L'allusione necessaria. Ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina
 8884760879, 9788884760876

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FILOLOGIA E CRITICA COLLANA DIRETTA DA BRUNO GENTILI 63.

ISTITUTO DI FILOLOGIA Università di Urbino

CLASSICA

MARIA GRAZIA BONANNO

L’ALLUSIONE

NECESSARIA

Ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina

TM Edizioni dell'Ateneo

1990, © Copyright by Edizioni dell'Ateneo, Via Ruggero Bonghi 11/B - Printed in Italy

Finito di stampare πο] mese di dicembre 19% dalla Tip. "NOVA GRAPHICA ’88" Via Santeramo in Colle, 9a - 90 Roma

Questo volume è stato pubblicato con il contributo

del Consiglio Nazionale delle Ricerche e del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica

Indice generale

pag. Premessa

Capitolo primo L’allusione necessaria 41

Capitolo secondo Pretesti epici e ragioni liriche

73

Capitolo terzo Le radici dell’Epos

85

Capitolo quarto Minaccia e persuasione amorosa

105

Capitolo quinto Il giuramento di Artemide

119

Capitolo sesto Eros e autofagia

125

Capitolo settimo Blasone e lotta armata

147

Capitolo ottavo Patemi d’amore

183

Capitolo nono Un lapsus calami?

195

Capitolo decimo Effetti di un’eco

203

Capitolo undicesimo Candido Ila

Indice generale

Capitolo dodicesimo Una metafora continuata

233

Capitolo tredicesimo La nascita di Lalage

241

Capitolo quattordicesimo Metateatro in parodia

277

Abbreviazioni bibliografiche

303

Luoghi discussi

a Gianni καλόν γ᾽ ἀποϑανεῖν πρὶν ϑανάτου δρᾶν ἄξιον

Premessa

Questo libro è il risultato di varie ricerche ‘involontariamente’ coerenti. Complice, forse, una tacita ma insistente riflessione, che, stimolata da riflessioni altrui ben diversamente espli-

citate e ‘teorizzate’, ha accompagnato, da qualche tempo, la mia consuetudine con la poesia greca (a volte latina) e la mia affe-

zione a problemi, se non sempre puntuali, tutti però provocati da un testo e risolti con l’aiuto di un altro o più testi, per così dire, isomorfi. Ai modi concreti di tale pratica filologica — propriamente interessata al farsi e al rifarsi della parola poetica, e tradizionalmente disposta a percepire, nell’allusività, una ‘differenza’ tra poesia alessandrina (o postalessandrina) e poesia arcaica — accennerò nel primo capitolo, di carattere introduttivo, che non a caso intitola il libro. Capitolo scritto un po’ per dar voce alla riflessione di cui sopra, ma soprattutto per presentare ordinatamente, e motivatamente, i ‘casi’ che mi è parso

valesse la pena di esporre nei successivi capitoli. Dei quali inediti sono il secondo (per oltre metà), l’ottavo (anticipato solo in

minima parte), il nono, il decimo e l'undicesimo, mentre gli altri fondono e ampliano, rielaborandoli talora radicalmente, articoli

apparsi, da una decina d’anni a questa parte, su varie riviste («Gnomon»,

«Museum

Criticum»,

«Philologus», «Rivista di

Filologia e Istruzione Classica», «Quaderni Urbinati di Cultura Classica») e miscellanee.

A Bruno Gentili, che ha voluto accogliere il mio lavoro

nella sua collana, la più sincera e viva gratitudine.

Capitolo primo L’ALLUSIONE NECESSARIA

Molta acqua è passata sotto i ponti — della filologia non solo classica — da quando Giorgio Pasquali volle formulare il concetto di «arte allusiva» !. Stretto fra l'ottimismo positivistico della Quellenforschung e la fede idealistica che «la fonte della poesia è sempre e solo nell’anima del poeta», il Filologo imboccava una propria via d’uscita non ricercando affatto le ‘fonti’, bensì individuando — tra i confronti, tutti comunque utili ad «intendere vocaboli e locuzioni» propriamente «nel loro valore affettivo e nel loro colore stilistico» — quelle che, in poesia cul-

ta, egli non chiamava più reminiscenze, ma «allusioni», se non «evocazioni» e in certi casi «citazioni» 2. La distinzione tra le reminiscenze, che possono essere inconsapevoli, le imitazioni,

che possono sfuggire al pubblico per desiderio dello stesso poeta, e le allusioni, che «non producono l’effetto voluto se non su

un lettore che si ricordi

chiaramente

deltestocuisi

riferiscono» ’, mirava a superare la posizione positivistica, ma

soprattutto a respingere l’obiezione idealistica, indicando in ogni ripresa ‘intenzionale’ un’operazione ‘poetica’, e salvando,

assieme all'‘intenzione’ dell'autore, la sua vena ‘originale’ e ‘creativa’. Oggi, più nessuna ricerca di creatività, né di originalità,

assilla il filologo o il critico che si accosti a un autore, antico o moderno che sia. Si dà infatti per acquisito che la letteratura è sempre e solo leggibile «al secondo grado», quale metaforico «palinsesto»; e che un testo può trovarsi a citare, «in modo più

! Cf. Pasquali 1968, pp. 275 ss. (ma l'articolo Arte allusiva vide per la prima volta la luce nel 1942). 2 Così Pasquali 1968, p. 275. ἡ Ibid. (lo spaziato è nostro).

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Ricerche intertestuali

o meno esplicito, una cadenza, un episodio, un modo di narrare» 4.

È semmai la nozione di testo a vincere (per ora) su quella

di autore. Si dà anche per acquisito che «un testo può assomigliare ad un altro non per derivazione diretta o per competitività voluta, ma perché l’uno e l’altro possono rimandare ad una comune codificazione letteraria»: Gian Biagio Conte, ritornan-

do, con aggiornata sensibilità, sull’allusione pasqualiana, opportunamente ne ribadisce i confini d’azione, quelli della poesia dotta; mentre avverte la necessità, da un lato, di frenare

«l'estensione indebita... del concetto di allusione», imputabile ad «un vecchio vizio, forse connaturato al procedere indiziario cui è costretto il mestiere del filologo», dall’altro, di sostituire

alla centralità ‘emulativa’ dell'autore quella del testo in fisiologico rapporto con la tradizione, di accantonare cioè la soggettiva intenzione del poeta (del resto non sempre dimostrabile, né facilmente classificabile: omaggio, emulazione, ripresa ironica o magari parodistica del modello?), per cogliere piuttosto l’oggettiva modalità di formazione del testo poetico 5. Così, l’allusione,

funzionalmente considerata quale organica ‘figura’ del discorso intertestuale, riemerge retoricamente nel ruolo di metafora o di similitudine: l’intertestualità significando la condizione stessa della leggibilità letteraria, dove anche il lettore è previsto dal — e come inscritto nel — testo ®. Eppure, accanto alla ricerca, oggi obsoleta, dell’intenzione

autoriale, nel concetto pasqualiano di allusività agisce una precoce istanza, che intuitivamente e, per così dire, affettivamente

* Cf., rispettivamente, l’emblematico titolo di Genette 1982, e, a proposito della ‘citazione stilistica’, Eco 1984, p. 29. 5. Così Conte 1985, p. 115. 56. Sul concetto e sul termine ‘intertestualità’, meritamente in voga, v. infra n. 16 e pp. 34s. La funzionale distinzione dall’allusione come metafora o similitudine — l'una «integrativa», l’altra «riflessiva», a seconda che vi sia sovrap-

posizione o accostamento di due parole poetiche — è ben illustrata da Conte 1985, pp. 30 ss. Sull’uso critico di termini quali ‘integrazione’, ‘integrare’, etc., a proposito di allusività, cfr. Traina 1984, p. 226.

L'allustone necessaria

13

tocca il cuore della comunicazione letteraria. A differenza, per esempio, di un Fubini, il quale, sempre provocato dalla negazione crociana delle ‘fonti’, preferirà esprimersi sull’emittente — dunque sul poeta in grado di procedere «da parole già dotate di una loro vita» e «di dar forma a quel che gli urge dentro, in quanto una forma han già quelle altre parole che lo sollecitano come un esempio, che quasi lo avviano all’espressione sua» ? — e a differenza di un Nencioni, che si troverà a misurare, dalla

parte del ricevente, lo «schietto godimento» procurato dalle «agnizioni di lettura» per «il modo gratuito con cui questi incontri-riconoscimenti avvengono e l’emozione da cui sono accompagnati» 3, Pasquali istituiva un dinamico gioco a tre (autore, testo, lettore), presago, si direbbe, di futuri impulsi teorici

tuttora in movimento. Come non persuaso dall’idea di un testo autosufficiente

e impermeabile —

e attento,

sì, al momento

della ‘lettura’, ma non predisposto ad un’esclusiva ‘estetica della ricezione’, più tardi fautrice del cosiddetto «lettore implicito» ?

— il Filologo Classico appare piuttosto sensibile, anzitempo, ad una ‘pragmatica’ che consideri il testo nel suo ‘quadro d’azione’, nella situazione concreta in cui il testo si trova ad operare e dove non venga meno la responsabilità dell’autore, ma dove il fruitore non sia visto come un possibile decodificatore, bensì come un necessario interlocutore: «qualcuno cui indirizzare delle proposte e da cui attendere un cenno d’intesa, un complice sottile di quel che si muove» nel testo 10, Un Pasquali troppo preveggente? Forse. Una sua ulteriore ‘promozione’, ci si potrà

imputare, dopo quella a πρῶτος εὑρετής della stessa ‘allusione’, laddove non mancano veri precursori inglesi, tedeschi, ed

anche italiani !!. Ma nessuno negherà il perdurante impatto del

? Così Fubini 1956, p. 69, citato da D’Ippolito 1985, p. 11. ® Così Nencioni 1967, pp. 191 s., citato da Conte 1985, p. 5. ? Mi riferisco evidentemente al notissimo titolo di Iser 1972 (e più in generale alla Scuola di Costanza, e alle altrettanto note ricerche di Jauss). 10 Così Casetti 1986, p. 13. Sui precedenti inglesi e americani (difficilmente noti a Pasquali), indi-

14

Ricerche intertestuali

pur breve articolo, che da sempre costituisce un punto di riferimento carismatico: la stessa formula arte allusiva, che felicissi-

mamente lo intitola, implica, al di là della nozione di Anspielung già ricorrente nel classico Kroll, un nuovo concetto di ‘poetica’. Perciò «l’idea stessa che ognuno ha della cosa non credo possa essere disgiunta da quelle celebri pagine» 12, tuttora motivate, e comunque rimotivabili per la loro carica intuitiva. L'‘allusione’ pasqualiana — pur limitata entro i confini della poesia dotta, ed anzi, nel caso del poeta e filologo alessandrino, bloccata in una sorta di rapporto speculare fra autore e lettore: l’uno ideale alter ego dell’altro, ed in effetti l'uno collega dell’altro, di corte, di

scuola, di biblioteca, «in un momento storico in cui la letteratura è consumata da quelli stessi che la producono» ! — detiene, al di là delle previsioni del suo stesso ‘inventore’, un potenziale ermeneutico non ancora esaurito.

Con trasporto parimenti intuitivo e periglioso (proprio dei grandi), Michail Bachtin, profetico pioniere del ‘dialogismo’

(poi detto intertestuale) ha illustrato l’ambivalenza della parola artistica, nel senso — orizzontale — che tale parola contiene l’autore e sa di avere un lettore, e nel senso — verticale — che

include in sé, come momento necessario, il rapporto verso la (precedente) parola altrui: «ogni parola letteraria sente con maggiore o minore acutezza il proprio ascoltatore, lettore, critico, e riflette in sé le sue previste obiezioni, giudizi, punti di vista. Oltre a ciò la parola letteraria sente accanto a sé l’altra parola letteraria, l’altro stile» 14, Poiché la parola è il «medium eternamente mobile ed eternamente mutevole della relazione dialogica», ogni atto pur creativo «deve rifrangersi attraverso il mezzo

cati da La Penna 1960, pp. 233 s., cf. Conte 1985, p. 8 n. 10, con ulteriore bibliografia. Su quelli tedeschi, ma soprattutto sui «presupposti» pascoliani e sull’«allusione accarezzata» crociana (!), cf. Traina 1984, pp. 230 s.

‘2 Faccio mia una dichiarazione di Conte 1985, p. 8. ! Così Rossi 1971, p. 80. !* Così Bachtin 1968, p. 255.

L’allusione necessaria

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della parola altrui, dello stile altrui»: naturalmente «la parola colta è parola rifratta». La nozione del linguaggio poetico come ‘dialogo’ e ‘ambivalenza’ risponde ad un progetto che intende la scrittura come lettura della tradizione, ed il testo

come assorbimento di — e replica a — un altro testo "6. Istruttiva la distinzione, all’interno della parola ambivalen-

te, tra la parola che riusa la parola altrui conservandone pur relativamente il senso (come dunque la reminiscenza e l’allusione, mentre l’imitazione ‘prende sul serio’ la parola imitata e se ne appropria senza relativizzarla, giungendo ad una piena fusione delle due voci) e la parola che introduce un significato

opposto a quello della parola altrui (la parodia), diventando ‘teatro della lotta tra due intenzioni’, e rifiutando ogni e qualsivoglia fusione delle due voci. Osserviamo, agli albori della lirica greca, come la parola archilochea riusi ‘relativamente’ la parola omerica. Il celebre fr. 191 W. τοῖος γὰρ φιλότητος ἔρως ὑπο καρδίην ἐλυσϑείς πολλὴν κατ᾽ ἀχλὺν ὀμμάτων ἔχευεν,

κλέψας ἐκ στηϑέων ἁπαλὰς φρένας

mette in scena l’amore acquattato (subdolamente) sotto il cuo-

re, come già Odisseo però sotto il ventre del montone (per gabbare il Ciclope): λασίην ὑπὸ γαστέρ᾽ ἐλυ-

σϑείς

(1433) Μῦϑος a parte, la superficie sonora dell’epos

sembra voler persistere ai limiti del calermbour. In realtà, l’obbligata e reiterata memoria dell’unica ‘enciclopedia’ possibile — Omero — ne legittima l’uso automatico dei significanti senza troppo riguardo per i significati: un uso congeniale alla compo-

!5 Così Bachtin 1968, p. 264 (lo spaziato è nostro).

16 Il testo resterebbe così consegnato alla ‘storia’ e alla ‘società’, considerate anch'esse come testi che l’autore legge e nei quali s'inserisce riscrivendoli: la traduzione e divulgazione delle istanze bachtiniane in termini ‘intertestuali’ (talora dilatati) spetta a Kristeva 1978 (forzature e semplificazioni appaiono

tipiche di una lettura più ideologica che filologica, cf. pp. 119 ss.).

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Ricerche intertestuali

sizione orale (in primis rapsodica) avvezza ad assonanze (cf.

καρδίην — λασίην) e a ripetizioni di clichés formulari e ritmici, talora (ma non è il nostro caso) in assoluta autonomia fonica e senza alcun interesse per i contenuti. La fisicità dell'immagine odissiaca irrompe, comunque, nel nuovo mondo lirico, ad inaugurare una poetica non aliena (Saffo docebit) da un linguaggio erotico anche crudo: ἔρως, per strappare dal petto, ed anzi

‘rubare’ le tenere φρένες (cf. A 115 ἁπαλόν τέ σφ᾽ ἦτορ ἀπηύρα, sc. il leone che strappa il cuore al cerbiatto}, deve toccare materialmente il corpo. L’icastica essenzialità di tale linguaggio risulta meglio dal confronto con la duplice, e complicata, ripresa di Apollonio Rodio, in occasione dell’innamoramento di Medea (III 281; 296 ss.): αὐτῷ δ᾽ ὑπὸ βαιὸς ἐλυσϑείς

τοῖος ὑπὸ κραδίῃ εἰλυμένος αἴϑετο λάϑρῃ οὖλος Ἔρως: ἁπαλὰς δὲ μετετρωπᾶτο παρειὰς ἐς χλόον.

In entrambi i casi Eros, per esperienza già archilochea, si rannicchia: prima ai piedi di Giasone (αὐτῷ δ᾽ ὑπὸ xTÀ., in omaggio anche a Q 510 προπάροιϑε ποδῶν ᾿Αχιλῆος ἐλυσϑείς), e dopo, più convenientemente, sotto il cuore (ὑπὸ κραδίῃ) di Medea, per compiere il delitto che gli compete (la fanciulla è

colpita dal suo dardo) "7. Il testo apolloniano è nondimeno intessuto di suggestioni saffiche, tratte dal canonico fr. 31 V.: mentre αἴϑετο (v. 296) rimanda al πῦρ della classica sindrome

amorosa (v. 10), il χλόος sulle gote di Medea (v. 298) è ‘pallido’ ricordo del verde livore di Saffo, χλωροτέρα dè ποίας (v. 14). Nella ridda delle (nuove) immagini e delle (antiche) impressio-

ni, l’enfatico λάϑρῃ, in fine di verso (296, che inizia con τοῖος,

17 Sulla ripresa apolloniana, cf. Degani 19774, p. 32.

L’allusione necessaria

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come il primo verso superstite di Archiloco), rimarca però il senso della subdola azione 461} ἔρως archilocheo. Che a sua volta ripete il gesto del δόλιος Odisseo ai danni del Ciclope raggirato e accecato: sarà un caso, ma anche la vittima del nuovo

inganno viene privata della vista! La forma — più dolce, in realtà esiziale — dell’accecamento è anch'essa epica: al guerriero morente càpita che κατὰ δ᾽ ὀφθαλμῶν κέχυτ᾽ ἀχλύς (E 696 = II 344; Y 421). Colpisce sempre la disinibita ‘relativizzazione’ archilochea della parola omerica, non sottoposta comunque a sfasature o declassamenti di sorta: la responsabile tenuta del piano tradizionale ne evita la parodia. Sarà appunto la parodia aristofanea del medesimo luogo epico ad operare una svolta antitetica al modello. Nelle Vespe, Filocleone tenta la fuga aggrappato al ventre di un asino, mentre l’ignaro Bdelicleone apostrofa l’animale (vv. 179 s. κάνϑων, ti κλάεις; ... τί στένεις;), nei modi in cui il Ciclope aveva interrogato il montone (1 447 5. κριὲ πέπον, τί μοι ... ἔσσυο ... / Votatog;), fiducioso nel suo solidale compianto (vv. 452 s. ἦ συ ἄνακτος ὀφθαλμὸν ποϑέεις), desolato che umana favella non lo soccorresse a denunciare il perfido Οὔτις. Aristofane muta di segno la celebre fabula, volgendo genialmente in com-

media l’ironia (quasi) tragica che pesa sul Ciclope, afflitto da una scarsa visione (è in effetti cieco!) degli eventi e del proprio destino, su cui vigila lo sguardo onnisciente dell’autore: e persino l’ariete sa, e direbbe più dell’inconsapevole eroe, qualora fosse in grado di parlare. La vicenda comica stravolge il ‘registro’ di quella seria, rovesciandone il finale: Bdelicleone non può cadere nel tranello perché ‘conosce’ la storia, cui infatti allude (gli fa da ‘spalla’ Filocleone, mentre il Servo commenta) con esibita, perché parodica, eco verbale. Scena a parte, l’orecchio dello spettatore è subito sollecitato dal peculiare interrogativo (κάνϑων, ti xTÀ.), quindi dalla progressiva esplicitazione del fatidico nome: supposto ma vero (v. 181 ᾽Οδυσσέα τιν[ά]), certo ma finto (v. 184 Οὔτις, cf. 185, 186), persino illustrato da un eloquente patronimico (v. 185 Ἴϑακος ᾿Αποδρασιππίδου), coniato per la scherzosa occasione.

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Ricerche intertestuali

Abbiamo voluto citare il triplice e differente riuso (ripresa, allusione, parodia) dello stesso, e noto, racconto odissiaco, per amore di esemplificazione concreta: come la geometria dimo-

stra con le figure, diceva Curtius, così la filologia con i testi. Di testo in testo, abbiamo riconosciuto la mossa di Odisseo in

quella di Eros nascosto, prima in Archiloco e poi in Apollonio, sotto il cuore dell’innamorato (-a). La parola archilochea si attiene, pur ‘relativamente’, alla sola parola omerica, mentre la

parola apolloniana volentieri intreccia anche elementi saffici, non solo per ovvie ragioni ‘storiche’, ma per esibito calcolo (contando su un interlocutore necessariamente in grado di ‘riconoscere’ la parola altrui): nor subripiendi causa sed palam mutuandi, hoc animo ut vellet agnosci 18, In chiave seria 0, per dirla con Bachtin, procedendo nella stessa direzione della parola altrui, la parola allusiva esige un ascoltatore, o un lettore,

in grado di percepire l’intertesto. In chiave parodica, la stessa

parola, altrimenti rifratta, diventa ‘teatro della lotta fra due intenzioni’ chiaramente opposte (la drammatica fuga di Odisseo si degrada nella domestica evasione di un vecchio maniaco, insufficientemente protetto dal ventre di un asino), ma, come la parola allusiva, così quella parodica pretende un pubblico edot-

to: παρῳδία γὰρ ἔστιν ὅταν τὸ ἀλλότριον εἰς τὴν οἰκείαν σύνταξιν

μεταποιήσῃ

τις

οὕτως

ὡς

μὴ

λανϑ

ά-

νειν 9. Se non riconoscessimo la parola altrui, osserva sempre Bachtin, prenderemmo la stilizzazione per stile e la parodia

per un’opera mal riuscita 2°. E, poiché «dalla stilizzazione alla parodia non c’è che un passo» (la motivazione comica: basta che alla corrispondenza fra i due piani, stilizzante e stilizzato, subentri la sfasatura fra i due piani, parodiante e parodiato), nella ‘lot-

ta’ (parodiante e stilizzante) di un autore contro l’altro —

!8 Cf. Sen. Sas. III 7, a proposito di un’allusione di Ovidio a Virgilio (il ‘motto’ è citato in esergo da Conte 1985, p. 5). 9. Cf. Schol. Hermog. VI, p. 400 Walz. 2 Così Bachtin 1968, p. 238.

L'allustone necessaria

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osserva a sua volta Tynjanov — sempre l’uno «chiaramente» parte dall’altro «senza celarlo» 2]. Questo punto d’incrocio — già individuato dagli antichi — tra σπουδαῖον e γελοῖον, tra allusione e parodia, entrambe

attivate dal riconoscimento, spiega l'inclusione, in fondo al presente volume, del capitolo (XIV) dedicato ad Aristofane allu-

sivo in quanto ‘pareuripideo’: ad Ipponatte, del resto, cioè al presunto εὑρετής della parodia, l’allusivo Callimaco dichiara programmaticamente le proprie affinità elettive 22, Gli altri dodici saggi (a cominciare dal prossimo) intendono antologizzare altrettanti esempi di dialogo poetico ‘serio’ — dai greci arcaici agli alessandrini, e ai romani — fino a registrare un massimo, per così dire, di necessità: fino a che sulla normale necessità intertestuale si sovrapponga (nel senso che avremo modo di precisare) quella allusiva. In tutti i casi funziona la puntuale consegna della ‘parola ornata’, la parola salvifica, rammenta Curtius, in virtù della quale Virgilio è inviato da Beatrice in tecnico soccorso di Dante ??: ἕτερος ἐξ ἑτέρου σοφός ammetteva

già Bacchilide, non preoccupandosi di nascondere o esibire l’acquisita σοφία, eredità obbligata τό τε πάλαι τό τε νῦν (Pae. V 1 s.). Così, nel saggio (II) che apre la ‘serie’ greca, [οὐκ ἀλέγω pronunciato da Alcmane nel cosiddetto Primo Partenio (tr. 3, 2 C.) trova nel rifiuto di Ibico νῦν dé por οὔτε... ἐπιϑύμιον οὔτε xtÀ., funzionale all’encomio di Policrate ($ 151, 10 ss. P.), un’a-

naloga e confortante valenza poetica; mentre, ai vv. 2 e 15 dello stesso Partenio, il problematico καμόντες ed il sibillino ἀπέδιλος s’incardinano formalmente nella tradizione epica, ma s’illuminano di nuovi significati lirici, alla luce di pertinenti riscontri pindarici. Il caso (IV) dell’Epodo archilocheo, recentemente

2! Cf. Tynjanov 1968, pp. 138 5.

2 Su ‘Ipponatte parodico’, cf. Degani 1984, pp. 187 ss. (per la speciale attenzione di Callimaco, cf. pp. 181 ss.). P P

2 Cf. Curtius 1956, p. 88.

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Ricerche intertestuali

ampliato dalla scoperta di PCo/. 7511, annuncia verosimilmente la nascita di un τόπος — la caducità della bellezza e l’invito a viverla tempestivamente — pressoché inestinguibile oltre i confini della letteratura classica. Ad un τόπος sembra ugualmente riferirsi il caso (V) dell’anonimo canto eolico, ascrivibile a Saffo

(fr. 44 A [a] V.) anche per plausibili ragioni intertestuali (Teognide): un tema ‘femminile’ poi citato con sorriso dalla commedia di Aristofane. Ad uno scomodo isolamento può finalmente sottrarsi l'esempio (VII) della presunta ‘sala d’armi’ di Alceo (fr. 140 V.), che si identifica come luogo sacrale, sulla scorta di paralleli

tragici,

ma

pure

(ironicamente)

epigrammatici.

Più

discretamente il caso (VI) di βόρηται, in Sapph. 96, 15 V., esce dall’isolamento, non solo linguistico, trovando un ‘naturale’

supporto epico ed inaugurando un motivo rintracciabile in poesia (d'amore) fino a Teocrito. Lo spassionato riuso della parola omerica è facilitato a Saffo, come ad Archiloco, da una memoria

tradizionale perennemente ‘in atto’: «la dictio epica di Saffo non è mutuata dall’epos nel più comune rapporto di canone ed imitazione; rappresenta invece una fase avanzata, e del tutto vitale,

di quel processo tradizionale, il cui sviluppo è chiaramente rilevabile già nei poemi» 24. Con qualche somiglianza, il problematico caso (III) dell’ ἔρως di Ibico — ᾿᾿έρως che, οὐδεμίαν κατάκοιτος ὥραν,

ostilmente πεδόϑεν φυλάσσει / ... φρέ-

νας (fr. 5 P.) — può contare su un precedente verbale in Omero e un parallelo tematico in Esiodo. L’eco ‘interdiscorsiva’ ma (quasi) gratuita del lamento di Penelope — l’eco di κοίτοιο ... ὥρη e di ἔμπεδα ... φυλάσσω (1 510 ss.) — gioca ai limiti del nonsense o, in altri termini, della parola ‘transmentale’ 25, sul filo

della memoria propriamente auditiva, per cui i significanti ibicei ‘risuonano’ in disinvolta autonomia dai contenuti epici. Una

2 Così Marzullo 1958, p. 48. 25 Per il concetto di ‘interdiscorsività’ (Segre), applicato alla poesia greca orale, cf. Vetta 1984, p. 345. Sul concetto formalista (e futurista), e, per un

‘competente’ cenno critico al saggio di Sklovskij sul linguaggio ‘transmentale’, rinvio a Ejchenbaum 1968, pp. 38 ss.

L’allusione necessaria

21

sorta di parola ‘a sé’ 26, il cui involucro fonico armonizza coi soli

significanti di una parola altrui; mentre, quanto al significato, curiosamente (e fortunosamente) armonizza con una seconda parola altrui: quella esiodea sulla φυλακὴ ἔμπεδος di Argo, insonne carceriere di Io (fr. 294, 3 s. M.-W.). Scherzi della tradi-

zione orale, dove «i modi concreti dell’attività del poeta prevedevano una prassi compositiva che riutilizzava adattandoli alle esigenze del canto i materiali poetici del repertorio mnemonico e si esplicava sia sul piano dei contenuti mitici sia su quello linguistico dei lessemi e dello stile» 27. Di differentissimo tenore gli esempi ellenistici, subordinati

a quelli arcaici (VI, VII), o viceversa trattati da protagonisti: come il caso (VIII) che mostra, per la prima volta sinotticamen-

te, il rapporto fra Teocrito (II 82 ss., 106 ss.), Apollonio (III 284 ss., 962 ss.) e Saffo (fr. 31 V.). Rapporto complicato dal ‘dialo-

go’ fra le stesse due riprese ellenistiche: dove la mediazione apolloniana consente di decidere, crediamo definitivamente, fra le due varianti πυρί o περί in Theocr. II 82, e di chiarirne l’oppositivo ἐπάγην (v. 110), per cui il corpo di Simeta si irrigidisce, mentre quello di Saffo aveva tremato. Il modello saffico, a sua volta, permette di misurare ‘specularmente’, sulla doppia versione alessandrina, l’intensità di un’allusione che possiamo dire

‘necessaria’, in quanto espressione obbligata, e però riflessa, di una realtà (quella intertestuale) da sempre oggettivamente obbligata. Come sul testo parodico preme, per forza, il testo parodiato che lo precede, così sul testo alessandrino — con l’affermarsi della filologia quale istituzi onale coscienza storica — grava l’incomodo peso di un passato. Incomodo per quella perdita dell'innocenza ormai accusata dal mestiere poeti-

.

* Parafrasando la parola ‘in se’: per un’attuale riflessione sull’autosuffi-

cienza della parola poetica, cf. Gadamer 1986, pp. 161 ss. 2? Così Gentili 1984, p. 72.

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Ricerche intertestuali

co: la ‘doppia anima’ del nuovo poeta-filologo lo impegna a confezionare testi talora così complicati che devono in sé contenere le ‘istruzioni’ per la propria lettura, una lettura che comporta non solo la (normale) rilettura di altri testi, ma anche la

consapevolezza, se non l’esplicitazione e persino la ‘teorizzazione’ del fenomeno. Si problematizza il rapporto verticale (con la tradizione) ed orizzontale (con il pubblico) della parola artistica, (più o meno manifestamente) rifratta e ambivalente. L’ormai generalizzata diffusione libresca della cultura, anche poetica, è certo il dato distintivo — rispetto al passato — dei nuovi modi della comunicazione, e della mutata destinazione della letteratu-

ra. I riflessi dell'ormai compiuto passaggio ad un testo scritto per essere letto (e riletto) sono avvertibili nella maniera propriamente ‘alessandrina’ del riuso della parola altrui: l’allusione, la cui esistenza (e consistenza) dovrà dirsi «subordinata al libro»

non meno dell’esistenza stessa della filologia 28. | In tale temperie socio-culturale (i cui effetti si riverberano variamente sulla poesta romana) andrà dunque rimotivata la nozione ‘pragmatica’ dell’arte allusiva, magari depurata da ogni implicazione psicologistica (l’intenzione), con cui Pasquali voleva riscattare la passività dell’imitatio. «Per rendere conto della comunicazione in quanto atto si introduce generalmente il concetto di intenzione cheè incaricato di motivarla e di giustificarla. Questa nozione ci appare criticabile nella misura in cui la comunicazione è considerata o come un atto volontario — il che non è sempre — o come atto cosciente — il che deriva da una concezione psicologica dell’uomo un po’ troppo semplicistica»: così recita un corrente dizionario semiotico, sotto la voce intenzione, al cui concetto sostituisce quello, fenomenologico, di ‘intenzionalità’, che li sussume entrambi, permettendo di

concepire l’‘atto’ come una tensione tra la ‘virtualità’ e la ‘realiz2 Così Pfeiffer 1973, p. 62, che ovviamente parla di nascita della filologia «come disciplina intellettuale autonoma» (p. 43, cf. Cavallo 1977, p. XVII): qui noi parliamo, appunto, di allusione in senso ‘istituzionale’, cioè sistemati-

co.

L’allusione necessaria

23

zazione’ 2. Tale concetto, depurato a sua volta da ogni implicazione filosofica, si presterà a qualificare non più l’intenzione soggettiva bensì l'intenzione — o, se si vuole, l’intenzionalità — come

programma,

oggettivamente

sotteso,

nell’‘atto’

compositivo alessandrino, ai più vari livelli: dalla lingua allo stile, dal tema al genere, alla stessa poetica che sifa testo (interrompendo la finzione e rinunciando alla rappresentazione verosimile). In siffatto sistema l’allusione funzionerà da breve comunicazione di appartenenza o estraneità ad una data forma o maniera letteraria, da minimo manifesto poetico. Manifesto che l’edotto e necessario interlocutore — secondo la bella intuizione mediologica di Pasquali, che formula una sorta di principio del ‘terzo incluso’: il lettore, oltre l’autore e, naturalmente, il testo — dovrà, e saprà, oggettivare nel testo. Poiché il testo è,

per così dire, l’oggettivo ‘luogo totale’, dove s'incontrano sia l’intenzionalità sia la competenza che gli appartengono: ma non la psicologia del ‘suo’ autore, che gli corre parallelamente senza mai toccarlo, neppure in superficie °°. Una ‘sana’ e radicale «fuga dalla personalità» si autoprescrive, preventivamente, un moderno poeta doctus, quasi a favorire, in anticipo, un’oggettiva critica di se stesso: «il poeta non può raggiungere questa imper-

sonalità senza arrendersi interamente all’opera che deve essere fatta» ᾽". Se, dunque, a dispetto dello stesso artifex, non conta il finis

operantis, bensì il finis operis, e se ciascun opus (non solo quello

? Così Greimas-Courtés 1986, p. 179. % In ogni enunciazione, dice Bachtin 1968,

p. 238, sentiamo l’autore,

mentre dell’autore (vale a dire anche della sua psicologia) al di fuori dell’enunciazione possiamo magari non sapere nulla. L'intenzione dell'artista, intesa come soggettività, quand’anche nota, non spiega l'opera d’arte, ma costituisce un fenomeno a lei parallelo (così Panofsky, per togliere al Kunstwollen ogni riferimento a una realtà psicologica, cf., in proposito, Ginzburg 1986, p. 54).

I rischi (improduttivi) di una critica psicologistica sono ben evidenziati, su di un caso ‘estremo’ come quello dell'americano Bloom, da Conte 1985, p. 113. "1 Per la celebre definizione, cf. Eliot 1971, p. 101.

24

Ricerche intertestuali

alessandrino) mira ad un proprio fruitore, la cui competenza è sempre inscritta nel testo, la competenza allusiva sarà più che mai incisa nel testo, profondamente e come ‘in abisso’: una competenza ‘al quadrato’, che infatti Pasquali riservava alla poesia dotta, alla poesia riflessiva e volentieri autoriflessiva, diremmo in tal caso alla metapoesia. L’atto per cui un testo, specie poetico, si costituisce in quanto tale ha, notoriamente, due possibilità: dire o non dire di

sé. Nel secondo caso il testo rappresenta — o crede, o finge di rappresentare — immediatamente il mondo, nel primo rappresenta anche l’atto del rappresentare. Necessariamente semplificando, ed esemplificando: laddove la poesia greca arcaica racconta, o mostra di raccontare, in modo trasparente la realtà, la poesia alessandrina, indugiando in riflessioni metapoetiche,

racconta anche i modi (e i fini) del racconto. Non sarà il caso di domandarsi dove stia la maggiore presunta ingenuità: a scanso di sempre improbabili ‘scoperte dello spirito’ (all’interessata testimonianza dei poeti, che almeno l’arte non progredisce mai, si aggiunga la constatazione che le due specie di racconto possono convivere in pace), occorrerà semmai insistere sulla mate-

riale e ormai perfetta trasformazione, in età ellenistica, del messaggio da orale a scritto: il comporre dialogando (filologicamente) con una tradizione ‘compiuta’,

e comunicando con un let-

tore che «poteva riconoscere a suo comodo e ‘assorbire’ e ‘pensarci su’», doveva necessariamente produrre qualche conseguenza, se è vero, d’altra parte, che «soltanto quando il linguag-

gio viene fissato per iscritto diventa possibile riflettere su di esso» ?2.

L’allusività è la necessaria attitudine di una poesia che dialoghi sistematicamente con una tradizione data per compiuta, e dunque leggibile come un testo storicamente fissato per sempre, su cui riflettere, riflettendo altresì sulla formazione del testo. E la poesia alessandrina è la prima (nella cultura occidentale) metapoesia, che programmaticamente sco*? Cosi Havelock 1986, pp. 137 e 140; cf. supra n. 28.

L’allusione necessaria

25

pre le regole del gioco intertestuale (come già, grazie però alla parodia, il metateatro aristofaneo scopriva e confondeva le carte del testo tragico, mentre, ancor prima, la parodia ipponattea aveva scoperto e decostruito la finzione dell’epos), esponendo la propria poetica nel corso stesso del poetare: finendo per produrre taluni espliciti e compatti Programmgedichte (il prologo degli Αἴτια di Callimaco, le Talisie di Teocrito, il mimo VIII di Eronda), ma cominciando da unità progettuali anche minime, talora celate per stuzzicare il gusto della scoperta, magari affidate alla singola parola (allusiva) come alla più sottile, e tuttavia concreta, espressione del dire poetico. L’icastico esempio del!’(&)n&yn(v) apolloniano-teocriteo (di cui al nostro capitolo

‘alessandrino’: VIII), capace di riassumere in una parola la reazione di Teocrito alla già dialettica risposta di Apollonio a Saffo, è un atomo di scelta poetica in effetti esplosiva. L’allusivita opera qui in una battuta — alla stregua del ‘motto di spirito’, ed a conferma di quel punto d’incontro fra

σπουδαῖον e γελοῖον già individuato dagli antichi — con l’indispensabile cooperazione del destinatario, nell’attimo in cui scatta il meccanismo del riconoscimento. La ‘vera’ essenza di (ἐ)πάγη(ν) non può restare segreta (pena la sua incompren-

sione e il suo fallimento), ma deve rivelarsi: rivelare cioè le proprie relazioni (intertestuali), non importa se d’identità o differenza, e meglio se rapidamente ”. Secondo Aristotele, tipica degli ἀστεῖα (delle espressione argute e spiritose, quindi delle battute) è la produzione di una μάϑησις ταχεῖα, e ciò non perché gli ἀστεῖα abbiano a che fare con gli ἐπιπόλαια (le espressioni comuni,

ordinarie,

che, in quanto

‘superficiali’, sono

chiare e non necessitano di alcuna introspezione: δῆλα, καὶ ἃ μηδὲν dei ζητῆσαι), ma perché giocano cisione cui si addice una pronta μάϑησις (διὰ τὸ ϑᾶττον γίνεται, cf. Rhet. III 1410b 21 ss.; 1412b

tà παντὶ sulla conἐν ὀλίγῳ 24). Sono

4 Sulla virtù, tipica del ‘motto’, di scoprire con sorprendente rapidità relazioni di somiglianza o differenza, cf. Freud 1972, pp. 9 ss.

26

Ricerche intertestuali

ἀστεῖα --- dotati di duplice faccia perché fondati sull’ a n alogia, che riassume in sé identità e differenza — le comparazioni e le metafore. Ma anche nel caso dell’allusione — per chi la intenda, nel discorso poetico, come metafora ‘inversa’ che dal verbum proprium rimanda all’imzproprium — «solo dopo che la memoria ha operato l’‘agnizione’, stabilendo così l’inattesa polarità con l’improprium, si realizza la pienezza espressiva», assieme alla «consapevolezza della duplicità del discorso» ?. Della stessa duplicità partecipano, in Aristotele, gli ἀστεῖα cosiddetti παρὰ γράμμα σκώμματα, la cui natura parodica fa sì che al destinatario, il quale non afferri la ‘lettera’ del primo enunciato, sfugga lo ‘spirito’ del secondo (εἰ μὴ ὑπολαμβάνει.. οὐ δόξει ἀστεῖον εἶναι, cf. Rber. III 1412a 29-b 1ss.). Questo necessario disvelamento della parola rifratta, sia che seriamente conservi (stilizzazione, allusione) sia che rovesci

(parodia) il senso della parola altrui, risponde sempre, in poesia, a un dato programma esposto nell’apposito spazio riservato alla ‘teoria’, però testualizzata. Di qui la «intenzionale messa a nudo dei procedimenti costruttivi» e la ricerca della lingua difficile, se non ‘impedita’: ma è un impedimento che sollecita l’attenzione al linguaggio poetico e la sua percezione, secondo una strategia — inutile nel ‘linguaggio pratico’, trasparente come gli ἐπιπόλαια aristotelici } — normalmente adottata dal poeta doctus, già alessandrino, precocemente contrario alla distinzione di ‘poesia e non poesia’, fautore ed autore, viceversa, di una poetica (auto)riflessiva, dove la rottura della finzione non ne implica peraltro il rifiuto, ne conferma semmai lo statuto. Tale «contraddittoria consapevolezza» *, che sta alla base

+ Cosi Conte 1985, p. 34.

Sulla nota tesi di Sklovskij e sulla nozione di linguaggio ‘pratico’ (opposta ovviamente a quella di linguaggio poetico) di Jakubinskij, cf. ancora Ejchenbaum 1968, pp. 44 ss. e 38. Cosi Conte 1985, p. 41, il quale ritorna più volte su tale consapevolezza contraddittoria, quanto «programmatica», quindi imputabile «direttamente all’esperienza alessandrina e neoterica» (cf. Conte 1984, p. 126, ma v. infra).

L’allusione necessaria

27

di ogni operazione metapoetica, alimenta ulteriori e non meno affascinanti conflitti culturali d’età ellenistica: filologia e poesia, riflessione e creatività, πολυμαϑίη e λεπτότης, diffusione libresca e produzione elitaria, scienza appassionata del passato e desiderio spasmodico di novità, codificazione di generi e dia-

letti ma rifiuto di ogni purismo in materia ?”. Per quella stessa critica della finzione cui si accennava, il preliminare rifiuto del ‘verosimile’ — unito all’avversione per l’unità, la compiutezza,

la misura aristotelica — porta, da un lato, all'adozione di forme discontinue e di pochi e sottili versi, dall’altro, alla ricerca di una verità eziologica, e realisticamente espressa, fuori della celebre

distinzione tra storia e poesia ?8: così la prima ‘avanguardia’ della letteratura europea rinuncerebbe alla rappresentazione verosimile per una addirittura più vera. In realtà, alla distruzione dello schema ‘universale’, succede la ricomposizione di un quadro rappresentativo orgogliosamente veridico (ἀμάρτυρον οὐδὲν ἀείδω), quanto personale e ‘contingente’. Ogni contraddizione, di fatto, si dissolve nella coerente istanza sperimentale ed egocentrica o, se si vuole, si consuma nell’estrema antinomia

per cui l’io del poeta tanto più si rappresenta quanto più è consapevole, ormai, di far parte del testo, e che il poetare «non con-

siste più nel raccontare ma nel dire che si racconta», mentre la cosiddetta ‘personalità’ dell’artista è interna all’atto del comporre costituendone un ‘prodotto’ ed un ‘modo’. Questa «ambiziosa affermazione dell’io del poeta, che, lungi dal celarsi dietro una qualsivoglia copertura, si fa invece avanti in prima persona per far conoscere di sé ogni cosa che serva a caratterizzarlo, distinguendolo» è la stessa che «al ristretto pubblico dei competenti» impone quel «rapporto di gelosa connivenza» “, propriamente cementato dall’allusione. ” Rinvio, in proposito, alle splendide pagine callimachee di Pfeiffer 1273, pp. 208 ss.

58. C£. ancora Pfeiffer 1973, pp. 227 ss.; sulle nozioni di ‘verità’ e ‘realismo’, cf. Serrao 1974, p. 176.

5 Cf. Calvino 1980, pp. 167 e 172, per una disincantata critica della critica (più recente).

Ὁ Così Conte 1984, p. 123.

28

Ricerche ntertestrali

Sull’esperienza alessandrina (e neoterica) — cui appartiene «questo emergere dell’io stesso del poeta dalla sua consapevolez-

za programmatica» 7} — si radica, notoriamente, la poesia dell’età di Augusto, quando però l’esperienza allusiva ha maturato più di una stagione, e di una tecnica. Non è un caso che Pasquali prevenisse l'accusa di «andare a caccia di eleganze alessandrine nella poesia augustea», propriamente qualificando una serie di riprese

‘emulative’ *. In una letteratura come quella latina, già per nascita,

grazie a traduttori-letterati e traduttori-poeti *, esplicitamente al secondo grado, del tutto impropria risulta ogni pretesa dialettica fra imitazione e originalità. In tempi di rigoroso modernismo riformista, persino la trasgressione (neoterica) riposa sulla tradizione (alessandrina), ed in sèéguito vige sempre più «non... tanto

competizione quanto piuttosto volontà di adeguamento» *, nei confronti di modelli esteticamente rivisitati con pacificato

rispetto del ‘classico’. In un tale sistema intertestuale — di per sé affatto inerte tessuto di elementi tradizionali più o meno esplicitati — latramaallusiva sempre risalta, comunque, per quantità di motivazione, così da tradursi in qualità adognioccasione progr a m-

matica. Mentrenoninteressa il compiacimento del poeta per l'eventuale «variazione ingegnosa», interessano, e molto, i meccanismi per cui all’attento lettore non sfugga il «complimento» ‘, o l'emulazione che sia, nei confronti del testo preso a modello.

Certamente, l’atteggiamento di Virgilio nei confronti del suo modello epico (Omero) «non è concepibile senza uno sfondo culturale

in

cui

la

pratica

dell’esegesi

e

del

commento

critico è divenuta l’unica via ‘autorizzata’ di accesso alla poesia

41 Così ancora Conte 1984, p. 126.

+ Cf. Pasquali 1968, p. 282. # Sulla funzionale nozione distintiva, cf. Mariotti 1986, pp. 51 s.; per un panorama dei rapporti fra letteratura latina arcaica e alessandrinismo, cf. ancora Mariotti 1965, pp. 34 ss. 4 Cf. Conte 1985, p. 41, a proposito di Virgilio (nei confronti di Omero).

# Così Pasquali 1968, p. 278. La «bella espressione» (complimento) è

sottolineata da Conte 1985, p. 12 n. 19.

L'allustone necessaria

29

del passato, e quest’ultima si è mutata, ormai, tra le mani dei

filologi-poeti in oggetto letterario» “6, Tale atteggiamento alessandrineggiante è, prima ed ancor più, vistoso nei confronti del

modello

bucolico

(Teocrito).

Particolarmente

apprezzabile

nella sesta Ecloga, che in assoluto «è forse l’opera più alessandrina di Virgilio» *. Qui i modi e le forme che scopriremo (IX, X) abili ad attivare la complice intesa del destinatario, sono indicativi di una strategia testuale, dove, almeno in un caso (IX), la

stessa tecnica dell’allusione appare obbligata dal già allusivo modello teocriteo. All’esempio della sesta Ecloga si aggiungono altri esempi latini, tutti aggregati ad un precedente greco: relativi a Properzio (X, XI), incidentalmente a Lucrezio (VIII) ed Ovidio (IV), ripetutamente ad Orazio (IV, XII, XIII). La memoria da noi

rintracciata in Properzio, Lucrezio ed Ovidio si lascia variamente definire, vuoi in termini oggettivamente intertestuali, vuoi, con Pasquali, in termini più o meno intensamente ‘evocati-

vi’. Un giudizio più complesso meritano i rapporti di Orazio con Archiloco (IV) e soprattutto con Alceo (XII) (a parte si colloca

la singolare ripresa dell’epigramma di Dioscoride: XIII). Tali rapporti danno la misura, variamente graduata, di quel

pacificato — né solo oraziano — dialogo con la tradizione, nel corso dell’etä augustea, cui sopra accennavamo. Non è che manchino le ‘eleganze’ della parola, soverchiamente, anzi, colta e rifratta: ma ogni indagine volta a scoprirne la vena emulativa risulterebbe piuttosto fuorviante. Natura e funzione dell’allusività di Orazio — il fascino della sua lirica, per lo stesso Pasquali, sta nella tensione tra forme antiche e contenuti nuovi, 0, meglio,

nella tensione dentro le stesse nuove forme, poiché anche «lo stile e il verso è insieme vecchio e nuovo» “8 — sono già in nuce nella dichiarata elezione di modelli ‘classici’ (Archiloco, Alceo), ‘tra-

dotti’, sì, ma poeticamente, e dunque ‘rigenerati’. La stessa * Così Barchiesi 1980, p. 56. 7 Così Conte 1987, p. 208. 4. Cf. Pasquali 1968, p. 277.

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Ricerche intertestuali

tecnica del ‘motto iniziale’, cioè della ripresa letterale che, secondo Norden, «consisté nel prendere a prestito motivi, ch’e-

gli colloca a guisa di motto in principio e svolge poi più o meno originalmente» — tecnica che suggerisce a Pasquali alcune tra le più belle pagine dell’Orazio lirico ** — potrebbe persino leg. gersi come un espediente per pagare, sübito e platealmente, il necessario debito alla tradizione, da cui staccarsi, quindi, con

personale eleganza. Non meno interessante la tecnica «delle somiglianze, che non sono mai letterali, ma si estendono a tutta la poesia» 5°, Esempio (IV) ne sono le ‘canzoni a dispetto’ (Car. I 25, III 10, IV 13), che interpretano taluni arm: archi-

lochei, con quella fedele libertà solo consentita da un disincantato, pur se amorevole, rapporto con la tradizione. Mentre il

caso (XII) dell’ode O navis, referent in mare novi fluctus (1 14) — un’allegoria costruita quale ortodossa ‘metafora continuata’ — costituisce l'esemplare trasformazione di un testo (anzi di più testi, almeno di Alcae. 6 e 208, nonché 306i col. II, e fors’anche

73 V.), di cui si conserva la forma progettuale: come se la navestato già alcaica venisse smontata e, pezzo per pezzo, rimontata

con gli aggiornamenti imposti dal contemporaneo e ‘augusto’ referente. Ne risulta, come vedremo (XII), un testo carico di

quel «senso storico» che propriamente «implica non solo l’intuizione dell'essere passato’ del passato, ma anche quello della sua presenza», un testo di «uno scrittore tradizionale», ma in

termini eliotiani, «acutamente consapevole del suo posto nel tempo, della sua contemporaneità»: forse è questo particolare senso storico, criticamente, se non poeticamente, definito come

«senso dell’atemporale e del temporale, tanto quanto del temporale e dell’atemporale insieme» °', che guida gli autori della

Cf. Pasquali 1920, pp. 16 ss. Si veda, in proposito, l'introduzione di La Penna 1966, p. XII s.: «Il concetto è del Norden, ma si deve a Pasquali l’importanza che esso ha assunta nell’interpretazione della lirica oraziana». Ὁ Così Pasquali 1920, p. 37. % Sono celebri le pagine di Eliot 1971, pp. 93 ss., sulla dialettica ‘tradizione e talento individuale’.

L'allustone necessaria

31

classicità romana alla ricerca di un rapporto ‘naturale’ con l’essenzialità dei classici greci 2, Resta però, ormai acquisita e irrinunciabile, la coscienza riflessa del poeta doctus, dimorante nel cosiddetto ‘spazio della teoria’, ridotto magari tra le pieghe del testo, oppure confuso nello stesso ordito narrativo. Qui andrà sempre e comunque ricercata l’allusione, rivolta al destinatario-complice, fruitore

spassionato di ‘poesia e non poesia’, esploratore smaliziato dei luoghi anche ‘affabulati’ della teoria, vale a dire della stessa poetica. L'esperienza alessandrina ha fatto il suo tempo, ma anche scuola: e alla coscienza riflessa del poeta, per ragioni storiche sempre più dotto, risulta sempre più chiaro che ogni opera «contiene per forza le teorie che la fondano», anche se esistono opere «che sono più teoriche di altre e che anzi sono destinate,

talora esplicitamente, alla riflessione sui fondamenti stessi della loro costruzione» 5). Sia nella versione più esplicita, riflessiva (0, se si vuole, metapoetica), sia nella versione implicita, integrativa (0, secondo la bella definizione funzionale più volte citata, metaforica), l’allusione agisce, non certo in modo extratestuale, ma ad

un sempre apprezzabile livello sopralineare, in quelle opere ‘più teoriche’ di altre poiché rappresentano anche il proprio rappresentare, che nella fattispecie rievoca — si integra con — il già rappresentato. Nel ‘grande mare dell’oggettività’ intertestuale — dove reminiscenze imitazioni calchi allusioni confluiscono,

senza distinzione che non sia funzionale, verso un principio unitario e ‘costruttivo’ del discorso poetico — l’allusione costituisce un elemento, se non eccentrico, certamente dinamico, che

esalta, più e meglio d’ogni altra ‘memoria’, la nozione di testo come progetto e comunicazione, per così dire, in atto. L’allusione integrativa è forse più ‘poetica’ (non a caso metaforica!), 2 Cf. Conte 1984, p. 130. * Così Calabrese 1984, p. 5, che legge in questa chiave l’intertesto (pittorico) degli Ambasciatori di Holbein il giovane, «uno dei pittori più ‘intellettuali’ del Rinascimento europeo».

32

Ricerche intertestuali

poiché ‘finge’, ma solo per un attimo, di negare l’esistenza di un testo ‘altro’ e precedente. L’occultamento della scissione fra il testo e il cosiddetto ‘ipotesto’ — quella scissione ammessa, inve-

ce, dall’allusione riflessiva — è una tipica precarietà della figura metaforica, che rischia, ad ogni passo, di perdere la maschera

per scoprire la propria origine ‘concreta’. Al destinatario spetta il disvelamento dell’allusione/illusione (metaforica): la scoperta dello stesso artificio retorico, che provvisoriamente maschera una prima e ‘altra’ natura. Si sarà notato che tutti gli esempi annunciati — sia, ed ovviamente, quelli greci, sia quelli latini — riscoprono tale prima e altra natura sempre in un testo greco. L’insistenza è uni-

camente imputabile all’‘ossessione professionale’ di chi scrive. Tuttavia, proprio dentro il corpus omoglotta della poesia greca, e nell’arco che l’abbraccia dall’età arcaica a quella alessandrina, è possibile apprezzare di più e meglio la specialità dell’allusione: un invito speciale, in effetti, come individualizzato, alla ‘parteci-

pazione’ di un desiderato Mitspieler che sappia stare al gioco 5, quando

ormai

la

partecipazione

certa,

perché

‘fisica’,

di

un'intera collettività è venuta meno da tempo. Se in età ellenistica «nuovi non sono i procedimenti» né gli stessi materiali

poetici (la vecchia formula bacchilidea ἕτερος ἐξ ἑτέρου riconosceva, già linguisticamente, l’alterità nella continuità della tradizione), «è lo spirito che è nuovo»: nel senso, però non ovvio, che «il lavoro di ‘smontaggio’ operato dalla teoria», pro-

priamente il lavoro filologico, «è seguito nella prassi degli autori da un complicato lavoro di rimontaggio», inteso tuttavia non solo a «mettere insieme gli elementi più disparati» 9, ma, riba-

diamo, a fare della stessa teoria un elemento strutturale. Di qui l’intellettualismo sempre attribuito a questa (o a questo tipo di)

3 Sul concetto di arte come ‘gioco’ e sul necessario ‘partecipare’ (mitspielen), cf. Gadamer 1986, pp. 25 ss. 5 Così Rossi 1971, pp. 83 5.

L'allustone necessaria

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poesia. E sempre riconoscibile, s'è detto, nelle forme dell’allu-

sione, ogni volta che ci si avventuri dentro la proiezione di un testo greco nel proprio passato letterario, alla ricerca di quei ‘nessi inediti’ puntualmente individuati dall’intertestualitä 6: nella fattispecie dall’intertestualità più chiusa, non turbata da alcuna ‘traduzione’ linguistica, ed anzi caratterizzata da persistenze lessicali, sintattiche, stilistiche, foniche, etc., la cui ‘tradi-

zione’ rimanda sempre o, rovesciando il punto la letteratura d’Europa starchea, Ὅμηρον ἐξ

e solo a se stessa. Fino all'ultimo poeta di vista, fino al πρῶτος εὑρετής di tutta ”: la vecchia formula, questa volta ari"Oungov (σαφηνίζειν), può ben signi-

ficare, oltre la lettera, l’unica possibilità (intertestuale) sincro-

nica e diacronica ad un tempo. Poiché prima di Omero non c’è che Omero. Si sono qui, di fatto, già scritte le conclusioni più generali delle nostre ricerche, i cui risultati concreti e particolari saranno riscontrabili ad ogni capitolo. Lì, abbiamo preferito un’esposizione la più asciutta possibile, se non altro perché ci saremmo trovati a ripetere, più volte, queste anticipate considerazioni: la cui pretesa ‘teorica’ resta, comunque, e vuole restare minima, in

vista dello scopo materialmente costituito, come si vedrà caso per caso, dall’esegesi — magari nella forma più «avvincente» 8 — e dalla stessa acquisizione testuale, quando, in occasioni specialmente fortunate, l’intertesto aiuta a identificare la lettera

dell’incerta o insana tradizione °°.

% Per tale nozione di intertestualità ‘regressiva’ cf. Corti 1983, p. 70, funzionalmente citata da D’Ippolito 1985, p. 32. ” Ci sia consentito riportare l’intera frase di Eliot 1971, p. 94, a proposito della ‘tradizione’, in primo luogo implicante quel senso storico che a sua volta implica «il sentimento che tutta la letteratura d'Europa, dopo Omero, e con essa tutta la letteratura del nostro paese (sc. l'Inghilterra), ha una simultanea esistenza e forma un ordine simultaneo». % Per l’intertestualità, intesa come «anche un'avvincente forma di ermeneutica testuale», cf. Corti 1983, p. 62. 5. Come, ad esempio, nei casi di Sapph. 44 A (a) V., Theocr. XIII, Hor. I

34

Ricerche intertestuali

Abbiamo,

d'altronde,

proceduto

tradizionalmente,

ed

empiricamente, sulla base dell’observatio, muovendo sempre (come voleva Aristotele) dall’oggetto, nella fattispecie il testo, a noi più vicino e dunque più noto, nel legittimo tentativo di conoscere — 0 riconoscere? — il meno noto, una volta che aves-

simo ravvisato la somiglianza fra due o più testi: poiché riconoscere (come vuole oggi un filosofo, già filologo classico) non è «vedere di nuovo qualcosa», ma «conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto» ®. Abbiamo seguito, in sostanza, il procedimento analogico, normalmente adottato dillo storico, e quindi

dal filologo, abituato ad osservare il testo mai nella sua singolarità, bensì alla luce di altri testi simili, portatori di identità e di dif-

ferenze, e dunque, progressivamente, di elementi di continuità e di rottura, storicamente traducibili in termini di tradizione e innovazione letteraria δ᾽.

L’approccio intertestuale non sarebbe, in fondo, che la regola del lettore-filologo ‘modello’ (immerso nella testualità almeno quanto gli autori che abitualmente frequenta), mentre si rimprovera al lettore-filologo ‘empirico’ di limitarsi, troppo spesso, a individuare l’intertesto: «se l’intertestualità si riducesse a questo», si è osservato, «potremmo fare a meno del termine: la conoscenza dell’intertesto anteriore rientrerebbe nell’ambito della tradizionale ricerca delle fonti, la conoscenza del-

l’intertesto posteriore rientrerebbe nella storia della fortuna» 52.

25, Prop. I 20 (rispettivamente ai capitoli V, VIII, IV, X). Una superflua con-

ferma dell’utilità che presenta, oltre che per l’interprete, anche per il critico del testo, «lo studio sistematico delle imitazioni (il termine è qui generico, né del resto in pratica si fa sempre la distinzione che, almeno quando è possibile, sarebbe utile fare tra l’occasionale ed eventualmente inconscia ‘reminiscenza’,

la vera e propria ‘imitazione’, sempre intenzionale e talora emulatoria, e 1'‘allusione’ (o, come qualche volta si dice, ‘citazione’)»: così, significativamente,

Mariotti 1969, p. 25. 6 Così Gadamer 1986, p. 51. 6 Sul rapporto analogia-storia, una limpida riflessione ha dedicato recentemente Canfora 1982. 6 Cosi D’Ippolito 1985, p. 23, che fa sua una considerazione di Riffaterre.

L'allustone necessaria

35

Da parte nostra, oseremmo dire che, se la ‘scoperta’ dell’intertestualità non può certo rivoluzionare la migliore prassi filologica, anche classica, può tuttavia costituirne un aggiornato ripensa-

mento (in qualche modo ‘alessandrineggiante’: una sorta di critica della critica, soprattutto esegetica). Ammettiamo volentieri di non poter rinunciare al termine intertestualità, perché doppiamente felice: per immediata evidenza di significato e implicita indicazione di metodo. Ad evitare, comunque, facili ideologismi, l’intertestualità — proprio perché condizione, e non

opzione, della leggibilità letteraria — servirà da «ricambio metodologico alla teoria delle ‘influenze’» ®, in quanto però «neutrale strumento di analisi filologica» *, lasciando che un testo si proietti sine ira et studio nel proprio passato (ma anche nel proprio futuro) «in modo da creare nessi fino a quel momento inediti» ©, utili a chiarire i modi della ‘trasformazio-

ne’ di un testo in un altro, i modi in cui un sistema di rapporti si ricomponga e si rinnovi nella propria forma, e nel proprio senso. Tale trasformazione comporta, da sempre, significativi scarti da una norma, verticalmente consegnata da una tradizione ed orizzontalmente convenuta fra autore e pubblico: una norma storicamente condizionata. Quando dalla teoria si passi alla storia, si tenderà ad incrinare l’aspetto sistematico, per guadagnare altrettanto sul piano della scoperta empirica. Del resto, se per il filologo è sempre essenziale vedere i fatti più che stabilire gli schemi, anche un semiologo, per la verità su: generis, ha ammesso che il testo non è ‘isotropo’, ricorrendo a una bella similitudine (col legno variamente restio al sondaggio di un chiodo): «i bordi, la crepa, sono imprevedibili. Come la fisica

(attuale) deve adattarsi al carattere anisotropo di certi ambienti, di certi universi, così bisognerà pure che l’analisi strutturale (la

453. Cf. Greimas-Courtés 1986, p. 182. “4. (ἢ, Conte 1985, p. 117 n. 6. 65 Cf. supra n. 56.

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Ricerche intertestuali

semiologia) riconosca le minime resistenze del testo, il disegno irregolare delle sue vene» %. All’analisi storico-empirica (la filologia), avvezza all’‘imprevedibile’, gioverà magari riconoscere più spesso «l'impossibilità di vivere al di fuori del testo infinito» 57, riconoscere la necessità di una memoria ‘circolare’ oltre

che ‘lineare’: alla, spesso meccanica, inclusione del testo in una serie culturale — come in una serrata catena di cause ed effetti,

dove l’estrapolato contatto fra due testi rischia, improduttivamente, di tradursi in ‘scontro’ fra due soggettività autoriali — gioverà l’alternativa appartenenza della singola parole al ‘testo infinito’ della langue, ovviamente poetica, già risultato comprensivo delle varie paroles. La stessa allusione non sempre rappresenta l’incontro pri-

vilegiato di due singole parole poetiche. Spesso anzi — come vedremo nel caso (VIII) di Teocrito in simultaneo dialogo con Apollonio e con Saffo — l’allusione costituisce il complicato intreccio di tre o magari più parole 68, Una riprova che non è tanto la ‘singolar tenzone’ a distinguere l’allusività dalle altre forme di ‘dialogismo’, quanto, sempre e comunque, la speciale ‘competenza’ (intuita da Pasquali) postulata dal testo come la condizione della propria attualizzazione. Sta qui, ripetiamo, la perdurante funzionalità del termine e del concetto pasqualiani, utilmente rivisitati. Poiché l’allusione, nel senso metadiscorsivo

sopra delineato, costituisce il momento più intenso (dove la quantità si traduce in qualità) del dialogo intertestuale, per grado non di competitività bensì di competenza: il momento in cui più che mai si esalta una lettura del testonon singolare. Giusto all’incrocio tra la linea verticale della tradizione e quella orizzontale della comunicazione — con un interlocutore in necessaria sintonia, penala mancata attualizza-

# Così Barthes 1975, p. 36. 67 Così ancora Barthes 1975, pp. 35 s., definendo suggestivamente l’intertesto. $ In tal caso non sembra più funzionale la ‘metafora’ come figura retorica del discorso intertestuale.

L'allustone necessaria

37

zione del testo — l’allusione necessariamente scopre la ‘rifrazione’ sempre operata dalla parola poetica sulla parola altrui, ed a maggior ragione sul mondo che ogni parola rappresenta. Ogni testo — questo il dilemma, che eternamente si ripropone a formalisti e contenutisti, strutturalisti e storicisti, semio-

logie filologi, etc. —rinvia per forza ad una realtà esterna, e però, essendo il risultato di altri testi, può essere percepito solo come parte di un universo verbale, dove le parole non si riferi-

scono direttamente alle cose o ai concetti, ma sempre ad altre parole. Parole comprensibili, e confortanti, solo se si accetti l’e-

sistenza di quella «zona oscura tra causa ed effetto», volentieri ignorata dalle più varie teorié estetiche, intese a sostenere la poesia come «intuizione pura o momento non meglio identificato della vita dello spirito, o voce dei tempi con la quale lo spirito del mondo decide di parlare attraverso il poeta, o un rispecchiamento delle strutture sociali che non si sa attraverso quale fenomeno ottico si riflette sulla pagina, o una presa diretta della psicologia del profondo..., comunque qualcosa di intuitivo, di immediato, di autentico, di globale», tacendo «per quali vie l’anima, e la storia, o la società o l'inconscio si trasformano in una

sfilza di righe nere su una pagina bianca» ®.

Tali dichiarazioni di principio — da parte di un artista ‘intellettuale’ non certo imputabile d’insensibilitä per le sorti, se non magnifiche, almeno progressive della storia e della società, e della stessa letteratura come ‘codice dell'impegno’ — restano a testamento, anche morale, per chi si accinga a scrivere una sto-

ria della letteratura usando ‘immediatamente’ i monumenti letterari per eccellenza, quelli poetici, o viceversa (ma con identico apriorismo) usandoli come documenti difettosi, di seconda scelta ?°. Accettare l“aporia del referente’ (già il referente linguistico resta legato al proprio segno come sua realtà, però extra-

® Così Calvino 1980, p. 171. Ὁ Cf. in proposito Ejchenbaum 1968, p. 37, che riporta e ‘storicizza’ una precisa osservazione di Jakobson.

38

Ricerche intertestuali

linguistica) non significa certo negare alla letteratura il suo quadro storico-sociale, il suo carattere specifico di manifestazione di una cultura, ma riconoscere la difficoltà di cogliere per via immediata il pur reale rapporto letteratura-società (specie se collocato in un passato inattingibile nella sua totalità testuale e contestuale): difficoltà in concreto superata più con l’animus ‘arrischiato’ dello storico della cultura che con la proverbiale cautela del filologo. Soltanto correndo il (produttivo) rischio, lo stesso Pasquali poteva (a prescindere da genio e dottrina) passare dal ‘problema’ singolo — magari rappresentato da una «espressione amorosamente analizzata e discussa» — alla ‘storia’, della cultura e della società, regalandoci pagine memorabili ?!, E la stessa scoperta di un’arte allusiva nasceva ‘contraddittoriamente’ dal confronto fra ‘pure’ parole poetiche, ma, nel contempo, dalla convinzione di «non potersi interpretare alcuna forma d’arte se non ritrovando l’esatta combinazione culturale nello spessore storico in cui essa si radica» 72, A meno che non s’inventi una teoria rassicurante, che garantisca una historia sub specie semioticae, capace di conci-

liare una coscienza mitica del tempo, circolare, con la coscienza

storica che organizza i fatti del passato in una serie lineare 75, Ai filosofi discutere e decidere se i modelli ‘storia’ e ‘mito’ (della percezione così del testo come del tempo) siano davvero in grado di coesistere (senza conflitto) nell'esperienza reale. Dalla

metafora della cultura come testo torniamo, comunque,

alla

‘nostra’ realtà propriamente testuale, per cogliere (sempre meglio) nell’allusione il punto, per così dire, più ‘pericolosamente’ sospeso tra una percezione del testo circolare e una lineare. Col rischio di turbare l’orizzonte, e l’orizzontalità, del

? Cf. La Penna 1966, p. XII; pagine fondamentali sullo ‘storicismo’ di Pasquali ha scritto Timpanaro 1973, pp. 183 ss. 72 Così Conte 1985, p. 9, cogliendo propriamente in tale spessore storico «l’idea filologica», di Pasquali, «che sorregge anche questa sua ricerca» (sc. sull’arte allusiva). ” Cf. Uspenskij 1988, pp. 9 ss.

L’allusione necessaria

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‘testo infinito’ — per la necessità di dare un senso al passato, pena l’incomprensione dello stesso presente — l’allusione si conferma, sul versante ermeneutico, come la spia (così bene individuata dall’autore di Filologia e storia) di una ‘contraddizione’ produttiva: all’incrocio fra l’ascissa della tradizione e l’ordinata della comunicazione, è insomma rintracciabile, nel punto allusivo, la prova ‘storica’ dell’intertestualità quale unica condizione di lettura di ogni ‘artistica’ finzione del mondo. Quella finzione che Platone aveva condannato e che Aristotele restituiva ad una ‘possibile’ e ‘necessaria’ verità, pur se ‘mimetica’. Persino in pittura (il ricorso analogico alla γραφική è un classico, aristotelico e già platonico), la lettura dell’immagine, quella cioè ritenuta dal senso comune la più immediata, non è mai ovvia. Gombrich ha appunto insistito sulla rappresentazione pittorica della realtà resa letteralmente possibile, e leggibile, dall’esistenza di ‘altre’ opere d’arte. Le ragioni extra-testuali che possano intervenire sulle trasformazioni testuali (anche pittoriche) non legittimano in alcun modo facili equazioni e sintesi sociologiche: contro ogni immediata e frettolosa connessione fra opere d’arte e condizioni storiche gioca evidentemente il fatto che l’artista non può copiare la realtà com’è ὁ come la vede: «leggere il mondo visibile in termini d’arte» significa«mobilitare i nostri ricordi e le nostre esperienze di quadri visti» 74. Dimostrare che Constable vedeva il paesaggio inglese attraverso i quadri di Gainsborough, e questi attraversc i quadri di Rujsdael, e più generalmente dei pittori olandesi, significa infine chiedersi da dove gli olandesi avevano derivato il loro repertorio. La risposta a tale domanda sarebbe precisamente ciò che è noto come ‘storia dell’arte’. Comunque sia, fermiamoci alla provocatoria verità, almeno parziale, che tutti i quadri devono più ad altri quadri

” Così Ginzburg 1986, pp. 71 ss., nel corso di una riflessione metodologica da Warburg a Gombrich, interessato soprattutto a «vedere come il Gombrich risolva...il problema cruciale della modificazione degli stili» (p. 75).

40

Ricerche intertestuali

che all'osservazione diretta: il celebre aforisma di Wölfflinn,

fatto proprio da Gombrich 75, sottolinea l’oggettiva vischiosità della tradizione e la ‘sorprendente’ stabilità degli stili in pur naturale trasformazione. Grazie al medium memoriale del ‘testo infinito’ — tramite obbligato di pur storiche esperienze — l’ar-

tista, anche pittore, comunica con un necessario Mitspieler: con un pubblico «che sta al gioco e sa cogliere le allusioni», poiché, circolarmente, «l'artista si crea la sua Elite, e l'élite i suoi arti-

sti» 7%. Alla necessità intertestuale, anche per un pittore, si aggiunge — nei casi ‘eletti’ — la necessità dell’allusione.

75 Cf. ancora Ginzburg 1986, p. 73: si tratta in realtà di un fopos critico, ricorrente anche nell’affermazione di Malraux, «secondo cui l’opera d’arte non è creata a partire dalla visione dell'artista, ma a partire da altre opere», citata da Greimas-Courtés 1986, p. 182, non a caso sotto la voce intertestualità.

7% Così Gombrich, cf. Ginzburg 1986, p. 78: la dichiarazione acquista senso proprio nel momento in cui lo studioso si pone il problema dell’arte come comunicazione.

Capitolo secondo PRETESTI EPICI E RAGIONI LIRICHE (Sul ‘Primo Partenio’ di Alcmane)

Il primo verso interamente leggibile di Alcm. 3,2 C. suona οὐκ ἐγὼ]ν Λύκαισον ἐν καμοῦσιν ἀλέγω.

Com'è noto, ogni termine costituisce di per sé un problema: dal nome proprio Λύκαισος — il Deritide che lo scoliasta distingue, per poi contraddirsi, dal catalogo eroico degli Ippocoontidi di seguito menzionati! — fino al cruciale ἀλέγω, parola chiave ancora dichiarata oscura 2, senza contare il dibattuto

καμόντες, riferito ai figli di Ippocoonte, rei di avere ingaggiato un’impari lotta contro Eracle e puniti con una cruenta disfatta - per questo atto di bybris ?. Sorvolando sulla storicità, non facilmente acclarabile, del preteso figlio di Derite, basterà soffer-

marsi sui due problemi propriamente esegetico-testuali: su καμόντες, dunque, e sul decisivo ἀλέγω

(anzi οὐκ ἀλέγω),

decisivo, come vedremo, per entrare nel senso globale del cosiddetto Primo Partenio di Alcmane.

! Lo schol. A 1 recita prima τὸν Λύκαιον οὐ συγκαταριϑμῷ τοῖς ... ἹἹπποκωντίδαις, e dopo où μόνον τὸν Λύκαιον ἀλλὰ καὶ τοὺς λοιποὺς Δηριτίδας οὖς ἐπ᾽ ὀνόματος λέγει (cf. Calame 1983, p. 40). Dal testo di Alcmane non risulta la menzione degli «altri» Deritidi, poiché il catalogo riguarda gli Ippocoontidi (imparentati comunque coi primi): di qui l'ipotesi che nell’incerta forma Aùxai(0)ov si celi «le nom de l'un des fils d’Hippocoon, Lycon (cfr. Apoll. 3, 10, 5)», cf. Calame 1977, II pp. 52 ss., cui rimando per un com-

piuto esame del racconto mitico. 2 Il presunto «sens plus qu’ambigu» dovuto al fatto che ἀλέγω potrebbe indifferentemente significare sia «se préoccuper de» sia «ne pas tenir compte de», cf. rispettivamente Calame 1977, II p. 57 e 1983, p. 314. 3 Perle varie testimonianze mitologiche, rimando ancora a Calame 1977,

II pp. 52 ss.

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Ricerche intertestuali

Il corrente significato del participio καμόντες ha suscitato, tempo fa, la critica attenzione di Marzullo ed una sua conseguente proposta, oggetto peraltro di un'immediata e vivace rea-

zione, da parte di Janni, in difesa dell’interpretazione tradizionale. Riassumo brevemente la questione, apparentemente ricomposta dopo l’effimera controversia. Nel verso citato, ἐν καμοῦσιν era stato sempre inteso ‘tra

i morti’, sulla scorta dell’omerico καμόντες, cf. ὦ 14 (=

W 72)

εἴδωλα καμόντων, A 475 5. νεκροί / ... βροτῶν εἴδωλα καμόντων. Γ 278 ς. ol ὑπένερϑε (sc. Plutone e Persefone) καμόντας ἀνθρώπους τίνυσϑον. Marzullo — contrariamente all’unanime lettura καμόντες = ϑανόντες a cominciare

da Aesch. Suppl. 231, dove «Zeus ammministra suprema giustizia κἀκεῖ ... ἐν καμοῦσιν», cioè nell’Ade e tra i morti — intendeva il participio in «funzione descrittiva, nominale e cioè indifferente al tempo»: si tratterebbe di un epiteto «esornante», riferito alla condizione dei mortali naturalmente «sofferenti», per cui Alcmane, «lungi dal non annoverare e citare l’innocente Liceto tra i morti, proclama di non celebrare Liceto, nonché i suoi fratelli, tra i mortali. Li considera evidentemente esseri da

ordinare più vicino agli dei che agli uomini» *. Il rifiuto di tale interpretazione, da parte di Janni, è certamente argomentato: già il Wilamowitz osservava che «die Toten sind die καμόντες,

kraftlos, unfähig in das Leben einzugreifen», mentre il Leaf richiamava, per l’eufemismo, il κοπιάσας di IG XIV 1811

(«de-

functus laboribus» secondo LS] p. 978) ?. Ed è soprattutto centrata l’obiezione per cui un participio aoristo difficilmente notrà indicare «un aspetto della condizione degli uomini, uno stato

1 Così Marzullo 1964, pp. 177 5. > Cf. Janni 1965, pp. 274 s., il quale cita anche, ed opportunamente, il procedimento semantico indicato da Frisk GEW I p. 773: «miide werden, ermatten, sterben»; cf. Chantraine DELG p. 490: «par euphemisme ἃ l’aor. ‘étre mort’ (Hom.);

κεκμηκότες).

méme

sens au pf. (trag. Th. PI.)» (alludendo all’attico

Pretesti epici e ragioni Itriche

43

permanente della loro esistenza»; ma troppo recisa la conclusione: «credo

che ci converrà seguitare a intendere καμόντες

come tutti i lettori di Omero e di Alcmane, da Eschilo fino al 1964» ®.

