Note sulla poesa. Alcune osservazioni sulla poesia dell’Occidente a partire da E. Saverino

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Note sulla poesa. Alcune osservazioni sulla poesia dell’Occidente a partire da E. Saverino

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PAOLO DAI PRÀ

NOTE SULLA POESIA ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA POESIA DELL'OCCIDENTE A PARTIRE DA

EMANUELE SEVERINO

INDICE INTRODUZIONE 1. Linguaggio e alienazione 2. Dante e Leopardi 3. Poesia e ontologia 4. Confini e negazioni determinate: lo scetticismo epistemico kantiano 5. Tecnica e ontologia 6. Giocatore bianco, giocatore nero CAPITOLO PRIMO – SEVERINO E L'OCCIDENTE §1 STORIA DELLA FILOSOFIA 1.1 Severino interprete dell'Occidente 1.2 Il “sistema filosofico”, le sue articolazioni, le sue anomalie 1.3 La filosofia al tempo della venuta meno dell'epistéme 1.4 La filosofia al tempo dell'epistéme: la modernità ed il problema dell'idealismo 1.5 Le antinomie della metafisica epistemica e della metafisica anti-epistemica, e la necessità di gettar via la scala 1.6 La filosofia epistemica nel mondo greco 1.7 Teologia, amore e libertà: l'epistéme durante il medioevo cristiano 1.8 Il concetto di “libertà” nella Commedia di Dante 1.9 Appendice al §1: alcune questioni metodologiche §2 IDEALISMO E PRINCIPIO DI NON-CONTRADDIZIONE 2.1 Epicureismo e nichilismo 2.2 La fede nel diventar-altro dell'ente come condizione trascendentale del costituirsi del principio di non-contraddizione. Al centro della metafisica: Hegel 2.3 Il valore pratico-etico del principio di non-contraddizione: Łukasiewicz §3 POETARE DOPO AUSCHWITZ 3.1 Nichilismo e principio di non-contraddizione in Platone ed Aristotele

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3.2 Poesia, fenomenologia, prassi 3.3 Nichilismo e principio di non-contraddizione in Nietzsche 3.4 Metafisica, dialettica, idealismo e principio di non-contraddizione: la posizione di Adorno 3.5 Poesia come negazione della prassi: l'anti-estetica di Adorno e la comprensione dell'essenza del nichilismo CAPITOLO SECONDO – POESIA COME FILOSOFIA §1 ERITIS SICUT DII 1.1 Mangiare Dio 1.2 Nichilismo e Cristianesimo: l'Adamo dantesco §2 ESTETICA 2.1 Contro una estetica per “anime belle” 2.2 Sull'impossibilità di partorire nel brutto: estetica e metafisica epistemica 2.3 Partorire il deserto: estetica e metafisica anti-epistemica 2.4 Forma e contenuto del canto §3 LA POESIA DELL'OCCIDENTE 3.1 V’è davvero l'ineffabile. Esso mostra sé, è la forma poetica 3.2 La conciliazione delle antinomie della dialettica è una non-conciliazione, le questioni della dialettica sono dei non-problemi al di fuori del discorso: l'enigma non v'è 3.3 Benedetti Michelangeli e le cicale del Fedro 3.4 L'orizzonte salvifico della festa: l'aspetto formale della festa ed il contenuto della rappresentazione festiva 3.5 Mature declinazioni della festività: Dante e Leopardi §4 POESIA COME TECNICA 4.1 L'antinomia fondamentale del Cristianesimo 4.2 «Ma che cosa mai resterebbe da creare, se gli dèi esistessero!» 4.3 La questione della tecnica in Schopenhauer, Nietzsche e Leopardi 3

§5 VICO INTERPRETE DI DANTE 5.1 Il principio del verum-factum come fondazione metafisica della volontà di potenza: una lettura idealistica di Vico 5.2 Le forzature della lettura che Severino dà di Vico 5.3 Teologia vichiana: Dio e la questione della tecnica 5.4 Per una nuova epistemologia: la teologia civile ragionata 5.5 La nozione di “poesia” nel De nostri temporis studiorum ratione di Vico 5.6 La nozione di “poesia” ne Il più antico programma di sistema dell'idealismo tedesco 5.7 La nozione di “poesia” nella Scienza nuova di Vico 5.8 Il significato delle «istorie» dantesche 5.9 «Dio è pratico»: parla il cardinal Ratzinger CAPITOLO TERZO – LA POESIA DELLA COMMEDIA §1 UMILI PIANTE 1.1 Esempi di umiltà e di superbia nella Commedia 1.2 La convinzione fondamentale del Cristianesimo ed il suo fondo torbido 1.3 «La sete natural che mai non sazia»: il ruolo della filosofia nel Convivio e nella Commedia 1.4 «Gente di molto valore»: i magnanimi del Limbo 1.5 I magnanimi Pier delle Vigne e Romeo di Villanova 1.6 La magnanimità classica: Aristotile, Plato, Virgilio 1.7 «Amor mi mosse»: amore e tecnica nella Commedia 1.8 «Da me stesso non vegno»: sul valore salvifico della guida 1.9 Un magnanimo a guardia del Purgatorio 1.10 «Fatti non foste per viver come bruti»: sull'inconscio nichilistico della Commedia 1.11 Tra giunchi e ginestre: disegnare e dissimulare l'idea dell'Occidente 1.12 Ricevere «vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui si sente la morte»: Emanuele Severino interprete di Giacomo Leopardi 1.13 Dissimulare l'umiltà: nichilismo e Cristianesimo 1.14 La Commedia senza Dio 4

§2 INEFFABILITÀ E CRISTIANESIMO 2.1 Rivolgersi al divino per cantare non significa cantare per rivolgersi al divino: Severino interprete della Commedia 2.2 Le due ineffabilitadi: Dante e il problema della dicibilità dell'epistéme 2.3 Gnoseologia dantesca 2.4 L'ineffabilità teologica della Commedia 2.5 Divorare Dio ed essere divorati da Dio: il contenuto del canto cristiano scisso tra volontà di potenza e noia §3 DIVENIRE IN DANTE E RESURREZIONE DEI CORPI 3.1 Giudizio Universale e storia dell'umanità: nichilismo, Cristianesimo, filosofia della storia 3.2 Il “paradosso” dell'Uno e dei Molti nella Commedia 3.3 Lukács interprete di Dante 3.4 «Sola nel mondo eterna, a cui si volve/ogni creata cosa,/in te, morte, si posa/nostra ignuda natura»: le mummie di Federico Ruysch e i personaggi della Commedia si confrontano con il problema della morte 3.5 «Il convento delle bianche stole»: Giudizio Universale e resurrezione dei corpi 3.6 Il ruolo della corporeità nella Commedia dantesca 3.7 Amore, tecnica, libertà 3.8 Quando arriva il tempo di abbandonare il tempo? CONCLUSIONE 1. «Per lo gran mar de l'essere»: figure acquatiche in Dante e Kant 2. Sinossi 3. Il viaggio della metafisica 4. Contro Severino

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Questo libro aiuta la Follia a presentarsi nel modo più radicale: le conferisce l'estrema coerenza e insieme la porta al suo «punto critico». Ma poi la lascia a se stessa. Infatti, quando la Follia appare come Follia questo apparire è la Non-Follia, cioè il destino della verità che già da sempre si apre al di là della Follia. Emanuele Severino, L'anello del ritorno

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Introduzione

La storia dell'Occidente è il progressivo impadronirsi delle cose, cioè il progressivo approfittare della loro disponibilità e della loro infinita oscillazione tra l'essere e il niente. Il progetto tecnologico della produzione-distruzione illimitata di tutte le cose scioglie ogni riserva rispetto a quella disponibilità e in esso resta pertanto celebrato il trionfo della metafisica. Emanuele Severino, Téchne. Le radici della violenza Se l'essenza della tecnica è la capacità di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, la tecnica è l'essenza dell'uomo – la volontà di potenza è l'anima dell'uomo – e l'essenza tecnica dell'uomo non è qualcosa di estraneo da ciò che l'Occidente pensa dell'uomo, ma sta alla base di questo pensiero, si nasconde alle sue radici. Emanuele Severino, La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire

1. Linguaggio e alienazione Confrontarsi criticamente con Severino significa fare resistenza nei confronti di quel discorso volto ad individuare la via che permette di fuoriuscire dalla alienazione nella onnipervasività del concetto. Credo che un discorso critico di tal sorta non possa che muovere dalla critica che già Feuerbach aveva mosso contro Hegel, che cioè l'altro dal pensiero è in realtà sempre e di nuovo un pensato: «Ma io non dovrò mai la mia esistenza al pane linguistico o al pane logico – al pane in sé – ma sempre e solo a questo pane, al pane “inesprimibile”. L' essere che è fondato in tali e tante cose inesprimibili sarà esso stesso inesprimibile. È infatti l'ineffabile. Dove finisce la parola, comincia la vita, e il segreto dell'essere si dischiude»1. Questa mossa (che mira non a minimizzare l'importanza della critica severiniana alla alienazione che il nichilismo comporta, bensì a radicalizzarla, nonostante questo comporti – come vedremo – una presa di distanza dalla pars costruens del discorso severiniano) può apparire scorretta poiché lo stesso Severino, in Oltre il linguaggio, si premura di prendere le distanze da quella mossa (dal sapore idealistico) volta ad affermare l'intrascendibilità del 1

Feuerbach L., Grundsätze del Philosophie der Zukunft (1843), trad. it. di L. Basile, Princìpi della filosofia dell'avvenire, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, p. 53.

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linguaggio, e quindi del simbolo, del concetto. L'intrascendibilità del linguaggio infatti – questa l'argomentazione severiniana – implica che ogni parola rinvii ad un'altra parola, in un regresso all'infinito che fa della parola qualcosa di storico, «essenzialmente instabile» 2. Da ciò si ricava che la parola nichilisticamente (idealisticamente) intesa non sa andare oltre se stessa – così da poter fermarsi su qualcosa che la parola designa e che già da sempre sta –, a differenza del linguaggio che invece testimonia questo significato, entrando ed uscendo dal cerchio dell'apparire. Contro l'intrascendibilità del linguaggio, Severino intende dunque affermare l'esistenza di una dimensione extralinguistica che è testimoniata dal linguaggio, ma che trascende il linguaggio, giacché «ciò che appare come e nella struttura originaria è sempre più ampio di ciò che il linguaggio, nel suo sviluppo, ne dice» 3. Viceversa, la negazione di una tale dimensione extralinguistica ci porta ad affermare l'intrascendibilità del linguaggio, che è tutt'uno con la fede nichilistica nel divenire. Il significato – l'identico – è per Severino ciò che sporge al di fuori del linguaggio, che lo eccede, giacché il significato è l'implicito, e «quell'implicito è già lì, originariamente, quando la parola che lo nomina (l'esplicito) inizia il suo disvelamento progressivo» 4. Allora come mai in questo lavoro si farà riferimento a Severino come al filosofo del concetto, della parola, come al filosofo della scala? A questa domanda risponde implicitamente Andrea Dal Sasso il quale, occupandosi di Oltre il linguaggio, declina la nostra questione sotto il segno di un'altra domanda: «Ma allora cos'è l'identità? È forse l'indicibile? La risposta di Severino è negativa: l'identità è anzi ciò che vien detto»5. Il significato è insomma sempre avvolto dal linguaggio, che non può mai del tutto saturare il significato del quale il linguaggio che testimonia il destino della necessità dà testimonianza (da ciò deriva che, per Severino, «l'essenza dell'intramontabile è affidata al tramontante»6). Una delle tesi fondamentali che cercherò di difendere nel corso di questo lavoro è quella per la quale la tradizione filosofica nel solco della quale collocherò la mia indagine sulla poesia dell'Occidente, cioè quella tradizione filosofica volta ad intendere l'alterità rispetto al simbolo come il non-identico («Il bello naturale è la traccia del non-identico nelle cose al tempo della 2

Severino E., Oltre il linguaggio, Milano, Adelphi, 1992, p. 217. Ivi, p. 184. 4 Cusano N., Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Brescia, Marcelliana, 2011, p. 227. 5 Dal Sasso A., Dal divenire all'oltrepassare. La differenza ontologica nel pensiero di Emanuele Severino, Roma, Aracne, 2009, p. 137. 6 Cusano N., Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, cit., p. 227. 3

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signoria dell'identità universale»7), lungi dal dovere essere bollata come metafisica e dunque alienante e violenta, può essere intesa come la leva mediante la quale scardinare la nozione di “prassi” così come è stata sviluppata dall'Occidente e così come bene è stata tematizzata criticamente da Severino. Si andrà cioè sostenendo che una certa metafisica anti-epistemica, nella misura in cui si colloca ai limiti della scacchiera del nichilismo, non deve essere intesa, come invece sostiene Severino, come espressione radicale della Follia, bensì come trampolino di lancio da utilizzare per una concreta emancipazione (laddove l'emancipazione vuole portarci al di fuori dell'alienazione nichilistica ed, in particolare, dell'orizzonte nichilistico della prassi che tale alienazione comporta). Severino è il filosofo della parola, il filosofo della scala. A partire da questa convinzione, ci proponiamo di far scendere Severino dalla scala. Perché mai Severino dovrebbe «gettar via la scala dopo essere asceso su essa»8? Perché la scala, la condizione di possibilità del mondo, il mezzo mediante il quale il mondo è mondo (il mezzo mediante il quale categorizziamo il mondo, e che fa sì che non si possa trascendere positivamente il simbolo scendendo dalla scala, giacché il mondo si costituisce come simbolo, come parola) appiattisce il non-identico al concetto, dunque lo violenta, lo perde comprendendolo sotto ad uno schema che permette di prevedere, di dominare ciò che è previsto sotto lo schema. Nel suo tentativo di andare contro le filosofie antiepistemiche della “svolta linguistica”, per le quali l'affermazione della «impossibilità di una verità assoluta coincide con l'inseparabilità di parola e significato» 9, Severino non ha saputo, a mio avviso, porre a compimento il «tentativo (fallimentare) di affermare l'indipendenza del significato dalla parola che lo dice» 10, che era stato il tentativo che aveva cercato di sviluppare la metafisica epistemica. Per queste ragioni, mi pare di poter dire, Severino giustifica la violenza, giustifica l'alienazione, giustifica il nichilismo proprio in quanto non riconosce la necessità di fare metafisica abbandonando – al limite – i pioli della scala (le categorie, i simboli). Sensatissima e del tutto condivisibile nella misura in cui intende come “nichilistico” il capitalismo, il comunismo ed il Cristianesimo, la posizione severiniana ai miei occhi perde di 7 Adorno

W.T., Ästhetische theorie (1970), trad. it. a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 2009, p. 98. 8 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus (1918-1921), trad. it. di A.G. Conte, Tractatus logicophilosophicus e Quaderni 1914-1916 , Torino, Einaudi, 2009, 6.54. 9 Cusano N., Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, cit., p. 228. 10 Ibidem.

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forza nella misura in cui tenta di risolvere il problema dell'alienazione mediante la il concetto (posto che il concetto perde il non-identico, esercitando violenza, facendo ricadere nell'alienazione). La filosofia ha il compito di attraversare il nichilismo, come Severino ha bene inteso, di intenderlo criticamente, senza però rovesciare il tavolo sul quale viene giocata la partita del nichilismo, senza cioè trascendere il nichilismo positivamente, come Severino si propone invece di fare mediante un nuovo linguaggio, mediante nuove categorie. La fuoriuscita dalla alienazione a mio avviso si dà invece in ciò che nel linguaggio nichilistico stesso si mostra, e che trascende il linguaggio (nichilistico) nella misura in cui trascende il simbolo, la parola, confrontandosi (al limite) con quel non-identico che inevitabilmente è rimosso e al contempo implicato (negativamente) dal simbolo, da quel simbolismo al quale lo stesso Severino – usando un linguaggio alternativo a quello nichilistico – pure non sa rinunciare. Tanto la metafisica epistemica quanto la severiniana filosofia futura si servono di categorie che non vengono mai trascese, che non implodono dialetticamente sotto il peso di ciò che le trascende negativamente. In questo lavoro si andrà identificando parola e mondo (secondo la mossa idealistica – nichilistica solo nella misura in cui non è portata al punto limite – per la quale l'unico realismo coerente è il solipsismo), ma si andrà sostenendo la necessità di trascendere negativamente il concetto, nella convinzione per la quale il nichilismo sia alienante, ma che – a differenza di ciò che sostiene Severino – la possibilità della salvezza possa concretizzarsi stando all'interno – ponendosi ai limiti – della scacchiera del nichilismo medesimo. Diciamo tutto ciò nella convinzione per la quale la filosofia debba essere considerata come il sapere dialettico per eccellenza, e che possa realizzarsi sempre di nuovo (fallendo sempre di nuovo) solo in quanto spinge il pensiero al suo limite (la filosofia è pensiero spinto al limite), al suo punto di implosione che allontana, ogni volta che si afferma, la possibilità di una qualsivoglia risoluzione positiva. Realizzare l'essenza dialettica della filosofia significa rivolgersi – fallendo – al non-identico, ossia a quella eccedenza negativa (e quindi trascendente) rispetto alle categorie interne al nichilismo medesimo. Secondo questa impostazione, l'errore di Severino consisterebbe nella mossa, realizzata nel suo discorso filosofico, volta a sostituire il linguaggio nichilistico – responsabile dell'alienazione, della violenza – con il linguaggio che testimonia il destino della necessità. In questo lavoro si cercherà, al contrario, di mostrare che la mossa atta a sostituire l'alienazione derivante dal linguaggio nichilistico con un altro linguaggio non solleva al di sopra dell'alienazione in quanto 11

non porta a compimento l'essenza dialettica della filosofia la quale, proprio in questo sforzo di salvaguardare dalla violenza esercitata dal concetto ciò che trascende negativamente il mondo, può tenere aperta aperta la possibilità di contrastare l'alienazione. È importante sottolineare fin da subito che questo tentativo di riformulare il discorso severiniano non deve essere inteso come esterno alla speculazione di Severino; suddetto tentativo, infatti, non sarà portato avanti facendo riferimento a fonti esterne, bensì verrà sviluppato a partire dagli scritti dello stesso Severino. Si cercherà infatti di trovare in questi stessi scritti una nuova risposta alle minacce del nichilismo. Si cercherà insomma di emendare Severino (facendolo scendere dalla scala) mediante lo stesso discorso severiniano. È possibile portare a compimento questa mossa nella misura in cui si devono intendere come separate ed indipendenti le due parti che costituiscono il discorso severiniano – ossia la pars costruens del suo discorso, volta a costruire una nuova ontologia, e la pars destruens, che coincide con la critica svolta da Severino alla metafisica – laddove la parte positiva del suo discorso è da Severino intesa come fondante quella negativa. Si cercherà di mostrare come invece la critica alla metafisica, lungi dall'essere dipendente dalla nuova ontologia severiniana, costituisca il modo per liberarsi della pars costruens, e dunque di liberarsi dalla violenza nichilistica che il concetto porta con sé anche nell'orizzonte del discorso severiniano. Percorrere questa strada significa tematizzare su un piano teoretico una teologia negativa, una fuga dal mondo verso i limiti del mondo, che permetta di instaurare una dialettica negativa sulla base di questa condizione di liminarità. Per meglio comprendere cosa intendiamo quando diciamo che si deve emendare Severino mediante la rinuncia al concetto (meglio: mediante quella dialettica negativa che considera il concetto in relazione a ciò che lo nega assolutamente), è bene prendere in considerazione una problematica all'interno della quale Severino sviluppa il suo discorso. Questa problematica è quella per la quale, ad avviso del Bresciano, se da un lato l'uomo non può sottrarsi del tutto dall'Errore, dall'altro l'uomo è “già da sempre” fuori dall'Errore. L'Errore è il nichilismo. Il nichilismo è alienante, dunque per salvarsi l'uomo, che sta all'interno del nichilismo, deve rovesciare il tavolo del nichilismo. Severino ci dice che la salvezza è testimoniata da un linguaggio, che è un linguaggio altro rispetto al linguaggio del nichilismo. Per rovesciare il tavolo del nichilismo, e per dare la salvezza mediante il concetto (mediante un altro linguaggio, che testimonia il destino della necessità) bisogna prendere coscienza di stare nell'Errore, ed il 12

luogo in cui si sviluppa la propria autocoscienza è la filosofia. Da dentro il nichilismo, se si vuole rovesciare il tavolo del nichilismo, si deve filosoficamente prendere coscienza dell'identità di nichilismo, Follia ed Occidente. Per salvarsi, per rovesciare il tavolo del nichilismo, bisogna guardare in faccia la Follia (il nichilismo), riconoscendola come Follia. E tuttavia lo stesso Severino ci dice che, intendendo (filosoficamente) l'essenza del nichilismo, guardando cioè in faccia l'inconscio dell'Occidente (e oggi del mondo intero) si cade nella noia che non permette l'azione, giacché la prassi si dà solo là dove è dato prevedere e quindi dominare ciò che è dominabile – in quanto prevedibile –, ma la possibilità della previsione viene meno proprio nella misura in cui, da dentro la scacchiera del nichilismo, si guarda in faccia il nichilismo, identificando l'essente con il nulla (la possibilità della prassi viene meno nella misura in cui il nulla assoluto è l'assolutamente imprevedibile, quindi ciò che è nulla è per il nichilismo stesso l'assolutamente indomabile). Guardare (filosoficamente) in faccia la Follia, prendere cioè coscienza che – per la Follia – l'essente è identico al nulla, significa cadere nell'impotenza che nega la prassi, che nega la possibilità di rovesciare quella scacchiera del nichilismo che pure, per poter essere rovesciata, deve anzitutto essere intesa come quella scacchiera sulla quale si gioca il gioco della Follia. L'uomo dunque, da dentro il nichilismo, non può rovesciare la scacchiera del nichilismo, non può salvarsi. Ma al contempo l'uomo – ci dice Severino – è già da sempre salvo, è già da sempre fuori dall'Errore. Nella pars costruens del suo lavoro teoretico Severino si prodiga elaborando una serie di categorie e di argomenti volti a superare questa problematica. Questa stessa problematica è affrontata in modo differente – e, ad avviso di chi scrive, del tutto incompatibile con la pars costruens – nella pars destruens del suo discorso; qui Severino non si confronta più con la necessità di sviluppare un nuovo linguaggio esterno al nichilismo che risolva – da fuori – la Follia dentro di sé («in quanto l'apparire dello sviluppo (ossia l'apparire del linguaggio come sviluppo) è un apparire, esso è necessariamente contenuto (come ogni altro apparire) nella struttura originaria, che è ciò che non si sviluppa. Quindi l'apparire di quello sviluppo appartiene al contenuto che non si sviluppa» 11) e, cosa più importante, dentro al concetto, per giungere alla salvezza, ma la salvezza si dà – mi pare di poter ricavare dalla analisi della pars destruens severiniana – facendo scivolare la dialettica proposta da Severino nella sua ontologia su di un altro piano. 11

Cusano N., Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, cit., p. 225.

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Se nella sua pars costruens Severino afferma che la salvezza si dà sviluppando un linguaggio alternativo rispetto a quello del nichilismo, che risolva (sia pure in modo mai del tutto compiuto, essendo il significato altro dal linguaggio, anche se sempre avvolto nel linguaggio che mai lo può del tutto saturare) all'interno di sé (all'interno del linguaggio, della categoria, del concetto) la dialettica positivo/negativo, nella pars destruens Severino mi sembra vada suggerendo che la “salvezza” la si ottiene spostando la propria attenzione teoretica dal piano dalla dialettica positiva (interna al concetto) positivo/negativo, al piano della dialettica negativa (tra il concetto e la sua radicale alterità) dire/mostrare. 12 Tuttavia questa da Severino indicata nella pars destruens del suo discorso, che possiamo individuare nella pars destruens del discorso severiniano, è una “salvezza” del tutto effimera, come effimero risulta essere il profumo della ginestra leopardiana; proprio per tale motivo Severino volta le spalle a questo grandioso risultato teoretico che si viene affermando, al culmine della sua critica nei confronti della metafisica occidentale, per rintanarsi sulla sommità della scala (dialettica positiva, tutta interna al concetto), tra le braccia del simbolo, del concetto, riaffermando cioè il valore salvifico del linguaggio (un linguaggio certo alternativo rispetto al linguaggio del nichilismo!) e misconoscendo il tesoro che implicitamente viene affermato nelle pagine più lucide della sua pars destruens. Per riassumere, diciamo che in questo lavoro si partirà dalla critica che Severino muove alla metafisica, così da mostrare che, seguendo le conseguenze di questa critica, la salvezza non può derivare dal rifiuto del linguaggio nichilistico in nome di un altro linguaggio (dialettica positiva); partendo dalla critica che Severino muove alla metafisica (pars destruens) si arriverà invece a mostrare che nel linguaggio stesso del nichilismo si dà la salvezza (dall'alienazione), che è quell'eccedenza negativa rispetto al concetto, che si mostra nel solco dello stesso discorso nichilistico come ciò che eccede questo stesso discorso (dialettica negativa). Questa eccedenza non può che essere negativa, in quanto si dà sulla frontiera, ai limiti del linguaggio (del nichilismo), in quella dialettica (irrimediabilmente negativa, giacché l'unica dialettica che può essere risolta può essere risolta dal concetto che etichetta e mutila dentro di sé, e quindi deve essere tutta interna al concetto, e non tra il concetto e ciò che lo eccede negativamente) 12

Va da sé che questa lettura che diamo di Severino non riconosce più – come invece il Bresciano esplicitamente vuole riconoscere – una continuità tra la pars costruens e la pars destruens bensì, per poter essere affermata, questa lettura ha bisogno di porre una autentica cesura tra i due momenti della riflessione teoretica severiniana, abbandonando il primo in favore del secondo.

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tra il concetto e ciò che non è concetto e che, proprio in quanto non è concetto, non può che essere una eccedenza negativa, valendo per noi l'assunto idealistico – che si afferma all'interno del nichilismo, quando il nichilismo tra le estreme conseguenze dai suoi presupposti – per il quale i limiti del (mio) mondo sono i limiti del (mio) linguaggio, e quello per il quale l'unico realismo coerente è il solipsismo. Tale eccedenza negativa rispetto al concetto si mostra attraverso il linguaggio stesso del nichilismo, come eccedenza negativa rispetto a questo linguaggio (rispetto al (mio) mondo). Come mai ciò che è altro dal concetto è una eccedenza negativa, e non può essere qualcosa di positivo? Perché la filosofia non può non configurarsi come una dialettica negativa? A questi interrogativi rispondiamo nel seguente modo: perché i limiti del linguaggio sono i limiti del (mio) mondo, perché l'unico realismo coerente è il solipsismo 13. L'assunto wittgensteiniano per il quale l'«Io entra nella filosofia perciò che “il mondo è il mio mondo”. L'Io filosofico è non l'uomo, non il corpo umano o l'anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, che è non una parte, ma il limite del mondo» 14, sarà l'assunto metafisico che ci guiderà nel corso di questo lavoro, giacché – come si è detto – in questo lavoro considereremo il nichilismo dall'interno, e la mossa atta ad identificare realismo e solipsismo (realismo ed idealismo) è la mossa atta a tematizzare sul piano teoretico la più radicale presa di coscienza di sé da parte del nichilismo; infatti, il nichilismo tende a sacrificare il mondo intero sull'altare della prassi, ossia sull'altare del soggetto, e questo gesto sacrificale può arrivare al punto estremo proprio quando il soggetto viene identificato con il mondo, cioè proprio quando ogni cosa del mondo può essere trasformata nella misura in cui coincide con il soggetto stesso che è attività e che, agendo, trasforma quel mondo con il quale si identifica (di qui l'importanza di Gentile, così bene attestata da Severino). Aderire agli esiti teoretici cresciuti sulla base dell'idealismo classico, prima, e della “svolta linguistica”, poi, affermare cioè l'identità di soggetto trascendentale e mondo (quella che Severino, sulla scia di Hegel, chiamerà “identità mediata di certezza e verità”), apre la via a quella dialettica negativa che, da dentro il nichilismo, permette di sviluppare un'etica nuova rispetto a quella nichilistica, che risultava necessariamente vincolata alla nozione nichilistica di “prassi”. Sono salvo dalla alienazione nella misura in cui vado a negare la prassi nichilistica. 13 14

Cfr. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., 5.64. Ivi, 5.641.

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La polemica che in questo lavoro si condurrà contro Severino non è volta a riformulare la definizione che Severino dà del termine “violenza”, ma è volta a mostrare una strada del tutto diversa, rispetto a quella percorsa da Severino, che permetta di giungere alla possibilità di liberarsi dalla violenza (severinianamente intesa come “prassi nichilistica”). Si andrà a sviluppare questa alternativa teoretica rispetto alla strada battuta da Severino, partendo dal discorso severiniano, ed in particolare rimanendo aderenti alla critica che Severino muove nei confronti della metafisica. In questo lavoro ci muoveremo dunque all'interno del nichilismo, cercando di tematizzare la possibilità della salvezza – la possibilità di una “prassi radicale”, radicalmente alternativa rispetto alla prassi nichilistica – che si dà, stando all'interno (ai limiti) del nichilismo, come eccedenza negativa che mostra sé nel linguaggio stesso del nichilismo, andando a costituire una dialettica tra il linguaggio (nichilistico) e ciò che non è simbolo e che, proprio in quanto non è simbolo, eccede negativamente il mondo (posta l'identità nichilistica di mondo e simbolo, di verità e certezza). È proprio questo orizzonte non simbolico che verrà inteso in questo pagine come l'orizzonte del poetico (tenendo fermo l'assunto (e l'assurdo!) per il quale, al limite, lo stesso poetico, essendo ciò che nega il simbolo, si configura come ciò che nega sé in quanto simbolo). Questa resistenza al simbolo, che non può che darsi mediante il simbolo stesso, è l'esperienza di Dio (che non c'è), giacché Dio non è un fatto, ed il mondo (tutto ciò che c'è, che sta entro i limiti della coscienza trascendentale) è la totalità dei fatti. L'esperienza di Dio – da parte di un soggetto – è al contempo personalissima ed impersonale, giacché, ponendosi al di là del simbolo, si pone al di là della categorizzazione, dell'esperienza delle cose del mondo. È forse questa (non)esperienza di Dio il (non)contenuto (come può esserci contenuto là dove manca il mondo, ossia là dove manca il simbolo?) di una fenomenologia radicalmente purificata, quindi autentica? In questo senso, l'incontro con l'Altro potrebbe darsi proprio sulla base della riduzione del mondo a Io; l'eccedenza negativa rispetto al simbolo (rispetto al mondo), permette di uscire dal solipsismo – e quindi d'incontrare l'Altro – nella misura in cui lo si è posto – nella misura in cui si è posta l'immanenza della coscienza – come l'orizzonte intrascendibile. Se «la conoscenza non consiste nel cogliere l'individuo, che solo esiste, nella sua singolarità, la quale non ha importanza, ma nella sua generalità, l'unica di cui ci sia

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scienza»15, allora fare fenomenologia, intuire delle datità pure, significa abbandonare ogni pretesa di sviluppare una teoria della conoscenza, per tematizzare (fallendo, giacché «l'etica non può formularsi»16) una a-teologia. Di certo questa paradossale (non)esperienza, che si pone ai limiti del mondo, può intendersi solo sulla base di una dialettica negativa (e di una teologia negativa). Salvezza, dialettica negativa e teologia negativa fanno tutt'uno, contrapponendosi ad ogni opzione sistematica e positiva volta a risolvere in ultima analisi ogni cosa, compresa la possibilità di una emancipazione dalla violenza, nel concetto. Non rivolgendosi al mondo, ma stando sulla frontiera, la filosofia non sviluppa questioni risolvibili, giacché ciò che è risolvibile è risolvibile dal concetto, stando nel mondo: «Il senso del mondo deve essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore»17. Potremmo dimostrare che Dio esiste aut non esiste se e soltanto se Dio fosse un oggetto (stesse nel mondo), ed in questo caso la teologia sarebbe una scienza (giacché la peculiarità delle scienze rispetto alla filosofia è che le scienze si occupano del mondo, e per questo sono risolvibili all'interno di un paradigma posto a priori). Ma se Dio non sta nel mondo, allora non ha senso chiedersi se Dio ci sia o non ci sia, giacché nel caso non ci si occupi dei fatti (non ci si occupi del mondo) l'orizzonte concettuale di riferimento sarà qualcosa del tipo “la vergine è madre”, e “la madre è figlia di suo figlio” o, in modo ancora più radicale, “concettualizziamo l'alterità rispetto al concetto”. In opposizione a ciò, il positivista ingenuo dirà che queste espressioni sono da accantonare, in nome degli enunciati propri delle scienze dure, gli unici degni di essere considerati. Al positivista ingenuo replichiamo che il soggetto empirico non è il soggetto trascendentale, ossia che la posizione per la quale le scienze dure sono tutto ciò che conta non è avvalorata da un fatto del mondo, ma da un atto di fede che sta ai limiti del mondo, e che è analogo a quello per il quale “la vergine è madre”. 2. Dante e Leopardi Cerchiamo di rendere esplicito quanto detto sinora, prendendo sommariamente in 15

Lévinas E., En découvrant l'existence avec Husserl et Heidegger (1974), trad. it. a cura di F. Sossi, Scoprire l'esistenza con Husserl e Heidegger, Milano, Raffaello Cortina, 1998, p. 193. 16 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.421. 17 Ivi, 6.41.

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considerazione la lettura che Severino dà di Leopardi e di Dante, lettura che andremo svolgendo compiutamente nel corso di questo lavoro. Leopardi è inteso da Severino come colui che con particolare acume riesce a guardare in faccia l'inconscio della metafisica, l'essenza del nichilismo. Leopardi vede infatti che l'essente è destinato a cadere nel nulla, che in ultima istanza è destinato ad identificarsi con il nulla. Ma il nulla è radicalmente imprevedibile, e là dove non c'è possibilità di previsione, non c'è nemmeno possibilità di esercitare un dominio su ciò che non è prevedibile. Identificando l'essente con il nulla, Leopardi fa una mossa teoretica volta a fare cadere nella totale impotenza chi prende coscienza di essa. E tuttavia il geonio leopardiano, nel vedere l'identificazione dell'essente con il nulla, è salvo, riceve «vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte» 18. Tale salvezza non deriva dal contenuto (filosofico) del canto, ma dall'eccedenza negativa rispetto a quel concetto (dialettica negativa) che permette di tematizzare discorsivamente tale identificazione dell'essente con il nulla, eccedenza che si mostra nel discorso filosofico stesso, che si mostra attraverso il contenuto filosofico del canto. Indichiamo con il termine “poesia” l'orizzonte (non)concettuale volto a (non)occuparsi – cioè a tentare di occuparsene, fallendo – di questa eccedenza. Con questo lavoro si intende sostenere che il passaggio dalla pars costruens alla pars destruens è – a differenza di quanto ritiene Severino, per il quale la seconda va a fondarsi sulla prima – un passaggio del tutto discontinuo tra una dialettica positiva (tutta interna al concetto), e per questo alienante, ad una dialettica negativa, tra il concetto e quell'eccedenza negativa che si mostra nel concetto, che si mostra nel mondo pur eccedendolo negativamente. Questa tematica della dialettica negativa, così bene sviluppata da Severino (che poi ne rifiuta gli esiti più radicali) nella sua prima monografia su Leopardi, è stata accennata dallo stesso filosofo bresciano parlando di Dante. Il cristiano Dante, proprio in quanto cristiano, non sa ancora guardare direttamente in faccia l'inconscio della metafisica dell'Occidente, infatti il contenuto (filosofico) del suo canto non afferma l'identità dell'essente con il nulla, e può allontanare questa identificazione proprio in quanto, a suo avviso, Dio dà salvezza (dal nulla) a ciò che si annulla. E tuttavia, osserva Severino, nel suo inconscio (che è l'inconscio del Cristianesimo, ossia l'inconscio dell'Occidente nichilistico) già Dante sa che Dio non salva, che l'essente è destinato a cadere nel nulla, che è un nulla esso medesimo, e che Dio stesso è nulla. Proprio in quanto già il Cristianesimo – nelle sue massime espressioni – inconsciamente 18

Leopardi G., Zibaldone di pensieri, a cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 2014, p. 261.

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identifica l'essente con il nulla, e dunque nega la possibilità della salvezza che per il nichilismo consiste nella possibilità di esercitare la potenza sugli essenti che ci circondano, il Cristianesimo non può soffermarsi soltanto sul contenuto filosofico del canto cristiano, bensì deve guardare a quella eccedenza rispetto al simbolo19 che si mostra negativamente nello stesso discorso nichilistico. In definitiva, Dante sa che « Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva»20. Già con Dante, sia pure in modo non esplicito, da dentro la scacchiera del nichilismo

la metafisica dell'Occidente sa che la salvezza non consiste nel cantare per rivolgersi al divino (che è il contenuto epistemico del canto), bensì nel rivolgersi al divino per cantare quell'eccedenza che nel contenuto del canto si mostra, e che lo eccede negativamente. Tale eccedenza è l'ultima forma di illusione, una illusione non simbolico-concettuale, che si mostra quando ogni altra illusione (epistemica) è venuta meno. Questa eccedenza, che Severino identifica con la forma del canto (il profumo della ginestra), è ciò che sta al di là del discorso (di ogni discorso, di ogni risolvimento positivo), e che per questo dà salvezza, mostrandosi nel discorso nichilistico. Questa eccedenza negativa è la (non)esperienza non concettuale del mondo, e salva proprio nella misura in cui non fa violenza sul mondo, in quanto non lo perde, identificandolo al di sotto del concetto. E tuttavia il mondo è tale in quanto è il mio mondo (questa, come già si è detto, è la posizione che più radicalmente incarna lo spirito del nichilismo, in quanto permette di giustificare nel modo più radicale la nozione di “prassi” così come è intesa dal nichilismo), cioè è ciò che sta sotto alle mie categorie, in quanto è per me quell'insieme di simboli che sono il mio mondo. Il concetto etichetta e mutila, perde il nonidentico non appena lo dice: il “che” del mondo è perduto, diventa un “come”, non appena viene detto, giacché viene violentato dal concetto («Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò ch'è più alto. Dio non rivela sé nel mondo»21): ciò che è altro dal pensiero si presenta sempre come un pensato, a meno che al limite non si intenda la (non)esperienza del mondo come tutto ciò che si dà (negativamente) come eccedenza rispetto al concetto: «La contraddizione, che tanto sconcerta il modo di pensare ordinario, deriva dal fatto che dobbiamo usare il linguaggio per comunicare la nostra esperienza interiore, la quale per sua stessa natura 19

Possiamo indicare questa eccedenza negativa rispetto al concetto con il termine “Dio”, solo ammettendo che il Dio così inteso non abbia nulla a che spartire con il Dio cristiano, che è un Dio simbolico perché calato entro le categorie (ontologiche) mediante le quali è compreso. 20 Severino E., La potenza dell'errare. Sulla storia dell'Occidente (2013), Milano, Rizzoli, 2014, p. 25, corsivo mio. 21 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit.,6.432.

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trascende la possibilità della lingua»22. Ciò che si dà nella mancanza, il non-identico, non deve essere inteso come un ideale regolativo che al limite si realizza nel mondo, essendo il nonidentico quella (non)esperienza che nega la realtà (essendo la realtà sempre imbrigliata nel simbolo), in quanto realtà-per-un-soggetto (realismo=solipsismo). Per dirla in altri termini: la volontà di costruire in terra una Gerusalemme Celeste è ancora tutta interna alla nozione nichilistica di “prassi”. Nonostante Severino, parlando di Leopardi, paia dare un grande peso alla dialettica negativa così come è stata esplicitata fino a questo momento, c'è da dire che egli, nei suoi scritti teoretici, pare perdere di vista questa dialettica negativa, concentrandosi sulla dialettica interna al concetto, dialettica positiva sulla quale prospera la sua ontologia. Nella pars costruens dei suoi scritti, ponendo l'accento su questa dialettica positiva, Severino cerca di tematizzare la sua resistenza concettuale alla alienazione nichilistica stando all'interno del discorso che testimonia il destino della necessità, sostituendo il discorso alienante (il nichilismo) ad un discorso a suo avviso non alienante. Ma chiediamoci: è davvero possibile uscire dalla alienazione nichilistica, evitare di perdere il non-identico rimosso, mediante il concetto, cioè stando dentro all'orizzonte del discorso (sia pure un discorso altro rispetto al discorso della metafisica occidentale)? È con questo Severino filosofo della parola e detrattore del silenzio (un silenzio non simbolico) che ho cercato di dialogare in questo lavoro, nella convinzione che si debba emendare il rigido sistema severiniano, e che per fare ciò si debba sviluppare una dialettica negativa che, attraversando la scacchiera del nichilismo, possa dare ragione della salvezza, eccedendo negativamente il discorso alienante del nichilismo da dentro il nichilismo medesimo (ponendosi ai suoi limiti). Ci si propone insomma di togliere Severino dalla scala, mediante la pars destruens severiniana, da Severino stesso non compresa appieno nella sua portata emancipativa. 3. Poesia e ontologia L'obiettivo del presente lavoro è quello di individuare nel “discorso poetico” lo strumento con il quale l'Occidente (così come è inteso da Severino) in sé e per sé, giunto cioè al termine ultimo del suo percorso auto-costitutivo, deve confrontarsi, riconoscendolo come lo strumento 22

Suzuki D.T., Outlines of Mahāyāna Bugghism, New York, Schocken Books, 1963. p. 239, citato in Capra F., The Tao of Physics (1975), trad. it. di G. Salio, Il Tao della fisica, Milano, Adelphi, 1982, p.53.

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decisivo, del quale “già da sempre” l'Occidente inconsciamente si è servito. Il discorso poetico è ciò che permette agli abitatori dell'Occidente di oltrepassare la prassi nichilisticamente intesa dopo che l'Occidente è arrivato al punto massimo di auto-coscienza che può essere raggiunto stando all'interno delle categorie ontologiche sulle quali – e nel modo in cui – l'Occidente si è costituito. Cerchiamo di chiarire, in via preliminare, cosa si intende con la nozione di “poesia” così come verrà intesa in queste pagine. La poesia è da intendersi come l'ultima difesa dal contenuto della metafisica occidentale; la metafisica così come è stata sviluppata dall'Occidente (cioè come la condizione di pensabilità del divenire degli enti), andando ad identificare ente e niente, pur ricercando la possibilità del dominio sul mondo (che, in quanto dominabile, è qualcosa) proprio a partire da questa identificazione inconsciamente posta, giunge alla fine del suo percorso autocostitutivo (percorso che deve essere inteso come una presa di coscienza da parte dell'Occidente nichilistico che si realizza sul piano storico-filosofico) a decretare l'impossibilità dell'esistenza di un dominio di tal sorta. Traendo le debite conclusioni a partire dal sottosuolo dal quale inconsciamente prende le mosse, l'Occidente vede implodere la volontà di potenza che lo aveva sorretto per tutta la sua strada, e vede dischiudersi davanti a sé solo l'«abisso orrido, immenso» della noia. Il discorso poetico è ciò mediante il quale l'Occidente si difende dalla noia, ossia dal suo ultimo approdo, proprio nel momento in cui non rimane nulla al di fuori della noia medesima (non rimane nulla al di fuori del nulla con il quale l'Occidente identifica – in prima battuta inconsciamente – l'ente). In questo modo «l'anima [che è poi l'anima dell'Occidente, che trova espressione anzitutto nella speculazione filosofica] riceve vita (se non altro passeggera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria»23. A partire dal retroterra filosofico sul quale si sviluppa, il contenuto del discorso che su quel retroterra si basa non può che essere la negazione del discorso, la mortifera impotenza che si configura anzitutto come negazione dell'azione, della prassi che è liberazione dalla contraddizione laddove la contraddizione, per l'Occidente nichilistico, non si auto-nega originariamente nel momento in cui è posta, e per questo deve essere tolta mediante la prassi (che è liberazione). È in questo contesto che va riconosciuto il ruolo della poesia: da dentro questo orizzonte nichilistico la poesia rappresenta la salvezza in quanto rappresenta l'altro dal contenuto del discorso che non va tuttavia a trascendere le categorie ontologiche (nichilistiche) 23

Leopardi G., Zibaldone, cit., p. 261.

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che permettono quel discorso. Con ciò si vuole dire che la poesia non è esterna alle categorie ontologiche che stanno a fondamento del contenuto del discorso nichilistico – e che intendono l'ente come δύναμις τοῦ ποιεῖν καὶ τοῦ πάσχειν ossia, in ultima istanza, come niente –, e tuttavia la poesia è altro dal contenuto di quel discorso, pur muovendosi all'interno dell'orizzonte del nichilismo. L'enunciazione non si risolve mai nel referente di ciò che è enunciato. Se il dire, per l'Occidente nichilistico, ha sempre come suo contenuto l'essente che si identifica con la sua negazione (ossia con il nulla di quell'essente che non viene originariamente tolto nella misura in cui è posto, come sostiene invece l'ontologia severiniana), il dire non si identifica con tale contenuto, ma lo eccede in quanto il dire eccede il suo contenuto. La poesia è questa eccedenza, che è la forma del discorso nichilistico. La poeticità del discorso è una eccedenza salvifica in quanto essa, pur non riuscendo a travalicare l'orizzonte entro il quale il contenuto del discorso viene concepito (l'orizzonte del nichilismo, che intende più o meno consapevolmente l'essente come «solido nulla»), indica il momento formale che consente di esprimere il contenuto espresso nel discorso nichilistico. Ciò che, nel discorso nichilistico, non è il contenuto del dire, è la forza che solleva al di sopra della verità nichilistica che questo contenuto porta con sé, pur senza travalicare la scacchiera entro la quale viene disputata la partita del nichilismo. Intendere la poesia in questo modo non significa però aderire a prospettive “positive” alle quali si sarebbe portati – sbagliando – a fare alcune concessioni. La prima di queste concessioni consiste nel fatto che si possa affermare un qualche cosa di esistente, al di là del nulla contenuto nel discorso: ciò non è possibile, in primo luogo a causa della alterità della poesia rispetto al contenuto del dire, ed in secondo luogo a causa del fatto che la poesia, come si è detto, è concepibile entro le categorie nichilistiche dell'Occidente, e quindi non le trascende. Questa prima concessione – che va evitata – è collegata ad una seconda, altrettanto fuorviante, per la quale, dato che la poesia è il non detto del discorso, e che il non detto è sempre parte costitutiva del discorso medesimo, e dato che questo non detto è la componente salvifica del discorso, allora si dovrebbe impegnarsi a dire il non dicibile. Anche questo secondo rilievo va scartato: la volontà di dire ciò che non può essere detto è più vicina – se ci è concesso esprimerci in termini moralistico-psicologici, e dunque solo metaforici – alla ribellione adolescenziale, che non alla riflessione filosofica. Cercare di andare oltre il simbolo, cercare di raggiungere, al limite, quel silenzio che non è più simbolico (laddove il silenzio attonito, o il silenzio rabbioso, o il silenzio di “Quattro 22

minuti e Trentatré secondi” che, anche se fosse silenzio, sarebbe Verbo, non sono casi del silenzio non simbolico che la poesia così come è intesa in questo lavoro mira a raggiungere), è una impresa che qui si vuole demandare a quella “prassi radicale” che è la poesia. Scrive Umberto Eco: «I Poeti assumono come proprio compito la sostanziale ambiguità del linguaggio, e cercano di sfruttarla per farne uscire, più che un sovrappiù di essere, un sovrappiù di interpretazione. La sostanziale polivocità dell'essere ci impone di solito uno sforzo per dar forma all'informe. Il poeta emula l'essere riproponendone la vischiosità, cerca di ricostruire l'informe originario, per indurci a rifare i conti con l'essere»24. D'accordo, se non fosse per il fatto che qui Eco intende, con la nozione di “poeta”, l'artista in generale («assumiamo pure Poesia e Poeta come sineddochi per Arte e Artista»25). Con questo lavoro si sosterrà invece che per fare implodere – al limite – il linguaggio (tanto il linguaggio oggetto della scienza, quanto il metalinguaggio filosofico), per allontanare il simbolo, ci si deve servire proprio di quel linguaggio filosofico che, ponendosi ai limiti del mondo, tocca (negativamente) l'alterità, sperimentando l'esigenza dell'alterità, quella esigenza che invece il pensiero intellettuale non sa scoprire, trovandosi quest'ultimo sempre a contatto con il già noto, e mai ai limiti del mondo. Tutto ciò ha ovviamente del paradossale, giacché non è possibile saltare al di là della propria ombra, non è possibile vedere l'occhio che vede il campo visivo stando nel campo visivo ed al contempo essere sicuri che proprio quell'occhio sia ciò che permette di vedere ciò che sta nel campo visivo. Tutto si riduce al mio mondo, ed il mio mondo è sempre simbolicamente orientato, ed anche il silenzio ha un carattere simbolico, nella misura in cui si dà nel mio mondo, nei modi e nei limiti in cui si dà Identificare idealismo e realismo, far coincidere il mio mondo con la totalità del reale (che è sempre costituito simbolicamente), significa al contempo (al limite) riconoscere la necessità di oltrepassare il simbolico. Saltare al di là della propria ombra, significa affermare la poesia; ed al limite solo il filosofo – e non l'artista – può intendere questa esigenza, può sforzarsi di porla in atto, giacché solo il filosofo, trovandosi invischiato in una dialettica mai risolta (che coincide con la stessa vocazione metalinguistica del filosofare), fa la non esperienza della alterità, sente cioè l'esigenza di liberarsi del linguaggio. Ma giacché per fare emergere la poesia bisognerebbe negare il simbolo, e giacché il mio mondo è costituito simbolicamente, non è possibile fare 24 25

Eco U., Kant e l'ornitorinco (1997), Milano, La nave di Teseo, 2016, p. 51. Ivi, p. 49.

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emergere la poesia negando il mondo. La poesia, quindi, non potrà che emergere negativamente, manifestandosi tra le righe del discorso che, cercando sempre e di nuovo di implodere su di sé, mostra in controluce quell'anima del discorso che è la poeticità del discorso, la sua potenza non più tecnica. Essendo l'oggetto di questo discorso la poesia, quindi il silenzio contro il rumore di fondo, cioè la forma contro il contenuto del discorso, ci si trova nell'imbarazzo di dover dare conto del silenzio con le parole. Problema trito e ritrito, questo, sul quale si dovrà costantemente ritornare nel corso di questo lavoro. Vale la pena sottolineare che questo è uno dei problemi fondamentali della filosofia, intesa nell'unico modo in cui può essere intesa dal punto di vista nichilistico, cioè come una dialettica (negativa). La filosofia è dialettica negativa in quanto l'irrisolvibilità del suo discorso deriva anzitutto dal fatto che questo discorso è in continua osmosi con il silenzio, l'ente con il suo totalmente altro: dire l'essere del niente o dire la sua radicale negazione è sempre un dire l'essere e il niente, cioè perdere l'essere (e perdere il niente) nella misura in cui li si dice, li si categorizza. Relazionare cose diverse significa porsi sul limite che si costituisce tra queste cose, e porsi sul limite significa, dialetticamente, porsi il problema di far parlare il silenzio che abita la frontiera26. Anche dopo avere raggiunto la prassi radicale – ossia quella prassi radicalmente altra dalla prassi nichilistica alla quale si può accedere, stando entro la terra isolata dalla verità, proprio per mezzo della forma poetica del discorso – saremo comunque condannati a rinunciare 26

Riconoscere che la filosofia è dialettica negativa significa riconoscere il valore metalinguistico della filosofia. La scienza, infatti, essendo un linguaggio oggetto, non è dialettica, è risolutiva, per quanto storicamente vada progredendo, vada cambiando “paradigmi”; la scienza, rivolgendosi al mondo, sviluppa dei paradigmi che vengono risolti dal mondo, in quanto i suoi risultati vengono verificati o falsificati “definitivamente” guardando al mondo. La filosofia ha invece un valore metalinguistico: non si rivolge al mondo, vuole forzare i limiti del linguaggio. Le proposizioni filosofiche sono insensate nella misura in cui non possono essere né verificate né falsificate mediante l'esperienza; anche se potessimo giungere alle vette del sapere, le proposizioni filosofiche rimarrebbero né vere né false, aperte costantemente ad una antinomia irrisolvibile. Severino, volendo intendere la filosofia come un che di risolutivo, dimentica la natura antinomica della filosofia, e quindi dimentica il suo legame con il silenzio. Il silenzio è infatti l'antitesi di quella tesi (la parola) la cui dialettica costituisce la più radicale forma di irrisolvibile alterità: quella tra il concetto e l'extraconcettuale, quella sussistente tra il mondo e ciò che mondo non è, quella sussistente tra la la forza nichilistica del linguaggio e la salvezza che si mostra nel silenzio. È, questo, lo stesso problema che induce Alice a bastonare il tempo, cioè a relazionarsi con lui in modo così sgraziato da farlo urlare di dolore, lui che con il dolore, e quindi con l'estensione, non c'entra proprio nulla: «“ Mi pare” – disse Alice – “che dovreste spendere meglio il vostro tempo, invece di starvene a proporre indovinelli che non hanno risposta”. “Se tu conoscessi il tempo come me”, – rispose il Cappellaio – “non parleresti di perderlo. È lui che fa così”. “Non capisco” – disse Alice. “Lo so che non capisci!” – disse il Cappellaio, scuotendo la testa con aria sprezzante. “Scommetto che non hai mai parlato col Tempo!” “Non mi pare” rispose Alice prudentemente. “Ma so che quando studio musica debbo batterlo”. “Adesso capisco!” – disse il Cappellaio. “Ma tu lo sai, almeno, che lui non sopporta di essere battuto?”» (Carroll L., Alice's Adventures in Wonderland, trad. it. di T. Giglio, Alice nel paese delle meraviglie, Milano, Fabbri, 1999, pp. 89-90).

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all'onnipotenza della dialettica negativa (eccedente il discorso), non appena l'orizzonte del discorso ci si faccia presente con la sua impalpabile foga identitaria. La filosofia, essendo una impalpabile linea di confine, non può che avere una vocazione dialettica, dato che la linea di confine riceve una sua concretezza solo per mezzo di ciò che quel confine costituisce; la filosofia è dialettica in quanto irrimediabilmente antinomica. Il discorso filosofico è essenzialmente dialettico a causa della natura metalinguistica della filosofia; se la filosofia si rivolgesse al mondo (se la filosofia fosse un linguaggio oggetto), allora la filosofia presenterebbe degli enigmi sempre risolvibili (potenzialmente) mediante un confronto con il mondo. Ogni proposizione scientifica (in senso ampio), cioè ogni proposizione del linguaggio oggetto, proprio in quanto si confronta con il mondo, è vera-falsa (va poi detto che il mondo non è un che di rigido da rispecchiare passivamente, bensì è sempre simbolicamente orientato, giacché il mondo delle scienze naturali è un altro mondo rispetto al mondo delle scienze dure; e tuttavia, una volta stabiliti i paradigmi condivisi mediante i quali il mondo viene categorizzato, il mondo si impone come una alterità volta a dare senso alle proposizioni scientifiche, che con il mondo non possono non confrontarsi). La filosofia, invece, ha una vocazione metalinguistica, in quanto non si rivolge al mondo, ma anzi vuole sabotare il mondo (vuole sabotare il linguaggio), usando un apparato categoriale condiviso per farlo saltare, e non per categorizzare (dire e dominare) il mondo mediante quello stesso apparato categoriale, come invece fa la scienza. In questo senso le proposizioni filosofiche, non riferendosi al mondo, sono insensate, non sono enigmatiche, non sono vere-false, in quanto non possono essere verificate o falsificate mediante un confronto con il mondo. Filosofare significa fare implodere il pensiero su di sé, indicando l'ineludibilità di questa irresolutezza: per dire “che” il mondo è, bisogna perdere questo “che”, dicendolo, cioè categorizzandolo. Il “che” della filosofia diventa il “come” della scienza nella misura in cui è detto; e dato che la filosofia non può non servirsi di un apparato simbolico-categoriale, la filosofia non può che essere destinata al tradimento del suo compito, che è quello di scrollarsi di dosso il linguaggio, di scrollarsi di dosso la violenza. Severino non comprende che le proposizioni filosofiche, non riferendosi al mondo, non possono uscire dalla loro situazione antinomico-dialettica; affermando in modo risolutivo la necessità del mondo, Severino trasforma la filosofia in un linguaggio oggetto, e così facendo le fa perdere quella vena dialettica (negativa) mediante la quale soltanto può mostrarsi quella possibilità di trascendere la parola per mezzo della parola 25

stessa. È proprio questo mancato riconoscimento della vocazione metalinguistica della filosofia che impedirà a Severino di intendere fino in fondo quella nozione di poesia che in queste pagine verrà tematizzata, a partire da alcune riflessioni severiniane che tuttavia già nella prospettiva che qui si tenterà di tracciare intendono muoversi. Il merito della dialettica filosofica consiste nel fatto che solo la dialettica ha potuto farsi carico delle angustie della parola senza però trovare risoluzione nell'affermazione di un contenuto positivo e pacificato. Solo nel franare del contenuto del discorso trova spazio la prassi radicale alla quale si accede mediante la mossa poetica, e solo mediante una dialettica negativa si può scorgere questo franare. Il merito di Adorno consiste nell'aver riconosciuto che «la dialettica è sì riferimento alla totalità, giacché è la totalità del mondo che si tratta di trasformare; ma la totalità non è mai “pacificata”, ossia non è e non potrà mai essere un ordinamento definitivo (epistemico) che, credendo di aver superato ogni contraddizione, si impone al divenire, assumendolo come razionale e conferendo una giustificazione apparente a ciò che nel divenire reale è invece irrazionale, ingiustificabile, disorganico, contraddittorio»27. La tesi che si andrà sostenendo sarà volta ad affermare il valore salvifico ed ineliminabile della poesia – della forma del discorso – senza per questo perdere di vista l'intrascendibilità del (non)discorso che concede la salvezza derivante dalla atopica prassi poetica (atopia che deriva dal fatto che la prassi poetica è interna allo scacchiere della metafisica, ma estranea alla prassi nichilistica che muove il discorso metafisico nella sua interezza). Questo lavoro intende mostrare per quali ragioni sia salvifico quell'elemento interno e al contempo estraneo alla metafisica severinianamente intesa che è la poesia. Vedremo che il modo adeguato di intendere ontologia e poesia all'interno del nichilismo non può che essere quello di una dialettica negativa giacché solo la dialettica negativa può dare ragione della tematica – tanto cruciale quanto sfuggente – del silenzio. La riflessione sulla poesia necessita, come si è visto, di prendere in esame due nozioni fondamentali: quella di “dialettica” e quella di “ontologia”. La riflessione ontologica necessita innanzitutto di scontrarsi con il problema dei limiti e dei modi di comunicare che intercorrono tra generi differenti: non c'è ontologia senza sintassi, il che significa, adornianamente, che non c'è la cosa senza il rischio di perdere la cosa, dicendola; per la sola ragione che la cosa può 27

Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea (1996), Milano, BUR, 2010, pp. 399-400.

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essere perduta (nella misura in cui viene categorizzata), la cosa può essere intesa come un dato positivo. Tale riflessione ontologica della quale la poesia, ribadiamolo, deve essere considerata come la più profonda espressione (proprio per il fatto che essa sta alla fine del percorso che porta alla presa di coscienza da parte dell'Occidente della sua essenza, che è l'essenza del nichilismo), è ad avviso di chi scrive la riflessione fondamentale della filosofia, non solo perché – come ritiene lo stesso Severino – non c'è buona filosofia pratica che non si sia preventivamente scontrata con la problematica ontologica, ma soprattutto perché tutta la riflessione, non certo solamente filosofica, che la cultura occidentale è andata sviluppando, non ha mosso un passo al di fuori del riconoscimento che la riflessione ontologica sviluppata dall'Occidente ha imposto. Un pensiero, questo, che ad avviso di Severino deve essere inteso come il pensiero fondamentale dell'Occidente in quanto, questo pensiero, è ignaro dell'inconscio del suo inconscio (della «struttura originaria»). Tale pensiero fondamentale è quello che intende l'essente come δύναμις τοῦ ποιεῖν και τοῦ πάσχειν28, e l'essente così inteso è espresso dalla struttura della «κοινονία τῶν γενῶν». Il cerchio si chiude poiché è proprio la struttura della κοινονία τῶν γενῶν ad incarnare l'essenza stessa della ontologia nichilistica. Una ontologia che è assieme una dialettica negativa, fondata sul riconoscimento della essenziale apertura dell'ente al suo altro, laddove per “alterità” si intende sì quell'ente che è altro da sé ma anche, e soprattutto, ciò che da sé è alterità assoluta (il nulla assoluto). Il contenuto senza la forma determina il crollo del nichilismo sotto la sua stessa fede, atta ad identificare il contenuto del suo discorso con il nulla (nulla assoluto che è negazione anche del silenzio, giacché è negazione della vita). Collassando su di sé, il nichilismo trova l'ultimo «quasi rifugio» nella poesia, che si afferma con forza proprio attraverso questo collassare, proprio attraverso l'eccedere questo collassare, senza però trascenderlo, senza cioè trascendere le categorie ontologiche che determinano questo collassare. Sulla base di queste premesse si deve ricavare che la poesia deve essere intesa come il luogo in cui questa fede – che è la fede nel nichilismo, nel divenire dell'ente – si rivela con la massima trasparenza, alla fine di un percorso che si configura come una progressiva acquisizione di autocoscienza. La trasparenza che la poesia porta in superficie coincide con l'eliminazione del rumore di fondo che non permetteva un'adeguata comprensione della questione fondamentale, ossia della questione ontologica atta ad identificare essere e nulla. Lo 28

Cfr. Platone, Sofista 247d-e.

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stare nel rumore di fondo (il bearsi degli eterni, pur riconoscendo il divenire come evidenza originaria) significa stare nella non comprensione delle cose nel senso in cui esse sono intese dall'Occidente. La poesia coincide con la comprensione delle cose nichilisticamente intese (intese come nulla, come non-cose), a partire dalla fede nelle categorie ontologiche attraverso le quali le cose sono intese dai mortali. Di qui la connessione tra poesia, ontologia e silenzio. Una nuova forma di prassi emerge mediante la poesia, che coincide con la desacralizzazione del rumore di fondo e con l'estirpazione di esso, e che per permettere la prassi riesce a non crollare sotto il peso delle macerie (gli eterni), che sono tali in quanto hanno patito un'opera di distruzione attuata dal processo di autocostituzione e di coerentizzazione dell'Occidente che si dà sul piano storico-filosofico. Questo è il punto sul quale vorrei distanziarmi da Severino: la possibilità della emancipazione, la “prassi radicale” che salva ponendosi al di là della prassi nichilistica (ponendosi al di là della volontà di potenza che attraversa l'Occidente) è possibile stando all'interno (ai limiti) del pensiero nichilistico stesso. Cercare la salvezza rovesciando il tavolo del nichilismo mi pare porti invece a raddoppiare i problemi, invece di risolvere quelli di partenza: possiamo forse salvare l'umano voltando le spalle all'umano?29 Il legame tra poesia e silenzio è stato messo in evidenza in un passo interessante de L'uomo a una dimensione, dove Marcuse sostiene l'evidenza del fatto che «l'arte come conoscenza e anamnesi dipenda in grande misura dal potere estetico del silenzio; il silenzio del dipinto e della statua; il silenzio che permea la tragedia; il silenzio entro il quale si ascolta la musica» 30. Eppure la tragedia greca, stando all'inizio del percorso di autocoscienza dell'Occidente che è la filosofia (Eschilo è per Severino colui che apre la strada al Sentiero della Notte), è piena di quel rumore di fondo che si dovrà combattere per acquisire sempre maggiore autocoscienza. Per Marcuse il silenzio, con il quale ha a che fare l'estetica, è il dolore, che in quanto tale è muto, impossibile da razionalizzare. Dare sintassi al grido significa fare una violenza all'ingiustizia rimossa, ma al contempo significa ribadirne la presenza. Mi sento di condividere come punto di partenza questa posizione di Marcuse. Il rumore di fondo non esclude infatti il silenzio, che “già da sempre” domina l'agire teorico e pratico di chi dovrà pervenire al riconoscimento di quel silenzio, anche se proprio quel riconoscimento consiste nella negazione 29

Questo problema, così significativo, verrà ripreso in modo più articolato nella Conclusione a questo lavoro. Marcuse H., One-dimensional man. Studies in the ideology of advanced industrial society (1964), trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, L'uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1991, p. 141. 30

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dell'agire così come è stato inteso (nichilisticamente) fino a quel momento e che ha portato a quello stesso riconoscimento. Si renderà chiaro il significato di queste affermazioni, per ora necessariamente ermetiche, solo nel corso del lavoro. Per ora vale comunque la pena sottolineare che il contenuto del poetico, il contenuto estetico del discorso ontologico che qui si va facendo (se proprio una estetica, per quanto trasfigurata, deve essere ritrovata) consiste nel silenziare il paradiso. Ed il paradiso è ciò che permette l'azione, la tecnica: il paradiso dei cristiani, il paradiso degli scienziati, il paradiso di un certo marxismo, è il rumore di fondo. La poesia, che anima quel rumore di fondo, una volta rimasta sola, nel silenzio del nulla assoluto con il quale il nichilismo identifica tutto, potrà dare testimonianza della follia di quel paradiso (senza però poter dare testimonianza della follia sua propria – direbbe Severino, non riconoscendo in questo modo la necessità di radicalizzare la dialettica essere/non essere, in nome di quella che riguarda il rapporto dire/mostrare –, non riuscendo la poesia a portarsi al di là delle categorie ontologiche delle quali l'Occidente si serve). Il discorso che si va facendo in via preliminare si presta ad essere frainteso in modo grossolano: la poesia, si potrebbe dedurre erroneamente, è ciò che nega la tecnica, ossia la poesia è il discorso autoreferenziale che l'anima bella fa sulla poesia, chiudendosi al mondo. Vedremo che non è così, vedremo anzi che – per usare una terminologia solo superficialmente marcusiana – l'unica prassi radicale (intesa nella sua radicale assenza di prassi) può essere attuata silenziando il rumore di fondo della tecnica, agendo in modo liberatorio, solo contentandosi dei deserti (quei deserti che non figurano nella ontologia severiniana, la quale si afferma rovesciando il tavolo del nichilismo affermante il deserto); la prassi radicale, infatti, non è «un prodotto teorico dell'uomo o di Dio, ma il luogo già da sempre aperto della Necessità»31, laddove per “necessità” si deve però intendere non quella che nega i deserti, bensì quella che porta – antiseverinianamente – alla luce l'ineludibilità dei deserti, e proprio su questa ineludibilità fonda una possibilità di emancipazione. L'uomo, proprio in quanto destinato «alla più ampia arcata dell'Immenso»32, «è destinato all'oltrepassamento della logica del potere e della

violenza»33,

osserva Severino; ma

per lui

questo

oltrepassamento implica

l'oltrepassamento del nichilismo laddove in queste pagine si cercherà di mostrare come la 31

Severino E., La struttura originaria (1958), Milano, Adelphi, 1981, p. 13. Severino E., Oltrepassare, Milano, Adelphi, 2007, p. 699. 33 Brianese G., L'ontologia anarchica di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», 03 (2014), p. 30. 32

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salvezza – la negazione della prassi nichilistica – possa darsi all'interno delle categorie del nichilismo medesimo. La prassi radicale è la prassi di chi, uscito dall'illusione della salvezza “creatrice” che conferirebbe il Dio cristiano o il paradiso della tecnica, comprende che l'unica salvezza è quella salvezza che «“salva” dai salvatori e dai creatori» 34. Tale prassi radicale non permette però di oltrepassare la scacchiera entro la quale si gioca il gioco del nichilismo. Lo stesso Brianese, il quale ha cercato di fondare, a partire dalla ontologia severiniana, una etica ed una prassi «non nichilisticamente connotate, le quali dovrebbero portare con sé, di necessità, anche la possibilità di un significato non nichilistico dell'“agire”; ossia la possibilità di un agire non governato dalla volontà di trasformare»35, è disposto a riconoscere che Severino potrebbe non condividere la possibilità di fondare teoreticamente una prassi non contraddittoria («Dubito che Severino possa essere d'accordo con me» 36, scrive Brianese; infatti per Severino la filosofia futura, la filosofia che oltrepassa la scacchiera del nichilismo, esce dalla logica della volontà di potenza mostrando che «l'angoscia dell'uomo e il tentativo di trovare rimedio contro di essa sono eventi che appartengono al contenuto della follia – gli incubi della follia»37), dato che gli scritti di Severino «non si rivolgono più all'“uomo”, non gli prescrivono un compito, non gli assegnano una meta, non gli dicono che cosa debba fare, non gli suggeriscono una norma di vita o un ideale, non sono uno strumento teorico per guidare e illuminare la prassi: il proponimento di far tutto questo è legato alla volontà di separare la terra dal destino e di farne l'oggetto del dominio»38: «la parola “destinazione” allude a un discorso che non “dà consigli”, non dice ai popoli che cosa devono fare […], ma mostra che cosa i popoli sono destinati a volere»39. Possiamo dire che, seguendo Severino, la proposta di Brianese di fondare, a partire dalla ontologia severiniana, un'etica (una prassi) non nichilistica, non può essere percorsa; qui si è cercato di fondare – con Brianese e contro Severino – una prassi non nichilistica stando però, contro Brianese, all'interno (ai limiti) della scacchiera del nichilismo. L'ideologia, qualunque essa sia, e la tecnica della quale essa si serve (o meglio, della quale essa crede di servirsi, dato che è l'ideologia, in ultima istanza, a dovere essere considerata come

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Severino E., Oltre il linguaggio, Milano, Adelphi, 1992, p. 26. Brianese G., “Agire” senza contraddizione, in «La filosofia futura», 01 (2013), p. 22. 36 Ibidem. 37 Severino E., La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire (1989), Milano, Rizzoli, 2014, p. 16, corsivo mio. 38 Severino E., Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Roma, Armando, 1978, p. 111, corsivo mio. 39 Severino E., Capitalismo senza futuro, Milano, Rizzoli, 2012, pp. 6-7. 35

30

mezzo del quale la tecnica si serve per incrementare sempre più la potenza distruttiva, potenza verso la quale la volontà di potenza dell'Occidente ripone ottusamente la propria fede, scambiando questo accrescimento illimitato di potenza come unica possibilità per la salvezza) è spinta verso un incremento sempre più radicale delle proprie potenzialità tecniche, potenzialità che non possono che affermarsi anzitutto nella realtà del conflitto, un conflitto distruttivo tra ideologie. In molti suoi scritti realizzati prima della caduta del muro di Berlino Severino mette in evidenza come la prassi della ideologia comunista e di quella capitalista, condividendo il medesimo terreno di gioco, condividendo cioè le medesime categorie ontologiche poste dalla metafisica greca, non possono che continuare a scontrarsi e mirare alla distruzione reciproca, (fra)intendendo questo conflitto come l'unica possibilità per la salvezza. Le due ideologie, gonfie di metafisica e subordinate ai ciechi imperativi ipotetici della tecnica, non si rendono conto della possibilità della realizzazione della prassi radicale (cioè della affermazione della autentica poesia), non si rendono cioè conto che «rimane aperta la possibilità che lo scontro ideologico planetario tramonti […]. L'“ideologia” – anche la più pacifica e edificante – non critica l'autoaffermazione della volontà di potenza, ma critica l'“ideologia” antagonista che è riuscita a sua volta ad amministrare quell'autoaffermazione. […] La pura volontà di potere indefinitamente di più rimane dunque il fine al quale ogni ideologia ha interesse a subordinare i propri fini»40; «si profila il tempo in cui la volontà dell'Apparato d'incrementare indefinitamente la propria potenza prevarrà sui fattori ideologici che la frenano» 41. Tali ideologie si rendono conto di ciò perché l'alienazione che le domina non permette loro di prendere coscienza del fatto che l'unica possibilità per realizzare una autentica emancipazione consiste per Severino nella mossa di rovesciare il tavolo sul quale si sta giocando la partita, smettendo di perseverare nel gioco, in modo sempre più coerente (coerenza nell'incoerenza, s'intende).42 In questo lavoro si cercherà di mostrare invece come non sia necessario rovesciare il tavolo di gioco, per potersi emancipare. In un saggio di recente pubblicazione, pensando al rapporto tra la prassi e l'ontologia

40

Severino E., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Adelphi, 1988, pp. 42-43. Severino E., La filosofia futura, cit., p. 92. 42 Questo punto ci permette di fare subito un'altra precisazione importante: parlare di prassi radicale significa trasfigurare la politica in modo tale da renderla inapplicabile: non ha un valore costitutivo o “impegnato” la riflessione sulla prassi radicale, proprio perché di riflessione puramente speculativa si tratta. La politica viene dopo, senza peraltro che una necessità interna al discorso imponga il fatto che una politica abbia da esserci, per quanto spinta oltre. 41

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severiniana, l'autore si chiede: «C'è un fare che stia dalla parte non nichilistica dell'essere?» 43. La risposta a questa domanda va ricercata nel presupposto teoretico all'azione che, lungi dallo sminuire quest'ultima, ne implica, di riflesso, la necessità. Per l'autore del saggio tutto ciò può essere ravvisato in Essenza del nichilismo, dove si sostiene che «ciò che deve essere ripensato, rimesso in discussione e oltrepassato non è soltanto il senso astratto dell'essere, ma lo stesso “ἦθος dell'Occidente”; e Platone non ha solo commesso un errore teoretico nel reinterpretare nichilisticamente il senso dell'essere dopo Parmenide. Egli ha attuato un profondo gesto etico: per questo “Platone non fonda la teoria del “mondo”: fonda il “mondo”. A principi ontologici differenti corrispondono destini ontologici e politici diversi» 44. Non proprio una risposta, quella che l'autore ci offre. Nonostante la difficile risolvibilità della questione, e proprio a testimonianza dell'importanza della stessa, l'esigenza che lo spinge a formulare questa domanda – esigenza che guiderà questo lavoro e alla quale si cercherà di dare una risposta più circostanziata – viene ripresa anche da Messinese il quale, riflettendo sul problema della negazione della prassi nichilistica da parte di Severino, dice: si dovrà, forse, affermare che la verità dell'essere conduce alla negazione della “prassi umana” dall'orizzonte della verità? […]. Innanzitutto, è chiaro che la “totalità” teorico-pratica nella quale si determina compiutamente l'ente uomo deve essere criticamente vagliata alla luce della verità dell'immutabilità dell'essere e della possibile deriva nichilistica di una “prassi” dimenticata dalla suddetta verità. Severino, da parte sua, insiste sull'originario significato “nichilistico” della volontà che è all'opera della conoscenza interpretativa e nell'azione dell'etica. È proprio a partire da qui che egli è stato portato a vedere lo sviluppo della “struttura originaria” della verità non più nell'agire dell'uomo e nel suo destino ultraterreno secondo il paradigma cristiano, ma nell'apparire di ciò che egli chiama la “terra che salva”. 45

Messinese, nel passo ora citato, fa riferimento, come esempio sommo di tecnica, al Cristianesimo. Il Dio cristiano è il grande ποιητής, ancora più grande del Dio del quale Platone parla nel Timeo e nel libro X della Repubblica46. Al demiurgo Platone infatti pone limiti relativi 43

Mauceri L., La hybris originaria. Massimo Cacciari ed Emanuele Severino, Napoli-Salerno, Othotes, 2017, p. 16. 44 Ivi, pp. 16-17. 45 Messinese L., Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, Pisa, ETS, 2010, p. 62. 46 Cfr. Platone, Timeo 28a, cfr. Platone, Repubblica 597c-e. Cfr. Introduzione a Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, Milano, BUR Rizzoli, 2003, pp. 51-61.

