale che si mettesse sull’offensiva, ma non ancora abbastanza da poter combattere contemporaneamente contro tutte e tre le altre grandi potenze rivali. Così dal 1870 al 1900 la Germania fu costretta ad accettare lo status quo. A partire dal 1903, però, la Germania era diventata un potenziale egemo­ ne43. Controllava una percentuale della potenza industriale europea superiore a quella di ogni altro stato, Regno Unito compreso, e disponeva dell’esercito più potente del mondo. Ora aveva una capacità economica e militare che la metteva in grado di passare all’offensiva per guadagnare potere. Non sorpren­ de che fu in questo periodo che la Germania cominciò a pensare seriamente di alterare l’equilibrio europeo per diventare una potenza mondiale. La prima seria mossa della Germania in sfida allo status quo fu la decisio­ ne, al volgere del secolo, di dotarsi di una formidabile marina con cui sfidare il predominio britannico sugli oceani del globo e perseguire la Weltpolitik*. Il risultato fu la corsa agli armamenti navali tra il Regno Unito e la Germania che durò fino alla prima guerra mondiale. Nel marzo 1905 la Germania aprì una seria crisi con la Francia sul Marocco. Suo obiettivo era isolare la Francia dal Regno Unito e dalla Russia e impedire che si formasse una coalizione di bilanciamento ai suoi danni. In realtà, la crisi ebbe un risultato controprodu­ cente, tanto che i tre stati diedero vita alla Triplice Intesa. Anche se non furo­ no i leader tedeschi a iniziare la cosiddetta crisi bosniaca dell’ottobre 1908, intervennero a favore delfAustria-Ungheria e spinsero la crisi sull’orlo della guerra prima che la Russia facesse un passo indietro e accettasse una sconfitta umiliante nel 1909. La Germania provocò una seconda crisi sul Marocco nel luglio 1911, ancora una volta con l’obiettivo di isolare e umiliare la Francia. Nemmeno questa operazione riuscì: la Germania fu costretta ad arretrare e la Triplice Intesa si rafforzò. Cosa più importante, i leader tedeschi furono i principali responsabili dello scoppio della prima guerra mondiale nell’estate del 1914. Loro scopo era infliggere una sconfitta decisiva alle grandi potenze

Le grandi potenze in azione

rivali della Germania e ridisegnare la carta dell’Europa per assicurare l’egemo­ nia tedesca45. Il Trattato di Versailles (1919) spuntò gli artigli della Germania per tutto il periodo di Weimar (1919-1933)46. Le fu proibito di detenere una forza aerea, mentre l’entità numerica del suo esercito non poteva superare i centomila uomini. La coscrizione obbligatoria e il rinomato stato maggiore generale tedesco furono messi fuori legge. L’esercito tedesco era così debole negli anni Venti che i responsabili del paese temettero un’invasione da parte dell’esercito polacco, che nel 1920 aveva attaccato l’Unione Sovietica e sconfitto l’Armata Rossa47. Sebbene la Germania non fosse in condizione di acquisire territorio con la forza, praticamente tutti i suoi leader durante il periodo weimariano si impegnarono a modificare lo status quo per recuperare almeno i territori in Belgio e in Polonia che erano stati tolti alla Germania alla fine della prima guerra mondiale48. Si dedicarono anche a restaurare la potenza militare tede­ sca49. Questa tendenza revisionista tra le élite dirigenti della repubblica di Weimar spiega in parte perché vi fu così scarsa resistenza alla politica estera e militare di Hitler quando questi, nel 1933, salì al potere. Il maggiore statista tedesco durante l’epoca di Weimar fu Gustav Stresemann, ministro degli Esteri dal 1924 al 1929, anno della sua morte. Le sue idee in politica estera appaiono piuttosto moderate, almeno rispetto a quelle di molti dei suoi avversari politici, che lo accusavano di non essere abbastanza aggressivo nel portare avanti l’agenda revisionista della Germania. Fu lui a fir­ mare il Patto di Locamo (1° dicembre 1925) e il Patto Kellogg-Briand (27 agosto 1928), due tentativi di rafforzare la cooperazione internazionale e di eliminare la guerra come strumento di governo. Nonostante questo, gli stu­ diosi concordano quasi unanimemente sul fatto che Stresemann non fosse un idealista ma «un convinto assertore della dottrina che vedeva la Machtpolitik come l’unico fattore determinante nelle relazioni internazionali e secondo la quale solo la forza potenziale di una nazione era in grado di determinare la sua posizione nel mondo»50. Inoltre mostrò un forte impegno ad allargare i confi­ ni della Germania. Firmò trattati di non aggressione e usò un linguaggio acco­ modante con il Regno Unito e la Francia, convinto che un’abile diplomazia fosse l’unica arma con cui una Germania militarmente debole potesse recupe­ rare parte del territorio perduto. Se la Germania avesse posseduto un esercito forte durante la sua carica come ministro degli Esteri, quasi certamente l’a­ vrebbe usato - o minacciato di usarlo - per guadagnare territorio. Sulla Germania nazista (1933-1945) non è il caso di aggiungere molto, essendo universalmente riconosciuta come uno degli stati più aggressivi nella storia del mondo51. Quando nel gennaio 1933 Hitler salì al potere, la Germa­

173

La logica di potenza

nia era ancora militarmente debolissima. Immediatamente, si accinse a correg­ gere la situazione, mettendo in piedi una forte Wehrmacht utilizzabile a scopi aggressivi52. Austria e Sudeti furono acquisiti nel 1938 senza colpo ferire, come il resto della Cecoslovacchia e la città lituana di Memel nel marzo 1939. Quello stesso anno la Wehrmacht invase la Polonia, quindi nell’aprile 1940 la Danimarca e la Norvegia, poi il mese successivo Belgio, Olanda, Lussemburgo e Francia; Yugoslavia e Grecia nell’aprile 1941, e infine, nel mese di giugno, l’Unione Sovietica. Unione Sovietica (1917-1991)

174

La Russia aveva una ricca storia di comportamento espansionista prima che i bolscevichi prendessero il potere nell’ottobre 1917. Al punto che «l’impero russo quale appariva nel 1917 era il prodotto di quasi quattro secoli di espan­ sione ininterrotta»53. Vi è ampia evidenza storica che Vladimir Lenin, Josif Stalin e i loro successori volessero seguire le orme degli zar per espandere ulte­ riormente i confini sovietici. Ma le opportunità di espansione sono state limi­ tate nei settantacinque anni di storia dell’Unione Sovietica. Tra il 1917 e il 1933, il paese era sostanzialmente troppo debole per assumere l’offensiva con­ tro le grandi potenze rivali. E dopo il 1933 aveva già troppo da fare per con­ tenere le minacce che le arrivavano sui fianchi: il Giappone imperiale nel Nor­ dest asiatico e la Germania nazista in Europa. Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti e i loro alleati erano determinati a contrastare l’espansione sovieti­ ca in tutte le zone del globo. Ciononostante, i sovietici qualche occasione di espandersi la ebbero, e quasi sempre ne approfittarono. Tra i governanti russi c’era un radicato e annoso timore che il paese fosse vulnerabile alle invasioni, e l’idea che il modo migliore per affrontare il pro­ blema fosse espandere i confini della Russia. Niente di strano che il pensiero russo in politica estera prima e dopo la rivoluzione bolscevica fosse guidato in larga misura dalla logica realista. Descrivendo il «discorso degli statisti russi» tra il 1600 e il 1914, William Fuller scrive: «Generalmente impiegarono il lin­ guaggio a mente fredda della strategia e dell’analisi. Soppesavano l’impatto internazionale di quanto si proponevano di fare; ponderavano punti di forza e debolezze dei loro probabili nemici; e giustificavano le loro politiche alla luce dei vantaggi che presagivano per la potenza e la sicurezza della Russia. L’onni­ presenza di questo stile di ragionamento lascia sorpresi»54. Quando nel 1917 presero il potere, i bolscevichi erano evidentemente con­ vinti che la politica internazionale avrebbe subito in tempi brevissimi una tra­ sformazione radicale e che la logica di potenza sarebbe stata relegata nell’ossa­

Le grandi potenze in azione

rio della storia. Specificamente, pensavano che con un piccolo aiuto da parte dell’Unione Sovietica la rivoluzione comunista si sarebbe diffusa in tutta Europa e nel resto del mondo, creando stati di orientamento ideologico affine che sarebbero vissuti in pace prima di dissolversi del tutto. Da qui, la famosa battuta di LevTrockij del novembre 1917, quando fu nominato commissario agli affari esteri: «Emetterò qualche proclama rivoluzionario ai popoli e poi chiuderò bottega». O Lenin, nell’ottobre 1917: «Cosa? Avremo degli affari esteri?»55. La rivoluzione mondiale, però, non ci fu, e Lenin ben presto divenne «un realista politico secondo a nessuno»56. Anzi, Richard Debo sostiene che Lenin abbandonò così in fretta l’idea di diffondere il comuniSmo da far dubitare che l’avesse mai presa sul serio57. Stalin, che gestì la politica estera sovietica per quasi trenfianni dopo la morte di Lenin, fu anch’egli spinto dalla fredda logi­ ca del realismo, come dimostra la sua disponibilità a cooperare con la Germa­ nia nazista tra il 1939 e il 194158. L’ideologia ha avuto scarso peso per i suc­ cessori di Stalin, non solo perché anche su di loro influivano profondamente gli imperativi di vivere in un sistema anarchico, ma anche perché «Stalin ave­ va stroncato la fede radicata nell’universalismo ideologico marxista-leninista uccidendo i suoi più genuini sostenitori e aveva ridotto gli ideologi del partito a pedine propagandistiche per i suoi piani globali»59. In breve, il comportamento sovietico in politica estera nel corso del tempo fu guidato principalmente da calcoli di potere relativo, non dall’ideologia comunista. «Nella sfera internazionale», come rileva Barrington Moore, «i dirigenti comunisti russi hanno fatto largo ricorso a tecniche che devono più a Bismarck, Machiavelli e perfino Aristotele, che a Karl Marx o a Lenin. Il modello di politica mondiale cui si sono ispirati è quello di un sistema in equilibrio intrinsecamente instabile, descritto dal concetto di equilibrio di potenza»60. Con ciò non si vuole affermare che nella condotta della politica estera sovietica l’ideologia comunista non svolse alcun ruolo61. I dirigenti sovietici dedicarono attenzione alla promozione della rivoluzione mondiale negli anni Venti e tennero presente l’ideologia anche nei loro rapporti con il Terzo Mon­ do durante la guerra fredda. Inoltre, spesso non c’era conflitto tra il realismo e i dettami dell’ideologia marxista. L’Unione Sovietica, per esempio, si scontrò con gli Stati Uniti dal 1945 al 1990 per motivi ideologici oltre che di equili­ brio di potenza. Non solo, ma praticamente ogni volta che l’URSS si com­ portò aggressivamente per la sicurezza nazionale, l’azione potè essere giustifi­ cata come promozione della diffusione del comuniSmo. Ma ogni volta che i due approcci entrarono in conflitto, a vincere fu invariabilmente il realismo.

175

La logica di potenza

Gli stati fanno tutto ciò che è necessario per sopravvivere, e da questo punto di vista fUnione Sovietica non ha rappresentato un’eccezione. Obiettivi e rivali

176

Il principale interesse dell’Unione Sovietica era controllare territorio e domi­ nare altri stati in Europa e in Asia Orientale, le due regioni a cavallo delle qua­ li era situata. Fino al 1945, i suoi rivali maggiori in queste aree erano grandi potenze locali. Dopo il 1945, il suo avversario principale sia in Europa sia in Asia divennero gli Stati Uniti, con cui entrò in competizione su tutto il globo. La Germania fu il principale rivale europeo dell’Unione Sovietica tra il 1917 e il 1945, anche se i due paesi furono alleati dal 1922 al 1933 e dal 1939 al 1941. Regno Unito e Francia ebbero relazioni fredde e spesso ostili con Mosca dal tempo della rivoluzione bolscevica fino ai primi anni della seconda guerra mondiale, quando il Regno Unito e l’Unione Sovietica si tro­ varono insieme a combattere i nazisti. Durante la guerra fredda, l’URSS e i suoi alleati esteuropei si schierarono contro gli Stati Uniti e i loro alleati del­ l’Europa Occidentale. L’obiettivo principale della politica estera sovietica per tutto il corso della sua storia fu il controllo dell’Europa Orientale. I dirigenti sovietici avrebbero voluto sicuramente che il loro paese dominasse anche l’Eu­ ropa Occidentale, diventando così il primo egemone europeo, ma questo non fu possibile, nemmeno dopo che l’Armata Rossa ebbe distrutto la Wehrmacht nella seconda guerra mondiale, perché si trovarono la strada sbarrata dalla NATO. In Asia Orientale, il Giappone fu il maggior nemico dell’Unione Sovietica dal 1917 al 1945. Come la Russia zarista, anche l’URSS cercò di arrivare a controllare le Corea, la Manciuria, le isole Curili e la parte meridionale dell’i­ sola di Sakhalin, tutti territori dominati dal Giappone durante il periodo. Quando nel 1945 la seconda guerra mondiale finì, gli Stati Uniti divennero il principale nemico di Mosca in Asia Orientale; la Cina divenne un importante alleato sovietico dopo la vittoria di Mao Zedong sui nazionalisti, nel 1949. Cina e Unione Sovietica, però, attraversarono una grave crisi alla fine degli anni Cinquanta, che portò la Cina ad allearsi con gli Stati Uniti e il Giappone contro l’URSS nei primi anni Settanta. L’Unione Sovietica ottenne il control­ lo sulle Curili e su tutta l’isola di Sakhalin nei 1945, mentre la Manciuria pas­ sò sotto il controllo della Cina dopo il 1949, facendo così della Corea il prin­ cipale campo di battaglia della regione nel corso della guerra fredda. I leader sovietici erano interessati anche a espandersi nella regione del Golfo Persico, soprattutto nell’Iran ricco di petrolio che aveva un confine in

Le grandi potenze in azione

comune con l’Unione Sovietica. Infine, durante la guerra fredda, i responsabi­ li della politica sovietica furono determinati a conquistare alleati e influenza in praticamente ogni area del Terzo Mondo, compreso Africa, America Latina, Medio Oriente, Sudest asiatico e Subcontinente asiatico. Mosca non era però interessata a conquistare e controllare territorio in quelle regioni meno svilup­ pate. Cercava piuttosto stati clienti che sarebbero stati utili nella sua competi­ zione globale con gli Stati Uniti. Storia dell’espansione dell’Unione Sovietica L’Unione Sovietica fu impegnata in una lotta disperata per la sopravvivenza nei primi tre anni della sua esistenza (1917-1920)62. Immediatamente dopo la rivoluzione bolscevica, Lenin fece uscire l’Unione Sovietica dalla prima guerra mondiale, ma per farlo fu costretto a fare immense concessioni territoriali alla Germania con il Trattato di Brest-Litovsk (5 marzo 1918)63. Poco dopo, gli alleati occidentali, che ancora combattevano contro la Germania sul teatro ovest del conflitto, introdussero forze di terra in Unione Sovietica64. Loro sco­ po era costringere l’URSS a riprendere la guerra contro la Germania. Questo non avvenne, in gran parte perché l’esercito tedesco fu sconfitto sul campo sul finire dell’estate del 1918, e l’ l l novembre 1918 la prima guerra mondiale si concluse. La sconfitta tedesca fu un’ottima notizia per i leader sovietici, perché signi­ ficava la morte del Trattato di Brest-Litovsk, che aveva privato l’Unione Sovie­ tica di un vastissimo territorio. I problemi di Mosca, però, erano tutt’altro che finiti. Nei primi mesi del 1918 era scoppiata una sanguinosa guerra civile tra i bolscevichi e vari gruppi rivali. A peggiorare le cose, gli alleati occidentali appoggiavano le forze antibolsceviche, i cosiddetti «Bianchi», nella lotta contro i «Rossi» bolscevichi, mantenendo le loro forze di intervento in territorio sovie­ tico fino all’estate del 1920. Sebbene in qualche momento sembrò che i bolsce­ vichi fossero sul punto di perdere la guerra civile, i rapporti di forza si sposta­ rono decisamente in sfavore dei Bianchi all’inizio del 1920, dopodiché fu solo questione di tempo prima che fossero sconfitti. Ma prima che questo avvenisse, lo stato polacco di recente creazione approfittò della debolezza sovietica per invadere nell’aprile del 1920 l’Ucraina. La Polonia sperava di smembrare l’U­ nione Sovietica e di rendere la Bielorussia e l’Ucraina stati indipendenti. La speranza era che questi nuovi stati avrebbero unito le loro forze a quelle di una federazione di stati orientali indipendenti dominata dalla Polonia. L’esercito polacco riportò importanti vittorie nei primi scontri, occupando Kiev nel maggio 1920. Ma durante l’estate l’Armata Rossa rovesciò la situazio­

ni 77

La logica di potenza

178

ne sul campo, al punto che alla fine di luglio le forze sovietiche raggiungevano il confine sovietico-polacco. Imprevedibilmente, ora i sovietici avevano l’op­ portunità di invadere e conquistare la Polonia e, forse con l’aiuto della Ger­ mania (l’unica altra grande potenza che vedesse male l’esistenza della Polonia), ridisegnare la carta dell’Europa Orientale. Lenin colse al volo l’occasione e inviò l’Armata Rossa verso Varsavia65. Ma l’esercito polacco, con l’aiuto della Francia, mise in rotta le forze di invasione sovietiche ricacciandole dalla Polo­ nia. A quel punto, entrambe le parti erano sfinite dai combattimenti: nell’ot­ tobre 1920 fu firmato l’armistizio trasformato in trattato di pace ufficiale nel marzo 1921. La guerra civile era finita a tutti gli effetti e gli alleati occidentali avevano ritirato le loro truppe dal territorio sovietico66. I leader sovietici non erano in condizione di mettere in atto una politica estera espansionista negli anni Venti e nei primi anni Trenta, soprattutto per­ ché erano occupati a consolidare la propria posizione in patria e a ricostruire un’economia devastata da tanti anni di guerra67. Per esempio, nel 1920 l’U ­ nione Sovietica controllava appena il 2 per cento della potenza industriale europea (vedi Tabella 3.3). Ma Mosca dedicò ugualmente una certa attenzione agli affari esteri. In particolare, mantenne strette relazioni con la Germania dall’aprile 1922, data della firma del Trattato di Rapallo, fino all’inizio del 1933, quando Hitler prese il potere68. Benché entrambi gli stati avessero tutto l’interesse ad alterare lo status quo territoriale, nessuno dei due disponeva di una seria capacità militare offensiva. I dirigenti sovietici fecero anche uno sfor­ zo, negli anni Venti, per diffondere il comuniSmo nel mondo. Ma furono sempre attenti a non provocare le altri grandi potenze, inducendole a muove­ re contro l’Unione Sovietica e a minacciarne la sopravvivenza. Praticamente, tutti gli sforzi per fomentare la rivoluzione, in Asia come in Europa, finirono in un nulla di fatto. Probabilmente, l’iniziativa sovietica più importante degli anni Venti fu la decisione di Stalin di modernizzare l’economia tramite l’industrializzazione forzata e la spietata collettivizzazione dell’agricoltura. A motivarlo erano in gran parte preoccupazioni di sicurezza nazionale. In particolare, egli riteneva che se l’economia fosse rimasta in forte ritardo rispetto agli altri stati indu­ strializzati del mondo, l’Unione Sovietica sarebbe rimasta distrutta in una futura guerra tra grandi potenze. In un discorso del 1931, Stalin dichiarava: «Siamo rimasti indietro di cinquanta o cento anni rispetto ai paesi avanzati. Dobbiamo colmare questa distanza in dieci anni. Se non lo facciamo ci schiacceranno»69. I piani quinquennali, varati a partire dall’ottobre 1928, tra­ sformarono l’URSS dalla grande potenza impoverita che era negli anni Venti nello stato più potente d’Europa alla fine della seconda guerra mondiale.