In verità, non così stringente risulta il rapporto fra Alcmane ed Omero, dal momento che, in Omero, καμόντες com-

pare in quattro luoghi (v. supra) in cui si parla sempre di morti e di oltretomba, rischiando così di apparire un epitheton ornans, proprio perché pervicacemente associato alla ‘perenne’ umanità dei trapassati; mentre, in Alcmane, καμόντες si riferisce ad un

atto compiuto (0, se si vuole, ad un fatto vissuto) da un determi-

nato gruppo di eroi, vittime ‘contingenti’ di una sconfitta militare. Appunto il contesto — si narra di una μάχη dalle alterne

vicende, in cui ᾿ ἀλκά (cf. v. 15) dei figli di Ippocoonte alla fine soccombe — avrebbe dovuto suggerire paralleli non meno evidenti, certo più pertinenti dei citati luoghi omerici. Marzullo peraltro osservava che l’&v xauovorv di Alcmane non si pone sulla linea che porta all’usus eschileo già ricordato (si tratta infatti, ancora, di morti e di oltretomba!) ma «si ordina fra

Omero e Pindaro», cf. P. I 80 πολεμίων ἀνδρῶν καμόντων, dove il senso di ‘soffrire’ sarebbe «confermato dall’analogo ταῖσι (sc. μάχαις) Μήδειοι κάμον di tre versi prima ’. In effetti, l’impiego di κάμνω da parte di Pindaro attesta una connotazione finora non rilevata né sfruttata per Alcmane, e invece risolutiva. È innanzitutto degno di nota che κάμνω, assente in Esiodo, si dimostri, presso i lirici, esclusivo appannaggio lessicale di Alcmane,

Pindaro, Bacchilide. Di nessun interesse, ai nostri

fini, l’usus bacchilideo 8. Di massima utilità, invece, le occor-

® Così Janni 1965, p. 275, il quale ricorda l’ipotesi di Nägelsbach (cf. Leaf ad Γ 278), precursore parziale di Marzullo, in quanto «voleva intendere καμόντες con ‘coloro che hanno sofferto mali”, cioè i δειλοὶ βροτοί contrapposti agli dei beati, ..... hanno sofferto’ non ‘sofferenti’!». 7 Così Marzullo 1964, p. 178. 8 Cfr. V 36 εὖ ἔρδων δὲ μὴ κάμοι ϑεός (l'augurio che «il Cielo non cessi

44

Ricerche intertestuali

renze pindariche. Nel citato P. I 78 ταῖσι (sc. μάχαις) Μήδειοι κάμον, Pindaro rammenta che gli storici nemici della Grecia ebbero a ‘soffrire’ un paio di tremende sconfitte: la prima a Salamina, la seconda a Sparta ai piedi del Citerone. «Deux désastres pour les Mèdes», però non più grandi di quello cumano, procurato da Ierone ai Tirreni, nonché di quello subito dai Car-

taginesi a Imera, dove Gelone e Terone «infligèrent un désastre pareil ἃ leurs ennemis»: πολεμίων ἀνδρῶν καμόντων (v. 80) 3.

La clausola, omerizzante nella forma, costituisce un elegante esempio di innovazione semantica in rapporto a un diversificato referente. La ‘sofferenza’, che in Omero permetteva, eufemisti-

camente, di non nominare la ‘morte’, qui evita, ancora eufemi-

sticamente, di parlare di disastro militare. Così Adrasto, καμὼν προτέρᾳ πάϑᾳ, è reduce da una prima sconfitta (P. VIII 50) 10. mentre, grazie alla protezione di Ierone, la «vergine di Locri» si

sente finalmente liberata πολεμίων καμάτων ἐξ ἀμαχάνων (P. II 19): confermandosi la speciale connotazione bellica di κάμνω (e affini), più volte reperibile in Pindaro. Che la riceve

però da Alcmane, i cui eroi avevano già ‘sofferto’, non senza eufemismi, a causa di una disastrosa sconfitta. È dunque vero che Alcmane «si ordina fra Omero e Pindaro» (v. supra), però

su una linea intertestuale ‘evolutiva’ a partire dall’epica: linea

che porta ancora una volta a Eschilo, quando, interessato non all’usus omerico ma a quello pindarico e già alemaneo, descrive Tannientamento dell'esercito argivo— στρ ατοῦ καμόντος καὶ κακῶς σποδουμένου (Ag. 670) — ad opera dell’inaudita quanto fatale alleanza tra Acqua e

Fuoco (cf. vv. 650 ss. Ἑυνώμοσαν ... ἔχϑιστοι τὸ πρίν, / πῦρ καὶ ϑάλασσα, καὶ tà riot’ ἐδειξάτην / φϑείροντε ... ᾿Αρ-

di beneficare» è rivolto ai Dinomenidi); XI 77 τεῖχος δὲ Κύκλωπες κάμον (si tratta della «impegnativa» costruzione muraria di Tirinto). 9. Questa la traduzione di Puech 1955, p. 33 a; cfr. schol. ad I. πολεμίων ἀναιρεϑέντων (II p. 26, 1 Drachm.). 0 Cfr. schol. ad L τὸν στρατὸν ἀπολέσας: successivamente riscattandosi l’eroe νικήσει (II p. 213, 11 Drachm.).

Pretesti epici e ragioni liriche

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γείων στρατόν). Una tale μάχη tra le forze umane e quelle della natura è narrabile in termini metaforici solo grazie alla primaria

esperimentata connotazione militare di κάμνω,

costituendone l’estrema prova. La ‘faticosa’ storia del nostro καμόντες si è conclusa con

una ennesima debacle in combattimento. I bellicosi figli di Ippocoonte risultano, quindi, catalogati come (disastrosamente) ‘vinti’: informazione essenziale in fatto di μάχη, oltre che pertinente in fatto di ὕβρις. Per Alcmar.e, Pindaro, ed Eschilo, il κάματος n questione, il «/abor imprimis certaminum» (Rumpel), allude: eufemisticamente a una disfatta, laddove, in Omero,

il (trascorso) labor vitae significava eufemisticamente la morte. Alcmane è il primo a ridurre la sofferenza dal piano esistenziale a quello storico, tuttavia eroicamente. Gli sfortunati eroi sono menzionati, com'è facile constata-

re, mediante apposita preterizione (cf. v. 12 παρήσομες), collocata a fine catalogo. Ma sin da principio il poeta dichiara: οὐκ ἀλέγω. Malgrado il senso «plus qu’ambigu», o quanto meno «ambigu», ancora attribuitogli da Calame !!, non più sibillino dovrà dirsi tale diniego, formulato da Alcmane in apertura del catalogo (vv. 2 ss. οὐκ ἐγὼ]ν Λύκαισον ἐν καμοῦσιν ἀλέγω / ᾿Ενά]ρσφόρον τε καὶ Σέβρον ποδώκηην τε τὸν βιατὰν κτλ.), dal momento che il consimile rifiuto espresso da Ibico nell’Encomio dedicato a Policrate ($ 151, 10 ss. P. νῦ]ν δέ μοι οὔτε ξειναπάτ[α]ν Π[άρι]ν / ..] ἐπιϑύμιον, sc. ὑμνῆν, κτλ.) ne ha chiarito in qualche misura il significato e totalmente la funzione. Quest'ultima, in particolare, interessava l’autore del raffronto, Pavese, il quale — osservando preliminarmente come

l’inequivoco παρήσομες, detto da Alcmane in chiusura dell’eroico catalogo (v. 12), non possa che ribadire l'iniziale οὐκ ἀλέγω — avvertiva che il «‘tralasciamo’ va inteso come una pre-

terizione con cui il poeta prende congedo dalla sua materia

" Cf. supra n.2.

46

Ricerche intertestuali

mitica e passa ad altro argomento»; affermava quindi che, mediante οὐκ ἀλέγω e παρήσομες, Alcmane parimenti con-

geda l’eletta ma ingombrante schiera degli eroi — da Λύκαισος ad ᾿Εναρσφόρος, da Εὐτείχης ad Εὔρυτος — per passare, dopo la gnome, a cantare la bellezza di Agido; istituiva infine un felicissimo confronto con l’Ode a Policrate, identicamente strut-

turata sul motivo della preterizione, dove Ibico «procede selettivamente ... per via di reiterati rifiuti: non Troia, non le navi achee (vv. 10-31), non Achille, non Troilo (vv. 32-45), ma la bellezza di Policrate (vv. 46-8)» 12. Il senso di οὐκ ἀλέγω sarebbe dunque quello di ‘non canto”.

In precedenza, senza il determinante parallelo ibiceo, Marzullo — basandosi su Pind. O. XI 15 (κελαδήσω) Ζεφυρίων Λοκρῶν γενεὰν ἀλέγων, dove lo scoliasta spiega ἀλέγων con ὑμνῶν e quindi cita il secondo verso del nostro Partenio — aveva già supposto che «il senso può ritenersi identico anche nel nostro caso» !. Nulla da eccepire sul senso ormai generalmente acquisito, ma ultimo, di οὐκ ἀλέγω, che finisce certo per equivalere (come però, in estrema analisi, lo stesso παρίημι!) a ‘non canto’, ‘non celebro’. Elusa, tuttavia, ne permane la lettera.

Tornando di nuovo, e di necessità, alle chiose disponibili,

inadeguato resta l’où συγκαταριϑμῷῶ dello scho/. A 1 1“, mentre l’AAéyer φροντίζει (i.e. curat) di Hesych. a 2820 L., fin qui considerato solo in quanto paradigmatico, si rivelerà utilizzabile

12 C£. Pavese 1967, p. 115. L’assurda posizione di Page 1951 a, p. 82, per cui il poeta liquiderebbe l’eroe Liceto con «though he is among the dead, I do not think him worth mentioning», era già superata da Garzya 1954, pp. 21 s., il quale ammetteva la possibilità di preterizione. Per l'ormai accettata preterizione, cf., da ultimo Snell-Frany6 1976, p. 7; Nannini 1978-79, pp. 49 ss. 4? Così Marzullo 1964, pp. 176 s. L’equivalenza ἀλέγω = ὑμνῶ è ribadita dalla Nannini 1978-79, p. 50. ‘4 Per la paretimologia, non solo qui presente, che riconduce ἀλέγω a λόγος, cf. Marzullo

1964, p. 177, cui pure si deve lo smascheramento del

posticcio Hesych. a 2824 L. &Aéyew: λόγον μὴ λέγειν: «isolandolo dalla realtà contestuale, ἀλέγω sarà stato analizzato, con falsa obiettività, come ἀ-

λέγω», secondo un procedimento familiare ad Esichio. Per la tentata connessione, anche da parte di moderni linguisti, tra ἀλέγω e λέγω, v. infra n. 19.

Pretesti epici e ragioni liriche

47

nel nostro pur specifico caso. Ancora risolutiva, comunque, la lettura — questa volta testuale — dell’Encomio ibiceo, ai vv. 10 ss. νῦ]ν dé por ο ὕ τε ξειναπάτ[α]ν Π[άρι]ν .] ἐπιϑύμιον οὔτε τανί[σφ]υρίον ὑμ]νῆν Κασσάνδραν Πριάμοιό τε κτλ.

Dove οὔτε .../... ἐπυϑύμιον formalmente ripete lo schema negativo di οὐκ ... ἀλέγω, col quale peraltro concorda nel programmatico significato: come Alemane non si cura di Liceto, Enarsforo e degli altri Ippocoontidi "", così Ibico non

ha

voglia

di'

cantare Paride, Cassandra e gli altri figli di

L’equivalenza

lessicale è perfino registrata da Esichio,

Priamo.

finora non bene inteso dagli editori. Accanto alla già citata glossa ἀλέγει" φροντίζει (cf. a 2323 ἀλεγύνεται᾽ ppovtitetai, 2324 ἀλεγίζω" φροντίζω), ed all’imparentata a 5050 ἀνηλεγές᾽ ἀφρόντιστον, particolare attenzione merita la non identificata € 3004 ἡ ἐνηλεγείς" ἐν ἐπιϑυμίᾳ ὦν.

Così Latte, che crocifigge il lemma annotando in calce «ft. evaλεγεις (αλεγω)» 17. Un passo in avanti, certo, dopo l’impasse dichiarata da Schmidt !8, ma la supposta connessione con

15 Sulla possibile presenza dei Deritidi accanto agli Ippocoontidi, suggerita dal nome Λύκαισος, v. supra n. 1. 6 1 ἐπιϑύμιον di Ibico (altrove ἐπεϑύμιος ricorre unicamente in Man. IV 565, p. 82 Koechly, col valore di ἐπιϑυμητικός) è semanticamente affine al postomerico καταϑύμιον = ‘according to one's mind’, più che all’omerico “in the mind’ (sinonimo di ἐνθύμιον: LS] p. 891), cf., ad esempio, χ 392 ὄφρα ἔπος εἴπωμι τό μοι καταϑύμιόν ἐστιν, di cui, peraltro, l’ibiceo poi ... ἐπιϑύμιον ... ὑμνῆν sembrerebbe conservare ‘aurale’ memoria. 1? Cf. Latte II p. 98. 18 Che si limitava a denunciare l’oscurità del tutto, cf. Schmidt II p. 97.

48

Ricerche intertestuali

ἀλέγω deve dirsi definitivamente sicura: con sagacia propriamente linguistica, Chantraine (pur ignaro della letteraria corrispondenza fra l’alemaneo ἀλέγω e l’ibiceo ἐπιϑύμιον) legge il

palmare ἐνηλεγής᾽ ἐν ἐπιϑυμίᾳ ὦν, ascrivendo il lemma alla serie dei composti in -ηλεγής da ἀλέγω "5.

Alcmane, Ibico ed Esichio: un’esemplare mediazione lessicografica fra due testi letterari in comprovata sintonia. All’alcmaneo ἀλέγω compete dunque il significato esichiano, cioè primario,

di φροντίζω (ie. curo, foveo), rispecchiato, se

non enfatizzato, dall’ibiceo ἐπιϑύμιόν (ἐστι) 2°. Più rigoroso, almeno stilisticamente, di οὔτε .. ἐπιϑύμιον, cui segue l’ovvio

(in realtà esplicitato) infinito ὑμνῆν, l'assoluto οὐκ... ἀλέγω si pone sullo stesso tecnico piano del successivo ed altrettanto assoluto παρήσομες 2): entrambi assolvono una partico-

lare funzione di congedo — cui provvisoriamente lasciamo la

!9 Il Frisk citava due esempi: «von ἀλέγω das Hinterglied -ηλεγής (kompositionelle Dehnung) in den Syntheta δυσ-ηλεγής ... und ἀν-ηλεγής» (GEW I p. 66). Lo Chantraine, oltre al probabile τανηλεγής, aggiunge ἀπηλεγής ed il nostro ἐνηλεγής, giustamente ritenendo solo secondario ogni legame con ἄλγος (già per δυσηλεγής, «dont le sens originel serait plutòt ‘qui ne se soucie pas de, impitoyable’») e saggiamente trovando solo seducente la presunta derivazione (Hermann, Seiler) di ἀλέγω da λέγω + ἐν al grado zero, per cui cf. supra n. 14 (DELG p. 56). 2 Quanto al supplemento, evidentemente una voce di εἶναι, preferibile 41}ἦν di Hunt e all’fg di Wilamowitz sarebbe senz'altro l’&ot(ı) di Maas: non sembra questo il caso in cui νῦν «kann jedoch auch mit einem Präteritum ... verbunden werden» (Kühner-Gerth II p. 116), data la specifica opportunità di un presente programmatico, senza contare che, in uno stile denso di risonanze omeriche, non stonerebbe certo l’eco di τό μοι καταϑύμιόν ἐστι

(P 201, x 392, cf. Καὶ 383; per la possibile ripresa ibicea appunto di χ 392, v. supra n. 16). Ma «there is room only for two letters» ribadisce Barron 1969, p. 128.

2! L'uso assoluto di οὐκ... ἀλέγω (assoluto è anche ᾿᾿ἀλέγων pindarico, per cui v. infra) e di παρήσομες rimanda agli assoluti, perché tecnicizzati, Pind. Ρ 186 μὴ παρίει καλά O. IX 40 (μὴ λαλάγει) ἔα πόλεμον μάχαν τε πᾶσαν, Herodot. I 177 τὰ αὐτῶν πλέω παρήσομεν, Plat. Symzp. 188e ἴσως ... ἐγὼ τὸν Ἔρωτα

ἐπαινῶν πολλὰ παραλείπω, etc. Per l’esplicitazione,

invece, del verbo di ‘dire’ registrata a proposito di ἐπιϑύμιον ... ὑμνῆν, si veda il caso, però particolare, di Plat. Phaedr. 253e παρέντα τοῦ ... ἐγκωμιάζειν. TOD... ψέγειν.

Pretesti epici e ragioni liriche

49

vulgata denominazione di praeteritio — nei riguardi di una ‘grave’ materia, accantonata per motivi evidentemente poetici 22,

C'è pure da chiedersi, circa il significato letterale del ‘galeotto’ (v. supra) ἀλέγων pindarico, se "ὑμνῶν dello scoliasta non sia una facile spiegazione ad sensum, ispirata dal precedente κελαδήσω e favorita da espressioni quali ùpvog/... κελαδέων (N. III 66), ὕμνον κελάδησε (N. IV 16; ὕμνον codd.: υἱὸν Bergk), ἀναξιφόρμιγγες ὕμνοι, / tiva ... κελαδήσομεν (O. II 1 s.) dello stesso Pindaro, e se dunque l’ancora mal chiosato ἀλέγων non debba ugualmente rivendicare il primario, ma tecnicizzato, valore di curans, fovens ?. In effetti, dall’esordio del Primo Partenio di Alcmane

abbiamo ricavato una sorta di coppia antonimica ἀλέγω: παρίημι = ‘curo’: ‘trascuro’, specificamente utile ad intendere altrettali dichiarazioni di ‘interesse’ o ‘disinteresse’, formulate in

codice dall’autore — lirico! — di poesia. Il rifiuto espresso da οὖκ ἀλέγω (non mi curo di), ribadito dal successivo e tecnico παρήσομες (tralasceremo), permette al poeta di dedicarsi più

‘modestamente’ alle lodi di Agido e Agesicora. L’accontentarsi

2 È appena il caso di avvertire, specie per Alcmane, la totale assenza di ironia, retoricamente necessaria alla preterizione. Né qui conviene discutere l'opportunità di invocare, sull’esempio della poesia latina, la recusatio in Ibico,

per cui cf. Sisti 1967, pp. 59 s. Una brillante indicazione è fornita da Gentili 1984, p. 171, a proposito di Ibico, che opererebbe «una rigorosa selezione dei

contenuti in rapporto all’occasione del canto, al quale si addice l'elogio della bellezza»: al simposio non convengono luttuosi canti di guerra, secondo un topos rintracciabile anche in Senofane (1 G.-P. =1 W.) e Anacreonte (fr. 56 G.). Ad «un procedimento tipico della poesia encomiastica», pensa, con qualche analogia, Nannini 1978-79, pp. 50 ss. considerando il caso alcmaneo assieme a quello ibiceo: a parte la ribadita equivalenza λέγειν = ὑμνῆν (cf. supra, n. 13: la pretesa corrispondenza testuale tra οὐκ... ἀλέγω e ὑμνῆν è già sconsigliata dalla sintassi), ben rimeditato risulta il raffronto tra i due ‘rifiuti’ poetici, ulteriormente rinsaldato da opportuni loci simziles. 3 Del resto, il TOGLI 1 c. 1414 non rinuncia, in proposito, al significato

solo apparentemente generico di cura, e LS] p. 61 non deflettono da quello di ‘to take care οἵ". Per celebro propende invece lo specifico Rumpel (p. 26) e per so honour' lo Slater (p. 28): due innecessari, e peraltro banalizzanti, valori tra-

slati.

50

Ricerche intertestuali

(ma è un puro espediente poetico) di approdi tematici meno perigliosi armonizza (fortunosamente?) con le dichiarazioni

del coro. Il quale prima canta la hybris, fors’anche erotica, degli Ippocoontidi (lo stesso Calame ricorda, in proposito, Plut. Thes. XXXI 1 circa l’affidamento di Elena a Teseo da parte di Tindaro, per evitare su di lei la violenza di Enarsforo) ?*, e poi sentenzia che nessuno deve aspirare al γάμος con Afrodite (vv.

16 ss.), che la punizione degli dèi giunge inesorabile (v. 36), e che è bene lodare Agido, accettarne cioè il ruolo di favorita presso

l’inaccessibile

Agesicora:

una

sorta di μακαρισμός

implicito, di genere per così dire ‘para-epitalamico’, nei riguardi della (quasi) divina corega. Soltanto l’ossessivo timore di hybris — oltre a far consapevoli le ragazze della propria modesta voce di ‘civetta’ (vv. 86 s.) —

sconsiglia di innalzare Agesicora al

rango canoro delle Sirene, loro sì vere e proprie dee (vv. 28 ss.). Tradurre correttamente οὐκ ἀλέγω comporta dunque intende-

re, fin da principio, il programma poetico di Alcmane, qui retoricamente dibattuto fra mito e attualità, fra ‘grande’ e ‘piccola’ ispirazione, rispettoso, quanto le sue παρϑένοι, delle regole del μηδὲν ἄγαν: regole che incombono, a ben vedere, sull’autore e sui temi, sulle protagoniste e sulle vicende del Partenio, però componendo il tutto (come avremo modo in ultimo di ribadire) in una felice poetica unità. Grazie a Di Benedetto 2) il significato del concettoso v. 15

ἀπ]έδιλος ἀλκά appare finalmente plausibile. Lo studioso incardina l'aggettivo ἀπέδιλος nella tradizione poetica prealemanea — dunque omerica ed esiodea — dove, da un lato, non mancano i composti con -πέδιλος, dall'altro, l’uso dei πέδιλα è sempre invocato

2 Cf, Calame 1977, II p. 56. 25. Cf. Di Benedetto 1980, pp. 135 ss.

51

Protesti epici e ragni Ira Βι

nelle tipiche scene di vestizione di un eroe a di una divinità in

procinto «di muoversi a fare ciò che gli sta a cuore»: tale capacità operativa,

secondo

Di

Benedetto,

«Alcmane

ha

voluto

negare con l’aggettivo ἀπέδιλος», nel senso che «la forza di difesa degli uomini è ‘disequipaggiata’, incapace di agire, e simili» 26. Come (troppo) fulmineamente aveva già intuito Blass, con parziale riferimento

agli dei:

«bei ἀπέδιλος

ist an die mit

Schwungkraft versehenen πέδιλα zu denken, wie sie Homer den Göttern beilegt» 7), Non credo, tuttavia, che alla comprensione di ἀπέδιλος abbia qui nociuto — oggettivamente — l'accostamento sia con Aesch. Prom. 135 σύϑην δ᾽ ἀπέδιλος ὄχῳ πτερωτῷ, sia col da poco recuperato, Pind. fr. 169, 36 Sn.-M. ποιΪκίλῳ[ν ἐ]κ λεχέωί[ν ἀπεέ]διε ιλίος, solo perché, «prima di cercar confronti con testi poetici sensibilmente posteriori ad Alcmane», si dovrebbe considerare quei testi «che è legittimo ritenere costituiscano dei punti di riferimento reali per la lingua poetica di Alcmane» 28, Ritengo invece che, a determinare le varie e talora stravaganti letture del nostro ἀπέδιλος, abbia giocato — più che un mancato rispetto per la dimensione ‘diacronica’ del fatto testuale, e letterario — un'assoluta meccanicità nell’accostare

testo a testo (imponendo identità in luogo di analogie), nel rapportare (vecchio) testo a (nuovo) contesto (usando dati conno-

tativi come denotativi), nel commisurare senso proprio e senso

metaforico (non traendo le debite conseguenze di translatio), etc. Vale la pena di tornare (brevemente) sulla vicenda critica

2% Id. pp. 139 5. Se quisi tratti della forza degli Ippocoontidi o, per estensione, degli uomini in generale, non è possibile decidere con sicurezza (ma v. infra). 27 Così Blass 1878, p. 18. Di Benedetto ricorda anche l’affine, ma ben più restrittiva, opinione di Schwenn 1937, p. 312, per il quale ᾿ἀλκά, sprovvista di sandali, «kann ... gegen sie (sc. ‘die Schicksalsgewalten’) nicht hervor, blieb zuhause». 2 Cosi Di Benedetto 1980, pp. 138 5.

52

Ricerche intertestuali

di ἀπέδιλος ---- esemplare di una malintesa intertestualità — per constatare come una corretta messa a punto, ‘sinottica’ ma

non ‘sincronica’, di tutti i possibili loci sirziles relativi a ἀπέδιλος porti ad una soluzione per altro verso coincidente con quella proposta da Di Benedetto, cui pure aggiunge qualche elemento di chiarificazione. In Alcmane ἀπέδιλος è attributo di ἀλκά, la forza «qui permet

de se défendre» 2, già difficilmente

assegnabile,

in

quanto tale, agli dei Aisa e Poros (vv. 13 s.) nell’atto di punire i

tracotanti Ippocoontidi, ed invece logicamente imputabile ai sullodati eroi (magari assunti ad esempio della condizione uma-

na), soccombenti in battaglia perché incapaci, alla fine, di difen-

dersi dal divino Eracle. Per la seconda ipotesi si è, del resto, pronunciata la quasi totalità dei filologi, a parte lo sporadico tentativo (sulla base in primis del citato Pind. fr. 169, 36 Sn.-M., dove ἀπέδιλος, restituito con sicurezza da Lobel, è Diomede che si alza in fretta dal letto senza avere il tempo di mettere i calzari,

cf. l'analogo Pind. N. 150 ἄπεπλος ὀρούσαισ᾽ ἀπὸ στρωμνᾶς, nonché Pae. XX = 52 u, 14 Sn.-M. ἄπεπλος ἐκ λεχέων, dove,

in entrambi i casi, è Alcmena a precipitarsi discinta dal letto) d’interpretare il nesso ἀπέδιλος ἀλκά riferito alla coppia divina Aisa e Poros, o magari alla sola Aisa, nel senso che «la sua azione è scalza, cioè è rapida e va immediatamente ad effetto» 3°, In verità, chi pure ha trovato in quest’ipotesi «il migliore approccio esegetico all’oscuro nesso ἀπέδιλος ἀλκά» non ha mancato di rilevare l’improponibile equiparazione fretta = rapidità (l’una segno d’allarme, l’altra di sicurezza) ripiegando su

2 Così Chantraine, DELG p. 57. Sul «sens réel» di ἀλκά come «action

defensive», cf. Calame 1977, II p. 61, n. 31, che raccoglie le opinioni di Snell e Janni, cui sarà da aggiungere Marzullo 1964, p. 182: «più che il coraggio, e tanto meno la temerità, indica (r.e. ἀλκά), giusta l'etimologia (cf. ἄλαλκον),

la capacità di difendersi». Ὁ Così Pavese 1967, pp. 116 ss., il quale non si decide chiaramente per Aisa e Poros o per la sola Aisa, integrando τῶν oppure τᾶς ἔστ᾽ ἀπ]έδιλος al v. 15 del Partenio (senza neppure escludere la possibilità di ϑιῶν δ᾽ ἀπ]έδιAog).

Pretesti eprer e ragioni liriche

53

altro ma non meno improbabile significato ‘. La fretta che impedisce d’indossare i calzari al Diomede pindarico (sorpreso

dal furto delle cavalle da parte di Eracle) — ma anche alle Oceanine eschilee (precipitose, a detta già dello scolio, quanto angosciate soccorritrici di Prometeo), nonché all’Anfitrione teocri-

teo (sollecitato da Alcmena a buttarsi dal letto lasciando perdere i sandali perché maiora 1.6. angues premunt) 52 — marca sempre «situazioni a cui viene associato uno stato di agitazione

o di paura, che è poco ipotizzabile per Aisa e Poros» ”. Così, lo stesso luogo di Esiodo (dunque anteriore ad Alcmane!), dove i vicini accorrono in aiuto ἄζωστοι, senza cioè avere il tempo di allacciarsi i vestiti (come la citata Alcmena pindarica, tutte e due le volte ἄπεπλος per frettolosa, materna cura), riflette una condizione di emergenza, ben poco adatta a tradurre il v. 15 del nostro Partenio con «God’s help is immediate» **. Quindi: la discrepanza tra l’ànégèAog di Pindaro, o di

#' Cf. Gargiulo 1980, pp. 29 ss., il quale sarebbe propenso qui a vedere non la celerità, ma la ‘tacita’ inesorabilità della punizione divina: l’immagine di Δίκη tradizionalmente σιγῶσα, ed in Eur. fr. 979 N? σῖγα καὶ βραδεῖ ποδὶ στείχουσα, gli suggerisce il significato di ἀπέδιλος = silenzioso, sulla scorta supplementare di Opp. Cyr. I 101 ss. e Nonn. Dion. XLVII 621 ss. {dove però la mancanza dei sandali silenti? causa è debitamente illustrata nel τε τ}. Non pare ne risulti corroborata l'opinione di Farina 1950, p. 16, per cui la ıorza ‘senza calzari’ indicherebbe che «si abbatté sugli Ippocontidi all’improvviso, senza farsi sentire, sopravvenendo tacitamente, come chi cammina scalzo». Risultano invece decisivi i due luoghi omerici, citati da Gargiulo, ἐκ Διὸς οὐχ Ener’ ἀλκή (8 140) e Διὸς ἀνδράσι γίγνεται ἀλκή (O 490), in senso però contra producentem: non si vede di qui come «il valore difensivo espresso da ἀλκά si adatta magnificamente all’azione di una coppia divina come è quella di Aisa e Poros» (p. 30), dal momento che l’ààx1} non appare di pertinenza degli dei, bensì dagli dei elargita agli uomini, bisognosi, loro sì, di difesa.

32 Theocr. XXIV 36. Il passo è citato, in aggiunta ai precedenti, da West 1967, pp. 8 s., anch’egli convinto della pertinenza divina di ἀλκά: per il suo Διὸς oppure ϑιῶν δ᾽ ἀπ)]έδιλος valgano le nostre osservazioni alla n. preceente. Così opportunamente Di Benedetto 1980, p. 137. 34 La traduzione è di West 1978, p. 243, cui spetta anche il raffronto esiodeo (Op. 344 s.).

54

Ricerche intertestuali

Eschilo, e "᾿ἀπέδιλος di Alcmane sussiste non tanto perché «in un’epoca distante rispetto ad Alcmane» l’aggettivo sia impiegato senza le «risonanze» alcmanee e «in riferimento alla concreta mancanza di calzari» ”, quanto perché le ‘ragioni’ contestuali



e connotative



dei

cosiddetti

/oci similes

(non

importa se pre- o postalcmanei) mal si adattano al testo di Alcmane cui sono state indebitamente aggregate. Nella presunzione che (anche a prescindere dalla falsa equivalenza fretta = rapidità d’azione e d'effetto) i vari ἀπέδιλος, ἄπεπλος, ἄζωστος debbano denotare la fretta sempre,ein ide ntica situazione: frettolosissimo sarebbe allora da giudicare Licaone, che Achille sorprende γυμνόν, ἄτερ κόρυϑός τε καὶ ἀσπίδος, οὐδ᾽ ἔχεν ἔγχος (P 50), se Omero non informasse

dell'avvenuta autosvestiz ione dell'eroe, il quale τὰ ...AnO πάντα χαμαὶ βάλε (v. 51) per guadare lo Xanto (lo stesso Achille si era liberato della lancia, tenendo solo la spada, cf. vv. 17 ss.), e se la logica del racconto non fosse tanto interes-

sata alla (fatale) nudità della vittima, quanto indifferente al ‘tempo’ del suo disarmo, magari affannoso. Le ragioni, e le conseguenze, di ogni mancanza di vestiario — non indossato, spesso per la fretta, o viceversa

tolto, con furia o con calma,

a

seconda dei casi — saranno da rintracciare, ed ovviamente, nel relativo contesto: omerico come esiodeo, alcmaneo come pin-

darico *. Analoghi vizi d’impropria di situazione, sono comunque tazioni di ἀπέδιλος ἀλκά con coontidi, o al genere umano.

generalizzazione di significato, e riscontrabili nelle stesse interprepiù logico riferimento agli IppoDi Benedetto ricorda l’identica

> Così Di Benedetto 1980, p. 141.

56. È curioso notare, a proposito del ‘non mettere’ o del ‘togliere’ le vesti, come, per la stessa ἀπέδιλος ἀλκά alcmanea, non è mancato chi ha creduto

di individuare un vero e proprio topos della fretta, presso gli scrittori antichi, nell'atto di ‘toglier via i calzari' (!): per la confusione, nata magari da una ‘frettolosa’ lettura dei vari passi (da Pindaro a Teocrito), cf. Pavese 1967, p. 116.

Pretesti epici e ragioni liriche

55

volontà, da parte di Page e Fränkel ᾿7, di spiegare — sulla base del più volte citato Aesch. Prom. 135 — ἀπέδιλος come «in volo». Ma che le Oceanine volino è esplicitamente detto dal contiguo ὄχῳ πτερωτῷ, perfino annunciato con enfasi da πτερύγων ϑοαῖς ἁμίλλαις (v. 129): anche qui un’estranea circostanza, avulsa da un ‘altro’ contesto, ha stravolto il testo di Alc-

mane. Per fortuna non a lungo, poiché la stessa ardua Wortstellung ἀπέδιλος ἀλκά) μή τις ἀνϑρώπων ἐς ὠρανὸν ποτήσϑω

(vv. 15 5.) ha presto dissuaso gli interpreti dall’insistere su questa via. Ha infine prevalso — fatta eccezione per la difesa della nozione di ‘fretta’ con segno però negativo *, e per l’ipotesi di

leggere ἀπέδιλος come ‘senza freni’ ” — la traduzione di ἀπέδιλος ἀλκά con «unfounded valour», sulla base di Pind. fr. 33 d, 8 5. Sn.-M. ἀδαμαντοπέδιλοι / κίονες, «based on adamant». Tale significato, proposto da Lloyd-Jones, e reso noto entusiasticamente da Bowra “, sembrerebbe, in effetti, adattarsi bene

alla ‘difesa’ dei figli di Ippocoonte, inadeguata a superare i limiti fissati da Aisa, e dunque «sans fondement et vaine», secondo il

recente apprezzamento di Calame *!. L’ultimo editore di Alcmane già si era dichiarato consenziente circa un’àAxd ‘senza basi sicure’, dote fasulla dei presuntuosi Ippocoontidi (ma even-

tualmente dell’intera umanità), ed aveva ricordato, in proposito Theocr. XVI 8, che descrive «les Charites retournant ‘pieds nus’ pour exprimer l’inutilité de leur déplacement» “2.

Cf. Page 1951 a, pp. 34 s.; Fränkel 1969, p. 183 n. 10. * Cf. Marzullo 1964, p. 182, il quale attribuisce agli Ippocoontidi l’aneδιλος ἀλκά, dove «la constatazione negativa è certo espressa da ἀπέδιλος, significhi questa la fretta confusa o qualsivoglia sprovveduta, inefficace iniziativa», con allusione qui all’«unfounded valour» ipotizzato da Lloyd-Jones (per cui v. infra). ” Così Tarditi 1976, pp. 23 ss., sulla base della radice *ped, cf. πέδη, πεδάω, impedio, etc.: ma è linguisticamente arduo strappare ἀπέδιλος dalla compatta serie lessicale (χρυσοπέδιλος, εὐπέδιλος. καλλιπέδιλος, κτλ.), che da Omero continua fino a Nonno (v. infra). Ὁ Cf. Bowra 1961, p. 42.

+ (ἢ Calame 1983, p. 318. ‘Cf. Calame 1977, II p. 61 n. 31 (su Teocrito, v. infra).

56

Ricerche intertestuali

Il passo di Pindaro merita tuttavia più calcolata attenzione. Che il poeta qui insista «sulla natura della base delle colonne e non sul fatto che esse fossero fornite di una base» non costituisce obiezione cogente, mentre è indubbio che «il secondo ter-

mine del composto ({.6. -πέδιλος) ha un particolare valore traslato» ®. E tale valore traslato si rivelerà istruttivo per l’àrmédi-

λος di Alcmane. Non ogni esito metaforico, specie se vivo, si lascia facilmente estrarre dal B:/dfeld originario, e dunque banalizzare. Ciò sfugge innanzitutto a Bowra, il quale si dichiara soddisfatto che, finalmente, ᾿᾿ἀπέδιλος ἀλκά di Alcmane «non abbia nulla a che vedere con i sandali», viste le ἀδαμαντοπέδιλοι κίονες di

Pindaro, «basate» sull’àòduag *. Ma

le colonne pindariche

non liberano assolutamente dai calzari l’àAxd alemanea, poiché esse, per proprio conto, restano — metaforicamente! — calzate

addirittura d’acciaio. L’ardita προσωποποιῖἴα si presenta come

il reciproco della metafora, sempre pindarica, ἄμαχον ἀστραβῆὴ κίονα (O. II 90): qui la colonna-Ettore simboleggia l’incrollabile difesa guerriera, come poi Oreste, ὑψηλῆς στέγης / στῦλον ποδήρη (Aesch. Ag. 897s.), sarà colonna portante dell’oixog. Le viceversa personificate, se non divinizzate colonne ‘dai sandali d’acciaio’, s’iscrivono nella collaudata serie che da Omero giunge fino a Nonno: da χρυσοπέδιλος (A 604; Hes. Th. 454, 952, etc.: Hera; Sapph. 103, 10; 123 V.: Eos), καλλιπέδιλος

Iris),

(HMerc.

57: Maia), εὐπέδιλος

(Alcae. 327, 2 V.:

a συκοπέδιλος (Cratin. 70 K.-A.: Δωρώ), οἰοπέδιλος

(Ap. Rh. I 7: Giasone, cf. μονοπέδιλος ap. schol. Lyc. πτηνοπέδιλος (HOrpb. 28, 4: Hermes), ἁβροπέδιλος ap. AP XII 158: Eros), ὠκυπέδιλος (Nonn. VII 220: mes) ®. La parodia di Cratino, citata da Aristofane (Eg.

1310), (Mel. Her529),

# Così Di Benedetto 1980, p. 140 n. 31. 4 Così Bowra /c., chiedendosi realisticamente perché mai i figli di Ippocoonte sarebbero scalzi, non sembra intendere il significato metaforico di ἀπέδιλος (peraltro riferito ad dAxd).

5 Cf. anche εὐρυπέδιλος (Opp. Cyn. I 288: ὁπλή), βυβλινοπέδιλος (An. ap. Eust. 1913, 44: senza riferimento).

Pretesti epici e ragioni liriche

57

‘traveste’ di calzari di ... fico una simbolica persona temminile, Δωρώ, che si direbbe ‘signora’ e ‘dea’ dei sicofanti: συκοπέδι-

λος si insinua ironicamente nella suddetta aulica serie, dove ἀδαμαντοπέδιλος rappresenta un serissimo esemplare. Prece-

duto però dall’altrettanto serio ἀπέδιλος, il quale, dopo l’epico χρυσοπέδιλος, serve da anello alla successiva catena dei composti in -πέδιλος, ciascuno dotato di una specifica materialità, talora trasfigurata dalla valenza metaforica. Non meno — e net modi — di ἀδαμαντοπέδιλος, συκοπέδιλος, e di ἁβροπέδιλος (Eros!), anche ἀπέδιλος appartiene alla nutrita classe nel significato che propriamente gli compete: in quanto riferito all’astratta ἀλκά, metaforico. Per coglierne tuttavia il ‘tenore’, sarà necessario individuarne prima il ‘veicolo’ *. È qui che felicemente interviene la ‘concreta’ documenta-

zione, raccolta da Di Benedetto, circa la canonica vestizione epica: dove, non a caso, «gli altri elementi che l’eroe indossa o

prende con sé possono subire delle variazioni, ma un dato fisso, messo in particolare rilievo, è costituito dalla menzione dei calzari» 7, Ne consegue però una metafora ‘vivissima’. Balza agli occhi l’immagine di una personificata ᾿Αλκά guerriera, tracotante quanto improvvida, magari superbamente quanto inutilmente bardata perché ‘senza calzari’. Una sorta di rodomontesca prefigurazione dell’ingenuo (e più domestico) eroe pascoliano, tutto «vestito di nuovo», eccetto i piedi; sempre scalzi e già «provati dal rovo»: quel Valentino così puerilmente dimentico della propria infima, e indifesa, nudità. Fantasie liriche a parte, le forti connotazioni comunque positive che «tendenzialmente si associavano con il termine πέδιλα nella poesia greca arcaica» * sono patrimonio inalienabile dell'immaginario, non soltanto poetico né solo arcaico. Ι᾿ἀπέδιλος di Alcmane ci obbliga all’identificazione di un

*% Secondo la nota dizione di Richards 1936.

® Cosi Di Benedetto 1980, p. 139. 48. Id., Ὁ. 140.

58

Ricerche intertestuali

sistema ideologico, oltre che semantico, dove la riconosciuta e ribadita — a partire da Omero — essenzialità dei πέδιλα, con-

sente al termine (e derivati) quegli sviluppi metaforici e simbolici che abbiamo avuto e avremo ancora modo di accertare: quelle «risonanze» percepibili anche in Alcmane, in quanto pertinenti ad un codice generale per cui ἀπέδιλος costituisce un momento della storia del termine (e derivati), ma pure un dato sempre significativo. Emblematicamente, il Prometeo platonico doterà il γένος àvBo@brwv — sprovveduto e, quindi, anzitutto ἀνυπόδητον —

delle necessarie ὑποδήσεις (Pros. 321 c). Già Pindaro, del

resto, aveva simbolicamente descritto l’incedere di una corega εὔφρων e dunque βαίνοισα πεδίλοις (fr. 94 b, 70 Sn.-M.), nonché lo status del fortunato Agesia, figlio di Sostrato, ἐν

τούτῳ πεδίλῳ δαιμόνιον πόδ᾽ ἔχων (O. VI 8): «proverbialiter dictum» avvertiva Boeckh, interpretando «sors magnifica convenit huic condicioni, quam dixi» *. Mentre le sprovvedute Cariti teocritee se ne tornano desolatamente, e significativamente, γυμνοῖς ποσίν: ἀδώρητοι, dice l’autore 5. Che certo rimanda all’uso del dono ospitale, sin dall’epos. dove Telemaco non può congedare l’ospite straniero senza prima dargli tunica

e mantello e spada, promettendo infine: ποσσὶ πέδιλα πέμψω (π 89). Così come Penelope promette all'ospite (da cui si aspetta che sappia tendere l’arco) i soliti doni, precisando conclusivamente: δώσω è’ ὑπὸ ποσσὶ πέδιλα (φ 341). Teocrito estrae dal formulario di rito l'elemento di fatto ‘basilare’. Esplicitamente rituali, ancora, le vergini callimachee (Cer. 124 s.) invocano la dea, cantando:

® Ricordato puntualmente da Rumpel, p. 366. Ὁ Teocrito, intenzionato ad inviare le proprie Cariti in cerca di magnanima ospitalità, ne scongiura un ritorno a piedi nudi (XVI 8; cf. v. 7 ἀδωρήτους ἀποπέμψει, i.e. il mancato mecenate; v. 12 ἐπὴν ἄπρακτοι ἵκωνται, i.e. Χάριτες: insufficienti, in proposito, i commenti teocritei, cf. il pur ampio Gow 1952, II p. 308).

Pretesti epici e ragioni liriche

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ὡς δ᾽ ἀπεδίλωτοι ... ἄστυ πατεῦμες,

ὡς πόδας ... παναπηρέας ἕξομες αἰεί.

Lo scoliasta spiega παναπηρέας con ἀβλαβεῖς: le ragazze, consapevoli del rischio di βλάβη, data la propria debolezza, anche simbolicamente espressa, implorano protezione dal ‘danno’. Non così, evidentemente, gli Ippocoontidi, che, sopravvalutando la propria ἀλκά, debole perché ἀπέδιλος, avevano incontrato la sconfitta e la morte. Non è facile decidere se tale fragile ἀλκά appartenga agli Ippocoontidi o piuttosto all'umanità tutta. In favore di questa seconda ipotesi sembra comunque giocare il formale congedo dagli eroi, espresso dal poeta qualche verso prima ”, e la successiva menzione di Aisa e Poros, possibile quanto abile sutura tra il καϑ᾽ ἕκαστον (la vicenda dei figli di Ippocoonte) e il καϑόλου (la gnome che chiama in causa tutti gli ἄνθρωποι, cf. v. 16), dove l’àAxd difensiva acquisterebbe valore più general-

mente esistenziale. È da ricordare, in proposito, un sentenzioso passo di Pindaro, normalmente citato, ma solo in parte, per la seconda gnome alcmanea. Si è notato che la preghiera (ad Fracle) εἰ γάρ σφισιν (i.e. βροτοῖσιν) ἐμπεδοσϑενέα βίοτον ἁρμόσας nba λιπαρῷ τε γήραϊ διαπλέκοις / εὐδαίμον᾽ ἐόντα κτλ. (N. VII 98 ss.) sembra ripetere la morale, e l’augurio, di Alcmane ὁ δ᾽

ὄλβιος, ὅστις εὔφρων / ἁμέραν διαπλέκει) ἄκλαυτος (vv. 37 ss.). Se non che, due versi prima (96 s.), il poeta tebano chiede al dio di concedere ai mortali un'adeguata difesa dai ‘passi difficili’, ordinatamente

attento, si potrebbe

arguire, anche alla

prima gnome di Alcmane, annunciata da ἀπέδιλος ἀλκά: δύνασαι δὲ βροτοῖσιν ? è i x U v ἀμαχανιᾶν δυσβάτων ϑαμὰ διδόμεν.

Ἵ Cf. Pavese 1967, p. 117: «essi (2.6. gli Ippocoontidi) sono presumibilmente congedati al v. 12 con παρήσομες». 52 Il nesso pindarico βροτοῖσιν ἀλκάν mi sembra interessante per l’inte-

60

Ricerche intertestuali

In presenza, qui, di ἀλκά, non è impossibile che sulle ‘pedestri’ ἀμαχανίαι, metaforicamente δύσ-βατοι ”, giochi la memoria di ἀ-πέδιλος. E, forse, per memore esorcismo di un’àèmédià.og ἀλκά si auspica un vivere ἐμ-πεδ(ο)-σϑενής 7. Comunque sia,

andrà almeno richiamato il campo concettuale su cui insiste l’alemaneo Poros — «dans son sens figuré» identificabile quale

μηχανή, «le moyen mis ἃ disposition de l’homme pour sortir d’une situation d’àrogia, d’embarras» 7 — in polare antitesi con l’azione ‘impediente’ di Aisa (cf. il pindarico ἀμαχανιᾶν δυσβάτων): unico scampo da quest’ultima pareva ad Alcmane, prima che a Pindaro, una congrua ἀλκά, tutt’altro, dunque, che ἀπέδιλος.

Il rapporto di Agido con Agesicora, esattamente raffigurato — per metafora — ai vv. 58 s. ἁ dè δευτέρα ned’ ᾿Αγιδὼ τὸ Feidos ἵππος ᾿Ιβηνῷ Κολαξαῖος δραμήται,

potrebbe apparire ancora incerto, stando allo scoraggiante dépliant riassuntivo delle molte e contrastanti opinioni in merito, fornito da Calame nel documentatissimo studio che precede

l’edizione 76. In realtà le più recenti e affidabili indagini, cui si affida lo stesso Calame, confermano che ᾿Αγησιχόρα (nomenomen!) è l'eccellente corega, e che ᾿Αγιδώ le è seconda per ‘bellezza’, e altresì che non esiste alcun apprezzabile

dislivello,

né tanto meno

alcuna

con-

grazione φωτῶν ἀπ]έδιλος dix, suggerita da Di Benedetto 1980, p. 138, al v. 15 del Partenio (βροτῶν farebbe difficoltà per la prima sillaba breve). * Hapax in Pindaro. Più tardi solo in Plat. Resp. 432c; Xen. Cyr. 11 4, 27;

Iamb. Myst. V 5. * (Εν. 98: bapax anch'esso, ed assoluto. # Così Calame 1983, p. 447; cf. West 1967, pp. 1 ss.; Vernant 1970, pp. 38 ss.

*% Cf. Calame 1977, II p. 176, dove è annesso il dettagliato ‘pieghevole’

con riferimento alla p. 47 n. 3.

Pretesti epici e ragioni liriche

61

correnza, tra le due. Il loro reciproco rapporto, come da ultimo ha puntualizzaato Puelma ”, si regola sul cosiddetto ‘schema -δεύτερος᾽ (cf. supra δευτέρα), funzionale al genere encomiastico e già codificato in Omero, dove il secondo rango non indica tanto un’inferiorità quanto un’assimilazione al grado superiore, nei confronti peraltro di una massa esclusa. Per fare un esempio: in II 194 s. Pisandro πᾶσι μετέπρεπε Μυρμιδόνεσσιν ἔγχεϊ μάρνασϑαι μετὰ Πηλεΐωνος ἑταῖρον.

L'eroe spicca fra tutti i Mirmidoni, risultando secondo (solamente) dopo il sodale Achille. Sull’esempio di Pisandro, Agido si distingue nettamente dalle consapevoli coreute, essendo seconda (solamente) dopo la compagna Agesicora. Ne consegue l’inattuale riesumazione di ogni tesi ‘competitiva’ per le due protagoniste, nonché di qualsiasi ipotesi circa una (inutile!) superiorità di Agesicora rispetto ad Agido. Ma pure ne consegue — in tale pacifica prospettiva — l’inopportunità di una «interdiction faite par la chorège aux choreutes de poursuivre leur louange d’Agido» (cf. vv. 43 ss.), che non si spiega certo, apoditticamente, come «sans doute purement formelle» 5. Una ‘forma’, dunque una convenzione, comporta un sistema (quanto meno dei paralleli) cui far riferimento, e correttamente.

Vedremo come una più corretta lettura dei dati convenzionali, sempre reperibili nella langue poetica (a partire da Omero), consentirà di distribuire imparzialmente le lodi fra le due fanciulle, senza reciproche interferenze, né interdizioni, ancorché

‘formali’. Converrà riportare i vv. 39 ss. di Alcmane " Cf. Puelma 1977, p. 30, che cita diversi esempi, tra i quali II 194 da novi ripreso (v. infra). # Così Calame

1983, p. 326, che rinvia

a Puelma

1977, p. 27, il quale

però non porta esempi a suffragio di tale Verborssatz che si vorrebbe topicamente funzionale all’encomio:

funzionale, in particolare, sarebbe l’espre»-

sione polare οὔτ᾽ ἐπαινῆν οὔτε μωμήσϑαι (per cui, tuttavia, v. ἐμένα).

62

Ricerche intertestuali

ἐγὼν δ᾽ ἀείδω 40

᾿Αγιδίω]ς τὸ φῶς ὁρῶσ᾽

bt ἄλιον ὅνπερ μιν

45

50

55

᾿Αγιδὼ μαρτύρεται φαίνην: ἐμὲ δ᾽ οὔτ᾽ ἐπαινῆὴν οὔτε ἰ[μ᾽ῳωμήσϑαι νιν ἁ κλεννὰ χορᾳγὸς οὐδ᾽ ἁμῶς ἐῇ᾽ δοκεῖ γὰρ ἥμεν αὐτὰ ἐκπρεπὴς τὼς ὥπερ αἴ τις ἐν βοτοῖς στάσειεν ἵππον παγὸν ἀεϑλοφόρον καναχάποδα τῶν ὑποπετριδίων ὀνείρων.



οὐκ

δρῇς; ὁμὲν κέλης

"Evntıxög' ἁ δὲ χαίτα τὰς ἐμᾶς ἀνεψιᾶς ᾿Αγησιχόρας ἐπανϑεῖ χρυσὸς [ὦ]τ᾽ ἀκήρατος᾽ τό τ᾽ ἀργύριον πρόσωπον, διαφάδαν

᾿Αγησιχόρα

τί

τοι

μὲν

λέγω;

aùrta.

Versi tuttora incompresi, a nostro avviso, quanto alla ‘lettera’,

specie dei punti nevralgici sopra evidenziati, e, conseguentemente, quanto allo ‘spirito’ dell'intero brano: anzi dell’intero carme, dov'è decisivo il ruolo — reciprocamente non competitivo, neppure ‘per gioco’ — di Agido e Agesicora all’interno del coro, e nell’àmbito del rito che si celebra al cospetto della ‘città’. Col v. 39 comincia la lode di Agido, lode che si conclude al v. 43: un autentico quadro, perfettamente limitato nella sua breve ma compatta ‘mimesi’, tutta dedicata alla fanciulla nomi-

nata per prima e paragonata al sole, che «Agido, par son éclat, demande d’apparaitre (au sens propre) pour les choreutes» ?9. Quanto alla costruzione alcmanea, giustamente Calame privile-

59 Così Calame 1983, p. 325. La soluzione ὁρῶσ(αλ al v. 40 — laddove i

precedenti editori scrivevano ὁρῶ vel 6gW/F ai vv. 40 5. — è adottata da Calame sulle orme di Puelma 1977, p. 10 n. 25 (che porta persuasive argomentazioni anche paleografiche).

Pretesti epici e ragioni liriche

63

gia il calzante parallelo trovato da Page in Aesch. Eum. 643 ὑμᾶς δ᾽ ἀκούειν ταῦτ᾽ ἐγὼ μαρτύρομαι £. Qui, va notato, il

coro si rivolge ai giudici perché

ascoltino:

analogamente

alle nostre coreute, le quali, tramite Agido, ottengono che il sole

— quel sole che già in I 276 s. è, assieme a Zeus, invocato da Agamennone: Ζεῦ πάτερ ... Ἠέλιός 9’, ὃς πάντ᾽ ἐφορᾷς καὶ πάντ᾽ ἐπακούει ς 6 —appaiae dunque guardi ciòchesi svolge sotto i suoi occhi, anzi ne sia garante. Tale il senso, ultimo, della frase, e della circostanza, per cui citerei anche Eur. Her. 858 ἥλιον μαρτυρόμεσϑα,

dove Lyssa, figlia della Notte, chiama il Sole perché sia testimone (favorevole a lei che sta per agire contro la propria volontà): analogamente alle nostre fanciulle, in attesa che il sole non

semplicemente appaia all’orizzonte, ma pure sia loro (cf. v. 41

ἄμιν) testimone e garante nel momento (evidentemente l’alba) «où se déroule le rite dans lequel les choreutes sont engagées» 62, Citerei l’identico dativus commodi μιν non solo del v. 60 (soggetto dell’azione è ancora Agido assieme alla corega Agesicora), ma anche del v. 89, dove garante e benefico aiutante (ἰἀτωρ) nelle fatiche (v. 88 πόνων) delle fanciulle — per inter-

cessione di Agesicora — sarà ᾿Αώτις, divinità dell’alba; mentre qui — per intercessione di Agido — è *AAtog (meglio che ἄλιος) il dio chiamato a garantire l’impegno corale. Sempre valido, in proposito, il confronto con Pind. Ditb. III 16 Sn.-M. πόγοι χορῶν 9: πόνος vi assume una particolare connotazio-

ne, riportabile tuttavia al più generale significato agonistico, frequentemente attestato in Pindaro «praecipue de labore certaminis» (Rumpel).

Accantonato il quadro di Agido, si passa al quadro di Agesicora, chiuso anch’esso dentro una propria cornice: nessuna

® Cf. Page 1951 a, pp. 84 5.

1 Il confronto si deve a Janni 1964, p. 63. %2 Così Calame 1983, pp. 325 5. 4 Anche tale confronto si deve a Janni 1962, p. 180.

64

Ricerche intertestuali

interferenza da parte di Agido, nessuna ‘dialettica’ tra Agido e Agesicora che sia minimamente conflittuale. Eppure, circa la frase ἐμὲ δ᾽ οὔτ᾽ ἐπαινῆν ) οὔτε [μ]ωμήσϑαι vivà ... χοραγὸς

οὐδ᾽ ἁμῶς ἐῇ. per cui si suole citare il ‘polare’ Vorbild di K 249 μήτ᾽ ἄρ με μάλ᾽ αἴνεε μήτε τι νείκει È, Calame ribadisce, d'accordo con la (quasi) totalità degli inter-

preti, che Agido ne costituisce l’oggetto (νιν), e, d'accordo con la maggioranza, che Agesicora impedirebbe le lodi della compa-

gna a causa della propria superiore e indiscutibile bellezza. Si tratterebbe



data

la scarsa

logica

dell’impedimento,

che,

preso alla lettera, comporterebbe gelosia e competitività — di un modo di dire puramente ‘convenzionale’. Tale convenzione,

evidentemente basata sul citato modello epico, non mi pare riscontrabile sul testo lirico nei termini finora pretesi. Non è

assolutamente convenzionale lo schema, tuttora proposto dall’ultimo editore e commentatore, per cui Agesicora — a prescindere dallo scarso fair-play e dall'impropria veemenza di

οὐδ᾽ ἁμῶς ἐῇ — impedirebbe le lodi di un’ altra

(la propria

migliore amica), con l'inevitabile conseguenza di risvegliare vecchissimi dubbi perfino sull’identità della χοραγός 9. Senza

contare il rinnovato rischio di attribuire ad Agesicora un gratuito Selbstgefühl, una indimostrabile oltre che assurda gelosia: δοκεῖ,

certo, non

significa soggettivamente

«sie meint von

#4 Per il significato di questa espressione polare basterà rinviare a Wilamowitz 1895, p. 231, che, su esempi consimili, faceva notare come non si deb-

bano prendere in considerazione entrambi gli opposti concetti: nel nostro caso «ogni idea di biasimo è ovviamente assente e la contrapposizione del verbo (sc. μωμήσϑαι) a ἐπαινῆν ha puro valore retorico» (così Garzya 1954, p. 42, che richiama una precisa nota di Kaibel). # Cf. Calame 1983, p. 326: per l’identificazione del personaggio indicato da νιν e dagli altri pronomi in gioco, e per l’identificazione della stessa yogaγός, si veda l’inesausta discussione schematizzata nel prospetto sopra citato (n. 56). :

Pretesti epici e ragioni liriche

65

sich», bensì oggettivamente «sie scheint» *, ma è sempre il testo (lirico) a dimostrarlo, attenendosi alla convenzione (già epica)

ed appellandosi alla competenza del pubblico. Il pubblico è sicuramente in grado d’intendere la voce del coro nel momento in cui, esaurite le lodi di Agido, le fanciulle si

dispongono a intonare le lodi di Agesicora, ma subito desistono per oggettivo divieto della stessa corega: Agesicora rende superflue lelodidi sé per’ evidenza della propria bellezza. Questo il preciso senso dei vv. 43 ss., sulla base dell’obbligato Vorbild omerico, da rileggersi però integralmente, senza trascurare la motivazione del divieto di lode, espressa al v. 250 εἰδόσι γάρ τοι ταῦτα μετ᾽ ᾿Αργείοις ἀγορεύεις.

Dove si scopre che Odisseo invita Diomede a non lodarlo, poiché superflua risulterebbe ogni sua parola in presenza

degli

Argivi

che

già

sanno.

Identicoloschema

comportamentale, e retorico, di Alcmane: la corega impedisce al coro di esprimere le (superflue) lodi di se stessa €, mostrandosi da sola qualè nella propria oggettiva eccellenza, cf. vv. 45 5. δοκεῖ Yà o ἤμεν αὐτὰ ) ἐκπρεπὴς κτλ., dove αὐτά ha il preciso valore di ‘da se’ 65.

# Esattamente il contrario di quanto affermava Schwenn 1937, pp. 291 ss. Sulla malintesa ‘presunzione’ di Agesicora (vi insiste ancora Fränkel 1969,

p. 186), si vedano le osservazioni di Marzullo 1964, pp. di chiarire la motivazione (reale) del «rettorico artificio» dimento di lode. Per il valore riflessivo indiretto (il pronome nella dinata rinvia al soggetto della principale), reperibile già

191 s.: avremo modo costituito dall’impeproposizione suborin Omero, cf. Chan-

traine GH II p. 154, che cita l’uso dell’anaforico μὲν (il nostro e dorico νιν) ad

esempio in E 845, dove Atena δῦν᾽ "Aidog κυνέην, μή μιν ἴδοι ὄβριμος !Αρης. Il solo Blass, ed una sola volta fra le rante dedicate al Partenio (cf. 1870, p. 183), aveva sostenuto l’uso riflessivo di νιν (attribuendone tuttavia l’identitä ad Agido, e ritenendola la κλεννὰ χοραγός). & Cf. gli esempi già omerici, in Chantraine GH II p. 156, di αὐτά nel preciso senso di «par lui-m&me, de sa propre initiative», da cui anche «seul». Un errore d’accento è da registrare nell'edizione di Calame, dove, al v. 45,

66

Ricerche intertestuali

Il paragone col cavallo ἀεϑλοφόρος che spicca ἐν βοτοῖς, ma che iperbolicamente si qualifica come un cavallo τῶν ... ὀνείρων, da un lato rimanda ad un ulteriore obbligato Vorbild omerico — B 480 ss. rappresenta Agamennone come un toro

che si distingue in una mandria di vacche: βόεσσι ... μεταπρέπει — indicando Agesicora quale ‘capo’ del coro; dall’altro annuncia la strofe successiva, per più di metà ancora dedicata

ad Agesicora e intesa a spiegarne il paragone con il cavallo nobilitato da vittorie agonali, peraltro collocato in un mondo ‘altro’, quello dei sogni. La strofe risulta per i primi otto versi (50-57: si tratta dell’intera sezione metrica che alterna lecizio ad enoplio) puntualmente epesegetica dell‘ineffabile’ lode della corega

(cioè dei vv. 43-49 testé discussi). Si apre infatti con l’invitoἦ οὐχ ὁρῇς, il cui senso ribadisce, da un reciproco punto di vista, il precedente ‘oggettivo’ δοκεῖ. Lì Agesicora si offriva allo sguardo altrui, qui il coro invita a guardare: oggetto di questo

sguardo, fino al v. 57, non è altri che Agesicora, sempre e soltanto Agesicora. L'alternativa μὲν ... dè (vv. 50 ss.), sottolineata

da Page, non riguarda affatto un’impropria intrusione di Agido, tanto meno una sua ancora più impropria contrapposizione ad

Agesicora ®, ma serve a scandire i due aspetti dell’anormale eccezionalità, è il caso di dire, di tale ‘cavallo’, prima definito

a) mayòv ἀεϑλοφόρον xavaydroda (v. 48), ma uno b) τῶν ὑποπετριδίων ὀνείρων (v. 49), ed ora ridefinito

si legge αὗτα in luogo di αὐτά (come invece, correttamente, al v. 85): l’errore, curiosamente, ricorre già in Page 1962 e 1968 (v. 45 aùta, v. 85 αὐτά), ma

non in Page 1951 a. # Abbiamo già valutato lo ‘schema -δεύτερος᾽ adottato dal poeta, e vedremo sempre meglio in che senso ‘conciliativo’ il poeta farà ‘trottare’ fianco a fianco le due fanciulle-corsieri, a conclusione delle loro rispettive e separate lodi. Sull'impropria contrapposizione Agido (pév)/Agesicora (δέ) si è nettamente pronunciato Marzullo 1964, p. 195, identificando il κέλης (ἴππος) con Agesicora (il vittorioso ἵππος della strofe precedente).

Pretesti epici e ragioni liriche

67

a’) κέλης / "Evntixög (vv. 50s.),

ma la cui χαίτα δ᾽) ἐπανϑεῖ) χρυσὸς [ὦ]τ᾽ ἀκήρατος (vv. 53 s.). Per la verità, la χαίτα in questione, funzionale perché ambiguamente equina (cf. e.g. Z 509) ed umana (cf. e.g. Ψ 141), appartiene alla bionda (cf. v. 101 ξανϑᾷ κομίσκᾳ) Agesicora, paragonata al corsiero Enetico. Un cavallo eccezionale per razza, a

quel che sembra della Paflagonia ”: κέλης appunto perché da corsa, come del resto preavvertiva, poeticamente, l’epiteto ἀεϑλοφόρος!!. Un cavallo tuttavia anormale, se non altro perché metaforico: appena fuor di metafora, 0, se si vuole, ancora par-

zialmente dentro la metafora grazie all’ambiguo yaita, Agesicora vanta una chioma/criniera aurea in omaggio al suggestivo

‘presagio’, che, poco prima, nel pieno della stessa metafora (v. 49), spostava l’appartenenza del fantastico animale da questo mondo a quello dei sogni: τοῖς χρυσοῖσιν ὀνείροις, per citare l’euritmica clausola degli ᾿Αλιεῖς pseudoteocritei, dove uno dei due poveri protagonisti sogna di pescare χρύσεον iyduv, / παντᾷ τοι χρυσῷ πεπυκασμένον (XXI 52 s.). La citazione

non pretende di offrire più che una casuale, e modesta, analogia col nostro superbo destriero dalla criniera ‘tutta d'oro’ (χρυσὸς ὥτ᾽ ἀκήρατος),

concepibile solamente in un mondo

onirico.

Resta, in ogni caso, la positiva ‘anormalità’ della corega, che dalla sfera del relativo, dunque del reale, viene elevata a quella dell’assoluto, del (quasi) divino, dell’irreale. Fantastico ancora il

suo ἀργύριον πρόσωπον, decantato dal coro che contemporaneamente si chiede ed anzi esclama διαφάδαν τί τοι λέγω; A

10. Sulla questione, convincente la specifica ricerca di Devereux 1966, pp. 129 ss.

7" Vale la pena di accennare alla dedica della prima Olimpica di Pindaro Ἱέρωνι ... νικήσαντι ἵππῳ κέλητι (cf. Plat. Lys. 205 c νίκας Πυϑοῖ καὶ ᾿Ισϑμοὶ καὶ Νεμεᾷ ... κέλησι): il nostro κέλης ‘deve’ identificarsi con l’îxπος ἀεϑλοφόρο ς dellastrofe precedente (cf. supra n. 69).

68

Ricerche intertestuali

ribadire l’inutilità della lode poiché ᾿Αγησιχόρα μὲν avra: ecco Agesicora (cf. e.g. T 178 οὗτός γ᾽ ᾿Ατρεΐδης, bic tibi vir:

ThGLV

c. 2426 B.

Davanti agli occhi dei presenti l’assoluta bellezza di Agesicora palesemente, dunque,

s'impone,

ma senza conflitti, nep-

pure ‘convenzionali’, con la comprimaria Agido. La metafora equestre, per stringente quanto elegante logica, continua e si conclude con l’immagine della coppia Agesicora-Agido, che, reciprocamente unita, e separata dal resto del gruppo, si avvia al galoppo come cavallo Colasseo (appena un po’) dietro ad Ibeno 72, Successivamente, con sempre lucida ed armonica conseguenza, le due elette fanciulle saranno raffigurate (v. 60 ταὶ πεληάδες) o nominate (vv. 79 5. ᾿Αγησιχόρα ... Ayidot) assieme, nonché staccate o, meglio, appartate dal coro delle più modeste

compagne.

Nessuna

competizione,

mai, all’interno

della coppia. Ciò comporta però, quanto alla ‘lettera’ del testo (e contrariamente all’opinione anche dell’ultimo editore), che:

al v. 44 νιν è la stessa κλεννὰ yopay6c, soggetto della frase; al v. 45 αὐτά enfatizza il valore oggettivo di δοκεῖ; al v. 50 il κέλης in questione non rappresenta Agido, bensì Agesicora; al v. 57

αὕτα non sta affatto per τοιαῦτα, ma esprime, nettamente, il primario valore dimostrativo che a tale pronome compete 75. Quanto infine allo ‘spirito’ del così cifrato testo alemaneo, è ormai chiaro (almeno) che il rapporto fra Agesicora e Agido condiziona tutta la parte ‘profana’ del Partenio o, se si vuole, l’intera occasione: quella che più ‘sta a cuore’ al poeta (lirico!).

La separatezza della coppia rispetto al coro è suggellata da un vincolo affettivo (più volte dichiarato o rappresentato per metafora), il quale, ‘vero’ o ‘falso’ che sia ”*, ne garantisce la posi-

2 Sulle due specie equine, cf. da ultimo Calame 1983, p. 331 (che si rifà, rispettivamente, a Diels 1896, pp. 358 s., e a Devereux 1965, pp. 176 ss.). ” Per il valore di τοιαῦτα, sia pur dubbiosamente, si dichiara ancora Calame 1983, p. 330. 74 Sulla non semplice conciliazione fra «symboles traditionnels, exalta-

tion verbale et réelle émotion» nella poesia amorosa arcaica in generale, ed a

Pretesti epici e ragioni liriche

69

zione di esclusivo privilegio nei confronti delle coreute, rassegnate a recitare una ‘più piccola’ parte, ad ammettere (come in principio si accennava) la propria modesta virtù canora di civet-

ta, ad accettare cioè la propria inferiorità onde non peccare di ὕβρις. La pervicace esaltazione dell’eccellente duo AgesicoraAgido — che non a caso ha suscitato l’ipotesi di un matrimonio omoerotico 7 — è comunque funzionale al rito di civica rilevanza, per la cui occasione si canta il Partenio. Senza avventurarci in pur legittime congetture extratestua-

li 6, ci fermiamo qui al dettato verbale — alla parola, però, quale ultima vibrazione del senso profondo del carme — e leggiamo, ad esempio, la rinuncia delle ragazze a ‘corteggiare’ la

bellissima Agesicora come un duplice ed encomiastico riconoscimento. Riconoscimento sia dell’inattingibile superiorità della corega — peraltro evidente, manifestandosi, secondo lo schema già epico, ἐν εἰδυίαις:

ed ἐν εἰδόσι, se si considera, oltre il

coro, anche il pubblico della performance — sia dell’inoppugnabile diritto per la stessa corega di scegliersi una comprimaria, assimilandola al proprio rango, secondo un altro schema epico. Schemi tanto resistenti quanto duttili, da favorire una trasformazione del testo (da epico a lirico) radicale. La nuova ambiguità lirica, soggettivamente ed oggettivamente in bilico tra fin-

proposito del nostro Partenio in particolare, si è problematicamente espresso Lasserre 1974, pp. 5 ss. La questione — complicata anche dalla coincidenzea (o meno) tra l'‘io’ poetico e l‘io’ corale, nonché dalla coincidenza (o meno) tra

‘persona reale’ e ‘persona poetica’ — è sempre oggetto di rinnovato dibattito: ci limitiamo qui a ricordare due differenziate, tra le più recenti, posizioni, quella ‘immaginaria’ di Latacz 1985, pp 67 ss., a proposito della celebre ode di Saffo Φαίνεταί μοι κῆνος, e quella ‘funzionale’ di Rösler 1985, pp. 131 ss., che prende spunto dal nuovo Epodo archilocheo di Colonia per poi affrontare il problema dell’“io’ in maniera articolata e complessa (e con equilibrata attenzione all’essenziale bibliografia in merito). Rimandiamo ad altra, e più specifica, occasione un attento esame di tale problema. ” Cf. Gentili 1984, p. 107. 76. La più aggiornata, documentata, e particolarmente attenta al quadro ‘istituzionale’ dell'educazione femminile a Sparta, resta quella, ovviamente, di

Calame 1977, Il pp. 67 ss., cui rinvio per la bibliografia relativa.

70

Ricerche intertestuali

zione (la performance) e realtà (l'occasione, ovviamente nota a

quel pubblico), di contro all’assoluta oggettività epica (in quanto assoluta finzione che rimanda ad una realtà mitica),

lascia soltanto supporre le ragioni del ‘nuovo’ testo in relazione alla vicenda Agido-Agesicora ed alla circostanza rituale. A parte il rito, difficilmente identificabile dai soli elementi testuali 77, sulla vicenda d’amore fra le due protagoniste, narrata

dal coro ‘come’ vera, non parrebbe lecito alcun dubbio. Ma sarebbe ingenuo domandarsi — sull’esempio critico suscitato

dalle ben più pericolose liaisons saffiche — se c’è contraddizione «entre la singularité de ces liens amoureux et le caractère

certainement collectif de l’éducation» 78, Basterebbe riflettere sull’ovvia deformazione poetica dell'aspetto privato e persona-

le, che non contraddice né prevarica quello pubblico, scorrendogli, per così dire, parallelamente. Alcmane, rispetto a Saffo, vanta almeno la possibilità di evitare ‘personalmente’ la diagnosi di una «omosexualité fixée au sens clinique du terme» 79, cantando

altrui

rischierebbe

di

amori,

ricadere

ancorché

sulla

omoerotici.

coppia

La

diagnosi

Agesicora-Agido

o,

meglio, sul coro che si consuma (v. 77 τείρει) d'amore non ricambiato. Ma, appunto nella finzione, l’amore fra Agesicora e

Agido (nonché il relativo struggimento del coro) è credibile perché — in termini aristotelici — ‘possibile’ e ‘necessario’, non

perché obbligatoriamente ‘vero’: rivelatore di un costume, non tanto di un evento di cronaca. Chiara, comunque, la funzionalità rituale di tale amore, a vantaggio del coro e della collettività. La rassegnazione delle ragazze escluse ed il loro conseguente

plauso alla coppia sono da intendersi come un ulteriore, ma più interessato, riconoscimento: quello di assistere ad un eros propriamente, ed utilmente, carismatico. Grazie soprattutto ad

©? Oltre Calame 1977, II pp. 97 ss., cf. Vetta 1982, p. 136. # Cf. Calame 1977, Ip. 428. 79 Id. p. 430: qui opportunamente si discute la tesi estrema di Devereux 1970, pp. 17 ss., a proposito della famosa ‘sindrome’ di Saffo (fr. 31 V.), dovuta, a suo avviso, ad una ‘autentica’.crisi d’ansietà di natura omosessuale.

Pretesti epici e ragioni liriche

71

Agesicora, però amata, e dunque coadiuvata (cf. vv. 79 ss.), da Agido, è possibile che la divinità dispensi i propri benefici anche alle ragazze del coro (così infatti recitano i vv. 90 5. ἐξ ᾿Αγησιχόρας δὲ νεάνιδες / ἰρήνας ... ἐπέβαν), come dire alla comunità intera.

Le due esibite modestie — e dell’io poetico, che rinuncia (interessatamente) a temi perigliosi, e dell’io corale, che si accontenta di un (vantaggioso) ruolo subalterno — si confondono, come sopra si diceva a proposito di οὐκ ἀλέγω, felicissimamente. La tradizione epica ha fornito qualche autorevole pretesto per ragioni poetiche più lievi: per una fabula solo provvisoriamente inquieta, in ogni caso a lieto fine.

Capitolo terzo

LE RADICI DELL’EPOS (Omero in Ibico)

Sono famosi i versi di Ibyc. 5 P. ἦρι μὲν ai te Κυδώνιαι

3

μηλίδες ἀρδόμεναι δοᾶν ἐκ ποταμῶν. ἵνα Παρϑένων κῆπος ἀκήρατος, αἵ τ᾽ οἰνανθϑίδες αὐξόμεναι σκιεροῖσιν ὑφ᾽ ἕρνεσιν οἰναρέοις ϑαλέϑοισιν" ἐμοὶ δ᾽ ἔρος οὐδεμίαν κατάκοιτος ὥραν. tret ὑπὸ στεροπᾶς φλέγων Θρηίκιος Βορέας

10

ἀΐσσων παρὰ Κύπριδος ἀξαλέag μανίαισιν ἐρεμνὸς ἀϑαμβὴς ἐγκρατέως πεδόϑεν Ἐφυλάσσειτ

ἡμετέρας φρένας. Così Page, che al v. 12 crocifigge il tràdito φυλάσσει, giudicandolo

«sententiae

contrarium» !. I reiterati

interventi,

1 Cf. Page 1962, p. 149. Meno drammatica la crux al v. 8, probabilmente un ibiceo, sanabile con ἀλλ᾽ ἅϑ᾽ ὑπὸ (Mehlhorn: per questa ed altre proposte, cf. l'apparato di Page). Quanto al metro, i vv. 1, 2, 3 sono ibicei, i vv. 4, 5, 6 alcmanii, i vv. 7, 12 decasillabi alcaici, il v. 13 non è definibile perché incompleto. I vv. 9, 10, 11 — un hemiepes maschile e due alcmanii (con l’obbligata

scansione omerica ἀισσων) secondo Page — sono considerati tre cola, rispettivamente ibiceo, alcmanio, berziepes femminile, da Gentili (con relativa suddivisione Θραΐκιος Βορέας dio-/omv παρὰ Κύπριδος ἀζαλέαις navi-/ αισιν ἐρεμνὸς ἀϑαμβής, cf. Gentili 1965 p. 299). Sul tentativo di istituire una puntuale responsione tra i vv. 1-7 e 8-13, che comporterebbe peraltro lacune e mutamenti nell’ordine delle parole ai vv. 8-13 (così West 1966 5, p. 153), si vedano le giuste critiche di Gentili 1967, p. 178. Non mi soffermo qui sul dibattuto, a cominciare da Wilamowitz, ma sufficientemente chiaro, signifi-

cato globale del carme, per cui rimando alla sintetica rassegna di Burzacchini 1977, pp. 303 ss. Sulla simbologia primaverile, in particolare sui «Kydonische

Apfel», cf. Trumpf 1960, pp. 14 ss.

74

Ricerche intertestuali

prima e dopo Page, intesi a sanare la presunta correzione 2, testimoniano, del resto, la persistente difficoltà di φυλάσσει. E un recente e argomentato tentativo di difesa della tradizione,

contro l’ultimo, ingegnoso emendamento ’, conferma in φυλάσσει il punctum dolens, quanto al senso, dell’intero carme. L’immaginifica ode raffigura, in due quadri, l’ossessione di Eros che mai dà tregua nella vita: neppure in vecchiaia, Ibico ribadisce

altrove,

usando

la metafora

dell'anziano

corsiero

avviato nolente alla gara (fr. 6, 6 5. P. ποτὶ γήρᾳ, / ἀέκων ...Èg ἅμιλλαν ἔβα). Il nostro ‘dittico’ illustra come alle stagioni della natura non somiglino le stagioni dell’uomo: la vita naturale ha un tempo, circoscritto e sereno, per l’amore, laddove la vita umana è sempre turbata da Eros. L'opposizione è marcata dalle fresche e irrigate fioriture primaverili, di contro all’infuocato e arido paesaggio intimo di Ibico, memore forse della devastazione οὔρεος ALaAEOLO, dove καίεται ὕλη, mentre πάντῃ ... κλονέων ἄνεμος φλόγα εἰλυφάζει (Y 491 5.) 4. Eros, avventandosi tempestoso e incendiario come Borea (vv. 8 s.), saldamente si pone «a guardia» del cuore (vv. 12 s.): un

amore che esordisce come vento e finisce guardiano?