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al modello in base al quale opera e al materiale del quale si serve; in fin dei conti Platone, facendo del sofista la stentata parodia di quel sofista cosmico che è il demiurgo – «costruttore e padre di questo universo»47, produttore di «tutti i viventi mortali e poi anche tutti i vegetali che sorgono in terra da semi semi e radici e tutti i corpi inanimati» 48 – in qualche modo prende le distanze da una foga tecnica alla quale pure dà, anzitutto nel Sofista, un solido fondamento ontologico. Il Cristianesimo, dal canto suo, andrà accentuando decisamente la tendenza inaugurata da Platone, volta a supportare l'anelito prassistico-nichilistico a partire dall'isolamento originario che la guida: «La fede che sta al fondamento di ogni fede è la separazione della terra dal destino della verità […]. E qualcosa come la “fede cristiana” è possibile solo sul fondamento di quella fede originaria che è la separazione della terra dal destino della verità»49. A fronte di una iniziale apertura – con Studi di filosofia della prassi – al Cristianesimo, Severino «ha pronunciato dei giudizi sempre più negativi nei confronti del cristianesimo, giungendo a ricondurre anch'esso pienamente nell'alveo della sua accusa di nichilismo e di isolamento dalla verità rivolta all'intera tradizione occidentale» 50. In Studi di filosofia della prassi, invece, si sostiene ancora «la possibilità che sia il cristianesimo storico a costituire la via verso la verità liberata o che sia esso stesso la soluzione, il volto definitivo della verità»51. Proprio in Studi di filosofia della prassi viene detto che «si può affermare l'esistenza della libertà […] una qualche dimensione dell'essere è contingente» 52. La libertà implica la contingenza – della non prevedibilità, caratteristica essenziale del divenire –, ossia implica la possibilità della prassi; ma la possibilità della prassi, sostenuta dalla fede nichilistica (e dunque anche cristiana) nel divenire degli enti è “Follia”. Per questo Severino esclude che la verità dell'essere possa implicare le nozioni di libertà e contingenza. Si tratta di riconoscere che, al di fuori della Follia del nichilismo, non si può che «agire non agendo, per dirlo al modo della sapienza cinese (o di agire liberamente assecondando la necessità, per dirlo spinozianamente), riconoscendo che ciò che siamo è tale sempre e solo nel suo essere insieme ad altro, il quale è

47

Platone, Timeo 28c. Platone, Sofista 265c. 49 Severino E., Destino della necessità. Katà tò chreòn, Milano, Adelphi, 1980, p. 398. 50 Messinese L., Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, cit., p. 74. 51 Dal Sasso A., Dal divenire all'oltrepassare, cit., pp. 62-63. 52 Severino E., Studi di filosofia della prassi (1962), Milano, Adelphi, 1984, p. 195. 48

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“altro” solo impropriamente, dato che è ciò che si costituisce e dà concretezza alla nostra “identità” e, a sua volta, si costituisce solo in relazione a quest'ultima» 53. Per dirla in altri termini: «Eterne e necessarie sono […] tutte le decisioni che il mortale è per lo più persuaso (nichilisticamente persuaso, s'intende) di prendere liberamente» 54, dato che solo «all'essenza del nichilismo appartiene la stessa struttura formale della “libertà”» 55. La tecnica è il risultato della Follia, dato che è una forma di azione nichilisticamente intesa, cioè di azione contraddittoria. In merito alla discussione sui rapporti tra Severino e la tecnica, è d'obbligo segnalare il bel libro di Dal Sasso, volto a sottolineare l'influenza che su Severino ha avuto «una certa stagione del pensiero italiano contemporaneo nella sua relazione con la filosofia europea: la discussione intorno al concetto metafisico di “creazione”»56. Da quello che si è già detto, questa influenza non può che essere intesa in senso negativo: se l'attualismo gentiliano – fonte dalla quale Severino non ha mai smesso di abbeverarsi, ed alla quale è pervenuto grazie alla mediazione di quel «finissimo critico di Gentile e insieme teorico […] di una profonda meditazione sul significato della “creazione”, intesa come vertice del discorso metafisico» 57 che fu Gustavo Bontadini – rappresenta l'apice di quel movimento volto ad affermare su un piano filosofico la nozione di “creazione”, e quindi di volontà di dominio, da parte dell'uomo, sugli enti divenienti, Severino svolge «una critica radicale al senso ontologico del creare, permettendo un'interpretazione d'insieme della storia del pensiero filosofico e della cultura occidentale, a partire dalla filosofia greca»58. L'intento delle pagine che seguono consiste nel porre in luce un nuovo concetto di prassi, che in Severino in una certa misura viene prospettato, proprio a partire dalla riflessione sulle fonti che stanno alla origine del suo pensiero, riflessione che permetterà il superamento di esse, in una mossa volta a liberare la nozione di “prassi” dalla nozione di “creazione” e di “volontà di potenza” ed, assieme, volta a liberare la nozione di “libertà” dalla nozione di “libertà di creare illimitatamente e di dominare l'esistente, trasformandolo”. Prospettare questo nuovo

53

Brianese G., “Agire” senza contraddizione, cit., pp. 27-28. Ivi, p. 21. 55 Severino E., Studi di filosofia della prassi (1962), Milano, Adelphi, 1984, p. 25. 56 Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, Milano, Mimesis, 2015, p. 40. 57 Ivi, p. 41. 58 Ibidem, corsivo mio. 54

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orizzonte

prassistico,

significa

sviluppare

una

prassi

radicale,

libera

dall'ipoteca

dell'alienazione, ipoteca che invece non può scrollarsi di dosso la prassi nichilisticamente intesa. Proprio seguendo Severino – il quale ha messo efficacemente in luce «che per intendere in modo corretto l'attualismo si deve leggerlo come una forma radicale di antiassolutismo e che perciò esso va considerato come una delle espressioni più radicali del processo epocale con cui la filosofia contemporanea sta procedendo alla distruzione di quegli immutabili che rappresentano l'ostacolo decisivo che impedisce l'affermazione di ciò che l'Occidente considera l'evidenza suprema»59, cioè il divenire e quindi gli strumenti teorici e pratici volti a dominarlo e a giustificare tale dominazione – è possibile affermare che uno dei nuclei teorici dell'attualismo consiste, precisamente, nel «processo autocreativo della realtà» 60, evocato da Gentile in difesa della «consistenza mutevole e diveniente della storia» 61, «una creazione […] che non presuppone nemmeno un creatore […]. Il creatore è appunto la stessa creatura in cui si concentra l'atto creativo»62. È interessante notare come proprio Gentile senta il bisogno di mettere in luce l'importanza dei poeti Leopardi e Dante, in riferimento alla formazione della coscienza poietico-nichilistica dell'Occidente: si vedrà nel corso di questo lavoro che proprio il lavoro di Leopardi e Dante rappresenta un punto fondamentale per giungere alla maturazione da parte dell'Occidente e quindi alla formulazione di una nuova categoria di poesia, non più indirizzata al dominio sull'ente. La Commedia ha per Gentile l'unica forza che è realmente tale, che è quella della crociana contemporaneità della storia: solo nel presente la potenza si può esercitare sulle cose, in primo luogo perché le cose sono disposte a farsi dominare, nell'attualità di pensiero ed azione. La Commedia non è mai vincolata al passato, non è mai morta. Di più: la storia è sempre un affermarsi nel presente, non riguarda mai un passato morto. Il passato è sempre morte, impotenza, dice Gentile riferendosi alle «morte stagioni» leopardiane, che sono tanto morte quanto è morto quell'«eterno» che il poeta viene “fingendosi” nel celebre canto: l'uno e le altre privano infatti l'uomo di quella potenza creatrice che solo in un presente libero da paradigmi 59

Brianese G., Invito al pensiero di Gentile, Milano, Mursia, 1996, p. 175. Gentile G., La riforma della dialettica hegeliana (1923), Firenze, Sansoni, 1975, p. 254. 61 Spanio D., Gentile, Roma, Carocci, 2011, p. 172. 62 Gentile G., La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 260. 60

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intrascendibili può esercitarsi, affermando così la propria immortalità, che non è nulla di diverso dall'«autoctisi». «La storia non comprende le morte stagioni, di cui parla il poeta, nella sua fantastica concezione dell'infinito. Ciò che è morto, è fuori dallo spirito, che è la stessa immortalità. La Divina Commedia, nella cui lettura ci esaltiamo, non è quella che fu scritta sette secoli fa, ma quella che scriviamo noi leggendola […]. E ogni storia è stata perciò a ragione detta contemporanea, dove non rivive il passato, ma vive esso il presente con i suoi interessi e le sue passioni e le sue aspirazioni e la sua mentalità […] produzione della mentalità dello storico. […]. Di attuale, di reale lo spirito non conosce altro che il presente»63. Nonostante il grado di autocoscienza che proprio Gentile ha saputo portare nel panorama filosofico italiano, e nonostante il fatto che egli abbia saputo intravedere l'importanza filosofica di Leopardi, Gentile, nella sua lettura del Recanatese, non è riuscito ad esprimere fino a che punto Leopardi ha saputo spingere la sua riflessione. Gentile vede infatti in Leopardi il filosofo che, andando oltre lo sterile accademismo mediante l'esposizione poetica e, soprattutto, oltrepassando «la mezza filosofia del materialismo»64 (oltrepassando cioè quel realismo ingenuo che nega la potenza creatrice umana ponendo una realtà immodificabile in quanto esterna e indipendente rispetto al creatore), ha saputo porsi come filosofo della libertà: «Egli è tutto proteso verso il futuro, verso l'ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale che incatena l'uomo come essere naturale alla ferrea necessità di morte» 65. Il contenuto della filosofia di Leopardi è per Gentile, in ultima istanza, l'idealismo, inteso come «la fede nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha […] di agire e farsi un suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a' suoi ideali» 66. La poesia, intesa come apertura al mondo, e il contenuto idealistico di questa poesia, quale è per Gentile il contenuto filosofico della poesia di Leopardi, fanno di lui il filosofo della prassi trasformatrice, fanno di lui «il Leopardi poeta, che è il Leopardi degli uomini, e non il Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e dei perditempo»67. Quest'ultima considerazione ci permette di soffermarci un istante sulla relazione che coinvolge Leopardi e Schopenhauer. Entrambi sono infatti autori non accademici, autori che prendono le distanze dalle sottigliezze accademiche in nome di una filosofia viva e 63

Ivi, p. 254. Gentile G., Il pensiero di Giacomo Leopardi, Brindisi, Edizioni Trabant, 2015, p. 79. 65 Ivi, p. 77. 66 Ivi, p. 73. 67 Ivi, p. 65. 64

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trasformatrice. E tuttavia, osserva Gentile, tra i due il divario non potrebbe essere più marcato proprio sotto un profilo fondamentale: a differenza del “pessimista” Schopenhauer, il poeta italiano «quanto più mette in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura del Leopardi non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà leggergli nel fondo dell'anima. E di lui può dirsi che preso per metà è il più nero dei pessimisti; preso per intero è uno dei più sani e vigorosi ottimisti, che ci possano apprendere il segreto della vita operosa e feconda»68. Contro Gentile, Severino sostiene che la lettura che De Sanctis dà di Leopardi (in sostanza: come continuatore di Schopenhauer 69) sia «gravemente fuorviante»70. Ciò che a Severino preme maggiormente è mettere in luce il fatto che Leopardi, al di là di Schopenhauer e al di là dell'interpretazione gentiliana, sa oltrepassare la volontà di dominio che il nichilismo – e in particolare quella straordinaria espressione del nichilismo che è l'idealismo – manifesta. Per Gentile, Leopardi è colui che, infrangendo la barriera alla prassi umana imposta dal realismo ingenuo, si lancia nel mare in tempesta della metafora kantiana posta alla fine della Analitica trascendentale, che è il mare in tempesta che affronta l'Ulisse dantesco ma che affronta anche il Colombo leopardiano delle Operette morali il quale, mostrando l'inquietudine propria del libero esploratore smanioso di imporsi sul mondo, afferma: «Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo passeremmo i nostri giorni?»71. Nell'interpretazione di Severino Leopardi non incarna affatto l'atteggiamento del navigatore smanioso di imporsi sul mondo, per dominarlo. Egli invece, andando oltre Schopenhauer e, con esso, andando oltre l'intera tradizione occidentale, sviluppa una nuova nozione di poesia, di produzione non più volta al dominio, pur non sapendo andare oltre al principio metafisico sul quale si fonda quella stessa volontà di dominio che egli rigetta: la fede nel divenire. Gentile nella sua interpretazione di Leopardi non sa vedere tutto ciò e per questa ragione, identificando 68

Ivi, p. 81. Cfr. De Sanctis F., Schopenhauer e Leopardi (1858), Napoli, La città del sole, 2007. 70 Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea (1996), Milano, Rizzoli, 2010, p. 53. 71 Leopardi G., Operette Morali, Milano, Mondadori, 2008, p. 189. 69

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Leopardi all'Ulisse dantesco e al Colombo leopardiano, afferma: «Il Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare per vincerlo»72. Se l'Ulisse dantesco, presentato da Dante come un antagonista del filosofo cristiano, in realtà va ad identificarsi con la volontà di potenza del cristiano stesso (sarà questo uno dei temi fondamentali del secondo capitolo di questo lavoro), il Colombo leopardiano, lungi dall'identificare la sua volontà di potenza con il discorso di Leopardi stesso, si rivela essere ciò che più di ogni altro personaggio si allontana dalla prassi radicale che dall'estrema autocoscienza filosofico-nichilistica – che Leopardi tematizza nei suoi scritti – soltanto può sorgere. 4. Confini e negazioni determinate: lo scetticismo epistemico kantiano Parlando di Kant, Cassirer lamenta un brusco cambiamento di stile che, dalla «garbata gaiezza» degli scritti precritici, conduce alla «greve serietà accademica»73 delle tre critiche. È tuttavia possibile estrarre, dalla «arida rimuginazione»74 della prima Critica, alcune isolate pagine nelle quali la consueta perspicacia teorica va di pari passo ad una vivacità stilistica del tutto inusuale. È questo il caso dell'incipit a Sul fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in generale in phaenomena e noumena. In questo scorcio conclusivo della Analitica trascendentale viene esposta una metafora nautica significativamente ripresa, da una angolazione un poco differente, nei Prolegomeni. Ci viene presentata in queste pagine una metaforica isola circondata da un mare nordico, pieno di territori fasulli (ben differenti dalla stabile roccia che sta a fondamento dell'isola), territori che sono in realtà pezzi di ghiaccio, instabili e scivolosi, fondati su nient'altro che sull'impalpabile e turbolento mare in tempesta che li sostiene. Sono questi ghiacci instabili, in una condizione di perenne dissoluzione, in perenne movimento, circondati da una spessa nebbia atta a renderli ancora più sfuggenti all'intendimento umano. Fuori di metafora: la salda isola è quella parte di conoscenza che noi uomini riusciamo a ritagliarci grazie alla azione congiunta della sensibilità – che ci dà il materiale caotico, fenomenico, pronto per essere pensato – e dell'intelletto, che pensa tale materiale, così da renderlo oggettivo, stabile come la nostra metaforica isola, unico solido territorio in mezzo agli impalpabili ghiacci pervasi dalle nebbie indicati nella metafora 72

Gentile G., Il pensiero di Giacomo Leopardi, cit., p. 155. Cassirer E., Kants Leben und Lehre (1918), trad. it. di G.A. De Toni, Vita e dottrina di Kant, Roma, Castelvecchi, 2016, p. 132. 74 Cassirer E., Vita e dottrina di Kant, cit., p. 133. 73

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kantiana. Questo stabile territorio, questa conoscenza oggettiva, è a ragione da intendersi come «il territorio della verità». Il mediocre filosofo a questo traguardo si fermerebbe. Kant invece aggiunge, quasi sommessamente, ciò che fecondamente rimescola tutte le carte: «un nome attraente, questo», egli dice, in riferimento al termine “verità” accollato al solido territorio dell'isola. Kant in questo modo ci invita a non lasciarci ingannare dalle attraenti etichette: questo «territorio della verità», lungi dal rappresentare un rifugio sicuro, un riparo adeguato da quell'«oceano vasto e tempestoso» che lo circonda e che rappresenta, fuori di metafora, l'improprio uso delle nostre facoltà conoscitive, e dunque il venir meno di un sapere oggettivo, risulta essere un del tutto insufficiente viatico se preso isolatamente. Riconosciuti i limiti (meglio: i confini) dello stabile territorio, mediante un (auto)esame delle proprie facoltà conoscitive (cioè mediante una critica della ragione pura speculativa), dobbiamo andare oltre essi: non ci dobbiamo, perché non ci possiamo, fermare entro i confini della stabile isola. Riconosciuti i limiti di ciò che è dicibile, di ciò che è conoscibile, ci dobbiamo buttare nel mare, perché i limiti si costituiscono sempre sulla base di ciò che li trascende, sulla base di ciò che non è compreso dal limite, ma che fa sì che entro il limite si comprenda ciò che nel limite è posto. È questa la vena dialettica della filosofia che già Kant, in questo passaggio, bene comprende. Kant è ben consapevole di questa vena dialettica che muove la filosofia, e ciò può essere intravisto già dando uno sguardo alla tavola dei giudizi e delle categorie della prima Critica, ed in particolare al terzo momento del titolo “qualità”, dove al giudizio “infinito” corrisponde la categoria della “limitazione”: per porre (ed il “porre” è un “delimitare limitando”) la nozione di mortalità, stando all'esempio di Kant, bisogna porre tutto ciò che trascende ciò che è delimitato, tutta l'infinità che trascende quel finito delimitato. A tal proposito Marcucci scrive: «la nostra attenzione viene limitata […] a quella “mortalità”, che però viene negata. La “limitazione” quindi c'è, ma riguarda il negativo»75. La consapevolezza del valore costitutivo di ciò che trascende il limite emerge poi in modo del tutto evidente nei Prolegomeni, quando Kant riflette sulle nozioni di confine (Grenze) e di limite (Schranke). Nonostante talvolta i due termini vengano utilizzati da Kant come sinonimi 76, Kant nel corso del testo si premura di 75

Marcucci S., Introduzione alla Critica della Ragion Pura di Kant, Bari, Laterza, 2009, p. 79. Cfr. Introduzione di R. Pettoello a Kant I., Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können (1783), a cura di R. Pettoello, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che 76

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sottolinearne la diversità teorica: se il confine è ciò che è valicabile, e cioè si costituisce in virtù di quell'infinità che lo trascende, il limite è invece invalicabile. I limiti sono quelli propri delle scienze, che nella misura in cui si occupano dei loro oggetti, non si interessano minimamente di ciò che sta fuori – per dirla in termini non kantiani, dalla loro regione ontologica materiale – ma anzi fanno di tutto per isolare i loro oggetti particolari di indagine da tutto ciò che li trascende e che non fa altro che interferire con le loro ricerche settoriali. Confondere i limiti delle scienze, dirà a tal proposito Kant nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, «non significa accrescerle ma deformarle»77. I confini, invece, sono tematizzati da chi, come il filosofo trascendentale, sa riconoscere in modo del tutto filosofico (cioè in modo dialettico, giacché la filosofia è anzitutto una dialettica negativa) la complessità, la contraddizione (nonostante la releghi poi pavidamente nel pensiero, e non nel reale, si direbbe hegelianamente78). Il filosofo trascendentale tematizza l'importanza del confine perché riconosce di non potere non trascendere il limite, per costituire quella terra della verità, stabile ma non autosufficiente. Noi non ci possiamo appagare dei limiti, «in quanto sono semplici negazioni», laddove i confini «presuppongono sempre uno spazio che si trova al di fuori di un certo posto e lo racchiude» 79. Il filosofo trascendentale non si accontenta della mera negatività del limite perché non può accontentarsi della mera negatività, e non può farlo non in quanto filosofo trascendentale (come filosofo trascendentale ha solo il merito di riconoscere questo “non potere non”), ma non può non rimanere fermo all'immane potenza del negativo in quanto uomo, in quanto «l'insufficienza di ogni spiegazione di tipo fisico ad appagare la ragione»80 risulta ineludibile o, come viene ribadito nella Prefazione alla Critica della ragion pratica: l'incondizionato, cioè la libertà, è la «“chiave di volta” dell'intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della ragione speculativa». possa presentarsi come scienza, Brescia, La scuola, 2016, p. 33. 77 Kant I., Kritik der reinen Vernunft (1781/1787), a cura di C. Esposito, Critica della ragion pura, Milano, Bompiani, 2014, BVIII. 78 Si dica qui di sfuggita che questa critica hegeliana all'espistemologia della Critica della ragion pura non pare essere del tutto convincente: come insegnano gli scritti kantiani di filosofia della storia, l'incondizionato, così come è inteso dal filosofo prussiano, si realizza, storicamente, come libertà, nella storia, come realizzarsi storico ad un sempre più alto livello della autocoscienza, della libertà umana, per l'appunto, dell'incondizionato che, a tal proposito, si darebbe, concretamente, nella storia, lungi dal venirne respinto ai margini. Va tuttavia riconosciuto che, nonostante le aperture dialettiche già presenti nel pensiero kantiano, la mancata ricomposizione di pensiero ed essere non può che fare di questo pensiero un momento negativo, incapace di risolvere la posizione negativa – e quindi astratta – che bene esemplifica. 79 Kant I., Prolegomeni, cit., p. 229. 80 Ivi, p. 228.

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È l'illimitato che costituisce l'isola stabile dell'intelletto. Quel mare e quei ghiacci instabilissimi sono la condizione trascendente di possibilità della conoscenza oggettiva in quanto possono essere pensati ma non esperiti, in quanto cioè non sono dati. «L'uso per l'esperienza, al quale la ragione limita l'intelletto puro, non realizza a pieno la sua destinazione. Ogni singola esperienza è soltanto una parte dell'intera sfera del suo ambito. Il tutto assoluto di ogni esperienza possibile non è esso stesso un'esperienza e tuttavia è un problema necessario per la ragione»81. Di qui l'elogio kantiano a quello «spirito di sistema» che, proprio grazie – osserva Kant – al tanto vituperato Wolff, «non è ancora morto in Germania»: è grazie a quello spirito di sistema, grazie a quel “tutto” che tiene in sé i frammenti ottenuti per mezzo del giudizio determinante e che assieme li trascende, grazie a quel mare tempestoso che trascende l'isola tanto quieta e stabile quanto vincolante, mare entro il quale non possiamo non buttarci, pur riconoscendo quella tempesta e quei ghiacci instabili per quello che sono (cioè come “conoscenze” non oggettive)82, ebbene è proprio grazie a quel sistema che possiamo giungere al «fine supremo (che è sempre e soltanto il sistema di tutti i fini); non intendo qui semplicemente l'uso pratico, bensì anche il fine supremo dell'uso speculativo della ragione»83. Qui Kant è molto chiaro: il fatto di oltrepassare il «segno» 84, l'andare oltre la limitazione, non è affare esclusivo della ragione pratica, come potrebbe sembrare leggendo (distrattamente o in malafede) la Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (leggere in malafede questa parte dell'opera significa ignorare del tutto il capitolo sulla Distinzione tra fenomeni e noumeni). Qui il problema è conoscitivo: su un piano del tutto speculativo, l'intelletto senza ragione non può nulla, le categorie senza le idee non danno conoscenza. Le idee trascendentali (meglio: trascendenti) della ragione pura non arrivano dopo l'azione congiunta di intuizioni pure e categorie, come la metafora temporale che spesso in Kant si trova parrebbe suggerire (anche perché una temporalizzazione prima del tempo parrebbe cosa fuori luogo (fuori tempo!) anche per quei nichilisti abitatori del tempo che saranno trattati in questo lavoro, e tra le cui schiere un posto di prim'ordine spetta proprio a Kant). Fermarsi al limite invalicabile, non riconoscere sé in quanto apertura su quella totalità delle esperienze che non è una esperienza, significa cadere nello scetticismo humiano, significa 81

Ivi, p. 184. È questo l'errore dei filosofi dogmatici: l'errore non consiste nell'essersi buttati nell'acqua “perigliosa”, ma nel non averla riconosciuta come tale. 83 Kant I., Prolegomeni, cit., p. 222, corsivo mio. 84 Alighieri D., Par. XXI, 99. 82

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cadere nell'immobilità causata da quel «timor panico» che Hegel, già dalla Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, forse ingiustamente imputa allo stesso Kant. È a questo punto che entra in gioco la seconda metafora nautica, ben più fugace, esposta nei Prolgomeni: qui il bersaglio polemico è lo scetticismo di chi, «per mettere al sicuro la sua imbarcazione, la trasse sulla spiaggia (scetticismo), dove poteva rimanere a marcire», laddove ciò che a Kant interessa è dare a questa barca «un timoniere che, in base a sicuri principi dell'arte di navigare, basati sulla conoscenza del globo, provveduto di una completa carta nautica e di una bussola, sappia condurre con sicurezza l'imbarcazione dove gli sembra opportuno»85. Ecco farsi del tutto esplicito ciò che la nozione di “confine” serbava sin dal principio, in questa grande espressione della metafisica epistemica che è la filosofia critica kantiana. La nozione di “confine”, aprendosi all'incondizionato, si apre a ciò che, pur non potendo essere conosciuto, può essere pensato come una ragione che unifica, una sintesi suprema che dà senso e razionalità regolativa ai frammenti i quali altrimenti, per dirla con Vico, sarebbero «rottami» del tutto decontestualizzati. Questi «rottami» acquistano un senso, una Richtung, sulla base del riconoscimento dei limiti della conoscenza propri della soggettività trascendentale. Si tratta per Kant di «depurare e di spianare un terreno completamente incolto» 86, così da potersi aprire all'incondizionato, sulla scorta di quel confine stabile trovato mediante la critica. La critica dunque non ci deve inchiodare al limite ottenuto con l'itinerario incominciato dopo il risveglio dal sonno dogmatico. Bisogna invece aprirsi a ciò che non è conoscibile (ciò che non è dicibile), perché non è dato alla sensibilità, ma che tuttavia è ciò che dà senso, un senso stabile, in quanto razionale, una razionalità pensabile e non conoscibile, e che tuttavia palesa sé nel corso della storia. È questo il punto fondamentale, che ci può finalmente consentire di accostarci alla critica severiniana all'Occidente nichilistico, del quale Kant è autorevole espressione: quei ghiacci che vanno squagliandosi, che «illudono il navigante errabondo che va in cerca di nuove scoperte»87, hanno uno statuto che va meglio chiarito. Nella metafora in questione il senso di precarietà generata da questi ghiacci è dato dalla volontà kantiana di affermare che, fuori dalla terra stabile dell'intelletto, «in nessun altro luogo si dà un terreno su cui edificare», e che dunque questi ghiacci vanno affrontati sì, infatti «non ci sembra sufficiente che si esponga 85

Kant I., Prolegomeni, cit., , p. 49. Kant I., Critica della ragion pura, cit., AXXI. 87 Ivi, A236. 86

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semplicemente ciò che è vero, ma anche ciò che si desidera sapere» 88, ma con la consapevolezza dei limiti delle nostre capacità conoscitive. Ciò non significa però che si attribuisca tale instabilità allo stesso oggetto trascendentale: Kant quando segnala una precarietà, lo fa in riferimento alla soggettività trascendentale. Kant, figlio della metafisica epistemica, ha ben chiaro il fatto che è necessario sottostare ad un senso razionale ed incontrovertibile, che razionalmente ed incontrovertibilmente anticipa il cadere nel niente da parte dell'ente, ed anticipandolo lo preserva dal niente, dandogli un senso che sta al di sopra di tale nientificazione dell'ente (pur affermandola inconsciamente), di per sé imprevedibile ed angosciante, se liberata da questo senso razionale ed incontrovertibile (in quanto non c'è nulla che susciti maggiore angoscia del nulla, cioè del totalmente altro dall'essere, del totalmente imprevedibile, del totalmente angosciante). E ciò che introduce in questa dimensione di senso è appunto l'incondizionato, ciò che sta oltre il limite saldo del «territorio della verità», oltre il saldo territorio dei fatti: il valore trascende il mero fatto, «l'etica è trascendentale» 89. Kant, figlio della metafisica epistemica, non è giunto a comprendere, a partire dalle categorie ontologiche greche, che «il nuovo è ciò che è stato un nulla e quindi non può essere totalmente anticipato dal già esistente – e pertanto presenta sempre un'eccedenza che è irriducibile al già esistente»90. Che questa ragione che anticipa il nientificarsi dell'ente non sia conoscibile epistemicamente dall'uomo è ciò che determina la scelta kantiana di rappresentare metaforicamente l'incondizionato – che dà senso al mondo – come qualche cosa di sfuggente. Ma questa instabilità – così bene rappresentata dalla metafora kantiana – non è propria dell'incondizionato, che dà senso, che anticipa, che dà una legge costante all'imprevedibile ente diveniente (imprevedibile in quanto oscillante tra l'essere e l'assoluta sua alterità che è il nulla), proprio in quanto si impone stabilmente sopra ogni altra cosa; questa instabilità è invece posta in quanto è atta a rappresentare non l'incondizionato sempre identico a sé, datore di ordine e di stabilità, ma in quanto è atta a rappresentare il rapporto tra le limitate capacità conoscitive di quell'ente razionale finito che è l'uomo e l'incondizionato medesimo. L'incondizionato, il senso incrollabile è, nella lettura che Severino dà di Kant e di tutta la metafisica dai greci ad Hegel, il rimedio al divenire, che non può che configurarsi come rimedio tecnico al terrore nel quale fa 88

Kant I., Prolegomeni, cit., p. 234. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, cit., 6.421. 90 Severino E., L'anello del ritorno, Milano, Adelphi, 1999, p. 82. 89

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cadere il radicalmente altro dall'ente, il radicalmente imprevedibile (rimedio che non sa di non essere tale, che non sa di essere peggiore del male al quale crede di porre rimedio). L'instabilità è riferita al divenire, non certo all'incondizionato, che è ciò che dà rifugio a questa instabilità. La lettura qui proposta della prima Critica non può considerarsi fedele a quella che Severino dà del capolavoro del Prussiano. Infatti, se qui si è cercato di porre l'accento sull'elemento dialettico della filosofia critica kantiana, quasi come se, per conoscere realmente Kant, fosse necessario mediare i suoi scritti con quelli di Hegel, Severino al contrario sembra sforzarsi di mettere sempre in secondo piano questa componente dialettica della Critica della ragion pura (aderendo sotto questo aspetto alla lettura che la Fenomenologia hegeliana dà di Kant). Nella sua lettura della prima Critica Severino osserva infatti che Kant, nell'affermare ciò che tutto l'Occidente afferma (cioè nell'affermare che «non c'è contraddizione a pensare che l'essente (il non niente) sia niente»91), compie una mossa rigorosamente anti-dialettica. Nella sezione della Dialettica trascendentale intitolata Dell'impossibilità di una prova ontologica dell'esistenza di Dio – sezione, ad avviso di Severino, tra le più importanti del testo, in quanto qui l'autore si pone «in una prospettiva radicale, che non dipende tanto dai risultati cui è pervenuta sino a quel punto la Critica della ragion pura, quanto piuttosto ne sta a fondamento»92 – Kant separa in modo netto e rigido (cioè non dialettico) pensare ed essere, compiendo una mossa molto simile a quella fatta da Feuerbach il quale, non casualmente, afferma che «l'essere, in quanto opposto al pensiero nel pensiero, non è altro che un pensiero a sua volta»93, e nel fare ciò ritorna a Kant, usandolo in chiave anti-hegeliana. Nel § 25 dei Princìpi della filosofia dell'avvenire Feuerbach prende opportunamente in considerazione l'esempio kantiano dei cento talleri, che egli reputa assolutamente corretto, a differenza di Hegel, che invece lo disprezza. Più precisamente, Feuerbach dice: «i talleri immaginari io li ho soltanto nella testa, quelli reali li ho in mano», che è un altro modo per dire ciò che la prima Critica dice, cioè che «la necessità incondizionata del giudizio non è un'assoluta necessità delle cose». Kant distingue cioè la «necessità logica» propria del giudizio, dalla «assoluta necessità della cosa». Un conto è affermare la necessità che la cosa esista quando esiste, un conto è prescindere dalla clausola dell'esistenza, per affermare la necessità dell'esistenza di un qualcosa del quale si predica l'esistenza: 91

Severino E., La filosofia futura, cit., p. 254. Ivi, p. 237. 93 Feuerbach L., Princìpi della filosofia dell'avvenire, cit., p. 48. 92

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Voi dunque avete veduto che se io nego [aufhebe] (“tolgo dall'esistenza, ponendolo come un niente”) il predicato di un giudizio insieme al soggetto, non può mai scaturire una contraddizione interna [cioè una contraddizione che, violando la “regola dell'identità”, nega che il predicato convenga al soggetto], qualunque possa essere il predicato. Ora non resta altra via d'uscita che dire: vi sono [es giebt] soggetti che non possono assolutamente essere negati [aufgehoben], e che dunque devono rimanere [bleiben]: rimanere nell'esistenza. Ma sarebbe precisamente come dire: vi sono [es giebt] soggetti assolutamente necessari [cioè soggetti di cui non è possibile negare l'esistenza, soggetti di cui non è possibile pensare che si annientino]; e questo è appunto il presupposto [Voraussetzung] della cui legittimità ho dubitato.94

Pur aderendo al medesimo tema nichilistico, i dialettici e i non dialettici percorrono strade diverse: se Platone ed Hegel affermano la nullità dell'ente in modo dinamico, Kant, ad avviso di Severino, lo fa in modo statico, cioè rendendo incomunicabili essere e pensiero, che sono invece i due poli fondamentali che la dialettica si preoccupa di mettere in rapporto fra loro e, in ultima istanza, di identificare. Questa lettura di Kant si ritrova in modo del tutto esplicito ne La filosofia dai Greci al nostro tempo, in cui il criticismo è visto come il momento negativo del movimento dialettico che percorre la storia della filosofia moderna, tutta concentrata intorno al problema gnoseologico di identificare certezza e verità. Kant, assieme a Hume, rappresenta il momento di questo percorso in cui viene meno il tentativo di identificare certezza e verità, opponendole in modo inderogabile, e facendo venire così meno la dialettica tra le due. Questo smantellamento della dialettica, volta ad «escludere la conoscibilità delle cose come esse sono in sé stesse»95, si identifica con la vocazione scettica che pervade, ad avviso di Severino, la Critica della ragion pura. Per riassumere, si può dire che per Severino «la negazione della possibilità di un sapere metafisico, cioè della metafisica come “scienza”, ha trovato la sua più alta formulazione, in epoca moderna, nel pensiero di Immanuel Kant» 96. Questa lettura anti-dialettica che di Kant dà Severino – e che si contrappone a quella che ho voluto dare partendo da Sul fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in generale in phaenomena e noumena – da Severino viene 94

Kant I., Critica della ragion pura, passo citato (comprese le annotazioni fra parentesi quadre) in Severino E., La filosofia futura, cit., pp. 243-244. 95 Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia moderna (1996), Milano, Rizzoli, 2011, p. 285. 96 Messinese L., Il paradiso della verità, cit., p. 141.

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proposta già ne La struttura originaria, dove si legge: Kant […] intese l'uomo come quella metafisicità originaria per la quale ogni determinazione finita è oltrepassata dalla presenza della totalità. In questo senso, la negazione della metafisica rappresenta, nel discorso kantiano, un momento logicamente ulteriore a quello costituito dall'originaria apertura dell'orizzonte metafisico. 97

5. Tecnica e ontologia Molti autori novecenteschi, talvolta profondamente diversi tra loro, partendo dalla posizione kantiana sopra descritta hanno imbastito una critica alla razionalità tecnica, in favore di una razionalità non strumentale, non volta a meri fini pratici, dicendosi a favore di una razionalità capace di dare senso alle cose, di modo che non restino imbrigliate nelle «angustie dell'intelletto» – per usare una espressione usata da Jasper in Ragione e antiragione nel nostro tempo –, angustie che potenzialmente possono portare alle peggiori derive, prima su tutte alla deriva totalitaria. Si è insomma detto, per rimanere nella metafora del mare e dell'isola, che una ragione strumentale, che fa agire solo per imperativi ipotetici, una ragione che è tutta intelletto e nulla ragione, ebbene una ragione di questo tipo, che vede solo l'isola, e vede i suoi limiti come limiti, e non come confini aperti all'incondizionato che dà senso, è una ragione che apre le porte ai totalitarismi, che apre le porte a quella volontà di dominio sull'altro, a quel mancato riconoscimento dell'altro che, a sentire Dialettica dell'Illuminismo, è propria del dittatore e dello scienziato98. Riconoscere la dialettica tra questa “ragione” strumentale e la ragione che dà senso e stabilità che orienta i frammenti entro un sistema incrollabile e luminoso, è un passo necessario non per eliminare la ragione dell'intelletto, dell'imperativo ipotetico, che è la ragione che dà la potenza sull'esistente, ma per incanalare quella potenza, subordinandola ad una prospettiva più ampia, la sola che valorizza i frammenti, indirizzando il loro stesso annullarsi nel saldo stare che sta sopra ogni cosa e che proprio in quanto sta nella sua eterna identità con sé, dà senso a questo annullarsi dei frammenti (è questo lo stare saldo che vorrebbe – senza riuscirci – 97

Severino E., La struttura originaria (1958), cit., 1981, p. 412. Cfr. Horkheimer M./Adorno W.T., Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente (1944), trad. it. di R. Solmi, Dialettica dell'Illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 17. 98

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affermare l'epistéme nichilistica). In realtà, questa dialettica tra la ragione strumentale e la ragione del senso è, ad avviso di Severino, una dialettica solo apparente, che si rivela essere, a meglio guardare, un monologo atto a salvare quella contraddizione, che è la contraddizione data dall'oscillare degli enti tra l'essere e il nulla che l'Occidente, sin dalle sue radici greche, pensa come l'indubitabile evidenza originaria. Non è un caso che questo senso unitario che la categoria di totalità dà, viene a collassare proprio nel momento della coerentizzazione della follia (coerentizzazione interna alla follia medesima), cioè nel momento della venuta meno dell'epistéme. Entrambi i lati di questa apparente dialettica (meglio: di questa dialettica autentica che si dà però entro il medesimo terreno di gioco che, accomunando le due parti, rende questa dialettica oltre ogni modo limitata) tentano di uscire da questa contraddizione, stando dentro essa, cercano cioè di preservare gli enti dopo che si sono annullati, anticipandoli, dando loro senso, o mediante la forza intellettuale della ragione strumentale, o mediante la ragione epistemica della tradizione che sente la necessità di buttarsi nel mare per dare valore ai confini dell'isola. La differenza, tra la posizione che vede nel perimetro dell'isola dei confini aperti al senso immutabile, e la posizione che vede in quello stesso perimetro dei limiti che non si aprono all'altro che sta fuori, consiste nel fatto che in questo secondo caso emerge in modo più esplicito che questa evidenza, che è l'evidenza del divenire, è in ultima istanza soffocata da quel senso che anticipa il divenire, che come una bussola dà la direzione, che orienta verso l'ente che mai si annulla in quanto cade tra le braccia dell'eterno. La razionalità tecnica dell'Occidente non può liberare totalmente il divenire dagli eterni (nemmeno quando – come nel caso della ragione strumentale – vuole togliere l'eterno che dà senso agli enti), perché così facendo l'evidenza originaria – il divenire – verrebbe meno in quanto, eliminata qualsiasi residuale volontà di anticipazione (volontà contraria alla volontà di potenza dell'Occidente), si darebbe la totale identificazione dell'essere al niente (si affermerebbe cioè l'inconscio del nichilismo), una identificazione non più temporalizzata (come affermava ancora il principio di non contraddizione, dove l'ente non può essere nulla, nel tempo in cui è ciò che non è nulla), ma eternizzata: l'eterna identificazione degli enti con il nulla, cioè l'assenza di oscillazione del “ciò che” tra l' “è” e il “non è”, cioè l'assenza di divenire, l'assenza dell'evidenza che sta sotto agli occhi, è per la terra alienata dalla verità fenomenologicamente innegabile sin dal principio del suo percorso auto-costitutivo (che è poi 47

il percorso storico-filosofico), ma questa innegabilità, in principio, è posta nell'inconscio dell'Occidente99. È proprio questa dimensione inconscia che permette la fede nichilistica nella “prassi che salva”. Anche quando si vuole affermare l'eterno al di sopra del divenire, non si vuole mai negare il divenire, bensì si vuole porre l'eterno (epistéme) come alterità eccedente quell'«evidenza originaria» che è il divenire degli enti. Per questo Severino sente la necessità di distinguere la nozione di epi-stéme da quella di de-stino: a distinguere i due concetti è il fatto per il quale il primo si fonda sulla fede nell'evidenza del divenire, il secondo ritiene invece che ciò che appare fenomenologicamente è ciò che logicamente non può non essere sempre identico a sé, cioè che è originariamente negazione della sua negazione («essenza del fondamento»). Ecco perché la tecnica, pur riducendo al minimo l'anticipazione-entificazione (cadendo in una prospettiva ipotetico-probabilistica, relativistica, scettica), non può tuttavia eliminare mai totalmente la previsione, il senso, non può insomma mai rinchiudersi totalmente entro i limiti dell'isola kantiana, senza guardare l'orizzonte, senza timidamente avventurarsi nelle acque dell'incondizionato. Se venisse meno la possibilità epistemica di prevedere il mondo, verrebbe meno ciò che muove la scienza, cioè quella volontà di potenza che proprio sulla possibilità di prevedere gli enti, e in questo modo di dominarli, si costituisce. Ma questa volontà di potenza è giustificata dal riconoscimento filosofico del divenire inteso come evidenza originaria. Per questa ragione, va riconosciuto «il carattere profondamente, essenzialmente filosofico dell'emarginazione della filosofia. Il tramonto della filosofia nella scienza è un'avventura della filosofia»100. Dunque, Severino ci può dire che la civiltà della tecnica cresce «nella spazio aperto per la prima volta e una volta per tutte dalla filosofia greca»101. Il nulla non può essere nihil absolutum: ciò che è, è destinato a diventare niente, per gli abitatori del tempo, ma ora, nel tempo presente, è non-niente. Proprio perché il divenire è l'evidenza innegabile non può mai darsi totale identificazione tra essere e nulla; l'inconscio dell'Occidente (che identifica appunto essere e nulla, negando l'evidenza innegabile del

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Proprio in quanto identificano, in modo più o meno consapevole, essere e nulla, gli uomini sono definiti da Parmenide dikranoi, gente “dalla doppia testa”. Fermo restando che lo stesso Parmenide, tematizzando la contraddizione tra esperienza e logos come una contraddizione nichilistica (intendendo cioè anch'egli il divenire degli enti come esperienza originaria), non può sollevarsi al di sopra di questa della condizione contraddittoria nella quale versano gli altri mortali dalla doppia testa. 100 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 490. 101 Ivi, p. 488.

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divenire che egli nega dopo averla posta dogmaticamente) non può mai emergere totalmente, non può mai diventare in sé e per sé, per quanto una prospettiva tecnicistica sappia scorgere in modo meno indistinto l'inconscio nichilistico che è il sottosuolo che ingloba entrambe le parti impegnate nella apparente dialettica tra la ragione strumentale (anti-epistemica) e la ragione datrice di senso (epistemica). Ecco che, nel corso della storia della filosofia, si fa sempre più forte la necessità di liberare il divenire dalle maglie di quegli immutabili che, anticipandone il loro cadere nel nulla, dandogli un senso che possa permanere eternamente salvo dal nulla, in realtà finiscono per soffocare il divenire stesso, e con questo la potenza che lo scorrere libero degli enti conferisce agli uomini che quegli enti possono plasmare liberamente in quanto quegli enti divengono. Liberare gli enti dagli immutabili significa liberarsi di ciò che, non divenendo, non è dominabile e che, in quanto non dominabile, soffoca ciò che è diveniente. Gli eterni sono un muro di pietra asfissiante. «L'uomo, per vivere, deve flettere l'inflessibile […] deve uccidere il divino»102; l'uomo, respirando, abbatte l'asfissiante muro di pietra che, nel corso della storia della filosofia antica e moderna, si era posto come «rimedio al divenire». Questo muro di pietra è il limite che ci relega nell'isola, o che ci permette di penetrarlo ma non di capirlo (viene in mente il neologismo dantesco dell'indiarsi, e al contempo lo sciogliersi incomprensibile dei ghiacci della metafora kantiana, ghiacci instabili, travolti della burrasca, accerchiati dalla spessa nebbia). Questo muro di pietra, impenetrabile in quanto incomprensibile, indicibile razionalmente, è tuttavia la razionalità che stabilmente anticipa e dà senso anche a ciò che si fa nulla. Il muro di pietra è quella “rete” con la quale ancora Kant imbriglia ogni ente così da eliminare quel fondo oscuro che costituisce l'ente nichilisticamente inteso, e che dà angoscia in quanto totale alterità rispetto alla ragione, non anticipabile, non prevedibile, non dicibile. L'ineffabilità è duplice, dunque: ineffabile è il nulla, l'assoluta alterità dalla ragione (totalmente imprevedibile e irrazionale, e per questo indicibile), ed ineffabile è quella rete atta a scacciare quella alterità svelata dalla filosofia greca e nuovamente velata mediante gli immutabili (una ineffabilità, questa, derivante dal fatto che la razionalità degli eterni eccede le capacità discorsive degli enti razionali finiti, la cui incapacità di dire l'eterno è commisurata alla loro distanza ontologica dall'eterno). Su questa doppia ineffabilità si fonda il predominio della 102

Severino E., Nichilismo e destino, Milano, Book Time, 2012, p. 20.

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tecnica che può imporsi proprio nella misura in cui oscilla, e dunque appartiene ed assieme non appartiene, ad entrambi questi orizzonti. Come non è razionalizzabile ciò che è imbrigliato nella rete che razionalizza, così non è razionalizzabile quella stessa rete che razionalizza. Allo stesso modo, non si può fare scienza dei generi sommi attraverso i quali si fa scienza, e non si dà scienza nemmeno dell'ente concreto, con i suoi infiniti predicati. Quest'ultimo sfugge alla razionalizzazione perché costitutivamente segnato da ciò che per essenza non è razionalizzabile: attraverso la ragione che dà senso si vorrebbe razionalizzare, anticipare, entificare eternamente tutto quell'ente che per essenza è, in ultima istanza, eternamente nulla. Sempre più ci si accorge che questo dare senso è un dare senso parziale, un dare senso a solo quella parte del “ciò che” è suscettibile di avere un senso, cioè a quel “ciò che è” che è schiacciato sul concetto che lo fa essere nell'unico modo di essere previsto, e con ciò assolutizzato, dal concetto. Ridurre il “ciò che” al suo “è”, imbrigliandolo in una rete epistemico-razionale, imbrigliarlo cioè nell'inamovibilità del muro di pietra, significa negarlo (vale a dire: negare l'essenza dell'ente in quanto ente) nel suo altro versante costitutivo, cioè nel suo essere ciò che non è. Anticipare totalmente l'ente significa renderlo noto fin dal principio, come l'incognita di una equazione, il cui valore è già implicito negli assiomi entro i quali ci si muove per risolverla, e che per questo è nota prima ancora che l'equazione venga risolta. Il punto è che anticipare l'ente in questo modo significa anticipare non l'ente tutto intero, ma solo quella parte di ente che si lascia anticipare. Preservare l'esser ente dell'ente mediante il muro di pietra significa scartare il non essere ente dell'ente che nell'“ora” è esistente ma che in un passato e in un futuro non sarà più tale, e che è caratteristica essenziale dell'ente così come è inteso dagli «abitatori del tempo». La scienza non si vuole però più porre come un muro di pietra immodificabile alla volontà di potenza degli uomini, che è conseguita proprio mediante la scienza e la tecnica: la scienza si pone sì come previsione dell'ente, ma non cessa mai di riconoscere il suo carattere ipoteticocongetturale; la scienza contemporanea «non si pone come una Legge che non possa essere violata dalle trasformazioni del mondo e cioè dall'irruzione degli eventi che provengono dal niente»103. L'Occidente si rende cioè sempre più conto che, «in quanto già anticipato ed

103

Severino E., La filosofia futura, cit., p. 35.

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esistente nel presente, il futuro non è futuro – non è, appunto, qualcosa che ancora non esiste»104. La tradizione anti-epistemica – la quale si realizza in modo pratico come sapere tecnico-scientifico – si rende conto che prevedere in modo epistemico il mondo è contraddittorio: La tradizione filosofica, dai Greci a Hegel, presenta un carattere antinomico. Da un lato, afferma che niente è assolutamente inconoscibile e che quindi l'ancor niente in cui consiste il futuro è assolutamente imprevedibile e inconoscibile. Dall'altro lato, la tradizione filosofica si presenta come epistéme, cioè come conoscenza incontrovertibile della verità immutabile e definitiva dell'eternità dell'essente. Sono due lati antinomici, in contraddizione tra loro. La loro coesistenza è impensabile.105

E tuttavia, la tradizione metafisica occidentale non può rinunciare ad una qualche forma di anticipazione – per quanto ipotetica – in quanto, al venire meno di quest'ultimo baluardo epistemico, lo stesso Occidente collasserebbe su di sé, cadendo nell'inazione, nella noia, che è, per l'Occidente, totale assenza di salvezza. Laddove la salvezza, tanto per la metafisica epistemica quanto per la metafisica anti-epistemica, consiste nella prassi, consentita su un piano speculativo proprio dalla distinzione ontologica di essere e nulla, cioè dalla tematizzazione del divenire (la prassi si esercita se e soltanto se il mondo è suscettibile di farsi manipolare, subendo la volontà di potenza degli uomini che si esercita mediante la prassi; ed il mondo è suscettibile di farsi manipolare dagli uomini proprio in quanto diviene; per questo l'evidenza della prassi non può che essere garantita da altro se non dall'evidenza originaria del divenire). 6. Giocatore bianco, giocatore nero Torniamo alla immagine di partenza. L'isola stabile della verità, in cui gli enti vengono individualizzati e poi compresi in un orizzonte di senso che li anticipa, che allontana il loro cadere nel niente, è in realtà isola della falsità. Questo Kant non lo porta alla luce. Kant appartiene ancora ad una tradizione che non riesce a portare alle estreme conseguenze le premesse dalle quali prende le mosse, liberando il divenire dalle maglie di un qualsivoglia 104 105

Ivi, p. 29. Ivi, p. 31.

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orizzonte di senso e riconoscendone in modo plateale anche l'aspetto angosciante, mai del tutto prevedibile. Intendere l'ente come oscillante tra essere e non essere, significa «respirare», significa preferire Gesù Cristo al muro di pietra, per usare le parole di Dostoevskij (Cristo infatti, a differenza della Chiesa, non calcola 106, e in questo senso la posizione dostoevskijana non è poi così distante da quella di Kierkegaard). L'adesione al limite è adesione al muro di pietra: questa è la scelta alla quale aderisce quello che Severino chiama giocatore bianco107; scegliere per il Cristo, corpo che sta fuori dalla verità, che sta fuori dal già noto prima ancora di essere risolto, significa scegliere il martello che «distrugge la pietra degli dèi» 108, significa fare veramente i conti con l'essere nulla da parte dell'ente, senza tuttavia annullare totalmente l'oscillazione dell'ente tra il nulla e l'essere che, venendo meno, farebbe venire meno l'ente stesso, identificandolo con il suo totalmente altro. Questa seconda è la mossa fatta propria dalla metafisica anti-epistemica, è la mossa compiuta dal giocatore nero. Questa seconda mossa parte dai presupposti della metafisica epistemica che gli sta alle spalle, e li porta a maggiore coerenza: il giocatore nero, dunque, non si oppone al giocatore bianco, bensì porta a compimento ciò che il giocatore bianco premette ma non fa emergere: «Ognuno di noi (lo scienziato, il santo, l'uomo d'azione, il filosofo, il marxista, il non marxista, naturalmente io stesso, il cristiano, il non contristiano, il dotto e l'ignorante) sta dalla parte del deserto, cioè sta nel deserto, nell'errore. Nessuno di noi è la verità. Stando da una parte o dall'altra, ognuno sta sempre dalla parte dell'errore, è errore»109. La figura del giocatore nero, va subito detto, non è da identificare con quella dell'ateo ingenuo, che Severino considera un fantoccio, tanto innocuo quanto teoricamente inconsistente. La mossa del giocatore nero va invece in profondità, facendo emergere l'essenza nichilistica della scacchiera sulla quale tanto il giocatore nero, quanto quello bianco, quanto l'uomo della strada, 106

Cfr. Severino E., Pensieri sul cristianesimo (1995), Milano, Rizzoli, 2010, cap. III. Lo stesso Dostoevskij, nella sua critica a Dio – all'immutabile – parla del (articolo determinativo) «muro» che «per gli uomini immediati o d'azione» ha «un che di calmante, di moralmente risolutivo e definitivo, magari perfino un che di mistico...» (Dostoevskij F., Zapiski iz podpol'ia (1846), trad. it. di A. Polledro, Memorie del sottosuolo, Milano, Einaudi, 2014, p. 12), e che invece per il giocatore nero è qualcosa da rifiutare, per quanto questo rifiuto porti con sé un orizzonte inaggirabile: «Signore Iddio, ma che me ne importa delle leggi naturali e dell'aritmetica, quando per qualche ragione queste leggi e il due per due non mi piacciono? S'intende che questa muraglia non la sfonderò col capo, se davvero non avrò lo forza di sfondarla, ma nemmeno l'accetterò, solamente perché ho una muraglia davanti e le forze non mi sono bastate. Come se una muraglia cosiffatta fosse davvero una consolazione, e davvero racchiudesse in sé almeno una qualche parola di pace unicamente e solo perché è due per due che fa quattro» (ivi, p. 15). 108 Severino E., Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli, 2006, p. 88. 109 Severino E., La filosofia futura, cit., p. 294. 107

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lo scientista ingenuo e ateo piuttosto che il cristiano, si muovono. «Il Giocatore Nero avrà partita vinta partendo dalle stesse premesse del suo avversario» 110, premesse che consistono nella «fede nel diventar altro» da parte dell'ente, fede che non è intesa come tale, dai due giocatori, ma solo dal Terzo, che in questo frangente «sta limitandosi a raccontare la storia della partita degli altri due». Tale partita è vinta dal Nero, che per questo motivo può a buon titolo dirsi, in quanto vincitore della partita, detentore della verità, contro il bianco, invischiato nell'errore. Tale verità è però soltanto la verità così come «è intesa all'interno della fede nel diventar altro»111. Si capisce allora come la differenza «estrema» tra questi due giocatori si risolva in realtà nella medesima posizione, fondata sulla medesima credenza: l'allontanamento dal Bianco da parte del Nero, l'avvicinamento al contenuto attestato dalla fede nichilistica propria di entrambe le parti è già tutta contenuta, diciamo così analiticamente, nelle posizioni del Bianco (sarà proprio questo il punto che emergerà con forza nel terzo capitolo di questo lavoro, capitolo nel quale ci si impegna ad analizzare, con gli strumenti critici severiniani, la Commedia di Dante). Superficialmente, la differenza tra i due giocatori è tuttavia «estrema», poiché il «Bianco ritiene che il diventar nulla e da nulla sarebbe impossibile (cioè in se stesso contraddittorio) se non esistesse un Essere immutabile (il mondo sarebbe impensabile se non esistesse Dio); quello Nero, invece, mostra che il diventar nulla sarebbe impossibile se un Essere immutabile esistesse (impossibile, il mondo, se Dio esistesse)»112. Invece, «si tratta di comprendere che il pensiero greco è la scacchiera dell'Occidente […]. La verità vede che è la scacchiera della follia (cioè del deserto, dell'errore), e che quindi è follia ogni gioco praticato su essa»113. Come nel caso della distinzione tra giocatore bianco e giocatore nero, anche la distinzione tra limiti e confini esposta sopra si rivela essere, al di sotto della maschera che la filosofia cristiana si mette addosso, una mera confusione. Il «segno» è passato sin dal principio. Se non si passasse il segno, non ci sarebbe la vita. È ciò che si cercherà di vedere nel secondo capitolo di questo lavoro, nel quale ci si propone di stabilire come e in che misura l'aspetto tecnico dell'Occidente sia caratterizzato da una cifra poetica e di dimostrare, di conseguenza, che la tecnicità dell'Occidente non è affatto altra rispetto all'orizzonte teoretico entro il quale 110

Severino E., In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell'uomo, Milano, Rizzoli, 2015, p. 58. Ivi, p. 55. 112 Ivi, p. 59. 113 Severino E., La filosofia futura, cit., p. 295, corsivo mio. 111

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l'Occidente si muove, ma anzi si fonda su esso. Si mostrerà che, lungi dal muovere da premesse disinteressate, la teoria è sempre tecnica, nella misura in cui non ha oltrepassato il terreno entro il quale si muove: «la filosofia greca ha inteso essere contemplazione disinteressata, non avente di mira alcun vantaggio pratico; ma nella storia della civiltà occidentale la filosofia […] è stata il primo formidabile strumento con il quale l'uomo dell'Occidente ha proceduto a soddisfare il proprio fondamentale interesse: la liberazione dal terrore della vita»114. Solo dopo questa consapevolezza profonda dei propri principî – consapevolezza della quale Leopardi è campione indiscusso – l'Occidente nichilistico potrà rinunciare all'aspetto tecnico entro il quale sempre si è mosso, anche nei momenti in cui si credeva assolutamente distante da questo orizzonte interessato, per scoprire il proprio significato, questo sì autenticamente poetico, che da sempre ha mosso ogni azione, ponendosi su un livello altro rispetto alla prassi nichilistica. Questo livello altro rispetto alla prassi nichilistica è in Leopardi però ancora legato alla scacchiera entro la quale giocatore bianco e nero si muovono, o meglio, è legato ai confini di questa scacchiera, per questo l'inedita nozione di “prassi” che il Recanatese sviluppa non può porsi al di fuori dell'isolamento nichilistico, ma non per questo ne sta veramente dentro, dato che Leopardi rifiuta qualsiasi tipo di orizzonte paradisiaco, e dunque qualsiasi tipo di volontà di potenza. La cifra poetica e tecnica che ha accompagnato l'auto-rappresentazione dell'Occidente solo alla fine, nel momento della sua più profonda presa di coscienza, si rivela essere stata fin dal principio altra dalla tecnica, cioè dal contenuto che muoveva all'azione. Si capisce che tutta questa presa di coscienza, ed il residuo poetico che rimane dopo questa presa di coscienza, non può che darsi entro (al limite) della scacchiera nichilistica all'interno della quale questa presa di coscienza può maturare. Rimarrà da affrontare, dopo avere sciolto questo nodo, un'ultima questione: si può parlare di tecnica anche al di fuori dei limiti che segnano la scacchiera del divenire? Su questa domanda sarebbe auspicabile che studî futuri potessero tentare di dare una risposta. Il centro filosofico di questo lavoro, sviluppato per l'appunto nel secondo capitolo, è preceduto da un capitolo iniziale, atto a svolgere alcune riflessioni inerenti il significato che l'Occidente nel suo sviluppo storico (non solo storico-filosofico) assume secondo l'ottica di Severino. La riflessione sulla poesia occidentale, sviluppata nel secondo capitolo, sarà calata nel modo più minuzioso possibile entro l'orizzonte metodologico attraverso il quale Severino è 114

Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 10.

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solito fare (storia della) filosofia. In questo stesso orizzonte metodologico ci si vorrà calare nel primo capitolo (dato che calarsi nel metodo mediante il quale Severino ricostruisce la storia della filosofia significa calarsi nello stesso contenuto filosofico affermato dall'Occidente), ed al contempo si vorrà calare – nel terzo capitolo di questo lavoro – Dante Alighieri, l'analisi del quale ci permetterà di confrontarci, mediante gli strumenti critici severiniani, con un autore nei confronti del quale Severino presta ben poca attenzione, nonostante lo stesso Severino ne abbia paventato, in alcuni punti dei suoi scritti, il potenziale filosofico.

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Capitolo Primo Severino e l'Occidente

È proprio dal punto di vista dell'ἐπιστήμη che il concetto di ente immutabile è autocontraddittorio. L'ente in quanto ente, che dovrebbe essere il tratto comune sia all'ente diveniente sia all'ente immutabile e quindi indifferente rispetto ad essi, è in effetti ente diveniente, sì che, nell'ἐπιστήμη (cioè nel pensiero occidentale in quanto ἐπιστήμη), l'ente immutabile si costituisce come un immutabile diveniente. Emanuele Severino, Essenza del nichilismo

§1 Storia della filosofia 1.1 Severino interprete dell'Occidente Parlare – come si è fatto nella Introduzione – di giocatori bianchi e neri significa implicare un campo di gioco entro il quale la partita viene giocata. È bene dire fin da subito che questa partita, che viene disputata dal giocatore bianco e dal giocatore nero, prevede anche un terzo giocatore, che non gioca, ma che «indica lo Sguardo che vede qualcosa di mai visto dalla sapienza dei mortali»1: a quello Sguardo immenso che è il «destino della verità» si rivolge la pars costruens degli scritti di Severino. La pars costruens, fondante la pars destruens, non sarà oggetto di questo lavoro. Nelle pagine che seguiranno non si indagherà infatti quello Sguardo che il terzo giocatore indica, ma si mirerà a sviluppare la pars destruens del discorso severiniano, che consiste in una critica all'inconscio della civiltà occidentale e in particolare a quell'orizzonte teorico attraverso il quale l'Occidente diventa cosciente della sua essenza nichilistica: la filosofia. La filosofia, prendendo le mosse dalla posizione propria del giocatore bianco, in cui consiste «la tradizione della civiltà occidentale […] [la quale] ritiene di avere la capacità di mostrare che il mondo, in tutti i suoi aspetti, esiste all'interno di un Ordine e di un sistema di Leggi immutabili che si fondano sul Principio divino ed eterno di tutte le cose» 2, acquisisce nel corso del suo sviluppo storico sempre maggiore consapevolezza del fatto che le premesse dalle quali

1 2

Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 12. Ivi, p. 9.

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prende le mosse non possono che sfociare nella posizione apparentemente opposta a quella della tradizione, ossia la posizione propria del giocatore nero, il quale scorge «le ragioni dell'immensa frana di più di due millenni di civiltà»3. Le posizioni del giocatore nero, proprio in quanto condividono le premesse dalle quali la tradizione (il giocatore bianco) muove, non si pongono, se non superficialmente, in antitesi con la tradizione. Il giocatore nero, a ben guardare, non fa altro che portare a coerenza le posizioni del giocatore bianco, stando all'interno della scacchiera della storia dell'Occidente, che è la storia della alienazione dal destino della verità. Infatti, osserva Severino riferendosi al Cristianesimo – cioè ad uno dei nodi teorici che più l'hanno tenuto impegnato nel corso di tutta la sua speculazione – l'Omicidio e il Comandamento di non uccidere dicono la stessa cosa; infatti, «“non uccidere” significa: “Non violare la natura dell'uomo”»4, ma la natura dell'uomo anche per il Cristianesimo consiste nel «suo essere destinato alla morte» 5; proprio per questa ragione, tanto per il Cristianesimo quanto per ogni (altra) espressione del nichilismo, «anche se tu vuoi vivere, uccidendoti io mi adeguo alla tua natura e ti rendo giustizia, perché la tua natura è il conflitto tra la morte e la tua volontà di vivere»6. Proprio in quanto «il comandamento di non uccidere, che crede di conoscere la natura dell'uomo, è […] l'approvazione dell'omicidio, pur essendone in superficie la condanna»7, in un ipotetico dialogo tra i due – tra l'Omicidio che fa cadere nel nulla ed il Comandamento in questione – il primo non può che dire al secondo: «se io sono colpevole, lo sei anche tu»8. Chiediamoci in via preliminare: in cosa consiste il criterio metodologico al quale ci si appoggerà per ricostruire le mosse attraverso le quali l'Occidente prende coscienza di sé, così da dare “voce”, alla fine del suo percorso autocostitutivo, a quel silenzio (la poesia) che già da sempre va a costituire – permettendone il processo autocostitutivo – lo sviluppo del nichilismo?9 Il metodo da adottare è un metodo critico, per certi versi simile a quello “critico” marxiano: come Il Capitale si pone come una “critica dell'economia politica”, cioè come una 3

Ivi, p. 10. Severino E., La filosofia futura, cit., p. 179. 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 182. 7 Ivi, p. 185. 8 Severino E., Pensieri sul cristianesimo (1995), Milano, Rizzoli, 2010, p. 10. 9 Sarà bene precisare fin da subito che la comprensione alla quale si è appena fatto riferimento è una comprensione sempre parziale: saranno i limiti entro i quali questa miope auto-comprensione si esercita l'oggetto autentico di questo lavoro che, come ogni lavoro filosofico, è proprio con dei limiti (con dei confini, in senso kantiano) che si trova irrimediabilmente a dover fare i conti. 4

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demistificazione dell'atteggiamento naturalistico che vedrebbe nei rapporti di produzione capitalistici non dei rapporti sociali tra i tanti, ma li intende come gli unici e dunque intrascendibili rapporti sociali che possono darsi nella società, allo stesso modo il metodo critico severiniano prende le distanze da quella interpretazione che l'Occidente (la «volontà interpretante», che poi coincide con la più radicale tra le alienazioni, giacché è la madre di ogni alienazione) intende naturalisticamente come verità incontrovertibile per la quale il “ciò che” dell'ente deve essere inteso astrattamente rispetto al suo “è”. La critica che Severino muove all'Occidente, critica entro la quale ci muoveremo al fine di comprendere il significato della poesia dell'Occidente, è critica al nichilismo, ossia a ciò che «significa pensare, assumere e vivere come niente ciò che non è niente»10. Abbandoniamo quindi subito l'«opinione comunemente accettata che i due padri fondatori e grandi teorizzatori del nichilismo siano stati Dostoevskij e Nietzsche» 11; abbandoniamo cioè la nozione di “nichilismo” così come è esposta da Achille Varzi e Claudio Calosi nella loro spassosa Comedia metaphysica, che vede nei «Nihilisti» coloro i quali sostengono «che tutt' è nulla e il nulla è sanza fine./Chi onne cosa espunge sanz' appiglia/così che annientazion non ha confine»12, coloro i quali, cioè, espungono ogni cosa «dall'inventario del mondo»13. La nozione di nichilismo presentata da Varzi va abbandonata in quanto troppo poco drammatizzante: per Severino, infatti, nichilistica è già «la Repubblica fondata da Platone. Egli è il seminatore dell'Occidente»14, come avremo modo di vedere meglio nel corso di questo capitolo. Criticare il nichilismo per Severino significa portarne allo scoperto la logica intrinseca alla storia stessa dell'Occidente (storia che è diventata ormai la storia del mondo intero), «e cioè [significa portare allo scoperto] la coerenza della follia per cui la fede nell'esistenza del divenire (che il pensiero occidentale intende come l'evidenza fondamentale) rende impossibile l'esistenza di ogni forma immutabile che ne predetermini lo sviluppo: un divenire 10

Severino E., La strada. La follia e la gioia (1983), Milano, Rizzoli, 2016, p. 75. Volpi F., Il Nichilismo (1996), Bari, Laterza, 2013, p. 8. 12 Varzi A.C./Calosi C., Comedia metaphysica, ne la quale si tratta de li errori & de le pene de l'Inferno, RomaBari, Laterza, 2014, pp. 164-165. 13 Ivi, p. 165, nota. E ancora, con rime ricche di riferimenti leopardiani e dostoevskijani si esprime un anonimo nichilista posto sulla «ripa scoscesa» dell'Inferno filosofico progettato da Varzi: «“Noi proclamiamo solo distruzione”,/dicea; “scateneremo fochi e 'ncendia,/annulleremo onne costruzione./Che voto e lutto al nostro cor s' appendia./Furiosi s' offriranno i petti forti/a le ferite e fruste. Il sangue scendia./Uno sconquasso come mai fu scorti/a rovesciare templi e dei verrà./La terra piangerà i suoi vecchi morti/e tutto inghiotterà l'oscurità./Uniche stelle allor saranno i roghi/la cenere sarà l'eternità”» (ivi, pp. 166-167). 14 Severino E., La Strada, cit., p. 57. 11

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predeterminato è infatti un divenire apparente in cui già tutto l'essenziale è contenuto nel predeterminante»15.

(Va

ricordato

qui un

punto

importante,

che

meriterebbe

un

approfondimento particolare: questa posizione severiniana deriva da una maturazione che è assieme una opposizione al principio della permanenza ed eternità dell'essere (principio di Parmenide) formulato da Gustavo Bontadini16.) Nichilistica è quella interpretazione, considerata dalla fede dell'Occidente come una verità evidentissima, per la quale l'ente è oscillante tra l'essere e il nulla: «In quanto libero dall'essere e dal niente, l'ente è libero da ogni legame, libertà assoluta. […]. L'ἐπαμφοτερίζειν – in quanto determinazione dell'ente in quanto ente – è la pura essenza della libertà (cioè della creazione e dell'annientamento delle cose)»17. Risulta chiaro che, alla base della volontà di potenza dell'Occidente, sta esattamente questo suo modo di intendere l'ente: «Il fondamento della dominazione della tecnica è il senso che il pensiero greco conferisce una volta per tutte all'ente in quanto non-niente. L'ente che appare è, per i Greci, un epamphoterìzein (Platone, Civitas, 479 c): un dibattersi (erìzein), un oscillare tra (epí) “entrambi” (amphótera), ossia tra l'essere e il niente assoluto: l'ente che appare è ciò (ti) che oscilla tra l'essere e il niente ([…] “qualcosa insieme essente e non essente”; ibid., 478 d), ossia è il diveniente, ciò che esce dal niente e vi ritorna. Solo se l'ente è pensato come oscillazione tra l'essere e il nulla ci si può proporre di dominarlo in modo essenzialmente più radicale che nelle situazioni in cui non si sa alcunché dell'ente e del nulla. Solo se l'ente è pensato come oscillazione tra l'essere e il nulla acquista quindi un carattere essenzialmente più radicale la coordinazione dei mezzi in vista di quello scopo che è il far essere l'ente e il farlo andare nel nulla»18. La critica (teoretica) che Severino sviluppa nei confronti del nichilismo nel suo darsi storico (si ha quasi l'impressione di stare leggendo il contenuto di un ossimoro esprimibile attraverso l'espressione “storia teoretica della filosofia”, “anti-metafisica della storia”, leggendo La filosofia dai Greci al nostro tempo di Severino19) ha dunque come oggetto il campo di gioco 15

Goggi G., Emanuele Severino, Città del Vaticano, Pontificia Università Lateranense, 2015, p. 46. «Mentre per il Bontadini il principio della permanenza è risultato di una mediazione, che ha la sua base di immediatezza nel principio di contraddizione, noi ora vediamo che il principio della permanenza è immediatamente implicato dal principio di contraddizione, che è l'autentico principio di Parmenide» (Severino E., Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005, p. 142). 17 Severino E., Destino della Necessità, Milano, Adelphi, 1980, pp. 30-33. 18 Severino E., Pensieri sul Cristianesimo, cit., pp. 283-284. 19 Uso l'espressione “storia teoretica della filosofia” per rendere l'idea di ciò che Severino espone in questi termini: «in questi tre volumetti sulla filosofia antica e medioevale, moderna e contemporanea non si è adottato quel tipo di considerazione storica del pensiero filosofico, che si sforza di collegare immediatamente a radici extrateoriche le 16

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dal quale si prenderà avvio e all'interno del quale ci si muoverà nel corso di questo lavoro. Sarà bene dunque, per avere una visione d'insieme entro la quale saranno collocati i nostri due giocatori, tracciare le coordinate fondamentali che Severino dà nella sua storia della filosofia che, in Grecia nel VI secolo prima di Cristo, vede la luce. Essa, osserva il Bresciano, «nasce grande», in quanto la sua nascita getta «quelle che saranno le basi fondamentali della filosofia e con essa del futuro dell'occidente»20. Chiediamoci allora: cosa è, nella lettura severiniana dell'Occidente, la filosofia? La filosofia, come d'altronde prima della filosofia il mito, è theoría, è una visione, la contemplazione di una immagine, una immagine che anzitutto indica la visione della festa, che si svolge nella festa stessa. La filosofia, e prima della filosofia il mito, in quanto theoría offre una immagine del mondo, lo interpreta (mýthos, osserva Severino, indicava in origine la cosa stessa), e proprio in quanto offre una immagine del mondo, la theoría «si solleva al di sopra di esso»21. La differenza tra quella forma di contemplazione che è il mito e quella forma di contemplazione che è la filosofia consiste nel fatto che quest'ultima offre una immagine del mondo che si pone come una interpretazione vera del mondo e per questo crede di dare la forma più alta di salvezza, di felicità. Questa interpretazione “vera” del mondo si afferma di pari passo con lo sviluppo del pensiero ontologico, consiste nel tematizzare – radicalizzandola all'estremo – la distinzione tra essere e nulla, per poi fare collassare questa separazione nell'identità tra i due opposti: «la filosofia nasce, nella misura in cui essa non eredita, ma pensa in modo nuovo le vecchie parole. Per quanto riguarda la parola “essere”, la filosofia, nascendo, la assume come il nome di ciò che si contrappone all'infinita negatività del niente. E il divenire – cioè il cammino che va “dal non essere all'essere e dall'essere al non essere” – è per la filosofia greca l'uscire dall'assoluta negatività del niente e il ritornarvi» 22. A partire dalla fede nichilistica dei filosofi greci, si può dire che mediante questa interpretazione “vera” del mondo si può giungere alla felicità: «Aristotele dice appunto che la filosofia è la festa suprema, la suprema felicità» 23, e non è un caso che «per la glottologia, felix e festus (in cui risuona il senso di fesiae, feriae, “ferie”, teorie filosofiche. Il che non significa certo cancellare il problema di questo collegamento» ( Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 92). 20 Cusano N., Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, cit., p. 34. 21 Severino E., Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Milano, Rizzoli, 2012, p. 16. 22 Severino E., La filosofia futura, cit., p. 324. 23 Severino E., Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, cit., p. 16.

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“feste”), hanno la stessa radice fe»24. «La festa della filosofia decreta la morte della festa del “mito”», fatta di canti, danze, fuochi, gruppi umani – tutti elementi, questi della festa, che stanno a diretto contatto con quel canto che è il canto poetico. La filosofia è ciò che sviluppa quelle condizioni (ontologiche, trascendentali) di possibilità della civiltà nella sua interezza che la filosofia stessa – in quanto luogo in cui l'autocoscienza di questa civiltà si sviluppa dialetticamente – costituisce su un piano teorico, per quanto, praticamente, «l'intero sviluppo della razionalità occidentale è scandito dal distacco della scienza dalla filosofia»25; sulla base del metodo sperimentale – un metodo conoscitivo diverso rispetto a quello filosofico – le scienze moderne (tanto le scienze dure quanto le scienze umane) si intendono come alternative, «rivendicando la propria autonomia rispetto al sapere filosofico, cioè separandosi dall'originaria dimensione filosofica in cui sono già presenti i tratti fondamentali del loro contenuto»26. Ma proprio in quanto il metalinguaggio filosofico è ciò che pone le condizioni (ontologiche, trascendentali) di possibilità per la realizzazione del mondo e per la realizzazione della prassi nel mondo, Severino può dire che il distacco tra il metalinguaggio filosofico e il linguaggio oggetto delle scienze «è insieme la generazione della scienza da parte della filosofia, ossia è il processo in cui la scienza continua a mantenersi all'interno delle categorie fondamentali del pensiero filosofico, così come il generato mantiene in sé il codice genetico del generante»27. O, in altri termini: «all'interno del senso greco del divenire crescono dunque sia la Tradizione dell'Occidente, sia la Civiltà della tecnica; sia l'espitéme sia la distruzione dell'epistéme»28. Ecco che, sulla base della riflessione filosofica, può costituirsi la scacchiera sulla quale si danno battaglia il giocatore bianco e il giocatore nero. Questa scacchiera, questo terreno di gioco, è chiamata da Severino «Terra isolata». «La Terra isolata non comprende soltanto la tecnica e la scienza moderne, la volontà che crea dal nulla (o presume di creare), le fedi religiose, i loro molti dèi come l'unico Dio, la storia della filosofia senza eccezioni, l'arte e il linguaggio; l'isolamento della Terra è anche all'origine dell'esser-mortale dei mortali. L'uomo muore perché, nella Terra isolata, non sa di essere eterno»29 (proprio su questo punto, ad avviso 24

Ivi, p. 15. Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 428. 26 Ivi, p. 427. 27 Ivi, p. 428. 28 Ivi, p. 488. 29 Vitiello V., Severino/Hegel: un confronto (Atti del Convegno hegeliano di Chieti, 5-6 Aprile 2016), in Severino 25

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di Vitiello, si dà il «naufragio» del discorso severiniano: se è vero – come è vero – che (ciò che per Severino è) la follia, appare, cioè se la totalità dell'errore e del dolore sono inclusi nell'apparire della Gioia, non ci dovremmo forse chiedere se «è possibile la compresenza di Terra isolata e Terra che salva?»30). Cominciamo dall'inizio. Nel VI secolo «per la prima volta nella storia dell'uomo, i primi pensatori greci escono dall'esistenza guidata dal mito e la guardano in faccia» 31, tematizzando in modo rigoroso, mediante la speculazione ontologica, quella contrapposizione radicale tra essere e nulla che dominerà tutto lo sviluppo nichilistico dell'Occidente (non solo filosofico, ed ormai non solo collocato nel nostro Occidente geografico). Certo, le parole “essere” e “nulla” esistevano già prima della nascita della filosofia, tanto in Oriente (a tal proposito Severino prende come esempio il quarto inno del Rig-Veda, testo appartenente ad uno dei più antichi popoli dell'India), quanto nel mondo greco pre-filosofico, dato che «in ogni forma di cultura, quindi anche prima dell'avvento del pensiero filosofico, il divenire delle cose e degli eventi è sempre inteso come divenir altro: altro da ciò da cui il divenire incomincia. C'è divenire solo se c'è diversificazione: […] solo se l'aspetto che il mondo presenta all'inizio è diverso da quello che presenta alla fine del divenire» 32; e tuttavia questa contrapposizione acquisisce il suo significato peculiare e quindi radicale solo con la nascita del pensiero filosofico, che proprio per questo si pone (in modo del tutto erroneo, a detta di Severino, in quanto con questa mossa l'Occidente scambia per evidente una contrapposizione che porta alla affermazione della identità degli opposti – quella tra essere e nulla – che evidente non è, ma che al contrario è una interpretazione che non sa di essere tale) come detentore della verità incontrovertibile, che permette di sviluppare, nell'elaborazione di questa nuova forma di theoría, una immagine del mondo che si solleva al di sopra del mondo in modo non più precario, e per questo può pretendere di dare la salvezza dalle minacce del mondo, reso dalla theoría non più minaccioso in quanto non più instabile, e dunque prevedibile. Ciò non toglie che già il pensiero prefilosofico si trovi in una dimensione di fede e quindi di isolamento dalla verità per certi versi analoga a quella filosofica: «il pensiero pre-metafisico e quello metafisico […] esprimono per Severino la stessa “fede” e parlano lo stesso “linguaggio”: la fede e il linguaggio del E./Vitiello V., Dell'essere e del possibile, Milano, Mimesis, 2018, p. 112. 30 Ivi, p. 114. 31 Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale (1996), Milano, Rizzoli, 2010, p. 21. 32 Severino E., Tautótēs, Milano, Adelphi, 1995, p. 13.

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nichilismo; ma con una differenza. Nel primo di essi, non si ha consapevolezza alcuna dell'implicazione “nichilistica” di quella fede e di quel linguaggio, mentre nel pensiero metafisico, sebbene non si giunga a una “consapevolezza diretta” di quella implicazione – a pensare cioè che “l'ente è niente” – si afferma esplicitamente che l'ente non si oppone assolutamente al non essere, ma soltanto “quando è”, quando gli “accade” di essere»33. La filosofica è una verità luminosa: uno dei termini chiave della filosofia greca è la parola alétheia, che, osserva Severino, «significa “mostrarsi, uscendo dal nascondimento”, “lo stare dinanzi, in luce, visibile”»; e non è un caso che, nel capitolo della sua storia della filosofia dedicato all'Illuminismo, Severino scriva che «la storia della filosofia è la storia dell'Illuminismo, e l' “Illuminismo” del XVIII secolo è il modo specifico in cui viene inteso in tale secolo il rapporto tra vita umana e ragione» 34, un rapporto che si declina nella fede che si indirizza anche in quella «nuova forma di epistéme che è la scienza moderna». Una posizione, sotto questo aspetto, non tanto distante da quella adorniana sull'Aufklärung. La verità filosofica è così per gli uomini occidentali ciò che non può essere negato, smentito, ciò che è incontrovertibile: «non può essere scosso né da uomini, né da dèi, né da variazioni di costumi e di epoche»35. Si capisce allora come mai, proprio all'inizio della sua storia della filosofia, Severino definisca la filosofia come l'«aver cura di ciò che, stando nella “luce” […] non può essere in alcun modo negato»36. «Si può così comprendere perché la filosofia non abbia tardato a chiamare sé stessa epistéme. Se noi traduciamo questa parola con “scienza”, trascuriamo che essa significa, alla lettera, lo “stare” (stéme) che si pone “su” (epì) tutto ciò che pretende negare ciò che “sta”: lo “stare” che è proprio del sapere innegabile e indubitabile che si impone “su” ogni avversario che pretenda negarlo o metterlo in dubbio»37. È proprio in virtù di questa forza che la filosofia fa propria mediante l'elaborazione delle categorie ontologiche di essere e nulla, che Severino ci può dire che la filosofia – questo 33

Messinese L., Il paradiso della verità, cit., p. 108. SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia moderna (1996), Milano, Rizzoli, 2011, p. 242. 35 Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 31. 36 SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 22. 37 Ivi, p. 29. Il termine “epistéme” è mutuato da Severino dagli scritti del suo maestro Gustavo Bontadini (Cfr. Bontadini G., Conversazioni di metafisica, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. 136-166). «Il concetto di epistéme – termine antico a cui Bontadini era particolarmente affezionato – ben sintetizza lo stile intellettuale del maestro milanese. Epistéme esprime la verità stabile o, come amava definirla Bontadini, l'affermazione incontrovertibile dell'incontrovertibile, ossia l'espressione di un sapere in grado di reggersi di contro ad ogni possibile tentativo confutatorio e dunque di stare (stéme) e di imporsi sulle (epí) proprie negazioni, in quanto in quanto in grado di smascherare la contraddittorietà di ogni eventuale antitesi» (Grion L., Gustavo Bontadini, Città del Vaticano, Pontificia Università Lateranense, 2012, pp. 15-16). 34

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terreno sul quale cresce tutta la civiltà occidentale – «non è una contemplazione qualsiasi, ma quella che è propria della “sapienza” (sophía)»38. Solo la filosofia offre una immagine stabile che si alza al di sopra del mondo, e che dà un riparo incrollabile, inamovibile, e dunque solo la filosofia (questa la fede dell'Occidente) sa dare l'autentica felicità, che è una felicità da raggiungere con gli strumenti della tecnica. Questa solidità della theoría, della festa filosofica, rispetto a quella del mito, consiste in una diversa concezione del Tutto, una concezione che, nell'ambito del pensiero filosofico, si fa più radicale, in quanto appoggiata da un nuovo impianto ontologico che mancava al mito: il cháos mitico non possiede «il significato filosofico del Tutto» perché gli manca «il motivo in base al quale poter escludere che qualcosa si trovi al di fuori di esso»39. «Rivolgersi al Tutto vuol dire percorrere l'estremo confine, al di là del quale non esiste niente», esiste cioè l'estremo dolore, dato che l'imprevedibilità assoluta che il nulla porta con sé è al contempo dolore assoluto. Infatti «la morte, prima dell'ontologia greca, non conteneva lo spettro dell'annientamento e quindi non poteva avere lo stesso carattere angosciante che inizia ad avere con la nascita dell'ontologia» 40. Da ciò deriviamo che la “verità” luminosa della filosofia presenta un fondo torbido, tutt'altro che salvifico. 1.2 Il “sistema filosofico”, le sue articolazioni, le sue anomalie Tratteggiamo ora il percorso che ha portato l'Occidente – nella ricostruzione che dell'Occidente fa Severino – a sviluppare e comprendere sempre più l'inconscio che lo muove, percorso che va identificato con lo sviluppo storico della filosofia. Questo percorso conosce al suo interno diverse articolazioni, la più importante delle quali è quella che vede, nel passaggio storico che va dalla metafisica moderna a quella contemporanea (passaggio segnato da quel fenomenale crinale che consiste nell'opera di Hegel), la distruzione degli eterni, e dunque lo sviluppo di una differente metafisica, che spesso si è voluta etichettare come anti-metafisica ma che in realtà, proprio in quanto non si solleva da quello scacchiere che è la follia occidentale, non si sa sollevare da quel punto di partenza, eminentemente metafisico, che consiste nel riconoscimento dell'evidenza indiscutibile del divenire niente da parte dell'ente. Se la metafisica pre-contemporanea scorgeva un Ordine, una Legge immutabile a fondamento del divenire, e per questo poteva essere definita come metafisica epistemica, il pensiero 38

Severino E., Nascere, cit., p. 15. SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 24. 40 Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 33. 39

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contemporaneo, al di là di tutte le infinite espressioni attraverso le quali si è espresso, vede come comune denominatore il rifiuto degli eterni, e quindi lo sviluppo di una metafisica antiepistemica. All'interno della metafisica epistemica, che si è sviluppata in un arco temporale che va dal VI secolo a.C. alla simbolica data spartiacque che è quella della morte di Hegel (1831), si sono date anzitutto due posizioni cronologicamente consecutive: la metafisica epistemica greca e medievale, caratterizzata dal (predominante) realismo ingenuo, e la metafisica epistemica della modernità, inaugurata convenzionalmente da Cartesio, che si è impegnata a problematizzare e criticare quel dogmatismo troppo spesso sottovalutato dal pensiero greco e medievale. In ultima istanza, va indicata una certa qual svolta, seppure all'insegna di una pressoché inalterata continuità, intercorrente tra la filosofia greca e quella medievale cristiana. Tutte queste distinzioni, è bene ripeterlo, stanno sotto il segno di un medesimo pensiero fondamentale, che consiste nel riconoscimento dell'evidenza originaria del divenire, cioè di quella scacchiera dalla quale il pensiero metafisico non può evadere. Bisogna inoltre dire che Severino non si è mai illuso di poter applicare alla storia della filosofia facili schemi rigidi e prestabiliti: i suoi “manuali” non mancano di riconoscere anticipazioni e anomalie teoriche che si danno nel corso della storia della filosofia. È questo il caso di Campanella, filosofo pre-cartesiano che già anticipa problematiche tipicamente moderne: «la tematica del sensus sui fa di Campanella un grande anticipatore del pensiero moderno, e prelude addirittura al concetto kantiano di “appercezione trascendentale”» 41; ben prima di Campanella, già Sesto Empirico anticipò la tematica portante della modernità, dicendo che «non esiste alcuna garanzia che i “fenomeni”, ossia le cose che appaiono alla nostra coscienza e alla nostra sensibilità, corrispondano alle cose come sono in sé stesse, indipendentemente dal rapporto che esse hanno con l'uomo»42. Un caso ancora più eclatante è quello di Ockham il quale, sullo scorcio finale del Medioevo, già anticipa tematiche antiepistemiche, come osserva Severino in un paragrafo significativamente intitolato «Ockham e il pensiero contemporaneo»43.