Le grandi potenze in azione

Gli anni Trenta furono un decennio irto di pericoli per l’Unione Sovietica, che dovette fronteggiare la minaccia mortale della Germania nazista in Europa e del Giappone imperiale in Asia Orientale. Anche se durante la seconda guer­ ra mondiale l’Armata Rossa finì per scontrarsi in una lotta per la vita o la morte con la Wehrmacht, e non con l’esercito nipponico, durante tutti gli anni Trenta il Giappone fu probabilmente la minaccia più pericolosa per l’U ­ nione Sovietica70. In effetti, unità sovietiche e giapponesi ingaggiarono una serie di scontri di frontiera alla fine del decennio, culminati in una breve guer­ ra a Nomonhan nell’estate del 1939. Durante gli anni Trenta, Mosca non fu in condizione di prendere l’offensiva in Asia, ma si concentrò sul contrastare l’espansione giapponese. A questo scopo, i sovietici mantennero una consi­ stente presenza militare nella regione e fornirono notevole assistenza alla Cina dopo lo scoppio del conflitto cino-giapponese nell’estate del 1937. L’obiettivo era mantenere il Giappone impelagato in una guerra di logoramento con la Cina. La strategia principale dell’Unione Sovietica per far fronte alla Germania nazista conteneva un’importante dimensione offensiva71. Evidentemente, Sta­ lin capì ben presto che, con Hitler al potere, la Germania avrebbe con ogni probabilità provocato un conflitto armato tra grandi potenze in Europa e che non c’erano molte chance di ricostituire la Triplice Intesa (Regno Unito, Fran­ cia, Russia) per dissuadere il Terzo Reich o combatterlo qualora la guerra fos­ se scoppiata. Così Stalin adottò la strategia dello scaricabarile. Specificamente, fece di tutto per sviluppare relazioni amichevoli con Hitler, così che il capo nazista colpisse per primi il Regno Unito e la Francia, e non l’Unione Sovieti­ ca. Stalin sperava che la guerra che ne fosse scaturita sarebbe stata lunga e costosa per entrambe le parti, così come la prima guerra mondiale sul fronte occidentale, permettendo all’URSS di guadagnare potere e territorio a spese del Regno Unito, della Francia e soprattutto della Germania. Stalin riuscì infine nell’intento di passare la patata bollente al Regno Unito e alla Francia nell’estate del 1939 con la firma del Patto Molotov-Ribbentrop, in cui Hitler e Stalin si accordavano per coalizzarsi contro la Polonia e spartir­ sela, mentre Hitler accettava di lasciare mano libera all’Unione Sovietica negli stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e in Finlandia. Questo accordo significava che la Wehrmacht avrebbe combattuto contro Regno Unito e Francia e non contro l’URSS. I sovietici si mossero rapidamente per passare all’applicazione del patto. Dopo aver conquistato la metà orientale della Polo­ nia nel settembre 1939, nel mese di ottobre Stalin costrinse i paesi baltici a lasciar stanziare forze sovietiche sul loro territorio. Meno di un anno dopo, nel giugno 1940, l’Unione Sovietica si annetteva i tre piccoli stati. Stalin pretese

179

La logica di potenza

concessioni territoriali dalla Finlandia nell’autunno del 1939, ma i finlandesi rifiutarono di accomodare il potente vicino. Allora, nel novembre 1939, Stalin inviò l’Armata Rossa in Finlandia, riuscendo a prendersi con la forza il territo­ rio che voleva72. Riuscì anche a convincere Hitler, nel giugno 1940, di con­ sentire che l’Unione Sovietica assorbisse la Bessarabia e la Bucovina settentrio­ nale, che facevano parte della Romania. In breve, l’URSS ottenne sostanziali guadagni territoriali in Europa Orientale tra l’estate del 1939 e quella del 1940. La strategia staliniana dello scaricabarile, però, saltò nella primavera del 1940, quando la Wehrmacht travolse in sei settimane la Francia, mettendo in fuga l’esercito britannico dal continente a Dunkerque. La Germania nazista, ora più potente che mai, era in grado di invadere l’Unione Sovietica senza dover preoccuparsi troppo del suo fianco occidentale. Ricordando la reazione di Stalin e dei suoi luogotenenti alla notizia del tracollo sul fronte occidentale, Nikita Kruscev scrisse: «I nervi di Stalin saltarono quando seppe della caduta della Francia [...] la minaccia più opprimente e mortale di tutta la storia incombeva sull’URSS. Ci sentimmo come se dovessimo affrontare quella minaccia tutta da soli»73. L’assalto tedesco arrivò un anno dopo, il 22 giugno 1941. L’Unione Sovietica subì perdite enormi nei primi due anni di guerra ma finì per ribaltare la situazione a sfavore del Terzo Reich, cominciando all’inizio del 1943 a lanciare grandi offensive in direzione ovest, destinazione finale Ber­ lino. L’Armata Rossa non mirava solo a sconfiggere la Wehrmacht e recupera­ re il territorio sovietico perduto. Stalin era determinato anche a conquistare territorio in Europa Orientale, su cui l’Unione Sovietica avrebbe dominato una volta battuti i tedeschi74. L’Armata Rossa doveva conquistare la Polonia e gli stati baltici per sconfiggere l’esercito tedesco, ma i sovietici lanciarono anche importanti operazioni militari per occupare Bulgaria, Ungheria e Romania, anche se tali offensive non erano indispensabili per battere la Ger­ mania e anzi probabilmente ritardarono la vittoria finale. Che i sovietici mirassero ad acquisire potere e influenza anche in Asia Orientale risultò evidente durante la seconda guerra mondiale. Nei fatti, Stalin riuscì a recuperare più territorio di quanto ne controllasse la Russia in Estremo Oriente prima della sconfitta inflittale dal Giappone nel 1905. I sovietici era­ no riusciti a rimanere fuori della guerra nel Pacifico fino agli ultimi giorni del conflitto, quando l’Armata Rossa attaccò l’esercito del Kwangtung in Manciùria, il 9 agosto 1945. L’offensiva era in gran parte una risposta alle pressioni che da tempo venivano dagli Stati Uniti perché i sovietici partecipassero alla guerra con il Giappone una volta sconfitta la Germania. Stalin però chiedeva

Le grandi potenze in azione

un compenso per la partecipazione sovietica e Winston Churchill e Franklin Roosevelt accosentirono stringendo con lui a Yalta un accordo segreto, nel feb­ braio 194575- Per unirsi alla lotta contro il Giappone, i sovietici ricevevano in cambio la promessa delle isole Curili e della metà inferiore delfisola di Sakhalin. In Manciuria, ottennero l’utilizzo di Port Arthur come base navale e il riconoscimento dei «preminenti interessi» dell’Unione Sovietica sul porto commerciale di Dairen e sulle due più importanti ferrovie della regione. Nessuna decisione definitiva sul futuro della Corea fu raggiunta durante la seconda guerra mondiale, ma l’Armata Rossa occupò la parte settentrionale del paese negli ultimi giorni del conflitto76. Nel dicembre 1945, gli Stati Uni­ ti e l’Unione Sovietica concordarono di gestire congiuntamente la Corea come territorio in amministrazione fiduciaria. Ma il piano saltò di lì a poco, e nel febbraio 1946 Stalin cominciò a costruire nella Corea del Nord uno stato satellite. Gli Stati Uniti fecero lo stesso con la Corea del Sud. Con Germania e Giappone in macerie, l’URSS emerse dalla seconda guer­ ra mondiale come potenziale egemone su Europa e Asia Orientale. Se fosse stato reso loro possibile, i sovietici si sarebbero certamente assicurati il domi­ nio su entrambe le regioni. Anzi, se mai una potenza ha avuto buone ragioni per dominare sull’Europa, questo era la Russia sovietica nel 1945. Era stata invasa dalla Germania due volte in trent’anni, e ogni volta la Germania aveva imposto alla sua vittima un enorme tributo di sangue. Nessun leader sovietico responsabile si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di diventare egemone in Europa all’indomani della seconda guerra mondiale. Tuttavia, l’egemonia non era realizzabile per due motivi. Primo, data l’e­ normità dei danni inflitti dal Terzo Reich alla società sovietica, dopo il 1945 Stalin dovette concentrarsi sulla ricostruzione e la ripresa economica e non poteva permettersi un’altra guerra. Per questo motivo ridusse le dimensioni dell’apparato militare sovietico dai 12,5 milioni di uomini della fine del con­ flitto ai 2,87 milioni del 194877. Secondo, gli Stati Uniti erano un paese immensamente ricco che non aveva alcuna intenzione di permettere all’Unio­ ne Sovietica di dominare né l’Europa né l’Asia Orientale78. Alla luce di questi ostacoli, Stalin puntò a espandere il più possibile l’in­ fluenza sovietica senza provocare un conflitto armato con gli Stati Uniti e i suoi alleati79. In realtà, l’evidenza mostra che sperava di evitare un’intensa competizione per la sicurezza con gli Stati Uniti, anche se questo fu un inten­ to che non riuscì a realizzare. In breve, Stalin fu un cauto espansionista nella prima parte della guerra fredda. I suoi quattro principali obiettivi furono l’I­ ran, la Turchia, l’Europa Orientale e la Corea del Sud.

La logica di potenza

182

I sovietici occuparono il nord dell’Iran durante la seconda guerra mondia­ le, mentre i britannici e gli americani occuparono il sud del paese80. Le tre grandi potenze concordarono di evacuare l’Iran entro sei mesi dalla fine della guerra con il Giappone. Gli Stati Uniti ritirarono le loro truppe il 1° gennaio 1946, e quelle britanniche sarebbero dovute uscire dal paese il 2 marzo dello stesso anno. Mosca però non fece alcunché per lasciare l’Iran. Inoltre sostene­ va movimenti separatisti tra le popolazioni azere e curde a nord del paese, nonché il partito comunista iraniano, il Tudeh. Regno Unito e Stati Uniti fecero pressioni su Stalin affinché evacuasse le sue truppe dall’Iran, cosa che avvenne nella primavera del 1946. Per quanto riguarda la Turchia, che durante la seconda guerra mondiale era rimasta neutrale fino al marzo 1945, Stalin rivendicò la restituzione all’Unio­ ne Sovietica delle province turche di Ardahan e Kars, che frai il 1878 e il 1918 erano appartenute alla Russia81. L’URSS richiese anche basi militari in territo­ rio turco così che i sovietici potessero controllare i Dardanelli, gli stretti che uniscono il Mar Nero al Mediterraneo. A sostegno di queste richieste, Stalin ammassò truppe sovietiche al confine turco. Ma queste pretese non ebbero seguito, perché gli Stati Uniti erano determinati a impedire l’espansione sovie­ tica nel Mediterraneo orientale. L’ambito principale dell’espansione sovietica nella prima fase della guerra fredda fu l’Europa Orientale. Ciò era dovuto quasi interamente al fatto che l’Armata Rossa aveva conquistato gran parte dell’area negli stadi conclusivi della seconda guerra mondiale. Estonia, Lettonia e Lituania furono ufficial­ mente incorporate nell’Unione Sovietica dopo la guerra, così come il terzo orientale della Polonia, parte della Prussia orientale, la Bessarabia, la Bucovina settentrionale, la provincia orientale cecoslovacca della Rutenia subcarpatica e tre fette di territorio della frontiera orientale della Finlandia (vedi Carta 6.3). Bulgaria, Ungheria, Polonia e Romania furono trasformate in stati satelliti immediatamente dopo la guerra. La Cecoslovacchia subì la stessa sorte nel febbraio 1948, e un anno dopo i sovietici crearono un altro stato satellite con la Germania Orientale. Finlandia e Yugoslavia furono gli unici stati dell’Europa Orientale a sfuggi­ re al dominio sovietico completo. La loro sorte fu dovuta principalmente a due fattori. Primo, entrambi gli stati avevano dato chiara dimostrazione nella seconda guerra mondiale che sarebbe stato difficile e costoso per l’esercito sovietico conquistarli e sostenere a lungo l’occupazione. L’Unione Sovietica, che si stava riprendendo dagli enormi danni sofferti a opera dei nazisti, era già impegnata a occupare gli altri stati dell’Europa Orientale. E così tendeva a evi­ tare costose operazioni in Finlandia e in Yugoslavia. Secondo, entrambi gli sta-

Le grandi potenze in azione

Carta 6.3 -

l ’e s p a n s io n e s o v ie t ic a in

Eu r o p a

o r ie n t a l e n e l l a p r im a f a s e

D ELLA G U ERRA FREDDA

Y/yy\ Annessi dall’Unione Sovietica | Satelliti sovietici Paesi neutrali

NORVEGIA.

SVEZIA

M ar & Baltico & UNIONE

DANIMARCA

SOVIETICA

PRUSSIA DELL’EST

POLONIA ÌRMANIA1' EST ....

183 GERMANIA

OVEST

'•

iU ftn

, , . ì : : A r " ' àustri J l ® .......'

,

V

••

.......\

UNG HE R I A /

/

iARABIA

Rltenia

SUBCARPATICA ROMANIA

^

K &

YUGOSLAVIA BULGARIA

Mare Mediterraneo

TURCHIA

La logica di potenza

ti 8 4

ti mostravano la volontà di mantenere una posizione neutrale nel conflitto estovest, e pertanto militarmente non costituivano una minaccia per l’URSS. Se la Finlandia o la Jugoslavia fossero apparse propense ad allearsi con la NATO, probabilmente l’esercito sovietico avrebbe proceduto all’invasione82. Durante la prima fase della guerra fredda, l’Unione Sovietica tentò anche di guadagnare potere e influenza in Asia Orientale, pure se questa regione ricevette ovviamente meno attenzione dell’Europa83. Nonostante una certa diffidenza tra Stalin e Mao, i sovietici fornirono aiuti ai comunisti cinesi nella lotta contro le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek. I comunisti cinesi vinse­ ro la guerra civile nel 1949 e si allearono con l’Unione Sovietica contro gli Stati Uniti. Un anno dopo i sovietici sostennero l’invasione della Corea del Sud da parte del Nord, invasione che sfociò in una guerra di tre anni che lasciò la Corea divisa più o meno lungo la stessa linea che separava le due zone prima della guerra84. Nei primi anni Cinquanta gli Stati Uniti e i loro alleati in tutto il mondo avevano messo in atto una solida politica di contenimento, che lasciava poco spazio a ulteriori espansioni sovietiche in Europa, in Asia Orientale e nel Golfo Persico. In pratica, la decisione di Stalin di appoggiare l’invasione nord­ coreana della Corea del Sud alla fine del giugno 1950 fu l’ultimo caso di aggressione sponsorizzata dai sovietici in una di queste aree critiche per il resto della guerra fredda. Gli sforzi sovietici di espansione tra il 1950 e il 1990 restarono limitati al Terzo Mondo, dove riportarono qualche occasionale suc­ cesso, ma sempre incontrando la ferma opposizione degli Stati Uniti85. Dopo decenni di competizione con gli Stati Uniti per il controllo dell’Eu­ ropa, l’Unione Sovietica cambiò improvvisamente rotta nel 1989, abbando­ nando il suo impero in Europa Orientale. Questa mossa audace pose sostan­ zialmente fine alla guerra fredda. Poi, alla fine del 1991, la stessa Unione Sovietica si disgregò in quindici stati. Con poche eccezioni, la prima ondata di studiosi che si sono occupati di questi eventi ha sostenuto che la guerra fredda finì perché dirigenti sovietici chiave, in special modo Mikhail Gorbacev, ope­ rarono una trasformazione radicale nella loro dottrina di politica internaziona­ le durante gli anni Ottanta86. Anziché cercare di massimizzare la quota di potere mondiale dell’Unione Sovietica, i nuovi ideologi moscoviti erano moti­ vati dal perseguimento del benessere economico e dalle norme liberali che limitavano l’uso della forza. I capi sovietici in sostanza avrebbero smesso di pensare e agire da realisti, adottando invece una nuova prospettiva che poneva l’accento sui pregi della cooperazione tra stati. Con il nuovo materiale via via disponibile, però, appare sempre più evi­ dente che la prima spiegazione del comportamento sovietico alla fine della

Le grandi potenze in azione

guerra fredda è quantomeno incompleta, se non errata. L’URSS e il suo impe­ ro sono scomparsi in buona misura perché l’anchilosata economia da età delle ciminiere non era più in grado di stare al passo con il progresso tecnologico delle maggiori potenze economiche del mondo87. Senza iniziative drastiche mirate a ribaltare quel declino economico, gli anni dell’Unione Sovietica come superpotenza non potevano che essere contati. Per risolvere il problema, i leader sovietici cercarono di avere accesso alla tecnologia occidentale, riducendo fortemente la competizione per la sicurezza tra Est e Ovest in Europa, liberalizzando il sistema politico in patria e taglian­ do le perdite nel Terzo Mondo. Ma questo approccio si rivelò controprodu­ cente, perché la liberalizzazione politica scatenò le forze del nazionalismo, da tanto tempo assopite, provocando il disfacimento della stessa Unione Sovieti­ ca88. In sintesi, la visione convenzionale della prima ondata di studi sulla fine della guerra fredda va rovesciata: lungi dall’abbandonare i principi realisti, il comportamento e il pensiero dei leader sovietici rafforzano l’interpretazione della storia secondo cui gli stati tendono a massimizzare potere per garantirsi la sicurezza nei confronti dei rivali internazionali89.