Lo scarto d'immagine ha creato imbarazzo, provocando, da ultimo, la correzione di φυλάσσει in λαφύσσει, sulla scorta di AP V 239, dove Paolo Silenziario paragona l’amore «to the fire that consumes (Aapboow!)

the sacrifice and then dies for

want of fuel»: così West 9, il quale ritiene indispensabile l’eliminazione di φυλάσσει, poiché «one who is rushing from Aphrodite’s presence like Boreas ablaze with the lightning-flash must

be doing something

less

static

than keeping watch» 5.

2 Daltivaooeidi Naeke(perquestaedaltreproposte, cf. Page,/.c.,esoprattutto Bergk 1882, p.236) alla pbooeı.di West (percuiv.infra). 3 Rispettivamente da parte di Gentili 1967, pp. 178 55., cf. Gentili 1984, pp. 135ss.,edi West 19665,pp.153ss.,cf. West 1975,p.307:mav.infra. 4 C£ Marzullo 1967, p.149. > Cf. West 19665,p. 154. ® Cosi West 1975, p.307 (lospaziato&nostro).

Le radici dell'Epos

75

L’inopportuna anti-climax è vivacemente denunciata anche da Borthwick, che difende, con pari calore, «the recent economical conjecture of M.L. West λαφύσσει», contro il parere di Gentili,

condiviso da Giangrande, che φυλάσσει ben si adatta ad un Eros οὐδεμίαν κατάκοιτος ὥραν, quale appunto l’Eros ibiceo ?.

Per la verità, Gentili ha più esattamente articolato il proprio giudizio sull'amore concepito da Ibico «come una forza ... che non concede riposo in nessuna stagione della vita, ma arde senza tregua la vittima»:

senza consumarla,

come vorrebbe

West, e senza spegnersi, ma esercitando la propria attività conclusiva (v. 12 ἐγκρατέως πεδόϑεν φυλάσσει) in coerenza con la propria attività d’esordio (v. 7 οὐδεμίαν κατάκοιτος ὥραν, identico per il metro al v. 12), e secondo uno «schema ben pre-

ciso del pensiero» 8, che regola l’intera struttura del periodo (vv. 8-13). Dove «l’amore è osservato: 1) nella sua essenza ardente e tempestosa, come una forza della natura; 2) nella sua azione improvvisa e violenta (‘con aride follie’); 3) nella qualità della

sua natura e dell’azione; 4) nei modi della sua presenza (‘con forza custodisce’). Il quarto elemento ricongiunge l’arco del

pensiero con il punto di partenza ...: l’idea della custodia integra e rafforza quella dell’insonne presenza di Eros» ?. Il Leitmotiv rimane dunque quello di Eros sempre presente: attorno ad esso ruota — per usare l’efficace definizione di Fränkel — la nuova, e chiusa, composizione ibicea, saldata nei

suoi elementi dal «tektonische membre e paratattica, propria «una precisa unità tematica, sì tema risultano costruite in una in funzione e in rapporto alla

Stil» 10, per cui la struttura tridello stile arcaico, risponde ad che le singole parti dello stesso struttura organica del pensiero, medesima idea» !!. West non

? Cf., rispettivamente, Borthwick 1979, p. 79; Giangrande 1971, p. 106. 8 Così Gentili 1967, p. 179.

9. Così Gentili 1984, pp. 137 5.

0 Cf. Fränkel 1969, pp. 325 5.

" Così Gentili 1967, /.c.

76

Ricerche intertestualt

manca di ironizzare sulla pretesa azione, nel nostro carme, dello stile ‘tettonico’, laddove sarebbe apprezzabile, al v. 12, nient’altro che una «badly muddled imagery, indicative of corruption» !?. Gentili, dal canto suo, ribadisce le proprie argomentazioni, eccependo, in nota, sui meri «criteri estetici» di West 1".

In realtà, l'organizzazione delle parti tematiche nella nostra ode (come generalmente in Ibico) procede — appunto in virtù del cosiddetto stile ‘tettonico’ — per sovrapposizione e accu-

mulazione di immagini e luoghi ‘classici’ (#2 primzis omerici), non semplice, né sempre controllata, né dunque controllabile. È

sfuggito, ad esempio, che la rimostranza ibicea — nei confronti di Eros sempre sveglio, mentre la natura, almeno temporaneamente, riposa — curiosamente riecheggia il lamento di Pene-

lope, percepibile in t 510-512 καὶ γὰρ δὴ

κοίτοιο

τάχ᾽ ἔσσεται ἡδέος

αὐτὰρ ἐμοὶ καὶ πένϑος ἀμέτρητον πόρε

d o n

δαίμων.

Penelope insiste sul generale altrui sonno notturno (ν. 515 ἐπὴν... ἕλῃσι... κοῖτο ς ἅπαντας) e sul proprio, invece, continuo agitarsi e piangere: così come agitata e piangente, la

figlia di Pandareo, χχωρηῖς ἀηδών, fa sentire la propria voce in una contrastiva cornice di lieta primavera (!), È a © 0 g νέον ἱσταμένοιο, / δενδρέων ἐν πετάλοισι καϑεζομένη πυκινοῖσιν (vv. 519 5., noti, del resto, ad Ibico per avergli ispirato il fr.

36 [a] P. τοῦ μὲν πετάλοισιν ἐπ᾽ ἀκροτάτοις / ἱξζάνοισι ποικίλαι αἰολόδειροι / πανέλοπες κτλ.). La regina si chiede quindi, angosciosamente, se convolare a nuove nozze o restare col figlio e custodire i beni (v. 525): ἔμπεδα

πάντα

12 Così West 1975, ἐς

φυλάσσω.

C£. Gentili 1984, p. 138 n. 134.

Le radici dell’Epos

77

La frase non casualmente apparterrà alla rbesis epica cui il Lirico dimostra più volte di attingere forme e motivi, con qualche ‘aurale’ calembour (cf. κοίτοιο ὥρη — κατάκοιτος ὥραν): proprio perché meccanica, la parechesis ἔμπεδα φυλάσσω — πεδόϑεν φυλάσσει non suona certo contro il testo, così stabilito !*, dell’Ode. In ogni caso, per l’‘oscuro’

πεδόϑεν φυλάσσει, andrà anche citato — poiché «πεδόϑεν verhält sich zu ἔμπεδον wie ἐκ δεξιᾶς zu ἐν δεξιᾷ» ! — B 227 ἔμπεδα πάντα φυλάσσειν, Θ 521 φυλακὴ ... ἔμπεδος (cf. AP

IX 659 ἔμπεδος φύλαξ) e, specialmente, Hes. fr. 294, 3 ς. M.-W. φυλακὴν

οὐδέ οἱ ὕπνος δ᾽ἔχεν ἔμπεδον αἰεί.

carceriere

di Io, istruttivo esempio,

πῖπτεν...

Si tratta di Argo,

come subito vedremo, per il nostro Eros: custode insonne quanto irriducibile, e, poiché non protettivo, fatalmente o st

i-

le. Lo schema lineare tracciato da Gentili (v. supra) risulta appena complicato dall’osservazione che l’Eros ibiceo, tradizionalmente impetuoso come il vento (cf. Sapph. 47, 1s. V. Ἔρος δ᾽ ἐτίναξέ «μοι; ]) φρένας, ὠςἄνεμοςκτλ.), è peròcaratterizza-

4 ἹΠπαιδ᾽ δϑεν(φυλάσσει) di Ateneoera risolto in παιδόϑεν dal Musuro

(secondo uno schema metrico —

VU —-—U—U—T,

poi conservato da

Bergk, cui risponde anche il πάντοϑεν tentato da Giangrande 1971, p. 107, sulla scorta di Bacchyl. XIX 19ss.): a pwero(?) (cf. naidev Schulze: παῖς ὅϑεν, Mehlhorn; istruttivalatestimonianzadi Esichio, cheripeteperiduelemmin 708. rxar-

δόϑεν e 1200 πεδόϑεν gli stessi, ma alternativi, interpretamenta ἀρχῆϑεν, ἐκ ῥίζης, ἀπὸ γενέσεως, ἐκπαιδικῆς ἡλικίας, veléx παίδων: da notare che nello stesso ἤεβυςῃ. 2428}, ἔμπεδον’ βέβαιον κτλ. Ματοϊαποτεςαἔμπαιδον, corretto senza indugi dal Musuro). La migliore, e per noi decisiva, correzione resta πεδόϑεν nel senso di funditus, radicitus, cf. Hom. v 295, Hes. Tb. 680, Pind. O. VII 62, etc.: precisa ed esaustiva, in merito, la nota di Frinkel 1968 Ρ. 47 n.2.Sui

derivati di πέδον, di cui ἔμπεδος è ipostasi con preposizione, cf. comunque Chantraine DELG p. 867. !5 CosiFränkel 1968, /.c.

78

Ricerche intertestuali

to, dall’inizio, come forza della natura ostile

e bellico-

sa, cosicché le intenzioni di Borea ἀΐσσων (v. 10) rappresentano la necessaria premessa del conclusivo φυλάσσει: l’«insonne presenza» di Eros prepara, certo, l’«idea della custodia» '*, ma la custodia è di tipo carcerario, e la fissa prigionia (i.e. schiavitù, cf. Pind. Ρ XII 14 ἔμπεδος δουλοσύνα) del cuore non costituisce affatto un’anti-climax, bensì il culmine 0,

se si vuole, l'esito dell’impari guerra contro Eros. Che «φυλάσσει ha connotazione militaresca» rileva Marzullo 17, citando e.g. Thuc. I 55, dove i Corinzi δήσαντες ἐφύλασσον duecentocinquanta fra gli sconfitti Corciresi. Ma già ἀΐσσων connotava militarmente le operazioni di Borea: in Omero il

verbo — detto del vento in B 145 5. Εὖρός te Νότος te / ... ἐπαῖξας — denuncia propriamente l’azione «of one darting upon his enemy, ἀΐσσειν ἔγχει. φασγάνῳ, ἵπποις, Il. 11. 484, 5. 81, 17. 450, etc.» (LS7 p. 43). Introducendo Borea ἀΐσσων con le armi che sono proprie di Eros, ἀζαλέαις μανίαισιν, Ibico ambiguamente gioca la vicenda amorosa su due piani metaforici (natura e guerra), però interagenti (natura zu guerra):

nel primo quadro la vera natura si concede la temporanea pace primaverile, nel secondo la metaforica forza naturale di ErosBorea scatena e vince una guerra senza tregua, facendo prigioniero il cuore. La ‘doppiezza’ di ἀΐσσων consente un registro narrativo, prima cònsono alle turbolenze del vento, poi ad un

atto specificamente militare: la ἔμπεδος φυλακή di Eros, carceriere che il precoce οὐδεμίαν κατάκοιτος ὥραν garantiva opportunamente insonne.

Se di πεδόϑεν - φυλάσσει abbiamo potuto vagliare le molteplici e connesse ragioni, anche di ἐγκρατέως - φυλάσσει (detto di Borea) è rintracciabile un precedente epico che permette di istituire un brillante rapporto analogico. In Π 66 s., κυάνεον Τρώων νέφος ἀμφιβέβηκε / νηυσὶν

1 Cf. Gentili 1984, p. 138. 17 Ibid.

Le radici dell'Epos

79

ἐπικρατέως, la nube dei (nemici) Troiani rinchiude con forza le navi degli Achei '®. L’affinitä tra le due metafore naturali — il vento ibiceo e la nuvola omerica, l’uno e l’altra ostili e opprimenti — risponde all’affinità semantica tra φυλάσσει e ἀμφιβέβηκεν. Vox media, ἀμφιβαίνω, come φυλάσσω, indifferentemente si addice a circostanze sia afflittive (cf. Z 355 πόνος φρένας ἀμφιβέβηκεν) che propizie: è possibile, per esempio, rammentare. ad Apollo. Χρύσην ἀμφιβέβηκας (A 37), così come è augurabile che Zeus oe φυλάττοι (Ari-

stoph. Eg. 499), la protezione essendo specifico cömpito dei δαίμονες, vuoi ἀμφιβάντες πόλιν (Aesch. Sept.

175), vuoi

φύλακες ϑνητῶν ἀνθρώπων (Hes. Op. 122). Non è fra costoro Eros, il δαίμων ---- almeno per Ibico — sempre ostile, la cui φυλακή, mostruosamente identica a quella di Argo (v. supra), si traduce nel carcere a vita.

A maggior dispetto del protagonista (e al di là delle intenzioni dell’autore), φυλάσσει ---- detto pur sempre di un dio! — suona perfino un po’ sarcastico. Non sono certo sfuggite le fedeli reminiscenze, omeriche ed esiodee, di Ibyc. $ 151, 23 ss. P. καὶ tà μὲ[ν dv] Μοίσαι σεσοφι[σ]μέναι

εὖ ᾿Ελικωγίδ[ες] ἐμβαίεν ἰλόγωζιϊ,

ϑνατί[ὸ)ς δ᾽ οὔ x[e]y ἀνὴρ διερὸ

ς τὰ ἕκαστα elnor,

ναῶν ὅ[σσος ἀριθμὸς κτλ.

18. Come l’altrettanto «scura» e «mai cedevole» nube che avvolge lo scoglio di Scilla, tuttavia non metaforicamente: νεφέλη dé μιν (sc. σκόπελον) ἀμφιβέβηκε / xvavén (u 74 s.). L’iliadico ἐπικρατέως risulta del resto istruttivo per l’ibiceo ἐγκρατέως, correzione di Schweighäuser e Hermann in luogo del tràdito (ἀθάμβησ)εν κραταιῶς (vel κραταιός): κραταιῶς, già lezione fortunata a partire da Mehlhorn, ma ora comunemente soppiantata dalla lettura &yxgatéwc, è tuttavia guardata con interesse da Giangrande 1971, p. 107 n. 22.

80

Ricerche intertestuali

Richiamandosi ad un noto schema formale e concettuale, il poeta 1 contrappone «la sapienza delle Muse alla conoscenza limitata dei mortali» 2°. Pedissequo, in particolare, è apparso il ‘ridondante’ ϑνατὸς ... ἀνὴρ / διερός: solo un eccessivo, e mec-

canico, omaggio alla tradizione — qui rappresentata da È 201 οὐκ ἔσϑ᾽ οὗτσς ἀνὴρ διερὸς βροτός 2! — giustificherebbe, non senza dubbi, la doppia presenza di ϑνατός e di διερός, alternativamente giudicati superflui. Così, mentre ϑνατός sarebbe perfino da espungere, quale «gloss on ἀνὴρ διερός» 22, διερός viene tacitamente escluso, o comunque eluso, dalle correnti traduzioni, che avvertono la difficoltà mnemonica del-

l’uomo mortale,

o comunque tautologicamente vivo: «no mor-

tal man alive could tell each story», cioè «un uomo mortale non

potrebbe descrivere le singole vicende» 25, La pretesa inutilità di διερός, ma anche la sua intrinseca difficoltà, non manca peraltro di un esplicito commento: «Evidente calco omerico (sc. ϑνατὸς ... ἀνὴρ διερός) di © 201 οὐκ ἔσϑ᾽ οὗτος ἀνὴρ διερὸς

βροτός; διερός, che compare un’altra volta in Hom.

(ι 43

1° Page 1962, pp. 23 ss. A parte i relativi dubbi manifestati già da Page 1951 5, pp. 158 ss., la paternità ibicea e la datazione del carme intorno alla metà del VI a.C. sembrano avere ormai trovato unanimi consensi, cf., in parti-

colare, Sisti 1967, pp. 66 ss.; Barron 1969, pp. 132 s.; Gianotti 1973, pp. 401 s.; Gentili 1978, p. 400 n. 12, edora Gentili 1984, p. 168 n. 33. Sui calchi epici,

cf. soprattutto Page 1951 ὁ, p. 165, e Sisti 1967, pp. 72 ss. Sui presupposti concettuali, omerici (soprattutto B 484 ss.) ed esiodei, cf., oltre ai citati Barron (p. 134) e Gianotti (pp. 404 s.), anche Lanata 1963, pp. 58 s., e Accame 1964, pp. 149 s.

2 Cf. Gianotti

i

1973, p. 404. Sull'argomento, in generale, cf. Accame

1964, pp. 129 ss., e 257 ss. (del nostro carme si tratta a pp. 148 ss.).

2! Su quest'uomo διερός, capace di giungere alla terra dei Feaci portando distruzione, v. infra e n. 26. 22 E magari da sostituire con un ‘più significativo’ οὐκ ἀδαής, cf. Barron 1969, pp. 128 s., che propone οὐκ ἀδαὴς dé κ' ἀνὴρ / διερὸς τὰ ἕκαστα εἴποι ai vv. 25 s. Il Barron fa anche appello a motivi metrici per escludere l’ini-

ziale consonantica nel v. 25, ed evitare così la clausola cretica dell’alcmanio nel v. precedente (ἐμβαίεν λόγῳ). Per gli stessi motivi, West 1966, pp. 152 5. correggeva θνητός in αὐτός: ma si vedano le obiezioni in merito di Gentili 1967, pp. 177 ss.

2 Cf. e.g., rispettivamente, Page 1951 è, p. 160, e Gianotti 1973, p. 404.

Le radici dell'Epos

81

διερῷ ποδί), è di difficile interpretazione, né il nostro passo serve a chiarire il problema, essendo l’aggettivo superfluo e l’i-

mitazione puramente formale» **. Ogni

aporia risiede, in effetti, nel non perspicuo, «ob-

scure» 2? διερός, qui, ma già in Omero, problematico, ed ora,

come in antico, dibattuto, presso filologi e linguisti 26, Più persuasivi, almeno finora, i risultati dell'indagine linguistica. Eti-

mologicamente non sembra più postulabile un διερός = ‘umido’, diverso dal διερός

= ‘vivo’, ‘veloce’, bensì un unico διε-

066, i cui vari significati sono tutti riconducibili «ad una nozione concreto-astratta di forza vitale» 2: in particolare, il διερός che qualifica "ἀνὴρ βροτός esorcizzato da Nausicaa (cf. vv. 202 5. ὅς κεν Φαιήκων ἀνδρῶν ἐς γαῖαν ἵκηται /

24 Così Sisti 1967, pp. 72 s. 3 Cosi Campbell 1967, p. 309.

2 «Bedeutung schon in der Antike unbekannt»: così Frisk GEW I p. 390, che contrariamente a Boisacq DELG p. 187, propenso alla distinzione tra διερός ‘veloce’ e διερός ‘vivo, fresco’, unisce sotto un unico lemma il διερός di 143 (διερῷ ποδί) e di ζ 201 (διερός = ζῶν secondo Aristarco), rinviando a δίεμαι, e riservando un lemma a parte, come del resto Boisacg, a διερός ‘umido’. Quest'ultimo significato (il più diffuso dopo Omero) è emblematicamente adoperato da Anaxag. 4, 12 D.-K. in contrapposizione a ξηρός. Sui successivi ‘progressi’ dei moderni linguisti, v. avanti e n. seguente. Quanto agli antichi interpreti, Aristarco, s'è detto, intendeva διερός = ζῶν in È 201, dove lo schol. ampiamente commenta ζῶν ἐρρωμένως καὶ ixuadog μετέχων. τὴν μὲν γὰρ ζωὴν ὑγρότης καὶ ϑερμασία συνέχει, τὸν δὲ ϑάνατον ψυχρότης καὶ ξηρασία, ὅϑεν καὶ ἀλίβαντες οἱ νεκροὶ λιβάδος μὴ μετέχοντες (ρ. 311, 4 Dindorf); cf. Eust. 1559, 44; Etym. M. 274, 4, Hesych. è 1641 L. διε-

ρόν- ὑγρόν. χλωρόν. ζωόν. ἔναιμον. ὑγρὸς γὰρ ὁ ζῶν, ὁ δὲ νεκρὸς ἀλίβας. Sulla riduttiva spiegazione di Aristarco, e sulla connessione tra ζῶν e ὑγρός, plausibile già per la sensibilità antica, v. n. seguente. ? Così Ramat 1962, p. 5, che propende per un unico διερός, tra l’altro citando l’analogo caso di ἱερός. A Ramat rimando per una esaustiva discussione delle varie ipotesi etimologiche su διερός, e per la decisiva attenzione dedicata a © 201: dove intendere con Aristarco διερός solo come ‘vivente’ significa «appiattire il testo riducendo διερός ad un semplice ed inutile doppione di βροτός» (p. 6). Come si vede, il διερός odissiaco costituisce, nei riguardi del nostro διερός, un problematico precedente: ben risolto nel senso di ‘forte, vitale’, come ribadisce Chantraine, che ipotizza anch'egli un unico

διερός (DELG p. 281).

82

Ricerche intertestuali

δηϊοτῆτα φέρων) sarebbe un individuo «bien vivant», come garantirebbe la «imitation» incarnata dal nostro ϑνατὸς ἀνὴρ διερός 28.

D'accordo sull’estrema vitalità dell’èvmo prima odissiaco, poi ibiceo: lo conferma però l’evidenza filologica, mediante il confronto con il modello omerico, e non solo odissiaco. Se Ibyc. S 151, 25 5. P. costituisce una variatio formale di & 201, vistosa-

mente tutta la dichiarazione poetica (vv. 23 ss.) risente, anche sul piano concettuale, della nota invocazione alle Muse di B 484 ss. La stessa formula del ‘diniego’ è ripresa, platealmente ?°, dall’aedo omerico: il quale, non potendo competere con le Muse (che tutto sanno e, dunque, saprebbero cantare tutti i partecipanti alla guerra di Troia), si prova soltanto, e beninteso con il loro aiuto, a dire i capi delle navi e le navi. Ibico ulteriormente riduce, in realtà muta Ὁ, il programma, poiché — resistendo

all’etica dell’aedo — senza impegnare le dee, canterà la sola bellezza di Policrate. Resta certo il fatto, più volte sottolineato dagli esegeti, che l’impari confronto tra le divine Muse onniscienti e l’uomo mortale era già ‘modestamente’ istituito dall’autore del Catalogo delle Navi. È anzi sfuggito che il ϑνατὸς ἀνήρ di Ibi-

22 Così Chantraine, /.c. Al piatto διερός = ζῶν{= ‘living’) torna invece, anche per Ibico, Williams 1978, p. 34, a proposito di Callim. Ap. 23 διερὸς λίϑος, dove, per la statua piangente di Niobe, il poeta dottamente sfoggia un διερός = ‘vivo’ + ‘umido’: lo studioso ribadisce l'ipotesi già avanzata (cf. Williams 1975, pp. 136 ss.) indipendentemente da quella, analoga ma più articolata, di Zinato 1974, pp. 173 ss. Su διερός ‘vivo’ e ‘umido’, cf. Onians 1954, p. 255; e Degani 1961, p. 133 n.2. 2 Non è qui il caso di discutere il grado di dipendenza poetica tra il nostro Ibico ed il suo epico modello. Converrà piuttosto sottolineare, a conferma dell’analoga struttura, che in Ibyc. v. 23 inizia una nuova strofe (preceduta da duplice paragraphos), e nel corrispondente B 484 comincia il Catalogo, che non manca peraltro di offrire successivi presupposti formali: cf. 485 ἵστέ te πάντα (explicit), 488 οὐκ ἂν ἐγὼ μυϑήσομαι, 493 ἀρχοὺς αὖ νηῶν ἐρέω νῆάς τε προπάσας. 30 Gentili 1978, p. 397 (cf. 1984, p. 171) mette in luce come la tesi corrente, che il ‘rifiuto’ di Ibico segni «il passaggio da una produzione epico-lirica alla poesia amorosa, va corretta secondo la prospettiva sincronica dell’adeguamento alla norma del genere poetico dell’encomio conviviale».

Le radici dell'Epos

co,

ancorché

83

διερός, si mostra afflitto dagli identici e tra-

dizionali complessi dell’esecutore epico, il quale si dichiarava insufficiente alla superiore poetica impresa, ancorché (super)dotato di δέκα γλῶσσαι,

δέκα στόματα, di una φωνὴ

ἄρρηκτος, di un χάλκεον ἦτορ (vv. 4895.): si è così mancato di apprezzare, di contro al continuum epico οὐκ ἔσϑ᾽ οὗτος ἀνὴρ διερὸς βροτός ... / ὅς κεν κτλ., lo spezzato ibiceo &vat[ò]g δ᾽ οὔ χ[ε]ν ἀνὴρ / διερό[ς], dove la differente Wortstellung stacca funzionalmente la prima qualità dalla seconda, e, non a caso, colloca il ‘concessivo’ διερός nel segmento potenziale ma negativo οὔ x[e]v .../... εἴποι.

Non so quanto l’iperbole epica, poi semplificata dall’ibiceo διερός, testimoni «i limiti che s'imponevano al cantore durante la recitazione» ?!, ma è sicuro — quanto inevitabile, e persino

‘fisiologico’ — che l’omerico vitalissimo ἀοιδός dovesse fornire il genetico pedigree all’almeno vitale poeta lirico. Non superfluamente, dunque, διερός, né sufficientemente, ancora e sempre, dinnanzi all’impareggiabile sapienza delle Muse: una elegantissima scusa per eludere gli obblighi ‘mortali’ del rapsodo, ripiegando ancor più modestamente, in realtà liberamente 2, sull’encomio di un παῖς καλός.

3 Latesi,cuirinviaLanata1963,p.6,èdiNotopoulos1951,pp.81ss. labellezza di Policrate (il quale sola mente 32 Alla libertà di cantare «accanto agli eroi belli celebrati nel mito si erge ora, nella contemporaneità del presente»: così Gentili 1984, p. 172) si unisce, peraltro, la consapevolezza ‘autoriale’ dell'eternità del canto: la gloria perenne sarà sì del cantato (Policrate), ma non meno del cantore (Ibico), cf. i celebri vv., di chiusura, 46 ss. τοῖς μὲν πέδα κἀλλεοςαἰὲν καὶσύ, Πολύκρατες, κλέοςἄφϑιτον ἑξεϊς ὡςκαἀτἀοιδὰνκαὶ ἐμὸν κλέος (per la cui punteggiatura, si veda la decisiva nota di Tammaro 1970-

72,p.81).

Capitolo quarto MINACCIA E PERSUASIONE AMOROSA (Sul nuovo Archiloco)

Ottimo sèguito — greco e latino — vanta la descrizione archilochea del miserevole sfiorire della giovinezza (femminile) e dell’impietoso insorgere della vecchiaia. Efestione a più riprese! ne rammenta l’esordio (vv. 1-2), ora di nuovo ribadito e

accresciuto (vv. 1-5) dal Papiro di Colonia οὐκέ]ϑ᾽ ὁμῶς ϑάλλεις ἁπαλὸν χρόα, κάρφεταίι γὰρ ἤδη

ὄγμοι]ς, κακοῦ δὲ γήραος καϑαιρεῖ

ΜΝ Jap” ἱμερτοῦ δὲ ϑορὼν γλυκὺς ἵμερος πἰροσώπου

Lu xev ἡ γὰρ πολλὰ δή σ᾽ ἐπήῆιξεν πνεύμ]ᾳτα χειμερίων ἀνέμων, μάλᾳ πολλάκις δ᾽ εἰ 2.

Per i primi due versi, gli esegeti hanno favorito — in àmbito latino — la certo pregevole imitazione oraziana di Epod. VIII 3 s. et rugis vetus

frontem senectus exaret,

! Perilprimo verso cf. Hephaest. Ench. VI 3; VII 4; XV 8 (rispettivamente 19, 9; 22, 10; 50, 3 Consbr.); nonché Atil. Fortun. VI 298, 6 Keil. Peril secondo

ancora Hephaest. ibid. V 3 (16, 21 Consbr.); nonché Atil. Fortun. 299, 8 Keil. Fu Elmsley ad intuire che i due versi andavano congiunti, ottenendo non unanimi consensi. Lo approvava, da ultimo, West 1971 (fr. 188): la citazione di Atilio, per quanto decurtati e malconci vi appaiano i due versi archilochei, lasciava intravvedere la verità (cf. l'apparato di West 1971, pp. 73 s.), ora definitiva-

mente rivelata da PCol. 7511

(v. infra).

2 PCol. inv. 7511 = PKöln 58, edito per la prima volta da Merkelbach-

West 1974, pp. 97 ss., quindi da Kramer 1978, pp. 13 ss., ed ora da Slings 1987, pp. 62 ss. Il frammento costituisce il 78(b) nella raccolta di Page 1974, ed il 188 in quella di West 1989 di cui sopra riportiamo il testo. Per la lettura ὄγμοϊς di Slings, v. infra.

86

Ricerche intertestuali

secondariamente citando Verg. Aen. VII 417 et frontem obscenam rugis arat, Ov. Am. II 118 iam venient rugae, quae tibi cor-

pus arent, nonché Martial. III 93, 4 rugosiorern cum geras stola frontem

.

Anzi, ancor prima della scoperta papiracea, il rugis exaret di Orazio aveva offerto a Snell — già convinto dell’ipotesi di unire i due versi archilochei separatamente tràditi da Efestione * — la seconda ‘ragione’, dopo la necessità di un plurale, per leggere il dativo 6yuotg laddove la tradizione indiretta recava il nominativo ὄγμος: facilmente originato, nel segmento dell’isolato verso, dalla compresenza di κακοῦ δὲ γήραος καϑαιρεῖ, cui un'immediata (quanto provvisoria) grammatica ed un appa-

rente (quanto falso) senso della frase rischiavano (malgrado la posizione del dé) di legarlo aproblematicamente. Ora che il papiro esibisce, oltre all’oggettiva continuità dei due versi, una preziosa interpunzione prima di κακοῦ, purtuttavia ὄγμος è

riproposto da taluni studiosi: con argomenti inaccettabili, a cominciare dal rifiuto di 6yuog nel significato di ‘ruga’’, ovvero contraddittori, quando da un lato si accetti la metafora, dall’altro si rifiuti la legittimità di κάρφεται ὄγμοις ®. La felice congettura — che ha il pregio, fra l’altro, di eliminare l’incomodo singolare, con qualche sforzo inteso come «probably collective» 7 — resta l’unica soluzione, e non soltanto

perché «die Interpunktion nach ]g macht Snells Koniektur unvermeidlich» 8, ma anche perché ὄγμοις si rivela il ‘pretesto’

} Opportunamente Marzullo 1973-4, p. 88, ricorda il commento al luogo

oraziano di Kiessling-Heinze, per i quali, rispetto al precedente virgiliano, provvisoriamente il più antico, «der Vergleich der Runzeln mit Furchen» doveva essere «gewiss älter».

4 Cf. Snell 1944, pp. 283 s. > Cf. Gallavotti 1973-74, p. 30, seguito dal solo da Medaglia 1977, pp. 7 ss. 6 Così Slings 1987, pp. 64 s., che peraltro fornisce il migliore commento

finora allestito sul nostro Epodo. ? Id., p. 64. 8 Così i primi editori del papiro, dopo la premessa «ὄγμοις Snell, ὄγμος

bei Hephaistion überliefert (OAMON bei Atilius)» (p. 112). Al brillante sup-

Minaccia e persuasione amorosa

87

poetico per un singolare dialogo di Orazio (non senza almeno una conseguenza ‘seria’ presso gli autori latini già citati) con Archiloco.

Se è vero, infatti, che «there is not parallele for

ὄγμος used metaphorically for wrinkles in the human skin, but we shall have to accept it anyway», il πρῶτος εὑρετής greco ha inventato una ‘forte’ metafora, usando un’espressione che certamente appare «one of the boldest in Archilochus» °. Per capirla, ricominciamo, come sempre, da Omero. L'invecchiamento repentino (ma per magìa) minacciato in

v 398 (cf. 430) κάρψω μὲν χρόα xad.6v — in realtà annunciato da Atena ai provvisori danni del bel corpo di Odisseo — suggerisce ad Archiloco la frase x do φεται ὄγμοις, però preceduta, se non ‘premuta’ da ἁπαλὸν χρό a : tale contiguo ed ‘emergente’ corpo femminile (anzi di fanciulla, dunque ἁπαλός, cf. e.g. Hes. Op. 519 παρϑενικῆς ἁπαλόχροος) occupa il centro dell’asinarteto, chiudendo il tetrametro dattilico davanti

all’itifallico, e costituendo il perno logico e grammaticale delle due proposizioni coordinate, in quanto oggetto esplicito della prima e soggetto implicito, ma pure obbligato, della seconda (topicamente, si dovrà dire, anche in Hes. Op. 575 ricorre χρόα κάρφει, sc. ἠέλιος). E tale corpo femminile — in quanto χρώς, propriamente nel senso di «surface du corps humain, peau» !° — è qui considerato precisamente in superficie. Una superficie dermica già compromessa dalle rughe: un δέρμα καρφαλέον l'avrebbe definita brevemente Ippocrate (Apb. V 71), mentre la ‘fantasia’ archilochea la vede dilatata, in forma di archetipica (femminile!) crosta terrestre, non più in fiore, bensì inaridita.

Così, anche davanti ai nostri occhi — πρὸ ὀμμάτων, come si conviene in metafora ‘animata’ !! — concretamente appaiono i

porto oraziano individuato da Snell, si può ora aggiungere la ‘versione’ ovidia-

na, dove la diatesi archilochea viene in qualche modo rovesciata: guae (sc. rugae) corpus arent < κάρφεται (sc. χρώς) ὄγμοις (ma v. infra). ? Così Slings 1987, pp. 64 5.

!0 Così Chantraine DELG p. 1279.

88

Ricerche intertestuali

‘solchi’ di questa pelle terrigna, la quale non più ἄνϑεσι ϑάλλει (sc. γαῖα, cf. e.g. HCer. 402), bensì κάρφεται ὄγμοις. Comunque si voglia classificare il dativo ὄγμοις "2, ne risultano chiaro il senso e notevole la ‘densità’: di una metafora unica nella poesia greca —

più che rara in quella latina, dove su/-

cus = ruga ricorre in Martial. III 72, 4 e Apul. Apol. XVI7 ?—e certamente in grado d’impressionare il sensibile Orazio, ma pure in grado di fare scuola non pedissequa presso i latini, a cominciare da Virgilio, che la riusa per la furiosa Allecto, quando (per magia!) in voltus sese transformat anilis (ct. VII 416). Una metafora a tutti gli effetti ‘aurea’, preziosa quanto duttile, il cui inedito (e, come s'è visto, unico) valore di ὄγμος, in regime con κάρφω, suggerisce a Orazio exaro, a Virgilio e Ovidio aro

(la curiosa assonanza di dro con äreo, semantico equivalente di κάρφω, onde la quasi perfetta ambiguità dell’ovidiano ärent, non indurrà a tentare più o meno ‘consapevoli’ memorie foniche?) in regime con ruga. Entro la cornice del medesimo Bildfeld metaforico — giocato sulla pelle della donna vista come superficie della terra — la ‘figura’ del solco, per una sorta di !l Per la verità, prima di citare l’abituale tà ἄψυχα ἔμψυχα ποιεῖν διὰ τῆς μεταφορᾶς da parte di Omero (con i relativi esempi), nel noto passo della Retorica (Ill 1411b 22) Aristotele asserisce che, in generale, πρὸ ὀμμάτων ταῦτα ποιεῖν, ὅσα ἐνεργοῦντα σημαίνει, cominciando dall’esempio di ἐνέργεια in Isocr. Phil. 10 ἀνθοῦσαν() ἔχοντος τὴν ἀκμήν (sc. ἀνδρός). 12 Vedremo come la ‘traduzione’ latina della metafora, rettificandone, per così dire, il ‘quadro’, tratti ὄγμοις (nel caso in cui si passi alla diatesi attiva, cf. n. 15) come dativo agente: e, se è vero che «le rughe sono effetto e non causa agente dell’azione di κάρφω» (così Medaglia 1977, p. 10, ripreso da Slings 1987, p. 65), è pur vero che ὄγμοις regge benissimo nel ‘quadro’ espressivo archilocheo «als sogennanter Dativ der Beziehung» (KühnerGerth II, p. 440): la terra è inaridita nei suoi solchi, evidentemente non più πίονες come invece gli ὄγμοι di HCer. 455 (in Ov. Met. XV 268 sıccis humus aret arenis, dove sarebbe comunque arduo decidere tra ‘cause’ ed ‘effetti’, lo stesso gioco etimologico are! arenis sottolinea la relazione, sintatticamente espressa col dativo, tra l’inaridirsi della terra e la sua parte, per così dire, interessata). Mi sembra tuttavia precaria ogni puntigliosa razionalizzazione dell’immagine archilochea, così volutamente in bilico tra piano metaforico (ϑάλλειν) e piano reale (χρώς).

13 Gli esempi latini sono puntualmente citati da Slings 1987, p. 64.

89

Minaccia e persuasione amorosa

chiasmo concettuale, passa dal sostantivo (ὄγμος) al verbo (exaro, aro). Consentiamo, dunque, con la palmare asserzione che

«Horace’s phrase is modelled on sulcis arare» — come dire che la sua metafora è costruita un po’(!) diversamente da quella archilochea — ma non con l’assoluta obiezione che «exarare rugis is not be put on a par with κάρφειν ὄγμοις» !*: differenze di linguaggio a parte, il rugis (exaret) oraziano in luogo di sulcis è possibile, e per la prima volta riferito a una donna che fisiologicamente fit anus, perché Archiloco ne autorizza e garantisce la ‘poeticità’ con il suo (κάρφεται) ὄγμοις, riferito a una donna che naturalmente invecchia. Il risultato è un esemplare saggio di inzitatto cum variatione, per cui Orazio si pone come il rinnovato auctor della stessa metafora nel mondo latino. Dopo Virgilio, egli la restituisce alla fisicità femminile. Dopo di lui, l’immagine archilochea, già da Virgilio linguisticamente addomesticata, e sempre meno audace, costituisce ormai fopos (0, se si vuole, la parole si è fatta lan-

gue, poetica beninteso) in Ovidio, in Marziale, etc. (cf. TPLLII c. 627, V 2, cc. 1184 s.). La cosiddetta ‘autonomia dell’opera

poetica’ (nella fattispecie oraziana) è perciò salva, e chiunque avrà ora l’animo d’affrontare un secondo caso intertestuale: prezioso, questa volta, per meglio decifrare il ‘messaggio’ archilocheo. È sfuggito — sempre in àmbito latino — che il bell’attacco archilocheo οὐκέϑ᾽ ὁμῶς, assieme al non meno intonato avverbio temporale ἤδη, trova unico riscontro nella citata memoria ovidiana, da recuperarsi tuttavia per più largo contesto ai vv. 115 ss. Nec

violae

semper nechiantia lilia florent

et riget amissa spina relicta rosa; et tibi ta m venient cani, formose, capıllı, fam venient rugae,quaetibi corpus

‘4 Così Slings 1987, p. 65.

arent.

90

Ricerche intertestuali

Che Ovidio dialoghi direttamente con Archiloco sembra evidente da alcuni notevoli particolari. Sintomatico già l’isolato corpus, di contro alla comune fronterz, variatio prima adottata

da Virgilio e Orazio, poi ripristinata da Marziale: in Archiloco χρώς era appunto il soggetto — ricavabile dall’eminente χρόα — della frase κάρφεται ... / ὄγμοις, che Ovidio esattamente ribalta, facendo di corpus l’oggetto di arent . Ma soprattutto significativa la ‘citazione’ del primo verso archilocheo, mediante l'essenziale

florent

(cf.

ϑάλλεις),

e

l’ammiccante

incipit

nec...semper (cf. oùxéd ᾽δμῶς), non a caso corrisposto da 1477 (cf. ἤδη): doppia accusa, si direbbe, verbalmente ricalcata sul modello, al responsabile trascorrere del tempo. Né qui pare esaurirsi lo ζῆλος della variata ma accurata memoria.

Quanto alla forma del testo — anche a prescindere dalle ‘intenzioni’ dell'autore — ia ripetuto due volte oggettivamente riecheggia il desolato ἤδη con qualche ricercato effetto, mentre l’esametro nec viölae semper nec hiantià egs. ancora oggettivamente evoca ritmo e pause del tetrametro συκξϑ᾽

ὕμῶς ϑᾶάλλεις ἅἄπάλον χρδδ. Risulta comunque studiata, e ridondante, la descrizione della fisica catastrofe, dove l’assoluto

nec...semper — di contro al relativo oùxét(.), relativo perché circoscritto all’hic et nunc della metaforica ma personalizzata allocuzione — introduce l’immagine, questa volta allegorica, di caduchi gigli, rose e viole: se,.da un lato, anche Ovidio raccoglie la metafora agreste della pelle ‘solcata’ dalle rughe, dall’altro, si dilunga sul tema del corpo ‘in fiore’ ottenendo un’allegoria, cioè, classicamente, una metafora continuata, dove però i ‘tau-

tologici’ soggetti floreali tolgono all’ovvio florent la turgida pregnanza di ϑάλλεις 156, Reciprocamente emergono le peculiarità

13 E promovendo a soggetto (rugae) quel dativo ὄγμοις, che, inteso nel suo senso traslato, assume — in ogni trasposizione latina della stessa metafora,

sia in forma attiva che passiva — valore causale.

16. Agli esempi di ϑάλλω, riferiti metaforicamente a persona, ricordati da Marzullo 1973-74, p. 86 — da Hes. ΤΡ. 902, dove la Pace personificata è τεϑα-

Minaccia e persuasione amorosa

9]

formali del ‘prototipo’ archilocheo. Al cui contenuto non meno peculiare, e falsamente scontato, giova ancora il confronto con

la versione ovidiana. «Est ist ein Spottlied auf eine Frau, wohl Neobule», sen-

tenziano gli editori del papiro coloniense "7, consolidando una vetusta tradizione esegetica: «deridet poeta feminam fortassis

ipsam Neobulen, cujus pulchritudo progrediente aetate iam deflorescebat», commentava già il Liebel, alle prese col solo primo verso !8, Avrei seri dubbi circa l’intento satirico e bef-

fardo del nostro Lied: bastano due attributi come ἁπαλὸν (χρόα) e ἱμερτοῦ (προσώπου) -- sia pur rivolti alle deperite grazie della protagonista — a sconsigliare lo scherno, ad implicare semmai il rimpianto (se non il compianto). Il quadro archilocheo — ovviamente per la parte che è possibile apprezzare — denuncia, senza visibili sarcasmi, il fisico appassire di una donna: altro il ritratto femminile offerto da Orazio, che oscena-

mente indugia sui più squallidi dettagli dell’interlocutrice, fin dal primo verso salutata putida...saeculo !9. Non a caso Lasserre giudicava l’Epodo archilocheo «étrange», perché conflittualmente dominato da una sorta di «lyrisme de la violence» e ad un tempo «de la tendresse» 2°. Invero tale lirismo doveva conciliare due opposti, quanto supposti, stili: quello dell’‘orrore’ — però imputabile, in ultima analisi, ai fami-

via, a Pind. I. III 6, AP XI 374 (Macedon.), entrambi questi ultimi memori

dell'Epodo — aggiungerei Hes. Op. 236 ϑάλλουσιν (sc. i buoni cittadini) ἀγαϑοῖσι, nonché [Hes.] Sc. 276 ἀγλαΐῃ ϑάλλουσαι (sc. le schiave): la metafora ‘carnale’ risulta però assolutamente archilochea, anche se «la mediazione si deve a ϑάλος, usato per giovane virgulto umano in X 87, nonché & 157 (Nausicaa!)» (Marzullo, /.c.).

? Cf. Merkelbach-West 1974, p. 111: fa loro eco Kramer 1978, p. 14. '® Cf. Liebel

1818,

p. 191; il secondo verso, non ancora collegato al

primo (v. supra n. 1), peraltro malinteso, è pubblicato a p. 206. ' Per ulteriori e più consone reminiscenze da parte di Orazio non epodico, v. infra e n. seguente. ? Così Lasserre 1950, p. 137, che, quanto ad Orazio, prende in considerazione anche Carr. IV 13, per cui v. infra. Il polare accenno all'‘orrore’ e alla ‘passione’ ritorna a p. 162.

92

Ricerche intertestuali

gerati epiteti di Neobule παχεῖα, δῆμος, ἐργάτις, μυσαχνή, semplicisticamente assegnati al ‘discorso’ sul disfacimento dell'ex-amata e dunque al nostro carme 2! — e quello del ‘sentimento’, tutto dovuto, invece, ai sicuri versi dell’Epodo, quando Lasserre leggeva soltanto ἁπαλὸν (χρόα: v. 1) e non ancora ἱμερτοῦ (προσώπου: v. 3). Così, meglio edotto dal reperto coloniense, Marzullo parla, con più documentata sensibilità, di «quadro aspro e tuttavia compassionevole» 2. Converrà forse insistere più sull’asprezza che sulla compassione. Innegabile comunque, alla luce dei recuperati cinque versi, ogni assenza di Spott, viceversa operante nell’incattivito Epodo oraziano.

Ma stiamo ad Ovidio. Il suo exploit imitativo — destinato, poiché si colloca nel secondo libro dell’Ars, ad interlocutore maschile — vuole avvertire un ipotetico formosus della sua precaria bellezza. Ne consegue l’ammonimento a non sottovalutare la più durevole (ben inteso maschia!) chance dell'ingegno: non era, forse, solo facundus Ulisse, mitico tombeur di aeguoreae

deae (cf. vv. 123 ss.)? A parte la destinazione maschile e la fuorviante vena ‘maschista’, essenziale rimane — anche ai fini dell’esegesi archilochea — la programmatica intenzione suasoria. La

medesima intenzione riaffiora, trasferita però alle belle donne, nel terzo libro (vv. 59 ss.), dove il monito circa la giovinezza breve viene ancora simbolicamente affidato — ma senza più debiti formali con Archiloco — ai soliti caduchi flores (vv. 67 s.).

Segue, questa volta, l'esortazione a concedere per tempo le proprie grazie: nell’incombente solitaria senecta solo il rimpianto resterà alla puella improvvida, quae nunc excludit amantes (v.

2 Id, pp. 144 ss., cf. frr. 240, 241, 242, 248 L.-B., tutti ascritti all’Ep. VIII, i.e. il nostro: puoayvi), stando alla chiusa dell’Epodo oraziano ore laborandum est tibi, dovrebbe collocarsi nella zona finale dell’Epodo. Per una messa a punto della complessa questione relativa ai suddetti epiteti, ed alla loro distribuzione in uno o più frammenti (West. 1971, e 1989, stampa 4 frr.: 206 περὶ σφύρον παχεῖα μισητὴ γυνή --- che per Lasserre costituiva un ulteriore frammento da ascrivere all’Ep. II, cf. fr. *186 L.-B. —, 207 δῆμος, 208 ἐργάτις, 209 μυσαχνή), si veda, da ultimo, Lehnus 1980, p. 171 n. 51. 22 Così Marzullo 1973-74, p.91.

Minaccia e persuasione amorosa

69). Chel’ammonimento,

93

cosìovviamente funzionale al

didascalico Ovidio, costituisse già il fine della ‘tirata’ di Archiloco, interessato cantore delle proprie vicende di exclusus amator ??

È curioso il fatto che l’aulico incipit οὐκέϑ᾽ ὁμῶς sia preceduto da I 605 οὐκέϑ᾽ ὁμῶς τιμῆς ἔσεαι πόλεμόν περ ἀλαλκών, cioè dal’

ammonimento

che concludela nota

perorazione di Fenice al riottoso Achille. Il sospetto di un monito archilocheo per «chi amore rifiuta, confida in una giovinezza presto travolta», e, dunque, di un Archiloco «non interessato alla satira..., ma alla conquista di un amore impossibile,

quanto meno riottoso» ?*, mi sembra degno di attenzione: e di affermazione per la via intertestuale da noi già intrapresa, prodiga, come si vedrà, di ancor utili incontri. Sullo speciale οὐκέτι

pronunciato al medesimo scopo, prima che da Meleagro 25, anche da Teognide (v. 1303), avremo modo di tornare più avanti.

Fin d’ora sarà comunque il caso di rinunciare al facile clché, che il luogo ormai comune — pur se motivato — di un Archiloco βαρύγλωσσος nei riguardi di Neobule 26 e la sugge-

j

infra.

? Per il motivo, propriamente utilizzato dal παρακλαυσίϑυρον,

v.

24 Così Marzullo, /.c., per suggestione del luogo omerico. Su tale incipit, in realtà «popular ... in elegy and epigrams» (Slings 1987, p. 64), v. n. seguente e47.

'

2 APV 204: «on an outworn ἐρωμένη» (Slings /.c.), di cui il carme «immagina con barocco compiacimento lo sfacelo» (Marzullo 1973-74, p. 86). 26 A proposito di Archiloco tradizionalmente ψογερός, βλάσφημος, σχορπιώδης τὴν γλῶσσαν, etc., cf. ancora Lehnus 1980, pp. 166 ss., ed in particolare 169, n. 44, con ricca bibliografia. Quanto allo ψόγος, non vorremmo che al sorpassato cliché romanticheggiante (cf. in proposito le giuste censure di Degani 1977 è, p. 32) si sostituisse l’immagine non meno oleografica di un poeta sempre in vena di Trivialitàten, specie nei confronti di Neobule. Occorre pur sempre tener presente che ai reattivi insulti, abbondanti anche nel primo Epodo di Colonia (5 478 [a], 24 ss. P.), si affiancano (0, da un punto

di vista diacronico, precedono) le dichiarazioni d'amore: il famoso fr. 118 W. εἰ γὰρ ὧς ἐμοὶ γένοιτο χειρὶ Νεοβούλης θιγεῖν, benché scevro di ogni svenevolezza, e benché ‘continuato’, come suggerì Elmsley, dall’ancora

94

Ricerche intertestuali

stione esercitata — pur sempre ragionevolmente — dall’‘epodico’ Orazio hanno impresso, in concorrenza, al nostro Epodo.

La testimonianza di Ovidio ha indotto a falsificarne il presunto Spöttliches, insinuando nel contempo il sospetto — già avanzato per altra via — che l’apostrofe di Archiloco (probabilmente alla solita Neobule) non suonasse beffa, ma avvertimento: inteso a rimproverare, magari sollecitare, il mancato dono della rosa

mattinale, già meno turgida per la puntuale vendetta del tempo, topico alleato del poeta-amante respinto. Sembra lecito supporre che il secondo Epodo di Colonia costituisca l’archetipo di un fortunatissimo topos: quello della brevità della giovinezza quale «argumentum per una specifica richiesta erotica», reso più efficace dalla «minaccia profetica»,

che appunto «riguarda l’approssimarsi della vecchiaia» 7. È nota la diffusione, nonché la frequente fusione dei due motivi

nella letteratura ellenistica e in quella latina, da Teocrito ad Asclepiade, Tibullo, etc. 28, Per tornare ad Orazio, Pasquali non

ha mancato di richiamare l’attenzione sull’espediente letterario usato «per confortare domande di amore», ed esattamente, a

proposito di Carm. III 10, sulla «minaccia velata di consiglio benevolo, che nel παρακλαυσίϑυρον è parte essenziale»: l’amante ἀποκεκλεισμένος «ricorda all’amata che la vecchiaia viene per tutti, spesso, massime nei poeti meno abili e meno delicati, la descrive con il suo accompagnamento di canizie e di

rughe,

minutamente,

grossolanamente» 2.

Non

soccorreva

meno romantico πεσεῖν δρήστην ἐπ᾽ ἀσκὸν κἀπὶ γαστρὶ γαστέρα / προσβαλεῖν μηρούς τε μηροῖν (119 W.), «encompass respectively both tenderness and aggressive sensuality; both elements are characteristic of human sexual love». Così, con qualche sano distacco, Rankin 1977, p. 66, misura i

bollori archilochei nel temperato capitolo su ‘Beauty and Obscenity”. 2 Così Vetta 1980, pp. 89 e 92, a proposito di Theogn. 1303 5. e 1305 ss., su cui avremo modo di tornare, 25. Cf. ancora Vetta 1980, p. 89, che cita, in particolare, Theocr. XXIX 26 ss.; [Theocr.] XXVII 8, AP V 85 (Asclep.), Tibull. I 8, 47, Ov. Am. III 65.

2 Così Pasquali 1920, p. 430 (cf. 448), che cita, tra l’altro, Prop. III 2425, la cui chiusa è confrontata ad verbum

con AP V 298 (Iulian.). per il

Minaccia e persuasione amorosa

95

Pasquali la fisiologica e tuttavia non grossolana descrizione archilochea, origine del ‘mobile’ topos: i cui «motivi, com'è naturale, si ritrovano nelle canzoni a dispetto», dunque anche in Carm. I 25, e IV 13.

Delle due Odi oraziane, la prima si rivolge ad un’etera che comincia a sfiorire (unarediviva Neobule si direbbe), alla cui porta sempre più raramente bussano giovani impazienti. Si è qui osservato che «il poeta più maturo (rispetto cioè all'autore di Epod. VIII) non si compiace della sensazione

disgustante (data cioè dalla decadenza fisica e morale della donna invecchiata)», che anzi «la pietà è la vera ispiratrice di questa canzone a dispetto: la donna non tanto sconta il peccato della sua superbia di un tempo, quanto subisce una legge inesorabile della natura, la legge della vita, che è decadenza e mor-

te» °°. Piuttosto in quest’Ode Orazio sembra voler tradurre, fors’anche esasperare, taluni segreti accenti dell’Epodo di Archiloco: in ogni caso, del metaforico assalto dei χειμέριοι ἄνεμοι (cf. v. 5) sembra precisamente ricordarsi il finale hierzis sodali / .. Euro, al cui soffio l’impietosa /aeta pubes consegna le aridae frondes, simbolicamente contrapposte all’edera sempre verde e al mirto non caduco. Ma vale la pena di rileggere per intero l’ultima strofe (vv. 17 ss.) di Carme. I 25 laeta quod pubes hedera virenti

gaudeat pulla magis atque myrto, aridas frondes hiemis sodali

dedicet Euro,

anche allo scopo di restituirle per sempre — e grazie ad Archiloco! — una certezza testuale. La strofe, stando al puntuale

παρακλαυσίϑυρον si veda lo specifico Copley 1956; quanto ad Orazio, cf. Nisbet-Hubbard 1970, pp. 289 ss.; quanto agli Alessandrini, Giangrande 1967, pp. 118, 123 ss. 3° Così La Penna 1978, p. XXIII.

96

Ricerche intertestuali

recente commento di Nisbet e Hubbard 3, darebbe infatti da

pensare non solo quanto all’esegesi, ma anche al testo. Dedicata ad una non più giovane etera, l’Ode si apre con l’immagine della classica ‘porta chiusa’, qui sempre meno insidiata dalla protervia maschile (vv. 6 ss. audis minus et minus iam / ‘Me tuo longas pereunte noctes, / Lydia, dormis?’): una ‘nostalgia’ di παρακλαυσίϑυρον, per così dire, se non un παρακλαυσίϑυρον ingegnosamente costruito en abime, per distanziare, non solo a parole, il presente dal passato. Segue l’obbligatorio presagio dell’incombente solitaria vecchiaia 2, concluso appunto dal quadro allegorico della ‘lieta gioventù’, che intreccia simboliche ghirlande e perciò sceglie fior da fiore: «rejoices in green ivy rather than dark myrtle, but consecrates withered leaves to winter’s comrade, the East wind», recitano i

due pret pati sito

commentatori, turbati comunque che «most editors inter‘rejoices rather in green ivy and dark myrtle’», e preoccudi respingere le obiezioni grammaticali espresse in propoda Kiessling-Heinze *. Forma a parte, è la logica stessa del

carme a venir compromessa dal supposto scarto tra virenti «like

evergreen leaves in the spring» e pulla «like the same leaves in late summer», laddove aridas «obviously refers to the ‘sere and yellow leaf’ of autumn»: senza contare che inedita, quanto stravagante, rimane la giovanile preferenza per l’edera piuttosto che per il mirto; mentre non più che preconcetta risulta l'analogia concettuale con l’epigramma (peraltro formalmente lontanissimo) di Stratone νῦν ἔαρ εἶ, μετέπειτα ϑέρος: κἄπειτα ... / ...xaAdun γὰρ Eon (= AP XII 215); e non più che gratuito appare il consimile richiamo alla Elegia IX di Donne, dove l’autore «makes a contrast between ‘Yong Beauties’, ‘Autumnale face’, and ‘Winter-faces’» 34. Non basta tuttavia obiettare, con1 C£. Nisbet-Hubbard 1970, pp. 298 ss. u

*? Confermandosi, il topos, particolarmente funzionale al παρακλαυσί-

ρον. 5 Cf. Kiessling-Heinze 1930, p. 112: «die Auffassung von atque = quam hier auch sprachlich bedenklich» (segue la relativa documentazione). » Cf. Nisbet-Hubbard 1970, p. 298. .

Minaccia e persuasione amorosa

97

tro il paralogismo delle ‘tre stagioni’, che «die Auffassung von Nisbet ad 17 ... scheitert ... an den zahllosen Gedichten, in

denen Myrtenkränze ein Zeichen der Freude sind» ”: occorre osservare che in Orazio il contrasto è giocato non tra variate e stagionali fioriture, bensì, nettamente, tra piante sem pre-

verdi — «die Pflanzen des Dionysos und der Aphrodite» ’* — e fronde caduche. Già Bentley, appena divagando intorno alle due qualità di mirto note presso gli antichi (alba e nigra o pulla: λευκή e μέλαινα per i Greci), aveva ammonito, dopo una lode a Salmasius ed una censura a Heinsius, che «frustra igitur laborant qui comparationem hic esse volunt inter virentem myrtum et nigram ... Aridae frondes plane opponuntur frondibus hederae ac myrti, scilicet quae non arescunt hieme sed perpetuo virent» ἢ, E il mirto, non meno

dell’edera, è

appunto tra queste. Il ‘caso’ potrebbe dirsi chiuso, se proprio al mirto il poeta non affidasse qui (e altrove) un ruolo singolarmente privilegiato, degno di ulteriore interesse. Era opinione di Pasquali — manifestata giusto a proposito di quest’Ode — che il sempiterno arbusto godesse speciale fortuna presso Orazio, il quale lo ha eletto ad emblema di gioventù, ed anzi «ha preferito il mirto alla rosa, al fiore che per la poesia greca è simbolo di giovinezza» ?®. Pasquali felicemente ‘divinava’ una (quasi) verità. E in verità, il fatto che /aeta ... pubes hedera virenti / gaudeat pulla magis atque myrto, avrebbe potuto rammentargli quando la celebre fanciulla archilochea ἔχουσα

ϑαλλὸν

μυρσίνης

ἐτέρπετο

δοδῆς τε καλὸν ἄνϑος,

# Cosi Syndikus 1972, p. 251 n. 32. l % Così ancora Syndikus, /.c., che giudica «kaum unabsichtlich» la menzione.

® Così Bentley 1869, p. 62. 38. Così Pasquali 1920, p. 448. Va da sé che egli appartiene alla schiera di chi non declassa il mirto rispetto all’edera.

98

Ricerche intertestuali

atteggiandosi

simbolicamente’°alieta detentrice di un

giovane ramo di mirto: e di una rosa, bella, ma così irrimediabil-

mente caduca che Orazio provvede a sostituirla con l’edera, sempreverde come il mirto (virens equivale a ϑαλλός = πᾶν τὸ ϑάλλον, cf. Hesych. 8 53 L.). È qui che Pasquali coglierebbe nel segno pienamente, oltre che miracolosamente, se lo scarto del languido fiore non rispondesse più ad una funzione che al gusto (e se, in Car. III 15, 15, il poeta non recuperasse il los

purpureus rosae quale simbolo di eros e gioventù, invidiandolo quindi alla invecchiata ma non rassegnata Clori). Comunque sia, sul passo archilocheo «evidentemente classico in breve tempo» # — in Theogn. 994 compare un παῖς καλὸν ἄνϑος ἔχων ovviamente ἥβης, cf. 1007! — riposa quello oraziano, la cui ‘giovanile’, emblematica, e primaria, elezione del mirto risulta

non più discutibile. Da discutere, come prima si accennava, sarebbe ancora il

testo: precisamente quel finale Euro che, «admirable conjecture» stampata per la prima volta nell’Aldina (1501), continua pur sempre a fare i conti con Hebro, «with authority» unanimemente tràdito dai manoscritti, giustificato da Porfirione (vel quod frigidus sit Hebrus hiemis sodalis dicitur vel quod septentrionalis sit, ubi frigus maximum est), e difeso, con qualche argomento, da più d’uno studioso *!. La menzione del fiume trace (l'odierna Maritza) è giudicata assurda da Nisbet e Hubbard per i soliti e certo buoni motivi *, ma la stessa giustificazione

” Fr. 30 W. Simbolicamente, cioè giovanilmente (ϑαλλόν) ed eroticamente (per il mirto, come si sa pianta di Afrodite, cf. supra): Orazio, a parte la simbologia botanica, insiste con termini come /aeta, che non rinforza semplicemente gaudeat, «but means something like ‘exuberant’», e pubes (cf. fn), che non a caso risulta «capable of a sexual implication» (Nisbet-Hubbard /.c.). Ὁ Così Marzullo 1967, p. 12, cui si deve il rimando a Theogn. 994. 4 Cf. Nisbet-Hubbard 1970, p. 299. Per una discussione degli argomenti, soprattutto stilistici, per cui Hebro apparve nell’edizione di Lenchantin de Gubernatis (1945; cf. Funaioli 1948, p. 187), si veda Syndikus 1972, p. 251 n. 33.

#2 In sostanza quelli già espressi da Bentley e ribaditi da Kiessling-Heinze.

Minaccia e persuasione amorosa

99

paleografica dell’errore denuncia la non sostanziale, né definitiva, soluzione del problema. Soccorre invece, decisamente, una nuova testimonianza indiretta, da annoverare, crediamo, nella

tradizione oraziana: la metafora botanica che allude alla povera Lidia non più verde, foglia frale destinata al vento amico del’ inverno, è anch'essa riportabile ad Archiloco. Nella serie dei /oci simziles registrati dai due studiosi inglesi per le metaforiche aridae frondes, non manca — allineato però con artdas/quercus (Hor. Carm. IV 13,9 s.), φυλλάδος ... / xataxao-

φομένης (Aesch. Ag. 79 s.), etc. — il già noto incipit οὐκέϑ᾽ ὁμῶς ϑάλλεις ἁπαλὸν χρόα: κάρφεται γὰρ ἤδη dell’Epodo archilocheo. Che ora, dotato di cinque versi invece che due, offre ulteriori particolari della ‘prima’ metafora poetica sulla donna appassita: in particolare, alla già nota contrapposizione ϑάλλεις κάρφεται (cf. virens/aridas), segue (v. 5) l’accusa ai devastanti

πνεύμΠαατα

χειμερίων

ἀνέμων.

I

quali evidentemente precedono, ma anche insperatamente sostengono, hiemis sodali Euro: l'assalto dei venti archilochei (v. 4 ἐπῆϊξεν) si avvale forse del collaudato impeto di

Εὖρός te Νότος te, che già ed unicamente in B 145 ὥρορ᾽ ἐπαΐξας 4, ma è certo comunque che, come il χειμέριος Νότος (Soph. Art. 335), οοδϑὶ ὁ Εὖρος ἀπ’ ἀνατολῆς

χειμερινῆ τς πνεῖ (Aristot. Meteor. 363} 21). Anche l’altra e più nota ‘canzone a dispetto’, per Lice che finalmente fit anus (Carm. IV 13, cf. v. 2), tradisce, a parte il diffuso sarcasmo tutto oraziano, un preciso spunto archilocheo. Audivere ... mea vota, esordisce trionfante il vendicativo poeta,

dichiaramente non più interessato alla riottosa partner ormai in

declino, di cui però rievoca le passate grazie. Ed ai vv. 8 ss., appunto l’immagine di Cupido che

Il puntiglio dei due recenti commentatori non è tuttavia inutile: opportuno (doppiamente) il richiamo ai vv. 11 s. Thracio bacchante ... / ... vento. # Il rinvio da Archiloco a Omero è di Marzullo 1973-74, p. 91.

100

Ricerche intertestuali

pulchris excubat in genis,

inportunus enim transvolat

aridas

quercus et refugit te «doveva ricordare ai lettori una strofa di Saffo», cioè il fr. 21, 6 ss. V.

Ἰχρόα γῆρας ἤδη Ιν ἀμφιβάσκει

Ις

πέταται

διώκων,

dove «qualcuno si aggirava intorno, volava inseguendo, chi se non Amore?». Così arguiva il Pasquali *, per la verità istruito da una intuizione di Wilamowitz, ma ancora ignaro che i medesimi

lettori dovevano pure ricordarsi dell’Epodo di Archiloco, dove ἀφ᾽ ἱμερτοῦ

δὲ ϑορὼν

γλυκὺς

ἵμερος

πίροσώπου

/

Lei ]xev (vv. 3 s.) “5. Che sia qui da leggere, con qualche nuova fiducia, nentn]xev? La traccia intertestuale sembra addirittura raccomandarlo: se, da un lato, l’aleggiare di Eros (nei suoi vari aspetti) è topico in poesia, dall’altro, il ‘volo’ non risulta affatto pleonastico accanto al ‘balzo’, espresso da ϑορών «coerente-

mente nel solco già omerico, cf. e.g. N 140 ὕψι δ᾽ ἀναϑρῴσκων πέτεται (sc. πέτρη)» “6. Le più complesse Odi, dunque, trascri-

4 Cf. Pasquali 1920, p. 457 s. Persuasiva ora l'integrazione κἄμεϑεν nödog πέταται per Sapph. 21, 8 V. proposta da Di Benedetto 1985 z, p. 146, sulla base della stessa Sapph. 22, 11 s., dove, in situazione, e direzione, reciproca, πόϑος ... / ἀμφιπόταται / τὰν xdÀ av, # Un confronto, però generico, con Carm. IV 13 era già istituito da Lasserre 1950, p. 138, in concorrenza con Epod. VIII, i cui «parallèles textuels» porterebbero invece «de précieux compléments» in vista di una ricostruzione dell’Epodo archilocheo, cf. supra n. 21. * Così Montanari 1982, p. 4, cui rimando anche per un’equilibrata discussione delle varie proposte integrative al v. 4 dell’Epodo. Sull’idea del ‘volo’ come «a pleonasm» insiste Slings 1987, p. 67, dopo Marzullo 1973-74, p. 90, per il quale βέβη]κεν è preferibile a πέπτῃ]κεν, plausibile tuttavia se il «distacco» non fosse «già espresso ... da fog». La proposta della Montanari è ‘tematicamente’ complementare a quella di Di Benedetto per Sapph. 21, 8V.(v. supra n. 44).

Minaccia e persuasione amorosa

101

vono meglio del monocorde Epodo talune frasi almeno del dettato archilocheo: non cederei però alla tentazione di immaginare ugualmente intonato ‘a dispetto’ l’autonomo precedente. Ma de Horatio satis. Ci basta, anche, d’avere appena accennato alle numerose altre ‘varianti’, tematiche e formali, ellenistiche e latine, il cui

richiamo testuale risulterebbe prolisso: «nonostante le grazie di molti particolari, i τόποι accumulati tediano», commentava sempre Pasquali, annoiato dai più ripetitivi esempi, né confor-

tato dall’impareggiabile esemplare *. Una menzione — a proposito dell’intento suasorio, ora implicito, ora percepibile, ora del tutto manifesto nel sempre interessato poeta — merita però «il solito Rufino», che estrosamente invoca la canizie per smuovere l’indifferente Prodice (AP V 103), e le rughe per piegare la superciliosa Rodope (AP V 92). L’augurio che la bella riottosa presto

invecchi,

al fine di ottenerne

(presumibilmente

con

scarsa fatica e non più rivali) le (appena) sfiorite grazie, rappresenta il sorridente approdo di un topos ormai stanco, rinfrancato da un artificioso quanto improbabile lieto fine. Il ‘serissimo’ inizio è per noi individuabile nell’Epodo di

” C£. Pasquali 1920, p. 433 n. 28. Il colmo del tedio si raggiunge leggendo lo scapigliato Canto dell'odio di Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti (Postama XL): dedicato alla consueta riottosa, di facili costumi, di cui si

fantastica la morte e l’epicedica rievocazione della chioma, dello sguardo, di altri e più provocanti particolari (vv. 5 ss. «ti coleran marcie le gote / entro i denti malfermi / e nelle occhiaie tue fetenti e vuote / brulicheranno i vermi»; vv. 41 ss. «non ti ricordi dei bei capelli biondi / che ti coprian le spalle / e degli occhi nerissimi, profondi, / pieni di fiamme gialle? / E delle audacie tue del busto» etc.). Il ‘poeta’, che non vede l’ora di vendicarsi, tuttavia singolarmente

(vv. 29 ss. «sul tuo putrido ventre accoccolato / io poserò in eterno / spettro della vendetta e del peccato, / spavento dell'inferno») ha colto l'eco del concitato grido oraziano quo fugit Venus, heu, quove color, decens / quo motus etc.? (Carm.

IV 13, 17 s.). Bravamente,

insomma,

resiste il ‘vetusto’ fopos

(dove il macabro disfacimento della vecchiaia si è tradotto in effettivo disfacimento di morte), dopo alcune (almeno) belle reviviscenze: per quella dovuta

al Poliziano, v. infra.

102

Ricerche

intertestuali

Archiloco, cui più sinceramente nelle Odi che negli Epodi si ispira Orazio, e alquanto rispettosamente Ovidio. E pedissequamente già Teognide, che avevamo promesso di citare (v. supra) perché, prima di Ovidio, recepisce il fatidico ‘non più’ archilocheo: o ù κέτι ènoòv/ ἕξεις Κυπρογενοῦς δῶρον ἰοστεφάνου, egli prospetta al riottoso pwer, persuadendolo a concedersi tempestivamente (vv. 1303 5.) *%. Ma anche per Teognide, come per Archiloco (non si sa se anche per Ovidio), l’ominoso avverbio prelude ad un avvertimento interessato quanto

inefficace. Non c’è minaccia che valga a convincere, come un tempo l’irriducibile Neobule, così ora lo scontroso amato: puerilmente, se non femmineamente, restìo alla verità, non solo let-

teraria, che παιδείας πολυηράτου

ἄνϑος / ὠκύτερον στα-

δίου (vv. 1305 5.), o, per dirla con altra e più poetica similitudi-

ne, che αἶψα γὰρ ὥστε νόημα παρέρχεται ἀγλαὸς ἥβη (v. 985).

Tema comune, ma scottante perché esistenziale, quello del fis anus, e dunque del carpe diem (per usare la fortunata dizione oraziana), nasce con la nascita stessa della poesia d’amore (Archiloco), che per la prima volta ‘finge’ il fragile simulacro della (minacciabile) donna in fiore. Destinato a ripetersi, in àmbito classico, fino all’ossessione e all’inevitabile estenuazione (e di sé

e del proprio lettore-filologo), non per caso, forse, il topos dovrà una delle sue più memorabili,

e ‘memori’, rinascite all’estro

umanista di un poeta-filologo, sapiente anche di greco: l’ammirazione del Poliziano per la fresca...rosa del mattino, il suo timore ch'e freschi gigli e le viole / caschino...sanz’esser colti, il suo invito alle fanciulle un bel mattino / di mezo maggio a cogliere /a bella rosa del giardino, la sua cortese minaccia ad una madonna superba della propria bellezza ch’un breve tempo te la

# Per una variata rassegna di οὐκέτι incipitario, da Omero a Meleagro,

cf. Slings 1987, p. 64: interessante il caso din 182 χρὼς δ᾽ οὐκέϑ᾽ ὁμοῖος, che riguarda il corpo appena ‘ripristinato’ (sempre per magia celeste) del solito Odisseo.

Minaccia e persuasione amorosa

103

Jura * risuscitano, per vivido incanto, il classico motivo, prima che sboccino le — mediamente più note, solo perché più mondane — rose di Ronsard.

9 Cf. Risp. spicc. XIX 7; XX 3 s.; Bal. II 1 s., 26; Risp. spicc. XIX 2 (nell’edizione di Sapegno 1965).

Capitolo quinto IL GIURAMENTO DI ARTEMIDE (Da Saffo ad Aristofane)

L’incertezza sull’attribuzione dell’eolico ‘giuramento di Artemide’, conservato da PFouad 239, ed ora ascritto a Sapph. 44 A (a) V.( = Alcae. 304 L.-P.) ]oavopes Φοίβῳ a

μίγεισίξία)

..[

a τὸν ἔτικτε Κόω I

Kolovida μεγαλωνύμῳ

Ἄρτεμις δὲ ϑέων] μέγαν ὄρκον ἀπώμοσε κεφά]λανdi πάρϑενος

5

.0v

ὁρέων

ἔσσομαι

κορύφαισ᾽

ἔπι

]δὲ νεῦσον ἔμαν χάριν᾽ Evev] σε ϑέων μακάρων πάτηρ᾽

ἐλαφάβἼ]ολον ἀγροτέραν ϑέρι 10

]. σιν ἐπωνύμιον μέγα᾽ Jepos οὐδάμα πίλναται:

1.[.1...μαφόβεί. ]έρω,

non può dirsi sfumata. Permangono (fino ad una prova contraria, che qui tenteremo di addurre, con tutta la prudenza suggerita dal caso) i motivi per cui gli studiosi si sono alternativamente pronunciati in favore di Saffo o di Alceo !. Prima della scoperta papiracea 2, l’anonima testimonianza dialettale di Ar. Ox. I 71, 19 ss. Cr. ὁ è’ Αἰολεὺς τριχῶς" ἀεὶ παρϑένος ἔσομαι. καὶ αἰεὶ καὶ alév? era stata subito giudi-

* Sul problema cf. l’equilibrato Nicosia 1976, pp. 55 ss., cui rimando per

una più dettagliata rassegna bibliografica. >

? Pubblicata da Lobel-Page 1952, pp. Per la derivazione da Metodio della

1 ss. nostra testimonianza, cf. Reitzen-

stein 1897, p. 198. Per la restituzione della forma &i (a parte la duplice rettifica

πάρϑενος ed ἔσσομαι), cf. schol. A 52 (ap. An. Par. ΠῚ 321, 22 ss. Cr.) δεῖ δὲ γινώσκειν ὅτι καὶ τὸ ᾿ἀειπάρϑενος᾽ διὰ τῆς ‘ev’ διφϑόγγου γράφεται

106

Ricerche intertestuali

cata di pertinenza saffica 4. Evidenti, troppo, i motivi: il proposito di eterna verginità e, ovviamente, la persona loquens femminile trovavano più plausibile cittadinanza nel mondo poetico di Saffo. Si rinunciava alla voce in prima persona della poetessa

solo per ammettere una speaker, protagonista o coreuta, di un epitalamio ?. Il sopraggiunto contesto ha invece rivelato che è la divina Artemide a parlare *: a rompere ‘drammaticamente’ la narrazione mitica, per formulare in prima persona il virginale giuramento. Alceo, quale sicuro autore di Inni, ha quindi avuto il suo attimo di gloria, aggiudicandosi il carme nell’edizione di Lobel e Page 7. Ma la notizia di Filostrato, rammentata da Treu,

sull’acquisita conoscenza, presso gli antichi, di Inni composti da

κοινῶς, Αἰολικῶς de διὰ τοῦ ‘©’, nonché Ahrens 1839, p. 156; Hamm 1957, pp. 112 5.

* Per primo Schneidewin 1836, p. 8, assegnava a Saffo il frammento (poi

n° 57 del Delectus). * La possibilità che sia Saffo a parlare è ancora presa in considerazione, pur criticamente, da Schmid 1929, p. 417, n. 10. Ad un epitalamio doveva

appartenere il frammento secondo Schneidewin, seguito, tra gli altri, da Bergk (i 96), e da Wilamowitz 1913, p.51

n.3. Perle varie illazioni ‘matrimoniali’,

da Flach a Schadewaldt, cf. Nicosia 1976, pp. 56 5. Per gli specifici problemi che riguardano la cosiddetta Rollendichtung, cf. specialmente Tsagarakis 1977, che emblematicamente accenna agli equivoci nati a proposito della «well known phrase ἀϊπάρϑενος ἔσσομαι» (p. 3). $ Inequivocabilmente: a parte la menzione di Apollo (v. 2), l'epiteto πάρϑενος (v. 5) e i decisivi ἐλαφάβ]ολον ἀγροτέραν (v. 9) rimandano alla dea vergine e cacciatrice per eccellenza. Per la verginità ‘letteraria’ (H Hom. IX 2; XXVII 2; Pind. P. Il 9; Soph. Εἰ, 1239; Eur. Hipp. 68; Aristoph. Lys. 1263; Nonn. II 122; etc.) e ‘culturale’ (Alicarnasso, Lero, Paro, Patmo, Tera,

etc.), cf. Wernicke 1895, c. 1396. Per gli epiteti, denotanti la selvatica attitudine alla caccia, cf. Bruchmann 1893, pp. 43 ss. In compare già in H Hom. XXVIII 2, ἀγροτέρη in ® reperibili nell’interessante sco/io anonimo, per cui v. ? Cf. Lobel-Page 1955, p. 237; Page 1955, pp.

particolare ἐλαφηβόλος 471; entrambi sono poi n. seguente. 262 ss. (nonché 1968, p.

77), il quale, oltre che sulle caratteristiche innodiche e dunque alcaiche del carme, insiste sulla verosimile ascendenza alcaica di sco/. anon. 3 Diehl

(= carm. conv. 3 Page), 1 ss. ἔτικτε ... Λατὼ Φοῖβον χρυσοκόμαν ... / ἐλαφηβόλον τ᾽ ἀγροτέραν / "Agteuuv: dove non mancano consonanze col nostro frammento (cf. v. 2 Φοίβῳ χρυσοκόΪμᾳ τὸν ἔτικτε Κόω, ν. 9 ἐλαφάβ]ολον ἀγροτέραν). Si tratta però di un indizio poco probante.