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SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 35. SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 247. 43 Cfr. Ivi, pp. 303-306. 42

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1.3 La filosofia al tempo della venuta meno dell'epistéme Partiamo dalla prima, maggiore dicotomia: quella cioè che vede coinvolte la metafisica epistemica e la metafisica anti-epistemica (post-hegeliana). Perché la filosofia, ad un certo punto, ha sentito il bisogno di abbattere, a suon di martellate, il «muro di pietra», ossia la verità ultima e definitiva del mondo, così come era intesa dalla tradizione? Risposta: per consentire una maggiore possibilità di dominio su quel mondo che, pur essendo dominabile (prevedibile) per mezzo delle categorie ontologiche greche, risulta concretamente dominabile non più dalla filosofia. Da questa presa di coscienza prende avvio «il processo di separazione della scienza moderna dalla filosofia»44, che va di pari passo con la sempre più marcata ghettizzazione della filosofia la quale, nonostante sia diventata nella contemporaneità una «radura isolata», non smette tuttavia di essere quel punto di irradiazione che è sempre stata da quando l'Occidente si è munito delle categorie ontologiche greche per poter dominare il mondo, ossia per coltivare l'illusione della salvezza mediante la prassi: «la nascita dell'antropologia è significativa: si tratta di togliere alla filosofia il monopolio della ricerca sull'uomo (ánthropos) – così come la fisica le toglie la natura, l'economia e la sociologia la società, la psicologia l'anima, la logica matematica e la linguistica il ragionamento e il linguaggio – e la teologia cristiana, per altri motivi, le aveva tolto il monopolio della ricerca su Dio. L'uomo (e la sua angoscia) si presenta sempre più come ciò che la scienza conosce dell'uomo, e che viene trasformato dalla tecnica. L'antropologia appartiene appunto al processo in cui l'uomo conosce sé stesso sulla base delle categorie della scienza»45, e non sulla base delle categorie filosofiche (per quanto, indirettamente, le categorie scientifiche vengano sviluppate sulla base di quella scacchiera – la scacchiera del nichilismo – che dalle categorie ontologico-filosofiche è stata costituita). Questa rottura che avviene all'interno del nichilismo e che, come tutto ciò che avviene all'interno del nichilismo, ha anche un valore pratico (ricordiamo che, per Severino, “nichilismo” è «pensare, assumere e vivere» come niente ciò che è non niente), è una rottura che si deve intendere anzitutto attraverso un processo atto a dare coerenza a quella follia che non sa scorgere il suo inconscio. Il pensiero contemporaneo sente cioè la necessità di dare coerenza alla metafisica facendo tramontare quel conflitto, divenuto ormai palesemente insostenibile, tra la verità eterna e definitiva della tradizione (rigettata dalla metafisica anti44 45

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 480, corsivo mio. Ivi, p. 461.

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epistemica) e l'esistenza, diveniente ed imprevedibile, conflitto che invece viene mantenuto dal pensiero epistemico, anch'esso convinto che «l'esperienza attesti innegabilmente il processo di entificazione del niente e di nientificazione dell'ente»46. Per usare le parole di Dostoevskij: Voi credete nell'edificio di cristallo inalterabile in eterno, cioè tale che non gli si potrà né mostrare la lingua di nascosto, né fargli le fiche in tasca. Be', ma è forse per questo appunto che ho paura di questo edificio, perché è di cristallo, perché è di cristallo e inalterabile in eterno, e perché non gli si potrà nemmeno mostrare la lingua di nascosto [si noti che qui Dostoevskij, nonostante intenda chiaramente per “edificio di cristallo” la tautologica ragione matematica che muove la civiltà volta alla costruzione del “paradiso della tecnica”, affermando l'immobilità e l'inalterabilità di questo muro di cristallo, ed affermando la moralistica proibizione di mostrare la lingua, associa tale edificio di cristallo del paradiso della tecnica, al suo (apparente) opposto, che è il paradiso cristiano!]. Vedete: se, invece di un palazzo, ci sarà un pollaio e verrà la pioggia, forse m'infilerò nel pollaio, per non bagnarmi, ma tuttavia il pollaio non lo scambierò per un palazzo, a dimostrargli la mia riconoscenza perché mi ha preservato dalla pioggia. Voi ridete, dite persino che in questo caso un pollaio o un castello fa lo stesso. Sì, rispondo io, se si dovesse vivere solamente per non bagnarsi.47

Proprio in quanto, stando all'interno della scacchiera dell'Occidente, si ritiene – ed è questo il terreno comune a tutta la metafisica, epistemica e non – che le cose vengano dal niente e ritornino nel niente, bisogna dare ragione dell'impossibilità che gli enti, che dal niente emergono e al niente ritornano, insieme, possano anche uscire ed entrare in un luogo eterno ed immutabile, che garantisce loro senso, salvezza dall'angoscia derivante dalla morte, e quindi possibilità di prevedere e controllare il loro decorso. La posizione che afferma l'eterno (cioè la posizione dell'ente che consente la previsione) è ciò che nega il divenire. L'epistéme, «imponendo al divenire la propria legge, riconosce l'esistenza del divenire – così come il padrone può voler dominare il servo, proprio perché ne riconosce l'esistenza» 48; l'epistéme è ciò che, per la terra isolata dalla verità, consente la possibilità di garantire l'esistenza del mondo che si dà accidentalmente e di prevedere il mondo, e quindi di dominarlo; ma la stessa 46

Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 43. Dostoevskij F., Memorie del sottosuolo, cit., p. 37. 48 Severino E., La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire (1989), Milano, Rizzoli, 2014, p. 13. 47

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epistéme è ciò che nega quel mondo che dovrebbe garantire e che dovrebbe permettere di dominare. La metafisica anti-epistemica comprende per l'appunto che ogni verità immutabile ed assoluta deve essere negata per evitare che il niente sia identificato al non-niente. Ponendo l'essere eterno ed immutabile, l'ontologia deve riconoscere la sua radicale alterità e deve, in ultima istanza, identificare queste due alterità radicali. Per questa ragione, a detta di Parmenide, «i mortali hanno una “doppia testa”, perché con una intendono contrapporre l'essere al niente, ma con l'altra, affermando il divenire dell'essere [cioè riconoscendo il nulla ponendo l'eterno], vengono a pensare che l'essere è identico al niente» 49. «Ogni verità immutabile ed assoluta dell'epistéme deve essere negata per evitare che il niente sia identificato al non niente»50. L'importanza di Parmenide per Severino sta proprio nel fatto che, avendo contrapposto in modo infinito essere e nulla, l'Eleate da un lato apre la strada al destino della verità, a quel superamento del nichilismo che gli scritti severiniani affermano proprio sulla base della struttura originaria dell'essente, cioè sulla base dell'opposizione infinita di essere e nulla, ma dall'altro apre la strada alla stessa storia dell'Occidente, che è storia del nichilismo. Parmenide è, insieme, «la prima testimonianza e la prima violazione del destino della verità» 51. Per quale ragione anche il nichilismo afferma la radicale separazione delle categorie di “essere” e “nulla”, categorie che proprio con la filosofia, per la prima volta, fanno la loro comparsa? Perché, dicendo che il mondo è costituito da essenti, e che gli essenti sono dei divenienti, si afferma che gli essenti che costituiscono il mondo sono degli oscillanti tra questi due estremi – l'essere e il nulla. L'essente è un diveniente in quanto è isolato tanto dall'essere quanto dal nulla. Per Parmenide, tuttavia, tale isolamento concerne l'essente e l'essere, e non l'essente e il nulla; anzi, osserva Parmenide, proprio in quanto l'essente è isolato dall'essere (essendo una determinazione, e dunque non essendo l'essere), l'essente si identifica con il nulla. Dopo Parmenide, a partire da Platone, l'Occidente afferma che, solo per il fatto che l'essente è isolato dall'essere, non si deve affermare che l'essente si identifica con il nulla. Platone andrà infatti affermando che l'isolamento dell'essente riguarda tanto l'essere quanto il nulla: l'essente non è né l'essere né il nulla, essendo isolato da entrambi; Platone afferma contro Parmenide che l'essente è un oscillante tra queste due radicali alterità. Ma proprio in quanto è isolato tanto dall'essere quanto dal nulla, l'essente è destinato a cadere – in un certo tempo (questo il 49

Severino E., Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano, Adelphi, 1989, p. 89. Severino E., La filosofia futura, cit., pp. 34-35. 51 Ivi, p. 56. 50

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significato nichilistico del principio di non contraddizione) – nel nulla (questa è la nozione di “destino” così come viene intesa in modo nichilistico, per esempio da Weber il quale, al culmine dell'autocoscienza nichilistica dell'Occidente, afferma che il “destino” è «il cieco accadimento del mondo [il “tutto ciò che è il caso” della prima proposizione del Tractatus] che porta al prevalere di un valore piuttosto che di un altro»52). «Isolata dall'essere, la determinazione è niente; ma la determinazione è niente anche in quanto, concepita come diveniente, viene isolata dall'essere e dal niente»53. Si potrebbe dire che il destino in senso nichilistico stia al principio di non contraddizione come il destino inteso in senso severiniano sta alla L-immediatezza. Per tutte le ragioni fin qui esposte si può dire che l'essenza del nichilismo si afferma sulla base dell'isolamento – operato per la prima volta da Parmenide – degli essenti dall'essere, e dell'identificazione conseguente degli essenti con il nulla. Questa identificazione, operata da Parmenide, pur non venendo esplicitamente riconosciuta se non dalle punte più avanzate della tradizione filosofica, accomuna l'intera civiltà occidentale. Anzitutto, questa identificazione dell'essente con il nulla assoluto riguarda Platone. Superficialmente, Platone si pone come il salvatore di quel mondo – gli essenti, le determinazioni del mondo – che Parmenide voleva invece negare; a ben guardare, tuttavia, Platone, affermando la non-non esistenza di quel mondo che è non esistente relativamente all'essere, destina – nel tempo – al nulla assoluto tutto quel mondo che superficialmente Platone pensa, contro Parmenide, di avere salvato dal nulla assoluto. Proprio in quanto l'Ateniese – e con lui l'intera civiltà occidentale che, sulla base del riconoscimento platonico-parmenideo dell'identità di essere e nulla, tenderà sempre più ad affermarsi come civiltà della tecnica – afferma l'evidenza originaria del divenire, isolando con Parmenide l'essente dall'essere, ed isolando – in un certo tempo – contro Parmenide l'essente dal nulla, «Platone salva il mondo da Parmenide, ma in questa salvazione rimane l'isolamento delle determinazioni dall'essere – l'isolamento che spinge Parmenide ad affermare che le determinazioni del mondo sono niente. Non si deve allora incominciare a pensare che, nel profondo della sua anima, il salvatore del mondo rimane il distruttore del mondo, rimane identico al Padre, a Parmenide, che il salvatore aveva tentato di uccidere?»54. Non si tratta insomma di intendere la mossa platonica del Sofista come un “prricidio mancato”? 52

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 238. Severino E., La filosofia futura, cit., p. 55. 54 Ivi, p. 54. 53

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Con la mossa platonica del Sofista si incomincia ad intendere le cose in quel senso nichilistico che permarrà per tutta la storia della filosofia: le cose, per la terra isolata dalla verità, proprio a causa della fede nell'evidenza indiscutibile nel divenire nella quale l'Occidente ripone la sua fede, devono essere libere da qualsiasi costrizione: il divenire deve essere libero ed imprevedibile. Ed è qui che entra in gioco l'aspetto pratico di questa svolta posta in atto dalla filosofia post-hegeliana. Liberare gli enti da ogni senso assoluto, abbattere limiti inamovibili ed invalicabili (il muro di pietra della tradizione), conferisce agli abitatori del tempo una potenza prima inimmaginabile: solo togliendo il Senso, solo togliendo ciò che è indistruttibile, gli abitatori del tempo possono fare delle cose ciò che vogliono, manipolandole illimitatamente. Ma togliere del tutto il Senso (portare cioè alla massima coerenza la mossa anti-epistemica tipica della contemporaneità) significa negare ogni possibilità di previsione, significa affermare la pervasività di ciò che è radicalmente imprevedibile; significa cioè, alla fine, ritornare a Parmenide, affermando l'identità dell'essente con il nulla, con la sua radicale negazione. Non c'è più un limite dinanzi al quale arretrarsi, non c'è più un muro di pietra che impedisce la prassi: le cose erano niente e saranno niente, per questo la cosa nichilisticamente intesa, in quanto situata in questo precario intervallo tra due distese che non lasciano spazio che a infinito e «solido» nulla, non può che essere identificata al nulla essa stessa. In questo contesto l'ente è totalmente disponibile ad essere plasmato, dominato (finché non è inteso, coerentemente alla fede del nichilismo, con il nulla assoluto con il quale la cosa si identifica: il nulla assoluto, infatti, non può essere né plasmato né dominato, essendo l'alterità assoluta che, ponendosi come tale, non può che dare l'angoscia estrema ai mortali): «se non si deve rispettare nessuna configurazione preesistente, la creatività diventa assolutamente libera»55. Ciò vale a dire che, per garantire le condizioni che rendono possibile la massima creatività dell'uomo, è necessario distruggere gli eterni, il che significa smettere di confrontarsi con delle verità incontrovertibili (il “perché” delle cose, che trascendono i fatti) per concentrarsi solo sui nudi fatti (il “come”), per poi trovare delle leggi universali che cercano di sussumere sotto di loro i fatti senza però trascenderli, ma cercando di prevederli approssimandosi in modo sempre crescente ai fatti medesimi (laddove prevedere gli enti significa non intenderli come identici al nulla assoluto, pur intendendoli nichilisticamente commisti al nulla assoluto, e per questo 55

Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 43.

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prevedibili e quindi dominabili): Nel rifiuto della ricerca del “perché” – osserviamo – si accomuna tutta la filosofia contemporanea in ciò che essa ha di innovatore rispetto all'epistéme filosofica. Di solito si ritiene che tra le filosofie, ad esempio, di Comte, Kierkegaard, Nietzsche, Wittgenstein e Heidegger esistano distanze che rendono questi pensatori tra loro incommensurabili. E, certamente, ognuno di essi presenta caratteristiche inconfondibili; ma in tutti è presente il rifiuto della ricerca epistemicofilosofica del “perché” – anche se, poi, Comte e Wittgenstein la sostituiscono con la scienza e con l'analisi del linguaggio, Kierkegaard con la fede cristiana, Nietzsche con una fede non cristiana nella volontà di potenza e Heidegger con un pensiero che si limita a “lasciar essere” la radicale mancanza di “perché” delle cose.56

E su questa base filosofica l'Occidente, al tempo della venuta meno dell'epistéme, può costruire la distruzione dell'epistéme in ogni ambito di studio, anche (e soprattutto, dato che la potenza l'uomo la realizza non filosoficamente bensì servendosi della scienza e della tecnica) non filosofico. La scienza, che è ciò che consente la massima previsione e dunque il massimo potere che l'uomo possa esercitare sul mondo, si pone anzitutto mediante una mossa non filosofica, bensì scientifica, come unica forma di razionalità (lo “scientismo”, nell'atto di identificare la razionalità autentica con la razionalità scientifica, fa una affermazione filosofica, e non scientifica, dato che la scienza formula proposizioni che si occupano dei fatti e dei fatti soltanto, laddove una proposizione che riguarda non i fatti ma le proposizioni della scienza (metalinguaggio) non può che essere una proposizione filosofica, non scientifica), e dopo avere fatto ciò la scienza contemporanea si pone, sulla base della riflessione filosofica contemporanea, come dóxa e non più, come accadeva invece ancora con Galilei il quale «non intendeva affatto eliminare la filosofia»57, come epistéme. Per dirla con le parole di Popper, le teorie scientifiche «sono, e restano, delle ipotesi, sono congetture (dóxa), contrapposte alla conoscenza indubitabile (epistéme)»58. Per questo, a chi chiedesse se, oggi, la filosofia è emarginata, Severino non può che rispondere, come ha risposto ad un giornalista del Giornale di Brescia: «Filosofia emarginata? È come se si volesse emarginare l'aria...». 56

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., pp. 124-125. Ivi, p. 125. Cfr. La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., cap. III, §8. 58 Popper K., Vermutungen und Widerlegungen (1963), trad. it. di G. Pancaldi, Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 180. 57

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Va inoltre detto che il tramonto dell'epistéme nella scienza, nella politica, nell'arte e in tutte le espressioni della cultura e della vita concreta dell'Occidente deriva dal fatto che, per Severino, la filosofia ha una priorità su ogni altra forma di vita (pratica e speculativa) degli uomini. Nonostante la filosofia si sia ridotta, nel corso del tempo, a «piccola radura», le deve essere ancora riconosciuto «il carattere di punto di irradiazione»59 giacché i cambiamenti che avvengono primariamente sul piano filosofico, si ripercuotono poi di necessità su tutte le forme di vita (pratica e speculativa) dell'Occidente, e questo perché tutte le forme di vita (pratiche e speculative) proprio dalla riflessione filosofica derivano; tra queste forme di vita ritroviamo anche – e per certi aspetti soprattutto, dato che un ruolo di primo piano va sempre dato, secondo la foga tecnico-nichilistica dell'Occidente, a ciò che riesce ad imporsi con forza sul mondo – la scienza, la quale si muove entro l'orizzonte ontologico sviluppato dal pensiero filosofico. «I concetti fondamentali del pensiero scientifico sono derivati dal pensiero filosofico: dal concetto di “movimento”, ai concetti di “causa”, “effetto”, “azione”, “passione”, “qualità”, “quantità”, “tempo”, “spazio”, “identità”, “differenza”, “unità”, “molteplicità”, “indivisibilità”, “divisibilità”, “necessità”, “legge”, “verità necessaria”, “esperienza”, “ragione”, ecc.»60; così, indicando alcune espressioni usate da Nietzsche per parlare dell'eterno ritorno, Severino può dire che «Le categorie di “circolo”, “finito”, “infinito”, “numero” non hanno qui un carattere scientifico: sono innanzitutto categorie essenzialmente ontologiche, ossia appartengono all'essenza dell'ente in quanto diveniente (E d'altra parte esse stanno al fondamento di ciò che la scienza intende con queste parole)»61. Andando sempre in questa direzione, Severino può scrivere che «l'attività scentificotecnologica è una delle forze decisive per la propagazione del senso greco dell'essente, ma è anche l'ambito in cui meno viene esplicitamente riconosciuto ciò di cui si promuove la propagazione»62. Per questo si può sostenere filosoficamente che «il tramonto della filosofia nella scienza è un'avventura della filosofia: non avviene lasciando alle proprie spalle la dimensione che la filosofia sin dal suo inizio ha portato alla luce: avviene all'interno di questa dimensione, all'interno cioè del senso greco dell'essente e del divenire»63. E come mai proprio la filosofia ha questo carattere primario rispetto alle altre discipline 59

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 7. Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 287. 61 Severino E., L'anello del ritorno, Milano, Adelphi, 1999, p. 214, corsivo mio. 62 Severino E., La filosofia futura, cit., p. 28. 63 Ivi, p. 43. 60

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speculative e alle attività pratiche? Rispondiamo a questa domanda dicendo che la filosofia, che è il luogo nel quale l'Occidente prende coscienza di sé, e che dunque si auto-costituisce, non sta nel mondo, non si occupa dei fatti (i filosofi non cercano mai prove empiriche per avvalorare i loro discorsi), bensì sta al limite del mondo, fornendo quelle categorie ontologiche delle quali le scienze particolari – le quali invece si occupano del mondo – si servono per occuparsi del mondo, dei fatti. La filosofia è la scacchiera sulla quale la vita viene vissuta, e sulla quale le scienze particolari esercitano le loro indagini. La filosofia è questa scacchiera (è la riflessione su questa scacchiera), e proprio in quanto è questa scacchiera, la filosofia non può stare al contempo dentro se stessa, così come l'occhio, proprio in quanto permette di vedere le cose nel campo visivo, non sta nel campo visivo64. Solo una persona talmente sprovveduta da non avere inteso questa natura meta-linguistica della filosofia può affermare che non è la filosofia ad avere una priorità teoretica sulla scienza (che pure è potente, a differenza della filosofia), e che sono le acquisizioni che si danno a livello scientifico che devono influenzare la ricerca filosofica. Tale livello di sprovvedutezza lo ritroviamo in Piergiorgio Odifreddi il quale, prendendosela con Bergson e con tutti quegli «incontinenti continentali […] da Heidegger e Croce a Deleuze e Severino»65, i quali avrebbero la colpa di occuparsi di questioni filosofiche senza tenere conto dei risultati della scienza, secondo il nostro «matematico impertinente» non comprenderebbero il fatto che i rapporti intercorrenti tra filosofia e scienza sarebbero del tutto sbilanciati in favore di quest'ultima. Affermando che l'unica forma di razionalità è la razionalità scientifica Odifreddi non si rende peraltro conto del fatto che questa stessa affermazione non è una affermazione scientifica (non si possono trovare fatti nel mondo atti a dare conferma del (non)fatto che l'unica forma di razionalità accettabile è quella scientifica), ma è una affermazione meta-scientifica, ossia filosofica, che non riguarda cioè il mondo ma che concerne le condizioni di possibilità del mondo e che, come tale, dovrà confrontarsi con altre proposizioni filosofiche, riconoscendo di doversi mettere sul terreno della filosofia, per poter difendere le proprie aspirazioni scientifiche: «nel suo sviluppo, la stessa filosofia neopositivista si renderà conto del carattere metafisico di quello stesso principio di verificazione che dovrebbe eliminare radicalmente la 64

Cfr. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (1918-1921), trad. it. Di A. G. Conte, Torino, Einaudi, 2009, 5.633. 65 Prefazione di P. Odifreddi a Russell B., The ABC of Relativity (1925), trad. it. di L. Pavolini, L'ABC della relatività, Milano. TEA, 2016, p. VII.

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metafisica»66. Già la filosofia greca, che spesso viene impropriamente rappresentata come disinteressata contemplazione, ricerca primariamente l'utile, ricerca cioè la salvezza da quell'orrore che essa stessa è responsabile di avere fatto emergere: «la filosofia scopre il supremo rimedio contro il terrore proprio nell'atto in cui porta alla luce la forma estrema del terrore» 67. Mossa dai medesimi intenti pratici e dalla stessa convinzione di fondo, la filosofia contemporanea può dire, con Nietzsche, che «il rimedio è stato peggiore del male»: il Senso, l'Ordine immutabile, distrugge la vita, inibisce l'azione. «Se Dio esiste, l'uomo non può vivere»68. Il Senso serviva alla metafisica epistemica a prevedere quel divenire che, con l'elaborazione delle categorie ontologiche di cui si è munito, cioè con la costituzione della scacchiera sulla quale si danno finta battaglia i due finti antagonisti (giocatore bianco e giocatore nero), aveva fatto emergere, ma la metafisica anti-epistemica, ossia contemporanea, riconosce che l'epistéme nega quella verità che sta al di sopra di ogni sospetto (il divenire) che, ponendosi come epistéme, la metafisica pre-contemporanea vorrebbe invece salvaguardare e dominare al meglio. Ma dato che per la metafisica tutta il divenire è l'indubitabile, allora sarà necessario smantellare quel muro di pietra che, pensando di salvaguardare l'evidenza indubitabile, era invece in contraddizione con essa, e quindi finiva per distruggerla; «Leopardi, Nietzsche e Gentile sono tre vertici di questo processo di coerentizzazione della follia»69. La filosofia contemporanea si rende inoltre conto del fatto che, per quanto le categorie ontologiche sviluppate dalla filosofia vadano a sostenere ideologicamente l'azione tecnicoscientifica che muove la scienza verso una sempre maggiore previsione e dunque controllo della realtà diveniente, è la scienza, e non la filosofia, che permette di realizzare concretamente la prassi trasformatrice. Per questa ragione nell'età contemporanea il sodalizio tra filosofia e scienza si fa, anzitutto dalla prospettiva filosofica, di necessità strettissimo. La filosofia si rende cioè conto che solo la scienza può consentire il dominio su quel divenire che la filosofia, ponendosi “ai limiti del mondo”, può tematizzare. Per esempio, in Marx «questa sintesi di filosofia e scienza non è casuale e non rappresenta nemmeno una sorta di eclettismo: è invece il sintomo della crescente convinzione che l'indagine scientifica sia particolarmente idonea a 66

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 313. Ivi, cit., p. 11. 68 Ivi, p. 14. 69 Goggi G., Emanuele Severino, cit., p. 198. 67

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mettere in luce la configurazione autentica del divenire»70. Scrive Nietzsche che «è di capitale importanza sopprimere il mondo vero [ossia la dimensione divina e immutabile affermata dalla tradizione filosofica]. È questo che mette in dubbio e sminuisce il valore di quel mondo che noi siamo [cioè l'indubitabilità del divenire e la creatività con la quale ci identifichiamo sulla base dell'indubitabilità del divenire]: sinora fu il nostro più pericoloso attentato contro la vita»71. È esattamente questo lo spirito che per Severino pervade la filosofia degli ultimi due secoli, quello spirito che in modo particolarmente efficacie viene esposto nelle prime pagine di Teoria generale dello spirito come atto puro di Gentile il quale, scagliandosi contro i residui realistico-ingenui di Berkeley, vede in Dio quella barriera volta ad annullare il pensiero, ossia la prassi umana: Lo stesso Berkeley, insomma, pur dicendo che esse est percipi, pur facendo coincidere la realtà con la percezione, distingue tra pensiero che pensa attualmente il mondo, e Pensiero assoluto, eterno, trascendente le singole menti. […] Questo Pensiero eterno, questo pensiero infinito non è il nostro pensiero, che ad ogni momento sente i proprii limiti; questo pensiero è Dio. Dio pertanto è la condizione che rende possibile pensare il pensiero dell'uomo come esso stesso realtà, e realtà come essa stessa pensiero. […] Ebbene, lo stesso Berkeley che enuncia una proposizione così bella, così piena di vita, […] egli stesso riproduce poi la posizione dell'antica filosofia, e non arriva a concepire un pensiero che sia veramente creatore della realtà, cioè, esso stesso, realtà.72

1.4 La filosofia al tempo dell'epistéme: la modernità ed il problema dell'idealismo Entriamo ora, a ritroso, in quel periodo in cui non si era ancora preso coscienza della contraddittorietà di Dio, e della necessità della sua morte. Entriamo cioè nel territorio del giocatore bianco. Si è detto che entro questo periodo vi sono tre momenti che Severino si premura di distinguere, pur nella loro omogeneità di fondo: il periodo greco (tanto classico quanto neoplatonico), il periodo medievale ed infine il periodo moderno. In una prima approssimazione si possono intendere i primi due momenti (quello greco e quello cristiano medievale) come un unico momento, dato che la continuità tra i due è molto più netta di quanto 70

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 98. Nietzsche F., Der Wille zur Macht (1906), ed. it. a cura di M. Ferraris e P. Kobau, La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 2001, §583. 72 Gentile G., L'attualismo, Milano, Bompiani, 2014, pp. 78-80, corsivo mio. 71

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non sia la continuità tra i primi due e il terzo, quello moderno. Il periodo che ora si tratterà di indagare – quello relativo alla filosofia moderna – si differenzia, rispetto al periodo grecomedievale, dal fatto che, con Cartesio, la riflessione filosofica sulla soggettività emerge in modo molto più netto, e da questa scoperta emergono dei problemi che il pensiero pre-moderno aveva trattato con molta meno consapevolezza. Si può facilmente constatare che la partizione del periodo moderno operata da Severino è profondamente debitrice dell'impianto hegeliano, e non è un caso che il volume dedicato alla filosofia moderna si apra con il sostantivo “Hegel”, e si concluda parlando di Hegel come culmine della modernità o, meglio, come culmine della metafisica epistemica nella sua interezza. Precisamente, il testo inizia così: «Hegel ha prepotentemente richiamato l'attenzione sul carattere organico della storia»73, organicità alla quale Severino è fedelissimo dato che, per Severino, l'impianto dell'Occidente è essenzialmente dialettico (dialettica è la struttura stessa dell'ente così come è inteso dall'Occidente, e dunque è proprio la dialettica ad essere la condizione di possibilità della volontà di potenza dell'Occidente: non c'è potere senza attrito, e non ci sono attrito e potere senza dialettica), e allo stesso modo è dialettica la storia della filosofia così come la presenta Severino, cioè come un susseguirsi di momenti positivi e negativi, tutti volti ad una sempre maggiore presa di coscienza del significato autentico del proprio impianto categoriale, senza però saperlo trascendere, senza perciò riuscire a comprenderne l'intrinseca erroneità. Va sottolineato che questo impianto dialettico che per Severino permea l'intera storia della filosofia, è dal Bresciano mutuato dal suo maestro Bontadini, ed in particolare dai suoi Studi sull'idealismo nei quali si sostiene che la storia della filosofia è «una storia i cui capitoli non si giustappongono l'uno all'altro, ma si strutturano invece secondo una logica dialogicodialettica, nella misura in cui ciascun autore lascia in eredità ai successivi una serie di problemi fondamentali e alcune chiavi ermeneutiche per risolverli in un dialogo progressivamente sempre più esigente. […] In quest'ottica può darsi benissimo che alcuni capitoli di questa storia siano, in sé, espressione di un errore teoretico, quel che conta, però, è la funzione svolta anche da quell'errore rispetto al disegno complessivo disegnato dal logos nel suo percorso di autocomprensione»74. 73 74

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 9. Grion L., Gustavo Bontadini, Città del Vaticano, Pontificia Università Lateranense, 2012, p. 50, corsivo mio.

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In contrapposizione a manuali totalmente destrutturabili, che tanto vanno di moda al giorno d'oggi, e che incaricano innumerevoli specialisti di occuparsi del piccolo tassello che a loro compete, Severino mira alla più rigorosa unitarietà della storia della filosofia, a costo di fare delle forzature (forzature che, come è noto, sono ben presenti anche nelle hegeliane lezioni sulla storia della filosofia): è il caso della lettura severinana di Vico 75, dove il filosofo napoletano viene appiattito al rango di precursore di Kant; nel fare ciò, Severino insiste sull'importanza di quel verum-factum il cui valore – a differenza di ciò che Severino crede di poter affermare, sulla base della sua lettura dialettica della storia della filosofia – molto più che gnoseologico-trascendentale, è politico-antropologico, come i più tra gli studiosi di oggi sostiene. Il lavoro severiniano, sotto questo aspetto, va intenzionalmente articolandosi secondo la più fedele impostazione dialettica hegeliana, senza preoccuparsi troppo delle forzature che una lettura organica della storia della filosofia comportano. Il principale lascito hegeliano che continuerà a comparire nelle pagine severiniane dedicate alla filosofia moderna è la distinzione tra certezza e verità, laddove per “certezza” è da intendersi il “pensato”, proprio del soggetto, ossia ciò che nella terminologia di Locke è chiamato “idea”, e che nella terminologia di Cartesio è chiamato “essere oggettivo” (ciò che gli scolastici chiamavano objectum mentis). La “verità” si rifà invece a ciò che trascende il pensiero, che è esterno ed indipendente al pensiero (ciò che Cartesio ha chiamato “essere formale”, l'oggetto trascendentale kantiano: ciò che è denotato dall'essere oggettivo quando si dà corrispondenza tra essere e pensiero). Potremmo dire che le costruzioni linguistiche inerenti la certezza (per esempio: «Beatrice crede che il Sole giri attorno alla Terra») non sono verofunzionali, non dipendono dal valore di verità dei termini che le compongono, proprio in quanto la certezza si rifà alle opinioni psicologiche di una variabile soggettività empirica, e non a come stanno le cose. C'è tuttavia da dire che Severino, parlando di “certezza” e “verità”, si riferisce solo superficialmente ad Hegel, laddove il referente del suo discorso è, indubbiamente, il vecchio maestro della Cattolica; per Bontadini, infatti, «la forza dell'attualismo [che identifica certezza e verità, pensiero ed essere] viene individuata […] nella sua capacità di porsi come chiusura critica del ciclo moderno (caratterizzato dalla separazione tra essere e pensiero) e come nuovo punto di partenza della ricerca filosofica» 76. Il passo 75 A tal 76

proposito, si rimanda alla lettura del sottoparagrafo 5.2 del capitolo secondo di questo lavoro. Carmelo V. (a cura di), Bontadini e la metafisica, Milano, Vita e Pensiero, 2008, p. 422.

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successivo di Bontadini è però quello di criticare la dogmatica mossa attualistica, volta ad affermare a priori l'assolutezza dell'immanente (ossia l'impossibilità del trascendente), mentre Severino, in accordo con Gentile, tiene ferma – esaltandola come la mossa peculiare e vincente dell'attualismo gentiliano – la mossa antiepistemica dell'idealismo medesimo. Hegel ci dice che la filosofia greca è stata solamente comprensione dell'Idea, in quanto nel mondo greco «il pensiero vede la realtà, ma non vede questo suo vedere, che tuttavia avvolge ed illumina la realtà»77. L'idea è insomma per i greci solo ciò mediante cui si conosce (l'id quo cognoscitur), mentre non è ciò che viene conosciuto (l'id quod cognoscitur). Non che per Severino la metafisica greca non sia consapevole di essere fatta da filosofi che sono pensiero che pensa la realtà, e tuttavia con la filosofia antica si ritiene che «la mente e il pensiero dell'uomo sono accidentali rispetto alla realtà» 78. Per esempio, per Aristotele l'atto puro – cioè la realtà nella sua assolutezza – è pensiero di sé, cioè è autocoscienza, e tuttavia «questo pensiero di sé viene inteso da Aristotele come un che di trascendente rispetto alla nostra coscienza della realtà. Ciò vuol dire che Aristotele conosce sì la definizione dello spirito, ma continua ad intendere lo spirito come idea, ossia come qualche cosa di indipendente rispetto alla nostra accidentale considerazione pensante»79. Anche per la più consapevole metafisica greca, lo spirituale è sempre qualche cosa di accidentale rispetto al reale verso il quale è rivolto. Nella metafisica moderna, invece, «il pensiero che prima era dimentico di sé, si mette ora dinanzi a se stesso, e si conosce come l'elemento in cui la realtà si costituisce» 80. In questo senso la metafisica moderna è da intendersi per Hegel come comprensione dello spirito, e non come mera comprensione dell'idea, per quanto poi, al culmine della comprensione dello spirito, l'idealismo si riconosca come la forma più coerente e rigorosa di realismo: all'apice della filosofia moderna «Hegel chiama “idea” ciò che per il realista è la realtà stessa, ossia quella realtà rispetto alla quale l' “idea” (nel vocabolario realistico) è l'id quo e non l'id quod cognoscitur»81. A tal proposito, parlando della critica di Gioberti al soggettivismo residuale di Rosmini, Severino vede nella mossa iper-realista giobertiana – volta a riconoscere che «l'Idea non è un nostro concetto […] ma è, appunto, la verità assoluta ed eterna “in quanto si affaccia all'intuito dell'uomo”, ossia è 77

Severino E., Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana, 2010, p. 8. Ivi, p. 21. 79 Ivi, p. 9. 80 Ivi, p. 8. 81 Ivi, p. 21. 78

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la verità assoluta ed eterna, in quanto presente nel pensiero» 82 – la stessa mossa compiuta dall'idealismo hegeliano: «questo [realismo radicale di Gioberti], anche se Gioberti si rifiuta di riconoscerlo, è appunto il senso che anche Hegel attribuisce all'Idea»83. Sotto questa luce anche la critica che la sinistra hegeliana muove contro Hegel risulta piuttosto debole: per Feuerbach l'errore di Hegel sta infatti nell'avere inteso «il movimento puro dell'Idea come autonomo rispetto alla sensibilità» 84, così per Marx «la sintesi hegeliana dello Spirito assoluto si costituisce al di fuori e indipendentemente dal movimento reale e quindi lo vanifica e lo rende apparente»85. Ma se in Hegel l'Idea che trae tutto da sé è la realtà stessa, queste critiche a Hegel non possono essere mosse se non al prezzo di cadere in una posizione intellettuale che va a separare Idea e realtà. Se Feuerbach e Marx vogliono – come vogliono – andare oltre Hegel stando dentro alla tradizione idealistica (dato che è la tradizione idealistica che teorizza nel modo più radicale la possibilità della prassi infinita dell'uomo), questa mossa intellettuale volta a separare Idea e realtà non può che fare cadere fuori da quella tradizione idealistica all'interno della quale invece Feuerbach e Marx pretenderebbero di collocarsi. Per dirla in altri termini, si può osservare che la critica che Marx muove contro Hegel è analoga a quella che Aristotele muove contro Platone: «per Hegel [dice Marx, sulla scia di Feuerbach] l'Idea è il soggetto e la realtà empirica è il predicato (come se ad esempio si pensasse che l'uomo è il soggetto, la sostanza reale, e Socrate il predicato e un accidente della sostanza – e si affermasse quindi che l'uomo è Socrate): bisogna rovesciare questo rapporto (e, stando all'esempio, si dovrà dire che Socrate è uomo […])»86. A questa critica Hegel e Platone replicano: “io non metto prima l'Idea e poi la realtà, dato che, se facessi questa mossa, mi porrei in una mossa intellettuale per la quale l'Idea è diversa dalla realtà”. Per Hegel tutta l'Idea che si manifesta nell'infinità della soggettività trascendentale – e che dunque si dà nell'immanenza della soggettività trascendentale – non è altro che la realtà, così come per Platone tutta la realtà – che si dà nella trascendenza iperuranica – non è altro che “mondo delle idee”. L'unico coerente idealismo è quello che identifica l'Idea con la realtà; e la mossa platonico82

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., pp. 65-66. Ivi, cit., p. 66. 84 Ivi, p. 78. 85 Ivi, p. 100. 86 Ivi, pp. 96-97. 83

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hegeliana è una mossa autenticamente idealista, laddove Marx, rifiutando l'identificazione di Idea e realtà, pur volendo presentarsi – contro Hegel – come autentico realista, non può che negare un coerente realismo, attraverso la sua mossa intellettuale di rifiuto dell'idealismo. La posizione hegeliana è insomma davvero difficile da attaccare in quanto l'unico modo per criticarla senza cadere in contraddizione è rifiutare la posizione idealistica, è cioè separare certezza e verità; ma, una volta fatto ciò, è impossibile non cadere nella trappola scettica messa così bene in luce da Hume (che pure la accetta): se rifiuti l'idealismo, dichiari la tua incapacità di conoscere l'essere formale, dunque ti dichiari impossibilitato a sviluppare un discorso sul mondo (è questo il momento negativo del processo dialettico mediante il quale si costituisce la filosofia moderna, ossia si autocostituisce l'autocoscienza dell'Occidente nella modernità). È il riconoscimento lucido di questo aspetto filosofico che fa di Hegel uno dei massimi teoreti del canone occidentale, per quanto una buona fetta di studiosi speculativi tenda ad isolarlo o, peggio, a ricondurlo alla sfera della filosofia pratica. Al contrario, l'importanza teoretica di Hegel è da Severino messa con enfasi in evidenza. La grandezza di Hegel consiste nel fatto di avere sottolineato, nella sua critica alla gnoseologia kantiana, il fatto che l'idealismo inteso come qualche cosa di altro dal realismo è una vera e propria truffa intellettuale, poiché l'unico buon idealismo è un realismo coerente ed emendato dalle problematicità del realismo cosiddetto ingenuo. L'unico «nuovo realismo» meritevole d'attenzione è il “vecchio” idealismo hegeliano, è quello che si afferma contro posizioni non realiste, quali sono sostanzialmente tutte le posizioni della modernità atte a separare essere oggettivo ed essere formale. Se Cartesio non ha saputo – come nemmeno Kant ha saputo – assumersi realmente la responsabilità dell'abbandono moderno del realismo, Hume ha riconosciuto questa presa di distanza, salvo poi non avere avuto la minima intenzione di porre rimedio a ciò che, con un occhio ben più acuto di Kant, aveva saputo scorgere. Hegel vede insomma che l'unico nemico del realismo è quel non compiuto idealismo (ossia: quel non compiuto realismo) tipico della modernità filosofica, contro il quale si scaglia proprio Hegel il quale, sviluppando un coerente idealismo, restaura la nozione di realismo, la riafferma con forza, e con ciò mostra come ogni idealismo che si pone come altro dal realismo non è altro che il risultato di una confusione teorica poco degna di lode. Questa identificazione tra idealismo e realismo, così bene sviluppata da Severino nella sua analisi della filosofia moderna, era già stata svolta da Gustavo Bontadini il quale, parlando 80

dell'unità dell'Esperienza – cioè parlando di quel principio anzitutto metodologico che deve essere inteso come «l'Atto gentiliano, l'Io trascendentale, il Logo concreto, il pensiero puro come criterio di realtà»87 – dice che essa rappresenta «il momento di indistinzione del realismo e dell'idealismo, è il loro punto di concordia»88. Sarà il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein a tematizzare in modo particolarmente efficace questa identità di idealismo e realismo: L’Io entra nella filosofia perciò che “il mondo è il mio mondo”. 89 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. 90 Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo. 91 Appare qui che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà ad essa coordinata. 92

Questo traguardo si dà però solo alla fine del processo di autocoscienza moderno in quanto, da Cartesio a Kant, l'opposizione di certezza e verità non può che cristallizzarsi (in Kant), o risolversi in un realismo ancora ingenuo (pre-cristicismo) che pone a priori ciò che dice di volere mettere tra parentesi. Nonostante ciò, già il discorso cartesiano rappresenta una grandiosa innovazione rispetto alla tradizione precedente, cioè rispetto al realismo tanto greco quanto cristiano, che sostiene a-criticamente quella che Husserl chiama «tesi generale dell'atteggiamento naturale» per la quale, banalmente, il mondo esiste: «Il pensiero, dice Agostino, non crea la verità, ma la cerca; e se la cerca, la verità è in qualche modo preesistente al pensiero, la verità preesiste in qualche modo alla ricerca della verità. Dove per verità si intende la realtà, l'essere come esiste per se stesso. L'idealismo mette in discussione 2000 anni di storia della cultura umana, mette in discussione la frattura della “coscienza infelice” […] ossia la certezza separata dalla verità»93. Su questa base Severino ci può dire che tutta la storia della filosofia moderna, da lui 87

Bontadini G., Studi sull'idealismo (1923-1935), Milano, Vita e Pensiero, 1995, p. 59. Bontadini G., Saggio di una metafisica dell'esperienza (1938), Milano, Vita e Pensiero, 1995, p. 135, corsivo mio 89 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (1918-1921), trad. it. Di A. G. Conte, Torino, Einaudi, 2009, 5.641. 90 Ivi, 5.6. 91 Ivi, 5.632. 92 Ivi, 5.64, corsivo mio. 93 Severino E., Istituzioni di filosofia, cit., p. 64. 88

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rappresentata graficamente come un cerchio (ed un cerchio, segno di sistematicità ed unitarietà, caratterizza, come vedremo, anche lo svolgimento della filosofia greca, così come è intesa nelle pagine severiniane) che inizia, prima della scoperta del soggetto cartesiano, con il realismo ingenuo proprio della metafisica greca, che identifica certezza e verità in modo immediato, fino a chiudersi, ritornando su se stesso, con l'identità mediata (dal soggetto autocosciente) di certezza e verità, attraverso una sorta di superamento dialettico che, arricchito della consapevolezza di un processo prima solo in sé, fa ritorno su di sé, cioè fa ritorno ad un realismo ora non più ingenuo. Il cerchio allora, se inteso dialetticamente come ciò che supera conservando le tappe precedenti, può essere forse meglio raffigurato come una spirale. La chiusura di questo cerchio, l'identità mediata di certezza e verità, è l'idealismo hegeliano, da intendersi come un realismo, e così, secondo la corretta posizione severiniana, il realismo ingenuo, per esempio platonico, è da intendersi come autentico idealismo. Viceversa, la posizione kantiana, in quanto separante in modo statico certezza e verità, non può essere considerata come un autentico idealismo, e quindi nemmeno come un autentico realismo, data la necessaria convergenza delle due posizioni. Contro Kant Severino sembra riproporre la polemica che Platone proponeva contro gli «amici delle idee»: «Voi dite il divenire e l'essere, ponendoli in qualche modo separati [χορίς], no?»94. Dice Severino che «il realismo della filosofia antica è, insieme, una forma di idealismo», laddove nell'idealismo «la realtà coincide col pensato»95, e se si dà il caso, come si dà il caso, tanto per la metafisica greca quanto per l'idealismo hegeliano e schellingiano, che certezza e verità, essere e pensiero, si identifichino, allora sarà necessario intendere entrambe le posizioni come forme di idealismo, o di realismo, rigorose. La posizione hegeliana può essere intesa infatti come la posizione di chi – contrariato dall'atteggiamento di quei filosofi della riflessione che mettono il soggetto fuori dal mondo (o ai limiti del mondo) – mette (anche) il soggetto nel mondo, dà cioè realtà ad un soggetto che, di diverso dal resto del reale, ha il fatto che lui, soggetto reale, concreto, calato nel reale, è quella parte del reale suscettibile di avere coscienza di sé, cioè della propria libertà che, nella misura in cui viene conosciuta, viene perciò stesso realizzata. Un mondo senza soggetto, dalla prospettiva hegeliana, è un mondo senza coscienza di sé, un mondo impensabile, immoto e dunque inessenziale (essendo la platonica «capacità» 94 95

Platone, Sofista 248a. SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 91.

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dell'ente al centro della riflessione idealistica o, più in generale, nichilistica). Del tutto fuori luogo sono le semplificazioni che vedrebbero nel discorso hegeliano un pensiero antiscientifico o soggettivistico. Anzi, nelle pagine hegeliane viene mirabilmente posta a tema quella stessa ontologia che supporta e fonda l'intera prassi posta in atto dall'apparato tecnicoscientifico della modernità e della contemporaneità. La mossa filosofica hegeliana deve quindi essere intesa come la mossa di chi, resosi conto che il Fondamento del divenire, se posto fuori dal mondo, non può che andare a negare il divenire stesso («la vanificazione del divenire è tanto più radicale quanto più lontano dal divenire è l'Immutabile»96), non ha ancora il coraggio di affermare anti-epistemicamente che il rimedio è peggiore del male, e per questo afferma il Fondamento, ma lo afferma come interno al divenire medesimo («il Fondamento del divenire non sta al di là del divenire, ma è immanente a esso, è la sua stessa Legge interna»97). Per questa ragione, se con la filosofia epistemica pre-idealistica (vedremo anzitutto il caso di Dante) «l'ostacolo al divenire era lontano dal divenire», con l'idealismo, che fa discendere Dio nell'uomo pensando così di liberare dall'uomo Dio, l'ostacolo alla vita – al divenire – è posto «nel cuore stesso del divenire»98. Far coincidere il problema con l'evidenza originaria è una mossa tanto azzardata quanto salvifica, se posta in un orizzonte dialettico che, in questo caso, è saputo andare oltre le previsioni dello stesso Hegel. Hegel infatti, identificando il divenire con l'immutabile (con l'intento di salvare entrambi), si trova assediato da due fuochi, che gli impongono di rinunciare o all'uno, o all'altro. La sinistra hegeliana, partendo da questa antinomia, non potrà che scegliere l'eliminazione del secondo, senza quindi rinunciare alla fede entro la quale si muove l'intera «storia effettuale» dell'Occidente. Tra il punto di inizio pre-moderno della presa di coscienza del suo inconscio da parte dell'Occidente e il punto di arrivo hegeliano, si dà il grande momento del negativo, che da Cartesio e Leibniz, passando per gli empiristi britannici e per Kant, giunge fino allo stesso Fichte, al quale Severino dedica nel 1960 una monografia 99 in cui si sostiene che Fichte «si muove ancora nella prospettiva kantiana», ossia dualistica, atta a contrapporre, come già Hume aveva fatto, certezza e verità, laddove prima di Hume e Kant, tanto gli empiristi quanto i 96

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 73. Ibidem. 98 Ivi, p. 74. 99 Intitolata Per un rinnovamento nell'interpretazione della filosofia fichtiana, poi riproposta assieme ad altri scritti in Severino E., Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005. 97

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razionalisti, nel loro darsi guerra sono sempre ricaduti, dopo una prima presa di coscienza della complessità del problema gnoseologico derivante dalla “scoperta” della soggettività e della conseguente problematizzazione dell'accordo di certezza e verità, nel realismo ingenuo. Così Severino a proposito di Cartesio, campione adeguatamente rappresentativo di queste posizioni moderne pre-kantiane: «sin dall'inizio, egli dà per esistente quella realtà in sé […] la cui esistenza egli invece si propone di dimostrare esplicitamente. Presuppone dunque ciò che intende dimostrare»100. L'idealismo esce dunque dallo stallo entro il quale si erano posti Fichte e Kant (la contrapposizione non ricomponibile di certezza e verità), e fa sua la metafora di Goethe per cui «la natura non ha corteccia, cioè non si nasconde dietro un velo che non consente di rivelarne il mistero»101, ossia nega la tesi kantiana dell'inconoscibilità della cose in sé. L'idealismo – pur soggiornando mani e piedi nella follia dell'Occidente – ha il merito, per Severino, di uscire dalla «semplicità fenomenologica sostenuta dalla filosofia occidentale», per cui «l'apparire sembra qualcosa di semplice»102. Per Severino, che in questo vede in Hegel un suo precursore, l'apparire è invece qualcosa di estremamente complesso: l'apparire è per lui apparire dell'apparire. La coscienza (apparire) è «una complessa struttura semantica, consistente nella coscienza di essere autocoscienza (nell'apparire dell'apparire dell'apparire)»103. Il merito più grande di Hegel è però un altro: egli è infatti il filosofo che più di ogni altro radicalizza l'impostazione epistemica, facendola giungere alle estreme conseguenze della sua auto-negazione, in Hegel non ancora conclamata ma già presente. Hegel oscilla non solo tra la razionalità del reale e la realtà del razionale, non solo tra i giovani e scalpitanti hegeliani e «la reazione feudale assolutistica incarnata da Federico Guglielmo IV» – per usare le parole di Engels – ma Hegel è anche il filosofo oscillante tra Platone e Nietzsche, tra la grande metafisica epistemica e quella anti-epistemica. Giungendo al culmine della metafisica epistemica, ritornando con accresciuta consapevolezza alle origini del circolo (il capitolo su Hegel, nel manuale di Severino, è non a caso intitolato L'idealismo di Hegel e il culmine dell'Epistème), può affermare la contraddittorietà del Senso, facendo sì che quel Senso tutto assorba, e nulla lasci fuori di sé, cioè facendo coincidere il Senso con il divenire, suprema 100

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 346. Ivi, p. 349. 102 Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 96. 103 Ivi, p. 95. 101

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evidenza, e suprema insensatezza assieme. Non c'è nulla che sta al di fuori dal soggetto attivo, produttivo, costituente il reale; non c'è più un limite che viene posto al soggetto che è produttività assoluta, non c'è più muro di pietra alcuno o, se si preferisce, il soggetto, fattosi reale, è il muro di pietra stesso, il muro di pietra che diventa ciò che per essenza non è, cioè diveniente, perennemente franante. La soggettività, messa nel reale, non lascia più alcun limite fuori di sé, ma tutto pervade, tutto trasforma senza limiti (è questa l'essenza della volontà di potenza che anima il nichilismo e che il nichilismo può affermare nel modo più radicale proprio riconoscendo – sulla base della «morte di Dio» la pervasività del divenire). A Hegel la filosofia della prima contemporaneità non riconoscerà questa sua opera di riduzione della realtà a realtà diveniente, dato che la legge dialettica che Hegel teorizza riguarda lo sviluppo dell'Idea, avulsa dal divenire, che trae tutto da sé e che quindi, astraendo il divenire dalla realtà empirica, lo cristallizza; per questo i filosofi contemporanei sentiranno la necessità di spostare l'attenzione dal divenire pensato al divenire concreto: «il rifiuto dell'epistéme per salvaguardare il divenire si legherà sempre più strettamente, nel pensiero contemporaneo, a un'analisi sempre più rigorosa del contenuto del divenire, ossia di ciò che effettivamente si mostra nella realtà diveniente»104. Husserl incarna particolarmente bene questa esigenza di riduzione dell'epistéme filosofica alla analisi della realtà concreta e diveniente. «Il fondamento dell'epistéme, assicurato contro ogni dubbio scettico, è infatti pur sempre, per Husserl, l'“espreienza”, l'“esperienza vissuta” (Erlebnis) della coscienza […] e l'esperienza è appunto la dimensione del divenire»105. Nonostante l'avversione propria della filosofia contemporanea all'epistemicità del sistema hegeliano, non mancano riconoscimenti, in chiave antiepistemica, al grande filosofo tedesco. Ad esempio, «per Croce, il pensiero di Nietzsche, “immaginario antihegeliano”, è la “miglior propedeutica” alla filosofia di Hegel»106. Certo, la realizzazione di questa creatività segue un progetto razionale, che è un processo nel quale ciò che è irrazionale via via viene eliminato dalla storia, disperdendosi come schiuma superficiale sul mare agitato. E, tuttavia, questa razionalità è una razionalità inquieta, che mai si lascia comprendere fino in fondo. Quale produzione potrebbe adeguarsi al sistema, quando il sistema si identifica con l'atto stesso del produrre? Non c'è più un Senso altro, che stia fuori, 104

Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 114. Ivi, pp. 265-266. 106 Ivi, p. 205. 105

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che vegli sopra (o sotto) al divenire. Il divenire ha fagocitato il Senso, attribuendogli quella mobilità che gli è essenzialmente contraria. Conquistando la fortezza inviolabile del Senso, la svuota di Senso. Il Senso può darsi solo da fuori, solo se si costituisce come altro rispetto al divenire, per quanto una parte considerevole della riflessione contemporanea vada ad illudersi di poter dare senso al divenire, senza per questo porre nulla di altro dal divenire (solo su questa base – su quest'ultima illusione – può essere costruito il paradiso della tecnica). Posto sul crinale tra metafisica epistemica e metafisica anti-epistemica, Hegel si rivela essere il massimo cantore del Senso per un verso, ed il negatore della sua indipendenza dal divenire, dall'altro; nell'atto di identificare l'epistéme con il divenire medesimo, egli finisce per auto-smascherarsi come negatore di quel Senso stesso mai fino a quel momento così coscientemente concettualizzato. Non è poi così originale questa riflessione sull'hegelismo, che nelle pagine conclusive del suo manuale sulla filosofia moderna Severino ricollega esplicitamente a Marx. Hegel e Marx sono i filosofi della creatività, della produzione illimitata, che per essere tale necessita di eliminare quei vincoli che la frenano, deve necessariamente eliminare il Dio cristiano, ossia quel muro di pietra dinanzi al quale arrestare la propria creatività. E, nel rigettare quel muro di pietra, l'idealismo hegeliano abbraccia già, per quanto implicitamente, la metafisica antiepistemica: di qui il ruolo di Hegel inteso come giustificatore della tecnica. È facile vedere in queste osservazioni su Hegel e Marx svolte da Severino un forte debito intellettuale che lega il Bresciano a Giovanni Gentile, e alla lettura che quest'ultimo ha dato di Marx. In un suo lungo saggio su Gentile Severino osserva come l'attualismo, «forma purificata e radicale»107 dell'idealismo hegeliano, lungi dall'essere ostile, come spesso si va dicendo, al progetto tecnico-scientifico dell'Occidente, ne condivide l'animo ed i presupposti in modo esplicito: «il pensiero di Gentile è una delle più potenti giustificazioni del diritto della tecnica, guidata dalla scienza moderna, a porsi […] come l'ultimo Dio dell'Occidente e ormai del Pianeta»108; e ancora: «contrariamente a quanto comunemente si pensa a proposito dei rapporti tra filosofia attualistica e strutture scientifico-tecnologiche, l'attualismo, e in generale l'idealismo, è uno dei modi più rigorosi con cui la filosofia dell'Occidente tiene aperto e protegge lo spazio del divenire, dove vanno via via imponendosi le forze sempre più potenti 107 108

Introduzione di Severino E. a Bontadini G., Studi sull'idealismo, Milano, Vita e Pensiero, 1995, p. VII. Introduzione di Severino E. a Gentile G., L'attualismo, Milano, Bompiani, 2014, p. 13.

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della volontà di potenza, sino alla forza dell'Apparato che le sottopone tutte a sé»109. La filosofia dell'attualismo è detta dallo stesso Gentile «feconda», aggiunge Severino, proprio in quanto si sa «animata da quella stessa volontà», che è la volontà di potenza che si concretizza anzitutto per mezzo della scienza e della tecnica, volontà che rende l'uomo, che ha distrutto il muro di pietra, «padrone delle forze della natura»: «feconda “di quella medesima fecondità che può arrogarsi qualunque più positiva e utile scienza”», conclude Severino, citando le parole dello stesso Gentile. 1.5 Le antinomie della metafisica epistemica e della metafisica anti-epistemica, e la necessità di gettar via la scala Al culmine della filosofia moderna l'epistéme, superando il realismo ingenuo, riesce a scardinare, anche se ancora implicitamente, quel muro di pietra che invece domina incontrastato la metafisica greca e medioevale. È proprio del rapporto tra questi due periodi, che sono i primi due periodi che la storia della filosofia conosce, che ci tocca adesso parlare. È proprio con la filosofia greca che nasce infatti la posizione categoriale dell'opposizione di “essere” e “nulla” (quell'orizzonte categoriale che Severino definisce come “trascendentale”, cioè come quella scacchiera all'esterno della quale la follia dell'Occidente non può situarsi e senza la quale, in fin dei conti, la stessa ontologia severiniana, intendendo come negativo tale orizzonte, non può costituirsi: «se il “trascendentale” è l'identità della totalità delle differenze (da Eraclito il trascendentale è chiamato ξυνόν, il “comune”), non ci può essere ontologia senza pensiero del trascendentale e non ci può essere pensiero del trascendentale senza ontologia»110), e conseguentemente la fede nel fatto che l'essere eterno ed immutabile possa preservare e prevedere l'oscillare dell'ente tra le due estreme alterità: Raggiungendo ciò che ancora è un niente, e stabilendolo e anticipandolo nel suo senso essenziale, l'espistéme trasforma […] in un già esistente ciò che invece è ancora un niente, e quindi ne cancella ogni imprevedibilità […]. In quanto ciò che può uscire dal proprio niente è […] essenzialmente anticipato dall'epistéme, l'uscire dal niente (l'evento, appunto) diventa una semplice apparenza perché alle spalle dell'evento non c'è il niente, ma addirittura le regola e il

109 110

Severino E., La filosofia futura, cit., p. 153. Severino E., Il giogo, cit., p. 93.

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senso del tutto aperti dall'espistéme.111

L'epistéme è ciò che salva le differenze, è la Legge che permette di anticipare il futuro degli enti, incarnandone il Senso. Aprendo il sentiero della metafisica epistemica, Eschilo intende Zeus e come stoicheîon, e come arché, poiché «il generarsi degli enti è il loro venire a trovarsi fatti di, e non solo da qualcosa»112; Zeus, in quanto stoicheîon ed in quanto arché è «questo principio che governa e che produce tutte le cose»113, cioè il Senso epistemico che permette la previsione degli enti, e quindi il dominio sugli enti. La connessione di verità, salvezza e prassi è infatti un tratto che caratterizza la filosofia epistemica: proprio conoscendo il Senso delle cose, la Legge che lega assieme gli enti del mondo, è possibile conoscere, anticipare e dominare gli eventi del mondo. «Sin dalla sua nascita la filosofia presenta sé stessa come la salvezza autentica dell'uomo, perché essa sola è in grado di conoscere la verità, il vero senso del mondo. Ponendosi come epistéme la filosofia ritiene che la propria efficacia pratica, la propria capacità di guidare la vita dell'uomo, dipenda dalla propria potenza conoscitiva»114. Si è visto che la filosofia contemporanea, pur non venendo meno alla volontà di potenza che la filosofia fin dalla sua nascita pone in teoria e in pratica, rinuncia alla pretesa epistemica della metafisica tradizionale proprio per realizzare fino in fondo la volontà di potenza che sta al cuore dell'Occidente e quindi del luogo in cui l'Occidente prende coscienza di sé (la filosofia). La contemporaneità si rende conto cioè del carattere antinomico della metafisica epistemica: La tradizione filosofica, da i Greci a Hegel, presenta un carattere antinomico. Da un lato, afferma che il niente è assolutamente inconoscibile e che quindi l'ancor niente in cui consiste il futuro è assolutamente imprevedibile e inconoscibile. Dall'altro lato, la tradizione filosofica si presenta come epistéme, cioè come conoscenza incontrovertibile della verità immutabile e definitiva della totalità dell'essente.115

L'antinomia che la filosofia contemporanea ravvisa nella metafisica epistemica è cioè quella per la quale la metafisica tradizionale da un lato «afferma che il niente è niente» 116, seguendo le 111

Severino E., Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Roma, Armando, 1978, p. 139. Severino E., Il giogo, cit., p. 96. 113 Ivi, p. 95. 114 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 243. 115 Severino E., La filosofia futura, cit, p. 31. 116 Ivi, p. 32. 112

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categorie greche che animano la filosofia, ma dall'altro afferma che «il niente è ente (ossia è la positività della Legge alla quale anche l'ancor niente deve adeguarsi)» 117. La filosofia contemporanea si rende conto che, proprio in virtù del fatto che bisogna seguire fino in fondo l'ontologia greca che tematizza la metafisica tradizionale, si deve intendere il niente come niente, cioè come quella radicale alterità dall'essere che non può essere prevista in alcun modo. Intendere il niente come niente significa affermare il carattere di radicale novità del divenire, così come verrà inteso in svariati modi dalla filosofia contemporanea. La filosofia contemporanea, tuttavia, solo in sporadici casi limite riuscirà a sbarazzarsi di quel residuo epistemico “debole” che è la previsione ipotetico-deduttiva, così come viene in modo sempre più consapevole sviluppata dalle scienze dure e dalle scienze umane. Affermare questo carattere essenziale del divenire significa affermare che il divenire non sottostà ad alcuna Legge in quanto non può sottostare ad alcuna Legge immutabile, pena la venuta meno dell'essenza stessa del divenire. Ma, essendo per la filosofia il divenire la verità originaria, il divenire non può essere smentito. Se per la metafisica epistemica si vogliono fare antinomicamente coesistere divenire ed epistéme, con la filosofia contemporanea si afferma che “divenire aut epistéme”. Questa disgiunzione esclusiva non può che andare a favore del divenire giacché proprio il divenire – e non gli eterni – è considerato da tutta la filosofia come la verità originaria. Proprio in quanto l'epistéme riconosce il divenire, non può che preparare il terreno per il superamento della metafisica epistemica. Superare la metafisica epistemica significa distruggere gli eterni. Superare gli eterni significa affermare che «ciò che esce dal niente è […] qualcosa di semplicemente giustapposto e quindi di assolutamente isolato e separato dal contesto in cui viene a trovarsi»118. Affermare l'isolamento delle parti (e la scienza e la specializzazione scentifica tipica della società contemporanea afferma proprio ciò) significa «negare l'esistenza di una qualsiasi unità indissolubile del molteplice [significa negare l'espistéme, il ξυνόν di Eraclito], di un qualsiasi principio indissolubilmente unificatore della realtà»119. Negare l'esistenza di questo principio indissolubilmente unificatore della realtà significa negare la possibilità di prevedere l'imprevedibile, significa cioè negare la possibilità di entificare il nulla («se ciò che esce dal niente non fosse così isolato e separato, il niente da 117

Ibidem. Ivi, p. 44. 119 Ivi, p. 45. 118

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cui escono le cose sarebbe un non niente» 120): paradossalmente, sarà proprio questa impossibilità a far cadere nella noia leopardiana, cioè a fare intendere l'essere come nulla (che è una entificazione del nulla rovesciata dialetticamente rispetto alla entificazione epistemica del nulla). Ma la volontà di prevedere il divenire (identificando epistemicamente essere e nulla) stava a fondamento della volontà di potenza dell'Occidente giacché, per dominare il mondo – osserva la metafisica epistemica – si deve prevedere lo sviluppo del divenire, si deve cioè dare Senso (epistemico) al divenire. La filosofia contemporanea, scorgendo questa antinomia della metafisica epistemica, non rinuncia affatto alla volontà di potenza ma anzi, distruggendo l'eterno, può riaffermare questa volontà in chiave tecnico-scientifica, in modo più efficace rispetto alla affermazione metafisica di questa volontà di potenza fatta dalla tradizione. Infatti, solo negando gli eterni si può abbattere quel muro di pietra che, lungi dal permettere di dominare il mondo (in quanto dà la Legge per prevederlo), vincola ad esso, al suo immodificabile stare che nega la prassi. La metafisica anti-epistemica deve però riconoscere che questo suo superamento della tradizione è un superamento dialettico, che supera ma al contempo conserva la metafisica epistemica, laddove spesso la contemporaneità non solo non si rende conto di ciò, ma addirittura pretende di non avere alcun legame con la metafisica, con la filosofia in generale: «il tramonto della filosofia nella scienza è un'avventura della filosofia: non avviene lasciando alla proprie spalle la dimensione che la filosofia sin dal suo inizio ha portato alla luce: avviene all'interno di questa dimensione. Si tratta di comprendere che il tramonto della visione unitaria ed organica, che è propria dell'epistéme, nella visione isolante e specialistica della scienza moderna è la conseguenza inevitabile del senso dell'essere e del divenire che è l'epistéme stessa a portare per la prima volta alla luce» 121. Come va riconosciuto che in grembo al discorso antiepistemico sta la riflessione ontologica della tradizione epistemica, così va riconosciuto che, in grembo alla riflessione epistemica, è già anticipato – per lo meno nelle espressioni più grandi di questa tradizione (è il caso di Dante) – il piano antiepistemico che si svilupperà a partire dalle premesse greche. La filosofia contemporanea si sviluppa quindi a partire dalla antinomia della metafisica epistemica. La stessa filosofia contemporanea, tuttavia, essendo essa stessa espressione della 120 121

Ivi, p. 44. Ivi, p. 43.

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Follia (la filosofia anti-epistemica va infatti riconosciuta come la coerentizzazione più radicale dell'errore), non si solleva al di sopra delle contraddizioni del nichilismo. Severino afferma infatti che anche la filosofia post-hegeliana ha un carattere antinomico derivante dal fatto che, se da un lato la filosofia contemporanea segue l'ontologia greca pedissequamente (arrivando per questo a negare gli eterni come peggiori del male), dall'altro si rivela essere essa stessa infedele nei confronti dell'ontologia greca, giacché la ontologia non può che utilizzare delle categorie per imporsi ma, usando categorie (dicendo), va ad identificare i diversi (il dire è sempre un semplificare, un improprio identificare il molteplice al di sotto di categorie). La filosofia da un lato vuole negare qualsiasi regola che unisca ciò che è separato, che preveda ciò che è radicalmente imprevedibile, ma dall'altro, proprio in quanto la filosofia non può che essere un “dire”, usa un apparato categoriale (l'apparato categoriale posto dall'ontologia greca) e quindi perde quell'orizzonte caotico che invece vorrebbe salvaguardare come unico orizzonte possibile, e per questo non concettuale. «L'isolamento [il divenire] – esplicitamente messo a tema dalla cultura contemporanea – è cioè incoerente, perché, insieme, è quel non isolamento [il dire, l'identificare i diversi sotto categorie universali, il bloccare il fluire incessante e non categorizzabile del divenire], tendenzialmente implicito, che consente di parlare delle differenze e che è appunto il senso greco dell'essente»122. La filosofia (e con essa la stessa civiltà occidentale), giunta all'apice dell'autocoscienza (il «culmine della parabola»), dovrebbe identificarsi con il silenzio, dovrebbe essere impotenza, incapacità di dire e di prevedere, di agire e di trasformare il mondo. Evitare ciò, significa cadere nell'antinomia della penultima proposizione del Tractatus wittgensteiniano («Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo»123), oppure significa affermare il valore salvifico ma non più nichilistico della poesia, intesa come ultimo baluardo della Folla (stante ai limiti del mondo nichilisticamente inteso), intesa come ultimo baluardo del filosofare, emergente quando ogni forma di dire non è più contemplabile se non come estrema incoerenza da rigettare.

122 123

Ivi, p. 46. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.54.

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1.6 La filosofia epistemica nel mondo greco Parliamo ora di questa espressione dell'autocoscienza occidentale, che abbiamo appena inteso essere antinomica, che è l'esperienza della filosofia greca. Per descrivere la filosofia greca Severino utilizza, come si è già anticipato, l'immagine del Circolo. Per i primi pensatori «il Tutto è un Circolo»124: dall'unità originaria che contiene in sé tutte le cose deriva, attraverso un processo di divisione dall'uno ai molti, l'universo molteplice e diveniente, che ritorna poi nell'unità, nel Senso che è altro rispetto ai singoli enti, dal quale gli enti scaturiscono e al quale gli enti ritornano, trovando risoluzione attraverso la Legge inamovibile che allontana dall'angoscia somma, che allontana cioè dalla caduta, da parte dell'ente, nel nulla assoluto, nell'assolutamente altro dall'essere che, in quanto assolutamente altro, è assolutamente imprevedibile, assolutamente angosciante poiché assolutamente imprevedibile. Con Parmenide, da un lato, e con Platone ed Aristotele, dall'altro, ossia nei «due momenti decisivi dello sviluppo del pensiero greco»125, questo Circolo viene meno. Parmenide riduce infatti il Circolo ad un Punto, in quanto egli nega l'esistenza del molteplice diveniente, negazione che lo porta così a formulare la celebre «antinomia tra ragione ed esperienza»126, per risolvere la quale si sono impegnate le più grandi menti filosofiche della Grecia classica. Tale antinomia suscitata da Parmenide va a contrapporre l'esperienza, considerata come illusoria, al Lògos. L'atomismo, nel cercare di conciliare ragione ed esperienza, «incomincia ad avanzare un concetto che verrà sollevato compiutamente nel pensiero del grande Platone: che anche il nonessere è (se si vuole che il molteplice sia)» 127: «coloro che ammetteranno che il non essere sia, saranno gli Atomisti, che faranno essere il vuoto»128. Per dirla con le parole dello Straniero: Pare pertanto che l'opposizione di una parte del diverso e dell'essere, che si contrappongono reciprocamente, non sia affatto meno realmente essente, se è lecito dirlo, dello stesso essere, giacché tale opposizione non indica contrarietà dell'essere, ma questo soltanto, diversità da esso […] bisogna a questo punto farsi animo e affermare che il non essere è saldamente, in possesso della propria natura, e come il grande ci è apparso grande, il bello bello, il non grande non grande 124

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 254. Ivi, p. 245. 126 Ivi, p. 99. 127 Ivi, p. 95. 128 Berti E., Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Brescia, Morcelliana, 2015, p. 22. 125

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e il non bello non bello, così pure il non essere allo stesso modo ci è apparso ed è non essere, in quanto unica forma nel numero delle molte che sono? O abbiamo ancora qualche perplessità sul suo conto, Teeteto? […] Sai che abbiamo tradito di gran lunga il divieto di Parmenide? […] Ma noi, non solo abbiamo dimostrato che sono le cose che non sono, ma abbiamo perfino portato alla luce quella che si trova a essere la forma del non essere; giacché, una volta mostrato che la natura del diverso è e che risulta frammentata in riferimento a tutte le cose che sono le une rispetto alle altre, abbiamo osato sostenere che proprio questo è realmente il non essere, ossia quella parte di essa che si oppone all'essere di ciascun genere. […] bisognerà attenersi a quanto noi diciamo, e cioè che i generi si mescolano fra loro e che l'essere e il diverso filtrano attraverso tutti e reciprocamente; che il diverso, in quanto partecipa dell'essere, proprio in virtù di questa partecipazione è, ma non è però ciò di cui partecipa, in quanto ne è appunto diverso, ed essendo diverso dall'essere, è necessariamente e nel modo più chiaro non essere; mentre l'essere, dal canto suo, partecipando del diverso, sarà diverso dagli altri generi ed essendo da tutti quelli diverso, non sarà ciascuno di essi né tutti gli altri insieme, ma sarà solo se stesso, sicché è fuor di dubbio che l'essere, moltissime volte e in moltissimi casi, non è, come pure appunto gli altri generi, uno per uno, e tutti quanti insieme, da molti punti di vista sono, da molti non sono. 129

Questa tesi, per la quale «l'uno che non è» deve in qualche modo partecipare dell'essere in virtù del principio per il quale è necessario determinare l'oggetto della negazione, poiché ogni negazione è negazione di qualcosa di determinato, ossia poiché l'oggetto A rimane qualcosa di determinato anche quando viene negato in un enunciato, ebbene proprio questa tesi viene formulata anche nella seconda parte del Parmenide, là dove si esaminano le conseguenze per l'uno considerato in relazione agli altri, nell'ipotesi che l'uno non sia: «Bisogna così dire da principio, che cosa deve accadere se l'uno non è: in primo luogo per l'uno si deve dare questa condizione, almeno così sembra, vale a dire di esso deve esserci conoscenza, altrimenti quando si ipotizza dell'uno che non è, non si saprebbe che cosa si dice»130. Per ribadire questo nichilismo platonico, è bene riprendere un altro passo tratto dalla seconda parte del Parmenide, volto a fare emergere «con chiarezza la tesi che l'essere si identifica con l'“essere nel tempo”»131: «Partecipa poi l'uno anche del tempo, il che significa che è e diventa più giovane e più vecchio sia di sé che degli altri» 132; e ancora: «Poiché l'uno 129

Platone, Sofista 258c-259b. Platone, Parmenide 160 d. 131 Introduzione di F. Ferrari a Platone, Parmenide, a cura di F. Ferrari, Milano, BUR Rizzoli, 2004, p. 147. 132 Platone, Parmenide 151e. 130

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partecipa del tempo, cioè del fatto di diventare più vecchio e più giovane, non è necessario che partecipi anche del passato e del futuro e del presente, visto che partecipa del tempo? – È necessario. – Per cui l'uno “era”, “è”, “sarà”, “diventava”, “diventa” e “diventerà”»133. Di fronte a queste affermazioni Franco Ferrari non può che dire: «È fin troppo evidente che un teorema di questo tipo non può essere considerato platonico, oppure deve escludere le idee, la cui modalità ontologica è di natura extra-temporale»134; nonostante affermi che vi sono stati «tentativi, anche ingegnosi, di spiegare questa anomalia» 135, egli conclude che il modo migliore per risolvere la questione è riconoscere che, come ebbe da dire Mario Vegetti citando lo stesso Platone, «solo Platone non c'era» 136, nei suoi dialoghi, e cioè che a parlare, in questo contesto, non è Platone, bensì il vecchio «Parmenide, il quale sembra davvero poco propenso a riconoscere la natura peculiare delle idee platoniche»137. Non è questo il luogo per approfondire la questione, ma certamente la lettura severiniana potrebbe arricchire, nel dettaglio, la schiera di quegli “ingegnosi” che si sono cimentati a dare delle risposte a questo apparente paradosso, senza nascondersi dietro alle «maschere silenziose» delle roboanti assenze dell'ateniese. In un altro dialogo della vecchiaia – il Filebo – Platone indica come mostruose (terata) le idee, nel caso dovessero palesare la loro contraddittorietà, partecipando di predicati contraddittori138. Se confrontiamo questa affermazione con quelle analoghe che ritroviamo nel Parmenide, ben capiamo come il bersaglio polemico di Platone sia lo Zenone del Parmenide, per il quale è impossibile che ogni ente sensibile possa partecipare di predicati contraddittori, cioè essere contraddittorio esso stesso, anzitutto partecipando tanto dell'essere quanto del nonessere139. Se per Zenone la copula che rende partecipe un ente sensibile a una proprietà è identitaria (predicational monism), per Platone la copula svolge un ruolo esclusivamente identitario solo nel caso in cui il soggetto della proposizione sia una forma, non un ente sensibile, e questo perché, per l'Ateniese, il monismo predicativo concerne non tutti gli enti, bensì solo quei particolari enti che sono le idee: Platone trasferisce così l'esigenza eleatica di

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Platone, Parmenide 155c-d. Introduzione di F. Ferrari a Platone, Parmenide, cit., p. 148. 135 Ibidem. 136 Cfr. Vegetti M., Quindici lezioni su Platone, Torino, Einaudi, 2003, capitolo 5. 137 Introduzione a Platone, Parmenide, cit., p. 148. 138 Cfr. Platone, Filebo 14d-e. 139 Cfr. Patone, Parmenide 127d-128e. 134

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non-contraddittorietà dai particolari alle forme, affermando nichilisticamente che il contenuto della contraddizione, per quel che riguarda gli enti sensibili, non è immediatamente autonegativo. Dopo avere posto la contraddizione negli enti sensibili (che sono e non sono) Platone pensa che, ponendo la non-contraddittoria auto-identità nelle idee, possa rendere non realmente contraddittoria la questione ontologica riguardante gli enti sensibili. Questo movimento entra però in contraddizione con se stesso già all'interno della produzione di Platone dato che, in modo sempre più marcato, nei suoi dialoghi l'auto-identità propria delle forme accoglie una forma di contraddizione che consiste nella partecipazione al “diverso”, che consiste nella «capacità di mescolarsi e separarsi»140, esemplificata in modo del tutto esplicito dalla koinônia tôn genôn del Sofista. Va poi aggiunto che, a differenza di ciò che spesso si è detto, e cioè che ai dialoghi “dialettici” «sarebbe affidato il compito di una revisione in larga misura auto-critica del vecchio Platone, che tornerebbe così, sensibilmente modificandole, sulle dottrine professate nelle opere della sua età giovanile e matura» 141 (e che farebbe del Parmenide – a detta di Vlastos – «a record of honest perplexity»), già nella sezione finale del V libro della Repubblica viene detto che «“il bello è il contrario del brutto, essi sono due.” “Come no?” “E siccome sono due, ognuno di essi sarà uno?” “Concedo anche questo.” “E circa il giusto e l'ingiusto, il bene e il male, e tutte le idee, il discorso è sempre lo stesso: ognuna di esse in se stessa è una, eppure, manifestandosi ovunque nella relazione con le azioni, con i corpi, con le altre idee, la sua unità appare risolvendosi in molteplicità.” “È corretto quel che dici” rispose»142. In riferimento alle interpretazioni volte a riconoscere nella produzione del Platone della vecchiaia un rivolgimento filosofico, per il quale le idee, un tempo intese eleaticamente come individualità auto-identiche e chiuse a qualsiasi relazione con una proprietà che non sia la rigida relazione di auto-identità con sé, poi vennero riconosciute dallo stesso Ateniese come individualità aperte a relazioni atte ad oltrepassare il rigido monismo predicativo della teoria standard, si è osservato «che Platone non sostenne mai una teoria delle idee di stampo così marcatamente eleatico»143; «l'essere dell'eidos, per quanto tendenzialmente assoluto e 140

Platone, Parmenide 129e. Introduzione di F. Fronterotta a Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, Milano, BUR Rizzoli, 2016, p. 11. 142 Platone, Repubblica 476a. 143 Introduzione di F. Ferrari a Platone, Parmenide, cit., p. 50. 141

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identitario, non fu mai, neppure nei dialoghi di mezzo, così austero da risultare del tutto irrelato. Una qualche forma di partecipazione intra-eidetica fu sempre presupposta da Platone, sebbene solo con i cosiddetti dialoghi dialettici la questione venne posta al centro dell'interesse»144. Possiamo concludere questa rassegna di argomentazioni platoniche atte a portare alla luce le fonti che inducono Severino a vedere nell'Ateniese il fondamento di quella posizione nichilistica che fa del «mondo» isolato dalla «verità» il suo fulcro, un passo molto esplicito, tratto da Il sentiero del Giorno: «Prima di Platone non c'è “mondo”, perché il divenire non è pensato come annullamento dell'essere, e non c'è “produzione” e “distruzione”, perché l'agire della natura e dell'uomo non sono pensati come un far passare le cose dal niente all'essere e dall'essere al niente»145. Solo passando per questa via si può giungere a comprendere, in tutta la sua portata tecnico-nichilistica, il seguente passo del Simposio: Ogni causa che faccia passare una qualsiasi cosa dal niente all'essere è produzione, cosicché sono produzioni anche le azioni che vengono compiute in ogni arte e tutti gli artefici sono produttori.146

Va inoltre osservato che l'associazione che Severino spesso pone a tema, tra la tesi appena riportata del Simposio e la volontà di potenza dell'Occidente, viene seriamente trattata nello studio sul Parmenide realizzato da Enzo Paci in giovane età; nelle pagine riferite all'“istante” Paci osserva acutamente che l'atto creatore da parte di Dio non può che essere perpetuo, e non può che essere accompagnato dalla morte del creatore ogni volta che esso crea qualcosa: «il Dio creatore non può creare una volta tanto, ma è costretto, quando ha creato, a morire e a rinascere continuamente e a ricrearsi perciò in ogni istante»147. Dio creando muore, in quanto Dio, plasmando il diveniente, si fa diveniente esso stesso. L'inconscio nichilistico dell'Occidente, infatti, sa che il rimedio è peggiore del male, sa cioè che la rigidità dell'immutabile, lungi dal mettere in salvo la contraddizione del divenire, la negherebbe con forza. E ciò viene esposto, osserva Paci, prima ancora che nel Parmenide, proprio in quei passi del Simposio (205b) presi in considerazione da Severino: «Secondo noi qui [cioè nella 144

Ivi, p. 133, corsivo mio. Severino E., Essenza del nichilismo (1982), Milano: Adelphi, 2010, p. 151. 146 Ivi, p. 146, che cita Platone, Simposio 205 b-c. 147 Paci E., Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone, Messina-Milano, Principato, 1938, p. 142. 145

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Repubblica] c'è una applicazione del concetto di creazione quale è stato visto nel Simposio, una creazione nel senso più puro e cioè la creazione della pensabilità dello Stato perfetto. In questa creazione tutto il molteplice si positivizza in massimo grado, come d'altra parte il mondo ideale si immanentizza, fino a presentarsi come coincidente con il divenire»148. Dopo queste doverose osservazioni sul nichilismo platonico, riprendiamo il filo della nostra ricostruzione della lettura severiniana della storia della filosofia antica. I sofisti, dal canto loro, sostenendo che ragione ed esperienza sono entrambe false, porranno esplicitamente in evidenza ciò che implicitamente era già emerso nel discorso atomistico, ossia che il non-essere è. Si capisce allora che tanto gli atomisti, quanto i sofisti (vero e proprio momento negativo, autocritico, nella storia della filosofia antica) non riescono a porre rimedio all'annosa antinomia eleatica. Saranno invece Platone ed Aristotele a formulare delle categorie ontologiche atte a risolvere la suddetta antinomia. E per fare ciò, i due maggiori filosofi classici hanno dovuto spezzare il Circolo del Tutto in due Semicerchi, e da un lato porre l'unità divina originaria, mentre dall'altro la materia prima del mondo. Questi due Semicerchi sono i due assoluti indipendenti (obietterebbe anti-kantianamente Hegel con una domanda del tipo: “non comprendi l'ossimoro che porta con sé l'assoluto, per definizione uno, quando è espresso, e dunque concepito, al plurale?”. Proprio a questa obiezione risponderà la tarda filosofia greca, e poi quella cristiana). Con questa mossa Platone ritiene di poter porre l'esistenza dell'ente intendendola come partecipazione all'Idea eternizzata: Platone e, con lui, in modo ancora più coerente (coerenza dell'incoerenza, s'intende), Aristotele, cerca di elaborare un sistema filosofico atto a mostrare come non vi è alcuna contraddizione nel dire che l'ente è diveniente, oscillante tra l'essere e il nulla, che l'ente è una temporanea negazione del suo esser-niente. Platone ritiene insomma che non vi sia contraddizione nell'intendere la cosa come non-niente, in un certo tempo, ma che poi, in un certo altro tempo, questa stessa cosa possa diventare niente. L'unione tra l'essere e la sua determinazione, tra l'essenza e l'esistenza, in Platone e in Aristotele, e con loro in tutta la filosofia ma anche in tutto il senso comune ed il pensiero scientifico dell'Occidente, non è una unione originaria e indissolubile appunto perché, nel tempo, questa unione viene meno, per quanto possa essere in certa misura prevista e, sempre in certa misura, controllata. L'unione del “ciò che” con il suo “è” è del tutto fattuale, casuale, può 148

Ivi, p. 71.