ITALIA (1861-1943) È opinione diffusa tra gli studiosi della politica estera italiana che, benché fos­ se la più debole delle grandi potenze tra il 1861 e il 1943, l’Italia cercò costantemente ogni occasione per espandersi e guadagnare potere90. Richard Bosworth, per esempio, scrive che «l’Italia anteriore al 1914 era una potenza in costruzione, alla ricerca di un affare bell’e pronto che le permettesse di tro­ vare il suo posto al sole fra le grandi potenze»91. La politica estera italiana del primo dopoguerra, dominata da Benito Mussolini, condivideva lo stesso obiettivo fondamentale. L’Italia fascista (1922-1943) si trovò semplicemente di fronte a un diverso insieme di opportunità rispetto allo stato che la prece­ dette, l’Italia liberale (1861-1922). Nel 1938, quattro anni prima della disfat­ ta italiana nella seconda guerra mondiale, Maxwell Macartney e Paul Cremo­ na scrivevano a ragion veduta: «In passato la politica estera italiana non è cer­ to stata dominata da ideali astratti. Le implicazioni del motto di Machiavelli sull’inutilità politica dell’ingenuità mai sono state colte più pienamente che non nel suo paese natale»92.

185

La logica di potenza

Obiettivi e rivali

186

Ci si può fare un’idea della portata dell’appetito italiano per le conquiste terri­ toriali, considerando la quantità dei suoi obiettivi nel corso degli otto decenni in cui fu una grande potenza. L’Italia concentrò le sue mire aggressive su cinque aree diverse: il Nordafrica, con Egitto, Libia e Tunisia; il Corno d’Africa, con Eritrea, Etiopia e Somalia; i Balcani meridionali, con Albania, Corfù, Dodecaneso e parti della Turchia sud-occidentale; l’impero degli Asburgo nella parte sud, con Dalmazia, Istria, Trentino (per gli Austriaci, Tiralo meridionale) e Veneto; e Francia sud-orientale, con Corsica, Nizza e Savoia (vedi Carta 6.4). I principali rivali dell’Italia per il controllo su queste aree furono l’AustriaUngheria (finché questo stato multietnico non si disintegrò nel 1918) nei Bal­ cani, e la Francia in Africa. Ovviamente, l’Italia aveva anche preso di mira ter­ ritori che facevano parte dell’Austria asburgica e della Francia post-rivoluzio­ naria, le quali a lungo «avevano considerato la penisola italiana come campo libero per manovre diplomatiche e militari»93. L’impero ottomano, anch’esso in dissoluzione tra il 1861 e il 1923, anno della sua scomparsa, fu un altro fat­ tore importante nei calcoli italiani: l’impero controllava ampi tratti di territo­ rio nei Balcani e in Nordafrica. Se le mire ostili dell’Italia furono sempre presenti, il suo esercito era però inadeguato all’espansione. Di fatto, si trattò di una forza di combattimento notevolmente inefficiente94. Non solo era incapace di dare buona prova di sé in uno scontro con altre grandi potenze europee, ma ci si poteva attendere che avrebbe dato scarsi risultati anche contro le forze armate di potenze europee minori e contro eserciti indigeni africani. Bismarck centrò bene la situazione quando disse che «l’Italia ha grandi appetiti e denti guasti»95. Di conseguenza, i leader italiani cercarono sempre di evitare un confronto militare diretto con altre grandi potenze, salvo che l’awersario non stesse per perdere una guerra o avesse una parte rilevante delle sue forze impegnata su un altro fronte. A causa della scarsità di doti militari, gli statisti italiani fecero pesantemen­ te leva sulla diplomazia per guadagnare potere. Prestarono sempre grande attenzione a scegliere i partner con cui allearsi e furono particolarmente abili a mettere le altre grandi potenze l’una contro l’altra a vantaggio dell’Italia. In particolare, operarono in base al presupposto che pur non trovandosi con car­ te risolutive in mano, l’Italia possedeva forza militare sufficiente a spostare l’a­ go della bilancia fra le maggiori potenze, le quali, riconoscendo il fatto, erano pronte a concessioni pur di assicurarsi la sua fedeltà. Brian Sullivan definisce questo approccio «la strategia del peso decisivo»96. La prima guerra mondiale probabilmente fornisce la migliore occasione per vedere questa strategia in

Le grandi potenze in azione

Carta 6.4 -

o b ie t t iv i d e l l ’e s p a n s io n e it a l ia n a i n

Eu r o p a

e in a f r ic a

,

18 6 1-19 4 3

ISTRIA

a u s t r ia UN GH ERIA

SVIZZERA

Croazia Bosnia SERBIA [ONT]

[EGRC

IRSICA

SUDAN

’RIPOLITANIA

•CIRi'NAK

IRITANNICA

187

SUDAN

KENYA

azione. Quando il 1° agosto 1914 scoppiò la guerra, l’Italia si tenne fuori del gioco, negoziando con tutte e due le parti belligeranti per strappare le condi­ zioni migliori prima di entrare nel conflitto97. Le due parti fecero generose offerte all’Italia, nella mutua convinzione che l’esercito italiano potesse far

La logica di potenza

pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte. Benché prima della guerra l’Ita­ lia fosse formalmente alleata con l’Austria-Ungheria e la Germania, quando nel maggio 1915 scese in guerra lo fece al fianco degli Alleati, perché Regno Unito e Francia erano disposti a concederle più territorio di quanto non pro­ mettessero i suoi ex alleati. L’espansione dell’Italia liberale efascista I primi tentativi di espansione territoriale l’Italia li fece in Europa. Nel 1866 unì le sue forze a quelle della Prussia per combattere contro l’Austria. I prus­ siani schiacciarono in battaglia gli austriaci, ma gli italiani furono sconfìtti dagli austriaci. Nella definizione degli accordi di pace, l’Italia ottenne il Vene­ to, un’ampia regione alla sua frontiera nord-orientale che faceva parte dell’Au­ stria. Quindi l’Italia assistette in disparte alla guerra franco-prussiana (18701871), ma conquistò Roma nel settembre del 1870 non appena fu chiaro che la Francia, che fino ad allora aveva protetto l’indipendenza del Vaticano, avrebbe perso la guerra con la Prussia. L’Italia, come rileva Denis Mack Smith, «guadagnò così piuttosto casualmente Roma, così come prima Venezia, grazie al sottoprodotto della vittoria prussiana»98. Successivamente all’emergere nel 1875 della questione orientale, quando parve che l’impero ottomano stesse perdendo precipitosamente il controllo sull’Europa sud-orientale, l’Italia cominciò a fare piani per appropriarsi di territori appartenenti all’AustriaUngheria. Ma le trame fallirono e l’Italia uscì a mani vuote dal congresso di Berlino (1878) che pose fine alla prima delle numerose crisi balcaniche. L’Italia spostò l’attenzione dall’Europa all’Africa nei primi anni Ottanta del XIX secolo. Già prima dell’unificazione del 1861 le élite italiane si erano mostrate particolarmente sensibili all’idea di conquistare territorio lungo la costa nordafricana. La Tunisia era il bersaglio numero uno. Ma la Francia batté in volata l’Italia invadendo la Tunisia nel 1881, cosa che inasprì le rela­ zioni tra Italia e Francia nei successivi vent’anni e indusse l’Italia ad aderire alla Triplice Alleanza con l’Austria-Ungheria e la Germania nel 1882. Quello stesso anno l’Italia cercò di accodarsi all’occupazione britannica dell’Egitto ma Bismarck bloccò il piano. Allora l’Italia volse l’attenzione al Corno d’Africa, area cui le altre grandi potenze non prestavano molta attenzione. Una forza di spedizione italiana fu mandata nella regione nel 1885 e nel giro di un decen­ nio l’Italia si accapparrava le sue due prime colonie: l’Eritrea e la Somalia. Non riuscì però a conquistare l’Etiopia: nel 1895, ad Adua, l’esercito etiope inflisse una pesante sconfitta a quello italiano. Nel 1900 l’Italia cercò di nuovo di espandersi in Nordafrica e in Europa. L’opportunità si presentò in entrambe le regioni, con l’impero ottomano che

Le grandi potenze in azione

perdeva la sua presa sulla Libia e sui Balcani. Le relazioni tra Austria-Ungheria e Italia, partner nella Triplice Alleanza, a questo punto si deteriorarono, in gran parte perché si trovarono a essere rivali nei Balcani. La crescente rivalità condusse l’Italia a considerare seriamente l’idea di togliere l’Istria e il Trentino all’Austria-Ungheria. L’Italia entrò in guerra con l’impero ottomano per la Libia nel 1911; quan­ do un anno dopo la guerra finì, l’Italia aveva acquisito il controllo sulla sua terza colonia africana. Durante il conflitto, aveva conquistato anche le isole del Dodecaneso, i cui abitanti erano in grande maggioranza greci. Ma la pri­ ma guerra mondiale offrì all’Italia la sua più grande opportunità per espande­ re la propria potenza e accrescere la propria sicurezza. Come già detto, i responsabili della politica estera italiana contrattarono accanitamente con ambo le parti prima di allearsi con Regno Unito, Francia e Russia. Gli obietti­ vi fondamentali erano assicurarsi una «frontiera terrestre difendibile» con l’Austria-Ungheria e il «dominio dell’Adriatico», il mare che separa l’Italia dai Balcani". Con il Trattato di Londra gli alleati promettevano all’Italia che, a guerra vinta, avrebbe potuto avere: 1) l’Istria, 2) il Trentino, 3) una grossa fet­ ta della costa dalmata, 4) il controllo permanente sulle isole del Dodecaneso, 5) la provincia turca di Adalia, 6) il controllo della città albanese di Valona e dell’area immediatamente circostante, 7) una sfera di influenza sull’Albania centrale100. Quelle italiane, sottolinea A.J.P. Taylor, «non erano esattamente delle modeste pretese»101. Nella prima guerra mondiale l’Italia ebbe più di un milione di morti, ma ne uscì dalla parte vincente. Dopo la guerra, non solo si aspettava di avere quanto le era stato promesso nel 1913, ma vide anche nuove opportunità di espansione nel crollo deU’Austria-Ungheria, dell’impero ottomano e della Russia. Così, come scrive Sullivan, «gli italiani cominciarono a sognare di con­ trollare il petrolio, il grano e le miniere della Romania, dell’Ucraina e del Cau­ caso, e l’istituzione di protettorati sulla Croazia e sulla costa orientale del Mar Rosso»102. Per una varietà di ragioni, però, le grandi ambizioni italiane non si realizzarono mai. Nelle disposizioni finali dei trattati di pace, l’Italia ottenne solo l’Istria e il Trentino, che comunque erano aree strategicamente importan­ ti103. L’Italia continuò anche a occupare il Dodecaneso, su cui ottenne il con­ trollo formale nel 1923 con il Trattato di Losanna. Così, nel sessantennio che trascorse tra l’unificazione e l’ascesa al potere di Mussolini, nell’ottobre 1922, l’Italia liberale acquisì Roma, il Veneto, l’Istria, il Trentino e il Dodecaneso in Europa, e l’Eritrea, la Libia e la Somalia in Afri­ ca. L’Italia fascista si diede subito da fare per accrescere il capitale di conquiste dei suoi predecessori. Nell’agosto 1923, l’esercito di Mussolini invase l’isola

189

La logica di potenza

greca di Corfìi allo sbocco dell’Adriatico, ma la Gran Bretagna costrinse l’Ita­ lia ad abbandonare la sua conquista. Fu presa di mira anche l’Albania, che l’I­ talia aveva occupato durante la prima guerra mondiale, ma che aveva lasciato nel 1920 quando la popolazione locale si era ribellata contro il dominatore straniero. Alla metà degli anni Venti, Mussolini appoggiò un capo locale alba­ nese, che poi firmò un accordo con l’Italia che rendeva l’Albania a tutti gli effetti un protettorato italiano. M a questo non bastava al leader fascista, che si annesse formalmente l’Albania nell’aprile 1939. L’Etiopia era un altro bersaglio chiave per Mussolini. L’Italia cominciò a fare piani per occuparla alla metà degli anni Venti e «almeno dal 1929 comin­ ciò a occupare surrettiziamente posizioni in Etiopia»104. Nell’ottobre 1935 l’I­ talia lanciò una guerra su vasta scala contro l’Etiopia, e un anno dopo guada­ gnava il controllo formale sullo stato africano. Infine, l’Italia mandò truppe a combattere nella guerra civile spagnola (1936-1939) dalla parte della giunta reazionaria del generale Francisco Franco. Obiettivo principale dell’Italia era acquisire le isole Baleari nel Mediterraneo occidentale, che avrebbero permes­ so di minacciare le linee di comunicazione della Francia con il Nordafrica e quelle del Regno Unito tra Gibilterra e Malta105. Mussolini vide nella seconda guerra mondiale un’occasione eccellente per conquistare territorio straniero e aumentare la potenza dell’Italia. In particola­ re, gli stupefacenti successi militari della Germania nazista nei primi anni del­ la guerra «diedero all’Italia influenza e libertà d’azione senza precedenti»106. Il primo passo importante di Mussolini fu dichiarare guerra alla Francia il 10 giugno 1940, un mese dopo che la Germania l’aveva invasa, in un momento in cui era chiaro che la Francia era destinata alla disfatta. L’Italia entrò in guer­ ra al momento opportuno per acquisire territorio e colonie francesi. Nizza, Savoia, Corsica, Tunisia e Gibuti erano gli obiettivi principali, anche se l’Italia era interessata ad appropriarsi anche di altre aree controllate dai francesi come l’Algeria e avamposti dell’impero britannico, come Aden e Malta. Mussolini pretendeva inoltre che la flotta e la forza aerea francesi fossero consegnate all’I­ talia. La Germania, tuttavia, non riconobbe praticamente nessuna delle richie­ ste italiane, perché Hitler non voleva dare alla Francia ulteriori incentivi per resistere all’occupazione nazista. Nonostante la battuta d’arresto, Mussolini continuò a cercare opportunità per conquistare territorio. All’inizio dell’estate del 1940 offrì di unire le sue forze a quelle naziste se la Germania avesse deciso di invadere il Regno Unito. Nell’agosto 1940 occupò la Somalia britannica. Al tempo stesso, Mussolini pensava all’invasione della Grecia, della Yugoslavia e dell’Egitto, difeso da una esigua forza britannica. Nel settembre 1940 Fltalia invase l’Egitto nella speran­

Le grandi potenze in azione

za di raggiungere il canale di Suez. Nel mese seguente, l’Italia invadeva la Gre­ cia. Entrambe le operazioni si tradussero in un disastro militare per l’esercito italiano, anche se la Wehrmacht giunse in soccorso in entrambe le occasio­ ni107. Nonostante questi tracolli militari, nell’estate del 1941 l’Italia dichiarò guerra all’Unione Sovietica, quando sembrava che l’Armata Rossa sarebbe sta­ ta la prossima vittima della macchina bellica nazista. L’Italia spedi circa due­ centomila uomini sul fronte orientale. Anche in questo caso Mussolini sperava di raccogliere parte del bottino della vittoria, ma le sue speranze non si realiz­ zarono mai. L’Italia finì per arrendersi agli Alleati nel settembre 1943. In sintesi, Mussolini, così come i suoi predecessori liberali, fu un incorreg­ gibile espansionista.