Il giuramento di Artemide

107

Saffo in onore di Artemide ®, faceva cadere l’unico importante argomento esterno in favore di Alceo, inducendo anche l’ultima editrice ad inserire il dibattutto carme nella sezione saffica ὃ. Gli argomenti

interni,

di ordine

stilistico

e strutturale,

addotti

prima da Page e poi da Treu, appaiono tuttavia controvertibili, e non

permettono

l’inequivoca

attribuzione del frammento

all’uno o all’altro poeta, tanto da suggerire all’ultimo studioso del problema una più prudente collocazione tra gli incertum utrius auctoris fragmenta ‘°. Nicosia lamenta, in particolare, la mancanza

di testimonianze indirette «in sicuro rapporto col

nuovo carme», tali da fornire utili elementi per individuarne la paternità !!.

In effetti, i pur interessanti paralleli finora indicati dagli studiosi non appaiono risolutivi. Già Lobel e Page, a parte il sopravvalutato scolio (cf. n. 7), citavano HVen. 26 ss., dove Estia (come Artemide insensibile al ‘sorriso’ di Afrodite vv. 16 s.)

ὥὦὥμοσε δὲ μέγαν ὅρκον ... / ... / παρϑένος ἔσσεσϑαι πάντ᾽

ἤματα, e Callim. Dian. 6 ss., dove Artemide fanciulla chiede accattivante all’olimpio padre δός por παρϑενίην αἰώνιον,

ἄππα, φυλάσσειν, aggiungendo, prima del proponimento οὔρησι οἰκήσω, una serie di petulanti e vezzose richieste, che surclassano quelle del «racconto tradizionale dell'inno lesbico» 1: πολυωνυμίη, lol, τόξα. οἰστοί, ἄεμμα, φαεσφορίη,

8. Philostr. Vit. Apoll. 130 Δαμοφύλη.. - λέγεται τὸν Σαπφοῦς τρόπον παρϑένους τε ὁμιλητρίας κτήσασϑαι ποιήματά τε ξυνϑεῖναι τὰ μὲν ἐρωτικά,

τὰ

δὲ

ὕμνους,

τά

τοι

ἐς

τὴν

Ἄρτεμιν

καὶ

παρῴδηται αὐτῇ καὶ ἀπὸ τῶν Σαπφῴων ἧσται (fr. 223 V.); cf. Treu 1976, pp. 163 5.

9. Si veda, in proposito, l'apparato di Voigt 1971, p. 70. Ὁ Cf. Nicosia 1976, pp. 57 ss., cui rimando per la puntuale discussione degli argomenti, con la relativa bibliografia. !! Id. p.57. La testimonianza degli Anecdota non aiuta infatti in proposito. Quanto alle possibili ‘imitazioni’ — pur sempre testimonianze indirette — del nostro carme, il Nicosia evidentemente, e giustamente, rifiuta la pretesa (a priori) ascendenza alcaica dello scolio anonimo (cf. supra n. 7). Sugli altri possibili paralleli col nostro carme, v. infra e n. seguente. 1? Cf. Bornmann 1968, p. 8, che cita il tono ancor «più sentimentale» del-

108

Ricerche intertestuali

χιτών (ἐς γόνυ μέχοι ... λεγνωτόν), ἑξήκοντα ᾿Ωκεανίναι, ᾿Αμνισίδαι εἴκοσι νύμφαι, εἰς.

È però sfuggito l’analogo tema trattato da Theogn. 1288 ss., dove l’irriducibile ᾿Ιασίου κούρη, cioè la vergine ° Ataλάντη, aborrendo il γάμος ἀνδρῶν, nonché i classici ᾿Αφροδίτης δῶρα, decisamente (v. 1292) ᾧχετο δ' ὑψηλὰς ἐς κορυφὰς ὀρέων.

Oltre l'identità del topos, il parallelo identicamente offre il motivo del desiderato rifugio «sulle (alte) cime dei monti», for-

s’anche segnalando, per così dire contestualmente, la propria ascendenza: la sezione teognidea, cui appartengono i versi dedicati ad Atalanta, appare costellata di elementi saffici, che il pedissequo imitatore attinge alla canonica prima Ode. Dall’ixcıpit ὦ παῖ, μή p ἀδίκει (v. 1283) al finale καὶ μάλ᾽ è varvopévn

(1293), una serie di altre parole-chiave — quali δόλῳ (1285), φεύγοντα,

fuga

φεύγειν, pevyovo(a)

implica,

τέλει,

τέλος

reciprocamente, (1290,

1294),

δῶρα

(1287, 1290, 1293, dove la

l’inseguimento), (1294)



ἀτέλεστα

smaccatamente

rimandano ai noti τίς 0° ... ἀδίκησι (v. 20), xwùx ἐϑέλοισα (24), nonché δολό(-πλοκε, 2), φεύγει (21, cf. anche il reci-

proco διώξει), τέλεσσαι, τέλεσον (26 s.), δῶρα (22) di Sapph. 1: veri e propri ‘archetipi’ di un linguaggio, e di una ideologia, a lungo persistenti nella tradizione erotico-letteraria "Ὁ, Entro la cornice del collage teognideo, palesemente riportabile alla poetessa di Lesbo, può dunque plausibilmente collocarsi un’ulte-

l'imitazione ovidiana: (Daphne) ingue patris blandis haerens cervice lacertis: / «da mihi perpetua, genitor carissime» dixit / «virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae» (Met. 1 485 ss.). A parte il problema della paternità, non v'è dubbio che, per i tre paralleli sopra elencati, possiamo concordare sul grado di parentela con nostro carme stabilito da Lobel-Page 1952, p. 3: per HVen. 26 ss. «there is no particularly close relation», per sco/. anon. 3 D. «there is some resemblance», per Callim. Dian. 4 ss. è da riconoscere una «more striking ...

relation».

» Cf. Gentili 1972, pp. 60 ss.; Bonanno 1973, pp. 110 ss.

Il giuramento di Artemide

109

riore reminiscenza saffica: l’immagine, anch’essa archetipica "4,

della virago selvatica e cacciatrice. Che all’Artemide, verosimilmente saffica, corrisponda l’Atalanta teognidea non stupisce: la ποδορρώρη ᾿Αταλάντη, secondo l’informato e già citato Callimaco (vv 215 ss.), era,

oltreché emula, compagna prediletta della dea; ma già la più antica ποδώκης di’ ᾿Αταλάντη, ricorda Filodemo, faceva parte, nel Catalogo esiodeo, del seguito di Artemide !. In realtà, l’Artemide saffica ha ceduto il passo all'Atalanta teognidea per una deliberata ‘licenza poetica’. Teognide, nel convincere, paradigmaticamente, il riottoso fanciullo dell’assoluta vanità del suo rifiuto, deve sostituire il mitico esempio divino con quello umano: a differenza dell’immortale Artemide, che può opporsi alla collega Afrodite 16, la mortale Atalanta si propone ἔργα ἀτέλεστα, poiché, malgrado sforzi fieri ma pur sempre umani, dovrà infine cedere all’implacabile sorriso della dea, e convolare a giuste nozze "7, La ‘memoria’ teognidea può dunque costituire la

14 Si tratta, finora, della testimonianza letteraria più antica sul proposito di verginità, unito a quello della caccia sui monti, da parte di Artemide, cf. Bornmann 1968, p. 7. Com'è noto, Omero celebra la vergine cacciatrice, ma

non accenna al giuramento, cf. © 102 ss. οἵη δ᾽ ᾽Ἄρτεμις εἰσι κατ᾽ οὔρεα ... / ...{teoropugw κάπροισι καὶ ... ἐλάφοισι, e 109 παρϑένος ἀδμής (detto di Nausica, però paragonata ad Artemide). Nel citato Inno ad Afrodite non v'è traccia del virgineo giuramento della dea cacciatrice, ma genericamente si narra οὐδέ ποτ᾽ Aptéuda ... / δάμναται ἐν φιλότητι ... ᾿Αφροδίτη (vv. 16 s.): il proposito, giurato, di eterna verginità appartiene, come s'è detto, ad Estia (cf. vv. 26 ss.). In Teognide la nozione del giuramento è implicita nei termini ἔργα ἀτέλεστα τέλει, che rimandano al noto rituale omerico τετελε-

σμένα ἔσται (vel ἔστιν, per cui cf. e.g. lo stesso giuramento di Estia di H Ven. 26 ὦμοσε dè μέγαν ὅρκον, ὃ δὴ τετελεσμένον ἐστίν). Per il negativo ἀτέλεστα, motivato dall’impossibile pretesa della ‘mortale’ Atalanta, v. infra e n. 17. 5 Fr. 72 M.-W. (δούλη ᾿Αρτέμιδος): tale testimonianza è trascurata da Bornmann 1968, p. 101, che cita quale esempio più alto, per Atalanta seguace di Artemide, Eur. Phoen. 151.

‘6 C£. H Ven. 7 τρισσὰς (sc. le tre dee Atena, Artemide, Estia) δ᾽ où δύναται (sc. Afrodite) πεπιϑεῖν φρένας, cf. v. 33: sulla controversa sintassi del v. 7, cf. Bossi 1978-79, pp. 23 s.

Solo alle dee, ed in particolare alla triade sopra citata (cf. n. precedente), è concesso sfuggire al dominio di Afrodite. Quanto ad Atalanta, sono noti

110

Ricerche intertestuali

finora auspicata testimonianza indiretta, se non in «sicuro», almeno in oggettivo «rapporto col nuovo carme» (v. supra): utile comunque non solo per definirne l'attribuzione, ma anche e soprattutto il testo. Il lacunoso papiro è stato, ai vv. 6 s., variamente integrato dagli editori: Lobel e Page suggerivano ἄδμης (cf. v. 5 παρϑένος) οἰοπόϊλων ὀρέων κορύφᾳισ᾽ ἔπι) ϑηρεύοισ(α), rimandando a & 109 (= 228) παρϑένος ἀδμής, e a λ 574 ἐν οἰοπόλοισιν ὄρεσσι. Treu preferiva invece κοἰκήσω μεγά]λων ὀρέων κορύφᾳισ᾽ ἔπι ϑηρεύοισα, rimandando a Callim. Dian. 20 οὔρεσιν οἰκήσω. Voigt si limita a riferire le proposte dei più audaci predecessori, aggiungendo, per l’attributo oioπόλος, il raffronto con Ὡ 614 ἐν οὔρησι οἰοπόλοισιν, ma registrando, per il nesso ὀρέων (-εος) κορυφαί (-N), destinato a lunga fortuna (v. infra), i loci similes T 10 al. ὄρεος κορυφῇσι, e M 282 ὑψηλῶν ὀρέων κορυφάς: pur consapevole, però, del metricamente inservibile ὑψηλῶν, non adatto al nostro mutilo verso

(con

tutta probabilità

un

pentametro

dattilico),

che

richiede due brevi prima di ]. wv. Ma torniamo al papiro, che unicamente ci consegna, ai vv.

6 ss.,]. ὧν ὀρέων κορύφαᾳαισ᾽ ἔπι, seguito da lacuna: la paradosis risulta avara solo in apparenza, poiché in realtà fornisce l’essenziale perno sintattico della frase. Un’attenta e sistematica indagine sul nesso ὀρέων (-£06) κορυφαί (-N), ed anche sui singoli ὄρεα (-05) e κορυφαί (-1)), in Omero, Esiodo e nei lirici, rivela che lo ‘stato in luogo’, all'unanimità voluto dagli studiosi, è sempre convenientemente espresso dal dativo semplice

(cioè dal locativo) oppure dal dativo con &v!®. L’unico caso di

(a parte la fuga sui monti) gli sforzi ‘podistici’, utili a dilazionare, non ad evitare le nozze: già descritti dal diffuso Catalogo esiodeo (frr. 75 e 76 M.-W.),

poi raccontati da Apollod. III 9, 2. !8 Cf. T 10, E 554, Π 757, 824, ὄρεος κορυφῇσι(ν); N 179 ὄρεος κορυφῇ; B 456 οὔρεος ἐν κορυφῇς; Alcm. 125, 1 C. ἐν κορυφαῖσιν ὀρέων; E 52, M 132, N 390, 471, 571, 606, II 158, 483; Hes. Op. 232, ΤΡ. 1001, frr. 204, 129 οὔρεσι(ν); Mel. Ad. 13, 4 P. ὄρεσι; Pind. P. III 36 ὄρει; A 455, A

Il giuramento di Artemide

111

ἐπί col dativo è costituito da E 523 ἐπ’ ἀκροπόλοισιν ὄρεσσι: ma si tratta di nuvole radunate da Zeus so pra eccelse montagne. Sarà dunque da leggere κορύφαις ἔπι, ovviamente presupponendo un verbo di moto (cf. e.g. E 227 5. σεύατ᾽ ἐφ᾽ ... ὄρεα νιφόεντα, / ἀκροτάτας κορυφάς), che andrà collocato in luogo del sedentario supposto (κ)οἰκήσω "5. Sulla base del nostro Theogn. 1292 5. ®yeto δ᾽ ὑψηλὰς ἐς κορυφὰς ὀρέων / φεύγουσα, suggerirei κοἴχωμαι μεγάλων ὀρέων κορύφαις ἔπι ϑηρεύοισα.

Per l’attributo μεγάΪλων, si ricordi, oltre che Tyrt. 5, 8 W. ἐκ μεγάλων ὀρέων, il più dettagliato II 297 ἀφ᾽’ ὑψηλῆς κορυφῆς ὄρεος κορυφὴν ὄρεος μεγάλοιο,

μεγάλοιο, nonché H Hom.

cf. ı 481 XXXII 4

κορυφῇ ὄρεος μεγάλοιο. Per il congiuntivo (κ)οΐχωμαι, basti sottolineare la sua speciale valenza, e specialmente espressa dalla prima persona, già rilevabile, ad esempio, nella tipica formula di proponimento ἀλλ᾽ ἄγ᾽ ἐγὼν αὐτὸς πειρήσομαι ἠδὲ ἴδωμαι (ζ 126), dove, oltre al netto «sens de volonté» 20, sarà il caso di notare la sequenza futuro + congiuntivo,

479, Q 614, HVen. 266, HHom. XX 4, Sem. 14, 1 W., Pind. P. VI 21 ἐν οὔρεouv); A 235, M 146, Ξ 290, TI 353, P 282, % 574, t 205, HVen. 54, HMerc. 337, Hes. fr. 170 ἐν ὄρεσ(σ)ι(ν); Sapph. 105 b I V. ἐν ὥρεσι; Hes. ΤΡ. 484, Sim. 96, 5 D., Pind. P. III 90 ἐν ὄρει; Pind. Pae. XII 11 κορυφαῖσιν; A 499,

E 754, Θ 3 κορυφῇ; Pind. Pae. VIII a 13 κορυφᾷ; 9 15, 51, A 183,5 332, X 171, Ep. X 2, Hes. ΤΡ. 1010, Alcae. 308, 2 V., Pind. P.I 27, N. I 34, Pae. VI 93 ἐν κορυφῇσιν (-αἴσιν, -aiot, -αἷς). ! Che Treu (ν. supra) ricavava dall’Inno callimacheo: dove però si legge

οὔρεσιν οἰκήσω (v. 20). Altrove Callimaco, per indicare «il luogo naturale di Artemide», si serve del «più corrente» ἐν οὔρεσι (v. 3, si vedano, in proposito, le osservazioni stilistiche di Bornmann 1968, pp. 5 e 16), mentre non manca, più avanti, di ricorrere ad ἔπι, ma rispettando le ormai note ‘rego-

le: βαῖνε δὲ κούρη Aevxòv κεχομημένον ὕλῃ (vv. 405.). 20 Cf. Chantraine GH II, p. 207.

ἔπι

Kontaiov,

ὄρος

112

Ricerche intertestuali

pure offerta dai nostri ἔσσομαι κοἴΐχωμαι. Quanto poi a ϑηρεύοισα, il già desiderato (v. supra) participio di ϑηρεύειν occorre per ragioni sia sostanziali sia formali. Sostanziali sia di ordine esterno — il cliché mitologico esige la dea cacciatrice — sia interno: gli effetti del triplice assenso del Cronide (vv. 9 ss. ἐλαφάβολον, ἀγροτέραν, ἔπος οὐδάμα πίλναται) presup-

pongono un’almeno triplice richiesta da parte di Artemide, e dunque impongono (in ribaltato pendant) πάρϑενος, ὀρέων κορύφαις ἔπι, ϑηρεύοισα ?!. Sono però nuove ragioni formali — nella fattispecie sintattiche — a persuadere dell’opportunità del participio: già consigliato dalla metrica, appare ora raccomandato, se non richiesto, dalla presenza di (κ)οἴΐχωμαι. Come lo stesso Teognide ribadisce, la costruzione di οἴχεσθαι col participio (pres. fut. aor.) è classica: da Omero (Z 346 οἴχεσϑαι προφέρουσα, è 363 οἴχοιτο ἀλύξας, x 356 οἴχηται φεύγων, etc.) ai lirici (Sapph. 114, 1 V. λίποισ᾽ (ἀπ)οίχῃ, Pind. N. VII 40 ᾧχετο ... ἄγων, O. VI 38 ᾧχετ᾽ ἰὼν μαντευσόμενος), ad Aristofane (Lys. 976 οἴχεται φέρων), a Senofonte (Cyr. V 1, 3

πρεσβεύων μένη) 2.

ᾧχετο), a Platone (Phaed.

1080 οἴχεται ἀγο-

Muovendo dall’incerta attribuzione dell’anonimo canto eolico — che celebra Artemide, la dea sempre vergine, aliena da ogni vincolo amoroso quanto desiderosa di rifugiarsi μεγάλων ὀρέων κορύφαᾳις ἔπι — siamo giunti alla certezza (almeno) del

testo, rintracciando peraltro i topici vezzi della virago cacciatrice, sia divina (Artemide) sia umana (Atalanta), cui si addicono, parimenti, il rifiuto delle nozze, volute da Afrodite, ed il ritiro

sui monti. Siamo in grado, a questo punto, di affrontare la lettura difficile, se non sibillina, di Ibyc. $ 199 P.

2! Sulla corrispondenza (se non equivalenza) ἀγροτέραν — ὀρέων κορύφαις ἔπι, cf. e.g. E 51 s. δίδαξε γὰρ Αρτεμις(!) αὐτὴ / βάλλειν ἄγρια πἀάντατάτετρέφει οὔρεσιν ὕλη. 2 Cf. Kühner-Gerth II p. 63.

Il giuramento di Artemide

113

Ϊναρ.

Ἰδολοπί[λόκ-

Ἰφαϑωϊ

«τερασ. .v μελέων.[ Ἱπικρατέως![ ]-vovxos.[

5

γάρ νιν av[

nvaro πίο]τγίιlas κορυφίας ϑεωί Ἰἀάϑανάταί .vou.]a{

10

)υμί Così Page, che accoglie i palmari supplementi di Lobel 25, Tra questi, l’inequivoco δολοπίλόκ- (v. 2) ed i contigui Ἰήνατο π[ο]τγίι-Πας κορυφίας (vv. 9 5.) meritano speciale attenzione: fortunosamente permettono un’ipotesi sul pur scarno frammento. Ritorniamo ai topici vezzi, sopra rintracciati, della virago cacciatrice,

sia divina (Artemide)

sia umana

(Atalanta).

Lo

stesso partigiano Inno ad Afrodite doveva ammettere l’eccezionale impotenza della dea nei confronti dell’altra figlia di Zeus: Artemide

‘dalle frecce d’oro’, altrimenti nota,

dall’Odissea,

quale assidua frequentatrice di luoghi montani 24. Mentre Teognide — dopo il canto, presumibilmente saffico, inneggiante ad Artemide πάρϑενος nonché ἐλαφάβολος ἀγροτέρα, e prima dell’Inno callimacheo, dedicato, con qualche eccessiva grazia, alla dea eroticamente rinunciataria e volontariamente segregata

sui monti 25 — ricompone la fabula della mortale Atalanta, che

2 Cf. Page 1974, p. 59: l’unica differenza rispetto all’editio princeps di Lobel (POxy. 2735 [1968] fr. 34), consiste in ἀϑανάτα invece che ἀϑανα-

taf.

24 Cf. supra n. 14. 3 Sul tono callimacheo, sentimentalmente ancor più esasperato da Ovi-

dio, cf. supra n. 12.

Ricerche intertestuali

114

già in Esiodo ἵε ἀναινομένη δῶρα [χρυσῆς ᾿Αφροδίτης, e dunque πρὸς ἀνθρώπων ἀπανα’ίveto φῦλον ὁμιλίεῖν / ἀνδρῶν ἐλπομένη φεύγ]ειν γάμον 2: prima di convolare ad obbligate nozze, l’intemerata emula di Artemide, ἀνα tvopyutévn γάμον ἀνδρῶν. se. ᾿Αφροδίτης δῶρα, cerca riparo ὑψηλὰς ἐς κορυφὰς ὀρέωνΖ, E veniamo al nostro frammento. Non sarà un caso che dagli esigui resti 25 affiorino ben tre elementi, ascrivibili, ed anzi essenziali, alla morfologia del racconto sulla ‘vergine selvatica’: l'indispensabile Afrodite è assicurata dall’epiteto δολοπλόκος,

esclusivo della dea, e ricorrente in ambito lirico a

cominciare dall’emblematica ode di Saffo 25. La virago antagonista è invece deducibile dalle due ‘funzioni’ narrative che le competono: il preliminare casto rifiuto e successiva ricerca delle vette montane. Quanto al casto rifiuto, palmare, non meno dei seguenti

πίο]τγίι- e κορυφίας, risulta ἀν]ήνατο vel ἀπαν]ήνατο », che si attiene al codice rispettato da Esiodo e Teognide (v.

2 Frr. 76,6€ 73,4 s. M.-W.: per lo specifico (ἀπ)αναίνεσθϑαι, v. infra. 22 Vv. 1288 ss. Si veda il puntuale commento nell’edizione di Vetta 1980, pp. 82 ss., che tra l’altro ricorda (p. 84) il significativo epiteto di Artemide Κορυφαία (cf. PMG fr. 720 P.), non registrato da Bruchmann 1893, p. 47. 28 Comunque non refrattari al clima determinato dalla presenza di δολοπλόκος (i.e. Afrodite, v. infra): sulla pertinenza erotica del ‘guerresco’ ἐ]πικρατέῳς (v. 5: cf. Π 81, Ψ 863, [Hes.] Sc. 321, etc.), in presumibile relazione col precedente μελέων, può ulteriormente garantire l’affine ἐγκρατέως, che saldamente qualifica il potere di Eros sulle φρένες dello stesso Ibyc. 5, 12 P. Per il residuo οὐχ ὅσ[ιον nel v. 7, cf. n. 34.

” Agli esempi di Bruchmann 1893, pp. 57, 65, 68, da Sapph. 1,1 Ν. ἃ Theogn. 1386, Mel. adesp. fr. 31, 2 P., nonché AP XII 195, 4 (Strat.), H Orph. 55, 3 Q., andranno aggiunti Simon. 36, 9 e Mel. adesp. 1 A, 7 P. Da ricordare,

per limitarci alla lirica, anche Simon. 70, 1 P. δολομήδης, e Bacchyl. XVI 116 Sn. δόλιος: già in Omero Afrodite era, notoriamente, δολοφρονέουσα (A 405).

Ὁ L’indicativo aor. ἀνήνατο ricorre sia nell’I/iade (ΔΨ 204) che nell’Odissea (x 18). L'aumento, che compare una volta nel composto ἀπηνήναντο (H 185), manca pure in Pind. N. V 33 ἀπανάνατο, per cui v. infra.

ll giuramento di Artemide

115

supra); e trova un insperato analogo ancora in Hes. fr. 26, 12 s. M.-W., che narra il ‘pluralizzato’ mito delle vergini Πορϑαονίδες ?, dimoranti dunque sugli ἄκρα κάρηνα del Parnaso,

nonché

ἔργ᾽

àrava][vé]ue[v]ar

χρυσο[σ]τεφάνονυ

"Ageoöitns(!) 52. Dell’uso ‘tecnico’ di (ἀπ)αναίνεσϑαι (per cui cf. ancora x 297 ἀπανήνασθϑαι ... εὐνήν, Hom. Ep. XII 2 ἀνήνασθαι φιλότητα καὶ εὐνήν, Pind. N. V 33 ἀπαν άvato νύμφαν, Eur. Hipp. 14 ἀναίνεται ... λέκτρα, etc.) già avvertivano, del resto, gli antichi grammatici, cf. Harpocr. 31, 7 Dindorf ἀναίνεσϑαι κοινῶς ἰδίως δὲ ἐπὶ τῶν κατὰ τοὺς

ἀφροδίσια

μὲν τὸ àpvelodat, γάμους καὶ tà

λέγεται.

Quanto alle ricercate vette montane, condizione dell’accu-

sativo plurale κορυφ[ὰς, confermato sia dal parallelo saffico che da quello teognideo, sarà un verbo di moto appunto come in Saffo e Teognide *, mentre il rituale attributo consisterà forse in ὑψηλ]άς (cf., oltre al solito Theogn. 1292, Anacr. 14, 5

G.), oppure μεγάλ]ας (cf. Pind. N. I 34), senza escludere ἀκροτάτ]ας (cf. Σ 288, H Hom. XIX 11). Si tratterà di Artemide,

come nel parallelo saffico, o di Atalanta, come in quello teognideo? Il mutilo testo non consente ulteriori dilemmi, e appena tollera il limite già toccato con pur legittima audacia. Certo, il πί[ο]τγίι- contiguo ad (ἀπ)αν]ήνατο potrebbe suggerire che autrice del diniego sia una πότνια, e dunque Artemide, cui

3! La fabula esiodea delle [κο]ῦραι Πορϑάονος (v. 5) resta isolata: delle tre figlie qui nominate, Εὐρυϑεμίστη, Ztgatovixn, Στερόπη, conoscevamo solo l’ultima da scho/. u 39 (II, p. 531 Dindorf). Di un’altra figlia Aia, madre a sua volta di Tersite, reca invece notizia scho/. B 212 (I, p. 228 Erbse).

3? La soluzione, obbligata almeno per quanto rigurda il verbo, è suggerita da Merkelbach, ap. M.-West 1967, p. 17. In luogo di Epy(a) non sarà improbabile è@g(a). Per l’accusativo e dunque il verbo di moto, cf. ancora Anacr. 14, 4 5. σ. Emi στρέφει / δ' ὑψηλὰς ὀρέων κορυφάς (sc. il selvatico Dioniso), ma soprattutto Aristoph. Nub. 278 ὑψηλῶν ὀρέων κορυφὰς ἔπι (ἀρϑῶμεν), per cui v. infra.

116

Ricerche intertestuali

andrebbe verosimilmente ascritto anche ᾿᾿ἀϑανάτα del successivo v. 12. Viceversa, però, se il diniego avesse per oggetto i δῶρα (vel ἔργα) della πότνια Afrodite (cui inoltre competerebbe, oltre al titolo di δολοπλόκος, al v. 2, anche quello di

ἀϑανάτα, al v. 12: la stessa triade aggettivale attribuitale da Sapph. 1, 1 ss.), soggetto ne sarebbe Atalanta. Magari sospettabile, quest’ultima, dalla stessa occorrenza di (ἀπ)γαναίνεσθϑαι, finora reperibile nel lessico mitologico non della dea, bensì della fanciulla ?*. Consapevoli, tuttavia, della labilità d’ogni ulteriore ipotesi, ci basta d’aver tentato una basilare identità del frammento: fondata sulla complicità di alcune parole-chiave, spie di altrettanti segmenti narrativi, difficilmente alienabili dalla morfologia di un topos non solo lirico. Utile, oltre che necessaria, c'è parsa la

loro agnizione. Interviene infine, nel quadro del topico rifugio montano motivato da virginei propositi #, un curioso passo aristofaneo, 3. Senza contare che al v. 7 il leggibile οὐχ ὁσι[- (altra e più oscura ipotesi, già nell’e.p., è τεμ]ενοῦχος, epiteto forse di Posidone, cf. LS] p. 1774), £.e. οὐχ ὅσιον vel quid simile, farebbe ancora propendere per la versione ‘umana’

del mito: οὐχ ὅσιον (refas) equivale sostanzialmente a ἄδικον. Ma la differenza, formalmente apprezzabile ai fini di un'alternativa Artemide/Atalanta, è ben marcata da schol. Eur. Hec. 788 ὅσιον λέγεται τὸ δίκαιον’ διαφέρει δὲ τοῦτο ... καὶ τὸ μὲν πρὸς ϑεοὺς ἐξ ἀνθρώπων γινόμενον ὅσιον

καλοῦμεν, τὸ δὲ πρὸς ἀνθρώπους δίκαιον. Si tratterebbe in effetti dell”ingiusto’ comportamento di Atalanta nei confronti della legge di Afrodite. Non abbiamo ovviamente preso in alcuna considerazione l'umano esempio, però maschile, di Ippolito, la cui vicenda — casta e selvatica anch'essa — comincia appunto, letterariamente, con Euripide. L'altro eroe maschile, punito dall’implacabile Afrodite, è notoriamente il ‘bucolico’ Dafni, pianto da Teocrito. Sui riverberi latini del mito, cf. Conte 1984, pp. 18 ss. (a proposito della decima Ecloga virgiliana). Sullo schema conflittuale Afrodite-Artemide, e sulle ‘disavventure della caccia’, si veda, da ultimo, il suggestivo Detienne 1977, pp. 64 ss. 3 Non può dunque valere in proposito l'esempio ‘maschile’ del citato Anacr. 14,45.G. ἐπι στρέφεαι ") δ᾽ ὑψηλὰς ὀρέων κορυφάς: protagonista è il selvatico Dioniso, anch'egli ἀγρότερος, ἄγριος, ἀγρεύς nonché ἐλατὴρ παρδαλίων, cf. Bruchmann 1893, pp. 78 ss. (ἀγρεύς è in Eur. Bacch. 1192). Il passo costituisce comunque un'ulteriore conferma dello stilema da noi individuato (cf. supra n. 33).

Il giuramento di Artemide

117

di cui sono finora sfuggite le connessioni intertestuali, e dunque

la sottile posnze. Si tratta di Nub. 279 ὑψηλῶν ὀρέων κορυφὰς ἔπι,

dove — oltre al parallelo formale dell’accusativo con ἐπί (aulicamente in anastrofe come nel ‘canto lesbico’) * retto da un

verbo di moto (cf. v. 276 ἀρϑῶμεν) — rassicura il fatto che siano le divine, nonché vergini (cf. v. 299 παρϑένοι), Nuvole a

guadagnare le vette degli alti monti, dispettosamente lasciando la dimora paterna (cf. v. 277 πατρὸς ἀπ᾽ ᾽Ωκεανοῦ), in osse-

quio ad una privilegiata tradizione. La sorridente se non parodistica vena aristofanea sdrammatizza, ma pure riconosce, un sof-

ferto topos ‘femminile’, umano e divino.

* Che Aristoph. Nub. 279 risenta di Sapph. 44 A(a), 6 V sospettava «_» . ’ ' ’ ur senza prove, anche Cavallini 1975-77, p. 67 n. 25, che ora accoglie le nostre argomentazioni (grammaticali prima che intertestuali) giä esposte in altra

occasione, cf., rispettivamente, Cavallini 1986, p. 187, e Bonanno 1978-79, pp. 99 ss.

Capitolo sesto EROS E AUTOFAGIA (Da Saffo a Teocrito)

Saffo rappresenta la nostalgica deambulazione, complicata da un peso — o da un morso, questo il problema — al cuore dell’amante lontana dall’amata (fr. 96, 15-17 V.): πόλλα δὲ ζαφοίταισ᾽ ἀγάνας ἐπιμνάσϑεισ᾽ ΓΑτϑιδος ἱμέρῳ

λέπταν ποι φρένα x[.]o... βόρηται.

Così la Voigt, che in calce annota: «βόρηται = "βαρεῖται audiunt multi (post Blass), sed cf. Hamm. $ 57 a 1, ‘edere’ Z.

conl. ϑυμοβόρος Alcae. 70, 10, H 301 al., ϑυμοβορεῖ Hes. Op. 799, δημοβόρος A 231 (βορέομαι nunc legitur Nic. Ther. 394 = POxy. 2221 col. II 29, cont. Page), recte, ut vid.; at tamen βόρηται non esse ‘edit’, ut vol. Z., sed ‘sese edit’ mon. Page» !.

I termini della questione sono esposti con esauriente chiarezza. Da un lato, l’editrice rimanda alla sua Grammatik zu

Sappho und Alkatos, dove la pretesa identità βόρηται = "βαρεῖται (gravatur) veniva esclusa da persuasivi argomenti linguistici, cf. Alcae. 112, 20 V. βαρυ.[, 132, 2 βαρύνϑην, 148, 2 βαρυδαίμονος 2. Dall'altro, mostra come ragioni non solo for-

mali garantiscano l’equivalenza semantica βόρηται = edit, già istituita da Zuntz, riportandone gli efficaci raffronti. Il valore attivo attribuito a βόρηται imporrebbe tuttavia un soggetto κᾶρ, per Zuntz ricavabile dal precedente e problematico *[.]e...}, e per la Voigt in qualche modo attendibile, se si ! C£. Voigt 1971, p. 108.

? Cf. Hamm 1957, p. 28. «The spelling (...) isfag-, not βορ-, in the ‘heavy’ words»: così anche Page 1955, p. 92, sulla base dei suddetti confronti.

120

Ricerche mtertestualt

preoccupa di citare, come loci similes, Ap. Rh. IV 1655 s. μέλπε δὲ xrioag / Buuoßoöpovg, e Callim. fr. anon. 87 Schn. (= 747 Pf.) μή μιν ἔδουσιν ἄσαι 4. Nulla da eccepire sulla consistenza della realistica metafora, di cui non sorprenderà (v. infra) l’a-

scendenza omerica. Rimane tuttavia la valida obiezione di Page, resa più stringente dal fortunato raffronto con βορεῖται, v./ in Nic. Ther. 394, per cui βόρηται non può che valere edituro sese edit: un’espressione sostanzialmente affine è già reperibile in Z 202 ὃν ϑυμὸν κατέδων, pur presente alla stessa Voigt quale terzo ed ultimo parallelo (per l’eloquente presenza del riflessivo, cf. Aristoph. Vesp. 287 ἑαυτὸν ἐσϑίειν). Cui sarà da aggiungere e da preferire, nei confronti del modulo ἱμέρῳ φρένα βόρηται, il sempre epico ı 75(= x 143) ἄλγεσι ϑυμὸν ἔδοντες: la formale assenza di ὅν, peraltro implicito, è compensata dal dativo ἄλγεσι, che, giusto come ἱμέρῳ, motiva la cruda operazione sui rispettivi ϑυμός — φρήν (cf. anche E 493 δάκε dè φρένας). È dunque l’ignota ᾽ protagonista a divorarsi l’anima dalla passione o, se si vuole, ad esserne divorata nell’anima ®.

δ C£. Zuntz 1939, pp. 93 ss. Sulla difficile lettura del papiro (PBerol. 9722 fol. 5) v. infra e n. 11. * (1 κῆρ «δ᾽» doa4», già proposto da Wilamowitz 1913, pp. 85 ss., che tuttavia leggeva βορῆται ed intendeva «und ihr weiches Gemit wird von Sehnsucht, ihr Herz von Kummer schwer».

5 Sulla presunta ᾿Αριγνώτα, cf. Marzullo 1952, pp. 85 ss. € Sulla possibilità di intendere βόρηται passivo piuttosto che medio, cf. n. 9. Se il soggetto di βόρηται, come pare inevitabile, è la ragazza, superflui si rivelano i tentativi di Zuntz 1939, pp. 96 ss., d'intendere il ζαφοίταισ᾽ del v. 15 come una terza persona singolare invece che un participio, sulla scia di Franz 1875, e con l'approvazione di Hamm 1957, pp. 161 5. Le puntuali obiezioni di Page 1955, pp. 91 s., appaiono in proposito convincenti. Meno la pro-

posta κᾶρι CG(L) «because of your fate»: la causa è già nel precedente ἱμέρῳ. Parallelamente a περρέχοισ(α) del ν. 9, ζαφοίταισ᾽ è un participio anche per il recente Mc Evilley 1973, pp. 257 ss. Stupisce tuttavia che lo studioso non tenga conto dell'importante rettifica di Page circa la diatesi di βόρηται, mostrando di apprezzare solo la proposta, di Zuntz, βορέομαι = ‘devour’: «the only intelligible alternative presently available» (p. 260). Un’alternativa ritenuta peraltro non sufficientemente valida, se il testo (κῆρ δ᾽ dog) e la rela-

Eros e autofagia

Conferma

ne offre ancora Omero.

121

L’intera nostra strofe

trova infatti un esemplare diegema in Z 201 5. ἤτοι ὁ κὰπ ὃν

πεδίον τὸ ᾿Αλήϊον

ϑυμὸν

κατέδων,

olog dà A dà to, πάτον

ἀνϑρώπων ἀλεείνων,

il cui κατέδων non a caso è già servito a definire l’esatto valore di βόρηται. Tutto il contesto, in realtà, impone un istruttivo raffronto: informa del tragico destino di Bellerofonte, quando,

caduto in disgrazia presso i numi, errava solitario per la pianura Alea (non troppo lontana dalle lidie ἄρουραι su cui riversa luce e affanni la ‘lunare’ amica di Saffo!),

divora

n-

dosi il cuore, fuggendo persino l’orma dei suoi simili. Identico il comportamento dei due disperati protagonisti, come analoga la forma che li descrive: al verbo di modo finito (ἀλᾶτο: Boontar) si accompagnano due participi congiunti asindetica-

mente (κατέδων ... ἀλεείνων — ζαφοίταισα ... ἐπιμνάσϑεισα). Si può così sciogliere anche il nodo costituito da ζαφοίtao” (cf. n. 6), che va inteso come participio, invece di terza persona singolare. Mentre la preziosa inversione (ἀλᾶτο

...

κατέδων: ζαφοίταισα ... βόρηται), presente nel testo saffico di contro al testo epico, sembra voler privilegiare proprio l’atto ‘ferino’. La concreta,

‘fisica’ immagine

omerica,

prevedibil-

mente congeniale al gusto di Saffo, riaffiora sul piano amoroso con uno scarto ideologico, oltre che stilistico, ancora non inatteso’.

tiva interpretazione dei vv. 16 8. restano quelli di Wilamowitz: «she is weighed down in her delicate breast with desire and in her heart with grief». Sfugge in realtà a Mc Evilley la problematica della strofe, già lucidamente affrontata da Page ed ora riproposta dalla Voigt, di cui sembra i ignorare l'edizione. ? Per simili metafore, cf. Lanata 1966, p. 78. Sul piano reale, andrà ricurdato che il motivo del disperato vagare (lungo una spiaggia marina) è ancora rintracciabile in Omero, a proposito di Achille (sofferente per la perdita di Patroclo!), cf. Q 12 δινεύεσκ᾽ ἀλύων παρὰ ϑῖν᾽ ἁλός. A tale istruttivo prototipo ‘sentimentale’ manca però l'ulteriore motivo — quello metaforico — dell’autofagia, che più ci interessa.

122

Ricerche intertestuali

Una innovazione approvata, sembra, dall’emulo Teognide: Κυπρογένη,

παῦσόν

ue πόνων,

σκέδασον

δὲ μερίμνας /

ϑυμοβόρους (vv. 1324 ss.). Singolarmente, e per la prima volta 8, ϑυμοβόρος risulta impiegato in funzione erotica, a qualificare le divoratrici μέριμναι dell'amore: un ardimento difficilmente imputabile allo stesso Teognide, pedissequo imitatore di eletti modelli. Memore — non importa se ‘consapevolmente’ — dell’icastico φρένα βόρηται, inserisce qui ϑυμοβόρος in un contesto di scoperta imitazione saffica: l’invocazione alla dea, la preghiera di por fine a πόνοι e μέριμναι, costituiscono uno dei vari riecheggiamenti teognidei dell’ode ad Afrodite, rimandano notoriamente a Sapph. 1, 25 ss. V.?. L’erotica funzionalità della metafora perdura in àmbito tragico —

da Aesch. Ag. 743 δηξίϑυμον ἔρωτος ἄνθος, a

Soph. fr. 841 R. ἔρωτος δῆγμα παιδικόν, Eur. Hipp. 1303

8. Nell’Iliade ϑυμοβόρος è sempre ἔρις (H 210, 301, Π 476, T 58, Y 253): il ϑυμοδακὴς ... μῦϑος di ὃ. 185 è però lo stesso che δάκε δὲ φρένας “Extoot in E 493 (v. supra, cf. Hes. ΤΡ. 567). Sempre in contesto non erotico,

prima di Ap. Rh. IV 1655 s., citato dalla Voigt (v. supra), Hes. Op. 799 offre ἄλγεα ϑυμοβορεῖν, e Alcae. 70, 10 V. ϑυμοβόρω λύας. Sulle riprese teognidee di peculiari termini saffici, nell’ambito di situazioni erotiche, cf. Lanata 1966, pp. 69, 79, e Gentili 1972, pp. 63 s. ° Ai seguenti vv. 1325 s. δὸς δ᾽ εὔφρωνι ϑυμῷ / μέτρ᾽ ἥβης te A ἐcavi’ ἔργματα σωφροσύνης, è anche possibile cogliere un’eco dei suc-

cessivi 26 s. di Saffo ὄσσα dé por τέλεσσαι

/

ϑῦμος

inéppe,

τέλεσον: comealv. 1094 χαλεπὸν δ' οὐκ ἐϑέλοντα φιλεῖν, rifatto su Sapph. fr. 1, 23 5. φιλήσει / xwdx ἐθϑέλοισα, dove, con pari meccanico procedimento, χαλεπόν è «ispirato dall'immediatamente successivo v. 25 χαλέπαν dè λῦσον» (così Marzullo 1967, p. 51). Per le insistenti riprese teognidee del linguaggio saffico, cf. n. 8. Quanto alla struttura φρένα βόρηται (medio o

passivo + accusativo di relazione), non mancano precisi riscontri: oltre al solito Theogn. 914 δάκνομαι ψυχήν, si veda Aristoph. Ach. 1 δέδηγμαι ... καρδίαν, Eur. Alec. 1110 (λύπῃ) καρδίαν δηχϑήσομαι. Persuasivamente Fraenkel 1962, p. 18, ha insistito sul valore passivo del citato δέδηγμαι aristofaneo. Un’analoga decisione, a proposito del saffico βόρηται, non mi pare possibile né rilevante.

Eros e autofagia

123

δηχϑεῖσα κέντροις ...ἠράσϑη --- e comico, cf. Aristoph. Ran. 66 (scherzosamente equivoco) δαρδάπτει πόϑος !.

Ma, a più specifico e dettagliato conforto della divagante e mordace vicenda d’amore, sarà da citare soprattutto Theocr. XII

64-71: Ἡρακλέης τοιοῦτος ἐν ἀτρίπτοισιν ἀκάνϑαις παῖδα ποϑῶν δεδόνητο, πολὺν

δ᾽ ἐπελάμβανε σχέτλιοι οἱ φιλέοντες, AA οὔρεα καὶ δρυμούς, κτλ.

μαινόμενος.

χαλεπὸς

γὰρ

muevos

χῶρον.

ὅσσ᾽ ἐμόγησεν

ὃ δ᾽ ἀ πόδες ἄγον ἐχώρει ἔσω ϑεὸς ἧπαρ ἄμυσσεν.

Nella elaborata versione alessandrina — che non tace le spinose lande e le boscose montagne, percorse in lungo e in largo dall’infelice Eracle, infelice perché senza più Ila — sono evidenti gli elementi comuni, ovviamente a Saffo più che ad Omero !!,

per l’identica circostanza, compatita dal poeta con un’esclamazione ‘fuori campo’: σχέτλιοι οἱ φιλέοντες (v. 66). Spiccano, assieme al nostalgico desiderio del fanciullo assente (ποϑῶν

esplicita ἐπιμνάσϑεισία]), il molto vagare e l’intima lacerazione. In un’architettata, si direbbe, imitatio cum variatione, dove: 1) il vagare dell'amante si annuncia, innovativamente, come utile ricerca dell’amato, ma si risolve, tradizionalmente, in vano ed anzi folle (μαινόμενος) errare senza meta (ὃ δ᾽ &

πόδες ἄγον ἐχώρει);

19 Sintomatico l’intervento dello scriba in Callim. Ep. XLIX 3 Pf. ἔν ἔρωτι δεδαυμένος (δεδαγμένος AP: Bentley). Ricercata la versione di Sen. Phae. 282 (plaga Cupidinis) vorat tectas penitus medullas. Degli esempi tragici sopra citati, i primi due sono reperibili in Cavallini 1986, pp. 34, 38. !! A prescindere da un possibile recupero del prototipo sentimentale, se

non omoerotico, reperibile, nel citato Πατρόκλου (cf. vv. 6, 12).

not éwv,

disperatamente

(cf. supra n. 7), dove Achille, δινεύεσκ᾽

ἀλύων

124

Ricerche intertestuali

2) ἧπαρ si sostituisce a φρήν, ma notoriamente φρένες ἧπαρ ἔχουσιν (ι 301), quale più intima sedes affectuum, in primis amoris, trae, doloris (TbGL IV, c. 183 C);

3) ἄμυσσεν succede a βόρηται, ma i metaforici /acero (cf. A 243 σὺ δ᾽ ἔνδοϑι ϑυμὸν ἀμύξεις) e edo (o mordeo) sono

spesso in rapporto di contiguità concettuale e discorsiva, cf. Plut. Mor. 624 ἃ τῇ πικρότητι τοὺς πόρους ἀμύσσειν καὶ δηγμὸν

ἐμποιεῖν, 913f ἄχνη

τις ἀμύσσει

καὶ δάκνει τὴν

ἐπιφάνειαν, e, soprattutto, Iul. Or. II 96a χρῆμα (sc. λοιδοgia) ... ϑυμοδακὲς ... καὶ ἄμυττον ψυχήν. Il soggetto χαλεπὸς ϑεός, nella frase attiva teocritea,

potrebbe infine suffragare il dativo d’agente (o di causa) ἱμέρῳ, che in Saffo si accompagna al passivo (o medio) βόρηται ἰ2. Se la dipendenza del testo teocriteo da quello saffico è almeno possibile, resta comunque certa la consonanza intertestuale: confortante per la sempre meno ‘unica’ storia cantata dalla poetessa di Lesbo.

"2 Risulta comunque superata la prima lettura di Schubart (cf. in proposito l'apparato della Voigt), il quale, accantonato KAPAIABAAETAI (ΒΑΡ Blass) al v. 17, rileggeva KHPACABOP. Ragionevolmente più guardinghe le successive autopsie: K[.]P ... BOP- Lobel (Page), fort. KAP Zuntz, ante BOP fort. £ Lobel (Page). Superata certamente anche la lettura IMEPQ2 al v. 16 (dipendente dunque da ἐπιμνάσϑεισία] e pertinente ad ἸΑτϑιδος), sempre di Schubart, vale ormai per tutti IMEPQI di Blass: l'attributo teocriteo χαλεπός potrebbe legittimare i sospetti circa la preesistenza di un truce aggettivo nel lacunosissimo κί. [0 ..., riferito a ἱμέρῳ (per cui, tentativamente, suggerivo x[a]o[xGo]w Così Page 1955, p. 211. 6 Così Bowra 1961, p. 138. ? Unico alleato Marzullo 1967, p. 103 («il tipo di armamento qui descritto è singolarmente arcaico, ignora le innovazioni apportate dalla tattica oplitica, in particolare la lancia qui sostituita da robuste spade calcidiche»: sulla sorprendente assenza della lancia, ben sottolineata da Page, v. infra). ® Così Fränkel 1968, p. 53; cf. 1969, p. 214; Trumpf 1958, p. 47 («das väterliche Haus?»).

Blasone e lotta armata

127

Arsenal sind Waffen nicht ‘Schmuck’ der Wände» °. Così, più di recente, Maurach ritiene risolta la pur spinosa questione, rifiutando semplicemente la qualifica di «exzentrisch und altmodisch» per l’armamento alcaico, preoccupandosi piuttosto di dimostrare come l’intero carme sia dominato non giä da un «ruhiges, sehr breites und selbstgefälliges Behagen», apprezzabile «dank dem langsamen Tempo» '°, bensì da un’autentica, progressiva tensione, dovuta proprio alla sentita attesa del combattimento. Il luccichfo delle armi, già utile a Teti per risvegliare in Achille la nostalgia della mischia, sarebbe ancora utile ad Alceo per suscitare nei compagni l’ansia del cimento !!. Vero è che tale pericoloso «Glanz der Waffen» ha rapito perfino gli occhi degli interpreti: ammaliati dal lucido bronzo, che invade quasi tutta l’ode (vv. 2-7), si sono premurati di saggiarne il pronto e indispensabile uso 12, dimentichi però dell’epigrammatica, e programmatica, dichiarazione finale (v. 8). La chiave del carme sta proprio nella sua breve chiusa. C’è infatti da chiedersi che cosa significhi — realisticamente inteso — il secco τῶν οὐκ ἔστι λάϑεσθϑ(αι). Che l’imminente ed impegnativo ἔργον non concede di scordarsi dell’indispensabile arma-

* Così Treu 1963, p. 158. 10 Così Fränkel 1968, p. 53. ! Così Maurach 1968, pp. 15 ss. I rilievi ‘archeologici’ sono a p. 16, n. 4. Quelli stilistici hanno un precedente nell’osservazione di Gentili 1965, p. 192 (cf. 1984, p. 57): «La precisa ed elaborata enumerazione ..., se anche ricalca formule di analoghe descrizioni epiche (ad es. Il. 3, 330 ss.), ha tuttavia una

personale impostazione di stile. Nel rapido incalzare dei periodi che procedono per paratassi senza nessi logici, nel ritmo impetuoso dei gliconei, rotti dalla clausola digiambica, è la gioia, l'attesa, l'ansia del combattente».

1? Nonostante le premesse, anche Page 1955, p. 212, concede che «it is ... Obvious that Alcaeus is describing the equipment of his comrades-in-arms, not that of legendary heroes», e conclude che «it may be inferred from the nature and occasion of the description that the objects are more numerous and more elaborate than usual» (p. 223). Più scettico Marzullo 1967, p. 103: «Se proprio si trattasse della sua casa ... e se il verso finale riconducesse ad un evento particolare, la trasfigurazione operata da Alceo acquisterebbe dimensione poetica stupefacente».

128

Ricerche intertestuali

mentario? La musicalissima 1" arringa suonerebbe paterna, fin

domestica predica. Stonata per un’eletta schiera di ἔταιροι. Ne varrebbe ad intonarla l’ipotesi di Maurach, realistica a metà, e

tuttavia pleonastica: se il magico luccichio già incanta lo sguardo dei presenti, sembra superfluo scongiurarne la distrazione.

Va invece rilevata la tipica connotazione di λαϑέσθϑαι e del reciproco μνήσασθϑαι, comune al linguaggio eroico ed aristocratico, quindi omerico prima che alcaico. Nell’Iliade λαϑέσϑαι e μνήσασϑαι (vel οὐδὲ λαϑέσϑαι) in connessione con

ἀλκῆς vel χάρμης, costituiscono persistente stilema, esprimono l’ovvio concetto del timore o dell’indugio e, viceversa, del

coraggio o dell’impegno nelle alterne vicende di guerra. Istrut-

tiva l'esortazione μνησώμεϑα χάρμης (O 477, T 148, cf. x 73), significativa l'equivalenza oi δὲ (sc. Τρῶες)

φόβοιο /

...

μνήσαντο, λάϑοντο dé ... ἀλκῆς (IT 356 s.), ma non meno

significativo il sèguito, dove ai troiani disanimati si contrappone l’intrepido, e quindi ben armato Aiace: Αἴας δ᾽ ὁ μέγας ... ἵετ᾽ ἀκοντίσσαι. ὁ δὲ ἰδρείῃ πολέμοιο, / ἀσπίδι Tavρείῃ κεκαλυμμένος κτλ. (vv. 358 ss.). Solo la morte può indurre l’eroe a ‘dimenticare’ la propria vocazione: κεῖτο (sc. ὁ Κεβριόνης) μέγας μεγαλωστὶ λελασμένος ἱπποσυνάων (II 776).

In Alceo λάϑεσθϑαι e μνάσϑην puntualmente riaffiorano, a indicare una situazione ancor più specifica. Le audaci imprese, regolare oggetto del dimenticare o del ricordare, si collocano preferibilmente nel passato. Paradigmatico il fr. 6 V., che svolge

9. Dalla μουσική, anticamente valida a risvegliare il coraggio, Ateneo prende lo spunto per citare i versi di Alceo, ποιητὴς πολεμικός eppure povσικώτατος (cf. supra). Dopo aver accennato all’antico uso dorico di introdurre αὐλὸν καὶ ῥυϑμὸν εἰς τὸν πόλεμον, cioè ὄργανα μουσικά in funzione bellica (626 ὃ), il testimone passa agli ὄργανα πολεμικά, delizia del pur lirico Alceo (già Archiloco si professava prima ϑεράπων ... "Evvakioıo, e poi Movotwy ... δῶρον ἐπιστάμενος: 627 ς = fr. 1 W.), per tornare nuovamente alle marce spartane μετ᾽ αὐλῶν, a quelle cretesi μετὰ λύρας, a quelle lidie μετὰ συρίγγων καὶ αὐλῶν (ibid. d).

Blasone e lotta armata

129

il classico tema del μὴ καταισχύνειν γένος, secondo i principi ancora una volta aristocratici e già epici !*. Nel momento del pericolo, per non infamare la propria schiatta, è necessario e sufficiente seguire l'esempio dei padri, ricordandone le trascorse gesta. Di fronte al minaccioso incalzare del κῦμα, Alceo grida ai compagni μνάσϑητε τὼν πάροιϑε μ[όχϑων (v. 11), e quindi

μὴ

καταισχύνωμεν

...

/

ἔσλοις

τό-

κηας (vv. 13 5.). Identica la dinamica del nostro carme: una determinata occasione di lotta (ἔργον τόδε) fa scattare in Alceo

la molla della parenesi — una ἐπ’ ἀνδρείαν προτροπή intendeva appunto consegnarci il testimone Ateneo —, che si traduce nel rituale richiamo alle glorie acquistate dagli avi, qui evidentemente testimoniate dai loro tangibili cimeli. Non a caso, dunque, le armi additate dal poeta appaiono «old-fashioned»: sono in realtà autentici trofei, costituendo il simbolo — per così dire araldico — di una nobile e antica tradizione, cui la dizione

epica conferisce adeguato suggello formale.

Del resto, una precisa conferma — della determinante connotazione di λάϑεσθϑά(αι) e della valenza propriamente araldica dell’armamentario — sembra offrirla lo stesso Alceo, volentieri

impegnato nell’esibizione del proprio lignaggio quanto nel disprezzo dei κακοπάτριδαι. Nel fr. 72 V., dopo un'accusa di alcolica débauche, rivolta a chi è condizionato da abitudini evi-

dentemente barbare (vv. 3 5. λάβρως ... / πίμπλεισιν ἀκράtw),

segue

un’istruttiva

frecciata:

κῆνος

δὲ

τούτων

οὐκ

ἐπελάϑετο / ὥνηρ, ἐπεὶ δὴ πρῶτον ὀνέτροπε (vv. 7 s.), che ha finora costituito, per il nostro τῶν οὐκ ἔστι λάϑεσθ᾽ ἐπεὶ / δὴ πρώτιστ(α) xTÀ., riscontro puramente formale. Gli ultimi tre versi rimasti (vv. 11 ss. σὺ δὴ τεαύτας ἐκγεγόνων Eyn κὰτ av... κατέπερθεν) sembra sottolineare l’alta posizione delle κύνιαι; la sommità del tempio si atteggia ad eroica, collettiva κεφαλή. Il valore stesso di ἄγαλμα è in bilico fra decus e honor, in perfetto parallelo con κεκόσμηται: in Hom. κοσμεῖν vale ‘to order’ (B 554 κοσμῆσαι ἵππους καὶ ἀνέρας), oppure ‘to prepare’ (n 13 δόρπον ἐκόσμει), mentre il significato di ‘to adorn’ è presente in HVen. 65 κρυσῷ κοσμηϑεῖσα ... ᾿Αφροδίτη, cf. HHom. VI 11, Hes. Op. 72 (cf. LS] p. 984), ma già in Ξ 187 κόσμος ha il valore di decus, ed in A 145 κόσμος (ἵππῳ ἐλατηῆρί te κῦδος) è detto de rebus decus honoremve afferentibus, come in Pind. N. II 12 κόσμον ᾿Αϑάναις, etc. (cf. TAGL Vc. 1870 A). Particolarmente istruttivo il κόσμος cui fa riferimento Herodot. II 123 τὸν κόσμον τὸν ἐκ τοῦ ἀνδρεῶνος ... ἀνέϑηκε πάντα ἐς τὸ Ἥραιον: si tratta dell’armamentario di Policrate, che il suo ex-segretario preleva dall’apposita sala per dedicarlo al tempio di Era. 3 Non sorprende, ormai, che si tratti di un prezioso ed esotico indumento, come pure il κύπασσις del v. 7, cf. Page 1955, p. 215: «But the linen tho-

rex is a rarity: barbarians may wear it». Ed è quindi inevitabile che costituisca un rituale ex voto. Il re egiziano Amasi ne depose uno nel tempio di Atena a Lindo (Herodot. II 182); Gelone tre ad Olimpia, per commemorare la vittoria

138

Ricerche intertestuali

ıeratica immobilità, le ultime cose: σπάϑαι, ζώματα, κυπάσ-

σιδες. Il pur lento ‘atterraggio’ sembra richiamare, ancora simbolicamente, la dura realtà: di qui il conclusivo grido ammonitore. Prima di definire, eventualmente, l’entità archeologica di

un tale ‘tempio di Ares’, sarà il caso di rispondere ad alcune pre-

vedibili obiezioni circa il valore ‘araldico’ dei preziosi ἀναϑήματα, da noi ipotizzato con qualche provocatorio, ma consapevole estremismo. Estremistica, magari inconsapevolmente, ci sembra comunque l’ipotesi ‘prospettica’ — in vista cioè di un effettivo uso di elmi e schinieri — che si vorrebbe obbligatoriamente indicata dalle due apposizioni ‘finali’ κεφάλαισιν Av- / ὅρων ἀγάλματα (v. 4) e ἔρκος ἰσχύρω βέλεος (v. 5): apposi-

zioni che continuiamo a ritenere normalmente qualificative (sul valore onorifico oltre che ornamentale, almeno di ἀγάλματα, ci

siamo già soffermati) ?*. Né ci imbarazza la presenza di corazze νέω λίνω. Proprio perché dichiarata, l'integrità dei ‘fiammanti’ corsetti, indicherà

(già si accennava)

enfaticamente

l'eccezionale stato degli esotici trofei: sarà pur concesso ad Alceo di esagerare (ex poète!) valore e fulgore dell’armamentario! Che tale armamentario risulti in gran copia si spiega con la realtà comunitaria (già da noi evidenziata) del μέγας δόμος, luogo da tempo deputato per la devota custodia ?”. Resta viceversa inspiegata, nel caso dell’ipotesi ‘utilitaristica’, la formale insistenza sulla funzione decorativa (κεκόσμηται, πασσάλοις κρύπτοισιν) delle armi così bellamente disposte, anzi esposte, evidentemente alla memoria (τῶν οὐκ ἔστι λάϑεσϑίαι]). E

sui Cartaginesi (Paus. VI 19, 7), cf. Page, /c., che avverte inoltre: «Similar

dedicatiòn might be seen in numerous sanctuaries, especially at Gryneum (Paus. I 21, 7)».

:

6 Cf. supra n. 34. Del valore ‘prospettico’ o ‘finale’ per le due apposi-

zioni è convinto Résler 1980, pp. 159 s.

” Per tali obiezioni, cf. ancora Rösler 1980, p. 156 n. 111 (sull’imbarazzante novità dell'armamento si pronuncia anche Gentili 1984, p. 57 n. 58).

Blasone e lotta armata

139

resta pur sempre inspiegata la doppia z»passe, costituita dall’armeria eccentrica e ‘relativamente’ (come talora si concede) fuori

moda. Impasse per nulla superata dalla recente autorità di Snodgrass, di cui conviene forse riportare a questo punto, e alla lettera, la succinta opinione in merito al nostro Alceo, dato come

obiettivo testimone di una panoplia oplitica: «Apart from the linen corslets and the belts which go naturally with them, this is

standard hoplite equipment, though the spear, curiously enough, is absent» ᾿8. Questa sentenza (che non tace peraltro la ‘curiosa assenza’ della lancia) continua a sembrarci sbrigativa e dunque non risolutiva: un sostegno illusorio, in quanto assolutamente speculare, della communis opinio dei critici ‘letterati’ (a partire dai Deipnosofisti). Di qui il nostro tentativo d’interrompere il circolo vizioso imboccando risolutamente — e momentaneamente prescindendo dall’aspetto ‘realistico’ del problema — la ‘via dell’analisi formale. Che di necessità riporta la ‘parola’ alcaica alla ‘lingua’ poetica già omerica, il cui codice obbliga però ad una precisa esegesi: la dizione polare λάϑεσϑαι / μνήσασϑαι, assieme alla denominazione μέγας δόμος, ha condotto ad una soluzione certamente inedita, ma non gratuita. Solo secondariamente, lo ammettiamo, ci ha appassionato la problematica realtà del cosiddetto «hoplite equipment», primario finora, se non unico, oggetto d'attenzione filologica. Tale esclusiva attenzione ha peraltro impedito il recupero di una ricca trama di testi in ‘dialogica’ consonanza col nostro, testi meritevoli — come subito appureremo — di una lettura sinottica e ‘coerente’. Oltre al citato Aesch. Ag. 578 s. ϑεοῖς λάφυρα πάντα τοῖς καϑ᾽ Ἑλλάδα δόμοις ἐπασσάλευσαν ἀρχαῖον γάνος, converrà non trascurare Eur. Εἰ. 1000 5.

# Così Snodgrass 1967, p. 65.

140

Ricerche mtertestuali

σκύλοισι

μὲν

yùo

ϑεῶν

xexbounvtat δόμοι

Φρυγίοις κτλ. né Rhes. 179 s.

"Ex. Ao.

καὶ μὴν λα φύρω ν δ' αὐτὸς αἱρήσῃ παρών ϑεοῖσιν αὐτὰ πασσάλευε πρὸς δόμοις,

né, soprattutto, Heraclid. 695 ss. tot

ἐν

δόμοισιν

ἔνδον

αἰχμάλωϑ᾽ ὅπλα

τοῖς δ᾽ οἷσι χρησόμεσϑα: κἀποδώσομεν, ζῶντες, ϑανόντας δ᾽ οὐκ ἀπαιτήσει ϑεός. ἀλλ᾽ εἴσιϑ᾽ εἴσω κἀπὸ πασσάλων ἑλὼν Every ὁπλίτην κόσμο ν ὡς τάχιστά μοι,

su cui dovremo ritornare °”.

Se innegabile, in tutti e quattro i luoghi, è «l’impiego pressoché costante di certi termini-chiave» di positiva memoria alcaica (κοσμεῖν, πασσαλεύειν,

δόμοι), non credo tuttavia

si tratti obbligatoriamente di «quattro puntuali richiami ad Alcae. fr. 140» *. La stessa riconoscibile stereotipia del motivo dei λάφυρα nemici appesi alla ‘dimora degli dei’ sconsiglia di stabilire legami ‘intenzionali’, cioè allusivi, fra autore e autore. Ma ancora più confortante risulta l’oggettiva trama intertestuale, dove la ‘parola’ alcaica si evidenzia come parte di una ‘lingua’ così solidamente codificata da poter subire l’urto della parodia aristofanea. Allo stesso intertesto scherzosamente appartiene Plut. 940 ss., quando Carione appende una πανοπλία — ad un oleastro situato nei pressi del tempio, secondo l’uso rituale,

# Il confronto con Eur. Εἰ 1000 5. spetta a Tammaro

1975-77, p. 55; i

due ulteriori luoghi euripidei alla Cavallini 1986, pp. 150 s., cui si deve anche il richiamo ad Aristoph. Plut. 940 ss. (v. infra).

© Così Cavallini 1986, p. 150.

Blasone e lotta armata

141

come avverte lo scoliasta — che il δίκαιος ἀνήρ intende dedicare al dio Pluto: ma l'armatura non è che l’abito consunto e l’oleastro il Sicofante. Sembrerebbe definitivamente morto, e sepolto dalla ‘sere-

na’ canzonatura di Aristofane, il già logoro /0pos, capace invece di una (polemica?) reviviscenza presso i poeti dell’Antologia Palatina, che vorremmo qui in ultimo esporre come l’autentica e pur singolare fortuna allusiva del carme alcaico, nella fattispecie in forma epigrammatica. Forse memore la xgàveta di Anite, che ha finalmente smesso di stillare χάλκεον ἀμφ᾽ Svuya ... φόνον datwv, per celebrare la trascorsa ἀνορέαν Κρητὸς ’Eχεκρατίδα, appesa ἀνὰ μαρμάρεον δόμον ... ᾿Αϑάνας (I G.-P. = AP VI 123). Certo più ammiccante il ‘fulgore’ di Leonida, Antipatro di Sidone, Meleagro. Il primo registra le proteste di Ares, che si vede il tempio adorno di armi troppo lustre e intatte per i propri truculenti gusti (XXV G.-P. = APIX 322): Οὐκ ἐμὰ ταῦτα

λάφυρα:

τίςὁ

ϑριγκοῖσιν

ἀνάψας "Agnog ταύταν τὰν ἄχαριν χάριτα; ἄκλαστοι μὲν X Ww voı , ἀναίμακτοι δὲ γανῶσαι ἀσπίδες, ἄκλαστοι δ᾽ αἱ κλαδαραὶ κάμακες.

παστάδα τις τοιοῖσδε καὶ κοσμείτοω καὶ τὸν Ἄρευς δ᾽ αἰματόεντα νηὸν xogpuoin:

ἀνδρειῶνα καὶ αὐλὰν νυμφίδιον ϑάλαμον, διωξίπποιο λάφυρα τοῖς γὰρ ἀρεσκόμεϑα.

Il secondo sembra gareggiare col primo (LX G.-P. = AP IX 323): Τίς

ϑέο

μαρμαίροντα

ϑβοάγρια,

τίς è ἀφόρυκτα

δούρατα καὶ ταύτας ἀρραγέας κόρυϑας, ἀγκρεμάσας

ἼὌἌΛρηι μιάστορικόσμον ἄκοσμον;

142

Ricerche intertestuali

οὐκ ἀπ᾽ ἐμῶν ῥίψει ταὐτά τις ὅπλα

δόμων

;

Il terzo pare accostarsi al primo più che al secondo (CXX G.-P. = APVI 163): Τίς τάδε μοι ϑνητῶν «ὁ» περὶ

ϑριγκοῖσιν

ἀνήῆ-

ψεν

σκῦλα, παναισχίστην τέρψιν Evvaklov; οὔτε γὰρ αἰγανέαι περιαγέες οὔτε τι πήληξ ἄλλοφος οὔτε φόνῳ χρανϑὲν ἄρηρε σάκος, ἀλλ᾽ αὔτως γανόων τα καὶ ἀστυφέλικτα σιδάρῳ

οἷά περ οὐκ ἐνοπᾶς ἀλλὰ χορῶν ἔναρα᾽ οἷς ϑάλαμον κοσμεῖτε γαμήλιον"

In chiave allusiva, la fortuna alessandrina delle luccicanti armi alcaiche, già appese al ‘tempio di Ares’, andrebbe così narrata: Leonida esordisce con i ϑριγκοί "Aonog (cf. Palcaico "Aq ... στέγα), per poi sciorinare una «Aufzählung mit Nominativen ohne Verbum», stilisticamente già collaudata da Alceo *!. Sistema in prima posizione i κῶνοι, omologhi e (quasi) omofoni delle sorpassate κύνιαι. Sdegna, ovviamente, le armi γανῶσαι, con sottile riferimento alle armi λάμπραι (cf. T 359 κόρυϑες λαμπρὸν γανόωσαι) alcaiche. Insiste, infine, sull’indispensabile κοσμεῖν. Antipatro, con evidente estro emulativo, recupera il prezioso paguaigew, non a caso in posizione ini-

ziale, varia l’alcaico *Agn κεκόσμηται otéya con ἀγκρεμάσας "Ani ... κόσμον, chiama perfino il tempio δόμοι. Meleagro, non rinunciando al solito κοσμεῖν, accenna, di contro ai depre-

cabili ἔναρα γανόωντα, ad un’auspicabile πήληξ ἄλλοφος, negativamente memore delle alcaiche κύνιαι, munite di λόφοι.

Al commento di Waltz, il quale ipotizza una «satire viru- ὦ lente des gens belliqueux qui consacrent des armes à Arès sans jamais avoir fait la guerre» 42, obiettano Gow e Page che «Me-

“ Così puntualmente Fränkel 1968, p. 82. 2 Così Waltz 1960, p.91 n. 1.

Blasone e lotta armata

143

leager cared nothing for these things» “5. La polemica di Meleagro, come quella dei suoi colleghi alessandrini, si spiega bene, in realtà, solo in termini squisitamente letterari. I tre ‘correggono’, a gara, la celebre ode di Alceo, che prospettava un δόμος ἼΑρηος purtroppo carico di λάφυρα μαρμαίροντα: idonei, secondo il pedante consiglio di Leonida, ad abbellire un ambiente domestico, una παστάς, un ἀνδρειών (!), un’adàà,

perfino un νυμφίδιος ϑάλαμος, non certo la marziale dimora del dio, come voleva far credere il grande, ma incauto poeta.

Del resto, non aveva già Eteocle dichiarato inoffensiva la troppo rutilante panoplia di Tideo? Al messaggero che ne descriveva il minaccioso fulgore, Eteocle infatti (Aesch. Sepi. 397 ss.) rispondeva κόσμον μὲν ἀνδρὸς οὔτιν᾽ ἂν τρέσαιμ᾽ ἐγώ, οὐδ᾽ ἑλκοποιὰ γίγνεται τὰ σήματα'

λόφοι

δὲ

κώδων

T

οὗ

δάκνουσ᾽

ἄνευ δορός.

«Il n’est pas de blason

qui fasse de blessure»: questo, tra-

dotto elegantemente (Mazon), il senso dell’austera requisitoria,

non priva di un’essenziale censura per quei pennacchi e sonagli che «ne déchirent sans le sécours de la lance». Una fortuita chiosa alla rassegna alcaica, dove la lancia brilla unicamente per la propria assenza: una pura casualità, che assieme però ad altre suggestive coincidenze (ai vv. 400 s. lo scudo cesellato di Tideo raffigura νύκτα ... pagpaigovoav!), conferma almeno la tradizione dimostrativa, se si vuole propagandistica *, del ‘fulgore dell’armi’. L’iterata ripresa alessandrina — una sorta di catena allusi-

va, capace di agganciare Alceo a Meleagro, per insinuante ma 4 Così Gow-Page 1965, p. 670. 4 Sulla tematica del passo eschileo, cf. Cavallini 1986, pp. 147 s. Non mi convince tuttavia la programmatica individwikione di immediati «punti in comune con il carme di Alceo» (cf. p. 148).

144

ferma

Ricerche

‘memoria’ —

νον

μὲ

non serve, evidentemente,

ad imporre la

presenza archeologica di un ‘tempio di Ares’ a Lesbo, ma semplicemente a convincere dell'entità sacrale del μέγας δόμος alcaico: le cui armi λάμπραι non possono, peraltro, non richiamare gli analoghi fulgidi attrezzi che, a detta dello stesso Alcae. 383,2 V.

τἄρμενα λάμπρα κέοντ᾽ ἐν Μυρσινήῳ,

giacciono in un tempio o in un beroon ὅδ, Ipotesi, quest’ultima,

non impossibile, magari in seconda istanza, per lo stesso μέγας δόμος alcaico: in tal caso Ares sarebbe invocato per antonoma-

sia. Non impossibile perfino l’uso

eccezionale

dei sacri

cimeli: Iolao, s'è visto, meditava di usare le armi tolte al nemico

e giacenti nel tempio perché dedicate al dio, ma si riprometteva di restituirle in caso di salvezza. La normale inviolabilità degli αἰχμάλωϑ᾽ ὅπλα di pro-

prietà templare è affabulata in un capitolo di storia erodotea. In occasione dell’eroica resistenza di Delfi al barbaro invasore, proprio nel momento in cui i Persiani sono in grado di ‘vedere’

il santuario, e davanti agli occhi non meno attoniti del προφήτης (rimasto di guardia in compagnia di sessanta uomini), accade che, miracolosamente, ὅπλα ἀρήϊα αὐτόματα φανῆναι ἔξω προκείμενα τοῦ νηοῦ, precisamente gli ὅπλα

prima definiti ἱρά, τῶν οὐκ ὅσιον ἦν ἅπτεσθαι ἀνθρώπων οὐδενί, custoditi nel μέγαρον (VIII 37). I Persiani, intenzio-

nati a saccheggiare il favoloso ϑησαυρός, ben noto a Serse specie per i preziosi Κροίσου ἀναϑήματα, fuggono persuasi dal simbolico avvertimento *. Assolutamente simbolici gli ἀναϑήματα alcaici o eccezio-

nalmente utili come i pur sacri λάφυρα euripidei? La risposta qui non interessa. Ci basta di avere appurato, per via non solo 4 Per la prima ipotesi, cf. Lobel 1927, p. LKXXVII; per la seconda, Mazzarino 1943, p. 69 n. 3. * Devo il confronto erodoteo ad un suggerimento di Agostino Masaracchia.

145

Blusone e lotta armata

intertestuale stricto sensu (entro i confini propriamente letterari), ma anche contestuale (col supporto di un ‘auratico’ documento storico), la sacra legittimità, e funzionalità, del finora misconosciuto μέ γα ς δόμος di Alceo: cui non dovrebbe più negarsi

(almeno in prima istanza) la (possibile) dimensione archeologica del μέγαρον (per usare la dizione erodotea, cioè dell'interno’ di un imprecisato tempio, da collocarsi nel citato τέμενος μέγα Eùvov?), contenitore di ὅπλα à 0 ἡ ia (l’ovvia e tradizionale dizione erodotea insinua un ulteriore dubbio in favore di una letturadi”Agpinsenso antonomastico). Svanita comunque la laica dimensione dell’&vöopwv, troppo angusta per il μέγας δόμος rigurgitante di armi votate ad Ares,

anche

l’archeologo

dovrebbe

non

sorprendersi

del

recupero (purtroppo solo verbale) di un sacro contenitore d’armi alquanto speciali, dal momento che lo stesso archeologo dichiara senza difficoltà che, in generale, i rinvenimenti di armi degni del maggiore interesse «provengono soprattutto da san-

tuari», e che, più in dettaglio, nel caso ad esempio della bronzistica cretese, dove le conoscenze archeologiche possono dirsi particolarmente vaste, lo «straordinario rinvenimento avvenuto ad Arkades» dimostra che «probabilmente l’intera armatura tolta a un avversario — formata da elmo, corazza e mitra —

poteva in qualche caso essere dedicata nel santuario»; ed ancora, sempre per quanto concerne la bronzistica, nel continente greco e in epoca più che mai ‘eroica’, «esempi molto notevoli sono quelli provenienti dai santuari, in particolare da Olimpia»: qui, a testimoniare l’importanza delle offerte, stanno «armi persiane del bottino di Maratona», mentre lì, cioè a Creta, dove «la

ricchezza delle armi di Arkades...permette di ricostruire il panorama della metallurgia cretese attorno alla metà del VII secolo», le armi ritrovate sono presumibilmente da ascrivere alle officine di Gortina, poiché «i cittadini di Lyttos dedicarono nel santuario le spoglie dei vinti della tradizionale avversaria» *. Interes# Cosi Giuliano 1986, pp. 162 ss. e 403, cui rimando per un'efficace sintesi del più recente stato della questione (e per la bibliografia in merito).

146

Ricerche intertestuali

sante, per chiudere, l'osservazione di Snodgrass a proposito di alcuni inusuali rinvenimenti di armi: «The two sanctuaries of Hera on Samos and Athena at Lindos have yielded specimens of

armour, but these are often of unorthodox type» #. La scarsa ortodossia delle armi alcaiche si spiega appunto con la loro speciale qualità e collocazione: l’una eccentrica, quando non antiquata, e l’altra sacrale. L’una e l’altra funzionali alla memoria: τῶν οὐκ ἔστι λάϑεσϑί(αι), ne deduceva Alceo.

4. Cf. Snodgrass 1967, p. 65.

Capitolo ottavo PATEMID’AMORE (Apollonio, Teocrito e Saffo)

Si è già notato che «stranamente i commentatori di Teocrito hanno richiamato il confronto con Saffo solo a proposito dei vv. 106 ss.» ! delle Incantatrici, quando Simeta — memore dei turbamenti descritti nell’Ode celeberrima Φαίνεταί μοι κῆνος κτλ. (fr.31V.)—registrale propriereazionipsicofisichealsopraggiungere ποδὶ κούφῳ dell’amatissimo Delfi. Piuttosto gli studiosi di Saffo hanno scoperto tracce ulteriori della sua ‘fortuna’ nei vv. 82 ss.delmedesimoldillio teocriteo (II) 2, quando Simeta è folgorata dalla primavista di Delfi. Si è parimenti osservato che lo stesso Apollonio distingue in due tempi (III 284 ss. e 962 ss.) la ‘sindrome’ di Medea al

cospetto di Giasone ?, mentre è stata dimostrata l’indubbia relazione fra l’Ode saffica ed entrambi i passi di Apollonio ‘. È mancato però uno sguardo sinottico a tutti e tre gli autori, oppure, se si vuole, ai due autori alessandrini raffrontati sul modello arcaico: sguardo motivato non solo dalla descrizione,

ugualmente scandita in due atti, del ‘colpo al cuore’ e di Medea e di Simeta, ma soprattutto dall’innovativa coincidenza dell’ i rrigidimento. — ἀλλ᾽ ὑπένερϑε πάγη πόδας e ἀλλ᾽ ἐπάγη ... καλὸν χρόα, rispettivamente in Apollonio (ν. 965) e

! Così Pretagostini 1984, p. 105 n. 1. 2 Da Turyn 1929, p. 90 e passim, a Page 1955, p. 22; Privitera 1969 è, pp. 43, 73; Voigt 1971, pp. 58 s. Il confronto, da parte di Page e Voigt, si appunta sulla responsione ὡς ... ὥς, per cui cf. Bühler 1960, pp. 119 s.; e, soprattutto, Timpanaro 1978, pp. 233 ss. (ma v. irfra). Per ulteriore bibliografia, rimando a Pretagostini /.c. > C£. Privitera 1969 b, p. 71, nonché Pretagostini 1984, pp. 107 n. 5, 113

s., il quale osserva come la doppia ripresa riguardi sia Teocrito sia Apollonio. * Cf. Privitera 1969 5, pp. 71 5.