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essere come non essere (l'essenza del fatto è la contingenza). Questo il sentiero della Notte, intrapreso da Platone nell'atto di risolvere l'antinomia parmenidea e, con Platone, dall'Occidente intero, fino ai giorni nostri. Anche la metafisica anti-epistemica, infatti, segue questo «guardiano infido» che è Platone, nel suo atto di superare la posizione parmenidea: «L'idea dell'essere, che dopo Parmenide viene a formarsi, vede l'essere come […] libero di essere o di non essere […]. L'ontologia diviene così incapace di vedere l'essere […] e affida questo compito alla teologia razionale […] dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale è una fisica: perché l'idea di essere […] esercita opposizione solo quando è»149. Nel compiere questa mossa, «Severino modifica la stessa concezione predicativa occidentale»150; infatti «la tradizione intende il convenire del predicato al soggetto come una sintesi che presuppone la separatezza dei due. Sì che, formalmente, essa afferma A = B, cioè identifica i non identici (pone in relazione d’identità un qualcosa, sia A, a un qualcos’altro, sia B), producendo così una contraddizione, per cui A, che vorrebbe esser posto come B, non riesce ad esserlo. Secondo la struttura predicazionale originaria, invece, il dire non è sintesi di soggetto e predicato (come se il soggetto esistesse indipendentemente dal predicato), ma è identità tra la relazione del soggetto al predicato (A = B) e quella del predicato al soggetto (B = A), quindi, formalmente: (A = B) = (B = A)»151. Si diceva che il Cerchio del Tutto, con Platone ed Aristotele, viene scisso in due Semicerchi: da un lato l'ordinamento razionale del mondo da parte di Dio, dall'altro la materia, che tende verso l'Ordine-Dio. Anche questa risoluzione platonico-aristotelica presenta tuttavia dei problemi, come inizia ad emergere con l'epicureismo e con lo stoicismo; tali problemi si paleseranno in modo del tutto esplicito con il neoplatonismo di Plotino. Con Plotino si fa del tutto palese la «necessità di superare il “dualismo” platonico-aristotelico e di ripristinare il Circolo dell'essere»152. Il ragionamento plotiniano è il seguente: se la materia è indipendente da Dio, Dio manca della materia che è altro rispetto a lui, e «in quanto mancante non può essere “atto puro”, ma un “essere in potenza”; ed essendo in potenza non può essere immutabile» 153. Se l'Immutabile, Dio, il muro di pietra, manca della materia, l'“Immutabile” è diveniente, ma 149

Severino E., Essenza del nichilismo, cit., pp. 25-26. Cusano N, Emanuele Severino, cit., p. 110. 151 Dal Sasso A., Dal divenire all'oltrepassare. La differenza ontologica nel pensiero di Emanuele Severino, Roma, Aracne, 2009, pp. 37-38. 152 SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 254. 153 Ivi, p. 254. 150

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l'Immutabile, il rimedio all'angoscia scoperta dalla filosofia, non può venire meno, identificandosi con il divenire (per la metafisica epistemica, infatti, ciò è contraddittorio). Dunque, la materia non può essere indipendente da Dio. Per questa ragione, Dio non può che essere il creatore della materia. 1.7 Teologia, amore e libertà: l'epistéme durante il medioevo cristiano Plotino ha il merito di avere sviluppato l'ultima grande sistemazione della filosofia greca. Dopo di lui la tradizione medievale cristiana accoglierà l'eredità greca, portandola alle estreme conseguenze, ad estrema coerenza. La filosofia medievale, proprio per il suo ruolo coerentizzatore trova sì un suo posto, nell'economia del discorso storico-filosofico severiniano, e tuttavia lo spazio che Severino dedica a quel millennio che è il medioevo cristiano nella sua storia della filosofia è molto ridotto. Dei quattordici capitoli di cui consta il primo volume della sua storia della filosofia dedicata al periodo antico e medievale, solo un capitolo, il quattordicesimo, è dedicato al medioevo cristiano, e già il titolo di questo è impegnato a sottolineare la totale dipendenza – in qualche modo la subordinazione – del periodo medievale rispetto a quello greco: il capitolo in questione s'intitola infatti «Filosofia greca e cristianesimo», quasi come se questo secondo termine, messo alla fine del titolo di capitolo, fosse una aggiunta di poco conto. Un fatto autobiografico, narrato da un sempre auto-ironico Severino, rende ragione di quel che si va dicendo. Nella sua breve autobiografia, il nostro filosofo accenna a quel «sant'uomo» che fu Cornelio Fabro: «in occasione del mio libro La filosofia antica (Rizzoli, 1984), Fabro parlava della mia “boria”, “presunzione” e perfino “spudoratezza” che non aveva dato spazio alla filosofia medievale (e come avrei potuto se si trattava della filosofia antica?)»154. Anche quando si impegna a parlare della filosofia medievale, a fianco di quella antica, Severino risulta comunque esposto alla critica che il «sant'uomo» gli mosse. Severino appiattisce infatti il medioevo sul pensiero greco molto più di quanto non faccia con quello moderno, fermo restando che tutto lo sviluppo della filosofia è per il Bresciano derivante dal pensiero greco, ossia dalle categorie ontologiche atte a giustificare l'evidenza originaria del divenire che il pensiero greco per la prima volta sviluppa. La motivazione di ciò consiste nel fatto che «l'atteggiamento e la struttura essenziali [del pensiero medievale] 154

Severino E., Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia (2011), Milano, Rizzoli, 2012, p. 67.

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rimangono sempre quelli del pensiero greco», laddove la filosofia moderna, «accentuando fortemente un problema – quello del rapporto pensiero ed essere» 155, ha una maggiore autonomia dal pensiero greco, pur condividendo con quel pensiero il medesimo inconscio e la medesima fede nel fatto che, a fondamento del divenire, è necessario porre l'eterno che lo salvaguardi. Affrontare il medioevo cristiano significa affrontare il problema del Cristianesimo, uno dei nodi teorici costantemente presenti nel discorso severiniano. Nella Prefazione alla nuova edizione di Studi di filosofia della prassi Severino, abbandonata la posizione precedente che vedeva nella fede cristiana «una “possibilità autentica” per l'ampliamento della verità medesima»156, scrive che «il cristianesimo storico, il cristianesimo cioè che viene alla luce e cresce all'interno delle categorie fondamentali del pensiero greco, non può essere un tratto del volto, e tanto meno il volto definitivo della verità»157. Dopo una prima apertura al Cristianesimo, dunque, Severino può con decisione affermare che «la storia del cristianesimo è la storia della dominazione della metafisica sul Sacro»158. Il Cristianesimo si articola in molti modi e, come la scienza, evolve all'evolvere e al coerentizzarsi del pensiero filosofico. La filosofia medievale, che nel “manuale” di Severino è da intendersi come filosofia medievale cristiana, è per un certo senso un «ritorno al mito». Non è pienamente un ritorno al mito in quanto tale filosofia pensa e vive nell'orizzonte ontologicocategoriale della metafisica greca post-mitica (che si confronta con la verità incontrovertibile, che non ha nulla – nel senso forte che proprio la filosofia greca dà al termine “nulla” – al di fuori di sé, a differenza della dimensione pre-ontologica (mitica) che precede il filosofare) e tuttavia, in qualche modo, quello medievale deve essere considerato un ritorno al mito in quanto la fede tematizzata dai filosofi medievali è altra e preminente rispetto all'epistème filosofica (per quanto anche l'epistéme – e addirittura la filosofia tout court – sia una forma inconsapevole di fede non riconosciuta come tale nemmeno dai più acuti analisti dell'Occidente, Leopardi e Nietzsche in primo luogo159). C'è da dire che, nel corso del 155

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 277. Messinese L., Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, Pisa, ETS, 2010, p. 70. Cfr. Barbisan C., Verità e fede. Riflessioni sul rapporto tra il pensiero di Emanuele Severino e la cultura cattolica italiana, Milano, Prometheus, 1990, pp. 21-24. 157 Severino E., Studi di filosofia della prassi (1962), Milano, Adelphi, 1984, p. 21. 158 Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 156. 159 Proprio per questa ragione Severino potrà affermare che «anche la scienza e la tecnica, come il cristianesimo, sono forme di mito – e, agli occhi di chi sa che il rimedio è stato peggiore del male, si presenta come un mito 156

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Novecento, l'epistéme filosofica verrà abbandonata anche da una parte della teologia, in particolare da quella branca della teologia in cui Dio si presenta come una speranza, la quale prende le distanze «dal cristianesimo “metafisico” e “ellenizzante”, in cui il Dio immutabile non può conciliarsi col modo in cui, nella Scrittura, Dio parla di sé» 160, e proprio per questo Severino può dire che «la teologia della liberazione […] rispecchia in sé in modo tipico il tramonto delle categorie definitive della metafisica e dell'epistéme»161. Torniamo alla filosofia cristiana. Sophìa prepara all'onniscienza, ma non la raggiunge. L'onnisciente eccede il piano filosofico, l'esprimibile. La fede è ciò che fa dire al Bernardo dantesco senza contraddizione che la Vergine Madre è «figlia del suo figlio» 162. «Per il cristianesimo […] la virtù suprema dell'uomo sulla terra è la fede», e non «la contemplazione della verità che si realizza nell'epistéme» greca (che pure è fede, fede inconsapevole di sé, fede nel divenire niente da parte dell'essente). La fede cristiano-medievale della quale Dante, giocatore bianco del quale molto si dirà nel corso di questo lavoro, è gigantesca espressione, è «volontà di credere in qualcosa che non si mostra nell'epistéme, cioè nella sophìa»163. Dio è l'inesprimibile, Dio è significato dalle intense luci che ti fanno abbassare lo sguardo, dalle attraversate di luoghi che ti fanno perdere i sensi nel corso del tragitto. Dio è il muro di pietra, l'indicibile, è ciò che non può essere veduto e udito, Dio è ciò che non è concettualizzabile, che va sciogliendosi come i ghiacciai della metafora kantiana, alla luce della nostra debole ragione («V'è davvero dell'ineffabile»164). Sulla non concettualizzabilità di Dio, ossia sulla sua non dicibilità, già Paolo, modello dantesco per eccellenza, spende parole eloquenti nella seconda Lettera ai Corinzi, dove parla del suo raptus in Paradiso, del quale egli dice di non poterne parlare, a causa della proibizione di Dio. Se l'ineffabilità del divino è intesa da Paolo come una ineffabilità per proibizione, nel corso della storia dell'esegesi biblica cristiana tale ineffabilità è stata intesa in sensi diversi, o come una ineffabilità retorica o come una ineffabilità teologica che può essere tuttavia oltrepassata dal profeta che, investito da Dio in via del tutto eccezionale, può cantare ciò che normalmente va taciuto. anche l'epistéme» (SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 17). 160 Ivi, p. 420. 161 Ivi, p. 408. 162 Cfr. Alighieri D., Par. XXXIII, 1. 163 Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 273. 164 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.522.

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In questo modo, Dante prende le distanze da Uzzà il quale, durante il trasporto dell'arca santa a Gerusalemme, vedendola traballare e temendo che si ribaltasse, la tocca per raddrizzarla e, rompendo in questo modo il divieto posto da Dio per il quale i non leviti non hanno il diritto di toccarla, viene istantaneamente colpito da Dio; viceversa, assume come modello il profeta investito da Dio, che umilmente può cantare Dio, forte del consenso di Dio che, permettendo al profeta-cantore di dire il divino, permette al poeta di negare quel divino stesso che canta, o meglio di negare le prerogative di quel divino che, venendo cantato, viene a perdere. Il divino è infatti potenza infinita, negatrice di ogni altra potenza, compresa la potenza del cantore che canta, con il permesso di Dio, il divino stesso. Dio è quindi per la tradizione epistemica cristiana ciò che impone il suo aiuto, ma in quanto assoluto è ciò che esclude, aiutando: in questa antinomia, che verrà adeguatamente analizzata nel terzo capitolo, sta la possibilità di intravedere, già a questa altezza, la necessità dell'uscita non solo dall'orizzonte cristiano, ma dall'orizzonte epistemico tout court. Già Dante si sforza d'incamminarsi verso questa direzione: l'uomo ha bisogno di una guida, di un supporto eccedente l'«altezza d'ingegno»165 del magnanimo. Soli con il proprio ingegno non si scende giù nell'Inferno per farvi esperienza e per poi allontanarsi da esso, e tanto meno si sale all'Empireo; se si tenta di abbattere il muro di pietra senza avere «chi 'l concede» 166 al proprio fianco, si finisce per far naufragio. Nel momento in cui Dante supera il cielo delle Stelle fisse, guarda in basso, e con tutta chiarezza constata la follia di chi vuole superare, da solo, senza l'aiuto del divino, «il varco/folle d'Ulisse»167. E tuttavia, nel momento apicale della Commedia, quello stesso Dio che aiuta a superare indenni l'ostacolo del folle varco, è ciò che al contempo schiaccia il salvato, imponendogli una condanna uguale e contraria rispetto a quella subita da Ulisse. Per tutte queste ragioni Severino parla, rifacendosi al periodo della filosofia cristiana medievale, di «ritorno al mito»: Dio è creduto mediante un annuncio, non può essere conosciuto mediante sophìa. Paolo va dicendo che sophìa è stoltezza presso Dio, anche se, sempre Paolo, parla della necessità di aderire a Cristo mediante un atto di ragione. Ed è proprio quest'ultima affermazione che ci fa tornare a ciò che ci ha fatto sottolineare la novità di questo ritorno al mito: è un mito, questo, che sta mani e piedi nelle categorie ontologiche greche, un 165 Alighieri

D., Inf. X, 58-61. D., Inf. II, 31. 167 Alighieri D., Par. XXVII, 82-3. 166 Alighieri

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mito che conosce l'orrore del nulla, la necessità di fuggire da esso, un ritorno che ha già in grembo la necessità di superare quel Dio stesso che, per ora, funge da riparo all'angoscia scoperta dalla filosofia stessa, attraverso l'uscita dal mito. Proprio sulla base delle categorie ontologiche greche nel medioevo si dà coerenza alla metafisica classica (epistemica e ingenuamente realista) attraverso la nozione di libera creazione da parte di Dio. Infatti, «il senso della creazione [ossia della prassi] è inteso alla luce delle categorie dell'ontologia greca»168, ma ora si aggiunge «un concetto che è assente nel pensiero greco: il concetto di libertà della creazione»169. Già nel pensiero di Plotino il concetto di “creazione” risulta necessario, se si vuole mantenere una coerenza all'interno della metafisica greca. Ora però si va oltre Plotino, dicendo che, se la creazione della materia da parte di Dio fosse un processo necessario, come Plotino riteneva che fosse, allora «Dio sarebbe unito necessariamente al divenire dell'universo, e cioè l'immutabile, necessariamente unito al divenire, includerebbe in sé il divenire e non sarebbe più l'immutabile» 170 (che, detto per inciso, è esattamente quello che accade tramite la mossa con la quale Hegel conclude il percorso della metafisica epistemica). Il fatto che Dio crei liberamente ha delle dirompenti conseguenze, la prima delle quali consiste nel riconoscere che il fattore, essendo libero di creare o meno le creature, ama le creature che crea liberamente, volendo crearle. Dio è l'essere che salva, e salvando esercita la forma più alta di prassi – che per il Cristianesimo è amore. “Amore” è, al di fuori della retorica cristiana, ciò che per tutto l'Occidente nichilistico (e dunque anche per il Cristianesimo) è volontà di potenza: «la fede in Dio è un mezzo con cui la volontà di potenza vuole perpetuarsi»171. Ovviamente, anche all'interno della filosofia medievale vanno fatte delle distinzioni, che qui non è possibile ripercorrere nel dettaglio. Va detto tuttavia che, ad avviso di Severino, nel corso della filosofia medievale si tende a creare una sempre maggiore frattura tra la fede e la ragione. Così, se ancora con Tommaso si cerca di armonizzare fede e filosofia, nel più tardo pensiero scolastico salta agli occhi come questa armonizzazione di fede e ragione determini l'appiattimento, per quanto implicito nel discorso di Tommaso, della seconda sulla prima (ovviamente a scapito della seconda). Nella contemporaneità la mossa anti-epistemica del 168

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 275. Ibidem. 170 Ivi, p. 276. 171 Severino E., L'anello del ritorno, cit., p. 66. 169

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cristiano Kierkegaard consisterà proprio nell'abbandono di ogni forma di previsione epistemica derivante dal calcolo in nome della adesione cieca (per fede) del singolo nei confronti di Dio: «la fede è un rimedio completamente diverso da ogni “calcolo” e da ogni “accortezza”, e quindi completamente diverso dal “calcolo” epistemico»172. 1.8 Il concetto di “libertà” nella Commedia di Dante La questione della libertà, come si è visto, è un tema centrale del pensiero medievale, giacché «la libertà assoluta appartiene all'essenza dell'isolamento estremo, cioè all'essenza del senso greco dell'essente. Non si capisce nulla della “libertà” dell'uomo moderno, se non la si riconduce alla libertà che compete all'essente in quanto esso è un proveniente dal niente» 173. Tale nozione di libertà, proprio in quanto legata a filo doppio all'essenza del nichilismo, risulta decisiva anche all'interno del discorso filosofico della Commedia, tanto che è proprio nei fondamentali canti centrali del Purgatorio, canti nei quali ha luogo il grande discorso sul libero arbitrio, che viene per la prima volta fatto cenno alla missione profetica che investe Dante e che sarà resa esplicita solo sulla vetta dell'Eden, e successivamente nel Paradiso (per bocca di Cacciaguida, Pier Damiani e dei tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, che già avevano dato la loro investitura a Paolo174): «ma priego che m'addite la cagione,/sì ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui»175. Prima di parlare della nozione di “libertà” così come è sviluppata nella Commedia, è importante tracciare, in linea generale, un percorso che consenta di capire che cosa è la libertà per il nichilismo e quel è lo scarto sussistente tra la libertà nichilistico-prassistica e la libertà intesa dalla ontologia severiniana. Libertà, per il nichilismo, è prassi potenziale, e la liberazione è l'esercizio della prassi nichilisticamente intesa, cioè il dominio sul mondo che permette la realizzazione del paradiso (della tecnica)176. Per il nichilismo la libertà è prassi potenziale, e la liberazione è prassi in atto, espressione della volontà di potenza occidentale fondantesi sulla fede per la quale gli enti divengono e nel fatto che per questa ragione sono plasmabili mediante la prassi. La liberazione – la prassi in atto – è liberazione dalla contraddizione, laddove «la 172

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 113. Severino E., La filosofia futura, cit., p. 49. 174 Cfr. Ledda G., La Bibbia di Dante, Torino, Claudiana, 2015, p. 96. 175 Alighieri D., Purg. XVI, 61-2. 176 Il celebre aforisma fichtiano qui è più che opportuno: «essere liberi non è niente; diventare liberi è il paradiso». 173

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“liberazione” è tale […] in quanto presuppone che la contraddizione sia e appaia come contraddizione: se la contraddizione non apparisse come contraddizione, non esisterebbe liberazione»177. La contraddizione è la negazione del positivo (A = non-A). La contraddizione è posta nella misura in cui si ha fede nel fatto che la negazione del positivo non sia originariamente auto-negantesi: tale fede, è la fede nichilistica nel divenire. Il divenire, infatti, è la contraddizione, e la prassi è il dominio di quella contraddizione che, al punto più radicale dell'auto-coscienza occidentale, è riconosciuta come contraddizione insanabile, e proprio per questo fondante l'inesauribilità della prassi. Questo punto è bene tematizzato dalla radicalizzazione dell'idealismo classico tedesco da parte di Gentile, il quale sostiene che «la liberazione è un processo inesauribile […] la liberazione non ha un obiettivo finale, un contenuto supremo (il toglimento di tutte le contraddizioni) da realizzare, perché l'unico fine è il procedere del processo, lo svilupparsi del pensare in atto»178. Nel dire ciò Gentile radicalizza l'idealismo hegeliano in quanto per Hegel «la liberazione è il processo della piena e compiuta autorealizzazione dell'Idea (consistente nel toglimento totale della contraddizione)»179, come il toglimento totale della contraddizione si dà – concretamente – in Marx, con la realizzazione della società non più alientante (non più contraddittoria) che è la società comunista. Per Gentile «Hegel non è rimasto fedele alla sua scoperta ed è tornato a concepire la dialettica come un processo che è presupposto, esterno al pensiero in atto, e quindi ha soltanto l'apparenza del processo e della dialetticità» 180. Con questa mossa, Hegel ha limitato la possibilità infinita di realizzazione della prassi. Allo stesso modo, Marx ha criticato la contraddizione che impediva il divenire, e così facendo ha dialetticamente usato la rivoluzione come strumento ontologico per giustificare la realizzazione di una nuova società che permette nuova azione e tuttavia, volendo porre un(a) fine a questa costruzione volta alla giustificazione teorica della prassi nichilistica, ha posto con il comunismo il punto di arrivo che è da lui inteso, da un lato, come il paradiso in terra ma dall'altro, implicitamente, come la fine della prassi, e dunque come la fine del paradiso della tecnica (come la fine del paradiso in terra). Solo il gentiliano riconoscimento della inesauribilità della attività del pensiero in atto – l'inesauribilità della dialettica – può dare la 177

Cusano N., Libertà e liberazione, in «La filosofia futura», 02 (2014), p. 72. Ivi, p. 70. 179 Ibidem. 180 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., pp. 216-217. 178

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salvezza, dal punto di vista dell'Occidente. Se spostiamo l'attenzione dalla ontologia nichilistica alla ontologia severiniana, vediamo che la ne-cessità che l'essere sia e appaia come originaria negazione della propria negazione non va a negare la libertà, bensì va a negare la libertà come prassi per affermare la Gioia, cioè il toglimento originario di ogni contraddizione, e ciò significa togliere la radice di ogni violenza nichilistico-“liberatoria”. Dato che la contraddizione è già da sempre negata, la liberazione così come è intesa dal nichilismo si rivela essa stessa contraddittoria, ossia è essa stessa tolta fin da subito. Veniamo ora a Dante. La libertà, nell'orizzonte teologico della Commedia, è anzitutto l'attributo essenziale di Dio, che sorregge la storia universale e la storia individuale del poeta che, a partire dal secondo canto del poema, viene gratuitamente soccorso – egli che si trovava respinto in basso loco, tra l'acqua perigliosa del peccato – dalla Madonna (la creatura più vicina a Dio), attraverso la mediazione di Beatrice, Lucia e di Virgilio, quella Madonna che, ancora nell'ultimo canto del poema, spicca per la sua disposizione ad amare gratuitamente e in modo del tutto libero (cioè con amore, dato che l'amore è prassi, cioè libertà che si esercita nel toglimento della contraddizione, ossia nel dominio) il prossimo: «O luce etterna che sola in te sidi,/sola t'intendi, e da te intelletta/e intendente te ami e arridi!»181. La libertà è propria di Dio perché Dio è amore, e la libertà è ciò che viene esercitato con amore, è ciò che, al di là della ragione virgiliana, dà a Dante il potere di superare il muro di fuoco che lo separa dall'Eden. La libertà è l'amore di Dio verso gli uomini, ed è l'amore dell'uomo Dante (poeta e personaggio) per Beatrice: la libertà, identificandosi con l'amore, è ciò che dà il potere a Dante di superare le fiamme della cornice purgatoriale dei lussuriosi, al di là della quale viene accolto, non casualmente, dal canto che si rifà al brano evangelico nel quale Gesù parla agli apostoli del Giudizio Universale, momento di rinnovamento del corpo, di rinnovamento della potenza: «Venite, benedicti Patris mei»182. Sarà proprio la resurrezione dei morti la meta alla quale la speranza di Dante e di tutti i fedeli cristiani è rivolta in virtù dell'amore che codesti cristiani rivolgono a Dio il quale, a sua volta, è l'amore che muove i cieli183. La libertà è, inoltre, libertà degli uomini nella storia. Ed è quest'ultima declinazione del 181 Alighieri

D., Par. XXXIII, 124-6. D., Purg. XXVII, 58. 183 Cfr. Alighieri D., Par. XXV, 88-96. 182 Alighieri

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termine “libertà” che trova il suo posto proprio al centro, non solo teorico, ma anche “fisico”, della Commedia: uno dei più importanti canti del poema è infatti il canto di Marco Lombardo, il sedicesimo del Purgatorio, ovvero il cinquantesimo dei cento che costituiscono l'intero poema. Ma da questo canto centrale, l'importanza del termine trova ampia diffusione in tutta la seconda cantica, a partire dal primo canto. È proprio con la nozione di “libertà” che si devono fare i conti, per sbrogliare l'enigma di Catone, pagano, suicida ed oppositore di Cesare, e tuttavia messo a guardia della montagna alla sommità della quale, giunti nel Paradiso terrestre, si acquisisce finalmente quella pienezza naturale che ci consente di trasumanare, e di salire le stelle. Proprio in quanto martire della libertà («libertà va cercando, ch'è sì cara,/come sa chi per lei vita rifiuta.//Tu 'l sai, ché non ti fu per lei amara/in Utica la morte» 184) Catone ha potuto raggiungere la pienezza della virtù umana, cioè la pienezza naturale, simboleggiata dalle «quattro stelle», dalle «quattro luci sante», che dal cielo «d'oriental zaffiro» risplendendo «fregiavan sì la sua faccia di lume»185, proprio in quanto egli praticò in vita la libertà, e la praticò senza violare i limiti posti da Dio. Più vicino ai magnanimi del Limbo che a Ulisse, Catone «simboleggia […] la storia dell'umanità prima di Cristo, che raggiunge una sua pienezza naturale nella sapienza, nella virtù e nell'ordinamento dello stato […] ma che ancora non è stata trasformata dalla grazia; pienezza ancora umana, cioè, come quella di Adamo nell'Eden, e non divina»186. Preannunciando ciò che ogni peccatore destinato al Paradiso sarà, quando ormai mondato giungerà alla sommità del monte, Catone incarna la sua salvezza ed insieme la posticipa alla fine dei tempi (quando il Purgatorio, a differenza degli altri due regni ultramondani, si estinguerà), ma alla fine il cielo sarà anche da lui raggiunto, in nome di quel libero arbitrio che lo ha guidato in vita, e che per l'ultima volta Catone ha esercitato ad Utica. Ma, si diceva, il canto in cui il tema della libertà risulta cruciale è il sedicesimo. Il sedicesimo del Purgatorio, come il canto di Catone, guarda ancora alla terra, associa cioè il tema etico del libero arbitrio ai problemi politici, alla felicità in terra. Se è vero, come è vero, che la Commedia è «il poema sacro/al quale ha posto mano e terra e cielo» 187, le tematiche politiche, riferite alla condizione terrena, alla felicità storica e materiale degli uomini, 184 Alighieri

D., Purg. I, 71-4. D., Purg. I, 38. 186 Commento a Alighieri D., Commedia. Purgatorio (2000), a cura di A. M. Chiavacci Leonardi, Bologna, Zanichelli, 2016, p. 4. 187 Alighieri D., Par. XXV, 1-2. 185 Alighieri

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continueranno a dominare a lungo, fino agli ultimi canti del poema, dove a fatica (e, come vedremo, mai del tutto) Dante cercherà di affermare definitivamente una dimensione sovrastorica e atemporale. Nel canto di Marco Lombardo siamo dunque indirizzati verso problematiche mondane, storiche, e ciò che deve garantire, stando al disegno teologico-provvidenziale dantesco, la felicità degli uomini nella storia, è l'ordine terreno, è l'Impero, laddove la Chiesa, nella sua funzione storica, deve garantire l'ordine ultraterreno. Entro questo piano politico ampio, i singoli individui hanno la loro responsabilità, che nell'economia del discorso dantesco si declina come responsabilità politica che i contemporanei del poeta hanno nei confronti di quel mondo «così tutto diserto/d'ogne virtute»188. Non è vero – dice Dante – che le azioni degli uomini sono totalmente determinate dalle influenze astrali, che toglierebbero in questo caso agli uomini ogni loro responsabilità nella storia, toglierebbero cioè loro quel «lume», quella «preziosissima parte dell'anima che è deitade»189, creata da Dio che, pur creandola, non la determina («a miglior forza e a miglior natura/liberi soggiacete» 190), e che gli permette di distinguere il bene dal male. Il piano etico della libertà dell'uomo è finalizzato così a quello politico: tale libertà è la responsabilità dell'uomo nella storia. Ma, come sempre accade nella Commedia, il particolare si risolve nell'universale, e lo storico nell'eterno. E così nella Epistola XIII Dante può dire che l'argomento dell'opera è l'uomo «in quanto, per i meriti e i demeriti acquisiti con il suo libero arbitrio, ha conseguito premio o punizione da parte della giustizia divina». Il pericolo di cadere nell'errore consiste nel fatto che la natura dell'uomo è corrotta a causa del peccato originale: per questo gli uomini, da soli, non possono niente; essi necessitano invece di una guida data loro, liberamente e con amore, da Dio, una guida che su un piano universale si identifica con l' «uccel di Dio» cantato da Giustiniano nel sesto del Paradiso, e che su un piano individuale coincide con le guide e gli aiuti che, dopo avere avuto un significato terreno profondissimo per il poeta, ora lo guidano e lo sorreggono nel suo viaggio nei tre regni eterni. Da ultimo vorrei ricordare la riflessione dantesca sul libero arbitrio presente nel Cielo della Luna. Anche in questo frangente Dante, prendendosela con una lettura non metaforica della tesi esposta nel Timeo, secondo la quale le anime tornerebbero alle stelle da cui erano discese, cerca 188 Alighieri

D., Purg. XVI, 58-9. Alighieri D., Convivio III II, 19. 190 Alighieri D., Purg. XVI, 79-80. 189

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di salvare la posizione platonica sottolineando però la necessità di intenderla nel suo versante mitico: non sono le anime che discendono dalle stelle, come il senso letterale del dialogo vorrebbe, bensì gli influssi che esse esercitano; influssi ai quali la libertà umana non è mai subordinata, in quanto ella può sempre vincere e dominare gli influssi astrali, che pure ci sono: «S'elli [cioè Platone, nel Timeo] intende tornare a queste ruote/l'onor de la influenza e 'l biasmo, forse/in alcun vero suo arco percuote»191. Per concludere, possiamo osservare che Dante si pone come campione della libertà in quanto è campione dell'Occidente. Non è un caso che l'Occidente, giunto al suo massimo grado di autocoscienza, tramite Gentile riprenda entusiasticamente l'elogio del medesimo concetto: La libertà! Con la libertà c'è tutta la ricchezza della vita dello spirito; senza libertà, non c'è nulla. Ora l'attualismo assume che non solo esso salva la libertà; ma che per salvarla non ci sia altro modo di pensare che il suo; perché appena si abbandoni il concetto del pensiero come atto, il pensiero viene di necessità condizionato, e perciò privato della sua libertà, e cioè annullato come pensiero.192 Dire libertà è dire appunto inizio di una nuova realtà. Prima nulla, poi tutto. Libero è lo spirito se è capace di creare. Quale non può essere un spirito che sia condizionato da qualcosa di preesistente [che può essere qualsiasi oggetto esterno e indipendente al pensiero: dalla natura ingenuamente intesa, all'oggetto trascendentale kantiano, al Dio dell' «idealismo a metà» di Berkeley], sia materia, sia natura, sia umanità o storia, sia mondo ideale, sia Dio, sia anche se stesso, ma concepito al pari degli altri enti, come realmente preesistente, cioè distinto così da poter esistere indipendentemente dallo spirito attuale che ne venga condizionato. 193

La lucidità che guida l'enfatica affermazione gentiliana è supportata dal fondamento metafisico per il quale «se la realtà è presupposta al pensiero e lo anticipa totalmente, il pensiero diventa un niente»194. Se «nella negazione attualistica del concetto naturalistico della realtà come presupposto del pensiero agisce in modo determinante la consapevolezza che la realtà, così presupposta, diventa un immutabile che rende impossibile il divenire evidente in

191 Alighieri

D., Par. IV, 58-60. Gentile G., Introduzione alla filosofia (1933), Firenze, Sansoni, 1958, cap. XIII, par. 18. 193 Ivi, cap. XIII, par. 5, corsivo mio. 194 Severino E., Gli abitatori del tempo, cit., p. 119. 192

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cui consiste il pensiero in atto»195, in Dante questa consapevolezza emerge solo nell'inconscio del suo discorso, che tuttavia in superficie ritiene di dovere porre, come reale fine del viaggio, proprio quell'ente che nega nel modo più categorico la libertà. Solo con l'idealismo assoluto giunge a compimento quel lavorio teoretico che già nella Commedia può essere intravisto, per il quale «ogni forma di presupposizione, e quindi non solo il “pensiero divino”, o la “natura” così come è concepita dalla filosofia antica, si costituisce come un immutabile che mortifica il divenire. È il presupposto in quanto tale a rendere impossibile lo sviluppo reale del pensare»196. 1.9 Appendice al §1: alcune questioni metodologiche Questo ora descritto è lo schema interpretativo che, sulla base della critica (teoretica) all'Occidente sopra esposta, Severino colloca i diversi sviluppi (storici) di questa coerentizzazione della Follia che è la filosofia. Dalla pars destruens possiamo ricavare non solo la critica all'Occidente nichilistico posta in atto da Severino con costante enfasi, ma anche un modo originale di interpretare lo sviluppo storico dell'Occidente, anzitutto ma non solo filosofico. Uno sviluppo che, se da un lato è fondato dalla pars costruens, dall'altro fa tutt'uno con la pars destruens, dato che nell'elaborazione teorica severiniana non viene mai meno il confronto con lo sviluppo storico interpretato alla luce della pars destruens stessa. Solo ne La Struttura Originaria, per questo definita da Nicoletta Cusano come «libro molto particolare»197, Severino non fa diretto riferimento alla pars destruens (ossia alla storia effettuale, che è una vera e propria «critica all'Occidente come negazione della verità dell'essere»198, posta in atto da Severino nel modo più esteso nei suoi tre “manuali”), «non accoglie nessuna questione dall'esterno, ma, partendo dall'opposizione fondamentale dell'essere al non essere, mostra tutto quello che tale affermazione significa e porta con sé» 199; in tutti gli altri testi teoretici Severino, pur essendo interessato anzitutto ad affermare la struttura originaria degli essenti (pars costruens), accoglie sempre il confronto con l'«esterno», cioè con quell'attrito fecondo sulla base del quale può affermare il suo discorso in positivo. Insomma, è proprio dal suo atteggiamento critico-archeologico che scaturisce quella pars costruens che in 195

Ivi, p. 118. Lago E., La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, Milano, Bompiani, 2005, p. 32. 197 Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 104. 198 Ibidem. 199 Ibidem. 196

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secondo luogo egli pone a fondamento della critica stessa. La pars costruens, quindi, non può esimersi dall'avere dietro di sé un vero e proprio metodo d'indagine storico-filosofico, che può risultare fecondo anche se svincolato da risultati costruttivi che esulano dalla storia della filosofia intesa come la storia della costituzione di sé da parte del nichilismo. Nel corso del presente lavoro si è cercato e si cercherà di seguire questo metodo di indagine severiniano per affrontare, mediante esso, la questione della poesia dell'Occidente. Per ora tralasciamo la definizione di “poeta”, anticipando solo che, come per il giovane Lukács il romanzo non necessariamente si esprime in prosa (tant'è vero che Dante è da lui considerato un romanziere200, mentre Dostoevskij «non ha scritto nessun romanzo» 201), così per Severino “poetico” non è necessariamente il testo composto in versi. Diciamo invece che due filosofi (che accidentalmente scrivono in versi) avranno particolare importanza ai fini di questa ricostruzione storico-critica svolta nel segno della teoria critica severiniana: Dante e Leopardi, un giocatore bianco al quale Severino non dà particolare importanza, ed il giocatore nero per eccellenza, sulla interpretazione del quale Severino ha investito poderosi e costanti sforzi. Il primo, a pieno titolo incasellabile nell'ambito della filosofia medievale della quale non a caso ci si è premurati in queste pagine di dare una visione d'insieme, è il giocatore bianco, la tradizione che arretra davanti al muro di pietra; l'altro, invece, che come l'Ulisse dantesco (ma anche come l'Ulisse “robinsoniano” di Dialettica dell'Illuminismo, entrambi esempi paradigmatici della cifra estetica ed anti-poetica fondamentale dell'Occidente nichilistico: la volontà di potenza) non arretra davanti alle colonne d'Ercole e che, a differenza dell'Ulisse dantesco, sa riemergere ancora un attimo, proprio grazie alla sua poesia, prima di cadere sommerso dall'«alto passo»202, è il giocatore nero, giocatore che solo apparentemente si oppone alla tradizione che arretra davanti al muro di pietra. È per Severino già implicito nelle categorie ontologiche sviluppate e dominanti in tutta la schiera di giocatori bianchi il fatto che di quel muro di pietra non debbano rimanere altro che calcinacci. La ricostruzione – alla luce del metodo di indagine severiniano fino a questo momento descritto – dei rapporti di apparente opposizione – in realtà di continue, dissimulate affinità – tra Dante e Leopardi, verrà nelle pagine che seguono sviluppata tenendo ben presente 200

Cfr. Lukács G., Theorie des Romans (1920), trad. it. a cura di G. Raciti, Teoria del romanzo, Milano, SE, 2004, p. 52. 201 Lukács G., Teoria del romanzo, cit., p. 146. 202 Alighieri D., Inf. II, 12.

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il fatto che essi sono entrambi poeti, indipendentemente dal fatto che essi hanno prodotto le loro opere in versi203. Nell'accingerci a trattare il rapporto che l'opera severiniana intrattiene con ciò che, in via del tutto preliminare, ci si limiterà a chiamare «testo poetico»204, è opportuno sottolineare come Severino parli costantemente mediante gli altri filosofi, quei filosofi, abitatori dell'Occidente, i quali hanno sviluppato un pensiero «irriducibilmente differente» 205 rispetto al suo, e che proprio in nome di questa irriducibile differenza egli si sente in dovere di utilizzare, come se si sentisse in dovere di seguire le indicazioni delle pagine iniziali della Fenomenologia dello Spirito, che invitano a non cedere al timor panico, atto a trasformare l'irriducibile differenza in irriducibile diffidenza verso ciò che è altro206. Da questa irriducibile differenza scaturisce una continua interazione. Non è possibile staccare l'argomentazione severiniana dalla storia critica della filosofia che egli va sviluppando. La sua filosofia teoretica è sempre, irrimediabilmente, una storia della filosofia (ed una filosofia della storia!). Severino parla mediante gli altri filosofi, parla mediante quella irriducibile differenza, perché sa che nulla può essere compreso se non mediante quella differenza, e perché tanto più la differenza è irriducibile e tanto più quel che si vuole esprimere, mediante quel violento cozzare, sarà adeguatamente espresso. Solo questa irriducibile differenza può motivare il gioco di specchi attraverso il quale gli altri filosofi, nelle sue pagine, sembrano parlare per lui. In realtà ciò che parla è sempre lo scarto che si dà nella sua dialettica con l'abitatore dell'Occidente. Questo scarto è però irriducibile, è insomma qualcosa di inaudito, dato che inaudita è la distanza che Severino stesso frappone tra il suo discorso ed il discorso di tutti coloro che egli fa parlare. Verrebbe allora da chiedersi: se questa distanza è così incolmabile, 203

Severino, nel suo infaticabile confronto che la storia della filosofia, si è occupato ampiamente di Leopardi, anzitutto in due importanti monografie degli anni '90 e in una meno considerevole e più divulgativa monografia uscita nel 2015 (testi dai quali, ovviamente, si trarranno molti spunti). Viceversa, non si può certo dire che Dante sia un autore al quale Severino abbia dedicato, quantomeno pubblicamente, molti pensieri. Ben poche righe Dante dedica al «toscano Omero» anche se, cercando tra le innumerevoli opere severiniane, qualche riferimento a Dante, immancabilmente trattato assieme a Leopardi, può essere trovato ed accolto fecondamente. 204 Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 32. 205 Cfr. Cusano N., Capire Severino. La risoluzione dell'aporetica del nulla, Milano, Mimesis, 2011, p. 15. 206 È bene ribadire che Hegel, tra i mille interlocutori di Severino, è quello privilegiato, in quanto la sua appartenenza alla metafisica epistemica non gli preclude lo sterminato orizzonte postmoderno, anti-epistemico, che da esso deriva: è questo suo appartenere a Dioniso e al Crocifisso, per usare una immagine nietzschiana, che sottolinea il risalto tutto particolare che ha Hegel nelle pagine di Severino, risalto che induce l'autore di quelle pagine a scorgere il comune denominatore che sta a fondamento non solo della apparentemente irriducibile eterogeneità della filosofia contemporanea, ma anche e soprattutto della storia della filosofia nella sua interezza.

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come è possibile che il diverso possa venire fatto parlare proprio da colui il quale si pone come irriducibilmente diverso? non si darà forse il caso che Severino usi a suo piacimento questa irriducibile diversità proprio in virtù di questa incolmabile distanza? È proprio Severino, nell'accingersi a dare la sua lettura di Nietzsche, a porre a tema questo problema: «Il modo meno faticoso di liberarsi del discorso sviluppato in questo libro è di riproporre la solita obbiezione che qui non si ha a che fare con Nietzsche, ma col Nietzsche dell'autore di questo libro. Come se nelle interpretazioni che si dichiarano storico-filologiche si riuscisse per davvero ad avere a che fare col Nietzsche di Nietzsche, o per lo meno con una molto più consistente approssimazione a questo Nietzsche garantito. In questo modo di pensare si dimentica che ogni interpretazione è problematica. Anche quella che qui viene proposta, dunque»207. I filosofi che paiono parlare per Severino sono riflessi di riflessi, sono figure stinte che paiono riflessi di altro, ma che si rivelano, a fare maggiore attenzione, munite di una loro autonomia, e ciò che pareva stinto eccolo imporsi con un candore che oltrepassa l'originale. Affrontando Severino non si deve insomma fare l'errore di chi, giunto «a le beate genti» 208, anziché riconoscerle come vertice ontologico del creato, le crede essere pallidi riflessi di qualcosa che gli sta alle spalle, e dunque si volta («Sùbito sì com'io di lor m'accorsi,/quelle stimando specchiati sembianti,/per veder di cui fosser, li occhi torsi»209), ma nulla vede. Nessun riflesso, nessuna attenuazione d'essere: quel pallore stinto, come «perla in bianca fronte»210, era molto di più di ciò che superficialmente pareva essere. Anche i filosofi che popolano gli scritti severiniani sono molto più rispetto a ciò che paiono essere: non sono pallide comparse, non sono soprattutto strumenti, depositi di citazioni, che Severino utilizzerebbe alla bell'e meglio per accreditare i suoi lavori. Quei filosofi (Platone, Aristotele, Hegel, Leopardi, Gentile, Heidegger, Carnap, per dire solo i più importanti) che popolano le pagine severiniane non sono altro da Severino stesso, non stanno fuori dalla pagina severiniana, non sono proiettati nella pagina severiniana da fuori, come riflessi, bensì sono parte integrante di quella pagina, non hanno autonomia da quella pagina e dunque, al contrario, hanno piena autonomia da quei filosofi per i quali quei nomi che troviamo nei testi severiniani 207

Severino E., L'anello del ritorno, cit., p. 26. D., Inf. I, 120. 209 Alighieri D., Par. IV, 19-21. 210 Alighieri D., Par. IV, 14. 208 Alighieri

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starebbero. Un diligente filologo non può che trovare inaccettabile la ricerca etimologica vichiana, ed uno storico delle religioni non può che storcere il naso davanti alle interpretazioni che Vico fa dei miti classici, e tuttavia «geniale era la lettura da parte di Vico dei miti greci» 211: è proprio nella sapiente parzialità di quella lettura (che non è, va da sé, un mero andare a tentoni, scrivendo le cose più assurde solo per il gusto di “fare colpo” sull'uditorio) che sta il genio dell'autore. Allo stesso modo, la storia teoretica della filosofia fatta da Severino trae giovamento proprio dalla sua autarchia, dalla sua stessa indipendenza dalla storia. Come un animale strisciante tra le acque, Severino emerge sulla superficie del mare, si accompagna al moto delle onde, e nell'adagiarsi su di esse, le guida, le deforma, finché nulla rimane dell'autenticità di quei moti originari. Nell'accortezza di quello strisciare risiede il suo genio. Il suo, è il genio della deformazione, che non scade mai nel gusto dello scandalo o nell'autoreferenzialità di chi cede al ben diffuso vizio della “vanità speculativa”. La sua deformazione è ciò di più costruttivo che ci si può aspettare da un filosofo: egli deforma al fine di costruire un grande sistema nell'epoca della desertificazione, senza tuttavia fare (troppe) concessioni al già detto. La scelta – perseguita in questo lavoro – di occuparsi del «testo poetico» così come è concepito da Severino attraverso l'ausilio della storia della metafisica – la quale, in quanto tale (cioè in quanto tematizzazione delle categorie ontologiche mediante le quali è possibile intendere l'ente come oscillante tra l'essere e il nulla), non può che rivelarsi “esterna” al monolitico sistema severiniano – deve essere letta alla luce di ciò che si è appena detto: solo da dentro la storia della filosofia ci si emancipa da quella folle storia, solo facendo parlare i suoi protagonisti si può far loro dire, per contrasto, ciò che essi mai direbbero, perché per dire ciò che Severino dice è necessario diventare consapevoli di ciò che sta nell'inconscio della civiltà occidentale (per guardare da fuori questa civiltà). La società occidentale, con tutti quei personaggi che appartengono alle pagine severiniane (e che non appartengono per questo più a se stessi), smetterebbe di essere tale solo se avesse coscienza di sé: «se si accorgesse di essere nichilismo, la contraddizione che lo fonda sarebbe saputa e posta come tale, e con ciò il nichilismo stesso sarebbe oltrepassato»212. Il nichilismo scoprirebbe in questo modo l'inconscio 211 Adorno 212

W.T., Teoria estetica, cit., p. 341. Cusano N., Capire Severino, cit., p. 15.

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del suo inconscio. Al Dante-poeta e al Dante-personaggio, va dunque aggiunto (meglio: a questi primi due va sostituito) il Dante-Severino, non il Dante di Severino, dato che il linguaggio della verità non può appartenere a Severino soltanto. Il Dante che da dentro la storia dell'Occidente, nel suo non trascenderla, sa esprimere – nella pagina severiniana e solo nella pagina severiniana – quel fondamento che non ha saputo comprendere nella sua autonomia da Severino, diventa lo strumento per sabotare il nichilismo solo attraverso l'intermediazione speculativa severiniana, che fuori dal nichilismo si colloca (o pretenderebbe di collocarsi). I due poeti, negli scritti di Severino, ottengono autonomia da sé: non sono meri riflessi, non sono mere maschere, come si è detto, ma anzi quel pallore, che pare derivare da una loro presunta accessorietà, è in realtà un candore nobilitante, che non oscura il discorso severiniano, e che rappresenta l'unico sbocco affinché quel discorso possa trovare espressione. Non si tratta di una violenza ermeneutica operata sui testi leopardiani e danteschi, quella operata da Severino e che si opererà durante questo lavoro. Severino non fa violenza, ma non fa nemmeno filologia o storia della filosofia. Severino ha bisogno di un mezzo che è tutto suo, per dire l'inaudito, ma questo non gli impedisce di scivolare tra le onde di quello stesso mare che pare non appartenergli. Imprimere nuovi moti alle onde significa impossessarsi delle onde, senza tuttavia impossessarsi del mare. Non significa però, d'altro canto, violentare il mare a meno che l'esposizione, per sua stessa natura interlocutoria, non debba considerarsi sempre una violenza, proprio a causa di questo suo ineliminabile tratto dialettico. La scelta severiniana di usare i filosofi per esprimersi, e la scelta qui adottata, di usare filosofi per parlare di Severino, non va quindi intesa come uno stratagemma atto a sgravarsi di ogni responsabilità. Anzi, come si è detto, si parlerà di un Leopardi-Severino e, cosa più difficile, di un Dante-Severino (l'incremento di difficoltà sta nel fatto che pochissime sono le pagine che Severino in tutto la sua vita ha dedicato a Dante, mentre innumerevoli pagine, e ben tre monografia sono state dal bresciano dedicate a Leopardi). Ovviamente la difficoltà maggiore sta nel capire se anche il “me” che scrive debba farsi un “io-Severino” e, una volta capito ciò, in che modo fare ciò che si è capito che si deve fare. Tralasciando questi meta-problemi che, come ogni “problema di”, tende a rimandare se stesso indefinitamente, è bene fare un esempio, tratto non a caso dalla storia della filosofia, che può aiutarci a capire come questo metodo che verrà applicato nel corso di questo lavoro non sia 115

frutto di pusillanimità filosofica la quale, si sa, come ogni tipo di pusillanimità, tende ad essere comprensibilmente indigesta a tutte le parti in gioco, a Dio e ai suoi nemici. L'esempio in questione è kierkegaardiano: «se a qualcuno venisse in mente di citare qualche passo di questi libri – scrive il Danese nella terza parte della Postilla conclusiva non scientifica – abbia la cortesia di citare con il nome dello pseudonimo rispettivo, non col mio, cioè di dividere le cose fra noi in modo che l'espressione appartenga femminilmente allo pseudonimo, la responsabilità dal punto di vista civile a me». Non si tratta insomma di nascondersi dietro ad autori forzatamente interpretati (il Leopardi storico poco probabilmente si riconoscerebbe nel Leopardi messo in scena da Severino negli anni '90). Assumersi la «responsabilità civile» non significa cadere nelle ristrettezze della letteratura secondaria. Severino è un grande filosofo e, si sa, i grandi filosofi amano ridursi a chiosare solo se stessi, non gli autori dei quali si occupano. O, meglio: tutti i filosofi amano ridursi a chiosare se stessi, e tuttavia solo ai grandi filosofi ciò riesce per davvero. Ci proponiamo insomma di togliere Severino dalla schiera degli interpreti, per metterlo a nudo, nonostante ed al di là delle sue pretese; al di là cioè di ciò che egli ha dichiarato a proposito della sua lettura di Leopardi. Severino, infatti, si premura di dirci che la sua lettura del Recanatese non è la mera «sovrapposizione di un'ipotesi interpretativa a ciò che Leopardi effettivamente dice»213. Nonostante la sua pretesa di riportare il pensiero leopardiano, Severino lo trascende, ed in ciò sta la forza della sua lettura, della lettura che egli dà di tutta la storia della filosofia. Una lettura, la sua, che non può che forzare i testi, tanto della tradizione quanto dell'anti-tradizione che non sa però mai trascendere la scacchiera che condivide con la tradizione medesima. Proprio in quanto Severino vuole trascendere tale scacchiera, non può non trascendere, e dunque forzare, gli autori che interpreta, andando oltre i loro circoscritti orizzonti. La scacchiera sulla quale si gioca la partita tra il giocatore bianco e il giocatore nero collasserebbe se ci fosse la comprensione di quell'indicare lo Sguardo che è il destino della verità. L'interpretazione severiniana non può che rivolgersi alla scacchiera, guardandola, esso solo, da fuori. E proprio in virtù di questo guardare “da fuori” la sua lettura non può che presentarsi come una forzatura rispetto a ciò che sta dentro la scacchiera, e che consiste nell'oggetto della indagine critica del Severino storico della filosofia. 213

Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., 29.

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Il Leopardi-Severino non è un nascondiglio dietro al quale potersi mettere per parare i colpi della critica. Il Leopardi-Severino non è un nascondiglio in quanto non è una proiezione, non è un riflesso, come la Piccarda del IV del Paradiso non è proiettata da altro, alle spalle di Dantepersonaggio. È sempre difficile tollerare questo strano modo di fare storia della filosofia da parte di Severino, tacciabile, superficialmente, di viltà o di eccesso di eroismo (di narcisismo?!). E tutto ciò risulta tanto più difficile quanto più ci si impegna a rispettare questa stessa metodologia. Auguriamoci che la venuta non sia folle.

§2 Idealismo e principio di non-contraddizione 2.1 Epicureismo e nichilismo Abbiamo nel precedente paragrafo indicato le tappe fondamentali attraverso le quali si articola la storia della filosofia alla luce della lettura che Severino dà dell'Occidente. Tale storia della filosofia si gioca tutta su presupposti comuni, anche se apparentemente in reciproco contrasto fra loro. L'organicità e la compattezza che il testo severiniano cerca di porre a frutto, parlando dei diversi filosofi senza perdere mai di vista, anche quando sarebbe filologicamente doveroso farlo, il contesto generale, è giustificata ad avviso di Severino dal pensiero fondamentale che lo guida, atto a ravvisare un terreno comune che tutto l'Occidente condivide e del quale l'Occidente si nutre anche e soprattutto sul piano della prassi. Pensiero fondamentale, questo, nel quale tutta la filosofia ripone la propria fede, e che per questo viene assunto come punto di partenza indimostrato, accettato dogmaticamente. Egli intende porre a tema un «senso del mondo» comune alla terra isolata dalla verità, il riferimento al quale è ciò che dà organicità al percorso filosofico (autocoscienziale) che si afferma nel suo darsi storico: «dicendo che un unico senso del mondo attraversa l'Europa e la rende una totalità organica, intendiamo che un unico modo di intendere ciò che la cosa è – un unico senso della “cosa”, dunque – guida, stabilisce e unifica l'immensa varietà di eventi e di opere della storia europea»214. Con l'espressione «senso del mondo», riferita al senso che tutto l'Occidente nichilistico dà al mondo, alle cose del mondo, Severino dunque intende che, per l'Occidente, «il significato della parola “cosa” è ormai fuori discussione». 214

Severino E., Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Roma, Armando, 1978, p. 15.

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L'ente, la cosa, per tutto l'Occidente è ciò che diviene, e quindi «la cosa è un'assoluta disponibilità ad essere prodotta e distrutta, perché essa è disponibile all'essere e al niente, ossia agli assolutamente opposti […] la cosa è un'oscillazione infinita che percorre l'infinita distanza che separa l'essere dal niente»215, e tutto ciò è già saputo dalla tradizione – dal giocatore bianco – anche se quest'ultimo non ne è esplicitamente consapevole. Percorrere le pagine della Commedia significherà anzitutto, ai fini di questo lavoro, scorgere le implicite concessioni che Dante fa alla posizione del giocatore nero, alla posizione non opposta a quella della tradizione ma che, come si è detto, non mira ad altro che a coerentizzare quest'ultima. Borges ha bene fatto emergere come nella precarietà esistenziale e narrativa, unita all'angoscia che da essa deriva, consista una delle cifre fondamentali della Commedia, che trova massima espressione nel «tristo buco», là dove la precarietà dell'ente oscillante tra i due estremi opposti si fa presente con la massima drammaticità: Dante ha voluto che pensassimo che Ugolino (l'Ugolino del suo Inferno, non quello storico) abbia mangiato la carne dei suoi figli? Arrischierei questa risposta: Dante ha voluto non che lo pensassimo, ma che lo sospettassimo. L'incertezza è parte del suo disegno. […]. Negare o affermare il mostruoso delitto di Ugolino è meno tremendo che intravederlo. […]. Amleto in quel particolare tempo è assennato ed è pazzo. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza è la strana materia di cui è fatto.216

L'Occidente è «un'immensa vegetazione essiccata», abitata e veduta da tutti. C'è nonostante ciò ancora «chi, vedendo che le foglie sono ancora attaccate ai rami, può credere che sia ancora viva»217. La grandezza del filosofo contemporaneo consiste nel prendere realmente atto della condizione di questa vegetazione essiccata, e prendere atto di ciò significa anzitutto comprendere l'impossibilità, da parte della tecnica, di dare la salvezza agli uomini. Questa consapevolezza, nonostante sia portata con urgenza in rilievo dalla più matura contemporaneità, era già in grembo al pensiero epistemico, e consiste nel tratto poetico dell'Occidente. Dicendo questo non dobbiamo però cadere nell'errore di credere che la poesia, 215

Ivi, p. 16. Borges J.L., Nueve ensayos dantescos (1996), a cura di T. Scarano, Nove saggi danteschi, Milano, Adelphi, 2001, pp. 38-40, corsivo mio. 217 Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 10. 216

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dichiarando l'impossibilità della tecnica, si faccia in conseguenza di ciò mezzo espressivo delle anime belle (rifiuti cioè di guardare e di comprendere realmente quell'immensa vegetazione essiccata che è l'Occidente, accettando le conseguenze derivanti da quella comprensione); la poesia, invece, proprio in quanto comprende realmente quell'immensa vegetazione essiccata che è l'Occidente, non può che farsi carico di tutta l'eredità ontologica dell'Occidente, portandola a massima coerenza, senza però portare a rovesciare il tavolo di gioco essendo la poesia dell'Occidente figlia dell'Occidente, ossia parte del tavolo di gioco del nichilismo. Proprio perché già prima della contemporaneità stavano maturando le posizioni del giocatore nero, diventate nella contemporaneità, a diversi livelli, patrimonio comune della civiltà entro la quale queste posizioni stavano crescendo, è possibile incontrare nel pensiero pre-contemporaneo filosofi che anticipano le posizioni della metafisica anti-epistemica. Tra questi, osserva Severino, spicca Epicuro, la cui «modernità» consiste nel fatto che egli «nega che il divenire della realtà abbia un fine e un senso prestabilito» 218. «Con Epicuro […] viene alla luce l'uomo nuovo dell'età moderna, che si accorge come il rimedio (cioè l'esistenza dell'eterno) sia peggiore del male (l'uscire e il ritornare nel nulla)»219. Tra le schiere degli epicurei brilla un filosofo e autore di versi assente nelle pagine dei “manuali” severiniani: Tito Lucrezio Caro. Il poeta latino risulta, per una fatto forse non troppo casuale, implicitamente evocato nel decimo dell'Inferno220, dove giacciono appunto, assieme agli altri eretici, gli epicurei; e, soprattutto, Lucrezio è un autore che risulta carissimo al nostro Leopardi, che lesse ancora adolescente Lucrezio e che venne definito da Carducci «il Lucrezio del pensiero italiano». Per una coincidenza forse non del tutto casuale, va poi osservato che anche un altro tra i protagonisti di questo lavoro – Giambattista Vico – risulta culturalmente legato al poeta latino, tanto che nei suoi due scritti più importanti, cioè la Scienza nuova e il Diritto Universale, gli spunti lucreziani sono molti, e così la sua produzione poetica (si pensi soprattutto a Gli affetti di un disperato) è palesemente debitrice di influenze stilistiche lucreziane. In mezzo al dolce naufragio che si realizza in quell'eterno che l'Occidente chiama Dio, e che l'Occidente del suo tempo ama “fingersi”, Lucrezio si sente in dovere di cantare, con tutta la 218

SeverinO E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 223. Ivi, p. 225. 220 Come si avrà modo di constatare nel terzo capitolo, proprio nel decimo canto dell'Inferno l'inconscio del giocatore bianco, e dunque le concessioni che egli fa alla metafisica epistemica, si fa particolarmente sentire. 219

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potenza dei suoi versi, l'assenza degli dèi, e così facendo di denunciare «queste tenebre», che sono poi lo stesso eterno, il muro di pietra del giocatore bianco, che «devono dissiparle non i raggi del sole», ma la «contemplazione e la scienza della natura». Che cos'è, dunque, questa «natura delle cose» che va indagata mediante la scienza? A tale domanda Leopardi e Lucrezio paiono rispondere all'unisono: la natura delle cose è il divenire delle cose stesse, divenire non supportato da eterno alcuno. «La natura delle cose porta che tutto esista limitatamente», «la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno» 221, e che proprio per questo le cose siano destinate con necessità, dalla loro natura, a cadere nel nulla dal quale provengono: «il tempo trasforma la natura del mondo […] nessuna cosa rimane uguale a se stessa: tutto si trasforma, tutto la natura altera e costringe a mutarsi» 222. Nessun Ordine imbriglia le cose nelle sue maglie, di conseguenza queste ultime risultano disponibili ad essere plasmate illimitatamente. Il potere dell'uomo, svincolato dall'impaccio ontologico del muro di pietra teorizzato della metafisica epistemica, non conosce più limiti. Questo legame, tra l'affermazione della pervasività del divenire e la potenza tecnica che questa pervasività permette di esercitare, risulta ben chiaro, non solo nel pensiero leopardiano (e ciò risulta più comprensibile, vivendo Leopardi a contatto con il secolo della tecnica), ma anche nel discorso lucreziano, anch'esso immerso in un clima in cui «il progresso della civiltà veniva ormai unanimemente riconosciuto come l'effetto delle innovazioni introdotte nelle arti e nelle tecniche»223. Consapevoli di questa eccezionalità di Lucrezio, che non solo rompe con la metafisica epistemica del suo tempo, ma che sente anche come questa rottura possa comportare una vicinanza alla tecnica, cerchiamo ora di fare alcune considerazioni sulle posizioni filosofiche lucreziane. Ciò ci permetterà di fare delle aperture e di sviluppare dei chiarimenti in riferimento alla filosofia classica dell'idealismo, cioè al periodo che si pone sul crinale tra i due periodi fondamentali della vicenda filosofica che si sono messi in luce sopra (metafisica epistemica/metafisica anti-epistemica). Periodo, questo dell'idealismo, in cui il muro di pietra al contempo pervade ogni cosa e collassa sotto il suo peso, divenuto ormai insostenibile. Cominciamo da una ambiguità di fondo che ha appassionato gli interpreti: da un lato Lucrezio viene inteso come il filosofo della vita, della Venere rigogliosa, della grande madre 224, 221

Leopardi G., Zibaldone di pensieri, cit., pp. 165-166. Lucrezio, De Rerum Natura V, 821-831. 223 Beretta M., La rivoluzione culturale di Lucrezio. Filosofia e scienza nell'antica Roma, Roma, Carocci, 2015, p. 35. 224 Cfr. Lucrezio De Rerum Natura II, 581 ss. 222

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«deadala tellus»225, cantore della natura creatrix e del «mondo nella sua prima giovinezza» 226; dall'altra, Lucrezio dà testimonianza della natura come «donna sfinita dalla vecchiezza» 227, datrice di morte (di cui la cruda descrizione della peste ateniese è un esempio particolarmente significativo). Tale secondo aspetto del poema di Lucrezio induce alcuni (malevoli) interpreti a porre l'accento sulla presunta follia del poeta, testimoniata da Girolamo che, egli racconta, preso dal furor Lucrezio si sarebbe gettato sulla spada: attraverso questa fonte non si può che giungere a porre l'accento sul discorso del poeta volto a cantare l'imminente crollo della macchina del mondo228. Non siamo in realtà di fronte ad una antinomia, poiché vita e morte – l'oscillazione dell'ente tra i due assoluti estremi, tra l'essere e il nulla – danno vita ad un compenetrarsi tipico del pensiero lucreziano che, proprio in virtù di questo sodalizio, nega qualsiasi Legge immutabile che stia a fondamento di questo oscillare che di sé informa tutta la realtà, tutta la natura. Vita e morte sono unione e dissoluzione dei composti, dati dalla interazione tra atomi e vuoto. Nozione problematica per molti filosofi antichi, il vuoto incarna il nulla, il non essere, ciò che, per essenza, non è (il IV capitolo del La Struttura Originaria s'impegna per l'appunto a risolvere questa «aporetica del nulla»). «Ammettere il vuoto significa, da un punto di vista logico, ammettere la negazione stessa dell'essere»229, tanto che Melisso sostiene la contro intuitiva tesi dell'immutabilità dell'universo perché «se si muovesse sarebbe necessaria […] l'esistenza del vuoto, ma il vuoto non è nel novero degli enti»230: il vuoto è il nulla, e la vita e la morte, data dall'unione e dalla separazione degli atomi, è il divenire, il fare naufragio nel nulla (nota Severino che «“naufragio” significa lo “spezzarsi” (frangere) della nave»231). Se il composto cade nel nulla, al separarsi degli atomi che lo compongono, gli atomi permangono sempre costanti, persistono nel loro esistere immutabile. L'atomo, preso singolarmente, è sì l'essere sempre identico a se stesso, il quale, se non può garantire un ordine teleologico e rassicurante per i composti, sta comunque stabile nella

225

Lucrezio De Rerum Natura I, 7. Cfr. Lucrezio De Rerum Natura V, 324-337. 227 Lucrezio De Rerum Natura V, 827. 228 Cfr. Lucrezio De Rerum Natura V, 95-96 e 104-106. 229 Beretta M., La rivoluzione culturale di Lucrezio, cit., 148. 230 Arististotele, Fisica 213b. 231 Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 29. 226

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tautologica sua identità con se stesso. Questo Lucrezio sembra saperlo, ed infatti lo sforzo volto a negare l'isolamento dell'atomo nella sua auto-identità, avulsa dalla interazione con gli altri atomi, è del tutto palese ad una lettura attenta del De rerum natura. L'atomo sta sempre nella interazione con l'altro da sé, atta ad eclissare la sua stabile identità con se stesso. L'atomo è da Lucrezio definito semen il quale, nel linguaggio lucreziano, è qualcosa di mai isolato, di sempre immerso in un processo “biologico”; è ciò che sta agli esordi (exordia) di un processo di interazione e di divenire implicato da un costante rapporto con l'altro atomo, con l'altro da sé, atto a mettere in luce che quella identità con sé è sempre una identità parziale, dunque una identità mai conclusa, sempre pronta a tramontare nell'altro che la nega. Porre l'essere stabile, sempre uguale a se stesso, significa porre l'atomo isolato dal contesto, significa cioè assolutizzare il finito, significa affermare la contraddizione. Proprio per questo motivo si deve riconoscere la parzialità dell'atomo il quale necessita sempre di essere calato nel rapporto con gli altri atomi (per quanto questo rapporto non sia dominato dalla Legge necessaria e immutabile), nel processo di costituzione dell'ente instabile, sempre oscillante tra l'essere e il nulla. Il divenire così inteso non è mai teleologicamente orientato, non trova in ultima istanza sbocco escatologico alcuno. Il disfarsi del composto è sempre un cadere nel nulla (Lucrezio parla a tal proposito degli atomi come primordia caeca, per indicare l'a-teleologicità del processo di formazione e dissoluzione del composto), e proprio perché l'atomo necessita sempre di stare nel composto per essere considerato in modo non contraddittorio, si avrà che la destinazione di ogni ente (composto di atomi) è il nulla, e che l'assunzione dell'atomo come non costituto da parti, in quanto assolutizzazione della parte, è contraddittorio. Lucrezio guarda al composto diveniente, non all'affermazione tautologica del singolo atomo. Lucrezio non parla quasi mai, nella sua opera, di “atomo” al singolare. Gli atomi devono dare vita sempre ad un processo diveniente (dialettico), e singolarmente intesi (nella loro eterna identità con loro stessi, in quanto avulsi dal complesso) risultano qualcosa di astratto, non degno di considerazione: «mentre per Democrito l'atomo, al pari del punto geometrico, è l'architrave del sistema filosofico, per Lucrezio il fondamento ontologico della realtà è costituito dagli atomi combinati in molecole» 232. In termini wittgensteiniani: gli oggetti

232

Beretta M., La rivoluzione culturale di Lucrezio, p. 161.

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(atomi) «formano la sostanza del mondo» e «non possono essere composti» 233; questi oggetti possono essere concepiti solo all'interno di nessi i quali, se sussistenti, costituiscono fatti 234, la totalità dei quali a loro volta costituisce il mondo 235. Ogni cosa sta dunque in uno «spazio» che costituisce un orizzonte di possibilità, dato che gli stati di cose sono fatti possibili: «Questo spazio io posso considerarlo vuoto, ma io non posso pensare la cosa senza lo spazio» 236. Non sono ovviamente casuali le affinità tra il Tractatus e il De rerum natura. La natura delle cose è data da aggregati casualmente formati, destinati a perire e a non trovare alcun rifugio in un ordinamento altro dal perenne divenire delle cose. Si può quindi ben dire che, «nella dottrina epicurea l'atomo, anche se a livello individuale è immutabile ed eterno, sprigiona la sua essenza reale solo a contatto e in combinazione con altri atomi»237. Negando l'eterno che, in quanto tale, si sottrae a qualsiasi modificazione e dominio da parte dell'uomo, Lucrezio può aprire la strada al progresso, a quella atipica (per un romano del suo tempo) adesione al nuovo che si fonda per l'appunto sul riconoscimento del divenire liberato dai lacci di un Ordinamento altro rispetto al divenire (in quanto tale, l'Ordinamento non può che essere altro dal divenire). La terra è sterile, ma l'uomo la può dominare, plasmandola a suo piacimento, proprio in quanto essa, crollato l'invalicabile muro di pietra della tradizione epistemica, si lascia dominare. Questo carattere tecnico riscontrabile nei versi del De rerum natura è proprio la cifra della non-poeticità del discorso lucreziano: questa affermazione, che potrà essere compresa solo più avanti, deve però renderci subito consapevoli del fatto che la poesia, come Severino la intende, non dipende affatto dalla forma letteraria del testo. Essa deve essere invece intesa come una modalità espressiva fondantesi sulle categorie ontologiche dell'Occidente, mediante la quale emerge ciò che può emergere solo nel punto apicale dell'autocoscienza dell'Occidente. Ciò che emerge è “poetico” in quanto depurato dalla prassi dell'Occidente, per quanto l'Occidente non venga trasceso dalla prassi poetica (non nichilistica). A partire dal XIX secolo la scienza biologica è riuscita a superare il “fissismo” delle specie di matrice notoriamente aristotelica, ponendo a tema la teoria della evoluzione delle specie, 233

Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (2009), trad. it. Di A. G. Conte, Torino: Einaudi, 1918-1921, 2.021. 234 Cfr. Ivi., 2-2.01. 235 Cfr. Ivi., 1.1. 236 Ivi., 2.013. 237 Beretta M., La rivoluzione culturale di Lucrezio, p. 209.

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teoria lucrezianamente rivolta al progresso; percorrendo questa via la scienza biologica ha voluto «smantellare una delle strutture che più tenacemente si sono presentate come immutabili lungo il corso della cultura occidentale»238. Il presupposto materialistico-atomistico dell'evoluzionismo, oltre a palesarsi già in un poemetto del 1781 ispirato al De rerum natura, intitolato The Botanic Garden, composto dal nonno di Darwin – Erasmus – il quale aveva già posto le basi per la celebre teoria sviluppata dal nipote Charles, si ritrova in modo chiaro in un libretto di grande successo239 scritto da Schrödinger, che di pochi anni ha preceduto l'epocale scoperta di Watson e Crick. Lo stesso Darwin, d'altronde, sembra accostare, nella parte conclusiva della sua opera più famosa, la potenza tecnica, da un lato, e il fondamento ontologico anti-epistemico sviluppato dall'evoluzionismo, dall'altro240. Sulla scia del darwinismo, la società della tecnica di recente ha sviluppato procedure atte ha dare sempre maggiore potere creativo-manipolatore ai biologi, i quali affermano questa loro volontà di potenza attraverso l'ingegneria genetica; lo stesso Severino, a tal proposito, afferma che «proprio perché ciò che esce dal niente non può avere alcuno scopo, l'agire è completamente libero di assegnargli qualsiasi scopo, lo può manipolare senza limiti, come avviene per esempio nei progetti dell'ingegneria genetica e in generale nel progetto tecnologico di dominio di qualsiasi aspetto del mondo»241. Tra i protagonisti di questa rivoluzione biotecnologica, un posto di rilievo spetta a Jennifer Doudna, la quale ha pubblicato un libro dal titolo molto significativo che, richiamando l'inimmaginabile potere di controllo da parte degli uomini sulla evoluzione, spiega gli ultimi progressi nell'ambito delle biotecnologie. Nelle prime pagine di questo libro si legge che «when agriculture emerged ten thousand years ago, humans began basing evolution through the selective breeding of plants and animals, but the starting material – the random DNA mutations constituting the available genetic variations – was still generated spontaneously and randomly. As a result, our species' efforts to transform nature were halting and met with limited success. Today, things could not be more different. Scientists have succeeded in bringing this primordial process fully under human control. Using powerful biotechnology tools to tinker 238

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 143. Cfr. Schrödinger E., What Is Life? the Physical Aspect of the Living Cell - Mind and Matter (1944), trad. it. di M. Ageno, Che cos'è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico, Milano, Adelphi, 1995. 240 Cfr. Darwin C., On the Origin of Species (1859), trad. it. di G. Pancaldi, L'Origine delle specie, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 510-511. 241 Severino E., La filosofia futura, cit., p. 47, corsivo mio. 239

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with DNA inside living cells, scientists can now manipulate and rationally modify the genetic code that defines every species on the planet, including our own»242. Questo versante prassistico-ontologico del darwinismo (debitore, ripetiamolo, della riflessione lucreziana) ci permette di capire l'amore che Marx ed Engels nutrivano per Darwin, affermando – come avviene nel Capitale – che Darwin ha realizzato una «storia della tecnologia naturale». Alla luce di tutto ciò Severino può ben affermare che «per Marx l'evoluzione è la legge della realtà in sé stessa – il concetto di evoluzione è cioè riportabile al concetto di sviluppo dialettico»243. Nel Novecento, un convinto darwiniano come Dawkins ha calcato ulteriormente la dose circa la connessione tra evoluzionismo e tecnologia, paragonando gli uomini (resi potenti dai geni che popolano le loro cellule in quanto devono proteggere quegli stessi geni che, mediante l'evoluzione e quindi mediante il trascendimento dell'immutabile, gli danno potenza) a dei «robot giganti»244. Nonostante l'orizzonte tecnico (e quindi non pienamente poetico) entro il quale si muove, in Lucrezio permane un elemento di passività ineliminabile, dato dal fatto che egli non sa sottrarsi a una prospettiva ingenuamente realista, bene espressa della sua gnoseologia fondata sulla nozione di “simulacro”. Nonostante Lucrezio ponga le basi ontologiche affinché il divenire possa essere concepito come illimitatamente dominabile dall'uomo, egli non intende ancora il soggetto come attività libera, come potenza plasmatrice. Il merito dell'idealismo consiste proprio nell'avere colmato questa lacuna lucreziana: nonostante in Fichte permangano le tracce di un irrisolto dualismo kantiano che inevitabilmente limita l'azione della soggettività che si trova limitata da un non-Io trascendente la coscienza mai del tutto eliminato (questa la lettura che di Fichte dà Severino il quale, andando contro un «equivoco» «luogo comune», mostra «che Fichte non ha mai inteso negare (e non ha mai di fatto negato) la cosa in sé kantiana, e non ha mai inteso sostenere (e non ha mai effettivamente sostenuto) che l'io sia l'assoluto e il principio produttore di ogni realtà […] quella di Fichte non è una filosofia idealistica» 245), già nel suo discorso la soggettività si configura anzitutto come attività mai compiuta, atta ad assoggettare la cosa in sé, affermandola tuttavia sempre di nuovo, non consentendo così il 242

Cfr. Dounda J.A., Sternberg S.H., A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control Evolution, Boston, Houghton Mifflin Harcourt, 2017. 243 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 145. 244 Dawkins R., The Selfish Gene (1976), trad. it. di G. Corte e A. Serra, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Milano, Mondadori, 2017, p. 23. 245 Severino E., Fondamento della contraddizione, cit., p. 295.

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dominio assoluto, da parte dell'uomo, sulla totalità delle cose, in quanto «la cosa in sé è qualcosa per l'Io, e quindi nell'Io, ma che, tuttavia, non dev'essere nell'Io». Alla passività del soggetto lucreziano che rispecchia passivamente il mondo si contrappone l'Io fichtiano, che è essenzialmente azione, ma che tuttavia necessita di una «reciprocità d'azione» data dall'interazione con la cosa in sé, a lui esterna ed indipendente, per poter esercitare la sua essenziale attività plasmatrice, affermando in questo modo se stesso. «Assoggettare a sé e padroneggiare liberamente secondo la propria legge tutto ciò che è irrazionale è il fine ultimo dell'uomo, fine ultimo che è assolutamente irraggiungibile e che resterà tale per sempre, finché l'uomo non cessi di essere uomo per divenire Dio. È implicito infatti nel concetto stesso di uomo che la sua mèta ultima debba restare irraggiungibile e il suo cammino verso di essa non abbia mai fine. Bisogna dunque dire che la missione dell'uomo non è quella di raggiungere questa mèta»246. Tale meta è ovviamente auspicabile, in quanto è più che auspicabile il fatto di poter affermare un dominio assoluto sulle cose, ma tale dominio assoluto per Fichte non è possibile poiché egli è convinto che la kantiana colomba abbia bisogno di attrito per volare o, per dirla con le parole di Nicoletta Cusano, «Fichte, pur rilevando l'immediata autocontraddittorietà della cosa in sé, non riesce a concepire un pensare senza Non-Io, un Io che non passi per l'opposizione lacerante del Non-Io; da ciò segue che la liberazione dalla cosa in sé non è mai definitiva e si sviluppa inesauribilmente» 247. Sarà con Hegel che questa volontà di potenza troverà il suo adeguato appoggio ontologico dato che Hegel mostra che, essendo il concetto di “cosa in sé” autocontraddittorio, «il suo toglimento non può essere un compito inesauribile ma può e deve compiersi. La liberazione qui ha un inizio e un compimento» 248: con Hegel «il concetto di una cosa in sé è contraddittorio e quindi la cosa in sé non esiste – e l'Io è infinito e coincide con la realtà assoluta, cioè con Dio»249. Identificando certezza e verità l'idealismo hegeliano si pone come la forma più rigorosa della metafisica moderna, volta a tematizzare speculativamente l'eterno a fondamento del fenomeno e, dall'altra, riducendo l'eterno a fenomeno. L'eterno, lungi dal fondare il divenire, si identifica con esso, ponendosi così alle soglie dell'abisso: fagocitando il divenire, il 246

Fichte J.G., La missione del dotto, in Severino E., Antologia filosofica. Dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli, 2005, p. 398. 247 Cusano N., Libertà e liberazione, in «La filosofia futura», 02 (2014), pp. 70-71. 248 Ivi, p. 71. 249 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 360.