COM PORTAM ENTO AUTOLESIONISTA? I quattro casi che abbiamo esaminato —Giappone, Germania, Unione Sovieti­ ca e Italia —confermano l’affermazione secondo cui le grandi potenze cercano di accrescere la propria quota di potere mondiale. Inoltre questi casi mostrano anche che le grandi potenze sono spesso pronte a usare la forza per raggiunge­ re l’obiettivo desiderato. Grandi potenze sazie e soddisfatte sono una rarità nella politica internazionale. Tale descrizione di come si sono comportate le grandi potenze nel corso del tempo, in effetti, non è particolarmente contro­ versa, nemmeno tra i realisti difensivi. Jack Snyder, per esempio, scrive che «l’idea che alla sicurezza si possa pervenire per mezzo dell’espansione è un tema diffusissimo nella strategia delle grandi potenze dell’età industriale»108. Inoltre, in Myths o f Empire, fornisce un esame dettagliato dei casi in cui il comportamento delle grandi potenze nel passato offre abbondanti testimo­ nianze delle loro tendenze offensive. Si potrebbe riconoscere che la storia è ricca di esempi di grandi potenze che si comportano in maniera aggressiva, continuando però a sostenere che questo comportamento non si spiega con la logica del realismo offensivo. La base di questa affermazione, comune tra i realisti difensivi, è che quella dell’e­ spansione è una scelta improvvida. Anzi, la vedono come la via più sicura al suicidio nazionale. La conquista non paga, è il loro argomento, perché gli sta­ ti che cercano di espandersi finiscono per andar incontro alla disfatta. Gli sta­ ti più saggi opterebbero per mantenere lo status quo, perseguendo politiche di «difesa interna, appeasement selettivo, appoggio ad aree vitali anziché periferi­ che, o semplicemente benevola noncuranza»109. Il fatto che gli stati agiscano altrimenti sarebbe segno di comportamento irrazionale o non strategico, com-

191

La logica di potenza

19 2

portamento che non può essere frutto degli imperativi del sistema internazio­ nale. Piuttosto, tale comportamento sarebbe innanzitutto il risultato di male­ vole dinamiche di politica interna110. Questa linea argomentativa presenta due problemi. Come ho già mostrato, le testimonianze storiche non confermano l’idea che difficilmente la conquista paga e che l’aggressore finisce invariabilmente per trovarsi in una situazione peggiore di quella antecedente la guerra. L’espansione a volte paga profumatamente, altre volte no. Inoltre l’affermazione che le grandi potenze si compor­ tino aggressivamente a causa di perniciose politiche interne è difficile da soste­ nere, perché stati di ogni genere, dotati dei sistemi politici più disparati, han­ no adottato politiche militari offensive. Non è nemmeno vero che esiste un tipo di sistema politico o di cultura - democrazia inclusa —che scarti a priori l’idea dell’aggressione e si adoperi invece a mantenere lo status quo. Né i fatti indicano che esistano periodi particolarmente pericolosi - per esempio l’era nucleare — durante i quali le grandi potenze riducono drasticamente le loro tendenze offensive. Sostenere che l’espansione sia intrinsecamente improvvida implica che tutte le grandi potenze degli ultimi 350 anni non siano riuscite a capire come funziona davvero il sistema internazionale. E una tesi evidente­ mente insostenibile. C ’è però una posizione di riserva, più sofisticata, che si può discernere negli scritti dei realisti difensivi111. Benché di norma sostengano che la con­ quista raramente paghi, essi riconoscono anche che in alcune occasioni l’ag­ gressione ha quasi sempre successo. Lavorando su questa prospettiva più varie­ gata, dividono l’universo degli aggressori in «espansori» e «iperespansori». Gli espansori sono sostanzialmente gli aggressori abili che vincono le guerre. Rico­ noscono che solo un’espansione limitata ha senso strategico. I tentativi di dominare un’intera regione hanno buone probabilità di tradursi in un boome­ rang, perché contro uno stato che mostra grandi appetiti si formano invaria­ bilmente coalizioni di bilanciamento, e quello stato finisce per subire deva­ stanti sconfìtte. Gli espansori potranno anche occasionalmente iniziare una guerra che sono destinati a perdere, ma appena vedono la mala parata ripiega­ no rapidamente di fronte alla sconfitta. In sostanza, sono «bravi ad apprende­ re»112. Per i realisti difensivi, Bismarck è l’archetipo dell’abile aggressore, per­ ché vinse una lunga serie di guerre senza commettere l’errore fatale di cercare di diventare egemone europeo. Anche l’ex Unione Sovietica è portata a esem­ pio di aggressore intelligente, soprattutto perché ebbe il buon senso di non cercare di conquistare tutta l’Europa. Gli iperespansori, viceversa, sono gli aggressori irrazionali che iniziano guerre che perderanno ma non hanno il buon senso di tirarsene fuori appena

Le grandi potenze in azione

risulta evidente che sono destinati a perderle. In particolare, sono quelle gran­ di potenze che perseguono accanitamente l’egemonia regionale, il che invaria­ bilmente li porta a una disfatta catastrofica. I realisti difensivi sostengono che questi stati avrebbero tutti i mezzi per agire diversamente, perché la storia insegna che il perseguimento dell’egemonia quasi sempre fallisce. Questo comportamento autodistruttivo, si afferma, non può che essere il risultato di politiche interne distorte. I realisti difensivi di solito indicano tre eminenti iperespansori: la Germania guglielmina dal 1890 al 1914, la Germania nazista dal 1933 al 1941, e il Giappone imperiale dal 1937 al 1941. Ognuno di que­ sti aggressori diede il via a una guerra che si concluse in maniera devastante. Non penso di esagerare se dico che la tesi per cui politiche militari offensive conducono a comportamenti autodistruttivi poggia interamente su questi tre casi. Il problema principale della prospettiva del «moderato è bello» è che iden­ tifica erroneamente l’espansione militare con la sconfitta militare. Il fatto che una grande potenza perda una guerra non significa necessariamente che la decisione di iniziarla fosse il risultato di un processo decisionale disinformato o irrazionale. Gli stati non dovrebbero iniziare una guerra che sono certi di perdere, è ovvio, ma è diffìcile prevedere con un buon grado di certezza quale sarà l’esito di un conflitto armato. A guerra conclusa, saltano fuori i soloni e gli esperti a spiegarci che l’esito finale era ovvio in partenza; il senno di poi ha la vista perfetta. Nella pratica, però, prevedere è difficile, e capita che gli stati sbaglino le previsioni e come risultato vengano puniti. Quindi, per uno stato razionale è possibile iniziare una guerra che alla fine perderà. Il modo migliore per determinare se un aggressore come il Giappone o la Germania fosse affetto da comportamento autolesionista è concentrare la pro­ pria attenzione sul processo decisionale che lo portò a scatenare la guerra, e non sull’esito del conflitto. Un’attenta analisi degli esempi giapponese e tede­ sco rivela che in entrambi i casi la decisione di iniziare la guerra fu una rispo­ sta ragionevole alle particolari circostanze davanti alle quali si trovava ciascuno stato. Come chiarisce l’analisi che segue, non si trattò di decisioni irrazionali alimentate da tendenze politiche malevole sul fronte interno. Presenta anche problemi l’argomentazione collegata per cui perseguire l’e­ gemonia regionale sia come combattere con i mulini a vento. In effetti, gli Stati Uniti sono l’unico stato che abbia tentato, riuscendoci, di conquistare la propria regione. La Francia napoleonica, la Germania guglielmina, la Germa­ nia nazista e il Giappone imperiale tentarono tutti e tutti fallirono. Uno su cinque non è un gran che come percentuale di successi. Eppure, il caso ameri­ cano dimostra che è comunque possibile raggiungere l’egemonia regionale. Si

193

La logica di potenza

194

trovano esempi di successo anche nel lontano passato: l’impero romano in Europa (113 a.C.-235 d.C.), la dinastia Moghul nel subcontinente asiatico (1556-1707) e la dinastia Ch’ing in Asia (1683-1839), per citarne solo qual­ cuno. Inoltre, anche se Bonaparte, Guglielmo II e Hitler persero tutti la scom­ messa di dominare l’Europa, ognuno di essi vinse grandi battaglie sul campo, conquistò enormi territori e fu li li per centrare l’obiettivo. Solo il Giappone aveva scarse probabilità di assicurarsi l’egemonia sul campo. Ma come vedre­ mo, i politici giapponesi sapevano che probabilmente avrebbero perso, ed entrarono in guerra solo perché gli Stati Uniti non avevano lasciato loro alcu­ na alternativa ragionevole. I critici delle politiche di offesa affermano che si formano inevitabilmente coalizioni di bilanciamento per sconfiggere gli aspiranti egemoni, ma la storia mostra che simili coalizioni sono difficili da mettere insieme in maniera tem­ pestiva ed efficace. Gli stati minacciati preferiscono ricorrere vicendevolmente allo scaricabarile anziché formare subito un’alleanza contro il pericoloso nemi­ co. Per esempio, le coalizioni che posero fine alla Francia napoleonica e alla Germania nazista presero vita solo dopo che questi aggressori avevano conqui­ stato gran parte dell’Europa. Inoltre, in entrambi i casi, le alleanze difensive si formarono solo dopo che la spinta all’egemonia era stata drasticamente ridi­ mensionata dalla sconfìtta militare a opera della Russia, che tenne testa sia a Napoleone sia a Hitler senza alleati113. La difficoltà di costruire alleanze difen­ sive efficaci talvolta fornisce agli stati potenti opportunità di aggressione. Infine, non persuade l’idea che le grandi potenze avrebbero dovuto impa­ rare dalla storia che i tentativi di egemonia regionale sono destinati al falli­ mento. Non solo il caso americano contraddice il punto fondamentale, ma in più la tesi è difficilmente applicabile agli stati che fecero il tentativo di rag­ giungere l’egemonia regionale. Dopotutto, avevano pochi precedenti, e le lezioni da trarre dai casi anteriori erano contraddittorie. La Germania guglielmina, per esempio, poteva guardare all’esperienza della Francia napoleonica, fallita, e a quella degli Stati Uniti, riuscita. È difficile sostenere che i responsa­ bili politici tedeschi avrebbero dovuto studiare la storia per capire che sicura­ mente avrebbero perso se avessero tentato di conquistare l’Europa. Si potrebbe comunque insistere che Hitler avrebbe dovuto scegliere altrimenti, perché poteva constatare che la Germania guglielmina come la Francia napoleonica avevano fallito nel tentativo di conquistare l’Europa. Ma, come vedremo, l’in­ segnamento che Hider trasse da questi casi non fu che l’aggressione non paga, ma che non doveva ripetere gli errori dei predecessori, allorché il Terzo Reich avesse compiuto il suo tentativo di egemonia. L’apprendimento, in altre paro­ le, non sempre porta a scegliere l’esito pacifico.

Le grandi potenze in azione

Così, il perseguimento dell’egemonia regionale non è ambizione balzana, anche se è innegabilmente diffìcile da realizzare. Poiché i vantaggi dell’egemo­ nia sono immensi, gli stati più potenti invariabilmente tenderanno a emulare gli Stati Uniti, cercando di dominare sulla loro regione. La Germania guglielmìna (1890-1914) L’accusa rivolta al Kaiserreich di aver praticato un comportamento autolesio­ nista ha due capi di imputazione. Primo, i suoi atti aggressivi spinsero Regno Unito, Francia e Russia a formare un’alleanza - la Triplice Intesa - contro la Germania. Sarebbe quindi colpevole di autoaccerchiamento. Secondo, di fronte a quella coalizione di bilanciamento la Germania iniziò nel 1914 una guerra che era quasi sicura di perdere. Non solo la Germania doveva combat­ tere su due fronti in seguito all’autoaccerchiamento, ma non disponeva nep­ pure di una efficace strategia militare per sconfiggere rapidamente e definitiva­ mente i suoi rivali. Queste accuse non reggono a un esame ravvicinato. Non c’è dubbio che la Germania fece determinate mosse che favorirono la formazione della Triplice Intesa. Come tutte le grandi potenze, la Germania aveva buone ragioni strate­ giche per desiderare di ampliare i propri confini, e talvolta provocò i suoi riva­ li, specie dopo il 1900. Ciononostante, guardando bene come fu formata l’In­ tesa, ci accorgiamo che la principale forza trainante per la sua creazione fu la sua crescente potenza economica e militare, non il suo comportamento aggressivo. Consideriamo che cosa motivò Francia e Russia a unire le proprie forze tra il 1890 e il 1894, e poi che cosa motivò il Regno Unito a unirsi a loro tra il 1905 e il 1907. Come abbiamo visto, tanto la Francia quanto la Russia assi­ stevano con timore al crescere della potenza tedesca durante gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento. Bismarck stesso temeva che potessero formare un’al­ leanza contro la Germania. Quando la Russia minacciò di venire in aiuto del­ la Francia, durante la «crisi della guerra in vista» (1875), Bismarck elaborò una struttura di alleanze destinata a isolare la Francia dalle altre grandi poten­ ze europee. Anche se Bismarck riusci a evitare che Francia e Russia si alleasse­ ro contro la Germania durante i suoi anni in carica, era chiaro che la Russia non sarebbe rimasta ferma a guardare la Germania sconfiggere la Francia, come aveva fatto nel 1870-1871. Anzi, alla fine degli anni Ottanta era eviden­ te che Francia e Russia con ogni probabilità avrebbero stretto un’alleanza con­ tro la Germania nel prossimo futuro, che Bismarck fosse rimasto o meno al potere. Ma la Germania non si comportò in maniera aggressiva negli anni pre-

195

La logica di potenza

cedenti e immediatamente successivi a quando Bismarck lasciò il cancellierato. I suoi successori non produssero alcuna crisi significativa tra il 1890 e il 1900114. Pertanto, è difficile sostenere, in questo caso, che fu un comporta­ mento aggressivo della Germania a provocare il suo autoaccerchiamento115. Si potrebbe affermare che i successori di Bismarck indussero la Russia a unirsi alla Francia non perché si comportarono aggressivamente, ma perché scioccamente mancarono di rinnovare il Trattato di Rassicurazione tra Germa­ nia e Russia. Bismarck aveva negoziato questo accordo nel 1887 in un tentati­ vo disperato di tenere separate Russia e Francia. C ’è però ampia convergenza di vedute tra gli studiosi sul fatto che nel 1890 il trattato fosse ormai lettera morta e che non era disponibile alcuna strategia alternativa. In effetti, W.N. Medlicott afferma che, nonostante il Trattato di Rassicurazione, nel 1887 la «politica russa [di Bismarck] era ormai in macerie»116. Anche se Bismarck fos­ se rimasto al potere dopo il 1890, è improbabile che sarebbe riuscito a sventa­ re l’alleanza franco-russa con un’abile azione diplomatica. «Né Bismarck né un genio politico ancora più grande alla testa della politica estera tedesca», sostie­ ne Imanuel Geiss, «sarebbe probabilmente riuscito a evitare [...] un’alleanza tra Russia e Francia»117. La Francia e la Russia si avvicinarono perché temeva­ no l’ascesa della potenza della Germania, non perché la Germania si compor­ tasse aggressivamente o avventatamente. All’inizio del XX secolo la Germania si comportò effettivamente in modo aggressivo, quando il Regno Unito si uni a Francia e Russia per costituire la Triplice Intesa. Ma anche in questo caso il Regno Unito era motivato più dagli effetti della potenza tedesca che da un suo comportamento aggressivo118. La decisione tedesca del 1898 di dotarsi di una flotta capace di sfidare la mari­ na britannica sicuramente raffreddò le relazioni tra Germania e Regno Unito, ma non al punto da spingere quest’ultimo ad allearsi con la Francia e la Rus­ sia. Dopotutto, il modo migliore che il Regno Unito aveva per affrontare la gara al riarmo navale era vincere la Germania direttamente in mare, non impegnarsi a combattere una guerra di terra con la Germania, che avrebbe imposto di destinare preziose risorse economiche all’esercito sottraendole alla marina. La crisi marocchina del 1905, che fu la prima manifestazione del comportamento apertamente aggressivo tedesco, certamente svolse un ruolo importante nella formazione della Triplice Intesa tra il 1905 e il 1907, ma il fattore principale nella decisione britannica di formare l’alleanza a tre fu la devastante sconfìtta subita dalla Russia nella guerra russo-giapponese (19041905), che poco aveva a che vedere con il comportamento tedesco119. La Rus­ sia con quella sconfitta veniva a tutti gli effetti scalzata dall’equilibrio di potenza europeo, e questo corrispondeva a un radicale miglioramento della

Le grandi potenze in azione

posizione di forza della Germania sul continente120. I dirigenti britannici rico­ nobbero che la Francia da sola non sarebbe bastata in una guerra con la Ger­ mania, e si allearono con la Francia e la Russia per riportare l’equilibrio e con­ tenere la Germania. In sintesi, fu l’alterazione dell’architettura del sistema europeo, e non il comportamento tedesco, la causa principale della Triplice Intesa. La decisione tedesca di andare alla guerra nel 1914 non fu un esempio di stravaganti idee strategiche che indurrebbero uno stato a iniziare un conflitto che sa di perdere. Fu, come abbiamo sottolineato, un rischio calcolato motiva­ to in gran parte dalla volontà della Germania di spezzare l’accerchiamento del­ la Triplice intesa, contrastare la crescita della potenza russa e diventare egemo­ ne in Europa. L’evento che precipitò le cose fu una crisi nei Balcani tra Austria-Ungheria e Serbia, in cui la Germania si schierò con la prima e la Rus­ sia con la seconda. I capi tedeschi capivano chiaramente che avrebbero dovuto combattere una guerra su due fronti e che il Piano Schlieffen non garantiva la vittoria. Ciononostante, pensarono che il gioco valesse la candela, soprattutto in quan­ to la Germania al momento era molto più potente sia della Francia sia della Russia, e c’erano buone ragioni per pensare che il Regno Unito potesse rima­ nere ai bordi del campo121. Le cose dimostrarono che erano quasi nel giusto. Il Piano Schlieffen per poco non permise di raggiungere una vittoria rapida e decisiva nel 1914122. Come rileva il politologo Scott Sagan, fu a giusta ragione che i francesi definirono la loro vittoria in extremis nei pressi di Parigi, nel set­ tembre 1914, il «miracolo della Marna»123. Inoltre la Germania fu sul punto di vincere la guerra di trincea che segui tra il 1915 e il 1918. Gli eserciti del kaiser misero la Russia fuori dalla guerra nell’autunno del 1917 e tennero sul­ la corda l’esercito britannico e ancor più quello francese nella primavera del 1918. Non fosse stato per l’intervento americano all’ultimo momento, la Ger­ mania avrebbe potuto vincere la prima guerra mondiale124. La discussione del comportamento tedesco prima della prima guerra mon­ diale indica un’anomalia rispetto alle predizioni del realismo offensivo. La Germania aveva l’opportunità ideale di guadagnare l’egemonia in Europa nel­ l’estate del 1905. Non solo era un potenziale egemone, ma in più la Russia era messa in ginocchio dalla sconfìtta arrecatale in estremo oriente e non era in condizione di difendersi da un attacco tedesco. Inoltre il Regno Unito non si era ancora alleato con la Francia e la Russia. Quindi la Francia era praticamente sola contro la potenza tedesca, che aveva «un’opportunità senza pari di spostare l’equilibrio europeo a suo favore»125. La Germania però non consi­ derò seriamente l’ipotesi di scendere in guerra nel 1905 ma aspettò fino al

197

La logica di potenza

1914, quando la Russia si era ripresa dalla sconfitta e il Regno Unito aveva unito le sue forze a quelle della Francia e della Russia126. In base al realismo offensivo, la Germania avrebbe dovuto scendere in guerra nel 1905, perché quasi sicuramente ne sarebbe uscita vincitrice. La Germania nazista (1933-1941)