148

Ricerche intertestuali

Teocrito (v. 110) — in luogo del

tre

more

di Saffo (vv. 13 5.

τρόμος δὲ / παῖσαν ἄγρει).

Tale nuovo sintomo sarà imputabile, per primo, ad Apollonio o a Teocrito? Si affaccia, insomma, anche una questione di

priorità (sia pure ridotta nei confronti di quella, famosa, tra l’episodio di Ila nel libro I delle Argonautiche e l’Idillio XII), non priva, come vedremo, di qualche proficuo esito. Converrä riportare, in successione, i testi di Saffo, Apollonio, Teocrito.

Sapph. 31, 7 ss. 8

12

ὡς γὰρ «ἔς» σΐδω βρόχε᾽ ὥς pe φώνησ᾽ οὐδὲν ἔτ᾽ εἴκει, ἀλλὰ Τκαμτ μὲν γλῶσσα TEayet, λέπτον δ᾽ αὕτικα χρῷ πῦρ ὑπαδεδρόμακεν, ὀππάτεσσι δ᾽ οὐδὲν ὄρημμ᾽, ἐπιβρόμεισι δ'ἄκουαι, ἐέκαδεν μἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ παῖσαν ἄγρει, XAwpotj£pa δὲ πιοίας ἔμμι, tedvaxnv δ᾽ ὀλίγω ᾿πιδει)ύης 7

Ap. Rh. III 284 ss., 962 ss. ἧκ᾽ ἐπὶ Mndein: τὴν δ᾽ ἀμφασίη λάβε ϑυμόν. 285

αὐτὸς δ' ὑψορόφοιο παλιμπετὲς ἐκ μεγάροιο καγχαλόων ἤιξε- βέλος δ᾽ ἐνεδαίετο κούρῃ νέρϑεν ὑπὸ κραδίῃ, φλογὶ εἴκελον. ᾿Αντία δ᾽ αἰεὶ βάλλεν En’ Αἰσονίδην ἀμαρύγματα, καί οἱ ἄηντο

στηϑέων ἐἐκ πυκιναὶ καμάτῳ φρένες: οὐδέ τιν᾽ ἄλλην 290

μνῆστιν ἔχεν, γλυκερῇ δὲ κατείβετο ϑυμὸν ἀνίῃ.

ὡς δὲ γυνὴ μαλερῷ περὶ κάρφεα χεύετο δαλῷ χερνῆτις, τῇ περ ταλασήια ἔργα μέμηλεν, 295

ὡς κεν ὑπωρόφιον νύκτωρ σέλας ἐντύναιτο, ἄγχι μάλ᾽ ἐγρομένη᾽ τὸ δ᾽ ἀϑέσφατον ἐξ ὀλίγοιο δαλοῦ ἀνεγρόμενον σὺν κάρφεα παντ᾽ ἀμαϑύνει᾽ τοῖος ὑπὸ κραδίῃ εἰλυμένος αἴϑετο λάϑρῃ

° Iltesto è quello di Voigt 1971, p. 58.

Patemi d'amore

149

οὖλος ἔρως" ἁπαλὰς dè μετετρωπᾶτο παρειὰς

ἐς χλόον, ἄλλοτ᾽ ἔρευϑος, ἀκηδείῃσι νόοιο.

ἐκ δ᾽ ἄρα οἱ κραδίη στηϑέων πέσεν, ὄμματα δ᾽ αὕτως ἤχλυσαν, ϑερμὸν δὲ παρηίδας εἷλεν ἔρευϑος: γούνατα δ᾽ οὔτ᾽ ὀπίσω οὔτε προπάροιϑεν ἀεῖραι 965

ἔσϑενεν, ἀλλ᾽ ὑπένερϑε πάγη πόδας. ?

Theocr. II 82 ss., 106 ss.: x&g ἴδον, ὡς ἐμάνην, ὧς μοι πυρὶ ϑυμὸς ἰάφϑη 85

δειλαίας, τὸ δὲ κάλλος ἐτάκετο. οὐκέτι πομπᾶς τήνας ἐφρασάμαν, οὐδ᾽ ὡς πάλιν οἴκαδ᾽ ἀπῆνϑον ἔγνων, ἀλλά μέ τις καπυρὰ νόσος ἐξεσάλαξεν,

κείμαν δ᾽ ἐν κλιντῆρι δέκ᾽ ἄματα καὶ δέκα νύκτας. φράζεό μευ τὸν ἔρωϑ᾽ ὅϑεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

καί μευ χρὼς μὲν ὁμοῖος ἐγίνετο πολλάκι ϑάψῳ, ἔρρευν δ᾽ἐκ κεφαλᾶς πᾶσαι τρίχες, αὐτὰ δὲ λοιπὰ 90

110

ὀστί᾽ ἔτ᾽ ἧς καὶ δέρμα κτλ.

πᾶσα μὲν ἐψύχϑην χιόνος πλέον, ἐκ δὲ μετώπω ἱδρώς μευ κοχύδεσκεν ἴσον νοτίαισιν ἐέρσαις, οὐδέ τι φωνῆσαι δυνάμαν, οὐδ᾽ ὅσσον ἐν ὕπνῳ κνυζεῦνται φωνεῦντα φίλαν ποτὶ ματέρα τέκνα᾽ ἀλλ᾽ ἐπάγην δαγῦδι καλὸν χρόα πάντοϑεν ἴσα ὅ.

Non sarà il caso di insistere sulle peculiarità del ‘prototipo’, patografico oltre che poetico, la cui fortuna non sembra avere pari in tutta l’antichità, e non solo. Ne aveva già tentato di svelare la ‘misteriosa’ bellezza l’Anonimo, autore del Περὶ ὕψους, il quale indicava la maestria di Saffo in quel suo descrivere oggettivamente disturbi per natura soggettivi come tà συμβαίνοντα ταῖς ἐρωτικαῖς μανίαις παϑήματα, quasi ‘stra6. Il testo è quello di Gow 1952, I pp. 22, 24. ? Il testo è quello di Vian 1980, pp. 62, 91.

150

Ricerche intertestuali

niando’ da sé anima e corpo (e orecchie e lingua e occhi e pelle), perfino esibendo la contraddizione dell’agghiacciare con ardore, ma sempre riuscendo a ‘scegliere’ e a ‘combinare’ i tratti ‘essenziali’ di tale ridda di passioni 3. All’antica lettura dell’Anonimo del Sublime si è programmaticamente ispirata una recente analisi del testo saffico, volta ad individuare la logica delle scelte e dei collegamenti di quei tratti essenziali, mostrando come l’insieme dei vari disturbi,

malgrado l’apparenza caotica, risponda ad una «puntuale simmetria», per cui παϑήματα si rivelano connessi due a due, in parallelismo o in opposizione, di modo che le coppie parallele risultano contigue, mentre quelle oppositive si presentano scisse e variamente distanziate: il reciproco rapporto è tuttavia ricono-

scibile perché tradizionale. Così la coppia (a) — il cuore è sconvolto nel petto (vv. 5 s.) mentre il tremito prende tutta la persona (vv. 13 s.) — è già, ad esempio, in K 94 5, κραδίη dé μοι (1.6. Agamennone) ἔξω

στηϑέων ἐκϑρώσκει, τρομέει δ᾽ ὑπὸ φαίδιμα γυῖα. Anche

l’afasia, ‘raddoppiata’ nella coppia (b) — la voce manca (vv. 7 s.) perché la lingua è spezzata (v. 9) — ricorre in Omero, quando Antiloco è colto, per la morte di Patroclo, da ἀμφασίη ἐπέων, poiché a lui ἔσχετο φωνή (P 694 ss.). La

coppia oppositiva (c) tra caldo interno e freddo esterno è invece riscontrabile negli Aforismi ippocratici (IV 48, IV p. 520 L. ἐν τοῖσι μὴ διαλείπουσι πυρετοῖσιν, ἢν tà μὲν ἔξω

ψυχρὰ ἧ, τὰ δὲ ἔνδον καίηται, καὶ δίψαν ἔχῃ, ϑανάσιμον). L’abbinamento (d) della vista e dell’udito (vv. 11 5.) è

ancora una volta epico (cf., e. g., Q 362, x 32). La quinta ed ultima coppia (e), pallore-morte (vv. 14 ss.), sembra aver biso-

gno di più immediati paralleli poiché «per Omero la morte non era pallida, come poi sarà in Orazio (Carr. I 4, 13), ma

purpurea oppure nera perché oscura la vista» : già in Omero compare però il mito di Cloride, la sposa di Neleo, re di Pilo, in realtà di Neleo-Ade, per cui «la ‘pallida’ sposa di Neleo in realtà è la regina degli Inferi» 19. E già nello Scutum pseudoe* Cf. X 3: se ne veda la puntuale analisi di Privitera 1969 a, pp. 27 ss. * CE. Privitera 1969 è, pp. 60 ss. 1 Così Privitera 1969 £, p. 66.

Patemi d’amore

151

siodeo (vv. 264 s.) l’’ AyA0g — personificazione dell’omerico ottenebramento della vista, associato alla morte, cf., e. g., E

696 τὸν δὲ λίπε ψυχή, κατὰ è’ ὀφθαλμῶν κέχυτ᾽ ἀχλύς --è definita χλωρή ".

Abbiamo ritenuto di riportare, almeno succintamente, le cinque ‘coppie’ con i relativi precedenti ‘tradizionali’, poiché tale «rinvenimento», come avverte lo stesso autore, «non ha sol-

tanto il valore strumentale di una conferma dell’interpretazione proposta, ma contribuisce a ricostruire un settore del gusto e del patrimonio espressivo del pubblico a cui l’ode era destinata» 12,

Si è tuttavia obiettato, da ultimo, che difficilmente Saffo avrà «stralciato» dai vari contesti omerici i diversi sintomi prodotti, di volta in volta, dalla paura, dal dolore, dall’imminenza della morte, etc., per comporre un tutto unitario, mentre, «partendo dal concetto dell'amore come sofferenza-malattia», sem-

bra più congruo insistere sugli analoghi sintomi reperibili nel Corpus Hippocraticum, dove, oltre ai paralleli già noti, altri presentano istruttive somiglianze, in particolare la vera e propria sindrome di Aff. int. 49 ὅτε δὲ καὶ ἐς τὴν κεφαλὴν ἐξαπίνης ὀδύνη στηρίζει ὀξέα ὥστε οὔτε τοῖσιν ὀφθαλμοῖσιν ἀνορᾶν οὔτε τοῖσιν ὠσὶν ἀκούειν δύναται ἀπὸ τοῦ βαρέος" ἱδρώς τε πολὺς καταχεῖται καὶ κάκοδμος, μάλιστα μὲν ἢν

ὀδύνη ἔχῃ" καταχεῖται δὲ καὶ ὅταν ἡ ὀδύνη λωφᾷ καὶ τῆς νυχτὸς μάλιστα: ἣ δὲ χροιὴ αὐτοῦ μάλιστα ἱκτερώδης γίνεται’ αὕτη ἦ νοῦσος τῆς προτέρης ἧσσον ϑανατώδης !. Colpisce, certo, d’incontrare in successione «il non vedere, il non sentire, il sudore che cola abbondante, il colorito giallo, l’ac-

cenno alla possibilità di un esito mortale» !*. L’evidenza del

!! Perla datazione dello Scutum, cf. Russo 1965, pp. 29 ss. 12 Così Privitera 1969 È, p. 67. 3 Così Di Benedetto 1985 è, pp. 148 ss. (la sindrome di Aff. int. 49 è registrata a p. 147).

"4. Così Di Benedetto 1985 b, p. 146: vi rientra il disturbo auditivo (anche se più preciso riscontro è reperibile altrove nel Corpus, ad esempio in Mord. II

152

Ricerche intertestuali

testo nosologico, in ogni caso, impone di necessità il mantenimento del peculiare κακχέεται in Saffo {v. 13) e dunque l’espunzione di ψῦχρος (ψυχρός nei codd. dell’Anonimo testi-. mone), che già Spengel eliminava quale palese intrusione esplicativa . Implicita resterà la sensazione di freddo, speciale conseguenza del sudore. Sensazione che, proprio di recente, è stata oggetto di una curiosa indagine letteraria, condotta a partire, inevitabilmente, dalla sintomatologia saffica — non a caso registrata da un classico ottocentesco della ‘fisiologia delle passioni’, il Letourneau — per poi trattare alcuni casi esemplari, dagli stilnovisti al Petrarca, all’Ariosto, al Tasso. Sulla base di idonei

testi medici (inevitabilmente più attuali di Ippocrate!) si spiegano i motivi dell’‘escursione termica’, propria del ‘patito’: al ‘colpo’ viscerale conseguente alla forte emozione (per esempio, la vista della persona amata) e all’abbondante traspirazione (periferica e specialmente frontale) si accompagna una sensazione di calore interno, mentre le estremità si raffreddano, e, specie sulla fronte, «il sudore, evaporando, dà ... una sensazione

di freddezza epidermica» !6. Questa imperfetta ‘conduzione termica’ produrrebbe i paradossi termodinamici dell'amore, anche poeticamente espressi, a cominciare, appunto, da Saffo, per

17,51 tà ὦτα ἠχεῖ), uno dei due sintomi saffici che il Page segnalava come introvabile in Omero; quanto al secondo, il πῦρ, 1.6. la febbre, è ovviamente nel Corpus, spesso associato al ῥῖγος, in particolare nelle due sindromi affini e contigue alla nostra, cf. 47 diyog καὶ πυρετός, 48 φρίκη καὶ πυρετός. > Si veda l'apparato di Voigt 1971, p. 60 (per ψυχρός quale spiegazione ‘medica’, cf. nota seguente).

!6 Così Canestrini 1984, pp. 377 ss.: la spiegazione ‘medica’ è a p. 390. Gli antichi, in realtà, distinguevano tra sudori ‘caldi’ e ‘freddi’: di qui, eviden-

temente, l'aggiunta esplicativa al testo di Saffo. Non è nostra intenzione affrontare il problema in termini propriamente nosologici: rinviamo, in generale, al recente indice di Kühn-Fleischer per una rapida quantificazione delle occorrenze, nel Corpus Hippocraticum, di ἱδρὼς ϑερμός o ψυχρός; e ricordiamo, in particolare, il cap. VI del Progrostico, puntualmente citato da Di Benedetto 1986, p. 140, dove «si fa una graduatoria dei vari tipi di sudore», dagli ἄριστοι fino ai κάκιστοι: «questi ultimi (si tratta dei sudori freddi e che interessano solo la testa e il collo), se sono accompagnati da febbre acuta, sono sintomo di morte»

(lo spaziato è nostro).

Patemi d'amore

153

giungere, ad esempio, a Petrarca, innamorato e quindi ‘distur-

bato’ dal dubbio qual sia più .../... la fiamma o ’l gielo (rima 182, vv. 3s.): al πῦρ della febbre seguiva, in Saffo, [ἴδρως, il sudore glossato da ψυχρός, nonché da ψύχεται nel commento dell’Anonimo, ed esplicitato 44}} ἐψύχϑην χιόνος πλέον di Teocrito (v. infra).

Per tornare ad Ippocrate, la ‘certezza’ del testo medico conferma la ‘verità’ del testo saffico, la cui paratassi sembra pure rispondere ad una esigenza descrittiva di ordine specificamente nosologico 17, Tale propensione tecnica, non nuova del

resto al linguaggio erotico di Saffo '8, ne arricchisce lo spessore testuale, ma non può astrarre dal codice letterario il pur originalissimo carme, che avrà dovuto comunque rispondere, in ter-

mini propriamente intertestuali, all’‘enciclopedia’ omerica, punto di riferimento obbligato per l’uditorio (oltre che per l’autore). Piuttosto sarà da sottolineare che la malattia descritta da Aff. int. 49 appartiene ad una serie di παχέα καλούμενα νοσήματα, cioè di nevropatie, che di norma comportano ῥῖγος e πυρετός (47), oppure, che è lo stesso, φρίκη e πυρετός (48),

addirittura la caduta dei capelli — καὶ ἐκ τῆς κεφαλῆς ai τρίχες ἐκρέουσι (47) — che affliggerà la povera Simeta! 15. Il νόσημα παχύ

(48) in cui, oggi diremmo, il malato non soma-

tizza totalmente la propria angoscia, presenta ovviamente manifestazioni fobiche: il malato dunque φοβέεται 29,

!? Cf. Di Benedetto 1985 5, p. 148. 18 Cf. Lanata, 1966, pp. 63 ss. 19 (ἢν. 89. 2 Per la «questione aperta» del gruppo delle malattie «spesse» in Aff int., rimando alla dettagliata e problematica analisi di Di Benedetto 1986, pp. 36, 40, cf. p. 64 n. 12. AI di là della particolarità e dell'abbondanza di dettagli, nel caso di Aff. int. 48 (dove il malato alterna peraltro anormalità e normalità,

e, dopo il delirio, ἔννοος γίνεται, cf. l’Anonimo, cui, dopo ψύχεται κάεται, piaceva inferire ἀλογιστεῖ φρονεῖ), si conferma comunque «come non ci fosse soluzione di continuità, per la cultura medica antica, tra fisico e psichico» (cf. Di Benedetto 1986, p. 40): non persuasiva, invece, la tesi di fondo di

Devereux 1970, il quale, a prescindere dalla sua avversione al paragone coi

154

Ricerche intertestuali

Il testo di Aff. int. 49 (nonché 47 e 48) fornisce, insomma, sostanziale e ‘scientifico’ supporto — tanto più pertinente in

quanto greco ed antico 2! — ad una forma che resta peraltro inscritta in un codice poetico. Lo rileva il poeta Teocrito, che legge, «1. nel testo saffico l’amore come malattia (aggiungendovi realisticamente, e magari saputamente, la complicanza della caduta dei capelli), ma pure riprende, saldamente, le fila del dia-

logo intertestuale, enfatizzando la nozione del φόβος, centrale in Saffo, e già presente in Omero. Su tale nozione avremo modo di tornare a lungo. Ma, prima di discutere l’osservazione di Page, ormai vulgata, che i sintomi di Saffo già contemplati in Omero riguardano «fear, anger, sorrow, pain» 22, converrà leggere la più famosa Ode dell’antichità con gli occhi e la mente degli antichi (Teocrito ed Apollonio, ma anche Lucrezio ed altri): riusciremo, innanzitut-

to, ad intenderne meglio il ‘tenore’ al di là del ‘veicolo’ metaforico 2), il sentimento della paura (e del dolore) prima che dell’a-

more. Fin d’ora vorremmo osservare — per limitarci a un dettaglio — come agli ascoltatori e lettori antichi non dovesse sfuggire (a differenza dei moderni) che il venire meno, quasi mortale,

di Saffo (v. 115) è già in Omero:

non solo in E

69 ss., dove Pelagone estrae la lancia conficcata nella coscia dell'amico Sarpedone, che per poco muore, in realtà perde solo la coscienza e la vista per poi tornare a respirare 24, ma anche e

soprattutto in X 466 5. τὴν δὲ κατ᾽ ὀφθαλμῶν ἐρεβεννὴ νὺξ ἐκάλυψεν / ... ἀπὸ δὲ ψυχὴν ἐκάπυσσε, dove il topico oscuramento della vista — che annuncia, invece della morte, la sua parvenza — colpisce Andromaca alla vista di Ettore ormai per-

precedenti omerici, immagina in Saffo un tipico attacco di ansietà, dovuto,

nella fattispecie, al suo lesbismo. 21 Sulla datazione del testo ippocratico (anche in rapporto al testo saffico), cf. Di Benedetto 1985 è, pp. 148 s. 22 Cf. Page 1955, p. 29, ripreso ancora da Svenbro 1984, p. 68. 2 Secondo la nota dizione di Richards 1936, p. 92. 24 ἢ passo è segnalato da Svenbro ἐς

Patemi d'amore

155

duto per sempre, nel inomento in cui il suo cadavere è trasci-

nato senza pietà verso le navi degli Achei. Né per caso di questa mulier dolorosa si ricorderà Apollonio, in primis memore di Saffo, nel significare l’amoroso turbamento di Medea (ma v. infra). Apollonio e, con lui, Teocrito sono due fra i più attenti, e atten-

dibili, lettori — «l’imitatore è un tipo di lettore» 2 — antichi. È quindi su di loro che ci apprestiamo a misurare l’antico ‘effetto di lettura’ dei patemi d’amore di Saffo. È noto come, similmente alla vista della fanciulla saffica, la

vista di Giasone produca, sulla sensibile Medea, talune specifi-

che reazioni. Reazioni tuttavia complicate, allusivamente, dal ricordo di vari luoghi poetici, non solo di Saffo. È infatti l’Eros archilocneo ὑπὸ καρδίην ἐλυσϑείς 26 a ritornare, questa volta

munito di un dardo, αὐτῷ δ᾽ ὑπὸ βαιὸς ἐλυσϑεὶς / Αἰσονίδῃ (vv. 281 s.): quanto alla καρδίη di Archiloco, non essendo in

ballo quella dell’Esonide, viene provvisoriamente accantonata da Apollonio per più opportuna occasione. Diventerà l’obiettivo del βέλος quando più avanti, pur in piena sintomatologia saffica, Medea è colpita, anzi è infiammata (ἐνεδαίετο), ὑπὸ

κραδίῃ dal dardo φλογὶ εἴκελος (vv. 286 s.), laddove un fuoco sottile serpeggiava sotto la pelle di Saffo (v. 10 χρῷ ... drradeδρόμακεν). Sarebbe troppo generico osservare come la κραδίη di Medea risenta della sconvolta καρδία di Saffo (v. 6). Che ᾿ ὑπὸ κραδίῃ sia specificamente di marca archilochea (e tutt'al più risenta del preverbo di ὑπαδεδρόμακεν!) conferma la conclusiva ripresa, al v. 296, dell’ossessivo τοῖος ὑπὸ κραδίῃ εἰλυμένος αἴϑετο Addon

(i.e. Eros), più propriamente trasferito

‘sotto il cuore’ della fanciulla 77.

23 Così Conte 1984, a proposito di intertestualità, e del destinatario (lettore/imitatore), che «si avvicina al testo ... già lui stesso una pluralità

testi». 2© Fr. 191 W., a sua volta memore di τ 433 λασίην ὑπὸ γαστέρ᾽ ἐλυσϑείς, cioè di Odisseo dolosamente attaccato all’irsuta pancia del montone. 27 Il confronto spetta a Degani 1977 a, p. 32: l’Eros di Apollonio muta il di

156

Ricerche mtertestnali

Non vogliamo qui soffermarci sui multipli intarsi operati dalla memoria apolloniana 25, se non per sottolineare come il groviglio dei pathemata, che tanto dovevano impressionare l’Anonimo, è formalmente emulato, vezzeggiato, esasperato, talora

variato: per esempio, nel rossore alternato al pallore sulle guance di Medea (vv. 297 s.) riaffiora il più intimo contrasto saffico tra il bruciore della febbre e il (sottinteso) freddo del sudore (vv. 10, 13), separati dal tenue schermo della pelle. Si tratta, se si vuole, di un esempio di srrzitatio cum variatione.

Una opposttio in imitando è invece dislocata nella seconda ripresa emulativa (vv. 962 ss.), dove l’irrigidimento che provoca in Medea la parziale immobilità del corpo (gli arti inferiori, cf. v. 965) si sostituisce al tremito che in Saffo prendeva tutta la persona (vv. 13 s.). Tra i commentatori di Apollonio, alcuni giu-

stamente rimandano al precedente omerico X 452 s.. 29, che,

converrà peraltro insulto cardiaco: στήϑεσσι

osservare, πάλλεται

accenna ἦτορ

ἀνὰ

ad

un

στόμα,

concomitante véode



γοῦνα

πήγνυται

Andromaca

κτλ.

riconosce, tra i gemiti e i singhiozzi provenienti

dalla torre, la voce della suocera, ed è colta dal presentimento che Ettore sia ormai preda di Achille: il cuore le balza in gola e le ginocchia le si irrigidiscono. Con qualche dettaglio in più è descritta la sindrome di Medea: il cuore le balza fuori dal petto e, mentre (safficamente) non ci vede più e le gote le si infiamma-

colore delle ἁπαλαὶ παρειαί, mentre l’Eros di Archiloco rubava le ἁπαλαὶ

φρένες.

28. Per i rapporti tra Saffo ed entrambi i passi di Apollonio, basti rinviare a Privitera 1969 ῥ, pp. 71 ss. 2 Sfuggito sia a Mooney 1912, p. 276 che a Gillies 1928, p. 99, è invece

segnalato da Ardizzoni 1958, p. 11, quindi da Vian 1980, p. 91. Non si sofferma sul sintomo in questione il pur specifico Campbell 1983, che dedica un apposito capitolo a Medea at Play (ma solo dal v. 948 al v. 955).

Patemi d'amore

157

no, non riesce a muovere né avanti né indietro i γούνατα, ed anzi ὑπένερϑε πάγη πόδας.

Se abbastanza ovvio è apparso il richiamo a X 452 5. ἢ, meno ovvio sarebbe stato rilevare che si tratta dell'unico passo omerico in cui πήγνυσθϑαι è riferito ale membra del corpo ’, ma soprattutto che all’intera scena dell’angosciata Andromaca

si è ripetutamente ispirato Apollonio (per

suggerimento di Saffo, che si era ispirata alla stessa Andromaca, affetta dalla quasi-morte?) quando, anche altrove, rappresenta la turbata Medea. La sposa di Ettore, spinta da un brutto presentimento, corre fuori di casa come una pazza, poi si blocca a scrutare febbrilmente oltre le mura (vv. 460 ss.): μεγάροιο διέσσυτο μαινάδι ἴση, παλλομένη κραδίην κτλ.

ἔστη παπτήνασ᾽ ἐπὶ τείχεϊ κτλ. Non mi risulta sia stato osservato che il sogno, con l’oscuro

presentimento

chene deriva, produce effetti pressoché

identici su Medea (III 633 s.), quando παλλομένῃη δ᾽ ἀνόρουσε φόβῳ, περί τ᾽ ἀμφί TE τοίχους πάπτηνεν ϑαλάμοιο 2,

30 E, per il balzo del cuore fuori dal petto, a K 94 5. κραδίη δέ μοι (i.e. Agamennone angosciato per la sorte dei Danai) ἔξω / στηϑέων ἐκϑρῴσκει, cui però segue τρομέει δ᾽ ὑπὸ φαίδιμα γυῖα! In verità, Apollonio incrocia fra

loro K 94 e X 4525. στήϑεσι

πάλλεται ἧτορ

ἀνὰ

στόμα

νέρϑε δὲ γοῦνα / πήγνυται: delle due ‘coppie’ sintomatiche privilegia a metà la prima (e solo per la forma), ma (cosa fin qui sfuggita) per intero la seconda. 1 C£. Ebeling II p. 179: «obrigesco, rigeo, torpeo», nel nostro ed unico caso, per la paura. Interessante E 40 πτῆξε (i.e. Nestore) ϑυμόν (i.e. degli Achei): così Aristarco, mentre Zenodoto legge πῆξε (cf. schol. BL ἐν ἀκινησίᾳ ἐποίησεν). 32 A quanto mi consta, solo Ardizzoni 1958, p. 179, e solo per παλλο-

μένη rinvia ad Omero.

158

Ricerche intertestuali

e che entrambe le donne, per un pezzo assenti dal reale (l'una perché ‘quasi morta’, l’altra perché presa dal sonno, fratello della morte) ritrovano la coscienza, e la voce, in termini impressio-

nantemente simili: Andromaca ἀμβλήδην γοόωσα ... ἔειπεν dopo che ἐς φρένα ϑυμὸς ἀγέρϑη (vv. 475 s.). Medea ἀδινὴν δ᾽ ἀνενείκατο φωνήν, non appena ἐσαγείρατο ϑυμὸν / dg πάρος ἐν στέρνοις (vv. 634 ss.). Su tutte e due ha agito l’angoscia. Tornando ai due passi apolloniani in cui è l’amore ad agire su Medea, i soliti III 284 ss. e 962 ss., non si potrà non concedere che, sull’indubbio modello saffico, la concorrenza omerica è però

troppo evidente: se vera rimane l'affermazione, a proposito dell’àupacin di Antiloco (ma potrebbe valere per ogni ‘riciclata’ espressione epica), che Apollonio «la reinterpreta attraverso Saffo» #, non meno vera risulta l'affermazione, in qualche modo reci-

proca, che Apollonio riscrive Saffo con le parole di Omero. Comunque sia, fra le due riprese apolloniane è percepibile una non piccola differenza. La prima è almeno intessuta di esibiti elementi saffici (e non solo della nostra Ode), studiatamente

connessi e tutti mirati, con la complicità della funzionale intrusione archilochea, a mutare di segno ogni memoria epica (ad eccezione delle πυκιναὶ φρένες, al v. 289, forse memori di

πυκινὰς φρένας, in = 294, cioè nella Διὸς ἀπάτη) in virtù della nuova situazione erotica. Quanto alla seconda ripresa apolloniana, il ricordo saffico è invece appena presente nell’oscuramento della vista (ma ὄμματα ... ἤχλυσαν di vv. 962 5. formalmente rinvia a Omero, e semmai al solito Arch. 191, 1 s.

W. ἔρως ὑπὸ καρδίην ἐλυσϑεὶς / πολλὴν κατ᾽ ἀχλὺν ὀμμάτων ἔχευεν) e nel caldo rossore delle guance (ν. 963, ma servono i precedenti vv. 297 ss. ἁπαλὰς δὲ μετετρωπᾶτο παρειὰς / ἐς χλόον, ἄλλοτ᾽ ἔρευϑος per capire che Apollonio recupera l’ardore di Saffo in opposizione però, qui, al

» Così Privitera 1969 5, p. 71.

Patenti d'amore

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livido incarnato di lei: v. 14 χχλωροτέρα ... ποίας). Incombe sopra tutto il fantasma di Omero (e di Andromaca!). Apollonio ha più che mai «sviluppato e variato il modello (1.6. Saffo): ha

mutuato non tanto il lessico quanto la situazione» ’*, poiché il lessico riecheggia nostalgicamente l’epos. Anzi, il progressivo tradimento della sintomatologia saffica, che si conclude con la decisa opposizione del παγῆναι di contro al τρόμος delle membra, finisce per privilegiare tanto il lessico quanto la situazione dell’epos, e si risolve, come finora

non si era osservato, con la deliberata assunzione dell’intero episodio di Andromaca (X 460-467), ricollocato proprio in explicit dell’intera impresa imitativa. L’angoscia di Andromaca — per la perdita del proprio uomo! — resta valida, secondo Apollonio, ad esprimere la situazione di Medea, «la quale sembrò a lui tipica dell’amore segreto e agitato dal timore» che non sia corrisposto: i termini omerici gli appaiono adeguati a ‘riscrivere’ addirittura il movente dell’ode di Saffo, «il suo amore ancora

segreto e già infelice perché tormentato dal timore che la ragazza non debba ricambiarlo: l’amore nel momento iniziale

della solitudine» ” Anche Teocrito registra in due tappe le reazioni di Simeta: alla vista di Delfi, e poi al solo udire il passo leggero di lui sulla soglia di casa. Neppure in questo ‘doppio’ caso ci soffermeremo sulle singole riprese saffiche, più volte, ed ultimamente, messe bene in rilievo 56. Varrà tuttavia la pena di insistere sul primo sintomo propriamente fisiologico, descritto in II 82, su quel πυρὶ ϑυμὸς ἰάφϑη che, «anche se con un notevole scarto semantico, ... sembra chiaramente allusivo del λέπτον δ᾽ αὔτικα χρῷ πῦρ ὑπαδεδρόμηκεν del v. 10 dell’ode saffica» ᾽7: ovvia-

#4 Così Privitera 1969b, p. 72. Così ancora Privitera 1969 ῥ, PP: 71 s., che qui si attiene, con pertinenza, al codice della ‘giusta reciprocità’ in amore, per cui v. infra. * Cf. Pretagostini 1984, pp. 108 ss. Così Pretagostini 1984, p. 109.

160

Ricerche intertestuali

mente privilegiando la lezione πυρί del papiro di Antinoe (ma già congettura di Gräfe e Taylor), «molto probabilmente (anche se non del tutto sicuramente) preferibile al περί dei codici» ?8, mantenuto invece da chi resta ancora suggestionato, più che da Saffo, dall’ascendente omerico, già di Saffo, cioè dal noto 3 294 ὡς d'idev, ὥς μιν ἔρως πυκινὰς φρένας ἀμφεκάλυψεν ”.

A favore di πυρί, e a prescindere da Saffo, Gow ha osservato che «πυρί seems preferable to περί since love is constantly referred to as a fire ... and the compound περιιάπτω is not otherwise known» *. Mentre l’allusione ovidiana ef vidi et perit nec notis ignibus arsi etc. (Her. XII 33 [35]), non solo al virgiliano ut vidi, uti perii, ut etc. (Ecl. VIII 41), ma anche, presumibilmente, al modello teocriteo, è sembrata a Timpanaro «una

conferma — sia pure indiretta e non del tutto sicura — della lezione πυρί in Teocrito»: non del tutto sicura perché «le metafore erotiche del tipo ignis, igre ardere ecc. sono tanto frequenti in Ovidio, che non si può affatto escludere una coincidenza

casuale» *!. Certo, la metafora erotica del fuoco è tanto familiare in

# Così Timpanaro 1978, p. 233 n. 21.

» Pur dopo la scoperta del papiro (per cui cf. Hunt-Johnson 1930, pp. 3, 69; sul già congetturato πυρί cf. Fritzsche 1868, p. 102), conservano, ad

esempio, περί Gallavotti 1946, p. 16 e Beckby 1975, p. 18. Sull’omerico ὡς δῖῖδεν, ὥς, ripreso dal v. 7 di Saffo ὡς ... ἴδω ... ὥς e dal v. 82 di Teocrito χὼς ἴδον, ὡς ... ὥς, e sulle implicazioni morfologiche e sintattiche si veda l'ampio studio di Timpanaro 1978, pp. 222 ss., interessato, in ultimo, all’ ... ut ... ut di Verg. Ecl. VIII 41 (per cui v. infra). Condivido con Timpanaro l’attenzione anche alla variante pev del papiro: i codici sono appunto divisi tra uev e μου, che «il ον e altri editori recenti preferiscono..., probabilmente con ragione, perché l’inconcinnità sintattica pot ... / δειλαίας ha a suo favore il confronto con molti passi analoghi di Omero... Varrebbe tuttavia, forse, la pena di ricordare che ev, lectio facilior dal punto di vista sintattico, è diffialior dal punto di vista morfologico, ed è sostenuta dal confronto con v. 88» (p. 234 n. 21: il v. 88 suona καί μευ χρὼς ... ἐγίνετο κτλ.).

“Ὁ Così Gow 195211, p. 52.

4 Cf. Timpanaro/.c., che fa sua un’osservazione di Scevola Mariotti.



Patemi d'amore

161

poesia, che nello stesso Teocrito si raccomanda comunque “2, di contro all’improbabile, oltre che inaudito, ϑυμός percosso o ferito «all round»

(?) 45. Ma, tutt'altro che familiare, se non

ostico (malgrado l’indifferenza degli interpreti), risulta il doppio salto d’immagine per cui Eros, in qualità di fuoco, però eolpisce come fosse dardo: cfr. Aesch. Ag. 510 τόξοις ἰάπτων ... βέλη, nonché il metaforico Soph. Az. 500 5. καί τις πικρὸν πρόσφϑεγμα δεσποτῶν ἐρεῖ / λόγοις ἰάπτων. Theocr. III 17 ὅς (6. Eros) ue κατασμύχω

Lo stesso ν καὶ ἐς

ὀστίον ἄχρις ἰά πτει associa all'immagine di Eros che brucia quella di Eros che colpisce: ma si tratta, appunto, di immagini contigue, diuna necessaria soluzione, si direbbe, dell’ardua conflatio πυρὶ ... ἰάφϑη *. La cui audacia aumenta alla plausibile né secondaria domanda: perché Teocrito sostituisce l’infuocato brivido saffico, che così natural-

mente correva sotto la pelle, con una lambiccata fiamma che punta dritta al cuore? L’indagine in merito non sarà inutile. Istruttivo, per cominciare, un analogo caso di non imme-

diata perspicuità espressiva, fortunosamente reperibile al verso seguente (83) dello stesso idillio, quel più volte discusso τὸ κάλλος ἐτάκετο (un subitaneo quanto inspiegabile disfarsi della bellezza di Simeta), e giustificato, almeno letterariamente, se si accetta, col Gow, «che Teocrito... avesse in mente gli effetti del

racconto di Odisseo su Penelope», di cui τήκετο δὲ χρώς ./ ὡς

4 Per Teocrito, cf. Gow /c.; per gli Alessandrini in generale, Giangrande 1968, p. 53. ® Così LS] p. 1374, ma cf. Suppl. 119: «nisi leg. πυρὶ ϑυμὸς ἰάφϑη (PAntin.}».

* Sul confronto con III 17, già istituito da σον (v. supra) per la metafora

Eros = fuoco, richiama l’attenzione Pretagostini 1984, p. 109 n. 11. cui non sfugge che vi si ritrovano «le due immagini del ‘fuoco’ e del ‘colpire’ ... solo accostate». Notiamo qui, di sfuggita, che nello stesso Idillio, dopo l’immagine di Eros che κατασμύχων ... ἰάπτει, al v. 42 ὡς ἴδεν, ὃς ἐμάνην, ὧς ἐς βαϑὺν ἄλατ᾽ ἔρωτα, la vicenda dell’innamoramento di Atalanta si pre-

senta in termini troppo simili a quelli riscontrati in Il 82: la doppia coincidenza, finora non rilevata, meriterebbe qualche approfondimento.

162

Ricerche intertestuali

δὲ χιὼν κατατήκετ᾽ ἐν ἀκροπόλοισιν ὄρεσσι, / ... / ... / ὧς τῆς τήχετο καλὰ παρήϊα δάκρυ χεούσης (τ 204 ss.) “5, ma soprattutto se si accetta, col Timpanaro, che Teocrito avesse in

mente — già nella frase d'attacco χὠς ἴδον, ὡς ἐμάνην “TÀ. — anche gli effetti provati da Saffo e, di li a poco (vv. 88 sgg.), riprovati da Simeta: τὸ dè κάλλος ἐτάκετο costituisce insomma

«un'anticipazione, logicamente non del tutto giustificabile, di ciò che Simeta narrerà poco dopo» *. Anche lo scabro πυρὶ ϑυμὸς ἰάφϑῃη si spiega, anzi — io credo — si impone grazie allo ζῆλος, questa volta ᾿Απολ-

λωνικός oltre che Σαπφικός. È possibile, e fin necessario, che il fuoco ‘colpisca’ il cuore, se si ammette che Teocrito qui ricordi Saffo attraverso Apollonio. Il quale, nella propria versione dell’innamoramento di Medea, vittima anch'essa dei saffici patemi, introduce, come s'è visto, la figura di Eros arciere,

furbescamente acquattato ai piedi di Giasone, pronto a colpire il cuore della fanciulla (vv. 278 s.). E difatti, ai vv. 286 s., βέλος δ᾽ ἐνεδαίετο κούρῃ ἡνέρϑεν ὑπὸ κραδίῃ. φλογὶ εἴκελον. L’elaborata imitatio cum variatione, in

omaggio al sottile πῦρ serpeggiante sotto la pelle di Saffo, obbliga Eros a scoccare un dardo che, insinuandosi proprio ‘sotto’ il cuore di Medea, brucia a guisa di fiamma. Quindi in

# Cf. Serrao 1971, p. 102, il quale riesamina e rafforza l'osservazione di

Gow. Non è improbabile che ἐτάκετο risenta anche dell'encomio pindarico per Teosseno (a sua volta memore di Saffo) ἀλλ᾽ ἐγὼ .../... τάκομαι, εὖτ᾽ ἂν ἴδω xvà. (fr. 123, 10 ss. Sn.-M.).

Ὁ Cf. Timpanaro 1978, p. 238. Non parlerei tuttavia di «tre momenti del racconto» (237), ma di due: i vv. 82 ss. descrivono le conseguenze del solo vedere

l’amato,ivv. 106 s. delsolo

udire

il suo passo. Gli effetti deva-

stanti del primo momento sono dettagliatamente narrati ai vv. 88 s., dopo essere stati ‘annunciati’ alv.83 dalprecocetò δὲ κάλλος ἐτάκετο. Quantoall’allusione teocritea (sfuggita non solo aGow) xai pev χρὼς pèv ὁμοῖος ἐγίνετο πολλάκι ϑάψω (ν. 88, cf. Sapph. 31, 145. yAweotépa dè moiag/Eupi), giustamente definita da Timpanaro «una allusione che è insieme, alessandrinamente, un impreziosimento» (p.237), essa era stata notata da Privitera 19695, p.43, edin particolarep.73 n.51. # Così, felicemente, Serrao 1971, p. 108.

Patemi d'amore

163

Teocrito il fuoco, senza neppure dichiararsi come dardo, può colpire tout court il cuore di Simeta. La solita immagine, data «di scorcio e in sintesi» 48, senza téma d’incongruenza, e con

specifica risoluzione — giusto come l’inconsulto, a prima vista,

τὸ dè κάλλος Eräxero — in termini di allusività alessandrina, nella fattispecie teocritea: la ragione di πυρὶ ϑυμὸς ἰάφϑη risiede fuori del ‘suo’ testo, la chiave di lettura essendo interte-

stuale. Ne consegue peraltro, rispetto a Teocrito, una priorità di Apollonio, confermata da un’ulteriore variazione teocritea, ma

già apolloniana, del modello saffico. Che i vv. 106 ss. dell’Idillio intendano continuare, programmaticamente, la descrizione dei παϑήματα, cominciata ai vv. 82 ss., mi sembra evidente dal primo sintomo della seconda serie patologica, quel πᾶσα μὲν ἐψύχϑην χιόνο ς πλέον (v. 106) che vuole precisamente richiamarsi, costituendone il reciproco, all’iniziale ἐτάκετο (v. 83), preambolo alla prima serie, nonché memoria (pena la scarsa perspicuità, come s’& visto) di τ 205 χιὼν κατατNxet(o) ‘. Seguono due reazioni, il sudore e l’afasia (vv. 107 sg.), di sicura marca saffica (vv. 13; 8 s.). Chiude infine la sensazione dell’irrigidimento (v. 110) ἀλλ᾽ ἐπάγην ... καλὸν χρόα πάντοϑεν,

in luogo del tremore di Saffo (vv. 13 5. τρόμος dè./ παῖσαν ἄγρει). Anche in Apollonio la ridda degli amorosi sintomi ter- . mina, come s'è visto, con ἀλλ᾽ ὑπένερϑε md yn πόδας (v. 965). Si tratta, è il caso di ripetere, dell’ unica sensazione ‘assolutamente o ppositiva alparadigma saffico: una coincidenza — sottolineata dall’identica forma aoristica (ἐ)πάγη("), nonché dall’identico ἀλλ(άλ) iniziale, e dai riecheggianti ὑπένερϑε

— πάντοϑεν, per cui v. infra — certo non

casuale nei due Alessandrini. * Così Perrotta 1978, p. 201, cf. 37. * Cf. supra: il richiamo teocriteo alla neve conferma l’intuizione di σον.

164

Ricerche intertestuali

Apollonio precede Teocrito, come risulta da un semplice controllo dei rispettivi contesti. Per Apollonio l’oppositio risponde, con tutta naturalezza ed evidenza, ad un organico piano di ‘contaminazione’ tra elementi saffici e omerici: palesemente ripresi, questi, di prima mano ai vv. 964 s., dove la rea-

zione di Medea ripete quella di Andromaca (v. supra). Per Teocrito, invece, l’isolato(!) ἐπάγην — di cui non a

caso è finora sfuggito agli interpreti il rimando ‘ulteriore’ all’omerico πήγνυται — costituisce l’unica tessera rubata al mosaico apolloniano, e reinserita in un nuovo e, come vedremo,

più razionale disegno, con un’operazione manifestamente di secondo grado:

magari con il senso di una ‘correzione’, se è

vero, qui come altrove, che «far meglio di Apollonio non era forse troppo difficile ad un poeta veramente ispirato dalle Muse» Ὁ,

|

Si è acutamente osservato che Teocrito divide la ‘contraddittoria’ sensazione saffica di caldo-freddo — ἅμα ψύχεται καίεται (6. Σαπφώ) parafrasava l'anonimo esegeta ἢ — fra i due successivi ‘impatti’ di Simeta, riservando il caldo al primo e il freddo al secondo ”. È nel secondo che l’attento poeta colloca ἐπάγην, riferito allabambola di cera (v. 110 δαγῦδι .... ἴσα),

che il verbo conferma, oltre che rigida, fredda (secondo la premessa ἐψύχϑην χιόνος πλέον del v. 106, e inversamente al caso, fortuito ma istruttivo, di Callim. Cer. 91 5. ὡς dè... χιών, ὡς ἀελίῳ ἔνι πλαγγών, /... ἐτάκετο): πήγνυσθαι interviene, di regola, per l’irrigidimento delle membra, non solo di chi ha paura, ma anche di chi ha freddo, come, ad esempio, l’intirizzito

naufrago ῥίγει πεπηγώς nel cosiddetto primo Epodo di Stra-

Ὁ Così Perrotta 1978, p. 196. A quanto mi risulta, nessuno degli studiosi di Teocrito ricorda X 453 (al massimo constatando la presenza di πάγη in Apollonio, cf. Pretagostini 1984, p. 114). Unico Vian 1980, però editore di Apollonio, cita in calce a III 965 Omero e Teocrito. " Cf. Περὶ ὕψους X 3, con la citata analisi di Privitera 1969 a, pp. 28 ss. 7 Questala tesi di Pretagostini 1984, pp.111ss.

Patemi d'amore

165

sburgo 55. Teocrito sembra voler funzionalizzare l’‘inutile’ oppositio di Apollonio, che pure aveva rispettato la saffica dualità di caldo e freddo, accostando il gelido rigore degli arti all’ardente avvampare delle gote (v. 963 ϑερμόν ... ἔρευϑος). In ogni caso, e in compenso, il Siracusano restituisce il nuovo sintomo — anche qui rivelandosi successore del Rodio, che, fedele

seguace di Omero, limitava l’irrigidimento alle estremità inferiori del corpo — all'intera persona: πᾶσα μὲν ἐψύχθην (v. 106), dichiara Simeta, per ribadirsi, in ultimo, rigida πάντοϑεν (v. 110), così come Saffo aveva tremato tutta, cf. v. 14 παῖσαν.

L’analisi comparativa fin qui condotta, sia pur parzialmente, fra i due rerzake alessandrini della patologia amorosa di Saffo ha condiviso, in piccolo, criteri e logica inerenti alla nota questione della priorità fra l'episodio di Ila nel libro I delle Argonautiche di Apollonio e l’idillio XIII di Teocrito. Lì il tertium comparationis, per così dire, è costituito da Omero, qui da Saffo, ed il

nostro terreno, oltre che più limitato, risulta più labile perché lì

il confronto si pone tra l’«imitatore pedissequo di Omero» e l’emulo «che varia, con più libertà» 5, mentre qui le abbondanti

variazioni ed integrazioni, già operate da Apollonio (soprattutto mediante Omero) sul modello (anche di paragone) saffico, mutano di non poco la prospettiva e la misura del confronto. Anche qui, tuttavia, non è stato un criterio pericolosamente

estetico ad indicare la soluzione: l’aver scoperto magari una «superiorità del racconto teocriteo», e, specie nel riscontro verbale, «una tecnica più nuova, una più accurata scelta dei vocaboli,

una maggiore proprietà di linguaggio, un’imitazione ... meno servile, e quindiun miglioramento ... cosciente, ed una

critica ora ironica ora bonaria del grande poeta Teocrito nei riguardi del più giovane e inesperto Apollonio» 55. Anche qui, » Cf. Hippon. "194, 9 Dg. Per una congrua serie di occorrenze di πήγνυσθαι propter gelu (invece che propter pavorem come in X 453), si veda l’apparato di Degani 1983, p. 170. La preziosa ambiguità di Simeta-bambola, impaurita-fredda, è tutta teocritea.

3 Cf. Perrotta 1978, p. 188.

5. Cf. Serrao 1971, pp. 112 5.

166

Ricerche intertestuali

positivamente, sono state decisive due ‘spie’: due casi in cui Teocrito è sperimentalmente analizzabile, ed esattamente comprensibile solo attraverso Apollonio. Così l’impertinente — nei confronti di Saffo — ἐπάγην (per cui nessuno degli studiosi teocritei giunge a rintracciare, ef powr cause, il prezioso ascendente omerico) rivela la propria genesi e (ri)motivazione solo

grazie al tramite apolloniano. Ma soprattutto: per l'indispensabile mediazione di Apollonio, il finora insicuro πυρί trionfa su περί, nel contempo giustificandosi l’immagine del fuoco contundente. Ne risulta un’autentica immagine teocritea, ‘scorciata’ e ‘sintetica’, ed anzi sovrimpressa, al punto da non apparire perspicua e da non sottrarsi alla serie di «quelle piccole incoerenze logiche in cui spesso incappa il poeta» 5, ma che si risolvono in altrettante (quand’anche non deliberate) sfide al più tipico lector in fabula: il lettore alessandrino, il quale «forse non è assurdo immaginare che ... notasse l’allusione e giustificasse la sottile aporia» 77. La lettura del ϑυμός ‘colpito dal fuoco’ presuppone la nozione di una xgadin già poeticamente (ed inversamente!) ‘bruciata da un dardo’, comportando (al lettore-filologo) l’esatto percorso inverso della strada compiuta dall’autore: il piacere dell’agnizione è comunque proporzionato alla sua difficoltà. La lettura sinottica dei due testi alessandrini, raffrontati su

quello arcaico, suggerisce qualche ulteriore, e generale, considerazione, che — col casuale intervento di un testo ‘romanzesco’, e soprattutto col meno casuale confronto lucreziano, senza

peraltro trascurare un fondamentale precedente omerico — ricadrà sullo stesso modello saffico, capace ancora di assorbire tanto ‘nessi inediti’ quanto inediti significati.

* Fin «nella struttura dei suoi carmi», cf. Serrao 1971, p. 121 (e già Gow 1930, pp. 146 ss.), a proposito dell’Ila. Così Serrao 1971, p. 108; sulle «incoerenze» teocritee rivelatrici della loro «genesi» e «derivazione», cf. p. 116; e già Gow 1938, p. 17.

Patemi d'amore

167

Si è da ultimo osservato che Apollonio varia e rinnova l’originale (contaminandolo, ripetiamo, soprattutto con Omero, da:

cui trae la decisa oppositio dell’‘irrigidimento’) sul piano meramente formale, senza cioè ‘lavorare’ anche sui contenuti: «qui,

come in Saffo, siamo ancora nel campo delle emozioni d’amore di fronte alla persona amata» 78. Teocrito, invece, distinguendo in due momenti la patologia di Simeta — ed al primo riservando le sensazioni di caldo, al secondo quelle di freddo — attuerebbe un progetto di ‘riforma’ anche sostanziale della vicenda amorosa. Il mal d’amore riguarderebbe soltanto il primo incontro, mentre il secondo sarebbe occupato dalla paura dell’amore:

da parte di Simeta, che si vede giunta, «per così dire,

al punto di non ritorno, alla perdita della verginità» (cf. v. 143 ἐπράχϑη τὰ μέγιστα), e non a caso viene tranquillizzata dall’interessato Delfi, le cui parole ‘preliminari’ (vv. 114 ss.) «tradiscono un evidente intento rassicurativo» ”. Né andrebbe trascurato il fatto che lo schol. ad vv. 108/109 a, p. 287 Wendel, οὐδὲ ἐπὶ τοσοῦτον ἀφεῖναι φωνὴν ἠδυνάμην συσχεϑεῖσα τῷ φοβῳ, «faccia esplicito riferimento ad una sensazione di paura» ®, L’afasia nonché il sudore (freddo) sarebbero da Teocrito assegnati al secondo momento perché, «pur essendo usati da Saffo come sintomi del ‘mal d'amore’, erano anche alterazioni

sintomatiche di una sensazione di paura» ©". Avvertiamo qui che non sarebbe, comunque, l’eliminazione ‘fisica’ di ψῦχρος dal testo dell’Ode a mettere in crisi tale lettura: la sensazione di freddo imprescindibilmente connessa, in Saffo, con la sensazione di caldo, da cui risulterebbe scissa, in

Teocrito, per nuovi e significativi scopi. Il freddo — già dagli antichi sovente ‘incorporato’ agli effetti del sudore, come sopra accennavamo — convive contrastivamente, nell’Ode, con il cal-

* Così Pretagostini 1984, p. 114. # Così Pretagostini 1984, p. 115.

£ Così ancora Pretagostini /.c. 6! Così sempre Pretagostini /.c.

168

Ricerche intertestuali

do, costituendo un archetipo ‘termodinamico’ destinato a lun-

ghissima fortuna nella letteratura amorosa, né solo poetica. La vicenda di una protagonista romanzesca come Emma Bovary è stata ultimamente rivisitata tenendo conto delle sue ‘antitesi termiche’, ovviamente implicanti «tutta una serie di valori simbolici legati alla retorica amorosa» δ. Per fare un esempio: a Rouen, dopo il ballo, Emma aveva la fronte in fiamme ... e la pelle fredda come il ghiaccio ®,

ed alla «simultaneità delle percezioni opposte» fa sèguito una ridda di sensazioni che «si mescolano fino'a raggiungere il confine in cui, ai limiti dello svenimento, scompare la coscienza di sé». Ancora: Emma, morente, spiava se stessa con curiosità, per vedere se soffriva ©.

Ma l’ombra di questo corpo «in ascolto di ciò che sta per prodursi nel suo oscuro destino organico» (verranno, assieme al sapore d’inchiostro, il senso di soffocamento, la sete, la nausea,

il freddo glaciale chesale dai piedi fino al cuore) non è il «primo» in assoluto di «tutta una serie di corpi in agguato, di cui, fino a Samuel Beckett, la letteratura moderna ci darà insi-

stentemente la rappresentazione» 4. L'ombra di questo corpo si proietta all’indietro su di un’altra ‘prima’, e ‘classica’, sagoma corporea in spietata auto-osservazione. In quel nevralgico paivop(ai) ἐμ’ avra del v. 16 dell'antica Ode — in corrispondenza anulare con φαίνεταί μοι del v. 1 — che tuttora fa discutere 9, Fränkel coglieva un’importante aspetto della questione, Cf. Starobinski 1984,p. 17. 65. (ΕΟ. Flaubert,

Madame Bovary III 6, p. 297 dell’ed.C.Gothot-Mersch,

Paris 1971.

6 Così Starobinski 1984, p.27.

6 Madame Bovary III 8, p.322G.-M.

% Così Starobinski 1984,p. 34.

61 C£. Svenbro 1984, p.67; Di Benedetto 1985 5, p. 151.

Putemi d'amore

169

osservando, nel passaggio dalla terza alla prima persona, come Saffo «schwelgt nicht in Gefühlen, sondern berichtet von Vorgängen» ὅ8,

Forse, valutata in termini propriamente arcaici, l’Ode rappresenta la più articolata, e poetica, applicazione di quella nozione non unitaria delle parti del corpo e di quella disponibilità dialogica tra !’io e le singole parti 55: ma è un punto d'arrivo, estremo, dove l’esasperazione finisce per far esplodere lo stesso, primitivo, nucleo ideologico. Questo saper prendere le distanze da sé (in quanto complesso di organi corporei, osservati uno ad uno, 0, se si vuole, analizzati a coppie), che tanto commuoveva

l’Anonimo, può perfino considerarsi, semplicemente, il prodotto di una ‘cultura’ che Saffo eleva ad altezze ‘sublimi’ perché autenticamente poetiche. Comunque sia, la tentazione dell’analogia ci ha condotto, di testo in testo, fino a Flaubert, ma non improduttivamente.

Tornando a Teocrito, come poi da Flaubert «le sensazioni

di freddo» (se trattate separatamente) saranno «riservate alle situazioni di ritorno» 70 (la fine di un itinerario, letteralmente, o,

metaforicamente, finanche la morte), così già dal poeta alessandrino le sensazioni di freddo sarebbero riservate alle situazioni di paura. Amor che 'ncende il cor d’ardente zelo, / di gelata paura il ten costretto, dirà Petrarca nella citata rima (182), ‘confondendo’ ancora caldo e freddo, mentre le distanze prese da Teocrito

nei confronti di Saffo non sarebbero una pura operazione formale e di superficie, come quella apolloniana, bensì d’intervento sui contenuti, e di superamento della ‘confusione’ tra

caldo e freddo, così da indicare la «paura dell'amore, uno stato

6 Cf. Fränkel 1969, p. 200, opportunamente ricordato da Di Benedetto 1985 5, pp. 1505, ΝΕ 69. Pare superfluo rimandare al notissimo saggio di Snell 1963, pp. 26 ss. 70 Cf. Starobinski 1984, p. 26.

170

Ricerche intertestuali

d’animo che non è più il ‘mal d'amore’ di Saffo» ”'. Non sarà inutile, a questo punto, un ritorno a Saffo.

Abbiamo sopra riferito di un’analisi della sua patologia, ordinata secondo uno schema di coppie sintomatiche in parallelismo o in opposizione: schema suggerito, oltre che dalla lettura dell’Anonimo,

dal riscontro

delle stesse abbinate

sensazioni

nella cultura arcaica, in primzis nella tradizione epica. Da una lettura così opportunamente incardinata in un codice tradizionale consegue che il cosiddetto ‘mal d’amore’ di Saffo è — per dirla ancora con l’Anonimo — una fitta σύνοδος dei più disparati ma sempre riconoscibili πάϑη: «lo stupore, la paura, il dolore,

l'amore, la morte. Il più insistito è la paura. Il meno esplicito è ’amore»”.Inverità, gli effetti via via elencati, tutti o quasi, derivano dalla paura (colpo al cuore, tremito, afasia, sudore, pallore), alcuni dal dolore (afasia) o dalla morte (oscuramento della vista, pallore) ??. Come la morte,

anche la paura e il dolore colgono sempre all’improvviso, al solo vedere o udire (se ne ricorderà con distinta precisione Teocrito) qualcuno o qualcosa: è la sola vista della ragazza a colpire Saffo, scatenando in lei tutte le sensazioni proprie del dolore, della (quasi) morte, ma soprattutto della paura ”*. Il verbo ἐπτόαισεν (v. 6), che annuncia la serie dei turbamenti, è davvero «una chiave di volta»: sintomatico, anche dal

"" Così Pretagostini 1984, p. 116, a conclusione della propria analisi comparativa tra Teocrito e Saffo. ? Così Privitera 1969 b, p. 67. ” Cosi Privitera /.c., che, nel rintracciare le analogie ‘tradizionali’, muove

preferibilmente dalle ‘coppie’ sintomatiche. Non sarà inutile qui osservare che talora i singoli sintomi, quando pure rimandino ad altro dalla paura (così, ad esempio, il pallore alla morte), ancora risentono, per così dire, della paura: lo stesso χλωρός è, per eccellenza, attribuito omerico della paura, cf., e. g. H 479 χλωρὸν δέος, ed anche di persone prese da paura, cf. K 376 χλωρὸς ὑπαὶ

είους.

”* Va qui ribadito che il prototipo, finora sfuggito, dell’eroina che (quasi) muore di paura e di crepacuore all’improvvisa vista del partner, nella fattispecie sottrattole dalla sorte epica, rimane l’Andromaca di X 463 ss.: un più che discreto fantasma per Saffo, una cara ed esibita presenza per Apollonio.

Patemi d'amore

171

punto di vista del significato, πτο(ι)έω indica tecnicamente una «frantumazione e distractio della coesione psichica», ed è quindi normalmente accompagnato da un termine esplicito di riferimento ” che ne specifica il movente: la paura, ad esempio (cf. σ dopo Saffo anche l’amore (cf. 634 ss.: ταρβοσύνη), ma Ap. Rh. I 1232 s.: Κύπρις). Nell’Ode di Saffo, tuttavia, non si precisa il movente, o

meglio non si precisa quel movente che tutti vi hanno letto: l’a-

more. «Dire che Saffo ha riferito all'amore i pathemata che in Omero erano causati dalla paura» sarebbe «un’osservazione giusta ma incompleta», poiché Saffo in realtà avrebbe «ampliato l’ambito dell’un sentimento fino a coinvolgere l’altro: la sua originalità» consisterebbe «nell’aver identificato quel punto nel quale ambedue si sovrappongono e si intrecciano in un nodo inesplicabile» 76, L’amore in Saffo si annuncia comunque — malgrado ogni

suggestione di ambiguità, ed anche qualora lo si voglia qualificare una sorta di νόσημα παχύ (v. supra) — come la paura: paura di non trovare risposta, s'è detto. L’ipotesi è persuasiva, rientrando nel campo ideologico

dell’eros saffico, regolato dall’aurea norma (e dall’esigenza) della ‘giusta reciprocità’ 77, Si spiega così come l’Ode abbia costituito l’obbligato archetipo di ogni poetica patologia d’amore (ma almeno una sarà di esclusiva paura).

Di qui la fedelissima storia del κάματος δυσίμερος, «l’angoscia di un amore infelice» 78, di Medea, agitata dall'amore

75 Concordo in merito con Privitera 1969 5, pp. 57 ss., che cita fra l’altro la ‘chiosa’ apolloniana τὴν (i.e. Medea) dè φρένας ἐπτοίησεν / Κύπρις, “unxavin δὲ κτλ. (I 1232 s.), e fornisce un elenco — epico, lirico, tragico — dei casi in cui πτο(ι)έω è (sempre) esplicitamente motivato da paura, stupore, amore od altro. 76. Così Privitera 1969 ῥ, p. 74. © Sull’argomento si veda lo stesso Privitera 1967, pp. 11 ss.; cf. Gentili 1972, pp. 60 ss.; Bonanno 1973, pp. 110 ss.; Falivene 1981, pp. 87 ss.

78. Così traduce Ardizzoni 1958, p. 73 l’espressione apolloniana (III 961).

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Ricerche

ntertestuali

«ancora segreto e già infelice perché tormentata dal timore che Giasone non debba ricambiarla: l’amore nel momento iniziale della solitudine» 75, Una sorta di prinzitive agony, di «paura clinica del crollo», recentemente, e suggestivamente, invocata per «l'angoscia d'amore: essaèla paura di una perdita che è già avvenuta, sin dall’inizio dell'amore, sin dal momento in cui sono stato stregato» *. Meno sentimentalmente: si assiste-

rebbe alla solita «estrinsecazione letteraria di una fondamentale impossibilità d'amare, di sopportare sia la presenza che l’assenza dell’amata/-o, di congiungersi a lei/lui» 81, La paura, anziché l’amore, è il movente della celebre patologia lucreziana, lettura in questo senso unica ed originale, in realtà radicale — come meglio vedremo — della ‘fobia’ saffica, depurata, per così dire, di ogni superfetazione erotica. Una let-

tura dell’Ode in chiave essenzialmente fobica è, del resto, quella

dell’Anonimo che «parla esplicitamente della paura» della poetessa, e sembra anzi voler riassumere con φοβεῖται l’intera sintomatologia amorosa #2. E lo stesso νόσημα παχύ di Aff. int. 48 — per cui, a parte i soliti disturbi fisici e ‘saffici’ (τοῖς ὠσὶ οὐκ

. ἀκούει, ... τοῖς ὀφθαλμοῖσι οὐκ ὁρᾷ᾽ καὶ φρίκη καὶ πυρετὸς xTÀ.), il malato φοβεῖται ---- è «un cas de manie aigue»: qualora il νόσημα attacchi, 6 φόβος αὐτὸν (i.e. il malato)

9 Così Privitera 1969 5, p. 71, cui rimando per la serie letteraria degli amori infelici ispirati a Saffo (pp. 72 ss.), da Apollonio a Valerio Edituo (fr. 1 Morel, su cui v., da ultimo, Masaracchia 1984, pp. 236 ss.). 8 Così Barthes 1979, p. 27, che cita la psicotica crainte de l’effoudrement come paura di un crollo in effetti già subito (Winnicott), per cui è (talora) confortevole al paziente sentirsi dire che il ‘crollo’, la cui paura mina la sua vita, è

già avvenuto: analoga la necessità, in amore, di sentirsi dire «non essere più angosciato, tu l'hai già perduta(-0)». Un disperato ma lucido tentativo, da parte del saggista innamorato, di demotivare l'eterna paura d’amore. 8 Così Canestrini 1984, p. 381, che, per la contraddizione caldo-freddo prodotta dal brivido associato alla febbre (e alla paura o all’emozione in genere), trova un «saggio e significativo» termine ad indicare il brivido nello spagnolo escalofrio (p. 390). 82 Cf. Privitera 1969 a, pp. 32 s.; 1969 6, p. 74.

173

Patemi d'amore

λάβῃ ®. Ma lo stesso Teocrito leggeva il saffico ἐπτόαισεν come ἐφόβησεν! È stato dimostrato che, al v. 48 dell’idillio XIII πασάων γὰρ ἔρως ἁπαλὰς φρένας ἐξεφόβησεν,

dove le tre Ninfe si innamorano di Ila, la lezione genuina ἐξεφόβησεν * rimanda all’identico episodio raccontato da Apollonio (I 1232 s.), dove una sola Ninfa s'innamora, quando appunto τῆς δὲ φρένας ἐπτοίησεν Κύπρις,

con perfetta memoria del saffico καρδίαν ἐπτόαισεν (v. 6) 9.

Teocrito — d’accordo col raffinato anonimo esegeta, e con la comune tradizione lessicografica, cf., e. g. Hesych. € 5568 L. ἐπτόημαι᾽ πεφόβημαι --- non solo interpreta πτο(ι)έω, in situa-

zione amorosa, come poféw, ma ritiene l’uno equivalente poetico dell’altro. La ‘strana’ scelta 86 di ἐξεφόβησεν, che denuncia senza ambiguità lo spavento d’amore, è però sintomatica. La

® Cf. Littré 1851, pp. 248 ss. Da notare che in alcuni specifici casi registrati nel Corpus Hippocraticum l'interesse del medico per il dato della paura è confermato dal fatto che tale dato «è posto a conclusione di tutto il quadro clinico» (cf. Di Benedetto 1986, p. 37). % Recata da Καὶ e mantenuta da Gow, in luogo della lezione ἀμφεκάλυψεν di La e Va (evidente suggestione del modello omerico, il solito 2 294), emendata in ἐξεσόβησεν da Jacobs, seguito da Gallavotti (per la questione, si veda Serrao 1971, p. 141). Né sarà inutile rileggere i vv. 133 ss. delle nostre Incantatricet: "Egwc.../... φλογερώτερον (φοβερώτατον in PArtin.!) alder/.../ σὺν dè κακαϊςμανίαις

καὶ παρϑένον .... καὶ

νύμφαν

È

poBno

(e) κτλ.

# Apollonio neppure quimanca diomaggiareOmero, recuperando, attraverso Saffo, l’odissiaco x 298 τῶν dè φρένες ἐπτοίηϑεν (in sede identica, cf. Privitera 1969 6, p.57 n. 24).

86 Lo stesso Gow si stupisce dell’elezione che gli sembra singolare: ἐκφοβεῖν si spiegherebbe come sostituzione, forse, del più corrente, per leemozioni d'amore ἐκπλήσσειν (1952, II pp. 240 s., cf., in proposito Serrao 1971, p. 141n.57).

174

Ricerche intertestuali

semplificazione teocritea è di nuovo una chiave di volta (come

già la saffica valenza di ἐπτόαισεν) per capire le ragioni dell’emozionata Simeta. La sua ‘paura dell'amore’ discende da quella stessa paura che l’Anonimo sentiva emergere dalla σύνοδος παϑῶν descritta da Saffo: la stessa doppia constatazione — che l’afasia è plausibile per lo scoliasta in una Simeta συσχεϑεῖσα τῷ φόβῳ, e che l’afasia e il sudore freddo erano propriamente

«alterazioni fisiologiche sintomatiche di una sensazione di paura» prima di specializzarsi in Saffo «come sintomi del ‘mal d’amore’» # — prova in realtà il necessario ruolo del φόβος nella sindrome saffica per la sensibilità antica, anche teocritea. Non

vedrei, dunque,

in Teocrito

uno stato d’animo

(la

‘paura dell’amore’) diverso dallo stato d’animo di Saffo (il ‘mal d’amore’): quest’ultimo si riduce ad uno stato fobico, sia pure sui generis. La fobia saffica è forse ancor più essenziale di quanto voleva l’Anonimo (e Teocrito). La lucidità analitica con

cui sono da lei catalogati gli aspetti «crudamente serve a «rappresentare una condizione

affettiva

fisici» inespri-

mibile» 8: in realtà esprimibile, ed espressa, in termini che definiremmo, col rischio di sorprendere, metaforici. Si può infatti dire, con Aristotele, che l’atto creativo di

Saffo consiste nel sopprimere l’avverbio comparativo ὡς mentre indica i ‘disturbi dell'amore’ come i ‘disturbi della paura”: avremmo potuto avere una similitudine, laddove invece abbiamo una metafora (cf. Rhet. III 1406 b 20). La vista della

ragazza produce reazioni fisiche che sembrano «identiche a quelle di un improvviso terrore; ed è un miracolo che di amore si tratti ma di amore non esplicitamente si parli» 59, proprio per-

#7 Cf. Pretagostini 1984, p.115. 88 Così Privitera 1969 ῥ, p. 78. 8 Così ancora Privitera /.c. % Non sarei convinta che «l'elemento chiarificatore (2.6. l’amore) doveva

essere nella parte perduta» (così Privitera 1969 5, p. 69. Anche dando per sicuramente perduta (ma ancora si discute, cf. da ultimo Svenbro 1984, pp. 66 s.) !’ultima parte del carme, resta il fatto che il quadro sintomatico non contie-

Patemi d'amore

175

ché si parla di paura per significare l’amore, almeno quella speεἰς d’amore (una primitive agony!) che in Saffo provocava la vista dell’amata. Non parlerei neppure di «emozione violentissima, ma di natura indeterminata» così da «permettere per tutti gli elementi due letture fondamentali: quella della paura con Lucrezio o quella dell'amore con Teocrito ed altri» 3) (anzi tutti gli altri). La chiave di lettura non è tanto, approssimativamente, l'ambiguità,

quanto, più precisamente, la metafora: Saffo non dice una ‘mezza verità’, ma «letteralmente parlando mente» perché «vuole sul serio asserire qualcosa di vero», metaforicamente °, Al ‘tenore’ ἔρως corrisponde il ‘veicolo’ φόβος, rappresentato dal campo d’immagine che tradizionalmente gli è proprio. Lucrezio, solitario quanto geniale, non fa che smetaforizzare i patemi di Saffo riportandoli al loro naturale Bildfeld, quello del metus (cf. III 141): un’operazione creativa, ma per ‘sottrazione’. Un’opera-

zione, se si vuole, premonitrice: tale vemzens metus, coinvolgente prima la »zens e poi l’intero io vitale (consentire animam totam videmus, c£. vv. 152 s.), prefigurai materiali effetti della

più coinvolgente delle passioni: nient'altro che la passione d’amore, più avanti anatomizzata e, come si sa, condannata dallo

stesso Lucrezio perché naturalmente insaziabile e dunque irresolubilmente angosciosa (è la natura a negare che unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam, cf.

IV 1086 s.). La vicenda che Saffo rivive e rappresenta, ogni volta col medesimo doloroso stupore, si traduce, per Lucrezio, in

ne, in sé, alcun elemento di ‘chiarificazione’ erotica. Il ‘mistero’ della bellezza del carme sta in realtà in quella «parte di mezzo» che gli antichi lettori-imitatori ammirarono «come una ardita rivelazione, come la conquista di una nuova dimensione espressiva» (così lo stesso Privitera, p. 43). 9 Così Privitera 1969 5, p. 68.

2 Così, ad esempio, sullo statuto diverità della metafora ‘conoscitiva’, Eco 1980, p. 193. Non è questa la sede per soffermarsi sul pur fascinoso tema: ci

preme soltanto sottolineare la condizione di ‘verità’ della patologia saffica, il cui ‘spirito’ amoroso è conoscibile attraverso, e oltre, la ‘lettera’ fobica.

176

Ricerche mtertestualt

condizione

‘serenamente’ contemplata col pessimismo della

ragione.

Comunque sia, tutti gli altri ‘imitatori’, a cominciare da Teocrito, si attengono più fedelmente alla ‘figura’ patologica scoperta da Saffo, esistenzialmente, è da presumere, prima che letterariamente. Così Apollonio si limita a variare nella forma l’esperienza saffica — appena insinuando un atteggiamento subdolo nel suo Eros di marca archilochea ” — e Medea sentitamente reinterpreta l’archetipica vicenda dell'amore ‘nel momento iniziale della solitudine’, archetipica per tutta una serie di future impossibili storie amorose. Non fa eccezione, in questo senso, neppure Teocrito raccontando dell’infelice Simeta. I ‘nuovi contenuti’ stanno semmai in una versione riveduta e corretta dell’antica paura saffica. La quale — non per caso sfuggente ai più accaniti tentativi di determinazione cronachistica * — finalmente, per così dire, si storicizza, adattandosi realisticamente alla vicenda

della piccola Simeta, vicenda che il nei particolari perfino quotidiani. stica tende a precisare, ma anche passata storia saffica d'amore (e di

lettore è invitato a conoscere La nuova dimensione realia rimpicciolire, i modi della paura). Così, dopo il coup de

foudre (vv. 82 ss.), quando la ‘storia vera’ di Simeta e Delfi ha

uno svolgimento e un sèguito, prima del compimento (illusorio quanto a felicità), emergono quelle sensazioni di paura, che caratterizzano secondo gli stessi dettami saffici l'angoscia amorosa: solo che, sempre realisticamente, il turbamento finisce

persino per tradursi nel timore delle più ‘banali’ conseguenze (la perdita della verginità), che non mancheranno peraltro di verificarsi. D'accordo, dunque, che le due similitudini «biotiche» — i bimbi balbettanti nel sonno e la bambola di cera (vv. 108 5. e

» Cf. ἐλάϑρῃ di Apollonio (v. 296), motivato dal furtivo Eros di Archiloco, persino ladro (v. 3 κλέψας).

% Sulla questione, si veda il giustamente polemico Privitera 1969 5, pp. 44 s.

Patemi d'amore

177

110) — «hanno la funzione di caratterizzare e personalizzare in senso teocriteo tutto il secondo

momento»

(cioè il momento

della visita di Delfi) 5: il ‘senso teocriteo’ è però dato dalla stessa esemplificazione concreta, ed anzi realistica, che il ‘moderno’ poeta ha inteso dare dell’eterna vicenda saffica. Non più ‘auratica’, la storia si svolge in termini dimessi, e domestici, che nulla tolgono peraltro alla (poetica) drammaticità della nuova situazione. La distanza da Saffo è perfino maggiore di quella che si vorrebbe determinata dalla ‘paura’ e non più dal ‘male’ d’amore. Emerge quindi la funzionalità dell’oppositivo ἐπάγην: «qui, come sempre in arte non bassa né artificiosa», per dirla

con Pasquali, «la singolarità della forma è indizio sicuro della novità dei contenuti» *. La spia d’una ancor più rilevante singolarità di forma (grammaticale), e quindi di contenuto, è rintracciabile, a nostro

avviso, nell’uso saffico, e poi teocriteo, della peculiare correlazione ὡς ... ὥς (... ὥς), che istituisce un’esatta coincidenza

temporale tra il vedere e l’innamorarsi. Non è sfuggito che «in Teocrito Simeta, rievocando prima

volta

la

che vide Delfi, dice (II 82):

χὠςἴδον, ὡς ἐμάνην, ὥςμοι πυοὶ ϑυμὸς ἰάφϑη», né è sfuggito che qui c’è «l’innamoramento a prima vista, e c’è il

# Così, opportunamente, Pretagostini 1984, p. 113. % Così Pasquali 1968, p. 106: che in realtà si riferisce ad un hapax lessicale, κνυζόω, usato inv 401(cf.433) perannunciarel’«esecuzione dell’incanto», cioè

la trasformazione di Odisseo in cisposo mendicante ad opera di Atena. Ma il principio è valido anche per la ricerca di singolarità nel ‘riuso’ poetico, magari, come nel nostro caso, competitivo: l'unicum omerico πήγνυται, riferito alla paura, è cristallizzato nel più secco πάγη da Apollonio (in ‘oggettiva’ opposizione a Saffo), e poi perfezionato 441} ἐπάγην di Teocrito (in soggettiva gara con Apollonio, e inoggettiva opposizione a Saffo).