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fondamento si identifica con il divenire stesso con il risultato che, al culmine della metafisica epistemica, si rivela ciò che fin dall'inizio era implicito: l'affermazione di Dio, accompagnata alla constatazione dell'innegabilità del divenire, cova già fin da subito dentro di sé quella verità per la quale il rimedio (Dio) è peggiore del male che si voleva combattere con Dio stesso (il divenire). «L'idealismo è la forma più rigorosa di immanentismo apparsa lungo la storia dell'episéme», e proprio per questo, proprio perché rivela con assoluta coerenza ciò che tutta la storia della filosofia che gli sta alle spalle ha inconsciamente negato, è «il culmine di tale storia»250. 2.2 La fede nel diventar-altro dell'ente come condizione trascendentale del costituirsi del principio di non-contraddizione. Al centro della metafisica: Hegel Una «discussione con Lucio Colletti», intrattenuta da Severino negli anni '70, può aiutarci a chiarire ed approfondire ulteriormente il tema dell'idealismo. Fin dalle prime battute, Severino colloca Colletti nelle terra isolata dal destino ed, in quanto tale, tra gli «abitatori del tempo»: per lui infatti la scienza è l'«unica forma di verità» 251. Dicendo ciò, Colletti dimostra di volere prendere le distanze da quella corrente marxista (bene rappresentata da Luckács ed anche – seppure in modo non del tutto coerente – da Lenin) tutta intenta ad affermare che la realtà è dialettica; rifiutando la dialettica, Colletti (come Bernstein) critica il valore assoluto e quindi epistemico della dialettica, cioè «critica il carattere filosofico del marxismo» 252, affermando che «l'analisi [scientifica] dei “fatti” smentisce la dialettica. La dialettica è espressione della filosofia; mentre l'analisi dei “fatti” è espressione della scienza»253. Contro questa posizione anti-epistemica di un certo marxismo, che Colletti fa propria, Luckács (che pure rimane un abitatore del tempo) sostiene che «il rifiuto del metodo dialettico in favore dell'adozione del metodo delle scienze della natura consente di considerare le contraddizioni sociali come difetti della teoria mediante la quale si osserva la società e non come difetti della società stessa»254. Paradossalmente, insomma, Luckács ritiene che l'unico modo per essere autenticamente dialettici, cioè l'unico modo per esercitare la prassi, è affermare quel muro di pietra che consiste nella “filosoficizzazione” del marxismo, cioè nella 250

Ivi, p. 358. Severino E., Gli abitatori del tempo, cit., p. 36. 252 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 386. 253 Ivi, p. 388. 254 Ivi, p. 393. 251

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posizione aprioristica di uno schema epistemico-dialettico che guida di necessità la realtà materiale (il leniniano materialismo dialettico). La scienza, della quale il marxismo anti-epistemico di Colletti si appella, è la «riflessione consapevole sul rapporto tra ipotesi ed esperimento»255 riferita alla natura – intesa come «quella realtà, percepibile nell'esperienza, che è la realtà diveniente»256. La scienza è una forma di sapere che si sviluppa entro l'alienazione nichilistica dell'Occidente, utilizzando le categorie ontologiche sviluppate dall'epistéme greca nonostante, nella modernità, si ponga come «una critica radicale della filosofia tradizionale»257. Ponendosi come una forma di dominio, di potere sulla realtà, disposta a farsi dominare proprio in quanto diveniente («il senso greco del divenire dell'ente rimane alla base della scienza moderna», «l'ontologia greca apre lo spazio della creatività e della distruttività estreme»258), la scienza moderna si toglie la maschera, rivelando come tutti i suoi elementi, come «tutti gli elementi della nuova scienza siano già presenti nella filosofia e nella scienza greca»259: l'affinità tra scienza e filosofia si manifesta soprattutto nel fatto che, nata nella modernità come una forma di sapere «che intende essere epistéme e anzi, spesso, l'epistéme autentica, in contrapposizione alle pretese epistemiche della filosofia», con il «tramonto dell'epistéme» in filosofia, anche la scienza «per rendere più radicale il proprio dominio sulle cose […] rinuncia ad essere verità definitiva e incontrovertibile» 260: «il tramonto dell'epistéme è un evento che non si manifesta soltanto nell'ambito del pensiero filosofico […] la filosofia, in quanto epistéme, è diventata infatti un poco alla volta il terreno, lo sfondo, l'atmosfera in cui sono andati via via manifestandosi i grandi fenomeni della storia dell'Occidente» 261. Ed essendo la metafisica anti-epistemica non la contraddizione, bensì la coerentizzazione che si dà storicamente a partire dalla posizione filosofica che si presenta sin dal principio – nel mondo greco – allora si fa chiaro perché la posizione filo-scientifica di Colletti venga intesa da Severino come «il risultato dell'autodistruzione inevitabile dell'epistéme»262, non certo come il risultato dell'autodistruzione della filosofia nella sua interezza. 255

Severino E., Gli abitatori del tempo, p. 48. Ivi, p. 49. 257 Ivi, p. 63. 258 Ivi, p. 66. 259 Ivi, p. 65. 260 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 283. 261 Ivi, p. 281. 262 Severino E., Gli abitatori del tempo, cit., pp. 48-49. 256

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Tale punto di vista di Colletti si rivela essere, secondo la nota posizione idealistica hegeliana, «il punto di vista […] dell'intelletto astratto, che assume come positive e reali le determinazioni solo in quanto si mantengono reciprocamente irrelate, indifferenti, indipendenti»263. Dalla sua prospettiva filosofica Colletti fa l'errore (per Severino) di considerare la dialettica hegeliana come una posizione negatrice del principio di non contraddizione. Invece Hegel, affermando la costitutività della relazione – dell'unità degli opposti per cui l'ente si costituisce sempre tramontando in ciò che lo nega in modo determinandolo e, negandolo, lo costituisce – lungi dal violare il principio metalogico che sta alla base della fede nel divenire, e dunque tanto della metafisica, epistemica e non, quanto della scienza, testimonia che la dialettica «è addirittura la condizione trascendentale del costituirsi di tale principio»264. Allo stesso modo il discorso nietzschiano, lungi dal negare il principio di non contraddizione, lo afferma con forza, proprio nella misura in cui si fa al massimo grado portavoce di quella volontà di potenza che muove l'Occidente e che è tematizzata proprio dal discorso filosofico: «al di sotto della critica di Nietzsche (e di Leopardi e di molte forme della filosofia e della stessa scienza contemporanea) al principio di non contraddizione agisce la più radicale volontà di non contraddizione, cioè la più radicale volontà di salvare il divenire. La radicalità estrema di questa volontà è però pur sempre, appunto, una radicalità della volontà, cioè della fede che l'essere sia opposto al nulla. Infatti, nel proprio sottosuolo, la volontà dell'Occidente che l'essere sia opposto al nulla, e che il divenire sia l'evidenza intoccabile, è la persuasione più radicale – e dunque, daccapo, la volontà e la fede più radicale – che l'essere in quanto essere è nulla»265. Si tratta qui di comprendere che «relazione non significa identità»; capire ciò significa capire che quando Hegel se la prende con quei filosofi della riflessione che, per «timor panico», non riconoscono la mediazione, il passare in non-A da parte di A in quanto A si vuole costituire come A, e dunque ignorano la costitutività della alterità intesa come identità con sé che si costituisce rispetto a ciò che essa nega, Hegel se la prende con loro proprio in quanto con questo loro atteggiamento dominato dal «timor panico» nei confronti della contraddizione negano il divenire, che sul principio di non contraddizione si fonda (dato che la contraddizione 263

Ivi, p. 46. Ivi, p. 39. 265 Severino E., L'anello del ritorno, Milano, Adelphi, 1999, p. 80. 264

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non è affatto in contraddizione con il principio di non contraddizione, se interviene l'orizzonte temporale a mediare tra il discreto e il continuo). Per usare le parole della Fenomenologia dello Spirito (estrapolate da un contesto fortemente polemico nei confronti di Kant), diciamo che per Hegel «la mediazione è il puro e semplice divenire. In virtù della propria semplicità l'Io, il divenire in generale, questo atto del mediare, è appunto tanto il divenire dell'immediatezza quanto l'immediato stesso». Se Hegel negasse, come erroneamente pensa Colletti, il principio di non contraddizione, egli negherebbe quello stesso principio, ossia la fede nichilistica del divenire che invece, con la sua speculazione, porta all'acme. Da quel che si è detto, è facile arguire come il principio di non contraddizione rivesta un ruolo cruciale per Severino, che di tale principio si è occupato fin dai suoi lavori giovanili 266. Tale principio, per il quale «è impossibile che, sotto il medesimo rispetto, la stessa cosa sia e non sia», è per l'Occidente «il principio più solido e più noto di tutti […] il fondamento dell'intera conoscenza umana, è la conoscenza intorno alla quale l'uomo non può trovarsi in errore, ed è l'espressione originaria e concreta della ragione – di quella ragione cioè che non è separata, come in Parmenide, dall'esperienza, ma che il pensiero filosofico, a questo punto del suo sviluppo, è riuscito a conciliare con l'esperienza»267. Sarà Platone a consolidare teoreticamente questo principio metalogico, mostrando «che l'“essere” non deve più venire inteso come il puro essere parmenideo […] ma come la sintesi tra il puro essere e le determinazioni» 268. Ponendo questa separazione tra il “ciò che” e l'“è”, Platone sancisce il principio di non contraddizione, pensando di risolvere il problema del nulla assoluto, accantonandola, mediante la tematizzazione del nulla come diversità. Platone (e con lui tutto l'Occidente) non si rende cioè conto, per Severino, che accantonare il nulla assoluto non significa risolverlo, e soprattutto non si rende conto che il principio di non contraddizione, lungi dal risolvere l'aporetica del nulla – che è per l'appunto irrisolvibile, stando all'interno della fede nel divenire altro da sé da parte dell'ente – l'afferma con forza. Questo perché «il principio di non contraddizione, quale affermazione dell'opposizione tra essere e non essere, esige la posizione del nulla; ma poiché la posizione del nulla attesta l'“essere” del nulla, il nulla non è veramente opposto all'essere e dunque il principio di non contraddizione è un'autocontraddizione, in quanto, non riuscendo a porre l'assoluta nullità del nulla, afferma una 266

Cfr. Severino E., Aristotele. Il principio di non contraddizione, Brescia, La scuola, 1959. Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 156. 268 Ibidem. 267

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opposizione tra essere e nulla che è e non è una opposizione»269. Confrontandosi con i problemi epistemologici sollevati dal Teeteto e dal Sofista, Severino osserva che, in colui che è convinto che Teeteto vola è necessario che appaia tanto il falso (Teeteto vola), quanto il vero (Teeteto siede), cioè è necessario che in colui che è convinto del falso appaia Teeteto seduto e che costui sia convinto che Teeteto vola. «Ma questa convinzione identifica i diversi. […] È cioè una negazione di quella dimensione della babaiotate archè che il Sofista, come l'intera filosofia di Platone, non hanno certo l'intenzione di negare» 270. Teeteto che vola non deve essere inteso – questo il fondo inconscio del discorso platonico, ad avviso di Severino – come un non ente che è heteron rispetto a Teeteto che è seduto, ma deve essere inteso come assolutamente nulla. Folle per Platone è l'identificazione di essere e nulla – cosa che non sarà più folle per Leopardi –, ma non è folle nemmeno per Platone la separazione nichilistica, posta dal principio di non contraddizione, tra essere e nulla. Platone non si avvede che, ponendo – mediante il principio di non contraddizione – la distinzione tra essere e nulla, va in ultima analisi ad identificarli. Lungi dal risolvere l'aporia del nulla assoluto Platone, introducendo la distinzione tra non ente in quanto diverso (heteron) e in quanto contrario (enantion), la ripropone, solo un passo indietro. «All'interno dell'essenza del nichilismo, cioè, l'incapacità di risolvere l'aporia relativa all'esser convinti di ciò che non è è l'incapacità stessa di risolvere l'aporia relativa all'esser convinti, ritenendo di essere nella “verità”, che certe cose non sono»271. Prima di andare oltre, è opportuno chiarire come sia inteso da Severino il principio di non contraddizione, nelle dense pagine relative alla risoluzione della prima formulazione della aporetica del nulla (per la quale il nulla è) de La struttura originaria. In queste pagine Severino ci dice che il principio di non contraddizione è fondato sul significato autocontraddittorio di nulla (il principio di non contraddizione «si realizza in quanto si realizza quel significato autocontraddittorio»272 che è il nulla), dato che afferma la autocontraddittorietà del nulla. L'autocontraddittorietà del nulla scaturisce dalla sintesi originaria della quale il nulla assoluto è momento, sintesi cioè di un momento positivo (il positivo significare) e di quello negativo, cioè del suo contenuto (nulla-momento o nulla incontraddittorio). 269

Cusano N., Capire Severino, cit., p. 25, corsivo mio. Severino E., Esser convinti di ciò che non è, in «La filosofia futura», 05 (2015), p. 124. 271 Ivi, p. 127. 272 Severino E., La struttura originaria, cit., p. 217. 270

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Opporre il nulla all'essere significa porre l'essere del nulla (come antitesi all'essere): «il nulla non è proprio nulla, in quanto il nulla è manifesto, e quindi è questo non esser proprio nulla»273. Il principio di non contraddizione esige che il nulla sia, e che dunque sia non contraddittorio: è «necessario, affinché si possa escludere che l'essere non sia – che cioè sia non essere –, che il non essere sia; ossia che sussista il significato autocontraddittorio in cui consiste quell'essere del non essere»274. «L'assolutamente altro dall'essere, in quanto altro dall'essere, non è un essere; ma in quanto è significante come l'assolutamente altro dall'essere è un essere, una positività. La positività di questo significare non è inclusa in ciò che questo significare significa, non determina ciò che questo significare significa. La contraddizione del “nulla” sta dunque in questo, che il significare è il significare dell'assolutamente non significante: non sta nel fatto che il non significante significa il significante (ha il significato di “significante”), ma che il non significante è significante come non significante» 275. Se il nulla fosse inteso dal principio di non contraddizione solo come nulla-momento, allora «non avrebbe un termine su cui esercitarsi; il nulla non apparirebbe nemmeno»276. Il principio di non contraddizione, dunque, deve affermare l'esistenza di essere e nulla, dato che si deve porre il nulla per porre l'essere. Per questa ragione l'Occidente, per affermare l'incontraddittorietà del principio di non contraddizione, deve porre il nulla come un qualcosa che è, e che dunque è contraddittorio, dato che l'aporia nasce proprio dal fatto che si vuole porre (e che si deve porre, se si vuole affermare il principio di non contraddizione) il non essere come un qualche cosa che è. Infatti, osserva Severino, se il nulla potesse davvero essere inteso astrattamente, come momento incontraddittorio che nulla ha da spartire con la positività che lo vede come contraddittorio rispetto all'essere, non avrebbe senso porre l'aporia, dato che l'insignificanza del nulla-momento così inteso toglierebbe l'aporia medesima (e toglierebbe il problema dell'essere stesso, dato che non può essere posto se non come antitesi alla posizione del nulla (che è nulla)). Da ciò si capisce che l'aporetica del nulla, e dunque la contraddittorietà del nulla medesimo, deriva dal fatto che la positività del significare nulla contraddice l'assoluta inesistenza del contenuto di questo significare (il nulla-momento): «ogni significato […] è una sintesi semantica tra la positività del significare e il contenuto determinato del positivo 273

Ivi, p. 216. Ibidem. 275 Ivi, p. 222. 276 Ivi, p. 216. 274

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significare»277. Il principio di non contraddizione, per Severino, tiene ferma l'incontraddittorietà del nullamomento, senza però riconoscere l'autocontraddittorietà del nulla, cioè senza riconoscere la sintesi originaria alla quale il nulla-momento appartiene. Il principio di non contraddizione «non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio»278 del nulla, e questo perché «l'autocontraddittorietà del nulla non solo non nega il principio di non contraddizione, ma è la condizione stessa del suo costituirsi»279. L'Occidente non vede questa contraddizione perché intende il nulla-momento in modo astratto, e non concretamente (cioè nella sua sintesi con il positivo significare), e intende il nulla-momento in modo astratto, come un qualche cosa che è, ritrovando con questa mossa nel nulla-momento quel momento positivo da cui ha voluto fare astrazione: I due momenti vengono tenuti separati e all'interno di questa separazione […] viene rilevato il nullamomento; ma in quanto il nulla-momento è così rilevabile (ponibile, pensabile ecc.), esso non è assoluta nullità, ma un certo essere e significare. In questo modo, nel nulla momento astrattamente separato dal discorso aporetico “trova appunto ciò da cui ha voluto prescindere […] trova cioè l'essere del nulla.280

Dicendo e pensando il nulla-momento, lo si pone già nella sintesi originaria con il positivo significare. L'Occidente cade in aporia (e non può risolvere l'aporia, stando nella scacchiera della metafisica) perché non si rende conto di considerare, ad un tempo, concretamente (nella sintesi originaria) e non concretamente (come momento astratto), il nulla-momento. Da un lato l'Occidente intende il nulla-momento come ciò che è radicalmente altro dall'essere, ma dall'altro lo intende come ciò che appare, e che dunque è l'altro momento (quello positivo) della sintesi originaria. Ritorniamo ora, consapevoli delle aporie che la nozione nichilistica di “nulla” genera, al punto che avevamo lasciato in sospeso, cioè ai rapporti tra la metafisica parmenidea e quella di Platone. In Parmenide, solo il puro essere è: Platone mostra che la ragione non resta negata, affermando che ogni determinazione (cioè ogni ente, diverso dal puro essere) è: «“essere” 277

Ivi, p. 213. Ivi, p. 215. 279 Cusano N., Capire Severino, cit., p. 35. 280 Ivi, p. 41. 278

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significa ciò che è, ossia ogni determinazione-che-è» e che diviene, in quanto «determinazione sensibile»281. Il principio di non contraddizione sta alla base della fede dell'Occidente nel divenire degli enti in quanto è ciò che ne implica la temporalizzazione: Severino, pur riconoscendo ad Aristotele il merito di avere mostrato che ogni tentativo di negare il principio di identità-non contraddizione è un'autonegazione che implica ciò che intende negare, ne critica la temporalizzazione, che finisce per dare luogo alla peggiore negazione di ciò che è “verità”: a causa della temporalizzazione del senso dell'essere, la formulazione aristotelica del principio di non contraddizione è “la peggiore forma di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall'essere. Questo principium firmissimum chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati; è un giudice che, colpevole dei delitti più gravi, punisce i reati di poco conto e che infine nessuno ha intenzione di commettere”.282

Da tutte queste premesse ne viene che «non si intende che il pensiero di Hegel si mantenga al di fuori del nichilismo»283. Colletti ed Hegel stanno entrambi nel nichilismo, in quanto pongono entrambi (inconsciamente) l'ente come un niente: rifiutano entrambi che A possa essere, sotto il medesimo rispetto, anche non-A. Colletti rifiuta la contraddizione dialettica hegeliana perché pensa che essa si risolva nel nihil negativum irrepraesentabile – dice Severino riprendendo il Kant precritico – «che è il venir meno di ogni determinazione […] laddove il risultato della contraddizione dialettica è la “negazione determinata”» 284 che, lungi dal negare il principio di non contraddizione, lo salvaguarda implicando ma anche superando la mera prospettiva formalistico-intellettualistica. La realtà che (anche) per Hegel è essenzialmente diveniente è tale in quanto non nega il principio di non contraddizione. Se Colletti nega la prospettiva hegeliana in quanto crede che tale prospettiva non affermi che non è possibile che sotto il medesimo rispetto A sia non-A, allo stesso modo la prospettiva di Hegel rifiuta la prospettiva di Colletti in quanto ritiene che proprio all'interno delle filosofie della riflessione si annidi la negazione del principio di non contraddizione. In realtà entrambi – Hegel e Colletti –, intendendo l'ente alla luce delle 281

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 135. Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 49. 283 Severino E., Gli abitatori del tempo, cit., p. 47. 284 Ivi, p. 40. 282

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categorie ontologiche dell'Occidente, non possono che affermare ciò che il principio di non contraddizione afferma, cioè che, nel futuro, A s'identificherà con non-A. Proprio in quanto la realtà è diveniente, dice Hegel, tale realtà non può essere quella che ci è data dall'intelletto astratto. Lungi dal negare il principio di non contraddizione, Hegel dice che bisogna salvaguardarlo, contro la posizione intellettuale che lo nega – credendo di affermarlo – e, con ciò, negando quell'evidenza innegabile che la follia dice essere il divenire. L'argomento hegeliano è il seguente: se assumo A, e non lo oppongo a nulla, nemmeno al suo opposto, violo il principium firimissimum: «la “vita” isolata dalla morte […] non può nemmeno presentarsi come negazione della “morte”: appunto perché, per essere negazione della morte, la vita dovrebbe essere in relazione alla morte. Isolata dalla morte, la vita diventa quindi essa stessa “morte”»285. Il rovesciamento dialettico avviene proprio quando il servo, a contatto con i prodotti del suo lavoro, è pronto ad affermarsi su quel signore che, apparentemente vittorioso, non ha più confronto alcuno con gli enti che lo circondano, che lo negano in modo determinato e che, negandolo in modo determinato, lo costituiscono, e si identificano a lui nella misura in cui senza di essi l'ente stesso che da essi viene costituito non potrebbe affermare sé. Allo stesso modo, la lotta tra la vita e la morte che il confronto con l'altro sempre implica, non può che risolversi nella sottomissione dello sconfitto, timoroso di morire, e non nella uccisione di quest'ultimo: con la morte viene meno il confronto, e così viene meno la possibilità di affermarsi anche della parte vincente nel conflitto. Così Hegel, nel terzo capitolo (L'idea assoluta) della seconda sezione de La Logica soggettiva della Scienza della logica: «L'immediato, da questo lato negativo, è tramontato nell'altro; l'altro però non è essenzialmente il vuoto negativo, il nulla, che si prende come il risultato ordinario della dialettica, ma l'altro del primo, il negativo dell'immediato; dunque è determinato come il mediato – contiene in generale in sé la determinazione del primo, che è quindi a sua volta essenzialmente anche conservato e mantenuto nell'altro […] il pensiero della contraddizione è il momento essenziale del concetto», ma ciò non è una contraddizione che nega il principio di non contraddizione. «“A è non-A” è certamente […] una negazione […] del p.d.n.c.. Ma ciò che Colletti […] non riesce a scorgere è che questa “opposizione logica”, lungi dall'essere l'essenza della realtà, è per Hegel il contenuto inadeguato che sta dinanzi al pensiero 285

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 386.

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che, in quanto intelletto, non riesce a cogliere quell'essenza. Per Hegel il contraddirsi (l' “opposizione logica”, la negazione del p.d.n.c.) non è l'essenza della realtà, ma è l'essenza dell'intelletto», laddove l'opposizione dialettica, aperta dalla ragione e non dall'intelletto astraente, va oltre l'opposizione logica messa in atto dall'intelletto, implicandola e superandola, salvaguardando la determinazione nella relazione. È importante dire che superando il lavoro dell'intelletto, Hegel non lo reputa affatto non necessario. La determinazione dell'ente finito è fondamentale, tanto che senza di essa non si può che sviluppare una filosofia «la cui grande arroganza non è inferiore alla diffusione e al favore di cui gode nella nostra epoca». Queste le parole che nella Fenomenologia dello Spirito sono riservate all'“amico” Schelling, il cui errore è stato proprio quello di avere visto solo la ragione, di avere visto «solamente» il Tutto, laddove per Hegel – il filosofo del sistema onnicomprensivo – è anzitutto il filosofo di un Tutto pieno, che arriva «alla fine», in cui i colori di tutte le vacche possono essere ben distinti: è cioè una unità di finito e infinito, non opposta al finito, quella che lui tematizza, come già dice nel Frammento di sistema del 1800; una filosofia che vede solo il tutto e non vede le parti – in modo speculare a quella kantiana, che vede solo le parti (entrambi errori dettati dal «timor panico») – scade, come quella schellinghiana è scaduta, in derive teoreticamente deleterie, volte a «strappare gli uomini dalla depravazione di ciò che è sensibile, volgare e singolare, per orientare lo sguardo verso le stelle» (emerge da queste righe uno Hegel, che è l'autentico Hegel, attento alle cose materiali, sensibili, esperibili: lo si è già detto, in fin dei conti, che un idealismo radicale, come quello di Hegel, pensato con rigore sino in fondo, porta al realismo286): un idealismo a metà, come quello cartesiano, cade nel realismo ingenuo, laddove un idealismo realmente compiuto finisce per essere un realismo coerente e consapevole di sé. «Il realismo antico è, insieme, una forma immediata, o “ingenua” di idealismo»287. L'opposizione logica, la mera negazione, è implicata dalla dialettica hegeliana (che non è mera affermazione di un tutto indistinto, privo di parti), ma è anche superata dal momento positivo razionale il cui risultato «non è il vuoto e astratto niente». Per questo Severino può dire che «questa “unità degli opposti” non è la contraddizione, ma è ciò in cui la contraddizione si risolve, si toglie, e quindi tale realtà […] è lo stesso principio di non contraddizione […] 286 287

Cfr. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (2009), cit., p. 232. Severino E., Istituzioni di filosofia, cit., p. 15.

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Hegel non ha negato il p.d.n.c. e la logica formale in quanto tali, ma il loro concetto astratto, il loro essere elaborati all'interno dell'intelletto»288. Si giunge per questa via al punto dal quale avevamo cominciato: la cesura fondamentale che divide in due periodi e attraversa tutta la storia della filosofia (metafisica epistemica ed antiepistemica) non è il frutto di una opposizione tra due inconciliabili, bensì è l'effetto dell'inevitabile processo di coerentizzazione di un errore. L'importanza di Hegel consiste nel fatto che egli si trova sul crinale tra queste due posizioni, e le esprime entrambe, senza avere piena consapevolezza della drammaticità del contenuto che nelle sue pagine esprime, per quanto proprio la Fenomenologia si svolga tutta sotto il segno del dramma che il romanzo di formazione implica e sa di implicare. In questo senso Colletti e Lukács, Platone e Nietzsche e, in mezzo a loro, come una cerniera, Hegel, non si contraddicono affatto. Dalla coerentizzazione filosofica della Follia trae nutrimento il pensiero tecnico-scientifico che dalla speculazione filosofica soltanto può trovare la forza per imporsi e per dominare il mondo, dato che «la scienza moderna è il risultato dell'autodistruzione inevitabile dell'epistéme»289. 2.3 Il valore pratico-etico del principio di non-contraddizione: Łukasiewicz In quelle quindici pagine Stephanus che vanno a comporre la seconda sezione della seconda parte del Parmenide290 si tematizza l'individuo inteso pros ta alla, un individuo “generoso”, che partecipa di predicati fra loro opposti (è uno e molti, simile e dissimile, identico e diverso ecc). Dal Parmenide risulta che l'uno così inteso può partecipare di proprietà tra loro opposte perché «è diverso il tempo in cui partecipa e quello in cui non partecipa: solo in questo modo, infatti, può tanto partecipare quanto non partecipare della stessa cosa» 291. È in tempi diversi che l'individuo generoso del Parmenide può costituirsi come ente diveniente. Possiamo vedere in queste riflessioni di Platone il germe dal quale germoglieranno quelle che Łukasiewicz chiamerà “formulazioni logica e ontologica” del «principio di contraddizione»292. Per Severino «temporalizzare l'essere significa perdere l'essere, chiudendosi nella più profonda contraddizione»293. Riconoscere la validità del principio di non contraddizione (cosa 288

Severino E., Gli abitatori del tempo, cit., p. 43. Ivi, pp. 48-49. 290 Cfr. Platone, Parmenide 142b-157b. 291 Platone, Parmenide 155e, corsivo mio. 292 Cfr. Aristotele, Metafisica Γ6, 1011b e Metafisica Β2, 996b. 293 Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 77. 289

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che, ad avviso di Severino, «tutti, anche gli antimetafisici più ostinati, finiscono sempre, più o meno esplicitamente, con l'accettare»294) significa dunque identificare essere e nulla, rinunciando alla maschera della temporalizzazione che vorrebbe tenere lontana questa identificazione (dopo averla accettata a priori), come nel caso di Platone il quale al di là del tempo riconosce, a fondamento del principio di non contraddizione, l'essere eterno ed immutabile. Il nichilismo è tale proprio in quanto ha fede nel fatto che il principio di non contraddizione sia ultimo, indimostrabile in quanto definitivo. Questo intento severiniano volto a contrastare il nucleo teoretico attorno al quale ruota il principio di non contraddizione inteso come fondamento della alienazione nichilistica dell'Occidente sembrerebbe in sintonia con la volontà di Łukasiewicz di andare contro Aristotele, il quale «affermò categoricamente che il principio di contraddizione è una legge ultima del pensiero e dell'ente; gli hanno creduto quasi tutti e tutt'ora gli si crede sulla parola»295. Se Łukasiewicz mira ad emanciparsi dal principio di non contraddizione, rimanendo nella Follia che lo implica, Severino si allontana da esso ma in una direzione del tutto diversa; infatti «l'èlenchos aristotelico è un momento fondamentale della verità dell'epistéme occidentale e non della verità del destino, nonostante la formale vicinanza tra L-immediato di Severino e principio di non contraddizione in Aristotele in quanto fondamento innegabile (stare)»296. Dopo avere esaminato il principio di non contraddizione così come è formulato nel corpus aristotelico, il logico polacco Łukasiewicz sostiene – nel suo saggio del 1910 intitolato Del principio di contraddizione in Aristotele – che la «più importante idea» che quel saggio vuole esprimere è che «il valore del principio di contraddizione non è di natura logica, bensì di natura pratico-etica; ma questo valore pratico-etico è talmente rilevante, che la mancanza di valore logico non risulta avere alcuna importanza»297. Riflettendo su questo saggio, Severino sostiene che Łukasiewicz può affermare ciò in quanto egli si muove «all'interno della persuasione (cioè dell'alienazione) fondamentale dell'Occidente, per la quale l'ente è costruibile e creabile da forze umane o divine» 298. Nonostante questa osservazione, Severino pare 294

Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 21. Łukasiewicz J., O Zasadzie Sprzeczności u Arystotelesa (1910), trad. it. di G. Maszkowska, Del principio di contraddizione in Aristotele, Macerata, Quodlibet, 2003, p. 59. 296 Cusano N., Emanuele Severino, cit., p. 475. 297 Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 128. 298 Severino E., Fondamento della contraddizione, cit., p. 51. 295

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tralasciare quasi totalmente questa problematica teoretico-pratica che lo stesso Łukasiewicz pone al centro del suo discorso, per occuparsi unicamente delle questioni logiche che nel saggio in questione vengono prese in considerazione contro Aristotele.299 In particolare, la polemica di Severino contro Łukasiewicz ruota attorno al passo 1005b 631 del libro IV della Metafisica di Aristotele. Dalla analisi di questo importante libro, Łukasiewicz ricava tre formulazioni del principio di non contraddizione: una logica, una ontologica, una psicologica. Analizzando queste tre formulazioni, Łukasiewicz può sostenere che «risulta necessariamente l'equivalenza tra il principio ontologico e il principio logico di contraddizione»300 mentre, per quel che riguarda la terza formulazione del principio di non contraddizione, Łukasiewicz sostiene che Aristotele cercherebbe «di dimostrare il principio psicologico in base al principio logico e ontologico»301, cadendo inoltre in «quella confusione tra questioni logiche e psicologiche che oggigiorno è così diffusa»302. L'obiezione di Severino è quella per cui, con le sue argomentazioni, Łukasiewicz fraintende totalmente la formulazione psicologica del principio di non contraddizione che, lungi dal dover essere dimostrata sulla base delle altre due formulazioni – quella logica e quella ontologica, come vorrebbe il logico polacco – si rivela essere il «suo diorismós essenziale»303, cioè la proprietà che compete necessariamente al principio di non contraddizione, cioè «il diorismós che non ci si può trovare in errore rispetto a tale principio» 304. In particolare, l'ostilità di Łukasiewicz verso la formulazione psicologica sarebbe per Severino dovuta al fatto che il logico polacco «isola arbitrariamente, separa arbitrariamente l'una dall'altra le due componenti»305 della relazione intenzionale, cioè della convinzione. Queste due componenti sono «quella psichica, costituita dalla convinzione-sensazione (“atto di convinzione”), e quella che è intenzionata (lo “stato di cose reale o immaginario”)»306. Abbandoniamo subito questi aspetti tecnici, poco utili ai fini del discorso che stiamo 299

Ciò non significa ovviamente il fatto che la critica teoretica che Severino svolge contro Łukasiewicz perda mai di vista l'intento pratico che l'Occidente, proprio sulla base della riflessione teoretica sul principio di non contraddizione, legittima ed alimenta. È proprio a partire da questa critica teoretica che Severino può dare voce alla sua invettiva contro la tecnica e contro la prassi nichilistica. 300 Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 25. 301 Ivi, p. 27. 302 Ivi, p. 32. 303 Severino E., Fondamento della contraddizione, cit., p. 40. 304 Ivi, p. 29. 305 Ivi, p. 47. 306 Ibidem.

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facendo, per ritornare sulla questione centrale, riguardante il modo in cui viene inteso il divenire dall'Occidente, secondo la lettura severiniana. Prima di rispondere a questa questione, è bene dare una esemplificazione del concetto di “divenire” dato da Sofia Vanni Rovighi, la quale associa con forza l'innegabilità del divenire e la sua inscindibile relazione al principio di non contraddizione, esemplificando bene quel legame che lo stesso Severino si preoccupa di tematizzare: Tra i fatti ai quali applicare il principio di non-contraddizione, scegliamo di preferenza il divenire perché è il fatto più evidente, più innegabile. Che io sia, infatti, una sostanza (nel senso aristotelico, cioè un ente esistente in sé) o una increspatura nell’immenso mare dell'universo, che io sia corpo o spirito, che esista o non esista un mondo di corpi distinto da me, è certo che qualcosa diviene – in me o fuori di me –. […] È vero che alcuni filosofi, in primo luogo Parmenide, hanno negato l’esistenza del divenire e l’hanno ridotto a δόξα, o opinione, a conoscenza illusoria, ma la sola possibilità che io opini, mi illuda, e poi mi converta alla conoscenza vera, prenda la via della conoscenza vera, attesta il mutamento. Del resto nel bel volume di G. Reale su Gli Eleati si vede che anche per Parmenide il mondo della δόξα aveva una certa consistenza.307

Il divenire è inteso dall'Occidente, che fonda la sua fede in esso sul principio di non contraddizione, come la somma di due attributi contraddittori inerenti un medesimo oggetto. Per uscire da questo vicolo cieco, coniugando il divenire con quel principio che ne sta alla base (e che giustifica così la volontà di potenza che da esso scaturisce), l'Occidente ha introdotto tre elementi: 1) anzitutto il tempo. È proprio la categoria del “tempo” che rende possibile a predicati opposti di appartenere al medesimo soggetto, in tempi diversi: «questa superficie, che è bianca, per il pensiero dell'Occidente può diventare non bianca e quindi il suo non esser bianca non è impossibile, ma quando è bianca è impossibile che non sia bianca»308; 2) l'eternità. Infatti, a fondamento del divenire, cioè del passaggio (nel tempo) da A a non-A, ci deve essere qualche cosa (Platone lo chiama «istante») che è fuori dal tempo (e che determina il divenire che sta nel tempo), non in quanto non è, ma in quanto è eternamente sempre se stesso (in modo identitario, non predicativo-accidentale); 3) infine, il terzo elemento che 307 308

Vanni Rovighi S., Istituzioni di filosofia, Brescia, La Scuola, 1982, p. 73. Severino E., Fondamento della contraddizione, cit., p. 32.

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consente all'Occidente di avere fede nel divenire senza andare contro al principio di non contraddizione, è la nozione di “non essere” indebolita, addolcita, resa sopportabile: la nozione di non essere relativo, cioè di non essere inteso come essere diverso da ciò che è altro da sé: «quando si dice uno, aggiungendo ad esso tanto l'essere quanto il non essere, ci si riferisce in primo luogo a qualcosa di conoscibile, poi di diverso dalle altre cose; infatti, non si conosce meno ciò di cui si dice che non è, e non si conosce meno il suo essere differente dalle altre cose»309. Questa nozione di “non essere”, sviluppata all'inizio del Sentiero della notte da Platone, sarà ancora al centro delle più grandi ontologie sviluppate nel Novecento, come per esempio quella che si trova in Teoria dell'oggetto di Meinong e nelle Ricerche logiche di Frege310. Tutto questo apparato ora descritto, mediante il quale il fenomeno del nichilismo viene isolato da quel suo in sé e per sé che è l'identificazione di essere e nulla, lo troviamo già ben delineato nei dialoghi dialettici di Platone. Il Parmenide e il Sofista, in particolare, sono il grande paravento che impedisce di vedere «che il contraddirsi non appaia come tale, cioè che sia interrotto il tragitto che unisce la forma diretta alla forma indiretta della contraddizione, e la forma diretta rimanga un in sé isolata dal proprio fondamento» 311. Questo paravento è ciò che impedisce alla terra isolata di scorgere il suo inconscio, cioè di capire che, «se, diventando altro da sé, il qualcosa, diventando altro da sé, non fosse l'altro da sé, il qualcosa rimarrebbe se stesso (e anzi sarebbe se stesso […]). Ma il rimanere e l'essere se stesso non sono mai stati considerati un divenire. Se non si pensa che, nel risultato del divenire, qualcosa è altro da sé – A è non-A –, non si pensa né il risultato del divenire né il divenire» 312. Da ciò si capisce perché la fede che l'Occidente riversa nel principio di non contraddizione – anche quando pensa di stare per negarlo, come fa Łukasiewicz quando dice che «non può esistere alcuna prova incontrovertibile dell'inesistenza del contenuto contraddittorio della contraddizione» 313 – è la fede attraverso la quale «il pensiero del divenire evita di vedere che il divenire è la contraddittoria identificazione dei non identici»314, cioè l'essenza del nichilismo. Il principio di non contraddizione, che a prima vista può sembrare il fondamento logico che 309

Platone, Parmenide 160c-d. Cfr. Introduzione di F. Fronterotta a Platone, Sofista, cit., pp. 107-112. 311 Severino E., Essenza del nichilismo, cit., pp. 432-433. 312 Severino E., Tautótēs, Milano, Adelphi, 1995, p. 15. 313 Severino E., Fondamento della contraddizione, cit., p. 23. 314 Goggi G., Emanuele Severino, cit., p. 283. 310

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nega la possibilità del diventare altro da sé da parte dell'ente, è invece lo strumento del quale l'Occidente si serve per vedere nell'ente una potenzialità sempre malleabile e dominabile. E questo perché, come si è detto, dire che non è possibile che, nello stesso tempo, un oggetto partecipi di due attributi contraddittori, significa garantire la possibilità che, in tempi diversi, ciò si verifichi. La garanzia – data dal principio di non contraddizione – che ciò si verifichi, è la garanzia per la quale l'uomo può esercitare, mediante tale principio, la sua potenza sul mondo. Questa connessione tra prassi e principio di non contraddizione è colta in modo molto puntuale da Łukasiewicz il quale osserva che, nonostante la logica aristotelica sia «uno strumento troppo grossolano per poter svelare […] la fine struttura delle essenze» 315, nonostante abbia questi forti limiti teoretici, il principio di non contraddizione da Aristotele formulato è stato tuttavia adottato da tutta la metafisica occidentale in quanto, «come avvenne per la geometria euclidea, si rivelò conforme ai fatti»316, permettendo così lo sviluppo delle scienze, il cui primato non deve essere di necessità teoretico, bensì pratico. La logica di Aristotele, essendo il fondamento teoretico del divenire, risulta essere il fondamento della potenza che gli uomini, mediante tale armamentario teoretico, possono esercitare sul mondo: «tanto nella vita, quanto nel campo della scienza, questo principio ci rende dei favori incontestabili»317. Dicendo ciò, Łukasiewicz sembra in perfetto accordo con il discorso severiniano, non fosse altro che Łukasiewicz, pur non trascendendo l'orizzonte nichilistico, pensa di poter rinnegare quello che, per il nichilismo, è il principium firmissimum. Inoltre, questo punto di convergenza tra i due filosofi, ad uno sguardo più attento, non può che rivelarsi solo parziale. Per Łukasiewicz, infatti, il principio di non contraddizione ha sì un valore pratico, ma non può vantare lo stesso valore pratico che vantano invece le «leggi empiriche», poiché esso, a differenza di queste ultime, non ordina fatti, non prevede fenomeni futuri laddove, per Severino, proprio in quanto al principio di non contraddizione corrisponde, sul piano ontologico, la categoria del non essere relativo, e proprio in quanto solo il non essere assoluto, in quanto totale alterità dall'essere, è l'assolutamente imprevedibile, ebbene proprio per questo il divenire fondato sul non essere relativo e sul principio di non contraddizione è per il Bresciano manipolabile mediante la previsione. È la scienza che, anche quando si emancipa dalla fede in valori eterni, si serve del principio 315

Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 14. Ibidem. 317 Ivi, p. 101. 316

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di non contraddizione come ciò che non è chiuso alla previsione. Łukasiewicz invece sembra volere relegare il «valore alogico» del principio di non contraddizione al piano della regolamentazione (per lo più giudiziaria) dei rapporti interpersonali, e sul piano della menzogna318. Dopo averci detto che al principio di non contraddizione spetta, come a «tutte le leggi empiriche, le teorie e le ipotesi fisiche», un valore pratico, alla domanda se tale valore pratico che ha il principio di non contraddizione sia lo stesso che spetta alle leggi delle quali si servono gli scienziati per dominare il mondo, scrive: «a questa domanda bisogna rispondere negativamente. Il principio di contraddizione non riunisce in un unico insieme né i diversi fenomeni, né le diverse leggi, né ordina dei fatti, né serve per prevedere dei fenomeni futuri. Se questo principio ha un significato pratico, esso deve risiedere altrove»319. Fatte queste dovute precisazioni, è bene passare ora ad un altro punto che vede Severino e Łukasiewicz in disaccordo, ossia il loro modo di intendere il pensiero hegeliano. Łukasiewicz sostiene che, nonostante Hegel svolga una riflessione costellata da «frasi fatte» 320 e grossolane dal punto di vista di un logico formale, ad Hegel va tuttavia dato atto di avere compreso le lacune teoretiche di Aristotele, cercando di colmarle, creando «una “logica metafisica” che non si basava sul principio di contraddizione»321. Per Severino, invece, Hegel non rinuncia affatto al principio di non contraddizione ed afferma, contro Aristotele, che «l'idealismo hegeliano non nega […] – come spesso si sostiene – il principio di non contraddizione, di identità e in generale le forme della logica classica, ma nega la loro astratta interpretazione “intellettuale”»322. Già ne Gli abitatori del tempo Severino aveva avuto modo di esprimere questa sua posizione, confrontandosi con Lucio Colletti: Colletti osservava che la scienza è legata inscindibilmente al principio di non contraddizione, e che il principio di non contraddizione è uno strumento irrinunciabile anche per il marxismo; per tutte queste ragioni, osservava Colletti, il marxismo non può soccombere dinanzi alla scienza abbandonando tale principio, ma non abbandonare tale principio significa abbandonare la dialettica hegeliana. Severino confuta questa argomentazione di Colletti «mostrando come alla base del discorso di Colletti stia quel modo perdurante e scorretto di intendere la dialettica di Hegel che ne fa una negazione sic et 318

Cfr. Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 129. Ivi, p. 128. 320 Ivi, p. 99. 321 Ivi, p. 15. 322 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 389. 319

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simpliciter del principio di non contraddizione»323; a chi interpreta la logica hegeliana come una logica contraria al principio di non contraddizione «sfugge tuttavia che quest'ultima non è l'ingenua e indiscriminata negazione di quel principio, ma è la negazione della concezione “intellettualistica”, cioè “astratta”, di esso. Questo tema era affrontato nel mio libro La struttura originaria (1958)»324. Dello stesso avviso di Severino è Enrico Berti, il quale sostiene correttamente che la dialettica di Marx ed Hegel «non rifiuta il principio di non contraddizione, ma anzi permette il recupero della sua formulazione più autentica»325. Su un piano logico questa osservazione severiniana viene considerata da Łukasiewicz come ingenua, dato che assimila princpî – come il principio di non contraddizione e di identità – che devono essere tenuti bene distinti poiché per il logico polacco non è ammissibile «l'idea secondo la quale le formule: “a è a” e “a non è non-a” siano sinonimiche ed esprimano lo stesso principio»326, e poiché «la formula “a non è non-a” non rappresenta affatto il principio di contraddizione»327; rifacendosi ai due principî, di identità e di non contraddizione, Severino può infatti dire che è «da escludere una priorità logica di uno rispetto all'altro: i due lati del principio sono immediatamente connessi e quindi nessuno dei due è un che di mediato dall'altro»328. Al di là delle sottigliezze logiche, l'asserzione di Severino trova un sostegno storicofilosofico a quello che sta dicendo: il pensiero hegeliano è tanto più vicino al principio di non contraddizione quanto più il suo pensiero è volto a inverare la vocazione prassisticotrasformativa che su questo principio si fonda. Il fatto che Hegel sia la base dalla quale derivano le speculazioni di Gentile e Marx è per Severino una sufficiente prova (non logica, ma storico-filosofica) del fatto che, alla radice del pensiero di Hegel, stia quel principio che giustifica la vocazione prassistica del marxismo e del neo-idealismo (ma anche della scienza!). Il principio di non contraddizione è infatti il fondamento di quella volontà nichilistica di potenza della quale Hegel è una delle somme manifestazioni. Da tutto ciò si capisce come mai Severino voglia tenersi «alla larga dalle facili quanto gravi incomprensioni che troppo sbrigativamente fanno di questo pensiero la negazione del principio 323

Goggi G., Emanuele Severino, cit., p. 46. Prefazione di E. Severino a Berto F., La dialettica della Struttura originaria, Padova, Il Poligrafo, 2003, p. 9. 325 Berti E., Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Brescia, Morcelliana, 2015, p. 11. 326 Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 46. 327 Ibidem. 328 Severino E., La struttura originaria, cit., p. 178. 324

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di non contraddizione. Il significato più profondo della logica di Hegel è la volontà di pensare l'identità e di conservare il divenir altro come il processo dell'autoproduzione dell'identità» 329; la volontà di dominare le cose in quanto divenienti si dà quindi ancora e soprattutto con Hegel (dato che con Hegel inizia a sfaldarsi la fede negli immutabili che fino a quel momento aveva egemonizzato la filosofia nel suo darsi storico) sulla base del principio di non contraddizione. Gli enti divenienti sono dominabili in quanto aperti alla possibilità di essere dominati e, specularmente, in quanto disposti ad essere incanalati in una previsione di dominio. Per questo anche con Hegel il diventare altro da parte dell'ente, che si realizza concretamene in modo dialettico, «non è la contraddizione – domina la contraddizione e non si lascia dominare da essa»330. Hegel insomma – come Nietzsche – critica il principio di non contraddizione nella misura in cui viene inteso astrattamente, come «principio logico» mirante a negare il divenire, ma non nega affatto il portato ontologico di questo principio, che fa anzi di questo principio il principio trascendentale che costituisce lo stesso tavolo di gioco sul quale l'Occidente gioca: «la critica di Nietzsche al “principio di non contraddizione” ha un carattere analogo alla critica hegeliana di tale principio in quanto esso è principio dell'intelletto astratto; ossia del fatto che è una critica a quell'identificazione (“assimilazione”) dei differenti in cui resta contraddittoriamente negato il differenziarsi del divenire»331. «Come già nel pensiero di Hegel […] anche nel pensiero di Nietzsche la critica rivolta al “principio di non contraddizione” è la difesa più radicale del senso autentico che tale principio possiede nel pensiero occidentale (il senso per il quale tale principio esprime innanzitutto la stessa struttura essenziale del divenire»332. Come per la reazione anti-intellettuale alla logica classica, così la reazione nietzschiana al principio di non contraddizione si caratterizza per il fatto che, questa reazione, va a negare che A, che è diverso da B, possa essere identificato con B. Nietzsche osserva che la volontà di identificare quella differenza che non è assimilabile a ciò che è diverso da essa, deriva da una «paura dell'insolito», che è poi lo stesso «timor panico» al quale fa riferimento Hegel all'inizio della Fenomenologia. Nietzsche non va però a negare il valore ontologico di tale principio, ma anzi lo afferma in modo ancora più radicale di quanto non lo faccia Hegel dato che Nietzsche – 329

Goggi G., Emanuele Severino, cit., p. 285. Severino E., Tautótēs, cit., p. 31. 331 Severino E., L'anello del ritorno, cit., p. 161. 332 Ivi, p. 156. 330

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mediante il concetto dell'eterno ritorno dell'uguale –, andando ad affermare che A è identico ad A ogni volta che A si ripete, non fa che mettere in atto «quell'infinito potenziamento di tale principio»333 che consiste nella radicale reazione anti-epistemica che la filosofia nietzschiana, ad avviso di Severino, sviluppa. Per sintetizzare, possiamo dire che «la negazione nietzschiana del “principio di non contraddizione” (come principio logico-metafisico) è inevitabile, perché è la conseguenza inevitabile, necessaria, dell'apparire del divenire (che per Severino tuttavia non appare). Sul fondamento dell'evidenza che compete all'apparire delle differenze divenienti è necessario affermare che l'identificazione delle differenze, che culmina nel “principio di non contraddizione”, è falsificazione e negazione del divenire, ossia di ciò che per la sua evidenza è impossibile pensare come falsificabile e negabile. Proprio perché è conseguenza inevitabile dell'apparire del divenire, la negazione nietzschiana del “principio di non contraddizione” è conseguenza inevitabile della volontà che i differenti non siano identici, ossia della volontà che, a partire da pensiero greco, si esprime come quel principio originario dell'ente in quanto ente che è il principio di non contraddizione»334. Nonostante Łukasiewicz abbia frainteso la lettura che Hegel dà del principio di non contraddizione, il logico polacco ha con acume scorto – nonostante tutti i limiti dei quali, da una prospettiva severiniana, si è cercato di dare ragione – il legame sussistente tra questo principio e le conseguenze pratiche che, dall'ammissione di questo principio, scaturiscono. Łukasiewicz ci dice infatti che «la verità è un valore logico» 335, che il principio di non contraddizione non ha un valore logico, e che tuttavia «gli assegniamo un valore addirittura maggiore di quello dei giudizi veri»336. Ciò avviene perché «la motivazione logica è solo una delle molte ragioni che abbiamo per credere in qualcosa, e non è affatto la più forte»337. Subito dopo Łukasiewicz precisa la natura di quella fede che ci fa credere in “qualcosa” a prescindere dal suo valore logico: «esistono dei giudizi logicamente privi di valore, ma preziosi sul piano pratico»338. Leggi empiriche come il principio di conservazione dell'energia o la teoria darwiniana dell'evoluzione, pur non essendo necessariamente veri, «hanno tuttavia un grande 333

Ivi, p. 162. Ivi, pp. 150-151. 335 Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 127. 336 Ivi, p. 126. 337 Ivi, p. 127. 338 Ivi, p. 128, corsivo mio. 334

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valore pratico perché, unificando tanti diversi fenomeni in uno stesso insieme, apportano tra questi ordine e armonia, e permettono così di prevedere i fenomeni futuri»339. Così, se da un lato il principio di non contraddizione si rivela essere il fondamento teoretico della temporalizzazione degli enti i quali, nel tempo, partecipano di attributi contraddittori, senza per questo essere considerati come «cose mostruose» 340, dall'altro dà regolarità al divenire, scagionandolo dall'orizzonte di totale imprevedibilità al quale è invece confinata l'assoluta alterità rispetto all'esistente. Ciò fonda la possibilità di una prassi che, così legittimata, può passare dalla potenza all'atto: proprio sulla base del riconoscimento della possibilità della realizzazione della prassi nichilistica, Łukasiewicz non può – ad avviso di Severino – criticare realmente il principio di non contraddizione, giacché è proprio su questo principio che tale fede alla quale Łukasiewicz aderisce si fonda e cresce. A tale proposito si capisce anche perché Łukasiewicz si premuri di associare il principio di non contraddizione al principio di causalità341; egli lo fa perché – per dirla con Hume – «soltanto la causalità produce una tale connessione [cioè una relazione tra gli oggetti che va «oltre quel che è immediatamente presente ai sensi»], in grado di assicurarci che l'esistenza o l'azione di un oggetto sia stata seguita o preceduta da quella di un altro oggetto» 342. Come a dire: tematizzare la legge di causalità, così da mettere ordine e dare unità al mondo, non significa ipostatizzarla naturalisticamente. Per Severino Aristotele, proprio in quanto si trova all'interno della terra isolata dalla verità, non dà esclusivamente un valore etico-pratico al principio di non contraddizione, nonostante per lo Stagirita (e così per tutto l'Occidente) questo principio abbia anche un valore etico-pratico. Va tuttavia detto che, se per Severino il principio di non contraddizione, così come è formulato da Aristotele, è l'unica cosa che può giustificare su un piano teoretico la volontà di potenza dell'Occidente, per Łukasiewicz lo stesso principio, pur avendo anche per lui, come si è visto, un valore pratico, non è da lui considerato come l'unica giustificazione della prassi umana. Łukasiewicz può dire questo perché, a sua avviso, «per ragionare in modo induttivo,

339

Ibidem, corsivo mio. Platone, Filebo 14e. 341 Cfr. Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 123. 342 Hume D., A treatise of Human Nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning into moral subjects (1739/1740), a cura di P. Guglielmoni, Trattato sulla natura umana, Milano, Bompiani, 2001, pp. 164-167. 340

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non occorre la conoscenza del principio di contraddizione»343, e perché «per ragionare deduttivamente non occorre la conoscenza del principio di contraddizione»344; da ciò deriva che «degli esseri che non riconoscono il principio di contraddizione potrebbero osservare i fatti empirici, ragionare induttivamente e deduttivamente e agire in modo efficace in base a dei ragionamenti»345. Confrontandosi con Metaph. Γ 4, 1008b 12-19, passo in cui Aristotele sostiene che «chi non ammette il principio di contraddizione non può agire» 346, il logico polacco risponde che «non c'è nessuna connessione tra l'agire e il fatto che si riconosca o meno il principio di contraddizione […]. Qualcuno potrebbe ritenere infatti che tutte le volte che cammina non cammina, ma non ne risulta affatto che il camminare sia la stessa cosa che il non camminare»347, come invece per Aristotele dovrebbero sostenere i negatori del principio di non contraddizione. Ma come si può affermare contemporaneamente che camminare e non camminare siano entrambi veri allo stesso tempo? Lo si può fare seguendo una logica non aristotelica. Si pensi ad una logica che ritiene vero ogni giudizio negativo: è questa una logica contraddittoria, in cui è vero che quell'uomo, che effettivamente sta morendo, sta morendo, ma in cui è anche vero che quell'uomo non sta morendo, in quanto, oltre a morire, sta facendo anche qualcos'altro, per esempio sta respirando, per quanto a fatica, o sta chiudendo gli occhi; in quanto respirante ed in quanto chiudente gli occhi, quell'uomo che sta morendo, sta, nello stesso tempo, non morendo.348 La tesi di Łukasiewicz è quella per la quale una logica non aristotelica e contraddittoria non impedisce la prassi umana. Per esempio, un medico che cura con un siero una serie di pazienti che hanno tutti la medesima malattia (supponiamo la difterite), sa che li ha anche non curati, ma questo non ha impedito l'incremento di potere tecnico-scientifico, nello specifico della medicina, sulla malattia e sulla morte: «in tutti i casi precedenti curati con il siero è stata eliminata la malattia. Egli [il medico] sa nello stesso tempo che la cura con il siero non ha eliminato la malattia […]. Il medico sapeva in realtà che il siero non aiuta sempre, e addirittura 343

Łukasiewicz J., Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., p. 97. Ivi, p. 98. 345 Ibidem. 346 Ivi, p. 74. 347 Ibidem. 348 È, questa, la posizione in qualche modo rovesciata rispetto a quella di Stilpone, il quale ammette solamente la predicazione tautologica, per la quale il soggetto è identico al soggetto (l'uomo è identico a uomo, il buono è identico a buono ecc). 344

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mai guarisce dalla difterite; infatti ogni medicina agisce solo nel suo agire direttamente sull'organismo, mentre non guarisce nella misura in cui essa è costosa o economica, è acquistata in quella o altra farmacia ecc. Ma il medico non badava a questi particolari negativi»349, dato che questi particolari negativi, ossia l'intrascendibilità logica della contraddizione, non va a confliggere con la volontà di potenza del medico medesimo, e soprattutto con la possibilità di far passare questa volontà di potenza, dalla potenza all'atto. Da queste premesse Łukasiewicz ricava che, se nelle scienze a priori ci troviamo di fronte ad oggetti contraddittori, questo fatto deve essere inteso come una «preziosa conquista scientifica»350; per quel che riguarda le scienze applicate, talvolta ci dice che queste si costituiscono indifferentemente dal fatto che questo principio ci sia o non ci sia (è il caso del medico visto in precedenza), talvolta ci dice invece che, anche nella scienza, il principio di non contraddizione «ci rende dei favori incontestabili»351. Ma è soprattutto nella vita quotidiana che tale principio mostra tutta la sua forza (etico-pratica), dato che tale principio risulta essere «l'unica arma contro gli errori e la menzogna»352. L'importante è per Łukasiewicz rendersi conto che un valore pratico non è un valore logico. Sul piano logico questo principio è indimostrabile. Ciò dovrebbe imporre, a dei logici non fideistici, un po' di «modestia»353 e di sano scetticismo, che non ostacola ma anzi aiuta la «ricerca scientifica» e il «comportamento pratico»354 degli uomini. Solo riconoscendo la propria parzialità gli uomini possono comprendere veramente il principio di Aristotele, andando più a fondo di ciò che Aristotele (e, sembra suggerire Łukasiewicz, Severino) non abbia saputo fare: «l'uomo è un essere debole e limitato; il principio di Aristotele è appunto l'espressione della sua limitatezza!»355.

349

Ivi, pp. 96-97. Ivi, p. 130. 351 Ivi, p. 102. 352 Ivi, p. 129. 353 Ivi, p. 125. 354 Ibidem. 355 Ivi, p. 130. 350

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§3 Poetare dopo Auschwitz 3.1 Nichilismo e principio di non-contraddizione in Platone ed Aristotele Nella importante Parte aggiuntiva di Essenza del nichilismo, intitolata ΑΛΗΘΕΙΑ, Severino individua tre passi, contenuti nei dialoghi platonici, a suo avviso particolarmente significativi ai fini della comprensione del valore che ha, per l'Occidente, il principio di non contraddizione. Il primo di questi, riscontrabile nella Repubblica (479 c), identifica l'ente con «un ἐπαμφοτερίζειν (ἐπ-αμφοτ-ερίζειν) (Platone, Civitas, 479 c), dove “i due” (ἐπίζει) sono l'essere (τὸ ὄν) e il niente (τὸ μὴ ὄν, inteso come […] nihil absolutum, ibid., 478 d). In quanto partecipa di entrambi […] la cosa (τι) ha entrambi come predicati: essa è qualcosa che “insieme” (ἅμα) è e non è: τι… ἅμα ὄν τε καὶ μὴ ὄν (ibid., 478 d)»356. La seconda citazione, tratta dal Sofista (237 d), è volta a mettere in luce che, a partire dalla metafisica greca, «l'Occidente non consente più che il τι se ne stia separato (come avviene nel pensiero preontologico) dal suo essere “ente”»357: è impossibile, dice Platone, che la cosa possa stare «isolata», «denudata», dall'esser ente (che è, appunto, esser ente da parte della cosa). L'ultima citazione è tratta invece dal Teeteto (183 a-b, e 190 b-c), e pone in luce come nemmeno in sogno, nemmeno nella follia, si possa affermare contemporaneamente che l'ente si predica di un predicato e della negazione di quello stesso predicato. In queste tre citazioni, osserva Severino, non compare il tema del tempo in relazione alla definizione dell'ente come un diveniente, e quindi in relazione alla legge posta dal principio di non contraddizione. In realtà, tuttavia, il tema del tempo risulta essere sempre implicito quando Platone, e qualsiasi altro abitatore dell'Occidente, parla del principio di non contraddizione, proprio in quanto “tempo”, “divenire” e “principio di non contraddizione” formano un nodo inscindibile, che va a costituire la struttura fondamentale dell'ente, così come è inteso dal nichilismo. Dopo l'importante contributo apportato da Platone in merito alla riflessione sul principio di non contraddizione, ossia su quel principium firmissimum che «esprime la struttura dell' ἐπαμφοτερίζειν dell'ente»358, un contributo ancora più importante, che si pone in diretta continuità con quello platonico, è ovviamente il contributo dato da Aristotele. Anche per 356

Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 416. Ivi., p. 417. 358 Ivi., p. 419. 357

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Aristotele il principio di non contraddizione esprime la struttura dell'ente così come è inteso dall'Occidente, e questa struttura consiste nel fatto che l'ente, nel suo oscillare tra l'essere e il nulla, non può appartenere, sotto al medesimo rispetto, all'essere e al nulla. E questa struttura logico-ontologica, osserva Aristotele esplicitando ciò che in Platone risultava solo implicitamente, «è la struttura stessa del tempo, cioè dell'ἐπαμφοτερίζειν»359 e della «logica isolante» volta a porre uno iato tra “ciò che” ed il suo “è”, tra esistenza ed essenza. Su queste basi si può mostrare «che il principio di identità-non contraddizione non può essere negato»360, rimanendo all'interno della fede nichilistica nel divenire; che tale principio è il fondamento che dà verità assoluta e definitiva, che si sottrae ad ogni attacco che gli viene mosso. Il libro IV della Metafisica «non solo afferma l'inesistenza, la nullità e l'impossibilità di tale contenuto, ma afferma anche l'inesistenza, l'impossibilità, la nullità dello stesso contraddirsi: l'impossibilità della contraddizione – sì che impossibile non è solo l'errore, ma anche l'errare e l'errante»361. Già Parmenide aveva definito coloro che vanno contro al principio di non contraddizione degli «istupiditi», «gente dalla doppia testa»; e tuttavia Platone e Aristotele non si limitano a conservare la validità di tale principio, affermata da Parmenide, bensì ne modificano la formulazione, così da non cadere nella aporia eleatica per la quale ragione ed esperienza, principio di non contraddizione formulato a priori e mondo percepito, si escludono vicendevolmente, negandosi al contempo. La nuova formulazione di tale principio, elaborata da Platone e Aristotele e poi adottata da tutta la metafisica epistemica ed anti-epistemica, consiste nel rifiuto del concetto univoco di ente, in favore della dottrina aristotelica della analogia dell'ente, per la quale “essere” può essere predicato di qualcosa in modo diverso: si può dire di un ente che è «in modo tale che per essere non ha bisogno di altro cui inerire» (sostanza (prima)), oppure «in modo tale che per essere ha bisogno di altro cui inerire» (accidente), dove questo altro è, in ultima istanza, ciò che per essere non ha bisogno di altro cui inerire, e per questo si capisce come nella definizione aristotelica di “accidente” entri sempre in gioco la nozione di “sostanza”: «“essere” è detto in molti modi, e quindi non è predicato univocamente, “ma in relazione sempre a un che di unico, a una certa unica natura” […] che è appunto la sostanza»362. 359

Ibidem. Severino E., Fondamento della contraddizione, cit., p. 241. 361 Ivi, p. 22. 362 Ivi, p. 250. 360

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Oltre a respingere la nozione univoca di “ente” formulata da Parmenide, attraverso la dottrina della analogia dell'ente, formulata da Aristotele, un altro contributo fondamentale che l'Occidente (questa volta mediante la riflessione di Platone) apporta, affinché si dia un superamento della aporia parmenidea, consiste nella introduzione della nozione di “non-essere relativo”, affiancata a quella di “non-essere assoluto”. Lo sforzo di Platone e di Aristotele è rivolto verso il medesimo scopo, e consiste nel superare la posizione parmenidea, che ritiene l'essere come un che di unico, immoto, indifferenziato, a favore di una nuova metafisica che, proprio sulla base di quel principium firmissimum già da Parmenide enunciato, intenda gli enti come «sintesi della determinazione, essenza, e dell'essere (εἶναι) della determinazione: l'essere come ente (ὄν), come ciò che è (ὄ ἐστιν, id quod est)»363. Ecco che, dopo l'opera di Platone ed Aristotele, il principio di non contraddizione «non si riferisce più semplicemente al puro e semplice essere parmenideo, ma ad ogni essere, cioè di ogni essere afferma che è impossibile sia non essere (o anche: è impossibile che la stessa cosa sia e non sia)»364. Predicare l'essere del non essere non significa più, dopo Platone e Aristotele, solamente che l'essere è nulla (l'identificazione dell'essere con il nulla è infatti posizione che Platone, Aristotele e Parmenide condannano unanimemente come folle), ma significa anche, e soprattutto, dire che l'essere (l'ente) è altro da una determinazione altra che non coincide con la determinazione che non è la determinazione altra dalla determinazione indicata come non essente (relativamente ad altro da sé): «nella stessa pagina in cui dice che la cosa è ἅμα un essere e un non essere, il testo platonico dice anche che nell'ἐπαμφοτερίζειν la cosa non è l'uno e l'altro: οὔτ᾿ ἀμφότερα. Cioè non è nello stesso tempo l'uno e l'altro. (In questa sintesi di quello ἅμα e di questo οὔτ᾿ ἀμφότερα risiede l'essenza della dialettica hegeliana)»365. Affermare, mediante il principio di non contraddizione, la possibilità della determinazione di non essere altro da sé, cioè di non essere, nello stesso tempo, una determinazione altra da sé e, in un tempo diverso, la possibilità di essere altro da sé in rapporto al sé di un tempo precedente, affermare ciò «è la prima e fondamentale proprietà dell'essere in quanto essere, ossia è una affermazione che non si basa su alcun'altra, è vera per sé stessa, non può essere negata»366. C'è poi da aggiungere che si è parlato della possibilità di non essere relativamente 363

Ivi, p. 242. Ivi, p. 251. 365 Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 419. 366 Severino E., Fondamento della contraddizione, cit., p. 251. 364

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al tempo che trascorre e relativamente ad una determinazione altra da sé, e si è sottolineato il termine “possibilità”, poiché per la metafisica epistemica l'orizzonte dell'eterno metatemporale, dell'essere che mai non è, è un orizzonte non solo ancora aperto, ma è l'orizzonte sul quale si fonderebbe l'esistenza e il modo d'essere di ogni ente diveniente. L'essenza del nichilismo, che l'Occidente per un lungo tratto della sua storia non ha saputo intendere neanche lontanamente nei suoi esiti più coerenti (essenza che risulta legata a filo doppio esattamente al principio di non contraddizione), consiste nel fatto che «è proprio dal punto di vista dell'ἐπιστήμη che il concetto di ente immutabile è autocontraddittorio. L'ente in quanto ente, che dovrebbe essere il tratto comune sia all'ente diveniente sia all'ente immutabile e quindi indifferente rispetto ad essi, è in effetti ente diveniente, sì che, nell'ἐπιστήμη (cioè nel pensiero occidentale in quanto ἐπιστήμη), l'ente immutabile si costituisce come un immutabile diveniente»367. L'eterno non si sottrae al divenire dato che l'unico eterno è l'eterno divenire, l'«immutabile diveniente». Nella prospettiva logico-ontologica elaborata da Platone e da Aristotele si crede di poter salvare dal suo annichilimento una dimensione meta-temporale che consentirebbe alle determinazioni di non-non essere anche dopo il loro annientamento, oltre a non-non esserlo già relativamente ad altro e ad un ben determinato tempo, nel mondo del divenire. A tal proposito, Severino osserva che nelle formulazioni del “principio di non contraddizione” che sembrano prescindere dal tempo, è presente, anche se nascosta, la convinzione che l'ente (di cui si pone l'incontraddittorietà) sia tempo, cioè ἐπαμφοτερίζειν tra l'essere e il niente. Le formulazioni metatemporali del “principio di non contraddizione” sono formulazioni contraddittorie di tale principio: contraddittorie dallo stesso punto di vista del nichilismo – del nichilismo in quanto essenza del proprio fenomeno. Nel progressivo farsi coerente del nichilismo, l'ἐπαμφοτερίζειν, liberandosi dall'ἐπιστήμη (e quindi da ogni immutabile da essa evocato), si libera da ogni formulazione metatemporale del “principio di non contraddizione”.368

Il nichilismo, cioè la fede nell'essere niente da parte della cosa, prende sempre maggiore coscienza di sé; una presa di coscienza che, sul piano della storia della filosofia (della filosofia 367 368

Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 421, corsivo mio. Ibidem.

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della storia?) consiste, come si è visto, nell'abbandono della fede negli immutabili, e successivamente nell'abbandono della fede nel valore salvifico della volontà di potenza che proprio con l'abbandono degli immutabili giunge al suo culmine. In quest'ultimo abbandono consiste la manifestazione dell'autentica poesia giacché, solo ed esclusivamente tramite quest'ultimo abbandono è consentito sentire veramente, stando all'interno della scacchiera del nichilismo, il profumo della ginestra. 3.2 Poesia, fenomenologia, prassi Vale la pena approfondire ulteriormente questo movimento di acquisizione di autocoscienza che si dà – mediante la speculazione filosofica – entro l'orizzonte del nichilismo. Per fare ciò, è necessario anzitutto comprendere che cosa Severino intenda con l'espressione “nichilismo come fenomeno”: come fenomeno, il nichilismo «non si vede come nichilismo», cioè come affermazione che «la cosa (una cosa, ogni cosa) è, in quanto cosa, niente» 369. Il vedersi del nichilismo come fenomeno, il suo credere di conoscersi come tale, è la «stratificazione “di superficie” del nichilismo»370, mentre il «preconscio» del nichilismo in quanto fenomeno è «l'essenza del fenomeno del nichilismo» 371, è cioè l'intendere la cosa come il nichilismo, al di là degli autoinganni di superficie, la intende. L'oscillare tra essere e non essere da parte dell'ente non può indicare il fatto che essere e non essere sono predicati della cosa contemporaneamente, dunque la cosa non può che essere predicata di “essere” e “non essere” in tempi diversi. La cosa, insomma, è un diveniente. La cosa diviene, e non può che divenire nel tempo, ed in ciò consiste «l'evidenza originaria, fondamentale, dell'Occidente»372. Proprio il riconoscimento di questa evidenza originaria ci permette di dire che, affianco alla nozione di “nichilismo come fenomeno” appena considerata, si ritrova quella di “nichilismo come cosa in sé”: «Il nichilismo, come cosa in sé, è invece la persuasione che la cosa sia niente. […] La persuasione che la cosa sia divenire (storia, tempo, oscillazione tra l'essere e il niente) è legata con Necessità alla persuasione che la cosa, in quanto tale, è niente»373. Il nichilismo, come cosa in sé, è «l'inconscio» del nichilismo, ed è creduto essere inaccettabile dal nichilismo come fenomeno, che in realtà lo implica fin da 369

Ivi, p. 415. Ivi, p. 417. 371 Ivi, p. 418. 372 Ibiem. 373 Ivi, p. 418. 370

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subito. È importante sottolineare che, per Severino, «non solo è impossibile l'errore, ma è impossibile l'errare»374. Ciò significa che, il nichilismo – indipendentemente dal grado di autocoscienza che ha raggiunto, cioè indipendentemente dal fatto che si ponga come metafisica epistemica o come metafisica anti-epistemica – non può credere in ciò in cui crede di credere, cioè nella identificazione di tesi e antitesi, di essere e nulla. Ciò in cui il nichilismo crede è l'apparire del positivo significare dell'identità di tesi e antitesi, laddove il contenuto di questo positivo significare, essendo nulla, non può essere né detto né pensato (né creduto!). «Si spiega così l'esistenza della civiltà occidentale quale storia del “nichilismo” in senso severiniano: essa è sì follia, ma esiste ed è apparire di essenti che sono positivi significare del nulla. Anche se il nichilismo non lo può sapere, l'apparire della contraddizione pura “come negata” è il fondamento dell'apparire in cui esso consiste. In questo senso l'apparire della verità è il fondamento (inconscio) dell'errare»375, cioè l'inconscio dell'inconscio del nichilismo. Per meglio intendere questo legame tra fede, nichilismo e contraddizione, Nicoletta Cusano offre al lettore quello che essa intende come l'esempio “principe”: quando il nichilismo crede che appaia l'annullamento dell'essere, tale credere è l'apparire di quell'essente che è il significato “annullamento dell'essere” quale positivo significare dell'“identità di essere e niente”, ma non è e non può essere l'apparire di quell'identità come affermata, cioè dell'annullamento dell'essere. Che l'essere si annulli è l'impossibile, è il contraddittorio quale identità di tesi e antitesi; tuttavia esso appare; ma non appare l'annullarsi, bensì il suo positivo significare. Dunque quando il pensiero pensa che l'essere si annulli, quel pensiero non è apparire dell'annullamento dell'essere, bensì apparire del suo positivo significare. […] Il nichilismo non sa di essere apparire di quel significare, ma crede che appaia l'identità non negata di essere e niente, cioè crede di essere convinto che l'essere si annulli […]. Il nichilismo è apparire del positivo significare dell'impossibile, ma non lo sa; che esso sia un tale apparire è l'apparire della verità.376

Va sottolineato inoltre che il nichilismo non può che identificare in modo non immediatamente consapevole essere e nulla dato che, «se non tenesse ferma l'opposizione dei 374

Cusano N., Sulla contraddizione, in «La filosofia futura», 01 (2013), p. 110. Ivi, p. 112. 376 Ivi, p. 113. 375

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termini che va a identificare, il nichilista non sarebbe affatto un nichilista, cioè uno che nega, che toglie l'essere, che annulla, ma uno che afferma l'essere di ciò che è» 377. Emerge proprio da ciò l'indissolubile legame sussistente tra nichilismo e prassi: «se infatti “prassi” indica l'esistere in quanto decisione e azione, e se “agire” significa “volere” che le cose non siano come sono e siano come non sono, allora la prassi vive e si alimenta del nichilismo nel suo senso fondamentale. Essa infatti si costituisce solo se sa di avere a che fare con “essenti” e non con il nulla: non si può infatti agire sul nulla. Ma per poter agire, affinché cioè la prassi sia prassi, decisione, azione, volontà, si deve pensare che l'essere degli essenti non sia assoluto, innegabile, eterno, bensì provvisorio, temporale, contingente, non necessario»378. Rimane tuttavia il nodo teorico per il quale, venuta meno l'inconsapevolezza del mortale, cioè il riconoscimento da parte del mortale dell'identificazione di essere e nulla, sembra aprirsi, dalla prospettiva del mortale che sta entro il campo di gioco dell'Occidente, un nuovo tipo di prassi, una prassi che non si confronta più con un ente che, potendo diventare nulla, va annullato e plasmato mediante la prassi nichilistica; una nuova prassi, radicalmente altra rispetto al senso che Severino affida alla prassi nichilistica, in cui la prassi si confronta con ciò che è nulla in quanto lo guarda in faccia e lo intende scopertamente come tale. Una prassi, questa nuova nozione non nichilistica di prassi, che non vuole né nientificare gli enti, né entificare i non-enti. È, questa, una nozione di prassi messa in atto da chi, stando entro la scacchiera dell'Occidente, non può fare altro che riconoscere il nulla di tutte le cose, ed affermarlo (il nulla è nulla). Così facendo, stando entro il gioco giocato dai mortali, lo scardinerebbe da dentro, dato che andrebbe ad affermare l'identità del nulla con sé, e dunque – facendo la mossa uguale e contraria a quella della Struttura originaria – testimonierebbe la verità originaria dell'essere in quanto opposizione originaria alla propria negazione. E questo riconoscimento radicalmente anti-epistemico che la poesia afferma, scoprendo l'inconscio del nichilismo, non va più ad affermare il nulla per dire il nulla, per dominare metafisicamente il mondo o per rovesciare – in modo altrettanto dogmatico – l'ontologia nichilistica. Invece, cercando di andare oltre il simbolo, di andare oltre il linguaggio, cercando cioè di negare ogni dogmatismo (che sia quello del nichilismo o quello del destino) si può finalmente riconoscere che oziosa è tanto la mossa di chi risolutivamente dice che gli eterni 377 378

Cusano N., «Prassi» e «Nichilismo», in «La filosofia futura», 03 (2014), p. 40. Ivi, p. 42.

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non appaiono e che appare solo il divenire inteso come evidenza originaria, quanto quella di chi dice che gli eterni appaiono (la mossa che si pretende risolutiva non è oziosa in quanto tale, ma lo è in quanto è una mossa che pretende di avere un valore metalinguistico (filosofico), e non scientifico). Al di là del concetto che mutila e umilia, al di là dei simboli e delle categorie, la poesia si rivela essere la strada maestra che conduce al silenzio, che conduce al puro atteggiamento fenomenologico, che mette tra parentesi il mondo, e che lo mette tra parentesi non mediante il concetto, come cerca di fare la filosofia, ma che cerca di mettere tra parentesi il mondo facendo implodere, inevitabilmente da dentro, il linguaggio (il mondo). Se la scienza mediante il concetto vuole dominare il mondo, mettendolo in paradigmi determinati, per poi risolvere gli enigmi del mondo che si dà entro paradigmi determinati, la filosofia, intendendo da fuori questi paradigmi, cerca di metterli in crisi concettualmente. La poesia è quell'eccedenza rispetto al concetto che si propone di uscire dal concetto non concettualmente, che si propone di uscire dal simbolo non mediante il simbolo. In questo senso l'autentico poetare si risolverebbe in un silenzio del tutto privo di simboli. La critica al mondo operata dall'infrangersi della forma di una poesia379 è, in altri termini, una critica ben diversa – anche se ugualmente paradossale – a quella messa in atto in modo concettuale dal Tractatus logicophilophicus. Prendendo consapevolezza dell'incapacità – da parte del paradiso cristiano e del paradiso della tecnica – di dare la salvezza, il mortale non può che vivere (e tecnica è anzitutto ciò che permette l'azione, la vita) indicando l'impossibilità che il nulla sia, o viceversa. Il nichilista, prendendo coscienza dell'essenza del nichilismo (il nichilismo come cosa in sé), non può che rovesciare dialetticamente il nichilismo medesimo, senza tuttavia abbandonare il campo di gioco sul quale gioca (e tutto ciò, sia chiaro, non può che essere una forma di vita e quindi di prassi (nuova, radicalmente altra da quella basata sull'inconscio del nichilismo)): «se il nichilista non si fondasse su un tratto che gli è inconsapevole non sarebbe un “nichilista”, ma, ripetiamolo, un “essenzialista”»380. “Poetico” è esattamente il non discorso che il nichilista mostra, una volta che – stando dentro il nichilismo – intende il nichilismo come cosa in sé, e lo rovescia dialetticamente, senza peraltro abbandonarne i presupposti ontologici, senza cioè 379

Per fare solo due esempi molto noti (rispettivamente, Montale e Ungaretti): «Vieni qui, facciamo una poesia/che non sappia di nulla/e dica tutto lo stesso»; «Quando trovo/In questo mio silenzio/Una parola/Scavata è nella mia vita/Come un abisso». 380 Ibidem, corsivo mio.

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uscire dalla scacchiera sulla quale quei presupposti ontologici sono stati posti, nel modo in cui sono stati posti. Certo, la mossa che fa il più radicale tra i giocatori neri, ossia la mossa del giocatore nero che anticipa l'ultimo tratto di strada al quale la metafisica anti-epistemica è destinata (l'identificazione di essere e nulla), è apparentemente la mossa di chi fonda stirnerianamente la propria causa sul nulla. In realtà, però, se la mossa stirneriana è una mossa volta a liberare la prassi (nichilistica) dell'uomo, la mossa di chi si contenta della morte, rigettando l'orizzonte salvifico (tanto del Dio cristiano quanto del paradiso della tecnica), rigetta la forma nichilistica e alienante di prassi: rigetta la violenza. Come Stirner, Leopardi rifiuta poteri buoni e poteri cattivi, ma lo fa non per aprire la strada alla più ardita prassi trasformatrice (che è tale proprio nella misura in cui si fonda sul nulla), bensì Leopardi fonda la sua causa sul nulla tagliando la strada alla prassi nichilistica: come si può esercitare la prassi, se il nulla si identifica solo con se stesso? come fondare la prassi, se ciò che oscillando è disposto a subire l'azione, è venuto meno in quanto si è identificato con il nulla? Per Leopardi fondare la propria causa sul nulla significa aprire la strada ad una esistenza (e dunque, in qualche modo, ad una prassi, giacché prassi e vita si compenetrano di necessità e giacché il fiore del deserto, dilatando il suo profumo nell'aria, non può che vivere, agire) radicalmente nuova, una prassi radicale in quanto non più legata alla fede nell'oscillazione in ciò che, oscillando, soggiace alla prassi nichilistica. Questa prassi radicale è tuttavia, in Leopardi, una prassi radicalmente negativa, dato che disobbedisce sì all'«interpretazione originaria»381 per la quale l'ente è e non è, dunque è oggetto della volontà di potenza, ma non aderisce a quell'ordine dell'essere che solamente al di fuori della scacchiera dell'Occidente può essere visto. In ciò si discosta la mossa radicalmente positiva di Severino il quale, abbracciando la sua «ontologia anarchica»382, disobbedisce ai rapporti di forza che derivano dalla interpretazione nichilistica che l'Occidente – ed anzitutto la filosofia – ha dato al mondo, per abbracciare l'ordine necessario della verità. La distruzione della nozione nichilistica di “prassi” si dà con Leopardi entro la fede del nichilismo proprio in quanto in Leopardi si giunge al grado massimo di autocoscienza del nichilismo medesimo. Identificando essere e nulla, Leopardi oltrepassa il principio di non 381

Prefazione di Severino E. a Farotti F., Ex deo-ex nihilo. Sull'impossibilità di creare/annientare, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 1. 382 Cfr. Brianese G., L'ontologia anarchica di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», 03 (2014), pp. 9- 32.