198

L’accusa strategica rivolta a Hitler è che avrebbe dovuto sapere dalla prima guerra mondiale che, se la Germania si fosse comportata in maniera aggres­ siva, si sarebbe formata una coalizione di bilanciamento che l’avrebbe nuo­ vamente costretta a una sanguinosa guerra sui due fronti. Il fatto che Hitler ignorasse questa lezione così evidente e si precipitasse a capofitto nell’abisso, si afferma, deve essere il risultato di un processo decisionale profondamente irrazionale. A un esame attento l’accusa non regge. Anche se è indubbio che a Hitler spetti il posto d’onore nel pantheon degli assassini di massa, la sua malvagità non deve oscurare l’abilità di fine stratega che gli aveva permesso una lunga serie di successi prima di fare, nell’estate del 1941, l’errore fatale di invadere l’Unione Sovietica. Hitler in realtà aveva imparato dall’esperienza della prima guerra mondiale. Aveva concluso che la Germania doveva evitare di combatte­ re contemporaneamente su due fronti e che aveva bisogno di un modo per conseguire vittorie militari rapide e decisive. Nella pratica, realizzò questi obiettivi nei primi anni della seconda guerra mondiale, ed è per questo che il Terzo Reich fu in grado di spargere tanto sangue e tanta distruzione in tutta Europa. Questo caso illustra il punto sull’apprendimento a cui ho già accen­ nato: gli stati sconfitti di norma non concludono che la guerra sia un’impresa futile, ma si sforzano di non ripetere gli stessi errori nella prossima guerra. La diplomazia hitleriana era accuratamente volta a impedire che gli avver­ sari formassero una coalizione di bilanciamento contro la Germania, così che la Wehrmacht potesse batterli uno alla volta127. La chiave del successo era evi­ tare che l’Unione Sovietica unisse le sue forze a quelle del Regno Unito e del­ la Francia, ricreando la Triplice Intesa. Vi riuscì. Anzi, l’URSS aiutò la Wehr­ macht a smembrare la Polonia nel settembre 1939, anche se il Regno Unito e la Francia avevano dichiarato guerra alla Germania per aver invaso la Polonia. Nel corso dell’estate seguente (1940), l’Unione Sovietica si tenne in disparte mentre l’esercito tedesco travolgeva la Francia ed espelleva l’esercito britannico dal continente a Dunkerque. Quando nel 1941 Hitler invase l’Unione Sovie­ tica, la Francia era fuori della guerra, gli Stati Uniti non vi erano ancora entra­ ti e il Regno Unito non costituiva una seria minaccia per la Germania. Così,

Le grandi potenze in azione

la Wehrmacht fu essenzialmente in grado di combattere la guerra su un solo fronte con l’Armata Rossa nel 194112S. Gran parte del successo di Hitler fu dovuto alle macchinazioni dei suoi rivali, ma non c’è dubbio che egli agl abilmente. Non solo mise i suoi avversa­ ri in contrasto tra loro, ma fece anche di tutto per convincerli che la Germa­ nia nazista aveva intenzioni benevole. Come nota Norman Rich: «A nascon­ dere o oscurare quali fossero le sue reali intenzioni, Hitler dedicò non piccola parte delle sue doti diplomatiche e propagandistiche. Nei discorsi pubblici e nei colloqui diplomatici continuò monotonamente a fare il discorso del suo desiderio di pace, firmò trattati di amicizia e patti di non aggressione, profuse a piene mani assicurazioni di buona volontà»129. Hider capiva sicuramente che la retorica roboante del kaiser Guglielmo e degli altri leader tedeschi prima della prima guerra mondiale era stata un errore. Hitler riconobbe anche la necessità di dar vita a uno strumento militare in grado di conseguire rapide vittorie ed evitare le sanguinose battaglie della prima guerra mondiale. A questo scopo sostenne l’istituzione delle divisioni corazzate di panzer e intervenne personalmente nell’elaborare la strategia della guerra lampo che consentì alla Germania di ottenere sulla Francia una delle più stupe­ facenti vittorie militari di tutti i tempi (1940)130. La Wehrmacht riportò anche sorprendenti vittorie contro potenze minori: Polonia, Norvegia, Yugoslavia e Grecia. Come scrive Sebastian Haffner: «Dal 1930 al 1941 Hitler riuscì prati­ camente in tutto ciò che intraprese, in politica interna ed estera e infine anche in campo militare, tra lo stupore costernato del mondo»131. Se Hitler fosse morto nel giugno 1940 dopo la capitolazione della Francia, probabilmente sarebbe passato alla storia come «uno dei piti grandi statisti tedeschi»132. Fortunatamente, Hitler fece l’errore fatale che portò alla distruzione del Terzo Reich. Scatenò la Wehrmacht contro l’Unione Sovietica nel giugno 1941, e questa volta la Blitzkrieg tedesca non riuscì a produrre una vittoria rapida e decisiva. Incominciò invece una barbara guerra di logoramento sul fronte orientale, una guerra che la Wehrmacht finì per perdere. A complicare le cose, nel dicembre 1941 entrarono in guerra gli Stati Uniti, che insieme al Regno Unito aprirono finalmente un secondo fronte a occidente. Date le disa­ strose conseguenze dell’attacco all’URSS, si potrebbe pensare che esistessero già in precedenza abbondanti elementi che lasciassero pensare che l’Unione Sovietica avrebbe vinto la guerra e che Hitler fosse stato ammonito ripetutamente che lanciare l’Operazione Barbarossa equivaleva al suicidio nazionale, ma che lo fece ugualmente perché non era un calcolatore razionale. Le prove, però, non confermano questa interpretazione. L’élite tedesca non si mostrò affatto contraria alla decisione di Hitler d’invadere l’Unione Sovieti­

199

La logica di potenza

200

ca, anzi, la mossa suscitò notevole entusiasmo133. Certamente vi furono alcuni generali che erano insoddisfatti di aspetti importanti del piano finale, e alcuni tra i pianificatori e i politici pensavano che l’Armata Rossa potesse non soc­ combere alla guerra-lampo tedesca. Ciononostante, alfinterno dell’élite tede­ sca l’opinione generale era che la Wehrmacht avrebbe sbaragliato i sovietici, come un anno prima aveva battuto gli eserciti britannico e francese. Anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti si dava ampiamente per scontato che nel 1941 la Germania avrebbe sconfitto l’Unione Sovietica134. E in effetti c’erano buoni motivi per pensare che l’Armata Rossa non avrebbe retto all’assalto tedesco. Le massicce purghe staliniane dei vertici dell’esercito alla fine degli anni Trenta ne avevano ridotto sensibilmente la capacità di combattimento, e quasi a confer­ mare la cosa l’Armata Rossa non diede buona prova di sé nella guerra contro la Finlandia (1939-1940)135. In più, nel giugno 1941 la Wehrmacht era ormai una forza di combattimento dalla perfetta messa a punto. Alla fine, Hitler e i suoi luogotenenti semplicemente sbagliarono i calcoli sull’esito finale dell’O ­ perazione Barbarossa. Presero una decisione errata, non irrazionale, e questa, in politica internazionale, è una cosa che capita. Un’ultima considerazione sui due falliti tentativi della Germania di acqui­ sire l’egemonia. Durante la guerra fredda Haffner scrisse della diffusa convin­ zione che fosse stato «un errore fin dall’inizio», per la Germania, il tentativo di dominare l’Europa136. Sottolineava che gli esponenti della «generazione più giovane» di quella che era allora la Germania Occidentale «spesso guardano i loro padri e nonni come se fossero stati degli squilibrati solo a proporsi un simile obiettivo». Egli nota però che «va ricordato che la maggioranza di quei padri e nonni, ossia la generazione della prima e della seconda guerra mondia­ le, vedevano quell’obiettivo come ragionevole e raggiungibile. Da esso furono ispirati e non raramente per esso morirono». Il Giappone imperiale (1937-1941) L’accusa di iperespansionismo rivolta al Giappone si riduce in sostanza alla nefasta decisione di dare il via a una guerra con gli Stati Uniti, che nel 1941 vantavano un potere potenziale circa otto volte superiore a quello del Giappo­ ne (vedi Tabella 6.2) e poterono assestare una sconfitta devastante agli aggres­ sori giapponesi. È vero che il Giappone si era scontrato con l’Armata Rossa nel 1938 e nel 1939, uscendone sconfitto entrambe le volte. Ma il risultato fu che il Giappo­ ne smise di provocare l’Unione Sovietica e i confini tra di loro rimasero tran­ quilli fino agli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, quando il destino

Le grandi potenze in azione

Tabella 6.2 -

Regno Unito Germania Francia Russia Austria Italia Stati Uniti Giappone

q u o t e r e l a t iv e d e l l a r ic c h e z z a

m o n d ia l e ,

18 3 0 -19 4 0

1830

1840

1850

1860

1870

1880

1890

1900

1910

1913

1920

1930

1940

47% 4% 18% 13% 6%

57% 4% 14% 8% 6%

59% 3% 10% 6% 6%

59% 9% 12% 3% 4% 0% 13% 0%

53% 13% 11% 2% 4% 0% 16% 0%

45% 16% 10% 2% 3% 0% 23% 0%

23% 16% 8% 3% 4% 1% 35% 0%

23% 21% 7% 6% 4% 1% 38% 0%

15% 20% 6% 5% 4% 1% 48% 1%

14% 21% 6% 6% 4% 1% 47% 1%

16% 14% 5% 1%

11% 14% 9% 6%

11% 17% 4% 13%

-

-

-

12% -

12% -

15% -

_

1% 62% 2%

_

2% 54% 4%

_

2% 49% 6%

Nota: la «ricchezza» è misurata con lo stesso indicatore composto usato nella Tabella 3.3. Si noti che qui la ricchezza mondiale è la somma delle potenze riportate. Le potenze minori non sono incluse, salvo gli Stati Uniti nel XIX secolo, quando non erano ancora una grande potenza. Fonti: tutti i dati derivano da J. David Singer e Melvin Small, National M aterial Capabilities Data, 18161985, Inter-University Consortium for Politicai and Social Research, Ann Arbor, February 1993.

del Giappone era chiaramente segnato. È anche vero che il Giappone nel 1937 invase la Cina, rimanendo coinvolto in una guerra prolungata che non fu in grado di vincere. Però, non solo il Giappone fu trascinato controvoglia in quel conflitto, ma i suoi leader erano convinti che la Cina, che al tempo era tutù altro che una formidabile potenza militare, sarebbe stata sconfitta agevol­ mente. Anche se avevano torto, la mancata vittoria del Giappone in Cina non fu affatto un fallimento catastrofico. Né la guerra cino-giapponese fu il cata­ lizzatore che mise gli Stati Uniti in rotta di collisione con il Giappone137. I responsabili americani erano chiaramente contrariati dall’aggressione giappo­ nese alla Cina, ma gli Stati Uniti rimasero in disparte mentre la guerra si intensificava. In pratica, non fecero molti sforzi per aiutare la Cina fino al 1938 inoltrato, e anche allora offrirono ai cinesi in difficoltà solo un pacchet­ to limitato di aiuti economici138. Due eventi eccezionali in Europa - la caduta della Francia nel giugno 1940 e soprattutto l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno 1941 - spinsero gli Stati Uniti ad affrontare il Giappone, il che portò infine a Pearl Harbor. Come scrive Paul Schroeder: «Gli Stati Uniti non considerarono seriamente l’idea di fermare l’avanzata giapponese con la forza delle armi, né videro nel Giappone un vero nemico finché la guerra in Estremo Oriente non divenne chiaramente collegata alla ben più grande (e, per gli Stati Uniti, più importante) guerra in Europa». In particolare, fu «l’opposizione a Hitler ciò che cominciò a condizionare la politica americana in Estremo Oriente più di ogni altro fattore»139.

201

La logica dì potenza

202

La vittoria della Wehrmacht in Occidente non solo mise la Francia e i Pae­ si Bassi fuori dallo scacchiere della guerra, ma costrinse anche un Regno Uni­ to fortemente indebolito a concentrarsi sull’impegno di difendersi da un assal­ to tedesco dall’aria e dal mare. Poiché quelle tre potenze europee controllava­ no la maggior parte del Sudest asiatico, ora quella regione ricca di risorse diventava caccia aperta per l’espansione giapponese. E se il Giappone avesse conquistato il Sudest asiatico, avrebbe potuto bloccare parte considerevole degli aiuti che arrivavano alla Cina, cosa che avrebbe aumentato le prospettive di vittoria del Giappone sul continente asiatico140. E se avesse controllato la Cina e il Sudest asiatico oltre alla Corea e alla Manciuria, il Giappone si sareb­ be trovato a dominare la maggior parte dell’Asia. Gli Stati Uniti erano deter­ minati a sventare questa prospettiva, e così nell’estate del 1940 cominciarono a darsi da fare per scoraggiare l’ulteriore espansione del Giappone. Il Giappone, ansioso di evitare uno scontro con gli Stati Uniti, si mosse con cautela nel Sudest asiatico. All’inizio dell’estate del 1941, solo la parte set­ tentrionale dell’Indocina era sotto il controllo del Giappone, anche se Tokyo era riuscita a far sì che il Regno Unito chiudesse la Burma Road tra luglio e ottobre 1940 e che gli olandesi continuassero a fornire petrolio. Alla metà di giugno del 1941 sembrò che «se anche c’erano scarse speranze di un vero accordo» tra Giappone e Stati Uniti «restava la possibilità che si potesse rag­ giungere una sorta di accomodamento limitato e temporaneo»141. In quel momento non sembrava probabile che di lì a sei mesi le due potenze sarebbe­ ro scese in guerra. L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica il 22 giugno 1941, però, alterò radicalmente le relazioni tra il Giappone e gli Stati Uniti, spingendo i due paesi sulla via della guerra142. La maggioranza dei responsabili della politica statunitense, come si è detto, credevano che la Wehrmacht avrebbe sconfitto FArmata Rossa, facendo così della Germania l’egemone europeo. Una vittoria nazista avrebbe lasciato anche l’egemonia sull’Asia al Giappone, poiché l’U­ nione Sovietica era l’unica grande potenza in Asia con un esercito in grado di controllare il Giappone143. Così, se i sovietici avessero perso con i tedeschi, gli Stati Uniti si sarebbero trovati ad affrontare egemoni ostili in Asia e in Euro­ pa. E logico che gli Stati Uniti tendessero a scongiurare questo scenario da incubo: per far ciò l’URSS doveva sopravvivere all’assalto tedesco nel 1941 e a ogni futura offensiva della Germania. Purtroppo per lui, il Giappone nel 1941 si trovava nella condizione di incidere sulle chance di sopravvivenza dell’Unione Sovietica. In particolare, i policymaker americani temevano che il Giappone attaccasse l’URSS da orien­ te aiutando la Wehrmacht a finire l’Armata Rossa. Non solo la Germania e il

Le grandi potenze in azione

Giappone erano formalmente alleati nel Patto Tripartito, ma in più gli Stati Uniti erano informati che il Giappone stava studiando un attacco all’Unione Sovietica, contro cui aveva combattuto appena due anni prima144. Per impedi­ re questa evenienza, gli Stati Uniti nella seconda metà del 1941 esercitarono fortissime pressioni economiche e diplomatiche sul Giappone. Lo scopo però non era semplicemente dissuadere il Giappone dall’attaccare l’Unione Sovieti­ ca, ma anche di costringerlo ad abbandonare la Cina, l’Indocina e possibil­ mente la Manciuria, e più in generale ogni eventuale ambizione di dominare l’Asia145. In breve, gli Stati Uniti impiegarono una massiccia pressione coerci­ tiva sul Giappone per trasformarlo in una potenza di secondo piano. Gli Stati Uniti erano in buona posizione per esercitare coercizione sul Giappone. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, il Giappone importava dagli USA l’80 per cento del fabbisogno di idrocarburi, più del 90 per cento della benzina, più del 60 per cento dei macchinari di precisione e quasi il 75 per cento dei rottami di ferro146. Questa dipendenza lo lasciava esposto a un embargo americano che ne avrebbe messo in ginocchio l’economia e minac­ ciato la sopravvivenza. Il 26 luglio 1941, mentre per l’Armata Rossa le cose sul fronte orientale si mettevano male e il Giappone aveva appena occupato il sud dell’Indocina, gli Stati Uniti e i loro alleati congelarono i beni giapponesi, il che portò a un devastante embargo a tutto campo contro il Giappone147. Gli Stati Uniti chiarirono con il Giappone che avrebbe potuto evitare lo strango­ lamento economico solo abbandonando la Cina, l’Indocina ed eventualmente la Manciuria. L’embargo poneva il Giappone di fronte a una terribile scelta: o cedere alle pressioni americane e accettare un significativo ridimensionamento della pro­ pria potenza, o entrare in guerra con gli Stati Uniti, pur sapendo che una vit­ toria americana sarebbe stata l’esito più probabile148. Non sorprende che nel­ l’estate e nell’autunno del 1941 i leader giapponesi cercassero di trovare un accordo con gli Stati Uniti. Erano disposti, affermavano, a evacuare l’Indocina una volta che fosse stata raggiunta una «pace giusta» in Cina, e a ritirare tutte le truppe giapponesi dalla Cina entro venticinque anni dalla firma della pace tra Cina e Giappone149. Ma i governanti americani tennero duro, rifiutandosi di fare qualsiasi concessione ai giapponesi sempre più disperati150. Gli Stati Uniti non avevano intenzione di lasciare che il Giappone minacciasse l’Unio­ ne Sovietica né nel 1941 né successivamente nel corso della guerra. In pratica, ai giapponesi sarebbero stati spuntati gli artigli comunque, o con le buone o con le cattive: stava a loro scegliere151. Il Giappone optò per attaccare gli Stati Uniti, sapendo perfettamente che probabilmente avrebbe perso, ma convinto di poter tenere a bada il nemico in

203

La logica di potenza

una guerra prolungata, fino a costringerlo ad abbandonare il conflitto. Per esempio, la Wehrmacht, che arrivò alle porte di Mosca nel novembre 1941, avrebbe potuto battere definitivamente l’Unione Sovietica, costringendo così gli Stati Uniti a concentrare il grosso dell’attenzione e delle risorse in Europa e non in Asia. Inoltre l’apparato bellico americano nell’autunno del 1941 era una macchina piuttosto inefficiente e poteva essere ulteriormente indebolito da un attacco di sorpresa giapponese152. A parte le capacità militari, non era certo che gli Stati Uniti avessero la volontà di combattere se attaccati. Dopo­ tutto, gli USA non avevano fatto molto per fermare l’espansione giapponese negli anni Trenta e l’isolazionismo rimaneva in America una potente forza ideologica. Ancora nell’agosto del 1941, l’estensione di un anno della leva per gli arruolati nel 1940 passò alla Camera per un solo voto153. Ma i giapponesi non erano degli irresponsabili. Sapevano che erano forti le probabilità che gli Stati Uniti avrebbero combattuto, e anche che avrebbero vinto la guerra. Il Giappone era però disposto a correre questo incredibile azzardo, perché cedere alle imposizioni americane appariva un’alternativa ancora peggiore. Sagan espone bene il punto: «Il tema persistente dell’irrazio­ nalità giapponese è fortemente fuorviarne [...] La decisione giapponese a favore della guerra appare una scelta razionale. Se si esaminano più attenta­ mente le decisioni prese a Tokyo nel 1941, non si trova una corsa scriteriata al suicidio nazionale, bensì un prolungato, sofferto dibattito tra due alternative altrettanto odiose»154.