178

Ricerche intertestualt

triplice ὡς» ”, che «a sua volta, Teocrito ebbe presente un verso omerico, = 294: ὡς d'idev, ὥς μιν ἔρως πυκινὰς φρένας ἀμφεκάλυψεν»,

che «si tratta anche qui di un improvviso insorgere del desiderio amoroso (anche se non del primo innamorarsi)», ma che Teocrito «ebbe anche presente un passo famoso dell’ode di Saffo Φαίνεταί μοι xfvog ... αἱ ν. 7 s.: ὡς γὰρ ἐς σἴἴδω βρόχε᾽, ὥς pe φώναισ᾽ οὐδὲν ἔτ᾽ εἴκει»,

dove certo Saffo «si discosta alquanto dalla linea diritta che dal passo omerico citato sopra giunge fino a Teocrito ed oltre, poiché ὡς βρόχε(α) col congiuntivo ha valore iterativo: non si tratta di una sola apparizione improvvisa della persona amata,

ma degli effetti della passione amorosa ogni volta che Saffo la vede» 8 Questa singolarità di Saffo non ha mancato di suscitare dubbi, nonché una disputa grammaticale, giustamente sopita da Page: il fatto che «in Sappho the first ὡς introduces an aorist subjunctive and the second a present indicative» rappresenta

un’eccezione certo vistosa in mezzo a tutti gli altri casi in cui «ὡς introduces an aorist indicative in both halves of the formula» (in Teocrito in tutti e tre i segmenti temporali), ma spiegabile col fatto che il modello omerico è da Saffo adattato «to suit the requirement of her contest» ®. Peccato che i termini di tale adattamento sfuggano poi a Page, il quale «ha il torto di ritenere

” Comein Verg. Ec. VII 41 c'è iltriplice μέ, cf. Timpanaro 1978, pp.233s. (nonché supra n. 39).

% Cosi Timpanaro 1978, ρρ. 235. ® Lo scarto dalla ‘linea’ d'uso di ὡς... ὥς veniva riscontrato in Saffo da Braun 1950, pp. 333 ss., la quale tuttavia arguiva che si dovesse leggere βροχέως invece di βρόχε᾽ ὥς. Oltre alle giuste obiezioni di Page 1955, pp. 22 s., giusta anche l'osservazione di Marzullo 1967, p. 55: che il ms scriva Bodyewolue), con doppio accento, è certo una spia in favore dì βρόχε᾽ ὥς.

Patemi d'amore

179

che ‘quando ti guardo’ equivalga a ‘quando ti guardo (con lui)», poiché è chiaro che «con il v. 7 da un’occasione particolare si slitta in una condizione generale, valida sempre» !°. E peccato che sia a tutti sfuggito che questa condizione generale, in quanto ‘ripetibile’, era già suggerita a Saffo dallo stesso modello omerico, che di sèguito recita (vv. 295 s.)

οἷον

ὅτε

πρῶτόν περ

ἐμιγέσϑην φιλότητι

εἰς εὐνὴν φοιτῶντε.

Dunque: già Zeus appena vide Era, quella volta, fu preso d’amore, come la prima volta. Saffo condensa l’emblematico, e ripetuto, incontro in un unico nesso sintagmatico, dove la funzione iterativa di ὡς è deliberatamente (e original-

mente) introdotta per meglio (e a suo modo) «dissolvere persona e occasione moltiplicandole indefinitivamente»: funzione altrove data dall’ossessivo δηὗτε (cf. fr. 1, vv. 15, 16, 18) —

topico segnale del rinnovarsi della ‘solita’ vicenda d’amore 10] — preceduto da κἀτέρωτα (v. 5) — costrittivo richiamo ad Afrodite 102. e dunque più che mai implicante, nella sfera amorosa, «un senso di sacrale attenzione, di religioso stupore, per la identica manifestazione del divino» !®. L'“eterno ritorno’ d’Amore disidentifica persone e occasioni, individuando uno spazio ed un tempo sacri, quindi circolari.

Teocrito, invece, si attiene al ‘fatto’ narrato da Omero, trasferendo propriamente sulla terra la vicenda inaugurata dai già umani, troppo umani, Zeus ed Era. Laddove Saffo aveva inteso

100 Così Privitera 1969 ῥ, p.55. 101 Com'è noto, l’avverbio annuncia il ripetersi dell'esperienza amorosagià in Omero (cf. Γ 383), poi, ovviamente, nei lirici, da Saffo (1, 15, 16, 18; 22, 11; 130, 1 V.) ad Alcmane (148, 1C.), Ibico (6, 1 P.), Anacreonte(2, 1;9, 1; 13, 1;25, 1;35, 1;94, 1) εἰς.

102 E (quasi) corrispettivo ‘sacrale’ di δηῦτε: «il rammentare i precedenti, non solo conferisce maggiore autorità all’invocazione, ma rappresenta una formadicostrizione esercitata sulla potenza divina» (così Longo 1964, p.353: cf. A453,E116,etc.).

103 Così Privitera 1967, p. 43.

ISO

Ricerche intertestuali

sacralizzarla, liberandola da qualsiasi costrizione temporale, Teo-

crito la ripropone nell’ attimo

preciso

dell’incontro, ed

in termini lineari (cronologici), finalmente utili ai fini di una ‘sto-

ria”: «non è certo la prima volta che Zeus vede Hera, né ad un singolo innamoramento si riferisce Saffo», mentre Teocrito— il primo, sembra, «ad applicare al coup de foudre uno schema sintattico che si prestava assai bene adesprimerlo», ripreso da Verg. Ec/. VII 41 ut vidi, ut perti, ut etc., variato da Ov. Her. XII 33 [35] er vidi et

perti, XVI 135 ut vidi, obstupui 195 — racconta, laicamente, una storia d'amore a prima vista, che ha un fulmineo inizio ma, certamente, anche una fine.

Da Teocrito in poi non comanderà più, incontrastato, l'eterno’ amore di Saffo — cui ancora obbedirà il nav simul te, / Lesbia, aspexi, nihil est super mi dell’illuso, inguaribilmente

Catullo (LI 6 5.) 105 — e sarà il momentaneo coup de foudre ad avere fortuna presso quei poeti latini che vorranno raccontare ‘storie d'amore’, come Virgilio ed Ovidio. Ma, in un (prevedibile) futuro, non mancherà l’avvento (o il ritorno?) di un poeta ‘materialista’ non meno di Lucrezio, e ‘appassionato’ non

meno di Saffo, disposto, ancora, a cantare l’eterno ripetersi della vicenda amorosa, l'eterno e conseguente avviso di morte: l'eterna e arcana paura, però illuministicamente indagata, e almeno dubitativamente motivata con la scoperta di una solitudine, per così dire, primaria. Così Leopardi, di nuovo, e con parole antiche, in Amzore e Morte, vv. 27 ss.: Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto, Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale 104 La preziosa notazione è di Timpanaro 1978, pp. 235 s. n. 23, cf. p. 278: istruttivo anche il fatto che Ξ 294 &«l’ u nico passoomerico in contesto eroti-

co».

105 L'eccezionemièstata fatta notare da Alfonso Traina durante un seminario presso il Dipartimento di Filologia classica di Bologna: colgo qui l'occasione per nuovamente ringraziarlo.

Patemi d'amore

D’amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura Allor questo deserto: aselaterra Forse il mortal inabitabil fatta Vede ormai senza quella Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura...

181

Capitolo nono UN LAPSUS CALAMI? (Virgilio e Teocrito)

Nel mezzo dell’architettura delle Bucoliche, giusto all’ini-

zio della sesta, si è voluta di recente individuare la presenza di un «proemio al mezzo», appunto, la cui qualità programmatica

sembra difficilmente contestabile !. Se, certamente, i

primi versi di Ec/. VI (una decina) sono «alessandrini almeno quanto il prologo stesso degli Altra di Callimaco, che assai da vicino essi ripropongono» 2, altri dieci versi (64-73) non meno nevralgici — quelli che celebrano per bocca di Sileno l’ i n v estitura di Gallo ad opera di Lino — ancor meglio riveleranno un progetto poetico, destinato ad aumentare i debiti di Virgilio nei confronti di Teocrito. Vedremo così confermarsi la funzione di Programmgedicht del carme virgiliano, e reciprocamente riconfermarsi quella delle Talisie teocritee, già insignite, ma solo negli ultimi tempi, del ruolo da sempre, invece, facilmente riconosciuto al citato prologo degli Αἴτια o all’ottavo Mimo di Eronda ’. Che anche la scena della Dichterweihe, come la dichiara-

zione espressa nella recusatio iniziale, dovesse convenzionalmente rispondere, nella sesta Ec/oga, ai modi della poesia pro-

! Cf. Conte 1984, pp. 121 ss., il quale individua, nella poesia ‘colta’ romana, accanto al tradizionale proemio tematico (il quid), un proemio programmatico (il quale), collocato dal poeta a metà dell’opera. Oltre all’accesa polemica in merito (cf. La Penna 1981, pp. 217 ss.; Conte 1982, pp. 123 ss.; La

Penna 1983, pp. 115 ss.; Conte 1983, p. 153 s.), rinvio all’equilibrata e sintetica nota di D'Anna 1985, p. 9 n. 24, il quale accetta la tesi di Conte circa il valore programmatico del «proemio al mezzo», che non comporta un’inderogabile posizione di perfetta centralità. 2 Così Conte 1984,

p. 126.

> Sulla questione, £ in particolare Serrao 1971, pp. 13 ss.

184

Ricerche intertestuali

grammatica di scuola alessandrina, era forse da sospettare. Ma veniamo al testo (vv. 64 ss.): Tum canit, errantem Permessi ad flumina Gallum 65

Aonas in montis ut duxerit una sororum,

utque viro Phoebi chorus adsurrexerit omnis, ut Linus haec illi divino carmine pastor, floribus atque apio crinis ornatus amaro, dixerit: «Hos tibi dant calamos, en accipe, Musae,

70

Ascraeo quos ante seni, quibus ille solebat cantando rigidas deducere montibus ornos;

his tibi Grynei nemoris dicatur origo, ne quis sit lucus, quo se plus iactet Apollo».

Tra i personaggi mitici cantati da Sileno d’improvviso si inserisce il reale, e vivente, amico e collega dello stesso Virgilio: «intertexit his mythis Gallum suum ad Musarum chorum deductum et a Lino fistula Hesiodea donatum», commentava Heyne ‘, e l'episodio per tutti — vuoi per chi lo senta incluso a forza nella ‘rapsodia’ di Sileno, vuoi per chi invece lo percepisca come «proprio il culmine del carme» ἦ — rappresenta comunque il mezzo adottato da Virgilio per ricomporre in onore di Gallo la celebre scena in cui Esiodo raccontava (ΤΡ. 22 ss.) la propria vocazione poetica ®.

Questa troppo pacifica «consegna a Gallo della zampogna che fu di Esiodo» 7 oppure, traducendo alla lettera, dei «calamı 4 Cf. Heyne-Wagner 1830, p. 180. * Così Paratore 1964, p. 535. Quanto alla precedente ed opposta posizione, senza contare l’ipotesi estrema che il passo sia interpolato (Hammer), basti ricordare l'autorevole disagio di Jachmann 1923, p. 288, cui l'episodio di Gallo appariva una sorta di corpo estraneo nell’insieme dei canti di Sileno: cf. in merito Berchem 1946, p. 36. Non è questa la sede per passare in rassegna le innumerevoli discussioni sul senso unitario dell’Ec/oga ed in particolare dei canti di Sileno: tramontata ogni ipotesi catalogica, magari in onore di Gallo (Skutsch), resta comunque aperto, in particolare, il problema della consegna

a Gallo della zampogna esiodea, a prescindere dall’indubbia ma generica esaltazione della «magia del canto» (Biichner 1963, p. 260) e della «potenza creatrice e incantatrice della poesia» (Lieberg 1982, p. 227). € Così, e.g., Perret 1970, p. 73. ? Così D’Anna 1981, p. 284.

Un lapsus calami?

185

che le Muse avevano già offerti ad Esiodo» ®, non rispetta tuttavia — anche a prescindere dalle più generali e diverse modalità della ‘chiamata’ poetica esiodea (per cui v. infra) — il dettato della Teogonia, dove non si narra affatto del dono di una σῦριγξ (o di κάλαμοι), bensì di uno σκῆπτρον (v. 30)! La gaffe non è così grave come quella rimproverata da Pausania (IX 30, 3)

all'autore della statua, sempre del nostro Esiodo, che, ai tempi dello storico, troneggiava con la cetra sulle ginocchia nel santuario delle Muse sull’Elicona. La cetra era notoriamente appannaggio dei primi aedi epici e poi dei cantori dei normo: citarodici, quando ormai l’epica veniva recitata ed i poeti epici, abbandonata la cetra, volentieri ‘si appoggiavano’ alla δάβδος: che Virgilio abbia voluto sottrarre ad Esiodo lo ‘scettro’ per evitare ogni confusione (deprecata ancora da taluni moderni) con il ‘bastone’ dei rapsodi e per conferirgli, senza equivoci, un simbolo bucolico e anti-epico ?? Comunque sia, il finora trascurato lapsus calami (vel calamorum), difficilmente involontario nel poeta doctissimus, sarà da leggersi, crediamo, quale esemplare «peccato di poeta alessandrino» 19, come una civetteria allusiva, una sorta di Leitfehler (Maas ci perdoni l’abusio) utile a rilevare la stratificazione intertestuale, e a rintracciare, sì, l'ideale modello esiodeo, ma passando, materialmente, attraverso il

calco teocriteo. 8 Così Paratore 1964, p. 536. * Sulla questione si veda la sintesi di Càssola 1975, p. XXIV, che si intrattiene sulla critica di Pausania, insistente sull’incapacità citarodica di Esiodo, -

per ciò escluso dai relativi agoni di Delfi. Sul ‘bastone’ dell’aedo e sullo ‘scettro’ esiodeo, ampia discussione e bibliografia anche in Lanata 1963, p. 26; ed ora, soprattutto, in West 1966 4, pp. 163 s.

' Così Serrao 1971, p. 108, cf. supra p. 166. Solo Kambylis 1965, p. 188 (non ignorato da Suerbaum 1968, pp. 316 s.), ricordando in nota (176) un indifferente accostamento di Skutsch tra la zampogna di Lino e il ramo di Esiodo, osserva: «Nun wissen wir, daß Hesiodos nach seiner eigenen Erzählung einen Lorbeerzweig als Symbol für seine Dichterweihe pflücken durfte. So muß calamos entweder auf die Hirtenflöte des Hesiodos oder auf den Lorbeerzweig ausspielen»: altrettanto indifferente ed elusiva, come si vede, la sua conclusione. Sulla zampogna, curiosamente mai nominata da Esiodo, v. infra n. 15.

186

Ricerche intertestuali

Nella «scena madre» delle Ta/isie si assiste all’investitura di Simichida, che riceve la κορύνα (v. 43) o, se si vuole, il Aaywβόλον (v. 128), «simbolo dell’esistenza’ stessa dei pastori e, quindi, della poesia bucolica in genere» !!: ne è degno destinatario, perché metaforico ‘rampollo di Zeus, tutto plasmato sulla verità’, mentre il donatore del simbolo (esiodeo!) è il poeta-

pastore Licida, subito presentato come, per eccellenza, συρικτάς (e συρικτάς, συρίσδω, σῦριγξ sono termini tutt'altro che ovvi, come verrebbe di opinare, nella dizione bucolica teocritea

e degli autori del Corpus, ma v. infra). Si deve ormai dare per acquisito che Licida consegna come ἐκ Μοισᾶν ξεινήϊον (v. 129) il proprio bastone in memoria (questa volta esatta!) dello σκῆπτρον offerto dalle Muse ad Esiodo, mentre la locuzione πᾶν En’ ἀλαϑείᾳ πεπλασμένον (v. 44), riferita all’ éovog-Simichida, rimanda ancora al proemio esiodeo con la dichiarazione programmatica, per bocca delle

Muse, di sapere ἀληϑέα γηρύσασθαι (v. 28) 12, Poiché «la letteratura ellenistica non è scritta per un pubblico ignorante», Teocrito «presuppone nel suo pubblico la conoscenza del prologo esiodeo», senza dover recitare esplicitamente il nome dell’autore: la consegna nelle mani di Simichida dell’allusivo simbolo pastorale mira evidentemente, oltre a qualificare la musa teocritea come bucolica, ad imparentarla per via diretta con quella esiodea, che peraltro «in età ellenistica veniva generalmente contrapposta a quella epico-omerica» !5. Ma c’è di più:

sulla responsione simbolica tra la κορύνα e l’Epvog teocritei si riflette altresì, per un autentico gioco di specchi, l’immagine 1! Così Serrao 1971, p. 36. 2 Gow

1952,

II p.

142 scorgeva

per primo

una connessione

tra la

κορύνα teocritea e lo σκῆπτρον esiodeo, fornendo a Puelma 1960, pp. 144 ss. la chiave per interpretare l'investitura teocritea come programmatica (analogamente al prologo della Teogonia e a quello degli Αἴτια): sul problema, e per un’ampia messa a punto ed una più convincente conclusione, cf. Serrao 1971, pp. 29 ss. Non particolarmente interessante, ai nostri fini, il più recente

Schwinge 1974, pp. 40 ss., specificamente attento alla «Theokrits Dichterweihe» dell’Idillio VII. 15 Così Serrao 1971, p. 36, cf. 23.

Un lapsus calami?

187

dello σκῆπτρον esiodeo ricavato da un fiorente ὄζος di alloro (v. 30)! Il virgulto-Simichida rivendica sempre più, anche metaforicamente, la propria arborea ascendenza ascrea. Quanto a Licida, sarà il caso qui di ribadirne la specifica competenza:

egli è immediatamente

salutato συρικτὰς

μέγ᾽

ὑπείροχος ἔν τε νομεῦσι (v. 28) da Simichida, che si dichiara invece genericamente ἀοιδὸς ἄριστος (in effetti non ha ancora ricevuto il ‘crisma’ bucolico). Non si è mancato di osservare, a

proposito del ‘segnale’ lanciato dall’attributo con cui si annuncia la funzione dell’atstöAog nel racconto teocriteo, che ovorxτάς è tecnico, nel linguaggio bucolico, come συρίσδω (calamıs agrestis insono: Rumpel), entrambi specificamente impiegati «in Teocrito e negli altri autori del Corpus ... per qualificare e delimitare il canto pastorale» !* nei confronti dei più generici ἀοιδός, ἀείδω. «Lycidas is commended as a συρικτάς» e «his instrument is the σῦριγξ», si preoccupa di annotare Gow, sottolineando come, nel Corpus teocriteo, ogni menzione della σῦριγξ porti inevitabilmente a parlare di canto, senza contare la simbolica incidenza in ogni occasione di furto o di scambio donativo dello speciale strumento "7. L’ombra della σῦριγξ che aleggia inevitabilmente sulla scena dell’investitura bucolica delle Talisie, rifatta peral4 Così Serrao 1971, p. 22. 1 C£. Gow 1952, II pp. 215 e 129. Vale la pena qui di osservare che i due omerici νομῆες τερπόμενοι σύριγγι (X 526), effigiati sullo scudo di Achille in una scena d’agguato nella città in guerra, ritornano (e con essi la menzione della σῦριγξ: l’unica!), in Esiodo, anzi nello Scutum pseudoesiodeo, però trasferiti nella città in pace, e moltiplicati e trasformati nel χορός maschile che segue il carro della sposa (nell’impreziosita scena del corteo nuziale, cui Omero accennava appena): τοὶ μὲν ὑπὸ λιγυρῶν συρίγγων ἵεσαν αὐδὴν / ἐξ ἁπαλῶν στομάτων κτλ. (vv. 278 s.). L’unicitä dell’occorrenza, e l'assenza dei termini affini o equivalenti (συρίζω, συρικτῆς, κάλαμοι εἰς.: αὐλός e adinme sono ancora, rispettivamente, in Sc. 281 e 283) nel Corpus esiodeo è certamente casuale (in Omero e negli Inni più volte risuona la συρίγγων ἐνοπή, e σύριγγες e κάλαμοι poi risuoneranno in Pindaro, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone etc.). Sulla varietà σῦριγξ, αὐλός, δῶναξ, πλαγίαυλος, esemplare Theocr. XX 28, ed alla σῦριγξ pastorale teocritea, la quale «plerumque e septem constabat calamis» (Rumpel) si attiene volentieri Virgilio, cf. Ecl. Il 36 s. disparibus septem compacta cicutis/fistula.

188

Ricerche intertestuali

tro su quella esio dea, siproietta fin sulla scena dell’investitura virgiliana con alcune produttive quanto sorprendenti conseguenze. La zampogna donata da Lino a Gallo suonerà meno falsa in rapporto alla citazione esiodea solo in virtù del tramite teocriteo: non aveva del resto esordito Virgilio con Primo Syracosio dignata est ludere versu / ... nostra Thalea? E nella recusatio-excusatto !* acutamente Pfeiffer trovava lo stesso motivo callimacheo trasformato in stile bucolico "7. In concreto: se è vero che la consegna nelle mani di Simichida, da parte di Licida, dell’allusivo simbolo pastorale (il bastone) mira a qualificare la musa teocritea come bucolica, ma anche ad imparentarla per via diretta con quella esiodea, si dimostrerà altresì vero, e verificabile, che la consegna nelle mani di Gallo, da parte di Lino, del non meno allusivo simbolo pastorale (la zampogna)

mira a qualificare la musa virgiliana (delle Eclogae) come bucolica, ma anche ad imparentarla con quella esiodea per l’obbligata via indiretta teocritea. I due testi bucolici — a ben vedere in allusivo rapporto chiastico: Virgilio ‘inventa’ i calamzi e deve quindi imporne furbescamente, quanto espressamente, l’ascendenza ascrea, mentre Teocrito non ‘bara’ sul simbolo iniziatico

e può evocare Esiodo senza bisogno di nominarlo — scopriranno una strettissima, duplice analogia, che assolverà felicemente il lapsus virgiliano. Lapsus rivelatore, non vorremmo dire ‘intenzionale’, ed ancora di marca teocritea: spesso in Teocrito «l’incoerenza chiaramente denunzia l’imitazione» !8, come, ad

esempio, nelle stesse Talisie la preoccupazione di qualificare la propria poesia come bucolica fa dire al poeta cittadino (!) Simichida di aver imparato molti bei canti dalle Muse mentre pascolava le vacche sui monti (v. 92). Dell’ ‘incoerenza’ teocritea è

complice un dotto riferimento alla Teogonia (vv. 23 s.), mentre di quella virgiliana saranno complici più richiami al modello

‘5 Per cui ct. Wimmel 1960 passim, nonché D'Anna 1983, pp. 33 ss., e 1985, p. 4.

: Cf. Pfeiffer 1928, p. 322. !8 Così Serrao 1971, p. 33.

Uhr lapsus calamı?

189

teocriteo: modello, in quanto giä compiuta trasformazione (ellenistica) dell’archetipica investitura esiodea, e nei modi esemplari, come si vedrà, seguiti da Virgilio. I suoi calarzi, in verità sem-

pre più neo-bucolici che vetero-esiodei, rimandano alla σῦριγξ di Licida non tanto, o soltanto, per la precisa indicazione del

genere poetico, quanto per due innovazioni introdotte da Teocrito nei confronti di Esiodo, e scoperte non senza fatica dagli studiosi teocritei, cui peraltro avrebbe giovato la ‘lettura’ virgiliana delle Talisie come la più suggestiva oltre che palese conferma. La vocazione poetica di Esiodo, innovativa, se non opposta all’ invocazione dell’aedo omerico, si svolge —

come taluno ha rilevato — secondo uno schema analogo a quello delle chiamate profetiche di memoria biblica, la cui tipologia fissa prevede: «una serie di notizie biografiche introduttive che collocano spazialmente e temporalmente l’incontro con Jahvé, teofania o visione (che possono anche mancare), discorso da parte di Jahvé con l'affidamento di una missione all’eletto..., consegna di un simbolo» !°. Così, nella Teogonia, che ‘comincia’ dalle Muse Eliconie, si narra come «esse un giorno insegnarono ad Esiodo un bel canto mentre pasceva gli agnelli sulle pendici dell’Elicona», e come per la prima volta indirizzarono all’eletto le fatidiche parole «noi sappiamo dire molte menzogne simili a verità, ma sappiamo anche, quando vogliamo, proclamare la verità», e come «gli ordinarono di cogliere per bastone un ramo di fiorente alloro, stupendo» ?°. Alla tradizione di Esiodo e non di Omero si richiama Teocrito, non senza introdurre, tuttavia, un paio di novità. La pri» Cf., di recente, Bertolini 1980, pp. 129 ss., che ribadisce le interessanti analogie fra Esiodo e i profeti biblici, in particolare Amos, per cui cf. Detienne 1963, pp. 10 ss., nonché Andrews 1943, pp. 194 ss. °° La traduzione è di Lanata 1963, pp. 23 ss., cui rinvio anche per il puntuale commento. Non affrontiamo qui la spinosa alternativa testuale δρέψασαμδρέψασθαι, che non investe tuttavia direttamente il nostro discorso (sul problema cf. da ultimo West 1966 4, p. 165).

1590)

Ricerche mtertestrali

ma, e la più evidente, è costituita dalla mediazione ‘tecnica’ affidata dalle Muse al poeta-pastore Licida, attore materiale dell’investitura, laddove Esiodo riceveva il dono direttamente dalle dee. Di qui l’aureola del ‘divino’ conferita al personaggio Licida, presentato nei modi tradizionalmente riservati in Omero alle apparizioni di divinità, riconoscibili per «determinati infallibili contrassegni», non ultimo il ‘superiore’ sorriso, stereotipo

anche nel nostro autentico δῖος

αἰπόλος ?!. La divinizzazione

si rende necessaria appunto per il trasferimento delle funzioni delle Muse esiodee al pastore Licida, che si annuncia come σὺν

Μοίσαισι (v. 12) e denuncia il dono come ἐκ Μοισᾶν ξεινήϊον (v. 129): assolvendo del resto un compito altrove normalmente affidato a divinità (come le Muse in Esiodo, così Apollo in Callimaco), perché, dati i gusti realistici teocritei, solo un pastore

poteva consacrare Simichida-Teocrito quale archegeta della poesia bucolica ??. La seconda, né meno importante, novità teocritea consiste

nella consacrazione, e non già nell’investitura, di un poeta che

da tempo esercita il proprio mestiere. Singolare iniziazione quella di Simichida: a differenza di Esiodo, che ricorda i propri esordi (v. 24 tòv déue

πρώτιστα

deal πρὸς μῦϑον ἔει-

πον), come poi li ricorderà Callimaco (fr. 1,21 5. Pf. καὶ γὰρ ὅτε πρώτιστον

ἐμοῖ

ἐπὶ

δέλτον

ἔϑηκα

γούνασιν,

᾿Απόλλων εἶπεν ὅ por Δύκιος), egli è poeta addirittura famoso. S’impone il raffronto fra i testi virgiliano e teocriteo, così simili peraltro nelle stesse movenze allocutorie, prima di Licida rivolto a Simichida (v. 43): «τάν τοι» ἔφα «κορύναν δωρύττομαι κτλ.»,

poi di Lino rivolto a Gallo (v. 69): dixerit «Hos tibi dant calamos, en accipe egs.». 21 La sagace notazione è di Puelma 19.

22 Cf. Serrao 1971, p. 37.

1960, pp. 147 ss., cf. Serrao 1971, Ρ.

Un lapsus calami?

191

I due testi non casualmente coincidono nella doppia trasformazione dell’investitura esiodea, operata da Teocrito e puntualmente, quanto funzionalmente, rioperata da Virgilio. La situazione per cui il già poeta Simichida riceve il crisma non dalle Muse, bensì dal divinizzato poeta-pastore Licida, è brillantemente adattata dal sollecito Virgilio su misura dell'amico Gallo. Niente affatto iniziato, una volta e per sempre, da una divinità, Gallo,

che già è poeta, riceve dal

divino

carmine

pastor Lino — latore dei divini calami provenienti dalle Muse — il pressante invito ad entrare nel genere bucolico, 0, più generalmente, a passare non tanto ad una poesia eziologico-

erudita, quanto ad una ‘poesia della natura’ 2: ad abbandonare comunque la propria attività erotico-elegiaca, cui precisamente accennava

la garbata

insinuazione

al suo vagare,

senza

una

sicura e giusta meta, nelle vicinanze del Permesso (v. 67 erran tem Permessi ad flumina).

Senza pretendere qui di risolvere il senso dell’episodio di Gallo nella sesta Bucolica, ci sembra tuttavia che la doppia traccia intertestuale (teocritea oltre che esiodea), orientando decisa-

mente la lettura dei vv. 64-73 verso una linea che conduce ad Esiodo con l'indispensabile e chiarificante mediazione di Teocrito, rafforzi, lungo la stessa linea, l'ipotesi di una almeno auspicata

conversione poetica

(e di vita) del poeta

(e

uomo) Gallo.

® Cf. D’Anna 1981, pp. 284 ss., cui rinvio per una equilibrata quanto acuta disamina dell’annosa questione sull’avvenuta o meno conversione nonché composizione, da parte di Gallo, di un carme sulla Grynei nemoris origo: nella nostra Ecloga è comunque leggibile «semplicemente un invito, un affettuoso augurio che Virgilio formula per l’amico diletto» (p. 285). Per l’attendibile notizia di Servio che la Grynei nemoris origo è tema euforioneo, ma per la preferita menzione di Esiodo (che aveva trattato lo stesso argomento, cf. fr. 278 M.-W.), si vedano ancora le logiche motivazioni di D'Anna (p. 286). La predilezione per il modello-Esiodo, per cui resta fondamentale il saggio di La Penna 1960, è però figlia, nella sesta Ec/oga, della medesima predilezione conclamata nelle Talisie in contrapposizione al modello-Omero.

192

Ricerche intertestuali

Dopo l’immagine del poeta errabondo lungo le sponde del fiume Permesso ed il provvidenziale aiuto della Musa che lo accompagna per mano fino al luogo deputato (v. 65 Aonas in montis), l'autorevole ma sollecito invito di Lino (v. 69 en accipe)

e l’augurale previsione (vv. 72 5. tibi Grynei nemoris dicatur origo etc.) lasciano in effetti sospeso (dicatur !) il destino di una vicenda collocata in un tempo indefinito e mitico, dunque in una sorta di ‘non tempo’. La differenza (motivata) di Virgilio rispetto a Teocrito sta nel superamento (qui forse neppure desiderato, ma necessario) della dimensione realistica, se non cronachistica, del Bericht costruito da Simichida «come se fosse il resoconto di un fatto realmente avvenuto durante la sua (sc. di Teocrito) permanenza a Cos» 2. Difficilmente, invece, si

darebbe per storica una ‘bucolizzazione’ di Gallo. Che l’amico abbandoni per sempre la poesia degli ἐρωτικὰ παϑήματα «come pericolosa concessione all’umana passionalità» ? è, infatti, costante quanto frustrato auspicio dell’affettuoso Virgilio. Nuovamente, e più chiaramente, nella decima Ecloga, «la dafnizzazione di Gallo è il dono di Virgilio all'amico, dono di

salvazione»: Gallo sembra accettare l’invito ad entrare nella scena bucolica, indossando persino ritualmente la ‘maschera’ di Dafni, ma rinuncia poi a compiere il ‘passaggio’ perché, al solito, vinto dall'amore per Licoride, si riconosce capace soltanto di

vivere la propria condizione di poeta elegiaco, prigioniero dell’ineluttabile identificazione fra arte e vita, cui non sa sfuggire neppure quando è benevolmente accolto in quel «mondo senza la Storia» che è il mondo bucolico 26. Nel mondo bucolico regna l’aovyia — unico serio scampo alle pene d’amore, alleviate infatti dal canto di Licida 27 24 Cf. Puelma 1960, p. 145 n. 5; e Serrao 1971, p. 37.

2 Così Paratore 1964, p. 512. % Cf. Conte 1984, rispettivamente, pp. 20 s., 42. Sull'unità poesia-vita nel poeta elegiaco, si veda La Penna 1977, pp. 33 ss. e 49 ss.

7 È nota la funzione catartica della poesia come rimedio alle pene d’amore in Teocrito (i cui amanti sono quasi sempre disperati e infelici): di tale

poesia Virgilio ‘deve’ specificare il genere (bucolico) per la presenza antagoni-

Un lapsus calami?

193

— teorizzato e vagheggiato nelle solite Talisie per bocca dello stesso Simichida-Teocrito, cui la ‘tranquillità’ sta a cuore non meno della ‘verità’ 28, È la traduzione poetica dell’ideale del saggio suggerito dalle filosofie ellenistiche, ideale che, fin dall’inizio, rendeva degno del dono di Licida quel Simichida così saggiamente, e programmaticamente, restìo ad affrontare i temi del (troppo) grande Χῖος ἀοιδός (vv. 47 s.): nient'altro che i reges et proelia da Virgilio recusati (vel excusati) all’inizio dell’altrettanto programmatica sesta Ecloga (v. 3).

sta del genere elegiaco, poesia di perdizione e non di salvazione, dove l’identificazione tra arte e vita annulla, di fatto, le ‘classiche’ qualità ‘terapeutiche’ della poesia (il canto d’amore del Ciclope per Galatea guarisce poco a poco l’innamorato dalle pene, non così il canto d’amore di Properzio per Licoride). 2 All’iniziale professione di ἀλάϑεια da parte di Simichida corrisponde la dichiarazione conclusiva ἄμμι δ᾽ ἁσυχία τε μέλοι, sulle cui implicazioni cf.

Serrao 1971, p. 67.

Capitolo decimo EFFETTI DI UN’ECO (Virgilio, Properzio e Teocrito)

Quoi non dictus Hylas puer? Così Virgilio nelle Georgiche (III 6), con incontestabile riferimento alla celebrità del mito, peraltro incrementata nelle Bucoliche (VI 43 s.) da un brano

della ‘rapsodia’ di Sileno: His adiungit, Hylan nautae quo fonte relictum clamassent, ut litus «Hyla Hyla» omne sonaret.

La fuggevole rievocazione della nota vicenda del giovinetto amato e perduto da Eracle, già cantata, ed autorevolmente, da Apollonio Rodio (I 1207 ss.) e Teocrito (XIII), sembra voler

esprimere a quest’ultimo — come al maestro bucolico, evidentemente — un sonoro, e pasqualiano, «complimento» !. Senza qui indugiare sulle differenze tra le due versioni alessandrine della fabula ?, basti notare che, mentre in Apollonio è

Polifemo ad udire il grido di Ila rapito e a gridare a sua volta (vv. 1248 s. μεγάλ᾽ ἔστενεν, ἀμφὶ δὲ χῶρον / φοίτα κεκληγώς:" μελέη δέ οἱ ἔπλετο φωνή), in Teocrito spetta ad Eracle invocare il nome dell’amato scomparso, il quale ode e risponde, anche se troppo debole giunge all’amante la sua voce, attutita dall’acqua che ormai lo sommerge (vv. 58 ss.): τρὶς μὲν Ὕλαν ἄῦσεν, ὅσον βαϑὺς ἤρυγε λαιμός’ τρὶς δ᾽ ἄρ᾽ ὁ παῖς ὑπάκουσεν, ἀραιὰ δ᾽ ἵκετο φωνά ἐξ ὕδατος, παρεὼν δὲ μάλα σχεδὸν εἴδετο πόρρω.

' Così Pasquali 1968, p. 278, per cui v. supra, p. 28. 2 Cf. Serrao 1971, pp. 111 ss.

196

Ricerche intertestuali

Se Teocrito non illustra ‘diegeticamente’ la trasformazione in eco di Ila ad opera delle Ninfe — come invece, ad esempio,

Antonino Liberale ?, che però risale a Nicandro — egli gioca tuttavia a rappresentarla ‘mimeticamente’ nella puntuale corri-

spondenza dei vocali, se non più amorosi, sensi tra Eracle e Ila: τρὶς μὲν Ὕλαν ἄῦσεν, ... / τρὶς δ᾽ ἄρ᾽ ὁ παῖς ὑπάκουσεν. La ‘sceneggiatura’ di un’eco, si direbbe, già allusa preziosamente dalla rima interna davanti a cesura, in entrambi i casi femminile.

Ma la mimesi verbale teocritea fa altresì che la φωνά giunga indebolita e allontanata dallo spessore dell’acqua: come fosse un’eco! Colpisce infine la precisazione τρίς, laddove, ad esempio, Antonino Liberale nota indefinitamente πολλάκις, e indefinito

resta il numero delle invocazioni o delle iterazioni dell’eco negli altri luoghi letterari *. Si tratta di un’allusione eziologica, oppure della triplice, e magica, ripetizione (vocale o gestuale) d'obbligo negli intrecci fiabeschi 7? Gow sembra voler rispettare l'ambiguità teocritea, ricordando, da un lato, la triplice invocazione rituale nel culto di Ila, con tanto di eco (!) (Nic. fr. 48 Schn. ap. Ant. Lib. 26 Ὕλᾳ dè ϑύουσιν ἄχρι νῦν παρὰ τὴν

κρήνην οἱ ἐπιχώριοι καὶ αὐτὸν ἐξ ὀνόματος εἰς τρὶς ὁ ἱερεὺς tro, i uditi crito

φωνεῖ καὶ εἰς τρὶς ἀμείβεται πρὸς αὐτὸν ἠχώ), dall’altre urli di Odisseo nella ‘favola’ iliadica, fortunatamente da Menelao, ma sicuramente nell’orecchio anche di Teo(A 462 5. τρὶς μὲν ἔπειτ᾽ ἤῦσεν ὅσον κεφαλὴ χάδε

φωτός, / τρὶς δ᾽ ἄϊεν ἰάχοντος ἀρηΐφιλος Μενέλαος) ὅ. La propensione teocritea per la sintesi e la ‘mimesi’ è con-

5 Cf. 26 Ἡρακλῆς... . ἐβόησε πολλάκις τὸν Ὕλαν, νύμφαι δὲ δείσασαι τὸν Ἡρακλέα, μὴ αὐτὸν εὕροι κρυπτόμενον παρ᾽ αὐταῖς, μετέβαλον τὸν Ὕλαν καὶ ἐποίησαν ἠχώ, καὶ πρὸς τὴν βοὴν πολλάκις ἀντεφώνησεν “Hoarkei. 4 Da Apollonio (I 1207 ss.) a Properzio (I 20), Valerio Flacco (Arg. ΠῚ

551 ss.), etc.; quanto a Virgilio, v. infra.

> Basti pensare ai tre colpi di Orlando sulla pietra, nella Chanson de Roland, emblematicamente citati dal ‘formalista’ Ejchenbaum 1968, p. 47.

6 Cfr. Gow 1952, II pp. 242 5.

Effetti di un'eco

197

divisa da Virgilio, il quale — elegantemente glissando con il generico

nautae

sulla

controversa

priorità

dell’invocazione

(Eracle o Polifemo), ed appena accennando ai particolari della

vicenda, data ‘alessandrinamente’ per conosciuta — baderà soltanto agli effetti sonori dell’eco, sviluppandone, con gusto propriamente latino, la potenzialità musicale nel verso. Così, il nomen invocato al v. 43 ritorna al v. successivo —

non senza la complicità dell’enjambement, prezioso, Hylan ... 7 clamassent — nel geminato Hyla Hyla, dove l’abbreviamento in iato della a finale (ed ultima) riproduce con qualche patetismo onomatopeico l'estremo affievolirsi dell'eco. E però, materialmente, il nome di Ila risuona tre volte nel testo, traducendo ancora, ma più decisamente, un’informazione diegetica

(τρίς) in scrittura mimetica: Hylan...Hyla Hyla (il nautae che segue Hylan ne riassorbe persino la ‘difforme’ n finale!). Per giunta, l’agudeza allusiva non si ferma alla superficie, pur musicalissima, del verso, ma partecipa in profondità della stessa costruzione testuale, dunque del suo ‘progetto’. La lezione teocritea — così studiatamente ambigua fra diegesi e mimesi — non insegna a Virgilio un mero riscontro erudi-

to, ma una nuova poesia che sappia raccontare le solite e vecchie fabulae in sintesi, anzi rileggendole ‘di scorcio’, e ‘drammatizzandole’ 7, quasi a surrogare la ἁπλὴ μίμησις teatrale, da tempo non più in auge. Chi restasse affezionato ai confronti ‘emulativi’, non perderebbe l’occasione per affermare che, quanto almeno ad attitudine sintetica e drammatica, l’allievo (Virgilio)

ha superato il maestro (Teocrito). Sulla tragica fine di Ila ritorna Properzio in I 20, 48 ss. tum sonitum rapto corpore fecit Hylas.

cui procul Alcides iterat responsa; sed illi nomen ab extremis montibus aura refert. ? Cosi Perrotta 1978, p. 37 (il quale parla anche di ‘drammatizzazione’, ma nel senso classico, e già platonico, di una presenza sempre più invadente,

nell’azione delfepillio, del discorso diretto tra i personaggi). Sull’eco in Virgilio come imago vocis, cf. Scivoletto 1985, pp. 165 5.

198

Ricerche intertestuali

Così, nella recente edizione teubneriana, Fedeli, il quale accetta la correzione, di Heinsius, montibus in luogo del concor-

demente tràdito fontibus 8. Sulla fabula di Ila, così spesso ricantata, si è altrove soffermato ampiamente quanto finemente lo stesso Fedeli, propenso, dopo La Penna, ad ipotizzare per la versione properziana più di una fonte alessandrina ?. D'accordo sulle reminiscenze non casuali, anche se ridotte, con la versione apolloniana, e d’accor-

do, specialmente, sulle analogie tematiche e strutturali con la versione teocritea !°: ma, rinunciando a privilegiare questo o

quell’influsso’, questa o quella ‘fonte’ (magari perduta), ci limiteremo qui ad osservare le più oggettive consonanze intertestuali con Teocrito, utili a superare talune sostanziali aporie. A parte la tradizione — concorde nel consegnare il problematico fontibus — fa difficoltà l’interpretazione dell’intero passo, a cominciare da quel soniturs fecit: si tratterà del grido di Ila,

del tonfo del suo corpo nell'acqua, o dell’uno e dell’altro evento insieme? Fedeli è opportunamente incline alla prima soluzione, pur riconoscendo che sonitus nel latino arcaico e classico non indica mai un grido umano, tranne nel caso del lamento di Aristeo (Georg. IV 333 s.), su cui ritorneremo: non

sembra comunque ammissibile che il rumore di un tonfo possa arrivare all’ Alcide, per giunta rivelandogli l’annegamento di Ila (!), senza contare che prolapsum leviter...traxere (v. 47) esclude un tonfo rumoroso,

e, soprattutto,

zferat responsa

(v. 49) si

spiega soltanto in rapporto con la voce di Ila !!. Si impone, a questo punto, una riconsiderazione del mito teocriteo, che, come s’è visto, poeticamente insiste sulla corri-

spondenza almeno vocale tra Eracle e Ila. Non sarà inutile uno stretto riscontro verbale fra gli stessi Properzio e Teocrito. & Cf. Fedeli 1984, p. 43. 9 Cf. Fedeli 1980, pp. 454 s.; La Penna 1951, pp. 131 ss. !0 Si veda, assieme ai citati Serrao e Fedeli, Pretagostini 1984, pp. 102 s., che ancor

più funzionalizza

(strutturalmente oltre che tematicamente)

la

«strettissima somiglianza» fra Theocr. XII e Prop. I 20 (p. 103). 11 Sulla questione, e per una rassegna dei diversi pareri in merito, cf. Fedeli 1980, pp. 481 s.

Effetti di un'eco

In Teocrito, Ila viene trascinato in acqua e, da

199

sotto

la

liquida coltre, la sua voce giunge ad Eracle attutita e come lontana. Quanto a Properzio, l’unico caso ritenuto valido per sonitus nel significato di voce umana è rappresentato, ef pour cause, da Verg: Georg. IV 333 s. at mater sonitum thalamo sub fluminis

alti / sensit, dove sonitus è il lamento di Aristeo però

fi-

ltrato dall’alto spessore dell’acqua fluviale. Anchella emette un sonitus, secondo Properzio, rapto corpore, come si sa, sotto l’acqua della sorgente: il rapimento, la

cui descrizione è in effetti compiuta al precedente v. 47 (prolapsum leviter facili traxere liquore, i.e. Dryades), si consuma mentre il grido di Ila parte in direzione esattamente reciproca a quella del lamento di Aristeo, e giunge filtrata dallo schermo dell’acqua, esattamente come in Teocrito. La scelta properziana

— che istituisce un'immediata e perfetta corrispondenza tra la voce dell’infelice Ila e quella dell’infelice Eracle — si spiega, credo, con la suggestione esercitata (non solo su Virgilio) dalla ‘scena’ teocritea, dove la voce (o l’eco?) rimbalza tra Eracle e

Ila, puntualmente quanto inutilmente: la φωνά di Ila, già confusa (ἀραιά) e lontana (πόρρω) in Teocrito, diventa in Properzio un sonitus, cui procul (!) l’Alcide iterat responsa. E a lui, di

rimando, nomen ab extremis fontibus — o montibus, questo il problema testuale — aura refert. Se, a rigor di logica, sembrava difficile ammettere che una

voce giunga «dal profondo di una fonte», ormai occorre invece accettare che sulla logica del reale vinca ‘innaturalmente’ quella del racconto, ed il racconto vuole che la voce giunga ex parte exirema fontium in quos raptus erat Hylas 12. D'altro canto, è sempre parsa necessaria «l'ammissione che aura refert alluda ad

un’eco», quell’eco il cui ruolo essenziale nella leggenda atte-

1? Così Pasoli 1957, p. 129; nonché Hiltbrunner ap. TALL V 2, c. 1998, che intende il nostro extremus come intimus, penitissimus: cf. Fedeli 1980, p. 483.

200)

Ricerche intertestuali

stano anche Virgilio e Valerio Flacco, dopo Nicandro, ripreso da Antonino Liberale "ἢ, E dopo Teocrito: il quale, piuttosto che raccontarla, l’aveva messa in scena, con perfetta ‘finzione’ verbale, impressionando Virgilio, ma non meno Properzio, che ama cogliere il

senso dell’eco teocritea come dialogo impossibile tra i due amanti infelici. Non è un caso che sia insorta la domanda se il vento porti all'Alcide il proprio nome gridato da Ila, oppure, come sembrerebbe più probabile, se l’eco, appunto, gli riporti il nome di Ila da lui invocato: l'ambiguità è intrinseca alla ‘figura’ mitologica di quest’eco, per così dire bipolare, dove la circolarità amante-amato rende dubbia, se non indifferente, l'origine della ‘prima voce’ (Eracle in Teocrito, Ila in Properzio) '*.

Per niente dubbio, invece, nel testo properziano, il rimbalzo dell’eco, se montibus o fontibus: unicamente l’extrermis

fontibus della tradizione si raccomanda — peraltro cònsono col virgiliano fonte, mentre il plurale poetico è vezzo anche altrove esibito da Properzio, in quegli Ascraei fontes di II 10, 25, «che,

malgrado il plurale, altro non sono se non l’Ippocrene» !5 — e si raccomanda non solo per la figura circolare dell’eco amorosa che ‘eternamente’ deve ritornare dall’amato all’amante (o viceversa), ma anche per il modello teocriteo che letteralmente

!! Per le varie versioni letterarie, cui Fedeli 1980, p. 484, aggiunge Draconzio (Rom. II 141 ss.), v. supra n. 4. Curiosa la versione di Strabone (XII 4, 3), a torto trascurata, dove, a proposito dell'invocazione rituale, «le nom — ou

le cri — Hylas est expliqué par le mot ‘foret', ὕλη, selon une etymologie intraduisible»: così Lasserre 1981, p. 169. “ Va infatti precisato che, mentre in Teocrito è Eracle a chiamare per primo, in Apollonio il primo a gridare è Ila (udito peraltro, come s'è detto, da Polifemo, che grida a sua volta prima di avvertire Eracle), e, mentre in Virgilio sono genericamente i compagni a chiamare Ila e poi l'eco risponde, in Properzio è di nuovo Ila a gridare per primo (come in Apollonio), ma è subito ‘corrisposto’ dall’Alcide (eliminato l’ingombrante Polifemo), cui l’eco puntualmente ritorna: al di là di ogni pedanteria, essenziale rimane, in Properzio come in Teocrito, la corrispondenza vocale, e circolare, tra i due amanti.

15 Così D'Anna 1981, p. 287.

Effetti di un’eco

201

recita ἐξ ὕδατος, cioè «dal profondo dell’acqua» (ἵκετο φωνά, cfr. vv. 59 5.) 16. Come istruita dalla fabula, l'eco di Ila risuona di testo in

testo, ma non più confusamente.

16. Sintomaticamente, nella recente edizione della BUR (Sesto Properzio. Elegie, intr. e testo di P. Fedeli, tr. di L. Canali, comm. di R. Scarcia; Milano 1987), il traduttore non segue il testo adottato e legge nella sua, peraltro ele-

gante, versione: «Da lontano gli risponde più e più volte l’ Alcide, / ma il vento

gli riporta l’eco del nome dalla lontana fonte» (p. 123). Stranamente Hanslik 1979, p. 34, legge fontibus rinviando a Theocr. XII 58-59, ma trascurando il v. 60 con ἔξ ὕδατος.

Capitolo undicesimo CANDIDO

ILA

(Properzio e Teocrito)

Appena le tre occhiute ninfe quest’ultima con la primavera nelle mai chiusi dal sonno — scorgono resistono al desiderio di prendergli coltre dell’acqua, poiché

— Euniche Malide Nichea: pupille, e tutte con gli occhi Ila proteso sulla fonte, non la mano per attirarlo sotto la

πασάων γὰρ ἔρως ἁπαλὰς φρένας ἐξεφόβησεν

᾿Αργείω

ἐπὶ παιδί.

Così Teocrito (XIII 48 s.), che narra l'improvviso innamora-

mento delle divine fanciulle per il ragazzo ‘argivo’: ma «none of

the genealogie of Hylas make him an Argive» si preoccupa di annotare Gow, dichiarando onestamente l’aporia, finora superata estendendo al ragazzo, con qualche abusiva destrezza, l’a-

scendenza dell’amante più che padre adottivo !. Ancor prima della difficoltà, per così dire extratestuale, disturba nella dizione teocritea, normalmente erudita quanto però

motivata,

la divagante

(oltre che falsa)

informazione.

Tanto più che in Apollonio Rodio la ninfa — l’unica che il fato vuole presso la sorgente, mentre le compagne stanno nelle selve — s’invaghisce di Ila perché, spiega il poeta, lo vede κάλλεϊ καὶ γλυκερῇσι ἐρευϑόμενον χαρίτεσσι (I 1230). Ed in Properzio, aderente, come ben si riconosce, alla versione mitica di Teocrito, sono più ninfe ad innamorarsi di Ila, coralmente, e motivata-

! Cf. Gow 1952, I p. 98 per il testo, II p. 241 per il commento: Eracle, figlio di Zeus, nasce ‘argivo’ perché argivi sono la madre e il padre putativo. Quanto all’isolato Hyg. XIV 46 Hylas ... ex Oechalia ... alii aiunt ex Argis, come osserva lo stesso Gow, piuttosto che risalire ad una tradizione non altrimenti nota, deriverà αὐτοσχεδίως dal nostro Teocrito.

204

Ricerche intertestuali

mente, stando all'informazione: cuius ut accensae Dryades

candore puellae?.

È il candor del fanciullo a provocarle: in Petronio, tra le pzcturae di soggetto celebre, raccolte in una pinacotheca vario genere tabularum mirabilis dove le immagini gareggiano in verità con la stessa natura (cf. LKXXIII 1), Encolpio può ammirare un candidus Hylas nell’atto di respingere l’amoroso assalto di una Naiade "! Viene il sospetto che il fanciullo ’ Agyeiog — anzi ἀργεῖος — non abbia alcun rapporto d'origine con "Agyog perché imparentato linguisticamente con ἀργός = ‘bianco’, ‘lucente’, o meglio ‘bianco lucente’ 4. Tale significato — del resto reperibile nell’antica lessicografia, cf. Hesych. a 7017 L. "Aoyein'

Πελοποννησία, λευ κὴν δὲ + Ἡσίοδος ᾽, 7019 ᾽Αρyelor' οἱ Ἕλληνες ... ἢ λαμπροί ---- testimonia la vitalità nella coscienza linguistica greca, e nel dibattito esegetico alessandrino, di quella nozione «qui exprime la blancheur éclatante» ®, così produttivamente ‘radicata’ in ἀργ- da generare una nutrita serie di termini (ἀργός, ἀργής, ἀργεστής, ἀργεννός, ἀργινόεις, ἄργυφος, ἀργύφεος κτλ.), la cui concorrenza semanti2 I 20, 45, per cui rimando all’esaustivo commento di Fedeli 1980, pp.

480 s., già e più volte citato nel nostro precedente capitolo per l’acuto vaglio dei rapporti, tematici e testuali, tra la versione properziana del mito di Ila e quelle (soprattutto) di Apollonio e Teocrito.

3 Cf. 3 ss., dove il commento di Encolpio ergo amor etiam deos tangit sembra voler tradurre l’incipit (sentenzioso) dell’Ia teocriteo: Οὐχ ἁμῖν ... μόνοις (ze. ϑνατοῖς) Eros è stato generato da quel dio, chiunque sia, ma anche per gli dei, o semidei come appunto Eracle. Per il confronto fra Properzio e Petronio, v. comunque Fedeli 1980, p. 481.

* Cf. Chantraine DELG p. 104: «d’un blanc brillant». Latte 1953, p. 237, per il primo glossema rimanda a è 184, crocifiggendo poi Ησίοδος e ricordando in calce la proposta ‘HAL68wgog di Ruhnken; Schmidt 1858, p. 272 accettava invece il testo del Marciano, rinviando, oltre che a Z 323 e A 8 per il primo glossema, a Hes. Th. 12 per il secondo. Indifferente, ai nostri fini, la divergenza fra i due editori; entrambi ammettono nell’esegesi antica l'equivalenza ἀργείη = λευκή (per cui v. infra n. 9). 6 Cf. sempre Chantraine ἐς.

Candido Ila

205

ca, e stilistica, con λευκός non ha mancato di interessare gli stu-

diosi 7. | A proposito della pelle bianca (in quanto glabra!), osservava Platone che agli amanti dei fanciulli piace dire μέλανας δὲ ἀνδρικοὺς ἰδεῖν, λευ κοὺς δὲ ϑεῶν παῖδας εἶναι (Resp. 474 e): così, se λευκώλενος, oltre che Era, appariva ad Omero anche Elena — ἀπὸ μέρους, anzi, ὅλη λευκὴ καὶ καλή (cf. Hesych. A 1745 L.) — e se Alcmane definisce ἀργύριον il πρόσωπον della splendida Agesicora (3, 55 C.), nella poesia d’argomento erotico, specie tarda, si è notata la presenza non solo di un’deynis κούρη (AP V 254, 1) e di un’àpyugpén παρϑένος (Nonn. Diorys. XV 242), ma anche di un παῖς dagli ἀρ-

γύφεοι ὦμοι (Id. X 182) oppure dalle ἀργενναὶ παρηΐδες (Orph. Arg. 228): quest’ultimo altri non è che il καλὸς Ὕλας 8! Il candido fanciullo ci ha ricondotto per mano, da Properzio (e non

solo) a Teocrito,

sulla traccia intertestuale, non

importa se allusiva. Importa però constatare che già Teocrito aveva potuto chiamare Ila, preziosamente, ἀργεῖος, magari introducendo in letteratura un significato in voga presso i grammatici sostenitori di ἀργείη = λευκή (e non Πελοποννησία): si è visto che il discusso epiteto ‘ornava’ Era ed Elena, entrambe notoriamente λευκώλενοι, e dunque ἀπὸ μέρους, ὅλαι λευκαὶ καὶ καλαί 5. Comunque sia, il παῖς καλός di Eracle ha riacquistato il ‘candore’ che gli compete, prima che nel testo properziano (e poi petroniano), in quello teocriteo, tutto giocato anzi, inaspettatamente, su tale candore.

Basterà procedere nella lettura dell’Idillio esattamente dove l'avevamo interrotta, per recuperare, assieme al già recuperato ‘nesso inedito’, un ulteriore e non meno inedito signifi? Cf., in proposito, lo specifico Reiter 1962, pp. 45 ss. ® Cf. Reiter 1962, p. 32. In Aristoph. Thesm. 191 λευκός (oltre che γυναικόφωνος, ἁπαλός, κτλ.) è Agatone! 5 Cf. supra Hesych. a 7017 L. Il doppio epiteto comune a Era ed Elena

— cf. schol. A 19, I p. 448 E. ᾿Αργείην "HA&vnv' πᾶσι τοῖς Ἥρας ἐπιϑέτοις κοσμεῖ αὐτὴν ᾿Αργείην (cf. A 8), λευκώλενον᾽ (cf. T 121 et A 55) — avrà contribuito a mettere in voga ἀργεῖος = λευκός.

206

Ricerche intertestuali

cato, che, in termini pittorici, rinvia ad un rapido schizzo ‘in bianco e nero’, forse meno veristico (in realtà metaforico!), ma

certo più lucente della pictura ammirata da Encolpio nella citata pinacotheca. Ai vv. 49 ss., Teocrito continua a narrare come Ila κατήριπε δ᾽ ἐς μέλαν ὕδωρ ἀϑρόος, ὡς ὅτε πυρσὸς ἀπ᾽ οὐρανοῦ ἤριπεν ἀστὴρ

ἀϑρόος ἐν πόντῳ κτλ.

Si coglie, finalmente, lo studiato contrasto di luce (più che di

colore): chiaro è il corpo che s’immerge nell’acqua scura. Ma, soprattutto, non sfugge ormai la pertinenza della similitudine: l’àome che precipita ἐν πόντῳ non spende l’ultimo bagliore in mera funzione encomiastica, ma propriamente raffigura il mitico corpo di Ila nell’attimo in cui cade e sparisce nell’acqua, per sempre, con un estremo guizzo «d’un blanc brillant». I dizionari dovranno dunque registrare, accanto ad ᾽Αργεῖος, anche ἀργεῖος, ‘creatura’ non più solamente grammaticale, ma altresì letteraria !°.

10 Che costituisce comunque ‘invenzione’ molto meno artificiosa della celebre omta = γυνή dello stesso Teocrito (Syrinx 14, com'è noto da una falsa lettura di A 6 = διὰ στήτην ἐρίσαντε).

Capitolo dodicesimo UNA METAFORA CONTINUATA (Orazio e Alceo)

Un punto nodale del «carme più emblematico di Alceo» ! Aovvenemuu τὼν ἀνέμων στάσιν.

4

τὸ μὲν γὰρ ἔνϑεν κῦμα κυλίνδεται, τὸ δ’ ἔνϑεν, ἄμμες δ᾽ ὃν τὸ μέσσον

vai φορήμεϑα σὺν μελαίνᾳ

χείμωνι μόχϑεντες μεγάλῳ μάλα" πὲρ μὲν γὰρ ἄντλος ἱστοπέδαν ἔχει,

.

8

λαῖφος δὲ πὰν ξάδηλον ἤδη, καὶ λάκιδες μέγαλαι xt αὗτο, eco δ᾽ ἄγχυραι, «tà δ᾽ ὀήϊα»

] ]

] 12

TE nee ἀμφότεροι uevo[ ἐς» βιμβλίδεσσι κτλ.

"» ]

è certo costituito dall’incomprensibile v. 9 χάλαισι δ᾽ ἄγκυραι. Così l’ultima editrice, E.M. Voigt, che insiste sulle tradizionali ancore, inopinatamente ‘cedevoli’ 2, A ragione, Marzullo riapre

la questione, tornando alle ἄγκοιναι già proposte da Bergk, poi perfezionate in ἄγκονναι dal Page, cui tuttavia preferisce le formalmente meno costose, ma in sostanza equivalenti &yxvAa di

Unger ?. Sono dunque le sartie, meglio le anguinae 4, destinate

! Così Marzullo 1975, pp. 27 ss., a proposito dell’allegorico fr. 208 V., tramandato da Heraclit. AU. V 5.

2 C£. Voigt 1971, p. 260. Sulla scia di Lobel-Page 1955, p. 265, che legge-

vano ἄγχυρορσαι, coll. Alcae. 297, 2 V. ἀγκυρρα!. 3 Cf. in proposito l'apparato di Voigt 1971, p. 262; e Marzullo 1975, pp. 28 s., che opportunamente cita le ἄγκυλαι definite da Poll.

191 τὰ dè ἑκα-

τέρωϑεν συνέχοντα: l'oggetto è ἱστόν, nominato subito prima. Quanto ad Hesych. a 550 L. ἀγχοῖναι (ἄγχολαι cod.: Wackernagel). ἀγκῶνες [ἀγκοῖ-

208

Ricerche itertestuali

al perfetto equilibrio dell'albero maestro, che, lungi dal mantenersi tese, pericolosamente si allentano. Nota in proposito Marzullo che «linguisticamente χαλᾶν si oppone a τείνειν: le äncore non vengono ‘tese’, e tanto meno (attiva come è la forma χάλαισι) si allentano’» ὃ.

Illuminanti però Eur. Or. 707 χαλᾷ πόδα (la scotta), di contro al reciproco Soph. Ant. 715 5. πόδα / τείνας, nonché Trag. ad. 413 K.-Sn. μικρὸν dè «δεῦ ποδὸς / χαλάσαι, e schol. Ar. Eq. 440 s. πρώτους (sc. τερϑρίους vel ἐκφόρους, sorta di cavi di prua) ἐκ πρῴρας χαλῶσι: onde si evince come, nel gergo marinaresco, χαλᾶν sia tecnico dei navali σκεύη κρεμαotà, alcuni dei quali subiscono la deliberata e opposta manovra del χαλᾶν e del τείνειν. Nel nostro caso le malaugurate sartie, da sole, χάλαισι: attivamente e intransitivamente, come le euripidee ζῶναι che, non meno inopportune, χαλῶσι $. E con l’identica azione intransitiva di ‘to become slack or loose’ (LSJ p.

var ἀγκάλαι (= 213)], χεῖρες, καὶ σχονία iotoù, aragione Marzullo rifiuta la correzione ἀγκοῖναι, e suggerisce con lieve rettifica ἄγκυλαι. Ne conferma però Phot. a 185 Th. (= Am. Gr. Ip. 23, 10 Bachm.) & γxUin:' ἀκόντιον, καὶ τοῦ ἀγκῶνος ἡ rap λέγεται δὲ καὶ ἡ δεξιὰ χεὶ ο ἀγκύλη κτλ. di cui Esichio — per i glossemi ἀγκῶνες e χεῖρες — costituisce evidente semplificazione. Quanto alla tranche omerica ἀγxoivar ἀγκάλαι (cf. Hesych. a 554 ἀγκοίνῃσι ἀγκάλαις, pertinente a E 213 ἐν ἀγκοίνῃσιν ἰαύειν), giustamente Latte rimanda ad Ap. Soph. p. 5, 16 Bekk. ἀνκοῖναι ayrakar “ἐν ἀγκοίνῃσιν ἰαύειν᾽. οἱ δὲ νεώτεροι καὶ τὰς ἀγκύρας οὕτω λέγουσιν: sarà qui invece da leggere ἀγκύλας. Sulla confusione, pure verificatasi nel nostro Alceo, tra ἄγκύλῃη e ἄγκυρα, cf.

TOGLI

c. 335 C-D, a proposito di ἀγκυρίζω (su tutta la questione lessicogra-

fica, cf. Bonanno 1975-77, p. 257).

Marx

armamenta

tamen malum, vela omnia servo: / funis enim praecisus cito atque

4 Doppiamente

calzante l'esempio di Lucil.

1113

anquina

(anchora Nonius: Junius) solata, citato da Page 1955, p. 187. Sull’equivalenza & yxoiva = anquina, cf. Casson 1971, p. 230. Sulle &yxoivar in genere

(e su quelle alcaiche), cfr. comunque il classico Morrison-Williams 1968, pp. 119 s.; 300.

5. Così Marzullo 1975, p. 28. 6 Bacch. 535. Dioniso fa notare a Penteo la sciatteria del suo abbigliamento: ζῶναι a parte, neppure le πέπλων / στολίδες ὑπὸ σφυροῖσι τ ε ivovotv

(νν. 955 5.).

.

Una metafora continuata

209

1971), pure reperibile nel metaforico proponimento alcaico χαλάσσομεν ... τὰς ϑυμοβόρω λύας (fr. 70, 10 V.). Non va tuttavia taciuto un curioso proverbio, solo in apparenza scon-

certante: Ya i d do τὴν ἱερὰν ἄγκυραν 7. Adattoa chi — metaforicamente — deve ‘gettare’ la cosiddetta àncora ‘sacra’, cioè l’ultima disponibile: la soterica ὑστάτη, da usare appunto in extremis. Chiaramente χαλᾶν vale qui ‘to let down’ (LS] l.c.), ed in Alceo le semoventi ἄγκυραι si autoescludono

per motivi logici prima che filologici, ma altrettanto chiaramente l’allegorico adagio, più volte recitato dai paremiografi, può spiegare l’intrusione delle àncore nella disperata situazione alcaica.

Che la disperazione di Alceo esploda in alto mare, fuori cioè da qualsivoglia ancoraggio, non varrebbe d’altra parte la pena di ribadire, le ἄγκυραι risultando ormai improponibili — né solo linguisticamente — proprio in quanto χάλαισι. Ma incombe pur sempre Orazio, che, in una sua «troppo famosa imitazione della nostra ode» 8, spera — confortato, si direbbe,

da precedente esperienza — essenzialmente in un risolutivo approdo. Il suo fortiter occupa / portum (vv. 2 5.) ha in effetti autorevomente suggestionato gli interpreti di Alceo, talvolta propensi a calare l’emulato actor nell’analoga situazione ‘portuale’ ?, topicamente precaria: già l’odissiaca fiducia di toccare la visibile πατρὶς ἄρουρα era invidiata dalla furia improvvisa dei venti, che, sprigionati dal magico ἀσκός, risospingevano le navi αὖτις ἐπ’ Αἰολίην νῆσον (x 29-55). Vero è che,

? Cfr. Suda X 69 Adler χαλάσω τὴν ἱερὰν ἄγκυραν: ἄγκυρα μεταφορικῶς ἀπὸ τῶν νεῶν ἡ ἀσφάλεια, cf. Macar. VIII 27, Greg. Cypr. Leid. III 31, Apostol. XVIII

10. Sulla proverbiale e metaforica àncora ἱερά,

(per cui cfr. anche Diogen. V 29), si intrattiene Luc. J. Trag. 51 e Fugit. 13, dove è detta alternativamente ὑστάτη. 8 Così Marzullo, Zc., a proposito di Carrz. I 14. ? Lo stesso Marzullo 1967, p. 102, ad esempio, era in un primo momento deciso a mantenere ἄγκυρερ»αι sulla base dell'esordio oraziano o navis... / ... / portum, presumibilmente fedele al modello alcaico, pur variato «manieristicamente».

210

Ricerche mtertestuali

proprio per colpa delle famigerate ἄγκυραι, la nave alcaica sarebbe in posizione abnorme rispetto a quella sia oraziana sia

odissiaca: entrambe, a ben vedere, in to, non

dentro

prossimità

del por-

il medesimo.

Lo spettro di Orazio cesserà comunque di turbare le coscienze più sensibili al fatto allusivo, una volta che i pericolosi novi / fluctus e il perentorio fortiter occupa / portum

(vv. 1 ss.) si rivelino altrettanti calchi di τόδ᾽

a

τε

κῦμα τὼ προτέρω νέμω e di ἐς δ᾽ ἔχυρον λίμεν α δρόμωμεν, rispettivamente nuovo assilloe pronta esortazione del solito Alceo (fr. 6 V.):

4

8

Τόδ᾽ αὖτε κῦμα τὼ πιρῃοτέρ ᾽ω ᾽νέμω στείχει.) παρέξει δ᾽ ἄμμι πόνον π]όλυν ἄντλην, ἐπεί xe và|oc ἔμβᾳ ].όμεϑ᾽ εἰ

ENI

I

φαρξώμεϑ᾽ ὡς ὥκιστᾳα[ ἐς δ᾽ ἔχυρον λίμενα δρόμωμεν, καὶ μή τιν᾽ ὄκνος μόλϑ[ίακος λάβη κτλ.

Il porto oraziano è dunque da imputare esclusivamente all’appena citato fr. 6, al secondo carme alcaico, non meno allegorico,

e non meno esemplarmente ricordato da Eraclito subito dopo il nostro ᾿Ασυννέτημμι: altrettanto acutamente però adocchiato

da Orazio, come troppo tardi e in modo comunque eccepibile !° è stato rilevato. Stupisce che il Page, benché convinto dell’apertura del mare alcaico, e sufficientemente edotto della doppia imitazione oraziana,

non

accenni all'argomento

‘letterario’, magari per

sbarazzarsene: contentandosi di liquidare la posizione «at anchor» con l’unico ‘realistico’ argomento che «this ship is said to be in motion: ὃν τὸ μέσσον ... φορήμμεϑα» !!. La motiva10 V. infra, pp. 220 ss., dove leggeremo il dettato del fr. 6 V. !! Cf. Page l.c.

Una metafora continuata

211

zione è semplice, ma insufficiente: il presunto ‘cedere’ degli ormeggi — in teoria purtroppo ammesso dallo stesso Page — farebbe finire la nave precisamente in mezzo al mare 12. In realtà, «if the vessel were at anchor», Alceo avrebbe, sì,

potuto dire ὃν τὸ μέσσον / ...poonuoetta (vv. 3 s.), ma non avrebbe certo detto λαῖφος δὲ πὰν ζάδηλον ἤδη (v. 7). Nella disperante immagine della vela ‘squarciata’ — anzi tutta a brandelli (cfr. v. 8 λάκιδες μέγαλαι), come poi le metaforiche (memori?) vele di Ilio-nave strappate da Ares-vento in Eur. Rbes. 323 Edpave λαίφη (!) Mode γῆς μέγας πνέων ! — è implicita

quella della vela già pericolosamente spiegata, plausibile solo per una nave «in motion». Non mi risulta sia mai stata rilevata la clamorosa contraddizione fra le presunte àncore in attività, per quanto precaria, e la vela non meno attivamente al vento, che facilmente può così distruggerla. Basterà qui ricordare la rituale entrata in porto delle navi omeriche e la non meno regolare uscita dal medesimo, minutamente descritte, ad esempio, in A 432 ss.:

οἱ è’ ὅτε δὴ λιμένος πολυβενϑέος ἐντὸς ἵκοντο, μελαίνῃ, ἐν νηΐαν ἱστία μὲν στείλαντο,, ϑέσ

ἱστὸν δ᾽ ἱστοδόκῃ πέλασαν προτόνοισιν ὑφέντες

καρπαλίμως, τὴν δ᾽ εἰς ὅρμον προέρεσσαν ἐρετμοῖς. ἐκ δ᾽ εὐνὰς ἔβαλον, κατὰ δὲ πρυμνήσι᾽ ἔδησαν,

e nel reciproco β 418 ss.:

12 Fa qui difetto a Page 1955 la cattiva interpretazione di ὃν τὸ μέσσον,

che significa non «in their midst» (p. 186), ossia «in mezzo alle opposte onde», bensì «in mezzo al mare», cioè ‘al largo’ (cf. Marzullo 1975, p. 28). Che ζάδηλον sia da connettere con διαδηλέομαι e con διαδηλόω, e valga quindi ‘strappato’, ‘a pezzi’, ha persuasivamente dimostrato Marzullo 1975, p. 32, col supporto di È 37 oe κύνες διεδηλήσαντο, e specialmente μ νηῶν. Il passo del Reso è citato da Gentili δηλήματα 286 ἄνεμοι... 1984, che tuttavia preferisce ancora la connessione di ζάδηλον con διαδη-

λόω: «Per il senso di ζάδηλον (= διάδηλον) ‘trasparente’, non altrove attestato, è da confrontare διαειδής, detto dell’acqua, in Teocrito 16, 62» (p. 265 n. 35).

.

ἔω

la

Ricerche intertestuali

420 125

toi δὲ πρυμνήσι᾽ ἔλυσαν, ἄν δὲ καὶ αὐτοὶ βάντες ἐπὶ κληῖσι καϑῖζον. τοῖσιν δ᾽ ἴκμενον οὖρον ἵει γλχαυκῶπις ᾿Αϑήνη ἱστὸν δ᾽ εἰλάτινον κοίλης ἔντοσϑε μεσόδμης στῆσαν ἀείραντες, κατὰ δὲ προτόνοισιν ἔδησαν, ἕλκον δ᾽ ἱστία λευκὰ ἐϊστρέπτοισι βοεῦσιν.

Una nave ormeggiata, ancorché in balia della tempesta, non

rischia la rottura della vela, perché usualmente, e logicamente, ammainata !*. In mare aperto invece, cioè in piena navigazione,

era già accaduto alle navi di Odisseo, obliquamente trascinate da Borea, che ἱστία dé σφιν ἡ τριχϑά τε καὶ τετραχϑὰ διέσχι-

σεν ig ἀνέμοιο (ι 70 s.). Una violenza resa più cieca dal topico buio della tempesta, altrettanto topicamente improvvisa !. Anche Alceo, come confessa lo sbalordito ἀσυννέτημμι, è stato

sorpreso

da una

inaspettata

bufera: questo l’u-

nico, e vero, motivo della vela a pezzi. L’interrotto biancheg-

giare del linteo λαῖφος, ferito da ripetute e vaste λάκιδες, sta appunto a ribadire il sonoro incipit, a provare con i fatti la dichiarata ἀελπτία. Una convenzionale metafora, spesso estrapolata dalla tota allegoria navale, si esprime infatti, singolarmente, con la vela. Ad Eschilo il coro aristofaneo consiglia di am mainare le vele per limitare gli effetti della furia di Euripide: o vote iλας ἄκροισι χρώμενος τοῖς ἱστίοις (Ran. 999). Al Paflagone, che minacciava di far esplodere la bufera della propria collera, il navigato salsicciaio prontamente rispondeva di saper evi-

4 Neppure proponibile l’ipotesi che Alceo fosse in procinto di lasciare il porto: solo col vento favorevole (cfr. il citato B 420) ci si decideva ovviamente ad alzare le vele. Ed ancora più assurdo immaginare che Alceo, fortunosamente, fosse appena entrato in porto, in piena tempesta e a vele ancora spiegate: non si capirebbe la preoccupazione per il rotto λαῖφος, e la speranza negli ancor utili πόδες (v. 12), ma soprattutto finirebbe l’allegoria. 15 Cf. il già citato u 286 ἐκ νυκτῶν δ᾽ ἄνεμοι χαλεποί, e 288 ἤν πως ἐξαπίνης ἔλθῃ ἀνέμοιο ϑύελλα. Sul τορος della ‘sorpresa’ (notissimo l’EE ἀελπτίης φόβος di Arch. 105,3 W.) e del ‘buio’, cf. Marzullo 1975 pp. 31 5.

Una metafora continuata

tare il peggio

am mainando

συστείλας

213

le proprie... salsicce: ἐγὼ δὲ

γε τοὺς ἀλλᾶντας,

εἶτ᾽ ἀφήσω

/ κατὰ

κῦμ᾽ ἐμαυτὸν οὔριον (Eg. 432 5.) !6. «C'est le mieux que puisse faire un pilote», ad evitare se non altro la rottura della vela,

«quand il ne peut plus tenir téte au vent qui fraîchit», commenta il Taillardat ”. Ma già, con sentenzioso sussiego, Giasone ribatteva a Medea di saperne ὑπεκδραμεῖν la burrascosa γλωσσαλγίαν proprio ὥστε ναὸς κεδνὸν οἰακοστρόφον / ἄκροισι

λαίφους

κρασπέδοις

(Eur.

Med. 523 ss.). Lo scoliasta di Aristofane assicura che il pubblico era in grado di apprezzare tali metaforici messaggi, ὅτι ἐμπείρως

οἱ

᾿Αϑηναῖοι

εἶχον

τῆς ναυτικῆς !8. Non

meno

edotto però il pubblico alcaico, limitato anzi all’esoterica cerchia dei φίλοι ἔταιροι: cui l’allarmato poeta non avrà inteso certo confessare l’imperizia della comune /eadership, incapace di ammainare a tempo il proprio λαῖφος, bensì lamentare l’assoluta imprevedibilità di un clamoroso evento: niente meno che l’improvviso sbarco di Mirsilo, come assicurano testimoni e scoliasti 15. La ‘sorpresa’ annunciata da ἀσυννέτημμι è insomma denunciata, a chi abbia orecchie e intelletto per intendere, da

[ἀπροσδόκητον produce un buffo esempio di genus commixtum di allegoria, formalmente analogo a quello, serio e paradigmatico, individuato da Quintiliano (VIII 6, 48) nei ciceroniani Auctus contionum (Mil. II 5), cf. Lausberg 1960, p. 442.

1? Cf, Taillardat 1965, p. 181. ‘8 Schol. Ar. Eg. 646; cf. schol. Vesp. 29 ἀεὶ οἱ ποιηταὶ τὰς πόλεις πλοίοις παραβάλλουσι, sempre a proposito delle poetiche ‘parabole’ navali, volentieri esibite al sensibilizzato pubblico. 19 ΟἹ oltre a Heraclit. A// V 7. Μύρσιλος γάρ ὁ δηλούμενός ἐστι καὶ τυραννικὴ κατὰ Μυτιληναίων ἐγειρομένη σύστασις, il più preciso POxy. 2306 col. II (= fr. 305 b V.), 9 Μυρ[σίλου κά[ϑοδος. Si tratta di un commentario alla nostra ode, che ha permesso tra l’altro a Lobel di riunire i due frr. 326 e 208 L.-P. nell'unico attuale fr. 208 V. (cf. infra n. 28). Ancora alla

Μυρσίλου κάϑοδος fa esplicito riferimento POxy. 2306 col.I(= fr. 305 a V.) 19, per cui v. infra.