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contraddizione, che va a costituire la struttura dell'ontologia nichilistica e dunque la struttura della prassi nichilistica: per Leopardi «il divenire è contraddizione, perché la stessa opposizione tra essere e nulla, la quale costituisce il divenire, implica necessariamente che il nulla appartenga all'essenza dell'essere, implica cioè la loro identificazione»383. E ciò determina il crollo del nichilismo stesso, dato che identificare essere e nulla significa 1) negare il passaggio dall'essere al nulla, cioè negare il divenire, cioè negare la condizione di possibilità della prassi nichilistica, e significa al contempo 2) negare quella condizione di possibilità del dominio – della prassi nichilistica – che sono gli eterni, che permettono di prevedere e dunque di dominare ciò che – il divenire – non sarebbe dominabile se non fosse prevedibile. Negando gli eterni e negando il divenire – cioè identificando essere e nulla –, Leopardi si trova nella paradossale situazione per la quale è impossibile negare gli eterni sul fondamento della distinzione – sancita dal principio di non contraddizione – di essere e nulla che permette di negare gli eterni: «il nichilismo si trova nell'impossibilità di escludere gli eterni della tradizione occidentale sul fondamento dell'opposizione tra essere e nulla, negata dalla affermazione della loro identità. O anche: nel nichilismo perfetto l'esclusione degli eterni dell'Occidente presuppone quella opposizione di essere e nulla che invece è negata dal riconoscimento che l'esistenza del divenire è l'esistenza dell'identità di essere e nulla»384. Per concludere, la prassi radicale può essere affermata da Leopardi solo entro il discorso nichilistico, nella misura in cui il discorso nichilistico di Leopardi si situa ai limiti del nichilismo medesimo, pur non riuscendo a rovesciare il tavolo di gioco sul quale il gioco del nichilismo viene giocato. Il nichilismo di Leopardi può porsi al limite del tavolo di gioco – può cioè proporre la prassi radicale rifiutando la prassi nichilistico-contraddittoria che ha dominato tutto l'Occidente – proprio in quanto, con Leopardi, il nichilismo, giungendo al massimo grado di autocoscienza raggiungibile entro le categorie del nichilismo, si pone come nichilismo perfetto; il nichilismo, ponendosi come “perfetto”, guardando cioè in faccia il proprio inconscio mediante le categorie del nichilismo, non può che determinare il crollo – il superamento dialettico – di quello stesso nichilismo dal ventre del quale sorge l'alienazione, data da quella prassi nichilistica che il nichilismo perfetto è in grado di togliere dai suoi orizzonti. 383 384

Severino E., Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi (1997), Milano, Rizzoli, 2010, p. 452. Ivi, pp. 450-451.

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«La stessa grandezza e potenza del pensiero di Leopardi provoca il crollo. Crolla, per la sua stessa grandezza e potenza, l'essenza dell'Occidente – l'essenza del nichilismo. Il suo crollo è l'impossibilità di essere ciò che intende essere» 385. Ed il resto della filosofia contemporanea, pur negando – come Leopardi nega – gli eterni, può ancora proporre quella prassi contraddittoria che Leopardi fa crollare, per il semplice fatto che, «Dopo Leopardi, la filosofia contemporanea si sviluppa restando sempre indietro rispetto al pensiero di Leopardi: tende a lasciare implicito sia che l'esistenza dell'eterno implica l'identità di essere e nulla; sia che l'opposizione di essere e nulla è il fondamento ultimo dell'esclusione di ogni eterno; sia, soprattutto, che il divenire è la contraddizione esistente, ossia è l'identità di essere e nulla»386. 3.3 Nichilismo e principio di non-contraddizione in Nietzsche Proprio in quanto il principio di non contraddizione è sviluppato dalla metafisica epistemica, che nasconde l'affermazione che sta alla base di questo principio (ossia la negazione dell'eternità di un esistente privilegiato), affermandolo, si può capire come ancora la metafisica anti-epistemica si muova nel solco delle acquisizioni logico-ontologiche di Platone ed Aristotele, e già eleatiche. Nietzsche, che riduce il mondo a mondo che diviene, e che riduce l'essere immutabile – altro rispetto al mondo diveniente – a nulla, nell'approfondire il significato della metafisica e scavalcando la metafisica epistemica, non si libera affatto dal principio di non contraddizione sviluppato dalla tradizione. Al contrario, Nietzsche se ne appropria, ponendo alla base della sua metafisica la «completa, assoluta, incondizionata, definitiva, incontrovertibile» «contrapposizione tra essere (mondo) e nulla»387; si può ben dire che «il modo in cui Nietzsche intende la contrapposizione di essere e nulla appartiene alla dimensione essenziale in cui il pensiero greco e poi la tradizione filosofica dell'Occidente sono consapevolmente accostati al principio di non contraddizione. […] Proprio perché pensa la contrapposizione di quegli opposti supremi che sono l'essere e il nulla, Nietzsche pensa la contrapposizione – cioè la non contraddizione – come tratto dell'essere in quanto essere e non semplicemente come contenuto di un principio logico; sì che verso la contrapposizione egli mantiene (come anche Heidegger rivela) lo stesso atteggiamento di Aristotele e innanzitutto di

385

Ivi, p. 447. Ivi, p. 450. 387 Severino E., L'anello del ritorno, cit., p. 142. 386

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Platone e di Parmenide»388. Seguire Aristotele significa per il Nietzsche di Severino seguire Hegel. Uno dei meriti del bel saggio di Emanuele Longo su Nietzsche e Gentile consiste proprio nell'avere testimoniato con serietà la linea di continuità che, a partire da Hegel, giunge fino a Nietzsche (oltre che a Gentile): «si deve dire che Nietzsche non è meno hegeliano di Gentile; così come, d'altra parte, Gentile, che nega l'epistemicità dell'idealismo di Hegel, non è meno anti-hegeliano di Nietzsche»389. «In quanto passaggio dall'essere al non essere (e viceversa), il divenire implica necessariamente il divenire di tutte le cose e in questa implicazione consiste il cuore dell'ontologia nietzschiano-gentiliana»390. Per questa ragione possiamo dire che in Nietzsche non si ravvisa più la necessità, ancora platonica 391, di ritrovare una alterità (rispetto al divenire) che fondi il divenire. Questa necessità presente in Platone viene bene espressa da Migliori: «Se le idee sono all'origine del divenire, non sono esse nel divenire, ma in questo stato intermedio»392. E tuttavia già in Platone, prima che in Aristotele e che in Hegel, si mira a tenere assieme, ma non contemporaneamente, ciò che è e ciò che non è («ἅμα ὄν τε καὶ μὴ ὄν»393). La possibilità di tenere assieme A e non-A deriva dal fatto che «è diverso il tempo in cui [l'individuo] partecipa e quello in cui non partecipa: solo in questo modo, infatti, può tanto partecipare quanto non partecipare della stessa cosa»394. Proprio in riferimento a questo passo, Berti ha da dire: «Qui è chiaramente enunciato il motivo per cui si evita la contraddizione: soltanto in tempi diversi una stessa cosa, cioè uno stesso soggetto, può partecipare e non partecipare della stessa cosa, cioè può avere o non avere lo stesso predicato. Sembra quasi di essere di fronte alla celebre formulazione del principio di non contraddizione, compiuta da Aristotele, nel libro IV della Metafisica»395. Questo mutamento (nel tempo) di stato, nel quale consiste il divenire, si dà però nell'istante (to exaiphnês), il quale «è qualcosa di stupefacente che si trova in mezzo tra il movimento e la 388

Ivi, p. 143, corsivo mio. Lago E., La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, Milano, Bompiani, 2005, p. 17. 390 Ivi, p. 16. 391 Cfr. Platone, Prmenide 155e-157b. 392 Migliori M., Dialettica e verità. Commentario storico-filosofico al 'Parmenide' di Platone, Milano, Vita e pensiero, 1990, p 299. 393 Platone, Repubblica V 478d. 394 Platone, Parmenide 155e. 395 Cfr. Berti E., Conseguenze inaccettabili e conseguenze accettabili delle ipotesi del 'Parmenide', in V. Vitiello (a cura di), Il 'Parmenide' di Platone, Atti del Convegno di Napoli (27-28 Ottobre 1988), Napoli, Guida, 1992, pp. 47-74. 389

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quiete, perché non è in nessun tempo» 396. Di nuovo, c'è da dire che, per Platone, a differenza che per Nietzsche, ciò che sta a fondamento del divenire e dunque della temporalità, ha da essere fuori dal tempo: «quando cambia di stato, [l'uno] non sarà in nessun tempo, non si muoverà e non sarà in quiete»397. Da ciò deriva l'affermazione del capitolo “Sulle isole beate” dello Zarathustra nietzschiano: «Io chiamo cattivo e ostile all'uomo [in quanto volontà tecnica e creatrice] tutto questo insegnare l'Uno e il Pieno e l'Immoto e il Satollo e l'Imperituro». Nietzsche si deve servire del principio di non contraddizione per affermare la necessità di ridurre la totalità dell'essere a divenire, poiché il principio di non contraddizione, in quanto affermante la contrapposizione di essere e nulla, «è la condizione dell'esistenza e dell'affermazione del divenire»398 a scapito dell'eterno, che pure è stato affermato dalla metafisica epistemica, ossia da un nichilismo che solo superficialmente sapeva guardare a sé, in accordo con tale principio. Affermare il principium firmissimum attraverso l'opposizione dell'essere immutabile al non-essere (inteso come essere diveniente), è ciò che porta la metafisica epistemica a negare quell'assunto (la partecipazione dell'ente all'eterno) che da lei deriva, per il fatto che tale principio – il principio di non contraddizione – è la legge del divenire, e solamente del divenire può essere la legge, dato che implica sempre l'altro dall'essere nella definizione dell'ente diveniente. La critica nietzschiana (così come quella hegeliana) al principio di non contraddizione non consiste in una presa di distanza da questo. Prendere le distanze dal principio di non contraddizione equivarrebbe a prendere le distanze dal divenire stesso. Lungi dal sovvertire il significato e la portata del principio di non contraddizione, Nietzsche lo vuole liberare dalle maglie soffocanti dell'eterno che, questo sì, lo nega inconsapevolmente. «Si tratta di comprendere che tale critica riguarda il “principio di non contraddizione” non in quanto contrapposizione di essere e nulla, cioè non in quanto affermazione della non contraddizione, ma in quanto “principio logico”, ossia in quanto condizione fondamentale del “mondo vero”»399, quest'ultimo costruito, dal pensiero metafisco-morale, in contrapposizione e al di sopra del mondo diveniente.

396

Platone, Parmenide 65e. Platone, Parmenide 156e. 398 Severino E., L'anello del ritorno, Milano, Adelphi, 1999, p. 143. 399 Ivi, p. 144. 397

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3.4 Metafisica, dialettica, idealismo e principio di non-contraddizione: la posizione di Adorno Se il principio di non contraddizione, come si è detto, vale anche per la metafisica antiepistemica, perché Adorno, nell'orizzonte della sua impresa di rifiuto della metafisica epistemica che è la sua filosofia intesa come dialettica negativa, afferma che il principio di non contraddizione – lungi dall'essere il fondamento della ontologia sviluppatasi lungo tutta la storia dell'Occidente – deve essere inteso come un «tabù» che si costituisce nel processo di formazione sociale dell'io (sviluppata in Dialettica dell'Illuminismo), e che s'impone all'uomo sociale affinché esso non debba ricadere nell'esistenza alienante del mito, intrascendibile se non mediante il gesto dispotico che la trascende e al contempo fa ricadere in una dimensione altra, ma comunque mitica, i soggetti che la trascendono?400 La risposta a questa domanda può essere sviluppata alla luce del rapporto che Adorno, in diverse ed importanti occasioni della sua vita, intrattiene con il pensiero di Husserl: Adorno mostra di accogliere le critiche che Husserl muove al relativismo psicologistico, senza però condividerne l'esito ultimo, che per Adorno consiste in una sorta di deriva solipsistica dominata dal pensiero logico inconciliato con (e dunque non dialetticamente costituito da) la dimensione sociale. Nonostante Adorno riconosca il fatto che Husserl distingue tra le leggi logiche in sé (per esempio, il principio di non contraddizione) e la comprensione che il soggetto empirico ha di esse (in un certo momento storico, entro un determinato contesto socio-politico ecc), e dunque nonostante Adorno riconosca che Husserl non ignori il momento empirico necessario per la costituzione dell'oggettività della legge logica 401, Adorno constata che Husserl, in ultima istanza, va a distinguere questi due momenti per poi isolare (e quindi assolutizzare) quello che realmente gli interessa, sbarazzandosi dell'altro, cioè del momento empirico, senza problematizzarlo. Pur non ricadendo in una prospettiva psicologistica, Adorno afferma con forza il fatto che «la purezza della validità logica è necessariamente compromessa con il fattuale» 402, ossia che 400

Per avere un'idea di ciò che s'intende con “costituzione dell'io” per Adorno, si legga il seguente passo: «Presto i maghi popolano ogni località di emanazioni, e coordinano, alla molteplicità dei domini sacrali, quella dei riti. […] Ma se il selvaggio nomade, nonostante ogni sottomissione, prendeva ancora parte all'incantesimo che la delimitava, e si travestiva nella selvaggina per sorprenderla, in epoche successive il commercio con gli spiriti e la sottomissione sono ripartite fra le classi diverse dell'umanità: il potere da una parte, l'obbedienza dall'altra» (Horkheimer M./Adorno T., Dialektik der Aufklärung (1966), trad. it. di R. Solmi, Dialettica dell'Illuminismo, Torino, Einaudi, 1997, pp. 28-29). 401 Cosa che Adorno aveva interiorizzato grazie al rapporto con il suo maestro neokantiano di scuola psicologistica Hans Cornelius. 402 Petrucciani S., Introduzione a Adorno (2007), Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 119.

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l'empirico rimanda al concetto e viceversa, senza che si possa mai risolvere questo intreccio di rimandi e mediazioni in un orizzonte pacificato. Nel dire ciò Adorno non cade nel relativismo psicologistico dal quale, con Husserl, prende le distanze, in quanto il Francofortese non afferma che senza un momento empirico e sociale dell'apprendimento della logica, la logica sarebbe invalidata, o diversa da quella che si dà entro ben determinate condizioni empiriche e sociali. Tutt'altro: Adorno sostiene che, al di fuori del momento empirico, parlare di logica risulta essere semplicemente una cosa del tutto oziosa in quanto la logica, senza il momento fattuale entro il quale giunge a maturazione, non sarebbe né valida né invalida, ma semplicemente il problema non si porrebbe: semplicemente «l'enigma non v'è», semplicemente «non ci sono segreti più grandi, perché appena rivelati appaiono piccoli. C'è solo un segreto vuoto. Un segreto che slitta»403, un segreto che ricorda quella password richiesta dal computer al personaggio del romanzo echiano: tale password può essere trovata solo nel momento in cui si confessa di non averla: «“Hai la parola d'ordine?” era la domanda. E la risposta, la chiave del sapere, era “no”. C'è qualcosa di vero, ed è che non solo la parola magica non c'è, ma neppure la sappiamo. Ma chi sappia ammetterlo può sapere qualcosa, almeno quello che ho potuto sapere io»404 (l'importante è però sempre tenere distinti i livelli: l'enigma non c'è, si autorisolve, fintantoché è narrato e non teorizzato – mostra sé –, e questo perché «di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrate»). L'indicibilità è tale in quanto non nasconde enigma alcuno. L'enigma, invece, si dà nel mondo che ci sta dinanzi agli occhi, e questo enigma è precisamente ciò che, per usare una terminologia platonica cara a Severino, riduce il mondo a ἔρις, a conflitto mai compiuto; ed è in questa contesa, in questo tratto essenziale dell'ente inteso come oscillante tra essere e nulla (termini della contesa), che il principio di non contraddizione viene ridotto a tabù: non negato, non relativizzato, bensì affermato nella drammaticità che esso comporta e che fa cadere nella privazione della parola, una drammaticità mai risolta nell'ambito, pienamente conforme alla essenza nichilistica che quel principio incarna, alla essenza della metafisica Di Wittgenstein pare che Adorno conoscesse «solo il Tractatus, rispetto al quale persiste in un radicale fraintendimento già delineato nella prolusione programmatica del 1931 su L'attualità della filosofia, dove il Tractatus è posto in continuità con il neopositivismo del 403 404

Eco U., Il Pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988, p. 492 Ivi, p. 493.

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Circolo di Vienna»405. Tralasciando il fatto che, con amarezza, risulta facile constatare come uno studioso così intelligente come fu Adorno possa avere frainteso il “primo Wittgenstein” fino al punto di dire che «“il compito della filosofia […] è esattamente l'opposto di quello che è postulato nel famoso detto con cui Wittgenstein conclude il suo Tractatus”; essa consiste nello “sforzo permanente e insieme disperato di dire ciò che, a rigore, non può essere detto. Chi non sopporta questo sforzo – conclude Adorno – farà bene a non occuparsi di questo precario mestiere”»406 (parole, queste, non certo condannabili nel loro contenuto, ma per il fraintendimento sulle quali si basano, fraintendimento che va ingiustamente a svilire la portata teorica del Tractatus il quale, si crede di poter affermare, sta nel solco del kantismo più lucido, cioè del kantismo espresso nel capitolo della prima Critica dedicato alla Distinzione tra fenomeni e noumeni). Senza soffermarci oltre su questo fraintendimento, è bene cercare di mettere in luce la portata teorica di alcuni aspetti della filosofia più propriamente speculativa di Adorno, ed è bene farlo partendo dalle affinità, da Adorno evidentemente non riconosciute come tali, dell'opera adorniana con un tema molto caro a Wittgenstein: il tema dell'idealismo. Queste riflessioni ci potranno permettere di fare alcune riflessioni importanti per capire l'essenza del nichilismo, da un lato, e il valore della poesia all'interno dell'Occidente, dall'altro. Come il Wittgenstein del Tractatus, anche Adorno pare aprire in alcuni punti alla tesi per la quale un idealismo radicale equivalga all'unica forma di realismo coerente, che la riduzione a uno del principio che regge la realtà possa essere rovesciata in tutti i modi possibili, senza tuttavia mutare il proprio aspetto: «il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro»407 poiché «l'Io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà ad esso coordinata»408. Severino, rifacendosi agli Studi sull'idealismo del suo maestro Bontadini, osserva che la «vena d'oro dell'idealismo consiste nel concepire la coscienza come manifestazione dell'essere, e quindi come “essere aperti” all'essere; sì che quel cattivo idealismo che vuole “chiudere” l'essere nella coscienza [un idealismo, questo, che è cattivo in quanto è un fenomenismo] deve rassegnarsi a trapassare in quello buono: “essere chiusi nella coscienza vale quanto essere chiusi nell'esser aperti”»409. A tal proposito vale la pena osservare 405

Introduzione a Adorno W.T.,Teoria estetica, cit., p. XII. Marconi D. (a cura di), Guida a Wittgenstein, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 321. 407 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., 5.64. 408 Ibidem. 409 Introduzione di Severino E., a Bontadini G., Studi sull'idealismo, Milano, Vita e Pensiero, 1995, p. XI. 406

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che è corretta la distinzione, operata da Sluga, tra il «realismo metafisico pluralista» del Tractatus e l'“idealismo” schopenhaueriano410, per il quale non conosciamo «né il sole né la terra, ma sempre e solo un occhio che vede un sole e una mano che sente una terra» 411; ma questa distinzione non comporta, come Sluga vorrebbe fare intendere, che Wittgenstein debba essere relegato nell'ambito dell'anti-idealismo (ossia nel realismo ingenuo), bensì comporta il fatto che Wittgenstein, proprio in quanto conscio della portata teorica dell'idealismo, si sia considerato tale sulla base della sua adesione al «rigoroso realismo». Ciò comporta il fatto che sia Schopenhauer a dovere essere escluso dal compiuto idealismo. La posizione del Tractatus è, sulla base di quanto detto nelle precedenti sezioni di questo lavoro, di matrice hegeliana, proprio in quanto considera l'idealismo come l'unico modo per salvaguardare il realismo dall'accusa di ingenuità: Wittgenstein «returned to Schopenhauer at a critical stage in the composition of the Tractatus, when he believed that he had reached a point where idealism and realism coincide»412. Alla luce di ciò si capisce anche il senso delle parole di Sini quando scrive che, al Wittgenstein del Tractatus, «Fichte e Hegel gli sarebbero stati utili (più di Kant, che è l'unico a conoscere vagamente)»413. Ridurre tutto a materia, osserva Adorno, significa ridurre tutto, in ultima istanza, a concetto, dato che la materia è un pensato, è un concetto: «l'idealismo e il materialismo sono prospettive entrambe simmetricamente insufficienti […] la dimensione spirituale è mediata da quella empirica e non può vantare pretese di assolutezza e di apriorità […] non c'è realtà o fattualità che non sia mediata dall'elaborazione concettuale […]. [Prosegue poi Adorno in un articolo su Husserl di sole tredici pagine, apparso nel 1940 sul «Journal of Philosophy»:] “the spere of the factual, and the spere of the thought are involved in such a way that any attempt to separate them altogether and to reduce the world to either of those principles is necessarily doomed to failure […]. Whoever tries to reduce the world to either the factual or the essence, comes in some a way or other into the position of Münchhausen, who tried to drag himself out of the swamp by his own pigtail”»414.

410

Per un sommario confronto tra la metafisica del Mondo come volontà e rappresentazione e quella del Tractatus cfr. Sluga H., Wittgenstein, trad. it. di G. Lando, Wittgenstein, Tornino, Einaudi, 2012, pp. 34-36. 411 Schopenhauer A., Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), a cura di S. Giametta, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Bompiani, 2006, p. 40. 412 Monk R., Wittgenstein. The duty of the genius, London, Vintage Books, 1991, p. 19. 413 Sini C., Scrivere il silenzio. Wittgenstein e il problema del linguaggio, Roma, Castelvecchi, p. 3. 414 Petrucciani S., Introduzione a Adorno, cit., p. 113.

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La mossa che ci induce a separare certezza e verità – uscendo dal monismo metafisico – ci impone di affrontare la scissione tra principî autonomi: compito della metafisica classica, di quella che Adorno chiama «filosofia prima», è stato proprio quello di cercare di «colmare il fosso», cioè di trovare un termine medio tra le due sfere, che già in Parmenide, osserva giustamente Adorno, vengono separate. Quest'opera di separazione, che già in Parmenide si dà nel solco di una prospettiva idealistica ingenua, perché egli riduce l'essere a pensiero ipostatizzando il pensiero a scapito della materia, viene riproposta da Platone, che persevera in una prospettiva idealistica di stampo parmenideo, riducendo la materia a nulla (e riproponendo, si direbbe, un iper-realismo inconsapevole, in quanto tutto sbilanciato verso un pensiero che non riconosce lo spazio del suo contrario, che è il suo identico). Un parziale punto di svolta, osserva Adorno, lo ritroviamo in Aristotele, il quale riconosce la non indipendenza della forma dalla materia, per quel che concerne le sostanze prime. E tuttavia, anche in Aristotele, giunti al vertice ontologico preso in considerazione dalla sua riflessione, giunti cioè a considerare il Primo mobile, si afferma il suo essere pura forma, indipendente dalla materia; si ritorna così ad affermare, platonicamente ed eleaticamente, la diversità dell'idea rispetto alla materia, e la priorità ontologica della prima sulla seconda: «Già il chorismos insegnato da Platone, di fronte alla aperta contraddizione degli Eleati, non ancora captata da alcun concetto, pensava assieme le due sfere, seppur nel loro stridente contrasto […] e la sua opera tarda, pari a tutta l'opera di Aristotele, tenta con tutte le sue forze di colmare il fosso»415. Adorno ha dunque il merito di mettere in evidenza i limiti di posizioni atte a non trarre le conseguenze autentiche dell'identificazione di certezza e verità, che dovrebbero sempre essere volte ad affermare l'inscindibilità di idealismo e realismo. Il ragionamento adorniano è, fin qui, corretto ma non certo innovativo: se «pensare significa identificare», non si può pensare di ridurre il pensiero a sterile identità chiusa in se stessa senza farla ricadere nel suo opposto, identificandola a questo suo opposto (identificare assolutamente – cioè esclusivamente – A con la sua negazione determinata, significa negarla assolutamente, e non costituirla sulla base della negazione determinata che la determina), ma non si può pensare nemmeno di tenere ferma la negazione determinata ponendo un primato dell'uno rispetto all'altro: «L'idea di Primo, come Adorno aveva chiarito in modo limpido già nella Metacritica della gnoseologia, rimanda per 415 Adorno

W.T., Zur Metakritik der Erkenntnistheorie (1956), trad. it. di A. Burger Cori, Sulla Metacritica della gnoseologia, Milano, Sugar, 1964, p. 21.

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definirsi a un secondo, a un derivato: ma allora il suo primato cade, perché il primo è ciò che per costituirsi ha bisogno d'altro, e quindi non è primo ma è al contrario esso stesso derivato»416. Husserl è probabilmente la lettura decisiva che porta Adorno ad affermare che «il qualcosa, in quanto sostrato mentalmente necessario del concetto, anche di quello di essere, è l'astrazione suprema dal materiale non identico al pensiero, che non è tuttavia eliminabile per mezzo di alcun ulteriore processo mentale; senza il qualcosa la logica formale è impensabile»417. Adorno però, dimentico delle pagine della Fenomenologia dello spirito attraverso le quali Hegel se la prende con tutti coloro che trascuravano l'importanza dell'esperienza, ricorda quel Feuerbach che rimproverava a Hegel, nei Principi di filosofia dell'avvenire, il fatto di vedere, tramite la sua dialettica «astratta», nell'altro, quell'altro dal pensiero che è pur sempre un pensato – che è altro dal pensiero: Ma io non dovrò mai la mia esistenza al pane linguistico o al pane logico – al pane in sé – ma sempre e solo a questo pane, al pane “inesprimibile”. L'essere che è fondato in tali e tante cose inesprimibili sarà esso stesso inesprimibile. È infatti l'ineffabile. Dove finisce la parola, comincia la vita, e il segreto dell'essere si dischiude. 418

Se nell'«idealismo perfetto» di Hegel il pensiero che «“accoglie l'altro da sé” – “l'altro dal pensiero” è comunque l'essere – è pensiero che oltrepassa i suoi limiti naturali» 419, Feuerbach recupera Kant, poiché «l'idealismo kantiano è ancora un idealismo limitato» 420; esso salvaguarda anti-hegelianamente ciò che è altro dal pensiero (l'estetico, l'alterità che viene perduta nella misura in cui viene categorizzata), inattingibile al concetto, e per questo indicibile ed impensabile. Viceversa, con Hegel «il pensiero pone l'essere in opposizione a sé, ma dentro sé, invalidando […] l'opposizione di un essere di fronte a sé; poiché l'essere, in quanto opposto al pensiero nel pensiero, non è altro che un pensiero a sua volta»421. Kant ha, in definitiva, il merito di salvaguardare l'essere formale, irriducibile al concetto, inteso come altro rispetto 416

Introduzione di S. Petrucciani a Adorno W.T., Negative Dialektik (1966), trad. it. di P. Lauro, a cura di S. Petrucciani, Dialettica Negativa, Torino, Einaudi, 2004, p. VX. 417 Adorno W.T., Dialettica Negativa, cit., p. 123, corsivo mio. 418 Feuerbach L., Princìpi della filosofia dell'avvenire, cit., p. 53. 419 Ibidem. 420 Ivi, p. 39. 421 Ivi, p. 48, corsivo mio.

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all'essere oggettivo: «che immensa differenza c'è tra il “questo” in quanto oggetto del pensiero astratto e il “questo” in quanto oggetto della realtà!»422. A tal proposito, in una nota, accusando Hegel di aristotelismo, Adorno dichiara che Hegel «nell'impostazione della Logica non può sopportare nemmeno la minima traccia di non identità, a cui la parola “qualcosa” esorta»423; accusa insomma Hegel, feuerbachianamente, di essere un aspirante dialettico, un dialettico mancato, quindi un aristotelico, e questa accusa mira anzitutto a sottolineare la portata teorica della dialettica che, contro Hegel, deve affermare la drammaticità che caratterizza «l'aconcettuale» smentendone l'immutabilità essenziale che provoca le vertigini, come già aveva messo in evidenza il giovane Adorno riflettendo sui rapporti tra l'idealismo e Kierkegaard424: «che l'immutabile sia verità, che il mosso e il caduco siano apparenza, che il temporaneo e le idee eterne siano reciprocamente indifferenti sono cose che non si possono più affermare»425. Proprio perché «il pensiero non dovrebbe essere spiegato a partire da sé, ma dal fattuale» 426, la dialettica non dovrebbe lasciarsi imbrigliare nell'«armatura del pensiero», per quanto non possa non considerare l'orizzonte soggettivo e soprattutto non possa trascendere le categorie logiche che impiega anche nel momento della rivolta contro esse. Per questo Adorno può dire che «la filosofia del soggetto assoluto, totale, è particolare»427, e al contempo che «in un certo senso la logica dialettica è più positivista del positivismo che la disprezza»428. Con ciò, non significa affatto che Adorno si fermi ad una posizione di tipo monistico. Egli, invece, ritiene che, preso atto delle conseguenze che una prospettiva monista comporta (cioè l'indifferentismo, il fatto che tutte le vacche sono nere), e preso atto che una posizione che separa idealismo e realismo, ipostatizzando l'uno piuttosto che l'altro, non può essere accettata (proprio per il fatto che questa mossa ci fa cadere, in ultima istanza, nella suddetta posizione monistica), preso atto di tutto ciò, Adorno può finalmente affermare che non ci si deve fermare a questo orizzonte rappacificato, e che ci si deve rivolgere, per capire la realtà, alla conflittualità che attraversa la realtà nella sua interezza. Una realtà dialettica, dove la mancanza

422

Ivi, p. 52. W.T., Dialettica Negativa, cit., p. 123. 424 Cfr. Petrucciani S., Introduzione a Adorno, cit., pp. 19-23. 425 Adorno W.T., Dialettica Negativa, cit., p. 325. 426 Ivi, p. 128. 427 Ivi, p. 129. 428 Ivi, p. 128. 423 Adorno

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annienta e assieme costituisce. E tale conflitto, a differenza di ciò che pensa la metafisica epistemica, cioè la «filosofia prima», non può risolversi nell'autosufficienza dell'idea in sé e per sé, che tutto prevede all'interno del suo orizzonte, stabile e compiuto. Tutt'altro! Bisognerà invece dire, sostiene Adorno in un celebre aforisma dei Minima Moralia atto a rovesciare il punto più caratteristico dell'hegelismo, che «Il tutto è il falso», prendendo così le distanze da quella concezione inerzialmente votata alla staticità imperturbabile di un orizzonte compiuto. La mediazione che va a costituire la negazione determinata non sarà nemmeno essa, osserva Adorno, da considerarsi come un principio immoto, principio entro il quale e a causa del quale tutto diviene ma che, proprio in quanto radice del divenire, si sottrae al divenire medesimo: «se tuttavia qualcuno volesse scoprire il principio originario proprio in un tale esser-mediati scambierebbe un concetto di relazione con un concetto di sostanza e rivendicherebbe come origine il flatus vocis. La mediazione non è un'asserzione positiva sull'Essere, bensì una direttiva data alla coscienza a non fermarsi a tale positività; e in sostanza l'esortazione a condurre avanti concretamente la dialettica»429. Was ist Metaphysik?, chiedeva Heidegger, e Adorno, nella Terminologia filosofica, risponde: «“La metafisica è appunto quel pensiero che non si accontenta dell'esperienza del dato, del fatto, ma che attribuisce invece un'importanza decisiva alla differenza tra fenomeno ed essenza”, e che quindi pone tematicamente il problema della ricerca della mediazione tra questi due momenti»430. Dato che Aristotele è stato il primo a cercare di mediare tra queste due eterogeneità, poste già da Parmenide e successivamente da Platone, bisognerà dire che proprio lo Stagirita è stato il primo autentico metafisico, e bisognerà inoltre dire, prosegue Adorno, che la metafisica consiste per l'appunto nel tentativo di fronteggiare «questa tensione» 431. Adorno però, ben conscio del «momento di immutato platonismo che si trova nella filosofia aristotelica»432, si rende conto che il tentativo di mediazione tentato dalla metafisica tradizionale (della quale Aristotele è iniziatore) non regge né su un piano epistemologico – in quanto non è possibile fare scienza su ciò che è anche commisto al divenire (cioè con una delle due alterità che la metafisica deve affrontare nella sua opera di mediazione) – né, soprattutto, questa opera di mediazione può reggere su un piano ontologico. In riferimento a quest'ultima 429 Adorno

W.T., Sulla metacritica della gnoseologia, cit., p. 32. Introduzione a Adorno W.T., Metaphysik. Begriff und Probleme (1998), a cura di S. Petrucciani, Metafisica. Concetto e problemi, Torino, Einaudi, 2006, p. xv. 431 Adorno W.T., Metafisica. Concetto e problemi, cit., p. 23. 432 Ivi, p. 83. 430

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questione, infatti, lo scacco è reso – ad avviso di Adorno – del tutto evidente dall'insolubilità della domanda: «come può il permanente non risentire del mutamento di ciò che sta in relazione con esso, e non trasformarsi a sua volta in un mutevole?»433. Lo scacco che così viene a crearsi in seno alla metafisica tradizionale consente ad Adorno di mostrare come l'assolutismo dogmatico e il relativismo nichilistico siano solo apparentemente antitetici, ma che in realtà s'identifichino, e questa osservazione gli permette di difendersi, in modo preventivo, dalla “facile” accusa di relativismo post-moderno che molti potrebbero muovere nei confronti della nuova metafisica che il Francofortese vuole proporre, per emendare la metafisica tradizionale dalle sue aporie: questa nuova «esperienza metafisica» è da considerarsi negativa non in quanto vuole privarsi di qualsivoglia verità (positiva), così da cadere nel più cieco relativismo. La posizione adorniana è infatti, come si vedrà, ben più sottile, anzitutto perché si fonda sulla esigenza non di opporsi alla metafisica, ma di riconoscere la necessità di affermare una metafisica che, depurata da qualsiasi dogmatismo, possa finalmente affermare quella che è la consapevolezza che appartiene a tutto l'Occidente, e che proprio nella metafisica adorniana si palesa con una chiarezza rara: la consapevolezza che «la verità […] ha un nucleo temporale»434. Il merito di Adorno non è tanto quello di avere messo in luce i problemi teorici che implica la metafisica tradizionale, ma è soprattutto il fatto che egli, a differenza di molti filosofi, compresi quelli a lui vicini, afferma la necessità di rimanere saldamente ancorato ad una riflessione eminentemente metafisica, cioè afferma la necessità di non abbandonare «la questione metafisica proprio nel momento in cui essa non può più venir affrontata nei modi che furono propri della tradizione dominante della metafisica occidentale» 435. La metafisica negativa oltrepassa lo scacco ontologico nel quale incappava la metafisica tradizionale, uno scacco ontologico che consisteva nel soffocare la fasulla mediazione tra i due assoluti di modo da ipostatizzare il polo della soggettività, e così facendo negare la dialettica stessa e la mediazione con la quale la metafisica si sarebbe dovuta identificare. Nel mettere in crisi ciò, la metafisica negativa si configura come autentica dialettica, per la quale omni determinatio est negatio. Ecco che la sua critica alla metafisica classica, che si svolge entro il terreno della metafisica, 433

Introduzione di S. Petrucciani a Adorno W.T., Metafisica. Concetto e problemi, cit., p. xv. W.T., Metafisica. Concetto e problemi, cit., p. 54. 435 Introduzione di S. Petrucciani a Adorno W.T., Metafisica. Concetto e problemi, cit., p. XIV. 434 Adorno

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fa ritornare forte e vivo il problema della mediazione, che aveva caratterizzato, ma in modo del tutto infondato, anche la metafisica tradizionale. L'autentica metafisica non può che essere dialettica (negativa), non può che ruotare attorno al problema della mediazione irrisolvibile, pena il venire meno della mediazione stessa, il venire meno della metafisica. La dialettica è, essenzialmente, mediazione, e si badi che tale mediazione non deve essere, a sua volta, ipostatizzata: la mediazione non è una cosa, e tanto meno si può identificarla con l'assoluto, con la legge pervasiva e statica che invece la prima philosophia andava cercando. Tale dialettica negativa consiste, aggiunge Adorno, in una mediazione asimmetrica tra i due poli: il soggetto e l'oggetto. Questa asimmetria è sbilanciata in favore dell'oggetto (e per questo si richiama, feuerbachianamente, alla cosa in sé kantiana come tentativo di emendare la dialettica hegeliana dal suo peculiare dogmatismo) in quanto, senza per questo far venire meno la necessità che l'un polo si costituisca sempre e soltanto attraverso la mediazione dell'altro, e viceversa, si deve dire che l'oggetto può non essere anche soggetto, anche se, per il fatto stesso di esistere come tale, deve essere sempre pensato da un soggetto che lo pensa e che pensandolo lo pone (non che l'oggetto senza un soggetto che lo pensa sarebbe non-oggetto, ma semplicemente la questione circa l'esistenza dell'oggetto sarebbe oziosa, senza che ci fosse un soggetto che se la pone); così, al Socrate platonico del Parmenide che avanza l'ipotesi che le forme non siano altro che “pensieri”, “concetti”, il Parmenide platonico replica: «“E allora? – domandò – Ciascuno dei pensieri è uno, ma è pensiero di nulla?” “Ma è impossibile”, rispose. “Allora è pensiero di qualcosa?” “Sì”. “Di qualcosa che è o che non è?” “Che è”» 436. Invece, non si darà mai il caso che il soggetto non sia anche oggetto, per un soggetto altro che lo considera. La dialettica negativa «non si accontenta della logica già coagulata dell'esclusività che dice: aut-aut»437. Nel momento in cui viene detto l'informe si finisce per dargli forma, nel discorso, e questo pericoloso paradosso vale sia per la discorsività filosofica, sia per l'arte. La metafisica individua in ciò che la limita (il linguaggio, le forme trascendentali atte a dare forma al mondo, che potrebbero già essere, a rigore, intese humianamente come delle ipostatizzazioni insostenibili) è un limite solo parzialmente impotente, un limite dalle pareti trasparenti, come le pareti di una serra, che permette alla filosofia, imprigionata nella «serra della nostra 436

Platone, Parmenide 132b. W.T., Metafisica. Concetto e problemi, cit., p. 82.

437 Adorno

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costituzione e del nostro linguaggio», di «pensare oltre se stessa, oltre questa limitazione e attraverso i vetri. E precisamente questo pensare oltre se stessa, verso l'aperto, proprio questo è metafisica»438. «Solo ciò che può essere deluso, che può essere falso, è quell'apertura di cui vi ho parlato», dice Adorno ai suoi studenti. «Nel concetto di apertura, come di ciò che non è già sussunto sotto l'identità del concetto, c'è quella possibilità dell'essere-deluso»439. Una apertura, questa, che si configura come una battaglia contro la morte. Fare metafisica significa tenere lo sguardo rivolto verso quest'apertura, scoprendola essere un abisso dal quale si potranno derivare fondamenti stabili, che consentano di sviluppare una ontologia o una prassi conchiuse: di qui l'elogio alla incomunicabilità isolante che deve caratterizzare l'intellettuale e la sua funzione critica, incomunicabilità che, come per ogni determinazione nel discorso adorniano, è destinata a rovesciarsi in ciò che la nega determinatamente, per potersi affermare, per quanto questa affermatività non sia capace di reggere il confronto con se stessa, imponendosi con risolutezza al di sopra del suo franare. Ma non per questo l'apertura, che mostra la vanità dell'azione, deve far cadere nel nulla. La metafisica si intende come critica, come lotta contro la morte, contro il nulla. È qui che sta l'acume di Adorno: questa apertura, questo non soccombere (quantomeno per un attimo ancora, dice il filosofo severiniano fattosi poeta in quanto giunto alla massima autocoscienza dell'Occidente, quell'autocoscienza che, imponendosi con forza, fa franare la prassi nichilisticamente intesa) a questa apertura, questo incessante lottare contro la «morte assoluta», è una spinta che deriva dalla coscienza dell'intrascendibilità che l'orizzonte contro il quale la metafisica combatte porta con sé, ma che non per questo, solo perché si pone come in definitiva intrascendibile, deve condurre lo spirito critico a rinunciare alla lotta. 3.5 Poesia come negazione della prassi: l'anti-estetica di Adorno e la comprensione dell'essenza del nichilismo La dialettica negativa è anche lo strumento mediante il quale Adorno riflette sull'arte. L'arte nel tempo della «completa peccaminosità», l'arte «dopo Auschwitz», non può che palesare un «enigma» che non ha risposta, ma che comunque si proietta in un mondo nuovo, altro dal mondo dato, e che per questo si deve porre, se non vuole finire schiacciata dalla reificazione 438 439

Ibidem. Ibidem.

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oppressiva imposta dalla «seconda natura», dall'«inferno reale» entro il quale si dà, come «protesta contro la morte», protesta però sempre, necessariamente inconciliata, protesta atta a recuperare un non-identico sempre escluso dagli orizzonti dell'esistente. L'arte si configura cioè come una promessa forse ingannevole, il cui valore critico-emancipativo che porta con sé non può che risultare inestirpabile, e che si costituisce su questo suo essere costantemente un irrisolto «nonostante». Se l'arte, dopo Auschwitz, risolvesse nella stabilità della forma – che pure non le è estranea – l'orrore che deve testimoniare, finirebbe paradossalmente per negare tale orrore nella riconciliazione che questa forma degenerata d'arte comporta, finirebbe così per non dare giustizia alle vittime, finendo per identificarsi con un puro trastullo adatto alle anime belle. Per queste ragioni non sarebbe più possibile poetare dopo Auschwitz, se non si potesse aprire, tramite l'arte, un altro orizzonte, tramite un formalismo che riflette su di sé, ricomponendo e dando così testimonianza della frattura in vista della enigmatica prospettiva rivolta verso una risoluzione futura. «Di fatto, se, come dice Adorno, dopo Auschwitz è impossibile fare poesia, a più forte ragione è difficile ammettere che l'arte possa sopravvivere in un mondo disingannato»440: è proprio nella speranza di un mondo non disingannato, speranza non risolta se non nella sua promessa, che un posto per la poesia, dopo Auschwitz, non solo è consentito, ma è addirittura necessario. Se è da riconoscere che «Auschwitz conferma il filosofema che la pura identità è la morte» 441, ciò non significa che la lotta contro la morte si debba costituire come resistenza che voglia andare oltre la non imposizione della resistenza (e si badi che tutto ciò non ha nulla a che vedere con l'esteriorità pacificata, o con la pacificazione dell'interiorità). Non c'è vita senza la lotta contro la morte, per quanto questa lotta non porti con sé nulla se non «quella promesse du bonheur che è connaturata all'impulso artistico»442. Quest'ultimo punto, sollevato da Adorno, non è per nulla banale. Egli infatti non nega la scissione, la lotta che attraversa l'esistente nichilisticamente inteso. Non rifiuta nulla di tutto ciò che è tematizzato dalla metafisica dell'Occidente così come è intesa da Severino. Adorno dice solamente che bisogna lottare contro la morte. Insistendo sulla lotta, e non sulla redenzione, tramite un «materialismo utopistico» che vede nel mancato risolvimento l'unica 440

Jimenez M., Adorno: art, idéologie et théorie de l'art (1973), trad. it. di R. Mangaroni, Adorno. Arte, ideologia e teoria dell'arte, Bologna, Cappelli, 1979, p. 67. 441 Adorno W.T., Dialettica Negativa, cit., p. 326. 442 Petrucciani S., Introduzione a Adorno, cit., p. 142.

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ragione della sua esistenza, Adorno focalizza la sua attenzione sull'aspetto sì salvifico dell'arte, ma non per questo prassistico-emancipativo. La poesia non costituisce il mondo, vichianamente. La poesia non rimanda concretamente, come l'etimologia invece vorrebbe, alla dimensione del “fare” nichilistico. La risoluzione dell'arte nella processualità sua propria non la orienta verso quella realtà della quale constata l'ingiustizia che porta con sé, cioè la morte. E tuttavia, questa sua mancata inclinazione verso la prassi, lungi dal tappare le ali al valore salvifico che l'arte così intesa porta con sé, ne è il motore. «Lo spirito è processo e dunque è l'opera d'arte»443. Da ciò si ricava che «l'opera d'arte si configura, in questa assunzione, più come un campo di forze, del quale di volta in volta si deve attivare una determinata polarità, che come una formazione quasi-organica nella sua individua realtà […]. La polarità genera tensione e quale “tensione tra gli elementi dell'opera d'arte” […] Adorno intende lo spirito che si manifesta nell'opera»444. L'arte si rinchiude nella forma, e ponendo in forma i materiali dà la testimonianza della processualità atta a porre rimedio all'informe. L'informe della forma è ciò che dà testimonianza delle fratture della realtà, senza connettersi direttamente alla realtà. Tali fratture non sono mai rimarginate del tutto, non offrono mai una riconciliazione positiva (non vanno a tematizzare intellettualmente il dato positivo), né artistica né tanto meno socio-ontologica. Il non-identico è sempre di nuovo appiattito sotto la logica identificatrice dell'Illuminismo regressivo, del mito, ma la mimesi che prende forma dall'arte, mostrandone le fratture, ci permette di confrontarci dialetticamente con tali fratture nella misura in cui sono porte davanti a noi, ci permette di emanciparci da esse, senza però sfuggire dall'orizzonte intrascendibile che queste fratture testimoniano. E, così facendo, l'arte fa parlare quel non-identico che la logica identitaria sempre e di nuovo appiattisce nel già noto della logica propria dell'Illuminismo regressivo. Adorno può ben dire, proprio nelle pagine iniziali di Teoria Estetica, che la felicità si trova al di là della prassi, perché questa tesi è la tesi decisiva, già esposta nella Filosofia della musica moderna, dove il Francofortese osservava che l'isolamento dell'arte mostra l'autentico «contenuto sociale» dell'arte. Adorno, nel comprendere il fatto che la monade sa presentare l'armonia (armonia che è in realtà una «dissonanza storicamente prodotta», ma comunque

443 Adorno 444

T., Teoria Estetica, cit., p. 119. Introduzione a Adorno T., Teoria Estetica, cit., p. xv.

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organica al tutto, solo non riappacificata con esso) dell'universo proprio in quanto astratta dal resto – priva di legami con il resto, e dunque priva di potenza trasformatrice verso il resto altro da sé – nel comprendere ciò Adorno comprende che le potenzialità emancipatrici dell'arte, della poesia, si danno attraverso la presa di coscienza della non essenzialità che compete alle presunte potenzialità trasformatrici dell'uomo, nei confronti di un mondo che a rigore risulta intrascendibile. L'arte, «χορίς dell'empiricamente esistente»445, è riflessione sulla forma, intesa nella sua monadica autonomia dal contenuto, che si apre al contenuto sociale proprio in virtù di questa chiusura, in quanto «appena si pone una barriera, con questa posizione la si supera già e si accoglie in sé ciò contro cui la si era eretta» 446. «Che le opere d'arte in quanto monadi senza finestre “rappresentino” quel che esse non sono», cioè rappresentino l'empiricamente esistente, deriva dal fatto che «la loro dinamica peculiare, la loro immanente storicità in quanto dialettica di natura e di dominazione della natura, non solo è della stessa essenza di quella esteriore, bensì in sé le assomiglia senza imitarla» 447. Paradossalmente l'arte, nel suo isolamento dal contenuto, «sta al proprio altro come un magnete a un campo di limatura di ferro» 448. La forma astratta, alla quale l'arte è ridotta, si costituisce solo in relazione al suo altro. L'opera d'arte, continua Adorno, «rinunciando all'empiria […] ne sostanzia il predominio» 449; è solo l'autonomia che le opere d'arte vantano dal contenuto materiale – mero veicolo di un contenuto dato ad un certo livello storico-sociale, che troverebbe espressione mediante la forma artistica – a fare delle opere d'arte delle «copie del vivente empirico» 450, a fare della forma un «contenuto sedimentato»451. «L'arte nega le determinazioni apposte categorialmente all'empiria e tuttavia serba nella propria sostanza l'empiricamente essente»452. L'arte, in quanto è mimesi del suo altro (la realtà) a partire dall'isolamento della forma di cui l'arte consta, trova nella forma l'essenza della realtà, comunica con essa tramite una comunicazione tanto salda in quanto si dà sotto la forma della 445 Adorno

T., Teoria Estetica, cit., p. 10. Ibidem. 447 Ivi, p. 9. 448 Ivi, p. 12. 449 Ivi, p. 4. 450 Ivi, p. 8. 451 Ibidem. 452 Ibidem. 446

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«non-comunicazione»453. E cosa trova, precisamente, la forma? Ciò che essa trova è il suo costante franare, che è il franare del reale: la forma mette in forma, riconcilia, proprio in quanto testimonia l'assenza di unità, di conciliazione, di auto-identità. Essa riesce a tenere assieme gli opposti dando loro compiutezza, ma ciò accade solo nell'attimo desinato a collassare immediatamente sotto il peso delle ineliminabili contraddizioni che porta dentro di sé. Le opere d'arte, in quanto riflessioni sulla forma, si articolano in una serie di riflessioni elitarie ed architettoniche tanto chiuse all'angusto orizzonte sociale che non le può tollerare nella loro vocazione a far parlare il non-identico, quanto criticamente aperte al loro altro essenzialmente votato all'attività oppressivo-identificante. Queste opere d'arte, proprio in virtù delle peculiarità a loro attribuite da Adorno, «mostrano sempre nuovi strati, invecchiano, si spengono e muoiono» 454, in una parola: divengono. L'arte non si pone al di sopra del tempo e dello spazio, ma essa, proprio in quanto artefatto che, chiudendosi in sé, riflettendo autenticamente sulla propria forma, in virtù della scissione della sua forma, si apre alla frattura della realtà empirica, cioè al suo altro, fa propria la legge di quell'altro al quale, isolandosi, si apre criticamente. Tale legge è la legge della morte, del divenire, del movimento: «L'arte si può chiarire solo facendo riferimento alla sua legge di movimento […] la sua legge di movimento è la sua propria legge formale. Essa sussiste solo nel rapporto con il proprio altro […] è assiomatico quel che il tardo Nietzsche è giunto a conoscere opponendosi alla filosofia tradizionale, ossia che anche il divenuto può essere vero. La concezione tradizionale che egli ha demolito andrebbe capovolta: la verità sussiste unicamente come divenuto»455. L'essenza del reale, che la forma trova nel suo proprio isolamento, consiste nella caducità del reale, nel suo franare irrimediabilmente, tanto che l'unica utopia, che si dà all'insegna dell'«ideale del nero»456, non può che unirsi alla «catastrofe totale […] come se essa volesse impedire la catastrofe per esorcismo con la sua immagine» 457. L'utopia non consiste nel riconoscere il senso in assenza di luce, non consiste nella speranza di poter realizzare l'incondizionato, in futuro, a partire dall'inconciliabilità del presente. L'utopia si dà invece, per 453

Ivi, p. 9. Ivi, p. 8. 455 Ivi, p. 6, corsivo mio. 456 Ivi, p. 54. 457 Ivi, pp. 45-46. 454

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Adorno, in Finale di partita di Beckett, dove la constatazione che «non possono sopravvivere nemmeno i sopravvissuti», la constatazione dell'irrimediabilità della frattura, del crollo dell'epistéme, è l'unica possibilità di recuperare il non-identico. L'unica possibilità di realizzare l'utopia sta nel riconoscere l'intrascendibilità del darsi del non utopico, del non ricomposto divenire. L'arte può recuperare il non-identico (per quanto tale recupero sia costantemente in balia del rovesciamento dialettico), giacché mettere in forma è sempre anche un dominare e ridurre a identico quel non-identico che, proprio attraverso la forma, e unicamente attraverso la forma, può essere recuperato contro la razionalità illuministica regressiva: Adorno vuole andare, a suo dire, contro il Tractatus, perché vuole dire ciò di cui si deve tacere, vuole cioè dare voce al silenzio, dare una sintassi al grido («contro Wittgenstein […] dire ciò che non può essere detto»458); ma nel fare ciò è destinato a fare violenza su ciò che vorrebbe togliere dalla violenza imposta dalla società amministrata (la società, a suo dire, del giudizio determinante della prima Critica), cioè a porre in categorie anguste proprio ciò che si proponeva di fare emergere, mediante quella forma di conoscenza complementare alla filosofia che è l'arte, al di là della razionalità identitaria: «L'arte vorrebbe realizzare con mezzi umani il parlare del non umano»459. La filosofia è per Adorno sempre mediata dal logos; non si deve cedere alle contraddittorie posizioni di chi, come Schopenhauer o Feuerbach, pensa di poter giungere ad una filosofia radicalmente intuizionistica e vitalistica. Il logos però, osserva Adorno, ha un versante indubbiamente regressivo: non fa parlare ciò che esclude, non può che fare violenza sull'informe, dandogli senso e forma; non può insomma che fare violenza sulle vittime. Facendosi utopica, nel senso ora descritto, cioè riconoscendo l'intrascendibilità del divenire, l'arte si fa essa stessa espressione del divenire, mimesi di esso, e non altro dal divenire. L'utopia non è entificata, ma è il piano liscio entro il quale gli enti si muovono. L'arte, chiusa all'altro da sé, fa risuonare utopisticamente l'intrascendibilità delle contraddizioni sociali, solo calandosi essa stessa nella frattura. L'arte non è qualcosa di eterno, ma è calata nel divenire delle cose, ed esprime la sua potenza artistica nella frazione di secondo che precede la sua ricaduta nel nulla.

458 Adorno 459 Adorno

W.T., Dialettica negativa, cit., p. 11. W.T., Teoria estetica, cit., p. 105.

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«Ogni opera d'arte è un attimo»460, un «fuoco d'artificio», è l'«arcobaleno» che sfugge al viandante nell'attimo stesso in cui gli si rende palese. Essa non è una cosa che può essere posseduta, non perché essa sia essenzialmente diversa dalle altre cose ma perché essa esaspera quella essenza che condivide con il resto degli enti. L'opera può avere per il singolo fruitore il significato che ha, solo nell'attimo della contemplazione, laddove ogni altro “dopo” è solo un impotente tentativo di recuperare quell'attimo perduto, quell'unico momento in cui l'arte è autenticamente tale, cioè precaria conciliazione di forma e fratture. L'opera d'arte, consumandosi nell'attimo, mostra di avere, come unico elemento caratteristico, quell'elemento che invece Benjamin avrebbe ingiustamente relegato nel passato dell'arte, aprendo ad una prospettiva infecondamente conciliatoria dell'arte: «l'hic et nunct dell'opera d'arte – la sua esistenza irripetibile nel luogo in cui si trova»461. Concludiamo riprendendo il filo del discorso, cioè mettendo a confronto queste riflessioni adorniane ora sviluppate con la nozione di “prassi” (e di “poesia”) così come è intesa dal discorso severiniano. Dopo Auschwitz viene meno la fiducia nelle potenzialità pratiche del poetare, del produrre e del manipolare gli enti, perché si presenta la necessità di intendere come mera utopia l'utopia atta a vincere la morte. Venuta meno quella dimensione, non viene però meno la poesia, se non quella poesia fintamente consolatoria, conciliatrice (che è la prassi nichilistica, intesa espressamente come poesia da Vico nella Scienza nuova), destinata a fare torto alle vittime, a non guardare in faccia il problema. La vera estetica per Adorno deve possedere «quell'aspetto anti-estetico che Kafka ha irrevocabilmente dischiuso»462, quell'aspetto anti-estetico che si configura in un mondo che non ha sopravvissuti, nemmeno tra i vivi, un mondo in cui il soggetto è venuto meno, ma non in nome di una identità ancestrale e armonica uomo-mondo, bensì in nome della desertificazione di un mondo che sottomette a una logica tanto ferrea quanto grottesca. Una logica che è una «seconda natura» (Lukács), una «preistoria» (Marx), che è insomma il mito, che nella sua burocratica lucidità presenta enigmi irrisolvibili, che gettano nell'impotenza e che rivelano la propria forza nel mostrare l'intrascendibilità della inazione alla quale essi vincolano e nella quale essi fanno sprofondare. «Ma con lo spirito, con quel momento di razionalità, l'arte è mediata perché produce, 460 Adorno

T., Teoria Estetica, cit., p. 10. Benjamin W., Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936), trad. it. Di Enrico Filippini, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2014, pp. 6-7. 462 Adorno T., Teoria Estetica, cit., p. 170. 461

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mimeticamente, i propri enigmi – così come lo spirito escogita enigmi –, pur senza possedere la soluzione»463. In un libro recentemente pubblicato è stato avanzato un confronto tra Adorno e Marcuse 464, volto a testimoniare esattamente il fatto che, se in Marcuse può essere ravvisato un tratto positivo nella sua filosofia negativa, positività in ultima istanza risolvibile unicamente nella prassi politica e trasformatrice, in Adorno questo aspetto prassistico-positivo viene meno. Quando Marcuse sostiene che «la mera negazione sarebbe astratta, “cattiva utopia”» 465, avrebbe come bersaglio polemico proprio la dialettica negativa adorniana la quale, portando alle estreme conseguenze quel nichilismo del quale così bene Adorno (a differenza del collega Francofortese) aveva capito le dinamiche, smaschera il carattere non tecnico della salvezza e quindi porta alla luce il carattere autentico della poesia. «Tanto Marcuse che Adorno pensano l'arte in rapporto ad una realtà cattiva, in un'azione che è per l'uno di trasfigurazione, per l'altro di testimonianza» 466. Solo nella testimonianza della intrascendibilità di ciò che l'ontologia greca comporta è possibile la salvezza non tecnica della poesia, unica vera azione radicale interna al discorso nichilistico (questa “prassi radicale” per Severino, invece, non è da intendere come «un prodotto teorico dell'uomo o di Dio, ma [come una non-prassi, come] il luogo già da sempre aperto della Necessità» 467, cioè come azione radicalmente altra rispetto alla azione che guida la volontà di potenza dell'Occidente, che trascende le categorie del nichilismo, ponendosi al di là della scacchiera sulla quale la scacchiera del nichilismo viene giocata). Adorno vede a ragione nella forma poetica dopo Auschwitz l'affermazione della dialettica negativa che percorre il reale, e la sua perspicacia, che lo fa giungere alle estreme conseguenze che derivano dal fatto di guardare in faccia il mondo, lo porta a cantare lo stesso canto della ginestra che, contenta dei deserti, attesta l'autenticità del canto poetico da dentro la scacchiera del nichilismo. Questa mossa adorniana, giungendo al culmine dell'autocoscienza del nichilismo, ed affermando la possibilità della salvezza all'interno del nichilismo, non può che 463

Ivi, pp. 170-171. Cfr. D'Anna V., Herbert Marcuse. Il positivo nella filosofia negativa, Milano, Mimesis, 2017, pp. 115-129. 465 Marcuse H., Die Permanenz der Kunst: Wider eine bestimmte marxistische Ästhetik (1977), a cura di P. Perticari, La dimensione estetica. Un'educazione politica tra rivolta e trascendenza, Milano, Guerini ed associati, p. 50. 466 D'Anna V., Herbert Marcuse. Il positivo nella filosofia negativa, cit., p. 127. 467 Severino E., La struttura originaria, cit., p. 13. 464

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porsi nei termini di una dialettica (e di una teologia) negativa. Severino invece, aprendo la strada ad una salvezza che si afferma oltrepassando il divenire, intende in termini non dialettico-negativi, bensì risolutivi, il discorso filosofico volto a tematizzare la possibilità della salvezza. Ma il rifiuto severiniano della dialettica, a mio avviso, non può che imporsi fraintendendo e negando la vocazione metalinguistica del filosofare. Proprio in quanto la filosofia non è scienza (non è un linguaggio-oggetto, non parla del mondo), le sue proposizioni sono insensate, non possono essere verificate o falsificate mediante l'esperienza; l'impossibilità di una verificazione/falsificazione delle proposizioni filosofiche – la loro insensatezza – non può che condurre la filosofia ad una aporia irrisolvibile, che può trovare espressione solo mostrando sé, rinunciando alla parola che tuttavia, paradossalmente, la muove.468

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Questa tematica verrà ripresa e maggiormente sviluppata nel §4 della Conclusione di questo lavoro, intitolato non a caso Contro Severino.

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Capitolo secondo Poesia come filosofia

La poesia si è ritirata in ciò che si abbandona senza riserve al processo della disillusione che consuma il concetto di poetico; ciò costituisce l'irresistibilità dell'opera di Beckett. Theodor W. Adorno, Teoria estetica Ma dobbiamo subito chiederci qui: la poesia non ha proprio nulla a che vedere con la lotta contro il dolore e la morte? Emanuele Severino, La potenza dell'errare

§1 Eritis sicut dii 1.1 Mangiare Dio La fede dell'Occidente lo ha portato ad individuare la salvezza nella potenza, potenza fondata, circolarmente, sulla stessa fede dell'Occidente, che è la fede nell'esser niente dell'ente, ossia nel divenir altro, nel tempo, da parte dell'ente. Come ogni ente, anche quell'ente che è l'uomo ha il potere di diventare altro da sé o, meglio, di diventare un altro più potente di ciò che era prima. Questo incremento di potenza consiste nel poter creare la realtà, nel poterla dominare, nel poter disporre della realtà a proprio piacimento, traendola dal nulla e gettandola, a proprio piacimento, nel nulla da cui proviene. La massima potenza è, per la tradizione, la massima potenza di quell'assolutamente altro dall'uomo che è Dio. Nell'illusione entro la quale è calata la tradizione, l'uomo deve allearsi con Dio, per incrementare la sua potenza; viceversa, la contemporaneità, portando a coerenza l'illusione della tradizione, mostra la necessità del fatto che Dio vada abbattuto da quell'assolutamente altro da Dio che è l'uomo e che, abbattendo Dio, si mette al posto di Dio stesso. Morto Dio, l'uomo si mette al suo posto. Non c'è spazio per alcuna alleanza tra l'uomo e Dio; la morte di Dio è resa necessaria dalla volontà di potenza implicata tacitamente già dalla tradizione grecocristiana, che non aveva ancora tratto le estreme conseguenze dalle premesse dalla quali partiva: che cioè il rimedio (Dio) è peggiore del male (l'annichilimento dell'ente). La stessa teologia della liberazione – uno degli ultimi sviluppi del pensiero teologico novecentesco, debitore della riflessione marxista, in particolare di Ernst Bloch – andando ad intendere il Dio 183

biblico non come una realtà immutabile, ma come «l'alleato dell'uomo all'interno del divenire e delle peripezie del mondo»1, «rispecchia in sé in modo tipico il tramonto delle categorie definitive della metafisica e dell'epistéme»2. La tradizione vede, nell'alleanza con Dio, il mezzo attraverso il quale farsi Dio, attraverso il quale acquistare i poteri di Dio, che sono i poteri di creare dal nulla gli enti e di far tornare gli enti nel nulla. Già nel profondo della tradizione cristiana si tenta di realizzare quell'obiettivo che solo la civiltà della tecnica espliciterà: diventare quel «totalmente altro» che è la massima potenza, e dunque annientarlo, mangiarlo, sostituendosi ad esso: Adamo pecca perché vuol diventare Dio. Eritis sicut dii, dice il serpente a lui e alla sua compagna. “Sarete come dèi”. Non è vero che morirete se avrete mangiato il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Morirete se rimarrete quello che siete. Il giardino di delizie è in realtà una Barriera. Dio la sorveglia. È lui stesso la Barriera. Ma non riesce a impedire che Adamo la penetri. Lo caccia però dal paradiso terrestre e si rende invisibile all'uomo. La Barriera si ritira e si ricompone ben più al di là dell'orizzonte che gli occhi di Adamo riescono a raggiungere.3

In Essenza del Nichilismo Severino, dopo avere definito la τέχνη come «l'insieme delle attività con le quali l'uomo va liberandosi dal dolore e dal limite», e la scienza come «il più potente strumento di cui oggi dispone la τέχνη»4, osserva come proprio la «metafisica classica, che ancora mantiene l'idea di un “essere immutabile”» – vale a dire la metafisica epistemica, e quindi anche e soprattutto la metafisica cristiana (essendo la metafisica cristiana, come si è vesto nel primo capitolo, la massima coerentizzazione della metafisica greca, prima dello spostamento dell'attenzione da parte della metafisica stessa verso problemi quasi esclusivamente gnoseologici) – «è la maggiore responsabile dell'eclissi della verità dell'essere, e la τέχνη è il parto naturale della metafisica», vale a dire che la metafisica classica «non è che il primo e decisivo passo verso la τέχνη e quindi è l'errore stesso alla sua radice e in tutta la sua grandezza»5. 1

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 419. Ivi, p. 408. 3 Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 47. 4 Severino E., Essenza del Nichilismo, cit., p. 135. 5 Ivi, p. 136. 2

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Nella tradizione l'esigenza di incrementare la propria potenza è già presente, ma convive con la tesi per la quale Dio è il limite invalicabile, che non può essere travolto dall'azione umana. Per la metafisica epistemica mangiare Dio è peccato, ma si può fare. Adamo lo fa, e con lui l'Ulisse dantesco. Essi vengono sì puniti a causa del loro peccato, che consiste nell'avere superato il limite posto da Dio, ma questa loro punizione non è preventiva, non precede il loro peccato. Essi vengono puniti in quanto hanno peccato, cioè vengono puniti a causa del successo che la loro impresa ha costituito. La punizione, in queste due narrazioni, è così la testimonianza del permanere della questione che la tradizione non sa accettare, rimanendo tradizione, ossia il suo inconscio nichilistico. «Mangiando la mela – cioè la conoscenza che Dio voleva tenere per sé – Adamo mangia Dio»6. Per il Cristianesimo è Dio a dare la potenza all'uomo, mentre l'uomo non può, di sua iniziativa, strapparla a Dio, in quanto fare ciò significherebbe smembrare Dio, smembrare ciò che, per la tradizione, non è smembrabile e che, proprio a causa della sua inviolabilità, non permetterebbe quella vita che tuttavia il Cristianesimo non solo non nega, ma riconosce in tutta la sua drammaticità. Per dirla in termini danteschi: la gloria divina incarna il «pome» del quale il melo-Gesù dà un assaggio, attraverso un atto d'amore che viene da lui e da lui soltanto può venire, ai suoi discepoli, sul monte Tabor: «Quali a veder de' fioretti del melo/che del suo pome li angeli fa ghiotti/e perpetüe nozze fa nel cielo»7. Possiamo quindi affermare che il senso del peccato, all'interno della tradizione cristiana, è il frutto della conflittualità interna al Cristianesimo, e precisamente tra la sua essenza nichilistica, il suo essere costantemente volto all'orizzonte della tecnica e della volontà di potenza che la tecnica implica, la smania di dominio implicita nel discorso che la tradizione va avanzando, e la umiltà alla quale presume di indirizzare i fedeli i quali, volendo essere “come Dio”, cercano di emulare il peccato di Adamo: «Volendo essere “come Dio” Adamo vuole uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo rende “come Dio” Adamo mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l'uomo si senta colpevole, in debito. Il bisogno di vivere diventa bisogno di espiazione»8. Peccando, Adamo è come Dio: l'uomo pecca perché Dio stesso ha peccato. Le condizioni che rendono possibile il peccato dell'uomo sono dunque riscontrabili nel

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Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 49. D., Purg. XXII, 73-5. 8 Severino E., La potenza dell'errare. Sulla storia dell'Occidente (2013), Milano, Rizzoli, 2014, p. 95. 7 Alighieri

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fatto che «a Dio e all'uomo è accumunato uno sfondo ontologico che li soggioga entrambi»9: Ma anche Dio è un voler diventare altro. A sua volta, infatti, anche il Dio veterotestamentario (e ciò accade anche in ogni altra forma del divino) vuole produrre «il cielo e la terra», vuol diventare il produttore del mondo. […] Il peccato compiuto dall'uomo è il peccato stesso compiuto da Dio, ossia è la fede nell'esistenza del diventar altro e, sul fondamento di questa fede, è la volontà di far diventar altro le cose.10

Adamo, nell'atto di uccidere Dio, commettendo cioè il peccato, «ha già un'anima tecnica» 11, e quindi realizza l'essenza profonda non solo del Cristianesimo, ma di tutto l'Occidente, dato che l'intero Occidente si trova nel Sentiero della Notte (a differenza di Severino, ritengo tuttavia che, al culmine dell'autocoscienza occidentale, l'Occidente sappia uscire dallo stato di alienazione in cui versa, senza dovere uscire da sé). Tale essenza profonda dell'Occidente (l'essenza del nichilismo) è possibile scorgerla in altri luoghi determinanti della cristianità. Oltre a questo, particolarmente importante, di Adamo, si pensi alla redenzione operata da Cristo, che consiste in un altro smembramento di Dio, sulla croce, quello stesso Dio che si smembra nell'atto della creazione del mondo: il libro Genesi sottolineerà ciò introducendo la necessità del suo riposo, al settimo giorno. 1.2 Nichilismo e Cristianesimo: l'Adamo dantesco Adamo, il «padre antico» protagonista del canto XXVI del Paradiso, fa la sua comparsa in diversi luoghi della Commedia. Egli è «l'origine stessa della storia dell'uomo, che uscì perfetto dalle mani di Dio e poi per sua colpa decadde, e visse lunghi anni di dolore in attesa della redenzione»12. A partire da lui, sino al sacrificio di Cristo, si dà l'esilio dell'uomo, di tutti gli uomini (il «nostra» del primo verso del poema dantesco, per intenderci), dall'«alto fattore». E tra tutti gli uomini, egli solo, Adamo, lo visse tutto, quell'esilio, dal primo giorno fino a quando, estratto dal Limbo, non venne, per grazia, salvato dall'«etterno dolore» a cui è condannato, per l'appunto, il «mal seme d'Adamo». Dante ci dice che «la propria cagion del 9

Mauceri L., La hybris originaria. Massimo Cacciari ed Emanuele Severino, cit., p. 15. Severino E., La morte e la terra, Milano, Adelphi, 2011, p. 156, corsivo mio. 11 Severino E., La potenza dell'errare. Sulla storia dell'Occidente, cit., p. 96. 12 Introduzione di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso (2001), a cura di A.M. Chiavacci Leonardi, Bologna, Zanichelli, 2016, p. 462. 10

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gran disdegno»13, ossia la vera causa dell'ira divina che comportò la cacciata di Adamo dall'Eden, non è il fatto di avere mangiato il frutto proibito, ma di aver trapassato il «segno» che quel frutto incarnava: «Or, figliuol mio, non il gustar del legno/fu di per sé la cagion di tanto essilio,/ma solamente il trapassar del segno» 14; ed ugualmente Eva (per non parlare di Ulisse15), da Dante accusata nel Purgatorio al posto del suo compagno (l'«alta selva» dell'Eden è infatti «vòta» per «colpa di quella ch'al serpente crese» 16), «non sofferse di star sotto alcun velo [= limite]»17: «Adamo e la sua compagna danno ascolto al serpente: se mangeranno il frutto proibito, diventeranno “come dèi” (eritis sicut dii), si lasceranno indietro nel modo più radicale la loro natura umana, i limiti a cui essa li costringe e soprattutto il pericolo della morte»18. Di qui il disdegno – il «gran dispitto»19 – di Dio, tanto poco confacente ai cristiani che, a causa di quel sentimento, sono stati relegati al di fuori della salvezza 20, quanto appropriato se riferito a colui che pone e incarna il limite, il «segno», che la tradizione pone come inviolabile. È quasi superfluo osservare come molti dantisti, a partire da Auerbach, abbiano visto una netta analogia tra questo comportamento pratico-teoretico di Adamo (e di Eva, che nella Commedia viene accusata con maggiore severità rispetto ad Adamo, per il crimine commesso) e quello dell'Ulisse dantesco: Non fu l'assaggiare il frutto proibito in sé, ma l'aver oltrepassato i limiti, l'aver aspirato al di là del proprio destino, il peccato originale che Eva commise: cielo e terra ubbidivano, solo una donna, che era stata appena creata, non sopportò di restare entro l'ambito che le toccava. Di tutte le cose terrene create, l'uomo era la più perfetta: aveva l'immortalità, la libertà e la somiglianza con Dio, ma il peccato e la caduta lo privarono del frutto di questi doni, lo precipitarono tanto più in basso quanto più in alto egli era prima.21 13 Alighieri

D., Par. XXVI, 113. D., Par. XXVI, 115-7. 15 Cfr. Alighieri D., Inf. XXVI, 108-9. 16 Alighieri D., Purg. XXXII, 31-2. 17 Alighieri D., Purg. XXIX, 27. 18 Severino E., Nascere, cit., p. 9. 19 Alighieri D., Inf. X, 36. Si obietterà che il «gran dispitto» è attribuito in questo canto al magnanimo Farinata e non certo a Dio, e tuttavia si cercherà di dimostrare come la volontà di potenza che domina i magnanimi dell'Inferno non sia poi diversa da quella che domina Dio. 20 Questo tema della magnanimità verrà ampiamente sviluppato nel capitolo terzo. 21 Auerbach E., Dante als dichter der irdishen welt (1929), trad. it. di M.L. De Pieri Bonino, in Studi su Dante (1963), Milano, Feltrinelli, 2017, p. 111. 14 Alighieri

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I riferimenti ad Adamo nella Commedia non si concludono però qui: alla sommità del monte Purgatorio, nel giardino dell'Eden, incontriamo infatti la pianta per mezzo della quale si dette il peccato originale. Questa è, nella scenografia carica di simbolismi che Dante propone in conclusione della seconda cantica, «dispogliata/di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo» 22; ma dopo che il grifone-Cristo, contrariamente a quanto fece Adamo, lega all'albero il timone del carro-Chiesa (fuori dal simbolismo: una volta che Cristo si sacrificò, mostrando la massima obbedienza al Padre, salvando l'umanità che da quel Padre, a causa del peccato di Adamo, si era ritrovata separata), l'albero rifiorisce, ed i suoi fiori rosso-viola ricordano il sangue che Cristo ha versato per porre rimedio alla superbia, all'ingiustificato «dispitto» di Adamo. Quella umanità che ha voluto distruggere la Barriera ora necessita del soccorso di quella stessa Barriera che, fattasi uomo, infonde nuova potenza all'umanità peccatrice. Da un lato la tradizione vede, come si è detto, la necessità che Dio si disgreghi, affinché l'uomo possa prendere potenza, ma dall'altra non sa scorgere la contraddittorietà della presenza della Barriera che la tradizione, calata in una illusione che non è intesa come tale, non sa intendere nella sua contraddittorietà. «Sì si conserva il seme d'ogne giusto»23, dice l'«animal binato» simboleggiante la figura di Cristo, intendendo il fatto che senza l'obbedienza alla Legge del Padre, non può darsi la potenza che deriva dall'alleanza con Dio, potenza che, per essenza, vuole squarciare il limite, andando contro a qualsivoglia Legge inviolabile che pretenderebbe di essere il principio, il punto di origine, della potenza stessa. Tale Legge, tale giustizia divina, che si ritrova smembrata e violata nel momento stesso in cui assolve il suo compito, ponendosi come inviolabile, è simboleggiata dallo stesso albero della scienza del bene e del male, i cui frutti sono proibiti ad Adamo, sono cioè il limite alla potenza di Adamo, che può essere immortale (e certo l'immortalità è una potenza, per quanto egli sappia di non essere immortale, e la sua disubbidienza a Dio deriva da questa sua consapevolezza, che è la consapevolezza dell'Occidente intero), e quindi reso potente, proprio in virtù della rinuncia alla sua potenza sui frutti dell'albero della scienza: «per tante circostanze solamente/la giustizia di Dio, ne l'interdetto,/conosceresti a l'arbor moralmente»24. Violato quel Limite posto da Dio a vincolare il potere dell'uomo, l'albero si ritrova 22 Alighieri

D., Purg. XXXII, 38-9. D., Purg. XXII, 48. 24 Alighieri D., Purg. XXXIII, 70-2. 23 Alighieri

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palesemente menomato, spoglio, e il deserto di quel luogo è il frutto del peccato che ha menomato l'albero. Il punto importante è, qui, che l'Eden è vuoto, l'albero è menomato, in quanto la Legge può essere violata, in quanto le colonne d'Ercole possono essere oltrepassate. La Barriera inviolabile è in realtà riconosciuta in tutta la sua vulnerabilità dallo stesso pensiero cristiano il quale, nel suo inconscio, dice: «Se l'uomo riesce ad uccidere Dio, perché non avrebbe dovuto ucciderlo?»25. Dante inconsciamente sa – in quanto cristiano – che il limite non è reale, per via della sua contraddittorietà, che ne decreta l'impotenza. Le Leggi divine possono essere violate. Questo il contenuto (non esplicitato) del canto di Dante, canto che è l'espressione della coscienza cristiana: il Cristianesimo in Dante si dimostra all'altezza della comprensione di ciò che non sa ancora meditare con lucidità. L'inconscio del Cristianesimo trapela per esempio all'inizio del Purgatorio per bocca di Catone («Son le leggi d'abisso così rotte?»26), e alla fine della medesima cantica («Qualunque ruba quella o quella schianta/con bestemmia di fatto offende a Dio,/che solo a l'uso suo la creò santa» 27). Vale a dire che andare contro le leggi divine è peccato, ma si può fare. Il peccato è tanto più grave, la «venuta» è tanto più «folle», in quanto la riuscita di quella impresa che causa il peccato è plausibile (in ultima istanza, dal punto di vista cristiano, è auspicabile), in quanto quel «legno» non è destinato ad incagliarsi prima di fare naufragio in acque ignote. Certo, la punizione, la cacciata dall'Eden, il naufragio, rimane una minaccia concreta, ed è concreta proprio in quanto può passare dalla potenza all'atto, in conseguenza del compimento del peccato che risulta coincidere con la liberazione (per l'uomo) e il fine stesso (la fine stessa) dell'alleanza tra Dio e l'uomo. Se l'uomo non potesse mangiare Dio, la punizione non arriverebbe, e la minaccia di Dio non sarebbe affatto concreta. La possibile realizzazione di questo atto blasfemo significa la distruzione del muro di pietra, dell'unico ostacolo al libero divenire delle cose, l'unico ostacolo a quella potenza che il divenire può controllare e trasformare infinitamente. Tale infinita possibilità di plasmare gli enti è giustificata dalla tematizzazione della infinita distanza sussistente tra i due estremi (l'essere e il nulla) in mezzo ai quali oscilla l'ente così come è inteso dall'Occidente (è questa l'ontologia del non-ancora tematizzata da Bloch, sulla quale non a caso si svilupperà la teologia della speranza). Tolto questo ostacolo che è la Barriera, tutto può essere oggetto della potenza 25

Severino E., La filosofia futura, cit., p. 308. D., Purg. I, 46. 27 Alighieri D., Purg. XXXIII, 58-60. 26 Alighieri

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dell'abitatore dell'occidente. Tolta la Barriera, la potenza dell'uomo non vede più limiti, ma vede solo gli sterminati orizzonti sotto ai quali, una volta oltrepassato il «culmine della parabola», la tecnica dovrà perire. E non è un caso che uno dei luoghi paradigmatici per intendere la concezione del divenire della Commedia sia proprio il canto dedicato ad Adamo, il canto dedicato al personaggio biblico che nel modo più esplicito mette a nudo la precarietà di tale Barriera, che il Cristianesimo intende fin dal principio, anche se solo nel Novecento riuscirà a trovare la forza per guardare in faccia il suo inconscio, per fare la mossa teologica decisiva, mirante a sviluppare una teologia anti-epistemica. Le lingue – dice in Paradiso XVI Adamo – come tutte le cose prodotte dall'uomo (si osservi che ciò viene detto da colui che ha prodotto l'allontanamento di Dio dall'umanità, dopo avere mostrato come lo stesso limite inviolabile sia agito, posto e allontanato dall'azione (peccaminosa) dell'uomo) siano soggette alla decadenza che, in quanto tale, porta all'annullamento; annullamento che si dà nel tempo, come bene esemplifica il riferimento al cielo associato al passare del tempo. Il divenire è ciò che ci annulla, ma è anche ciò a cui sono soggette tutte le altre cose che, annullandosi, possono essere dominate da noi: «ché nullo effetto mai razïonabile,/per lo piacere uman che rinovella/seguendo il cielo, sempre fu durabile»28; e poi ancora, pochi versi sotto: «ché l'uso d'i mortal è come fronda/in ramo, che sen va e altra vene»29. Se nel De vulgari, sulla scorta della distinzione tra lingue mutevoli e lingue grammatiche, Dante aveva sostenuto che la lingua di Adamo era l'ebraico («Ebraico fu dunque quell'idioma che formarono le labbra del primo parlante»), nella Commedia sostiene che la lingua di Adamo, lungi dall'essere immutabile, non era più parlata già al tempo in cui Nembrot promosse la realizzazione della torre di Babele. Ogni lingua, in quanto prodotta dall'uomo, è corruttibile, destinata a cadere nel nulla. Ciò che è incorruttibile è invece la facoltà del linguaggio 30, ed è incorruttibile in quanto è un dono di Dio. Ciò che l'uomo sviluppa a partire dai doni di Dio è sempre destinato all'annullamento, e solo mediante Dio si può trovare rifugio dall'annullamento. Questo è ciò che in superficie al discorso dantesco troviamo. Nella Lettera ai Romani Paolo dice che la morte entra nel mondo a causa del peccato, ed infatti Adamo, se prima era immortale, dopo avere peccato viene condannato a morte. Per 28 Alighieri

D., Par. XXVI, 127-9. D., Par. XXVI, 137-8. 30 Cfr. Alighieri D., Par. XXVI, 124-138. 29 Alighieri

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Severino «questo legame [posto dal Cristianesimo] tra il peccato e la morte è un fraintendimento»31. Tutti i personaggi della vicenda credono infatti che Adamo sia mortale fin dal principio, e non solo dopo aver peccato perché questa, nella mortalità di tutte le cose, e dunque nella non esistenza di Dio – del vero eterno ed immutabile –, è la credenza (e questo credere non è altro che un atto di fede, una sovrastruttura interpretativa) che appartiene a tutto l'Occidente. Adamo, anzitutto, si crede mortale «prima di aver mangiato dall'albero della scienza del bene e del male […] sa già di essere stato prodotto, creato da Dio. Sa già che all'inizio il Dio senza mondo è diventato quello straordinario altro che è il Dio insieme al mondo»32. Egli pensa che, disobbedendo a Dio, toglierà a Dio il potere di dargli la morte. Quest'ultimo sa che Adamo è mortale «perché lo ha tratto dalla polvere [dal nulla] e può farlo diventare polvere»33, tanto che dopo che Adamo commette il peccato Dio gli rende esplicito proprio questo concetto. Infine, il Serpente crede a tal punto alla mortalità di Adamo da esortarlo a mangiare dall'albero della conoscenza il frutto che gli darà la forza di sfuggire a tale mortalità, e sa che questa esortazione è un inganno non perché crede nella immortalità di Adamo prima del peccato, ma perché sa della inevitabilità della morte, prima e dopo il peccato. Dalla morte non si sfugge, dalla morte non sfugge Adamo, dalla morte non sfugge Dio. Tutti i personaggi messi in gioco, nel loro inconscio nichilistico, lo sanno. Il Genesi dice che prima del peccato Adamo, pur non potendo mangiare il frutto dell'albero della scienza del bene e del male, poteva mangiare i frutti dell'albero della vita. Dopo aver peccato, dopo aver mangiato i frutti del primo, gli vengono proibiti anche i frutti del secondo, che erano un dono di Dio. L'eternità è concessa da Dio, non può essere acquisita dall'uomo mediante la scienza. Per i cristiani, rotta l'alleanza con Dio, non si può (più) essere eterni. Tutto ciò in superficie. In profondità, invece, risulta che per la stessa tradizione non ci può mai essere salvezza eterna per l'ente che muore: porre la salvezza di ciò che è comune ad ogni ente non salva (dal nulla) l'ente. Se il tratto comune ad ogni ente è l'essere sé da parte dell'ente, allora questo tratto comune giustifica teoreticamente la salvezza della Barriera che nega la prassi (questo dal punto di vista dell'ontologia nichilistica dei cristiani, non certo dal punto di vista dell'ontologia severiniana); se il tratto comune ad ogni ente è l'esser nulla da parte dell'ente, è chiaro che salvare il nulla dell'ente significa condannare all'annullamento, e non dare salvezza 31

Severino E., La follia dall'angelo, a cura di I. Testoni, Milano, Mimesis, 2006, p. 203. Severino E., Nascere, cit., p. 19. 33 Severino E., La follia dall'angelo, p. 203. 32

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all'ente nella sua individualità e nella sua indipendenza dalla Barriera-Dio. Capiamo allora perché, per Severino, il Cherubino messo a proteggere l'albero della vita dopo il peccato stia «a guardia di un sepolcro vuoto» 34. Infatti, il Cristianesimo non può conciliare l'immortalità dell'ente in Dio e la mortalità degli enti creati da Dio. Il Cristianesimo non sa uscire dalla sua stessa Follia perché, a partire dalle categorie ontologiche entro le quali si muove (quelle poste, dalla filosofia, al suo nascere in Grecia), non può comprendere che «il peccato è credere che la morte possa entrare nel mondo» 35. Se, credendo a ciò, si cadesse nel peccato, Dio sarebbe il primo peccatore. L'Occidente non può avvedersene finché rimane nella terra isolata dal destino, isolata dalla verità. E tuttavia molte contraddizioni, molti punti irrisolti entro la posizione cristiana verranno risolti, nel corso dello sviluppo della riflessione filosofica, attraverso quella coerentizzazione del Cristianesimo, non opposta al Cristianesimo, che condurrà alla «teologia della secolarizzazione […] e della morte di Dio»36, e alla apparente emancipazione dell'uomo, illuminato dalla luce (in ultima istanza funesta) di una potenza che mediante l'alleanza con Dio soltanto non si sarebbe mai potuta raggiungere.