LA CORSA AGLI ARMAMENTI NUCLEARI 204

Il mio test finale del realismo offensivo consiste nell’esaminare se la previsione che le grandi potenze cerchino la superiorità nucleare sia corretta. La posizio­ ne opposta, che si identifica strettamente con quella dei realisti difensivi, è che una volta che rivali dotati di armamenti nucleari si trovino a operare in un mondo MAD —un mondo cioè in cui ciascuna delle due parti ha la capacità materiale di distruggere l’altra, una volta assorbito lo shock del primo attacco - essi dovrebbero accettare spontaneamente lo status quo e non cercare di assi­ curarsi il vantaggio nucleare. Gli stati quindi non dovrebbero dotarsi di armi nucleari tattiche o di sistemi difensivi in grado di neutralizzare la capacità di rappresaglia dell’altra parte e indebolire l’operare del MAD. Un esame delle politiche nucleari delle superpotenze durante la guerra fredda fornisce un caso ideale per valutare le due prospettive realiste contrapposte.

Le grandi potenze in azione

I documenti storici evidenziano che il realismo offensivo dà la migliore spiegazione disponibile delle politiche nucleari di Stati Uniti e Unione Sovie­ tica durante la guerra fredda. Nessuna delle due superpotenze accettò il consi­ glio dei realisti difensivi sulle virtù del MAD. Entrambe le parti invece svilup­ parono e impiegarono vasti e sofisticati arsenali offensivi, o per guadagnare un margine di vantaggio nucleare o per impedire all’altra parte di farlo. Inoltre ciascuna delle due parti cercò di sviluppare difese contro le armi nucleari del­ l’altra e di elaborare strategie idonee a combattere e vincere un conflitto nucleare. La politica nucleare americana La corsa agli armamenti nucleari tra le superpotenze non emerse in tutta la sua serietà fino a circa il 1950. Gli Stati Uniti godettero del monopolio nucleare nei primi anni della guerra fredda, dato che l’Unione Sovietica arrivò a fare esplodere il suo primo ordigno atomico solo nell’agosto 1949. Di con­ seguenza, concetti come quello di counterforce erano irrilevanti alla fine degli anni Quaranta, perché l’URSS semplicemente non aveva armi nucleari che gli Stati Uniti potessero prendere a bersaglio. La maggiore preoccupazione degli strateghi americani durante questo periodo era come impedire all’Armata Ros­ sa di conquistare l’Europa Occidentale. Erano convinti che il modo migliore per affrontare questa minaccia fosse lanciare una campagna di bombardamen­ ti nucleari contro la capacità industriale sovietica155. In sostanza, la strategia era una «estensione» delle campagne di bombardamenti strategici contro la Germania nella seconda guerra mondiale, anche se «fortemente compresse nel tempo, amplificate negli effetti e ridotte nei costi»156. Quando anche i sovietici costruirono la bomba atomica, gli Stati Uniti cer­ carono di sviluppare la capacità di primo colpo devastante —un attacco, cioè, che avrebbe distrutto preventivamente ogni capacità nucleare dei sovietici con un solo fendente. La politica nucleare americana degli anni Cinquanta fu defi­ nita di massive retaliation, anche se la denominazione è probabilmente errata, in quanto «rappresaglia» sembrerebbe voler dire che i piani degli Stati Uniti prevedessero di ricevere un attacco nucleare dall’Unione Sovietica prima di colpirla a loro volta157. In realtà, tutto nella documentazione disponibile con­ ferma che gli Stati Uniti intendevano essere i primi, in caso di crisi, a sgancia­ re bombe nucleari per annientare la piccola forza nucleare sovietica prima che potesse staccarsi da terra. Il generale Curtis LeMay, capo dello Strategie Air Command (SAC), chiarì il punto alla metà degli anni Cinquanta, dichiarando che la vulnerabilità dei bombardieri del SAC - motivo di preoccupazione a

205

La logica di potenza

2 06

quel tempo - non lo agitava troppo, perché il suo copione per una guerra nucleare prevedeva che gli Stati Uniti colpissero per primi e disarmassero FURSS. «Se vedo che i russi ammassano aerei per un attacco», disse, «li faccio a pezzi ancora prima che si stacchino da terra»158. Sarebbe quindi più esatto definire la politica nucleare USA durante gli anni Cinquanta come «preven­ zione massiccia» anziché rappresaglia massiccia. A parte questo, il punto chia­ ve è che in quel decennio gli Stati Uniti erano impegnati a guadagnare la superiorità nucleare sull’Unione Sovietica. Nonostante questo, gli Stati Uniti non raggiunsero la capacità di first strike contro l’arsenale nucleare sovietico né negli anni Cinquanta né nei primi Ses­ santa. Certo, se in questo periodo gli Stati Uniti fossero stati i primi a colpire in un conflitto nucleare, avrebbero inflitto molto più danno all’URSS che non viceversa. E gli strateghi americani certamente previdero plausibili scenari a loro favorevoli, in cui un primo attacco USA avrebbe eliminato pressoché interamente la forza di rappresaglia sovietica, sollevando dubbi sulla effettiva capacità di risposta dell’Unione Sovietica. Eppure, molti policymaker america­ ni al tempo ritenevano che gli Stati Uniti avrebbero subito danni inaccettabili in una guerra nucleare con l’URSS, quando anche quei danni non fossero arrivati alla distruzione totale degli Stati Uniti160. All’inizio degli anni Sessanta, però, fu chiaro che la crescita per dimensioni e varietà dell’arsenale nucleare sovietico avrebbe presto reso impossibile agli Stati Uniti, data la tecnologia esistente, di pensare seriamente a disarmare l’URSS con un primo attacco atomico161. Mosca stava mettendo a punto una solida e invulnerabile capacità di second strike, che avrebbe gettato le due superpotenze nel pieno di un mondo MAD. Come videro i responsabili ame­ ricani questo sviluppo, e come vi reagirono? Non solo ne furono profondamente contrariati, ma per il resto della guerra fredda dedicarono notevoli risorse a trovare un modo per sfuggire alla logica MAD e guadagnare il van­ taggio nucleare sull’Unione Sovietica. Si consideri il numero di obiettivi sovietici che gli Stati Uniti progettavano di colpire in una guerra nucleare: si trattava di una quantità che andava ben al di là dei limiti del MAD. Era opinione comune che per avere la capacità di distruzione assicurata, gli Stati Uniti, assorbito il primo colpo sovietico, dove­ vano essere in grado di distruggere circa il 30 per cento della popolazione del­ l’Unione Sovietica e circa il 70 per cento della sua industria162. Questo livello di distruzione era raggiungibile radendo al suolo le 200 maggiori città dell’U ­ nione Sovietica. Un compito che richiedeva ordigni per circa 400 megatoni, ovvero un equivalente misto di armi convenzionali e megatoni (di seguito indicato con la sigla EM T). Ma il numero effettivo degli obiettivi sovietici che

Le grandi potenze in azione

gli Stati Uniti si proponevano di distruggere superava di gran lunga le 200 città richieste per la mutua distruzione assicurata. Per esempio, il SIOP-5, il piano militare sulhimpiego di armi nucleari che entrò in vigore in 1° gennaio 1976 elencava 25.000 obiettivi potenziali163. Il SIOP-6, approvato dall’ammi­ nistrazione Reagan il 1° ottobre 1983, conteneva addirittura 50.000 bersagli potenziali. Anche se non hanno mai acquisito la capacità di colpire contemporanea­ mente tutti questi obiettivi, gli Stati Uniti hanno dispiegato un enorme arse­ nale di armi nucleari, che è cresciuto costantemente per dimensioni dagli anni Sessanta fino alla fine della guerra fredda nel 1990. Inoltre, gran parte di quel­ le armi avevano significative capacità offensive, perché gli strateghi americani non si accontentavano di incenerire 200 città sovietiche, ma erano decisi a distruggere anche gran parte della capacità di rappresaglia dell’Unione Sovieti­ ca. Per esempio, 3.127 bombe e testate nucleari erano presenti nell’inventario USA nel dicembre 1960, quando il SIOP-62 (il primo SIOP) fu approvato164. Ventitré anni dopo, quando entrò in vigore il SIOP-6, l’arsenale nucleare stra­ tegico era giunto ad annoverare ben 10.802 ordigni. Sebbene gli Stati Uniti avessero bisogno di una forza di rappresaglia piuttosto ampia a scopo di reci­ proca distruzione assicurata — perché doveva presumere che parte delle sue armi nucleari andassero distrutte in un primo attacco sovietico - è indubbio che la dimensione dell’arsenale nucleare americano durante gli ultimi venti­ cinque anni della guerra fredda è andato ben al di là dei 400 EM T necessari per distruggere 200 città sovietiche. Gli Stati Uniti spinsero anche con forza per sviluppare tecnologie che avrebbero dato loro il vantaggio nucleare decisivo. Per esempio, fecero il pos­ sibile per accrescere la letalità delle sue armi di counterforce, cioè destinati esclusivamente all’infrastruttura militare avversaria. Gli Stati Uniti erano par­ ticolarmente interessati a perfezionare la precisione dei missili, un’esigenza che gli ingegneri hanno affrontato con risultati molto soddisfacenti. L’America è sta­ ta anche all’avanguardia nello sviluppo delle rampe di lancio MIRV (Multiple Independently targeted Re-entry Vehicles), che hanno permesso di aumentare significativamente il numero delle testate strategiche a disposizione. Alla fine della guerra fredda «la capacità di distruzione di bersagli fissi» (hard-target kill capability) dei missili balistici USA - ossia la capacità offensiva statunitense aveva raggiunto il punto in cui era in dubbio la possibilità di sopravvivenza dei silos missilistici di terra dell’Unione Sovietica. Washington investì anche pesantemente nella protezione dagli attacchi dei suoi sistemi di comando e controllo, accrescendo così la propria capacità di condurre una guerra nuclea­ re controllata. Inoltre gli Stati Uniti spinsero con forza, ma senza successo, per

207

La logica di potenza

208

lo sviluppo di efficaci difese antinucleari mediante missili balistici. Talvolta i policymaker americani hanno detto che scopo ultimo delle difese missili­ stiche è uscire da un mondo nucleare basato sull’offesa, per raggiungerne uno più sicuro, orientato alla difesa; ma la verità è che vogliono le difese necessarie a facilitare il compito di vincere una guerra nucleare con costi accettabili165. Infine, gli Stati Uniti hanno trovato un’alternativa alla strategia della rap­ presaglia incontrollata che, speravano, avrebbe consentito loro di condurre e vincere una guerra nucleare con l’Unione Sovietica. Questa strategia alternati­ va fu formulata per la prima volta nel 1961 dall’amministrazione Kennedy e prese il nome di «opzioni nucleari limitate»166. La nuova politica partiva dal presupposto che nessuna delle due superpotenze era in grado di eliminare la capacità di distruzione assicurata dell’altra parte, ma che esse potevano comunque impegnarsi in scambi nucleari limitati con i loro armamenti di counterforce. Gli Stati Uniti avrebbero evitato di colpire le città sovietiche in modo da limitare le morti di civili e si sarebbero invece concentrati sull’obiet­ tivo di conseguire la vittoria dominando l’Unione Sovietica negli scambi nucleari limitati che erano il nocciolo della strategia. La speranza era che i sovietici combattessero secondo le stesse regole. Questa nuova politica fu codi­ ficata nel SIOP-63 che entrò in vigore il 1° agosto 1962. Si succedettero quat­ tro altri importanti SIOP nel corso del resto della guerra fredda, e ogni nuovo SIOP, essenzialmente, prevedeva opzioni offensive più limitate, più precise e più selettive di quello che lo precedeva, oltre a miglioramenti nella struttura di comando e controllo che avrebbe facilitato la condotta di una guerra nucleare limitata167. Fine ultimo di questi perfezionamenti, naturalmente, era assicura­ re che gli Stati Uniti avessero un vantaggio decisivo sull’Unione Sovietica in caso di guerra nucleare168. In sintesi, abbiamo prove inconfutabili che gli Stati Uniti non hanno mai abbandonato gli sforzi per guadagnare la superiorità nucleare durante gli ulti­ mi venticinque anni della guerra fredda169. Ciononostante, il margine guada­ gnato sui sovietici non fu mai significativo. Anzi, non si avvicinò neppure lon­ tanamente al vantaggio goduto dagli USA sull’URSS negli anni Cinquanta. La politica nucleare sovietica Anche se della versione sovietica della storia conosciamo meno di quanto sap­ piamo deH’America, non è difficile determinare se i sovietici cercassero un vantaggio nucleare sugli Stati Uniti o se si accontentassero di vivere in un mondo MAD. Non solo abbiamo i dettagli sulla dimensione e la composizio­

Le grandi potenze in azione

ne dell’arsenale nucleare sovietico nel corso della guerra fredda, ma abbiamo anche accesso a un’abbondante letteratura sovietica che espone il pensiero di Mosca sulla strategia nucleare. L’Unione Sovietica, come gli Stati Uniti, si dotò di un massiccio arsenale con capacità di counterforce in abbondanza170. I sovietici, però, partirono in ritardo. La loro prima bomba atomica non esplose che nell’agosto 1949, e negli anni Cinquanta il loro arsenale crebbe lentamente. In questo decennio l’Unione Sovietica rimase indietro rispetto agli Stati Uniti nello sviluppare e dispiegare le armi nucleari e i sistemi per lanciarle. Nel 1960 l’inventario sovietico conteneva solo 354 ordigni nucleari strategici, contro i 3127 degli Stati Uniti171. Ma la forza sovietica crebbe rapidamente negli anni Sessanta. Nel 1970 il numero era salito a 2216; dieci anni dopo a 7480. Nonostante il nuovo corso del presiden­ te sovietico Mikhail Gorbacev, negli anni Ottanta l’Unione Sovietica aggiunse quasi 4000 bombe e testate al suo inventario atomico, raggiungendo le 11.320 armi nucleari strategiche nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino. La maggior parte degli strateghi sovietici riteneva evidentemente che il paese doveva essere pronto a combattere e vincere una guerra nucleare172. Ciò non vuol dire che i leader sovietici fossero ansiosi di trovarsi in una simile guerra o che fossero sicuri di poter conseguire una vittoria che avesse un signi­ ficato. Gli strateghi sovietici capivano che la guerra nucleare avrebbe compor­ tato distruzioni inimmaginabili. Ma erano determinati a limitare i danni inflitti all’Unione Sovietica e a prevalere in qualunque conflitto nucleare fosse scoppiato fra le due superpotenze. Ben poco lascia pensare che i leader sovieti­ ci adottarono gli argomenti dei realisti difensivi sulle virtù del MAD e sui pericoli della capacità nucleare offensiva di counterforce. Gli strateghi americani e sovietici la pensavano però diversamente sul modo migliore per vincere una guerra nucleare. E evidente che i responsabili sovietici non accettarono mai l’idea statunitense di opzioni nucleari limita­ te174. Sembravano piuttosto preferire una politica degli obiettivi molto simile alla politica di rappresaglia adottata dagli USA negli anni Cinquanta. Specifi­ camente, affermavano che il modo migliore per condurre una guerra nucleare limitando i danni per l’Unione Sovietica era lanciare un attacco rapido e devastante contro l’intera capacità bellica degli Stati Uniti e dei loro alleati. I sovietici non sottolineavano la necessità di prendere di mira bersagli civili, come impone la dottrina della distruzione assicurata, anche se un attacco nucleare su vasta scala agli Stati Uniti avrebbe certamente ucciso molti milio­ ni di americani. Sembra dunque che ciascuna delle due superpotenze fece di tutto, durante la guerra fredda, per dotarsi di immensi arsenali nucleari con capacità ofifensi-

209

La logica di potenza

ve in modo da poter guadagnare il vantaggio nucleare sull’altra. Nessuna delle due parti si accontentò di costruire e mantenere una capacità di distruzione mutualmente assicurata. L’equivoco della rivoluzione nucleare

210

Qualcuno, pur riconoscendo che le superpotenze hanno cercato indefessa­ mente la superiorità nucleare, potrebbe sostenere che si tratta di un comporta­ mento sbagliato, se non irrazionale, e che non si può spiegare in base alla logi­ ca deH’equilibrio di potenza. Nessuna delle due parti avrebbe potuto guada­ gnare un vantaggio nucleare significativo e, cosa più importante, il MAD dà luogo a un mondo altamente stabile. Cosi, il perseguimento della superiorità nucleare non può essere che il risultato di burocrazie o politiche interne non funzionali tanto negli Stati Uniti quanto in Unione Sovietica. Questa prospet­ tiva è sostenuta dalla maggioranza dei realisti difensivi, che riconoscono che nessuna delle due superpotenze ha accolto la loro dottrina sui vantaggi del MAD e gli svantaggi della strategia di counterforcem . Non è facile applicare questa linea di ragionamento agli anni Cinquanta e ai primissimi anni Sessanta, perché le dimensioni ridotte dell’arsenale sovieti­ co in questo periodo davano agli Stati Uniti una reale opportunità di esercita­ re la superiorità nucleare. In effetti, alcuni esperti ritengono che gli Stati Uni­ ti avessero la capacità per un first strike risolutivo contro l’Unione Sovietica176. Non sono d’accordo con questa affermazione, ma è indubbio che agli inizi della guerra fredda gli Stati Uniti avrebbero sofferto molto meno danni del loro rivale in un conflitto nucleare. Il miglior caso a favore dei realisti difensi­ vi è dunque costituito grosso modo dagli ultimi venticinque anni della guerra fredda, quando Stati Uniti e Unione Sovietica avevano una indiscussa capacità di distruzione reciproca assicurata. Ma anche in questo periodo di parità stra­ tegica, ognuna delle due superpotenze cercò ugualmente di conseguire il van­ taggio nucleare sull’altra. Per cominciare, le linee generali della politica nucleare strategica collimano con le previsioni del realismo offensivo. Specificamente, gli Stati Uniti si sono impegnati più a fondo a guadagnare la superiorità nucleare negli anni Cin­ quanta, quando la capacità di primo attacco risolutivo era con ogni probabi­ lità alla loro portata. Una volta che l’Unione Sovietica arrivò a dotarsi di una sicura capacità di rappresaglia, gli sforzi statunitensi per conseguire la superio­ rità rallentarono, ma senza arrestarsi del tutto. Benché i policymaker america­ ni non abbracciarono mai la logica della distruzione assicurata, la percentuale della spesa militare destinata alle forze nucleari strategiche diminuì costante-