214

Ricerche intertestuali

λαῖφος ... ζάδηλον: ne conferma ancora l’emulo Teognide (vv. 670 ss.), con la didascalica, e nota, tirata πολλῶν γνοὺς ἂν ἄμεινον ἔτι, οὕνεκα νῦν φερόμεσϑα xa’ ἱστία λευκὰ βαλόντες

Μηλίου ἐκ πόντου νύκτα διὰ δνοφερήν, ἀντλεῖν δ᾽ οὐκ ἐϑέλουσιν, ὑπερβάλλει δὲ ϑάλασσα ἀμφοτέρων τοίχων. ἦ μάλα τις χαλεπῶς 675

σῴζεται, οἵ δ᾽ ἔρδουσι:᾽ κυβερνήτην μὲν ἔπαυσαν ἐσθλόν, ὅτις φυλακὴν εἶχεν ἐπισταμένως: χρήματα δ᾽ ἁρπάζουσι βίῃ, κόσμος δ᾽ ἀπόλωλεν, δασμὸς δ᾽ οὐκέτ᾽ ἴσος γίνεται ἐς τὸ μέσον" φορτηγοὶ δ᾽ ἄρχουσι, κακοὶ δ᾽ ᾿ἀγαθῶν καϑύπερϑεν.

δειμαίνω, μή πως ναῦν κατὰ κῦμα πίῃ.

Al preliminare πολλῶν γνο ὺὑ ς (cfr. v. 669 γινώσκοντα) ἂν ἄμεινον ἔτι / οὔνεκα φερόμεσϑα fa da conveniente pendant il successivo xa’ ἱστία λευκὰ βαλ όvt €G: un chiaro, combinato contrappunto allo ‘sconsiderato’ precedente politico prima che letterario. Alla franca ammissione alcaica risponde la scaltra predica teognidea, in ogni caso inutile, poiché, malgrado ogni consapevole precauzione, succede che comandano i facchini e i ‘buoni’ sottostanno ai ‘cattivi’ (v. 679), per cui sembra ragionevole temere che l’onda inghiotta la nave (v. 680). Teognide è non di meno conscio del proprio exploit letterario: una puntigliosa allegoria, anzi un αἴνιγμα, che pretende da parte di chi ascolta conoscenze pertinenti e dettagliate 2°. Il suo smaccato ταῦτά μοι ἠνίχϑω κεκρυμμένα (v. 681) scopre tuttavia le carte, falsando lo stesso gioco allegorico, peraltro già una volta interrotto 21. Nuovamente spicca, per contrasto, la statura di Alceo, che — almeno nel suo «carme più emblematico»

2 Per l’alvıyya, nient'altro che allegoria quae est obscurior (Quint. VIH \ 6, 52), cf. Lausberg 1960, p. 444. 2 Cf. v. 679 κακοὶ δ᾽ ἀγαθῶν καϑύπερϑεν. Per la distinzione, cara a Quintiliano, tra la tota allegoria, fatta cioè di continuatis traslationibus (VII 6, 44), e la permixta apertis allegoria (47), cf. Lausberg 1960, p. 442.

Una metafora continuata

215

— non ha invece «tralignato»: ha inteso comporre un’allegoria «sicuramente

integrale»,

anzi «un

poetico quanto

sarcastico

blocco» 22. L’entità di questa ‘precoce’ allegoria è stata tuttavia solo sommariamente definita. Prudente Gallavotti: «Più che di allegoria nel senso moderno, dovremmo parlare di comparazione: ci troviamo di fronte a un grado estremo di quello sviluppo formale delle comparazioni omeriche, che fu determinato dalle strutture più brevi e più libere della lirica e dalla sua palese tendenza al rinnovamento dell’espressione» 2. Pragmatico Page: «Alcaeus’ metaphor and Homer’s simile have this feature in common: that, once begun, they may go their way without scrupulous regard for the context out of found in the original... The allegorical picture is drawn by Alcaeus not from pure imagination but from personal experience» 24. Ragionevole Bowra, secondo cui Alceo «si servì delle proprie conoscenze marinaresche per descrivere situazioni in cui l’immagine della nave rappresenta la tensione e i pericoli della sua lotta. In questo... sviluppava un tema già sfruttato da Archiloco, anche se si serviva dell'immagine... forse con una maggiore consapevolezza del suo significato metaforico» ??. Che Alceo abbia con la sua nave abbandonato la comparazione di tipo omerico, per fornire un vero e proprio esempio di

metafora, lo riconoscerebbe per primo Aristotele 26, La rinun-

cia — oltre che all’esplicito legame morfologico (ὡς) fra il comparato ed il comparante — allo stesso comparato, implica però una precisa scelta formale, e razionale, ai cui sicuri effetti hanno

22 Così Marzullo 1975, p. 37. 2 Cf. Gallavotti 1948, p. 113; nonché pp. 54 s. 2 Così Page 1955, p. 189. 2 Così Bowra 1973, p. 220. 26 Cf. la nota distinzione aristotelica (Rber. ΠΠ 1406 b 20 ss.): ἔστιν δὲ καὶ ἡ εἰκὼν μεταφορά: διαφέρει γὰρ μικρόν. ὅταν μὲν γὰρ εἴπῃ τὸν ᾿Αχιλλέα ‘de δὲ λέων ἐπόρουσεν᾽ εἰκών ἐστιν, ὅταν δὲ "λέων ἐπόρουσε᾽,

μεταφορά.

210

Ricerche

pitertestial

puntualmente reagito interpreti antichi e moderni ??. Più sensi-

bile all'aspetto formale, Marzullo definisce la nostra ode, classicamente, una «allegoria integrale», cioè una metafora continua-

ta: grazie anche all'intervento di Lobel 25, «l’allegorico carme acquista meno discutibile, anche se frammentaria forma, riguadagna meno incerti significati. I suoi significanti sono, tuttavia, persistentemente ambigui... Si nutre dunque di un ostinato, provocatorio simbolismo» 7°. Non sarà vano scomporre il continuum simbolico per cogliere, dietro meno ambigui significanti, ancor più certi signi-

ficati. La puntuale ricerca attinge in effetti risultati sorprendenti. Per cominciare, la topica ἀελπτία, di cui avverte l’iniziale

ἀσυννέτημμι, è provata, come s'è visto, dalla dilacerata e metaforica vela. Il poeta intende però procedere «a colpi di burrascose metafore» * sistematicamente.

Lo suggerisce lo stesso

explicit del primo, dunque programmatico verso: l’ambiguo (ἀνέμων) στάσιν non può che rimandare alla στάσις, già corrente seditio nel gergo politico di Alceo 3'. Sembra tuttavia che il poeta abbia voluto rianimare un’imzage morte, mediante l’intero Bildfeld del χειμών e degli opposti venti, che ‘insorgono’ con tutta la loro forza, autenticamente misurabile in termini di

2? Cf. l’ingenuo Eraclito: τίς οὐκ ἂν εὐθὺς ἐκ τῆς προτρεχούσης περὶ τὸν πόντον εἰκασίας ἀνδρῶν πλωϊζομένων ϑαλάττιον εἶναι νομίσειε φόβον; ({«}. Però convinto dell’intento allegorico del poeta, su cui anzi insiste esplicitamente (v. supra n. 19). Non così tutti i moderni: l’ultima editrice, ad esempio, mostra qualche perplessità, tuttavia gratuita, circa l’interpretazione allegorica (p. 261). Sulle allegorie navali alcaiche, talora anche autorevolmente misconosciute (ad es. da Wilamowitz), si veda l’equilibrata messa a punto di Nicosia 1976, pp. 143 ss. 28 Che unisce ai nove versi, tramandati da Eraclito, quelli contenuti in

POxy. 2297 fr. 5 abc (vv. 12-18): la sutura e l'integrazione «tà δ᾽ ὀήϊα» (v. 9) sono possibili grazie soprattutto alle indicazioni fornite da POxy. 2306 col. II (= fr. 305 bV.).

2 Cosi Marzullo 1975, p. 37. 30 Ibid. 3 Cf£. fr. 130 b, 11 V. Per il comune significato di sedizio si usa rinviare a Aesch. Prom. 1085 ss. ἀνέμων / πνεύματα πάντων εἰς ἄλληλα / στάσιν ἀντίπνουν ἀποδεικνύμενα.

Una metafora continuata

217

alta densità metaforica ?2. Tale densità ancora si coagula nei punti cruciali dell'immagine navale: se almeno ambiguo è μόχϑεντες e fors’anche ἄντλος ?, capostipite della più tradizionale allegoria propriamente politica risulta l'indispensabile ὀήϊα. Vale la pena di chiedersi perché Alceo prediliga il collettivo. Si risponderà che gli οἰήϊα sono già reperibili in Omero, ma in Omero, accanto al plurale οἰήϊα e οἴηκες, ricorre il singolare οἰήϊον nonché πηδάλιον *, ed il singolo timone starà a significare la presenza dell’unico κυβερνήτης in tutta la futura tipologia navale del ‘capo’ . Una tipologia tuttavia non congeniale ad Alceo, storicamente e fobicamente contrario alla μοναρχία (cfr. fr. 6, 27 V.). Ed è proprio la resistibile ascesa dell’unico Mirsilo a provocare il nostro carme: dove il collettivo ὀήϊα indicherà l’articolata leadership dell’eteria, forse già smembrata e dispersa. Sappiamo infatti che uno dei suoi più validi membri, Pittaco, si è staccato o sta per staccarsi dall’eterico blocco, ha

tradito o sta per tradire. Ma sappiamo pure che un certo Mnamone, in qualche modo legato a Pittaco, ha concretamente aiu-

3 Il continuo tripudio di studi ‘metaforici’ non permette qui una rassegna neppure essenziale. Di recente, si veda Silk 1974; e, più in generale, Gruppo u 1976; Weinrich 1976. Per la ‘reviviscenza’ delle metafore, cf. in par-

ticolare Henry 1971, pp. 143 ss.; per la ‘densità metaforica’, lo stesso Henry, p. 67, ma già Meier 1963, p. 158. Utile, in generale, la lucida messa a punto di Pasini 1968 pp. 71 ss., cui converrà rimandare anche per la questione ‘dalla comparazione alla metafora’ (cf. Pasini 1972, pp. 441 ss.), che abbiamo sopra sfiorato. Infine, la terminologia ‘veicolo’ e ‘tenore’ di cui faremo uso più avanti, è tratta, com'è noto, da Richards 1936.

3 Per l'ambiguità di u6ydevtes, cf. ’agonistico [Hes.] Sc. 305 5. inπῆες ἔχον πόνον, ἀμφὶ δ᾽ ἀέϑλῳ)δῆριν ἔχον καὶ pò ydov, edilpossibile τὼν πάροιϑε μ[όχϑων, proposto da Hunt in Alcae. 6, 11 V., ad indicare le ‘imprese’ passate. Per ἄντλος, cfr. il più ambiguo fr. 6, 2 V. παρέξει (scil. κῦμα)... πόνον πολὺν AvrAnv. Una metafora destinata a ‘morire’ coi tragici, cf. ἀντλεῖν in Aesch. Ch. 748 (κακά), Eur. Hipp. 898 (Auπρὸν βίον). Altrimenti ambiguo [ἀντλεῖν di Theogn. 673, la cui connotazione sembra più specificamente politica. Certamente politico il risentito vix est in sentina locus di Cic. Fam. IX 15, 3. 4 C£.T 43, Q 269, 1540, y 281, € 255; nonché Morrison-Williams 1968,

pp. 52 s. Sul topos avremo modo di tornare più avanti.

218

Ricerche intertertuali

tato Mirsilo, fornendogli un ἀκάτιον per lo sbarco *. Il tradi-

mento del pur ragguardevole ἔταιρος non sembra comunque scandalizzare il poeta: ὅστις δ᾽ ἄμμε διαστα [..]. Beier ”, egli

dichiara, imputando all’esecrabile innominato, non al prezioso compagno, ogni ‘divisione’. Ribadisce qui il commentatore che Alceo οὐκ αἰτιᾶται αὐτὸν] (sc. Mnamone) οὐδὲ διαφέρεται περὶ τούτου. Una volonterosa tecnica di recupero, per salvare il salvabile, per tenere a galla la nave, magari coi surrettizi πόδες (v. 12).

Sull’ambivalenza semantica delle preziose scotte si è già fatta una ipotesi metaforica: tenendo conto della «ben nota formula tirtaica μενέτω ποσὶν ἀμφοτέροισι, con la quale l’oplita viene esortato a rimanere ben saldo al suo posto di combatti-

mento», l’espressione alcaica πόδες ἀμφότεροι μένο[ιεν va interpretata nel senso che il poeta col verbo μένειν «si riferisce certamente alla resistenza della vela, ma anche, fuor di metafo-

ra, al coraggio necessario ai suoi compagni di fazione», e «la parola πόδες indica sì gli angoli inferiori della vela, ma anche e soprattutto i piedi dei combattenti nella guerra civile» 8. Se, forse, non si può escludere la suggestione del comune ‘immaginario’ arcaico (comune ad Alceo e Tirteo) che voleva il soldato ‘resistente, e con i piedi ben piantati per terra’, è pur vero

che

nella

nostra

metafora

‘continuata’



e dunque

chiusa daunaferrealogica referenziale — al ‘veicolo’ πόδες deve corrispondere, quale specifico ‘tenore’, l’ultima possibilità di governo della nave: ne fa fede, oltre che la logica — retorica e politica — del nostro Alceo, la particolare esperienza già di Odisseo, intento a πόδα νωμᾶν, cioè a ‘manovrare la scotta’

per

guidare

la nave (a 32). Fuor di metafora: una volta

36 Cf. POxy. 2306 col. II (= 305 a V.), 17 5. ὃς (sc. Μνάμων) ἀ- / κάτιον παρέστησεν εἰς τὴν / Μυρσίλου κάϑοδον, Successivamente si legge un sintomatico περὶ Φιττακόν (I. 24). 37 Fr. 305 a, 23 V.: διάσταί[σαι] Gallavotti, διάσταίς γε] Latte, διαotälvte] Snell, cf. Voigt 1971, p. 284. 3 Cosi Cerri 1972, p. 69, approvato da Gentili 1984, p. 261.

Una metafora continuata

219

appurato lo smembramento dell’intera leadership eterica (gli οἰήϊα), vedrà di cavarsela chi ne resta, vale a dire il sumzmit degli alceidi (i πόδες). Il tessuto allegorico della nostra ode è dunque composto di regolari ed evidenti trame metaforiche, secondo i dettami poi canonizzati dalla retorica ufficiale: un elegantissimo esempio di ὑπόνοια continuata, ma pure articolata nei suoi di per sé significativi dettagli, non a caso esemplare in tutta l’antichità. Il rapporto fra la già citata Ode oraziana (Car. I 14) O navis, referent in mare te novi fr ctus! o quid agis? fortiter occupa portum. nonne vides ut

nudum remigio latus 5

et malus celeri saucius Africo antemnaeque gemant ac sine funibus vix durare carinae possint imperiosius

10

aequor? non tibi sunt integra lintea, non di quos iterum pressa voces malo. quamwvis Pontica pinus,

silvae filia nobilis,

15

factes et genus et nomen inutile, nil pictis timidus navita puppibus fidit tu nisi ventis debes ludibrium, cave: nuper sollicitum quae mihi taedium,

nunc desiderium curaque non levis, interfusa nitentis

20

. vites aequora Cycladas

ed il suo modello alcaico, ᾿Ασυννέτημμι τὼν ἀνέμων στάσιν, veniva così definito da Pasquali: «Certamente la relazione è questa volta di natura ben diversa che in nullam, Vare, sacra; colà un motto in principio, tradotto letteralmente o quasi, ma

220

Ricerche intertestuali

poi svolgimento completamente indipendente dal modello classico; qui somiglianze con il modello, che non sono mai letterali, ma si estendono a tutta la poesia» 5°. L’autorevole parere ha certo condizionato tutte le successive stime dei debiti alcaici contratti da Orazio per allestire la metaforica nave. Lo stesso Fraenkel ribadirà che sussistono «very considerable differences between the two poems», giudicando che «the free manner in which he uses his model reminds us of the Maevius epode where only the particular kind of curse and, perhaps, a detail or two seem to be derived from the Ionian iambist» * Non sfuggiva invece a Gallavotti che lo spunto di Carm:. I 14 riflette il carme 6 V. di Alceo: o navis referent in mare te n 0 vi/fluctus.. fortiter occupa / portum ripete

τόδ᾽

αὖτε

κῦματὼ

προτέρω

’véuw/

στείχει...ἐς

δ᾽ ἔχυρον λίμενα ὃδρόίμωμεν (vv. 1 5., 8), mentre tutto quanto segue dipenderebbe, in generale, dall’intero ἀσυννέτημμι 4. Page e Voigt registrano quindi le verbali riprese oraziane di τόδ᾽ αὖτε κῦμα κτλ., ritenendo, quanto ad ἀσυννέτημμι, che Orazio l’abbia considerato «in universum» “2, E finalmente un autorevole commento al primo libro dei Carmina

recepisce che τόδ᾽ αὖὗτε κῦμα τὼ προτέρω ᾿νέμω may faintly have influenced Horace’s novi fluctus» mentre ἐς è’ ἔχυρον Mueva δρόμωμεν «certainly lies behind fortiter occupa portum» ®.

CE. Pasquali 1920, pp. 36 5. © Cf. Fraenkel 1957, pp. 155 s. Il «Maevius’ epode» (X) imita, com'è noto, il primo epodo di Strasburgo (= Hippon. °194 Dg.).

4“ C£. Gallavotti 1948, p. 91.

4 A parte qualche sporadico, appena somigliante dettaglio, cf. Page 1955, pp. 183.ss. e 187; Voigt 1971, pp. 181 e 261. Quest'ultima, perla verità, dimentica i novi /luctus. 4 Cf. Nisbet-Hubbard 1970, p. 179. In luogo del tràdito τὼ προτέρω

᾽νέμω, giustamente difeso da Blass sulla base di B 396 5. κύματα / παντοίων

ἀνέμων, i due studiosi tuttavia leggono ancora, col Bergk, τὼν προτέρων vw: pure compromettendo l’esattezza del parallelismo oraziano. Di qui il

loro «faintly» invece del debito «certainly». Cf. Syndikus 1972, p. 162. Troppi, invece, e spesso vaghi (o inesatti) i riecheggiamenti alcaici individuati da Alfonsi 1954, pp. 218 s.

Una metafora continuata

221

I vecchi apprezzamenti sui debiti di Orazio nei confronti di Alceo andrebbero dunque profondamente corretti nel senso che anche Carm. I 14, ostentando il famoso ‘motto’ iniziale di Norden *, «segue... la tecnica di nu/lam, Vare, sacra», cioè «tra-

duce in principio più o meno fedelmente i primi versi di un’Ode di Alceo, per distaccarsene poi subito» “5. Con la differenza,

però notevole, che il distacco dal fr. 6 di Alceo comporta un contestuale avvicinamento al fr. 208, da cui Orazio trarrebbe

questa volta generali somiglianze. Io credo che i conti ancora non tornino. Orazio deve ad Alceo più numerosi, ricchi e precisi suggerimenti. Basterà confrontare la prima strofe latina con i due rispettivi esordi greci: Onavis,

fluctus. portum

referent

in

mare

oquidagis? fortiter

te novi

occupa

egs.

Τόδ᾽ αὖτε

κῦμα

τὼ προτέρω

᾿νέμω

στείχει. παρέξει δ᾽ ἄμμι πόνον πόλυν ἄντλην ἐπεί κε νᾶ ος ἔμβᾳ

φαρξώμεϑ᾽ ὧς ὥκισταί ἐς δ' ἔχυρον

λίμενα

δρόίμωμεν

᾿Ασυννέτημμι τὼν ἀνέμων στάσιν τὸ μὲν γὰρ ἔνϑεν κῦμα κυλίνδεται

τὸ δ᾽ Evbev, ἄμμες δ'᾽ ὃν τὸ μέσσον νᾶϊ φορήμεϑα σὺν μελαίνᾳ

La

stessa

una

fine,

incipitaria, e non

allusiva

σφραγίς

inedita *%, contaminatio

oraziana, di

si rivela

entrambi

* «Che ha trovato per quest'arte oraziana una formula elegante»: così lo stesso Pasquali 1920, p. 9. Sintetica, in effetti, quanto elegante l'indicazione di Norden 1927, p. 57: «Seine (£.e. di Orazio) übliche Praxis war..., Motiven zu

entlehnen, die mottoartig an den Anfang gestellt und dann mehr oder minder

selbständig ausgeführt wurden». ® Così ancora Pasquali 1920, p. 38, a proposito di Carm. I 37. * È noto l'esempio del ‘motto’ composito nullam, Vare, sacra vite prius severis arborem (Carm. 1 18), dove «Orazio ha fuso insieme una citazione di

222

Ricerche intertestuali

i modelli alcaici, pure tematicamente appaiati dallo specifico testimone “7, Per cominciare, i termini obbligati avis e fluctus risultano già sicura cerniera dei due carmi di Alceo (κῦμα..«νᾶος: xbua...vei). Il misconosciuto referent in mare, cioè in altum, è però letterale e dotta ripresa di ὃν τὸ μέσσον φορήμεϑα. Come è stato osservato, ὃν τὸ μέσσον non significa infatti «in mezzo alle opposte onde», secondo la comune interpretazione, bensì precisamente «in mezzo al mare» *#, o, se si vuole, in ‘alto’ mare. Non solo, tuttavia, «un compassato

modello omerico ci permette di salvare l’alcaico ὃν τὸ μέσσον dalla banalità» 5: provvede pure ad interpretarlo esattamente l’oraziano in mare. Mentre l’attivo te referent recupera l’oggettivo φέρον di £ 330 (τὴν, sc. νῆα, ἂμ πέλαγος ἄνεμοι φέρον ἔνϑα καὶ ἔνϑα): quel precedente omerico, dove Alceo aveva sostituito la prima persona e la forma passiva, «acuendo la lirica verticalità, su cui prepotentemente incardina la sua poesia» ”. Coi novi fluctus, s'è visto che l’asse imitativo e allusivo si

sposta sul secondo modello, dove nuovamente ilgià noto κῦμα del vento di prima avanza. Ancora sul secondo modello gravita fortiter occupa portum, il cui pregnante fortiter, se in sostanza risente di ἔχυρον ?!, è però formalmente memore del precedente φαρξώμεϑα. Così come l’urgenza, implicita in

Alceo con una di Ennio e ha fatto delle due un ‘motto’ solo» (Pasquali 1920,

p. 10). 4 È sintomatica la doppia esemplare presenza nel cosiddetto Eraclito: i due carmi (a parte i frr. 73 e 306 i V., per cui v. infra) hanno certamente fatto dire allo stesso Orazio: εἰ te sonantem plenius aureo, / Alcaee, plectro dura mavis/ ... mala (Carm. Π 13, 26 ss.). 4 Così Marzullo 1975, pp. 31 s. (cf. supra n. 12). Per il significato «stretto nel mezzo» di due opposte onde si pronuncia ora nuovamente Gentili 1984, p. 264. * Cf. Marzullo 1975, p. 32. Ὁ Cf. Marzullo 1975, p. 31.

7 Nota appunto La Penna 1973, pp. 218 s., a proposito di fortiter: «può esprimere fermezza e risolutezza nell'azione ma potrebbe esprimere anche la saldezza con cui va mantenuto, una volta raggiunto, il posto al sicuro». -

Una metafora continuata

223

occupa ed esplicita nell’impaziente o quid agis, è già espressa dai

solleciti δρόμωμεν e ὡς WXLOTA. Soltanto dopo avere esaurito le sue scelte ‘iniziali’, attinte ad entrambi i modelli, Orazio si rivolge preferibilmente ad uno dei due, e precisamente ad ἀσυννέτημμι. Va però notato che si

tratta di una conversione forzata dalle stesse circostanze: mentre infatti ἀσυννέτημμι è una tota allegoria, il pur esteso τόδ᾽ αὖτε κῦμα è invece un carme composito: all’esordio allegorico

fa seguito una lunga e scoperta parenesi. L’allegoria finisce giusto con δρόμωμεν, e fino a δρόμωμεν Orazio spinge il proprio interesse incipitario, ma pure, in questo caso, funzionalmente

esaustivo.

Le somiglianze «mai letterali» che successivamente «si estendono a tutta la poesia» ᾽2, cioè all’intero ᾿Ασυννέτημμι xtÀ., sembrano invece, in qualche singolo tratto, voler ancora

‘tradurre’ l’originale. Se, in luogo della ‘similarità’ invocata da Page a proposito di d'yxovvat: antemzae, converrà piuttosto

parlare di ‘contiguità’ 5, una versione di λαῖφος dè πὰν ζάδηλον ἤδη, più esatta di quanto si sia finora creduto, è nor tibi sunt integra lintea. Infatti, il motivo della vela ‘strappata’ non è più necessariamente reperibile nel sussidiario καὶ λάκιδες μέγαλαι κὰτ adto, in realtà epesegetico di ζάδηλον, che, s'è visto, vale precisamente non integrum 5. Ma lo stesso lintea si

scopre prezioso equivalente di λαῖφος, che, in luogo dell’epico ἱστία, compare splo in HAp. 406 e, più tardi, nei tragici: si tratta però di un λινοῦφὲς ἄρμενον, come specifica Eiyra. Gen. i 20 Alpers ”. Quanto infine alle Cicladi, che, ultimo incubo, affiorano

3? Cosi Pasquali, per cui cf. supra. 5. Il parallelo istituito da Page 1955, p. 187 è rifiutato da Marzullo 1975,

p. 29. In realtà le anguinae sono letteralmente legate alle antermnae: sembra anzi che tenessero uniti «the piece of a composite sailyard» (cf. Morrison-Williams 1968, pp. 119 s.; Casson 1971, p. 230). * Cf. supra, p. 211, e n. 13. 5 Cf. Etym. Magn. 558, 49; e Casson 1971, p. 234, n. 43.

224

Ricerche intertestuali

minacciose e inattese a chiudere il carme, sembrano trovare una

puntuale legittimazione letteraria in quel Teognide, che, a suo modo,

ha preceduto Orazio

nell’imitare Alceo. La menzione

delle Cicladi, per quanto notoriamente ventose e traditrici, resterebbe «a little surprising» δ, e magari gratuita, se Teognide, ad indicare il cruciale punto di passaggio fra il noto e l’ignoto, non avesse già deprecato la deriva Μηλίου ἐκ Πόντου, alludendo per antonomasia al mare di Melo, cioè precisamente agli interfusa nitentis... aequora Cycladas Ἶ. L’allegoria di Orazio, esemplare per Quintiliano ° almeno quanto quella di Alceo per Eraclito, si è dunque rivelata un concentrato di dotta allusività:

la metafora di una metafora °°. Come non bastasse, il Venosino appare ispirarsi — stando ad un recente suggerimento di Gentili — ad un’ulteriore allegoria alcaica, recuperabile da un commento di POxy. 2307, fr. 14 col. II (= fr. 306 i col. II V.), dove una vecchia nave, provata dai

molti viaggi, ed ormai ‘sfiancata’ e arenata, «desiste dal navigare» ®. L'ipotesi è più che suggestiva: solo che, a desistere dal

* Cf. Nisbet-Hubbard 1970, p. 188. Per la nota ‘candida’ minaccia delle Cicladi, cf. e. g. Verg. Aen. III 126 s. niveamque Paron sparsasque per aequor/ Cycladas et crebris legimus freta concita terris. 5 Pasquali 1920, p. 22, osservava che «le Cicladi sono nominate... fors'anche perché erano state spesso cantate dai poeti; ma non si può dire se Orazio alluda a un passo determinato di Alceo». Allude forse a un passo determinato di Teognide, emulo però di Alceo. 58. È a Quint. VIII 6, 44, come si sa, «che noi dobbiamo la conoscenza del carattere allegorico dell’ode oraziana O navis... Quest’ode è portata come esempio del genere dell’allegoria (allegoria, inversio), che consiste in una serie di metafore» (Leeman 1974, p. 414). ” Per una ‘retorica’ dell’arte allusiva, in termini di metafora, si veda Conte 1985, pp. 13 s., e specialmente 30 ss. (cf. supra, pp. 12 e 56). © Cf. Gentili 1984, p. 273. Una personificazione femminile ipotizzava Koniaris 1966, pp. 393 ss., a proposito di Alcae. 73 V., dove sarebbe da intendere «ναῦς as the subject of paio» (v. 5), e, quindi, da immaginare una conversazione tra la nave e il poeta. In tal caso l'‘antologia navale’ alcaica utilizzata da Orazio potrebbe allargarsi ulteriormente. Sul confronto col Phaselus catulliano (IV 1 451 fuisse navium celerrimus), suggerito oralmente da Gregorio Serrao, cf. Gentili 1984, p. 270 n. 63.

Una metafora continuata

225

navigare, in Carm. I 14, è il timidus navita, che più avanti avremo modo di ‘smascherare’ 0, se si vuole, di fare uscire dalla metafora. La libera, come sempre, ispirazione oraziana mi sem-

bra però esprimersi ancor più funzionalmente, nell’esasperazione di taluni elementi — gli ‘umani’ σκέλεα della invecchiata nave alcaica, le ‘gambe’, cioè, come ha indicato Merkelbach, «le

assi laterali che si congiungono a V tra loro, a prua e a poppa» — con cui il poeta greco, inventore dell’allegoria navale, «ha animato l’inanimato», per dirla con Aristotele (Rber. III 1411b),

opportunamente invocato da Gentili €': questo però il vero e ‘poetico’ avvio offerto da tale, non ultima (cf. n. 60), allegoria navale di Alceo, che Orazio trasforma testualmente in una com-

piuta, e compiaciuta, προσωποποιΐα femminile, già insinuata dall’apostrofe 0 navis, poi costruita da ‘umani’ particolari quali nudum latus (!) e (malus) saucius (vv. 4 s.), ancora dagli umani gemant e voces, rispettivamente delle anterznae e della stessa navis

pinus, silvae filia

(vv. 6, 10), infine dichiarata dalla Portica

nobilis, che pur inutilmente vanta genus et

nomen (vv. 11 ss.).

Ha ben ravvisato Fraenkel che dietro questa personificazione femminile c’è, peraltro, un’illustre «very old Greek tradi-

tion»: in Aristoph. Eg. 1300 compare la singolare allocuzione ὦ παρϑένοι (sc. τριήρεις), in Lycophr. A/ 22 ss. le navi di Paride sono ἰουλόπεζοι...εὐῶπες... πελαργόχρωτες, ai Φαλακραῖαι κόραι 52, La gentile metafora ha in verità più alto ascendente: in Omero già civettavano le μιλτοπάρηοι νῆες (B 637; L 125), non meno delle καλλιπάρηοι Χρυσηΐς, Βρισηΐς, Θεανώ, “Ἑλένη (cfr. A 143, 184, A 224, 0 123, etc.).

Va infine sottolineato che è proprio la ‘femminilità’ della navis a provocare l'estremo ruper sollicitum... taedium, / nunc desiderium curaque non levis (vv. 17 s.). Dove sollicitum taedium

«is a lover’s word» non meno di desiderium e cura ®: sentimenti

6! Id. p.274. € Cf. Fraenkel 1957, pp. 157 5. $ Si vedano i puntuali paralleli raccolti da Nisbet-Hubbard 1970, p. 187.

226

Ricerche intertestuali

piuttosto raffreddati da un variato rapporto chiastico di analogia e opposizione:

Non

(nuper)

sollicitum

taedium

(nunc)

desiderium

curaque

troppo

impulsivo,

dunque,

questo

letterato ἐραστὴς

πόλεως “"

Non manca tuttavia chi si è lasciato impressionare da tale reiterata dichiarazione d’amore, tanto da supporre, in luogo della tradizionale ‘Ship of State’, una più disinibita ‘Ship of Love’ ®, Se le osservazioni di Anderson sui termini ‘passionali’ dell’ode — una volta che si sia constatata la convenzionalità della personificazione femminile — vengono a cadere, resta però in piedi la sua preliminare, e fondamentale, obiezione: «as Fraenkel’s paragraph suggests, the most significant aspect of the allegory was its allusionto the ruler intermsofthe ἢ εἶ πὶ 5man»

Nella nostra pur integrale allegoria manca in effetti — paradossalmente — l’elemento principale: il timone, oppure, che è lo stesso, il timoniere. Quanto al governo della

nave-stato,

Fraenkel,

come

ricorda Anderson, si limita a due paradigmatici esempi: Pind. P. 186 νώμα δικαίῳ πηδαλίῳ στρατόν, Aesch. Sept. 2 5. ὅστις

6 Cf. Thuc. II 43, citato, non senza una specifica nota del Gomme, da Nisbet-Hubbard, ἐς.

6 Dopo la sfortunata «Ship of life» di Mendell 1938, pp. 145 ss., questo il nuovo tipo di nave escogitato da Anderson 1966, pp. 86 ss., come fa garbatamente notare Holleman 1970, pp. 175 ss. Vanno qui ricordati i dubbi espressi da Seel 1970, pp. 204 ss.: proprio... in alto mare, cioè precario, sarebbe il significato politico dell'allegorica nave di Orazio. Lo sconsiglierebbero, a tacer d’altro, gli asclepiadei, adatti ad un soggetto erotico-sentimentale, non ad un tema di politico impegno. Si potrebbe rispondere, come in parte ad Anderson

(v. infra), che la personificazione femminile della nave giustifica

oltre alle ‘amorevoli’ espressioni del contenuto anche quelle della forma metri-

ca. 66. Così Anderson 1966, p. 87; cf. Fraenkel 1957, p. 155 e n. 1.

Una metafora continuata

227

φυλάσσει πρᾶγος Ev πρύμνῃ πόλεως / οἴακα νωμῶν. Ma la tipologia del timone/timoniere è infinita: comincia con gli stessi alcaici ὀήϊα, evidentemente in malora e quindi surrogati dai πόδες; continua col teognideo κυβερνήτης, sopraffatto dai soliti κακοί; e, per non ripetere il pindarico πηδάλιον e l’eschileo οἴαξ, col platonico γενναῖος ναύκληρος vel κυβερνήτης (Resp. 488 c-d), fino agli ossessivi gubernator, gubernacula, gubernare ciceroniani (Ad Q. fr. I 5; Inv. I 4; Att. II 7, 4; 9, 3, etc.) 67, È incredibile che Orazio trascuri il topico cardine del-

l’intera allegoria, dopo avere puntigliosamente saggiato la malridotta nave nei suoi più disparati elementi: dal remigium al malus, dalle antemnae ai funes, alle carinae ®, ai lintea, fino ai

lignei di 65, Né soccorre l’ingegnosa proposta di Commager, per cui «Horace seems to avoid it (sc. il timone) deliberately»: a bella

posta mancando ogni sorta di gubernaculum, risulterebbe che «Horace’s tu is the whole state», poiché «he does not renonce his political indifference in favour of a particular party» ”. Quella di Commager verrebbe in realtà essere una soluzione anche ‘referenziale’. La metafora del timone è infatti qui più che mai «the crucial point», poiché il ‘veicolo’ in questione conduce ad un ragguardevolissimo ‘tenore’: Ottaviano. Per spiegare la sua assenza, Commager muove dunque, dichiaratamente, dall'ipotesi di Conway, il quale daterebbe l’ode intorno al 29 a.C., anno in cui, come

attesta Cassio Dione,

Augusto

avrebbe affidato la risoluzione del suo dilemma — abbandonare

67. Sulla vieta metafora («from the familiar gubernator rei publicae comes the modern word ‘governor’»), si veda l'essenziale bibliografia, relativa anche alla letteratura cristiana, in Nisbet-Hubbard 1970, p. 180. 68 Sulla questione delle carınae, «the fore and δῇ section of the keel», e su quella, connessa, dei /unes (= ὑποζώματα), cf. Nisbet-Hubbard 1970, p.

183.

6 Piuttosto che il semplice sur, conviene infatti ‘sottintendere’ sr! integri (ctr. VI 9): si tratta della cosiddetta txfe/a, cf. Nisbet-Hubbard 1970,

p. 185.

|

® Così Commager 1962, p. 168.

228

Ricerche mtertestnalt

o meno la guida dello stato — ad Agrippa e Mecenate, favorevoli rispettivamente alla prima e alla seconda eventualità 7].

Orazio, lungi dal voler scongiurare «the possible revival of old regime» ?,

si mostrerebbe

oggettivamente

disinteressato

e

imparziale, unicamente sollicitus de re publica. In realtà, prima di Conway, già il Torrentius, nella sua edizione del 1608, aveva ritenuto l’ode di Orazio appunto provocata dalle voci, sorte nel 29/28, a proposito della rinunciataria intenzione di Ottaviano. E già Franke, nei suoi Fasti Horatiani del 1839, aveva fatto notare che, nel discorso attribuito a Mece-

nate da Dione, compare l’allegoria della nave sbattuta dalle tempeste civili. A parte il peso, in genere scarsamente calcolato, della suddetta coincidenza ‘navale’, la datazione dal 29 al 27 —

anno in cui effettivamente si verifica l’atto solenne della deposizione dei poteri da parte di Ottaviano — ha avuto illustri sostenitori, e sembra ormai la più plausibile 75), Poco importa che l’intenzione manifestata nel 29 e poi attuata nel 27, sia stata da

parte di Ottaviano nient'altro che un’abile mossa politica, destinata a suscitare le proteste dei partigiani, e a procurargli la conferma del potere per altri dieci anni, nonché il titolo, se non di Romulus, almeno di Augustus 75. i Un’accorata protesta è dunque anche l’ode di Orazio: ne conferma però innanzitutto l’observatio filologica. Nessuna attenzione si è finora prestata ai vv. 14 s.:

” Dio LII 1-41, cf. Conway 1929, pp. 89 ss. # Così Conway 1929, p. 100.

? Anche il Pasquali 1920, pp. 29 ss., suggeriva la data del 30 o del 29, comunque dopo Azio, sulla base anche di una precisa analisi metrica. Piuttosto per il 27 propende La Penna 1963, p. 88 n. 2. Si veda inoltre la persuasiva ricerca di Wilkinson 1956, pp. 495 ss., per cui nessuna ode sicuramente è

databile prima del 30-29: la nostra sarebbe da collocare, secondo il Wilkinson,

nel 2908, in linea già col Torrentius e per i motivi sostanzialmente esposti dal ranke. 7 Sull'argomento in generale, cf. Syme 1962, pp. 314 ss.: il particolare Romulus — Augustus è reperibile a p. 315. A proposito dei fatti avvenuti ἐν consulatu sexto et septimo, cf. il prezioso apparato di Volkmann 1964, p. 56; e lo specifico Kolbe 1944, pp. 26 ss.

Una metafora continuata

nil pictis timidus fidit.

navita

229

puppibus

Chi sia il timzidus navita in genere non si precisa: solo Anderson l’intende decisamente, e collettivamente, nel senso di ‘equipaggio’ ”.

In realtà πανία vale qui ‘nocchiero’, ‘pilota’: non solo perché nulla vieta che nauta gubernator esse potest 16, ed il nauta (vel navita) assolve questa specifica funzione nello stesso Orazio”,

ma

soprattutto

perché

il navita è qui propriamente

addetto alle puppes. E la pictae puppes non sono affatto una sineddoche per navis, secondo la comune quanto banale interpretazione, bensì costituiscono — opportunamente alla fine della già illustrata sequenza navale — l’estremo desiderato elemento: la sede del timoniere, nonché primariamente del timone.

Puppis implica clavus: i due termini anzi assumono analogo valore metaforico proprio nell’allegoria della nave: si veda l’allegorico Cic. Fam. IX 5, 3 sedebamus in puppi et clavum tenebamus, ma soprattutto 12, 25 conscende nobiscum et quidem

ad puppim, eOv. Fast. 101 dubiam, rege, navita (= gubernator, cf. v. 99) puppim. La metafora ciceroniana della puppis come ‘governo’ ha però un illustre precedente nel già ricordato esempio eschileo ὅστις φυλάσσει πρᾶγος ἐν TO vp πόλεως / οἴακα νωμῶν (Sept. 2 s.). Ed ancora in Sept. 760 ss. il fatidico κῦμα pericolosamente περὶ πρύμναν

? Cf. Anderson 1966, p. 85. La sporadica identificazione del nostro navita col ‘nocchiero’ (di solito imprecisato, cf. e. g. il commento di Tescari

1943, p. 69) non ha avuto la meritata fortuna, mancando della necessaria intel-

ligenza del successivo pictis puppibus, per la cui precisa metafora v. infra. 16 Parafrasando Isid. Diff I 276. ? Pur presente nel linguaggio poetico (cf. Verg. Aen. III 269, Ov. Fast. Η 99, etc.), gubernator non compare in Orazio, che gli preferisce il sinonimo, in realtà polivalente, navita (vel nauta), cf. Carm. 1. 28, 23, Epod. XVI 59, Sat. I 5, 4 (cfr. 11, 16; 19, 22), etc. per navita ‘nocchiero’, cf. comunque già Ter. Phorm. 576, e poi Ov. Fast. II 101, dove navita è esplicito sinonimo di gubernator (ma v. infra).

230)

Ricerche intertestuali

χαχλάζει, per cui è da temere σὺν βασιλεῦσι / μὴ πόλις δαμασϑῇ, ed infine in Eurm. 16 e 765 il pilota dello stato è detto πρυμνήτης. Una metafora ‘eschilea’ dunque, forse già suggerita

dall'odissiaca Atena, quando, protettiva guida (B 413 ἡγήσατο, 416

ἄρχε)

di

Telemaco,

autorevolmente

wi

è’

ἐνὶ

πρύμνῃ κατ᾽ ἄρ᾽ ἕζετο (v. 417). Per dirla col Fraenkel, anche qui Orazio «follows a very old Greek tradition» 78, Una tradizione meno appariscente, quindi più ricercata di quella che si affidava al solito timone. La nave, che sembrava finalmente giunta in porto, verrà dunque risospinta al largo dalle solite ondate: il navita non si risolve, purtroppo, ad alcuna audace quanto necessaria manovra, non si fida, in realtà, delle fastose ma forse ingannevoli 7 puppes. Già Acrone e Porfirione interpretavano pictis ἀλληγο-

eux®g, nel senso di sterzmata et divitiae, cioè di ornamenta nobilitatis ®, ed è opinione comune che pictis «suggests the outward splendour of the Roman state» 8!. Si spiega bene però l’enfasi

dell'interessato poeta nel decantare il genus et nomen della nobilis filia, e nel lamentare l’inutilità dei prestigiosi attributi: neanche questi servono a dissuadere il ritroso pilota dal ‘gran rifiuto’. Ottaviano, stando almeno alle apparenze, «objected that the

responsibility was too great» #2. Nessuna mancanza di riguardo, dunque, nell’immagine del tzidus navita a lui riferita: peraltro smorzata dalla stessa sua ovvietà, almeno in campo marinaresco, dove timidus si oppone correntemente ad audax (cfr. Hor. Sat. Il, 29 s. nautae peromne / audaces mare qui currunt). E audax non

78 Cf. supra, p. 225. 7 Sul motivo della navis picta ma solida, cf. Nisbet-Hubbard 1970, p. 186.

# Dei due, Porfirione talvolta affıla troppo la lama allegorica, come quando intende, ad esempio, sine funibus nel senso di sine ministratoribus... aul sine expensis et pecunia.

8 Così Nisbet-Hubbard 1970, p. 179. 82 Cf. Jones 1970, p. 46, che discute le fonti antiche sulla ‘teatrale’ rinuncia. Oltre al citato Dione, cfr. Suet Aug. 28, 1.

Una metafora continuata

231

doveva certamente, né utilmente, apparire Ottaviano ai suoi

fans, raccolti attorno a Mecenate in quell’orchestrato frangente. La stessa mancanza di riguardo sarebbe del resto avvertibile nel discorso pronunciato dal sottile consigliere, almeno secondo Dione. È qui il caso di tornare alla discussa orazione di Mecenate a Dione ficta ®, ed alla già accennata coincidenza ‘navale’ con Orazio, per rilevarne alcune nuove implicazioni. Ha affermato La Penna, fondamentalmente a ragione, che

«essendo quest’allegoria (sc. della nave) un luogo comune diffusissimo, non si può attribuire a questa coincidenza nessuna

importanza»; ma lo stesso Pasquali, pur ridimensionando la citata ipotesi di Franke, non mancava di osservare che «somiglianze tra le orazioni di Dione e alcuni motivi nelle odi civili di Orazio ne troviamo anche altrove, ciò che mostra che Dione

attingeva a fonti, che rendevano bene l’opinione pubblica dell’età agustea» 83. Senza pretendere l’acquisto di utili chiarimenti «al conformarsi dell’ideologia del principato» 85, il rapporto Orazio-Dione mi sembra dimostrabile appunto nei limiti definiti da Pasquali. All’interno di più generiche similarità, dobbiamo anzi constatare la presenza di singolari consonanze, difficilmente imputabili al caso. Se infatti ᾿᾿ ὁλκὰς... πλήρης ὄχλου παντοδαποῦ χωρὶς κυβερνήτου ricorda da vicino Teognide (vv. 675, 679), ed i suc-

cessivi φερομένη... δεῦρο κακεῖσε.. ὑπέραντλος

rimandano

ad Alceo (vv. 2 ss., 6) *, il caratteristico μήτ᾽ οὖν.. περιΐδῃς, ὁρᾷς γὰρ ὡς risente precisamente dell’oraziano nonne vides ut(v.

3), mentre il successivo ἔτι χρόνον ἀντισχεῖν δυνήσεαι tra-

# Su cui appunto si veda la dissertazione di Meyer 1891, che ne eviden-

zia le finalità retoriche oltre che politiche. * Così, rispettivamente, La Penna 1963, p. 88 n. 2 e Pasquali 1920, p. 34 n. 2. Il quale rimanda, poi, ad un significativo esempio, che riguarda un particolare di Carm. I 37 (p. 59). 8 Cf. ancora La Penna, ἐς

% Entrambi costituiscono, però singolarmente, i presupposti dello stesso Orazio.

232

Ricerche intertestuali

duce vix durare carinae possint (vv. 7 s.), ed i ϑεοὶ ἐλεήσαντες

non possono non richiamare i di che la nave oraziana dovrebbe implorare (v. 10). Ma soprattutto riaffiora, in due riprese, l’atteggiamento diffidente e timoroso delpilota, cioè, fuor di metafora, dello stesso Ottaviano. Mecenate ritiene, non

appena esaurita la digressione navale, di averlo ormai condotto a fidere nella necessità monarchica: ὅτι.. ὀρϑῶς σοι παραινῶ, μοναρχεῖσϑαι τὸν δῆμον div...ce ἡγοῦμαι πεπεῖσϑαι.. Epiùavantilo esorta esplicitamente a non mostrarsi Zimidus:: μή ... τὸ μέγεθος τῆς ἀρχῆς φοβηϑῇ ς, dove μέγεϑος τῆς ἀρχῆς è ‘tenore’ delle figurate pictae puppes. A conferma infine della possibilità di ἀκινδύνως

δείσῃς

ἄρξαι,

ribadisce

tematicamente

l’invito:

μηδὲ

κτλ.

Come già Alceo, anche Orazio non ha dunque «tralignato». Entrambi hanno inteso comporre un’allegoria integrale, e completa, peraltro destinata ad una curiosa e identica sorte: ambedue esemplarmente citati dagli antichi, hanno in sèguito fatto dubitare i moderni della consistenza, se non della sussi-

stenza, della loro marinaresca allegoria. Eppure entrambi, quasi a prevenire tà, si erano successivamente ‘scoperti’. tando, nel fr. 6 V., il κῦμα τὼ προτέρω mente la μοναρχία, Orazio palesemente

l’incresciosa eventualiAlceo di nuovo paven’véuwo, quindi esplicitamanifestando in Carr.

I 2, «la stessa disposizione d’animo ed il timore che Augusto

voglia ritirarsi a vita privata» 87: alla domanda quem vocet divum populus ruentis imperi rebus (vv. 26 5.) — eco dei navali di, quos...pressa voces malo — risponde, senza più allegoriche interferenze, il finale e risolutivo Caesar.

87 Per tale possibile successione cronologica, cf., per Alceo, Marzullo 1975, p. 38, e, per Orazio, Pasquali 1920, p. 35.

Capitolo tredicesimo LA NASCITA DI LALAGE (Orazio e Dioscoride)

Integer vitae scelerisque purus, Orazio annuncia, in Carm. I 22,9 ss., la propria emblematica avventura: me silva lupus in Sabina,

dum meam canto Lalagen et ultra terminum curis vagor expeditis,

fugit inermem.

Il poeta ne conclude, ai vv. 23 s.: dulce ridentem Lalagen amabo dulce loquentem.

«There was no such person as Lalage: the name... is chosen because it suits the artistic needs of the poem». Così, nell’introdurre il carme, Nisbet e Hubbard riassumono la questione dell'identità femminile, ovviamente rifuggendo da ogni tentazione biografistica, più avanti informando sulla ricorrenza dell’antroponimo: a parte la Livia Lalage di CIL VI 3940, ispiratrice di ormai sopite romanticherie, sembra che a metterlo in voga,

squisitamente letteraria, sia stato proprio Orazio !. Certo, nel citato Integer vitae, Lalage non è che un nome,

però doppiamente ‘parlante’: sul piano non solo dei significati, grazie alla sicura etimologia (cf. λαλαγέω), ma anche dei significanti, in virtù della chiara onomatopea. La duplice e motivata

! Nisbet-Hubbard 1970, pp. 263 e 268: oltre l'ode e l’iscrizione citate, ricordano ancora Hor. Carm. 11 5; Prop. IV 7; Carme. priap. IV 3. Una Lalage è pure in Martial. LXVI. Per il greco Λαλάγη, unicamente attestato nel grammatico Erodiano, v. infra.

234

Ricerche intertestuali

funzione si esplica nel celebre finale Lalagen... dulce loquentem, dove il poeta chiude in bellezza, recuperando il saffico ἄδυ φωνείσας, ed «attualizzando le potenzialità etimologiche dell’antroponimo mediante il simbolismo fonetico delle liquide» 2. Un nome che Orazio avrebbe dovuto inventare, se per caso non fosse esistito. Appunto la preesistenza di una Lalage, naturalmente letteraria, incuriosiva Pasquali. A proposito della dichiarazione di fedeltà, formulata da Aristaen. II 21 φιλεῖν Δελφίδα καὶ ὑπὸ ταύτης φιλεῖσθαι καὶ λαλεῖν τῇ καλῇ καὶ ἀκούειν λαλούσης (cui aveva già rinviato Wilhelm), egli ipotizzava per Aristeneto ed Orazio una comune matrice alessandrina, e, forte

del fatto che il ‘letterato’ Erodiano distingue dal nome comune λαλαγή il proprio Λαλάγη (I p. 310 Lentz), concludeva che «forse già nel carme ellenistico la fanciulla si chiamava Lalage», che «quel carme, o forse l’imitazione oraziana, dette voga al nome» ?.

Pasquali, pur così propenso ad individuare modelli alessandrini, e pronto ad indicare ulteriori antecedenti ellenistici per la seconda parte della nostra ode ‘, nega che la prima si fondi su analoghi presupposti: la ‘storiella del lupo’ che scappa

2 Così Traina 1975, p. 262; sulla doppia motivazione di Lalage, cf. anche p. 139. Soltanto all’etimologia sembra prestare attenzione Marouzeau 1935, p. 374.

* Così Pasquali, 1920, p. 476 (per il raffronto Orazio - Aristeneto, cf.

Wilhelm 1902, p. 606). Egli riteneva che Erodiano avesse trovato il nome in un’opera letteraria non anteriore all’età ellenistica anche perché «forse fino a tutto il quarto secolo λαλεῖν ha significato ‘ciarlare’ non ‘parlare’, e chi avesse chiamato Λαλάγη una sua amata non avrebbe inteso farle un complimento» (l.c.: interessante Soph. Ant. 320, che dice λάλημα di una persona troppo loquace): le avrebbe bensì affibbiato un nomen ex vitio positum, come il Lala di Ov. Fast. II 599 ss., ricordato da Traina 1975, p. 139 (così si chiamava Lara,

o Larunda, ai tempi in cui invano la madre raccomandava alla pettegola ninfa

tiberina di temere linguam: per un punto di vista recente, e antropologico, sulla questione, cf. E. Cantarella 1985, pp. 9 ss.). 4 Un epigramma di Asclepiade (XI G.-P. = AP V 64) ed uno anonimo (III G.-P. = AP V 168), entrambi risalenti ad un ipotetico carme ellenistico (p. 474).

235

La nascita di Lalage

davanti al poeta gli ricorda piuttosto la storia dei leoni messi in fuga da Batto, di pindarica memoria (P. V 55 ss.). L’insigne filologo avrebbe certo apprezzato l’insistente ripetersi, proprio in àmbito alessandrino, della storia di un leone messo in fuga da Ati, sacerdote di Cibele, mediante il suono del timpano. Trattano lo stesso tema ben quattro epigrammisti, indicati successivamente dal Prescott: ‘Simonide’, Alceo, Antipatro Sidonio,

Dioscoride °. L’ultimo $, in particolare, ha poi permesso a Josserand di istituire col nostro Orazio «singuliers rapprochements» 7. La singolarità del raffronto, in effetti unico, consiste-

rebbe nella coincidenza per cui Ati è da Dioscoride definito ἁγνός così come Orazio si dichiara integer et purus: ma con la sacrale ‘purezza’ del sacerdote, κειράμενος γονίμην.. ἀπὸ φλέβα -, contrasterebbe maliziosamente quella del non meno pius poeta, che però ama e sempre amerà Lalage. In realtà — inopportune malizie a parte, e a parte il topos della belva in fuga comune ai vari epigrammisti — gli spunti, narrativi e formali, offerti ad Orazio dal solo Dioscoride non si

limitano all’interessante ἁγνός. Infatti: come il poeta incontrerà il pericolo sconfinando dallo spazio noto e familiare della propria

«cerchia

di

sicurezza»?

(ultra

terminum),

così

il

᾽ Rispettivamente II, XXI, LXIV, XVI G.-P. (= AP VI 217, 218, 219, 220); cf. Prescott 1925, pp. 276 s. Sugli ulteriori, anche se inconsapevoli e ignorati meriti dello studioso, v. infra. Circa contemporaneamente, Birt 1926,

pp. 92 e 161, ricordava un epigramma di Antistio (1 G.-P. = AP VI 237), che però ripete il tema svolto dai quattro predecessori, con particolare riferimento a ‘Simonide’, cf. Gow-Page 1568, p. 145. 6 In realtà Dioscoride sembra essere «the earliest of the series», e dagli

emuli certo si distingue, in primis per le più attente precisazioni spazio-geografiche: cf. quanto osservano in proposito Gow e Page 1965, pp. 246 s., nonché 25. ? Così Josserand 1935, p. 363.

8 Questo il crudo incipit dell’epigramma di Alceo. * Cf. Traina 1975, p. 259, che sottolinea, con riferimento all’antiesotismo oraziano (per cui si veda La Penna 1969, pp. 7 s.), il signiticato delle indicazioni spaziali non solo nella nostra ode. Il parallelo istituito con Dioscoride, sulle cui insistenze spazio-geografiche ci siamo già soffermati (cf. n. 6), acquista più particolare rilevanza.

2 26

Ricerche

intertestualt

sacerdote esce Πεσσινόεντος ἀπὸ Φρυγός, deviando poi pericolosamente βαιὸν ἄπωϑεν ὁδοῦ, E soprattutto: se Orazio si

salverà cantando Lalage (lupus... dum meam canto Lalagen fugit), Ati si salva suonando il timpano, che, alla fine, chiama preziosamente (vv. 15 5.) λαλάγημα

τοῦτο τὸ ϑηρὶ φυγῆς αἴτιον ἀντίϑεμαι.

L’epigramma si conclude, dunque, con una ‘sonora’ sorpresa. Sorprende pure che Prescott si fosse a suo tempo imbattuto in λαλάγημα, sfuggendo però all’attenzione generale, e rifiutando per proprio conto l’‘agnizione’: limitandosi a recepire, come già Orazio evidentemente, «the profoundly religious spirit of these five epigrams», e certo diffidando dall’istituire relazioni troppo precise e compromettenti per l’‘originalità’ del poeta romano, aveva tra l’altro sconsigliato «to indulge in misdirected ingenuity by noting λαλάγημα of AP VI 220, 15 in connection with the name of Horace’s heroine» "Ὁ, L’involontario suggerimento dello studioso, ancora insensibile alle lusinghe dell’arte allusiva !!, non ha purtroppo avuto alcun seguito. Lo stesso Josserand, che pure scarterà ogni altra pista per seguire decisamente quella dioscoridea, a caccia di allusioni fin troppo sottili, riuscirà ad afferrare solo il termine ἁγνός. Puntualmente,

Ἰ0 II rilievo di Prescott 1925, p. 277, mi è stato segnalato verbalmente da Traina, quando avevo già notato la presenza di λαλάγημα nell’ascendente dioscorideo, constatandone peraltro l'assenza nei maggiori studi e commenti oraziani. Per l'indispensabile bibliografia in merito, si veda il citato commento di Nisbet-Hubbard, e la ricca nota di Traina 1975, p. 273.

11 Su Orazio e l’influenza ellenistica, Prescott conosce il fondamentale articolo di Reitzenstein 1908, pp. 81 ss., ma non l’Orazio lirico di Pasquali, pur uscito da alcuni anni. Una diffusa sensibilizzazione all'arte allusiva sarà comunque possibile solo più tardi: com'è noto lo stesso articolo di Pasquali è del 1942 (ma per tutta la questione cronologica del milieu culturale ‘allusivo’ v. supra, pp. 13 s.).

La nascita di Lalage

237

ἁγνός risulta accolto nel più curato recente commento oraziano, da cui resta tuttavia escluso l’appariscente λαλάγημα ". L’eufonico bapax alessandrino — in istruttiva funzione metonimica, sostituendo l’altrove regolare τύμπανον 4, e in enfatica posizione finale, costituendo l’explicit dell’ultimo esametro — ha invece fatalmente evocato al dotto poeta, già invaghito di precedenti ed utili spunti, il più che utile ‘soprannome’ femminile, così ad hoc per la protagonista di turno, safficamente dulce loquentem. La filigrana dell’ode, regolare intreccio di reminiscenze classiche filtrate attraverso l’esperienza ellenistica, non ha forse finito di rivelarsi in tutta la sua complicata fattura ®. Risulta comunque confermata, almeno parzialmente, l’ardita intuizione di Pasquali. Il filologo non sarebbe rimasto deluso trovando in λαλάγημα appena qualcosa di meno dell’atteso Λαλάγη. Il poeta vi aveva fortunosamente trovato però

1? Cf. i citati Nisbet e Hubbard, p. 262; ancora minore l’attenzione formale di Syndikus 1972, pp. 226 ss. Solo nel nostro epigramma è infatti reperibile λαλάγημα. Lo stesso λαλαγέω risulta scarsamente attestato: compare in Pindaro (O. II 97; IX 40),

poi in Teocrito (V, 48; VII 139) e Leonida di Taranto (LXXXV 1 G.-P. = AP X 1, 1: sulla ripresa di Cicerone, v. in/ra), infine in Paolo Silenziario (AP VI 54,9).

4 Lo strumento viene più semplicemente chiamato col suo nome dagli altri epigrammisti, compreso Antistio, e, poco prima, dallo stesso Dioscoride {v. 10). Per Alessandro Etolo λάλα sono i τύμπανα (I G.-P. = AP VII 709), per Erucio saranno i κύμβαλα (X 5 G.-P. = AP VI 234: si tratta della dedica di un sacerdote di Cibele!), per Dioscoride λαλάγημα «should mean sound but plainly means noisy instrument» (così, discutibilmente, Gow-Page 1965, p. 248).

15 Burzacchini 1976, pp. 39 ss., cf. 1985, pp. 373 ss., ha ravvisato sorprendenti affinità con l’ode alcaica ad Agesilaide (fr. 130 b V.). A parte vari - altri spunti, soprattutto formali, lo stesso avvio oraziano Integer vitae ricalcherebbe quello alcaico " Ayvotg [toi]o βιότοις: così sarebbe da leggere il problematico incipit di Alceo. L'&yvég di Dioscoride costituisce in eftetti un probante trait-d’union. A proposito di Lalage — λαλάγημα, e di allusivo zelo, va

qui ricordata una curiosa coincidenza: lo stesso λαλαγέω aveva suggerito a Cicerone il modo di strizzare l'occhio ad Attico, rammentandogli, assieme all’attesa λαλαγεῦσαν ıllam tuam (Att. TX 18, 13), anche la leonidea χελιδὼν

λαλαγεῦσα. Si tratta certo di un caso, però significativo.

238

Ricerche intertestuali

quanto desiderava: l’isolato λαλάγημα offriva una perfetta ed unica σφραγίς per la doppia valenza di Lalage, ‘parlante’, in

modo sempre più esplicito, «pas moin par le son que par le sens» !6, L’istanza allusiva non si riduce, infatti, a mera esibizione erudita, ma esplode, per così dire, dal profondo del testo, rimo-

tivandone il senso. Nel quadro dell’identità tematica, e semantica, fra la magia salvifica del suono musicale "7 e quella del canto poetico, il micro-contesto di λαλάγημα (τὸ ϑηρὶ φυγῆς αἴτιον) fornisce ulteriore supporto alla lettura secondo cui Orazio si ritiene intatto ed intoccabile non solo perch é innamorato, ma anche e soprattutto perché poeta, nella fattispecie poeta d’amore. Com'è noto, e forse inevitabile, la comune ese-

gesi oscilla tra l’enfatizzazione ora dell’uno ora dell’altro pe rche: piuttosto al primo mirano, ad esempio, Nisbet e Hubbard; al secondo invece, per fare un altro esempio (corrente e recente), Syndikus 15, Un’oscillazione, si dirà, provocata dalla stessa ambiguità oraziana, che contamina i due fopoi, parimenti diffusi, dell’inviolabilità vuoi dell’innamorato vuoi del poeta !9.

In realtà, la prerogativa oraziana sta nella studiata quanto perfetta unione dei due motivi, l’uno però inglobato nell’altro: «zutus et sacer è Orazio non in quanto ama, ma in quanto canta il

suo amore», in ‘omaggio’ a Saffo e Catullo 2, Come dire che Orazio — diversamente dal poeta elegiaco che vive, e soffre, l’identità, e la ‘contemporaneità’, fra arte e vita, fra poesia e amore — (ri)canta qui un amore, serenamente perché poeticamente

(ri)vissuto: un amore, se si vuole, metapoetico. Una lettura

6 Riutilizzo, sia pur liberamente, una felice espressione di Marouzeau 1935, p. 372, a proposito dell’abilità oraziana di ‘giocare’ coi nomi propri. 7 L'aneddoto di Ati «se fonde sur le rite du tympanisme» (Josserand

1935, p. 363n. 3; cf. Graillot 1912, p. 259 n. 9).

18 Cf. Nisbet-Hubbard 1970, p. 263; Syndikus 1972, p. 232. !9 Cf., rispettivamente, Prop. IH 16, 11 ss., Tib. I 2, 27 s., Ov. Am. 16, 13 5. (ma già AP V 213, 3 s.: Posidippo), e lo stesso Hor. Carm. I 17, 2 ss., II 4,9 ss.

2 C£. Traina 1975, pp. 262 5.

La nuscita di Lalage

239

penetrante di Carr. I 22, ed una convincente restituzione «della

coerenza tematica della difficile ode», si deve a chi ha saputo già decrittare in chiave allusiva il finale dulce ridentem Lalalagen amabo / dulce loquentem: finale in cui, come ripetutamente è stato detto, Orazio risale a Saffo attraverso Catullo, ma pure, come acutamente ha ravvisato Traina, Orazio varia il precedente meam canto Lalagen, in realtà implicandolo in Lalagen amabo, dove «il concetto di ‘cantare’, espresso a livello semantico al v. 10, è ... recuperato a livello allusivo», poiché «Orazio ama e canta come avevano amato e cantato Saffo e Catullo» 21. A ben sentire, la canora ‘doppia eco’ di poesia d’amore saffico-catulliana è per giunta rafforzata dalla sonora eco dioscoridea, in senso propriamente ‘eziologico’. Il provvidenziale λαλάγημα, definito dall’epigrammista l’aitıov della φυγή del leone e quindi della salvezza di Ati, risuona in Lalage caricandone il ‘significato’ di una valenza precisa quanto allusiva. Il nome — già due volte parlante, come fin da principio dicevamo, per l'etimologia e ’onomatopea — da solo spiega, forse definitivamente, la doppia salute e del poeta e dell’innamorato: Lalage «-"Λαλάγη è, sì, nome di donna, ma anche ‘suono’, e non certo

«mere noise» 22, bensì musica, vale a dire poesia. Lalage, anzi, è allusivamente la poesia: se si vuole, la metapoesia, beninteso

d’amore.

21 Id.,p. 263. 22 Così Prescott 1925, p. 276 (a proposito di λαλάγημα, cf. supra n. 14).

Capitolo quattordicesimo

METATEATRO IN PARODIA* (Sulle ‘Tesmoforiazuse’ di Aristofane) «I fondatori dell’arte tragica trovarono la loro materia e i loro modelli nell’epica, e come questa generò dal suo seno la parodia, così gli stessi maestri che crearono la tragedia si dilettarono a inventare i drammi satireschi ... Dall’unione della paro-

dia con gli antichi giambi, e in contrapposizione alla tragedia, nacque la commedia»: così, romanticamente, F. Schlegel ', che, però sulle classiche orme degli antichi, faceva nascere il comico dal serio, sembrandogli, quindi, la parodia componente fondamentale e primaria della commedia. Già secondo Ermogene, τὸ κατὰ παρῳδίαν σχῆμα era la prima μέϑοδος, anticamente, κωμικῶς λέγειν ἅμα καὶ σκώπτειν 2,

Non spetta a noi contestare la secondarietà del comico, non solo dagli antichi normalmente subordinato al serio ?. Qui

* ‘Metateatro’ ha qui valore euristico e non meramente terminologico. Non intendiamo comunque invocare la categoria più usuale, ma limitativa, di ‘teatro nel teatro’, quanto propriamente richiamarci alla nozione originaria, inventata da Abel a proposito del Personaggio (Amleto) che, autonomizzandosi, per così dire, dall’Autore, diventa ‘drammaturgo di se stesso’. Questa autoconsapevolezza dell’attore-personaggio opera già nella paratragedia aristofanea, e in modo esemplare. Grazie all’ a llusività, nella fattispecie

parodica, l’attore (comico) impersona un (necessariamente noto) personaggio (tragico), passando, non senza conseguenze, dalla prima alla seconda finzione e viceversa. Nelle Tesmzoforiazuse assistiamo al saggio forse più efficace di tale smascheramento della convenzione teatrale per eccellenza, quella tragica: nella ‘lotta’, sulla scena, del comico contro il tragico, il teatro è obbligato a

decostruire e ricostruire (in realtà a rappresentare nuovamente) se stesso, riflettendo, sul proprio farsi e disfarsi, con quel sereno distacco che solo il comico consente, anche e soprattutto sulla scena. ' Cf. Schlegel 1937, p. 170. 2 Metb. 34, p. 453 Rabe.

δ Sulla questione, cf. di recente Chiarini 1980, Ρ. 90 (che, per i riferimenti antichi e la bibliografia moderna sull'anteriorità e superiorità della tra-

242

Ricerche intertestuali

interessa, del resto, non il comico freudianamente leggibile ‘nella realtà”, bensi il comico ‘artificiale’, e nella fattispecie parodico. Sulla secondarietà — istituzionale — della parodia, ovvia-

mente nulla quaestio. Sulla secondarietä, in particolare, della παρατραγωῳδία *, quale ‘ripensamento’ comico della maniera tragica, (quasi) tutto, in merito ad Aristofane, è stato detto

e

scritto. Dopo i numerosissimi studi sulla parodia aristofanea, la monumentale Paratragodia di Rau ne sistema attentamente, ed esaustivamente, forme e motivi ἢ. Così, ogni ulteriore giudizio

su Aristofane paratragico non sembra più affidabile ad una qualsivoglia partizione e classificazione dei temi e dei modi. Considerando piuttosto l’incidenza del napatpaywöeiv commedia per commedia, e ripercorrendo velocemente tale cammino aristofaneo sull’indice dello stesso Rau, constatiamo, per

prima, la parodia del Te/efo negli Acharnest, quindi del Telefo nelle Teswoforiazuse, del Palamede, dell’Elena, dell’Andromeda nelle Tesmoforiazuse, del Bellerofonte nella Pace (fin qui il ber-

saglio è Euripide), della tragedia di Agatone nelle Tesmoforiazuse; e registriamo infine, dopo un capitolo dedicato all’Agone fra Eschilo ed Euripide nelle Rare, una serie di motivi paratragici, tematici e strutturali, reperibili un po’ dovunque, dagli Acarnesi ai Cavalieri, alla Pace, alle Nuvole, alle Vespe, agli

gedia, rimanda a Cupaiolo 1979, specialmente pp. 32 ss.); per una generale messa a punto delle teorie sul comico, non senza cenni alla sua sociologia storica, cf. l’utilissimo Ferroni 1974 (sui ‘bassi’ valori del comico, p. 1 ss.).

4 Per la verità, è attestato il verbo παρατραγῳδεῖν in schol. Ach. 11% e in Poll. X 92); l’aggettivo παρατράγῳδος è in Plut. Mor. II 7 a, cf. Περὶ ὕψους III 1 (παρατραγικεύεσθϑαι e παρακωμῳδεῖν τοὺς τραγικούς si leggono, rispettivamente, in schol. Vesp. 1482 e schol. Ran. 689; né si dimentichi l'ut paratragoedat cornufex! di Plaut. Pseud. 707). ’ Per un’esaustiva bibliografia, cf. Rau 1967, pp. 220 ss.: andranno aggiunti Komornicka 1967, pp. 51 ss. (con un'ordinato esame della letteratura relativa, dagli studi sulla parodia nell'antica commedia attica, alle monografie specialistiche sui fatti di lingua, stile, ‘filosofia’ e critica aristofanei, ai trattati più generali sulla parodia antica e moderna); Horn 1970, pp. 94 ss.; Hansen 1976, pp. 165 ss.; Moulton 1981, pp. 108 ss.; Michail 1981, pp. 109 ss.; Paduano 1982, pp. 103 ss.

Metateatro in parodia

243

Uccelli, al Pluto, non escluse, naturalmente, le Tesmoforiazuse,

le quali occupano, con mente privilegiato. Ma ci commuove, quanto mezzi degli oggetti dei

tutta evidenza, uno spazio quantitativanon è il volume della loro presenza che piuttosto l’organizzazione dei modi — ἐν οἷς te καὶ ἃ καὶ ὥς, per dirla

con Aristotele (Poet. 1448a 25) — della para-mimesi aristofane-

sca del μῦϑος tragico. Rileggeremo dunque le Tesmoforiazuse: però come la commedia che — più delle stesse Rare, cui non mancheremo di dare uno sguardo comparativo — riassume, e porta ad estreme quanto organiche conseguenze, invenzioni e tecniche sperimen:

tate fin dagli Acarnesi, se non dai Banchettanti®. Non possediamo l’hypothesis della commedia. Scarni e approssimativi scoli del Ravennate avvertono che: «il Coro è formato dalle donne

che celebrano le Tesmoforie.

Si tratta,

anche qui, di un dramma composto contro Euripide. Il poeta l’ha intitolato, prendendo spunto e nome dalla festa, Tesrzofo-

riazuse, che sono appunto le donne che formano il Coro... Recita il prologo Mnesiloco, parente di Euripide». Converrà riportarne brevemente la trama per meglio evi. denziare, più avanti, quanto compiutamente le Tesmoforiazus.:

si prestino ad identificarsi come una struttura (comica) che allude, addirittura fagocitandola, ad un’altra struttura (tragica). In ordine di entrata in scena abbiamo: il Parente, Euripide,

quindi il Servo di Agatone, Agatone, una Donna, il Coro, due Donne, Clistene, il Pritane, l’Arciere scita. I κωφὰ πρόσωπα sono la schiava Θράττα, l’ancella Μάνια, la ballerina ᾽Ε-

λάφιον, la flautista Τερηδών. Nel prologo Mnesiloco lamentosamente arranca dietro Euripide, che lo trascina con sé a

casa di Agatone. Un atteggiato famulo avvisa che il tragedo non si farà aspettare a lungo. In attesa della sua comparsa,

Euripide spiega a Mnesiloco: oggi, cioè nel giorno delle 6 Fr. 234 K.-A. (PCG ΤΠ2 p. 141); cf. il commento di Cassio 78 ss.

1977, pp

244

Ricerche intertestuali

Tesmoforie, le donne riunite decidono della vita o della morte

di lui, misogino autore di drammi che diffamano il gentil sesso. Egli però ha un’idea: spedire il femmineo Agatone di nascosto, acconciato facilmente da donna, all'assemblea per-

ché parli in sua difesa. Anche il resto della vicenda è noto.

Agatone si rifiuta. All’impresa si vota il Parente, che va al Tesmoforio, preventivamente, e dolorosamente, sbarbato e depilato, nonché travestito con l’aiuto di Agatone che presta

abiti e arnesi di toeletta. Dopo la parodo (vv. 295-379) e un abbozzo di agone (vv. 380-573) con la tirata difensiva di Mnesiloco davanti alle donne in assetto assembleare, arriva Clistene, della stessa specie di Agatone, ad avvisare le ‘amiche’ donne dell'inganno. Nelle scene successive (vv.

574-784) scat-

ta, con l'appoggio di Clistene, l’inquisitoria reazione femminile, che finisce con lo smascheramento del traditore, cui non giova l’espediente parodico, ispirato al Te/efo, né gioverà il

trucco rubato al Palamede per far giungere ad Euripide il necessario e pattuito S.O.S. (cf. vv. 270 s.). Mentre Clistene e

la sedicente madre del vinoso bebè sono dal Pritane a spor-

gere denuncia, il Coro espone nella parabasi (vv. 785-845) i motivi della propria superiorità sui maschi e perciò reclama la parità, almeno, dei diritti. Quindi, visto l'insuccesso del Pala-

mede, sempre frigido ancorché parodiato, Mnesiloco tenta due nuove carte paratragiche, tratte dal solito repertorio euri-

pideo. Una dopo l’altra si succedono le parodie dell’Elena e dell’Andromeda (vv. 846-1159). Vestito com'è da donna, Mnesiloco-Elena si aggrappa alla tomba di Proteo, in Egitto,

dove giunge, in effetti, il liberatore Euripide-Menelao, però costretto alla fuga dal Pritane, pericolosamente intervenuto assieme all’Arciere scita, che infligge al Parente la σανίς.

Legato com'è alla gogna, Mnesiloco si finge Andromeda avvinta

allo scoglio, e, pateticamente monodiando, suscita

prima la risposta extrascenica di Euripide-Eco, poi l’entrata

in scena di Euripide-Perseo. Ma l’eroe neppure riesce ad avvicinarsi all’eroina, perché la mostruosa Guardia non si fa ingannare e lo mette in fuga. Fallita ogni μηχανή paratragica, la vicenda si conclude con un espediente meno elaborato ma più comico. L’esodo (vv. 1160-1231) mostra Euripide che stipula un onorevole compromesso con le Θεσμοφοριάζουσαι

— pace e libertà per il Parente, in cambio del proprio silenzio sulle donne — e poi, travestito da mezzana, si appresta, in compagnia di una flautista e, soprattutto, di una succinta danzatrice, a gabbare finalmente lo Scita. Costui si apparta con la

Metateatro in parodia

245

ballerina Cerbiatta, affidando il prigioniero ad Euripide-Artemisia. Così Mnesiloco è libero, e scappa, anche di scena, con Euripide. Alla Guardia, quando torna, non resta che inse-

guire i fuggiaschi, tra le beffe del Coro.

La commedia è stata generalmente intesa come opera di mera evasione, e di scarso impegno intellettuale, il cui «happy ending ... leaves us with nothing difficult to think about» 7. Più problematicamente si avverte che, nelle Tesmoforiazuse, «Aristofane è provocato dalla contingenza spicciola (sc. la rappresentazione dell’E/ena e dell’Ardromeda) ... L’invettiva diretta,

impaziente, implacata della commedia arcaica è dunque morta, come dissolto è il mordente politico di cui si alimentava. Un nuovo tipo di comicità gradualmente si afferma ... Aristofane più che aggredito è evidentemente affascinato da Euripide: ... già Cratino, con occhio tagliente, rilevava l'‘euripidaristofaneggiare’ probabilmente inaugurato dall’ingenuo rivale ... I dissonanti Acarnesi sono ormai lontani, la commedia si affida all’intreccio: di suggestione nuovamente euripidea» 8, «Privatissima» è stata comunque considerata la nostra pièce, con precise e inte-

ressanti conseguenze per l’aspetto teatrale: gli attori protagoni-

i Così, esemplarmente, Dover 1972, p. 169; cf. Whitman

1964, p. 218:

«the fading of Old Comedy»; Cantarella 1956, pp. 401 s., il quale concede ‘efficacia' e ‘felicità’ alla commedia, «nonostante le incongruenze psicologiche e i difetti strutturali», e nonostante il livello parodico non ancora «elevato come

sarà nelle Rare dalla nobiltà degli ideali». Poco da dire sulla commedia trova Koch 1968, p. 54. Si vedano, in merito, le giuste quanto isolate proposte di Moulton 1981, p. 108 n. 1, e di Paduano 1982, p. 117: il primo attento alla «thematic relationship of parody to farce», nonché «of Thesmophoriazusae to its festival background» (pp. 109 ss.), il secondo agli aspetti propriamente teatrali della commedia. Al significato e all’incidenza drammatica del culto è interessata Zeitlin 1981, che pure lamenta la scarsa ‘generosità’ della critica nei confronti della commedia (p. 170). Alla tecnica della messa in scena, in particolare all'uso o meno dell'èyx6xAnua, Hansen 1976, pp. 165 ss., non a caso autore di una traduzione «performed by the New York Theater Ensemble» nella primavera 1973, e dunque risentito che «today it is hardly Aristophanes’ most popular play» (sc. le Tesmoforiazuse: p. 165 et n. 1). 8 Così Marzullo 1982, p. 434.