§2 Estetica 2.1 Contro una estetica per “anime belle” Parlare di poesia significa anzitutto non cadere nel «luogo comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione dell'“estetica”, crede che la poesia sia qualcosa di indispensabile per le anime belle»37. Il grande nemico dell'estetica per “anime belle” è indubbiamente Adorno, e non è un caso che questa vena anti-estetica della riflessione sul bello esposta in Teoria Estetica si coniughi con l'esigenza – da parte del suddetto filosofo – da un lato di allinearsi alla metafisica anti-epistemica, affermando che «la verità sussiste unicamente come divenuto» 38 e che la legge fondamentale dell'arte è «la legge del movimento»39; dall'altra, sulla base della presa di coscienza di questo fondamento metafisico (fondamento per il quale “il rimedio è peggiore del 34

Ivi, p. 205. Ivi, p. 206. 36 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 419. 37 Severino E., La potenza dell'errare, cit., p. 15. 38 Adorno T., Teoria Estetica, cit., p. 6. 39 Ibidem. 35

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male”) dal quale muove, Adorno esorta ad abbandonare gli «spettacoli consolatori della domenica»40 dell'arte per anime belle, fondati sul «principio dell'art pour l'art che sulla base di una negazione astratta fa del χωρισμός l'uno-tutto dell'arte»41. Sulla base di questo armamentario teorico – che gli fa dire che «Chi gode delle opere d'arte in modo fattualmente concreto è un filisteo; espressioni come “delizia per gli orecchi” ne provocano la colpevolezza» – Adorno può trarre la più radicale tra le conclusioni in materia estetica alle quali un abitatore dell'Occidente può arrivare, e cioè il fatto che «Promesse du bonheur significa di più del fatto che la prassi fin qui esercitata contraffa la felicità: la felicità sarebbe al di là della prassi»42. La tecnica che riguarda la mimesi non è volta al dominio sulle cose, ma è volta alla costruzione formale dell'opera atta a preservare ciò che la tecnica illuministica nega in quanto non fattuale, e quindi non risolvibile (gli unici enigmi risolvibili concernono i fatti): «ci si deve elevare a un concetto di tecnica che […] insegni come la cosa deve e non deve essere unicamente a partire dalla sua struttura» 43. Questa tecnica non domina i fatti, non impone una utopia nel mondo. «Promesse du bonheur significa di più del fatto che la prassi fin qui esercitata contraffa la felicità: la felicità sarebbe al di là della prassi. A dare la misura dell'abisso tra la prassi e la felicità è la forza della negatività interna all'opera d'arte»44. Arrivare a comprendere che il divenire non ha nulla fuori di sé, significa arrivare a smascherare l'intento (fondamentale ed autodistruttivo) delle anime belle, che è quello di voler portare la felicità mediante la prassi della tecnica-estetica. L'anima bella, lungi dall'astrarsi in modo impotente dal mondo, cerca rifugio nella potenza tecnica che l'abbandono alla contemplazione estatica porterebbe con sé. Viceversa, smascherare la prassi intendendola per ciò che è, cioè come rimedio peggiore del male, significa poter arrivare a trovare il vero significato della felicità raggiungibile entro la scacchiera del nichilismo. L'importanza di Adorno consiste nell'avere tematizzato lucidamente l'esigenza di andare contro la dissimulata innocenza della anime belle (che fa il paio con la dissimulata innocenza e umiltà del Cristianesimo), di avere capito in definitiva che la felicità può essere fondata solo sulla verità della metafisica anti-epistemica portata sino alle sue più radicali conseguenze, si 40

Ivi, p. 4. Ivi, p. 10. 42 Ivi, p. 18, corsivo mio. 43 Adorno W.T., Ohne Leitbild. Parva Aesthetica (1967), trad. it. di. E. Franchetti, Parva aesthetica. Saggi 19581967, Milano, Mimesos, 2011, p. 78. 44 Adorno W.T., Teoria estetica, cit.. p. 18. 41

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fonda cioè sul fatto che «le opere d'arte vengono tanto meno godute quanto più uno ne capisce»45 e di avere capito che ciò può essere portato a termine mediante non la filosofia, bensì mediante una teoria dell'arte radicalmente stravolta rispetto all'arte tecnicistica propria della metafisica epistemica. Adorno sostiene che alla conoscenza discorsiva, razionale, filosofica, è estranea la sofferenza, può determinarla per sussunzione, approntare mezzi per lenirla [tentando di dire ciò su cui si deve tacere]; difficilmente esprimerla attraverso la sua esperienza: proprio questo si chiamerebbe per essa irrazionale. La sofferenza portata al concetto resta muta e priva di conseguenze […]. Nel piacere per il rimosso l'arte accoglie al tempo stesso la disgrazia, il principio della rimozione, invece di limitarsi a protestarvi contro inutilmente. 46

La poesia delle anime belle, la poesia “indebolita” a tal punto da avere addolcito e dissimulato (ma non perduto!) l'aspetto tecnico e festivo che la caratterizza fin dal principio, cioè la poesia che non canta per sollevarsi al di sopra del nulla (in quanto con il nulla non si confronta), non ci interessa, in quanto non è vera poesia (mentre ci interesserà quella poesia che, non perdendo il suo aspetto festivo, nel suo scorgere fino in fondo l'essenza del nichilismo, perde il suo aspetto tecnico, inteso come volontà di dominio, in quanto sa scorgere la nullità anche di quest'ultimo, il suo coincidere con il nulla: è questa la poesia che si palesa nelle opere del genio, la poesia di Leopardi, che trova già espressione teorica in Adorno, che pure a Leopardi in Teoria Estetica mai si rivolge). In un primo momento si sarebbe ingenuamente tentati di giustificare l'attacco che si sta mettendo in atto contro l'estetica delle anime belle con questo ragionamento: perdendo la sua connessione con la volontà di salvezza (cioè con la tecnica), la poesia delle anime belle abbandona anche la sua dimensione estetica. Il bello disinteressato della poesia inutile ed indebolita (che, per quel che concerne questo lavoro, è meno “poetica” della più prosastica tra le filosofie), non avendo più nulla a che fare con la fede fondamentale dell'Occidente, e con l'angoscia che questa fede comporta (e che comporta già l'atteggiamento mitico, precedente tale fede), non ha più nulla a che vedere nemmeno con l'estetica. «Come fatto “estetico”, la “poesia” è ormai qualcosa di estremamente lontano dal significato originario del poetare. Il 45 46

Ivi, p. 19. corsivo mio. Ivi, p. 27.

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poeta originario è il produttore per eccellenza. Vi sono certo, nella società arcaica, diverse forme di produzione – quella del cibo, delle vesti, delle abitazioni, delle armi, delle suppellettili –, ma tutte subordinate alla produzione suprema che nella festa arcaica costruisce l'immagine della vita (cioè l'immagine delle diverse forme di produzione)»47. C'è da sottolineare che con “fatto estetico” in questo passo Severino non intende rivolgersi alla estetica così come è stata spesso intesa dall'Occidente, illuminata cioè dalle categorie ontologiche greche e dunque dalla sottaciuta volontà di potenza che muove ogni attività che da queste categorie è illuminata; con il termine “estetica”, in questo contesto, Severino intende riferirsi invece a ciò che è chiamato “estetica” dalle anime belle, che non sanno intendere il significato che l'alienazione nichilistica sottende (nonostante lo giustifichino e lo abbraccino), e dunque recidono il rapporto tra l'estetica e la civiltà occidentale, tra la poesia e la civiltà della tecnica. L'impotenza autentica non è però ciò che caratterizza, superficialmente, l'estetica delle anime belle contro la produttività della poesia tecnica delle origini, ripresa poi da molti teorici dell'arte e in particolare della poesia intesa come prassi (il riferimento va anzitutto a Vico); l'impotenza caratterizza invece entrambe queste posizioni, sia quella dell'anima bella, sia quella del poeta-tecnico vichiano, in quanto entrambi, riconoscendo – pure su posizioni diverse – il valore salvifico della poesia in quanto tecnica, cadono nell'errore di vedere nella tecnica la salvezza, cadono cioè nell'errore di fraintendere tutte le categorie ontologico-nichilistiche entro le quali si muovono (anche le anime belle, infatti, pur perdendo di vista quella contesa che anima la terra isolata dalla verità, e quindi perdendo di vista la volontà di potenza che la terra isolata dalla verità giustifica, abitano esse stesse la scacchiera del nichilismo in quanto delle categorie ontologiche dell'Occidente si servono). Dalle premesse poste attraverso il discorso che si è appena fatto, sopraggiungono alcune ambiguità che è bene chiarire. Anzitutto, per “poesia” si intende tanto 1) quella dell'Occidente, che non ha saputo scorgere il suo inconscio nichilistico, quanto 2) quella che – constatata l'impossibilità della prassi – si accontenta di mostrare ciò che sta oltre il contenuto del suo dire (cioè oltre il dire stesso), traendo vita (una vita che non si configura più, nichilisticamente, come volontà di potenza) proprio da quell'indicibile che, nel discorso, mostra sé e che, sia pure in modo dissimulato, è la forza che fa sì che anche quel canto che non sa scorgere il suo inconscio nichilistico possa venire cantato (è questo il caso della poesia del genio, della poesia 47

Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 34.

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di Leopardi). Con la prima accezione che abbiamo dato al termine “poesia” (poesia intesa come volontà di potenza) intendiamo sia 1.1) la poesia che si configura con il contenuto del suo dire e che crede di costruire il paradiso a partire da quello stesso dire (è questo il caso della poesia come è intesa dal giocatore bianco), sia 1.2) la poesia che con il suo contenuto nichilistico non si confronta (è questo il caso della poesia delle anime belle), e che per questo non lo sa trascendere e quindi non sa trascendere nemmeno quella volontà di potenza che pure dissimula, in modo ancora più insidioso di quanto la volontà di potenza non sia dissimulata dal giocatore bianco, soprattutto dal cristiano.48 Si dà, in questo intreccio di ambiguità, l'apparente analogia tra la poesia del genio-Leopardi e quella per anime belle: entrambe rigettano il contenuto del dire, ma se la poesia per anime belle rigetta il dire senza essere passata per quel “negativo” che è la verità nichilistica testimoniata dal contenuto di quel dire, e per questo non lo sa comprendere e oltrepassare ma invece soggiace ad esso, la poesia del genio lo affronta e così lo supera dialetticamente, acquisendo nuova coscienza di sé proprio per il fatto di essere passata per quel “negativo” che invece la poesia per anime belle non ha voluto affrontare, per evitare di “sporcarsi le mani”. Il momento negativo è il contenuto filosofico del canto il quale, rivelando il suo inconscio nichilistico, non può che indicare l'unica possibilità di salvezza, che non è la fuga da esso (come invece crede Severino), ma è la forma poetica che, mediante esso, mostra sé come altra dalla volontà di potenza dell'Occidente, che pure su quella stessa scacchiera del nichilismo cresce e prospera. Da ciò deduciamo che la storia della filosofia è sì il luogo speculativo mediante il quale l'Occidente, prendendo coscienza di sé, si auto-costituisce, ma al contempo capiamo che il motore di questo processo auto-costitutivo (che ha poi dirette ripercussioni sull'intera vita – pratica e speculativa – dell'Occidente) non deriva dal contenuto (filosofico) di questa riflessione, e tanto meno dal linguaggio-oggetto della scienza, bensì deriva dalla forma non filosofica (il non-identico) che mediante il discorso filosofico mostra sé, come altro da quel discorso, cioè come silenzio. «Il mostrarsi, come Presupposto [del dire], è rivelazione – un farsi chiaro e aperto […] nel mostrarsi del mistico vive quasi la memoria del Presupposto, e l'intensità del suo riconoscimento per un attimo pare davvero interrompere il nichilismo del 48

Per comprendere che cosa si intenda qui per “dissimulazione della volontà di potenza”, in riferimento al giocatore bianco (in particolare, in riferimento al Cristianesimo), si veda il §1 del capitolo 3, intitolato Umili piante.

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logos»49; ma interrompere il nichilismo del logos significa intendere la filosofia come una dialettica negativa, significa lavorare sempre al limite, significa lavorare filosoficamente per mostrare l'insufficienza del discorso filosofico, del nichilismo di quel discorso: «in ciò soltanto può essere maestra la filosofia – nell'arte socratica dell'indugio, nel contendere il passo. Indaghiamo ancora, indugiamo ancora»50. Cercheremo nelle pagine che seguiranno di comprendere l'autentico significato del termine “estetica”, e dunque in quale modo la poesia – l'autentica poesia, che al limite, si libera dal nichilismo del logos (quando la scala è già caduta) – sia estetica, così da eliminare dal nostro orizzonte di ricerca tutte quelle forme di estetica fasulle, tutte quelle poesie che, non avendo più alcun legame con la festa arcaica, non possono vantare il titolo di poesia; e vedremo che anche le forme di estetica connesse con la volontà di potenza del mito arcaico rimangono in realtà invischiate nell'impotenza entro la quale la mancata comprensione delle categorie ontologiche entro le quali si muovono le fa restare (una mancata comprensione, questa, che tali poeti condividono con le anime belle). Vedremo che molte espressioni prosastiche, “filosofiche”, devono essere considerate molto più poetiche di tante poesie confacenti alle anime belle. Fermo restando, però, che queste filosofie più poetiche di molte poesie, lo sono non sul piano esplicito del loro contenuto (filosofico), ma nella potenza salvifica della loro forma, che mira a realizzare la filosofia nella misura in cui rinuncia ad essa: tendere a questo passo, tendere a gettare via la scala, non significa realizzarlo per davvero, non significa buttare via per davvero la scala, giacché fare ciò significherebbe risolvere una dialettica che invece ha da rimanere irrimediabilmente negativa, giacché non possiamo saltare al di là della nostra ombra, giacché non possiamo vedere il nostro occhio nel campo visivo (e «nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio»51). E tale forma è ciò che fa parlare la frattura e che nega adornianamente ogni possibilità di emendare la «legge di movimento» della quale la mimesi artistica si fa carico. Una forma, questa, che sta alla base di ogni discorso poetico, e che è tutta imperniata sulle categorie ontologiche greche e per questo, essa sola, autenticamente estetica.

49

Cacciari M., Dello Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Milano, Adelphi, 1980, p. 140. Cacciari M., Dell'Inizio (1990), Milano, Adelphi, 2001, p. 153. 51 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., 5.633. 50

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2.2 Sull'impossibilità di partorire nel brutto: estetica e metafisica epistemica La riflessione di Severino in merito all'estetica si avvale spesso della definizione di “bello” che troviamo nel Convito di Platone; il bello da Platone è inteso come una forma di amore, «amore di possedere sempre il bene»; il bello – inteso platonicamente come “amore del possesso” – si configura come azione, produzione, generazione del bello. Il bello è indicato qui nel suo aspetto tecnico, tutt'altro che disinteressato. Si tratta di capire infatti che l'estetica, intesa come dottrina del bello, in quanto branca della filosofia, deve essere intesa come una disciplina che fa i conti con l'angoscia che la filosofia fa emergere con la massima potenza, fin dal suo nascere: la fede nel divenire, che le categorie ontologiche sviluppate dalla filosofia per la prima volta tematizzano nel modo più radicale, è ciò da cui la filosofia stessa nasce ed è ciò nei confronti di cui la filosofia si propone di porsi come rimedio. La filosofia nasce da tháuma, termine che, lungi dall'identificarsi con la meraviglia che si addice solo alle anime belle, risulta essere uno stupore terrifico, formidabile: «la parola greca tháuma, che traduciamo con “meraviglia”, ha un significato molto più intenso: indica anche lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, orrendo, mostruoso» 52. «La sentenza di Karl Marx che sinora la filosofia ha contemplato il mondo e che ora si tratta di trasformarlo va rovesciata: dicendo che sinora la filosofia – sia quella della tradizione, sia quella del nostro tempo, che porta la tradizione al tramonto – ha trasformato il mondo. Ma che rimane ancora da comprenderlo. […] nel nostro tempo la filosofia continua a trasformare il mondo perché ha preparato il terreno in cui la tecnica può procedere senza più alcun limite alla dominazione delle cose»53. Aristotele, non a caso, riconosce la traccia della filosofia anche là dove il mito non è ancora stato superato dalla volontà di potenza filosofica, e dove tuttavia si manifesta già la volontà di sollevarsi al di sopra del divenire per dominarlo mediante lo sforzo poetico: «Appunto perché anche il mito scaturisce da tháuma, Aristotele dice che anche chi dimora nel mito, chi “ama” il mito (philómythos), è in qualche modo filosofo (philosófos)»54. «L'atteggiamento filosofico sta alla radice dell'attività con la quale l'uomo trasforma il mondo»55. Affinché si realizzi quella produzione, con la quale il bello primariamente ha a che fare, è necessario che si dia quell'armonia che per l'appunto il bello, e non il brutto, pone, 52

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 9. Severino E., Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, 2008, p. 11. 54 Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 50. 55 Severino E., Istituzioni di filosofia, cit., 2010, p. 16. 53

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dischiudendo orizzonti teorici indirizzati verso finalità primariamente tecniche, volte a dominare il mondo. È l'armonia data dal bello che consente l'azione, il dominio. «“Partorire nel brutto non si può, nel bello sì”, dice Diòtima. […] Non si può partorire nel brutto, perché il brutto è il rifiuto, da parte degli elementi di una certa situazione, a unirsi, cioè ad armonizzarsi in vista della generazione»56. Il bello, primariamente, è azione, sorretta dalla fede nel divenire, e l'estetica ha a che fare con questa azione, con questa volontà di produrre, nell'azione, un rifugio al sicuro dal divenire, rifugio che possiamo produrre proprio grazie al fatto che le cose divengono. Minaccia suprema e supremo rifugio convergono, per il contenuto della fede dell'Occidente. Il bello non c'entra nulla con la contemplazione disinteressata delle anime belle. Ed è proprio in virtù di questa forte corrispondenza tra poesia, estetica e tecnica, che «Diòtima stabilisce un'analogia tra l'uso della parola “amore” [il “bello” per la stessa Diòtima è una forma di “amore”] e l'uso della parola “poesia”»57. Severino, come di consueto, dà fondamento a queste corrispondenze avvalendosi dell'etimologia: poesia è pòiesis, come éros è pràxis e érgon. «L'essenza di Éros appartiene all'essenza della tecnica […] Éros è machané, cioè la “macchina” che determina il successo della generazione»58. Mediante la generazione (non solo, e non tanto, la generazione sessuale) il mortale che, come Adamo, sa di essere mortale in quanto questa è la sua fede alla quale crede di credere, cerca l'immortalità. E la via per l'immortalità, che porta al paradiso cristiano per la metafisica epistemica, e al paradiso della tecnica per la metafisica anti-epistemica, è una via che passa per la bellezza, ossia per la tecnica. Bellezza e volontà di potenza sono due tratti inscindibili che appartengono a quella che per l'Occidente – che non è (ancora) giunto a prendere atto delle conseguenze che scaturiscono dalle premesse ontologiche dalle quali prende le mosse – è l'autentica poesia. Finché la poesia non riconoscerà, con Leopardi, la nullità anche della tecnica, senza però dimenticare il versante salvifico, e dunque estetico, per quanto non più tecnico, che l'autentica poesia deve sempre mantenere, l'Occidente non saprà riconoscere l'autentica poesia, che consiste nel trascendimento della volontà di potenza, senza porsi al di fuori della scacchiera del divenire, cioè senza abbandonare quelle categorie ontologiche che stanno a fondamento della 56

Severino E., La strada, cit., p. 111. Ibidem. 58 Ivi, p. 112. 57

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volontà di potenza dell'Occidente. La vera poesia, giunta alla massima consapevolezza che l'Occidente, stando dentro l'alienazione, può avere di sé, sta all'insegna del rifiuto della tecnica: questo abbandono è l'arma necessaria per giungere all'unica salvezza possibile, all'unica modo per contentarsi dei deserti, senza rifiutare i deserti intendendoli come errori, Follia. Non è questo un abbandono accessorio, perché deriva dalla presa d'atto della realtà. L'Occidente arriva, alla fine del suo percorso auto-costitutivo, a rifiutare la tecnica come mezzo della volontà di potenza. Ciò non significa abbandonare la poesia, bensì costruirla all'insegna di una nuova estetica (se ancora di estetica è lecito parlare), depurata da ogni forma di volontà di potenza ma che non recide ingenuamente (e falsamente) ogni legame – come fa invece l'estetica per anime belle – dalle categorie ontologiche, cioè da quel momento negativo dal quale l'estetica prende avvio. Poetare significa far passare le cose – in forza di quella fede in ciò che rende possibile tale passare – dal non essere all'essere. Queste cose prodotte poetando sono partorite nel bello, sono cioè prodotte in virtù di quella armonia (ottenuta mediante la bellezza) tra gli elementi che sola permette la loro unione, la loro generazione, e il loro dominio da parte del poetatecnico che di quella bellezza epistemica si serve, nell'atto della produzione. Attraverso la bellezza (e attraverso l'armonia che da essa deriva) il poeta per Platone giunge al suo scopo, che è il dominio sulle cose, credute dominabili perché credute divenienti. Il poeta domina le cose, e per questo è tecnico, o artista, ossia è detentore dell'arte, della téchne, della “attività produttiva guidata dalla conoscenza del perché”, della “azione razionale conforme allo scopo”: tecnico è il calzolaio che costruisce le scarpe in quanto le sa costruire, non è quello che, emulando i movimenti del calzolaio senza sapere quello che sta facendo, produce il medesimo manufatto. Inizialmente l'Occidente ritiene che questa razionalità tecnica debba basarsi sull'eticità (etico è chi sottostà al Limite invalicabile, come dirà bene Nietzsche) che emula il Limite, e così ne prende possesso. Successivamente l'Occidente si rende conto che l'alleanza con chi quel Limite prescrive e che si identifica con il Limite stesso (il «rimedio»), lungi dal dare potenza, la nega limitandola, in quanto il Limite è anzitutto il Limite all'esercizio di quella potenza che si vorrebbe esercitare mediante la sottomissione al Limite stesso. Così l'Occidente postepistemico si libera del Limite, allontana l'Ordine senza però mai allontanarlo del tutto in quanto, eliminato totalmente l'Ordine, viene eliminata quella prevedibilità che funge da base 200

d'appoggio a qualsiasi forma di dominio. Questo movimento, derivante dalla presa di coscienza della problematicità del Limite, è l'atteggiamento tipico della civiltà della tecnica: essa rinuncia ad ogni forma di previsione e di Ordine, ma non sa abbandonare il calcolo matematico, che pure è un modo per dare ordine (sia pure in modo probabilistico e ipotetico). La civiltà della tecnica, liberatasi dall'ostacolo fondamentale alla volontà di potenza mediante la mossa speculativa volta a constatare la “morte di Dio”, e forte della previsione matematica, acquista una potenza mai raggiunta prima: si emancipa dal mito per ricadere nel mito. Non si rende conto che, facendo ancora solo un passo avanti, che consiste nel rinunciare anche a quell'ultimo rimasuglio d'ordine che è la previsione matematica, la tecnica verrebbe a riconoscere tutta la sua impotenza, sprofondando nella noia. Riconoscendo il contenuto nichilistico del canto (essente = nulla), all'inizio della civiltà della tecnica, come esito necessario e conclusivo della volontà di potenza, Leopardi vede l'unico «quasi rifugio» contro tale «assoluta e necessaria pazzia»59 nella forma del canto, e non nel suo contenuto, nel quale la forma si mostra. Questo è l'unico esempio di poesia autentica in quanto non tecnica, che risulta tale proprio in quanto opponendosi alla volontà di potenza sa dare un ultimo quasi rifugio all'uomo ormai libero dalle illusioni contenute nel canto ma non dall'illusione che quel canto sorregge (ossia l'ontologia nichilistica). Leopardi vede che «il paradiso della ragione e della tecnica è destinato all'annientamento, perché la sua potenza è impotente di fronte al gioco annientatore del divenire»60 che proprio il contenuto del canto, libero ormai dalle illusioni della metafisica epistemica, e scisso dalla forza della forma del canto, libera in modo dirompente, annientatore, e per questo «formidabile», primaria fonte di orrore. Proprio mediante la matematica si scorge l'essenza del nichilismo, senza ancora, in un primo momento, prenderne coscienza; con ciò Leopardi intende dire che, proprio con la matematica, riconoscendo che l'ente è nulla, implode la stessa potenza sviluppata dalla civiltà della tecnica, che sulla matematica si fondava. «La “misura” è il carattere matematico della realtà. Ma scorgere la misura al di sotto dell'esperienza – al di sotto di ciò che immediatamente, nella vita, sembra senza misura, “smisurato” – significa scorgere la “nullità” del misurato» 61. «Quando il 59

Leopardi L., Zibaldone, cit., p. 104. Severino E., Il nulla e la poesia. Alla fine dell'età della tecnica: Leopardi (1990), Milano, Rizzoli, 2010, p. 279. 61 Ivi, pp. 281-282. 60

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mondo appare nell'immaginazione o nell'illusione – tutto appare e tende ad apparire grande, indefinito, infinito, smisurato, libero dai limiti del tempo; ma l'“analisi” razionale mostra che tutto è composto di parti, ossia di determinazioni finite e caduche, cioè nulle» 62: tale illusione è quella della metafisica epistemica, non ancora guidata dal pensiero matematico che sembra togliere tutti i limiti che imbrigliavano l'uomo in una condizione di sudditanza e di impotenza (rispetto al Limite), per dare potenza infinita all'uomo. È proprio dal pensiero matematico che si fa concreta la minaccia della noia, che emerge dalla consapevolezza della venuta meno di questi limiti, che erano ciò che permetteva ancora di frapporre, tra l'ente e la sua negazione, uno iato salvifico, non ancora scopertamente “formidabile”. Come per Dostoevskij, anche per il Recanatese «il due per due quattro non è più vita, signori, bensí il principio della morte» 63. In particolare, come Leopardi, Dostoevskij traccia lo stesso legame, tra matematica, ragione e noia. Come per l'uno la ragione matematica «è “vera madre e cagione del nulla”, sia nel senso che solo per essa la nullità di tutte le cose viene alla luce, sia nel senso che, manifestando la nullità dell'essere, la ragione annienta l'essenza dell'uomo, cioè la sua volontà di essere» 64, così per l'altro «se un giorno il volere si accorderà perfettamente con la ragione, allora ragioneremo, e non vorremo, essenzialmente in quanto è impossibile, per esempio, conservando la ragione, volere una cosa insensata»65, dato che «la ragione non è che la ragione, non soddisfa che la facoltà raziocinativa dell'uomo, mentre il volere è una manifestazione di tutta la vita umana, con la sua ragione e con tutti i pruriti»66. Una volta che ci mettiamo in quel «palazzo di cristallo» che è il paradiso della tecnica – sorretto della tautologica razionalità matematica per la quale tutti i rapporti economici, umani, lavorativi, medici, sono risolti prima ancora di essere affrontati, sono cioè «già bell'e pronti e anch'essi computati con matematica esattezza, sicché in un attimo spariranno tutti i problemi possibili»67 – non ci resta che sprofondare in «una noia tremenda (perché che cosa mai ci sarà da fare, quando tutto sarà calcolato secondo una tabella?), ma in cambio tutto sarà straordinariamente ragionevole»68.

62

Ivi, p. 283. Dostoevskij F., Memorie del sottosuolo, cit., p. 35. 64 Cfr. Severino E., Il nulla e la poesia, cit., pp. 279-320. 65 Dostoevskij F., Memorie del sottosuolo, cit., p. 28. 66 Ivi, p. 29. 67 Ivi, p. 26. 68 Ibidem. 63

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La bellezza, si diceva, genera armonia, unità, dunque solleva al di sopra del divenire mediante la generazione che dalla armonia tra le parti deriva. Tale unità non è tanto quella sessuale, quanto quella che porta l'uomo ad unirsi con la verità incontrovertibile. La bellezza ci porta a congiungerci con il vero, che dà potenza. Questo l'argomento dell'estetica greca e cristiana. Distrutta la verità, in quanto ostacolo alla potenza, viene distrutta la bellezza. In questo modo non resta altro che lo spettacolo desolante dei deserti. Da ciò deriva, per la metafisica anti-epistemica, che fecondo non è più il bello, come riteneva Platone, bensì il brutto, come ritiene Adorno. Infatti, nell'estetica contemporanea, cioè a partire dagli inizi del XX secolo, «ogni forma di arte mostra il dissolversi della bellezza e della forma, mostrando allo stesso tempo l'impossibilità di sottrarle alla morte»; tutto ciò «porta in primo piano ciò che prima aveva lasciato sullo sfondo. Il dissolversi del mondo, rappresentato dal suono, è il tema centrale della musica, che non ha bisogno di diventare atonale per rendere manifesto il divenire e dunque il morire delle cose» 69. Nella contemporaneità viene meno «la convinzione che l'opera d'arte abbia toccato il fondo del significato di ciò che essa mostra»70, viene meno la convinzione che l'opera d'arte sia intoccabile, che essa possa dare il significato ultimo del mondo e che in ciò, nella riproduzione della verità incontrovertibile che fa partecipare alla verità incontrovertibile e al suo potere di sollevarsi al di sopra del divenire, consista la sua bellezza. Tale atteggiamento epistemico verso il bello non è però altro che una fede nell'opera d'arte bella così intesa. E si dà il caso che tale atteggiamento fideistico, come ogni atteggiamento fideistico (compreso quello che regge tutta la storia dell'Occidente), è un credere di credere. L'adesione all'immutabile, da parte per esempio del cristiano, rappresenta un atto di fede che ha, come ogni atto di fede, il dubbio nel proprio cuore, ma nel proprio cuore soltanto. Un dubbio che viene rimosso, credendo di rimuoverlo nell'atto del credere in ciò che non può essere rimosso. Il credente crede doppiamente, ossia crede non solo in ciò in cui crede mediante il suo atto di fede, ma crede anche nell'atto di credere in ciò in cui crede: si crede in ciò che non può essere creduto, e si crede di credere in ciò che non può essere creduto perché il contenuto dell'atto di fede serba sempre, in quanto oggetto di fede, il dubbio nel proprio cuore. Credere di credere è illudersi di star credendo, è separare la propria fede dal dubbio che è 69 70

Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., pp. 5-6. Severino E., Nacere, cit., p. 22.

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ineliminabile, nell'atto di fede, se non con un secondo atto di fede. Un credere di credere «senza esitazione», come quello che è richiesto dall'evangelista Marco in cambio della salvezza71. Richiamandosi a Paolo, Severino intende la fede come l'avere davanti a sé il non apparire su ciò di cui si crede (lo stesso Dante, nella Commedia, definisce la fede rifacendosi alla definizione paolina: «fede è sustanza di cose sperate/e argomento de le non parventi» 72). Proprio in quanto non appare, questo non apparire non può liberarsi mai dal dubbio che comporta. Non a caso Dante spesso si affida alla fede del credente, dicendo che quello che lui ha veduto nel Paradiso egli, il credente, potrà vederlo quando si troverà nello stesso luogo in cui lui è stato nel suo viaggio. Fino ad allora si limiti a credere, eliminando con un secondo atto di fede il dubbio che quel non vedere che è oggetto di fede sempre comporta. Riflettendo sul concetto di “fede”, in Essenza del nichilismo Severino inizia ad elaborare la tesi per la quale ciò che attualmente impedisce al cristianesimo di diventare “Parola di Dio”, non è soltanto il suo essere dominato dal “mondo”, cioè dalle categorie della metafisica greca, ma anche innanzitutto il suo essere una fede. Ora, per Severino, “fede” viene a significare essenzialmente, pure quando si tratta della fede cristiana, “volontà di impadronirsi della terra sottraendola al destino”. Per questo motivo, egli sostiene che, affinché si apra per la prima volta il “problema del cristianesimo”, è necessario che tramonti non soltanto la “comprensione metafisica” del cristianesimo, ma anche la “fede” cristiana. Un tratto del cristianesimo in quanto si autocomprende come “fede” sarebbe che questa non può esistere come pura fede, ma soltanto come legata al “dubbio”, sul quale essa non potrebbe non fondarsi. 73

Dante, proprio a causa del suo trovarsi dentro la nozione di “fede” intesa da Paolo, assume più volte nel corso del poema l'atteggiamento del semplice fedele che si rivolge ai suoi lettori invitandoli a credere a ciò che loro ancora non hanno visto ma che vedranno una volta giunti in paradiso, invitandoli cioè a credere di credere. Così per esempio nel descrivere il suo trasumanare dice: «l'essemplo basti/a cui esperïenza grazia serba»74; e il canto successivo: «Lì si vedrà ciò che tenem per fede,/non dimostrato ma fia per sé noto/a guisa del ver primo che 71

Cfr. Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 410. D., Par. XXIV, 64-5. 73 Messinese L., Il paradiso della verità, cit., p. 73. 74 Alighieri D., Par. I, 71-2. 72 Alighieri

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l'uom crede»75. 2.3 Partorire il deserto: estetica e metafisica anti-epistemica Per Platone ed Aristotele l'arte è imitazione dell'ordine universale ed eterno, che è ordine bello. L'arte è valutata tanto più positivamente quanto più imita correttamente l'eterno. Quando crolla la metafisica epistemica, si fa invece largo «un altro modo di intendere l'arte: non più come “imitazione” di un ordine preesistente e immutabile, ma come “creazione” di un mondo nuovo, indipendente e libero da ogni modello» 76. Dopo di ciò, non rimarrà che prendere atto dell'impossibilità della creazione: si comprenderà allora che il valore estetico della forma consiste nel testimoniare l'infrangersi del mondo a partire dal lavorio formale, che elabora e si costituisce continuamente proprio sulla base delle sue ceneri. In quanto imitazione dell'eterno, l'opera d'arte è altro dall'eterno, e per questo oscilla tra una positività (la somiglianza all'eterno, da cui se ne deduce la bellezza) e una negatività (la sua non-identità con l'eterno). Platone, a differenza di Aristotele, esaspera il lato negativo dell'arte (arte come «copia di copie»), anche se nello Ione riconosce la positività dell'arte del poeta il quale, preso dall'ispirazione divina, acquista potere mediante la sua opera di imitazione (per quanto questo sia un potere inferiore rispetto a quello che si raggiunge seguendo le «regole razionali della téchne, e dell'epistéme»77). Aristotele invece, che pure subordina l'arte alla filosofia, tende a porre in evidenza principalmente i suoi lati positivi. Per lui la poesia è superiore alla storia poiché, in virtù della sua universalità derivante dall'imitazione dell'eterno, coglie l'Ordine, lo imita, e trae forza dalla partecipazione ad esso. Pur ritenendo che la catarsi tragica operata da quella forma di imitazione che è la poesia possa condurre l'uomo «oltre il terrore provocato dal divenire»78, ritiene tuttavia, a causa della sua fede nell'eterno ed immutabile, che «la suprema e perfetta forma di rimedio» sia «l'epistéme della verità, la sapienza filosofica», e non la poesia tragica. La nozione di “catarsi”, così come è sviluppata da Aristotele, demarca la distanza che sussiste tra la posizione di Platone e quella di Aristotele circa la nozione di “poesia”, in generale, e di “poesia tragica”, in particolare. Infatti, «per Platone la poesia tragica si trova 75 Alighieri

D., Par. II, 43-5. Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p, 206. 77 Ibidem. 78 Ivi, p. 205. 76

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nella lontananza estrema dalla verità […]. Per Aristotele, invece, la tragedia conduce alla “catarsi”, cioè alla liberazione dall'angoscia; ma per Aristotele la catarsi prodotta dalla poesia tragica non ha un carattere epistemico-filosofico»79. È proprio su quest'ultimo punto che le superficiali differenze nel pensiero di Platone e in quello di Aristotele circa la natura della poesia e circa i rapporti tra poesia e filosofia si appianano; tanto Platone quanto Aristotele, infatti, stanno nella «persuasione che il pensiero di Eschilo sia essenzialmente poesia»80, e che la poesia sia altro dalla filosofia. Come Aristotele – si è appena detto – ritiene che la poesia tragica non abbia «un carattere epistemico filosofico», così Platone, nel X libro della Repubblica, ci dice che la poesia tragica è «completamente perduta nel molteplice»81 in quanto la poesia, non occupandosi della verità eterna ed immutabile (il «carattere epistemico filosofico» così come è inteso da Aristotele), «si limita a imitare la contraddizione apparente del molteplice diveniente e quindi tiene viva, perpetua ed esalta l'angoscia da essa prodotta»82. Proprio per queste ragioni Severino può dire che c'è «soostanziale concordia sul carattere “poetico” del pensiero in Eschilo [cioè nella poesia tragica]»83. Facendo questa mossa atta a separare la filosofia dalla poesia di Eschilo, Platone ed Aristotele – ad avviso di Severino – non si avvedono che «è nella “verità” [epistemicofilosofica] che il pensiero di Eschilo rintraccia il rimedio contro il dolore» 84; non si avvedono che la verità incontrovertibile (epistemica) è il «centro del pensiero di Eschilo»85. Rilevando tutto ciò, Severino ci dice che, per Platone ed Aristotele, la distinzione che separa la filosofia dalla poesia (tragica di Eschilo) non deve essere intesa come una distinzione ontologica, dato che Platone ed Aristotele non intendono l'opera di Eschilo come una espressione culturale pre-ontologica; Eschilo, a loro avviso, usa le categorie ontologiche che sono l'orizzonte di possibilità del divenire solo che, a differenza della filosofia, la sua poesia non va ad intendere quella verità incontrovertibile che, a loro avviso, starebbe a fondamento di quella verità originaria che è il divenire medesimo. La poesia è insomma qui intesa come contenuto anti-epistemico del canto.

79

Severino E., Il giogo, cit., p. 339. Ivi, p. 334. 81 Ivi, p. 327. 82 Ivi, p. 329. 83 Ivi, p. 339. 84 Ivi, p. 338. 85 Ibidem. 80

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Possiamo per queste ragioni dire che il limite del discorso platonico-aristotelico consiste nel fatto che i due filosofi greci si concentrano esclusivamente sul contenuto dell'arte, nel fatto che non riconoscono che la potenza del canto non può che esser riposta nella sua forma poetica, che è ben altra cosa rispetto al contenuto (epistemico o anti-epistemico) del canto (senza considerare la forma poetica, sarebbe come considerare il campo visivo senza considerare un occhio che lo guardi – che permetta il guardare). Questa conquista potrà apparire chiara solo una volta che si sarà veduto dove conduce la strada del Sentiero della Notte, una volta cioè che si scorgerà la fine della civiltà della tecnica. Solo in quel momento, e segnatamente con La Ginestra di Leopardi, l'Occidente comprenderà che il potere salvifico del canto stava sin dal principio nella forma del canto; tutto ciò è destinato ad emergere nel momento in cui il canto medesimo si vede spogliato di tutte le illusioni che per lungo tempo hanno animato il suo contenuto (filosofico). Nell'ottica della metafisica epistemica l'arte, così come è intesa dal giocatore bianco, deve imitare il Vero, e la bellezza consiste in questa imitazione. Tanto più si avvicina al Vero, imitandolo, quanto più l'opera d'arte sarà degna di apprezzamenti e dunque sarà intoccabile: non si può toccare l'opera d'arte, se è ben riuscita. L'opera d'arte, se ben riuscita, è definitiva. In quanto l'opera d'arte ben riuscita imita il Limite inviolabile (traendo potenza da esso, e subendone i vincoli), essa stessa sarà inviolabile (per quanto solo per analogia). L'arte, imitando il Vero, che è il Bello, mette a contatto l'uomo con l'epistéme così da conferirgli potenza. Di nuovo, vediamo che l'Occidente assegna un carattere e una funzione eminentemente pratica all'arte: «Nel pensiero tradizionale essa ha un carattere tecnico (è una téchne, dicono i Greci), cioè di mezzo capace di realizzare uno scopo che gli è esterno e che da ultimo consiste nella conoscenza della verità e nella vita buona»86. Pur muovendosi ancora nell'orizzonte della metafisica epistemica, e dunque ponendo ancora in relazione l'Ordine con il bello in sé, la critica che Kant opera nei confronti della metafisica ingenua rovescia «il bimillenario concetto dell'arte come imitazione»87. Con Kant emerge, con una forza fino a quel momento inedita, l'aspetto produttivo dell'arte: pur essendoci la verità, il genio kantiano non la riproduce, in quanto non la può conoscere ed, ovviamente, non si può riprodurre ciò che non si può “vedere”: con Kant e Hume il pensiero moderno, che fino a quel 86 87

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., p. 352. Ivi, p. 354.

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momento aveva risolto l'opposizione di certezza e verità in un ritorno ad un realismo più o meno ingenuo (in un circolo vizioso in cui i risultati sono tacitamente implicati fin dal principio), arriva ad affermare l'impossibilità di conciliare essere oggettivo ed essere formale, rinunciando a conoscere il secondo, ed intravedendo, nel caso di Kant, l'ordine noumenico nel farsi storico da lui inteso come la modalità mediante la quale si realizza l'Ordine essenziale, razionale, precluso agli uomini su un piano speculativo. Il genio kantiano non riproduce il Limite nell'opera d'arte, non realizza l'opera d'arte per mezzo della imitazione di ciò che non può conoscere, e dunque rovescia lo schema epistemico, preferendo il fare, la produzione, alla riproduzione tradizionale. La creatività del genio inaugurata da Kant verrà sempre più radicalizzata, negli anni successivi alle riflessioni kantiane, tanto da condurre tale creatività (non più passivo-imitativa) ad abbattere tutti i limiti, finendo con l'idealismo tedesco per identificarsi con la creatività di Dio. Il genio, producendo nel suo agire artistico, non si limita a imitare il Limite, cioè Dio, ma si fa Dio, e facendolo artisticamente, lo rende reale. Il genio, nel suo agire artistico (sempre più scopertamente tecnico) si identifica con Dio non nella riproduzione, ma nella azione, nella produzione. Per Schelling l'arte è, in conformità a quanto si va dicendo, l'“organo” col quale l'Assoluto avverte e produce sé. Da ciò deriva l'ambiguità di fondo dell'idealismo tedesco: agire, facendo e facendosi Dio, mediante l'arte, significa realizzare (storicamente) Dio, cioè l'Ordine immutabile, o significa incrinare sempre di più la Barriera con la quale Dio si identifica, annullandola in virtù di quell'altro da Dio che è la volontà di potenza (in questo senso esplicitamente intesa dalla civiltà della tecnica come nemica degli eterni)? Un buon modo per sbrogliare questo nodo teorico consiste nel vedere se a fondamento di questa azione e della storia che questa azione ospita stia o meno un impianto deterministico-teleologico. Proprio su questo punto si giocherà l'accoglimento della eredità di Marx nel Novecento: da un lato il marxismo si imporrà come filosofia epistemica affermando la dialetticità della realtà sociale che può essere trasformata dalla prassi proprio in quanto dialettica, e dall'altro un marxismo che si proporrà come filosofia anti-epistemica, tutta rivolta non tanto a negare la dialettica, quanto a negare il valore epistemico di quest'ultima. Alla base dell'arte schellingiana, come si è detto, sta la posizione kantiana per la quale «non è l'ordine metafisico-epistemico a dare la regola all'arte bella (giacché tale ordine è inconoscibile), e nemmeno la legge morale (altrimenti l'arte bella non sarebbe disinteressata), 208

ma è la forza del genio, che producendo un mondo di cui non è possibile stabilire conoscitivamente le regole, è originalità assoluta, e produce essa il modello e l'esemplare, non lo riceve dall'esterno e non ne è l'imitazione. “Il genio è da mettere in opposizione assoluta con lo spirito d'imitazione”»88. 2.4 Forma e contenuto del canto Giungiamo, in conclusione di questo discorso, ad un punto particolarmente importante. Si è detto che per la metafisica epistemica la bellezza, che coincide con la verità che dà potere, è imitata dall'artista (nel nostro caso, dal poeta). E tuttavia, per l'arte cristiana, la bellezza del canto (se bello è ciò che dà potere al canto) non va confusa con l'eternità di Dio, cantata nel canto. Infatti, ed è questo il punto su cui vale la pena soffermarsi, il canto che canta Dio mira alla bellezza del canto (che non è la bellezza di Dio, il quale non è altro che il contenuto del canto). L'artista cristiano (esempi riportati da Severino sono Bach e Dante), non mira al contenuto del canto, ma al cantare tale contenuto. Nell'uomo religioso «l'arte è soltanto un mezzo perché la ragione viva – tanto che egli crede di poter salvare la propria anima anche senza la bellezza. E Bach può essere profondamente religioso, ma in modo diverso dal vero uomo religioso, perché per Bach la fede cristiana è il mezzo (sia pure insostituibile) affinché il canto viva: affinché viva quell'altra forma di fede in cui la bellezza consiste» 89. Pur cantando la sua fede mediante il contenuto del suo canto, Dante non mira a quel contenuto, a quella fede che da lui è cantata. Non è quella fede che gli dà potere, non è Dio, la bellezza imitata, che conferisce autentico potere, come si potrebbe pensare in prima battuta e come la metafisica epistemica pensa. La metafisica epistemica pensa ciò, pensa di poter trarre forza dal contenuto del canto, perché crede che il contenuto del canto che essa canta sia vero, non sia illusione, e che sia perciò la vera salvezza. Non è così, come testimonia lo stesso contenuto del canto 90. E tuttavia, 88

Ibidem. Severino E., Nascere, cit., p. 23. 90 Di ciò si renderà conto la teologia contemporanea, in particolare con Dietrich Bonhoeffer il quale, tematizzando l'impotenza di Dio, combatterà la posizione teologica tradizionale per la quale il cristiano si rivolge a Dio in quanto è Dio che sta al centro e che dunque, nobilitando l'uomo che è impotente rispetto a Dio, dà all'uomo il potere di sopportare l'orrore del divenire. Per Bonhoeffer, al contrario, Dio «è ormai “impotente e debole nel mondo” ed è appunto in questa e per questa condizione di debolezza e di sofferenza, non per la sua onnipotenza, che ci aiuta» (Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 418). La salvezza si dà insomma nietzschianamente nell'accettazione della sofferenza, dato che l'uomo è salvato «dal Dio che soffre e alla cui sofferenza l'uomo partecipa» (ibidem), e non certo dal Dio eterno e onnipotente, che salva in 89

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da dentro l'illusione, che per questo non è avvertita come tale, Dante e Bach comunque si riferiscono, per dare forza a quell'illusione creduta come vera e salvifica, alla forma del canto, che non è l'eterno imitato, ma è l'immagine del divenire sentito, ossia l'esatta negazione dell'eterno, del contenuto del canto cristiano. Anche se all'artista cristiano non è chiaro, il darsi del canto, del suo canto, è sempre un rivolgersi alla forma del canto, che nega l'illusione; il contenuto del canto cristiano (l'eterno) è solo il mezzo per dire altro, per dire quell'alterità che muove a dire il contenuto, che è la forma del canto; quell'alterità che, nella misura in cui è detta, è perduta. Afferma Adorno «Che il concetto, ciò che etichetta e mutila, possa trascendere il concetto e cosí arrivare all'aconcettuale, è irrinunciabile per la filosofia [cioè per il contenuto del canto]»91. «Nel piacere per il rimosso l'arte accoglie al tempo stesso la disgrazia, il principio della rimozione, invece di limitarsi a protestarvi contro inutilmente» 92: la non-identità è anzitutto non-identità rispetto al concetto. Il non-identico, proprio in quanto refrattario al concetto, viene escluso, soffocato nel mondo dominato dal concetto: «la sofferenza portata al concetto resta muta e priva di conseguenze»93. È il non-identico la forza che permette di dire il contenuto del canto – anche quando quello stesso contenuto fa venire meno la vita, per quanto questa forza venga perduta ogni volta che si tenti di dirla. Questa forza, il non-identico, proprio come l'occhio che, permettendo di vedere le cose nel campo visivo, non può che stare fuori (ai limiti) dal campo visivo; il non-identico, permettendo di dire il contenuto del canto, non può che trovarsi fuori dal contenuto di quel dire, non può che mostrarsi ai limiti del dicibile. Come la filosofia sta ai limiti delle scienze, in quanto ne fornisce le categorie ontologiche, senza per questo confrontarsi con il mondo che, mediante le categorie ontologiche fornite dalla filosofia, è studiato dalle scienze, così il non-identico, nei confronti della filosofia, sta ai limiti di esso, è il non dicibile che sorregge la speculazione filosofica. Il contenuto del canto indica Dio, creduto vero, ma per cantare tale contenuto, e dunque per non farsi schiacciare da quel Dio che è creduto vero, bisogna rivolgersi ad altro, del tutto contrario a Dio (contrario in quanto tale forma è sentita, non concettualizzata, e in quanto si quanto superiore rispetto all'uomo e al divenire. 91 Adorno W.T., Negative Dialektik (1966), trad. it. di P. Lauro, a cura di S. Petrucciani, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 2004, p. 11. 92 Adorno W.T., Ästhetische Theorie (1970), a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 2009, p. 27. 93 Ibidem.

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rivolge alla insuperabile dimensione del divenire privo di quell'Ordine che in Dio consiste): il contenuto del canto è un mezzo che consente di dare espressione alla forma del canto. Che il contenuto sia l'eterno o sia la sua negazione, ha poca importanza, giacché il fine del canto è sempre la forma di questo, e il contenuto è solo un mezzo – il momento negativo, l'attrito che permette il volo della colomba – per giungere alla forma. È la forma che dà la potenza, non il contenuto. Questo il canto di Dante non lo sa, esplicitamente, in quanto crede che la salvezza stia nel contenuto, mentre Leopardi, che vede la verità del contenuto del canto, e che vede che tale verità non dà la salvezza, comprende che la potenza viene data, fin da subito, fin da quando il contenuto illusorio del canto è creduto vero, dalla forma del canto. Tale forma, infatti, permette di non essere schiacciati dalla Barriera, permette di dire la Barriera, prima che tale Barriera crolli, e impedisce di non cadere nella noia, dopo che anche l'ultima, flebile Barriera, incarnata dalla volontà di previsione ipoteticoscientifica mediata dalla matematica, viene crollando. Vale però la pena chiedersi che cosa sia tale forma del canto. Il primato del contenuto, nella dimensione estetica, è tipico di un certo hegelismo, per cui la forma estetica non è altro che il veicolo attraverso il quale la realtà (il contenuto), raggiunto un certo livello di autocoscienza storicamente determinata, si fa presente nell'opera d'arte. Altri filosofi insistono invece sulla priorità della forma: Adorno, per esempio, ritiene che la forma possa criticare la realtà nel suo isolamento da essa. La forma è «fratta», sempre mancante ma non caotica, e questa frattura, nel travaglio della forma, rimanda alla realtà desertificata dalla quale pure vanta la sua autonomia (e quindi la sua libertà di critica verso essa) e, rimandando ad essa, permette di prenderne le distanze, senza peraltro trascenderla. E ciò, sostiene Adorno, è un lavoro che solo l'estetica può fare. Nonostante filosofia ed arte assolvano lo stesso compito cooperando ed intrecciandosi, emerge chiaramente che per Adorno solo l'arte può far parlare il non-identico, penetrandolo, mentre la filosofia è destinata a girarci attorno, proprio a causa della sua discorsività che non permette di trascendere agevolmente la compattezza del logos in nome della frattura che sola può vantare capacità di critica, che è anzitutto capacità conoscitiva. In Severino la questione sembra differente: anzitutto Severino, nella sua analisi dell'estetica dell'Occidente, sembra appiattire la dimensione estetica ed, in particolare, poetica, alla filosofia: la grande poesia è grande filosofia; in realtà anche per lui c'è differenza tra i ruoli. Tuttavia per il Bresciano la salvezza si dà sulla base di una non-filosofia che non afferma l'arte 211

come contro-altare salvifico; inoltre la forma, così come è intesa da Severino, pur vantando (come in Adorno) priorità sul contenuto e pur essendo in un rapporto di dipendenzaindipendenza dal contenuto, non sembra riconoscere come punto centrale il lavorio sulla forma, cioè il significato estetico della frattura, della incompiutezza della forma. Ciò può essere spiegato anzitutto per il fatto che, come si è detto, la separazione filosofia-arte in Severino è molto meno marcata che in Adorno, e quindi l'emancipazione dell'arte dal logos non può che venire meno in favore della saldezza di un sistema che non viene a vacillare anche nel momento del riconoscimento della pervasività del deserto. Scavando fino in profondità si scopre che la bellezza del canto che da sempre ha interessato il poeta, che non è un'anima bella e che nemmeno riconosce il valore tecnico dell'arte che gli permetterebbe di ricevere la potenza che gli permette di dominare il divenire e di sottrarsi ad esso, non è mai, nemmeno per il cristiano che canta Dio, il bello eterno, cantato nel contenuto del canto, ma è sempre la forma del canto, che rende bello il canto a prescindere dal suo contenuto. La bellezza è ciò che concede la salvezza (non tecnica, giacché la salvezza tecnica data dalla prassi nichilistica è intrinsecamente ossimorica), e la salvezza è concessa dalla forma del canto. La bellezza sta tutta lì. La forma del canto è per Leopardi l'immagine del divenire, che non coincide con il divenire, ma che lo raffigura, ergendosi al di sopra di esso senza però trascenderlo, ma semplicemente prendendo atto del deserto. È il sentimento del divenire a costituire il fondamento della grande poesia, compresa la grande poesia cristiana: possiamo dire che la forma del canto è l'intuizione fenomenologica del mondo al di là del simbolo (al di là del mondo, inteso come diveniente o come orizzonte nel quale appaiono gli eterni nel cerchio finito del destino). La forma del canto è per Leopardi l'immagine del divenire, che sente il divenire e, raffigurandolo, lungi dall'identificarsi con esso, si eleva al di sopra di esso senza per questo trascenderlo, senza per questo raggiungere le stelle eterne cantate dalla sentinella dell'Orestea di Eschilo94, nell'illusione del contenuto del canto (anche Eschilo, da quanto risulta, non si riferisce all'eternità di queste stelle se non come mezzo per cantare la forma che rende bello anche il contenuto di quel suo canto). La forma del canto dà una illusione salvifica ma non concettuale. Nessuna pretesa di eternità sa dare questa forma di 94

Proprio con questa immagine tratta dall'Orestea prende avvio la prima monografia che Severino dedica a Leopardi.

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salvezza: è solo un vedere la nullità del tutto che, vedendolo per un momento, non si identifica con esso, con il nulla in cui questo tutto consiste, ma lo eccede extra-discorsivamente (quando ornai la scala è caduta, quando siamo riusciti a liberarci dal peso nichilistico della parola). La vera salvezza dal nulla non la possono dare i filosofi, perché non sta nel contenuto filosofico del canto. Anche quando la filosofia è illusione, ponendo esclusivamente quella Barriera (quella «siepe») che impedisce di vedere la finitezza di tutte le cose che, in quanto finite, sono destinate ad annullarsi, dà la morte giacché l'inconscio di quell'illusione non può che esplicitarsi nell'identificazione di essere e nulla. La Barriera impedisce infatti l'azione, fa cadere nell'immobilità; impedisce anche il cantare stesso, quel cantare che è un “fare”, “partorire” mediante il bello. Quando, viceversa, la filosofia esce dall'illusione, e vede la nullità di tutte le cose, l'unica salvezza (effimera, in quanto si solleva al di sopra del divenire che annienta, ma che non lo trascende in modo definitivo) è nata da quell'illusione ultima, che è la forma della poesia, ed è «ciò che resta» dopo che tutto è stato abbattuto e dopo che tutto ciò che si può dire è stato detto. La forma del canto è quel «ciò che resta» e che salva gli uomini dalla luce disarmante di Dio – quando Dio è scambiato per la vera fonte di salvezza – e che salva dalla funesta luce della lava sterminatrice della noia, quando il contenuto del canto non contiene che lava e deserto che soltanto quella lava sterminatrice percorre: «È il poeta, allora, canta Hölderlin [il contenuto della cui poesia è ancora l'eterno, per quanto rappresenti il “canto del cigno” di questo cantare], a reggere la vista del fuoco e a dare agli uomini i doni fiammeggianti del cielo. Li guarda infatti venire “in verità” e ne regge la luce» 95. «Quale profonda e irripetibile vicinanza tra Hölderlin e Leopardi – tra questi due altissimi monti separati da un abisso!»96: l'uno crede in Dio, l'altro nella sua morte, ma entrambi sono costretti a riconoscere (in modo esplicito il secondo, implicito il primo) che la salvezza non sta nel contenuto del canto, nel potere che l'Occidente vorrebbe trarre da quel contenuto (epistemico o anti-epistemico che sia). Entrambi trovano la salvezza in quel «ciò che resta» che è la forma del canto, che è altra cosa dal suo contenuto discorsivo (filosofico-scientifico). Entrambi sono alla fine portati a riconoscere che l'autentica salvezza si mostra in quel “ciò che resta” che è l'eccedenza negativa che trascende il Verbo.

95 96

Severino E., Nascere, cit., p. 25. Ivi, p. 26.

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§3 La poesia dell'Occidente 3.1 V’è davvero l'ineffabile. Esso mostra sé, è la forma poetica Severino riconosce di avere dedicato «tante pagine e tanto tempo»97 a chi si è espresso anche, e spesso soprattutto, in versi (Eschilo e Leopardi, anzitutto, sono due autori cruciali ai fini della interpretazione severiniana della storia della filosofia). Questo però, si premura di precisare, non deve far cadere nell'errore di scambiare la sua vicinanza ad alcuni “poeti” con l'adesione alla tesi romantica, che Severino rifiuta fermamente, che intende la «poesia come filosofia», atta cioè a conferire alla poesia l'attributo della filosofia epistemica, cioè di verità incontrovertibile. «Un testo poetico non mostra e non intende nemmeno mostrare l'assoluta innegabilità di ciò che esso dice. Se si sostiene – come accade nella filosofia romantica – che la poesia mette l'uomo dinanzi al volto concreto dell'assolutamente innegabile, non lo si sostiene poetando, ma filosofando. La poesia viene incoronata regina della verità, ma non è la poesia a porre la corona sul proprio capo: è la filosofia – sulla quale ricade la responsabilità ultima dell'incoronazione e che pertanto è la testimonianza originaria e autentica della verità» 98. È contraddittorio dire che l'altro da questo dire, cioè la forma poetica, è il vero assoluto: ci sarebbero infatti, in questo modo, due assoluti, che negherebbero la prerogativa dell'assoluto, che è quella di non avere altro fuori di sé. Detto ciò, si capisce perché Severino ci tenga a precisare quanto segue: egli dice di essersi occupato di Eschilo e Leopardi in quanto costoro sono «due tra i massimi maestri della storia del pensiero filosofico». Per tale ragione, lui si occupa «della loro filosofia», e non della loro poesia o meglio, del contenuto della loro poesia, per l'appunto identificabile con la loro filosofia. «Non si tratta dunque di considerare “come filosofia” la poesia di Eschilo e di Leopardi, ma di riconoscere la formidabile presenza della filosofia nel loro linguaggio»99. La tesi che si intende sostenere mira a mostrare come, al di là di ciò che nelle battute sopra riportate Severino dice, la posizione severiniana sulla poesia sia più ambigua di quanto voglia dare a vedere superficialmente. Leopardi ed Eschilo non sono considerati da Severino solamente in quanto filosofi. Non è per nulla un tratto accidentale il fatto che questi due filosofi siano anche poeti. È anzi, questo, il fatto essenziale. Non nel senso che la grande filosofia 97

Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 33. Ivi, p. 32. 99 Ivi, p. 33. 98

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debba esprimersi in versi, ma nel senso che la grande filosofia deve sempre essere poesia laddove, per “discorso poetico”, non si intende il discorso mediante il quale ci si esprime in versi, ma si intende invece il discorso che può essere sorretto solo dall'altro rispetto al discorso che è, per l'appunto, la forma poetica. “Poetico” può essere (deve essere, giacché se non lo fosse non potrebbe dire il proprio contenuto) il grande testo filosofico, anche se si esprime nell'algida prosa. Poetica è la forma dell'espressione, la sua potenza che, servendosi del contenuto come mero mezzo, sa andare oltre il contenuto, perché solo andando oltre il contenuto si può avere la forza di dire e di agire, anche davanti alla verità che il nichilismo porta con sé. La filosofia, stando entro la scacchiera del nichilismo, deve essere poetica, altrimenti non potrebbe dire ciò che l'inconscio del suo contenuto dice. Dentro questa scacchiera, l'espressione non può essere disgiunta dalla forza di quella espressione. L'espressione deve avere potenza, deve porsi al di sopra di ciò che annulla la potenza. E la forza dell'espressione, ciò che permette che il dire venga detto senza cadere nella noia – in una parola, la poeticità di quel dire – non sta nel contenuto di quel dire. Anche quando, come nel caso della poesia cristiana, si affida la salvezza e la propria (presunta) forza al contenuto del dire filosofico (il contenuto è Dio, giacché per la tradizione epistemica è l'alleanza con Dio che salva dal nulla, che salva dal deserto e dall'annientamento), in realtà la salvezza non sta mai nel dire, non sta mai nel contenuto del canto, ma sta in ciò che dalla filosofia non può essere detto: la forma poetica mostra sé, non potendo essere detta, dato che tale forma poetica trascende quel contenuto, e con esso trascende l'essenza del nichilismo che il contenuto del dire (più o meno implicitamente) testimonia. Se ciò che è detto ha la forza di essere posto, ha la forza di sollevarsi al di sopra di ciò che lo annienta, ciò è dovuto sempre, anche quando ciò non è riconosciuto, a ciò che, in quel dire, non è dire. La grande filosofia è grande poesia in quanto non si accontenta del dire, non si accontenta del contenuto di ciò che dice. È la forma poetica che dà salvezza, che permette il dire; ciò accade per ogni dire, ma solo la grande filosofia sa porre a tema ciò, solo la grande filosofia sa confrontarsi con il silenzio. Ed è questa forma che sorregge il dire, è questa radice che vivifica il discorso, a costituire la necessaria poeticità del dire filosofico. E se i due corni del dire oscillano tra la volontà di potenza e la noia, la forma del canto, la poeticità del canto, è la forza che anima il discorso che parla della volontà di potenza e della noia, è la mimesi che, distinguendosi con ciò tanto dalla volontà di potenza quanto dalla noia, apre lo spazio a una 215

nuova nozione di prassi, che non sa trascendere la scacchiera del nichilismo ma che tuttavia si pone ai limiti di essa, voltando le spalle alla nozione nichilistica di prassi (intesa come volontà di potenza in atto). La forma del canto è l'assenza del canto, è l'impalcatura invisibile che sorregge un'arcata di pietra, è quel “di più” che non si identifica con nulla, ma senza il quale la struttura collassa. Ciò che si manifesta nel dire, proprio in quanto ha bisogno del dire per manifestarsi, non lo trascende; ma eccedendolo, supera l'essenza nichilistica della parola alla quale invece la filosofia (così come la scienza), in quanto filosofia dell'Occidente (ma anche come filosofia del de-stino), non può sottrarsi. È sempre la forma poetica a sorreggere il dire (filosofico): se la riflessione filosofica indirizza le azioni pratiche e speculative che l'Occidente prende in ogni settore, quel poter riflettere filosoficamente è concesso da ciò che si sottrae all'acquisizione filosofica per eccellenza (essere = nulla), pur non trascendendo la scacchiera dell'Occidente, ma anzi essendo ciò che consente il dire nichilistico, rimanendo così imbrigliato a questo dire, eccedendolo. La forma poetica si dà in ogni grande filosofia, anche nella più prosastica. Eschilo e Leopardi sono grandi poeti in quanto sono grandi filosofi, ma non nel senso romantico per cui si darebbe una identità tra poesia e filosofia: poesia e filosofia sono due parti autonome dell'atto salvifico che è l'atto festivo. La poesia però, proprio in quanto invisibilità non concettualizzabile che mostra sé attraverso il tramite del contenuto filosofico, non può rivelare una autonomia positiva rispetto alla filosofia, come invece accade per l'arte nel caso della Teoria Estetica di Adorno. La poesia è invece una non-filosofia, un estremamente altro dal discorso che non fa altro che sorreggerlo, differenziandosi da esso ma senza occupare una posizione che sia realmente altra, senza cioè rovesciare il tavolo di gioco attraverso il quale il dire nichilistico dell'Occidente si afferma. Non identità, ma complementarità inscindibile tra le due parti della festa. Il linguaggio filosofico è sorretto dal non-linguaggio poetico; il sottosuolo (che è sottosuolo filosofico) dell'Occidente (per Severino la filosofia non è un settore specialistico del sapere, ma è la struttura che guida ogni sapere specialistico che dalla filosofia trae le categorie ontologiche dentro le quali si muove) poggia a sua volta su un sotto-sottosuolo, che è quello poetico, che non poggia su nulla e non permette di appoggiarsi su nulla, perché è un non-luogo che afferma l'altro da sé nella sua non-identità nemmeno con se stesso (essendo venuto meno ogni orizzonte categoriale). Questo non luogo che dà salvezza dimorando entro la scacchiera del nichilismo 216

viene solo abbozzato da Severino, che preferisce tuttavia percorrere un'altra strada, quella cioè che dà la “salvezza” (per quanto questo termine vada del tutto trasfigurato) al di fuori del perimetro di gioco del nichilismo. Non si deve intendere questo sotto-sottosuolo come qualcosa di indipendente dal nichilismo: complementarietà, non indipendenza, si è detto; complementarità del tutto particolare, in cui uno dei due corni non si sa affermare e l'altro si afferma mediante quello che non si sa affermare. La forma del canto senza il contenuto manca di attrito, fa la fine della colomba della prima Critica kantiana, priva dell'aria che la sorregge. La forma del canto senza contenuto è una non-estetica, svincolata dalla produttività dalla quale l'estetica deve esser sempre accompagnata; la forma che distoglie lo sguardo dal contenuto, senza però rinunciare ad esso, dà la poesia delle anime belle, compiaciute dall'“imbambolamento” estatico che non ha la forza di confrontarsi nemmeno indirettamente con l'inconscio che attraversa la civiltà dell'Occidente, pur non voltando le spalle ad essa. A Severino non interessano Leopardi ed Eschilo in quanto poeti, bensì gli interessa l'Occidente in quanto civiltà poetante. Il pensiero occidentale, il pensiero del nichilismo, è pensiero che necessita della poesia per poter reggere il peso della cifra irrimediabilmente autodistruttiva che porta con sé; il pensiero dell'Occidente è pensiero festivo, cioè tecnico, estetico, il cui necessario elemento filosofico non può mai dirsi estraneo dall'elemento afilosofico che lo sorregge. E questa anti-filosoficità della poesia rivela tutta la sua necessità proprio nella misura in cui l'Occidente è destinato a riconoscersi come anti-estetico, vale a dire anti-tecnico. Venuta meno la volontà di potenza che sotterraneamente anima gli intenti dissimulati delle stesse anime belle, ciò che mostra sé, che fin da sempre sorregge il discorso nichilistico, rivela la sua autenticità. Il solo dire non basta mai. 3.2 La conciliazione delle antinomie della dialettica è una non-conciliazione, le questioni della dialettica sono dei non-problemi al di fuori del discorso: l'enigma non v'è Che il fondamento del dire sia altro dal contenuto del dire, non è una tesi nuova. Certo, la posizione severiniana va letta alla luce della sua originale interpretazione dell'Occidente, sopra delineata. Vale la pena però, senza con questo voler sminuire la lettura severiniana, e soprattutto senza creare troppi facili parallelismi, riportare un altro punto di vista su una problematica simile, offerto dalle pagine iniziali di Storia della follia di Foucault, il quale 217

sostiene che l' elemento che, primo fra tutti, caratterizza «il linguaggio spietato della nonfollia»100, cioè il discorso razionale, è la violenza. È solo attraverso un «gesto di sovrana ragione», ossia un «gesto di decisione che astrae dal rumore di fondo […] un linguaggio significativo»101, che la non-follia viene posta entro il «regno della verità». Sia chiaro, questa violenza non è arbitraria, frutto di lotte intestine che vedono l'emergere di una parte su di un'altra che avrebbe potuto egualmente trionfare. La «congiura» che ha portato la ragione a trionfare era preliminarmente destinata a realizzarsi, apparteneva «interamente alla storia» o, meglio, «ai suoi confini», alle condizioni di possibilità del mondo; entro il mondo organizzato secondo il principio di ragione le cose non potevano che andare come sono andate. Tale necessità non stempera la violenza che si è data, semmai la incrementa. Nonostante la condizione di liminarità che questa congiura esemplifica, essa non sta totalmente fuori dal mondo in quanto alcuni uomini di genio riescono intuitivamente a coglierla, da dentro, grazie alla illuminazione che determina lo «scoppio lirico», l'«istante supremo dell'opera»102. Quell'opera è intimamente contraddittoria in quanto solo nella tensione data dalla sua incoerenza riesce a trascendere il limite di senso del mondo (le condizioni di possibilità del dire) senza per questo cadere nella irrilevanza del mero vaniloquio, giacché il vaniloquio è un vuoto parlare, mentre a fondamento del dire non c'è la vuotezza del dire, ma ciò che ponendosi come totale alterità rispetto al dire, lo costituisce come l'unica positività razionalmente contemplabile («La filosofia delimita il campo disputabile della scienza naturale. Essa significherà l'indicibile rappresentando chiaramente il dicibile» 103; il «mistico non è l'esperienza del trascendente, ma l'opposto […] Il mistico è appunto l'esperienza del tutto limitato»104): da un lato, infatti, l'opera si esprime nel mondo, è sottomessa alla ragione («dove c'è opera non c'è follia»105), dall'altro, «contemporanea all'opera», la follia non può che far balenare il notturno fondamento inconoscibile all'uomo di ragione, all'uomo di scienza. L'insufficienza del dire, che nel suo esprimersi più arcaico si risolve nel grido del bestione descritto da Vico, e che nel suo manifestarsi più compiuto si riduce al più disorientante

100

Foucault M., Histoire de la folie à l' âge classique (1961), trad. it. di M. Galzigna, Storia della follia nell'età classica, Milano, Rizzoli, 2011, p. 41. 101 Ivi, p. 47. 102 Ivi, p. 737. 103 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, cit., 4.113, 4.115. 104 Cacciari M., Krisis, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 94. 105 Foucault M., Storia della follia nell'età classica, cit., p. 737.

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particolarismo che, nemmeno nella forma dell'utopia, più sa rinviare ad un senso alcuno, è l'insufficienza di ciò che Lukács intende per «romanzo», ossia quell'opera d'arte la cui forma si fa veicolo del mondo al tempo della «compiuta peccaminosità», cioè che vive nel tempo in cui si è consumato lo «strappo tra l'interno e l'esterno […] tra l'io e il mondo» 106, causato dalla venuta meno del tempo conchiuso della grecità, quel tempo circolare in cui l'immanenza degli dèi (del Senso) nel mondo era una realtà, il tempo dell'indistinzione tra individui sempre sorretti dalle divinità che, nonostante tutto, dalle divinità sarebbero sempre stati ricondotti ad un porto sicuro; tempo, questo greco, nel quale «potenze minacciose e incomprensibili possono affacciarsi oltre il cerchio che le costellazioni del senso presente e immanente descrivono attorno al cosmo immediatamente esperibile e plasmabile, ciò nondimeno esse non riescono a sopprimere la presenza del senso»107. La dialettica che si dà, tanto in Foucault quanto in Lukács, tra senso e non-senso, può risolversi andando oltre questa antitesi, senza però mai trovare risoluzione, se non nel processo «malinconico» perché cosciente della propria insolubilità, perché cosciente dell'insufficienza che ogni presunta risoluzione incarna. Questo tentativo di sviluppare una dialettica tra senso e non-senso, tra dicibile ed ineffabile, è esattamente il tentativo portato avanti – a detta dell'autore di Teoria del romanzo – da Dostoevskij il quale, andando oltre al limite posto tra le due negazioni determinate del particolare abbandonato da Dio e dell'assoluto ricercato che lo trascende, ha saputo liberarsi dalla zavorra del romanzo: «Dostoevskij non ha lasciato nessun romanzo […] Dostoevskij appartiene al nuovo mondo»108. A Dostoevskij riesce di andare oltre a Dio (al Senso) e alla sua negazione determinata (dialettica alla quale invece il romanzo rimane irrimediabilmente invischiato). Questo superamento dialettico non gli permette però di elevarsi al di sopra di una antinomia soffocata dalle scissioni irrisolte, in quanto non gli permette di risolvere la dialettica stando entro il discorso che caratterizza per necessità la dialettica stessa. Egli sa andare sì al di là dell'«ateismo teistico», proprio in quanto lo vede come teismo, e con ciò scavalca, come è ovvio, lo stesso teismo; sa eliminare il senso del quale gli eroi del romanzo hanno nostalgia (Sehnsucht), sa andare oltre a ciò che lo intrappola e lo blocca, assieme alla sua antitesi irrisolta, oltrepassando il problema del senso riducendo il mondo al “qui e ora”, e riducendo la 106

Lukács G., Teoria del romanzo, cit., p. 23. Ivi, p. 27. 108 Ivi, p. 146. 107

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teoria della conoscenza al corrispondentismo più ingenuo. Questa, però, è una risoluzione proprio in quanto riconosce la necessità di non poter fermarsi alla teoria del rispecchiamento, risolta nel più greve realismo bensì, tale risoluzione, può dirsi tale (e per lo stesso motivo può negare la sua risolutività) proprio in quanto anch'essa sa di dovere scindersi, e di essere già scissa non appena si dice risolta. E così, dal fatto rispecchiato, che a nessun senso rimanda, tale realismo ingenuo riapre il problema del senso, riaprendo l'evidenza della scissione irrisolta. Tale problema questa volta risulta essere declinato non più verso l'inconciliata aporia che vedeva in gioco la dicotomia razionalità-irrazionalità del reale, bensì verso l'inconciliata non-teoria che non sa nemmeno più pensarsi come inconciliata o inconciliabile. È solo nel porsi fuori anche dalle mera ipotesi della possibilità di una riconciliazione redentrice, destinata (e di ciò la metafisica anti-epistemica ne è bene a conoscenza) a ricadere sempre e comunque in una nuova criticità irrisolta e questa volta non posta nel discorso, che questa problematica risulta in un certo qual modo risolta, in quanto non riconosciuta come tale. «Bisogna cioè passare attraverso l'assoluto dicibile – ovvero attraverso la riduzionedissoluzione del senso nel “qui e ora”, con la conseguente eliminazione di ogni rimando, di ogni trascendenza (l'assoluta irredenzione che ha tolto ogni illusione di redenzione) – per arrivare al senso che, in quanto non-dicibile, si può solo mostrare nel silenzio»109. Porsi dentro al limite significa aprire nuove scissioni, interne alla regione delimitata dal limite stesso; non ci si può sollevare al di sopra dell'«immane potenza del negativo», nel tempo della «compiuta peccaminosità», e tuttavia l'atto (che è un atto privo di velleità superomistiche e di effetti pratici, volti al dominio) di guardare la scissione, intendendola come scissione irrimediabile, è ciò che conferisce nuova vita, al termine del processo auto-costitutivo dell'autocoscienza nichilistica che in quella scissione ha una fede incrollabile.110 È questa, per Severino, la forza della poesia: essa ci porta a distogliere lo sguardo dal tratto essenziale dell'Occidente (che è la dialetticità che costituisce il mondo così come l'Occidente lo prospetta) nella misura in cui quel tratto essenziale (quella frattura insanabile) lo si guarda con sguardo disincantato, senza che questo sguardo possa darci potere alcuno sul mondo, ma anzi 109

Introduzione di G. Di Giacomo a Lukács G., Theorie des Romans (1920), trad. it. a cura di F. Saba Sardi, Teoria del romanzo, Parma, Nuova pratiche editrice, 1994, p. 36, corsivo mio. 110 Chiaramente questa lettura di Teoria del romanzo non può che andare a scontrarsi con la lettura che Severino dà del Lukács maturo, inteso dal Bresciano come un “marxista epistemico”.