Le grandi potenze in azione

mente dopo il I960177. Inoltre le due parti convennero di non impiegare significative difese missilistiche balistiche e finirono per fissare limiti qualitati­ vi e quantitativi anche agli arsenali offensivi. La corsa agli armamenti nucleari continuò in svariati modi, alcuni dei quali sono stati descritti sopra, ma una volta operante il MAD, nessuna delle due parti fece un chiaro sforzo senza risparmi per acquisire la superiorità atomica. La prosecuzione della corsa agli armamenti non rispose quindi a una strate­ gia mal posta, anche se la superiorità nucleare rimaneva un obiettivo irrag­ giungibile. Al contrario, strategicamente era perfettamente sensato che Stati Uniti e Unione Sovietica competessero vigorosamente in campo nucleare, per­ ché la tecnologia militare tende a svilupparsi rapidamente e in direzioni impre­ viste. Per esempio, nel 1914 pochi capirono che i sottomarini sarebbero diven­ tati un’arma di micidiale efficacia durante la prima guerra mondiale. Pochi nel 1965 previdero in che modo la nascente rivoluzione nella tecnologia dell’informazione avrebbe influito profondamente su armi convenzionali come i caccia e i carri armati. Il punto chiave è che nel 1965 nessuno poteva escludere con sicurezza che una qualche nuova tecnologia rivoluzionaria non avrebbe trasfor­ mato l’equilibrio nucleare dando a una delle due parti un netto vantaggio. Inoltre le competizioni strategiche sono di solito caratterizzate da quella che Robert Pape chiama «diffusione asimmetrica della tecnologia militare»178. Gli stati non acquisiscono tutti contemporaneamente le nuove tecnologie, il che vuol dire che gli innovatori spesso conseguono vantaggi significativi, ben­ ché temporanei, su chi rimane indietro. Nel corso di tutta la guerra fredda, per esempio, gli Stati Uniti hanno mantenuto un vantaggio significativo svi­ luppando tecnologie atte a individuare i sottomarini dell’altra parte e occulta­ re i propri. Le grandi potenze ambiscono sempre a essere le prime a sviluppare nuove tecnologie; debbono essere certe che i loro avversari non le battano sul tempo e guadagnino loro il vantaggio. Era quindi logico che ciascuna superpotenza facesse ogni sforzo per sviluppare una tecnologia nucleare offensiva insieme a difese missilistiche. Nella migliore delle ipotesi, un progresso significativo avrebbe consentito la netta superiorità; nella peggiore, tali sforzi avrebbero comunque impedito all’altra parte di conseguire un vantaggio unilaterale. In breve, dati i benefici strategici della superiorità nucleare, e dato il fatto che per tutto il corso della guerra fredda fu difficile sapere se essa fosse conseguibile o meno, non è né illogico né sorprendente che entrambe le superpotenze cercas­ sero di raggiungerla.

La logica di potenza

C O N CLU SIO N I La corsa agli armamenti nucleari tra le due superpotenze e il comportamento in politica estera di Giappone (1868-1943), Germania (1862-1945), Unione Sovietica (1917-1991) e Italia (1861-1943) dimostrano che le grandi potenze cercano l’occasione di spostare l’equilibrio di potenza a loro vantaggio e di solito approfittano di ogni opportunità che si presenti. Inoltre questi casi con­ fermano le mie affermazioni che gli stati non perdono la sete di potere quanto più ne ottengono, e che gli stati assai potenti sono particolarmente portati a ricercare l’egemonia regionale. Il Giappone, la Germania e l’Unione Sovietica, per esempio, hanno adottato tutti obiettivi di politica estera più ambiziosi e comportamente maggiormente aggressivi con il crescere della loro potenza. Anzi, sia il Giappone sia la Germania sono ricorsi alla guerra nel tentativo di dominare la loro regione del mondo. Se l’Unione Sovietica non ha fatto lo stesso, questo è dipeso dalla deterrenza operata dalla forza militare statuniten­ se e non dal fatto che fosse una grande potenza ormai sazia. L’argomento di riserva —quello che se anche concede che in passato i mag­ giori stati hanno adottato una politica di potenza bolla come autolesionista tale comportamento - non convince. Gli stati che danno il via a una guerra spesso la vincono e altrettanto frequentemente migliorano la propria posizione strategica. Il fatto che tante grandi potenze di così diverso genere abbiano cer­ cato di guadagnare un vantaggio sui rivali, lungo un periodo storico così este­ so, rende poco plausibile l’affermazione che si tratti sempre di comportamenti avventati o irrazionali indotti da patologie interne. Un esame attento dei casi che potrebbero apparire come esempi lampanti di comportamento strategico aberrante - gli ultimi venticinque anni della corsa agli armamenti nucleari, il Giappone imperiale, la Germania guglielmina e la Germania nazista - fanno pensare il contrario. Anche se la politica interna ha svolto un certo ruolo in tutti questi casi, ognuno di quegli stati aveva buoni motivi per cercare di gua­ dagnare vantaggio sui rivali e anche buoni motivi per pensare che in ciò avreb­ be avuto successo. Nella maggioranza, i casi discussi in questo capitolo riguardano grandi potenze che prendono misure attive per assicurarsi vantaggio sugli avversari — esattamente quel che predice il realismo offensivo. Passiamo ora a esaminare i casi americano e britannico, che a prima vista sembrerebbero fornire due esempi di grandi potenze che hanno tralasciato le opportunità di guadagnare potere. Come vedremo, però, entrambi questi due casi offrono invece ulterio­ ri elementi di conferma della teoria.

Capitolo settimo

I BILANCIATORI D’OLTREMARE: STATI UNITI E REGNO UNITO

Ho dedicato alla discussione dei casi americano e britannico un capitolo a se stante, perché potrebbe sembrare che queste due potenze siano le eccezioni più rilevanti alla mia affermazione che le grandi potenze sono esclusivamente dedite a massimizzare la quota di potere mondiale. Molti americani sicura­ mente vedono il loro paese come una grande potenza del tutto eccezionale, motivata da intenzioni nobili e non dalla logica di potenza. Perfino importan­ ti pensatori realisti come Norman Graebner, George Kennan e Walter Lippman ritengono che gli Stati Uniti abbiano spesso ignorato gli imperativi della politica di potenza agendo piuttosto secondo valori idealisti1. Questa stessa prospettiva si ritrova nel Regno Unito, ed è per questo motivo che sul finire degli anni Trenta E.H. Carr scrisse The Twenty Years Crisis. Con questo libro, egli intendeva mettere in guardia i suoi concittadini dai pericoli dell’eccessivo idealismo in politica estera, ricordando loro che la competizione per il potere tra gli stati è l’essenza della politica internazionale2. Ci sono tre casi specifici in cui potrebbe sembrare che il Regno Unito e gli Stati Uniti si siano lasciati scappare l’occasione di guadagnare potere. Primo, si è soliti affermare che gli Stati Uniti conseguirono lo status di grande potenza intorno al 1898, quando vinsero la guerra ispano-americana, che diede loro il controllo dei destini di Cuba, Guam, Filippine e Puerto Rico, e quando cominciarono a dotarsi di un apparato bellico considerevole3. Già dagli anni Cinquanta del XIX secolo, però, gli Stati Uniti si estendevano dall’Atlantico al Pacifico e, come risulta dalla Tabella 6 .2 , possedevano chiaramente i mezzi economici per diventare una grande potenza e competere nel mondo con le maggiori potenze europee. Ma tra il 1850 e il 1898 non si dotarono di poten­ ti forze armate, né fecero troppi sforzi per conquistare territorio nell’emisfero occidentale, e tanto meno al di fuori di esso. Fareed Zakaria definisce questo

La logica di potenza

periodo un caso di «sottoespansione imperiale»4. L’apparente fallimento degli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo di diventare una grande poten­ za e perseguire una politica di conquista sembrerebbe contraddire il realismo offensivo. Secondo, nel 1900 gli Stati Uniti non erano una grande potenza come le altre. Disponevano della più potente economia del mondo e avevano inconte­ stabilmente conseguito l’egemonia sull’emisfero occidentale (vedi Tabella 6 .2 ). Anche se queste due circostanze non cambiarono nel corso del XX secolo, gli Stati Uniti non tentarono di conquistare territorio in Europa Occidentale o in Asia Orientale, né di dominare quelle regioni produttrici di ricchezza. Se mai, gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per evitare di mandare truppe in Europa e in Asia, e quando sono stati costretti a farlo, si sono rivelati ansiosi di ripor­ tarle a casa appena possibile. Questa riluttanza a espandersi in Europa e in Asia sembrerebbe contraddire la mia affermazione che gli stati cercano sempre di massimizzare il potere relativo. Terzo, il Regno Unito ha avuto un potere potenziale molto più consistente di qualunque altro stato europeo per gran parte del XIX secolo. Al punto che tra il 1840 e il 1860 la Gran Bretagna controllava quasi il 70 per cento della potenza industriale europea, quasi cinque volte più della Francia, sua più prossima concorrente (vedi Tabella 3.3). Ciononostante, il Regno Unito non tradusse la sua abbondante ricchezza in potenza militare effettiva né si propo­ se di dominare l’Europa. In un mondo in cui le grandi potenze dovrebbero avere un’insaziabile sete di potere e puntare all’obiettivo ultimo dell’egemonia regionale, ci si sarebbe aspettati che il Regno Unito si comportasse come la Francia napoleonica, la Germania guglielmina, la Germania nazista e l’Unione Sovietica spingendo energicamente per diventare l’egemone europeo. Ma non lo fece. L’idea che Regno Unito e Stati Uniti non siano stati massimizzatori di potenza per gran parte degli ultimi due secoli è, a prima vista, intuitivamente allettante. Fatto sta, però, che entrambi hanno costantemente agito secondo quanto avrebbe predetto il realismo offensivo. La politica estera americana nel corso del XIX secolo ha avuto un obietti­ vo preponderante: raggiungere l’egemonia sull’emisfero occidentale. Questa impresa, motivata in buona parte da una logica realista, comportava la costru­ zione di uno stato potente in grado di dominare gli altri stati indipendenti dell’America del Nord e del Sud e di impedire al contempo alle grandi poten­ ze europee di proiettare la loro forza militare al di là dell’Atlantico. La ricerca americana dell’egemonia ebbe successo. Anzi, come abbiamo già sottolineato, gli Stati Uniti sono l’unico stato dei tempi moderni ad aver conseguito l’ege-

I b ilanciatori d'o ltrem are

monia regionale. Questa notevole impresa, e non qualche presunto nobile comportamento nei confronti del mondo esterno, è alla base dell’eccezionalismo americano in politica estera. Non c’era alcuna buona ragione strategica perché gli Stati Uniti acquisisse­ ro altro territorio nell’emisfero occidentale dopo il 1850, essendosi già impa­ droniti di un’enorme massa terrestre su cui occorreva consolidare la sovranità. Una volta che ciò accadde, gli Stati Uniti diventarono una potenza soverchiante nelle Americhe. Durante la seconda metà del XIX secolo gli Stati Uniti pre­ starono scarsa attenzione all’equilibrio di potenza in Europa e in Asia Orienta­ le, non solo perché erano concentrati sull’obiettivo di acquisire l’egemonia regionale, ma anche perché non c’era alcun potenziale concorrente di pari livello di cui preoccuparsi né nell’una né nell’altra regione. Infine, tra il 1850 e il 1898 gli Stati Uniti non si dotarono di vaste e possenti forze armate perché in quegli anni non ci fu alcuna significativa opposizione alla crescita della potenza americana5. Il Regno Unito teneva in Nordamerica poche truppe, e gli indiani americani possedevano scarsa forza militare. In sostanza, gli Stati Uniti furono in grado di conquistare a buon mercato l’egemonia regionale. Durante il X X secolo, gli Stati Uniti non tentarono di conquistare territorio né in Europa né nel Nordest asiatico, a causa della difficoltà di proiettare forza militare al di là dell’Atlantico e del Pacifico contro le grandi potenze situate in quelle regioni6. Ogni grande potenza vorrebbe dominare il mondo, ma nessuna ha mai avuto, né probabilmente avrà, la capacità militare per diventarne l’ege­ mone globale. Così, scopo ultimo delle grandi potenze è ottenere l’egemonia regionale e bloccare l’ascesa di concorrenti di pari livello in aree lontane del globo. In sostanza, gli stati che guadagnano l’egemonia regionale agiscono da bilanciatori esterni in altre regioni. Ciononostante, quegli egemoni distanti di norma preferiscono lasciare alle grandi potenze locali il compito di contrastare un aspirante egemone, restando inattivi a osservare dai margini del campo. Ma talvolta questa strategia di scaricabarile non è praticabile e tocca all’egemone lontano farsi avanti e riequilibrare contro la potenza in ascesa. In diverse occasioni nel X X secolo forze armate americane sono state invia­ te in Europa e in Asia Orientale, e lo schema di quegli interventi segue la logi­ ca descritta sopra. In particolare, ogni volta che un potenziale competitore di pari livello è emerso nell’una o nell’altra regione, gli Stati Uniti hanno cercato di contrastarlo e di preservare la propria posizione di unico egemone regiona­ le al mondo. Come già evidenziato, gli egemoni sono essenzialmente potenze dedite allo status quo; da questo punto di vista gli Stati Uniti non fanno ecce­ zione. Inoltre i policymaker americani hanno cercato di scaricare su altre gran­ di potenze la responsabilità di bilanciare contro il potenziale egemone. Ma

La logica di potenza

216

quando questo approccio è fallito, hanno usato le proprie forze militari per eliminare la minaccia e ristabilire un approssimativo equilibrio di potenza nel­ la regione, in modo da poter riportare a casa le truppe. In breve, durante il XX secolo gli Stati Uniti hanno agito da bilanciatori d’oltremare allo scopo di rimanere l’unico egemone regionale. Neppure il Regno Unito ha mai cercato di dominare l’Europa, il che è sor­ prendente, considerando che ha usato le sue forze armate per costruire un vasto impero al di fuori del proprio continente. Oltre tutto il Regno Unito, a differenza degli Stati Uniti, è una potenza europea. Quindi, ci si sarebbe potu­ ti aspettare che alla metà del X IX secolo avrebbe tradotto la sua ricchezza favolosa in potenza militare per tentare la conquista dell’egemonia regionale. Il motivo per cui non lo fece, però, è sostanzialmente lo stesso che nel caso degli Stati Uniti: il potere frenante dell’acqua. Come gli Stati Uniti, il Regno Unito è una potenza insulare, fisicamente separata dal continente europeo da un braccio di mare, la Manica, che rende praticamente impossibile al Regno Unito conquistare e controllare tutta l’Europa. Eppure, il Regno Unito ha costantemente agito da bilanciatore esterno in Europa, come vuole il realismo offensivo. Specificamente, inviò forze militari sul continente quando una grande potenza rivale minacciava di dominare l’Europa e lo scaricabarile non era un’opzione praticabile. Diversamente, quando in Europa regnava un certo equilibrio di forza, l’esercito britannico se ne rimase tendenzialmente al di fuori del continente. In sintesi, né gli Stati Uniti né il Regno Unito hanno tentato di conquistare territorio in Europa in tempi moderni, ed entrambi hanno agito come riequilibratori di ultima istan­ za in quella regione7. Questo capitolo esamina in dettaglio la consistenza tra le predizioni del realismo offensivo e il comportamento storico del Regno Unito e degli Stati Uniti, concentrandosi in primo luogo sulla conquista americana dell’egemo­ nia regionale nel XIX secolo. Le due sezioni seguenti trattano dell’impegno delle forze militari USA in Europa e in Asia Orientale nel XX secolo, mentre quella successiva prende in esame il ruolo svolto dal Regno Unito come equi­ libratore esterno in Europa. Alcune implicazioni più vaste dell’analisi prece­ dente sono considerate nella sezione finale.