246

Ricerche mtertestualt

sui *, il Parente ed Euripide, «non provocano un’alterazione dell'ambiente scenico, non affermano le loro presenze con l’instaurazione di un'ambiente di valore esemplare, ma lasciano intatto il luogo nel quale agiscono, occupati come sono da problemi scevri di ripercussione pubblica»; l'ambiente scenico, che è e rimane determinato dal Coro delle donne, diventa il campo occasionale dell’azione dei protagonisti, così come le stesse donne costituiscono «lo sfondo occasionale di una commedia che ha per scopo principale la caricatura artistica di Euripide, e non tanto la polemica fra le donne di Atene ed Euripide» 10, D'accordo sulla caricatura, però propriamente artistica, di Euripide. Lo ‘spettacolo degli innocui artifizi tragici’ va visto in termini di conflitto puramente drammaturgico: Aristofane contro Euripide, ma nel senso di commedia versus tragedia, insomma di paratragedia. Nelle Tesmoforiazuse, diversamente che nelle Rane, Euripide non subisce veri attacchi ideologici. È un luogo comune quanto generico (inaugurato dal banale scoliasta) che le Tesmoforiazuse siano ‘contro’ Euripide. Altrove, e con altra virulenza, Aristofane attaccherà Euripide: nelle Rare, come da ultimo si è ribadito, «forme e motivi» della «avversio-

ne» zati che alla

aristofanea sono «delineati con perfetta lucidità», organizdal «fondamentale misoneismo» di Aristofane !!. Motivi vanno dalla «degradazione dell’eroe e del dolore eroico» denuncia della «crisi e delle credenze nelle divinità olimpi-

che e poliadi», alla ‘spudorata’ messa in scena del «comporta-

mento sentimentale e sessuale», col complice intervento di nuove «forme dell’espressione» linguistiche e sceniche. E va certo rilevato che «nessuna delle accuse» — intendi ide olo giche! — «delle Rare occupa un posto nella compagine delle Tesmoforiazuse, eccettuata quella, forse più grave, di atei-

? Sul protagonismo a due (Mnesiloco ed Euripide) oppure singolo Mnesiloco o Euripide), v. infra. !0 Così Russo 1984, pp. 296 s. !! Così Paduano 1982, p. 108.

Metateatro in parodia

247

smo (443 ss.), che però ha carattere episodico e concerne burle-

scamente non il grande rischio sociale, ma il piccolissimo benessere della venditrice di corone» !?. Tale silenzio non è senza conseguenze. Che non possono comunque tradursi in un rovesciamento manicheo, per cui la commedia andrebbe intesa non come un attacco, bensì un ‘complessivo’ omaggio ad Euripide !; e neppure risolversi nella solita imputazione di ambiguità a carico di un Aristofane, tanto sensibile al fascino dell’avversa-

rio, da non potere che ‘euripidaristofaneggiare’. Tale silenzio, in particolare, non indica nelle Teswoforiazuse un'assenza d’interesse per gli aspetti «eclatanti» del teatro euripideo !: a meno che per aspetti eclatanti non si intenda quelli ideologici. È presente, infatti, e vivissimo, l'interesse per tutte le novità sceniche

di Euripide, per «le monodie lagnose, i lenocini musicali, gli espedienti teatrali», etc. !5, per gli aspetti, quindi, letteralmente più plateali. Non è vero, infine, che «la parodia nelle sue varie forme

raggiunge la perfezione nelle Rare», nel senso che, prima delle Rane, la parodia rimarrebbe «episodica, verbale e in qualche modo esteriore: come parodia quasi puramente letteraria e formale, anche se riuscita ed efficace, ma non inserita in un sistema

estetico (quale che esso fosse) e applicata in funzione anzi a dimostrazione di esso» !°. A tale giudizio un ulteriore rovesciamento manicheo opporrebbe prontamente l’invito a rintracciare tra le «pieghe» delle Teswoforiazuse un «discorso sul teatro che va ben oltre la critica delle Rane» !?. In realtà, mentre le Tesmoforiazuse praticano un'estetica, le Rare teorizzano un’etica dell'estetica. Mentre il ‘discorso sul teatro’ delle Tes’zofo-

12 Id. pp. 109 s. 3 Cf. Murray 1933, p. 117. “ Cf. Paduano 1982, p. 110. 15 Così Cantarella 1956, p. 403 (ma v. ἐμένα). ‘6 Così Cantarella 1967, p. 11 e n. 14 (poi tradotto e compreso in Newiger 1975, p. 329 e n. 14); cf. lo stesso Cantarella 1956, pp. 401 5. !? Così Paduano 1982, p. 117.

248

Ricerche intertestuali

riazuse è, per così dire, autotelico, quello, non certo meno ‘poetico’ delle Rane, mira tuttavia, mediante la parodia, ad un

fine etico-politico. La parodia che mette in scena, e in conflitto, due modi di far tragedia è, in fondo, un divertente mezzo arti-

stico per un serissimo scopo civile: si tratta di salvare la πόλις con la resurrezione di un grande poeta ‘maestro di verità’, e costui non può che essere Eschilo, specie per il ‘nostalgico’ Aristofane. Per lui, come per tutti i nostalgici, χαρίεν οὖν μὴ Σωκράτει παρακαϑήμενον λαλεῖν, non è bello fare chiacchere, seduti accanto a Socrate, spre-

giando la μουσική e — fatalmente — trascurando la τραγῳδικὴ τέχνη (Ran. 1491 ss.). Anche Nietzsche lamenterä che «Dioniso era già stato cacciato dalla scena tragica, cacciato da una forza demonica che parlava per bocca di Euripide», e «la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso, e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate», e, a causa di questo «nuovo contrasto» tra il dioni-

siaco e il socratico, «l’opera d’arte della tragedia greca perì» '?. In un meritamente famoso saggio, ricco di dottrina, ma

pure di humzour — quell’bumour che il ventiquattrenne Dr. phil. U. von Wilamowitz-Möllendorff non poté esternare nella sua storica reazione alla eretica Geburt der Tragödie — Snell risale da Nietzsche a A.W. Schlegel, nonché a Herder, mostrando

come su tutti incomba lo spettro di Aristofane. Mentre Goethe, immune da ogni risentimento antieuripideo perché immune da qualsiasi «nostalgia per la giovinezza dell’umanità» e qualsiasi «ostilità per tutto ciò che è storico», confessa la propria ammirazione per Euripide, dando dello sciocco a Schlegel e (purtroppo) del pagliaccio ad Aristofane !°. Si tratta però dell’Aristofane 18 Cf. Nietzsche 1977, p. 83.

1% Cf. Snell 1963, pp. 172 ss.; per la ‘storia’ polemica sull’arte tragica (Nietzsche, Rohde, Wilamowitz, Wagner), rimando al ragionato volume a c. di Serpa 1972.

Metateatro in parodia

249

ideologo e moralista. D'altronde, i testé nominati, e illustri, detrattori o fans euripidei, malgrado le intenzioni estetiche,

svolgono i propri argomenti in chiave ideologica, se non morale: stanno al gioco imposto dall’ Aristofane delle Rane. E l’Aristofane delle Tesmoforiazuse? Egli consentirà a rivelarsi già perfetto paratragedo qual era, se sapremo indagarne l'attitudine propriamente creativa, così come, per le Rare, si è già indagata la sua attitudine critica. Interamente le Tesmoforiazuse — non sporadicamente né parzialmente come le altre commedie, dagli Acarnesi alle stesse Rane — sono costruite come

una paratragedia. Un autentico «comic recasting of tragedy» 29, per cui occorrerà esprimersi — obbligatoriamente perché istituzionalmente — in termini di ‘metateatro’. E in tali termini, anzi, converrà rivedere la commedia a ricominciare dal prologo, 0, meglio, dal retroscena. Che

l’incontro con Agatone

sia ‘tutto un programma’

appare chiaro: vuoi per il manifesto teorico sulla μίμησις, forbitamente esposto dal tragedo, vuoi per l’instaurazione del topos del travestimento e della femminizzazione che percorre e anima l’intera commedia, ma che si costituisce qui per bocca, e per arte, del poeta μιμητής, in atto di cantare da solo il duetto tra una corifea e un coro di fanciulle 21.

2° Così Moulton 1981, p. 108. Che le Tesmoforiazuse siano materialmente occupate per ben due terzi dalla parodia rileva Rau 1975 p. 339; dello stesso Rau 1967 basterà scorrere il conclusivo «Verzeichnis» (pp. 185 ss.), per avere una rapida ma eloquente sinossi: l’altrove sporadica o apprezzabile o magari insistente presenza paratragica raggiunge una compiuta strutturazione

nelle Tesmoforiazuse. Non meno utili, oggettivamente, le due indagini statistiche di Schlesinger 1936, pp. 296 ss.; 1937, pp. 294 ss. I soli effetti stilistici

della parodia interessano Miller 1946, pp. 171 ss.

21 Non convince l’ipotesi di Fraenkel 1962, p. 112, che vorrebbe tra Agatone e un coro di donne fuori scena (cf. in proposito Newiger 253). Sulla tematica del travestitismo sono incentrati i due citati studi ton (pp. 135 ss.) e della Zeitlin (pp. 177 ss.); cf. Mücke 1982 a, pp. 17 b, pp. 41 ss; nonché Stone 1977, pp. 473 ss.

il duetto 1965, p. di Moulss.; 1982

250

Ricerche

mtertestrali

Non ci soffermiamo sulla problematica occorrenza del termine μίμησις, ai cui dettami teorici obbedisce lo stesso travestimento di Agatone (e poi di Mnesiloco!): ha probabilmente ragione chi osserva che la mimesi non è qui teorizzata in senso ‘classico’ (aristotelico e quindi auerbachiano), bensì come una

«tensione tra arte e φύσις», dove la prima è la «forza dinamica» intesa a spostare «i termini dell’equilibrio, imponendo il proprio modello formale alla realtà dell’autore-persona» 22, Nessuno, dirà Amleto, può scegliersi in natura la propria origine: ma c'è per fortuna la mimesi, afferma Agatone, a correggere la natura. Il testo di Aristofane non dice tuttavia che «anche il femmineo Agatone sarebbe in grado di scrivere ‘drammi virili’» 25, Vi si legge, senza equivoco, che, per fare drammi maschili, ἀν-

δρεῖα, uno già trova ἐν τῷ σώματι xexmueda

/ μίμησις

ἤδη

ταῦτα

quanto serve, ἃ δ᾽ οὐ

συνϑηρεύεται

(vv.

154-

156) 2: per quel che non si ha, viene in aiuto la mimesi. Così Agatone rintuzza i balordi apprezzamenti del vecchio Parente, giustificando il proprio atteggiamento, e abbigliamento, utile a «riprodurre più efficacemente nei suoi drammi l'elemento femminile» 2, ma pure preparando il terreno, teorico e pratico, favorevole alla prossima mimesi muliebre dello stesso Mnesiloco. Non ci soffermiamo neppure sul motivo del travestimento,

22 Così Paduano 1982, p. 120 n. 30. 33 Così Paduano, /.c., che in verità segue Cantarella 1956, p. 247 (cf. la ‘postilla’ alla versione tedesca del suo articolo sulla ‘mimesi’ di Agatone, in Newiger 1975, pp. 335 s.: sull'argomento si vedano le osservazioni di Mücke 1982 6, p. 54, e di Mureddu

1982-83, p. 76 ss.

24 Non sussiste problema quando c’è identificazione tra arte e vita: Agatone dà per scontato che il bello produce il bello e il brutto il brutto, cf. i vv.

159-170, dove tale ‘ovvietà’ è detta in seconda istanza (ἄλλως κτλ.), mentre in prima il tragediografo espone la teoria meno banale: il poeta deve compiere uno sforzo per adeguarsi ai drammi ἃ δεῖ ποιεῖν (dove la ‘tensione’ tra arte e vita adombra quella propriamente teatrale tra finzione e realtà).

3 Così Mureddu 1982-83, p. 77, evidenziando come Agatone sperimenti in primo luogo su se stesso la mimesi.

Metateatro in parodia

251

che ha provocato, da ultimo, qualche estrosa osservazione sul conseguente, e funzionale, collegamento dei due piani «of gender and genre», istituendo una sorta di equivalenza «of intertextuality and intersexuality» 26. Ma, al di là dei giochi di parole, e del seducente, conflittuale connubio «of male and female» non-

ché «of comedy and tragedy» 27, sarà invece da ricordarsi di Dioniso, dio ϑηλύφρων (Nonn. XVII 283), nonché ϑηλυμίτρης (Luc. Dial. Deor. XVIII 1, cf. Bacch. 3), che pensa e veste come donna, perché, direbbe Agatone, τὴν ἐσθῆϑ᾽ ἅμα τῇ γνώμῃ φορεῖ (cf. v. 14 B). ΑΙ dio διφυής perché ἄρσην καὶ ϑῆλυς (cf. HHorpb. XLII 4, p. 33 Q.) si addice e τραγῳδία e κωμῳδία. Nel nome di Dioniso, dunque, il Parente, introdotto da

Euripide in casa di Agatone, celebra l’identica esperienza mistica, già affrontata negli Acarnesi dall’ardito Diceopoli, che, da

solo, aveva bussato a casa di Euripide per chiedere i panni di Telefo. L’esperienza mistica è però quella della finzione teatrale: Euripide accompagna l’inesperto Parente dietro le ‘quinte’ a scoprire i segreti del palcoscenico. Dopo la miseria degli stracci di Telefo negli Acarmesi, Euripide procaccia la ‘femminilità’ delle vesti di Agatone, che saranno i costumi di scena, anzi di

tutte le scene, per il protagonista delle Tesmoforiazuse. La nostra lettura metateatrale del prologo scopre che l’escamzotage drammaturgico degli Acarnesi ritorna, inteso a fornire la premessa all’azione vera e propria delle Tesmoforiazuse, che, in

quanto avventura paratragica, comincia con l’entrata del Parente nel Tesmoforio. L’uso 6} ἐκκύκλημα 2, che convenzionalmente mostra l’interno della casa di Agatone, così come

2 Così Zeitlin 1981, p. 171; cf. Moulton 1981, pp. 110 e 142.

? Così Moulton 1981, p. 110. 2 Non entro qui nella vexata quaestio dell'uso dell'èxx6xAnua: per la nostra commedia, rinvio a Hansen 1976, pp. 170 ss.; cf. l’equilibrata sintesi delle varie ipotesi in Mastromarco 1983, pp. 24 s.: per Euripide, negli Acarnesi, e Agatone, nelle Tesmoforiazuse, comunque, «l’azione scenica presuppone ... che i due, pur visibili al pubblico, agiscano al!'interno della casa».

252

Ricerche νονμα

negli Acarzesi mostrava l'interno della casa di Euripide, in realtà mette in scena il retroscena, mostrando l’attore protagonista (il funzionale rifiuto di Agatone fa cadere la scelta sul predestinato Parente) in atto di vestirsi e truccarsi prima di fare ingresso sulla

scena, quella paratragica per intendersi. La τραγῳδία fornisce simbolicamente i costumi (grazie ad Agatone) ed il copione (grazie ad Euripide) alla τρυγῳδία. Così il protagonista, con la voce in falsetto, può avviarsi al suo ‘finto’ destino. Molto si è discusso sull'identità e consistenza del protagonista e si è sostenuto che la funzione di eroe comico, e dunque di prim’attore, viene delegata da Euripide — non certo protagonista quale personaggio, il cui ruolo è secondario e non va con-

fuso con Euripide ‘magazzino’ tragico, fornitore dei materiali per la parodia ?? — al proprio parente. Tale delega di Euripide a Mnesiloco è più convincente della pretesa «bifurcation ... of heroic role», che conseguirebbe alla distinzione della stessa commedia in due segmenti: l'assemblea delle donne con l’accusa e la difesa di Euripide (protagonista Mnesiloco) e — dopo la parabasi — la vicenda di salvazione del Parente (protagonista Euripide) ’°. L'incertezza sul protagonismo assoluto di Mnesi-

loco si giustifica per le ridotte proporzioni di questo eroe comico e per l’ingombrante presenza di Euripide, che potrebbe

magari imporre un suo protagonismo ‘morale’ ?', se, dal punto di vista scenico, non dovesse restare salda la funzione dell’eroe

prim’attore. Questa è assolta dal Parente, né senza motivo. Come ha ben visto Whitman, chiedendosi perché le unya-

2 Cf. Paduano 1982, pp. 104 ss. 30 Così Moulton 1981, pp. 110, 142; cf. Russo 1984, pp. 295 ss.: Euripide è «il personaggio principale del prologo e della seconda parte», della prima essendolo il Parente, e l'uno e l'altro fungono da «attori-protagonisti». * Così Murray 1933, p. 117, per il quale Euripide è il vero protagonista della commedia;

cf. Whitman

1964, p. 217, che della commedia, in fondo,

ammira soltanto il personaggio-Euripide, ma giustamente Paduano invita a distinguerlo dal poeta-Euripide, quale «serbatoio del materiale che ... costituisce le peripezie comiche» (l.c.).

Metateatro in parodia

253

vat tragiche falliscono tutte, verosimilmente gli artifizi euripidei non riescono in quanto Aristofane poteva riconoscere solo a se

stesso, e non all’avversario, la possibilità di ‘cambiare il mondo’: ma, da un punto di vista scenico, poiché la necessità di suscitare l’identificazione emotiva, come si è osservato, non è una bensì la

condizione del ruolo dell’eroe, attorno alla quale si costruisce lo stesso disegno comico, non poteva essere Euripide in persona a suscitare tale identificazione, donde lo spostamento del ruolo

‘eroico’ sul volenteroso Κηδεστής ᾽2. Il cui umbratile spessore di personaggio non sarà dovuto alla sua materiale inconsistenza

di εἴδωλον di Euripide? Forse più che di spostamento del ruolo protagonistico (e certo più che di spartizione del ruolo tra i due pretesi segmenti di commedia), si tratterà di sdoppiamento, o di raddoppiamento: Euripide manda in scena, fingendolo per l’occasione, il proprio ‘doppio’, cui deve lasciare il ruolo primario per ragioni elementari di logica teatrale. Il caso vuole che il Κηδεστής non abbia un nome dentro la commedia — Mnesiloco lo battezzano il Ravennate e il non troppo informato scoliasta — e che, due volte su quattro (vv. 74, 210), sia lui a chiamare κηδεστής Euripide, suo coetaneo, essendo lui πρέσβυς (v. 154)

e yÉguwv (v. 585) così come Euripide è ormai πολιός (v. 190) ?. Ma, come in ogni evento metateatrale, il pur modesto e innominato protagonista delle Teswzoforiazuse vive una propria

e autonoma vita: i drammi euripidei, che egli ‘nuovamente’ recita, non riescono a ‘contenerlo’, perché, secondo la dizione di

2 Cf.,

rispettivamente,

Whitman

1964,

pp.

225

s. (ma

anche

218),

Paduano 1982, p. 107. 3 Lo scoliasta informa anche sull’identità della moglie di Euripide, Χοιeivn, e della madre, Κλειτώ: Χοιρίνη (vel Χοιρίλλη) sarebbe stata la seconda moglie del poeta (cf. Vita Eur. p. 2, 12; 5, 5 Schwarz) ovvero la prima (cf. Sud. 3695, II 2 p. 468 Adler), comunque figlia di Mnesiloco, suocero dunque di Euripide. Tutto è però molto incerto (per la documentazione, cf. Cantarella 1956, p. 107 nn. 2 e 4), mentre dalla commedia è sicuro che Mnesiloco ed Euripide sono entrambi vecchi, che non è mai usato, per il primo, il termine πενϑερός, che, per entrambi, risulta quello di κηδεστής.

254

Ricerche intertestuali

Abel, si fa ‘drammaturgo di se stesso’ 3, e prende da solo l’iniziativa — scenica appunto — di agire prima da Telefo, poi da Palamede, quindi da Elena. Quasi preoccupato dell’eccessiva indipendenza della propria speculare creatura, Euripide gli impone infine di recitare da Andromeda, lasciandogli tuttavia,

sempre, il ruolo dell’eroina, e accontentandosi del ruolo secondario (in ogni senso!) di Eco e di quello comprimario di Perseo. Mnesiloco, anzi il Parente (d’ora in poi sarà meglio non chiamarlo per nome), è un eroe comico, se si vuole, ‘declassato’, nel senso però in cui gli stessi eroi euripidei sono eroi tragici declas-

sati. Aristofane opera una sorta di umanizzazione della propria maschera protagonistica. «In confronto a un Trigeo che vuole la pace tra i Greci ed è disposto per essa a salire da Zeus, o a un Pistetero che vuole soppiantare Zeus stesso, il desiderio che gli esce di bocca, sincerissimo ... è quello di tornare da sua moglie»: questo «sogno dimesso» ha richiamato i ‘nuovi’ desideri della commedia menandrea, dove Polemone, Carisio, Demea «non

vogliono niente di più» ”. Lo stesso Diceopoli, tuttavia, aveva coltivato una dimensione privata, per cui accarezzava non tanto

‘fantasie di trionfo’ quanto ‘sogni dimessi’: quelli del cittadino medio, che magari avrebbe voluto fare la pace soltanto per sé e per i propri figli e moglie (Ach. 132), fuggire dalla guerra e dai guai per tornarsene a casa (vv. 200 ss.). Il Parente, d’altronde, è, sì, dimesso, ma è ancora eroe, e di stampo aristofanesco, quan-

do, anelante alla libertà come gli compete, deve uscire dall’irpasse creativamente, inventando la propria ‘vicenda di salvazione’ in modo da accrescere, espediente dopo espediente, il desiderio di identificazione da parte dello spettatore, catturato progressivamente dall’azione.

# C£. Abel 1965, pp. 72 ss., a proposito di Amleto. Tutta la fortunatissima dizione ‘metateatrale’ si è affermata, com'è noto, con la diffusione dei saggi del critico americano, raccolti e pubblicati sotto il titolo del saggio dedicato ad Amleto (Metatheater, New York 1963). # Così Paduano 1982, pp. 106 s. Sulla questione dell’attribuzione dei vv. 1015-1021 torneremo più avanti.

Metateatro in parodia

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Abbiamo lasciato l’eroe che si avviava finalmente in scena — vestito e truccato alla moda di Agatone, ed imbeccato da Euripide — ad incontrare il proprio ‘finto’ destino di protagonista drammatico, nella fattispecie paratragico. Il meglio di sé infatti lo esprime — più che nella difesa di Euripide, del tutto vanificata dall’intervento di Clistene, femmineo alleato delle donne, e per l'occasione azzimato nunzio (quasi) tragico (vv.

574 ss.) — nella recita delle quattro scene, rispettivamente attinte a quattro tragedie euripidee. La parodia del Te/efo, precisamente della «Geiselszene», comincia al v. 689 e termina al v. 764 con l’uscita della ταλαντάτη Mixa, orbata dell’amato παιδίον (vv. 690, 706, etc.), anzi dell’unico τέκνον (v. 698), che, dopo un’insinuante τήνδε (v. 717), si scopre femmina (v. 733 x6gn), producendo un effetto

di ἀπροσδόκητον a chi ricorda il maschietto Oreste, e preparando lo scherzoso doppio senso finale di ἐξεκόρησε (v. 760): per la «formale Anlehnung in Wortlaut und Metrum wahrscheinlich», vale la puntuale analisi di Rau, cui rinvio anche per

quella, non meno puntuale, della prima importante «Telephosparodie»

aristofanea negli Acarzesi *. Si sa, tuttavia, che il

Telefo, rappresentato più di cinque lustri (438) prima delle Tesmoforiazuse, costituisce «uno dei cavalli di battaglia della parodia aristofanea», che irrompe un po’ dovunque: a parte Acarnesi e Tesmoforiazuse, in Cavalieri, Nuvole, Pace, Lisistra-

ta ?’. D’obbligo, dunque, nelle paratragiche, per eccellenza, Tesmoforiazuse, dove la «Handlungsführung», per l’attento Rau, «enger an das tragische Vorbild anlehnt als die der Acharner», e dove, certo più che negli Acarnesi, Aristofane guarda ad Euripide come al «Meister des dramatischen Mechanema» *8. Dal quale subito apprendere la dichiarata, per bocca del Paren-

% Cf. Rau 1967, pp. 48 ss. Sulla doppia ripresa aristofanea del Te/efo euripideo, cf. Miller 1948, pp. 174 ss.; Handley-Rea 1957, pp. 22 ss. ” Cf. Cantarella 1953, p. 129; cf. il citato «Verzeichnis» di Rau (pp. 185 ss.).

# Così Rau 1967, pp. 42 5.

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Ricerche intertestuali

te, μηχανὴ σωτηρίας (v. 765), la prima di una incalzante serie, che comincia con la parodia del Palamede «mit directer Vorlage» (vv. 776-784) 5, dove Parente-Oiax scrive, pur inceppandosi su δῶ, il paratragico messaggio usando ciò che ha, τἀγάλματα ἀντὶ τῶν πλατῶν (v. 773): inaugurando una prassi ‘autarchica’ — tanto legno era quello e legno è questo — tutt'altro che innocente, come vedremo, in rapporto alla convenzione scenica. Dopo la parabasi, apprendiamo dell’insuccesso: troppo freddo, quel Palamede. Euripide si vergogna di farsi vedere, cioè di entrare in scena. Così, successivamente e consecutiva-

mente, assisteremo alle due più brillanti invenzioni paratragiche, propriamente abilitate all’azione metateatrale. «Ho trovato: τὴν καινὴν “HAévnv μιμήσομαι (v. 850), tanto il vestito da donna ce l’ho». Così il Parente annuncia che ‘si va a cominciare’, ed al v. 855 attacca la recita in presenza di Critilla, la donna rimasta sulla scena, infastidita da quanto vi

accade. Parente-Elena riesce ad attirare Euripide-Menelao, ma l’amoroso duetto che ne consegue (vv. 871 ss.) è ripetutamente interrotto da Critilla, che contesta la chiamata in causa di Proteo — «bugiarda questa Elena. Protea, peraltro, e non Proteo, è morto da dieci anni!» ‘ — ed ogni affermazione della ‘nuova’ Elena: «Ma quale Egitto! questo è il Tesmoforio! Ma che tomba! Questo è un altare! Ed io non sono Teonoe, bensì Critilla,

perdio!». Neppure ᾿ἀναγνωρισμός fra i ritrovati sposi la commuove, incattivita com'è, e vieppiù caricata dall’arrivo del Pri-

tane e dell’Arciere. Così Euripide deve tagliare la corda, non senza promettere un’altra delle sue μυρίαι μηχαναί (v. 927) *. Alla vista della σανίς e della μάστιξ, il Parente si perde

59. Per l’analisi della parodia, cf. Rau 1967, pp. 51 ss. Si tratta presumibilmente dello stratego del 432/31 e 431/30, cf. Thuc. I 45 e II 23.

* Per un puntuale raffronto della parodia con l’originale, non senza «Konsequenzen für Aristophanes’ parodische Technik», cf. Rau 1967, pp. 53

ss.

Metateatro in parodia

d’animo e quasi morire almeno parte. Rimasto color zafferano,

257

vorrebbe abbandonare μίτρα e κροκωτός, per in dignità: come dire che vorrebbe lasciare la invece sulla scena, legato alla cavig in tunica assiste all’agile ‘ballo tondo’ nonché al ‘paso

doble’ del Coro (vv. 936-1000). Esce il Coro e rientra l’Arciere,

che sadicamente stringe di più il cavicchio. Ma Euripide mantiene la promessa. Il Parente lo scorge (v. 1009) dietro le ‘quinte’ vestito da Perseo, che gli fa cenno di attaccare con l’Andromeda: tanto le catene ce l’ha (e il vestito da donna pure). È l’annuncio che si va, di nuovo, a cominciare.

Inizia, infatti, al v. 1015, la virtuosistica quanto patetica

monodia di Parente-Andromeda φίλαι παρϑένοι, φίλαι, πῶς ἂν ἀπέλϑοιμι κτλ.

Non è qui il caso di discutere, puntualmente, il problema dell'attribuzione dei vv. 1015-1021: seguendo il Ravennate, c’è chi li assegna ancora ad Euripide-Perseo (retroscenico) 32, ma basterà, per ora, notare che non solo la correzione del tràdito

ἀπέλϑοιμι in ἐπέλϑοιμι elimina una «parola tematica a indicare l’ansia di fuga e liberazione» #, di competenza dell’eroe comico prigioniero, quindi di Parente-Andromeda, ma soprattutto — anche a prescindere dall’invocata προσάδουσα ... ἐν ἄντροις (vv. 1019), evidentemente Eco, però in società canora con Andromeda — l’aspirazione τὴν γυναῖκά μ᾽ ἐλϑεῖν (v. 1021) non può essere di Perseo, e non tanto perché «un desiderio di andare da Andromeda ... nella situazione iniziale della tragedia era praticamente impossibile» *, quanto perché, già linguisticamente, l'appellativo γυνή è inammissibile per la ‘vergine’ Andromeda (cf. v. 1030: ἥλικες veavideg sono le sue coeta-

#2 Così, ad esempio, Cantarella 1956, p. 514. 4 Cosi, giustamente, Paduano 1982, p. 105 n. 6.

# E «la vista di Andromeda si offrirà come uno stupore improvviso»: così Paduano 1982, p. 105.

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Ricerche intertestuali

nee; v. 1056 φίλη παῖς la chiama Eco; v. 1105 παρϑένος, 1113 παῖς, 1115 κόρη la chiama Perseo), ancora legata alla roccia, non ancora moglie né sposa di nessuno. La moglie in questione

è quella del Parente, e il desiderio di raggiungerla, come poi l’accenno alla Guardia scita (v. 1026), o il lamento sulla forzata

rasatura e sull’imposta tunica gialla (v. 1044 s.), costituiscono altrettante ‘ regressioni?. dalla ‘seconda’ finzione (la paratragedia) alla ‘prima’ (la commedia), tipiche come si vedrà, di Parente-Andromeda, che, «nel comico impeto di dolore, dimentica spesso di essere Andromeda, e parla talvolta, in per-

sona maschile, dei casi propri» “5, del Parente cioè. Tocca rispondere ad Euripide-Eco, che si presenta come ἥπερ πέρυσιν ἐν τῷδε ταὐτῷ χωρίῳ Εὐριπίδῃ καὐτὴ ξυνηγωνιζόμην *.

Eco, in verità ridotta da dolce ninfa a vecchia dispettosa, disturba Andromeda, impegnatissima nella ‘nuova’ parte, e soprattutto esaspera la Guardia, rientrata (v. 1082) a far l’unica

parte dello Scita, incerto di lingua e di mente: costui teme che la testa Γοργόνος sia quella (press’a poco omonima) Γόργονος

(uno scrivano: confondendo Γοργώ e Γόργων, che anzi storpia in Γόργο). Il solito scherzo della (quasi) omonimia, già collau-

dato da Critilla con Πρωτεύς / Πρωτέας, poi perfezionato, ἡ anche comicamente, con Γλαυκέτης, il mostro cui Andromeda

si dice destinata βορά (v. 1033), ma pure il noto mangione (!) ateniese (cf. Pax 1008). 4 Cosi Cantarella 1956, p. 519 n. ad vv. 1015-1055: sulla parodia di questa «monodia (forma tipica e prediletta del lirismo euripideo) di Andromeda, che preannuncia quella famosa di Glice nelle Rane (1039-1363)», cf. Mits-

dörffer 1954, pp. 59 ss.

4 Vv. 1060 5. non entro qui nella doppia questione e cronologica (che

lega evidentemente le Tesmoforiazuse schol. Thesm. 1015, 1060) e agonale: generalmente ritenuta sicura, cf. Russo sata al 410, cf. Sommerstein 1977, pp. l.c., che ingegnosamente difende la tesi

all’Andromeda, nonché all’Elena, cf. quanto alla prima, la data del 411 — 1984, p. 306 n. 5 — è da alcuni abbas112 ss.; quanto alla seconda, cf. Russo, dell’agone dionisiaco.

Metateatro in parodia

259

Neppure la μηχανή dell’Andromeda riesce. Euripide, ripreso fiato grazie a un intermezzo corale (vv. 1136-1159), ricorre quindi all’«ultimo e più degradante espediente», con successo però: questo Euripide-Artemisia (si chiamava così la

mascolina

principessa alleata di Serse nella battaglia di

Salamina) in veste di vecchia mezzana è, fra l’altro, un «anticipo

di commedia nuova» “1. Il fortunato mezzuccio finale non oscura le pur sfortunate

μηχαναί paratragiche, in particolare le ultime due, certo non ‘fredde’.

Non è sfuggito come «la grande scena degli attori nell’ Azleto, che ha fornito il punto di partenza al discorso metateatrale di Abel, ha portata assai ridotta e più tradizionale» * delle ultime due scene paratragiche nelle Tesmoforiazuse. In effetti, il dramma di Gonzago si consuma ‘regolarmente’ davanti agli occhi di Claudio, spettatore di una ‘seconda’ finzione, attore della ‘prima’. Un secondo palcoscenico sta sul primo, ed il ‘primo’ spettatore, dalla platea, sperimenta, per così dire in corpore vili (quello di Claudio), gli effetti comunque risolutori del φόβος aristotelico. La recita dell’Elena e dell’Andromeda, dentro le Tesmoforiazuse, è invece più complessa. La ‘seconda’ finzione non procede indisturbata: l’illusione scenica si interrompe più volte, come si è visto, per le intrusioni, da parte del Parente, di fatti personali (relativi cioè alla ‘prima’ finzione), la cui impertinenza è sottolineata dalla continua ‘indecisione’, anche linguistica, tra l’uso del femminile e quello del maschile. Emblematico l’attacco monodico di Parente-Andromeda, dove l’invocazione, da παρϑένος a παρϑένοι, si evolve in nostalgico richiamo, eterosessuale, alla propria γυνή. Tale «violazione del codice che si definisce classico», per-

# Così Cantarella 1956, p. 531 n. ad vv. 1160 ss., 1177 ss.; cf. Russo 1984, p. 296: «un’espediente molto prosaico». *# Così Paduano 1982, p. 116.

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Ricerche intertestuali

fino complicata dalla messa in gioco del «principio dell’identità individuale, in riferimento al ruolo dell’attore» ‘’, è però un risultato del co mico dispositivo paratragico. Dispositivo, della cui efficacia ulteriormente garantisce l’attiva presenza dei ‘secondi’ spettatori. Mentre in Amleto il ‘secondo’ spettatore Claudio rispetta la convenzione scenica fino a riconoscerne patologicamente la ‘verità’, nelle Tesmoforiazuse la spettatrice Critilla e lo spettatore Scita rifiutano la ‘seconda’ rappresentazione. Perché, si dirà, non sanno di assistere ad uno spettacolo.

Giustissimo. Ma questo è l’espediente con cui Aristofane provoca il riso del ‘primo’ spettatore, soddisfatto, lui invece, di ‘sa-

pere’, e consapevolmente divertito dalle ‘sciocche’ rimostranze di Critilla e dello Scita. È l’identico espediente con cui Aristofane faceva ridere lo spettatore (‘primo’ ed unico) delle Nuvole, quando il rozzo Strepsiade, incapace di capire anche una sola metafora, accettava unicamente la lettera della lingua socratica: anche lì funzionava, comicamente, il rifiuto ‘pragmatico’ di una convenzione (retorica) di grado superiore, in nome di una realtà elementare, anzi esistenziale 9, È dunque il comico — nelle Tesmoforiazuse il paratragico — a determinare la strana situazione: strana quanto straniante, se, come sembra, comporta una critica ‘di-

stanza’ non solo dalla pretesa serietà tragica, ma, più radicalmente, dalla stessa convenzione scenica.

Attento come pochi alla parodia delle convenzioni della messa in scena — dell’öypıs, dunque, oltre che del μῦϑος — Arnott si è soffermato sui vv. 886 ss. delle Tesrzoforiazuse, in cui Parente-Elena pretende l’esistenza della tomba, laddove Critilla lo richiama all’unica realtà dell’altare, diffidandolo, al v. 892,

dall’insistere nell‘inganno’ (ἐξαπατᾷς), cioè nella ‘seconda’ finzione.

E ancora Parente-Andromeda ‘finge’, al v. 1165, di

9 Id. p.118. Ὁ. Si vedano gli esempi di ‘rifiuto’ elencati da Green 1979, pp. 17 ss.; cf. Woodbury 1980, pp. 108 ss.; Marzullo 1986-87, pp. 153 ss.

Metateatro in parodia

261

essere legata alla roccia, mentre è costretto alla gogna. Dobbiamo ammettere, conclude Arnott, che la gogna è necessaria ad Andromeda (così come l’altare è necessario ad Elena) e che

Aristofane sta parodiando la convenzione scenica circa le eroine incatenate alla roccia. «He and other wits might often have compared the suffering Andromeda, and other in similar plight,

to a thief bound to the plank» 5. In verità, questa ed altre trovate parodiche mirano, fatalmente, ad una ‘critica della ragione scenica’. Magari scherzando sulla convenzione ‘autarchica’, per cui basta accordarsi e far valere quello che si è (o si ha: le tavolette invece dei remi, l’altare

invece della tomba, la gogna invece della roccia), per quello che si dovrebbe essere, o avere. Esemplare, in merito a ‘quello che si è, cioè all’identità, il rifiuto di Critilla, quando Parente-Elena

— ad Euripide-Menelao, che indaga sul terzo personaggio in scena — risponde: «ella è Teonoe, la figlia di Proteo» (v. 897), ribattezzando Critilla, in realtà accollandole la parte della sacerdotessa che, nella tragedia, favorisce la fuga di Elena e Menelao.

Felicissima, certo, l’allusione alla fuga, quanto ne è evidente l'ansia. Non meno evidente, però, il tentativo, estremo, di atti-

rare la recalcitrante Critilla dentro la ‘seconda’ finzione. Senza successo:

εἰ μὴ Κρίτυλλά

γ᾽ ᾿Αντιϑέου

Γαργηττόϑεν

(v.

898). Ma quale Teonoe d’Egitto, figlia di Proteo! Critilla, figlia di Antiteo, nata a borgo Gargetto, riafferma, una volta per sempre, la propria identità, chiamandosi però fuori, una volta per sempre, dalla recita sor-disant seria, in realtà da ogni e qualsiasi recita.

Gli stessi ripetuti scherzi sulla doppia identità di Πρωτεύς / Πρωτέας, Γλαυκέτης A / Γλαυκέτης B, Γοργώ / Γόργων,

sono spie di ne, oppure, nocente’ — nudo’. Del

una continua tensione tra ‘prima’ e ‘seconda’ finziose si vuole, tra realtà e finzione. Allo spettatore ‘inCritilla e lo Scita — spetta la rivelazione che ‘il re è resto, già nel prologo, il teatro in persona si era

3 Cf. Arnott 1962, p. 97.

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Ricerche intertestuali

messo programmaticamente a nudo, rivelando sulla scena, col

pretesto della casa di Agatone, il proprio retroscena. Lo ‘smascheramento’ è il risultato della parodia, in virtù di quella tensione, sopra evidenziata, tra le due finzioni, fra trage-

dia e commedia. Nella paratragedia (aristofanea) la parodia ‘gioca’ più che mai quale «teatro della lotta tra due intenzioni» assolutamente opposte ?2. Sottilmente, Bachtin nota come, nella parodia, l’autore parla con una parola altrui, introducendo in questa parola un’intenzione opposta all’altrui intenzione. Le due intenzioni devono restare ‘ostilmente’ contrapposte. Di qui l'obbligo che la percettibilità della parola altrui (per Aristofane la parola di Euripide) risulti particolarmente decisa ed evidente. Entra a questo punto in scena anche l’‘allusività’. Un’allusività, quella aristofanea, che caratterizza, originalmente, la fisionomia del nostro Comico nell’ambito dell’esperienza parodica antica del μῦϑος tragico e, comunque, serio.

Si è di recente osservato, a proposito dell’ Amphitruo plautino, che — mentre in questa commedia di contenuto mitologico tragico la materia mitica è trattata ‘fedelmente’, almeno da risultare una tragedia «vista dal suo versante comico» ”, alla maniera,

presumibilmente,

del

tarantino

ῳλύαξ

Rintone,

anch’egli autore di un ᾿Αμφιτρυών, puntualmente, pare, tà τραγικὰ μεταρρυϑμίζων ἐς τὸ γελοῖον 5 — «in tutta la storia

della commedia attica la trattazione del mito sembra fosse caratterizzata da un costante allontanamento, intendi degradamento e rielaborazione fantastica, del materiale mitico trattato dalla

tragedia»: lo farebbe supporre ciò che resta dell’hypothesis del Διονυσαλέξανδρος di Cratino, alla cui «estrema libertà fantastica» sembra rispondere il contenuto dei frammenti superstiti

3. Così Bachtin 1968, p. 251.

5. Così Chiarini 1980, p. 99.

* Secondo la felice formula di Stefano di Bisanzio (p. 603 Meineke), cf., in proposito e in generale per l’ilarotragedia, Gigante 1971.

Metateatro in parodia

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dello Ζεὺς κακούμενος di Platone comico (46-48 K.), che dovette verosimilmente ‘inventare’ anche nella Νὺξ μακρά

sugli amori di Zeus e Alcmena ”. Tali invenzioni, volentieri declassanti il — e comunque devianti dal — mito tragico, preparano il terreno alla rivisitazione del mito di Oreste: da parte di Timocle, che nell’’OpeotavtoxAeièng metteva in scena l’omosessuale Autoclide circondato da etere come Oreste dalle Furie nelle Eumenidi (fr. 25 K.), e da parte di Alessi, che faceva con-

cludere il suo ‘nuovo’ ᾿Ορέστης da Oreste ed Egisto amiconi (cf. il probabile riferimento di Aristot. Poet. 1453 a). Mentre Difilo, sopravvissuto autore, nell’età della νέα, di commedie

mitologiche, s’inventa persino Saffo amata sulla scena da Archiloco e Ipponatte, (para)mitizzando la biografia "6. Un rinnovamento del genere mitologico sembra dovuto al citato Rintone, al quale si presume piacesse, nelle sue ilarotragedie, restare fedele ai modelli tragici, evitando le libertà dei commediografi attici. Senza sconfinare nella tragicomoedia plautina ?”, torniamo indietro, piuttosto, verso la libera fantasia dei comici dell’&oyaia. Qualche aire deve aver dato loro Epicarmo, con il duplice travestimento, per esempio, di Odisseo disertore e naufrago (frr. 99-108 Kaib.). Ovviamente, Epicarmo non è esattamente definibile come precedente paratragico, poiché la sua non poteva che essere una parodia del mito narrato dall’epos: una parodia però drammatizzata. Epicarmo fu pur sempre un modello drammatico, anche se «operò prima e al di fuori del consolidarsi della fondamentale opposizione tragedia-commedia», mentre poi nella commedia attica, fin da Cratino, «la tragedia soppiantò l’epica come bersaglio primario» 58. Tale inte% Per Cratino, cf. Austin 1973, pp. 35 ss.; per Platone comico, cf. Kock 1880, pp. 612 s.; 642 s. (frr. 83-87). 3% Fr. 71 K.-A. Per i frammenti delle Danaidi (24), dell’Heracles (45), del Theseus (48-49), cf. ancora le osservazioni di Chiarini 1980, p. 106.

” Per cui rimando allo specifico Chiarini 1980, pp. 102 ss. % Id., p. 117; cf. excursus sulla Poesia parodica greca di Degani 1982, pp. 5 ss. (con ricca bibliografia).

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Ricerche intertestuali

resse primario perdurerà, non più come bersaglio, e fornirà trame e titoli alle ilarotragedie di Rintone, da Ifigenta in Aulide e Ifigenia tra i Tauri a Medea, Oreste, Telefo, Meleagro, nonché alle parodie di Sopatro, Oreste e Ippolito, e di Scira, Meleagro. Che Euripide prevalga su Eschilo e Sofocle nell’ispirare i parodi del IV-III secolo, ma anche i pittori vascolari del IV secolo in

Magna Grecia, è fatto ormai accertato ὃ. Non meno accertata sembra la mediazione aristofanea: spia ne sono, in Rintone e Scira, alcuni esempi di tecnica versificatoria e parodistica, citati

da Gigante, il quale nettamente evidenzia l'‘insegnamento’ aristofaneo %. In effetti, se, a quel che pare, «una caratteristica del

teatro rintonico era costituita dall’interpretazione ridicola non di un mito, ma della forma che il mito aveva assunto nel poeta tragico», specie in Euripi-

de, tale documentata elezione della ‘forma’ euripidea sarà dovuta non soltanto alla assoluta popolarità, in territorio magnogreco, del più ‘moderno’ e accattivante fra i tragici di Atene, ma anche alla assoluta predilezione dei suoi μῦϑοι già da parte della esemplare paratragedia aristofanea. | Impossibile tuttavia eguagliare Aristofane, che aveva preso di mira «non solo il metro, la lingua, lo stile, la ‘maniera’ della

tragedia, non solo... i versi tragici più famosi, non solo autori e opere tragiche, personaggi tragici..., figure e momenti particolari (l’arrivo del messaggero), etc.», ma aveva invaso ogni campo

serio, dando l’impressione d’aver come superato i confini della ‘tragedia reale’ %, senza mai superarne, però, i confini del ‘te,

sto .

A differenza di quei colleghi che — nel solco della tradizionale parodia mitologica, anche epicarmea — intervenivano, pur % Cf. Gigante 1971, pp. 59 ss. Ὁ Id. p.61s. 6! Id. p. 21 (lo spaziato è nostro). . Non escludendo alcun àmbito della vita comunitaria (religioso, forense, militare, medico, filosofico), talora materialmente esorbitanti dalla(-e) tra-

gedia(-e): cf. Chiarini 1980, pp. 117 5. n. 69.

Metateatro in parodia

265

con le solite puntuali intemperanze verbali, ma con nuovi inte-

ressi politici e sbrigliatissime fantasie, preferibilmente sul paradigma della fabula mitica, Aristofane opera allusivamente sul dato testuale, vuoi puntuale vuoi strutturale. Nonbastainfatti notare che al (pre)testo mitologico egli preferisce il testo tragico con cui misurarsi fino all’ultimo verso, e su ogni versante, da quello dell’òwuc e della μελοποιΐα,

a quello della λέξις, quindi dell’}d0g e della διάνοια. Occorre soprattutto riconoscere la ‘sua’ maniera d’intervenire sul μέγιστον fra gli elementi aristotelici della tragedia: il μῦϑος, e in quanto σύστασις τῶν πραγμάτων rintracciabile in un preciso

testo. I comici precedenti, contemporanei e successivi si divertono a storpiare il p/ot mitico, prima epico e poi epico-tragico,

considerato nel suo più ‘schematico’ svolgimento: avevano divertito Epicarmo gli strani casi di un Odisseo disertore, divertono Cratino quelli stranissimi di un Dioniso-Paride (in realtà

Pericle) reo di un giudizio non privo di conseguenze belliche, divertiranno Timocle e Alessi quelli ‘nuovi’ dei loro rispettivi Oresti. E nella stessa ilarotragedia rintonica, che reagirä appunto a tali irriverenze, osservando gli schemi della fabula tragica, sarà stata — a parte l’immancabile puntata parodistica della parola o del metro — più che mai la intera σύστασις dei fatti a fornire l’impalcatura per i nuovissimi innesti di serio e faceto ὅ),

4 Sul problema ‘periferico’ di una κωμῳδοτραγωδία fautori Dinoloco, Alceo, Anassandride) e sul suo possibile maggior rispetto dei modelli tragici, cf. Chiarini 1980, pp. 112 s., cui rinvio, soprattutto, per il problema posto dal neologismo plautino tragicomoedia. La Suda, a proposito di “Piv8wv (ρ 171, IV p. 295 Adler), definisce κωμικὰ τραγικά i suoi δράματα. Quanto lo stesso Aristofane si fosse, alla fine della propria carriera, adeguato ai nuovi gusti, componendo il Κώκαλος, e ᾿᾿Αἰολοσίκων, parodia tragica priva di scherzi ad personam secondo Platonio (Diff. com. p. 4, 24; 29 Kaibel), che la considera già del tipo delle commedie di mezzo, non si può dire. Così come, reciprocamente, non si può dire fino a che punto, sostanziale e formale, gli

altri comici dell’äpxaia avevano parodiato la tragedia: Euripide e Sofocle agi-

266

Ricerche intertestuali

Nella paratrapedia aristofanea, la massima e più originale trasgressione — compiutamente realizzata nelle Tesmzoforiazuse — consiste nella riduzione in frammenti del μῦϑος tragico, anzi di determinati e vari μῦϑοι tragici, per ‘divorarli meglio’. Fuor di metafora: per meglio inserirli nella struttura comica. Ingegnosamente, «quelle azioni e accadimenti», che «là», cioè nella tragedia, «furono armonicamente ordinati e formati a costituire

un bel sistema», sono frantumati e poi trasferiti «qui», cioè nella commedia,

«arditamente

abbozzata

come

rapsodia,

con un

senso profondo dell’ apparente incoerenza» %, A partire dagli Acarnesi, la commedia aristofanea volentieri contiene, come si sa, personaggi e figure e momenti e intere

scene di una tragedia. Ma, va pure detto, grazie alla commedia aristofanea, la struttura comica 66} ἀρχαία fagocita e personaggi e figure e momenti e, soprattutto, trasforma intere scene tragiche in rapsodici gags, che nelle Tesmoforiazuse finiscono per costituire — organicamente — le progressive ‘peripezie’ dell'eroe comico. Nelle Tesrzoforiazuse (prima dell’ex-

plott, soltanto agonale, delle Rare) si celebra il trionfo della rapsodia comica, sotto specie paratragica: fatta salva, sostanzial: mente, la canonica struttura dell’àoyaia %, le scene parodiche

vano nell’agone delle Muse di Frinico, che nei Satiri parodiava Strattis, che ‘non risparmiava neppure il Tro:/o di Sofocle, le cui Πλύντριαι erano invece parodiate da Filillio, etc. Ma non dovevano costituire una seria minaccia per il ‘titolo’ di Aristofane «maestro della paratragedia» (Lesky 1962, p. 577). 4 CH. Schlegel 1937, p. 171. 4 Con tutti gli ‘aggiustamenti’ del caso. Che «die Thesmophoriazusen ... entfernen sich am weitesten von den üblichen Formen der Alten Komödie» (Gelzer 1970, col. 1473) è un fatto: le Tesmoforiazuse «presentano alcune singolarità formali e strutturali», dall’intrigo di marca euripidea col salvataggio dell'eroina dalle mani di un barbaro (!), al passaggio scenico di tipo tragico col tempio e l’altare, alla parabasi recitata alla presenza della prigioniera e della guardiana, all’agone dialettico con lunghi discorsi in trimetri e poi un alterco . in tetrametri, cf. vv. 331-519, 533-573» (così Russo 1984, p. 297). Ma si tratta di un onorevolissimo compromesso, che non ‘svende’ affatto la commedia, e

che spesso si giustifica con lo stesso fine paratragico (né si dimentichi che le Tesmoforiazuse, assieme agli Uccelli, sono le sole commedie, dopo il 421, ad

Metateatro in parodia

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‘traducono’, per evidente allusione, altrettante e ben riconoscibili scene tragiche, compresi i rispettivi personaggi, ospitati, tutti, con qualche risibile sforzo. Come nel Ba/con di Génet, cia-

scun ‘ospite’ «si porta, per dirla con madame Irma, il proprio ‘copione’» %.

La ragione del fallimento delle μηχαναί paraeuripidee è dunque logica prima che ideologica: una dopo l’altra falliscono perché, altrimenti, finirebbe la commedia. E nessuna può vincere, sia pure in extremis, perché tale vittoria comporterebbe un’impropria scelta comica all’interno del materiale tragico. Mentre deve restare in piedi la ‘lotta tra le due intenzioni’, tragica e comica, e deve restare ‘altra’ la ‘parola altrui’, ben percettibile, quindi ‘allusa’. «Le allusioni», diceva Pasquali, «non producono l’effetto voluto se non su un lettore (a teatro, aggiungiamo noi, su uno

spettatore) che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono» 6°. Non ci soffermeremo troppo, qui, sulla ‘sociologia’ dell’allusione: sulla questione, cioè, «molto dibattuta», se il pubblico, e quale, fosse in grado di cogliere il modello letterario, non

solo tragico, ripreso da Aristofane ®. «Il pubblico che assisteva alle rappresentazioni teatrali era sostanzialmente lo stesso che partecipava ad altri tipi di agone che il regime democratico organizzava in Atene e nei demi attici: come sollievo dalle fatiche — afferma Pericle nell’Epitafio per i morti del primo anno di guerra, un vero e proprio manifesto dell’ideologia democratica della città — abbiamo procurato al nostro spirito moltissimi svaghi: durante tutto l’anno celebriamo agoni e feste (Thuc. II

avere la parabasi con gli ‘anapesti’). Sugli effetti lirici della paratragedia, quantitativamente rilevanti, cf. la puntuale analisi di Zimmermann 1985, pp. 7 ss.; 104 ss.; 141 ss.; 191 ss.

% Cf. Abel 1965, p. 104, che in verità dice «cliente» e non «ospite». ? Piace qui, in chiusura di capitolo (e di libro), ricorrere alla chiara ‘sentenza’ pasqualiana, già citata, ed ovviamente, in apertura (cf. supra, p. 11). $ Per un’equilibrata messa a punto del problema e della discussione in merito, cf. Mastromarco 1983, pp. 35 ss.

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Ricerche intertestuali

38, 1)» 9°: se questo pubblico, si diceva, fosse sempre capace di ‘riconoscere’ ogni ripresa aristofanea, è oggetto di opportuna

discussione. Ma, per quanto riguarda non gli autori e i generi la cui circolazione si limitava all’àmbito elitario del simposio, bensì gli autori cantati o rappresentati in occasioni pubbliche — in ispecie gli autori drammatici, ed ir prirzis tragici, come si sa, popolarissimi nell’ Atene del quinto secolo —, è «di per sé verosimile che la maggioranza degli spettatori fosse spesso ingradodicogliere buona parte dei numerosi riferimenti paratragici presenti nel testo aristofaneo» 70, Ci si chiede, semmai, a chi fossero quali, ad esempio, l’emistichio Lamaco, il grottesco ‘eroe’ della l’emistichio finale di Aesch. λόφους (dedicato a Tideo, il

destinati i sottili giochi allusivi finale di Ach. 965 (dedicato a commedia), che è citazione delSept. 384 τρεῖς κατασκίους mitico eroe del ciclo tebano,

avvezzo ad agitare «tre foschi cimieri») 7), Indubbio che «tanto più agevole era ... il riconoscimento quanto più noto era l’episodio parodiato»: così, nelle Vespe (vv. 1085-88), la parodia del Botenbericht dei classici e più volte replicati Persiani (vv. 424-

428: la notazione temporale e il paragone Persiani-tonni) sarà stata colta presumibilmente da gran parte degli spettatori; e indubbio, soprattutto, che «al riconoscimento del modello parodiato potevano contribuire due importanti elementi della performance teatrale, la rappresentazione scenica e la musica, per noi irrimediabilmente perduti, ovvero solo parzialmente ricostruibili, ma che fortemente sollecitavano la memoria visiva

e la memoria acustica dello spettatore antico»: così, la parodia scenica di Trigeo in volo sullo scarabeo (Pax 154-172) avrà sùbito evocato Bellerofonte in volo su Pegaso, e l'impatto mne-

# Così Mastromarco 1983, p. 35.

” Id., p. 38 (lo spaziato, a sottolineare la necessaria cautela nel caso in questione, è nostro). τ Cf. Mastromarco

1983, pp. 38 e 187 n. 151: una circostanza che,

secondo Sommerstein 1978, conforterebbe l’ipotesi che il figlio di Lamaco si chiamasse Tideo, nome rarissimo, se non unico, nell’Atene del tempo.

Metateatro in parodia

269

stico sarà stato ancor più forte e immediato «se la musica che accompagnava in parakatalogé i dimetri anapestici 154-72 riprendeva la melodia che accompagnava il volo del Bellerofonte euripideo» 72, Del resto, se è vero, come ha dimostrato Schlesinger, che

tra la rappresentazione della tragedia parodiata e quella della commedia

aristofanea, contenente il riferimento paratragico,

intercorre, nella maggioranza dei casi, più di un quinquennio 7), molti saranno stati gli Ateniesi che conoscevano a memoria

brani di tragedie: è noto, quanto commovente, l’aneddoto plutarcheo (Nic. 29) su quei prigionieri ateniesi che a Siracusa

ebbero salva la pelle per aver saputo recitare a memoria brani delle tragedie di Euripide. C’& da dire che «ogni anno, in occasione degli agoni drammatici e lenaici e dionisiaci, un migliaio di cittadini ateniesi, ingaggiati in qualità di coreuti, imparavano a memoria brani lirici di ditirambi, tragedie e commedie», ed

erano quindi in grado di ‘ricordare’ e ‘riconoscere’ versi e pezzi di questa o quella tragedia 75, tanto più che Aristofane ne facilitava il compito citando volentieri «versi che, nella tragedia parodiata, occupano una posizione incipitaria ed hanno perciò un alto grado di memorabilità» 75. Memoria a parte, i tragici (nella fattispecie Eschilo ed Euripide) non devono temere (Raw. 1109 ss.) μή τις duadia προσῇ τοῖς ϑεωμένοισιν, ὡς τὰ

λεπτὰ μὴ γνῶναι λεγόντοιν, perché ormai (v. 1114)

βιβλίον τ᾽ ἔχων ἕκαστος μανϑάνει tà δεξιά. 12 Così Mastromarco 1983, p. 39 e n. 52: per la parakataloge, cf. Perusino 1968, pp. 21 ss. (con bibliografia), per la parakataloge in Pax 154-72, cf. Pretagostini 1976, p. 102. ” Cf. Schlesinger 1936, pp. 296 ss. 74 Cosi Mastromarco 1983, p. 39. ® Ibid.: cf., in proposito, Harriott 1962, p. 6.

210

Ricerche intertestuali

Ormai, insomma, «ognuno ha il suo libro» e, «quanto al pubblico, è gente che se ne intende» 756: non è forse rileggendo l’Andro-

meda che Dioniso si fa prendere da una struggente, nostalgica voglia di Euripide (Ran. 52 ss.)? Comunque sia: vuoi per la consumata mnemotecnica, vuoi

per l’incipiente educazione alla lettura (un po’ enfatizzata da Aristofane), vuoi perché spesso agli spettatori bastava riconoscere lo stile paratragico — grazie all'orecchio esperto di stereotipi linguistici, metrici, musicali autenticamente tragici — il clic allusivo scattava e la parodia andava a segno. D'altronde, anche ammesso il cosidetto doppio pubblico di spettatori — «gli uni colti, gli altri grossolani: un’accolta di meccanici, di teti e di gentaglia di tale risma» (Aristot. Pol. 1342 a), interpellati dallo stesso corifeo delle Ecclesiazuse, gli uni perché ‘si ricordino’ delle parti ‘colte’, gli altri perché, propensi certamente al riso, serbino memoria delle ‘facezie’ (vv. 1155 s.), percepite, se non

con l’intelletto, almeno «con gli occhi e con le orecchie» 77 — e concessa una notevole sproporzione tra spettatore ‘modello’ e spettatore ‘empirico’, restava comunque auspicabile, per un autore di teatro le cui commedie dovevano aver successo negli agoni drammatici, che non solo gli spettatori ‘colti’ uscissero soddisfatti ?8, E sempre nelle Tesmoforiazuse càpita, in proposito, un che di straordinario, e certamente di non casuale: se è vero, come

sopra si accennava, che, stando all’indagine di Schlesinger, tra la rappresentazione della tragedia parodiata e quella della commedia aristofanea parodiante intercorre, nella maggioranza dei casi, più di un quinquennio, le Tesmoforiazuse fanno plateale

eccezione alla norma. Nelle Tesmoforiazuse infatti — a parte il solito Telefo (del 438), di cui sempre Aristofane abusa finché

% Così Del Corno 1985, p. 115. ” Per la «felice immagine», suggerita da W. Ludwig, si veda Mastromarco 1983, p. 42 en. 60. 18. Questa l’arguta (solo apparentemente ovvia) tesi di Fraenkel 1962, p. 181.

Metateatro in parodia

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nelle Rane farà ‘scoppiare la testa’ di Euripide 79, e fors’anche del pubblico — il Palamede è di quattro anni prima, ma, soprattutto, sia l’Elena che l’Andromeda, appartenenti alla stessa trilogia, sono dell’anno appena passato. L’eccezionale doppia attualità dei due modelli tragici, perfino annunciati, l’uno «con la precisione di una locandina» ®, l’altro con la puntigliosa indicazione e temporale e agonale 8', costituisce una prova scioccante

della ‘forte’ allusività aristofanea: di quanto fortissimamente Aristofane volle che, in occasione delle Tesmoforiazuse, tutti ‘si

ricordassero’ di assistere ad una (para)Elena e ad una (para) Andromeda, insomma ad una rappresentazione allusiva, nella fattispecie metadrammatica. Metadrammatiche,

dunque,

le Tesmoforiazuse:

ma

non

tanto per il fatto che si lascino definire come un esemplare, o pluriesemplare, «Spiel im Spiel» %, quanto perché i personaggi (allusivi) ‘sanno’ di essere ‘drammatici’ ancor prima che il drammaturgo ‘si accorga’ di loro ®. Abbiamo, poco fa, udito la voce di Eco annunciare: «Io sono quella che, l’anno scorso, in questo

stesso luogo, ha gareggiato a fianco di Euripide» *. Eco sa dunque di essere un personaggio drammatico, anche se la modestia del ruolo non le permette di ‘doppiare’ che se stessa e non più alte voci metateatrali, del tipo «tutto il mondo è teatro e tutti gli uomini non sono che attori» (Shakespeare per bocca di Falstaff)

e che «la vita è sogno» e «noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni» (Calderon per bocca di Sigismondo). Due

postulati, in realtà, della stessa paratragedia — istituzionale metadramma — dove i personaggi sono consapevoli della propria drammaticità, perché hanno già avuto almeno una parte, e 5. Cf. vv. 854 5. ἵνα μὴ κεφαλαίῳ τὸν κρόταφόν σου ῥήματι / ϑενὼν (sc. Αἰσχύλος)... ἐκχέῃ τὸν Τήλεφον. # Cosi Paduano 1982, p. 118. 8! Cf. supra p. 256.

82 Cf. Rau 1975, p. 356. 8 Cf. Abel 1965, p. 84.

# Vv. 1060 s., ef. ancora supra p. 258.

Hu = Lai

Ricerche miertestuali

possono — precedendo di non pochi secoli altri ‘sei personaggi', — far visita ad Agatone, per chiedergli non già di far loro da autore (c’è Euripide per questo), ma di fornire almeno i costumi di scena. I personaggi metadrammatici godono infatti di una vita autonoma: «non possono», a detta di Pirandello, «essere contenuti nei lavori in cui apparvero la prima volta e devono

avventurarsi lontano dai loro creatori, nelle opere di altri autori» ὅδ; e «devono», a detta di Abel, «farsi drammaturghi di se stessi» ὅδ, Perché, a differenza dei personaggi tragici, le cui vicende sono necessariamente quanto semplicemente accadute, essi sono protagonisti di avvenimenti la cui qualità consiste nell’essere stati pensati invece che nell'essere semplicemente avvenuti.

Il metadramma moderno avrebbe rimpiazzato la tragedia. Ma la lenta morte della tragedia era cominciata al tempo di Aristofane, per colpa di Euripide naturalmente: ὅτι ἡ πόησις... 1 τούτῳ dè συντέϑνηκεν, dirà Eschilo nelle Rare (v. 868), addi-

tando l’avversario. Aristofane ‘sente’ la morte della tragedia, ormai rovinata da Euripide: «i re in vesti di pezzetti, gli eroi storpi, le monodie lagnose, i prologhi fatti su misura, i canti corali fuori di argomento, i lenocini musicali, gli espedienti tea-

trali, etc.» # sono aspetti che rivivono però, tutti, nella paratragedia. Nella commedia di un autore quale Aristofane, che, prima di Shakespeare e Calderön, possiede la virtù di una «completa fiducia nel potere dell’immaginazione» e di un continuo «ricorso alla fantasia», sostituendola alla realtà «dovunque il reale non presenti sufficiente qualità, ardimento, eccitamento» #, I partigiani del metateatro moderno amano riassumere le

# Così Abel 1965, ricordando l’osservazione di Pirandello nei Ser personaggi, in quello che è «forse il più originale dramma nel dramma scritto in questo secolo» (p. 86). # E, «se ci è lecito far uso di una terminologia moderna, il regista, l’ope-

ratore, il direttore di scena di se stesso» (p. 88). 57 Cosi Cantarella 1956, p. 403. # Così Abel 1965, pp. 88 ss., indicando in Cervantes e Tirso de Molina gli ideali precursori del metadramma.

Metateatro in parodia

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qualità, reciproche, della tragedia e del metateatro. Ci sia lecito

entrare nel gioco, sostituendo (talora) la commedia aristofanea al metateatro: |

1) La tragedia celebra la struttura del mondo che, a sua vol-

ta, si suppone rifletta la forma della tragedia. La commedia aristofanea celebra la volontà dell’immaginazione che non accetta nessuna immagine del mondo come definitiva. 2) La tragedia non può compiersi senza l'accettazione di un ordine necessario. Per la commedia aristofanea l’ordine viene continuamente improvvisato dagli uomini. 3) La tragedia trascende l’ottimismo e il pessimismo e ci trasporta al di là di entrambi questi atteggiamenti. La commedia aristofanea ci fa dimenticare l'opposizione tra ottimismo e pessimismo, conducendoci alla meraviglia. Si potrebbe continuare ®. Per finire, sarà comunque da accogliere, anche per parte di Aristofane, l’invito metadrammatico a smettere il solito lamento sulla morte della tragedia. Ormai Euripide confessa, da sé, di portare in scena le solite cose, quelle che ci càpitano, in mezzo a cui viviamo (Ran. 959

οἰκεῖα πράγματ᾽ εἰσάγων, οἷς χρώμεϑ᾽, οἷς ξύνεσμεν). Del resto, egli non si è mai attentato a fare un dramma ‘pieno di Ares’: il δρᾶμα ... "Apewg μεστόν di cui si vanta Eschilo (v. 1021) alludendo ai propri Sette 4 Tebe. Ma, a ben vedere, anche Eschilo — con le sue Niobi ed i suoi Achilli, inesorabilmente pietrificati (v. 911), con i suoi paroloni a dozzine, corrucciati e impennacchiati, mostri che il pubblico non si era sognato d’incontrare (vv. 924 s.) — non può destare grande nostalgia, se non, come s’è detto, di ordine morale. La sua è una vittoria etica, perché, al contrario di Euripide, ha nascosto il male e non lo ha mostrato, né insegnato: si sa che, mentre ai bambini insegna il διδάσκαλος, ai giovani insegnano i montati (vv. 1053 ss.). Da

lui dunque è ancora lecito sperare salvezza per la città (v. 1436). Quanto all’arte, la questione è forse meno grave, ma certo

# Come fa Abel 1965, pp. 138 5.

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Ricerche intertestuali

più complessa: e la commedia non è seconda a nessuna tragedia. La subdola sfida di Aristofane anticipa l’esplicita tirata di Antifane (fr. 191 K.) contro i tragici dal mestiere facile: è tutto lì, già fatto e già noto. Basta accennare alla storia, tanto per rinfrescare la mente agli spettatori: un accenno a Edipo e tutti sanno che suo padre era Laio, sua madre Giocasta, e cosa gli è capitato. Un

accenno ad Alcmeone e anche un bambino è capace di recitarti a memoria che ha paura e ha ucciso la madre, e che ora, nero di

bile, entra Adrasto, poi esce, quindi rientra. Quale monotonia:

ἥξει πάλιν τ᾽ ἄπεισιν ἥξει δ᾽ αὖ πάλιν (v. 12). E se, infine, la storia non va avanti, c'è la solita μηχανή a salvare la situazione. La commedia invece tutto deve ‘inventare’: ἡμῖν ... πάντα δεῖ / εὑρεῖν (vv. 17 5.) ®. L’aveva già insinuato Aristofane con la critica paratragica, affermando l’insanabile conflitto tra il serio e il comico, un con-

flitto senza conciliazione ‘storica’ almeno per la mentalità attica, dove «la separazione della sfera tragica da quella comica era talmente radicata ... che perfino il Socrate platonico, vigoroso sostenitore della loro inestricabile mescolanza nella realtà extrascenica dell’esistenza (Pl. 50 δ), pur dichiarando... che chi era

poeta tragico lo era di necessità anche comico (Symp. 223 dì), non giunse mai a prospettare, nemmeno per un attimo, la possi-

bilità di un terzo genere che le comprendesse entrambe» 5", ad imitazione di quel genere, in natura, androgino, della cui esi-

stenza ‘prima del tempo’ mitizzava l’Aristofane platonico (Symp. 189 e). «Di fatto, invano cercheremmo nel repertorio attico una commistione di elemento tragico e di elemento comico identica, o anche solo affine, a quella che avrebbe carat-

terizzato certo teatro spagnolo o tedesco, o anche il miglior teatro inglese» 32,

* Il frammento di Antifane è opportunamente citato da Chiarini 1980, p. 105.

91 Così Chiarini 1980, p. 88. ® _Id., pp. 88 s. (cf., peri riferimenti al teatro moderno, n. 5), giustamente sconsigliando (n. 4) dal riferire al ‘terzo genere’ il dramma satiresco; cf., in

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Aristofane mette dunque in scena, con la paratragedia, l'impossibilità di una conciliazione. Obliquamente, nelle Rane,

la vendetta del comico sul tragico è, per così dire, delegata al duello agonale, anzi agonico, fra i due Tragici, che alternativamente si smascherano e vicendevolmente si uccidono (Eschilo sopravvive solo idealmente). La tragedia muore sul campo, fatta a pezzi, apparentemente non per mano della commedia: ma i lacerti euripidei, ed eschilei, restano risibilmente sparsi, esposti al ludibrio del pubblico. Era pur grande la tragedia. La commedia (aristofanea) ha potuto vincerla giocando astutamente di rimessa, cioè di parodia. Mentre nelle Rane la commedia gode,

per così dire, da terza, contemplando la fine dei due litiganti (para)tragici, nelle Tesmzoforiazuse il gioco di rimessa è diretto: Aristofane contro Euripide, con un esito distruttivo per Euripide, e per la tragedia tutta. Se la tragedia, infatti, può essere messa in burla, a dispetto di ogni sua conclamata anteriorità e superiorità, niente è assolutamente tragico e tutto può diventare comico. Tale insinuazione teorica sull’intrinseca ‘debolezza’ tragica poggia, in ultima analisi, su basi retoriche. Ogni enunciato serio, come si sa, può rischiare di divenire

comico. L’azione del comico su ogni discorso è quella di un meccanismo che, suscitando situazioni di incongruità e di sfasatura, ne evidenzia il carattere «artificiale e relazionale, non

cogente e definitivo» ?. Ed il comico, imponendo una certa distanza dall’enunciato, permette «di riconoscere degli schemi che altrimenti rimarrebbero facilmente inavvertiti perché in azione» "4, di scoprire la cosiddetta ‘maschera’ dell’argomenta-

zione, di sottrarsi all'obbligo di «passare la maschera per natura», e di «scambiare la stessa argomentazione per fissazione di

proposito, Rossi 1972, pp. 248 ss., che suggerisce l’utile formula di ‘tragedia ribaltata’, non trattandosi, comunque, né di tragicommedia in senso moderno, né di parodia tragica in senso ‘classico’ (l'eroe tragico conserva il proprio ethos, mentre il gioco è sostenuto dai satiri, con un effetto, propriamente, di ‘alleggerimento’ del tragico). 9 Così Ferroni 1983,p. 65.

.

% Così Olbrechts-Tyteca 1977, p. 32.

276

Ricerche mmtertestualt

verità stabili e definitive» *: quelle verità stabili e definitive che il metateatro contesta alla tragedia; quelle maschere tragiche

incapaci di reggere la verifica del comico, in ispecie della παρατραγῳδία. Il travestito Κηδεστής non regge — anche simboli-

camente — lo smascheramento delle Θεσμοφοριάζουσαι. Aristofane ne era complice, quanto consapevole istigatore. Malgrado tanta consapevolezza, anch’egli, però doveva essere

travolto dalla Storia. Appunto a causa della ἰαμβικὴ ἰδέα, con cui attaccava i Politici, e non meno i Tragici, il Comico si era dimostrato perfetto ‘figlio del suo tempo’. E la caduta della πόλις, materialmente significata dall’abbattimento delle ‘lunghe mura’ sotto i colpi degli spartani di Lisandro, doveva trascinare con sé non solo la tragedia, ma anche la commedia: almeno quella commedia. Anzi, per una curiosa nemesi, sarà semmai il fanta-

sma di Euripide ad aleggiare sulla ‘nuova’ commedia, quando i personaggi si chiuderanno sempre di più, anche esistenzialmente, dentro casa, a riflettere con la mente dei filosofi. Morta la tragedia, e con lei quella commedia (la commedia politica cioè), nascerà magari la tragicommedia, nelle sembianze dell’ila-

rotragedia, ma non ci sarà più vita per la paratragedia, così sistematicamente allusiva, da portare in scena —

a spese, sempre

controllabili, della tragedia — la gara del comico col tragico, la lotta fra due intenzioni opposte. Fra due opposte catarsi: quella tragica, per così dire ‘omeopatica’, e quella comica, ‘allopatica’,

nel suo pervicace esorcismo contro il dolore e la morte. Non c’era ancora Freud, a spiegare come il gioco infantile che allude — ripetutamente, per neutralizzarla — ad una vissuta esperienza dolente e paurosa, di ἔλεος e φόβος, conduce, sì, all'estremo piacere del ‘grado zero’, ma pure all’ultima quiete della morte, eufemizzata quale stato pre-vitale. Come dire: il non vivente è anteriore al vivente. È come dire: il comico viene

prima del tragico. Aristotele si rivolterebbe nella tomba. Non Aristofane, finalmente appagato da un’olimpica, anzi dionisiaca, beatitudine. % Così Ferroni 1983, p. 66; cf. Olbrechts-Tyteca 1977, pp. 307 ss., sulla dissociazione espediente/realtà.

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LUOGHI

DISCUSSI

Alcaeus fr. 140 V.: 125 ss.; 140, 1:131 ss.; 208:207

ss.; 208, 7:223; 208,

9:207 s.; 208, 12:218 ss.

Alcman fr. 3,2 C.: 41 ss.; 3, 15:50 ss.

Anthologia Palatina VI 123:141; VI 163:142; VI 220:235 ss.; IX 322:141; IX 323:141 8.

Apollonius Rhodius HI 281:16; III 284 ss.:148 ss.; III 296 ss.:16; III 633 s.:157 s.; III 965:163 ss.

Archilochus fr. 188, 1 5. W.:85 ss.; 188, 3 s.:100 s.; 188, 5:99; 191:15.

Aristophanes Nub. 279:117; Vesp. 179 ss.:17; Thesm. 154 ss.:250; 855 ss.:256, 261 ss.; 1015 ss:257. Herodotus VIII 37:144 s.

Hesiodus ΤΡ. 22 ss.:184 ss.; fr. 73, 45. M.-W.:114; 76, 6:114; 294, 3s.:77. Hesychius a 550 L.:207 s. n. 3; € 3004:47 5.

Hippocrates Aff. int. 49.151 ss.

304

Luoghi discussi

Homerus Z 201 s.:121; K 249:64 s.; E 294:178 ss.; ss., 81 n. 26; 1433:15; 1 510 ss.:76 5.

X 452 s.:156 s.; € 201:80

Horatius I 22, 10, Carm. I 14,1ss.:221ss.; 1 14, 14:219ss.; 114, 14s.:225ss.; 235.:233ss.; I 25, 175s.:95ss.; IV 13, 8ss.:99s.; Epod. VIII 3 5.:8555.

Ibycus fr. 5 P.:73 ss.; $ 151, 23 ss. P.:79 ss.; 5. 199:113 ss. Lucretius IIl 152 ss.:175 s.

Ovidius Am. II 115 ss.:89 ss.

Pindarus O. XI 15:46, 49; N. VII 96 s.:59s.; fr. 33 ἃ, 8 s. Sn.-M.:55 s.

Propertius I 20, 45:204; I 20, 48 ss.:197 ss.

Sappho fr. 21, 6 ss. V.:100; 31, 7:178 ss.; 31, 7ss.:148 ss.; 44 A (a):105 ss.;

44 A (a), 5 s.:110 ss.; 96, 15 ss.:119 ss. Theocritus II 82:159 ss.; II 82 ss.:149 ss.; II 106:163 ss.; VII 43 ss.:186 ss.; XIII 48 s.:203 ss.; XIII 49 ss.:206; XIII 64 ss.:123; XVI 8:55, 58.

Theognis 670 ss.:214; 1288 ss.:108 ss.

Vergilius Ecl. VI 43 s.:195 ss.; VI 64 ss.:184 ss.; Georg. IV 333 s.:198 s.