L’ASCESA DELLA POTENZA AMERICANA (1800-1900) È opinione diffusa che gli Stati Uniti passarono gran parte del XIX secolo a occuparsi delle proprie questioni interne, interessandosi poco alla politica

bilanciatori d'o ltrem are

internazionale. Ma questo punto di vista risulta condivisibile solo se per poli­ tica estera americana si intende esclusivamente l’impegno in aree poste al di fuori dell’emisfero occidentale, soprattutto in Europa. Effettivamente, gli Sta­ ti Uniti evitarono di stringere alleanze europee in questo periodo. Furono però molto interessati alle questioni di sicurezza e di politica estera nell’emisfero occidentale tra il 1800 e il 1900. In realtà, gli Stati Uniti erano pronti e deter­ minati a conseguire l’egemonia regionale, e furono quindi una potenza espan­ sionista di prima categoria nelle Americhe8. Henry Cabot Lodge chiarisce bene il punto, quando rileva che gli Stati Uniti hanno «una storia di conqui­ sta, colonizzazione ed espansione territoriale che non trova eguali in tutto il XIX secolo»9. O, se è per questo, nel X X secolo. Quando si esamina il com­ portamento aggressivo dell’America nell’emisfero occidentale, e soprattutto i suoi risultati, gli Stati Uniti sembrano la potenza più adatta a fare da testimo­ nial per il realismo offensivo. Per rendersi conto dell’espansione della potenza militare USA, si consideri la posizione strategica degli Stati Uniti all’inizio e alla fine del XIX secolo. Nel 1800 gli USA si trovavano in una posizione strategica piuttosto precaria (vedi Carta 7.1). Tra gli elementi positivi, essi erano l’unico stato indipendente del­ l’emisfero occidentale e possedevano tutto il territorio compreso tra l’Oceano Atlantico e il fiume Mississippi, a eccezione della Florida, che era sotto domi­ nio spagnolo. D ’altro canto, però, la maggior parte del territorio tra gli Appalachi e il Mississippi era scarsamente popolato da americani bianchi, essendo in gran parte abitato da tribù native ostili. Inoltre Gran Bretagna e Spagna avevano enormi imperi in Nordamerica. Sommati, occupavano quasi tutto il territorio a ovest del Mississippi e gran parte di quello a nord e a sud degli Sta­ ti Uniti. In effetti, la popolazione del territorio spagnolo che poi divenne il Messico era più numerosa, anche se di poco, della popolazione statunitense nel 1800 (vedi Tabella 7.1). Nel 1900, invece, l’America era l’egemone dell’emisfero occidentale. Non solo controllava un’immensa massa di territorio che andava dall’Atlantico al Pacifico, ma per di più gli imperi europei erano crollati e finiti. Al loro posto c’erano stati indipendenti come l’Argentina, il Brasile, il Canada e il Messico. Ma nessuno di essi aveva un peso demografico o una ricchezza tali da poter sfidare gli Stati Uniti, che a partire dalla fine degli anni Novanta dell’Ottocen­ to diventarono lo stato più ricco del pianeta (vedi Tabella 6.2). Quasi nessuno poteva smentire Richard Olney, il segretario di stato americano, quando in una famosa nota del 20 luglio 1895 disse senza tanti giri di frase al suo omo­ logo britannico lord Salisbury: «Oggi gli Stati Uniti sono praticamente sovra­ ni di questo continente, e la loro volontà è legge per i soggetti cui concedono

217

La logica di potenza

C arta 7.1

-

il n o r d a m e r i c a n e l

18 0 0

SIBERIA

GROENLANDIA (Dan.)

ALASKA (Russia)

Baia di Hudson

STATI

Oceano Atlantico

IMITI 218

Oceano Pacifico

ISOLE BAHAMAS - 1 (R.U.)

Golfo del Messico

7

CUBA

SANTO -QOMINGO o

BRITANNICI GIAMAICA (R.U.) ( ’

M ar dei Caraibi

(Sp.)

b ilanciatori d'o ltrem are

Tabella 7.1

-

p o p o l a z io n e n e l l ’e m is f e r o

Popolazione (in migliaia) 1800

o c c id e n t a l e ,

18 0 0 -19 0 0

1830

1850

1880

1900

12.866 1.085 6.382 3.861 634 24.928

23.192 2.436 7.853 7.678 935 42.094

50.156 4.325 9.210 9.930 1.737 75.358

75.995 5.371 13.607 17.438 3.955 116.366

Percentuale del totale 1800

1830

1850

1880

1900

Stati Uniti Canada Messico Brasile Argentina

52% 4% 26% 16% 3%

55% 6% 19% 18% 2%

67% 6% 12% 13% 2%

65% 5% 12% 15% 3%

Stati Uniti Canada Messico Brasile Argentina Totale

5.308 362 5.765 2.419 406 14.260

37% 3% 40% 17% 3%

Nota: poiché i censimenti in questi paesi in generale furono tenuti in anni diversi, solo i dati riguardanti gli Stati Uniti corrispondono alle date esatte indicate nella tabella. Inoltre, solo gli Stati Uniti furono paese sovrano per l’intero XIX secolo. Gli anni di censimento e gli anni di indipendenza degli altri sono: Canada (indipendente dal 1867), 1901, 1931, 1831, 1881 e 1901; Messico (indipendente dal 1821), 1803, 1831, 1854, 1873 e 1900; Brasile (indipendente dal 1822), 1808, 1823, 1854, 1872 e 1900; Argentina (indipen­ dente dal 1816), 1809, 1829, 1849, 1869 e 1895. Fonti: tutte le cifre derivano da B.R. Mitchell, International Historical Statistics: The Americas, 1750-1988, 2d ed., Stockton, New York 1993, pp. 1, 3-5, 7-8.

la propria intercessione [...] Le loro infinite risorse combinate con la posizio­ ne isolata li rendono padroni della situazione e praticamente invulnerabili contro ogni e qualsiasi altra potenza»10. Gli Stati Uniti raggiunsero l’egemonia regionale nel XIX secolo attenendo­ si incessantemente a due indirizzi politici strettamente connessi: 1 ) espandersi attraverso il Nordamerica per costruire lo stato più potente dell’emisfero occi­ dentale, politica comunemente nota come dottrina del Manifest Destiny-, e 2) minimizzare l’influenza della Gran Bretagna e delle altre grandi potenze nelle Americhe, politica comunemente nota come «dottrina Monroe».

219

La logica di potenza

Tabella 7.2 -

il r e g n o

u n it o

e g l i sta ti u n it i,

Quota relativa di ricchezza mondiale 1800 1830 Regno Unito Stati Uniti

nd nd

Popolazione (in migliaia) 1800 Regno Unito Stati Uniti

15.717 5.308

18 0 0 -19 0 0

1850

1880

1900

47% 12%

59% 15%

45% 23%

23% 38%

1830

1850

1880

1900

24.028 12.866

27.369 23.192

34.885 50.156

41.459 75.995

Nota: nd = non disponibile. Fonti: le cifre relative alla ricchezza mondiale sono tratte dalla Tabella 6.2. I dati per la popolazione del Regno Unito vengono da B.R. Mitchell, Abstract to Britush Historical Statistics, Cambridge University Press, Cambridge 1962, pp. 6-8; il dato per il 1800 è ricavato dal censimento del 1801, che comprende Inghil­ terra, Galles, Scozia e Irlanda. Tutte le cifre per gli Stati Uniti vengono da Mitchell, International Historical Statistics: The Americas, p. 4.

Il Destino Manifesto

220

Gli Stati Uniti ebbero inizio nel 1776 come debole confederazione messa insieme a partire dalle tredici colonie britanniche collocate lungo la costa atlantica. L’obiettivo principale dei leader americani nei successivi 125 anni fu quello di realizzare il cosiddetto Destino Manifesto del paese*11*15. Come abbia­ mo ricordato, già nel 1800 gli Stati Uniti avevano esteso il proprio dominio fino al fiume Mississippi, anche se non controllavano ancora la Florida. Nel corso dei seguenti cinquant’anni si espansero a ovest attraversando il conti­ nente fino al Pacifico. Durante la seconda metà del XIX secolo si concentraro­ no sul compito di consolidare i guadagni territoriali e di creare uno stato ricco e coeso. L’espansione degli Stati Uniti tra il 1800 e il 1850 si svolse in cinque sta­ di successivi (vedi Carta 7.2). L’immenso territorio della Louisiana sulla sponda occidentale del Mississippi fu comperato dalla Francia nel 1803 per $ 15 milioni. La Francia napoleonica aveva di recente acquistato quella terra dalla Spagna, anche se dal 1682 al 1762 la Louisiana era stata sotto il con­ trollo francese. Napoleone aveva bisogno del ricavato della vendita per finan­ ziare le sue guerre in Europa. Inoltre la Francia non era in grado di compete­ re con il Regno Unito in Nordamerica, perché i britannici avevano una mari-

bilanciatori d'o ltrem are

C arta 7 .2

-

l ’e s p a n s io n e v e r s o

o v est d e g l i sta ti u n it i,

Il bacino del Red River ,(ceduto dalla Gran Bretagna,

/O R EG O N ' (ceduto dalla Gran Bretagna, ^ 1846)

CALIFORNIA (ceduta dal Messico, 1848)

GADSEN (acquistata dal Messico,

1800-1853

\

LOUISIANA (acquistata dalla Francia, 1803)

TEXAS (annesso, 1845)

1818)

LE TREDICI COLONIE ORIGINARIE e le loro rivendicazioni territoriali (1783) f

FLORIDA (acquistata dalla Spagna 1819)

1853)

na superiore che rendeva diffìcile alla Francia proiettare la propria forza mili­ tare al di là dell’Oceano Atlantico. Con l’acquisizione del vasto territorio del­ la Louisiana, gli Stati Uniti più che raddoppiavano la propria superficie. Il passo successivo lo fecero nal 1819, quando presero la Florida alla Spagna12. Era da inizio Ottocento che i governanti americani studiavano la possibilità di acquisire la Florida, anche con l’invio di truppe d’invasione. La Spagna finì per cedere l’intero territorio quando nel 1818 le forze americane occupa­ rono Pensacola. Le ultime tre acquisizioni importanti si ebbero tutte nel breve periodo compreso tra il 1845 e il 184813. Il Texas conquistò l’indipendenza dal Messico nel 1836 e poco dopo chiese di unirsi agli Stati Uniti. La richiesta però fu respinta, soprattutto per l’opposizione del Congresso ad accogliere uno stato in cui lo schiavismo era legale14. Ma l’ostacolo fu poi superato e il 29 dicem­ bre 1845 il Texas fu annesso. Sei mesi dopo, nel giugno 1846, gli Stati Uniti componevano una disputa con il Regno Unito sui territori dell’Oregon, acquisendo vasta parte della regione del Pacific Northwest. Ai primi di maggio

221

La logica di potenza

222

del 1846, qualche settimana prima dell’accordo sull’Oregon, gli Stati Uniti dichiararono guerra al Messico e procedettero a conquistare la California e gran parte di quello che è oggi il Southwest americano. Nello spazio di due anni, gli Stati Uniti erano cresciuti di 3,1 milioni di chilometri quadrati circa, ossia quasi di due terzi. Le dimensioni territoriali degli Stati Uniti, secondo il responsabile del censimento americano, erano ormai «quasi dieci volte quelle di Francia e Gran Bretagna messe insieme; e tre volte la somma di Francia, Gran Bretagna, Austria, Prussia, Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda e Dani­ marca [...] e della stessa estensione dell’impero romano o di quello di Ales­ sandro»15. L’espansione sul continente era praticamente completata alla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, anche se gli Stati Uniti acquisirono una picco­ la porzione di territorio dal Messico ancora nel 1853 (Gadsden Purchase) per rettificare il confine tra i due paesi, e nel 1867 comperarono l’Alaska dalla Russia. Ma gli Stati Uniti non riuscirono a impossessarsi di tutto il territorio che desideravano. In particolare, miravano a conquistare il Canada quando nel 1812 dichiararono guerra al Regno Unito, e per tutto il XIX secolo molti dei suoi presidenti continuarono a bramare il Canada15. Ci furono anche pres­ sioni per espandersi a sud, nei Caraibi, dove Cuba era considerata la preda più ambita17. Ma l’espansione a nord e a sud non si realizzò, e gli Stati Uniti con­ tinuarono a espandersi a ovest verso l’Oceano Pacifico, dando così vita a un immenso stato territoriale18. Gli Stati Uniti avevano scarso bisogno di nuovi territori dopo il 1848 almeno per quanto riguarda la sicurezza. Così, i loro leader si concentrarono sulla formazione di un potente stato all’interno dei confini esistenti. Questo processo di consolidamento, talvolta brutale e sanguinoso, passò attraverso quattro fasi principali: combattere la guerra civile per eliminare la schiavitù e la minaccia di dissoluzione dell’Unione; espellere i nativi che controllavano gran parte della terra di recente acquisizione statunitense; importare un gran numero di immigrati nel paese per contribuire al popolamento delle vaste distese del suo territorio; costruire la più grande economia del mondo. Nei i primi sei decenni del XIX secolo, ci fu un costante attrito tra Nord e Sud sulla questione della schiavitù, soprattutto riguardo ai territori recente­ mente acquisiti a ovest del Mississippi. La questione era così velenosa che minacciò di spaccare gli Stati Uniti, il che, se fosse avvenuto, avrebbe avuto profonde conseguenze per l’equilibrio di potenza nell’emisfero occidentale. Il nodo venne al pettine nel 1861, con lo scoppio della guerra civile. Il Nord, che combatteva per tenere insieme gli Stati Uniti, inizialmente ebbe la peggio ma poi si riprese, riportando una vittoria decisiva. La schiavitù fu presto eli­

b ilanciatori d'o ltrem are

minata in ogni parte degli Stati Uniti e, nonostante i rancori generati dalla guerra, il paese emerse come un compatto insieme che da allora è rimasto solidamente intatto. Se avessero vinto i Confederati, gli Stati Uniti non sareb­ bero diventati l’egemone regionale, perché in Nordamerica ci sarebbero state almeno due grandi potenze. La situazione avrebbe dato l’opportunità alle grandi potenze europee di accrescere presenza politica e influenza nell’emisfe­ ro occidentale19. Ancora nel 1800 le tribù native controllavano enormi tratti di territorio che gli Stati Uniti dovevano conquistare se volevano sperare di vedere realizza­ to il Destino Manifesto20. I nativi americani non avevano alcuna possibilità di impedire agli Stati Uniti di appropriarsi delle loro terre. Avevano diversi pun­ ti a loro svantaggio, ma soprattutto erano numericamente assai inferiori degli americani bianchi e il tempo non fece che peggiorare la loro situazione. Nel 1800, per esempio, vi erano circa 178.000 nativi che vivevano entro i confini degli Stati Uniti, confini che a quel tempo si estendevano fino al fiume Mis­ sissippi21. In quello stesso periodo la popolazione degli Stati Uniti era di circa 5,3 milioni di unità (vedi Tabella 7.1). Non sorprende che l’esercito USA avesse pochi problemi a schiacciare gli indiani a est del Mississippi, impadro­ nirsi delle loro terre e sospingere molti di essi a ovest del fiume nei primi decenni del XIX secolo22. Nel 1850, quando i confini degli Stati Uniti continentali erano ormai pressoché quelli di adesso, c’erano circa 665.000 nativi americani che viveva­ no al loro interno, dei quali circa 486.000 a ovest del Mississippi. La popola­ zione degli Stati Uniti, però, era cresciuta toccando nel 1850 quasi 23,2 milio­ ni di persone. Niente di strano, dunque, che unità dell’esercito USA piccole e piuttosto inette riuscirono nella seconda metà del XIX secolo a sbaragliare i nativi a ovest del Mississippi e ad appropriarsi delle loro terre23. Per il 1900, la vittoria sui nativi era ormai totale. Vivevano confinati in una manciata di riserve e la loro popolazione si era ridotta a circa 456.000 individui, 299.000 dei quali a ovest del Mississippi. A quel tempo la popolazione degli Stati Uni­ ti aveva raggiunto i 76 milioni. Nel corso della seconda metà del XIX secolo la popolazione degli Stati Uni­ ti si triplicò, in buona parte per il gran numero di immigrati europei che attra­ versarono l’Atlantico. Tra il 1851 e il 1900 furono circa 16,7 milioni gli immi­ grati che entrarono negli Stati Uniti24. Nel 1900, il 34,2 per cento di tutti i 76 milioni di americani era nato fuori degli Stati Uniti o aveva almeno un genito­ re nato all’estero25. Molti di questi immigrati arrivavano in cerca di lavoro, abbondante grazie all’espansione dell’economia USA. Al tempo stesso, però, erano loro che contribuivano a rafforzare l’economia, che nell’ultima parte del

223

La logica di potenza

224

XIX secolo crebbe a ritmi forsennati. Si consideri, per esempio, che il Regno Unito era il paese più ricco del mondo nel 1850, con circa il quadruplo della potenza industriale degli Stati Uniti. Solo cinquantanni dopo, erano diventati gli Stati Uniti il paese più ricco della terra, con più di 1,6 volte la produzione industriale del Regno Unito (vedi Tabella 7.2). Il Regno Unito e gli Stati Uniti misero fine alla loro annosa rivalità in Nordamerica nei primi anni del XX secolo. Il Regno Unito si ritirò dall’altra par­ te dell’Atlantico e lasciò che gli Stati Uniti gestissero l’emisfero occidentale. Una spiegazione comune di questo riavvicinamento è che il Regno Unito doveva consolidare le proprie forze militari in Europa per contrastare la Ger­ mania in ascesa, e così strinse un accordo con gli Stati Uniti, i quali lo accet­ tarono in quanto avevano tutto l’interesse a veder sloggiare i britannici dal Nordamerica, oltre che a saperli in Europa a mantenere l’equilibrio di poten­ za26. In questa argomentazione c’è molto di vero, ma esiste una ragione anco­ ra più importante perché la rivalità tra britannici e americani nel 1900 ter­ minò: il Regno Unito non aveva più la forza per tener testa agli Stati Uniti nell’emisfero occidentale27. I due principali indicatori del potenziale militare sono le dimensioni della popolazione e la potenza delfindustria, e nel 1900 gli Stati Uniti erano molto avanti rispetto al Regno Unito secondo entrambe le dimensioni (vedi Tabella 7.2). Inoltre il Regno Unito doveva proiettare la sua forza attraverso l’Atlanti­ co per controllare l’emisfero occidentale, mentre gli Stati Uniti erano fisicamente già sul posto. La competizione per la sicurezza tra USA e Regno Unito era finita. Anche se non ci fosse stata presente la minaccia tedesca all’inizio del X X secolo, la Gran Bretagna avrebbe quasi certamente abbandonato l’emisfe­ ro occidentale al suo rampollo, che a quel punto aveva decisamente raggiunto la maturità. La dottrina Monroe I policymaker americani nel XIX secolo non erano interessati solo a fare degli Stati Uniti un potente stato territoriale, ma s’impegnarono anche a espellere le grandi potenze europee dall’emisfero occidentale e a tenerle fuori28. Solo così gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di diventare l’egemone regionale, al sicuro dalle minacce delle grandi potenze. Muovendosi attraverso il Nordame­ rica, gli Stati Uniti inglobarono territorio precedentemente appartenuto a Regno Unito, Francia e Spagna, indebolendo così la loro influenza nell’emi­ sfero occidentale. Ma, per conseguire il medesimo scopo, utilizzarono anche la dottrina Monroe.

I b lln n < Infoi I llT»ltl«IMMM