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togliendoci dall'illusione che ci induce ad avere la presunzione di averne. La poeticità di Dostoevskij consiste nel suo non essere romanziere (in senso lukácsiano). Abbandonare la dialettica tra senso e non-senso che il romanzo fa propria, per arretrare entro i confini del non senso non più riconciliato con Dio, e nemmeno nostalgico verso un senso perduto, ci conduce in una nuova dimensione aporetica, che di necessità si costituisce oltre una superata antinomia, e che tuttavia, questa volta, non sa prendere più la scena, pur risultando egualmente inestirpabile dalle vite di ognuno. Come dire: «La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso. (Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?)»111. L'analisi di questi passi di Teoria del romanzo e di Storia della follia ha ribadito il punto di partenza, cioè che il solo dire non basta mai. Tutto ciò si fa esplicito nel discorso leopardiano: la poesia è ciò che permette di sopportare il deserto. L'unità di filosofia e poesia è necessaria per la filosofia, se autentica filosofia vuole essere (cioè se vuole realizzare se stessa fino in fondo… rinunciando a sé, buttando via la scala). Per quanto mascherato dalle illusioni, il deserto domina tutta la filosofia, e così il profumo della ginestra non può non presentarsi assieme al deserto, nell'autentica filosofia. Talvolta Severino si esprime in modo ambiguo, dicendo che, nel caso di Leopardi, solo nei canti che smascherano le illusioni della metafisica epistemica (primo fra tutti, La Ginestra) si può parlare di unità di filosofia e poesia, mentre ne L'Infinito la poesia è ancora separata dalla filosofia. E tuttavia non si capisce come non si possa ritenere il contenuto del canto epistemico non filosofico (o non poetico), non si capisce come proprio Severino – che a lungo si è speso per sottolineare la necessità di riconoscere l'inconscio del nichilismo, senza farsi ingannare dalle promesse salvifiche che superficialmente nel nichilismo si riscontrano – possa non riconoscere l'inconscio che quelle illusioni comportano. Il più rigido argomentare filosofico non sarebbe tale argomentare, non avrebbe la forza di imporsi, se coincidesse con il deserto ed escludesse tutto ciò che deserto non è. Il dire il deserto, il non identificarsi con esso, è sempre da intendersi come altro (altro che è profumo, secondo la nota immagine de La Ginestra) dal deserto, altro dal contenuto del canto. «Il profumo del fiore del deserto è l'ultima poíesis»112, che permane anche dopo il cadere di tutte le illusioni, e che proprio al cadere di tutte le illusioni mostra l'indispensabilità che da sempre l'ha 111 112

Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.521. Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 40.

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caratterizzata. E questa illusione è l'ultima, ed è tale in quanto rimane fino alla fine, e non perché viene resa esplicita solo alla fine, cioè quando, finalmente, cadono le illusioni. Questa ultima illusione c'è già fin dal principio (“già da sempre”), e dal principio, fino alla fine, è l'unica autentica fonte di salvezza e di potenza, per quanto questa sia una potenza non tecnica, e proprio per questo realmente salvifica (non nichilisticamente salvifica). Tale ultima salvezza ha il merito di distruggere le promesse date dall'illusione epistemica, ha il merito di distruggere quella Barriera che è morte, che impedisce di essere l'altro, di mangiarlo e così dunque di costituirsi, di affermarsi, mediante l'altro, ed è sempre quella illusione che dà la salvezza dalla noia quando anche l'ultima illusione, l'illusione del paradiso della tecnica (che è poi l'ultimo tentativo di riproporre la Barriera), viene a cadere. Severino ci dice che a lui Eschilo e Leopardi interessano come filosofi. Questo è vero, ma detta in questo modo tale affermazione può creare fraintendimenti non trascurabili. Eschilo è colui che, filosoficamente, apre il Sentiero della Notte, «soggiogando il divenire angosciante del mondo» mediante il giogo rappresentato da Dio; Leopardi, sempre filosoficamente, porta al culmine questa posizione di Eschilo, che è la posizione dell'Occidente, facendo cadere l'illusione del giogo posto da Eschilo (e così apre «l'ultimo tratto» del Sentiero della Notte), che pareva essere il punto indispensabile del suo discorso (e del discorso cristiano) ma che in realtà era quel sovrappiù destinato fin dal principio a venire superato in nome della maggiore coerenza

del

discorso

metafisico

che

attraversa

l'Occidente.

Questo

sviluppo

(storico-)filosofico è l'unica cosa che apparentemente interessa a Severino. In realtà, affianco a ciò, egli ribadisce, nello studio sul poeta Leopardi, che la poesia è l'ultimo «quasi rifugio» che si dà dopo che ogni altra illusione viene a mancare. Se ogni altra illusione è una illusione filosofica, questo ultimo quasi rifugio non può essere dato dalla filosofia, e proprio per questo non può essere detto in alcun modo. È in questo frangente che la poesia, a fianco della filosofia, acquista una sua autonomia determinante. La poesia è ciò che dà vita anche dopo che si è scoperto che il creduto rimedio è in realtà peggiore del male (anche quando si stava nell'illusione che vedeva nel presunto rimedio l'orizzonte salvifico al quale affidarsi, già in quel momento l'unica salvezza era rappresentata da quell'altro dal contenuto che è poesia, forma, non contenuto, non filosofia).

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3.3 Benedetti Michelangeli e le cicale del Fedro Dell'unico incontro della sua vita avuto con Arturo Benedetti Michelangeli, Severino ricorda che il pianista «rimase fedele alla sua immagine»113 di misantropo celeste. «Gentilissimo e molto pallido, rigido, ma in modo molto signorile» 114, è ricordato da Severino nell'atto di inchinarsi e, senza dire una parola, di dare una rosa ad Esterina, rosa che, sottolinea il filosofo a trent'anni di distanza dall'incontro, ancora viene conservata. Dettagli biografici, questi, per noi di poco conto. E tuttavia credo sia opportuno fare riferimento alla figura del grande musicista per comprendere il significato da Severino attribuito all'arte, in generale, e alla poesia, in particolare. Per Michelangeli la musica dà salvezza, anzi, di più: «nulla di superiore alla musica, nulla di così salvifico»115. E tuttavia la presunta salvezza suprema può portare al dolore estremo della morte: il paragone posto da Severino è quello che accomuna Michelangeli alle cicale del Fedro, le quali erano un tempo uomini che, «presi da un piacere così grande per il canto (che lenisce il dolore)»116, si dimenticano di nutrirsi, e così trovano la morte. Il presunto rifugio dà la morte, il presunto rimedio (il contenuto del canto) si rivela essere peggiore del male. Nessuna immortalità, se non illusoria, ha saputo dare il canto, alle cicale, o i canti (in senso lato), ai cantori dell'Occidente. E “canti” (in senso stretto) sono detti quelli leopardiani, oltre che quelli danteschi: «Nella sua forma più alta […] la poesia è inseparabile dalla musica. Leopardi chiama “canti” le proprie poesie» 117, e tali “canti” sono strettamente connessi alla musica. La musica esprime immediatamente il sentimento del vago e dell'indefinito, che la parola esprime invece in modo mediato, e per questo la musica, nel canto, dà felicità nel modo più efficace. È, questa, una felicità illusoria, ovviamente: «L' “immediatezza” della musica è il suo essere immagine immediata del sentimento; Schopenhauer parla appunto della musica come “immagine immediata” della volontà, ossia di ciò che per Schopenhauer stesso finisce con identificarsi al sentimento»118. Si è già detto come la stessa musica bachiana, al di là del suo contenuto (che è appunto un contenuto non concettuale, bensì musicale, nonché cristiano: questo “al di là” è anzitutto un “al 113

Severino E., La follia dell'angelo, cit., p. 29. Ibidem. 115 Ivi, p. 31. 116 Ibidem. 117 Severino E., Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi (1997), Milano, Rizzoli, 2010, p. 477. 118 Ibidem. 114

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di là” dal Cristianesimo), sia fondata su un sentimento altro, che ne indica la vera potenza, e che il Cristianesimo, contenuto dell'arte (nel caso di Bach, musicale) serve da mero mezzo per raggiungere il fine che si trova al di là del mezzo, del contenuto. Senza il “sentimento” che sta al di là del suo contenuto, il discorso filosofico, che per il Cristianesimo è la fonte della salvezza, non può che crollare sotto il peso della verità che lo anima (e questo è un animare mortifero) fin dal principio, in quanto destinato a sollevarsi al di sopra dell'illusione che dapprima lo avvolge. Il mero discorso filosofico, enucleato dalla sua forma, è destinato a riconoscere il fatto che il peccato di Adamo non solo non porta con sé la redenzione che coinvolgerà Adamo e tutto il suo «seme», ma addirittura sarà costretto a riconoscere che di peccato non c'è traccia in quanto non vi è nulla che possa puntare il dito verso il peccatore, identificandolo come tale, e quindi condannandolo. 3.4 L'orizzonte salvifico della festa: l'aspetto formale della festa ed il contenuto della rappresentazione festiva Il poeta è il produttore, il creatore, e tale creatività, cuore della volontà di potenza, cioè della volontà di dominare il divenire e di porsi al di sopra di esso, è frutto dell'Errore che percorre tutto il Sentiero della Notte: «l'Errore è la fede nel divenir altro degli essenti della terra» 119. La poesia è azione volta al dominio e alla produzione, e ogni azione volta alla produzione e al dominio è ciò che l'Occidente chiama “poesia”. «Nell'antica lingua greca “poesia” – poìesis – significa “produzione”. La poesia appartiene cioè all'ambito della potenza. Come gli altri fattori della festa»120. La festa è il luogo in cui l'uomo, immerso nella Follia del nichilismo, cerca di incrementare sempre più, in una prospettiva tecnica, quella potenza nella quale ha fede e che reputa come salvifica (come l'unica fonte di salvezza). L'uomo crede nel valore salvifico della potenza perché ha fede nelle categorie ontologiche che muovono l'Occidente nichilistico. La festa è l'immagine del mondo, che viene rappresentato nella festa; in quanto immagine del mondo, la festa non è il mondo di cui è immagine, e per questo la festa, ponendosi come immagine del mondo, si pone al di sopra del mondo di cui è immagine, si solleva al di sopra di esso, ed in questo modo dà protezione, agli uomini che partecipano alla festa, da ciò di cui la festa è immagine, che ha il potere di annientare gli uomini che, per questo, nella festa credono 119 120

Severino E., Nascere, cit., p. 19. Severino E., La potenza dell'errare, cit., p. 16.

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di trovare riparo. Il mondo, ciò che l'uomo-poeta-tecnico raffigura nella festa, dà infatti la morte. Questo è chiaro anche al mondo pre-filosofico. La filosofia incrementa infinitamente quella angoscia di morire, già pre-filosofica (mitica), intendendo ora la morte come un cadere in ciò che è totalmente altro dall'essere, e cioè totalmente imprevedibile, totalmente incomprensibile, e per questo sommamente angosciante. Sollevandosi al di sopra del divenire che è il mondo, e dunque al di sopra del pericolo di cadere nel nulla, mediante la festa, gli uomini ottengono, nella festa, la felicità (e le due parole, festa e felicità, per Severino sono etimologicamente connesse). Dalla festa deriva la felicità, in quanto dalla festa deriva la possibilità di esercitare la propria volontà di potenza sulle cose del mondo. La poesia mantiene sempre il contatto con la dimensione festiva, con la potenza che da essa deriva, potenza che sa sopravvivere anche alla verità che il nichilismo porta con sé. La verità del nichilismo tutto spegne, e tra quel tutto è compresa anche la volontà di potenza che anima l'Occidente “poetico”; ma la verità del nichilismo non riesce a spegnere la forza del canto, anche quando il contenuto del canto canta quella verità che, tutto spegnendo, fa cadere nella noia: il nichilismo non sa dunque annientare la forza che è il contenuto di quel suo cantare. L'immagine del mondo, che la festa ci offre, è theorìa, è «la visione o contemplazione della festa e cioè la festa stessa»121. «Proprio perché la θεωρία contempla ed è visione del principio immutabile di tutte le cose, proprio per questo la θεωρία è la previsione dell'ordine immutabile al quale devono adeguarsi tutte le cose che nel divenire sopraggiungono, quindi è proprio per questo che la pura θεωρία è dominio assoluto; il puro vedere è prassi, anzi la forma più potente di prassi che nella storia dell'Occidente può esistere prima dell'avvento della scienza moderna»122. «La felicità dell'immagine festiva è tanto più debole quanto meno sviluppato è il contenuto dell'immagine; e tanto più forte quanto più il suo contenuto si sviluppa sino a presentarsi come interpretazione vera, filosofia, theorìa e festa della verità»123. «Aristotele dice appunto che la filosofia è la festa suprema, la suprema felicità, a cui la festa e la felicità religiosa devono cedere il passo»124. La festa insomma, nel suo tentativo di offrire sempre maggiore potenza, si munisce di un 121

Severino E., Nascere, cit., p. 15. Severino E., Legge e caso, Milano, Adelphi, 1980, p. 18, corsivo mio. 123 Severino E., Nascere, cit., p. 16. 124 Ibidem. 122

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apparato concettuale tale da non richiedere più un atto di fede ma, al contrario, esige dimostrazioni atte a giungere alla verità inamovibile (epistéme). Tale verità, che è la verità della festa filosofica, è per la tradizione filosofica più degna di essere sviluppata rispetto alla festa che non mira alla verità incontrovertibile, cioè è preferibile alla verità del mito, in quanto la festa filosofica dà più potere. Così almeno le cose sono intese dalla tradizione filosofica, finché questa tradizione non prende coscienza del fatto che la verità filosofica, sviluppata in modo coerente, lungi dal portare la salvezza, lungi dal sollevare al di sopra dell'incertezza del divenire verso l'essere stabile ed eterno, distrugge gli eterni, e mostra che il principio di tutte le cose è il nulla. Al pensiero giunto a questo grado di autocoscienza potrà finalmente apparire chiaro che la salvezza non sta in quella festa suprema che è la filosofia, ma nemmeno in un ritorno al mito, ad una festa non filosofica. Si potrà finalmente scorgere (e sarà ciò che scorge Leopardi) che la salvezza, cioè quella che è sempre stata la reale fonte di salvezza, si trova sì nella festa, ma non nel contenuto (filosofico o mitologico che sia) che dice la festa. Ciò che salva, ma che non dà potenza (arrivati alla comprensione dell'essenza del nichilismo si arriva infatti a comprendere che la potenza non salva), è la forma del discorso filosofico, il sentimento che dà la potenza al canto, il suo vero aspetto poetico, salvifico, estetico, e che è altro dal contenuto del canto, pur non essendo altro dalla festa che è anche il contenuto del canto. Ciò che dà salvezza non è ciò che per molto tempo si è creduto essere l'aspetto salvifico della festa; ciò che dà salvezza non è il contenuto del canto: «l'unica aura festiva può provenire soltanto dalla “forma” dell'immagine, delle opere del “genio”, dove “l'anima riceve vita (se non altro passeggera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria” [sono, queste ultime, parole tratte dallo Zibaldone di Leopardi]»125. Quando all'uomo arcaico non basta più il rimedio dato dalla festa arcaica, egli svilupperà un nuovo rimedio, che è il rimedio illusorio del contenuto filosofico. Tolto anche il velo che concerne quest'ultima illusione, si mostrerà nella forma dell'atteggiamento filosofico-festivo la sua potenza. È qui che si annida la poeticità della festa: da sempre il riparo è ciò che solo alla fine, dopo l'abbattimento di tutte le Barriere che hanno mostrato la suprema angoscia, si è potuto rivelare come tale ai pochi che, filosoficamente, hanno scorto questa salvezza non filosofica. Salvezza che, di necessità, ha da essere non filosofica (giacché la filosofia stessa, per realizzarsi, deve 125

Ivi, p. 17.

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rinunciare a se stessa, deve negare quelle categorie delle quali si serve per affermarsi). Ciò che permette il discorso filosofico ha da essere, nell'orizzonte salvifico della festa, il poetico, il formale, altro dal contenuto e, in particolare, quando si dà il caso che il contenuto sia filosofico-concettuale, altro dalla filosofia. L'orizzonte salvifico della festa – salvifico perché solleva dal pericolo dell'annientamento nel quale l'Occidente è immerso senza che ne possa vedere la Follia – è così costituito da due componenti: da un lato l'aspetto formale della festa, dall'altro il contenuto della rappresentazione festiva. Il contenuto della festa, da mitico che era in un primo momento, si fa poi filosofico, servendosi delle categorie ontologiche che fungono da sottosuolo che permea qualsiasi espressione culturale dell'occidente (ed oggi, è il caso di dire, non solo dell'Occidente) e che, radicalizzando la follia, massimizzano il dolore ed il presunto rimedio al dolore il quale si configura, tanto nella metafisica epistemica quanto nella metafisica anti-epistemica, come violenza. Dopo avere elaborato la distinzione tra essere e nulla, e avere inteso l'ente come ciò che oscilla tra i due estremi, infinitamente distanti l'uno dall'altro, la filosofia cerca di dare un senso al mondo popolato da questi essenti, un senso che possa allontanare l'angoscia che l'annullarsi, il cadere nell'assolutamente altro da sé da parte dell'essente, comporta. Il Senso è ciò che permette di prevedere e di sollevarsi per sempre al di sopra della minaccia del nulla che la filosofia stessa ha fatto emergere. Riconosciuto dalla filosofia come illusorio perché contraddittorio, questo “per sempre salvi dal nulla” lascerà il posto, con la metafisica antiepistemica, alla consapevolezza della condanna dell'essente al nulla eterno, cioè alla consapevolezza di essere condannati a cadere, per sempre, nel nulla. A tal proposito, scrive Leopardi che, «“privato della vita e dell'essere”, chi muore è diventato nulla, non sarà “mai più”»126. Caduta l'illusione dell'eterno (che è l'illusione del Paradiso cristiano ma che è anche l'illusione del paradiso della tecnica, che smantella l'ostacolo di Dio per porre un nuovo senso salvifico atto a divinizzare l'uomo, atto cioè a riportare in auge “Dio”), i più profondi analisti dell'Occidente hanno compreso che, fin dal principio, la salvezza che si dà nella festa (e di certo una salvezza si dà, in quanto, se non vi fosse traccia di salvezza, la festa stessa non sarebbe potuta essere stata inscenata) non ha mai riguardato il contenuto della festa che – anche 126

Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 18.

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quando ci si è illusi che potesse essere questo contenuto a dare la salvezza – è sempre stato solamente un mezzo. Il contenuto cantato è un mezzo per cantare la forma. È la forma, il canto, la poesia, che dà salvezza, che dà potere, per quanto questo potere sia del tutto diverso dal potere tecnico al quale si rivolgeva la festa mitica e filosofico-epistemica. È nel cantare, e non nel contenuto – concettuale o meno – di quel cantare, che si ritrova la salvezza. Una salvezza che non è la salvezza eterna; essa è una salvezza effimera, precaria, e che tuttavia permette quel cantare, permette che, per un lasso finito di tempo, e in modo del tutto precario, quell'inscenare la festa, e il contenuto di quella festa, sia possibile. Severino mette in luce come, allontanandosi dalla festa arcaica, l'Occidente abbia parcellizzato, separato, e quindi depotenziato, gli elementi della festa: «La volontà di sicurezza diventa filosofia; il mito diventa esperienza “religiosa”; la poesia diventa esperienza “estetica”; la produzione degli oggetti utili alla vita quotidiana diventa téchne, cioè qualcosa di “profano” – la “tecnica”, appunto – che si distacca dal “sacro”»127: se nella poesia delle anime belle il frazionamento della festa fa sì che essa perda la sua essenza tecnica e salvifica, nella grande poesia la festa, al contrario, si ricompatta all'insegna delle categorie ontologiche greche, guardandole in faccia, guardando cioè in faccia il terrore che da queste categorie ontologiche deriva. E questo perché un canto senza contenuto è una salvezza cieca, privata del mezzo (dell'attrito) che consente la realizzazione di quella stessa salvezza. La salvezza senza la possibilità di esprimere le categorie ontologiche che danno l'angoscia, e che quindi aprono la via alla salvezza, tappano le ali alla salvezza medesima. La poesia delle anime belle consiste proprio nella volontà di non confrontarsi con il contenuto del discorso nichilistico, pensando in questo modo di trovare la salvezza dal contenuto di quel discorso. Dall'altra, il contenuto senza canto, non è possibile. Il contenuto epistemico del canto senza la forma che rappresenta il divenire sopra al quale l'illusione del contenuto epistemico pretenderebbe di sollevarsi, si troverebbe soffocato dall'inamovibile muro di pietra che, riconducendo tutto ad uno sterile monismo privo di dialettica interna, annienterebbe l'azione, annienterebbe il canto stesso; e, dall'altra, il contenuto anti-epistemico del canto, privo anche dell'ultima illusione concessa dal paradiso della tecnica, senza l'ultimo quasi rifugio che è dato dalla forma del canto che permette di sollevarsi, ormai senza illusioni epistemiche, al di sopra del deserto che il contenuto presenta, cadrebbe nella impossibilità di 127

Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 36.

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dire derivante dalla noia che l'assenza di illusioni comporta. Alla grande filosofia spetta il compito di ricompattare forma e contenuto, riconoscendo l'impossibilità di raggiungere la salvezza mediante un presunto dire (che poi è un fare, che poi è violenza e alienazione) che “salva”. 3.5 Mature declinazioni della festività: Dante e Leopardi All'origine la poesia consiste nel gesto essenziale, nel rimedio contro la morte. Un rimedio che, al di là delle illusioni, anche alla fine, anche quando tutte le illusioni sono cadute, sa ancora rappresentare un ultimo quasi rifugio, proprio in quanto la illusione che porta con sé non è contenuta nel canto, ma lo sorregge formalmente. La forma del canto è l'anima del canto, che dà vita al canto anche quando il contenuto di quel canto mostra la morte di tutte le cose. È questo l'ultimo rifugio concesso agli abitatori del tempo, che è in realtà l'unico rifugio che da sempre è stato concesso loro. La poesia è tecnica, è ricerca di quel rifugio che è rimedio contro il dolore, e per questo è essenzialmente estetica. La poesia per anime belle è poesia indebolita a tal punto da essere scissa dal suo versante estetico, cioè dalla sua produttività, dato che è scissa dal contenuto del suo cantare (o meglio: che non si confronta con il contenuto del suo cantare, che non lo guarda in faccia, pur aderendo alle categorie ontologiche che appartengono al nichilismo), che è ciò che dà potenza al cantare. La poesia per anime belle è sterile, non è produttiva. La poesia per anime belle va contro la sua stessa essenza poetica. La poesia, così indebolita, è tale perché si è allontanata dalla sua sorgente, dalla festa intesa come unità di forma e contenuto. La poesia indebolita non è più festiva, si allontana dalla festa che ha come obiettivo quello di salvare dal nulla, e lo fa unendo e fondando «in sé ciò che in seguito si separa e diventa canto, mito, rito, danza, poesia, arte, sapienza, saggezza, filosofia, tecnica, scienza»128. La poesia di Dante e Leopardi è una grande filosofia, in quanto prevale in quel loro cantare la finalità salvifica rispetto a qualsiasi altra finalità. E porsi in salvo significa incrementare la propria potenza. Il loro cantare è un cantare che dà forza, che pretende di dare potere sul mondo. All'interno di questo orizzonte salvifico, Dante e Leopardi si muovo in direzioni diverse, ma non opposte: Dante crede sia l'illusione che il contenuto del canto tematizza, ossia l'illusione del Dio cristiano, a dare la salvezza. Quando la grazia divina si manifesta a Dante e 128

Severino E., La potenza dell'errare, cit., p. 15.

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rende esplicita la sua intenzione di intrattenere una alleanza con lui, infonde al poeta timoroso quel coraggio che solo l'alleanza con Dio può offrire: «Quali i fioretti dal notturno gelo/chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,/si drizzan tutti aperti in loro stelo,/tal mi fec'io di mia virtude stanca»129. L'eterno è il contenuto del canto (da Dante inteso come salvifico) che rinvigorisce quei fiori timorosi che sono gli uomini rendendoli, nel momento in cui essi si inventreranno in lui, «perpetui», perpetuamente salvi dalla minaccia del divenire, ossia dall'annientamento che mai più li farà stare nell'essere: «Ond'io appresso: “O perpetüi fiori/de l'etterna letizia, che pur uno/parer mi fate tutti i vostri odori»130. A tali fiori, che sono i beati, è data la salvezza dalla minaccia del divenire in quanto fanno apparire come uno («pur uno») i loro profumi. Sono in perfetta armonia tra loro, in quanto tutti sono in perfetta armonia con Dio, che dà loro unità; proprio in virtù di questa concordanza con Dio (e quindi con Cristo, come dice Par. XXIII, 702), questi fiori sbocciano e risplendono della luce di quello stesso Dio che li fa risplendere: «Perché la faccia mia sì t’innamora,/che tu non ti rivolgi al bel giardino/che sotto i raggi di Cristo s’infiora?/Quivi è la rosa in che ‘l verbo divino/carne si fece; quivi son li gigli/al cui odor si prese il buon cammino»131. Tale concetto, spesso ribadito nella Commedia, viene esposto in modo particolarmente efficace da Piccarda la quale, alla domanda di Dante («Ma dimmi: voi che siete qui felici,/disiderate voi più alto loco/per più vedere e per più farvi amici?»132), ella risponde: «Se disïassimo esser più superne,/foran discordi li nostri disiri/dal voler di colui che qui ne cerne»133. Questa prospettiva tematizza in modo esplicito il fatto che l'angoscia suprema sia data dalla lontananza da Dio; e tuttavia già Dante, inconsciamente (e tale inconscio, che è l'inconscio del canto, la sua forma, è l'inconscio del nichilismo stesso, che Dante in quanto cristiano canta) sa che la morte, cioè l'annichilimento, il non essere mai più, è cosa più amara della lontananza da Dio: «mi ritrovai per una selva oscura/[…]/Tant'è amara che poco è più morte»134.

129 Alighieri

D., Inf. II, 127-30. D., Par. XIX, 22-4. 131 Alighieri D., Par. XXIII, 70-5. 132 Alighieri D., Par. III, 64-6. 133 Alighieri D., Par. III, 73-5. 134 Alighieri D., Inf. I, 2-7. 130 Alighieri

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Dante, in quanto cristiano, crede che la salvezza consista nel contenuto del canto, che lui non sa riconoscere come l'illusione in quanto lui stesso, come poeta, oltre che come personaggio, non sa sollevarsi al di sopra dell'illusione che canta; proprio per questo intende il «gran diserto»135, cioè il luogo del massimo sconforto, come il luogo della lontananza da Dio, o più precisamente, il luogo in cui il pellegrino in cerca di Dio non solo è lontano da Dio, ma ha anche smarrito la strada che a Dio porta e che, proprio in quanto ha perso di vista Dio, si sente, nel suo animo cristiano, nel de-serto, cioè nel luogo in cui le cose si annullano, si annullano in quanto non sono sorrette, al di sopra del nulla, da quel Dio che hanno smarrito. Dante non vede che quel «gran diserto» da lui cantato, proprio in quanto la morte è più «amara» rispetto al deserto della lontananza da Dio, è fondato su un altro deserto: un deserto «più originario e più pauroso», che è quello su cui siede il «fior gentile» cantato da Leopardi. Un deserto più originario che finirà per scacciare l'illusione di un Dio che pretenderebbe di porsi al di sopra di tale originarietà, mostrandone la contraddittorietà. Dante distoglie lo sguardo dal timore originario del quale l'uomo occidentale non mette in discussione l'esistenza, per trovare un rimedio che nel contenuto del canto è creduto più efficace (ossia, Dio); ma proprio in quanto mosso da questa ricerca, Dante non cessa di riconoscere la minaccia che quel timore originario comporta. Tale minaccia, l'unica minaccia, quando verrà riconosciuta come tale porterà alla distruzione degli immutabili. Ed è tale minaccia, essa sola, a dare la forza al canto: il canto vive in quanto sente questa minaccia, che permette all'uomo, smanioso di dominare il mondo e di sollevarsi al di sopra di quella minaccia che sente nella forma del canto anche quando il contenuto canta l'eterno, di non finire schiacciato dalla Barriera, e dunque di vivere. La grandezza di Giacomo Leopardi consiste nell'avere oltrepassato la riflessione dantesca, senza scontrarsi con essa, portandola invece a maggiore coerenza: la maggiore coerenza che, stando però entro il Sentiero della Notte, può essere raggiunta. Egli infatti rende esplicito il terrore originario, ponendo in luce la contraddizione di mantenere quel terrore originario (il divenire) e, assieme, il timore di (perdere) Dio: forte di ciò, decreta la morte di Dio nel contenuto del canto, vedendo che la salvezza non può essere ritrovata nel contenuto stesso. È la forma la salvezza (ammesso che la forma, contro la poesie per anime belle, si confronti con il contenuto nichilistico del canto di cui la forma è forma); essa consiste nel sentire il contenuto 135 Alighieri

D., Inf. I, 64.

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del canto, per sollevarsi al di sopra di esso, in virtù di questo stesso sentire. La ginestra non è, come invece pretenderebbero di essere i beati del Paradiso, un perpetuo fiore: essa, che è lo stesso cantore che ha saputo sollevarsi al di sopra della menzogna, riconoscendola come tale, profuma della forza del canto, che è anch'essa un'illusione (l'ultima illusione, l'ultimo quasi rifugio), ma una illusione non volta all'eterno o all'anticipazione scientifica del fatto. Una illusione che sa la verità del nichilismo, che sa cioè di essere destinata all'oblio. Una ben strana forma di illusione! Dante, in quanto autentico poeta, «con la Commedia […] intende produrre la nuova immagine salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il dolore e la morte»136. La forma poetica, sia nel caso (per esempio, de L'Infinito) in cui la poesia sia nell'illusione della verità incontrovertibile, sia nel caso (per esempio, de La Ginestra) in cui sia libera da questa illusione, è infinità (un'infinità ben diversa dalla infinità così come è intesa dalla metafisica epistemica cantata nell'Infinito): «l'infinito è […] la forma poetica, il modo in cui vien detto, la “forza” (P 136) del dire poetico, che solleva al di sopra della finitezza dell'esistenza e delle forme razionali del dire. Quando la poesia di Leopardi assumerà come contenuto la verità, cioè la nullità dell'essere, il suo contenuto non sarà più l'infinito, l'illusorio, l'immaginario, e tuttavia l'infinito, e dunque l'illusione, continuerà ad essere la forma del dire poetico. L'infinità della forma del dire poetico è il punto più alto al quale l'esistenza dell'uomo può giungere nel suo tentativo di sollevarsi al di sopra del nulla»137. La forma del canto è il sentire il divenire delle cose, che in quanto divenienti, in quanto destinate ad annullarsi, sono inesorabilmente finite; ma tale sentire è appunto solo un sentire, un sentire non concettuale (non filosofico). Questo sentire formale è ciò che permette di non cadere nella noia anche quando la verità del nichilismo si pone davanti agli occhi dell'abitatore del tempo. Tale sentire, dà la forza (è, questa, la forza del canto, la forza mediante la quale il canto viene cantato, a prescindere dal contenuto, concettuale o meno, illusorio o meno, del canto), la forza di resistere al muro di pietra, prima, e poi, una volta che il muro di pietra è crollato, dà la forza di resistere, seppure solo provvisoriamente, al «male formidabile della noia»138, che è «il male estremo , l'esistere al cospetto del nulla, non dissimulato da alcun velo

136

Severino E., La potenza dell'errare, cit., p. 21. Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 81. 138 Leopardi G., Zibaldone, cit., p. 175. 137

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– del nulla che è l'essenza di tutte le cose in quanto escono dal nulla e vi ritornano»139. §4 Poesia come tecnica 4.1 L'antinomia fondamentale del Cristianesimo «“Né creator né creatura mai”,/cominciò el, “figliuol, fu sanza amore,/o naturale o d'animo, e tu 'l sai/[…]/ Quinci comprender puoi ch'esser convene/amor sementa in voi d'ogne virtute/e d'ogne operazion che merta pene»140, scrive Dante, ponendo uno stretto parallelismo tra amore e produzione proprio perché «ogni atto umano, sia virtuoso sia vizioso, nasce dall'amore» 141, e precisamente nasce imitando l'amore assoluto (che dunque è assoluta potenza) di Dio. Si è già visto, a tal proposito, il valore tecnico che ha l'imitazione nell'estetica epistemica. L'azione, che fino all'ultimo brandello di illusione che domina il suo contenuto l'Occidente si ostina a considerare come la forma di salvezza dall'estrema angoscia del nulla, è derivante dall'amore, che permette a Dio di muovere il mondo e che fa muovere l'uomo che ama imitando l'amore, che è produzione, che è volontà di potenza e di salvezza che si manifesta sommamente in Dio, di cui l'uomo è immagine finita, limitata 142. In questo modo, i beati partecipano all'amore divino, e così amano a loro volta. Questa mimesi è salvifica, in quanto amare è fare, e il fare è il sollevarsi, con potenza, al di sopra del divenire, e dunque fare è salvarsi dal divenire. Questo pensa il Cristianesimo, che per queste ragioni considera Dio, in quanto amore, e l'uomo, in quanto imitazione dell'amore divino, come tecnici. Se amare è dominare, e dominare significa demolire gli ostacoli che ostacolano questa mai sazia volontà di dominare, in ultima istanza è chiaro che, già per il Cristianesimo, dominare significa volere demolire quell'ostacolo sommo che, in prima istanza, il Cristianesimo aveva posto come inamovibile, e che aveva anzi posto non come ostacolo, ma come mezzo alleandosi con il quali soltanto si può avere salva la vita dall'annientamento, e cioè la potenza per salvarsi dall'annientamento, mediante l'amore che da Dio deriva: da un lato, come dice Par. III, 73-81, il potere che dà salvezza deriva dall'alleanza con Dio, ma dall'altra, inconsapevolmente, il

139

Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 115. D., Purg. XVII, 91-105. 141 Ledda G., Leggere la Commedia, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 37. 142 La creazione da parte di Dio mediante l'amore, espressa da Dante in apertura di Par. X (cfr. Par. X, 1-6 e Par. X, 10-2), viene esposta efficacemente da Tommaso nei seguenti termini: «Creare non è proprio di una delle tre persone, ma comune a tutta la Trinità. Dio padre crea attraverso il suo verbo, che è il Figlio, per mezzo del suo Amore, che è lo Spirito Santo» (S.T. I, q. 45 a. 6). 140 Alighieri

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Cristianesimo dice che la fonte di salvezza è l'estrema Barriera che impedisce il darsi della potenza oltre essa, il darsi di quella potenza che non è mai sazia, e che dunque per darsi deve imporsi anche oltre quell'ostacolo invalicabile che Dio incarna. Il peccato originale sta dunque nell'ordine delle cose. Dio è azione somma, è colui che tutto produce e che non lascia spazio a velleità tecnicoproduttive che stanno al di là della sua opera di produzione; d'altro canto anche l'uomo è azione, e non sarebbe (cioè sarebbe nulla) se non potesse agire, in quanto agire è ciò che innalza dal nulla (secondo la coscienza cristiana). Da ciò deriva che la potenza infinita di Dio soffoca ogni agire che sta fuori di lui, e si dà il caso che le creature stiano fuori di lui, o comunque, siano determinazioni che non si identificano con lui. In termini spinoziani: il modo finito della Sostanza non coincide con la Sostanza. L'uomo deve agire, e agendo deve fare arretrare Dio, che però i cristiani concepiscono come potenza suprema che non arretra e che non lascia spazio ad altre azioni che non siano quella sua. L'antinomia della metafisica cristiana è dunque la seguente: sulla base del riconoscimento della indubitabilità dell'esistenza del divenire, da un lato si pone il sommo produttore come luogo salvo dal divenire, dall'altro, sulla base del principio di individuazione, si sente la necessità di far agire le determinazioni, che sono (dunque sono azione) ma non sono Dio, e dunque devono scacciare Dio per essere qualche cosa che partecipa dell'essere. Ma scacciare Dio significa negare l'essenza stessa di Dio, concepito come potenza assoluta che non lascia spazio ad altro agire che non sia il suo, che non arretra di fronte ad un altro agire che non sia il suo. L'agire da parte di un ente che è altro da Dio, nega Dio; ma Dio, in quanto non si lascia negare, è ciò che permette l'agire di ciò che è altro da Dio. L'azione infinita nella quale Dio consiste soffoca le determinazioni. Questa l'antinomia interna al Cristianesimo, la cui fallacia, non vista nemmeno dalla gran parte della metafisica anti-epistemica, consiste nel riconoscere la salvezza nel contenuto del discorso, cioè nella volontà di potenza, e non, come farà invece Leopardi al culmine dell'autocoscienza dell'Occidente, nella sua forma (nel discorso poetico), che è azione priva di volontà di potenza. La metafisica anti-epistemica ritiene che sia necessario eliminare un polo dell'antinomia, cioè che bisogni eliminare Dio: morto Dio, l'uomo può agire infinitamente, e se, come si è creduto a lungo, è l'agire tecnico che dà la salvezza, l'infinito agire sarà il nuovo rimedio contro l'angoscia suprema dell'annientamento. Una volta constatato che l'agire infinito non porta alla 234

salvezza, ma dà la noia, cioè una volta constatato che il nulla dell'azione priva di ostacoli è tanto soffocante quanto il tutto di un Dio che non vuole nulla fuori di sé, si dovrà riconoscere una nuova via, la via che conduce alla scoperta del valore salvifico della forma del canto, del valore salvifico di quella nuova tecnica, che è la poesia, che salva, che è un nuovo tipo di tecnica, proprio in quanto non si identifica con la volontà di potenza, anche se si impone mediante il mezzo del suo contenuto, che spesso testimonia la fede di tale contenuto nel valore salvifico della volontà di potenza. E la scoperta, che giunge alla fine, del valore salvifico della poesia, non implica il fatto che la poesia entri in scena alla fine. Proprio in quanto si è potuto scoprire il valore salvifico del discorso poetico, significa che si era salvi da prima di tale scoperta, e quindi significa che il potere salvifico della poesia si dava da prima che tale potere fosse scoperto. Scoprire non è creare. Il discorso poetico mostra sé (è un discorso che, non essendo un dire, non può che mostrare sé) quando l'Occidente giunge alla estrema coerentizzazione del suo discorso, cioè quando l'Occidente giunge a far emergere nel modo più cristallino possibile la contraddittorietà dell'amore. Vediamo ora più analiticamente cosa intendono per “tecnica” il Cristianesimo e la metafisica anti-epistemica la quale, come abbiamo visto, non si oppone, ma coerentizza le premesse implicite nel Cristianesimo senza rinunciare alla volontà di potenza che già il Cristianesimo, in modo spesso dissimulato, afferma. 4.2 «Ma che cosa mai resterebbe da creare, se gli dèi esistessero!» Dopo aver veduto e detto (quasi) tutto il settimo cerchio infernale, con i suoi tre gironi, quando ormai già Gerione è apparso per portarli oltre il Burrato – dai fraudolenti –, i due esploratori dell'oltretomba si concedono ancora un momento, «Acciò che tutta piena/esperïenza d'esto giron porti»143. A Dante manca infatti di fare la conoscenza di un ultimo gruppo di violenti. Questi ultimi, posti sul limite estremo del sabbione infuocato, proprio sullo strapiombo che conduce al luogo successivo, sembrano volere essere accantonati dal poeta ma, dato che accantonato nulla può essere se la salvezza di Dante vuole essere assicurata, vengono presentati, quasi di sfuggita, quando ormai i due protagonisti sono già con la mente oltre quel cerchio. 143 Alighieri

D., Inf. XVII, 37-8.

235

Chi sono questi dannati, tanto disprezzati da essere premeditatamente da Dante accantonati, sia fisicamente sia narrativamente? Costoro sono gli usurai, i quali hanno esercitato violenza contro Dio, in quanto da Dio deriva la natura, e la tecnica, che è imitazione dei processi naturali (ars imitatur naturam), è dalla loro spregevole arte violentata. Gli usurai traggono infatti profitto non da un onesto lavoro, bensì dagli interessi sul denaro prestato. E ciò, Dante (sulla scorta della distinzione aristotelica tra economia e crematistica) ne è convinto, significa fare violenza contro Dio144. Questi peccatori risultano così spregevoli al cristiano Dante in quanto, con la loro arte, che è produzione, non sottostanno ai limiti che Dio pone all'esercizio delle arti. Dall'episodio appena descritto possiamo ricavare la contraddizione della metafisica epistemica come è rappresentata da Dante: da un lato la metafisica epistemica pone limiti alla produzione (limiti posti da Dio, tanto è vero che è proprio Dio ad essere offeso se questi limiti vengono superati), ma dall'altro lato Dante, figlio della ontologia greca che tutta la metafisica epistemica attraversa, non può che avere fede nel divenire delle cose, che spinge inevitabilmente ad una volontà di potenza che non vuole limiti, e che vuole cioè togliere di mezzo Dio. Il peccato è, dal punto di vista dantesco, da un lato evitabile attraverso il libero arbitrio, ma dall'altro inevitabile a causa della natura stessa delle cose. Sembra inevitabile, da questa prospettiva, che il peccato di Adamo si compia. E questo peccato, lo si è visto, è il peccato di un tecnico, è il peccato compiuto dall'uomo che deve agire per evitare quel terrore che la natura delle cose gli instilla e che, egli crede, solo producendo oltre ogni limite, può scansare. Il peccato di Adamo è quello di volere superare il limite, e non quello di sentirsi necessitato a superarlo. Sarà poi quel limite stesso, una volta violato, a voler(si) restaurare, attraverso il suo stesso smembramento che apre la via all'Empireo, cioè al luogo che sta sopra qualsiasi smembramento. Un doppio smembramento (anzi triplo, se si conta lo smembramento che Dio fa di sé nel creare il mondo incontaminato dal peccato), insomma, è necessario affinché l'autore stesso di quegli smembramenti possa affermare l'orizzonte che nega qualsiasi smembramento, cioè qualsiasi gesto tecnico: «se la morte di Cristo non avesse dato soddisfazione del peccato di Adamo, saremmo ancora figli dell'ira» 145, laddove si deve intendere per “ira” il santo sdegno di Dio che porta alla sua vendetta, ossia alla 144

Cfr. Alighieri D., Inf. XI, 94-111. D., Monarchia II, XI 2.

145 Alighieri

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giusta punizione che da lui deriva. Dio, con la creazione del mondo, e poi mediante Gesù, con il suo ripristinare il limite violato, si rivela essere quindi il sommo poeta, il sommo produttore che crea il mondo ex nihilo (poíesis è «la potenza (téchne) di condurre le cose al di fuori del nulla»146) e non lascia spazio ad un creare che non sia il creare da parte sua. «Dio è il primo tecnico e la tecnica l'ultimo Dio» 147. Le creature, soffocate dalla frenesia produttrice di quel sommo poeta, non respirerebbero, schiacciate sotto il suo giogo. Il peccato di Adamo va perseguito di necessità, se si vuole scampare a quel tutto che è Dio e che l'uomo cristiano, nel suo inconscio, identifica con il nulla, tanto che lo affronta allo stesso modo in cui affronta il nulla: lo evita facendosi poeta, tecnico e quindi peccatore egli stesso. In virtù di quanto detto si capisce perché Severino sostenga che «anche l'amore cristiano è una téchne. Il Cristianesimo, nello storia dell'Occidente, è il varco più ampio attraverso il quale le categorie dell'ontologia greca entrano nel modo di agire e di pensare delle masse. Quindi anche nel loro modo dell'amare»148. Amando, in Cristo, i cristiani «possiedono l'altro» nel suo bene, se ne «appropriano», e quindi dominano l'altro, lo divorano come Adamo divora Dio per necessità. Non può fare altrimenti. Con la tecnica l'uomo vuol diventare immortale, e lo fa riconoscendo la radice della potenza in ciò che dà la morte: «l'annientamento è la condizione del prolungamento dell'esistenza» 149. L'azione, e dunque la trasformazione e il dominio sugli enti da parte dell'uomo tecnico, è consentita dall'ontologia greca, che apre le porte ad un dominio potenzialmente infinito sulle cose, in quanto pone una distanza massima, infinita, tra le cose e ciò che le cose possono diventare o meglio, tra le cose e ciò che l'uomo ha il potere di farle diventare, ossia l'assolutamente altro dalle cose stesse, cioè cose che non son cosa, che son nulla: «Tanto più attiva, l'azione, quanto più si discosta dal già esistente e percorre l'infinita distanza che separa l'essere e il niente»150. L'uomo, mediante la filosofia, s'illude di essere infinitamente potente, in quanto poeta, nel senso di creatore, anche se, alla fine del percorso di autocoscienza da parte del nichilismo, l'Occidente nichilistico scoprirà che la vera poesia, la forma autentica che sta a fondamento di ogni produzione, è ciò che di più lontano dalla volontà di potere si possa immaginare, cioè 146

Severino E., Pensieri sul Cristianesimo, cit., p. 287. Severino E., La follia dall'angelo, cit., p. 195. 148 Severino E., La strada, cit., p. 114. 149 Severino E., Immortalità e destino, cit., p. 17. 150 Severino E., Pensieri sul Cristianesimo, cit., p. 285. 147

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scoprirà che la poesia, la tecnica, non dipende dal contenuto del discorso filosofico, a da quel non-discorso che, mostrando sé, lo sorregge (la forma poetica del discorso filosofico e non filosofico, ma che dalle categorie ontologiche greche deriva). Diciamo dunque che «ogni téchne è poíesis e che tutti i “tecnici” (demiourgoí) sono poíetaí, attori-produttori»151, ma non diciamo che la poesia, in quanto forma del discorso filosofico, potenza del canto, si configura come téchne o, peggio ancora, che la forma del discorso filosofico si identifica con la filosofia, cioè con il contenuto del canto persuaso di trarre forza dalla fede nelle categorie dell'ontologia greca. Si dà il caso che tutta la civiltà dell'Occidente sia dominata da questo fondamento ontologico che la spinge verso una sempre nuova ricerca di potenza. «È dominata da questo senso sia la convinzione che il mondo diveniente è prodotto da un dio immutabile, sia la convinzione che non ci sia bisogno di alcun dio perché il mondo esca dal nulla e si sviluppi»152. Il fondamento greco sul quale il Cristianesimo poggia è ciò che instilla la massima angoscia e la massima urgenza – che dimora nei cristiani – di scampare da quella angoscia; tale volontà di fuga si concretizza nel fare tecnico, che è un fare per scappare dal nulla che l'agire tecnico consente, ma che è anche un fuggire dal giogo di Dio, sommo produttore che, in quanto sommo agente, non lascia spazio ad una prassi altra rispetto a quella da lui esercitata: «se Dio fosse, il divenire – l' “evidenza” – sarebbe impossibile». Tutto ciò i cristiani lo sanno, questo lo sa Adamo. La distesa sterminata del nulla e la distesa sterminata dell'essere immobile nell'Empireo non sono differenti, di fronte all'atteggiamento cristiano, che è essenzialmente l'atteggiamento tecnico. Con il Cristianesimo si danno già gli elementi che condurranno alla domanda (retorica) posta da Nietzsche: «“Ma che cosa mai resterebbe da creare, se gli dèi esistessero?”. Gli dèi sono i creatori più potenti. Se ci fosse un Dio creatore, che cosa ci resterebbe da creare? Con la sua potenza e onniscienza creatrice egli avrebbe già occupato e riempito tutti gli spazi vuoti dell'esistenza, sottoponendoli al suo dominio. La nostra vita creatrice, la nostra volontà svanirebbero. Un Dio creatore è ostile alla vita» 153. Ma la vita c'è, e la vita è creazione, in quanto si esercita sulla evidenza del divenire, che non solo permette la creazione e la distruzione ma, proprio in quanto la permette, e la permette fattualmente, cioè accidentalmente, 151

Ibidem. Ivi, p. 16. 153 Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 98. 152

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e la concepisce come l'angoscia suprema, come il cadere nel nulla, proprio per tutto ciò non solo la vita permette l'esercizio della creazione e della distruzione, ma ci obbliga ad esercitarla, così da scampare dall'angoscia suprema che quella possibilità di agire comporta: «Ma noi siamo creatori. Ne abbiamo coscienza, perché questa è la stessa “evidenza” del divenire. Dunque non ci può essere un creatore che renda falso e impensabile il divenire dell'uomo e del mondo»154. La tecnica, proprio in quanto si è voluto spesso ridurla a mero «dispiegamento della scienza nell'agire umano», è stata spesso intesa come altra, o addirittura contraria, rispetto al Cristianesimo. Questo lettura superficiale della tecnica ha fatto sì che si perdesse di vista la «essenziale consonanza»155 sussistente tra la tecnica e l'Occidente nella sua totalità, e quindi non solo in riferimento all'Occidente della modernità industriale. La tecnica si avvale sì degli strumenti della scienza moderna, ma questi non sono la condizione necessaria o sufficiente affinché la volontà di potenza, mediata dalla tecnica, senta l'esigenza di imporsi. L'essenziale «non è il calcolo matematico e il metodo sperimentale. L'ontologia greca sta al fondamento dell'intera cultura occidentale […] il modo in cui il pensiero greco interpreta il senso dell'essere e del niente»156. Il Cristianesimo, proprio in quanto totalmente immerso nel «senso greco dell'agire», non può dirsi realmente volto all'orizzonte pacificato dell'Empireo. Paradiso dei cristiani e paradiso della tecnica condividono invece la stessa anima, nonostante superficialmente si oppongano. L'alleanza con Dio nell'altro mondo per i cristiani è sempre finalizzata alla acquisizione del potere estremo, che è il potere, per usare le parole del Vangelo di Marco, di smuovere le montagne in questo. E l'obiettivo primario della Commedia è quello di portare la felicità a chi sta sulla terra, mediante il ritorno alla vera patria ultraterrena. Paradiso cristiano e paradiso della tecnica condividono lo stesso terreno, destinato a lasciare in ultima istanza il posto alla noia, che i due paradisi annienta mediante l'opera di coerentizzazione che lavora al di sotto di questo «campo di battaglia». All'interno della menzogna paradisiaca, il primo dei due paradisi risulta più potente in quanto pretende di dare la salvezza eterna all'anima, ma risulta più debole perché si trova costretto a sottostare all'Ordine posto da Dio, che è il limite «che [agli occhi della fede cristiana] nessuna tecnica, profana o

154

Ibidem. Severino E., Pensieri sul Cristianesimo, cit., p. 282. 156 Ivi, pp. 282-283. 155

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sacra, può alterare»157. Tale limite è però rifusato dallo stesso Cristianesimo che, avvalendosi di quel sottosuolo comune alla tecnica ed alla fede cristiana, può negare il limite che solo superficialmente pone. Anche la tecnica cristiana è costretta a negare Dio, perché la tecnica si dà solo sulla base di quella negazione. E tuttavia la tecnica cristiana non può comprendere ancora la necessità dell'abbattimento di quel limite, che invece la fede ritiene essere il principio movente per eccellenza, e dunque mezzo tecnico per eccellenza (l'amor creatore e movente di Dio, lungi dal tacitare ogni altro agire, sarebbe ciò che tacita il suo stesso agire, cioè uccide sé, in nome dell'agire altrui); anche quando l'Occidente si renderà conto che è necessario sfatare l'illusione di Dio, per esercitare il massimo della potenza, non potrà comunque ancora dire tale necessità. Non è la tecnica, che della morte di Dio si serve per imporsi, che può decretare quella morte di Dio. «La tecnica non riconosce alcun ordine immutabile di fronte al quale essa debba arrestarsi – sì che la tecnica ha come scopo l'incremento indefinito della propria capacità di realizzare scopi»158. La tecnica è l'incremento indefinito della potenza, è la volontà di realizzare tale indefinito incremento, e dunque è la volontà di abbattere tutti i limiti, ed in particolare di abbattere il Limite supremo che è Dio. Tale volontà, che si configura già nel grembo del Cristianesimo come volontà di affermare l'inesistenza di limiti invalicabili, può trovare la base d'appoggio adeguata solo nella filosofia. Se l'incremento della potenza è possibile se e soltanto se non ci sono limiti invalicabili che ostacolano tale volontà, e che dunque tutti i limiti che si danno sono oltrepassabili dalla stessa volontà di potenza, e se dunque lo iato tra potenza in potenza e potenza in atto è sempre colmabile, allora il paradiso della tecnica è realizzabile. La premessa teorica alla realizzabilità di questo paradiso, cioè la morte di Dio, è una premessa filosofica, non scientifica o fideistica o ingegneristica. La possibilità di non essere etici, cioè di sopravvivere anche senza allearsi con Dio (l'unica possibilità di salvezza è la necessaria distanza da Dio), è assicurata da premesse esclusivamente filosofiche. La volontà di potenza è volontà di salvezza, e la salvezza consiste – questo già l'inconscio del Cristianesimo lo sa – nel tramonto dell'epistéme: «se Dio esistesse, l'uomo non sarebbe creatore; ma l'uomo è creatore (questo è evidente, è l'evidenza suprema); dunque non può esserci alcun Dio»159.Quello che sfugge al discorso filosofico, e che non può che sfuggire al 157

Ivi, p. 286. Ibidem. 159 Ivi, p. 291. 158

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discorso filosofico, è che la salvezza non sta in questa volontà di salvezza che si configura, entro il discorso filosofico, nella volontà di potenza. Tuttalpiù il discorso filosofico può giungere a comprendere come la volontà di potenza non conduca alla salvezza, ma cosa sia a dare la salvezza, questo la filosofia non può dirlo, in quanto solo quella forma poetica che è altro dalla filosofia (che è altro dal “dire”), ma che per esprimersi e per avere coscienza di sé con la filosofia sempre deve essere accompagnata (nell'opera del genio), può indicare il vero orizzonte della salvezza, o meglio, quello che, al di là di ogni illusione, si presenta come l'unica illusione efficace per la salvezza (quindi, in senso lato, realmente tecnica) che si dà all'interno della Follia nichilistica al di sopra della quale, né la poesia, né – tanto meno – la filosofia, sanno sollevarsi. Per Eschilo e per il Cristianesimo la téchne è troppo più debole della necessità, mentre per Leopardi «la necessità dell'epistéme è un'illusione troppo più debole della téchne: non solo e non tanto della téchne che per opera della concettualità scientifica conduce al paradiso razionale della tecnica (destinato a portare al massimo l'angoscia dell'uomo) ma anche e soprattutto della téchne in cui consiste l'operare – la poíesis – della poesia che si unisce alla filosofia e che, oltre al paradiso della tecnica, consiste che nella vita dell'uomo fiorisce l'ultima illusione»160. La vera tecnica si rivela dunque essere quella che rinuncia alla caratteristica che a prima vista si poneva come essenzialmente confacente alla tecnica stessa, cioè la volontà di potenza. La vera tecnica è illusione altra rispetto all'illusione intorno al filosofare, e la volontà di potenza può credersi tecnica finché rimane all'interno dell'illusione contenuta nel discorso filosofico, anche quando, stando dentro quell'illusione, già crede che sia la rinuncia alla verità la radice della potenza stessa. Quella che si intende come vera volontà di salvezza, cioè la tecnica che vede gli orizzonti della salvezza entro il dire filosofico separato da quell'altro che pure sempre, in modo sotterraneo, lo anima, è in realtà contraria alla salvezza – in quanto destinata alla disperazione estrema che è la noia – e dunque non tecnica, se per “tecnica” intendiamo ciò che soddisfa la volontà nichilistica di salvezza. Va insomma separata la coppia concettuale volontà di salvezza/volontà di potenza, e cioè il legame tra la tecnica e la volontà di potenza proprio perché, in quanto volontà di salvezza, la tecnica non può cadere in quella conseguenza alla quale la volontà di potenza è destinata, che è la noia, cioè l'esatto contrario della volontà di 160

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea., cit., pp. 53-54.

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salvezza. Adamo, da questo punto di vista, non può essere considerato un vero tecnico, a meno che non si assegni alla tecnica la caratteristica essenziale della volontà di potenza fine a se stessa, slegata dalla volontà di salvezza che dalla volontà di potenza è, in ultima istanza, negata. Volendo divorare Dio (azione apparentemente tecnica, agli occhi dell'Occidente ancora immaturo che, nel considerare la tecnica, la intende anzitutto come volontà di potenza e poi, in secondo luogo, come causa diretta della volontà di potenza, come volontà di salvezza), Adamo dissipa quelle illusioni che gli consentono di vivere. Leopardi, al culmine della coscienza che l'Occidente – stando nella follia – può avere di sé, scrive nello Zibaldone che «oggidì possiamo dire tutto l'opposto»161 di quel che – stando a Laerzio – Socrate disse, ossia: «ἓν μόνον ἀγαθὸν εἰναι, τὴν ἐπιστὴμην, καὶ ἓν μόνον κακὸν, τὴν ὰμαθίαν»162. «Al di là di ciò che il Cristianesimo crede di sapere del suo Dio, il Dio del Cristianesimo è, in verità, quell'umano desiderio di infinito. Tale desiderio proibisce ad Adamo di conoscere la verità; gli dice di non conoscerla, se non vuole morire»163. Dalla prospettiva cristiana morire significa andare contro Dio, anche se questo andare contro Dio, questo inluiarsi, è già un violare, smembrare, quel Lui del quale ci si inluia 164, e dunque è già l'atto estremo del dimostrarne la falsità. Questa verità, inconscia nel Cristianesimo, è destinata a palesarsi sviluppando e portando a coerenza le stesse premesse cristiane, fino al raggiungimento del culmine della potenza, prima, e dell'impotenza, poi, che si dà al culmine della parabola nella quale la civiltà della tecnica consiste e alla quale tutta la civiltà dell'Occidente tende («la scienza sta al termine della storia del dominio»165). Dalla prospettiva della massima coerenza riscontrabile stando all'interno della Follia, la verità (che è la verità della Follia) consiste nell'oltrepassare Dio, negandolo con la filosofia, in quanto solo la filosofia, e non la tecnica o l'ateismo inversamente bigotto e il relativismo suo sodale, lo possono negare; negare ciò, mediante la filosofia, significa trovare la morte della noia, ma significa anche trovare la verità del movimento che mai da Dio, né dalla volontà di potenza, è dipeso. Significa trovare nella potenza della poesia, unita alla filosofia, l'autentica potenza del filosofare, l'autentica potenza alla quale la follia dell'Occidente, al suo svanire, 161

Leopardi G., Zibaldone, cit., p. 231. Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 161. 163 Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 62. 164 Cfr. Alighieri D., Par. IX, 73. 165 Severino E., Legge e caso, cit., p. 16. 162

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conduce. 4.3 La questione della tecnica in Schopenhauer, Nietzsche e Leopardi Vediamo ora come si rapportano alla tecnica tre esponenti della “reazione” anti-epistemica al modo cristiano di intendere la tecnica: Schopenhauer, Leopardi e Nietzsche. Per comprendere cosa il primo tra questi tre intenda per “tecnica”, va messo in rilievo il suo atteggiamento teoretico atto a riconoscere la potenza della scienza in quanto la scienza ha un carattere squisitamente ipotetico, induttivo e sperimentale, mai concluso. Con ciò, Schopenhauer mette a tema una questione cara anche ai positivisti, per i quali «la “predizione” scientifica abbandona […] il carattere epistemico, assoluto […]. La predizione e la previsione – osserviamo – rimane sempre il rimedio che l'uomo appresta per difendersi dall'imprevedibilità e dalla minaccia del divenire; ma la previsione non è più costituita da una epistéme che, con la propria assolutezza, rende impensabile il divenire»166. A tal proposito Nietzsche rileverà come quel metodo scientifico, apparso al «cavaliere di Dürer» così meritevole d'attenzione in quanto slegato da un Ordinamento incrollabile, sia in realtà frutto di un residuo epistemico che ancora perdura. Non ha torto Nietzsche a riconoscere che la scienza moderna, sorretta dall'esperienza, voglia comunque prevedere “eticamente” il corso del mondo, intendendo il mondo come un “fatto” prevedibile, semplice, rigidamente controllabile. Nulla di più erroneo, per Nietzsche, che vede per queste ragioni nella scienza un errore, una illusione, nata dall'istinto di conservazione dell'uomo, una illusione che concepisce il suo presunto potenziale salvifico come la capacità di controllare il divenire mediante leggi rigide, ancora ben strette ad una posizione metafisica epistemica che Nietzsche, lungi dal riconoscere come il luogo della salvezza, sa riconoscere come il luogo della menzogna: «la scienza […] falsifica il divenire perché ne elimina l'imprevedibilità»167. Per essere davvero dei poeti, cioè dei creatori, cioè dei dominatori del mondo, è necessario eliminare qualsiasi forma di imprevedibilità – salvo poi riconoscere che, venuta meno qualsiasi possibilità di prevedere il divenire, viene meno il potere stesso nel quale il poeta tecnico occidentale fa affidamento per potere continuare ad affermare la propria identità con se stesso: 166 167

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea., cit., p. 139. Ivi, p. 157.

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«Zarathustra è, insieme, un poeta (creatore) e uno che dice la verità (ossia dice che la creazione è essenzialmente legata all'eterno ritorno […] Zarathustra dice infatti: […] “E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno [in Eins … zusammentrage] ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta [produttore, inventore, creatore] e solutore di enigmi [e dunque del grande enigma del “così fu” – giacché agli occhi della volontà impotente il passato intangibile, che pure è per essa evidente, si presenta come un enigma] e redentore della casualità [secondo cui si accumula il passato irrecuperabile]!» 168. Il poeta è un individuo che domina il mondo, in quanto non vede la verità del mondo così come non può non intenderla chi quel mondo intende dominare; presentandosi in forma di alternativa, Zarathustra non può quindi che dire di sé: «È un poeta? O uno che dice la verità? Uno che libera? O che incatena? Un buono? O un malvagio?». Questa alternativa si rovescia però quando il nichilismo, vedendo il suo inconscio, fa emergere una nuova nozione di poesia: la poesia, intesa come prassi radicale, è il contrario della menzogna e quindi è, nel suo rifiuto della prassi contraddittoria e nichilistica – stando alla simmetria di Zarathustra, incatenante (alla verità stabile dell'essere eterno inteso come è inteso dal destino della verità), e di per sé buona. Merito di Schopenhauer è quello di sapere riconoscere come il metodo scientifico, andando in una direzione contraria a quella della metafisica tradizionale, sia la strada da percorrere per emanciparsi da quest'ultima, considerata già da lui, che per questo già incarna l'atteggiamento tipico della filosofia contemporanea, un fasullo rimedio che, proprio in quanto si rivela essere, in ultima istanza, peggiore del male, va superato. Seguendo questa linea, Schopenhauer dichiara di volere abbandonare l' «egoismo teoretico» che si fonda sulla deduzione sillogistica, in nome di un empirismo immediatistico che apre la strada ad una nuova metafisica, ad un nuovo rimedio, non più astratto e irrazionalistico, ma basato sull'induzionismo e sull'immediatismo sensistico. Si capisce come questa mossa schopenhaueriana voglia andare contro il razionalismo moderno in nome di una indagine mirante a prendere le distanze dalla ricerca di un sapere incontrovertibile, stabile, assoluto, in nome di posizioni ipotetiche: che tutti i corpi siano Volontà,

è

solo

un'ipotesi

riscontrabile

per

analogie,

ritrovate

empiristicamente,

immediatisticamente. Proprio a causa di questa sua vocazione empiristica il discorso di 168

Severino E., L'anello del ritorno, cit., pp. 186-187.

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Schopenhauer cova, e sa di covare, dentro di sé, la «fortezza inespugnabile dello scetticismo», una fortezza che rimane chiusa entro i suoi confini, che non attacca per demolire ciò che sta al di fuori di essa, ma che non può mai essere conquistata, pena la caduta nell'«egoismo teoretico». La Volontà è dunque qualcosa di ipotetico. Non posso veramente sapere, se non per analogia – e dunque in modo del tutto precario – se davvero l'altro è volontà. Non posso formulare, se non in via ipotetica, discorsi sul mondo. Da questo assunto epistemologico deriva la ontologia del Mondo, per la quale il «nocciolo» delle cose è la Volontà, impulso cieco, irrazionale; ed il fenomeno è ciò che la Volontà vuole, è cioè il prodotto della Volontà, incasellato nel principio di individuazione. Tutto è Volontà, e la Volontà, nel suo darsi fenomenico (cioè nel suo darsi, come oggetto, ad un soggetto) è divenire, cieco e irrazionale, proprio in quanto cieca e irrazionale è la Volontà che, volendo ciecamente e irrazionalmente, sta a fondamento del fenomeno: un fondamento che è privazione di fondamento, in quanto non dà senso a ciò che fonda. Schopenhauer prende però sul serio questa infondatezza, intendendola, per l'appunto, come assenza di un fondamento razionale, cioè come assenza di quell'Ordine che sta sopra ad ogni altra cosa, così come è inteso dalla metafisica epistemica. «Fino a Hegel la ragione (l'ordine razionale) e la verità dell'universo sono concepite come la legge secondo la quale il divenire si realizza. Con Schopenhauer, invece, la ragione e la verità si presentano come ciò che il divenire – cioè la Volontà – produce senza seguire alcuna legge»169. La Volontà, ossia «l'essenza del tutto», è divenire; tutto è divenire, in quanto tutto è, ipoteticamente, volontà, e tale divenire, in quanto infondato, privo di fondamento razionale, di legge, di ordine, è irrazionale, cieco, ostile all'uomo, in quanto non si avvede dei suoi bisogni: «“Wille zur Macht” è il nome con cui Nietzsche chiama il divenire, il movimento dell'essente, di cui abbiamo conoscenza certa»170. Di qui il pessimismo schopenhaueriano che (contro De Sanctis) Severino si guarda bene dall'accomunare al ben più radicale “pessimismo” leopardiano. L'ipotesi è infatti per Schopenhauer e per i positivisti lo strumento mediante il quale prevedere il mondo (sia pure ipoteticamente), così da dominarlo, laddove in Leopardi questo ultimo baluardo contro la noia crolla, e con esso crolla la stessa volontà di potenza dell'Occidente (ed emerge la poesia intesa come prassi radicale). 169 170

Ivi, p. 31. Lago E., La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, Milano, Bompiani, 2005, p. 23.

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L'uomo concreto sente, intuitivamente, di essere Volontà. E questo sentire è l'unica certezza non ricavata per analogia, ma verissima, proprio in quanto sentita senza mediazioni, senza mediazioni discorsive. È vissuta col corpo, immediatamente. Sa con certezza tale verità perché vive tale verità, ne sta a ridosso, o meglio, coincide con questa volontà proprio in quanto coincide con il suo stesso corpo, che è la volontà stessa. Tanto è vero che l'alterazione del corpo coincide con l'alterazione della volontà. Tale volontà, senza progetto, senza meta, si scontra con altre volontà (ipotetiche) che la ostacolano, che la vogliono annullare e che non gli danno mai pace. La realtà scontenta la volontà, scontenta l'uomo. È il divenire che scontenta l'uomo schopenhaueriano, questo perché, tanto per Schopenhauer quanto per la metafisica epistemica, il dolore è dato dal divenire che annulla. Se nella metafisica epistemica, tuttavia, il rifugio volto a proteggere dal divenire stava nella Legge che sopra al divenire si imponeva e con la quale l'uomo doveva allearsi, ora quella Legge vien meno. Per questa ragione Schopenhauer sa di non poter trovare rifugio, contro il divenire, sotto le ali di una Legge eterna ed immutabile che si pone al di sopra del divenire: questa la ragione per la quale, per quanto parzialmente, in Schopenhauer si dà «una svolta decisiva nel modo di intendere il rapporto tra il dolore del divenire e il rimedio del dolore»171. Di qui il nuovo modo di intendere, da parte di Schopenhauer, la tecnica. Per lui la salvezza, l'atto tecnico, consiste nel sopprimere la Volontà (che è poi la stessa foga tecnica dell'uomo occidentale), nel ritirarsi dal divenire, proprio perché non c'è Legge che consenta di dare senso, razionalità e ordine al divenire. A causa dell'assenza di questa Legge, non ci può essere previsione, non ci può essere salvezza dal divenire. Per questo è necessario ritirarsi dal divenire. Ritirarsi per andare dove? È qui che riemerge il “Cristianesimo” di Schopenhauer; un Cristianesimo negativo ma non meno illusorio e non meno codardo, come osserverà Nietzsche. Il ritiro da quel tutto che è la realtà diveniente (che fa cadere nel nulla assoluto) consiste infatti, dice il filosofo di Danzica, nell'andare in un nulla relativo a ciò da cui si scappa. “Nulla” è una parola multivoca, come già Platone molto bene ha insegnato. Il nulla entro il quale si va non è il nulla assoluto che il divenire porta con sé, ma è ciò che è nulla in relazione a ciò che non è quel nulla relativo. Oltre alla volontà, al tutto, al divenire irrazionale che dà solo sofferenza, c'è dell'altro, che è altro (cioè nulla, non essere) relativamente al tutto diveniente che ci appare tanto reale, ma non è nulla in relazione a se stesso: non è nihil 171

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea., cit., p. 32.

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negativum. La salvezza dal nulla, per Schopenhauer, è data dalla teologia negativa, per la quale c'è dell'altro (per quanto quest'altro sia da intendersi come mera privazione di predicati) al di fuori del divenire del tutto che annulla e che, con il passare del tempo, sarà nella sua totalità diventato nulla. Precisamente a questo nulla relativo, che è nulla solo in quanto altro dall'altro da sé (cioè altro da tutto ciò che è volontà, divenire), il tecnico schopenhaueriano dovrà rivolgersi, per ricercare la salvezza dal nulla assoluto che il divenire invece dà. Questo nulla relativo, esterno al divenire, è sempre salvo dal divenire, e quindi dal nulla assoluto nel quale il divenire fa cadere. Proprio in quanto considera solo negativamente questo nulla relativo, Schopenhauer sta già con un passo fuori dalla metafisica epistemica: l'epistéme non è mai affermata, posta positivamente. E tuttavia ciò che Schopenhauer pone negativamente in relazione a quella positività che è il tutto diveniente, non è poi distante da ciò che i cristiani intendono con le parole “rimedio”, “salvezza”, quel rimedio e quella salvezza che negano l'agire tecnico dell'uomo sul mondo. Il tecnico trova la salvezza dal nulla assoluto in ciò che è nulla relativamente a ciò che fa cadere nel nulla assoluto. Schopenhauer cade in un dualismo che non può dirsi davvero nuovo, rispetto alla posizione salvifica offerta dalla cristianità. Nietzsche constata questa vicinanza di Schopenhauer alla tradizione osservando che Schopenhauer non sa sopportare il «piacere dell'insicurezza», non sa insomma guardare in faccia il divenire, e crede ancora di poter trovare un rifugio in ciò che è altro dal divenire, un rifugio privo di predicati, un rifugio negativo, ma invero non meno positivo di quello cristiano. «Il costruire rimedi e ripari contro il divenire è volontà di potenza e cioè interpretazione» 172, menzogna dettata dal principio di conservazione e riportabile alla luce mediante una «genealogia della morale». Solamente il culmine della volontà di potenza, il superuomo, riesce a rigettare tali menzogne e ad accettare il caotico divenire senza aggiungere nulla, senza trovare rifugi altri, senza distogliere l'attenzione da esso. “Tutto è divenire” significa che tutto ciò che sta fuori da esso non è nulla assolutamente. Il non avere inteso ciò è la grande colpa di Schopenhauer, «educatore» mancato proprio in quanto pavidamente ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendole la menzogna. Nietzsche e Leopardi sanno andare ben oltre questa critica schopenhaueriana alla tradizione epistemica. La loro grandezza consiste nella tematizzazione della necessità di non trascendere 172

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea., cit., p. 166.

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il divenire, di non rifugiarsi in una menzogna altra dal divenire, per quanto nello stesso divenire vada ricercata ancora una volta, venuti meno gli eterni, un'ultima menzogna che mostra sé in quel divenire che, da questa menzogna, non viene trasceso. La loro grandezza consiste nel non voler prevedere il divenire, nel non volersi imporre sul divenire prevedendolo mediante generalizzazioni che in realtà lo negano, e con esso negano la stessa volontà di potenza degli uomini. Da questo orizzonte teorico volto a negare il valore tecnico della previsione epistemica, non può che emergere il valore salvifico (tecnico) della negazione dell'epistéme. Se identifichiamo la tecnica con la volontà di potenza supportata da categorie atte a prevedere e controllare il mondo, allora dobbiamo dire che Leopardi, in modo uguale e contrario a Eschilo, è anti-tecnico: se Eschilo vede l'inadeguatezza della volontà di potenza non supportata dal rifugio dell'immutabile che, proprio in quanto immutabile, tappa le ali a quella stessa volontà di potenza e dunque alla tecnica intesa come volontà di prevedere il divenire, Leopardi vede l'inefficacia della volontà di potenza dalla prospettiva rovesciata. Partendo dalla prospettiva per la quale ogni verità eterna ed immutabile deve essere negata (perché questo è l'unico modo per smarcarsi dalla contraddizione per la quale la verità originaria – il divenire – non è vera), Leopardi nega la volontà di potenza perché comprende che la volontà di potenza conduce alla noia. Il suo vedere non è più un vedere illusorio, a differenza del vedere di Eschilo, che solo di facciata si opponeva alla volontà di potenza. Capiamo allora le affinità e le differenze tra l'atteggiamento tecnico di Schopenhauer e di Leopardi. Se per entrambi è chiaro che il rimedio non consista nell'epistéme, cioè nel presunto Ordine razionale e incontrovertibile che la realtà avrebbe, per Schopenhauer la salvezza, al di là dell'illusione dell'epistéme, si configura come il nulla relativo, che «lascia trasparire […] la suprema pienezza e ricchezza del Dio nascosto» 173; Leopardi invece, traendo conclusioni ben più rigorose e radicali dalle premesse nichilistiche dalle quali parte, guarda in faccia il nihil negativum, e cerca di ricavare una ultima, disperata salvezza (che è poi, ancora una volta, un'ultima, disperata illusione), da quello stesso nulla negativo, senza nascondersi dietro fallimentari alternative epistemiche: è questa mossa teorica compiuta da Leopardi che fa emergere il valore salvifico del discorso poetico, che è poi il non discorso che regge il contenuto del dire. 173

Ivi, p. 53.

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Questo divario fa sì che i due leggano in modo diverso la figura di Adamo, che è lo specchio entro il quale la volontà di potenza dell'Occidente si può guardare: se per Schopenhauer la colpa di Adamo è di non essersi ritirato dalla vita, in nome di una pienezza negativa solo relativamente alla vita dalla quale il vero Adamo, il vero tecnico, si deve ritrarre, per Leopardi, invece, l'unico atteggiamento realmente tecnico, al di fuori dell'illusione del paradiso della tecnica e del paradiso cristiano che ancora Schopenhauer insegue come vera fonte di salvezza, è quello del canto che canta il nulla e trae salvezza dal nulla in virtù della forma, della potenza poetica di quel cantare. Una tecnica questa che, proprio in quanto marginalizza il contenuto del discorso (pur riconoscendosi come inscindibile da esso), si rivela essere separata dalla volontà di potenza che invece animava l'atteggiamento tecnico cristiano e ancora schopenhaueriano. Nietzsche e Leopardi comprendono che il voler dare regolarità al mondo – per dominarlo – è una forma inadeguata di tecnica, in quanto illusoria, e l'illusione epistemica, che è come dire volontà di potenza, non dà la salvezza dall'annientamento. Tale forma inadeguata di tecnica deve lasciare spazio ad una nuova forma di agire tecnico, che è l'agire del superuomo, il quale dice “sì” al caos in cui il divenire consiste, al di là della menzogna delle interpretazioni considerate come “vere” che gli possiamo dare. Proprio in quanto consiste in un atto tecnico, salvifico, il dire “sì” al divenire da parte del superuomo non consiste in una accettazione passiva del mondo, che è mondo diveniente. La passiva accettazione, infatti, fa cadere nella noia, e quindi, lungi da salvare dal nulla, annulla. Nietzsche e Leopardi capiscono, invece, che al di là delle illusioni del Cristianesimo e della civiltà della tecnica, e al di là della soffocante assenza di illusioni che sfocia nella noia, la salvezza va trovata in una forma di illusione altra, non contenuta nel discorso, che mostra sé nella espressione di quel discorso. Capiscono cioè che la pretesa tecnica di dominio si gioca ad un livello altro, anche se complementare, rispetto a quello nel quale solitamente si ricerca la salvezza. «Anche il superuomo interpreta il divenire [e per questo si illude], ma attraverso una forma di interpretazione [di illusione] che non mira a deformarlo e irrigidirlo negli apparati immobilizzanti dell'errore utile, ma mira all'opposto a immedesimarsi a fondo nell'infinita inquietudine del flusso eterno di tutte le cose, esaltandola e provocandola al massimo» 174. L'illusione poetica, nella misura in cui viene allo scoperto come autentica salvezza, non può più distogliere lo sguardo dal deserto, ricercando una alternativa, come ancora Schopenhauer 174

Ibidem.

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fa. La potenza che dà non si può più appoggiare sull'illusione del “fatto”, ma anzi fa leva sul (cioè «esalta» il) venir meno del “fatto” stabile, positivo, prevedibile e controllabile. Che la verità possa darsi solo entro l'illusione, entro l'errore che – ultimo baluardo contro la noia – permette di vedere il vero senza al contempo essere annientati dal vero, è una acquisizione tanto leopardiana, quanto nietzschiana: «dicendo che “conoscere l'errore non elimina l'errore” (e cioè che conoscendo che qualcosa è errore non si elimina l'errore), il testo [nietzschiano] mostra di intendere il termine “conoscere” come “conoscenza della verità”. “Conoscere l'errore” significa conoscere ciò che è veramente errore (o conoscere veramente ciò che è errore), e dunque conoscere la verità rispetto alla quale l'errore è errore. […] Sono, questi, temi già pensati a fondo da Leopardi. “Le grandi verità …” scrive Leopardi “non si scuoprono se non per un quasi entusiasmo della ragione»175. È nel rinunciare a prevedere i fatti, e dunque a controllarli e a dominarli, cioè è nel rinunciare alla volontà di potenza che invece ha animato la storia dell'Occidente fino alla consapevolezza raggiunta da Leopardi, Nietzsche, e pochi altri (Gentile, Dostoevskij, «forse Wittgenstein»176) che si trova la radice della autentica tecnica, libera dall'illusione del dominio, che è la radice della tecnica. In questo senso si vuole intendere la poesia come tecnica. Come una nuova tecnica, lontana e anzi contraria all'atteggiamento tecnico portato avanti dall'Occidente per secoli, partendo dai Greci e, passando per i cristiani, giungendo alla “scientistica” civiltà della tecnica. Questa radice poetica della tecnica, che Leopardi indica nell'immagine del flebile profumo della ginestra, in Nietzsche viene espressa nella figura dell'eterno ritorno. È proprio nell'eterno ritorno, che è la radice tecnica e cioè poetica del discorso, che consiste il destino della poesia e dunque della stessa civiltà della tecnica che, sotto il segno della poesia come unica vera fonte di salvezza, ha da cambiare radicalmente il profilo che fino a quel momento si era data. La salvezza si dà solo sulla base di una ontologia che intende il divenire come un eterno circolo senza Senso, ed in ciò consiste la dottrina nietzschiana dell'eterno ritorno. 175

Severino E., L'anello del ritorno, cit., p. 49. Severino E., Il muro di pietra, cit., p. 91. In quanto filosofo della parola, Emanuele Severino, pur avendo intuito la grandezza di Wittgenstein, non ha saputo comprenderne il valore emancipativo giacché egli – il Bresciano – si rifiuta di intendere la possibilità dell'emancipazione come interna al nichilismo, e non lo fa perché non ha compreso che la liberazione dall'alienazione porta con sé il rifiuto della parola, il rifiuto del sistema. In quanto filosofo della parola, Severino non può realmente comprendere il valore emancipativo della (non)filosofia del silenzio di Wittgenstein. Severino non comprende che, l'unico modo per scrollarsi di dosso il nichilismo, è scrollarsi di dosso la parola, stando dentro al nichilismo medesimo. 176

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Riconoscendo che tutto è divenire, ci si illude che l'età della tecnica, che elimina l'ostacolo insormontabile di Dio e poi si affida al calcolo come mezzo per dominare il mondo nel modo più efficace, sia la nuova età dell'oro. Leopardi, scorgendo la salvezza al di là del contenuto del discorso, vede che «la potenza consentita dal calcolo – la riduzione della natura a qualcosa di semplicemente calcolato – conduce all'estrema impotenza»177, vede cioè che la volontà di potenza conduce all'estrema impotenza, che è l'esatto opposto della salvezza che l'uomo timoroso del “nulla” ricerca: «E indarno a preservar se stesso ed altro/Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa/Eternamente, il mortal seme accorre/Mille virtudi oprando in mille guise/Con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta,/La natura crudel, fanciullo invitto,/Il suo capriccio adempie, e senza posa/Distruggendo e formando si trastulla»178. «Il dominio [tecnico-scientifico] è propriamente il rimedio che l'uomo tenta invano di preparare contro il gioco annientatore della “natura”» 179, natura che è perpetuo divenire caotico, privo di un Ordine immutabile e incontrovertibile, privo di un qualsivoglia modello eterno, giacché «il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla» 180. La volontà di potenza si afferma annientando Dio, cioè eliminando ciò che, per essenza, resiste alla affermazione della potenza altrui. Così, la «volontà di potenza, che intende guidare il “gioco” della “natura” fino a che il suo essere visione della nullità di tutte le cose e della volontà di ogni potenza non distrugge ogni volontà di potenza […] e la dottrina della volontà di potenza non diventa dottrina della angoscia estrema della noia»181. La ragione totalmente dispiegata, che Leopardi chiama, con la sua consueta «ironia sovrana»182, «vera e perfezionata filosofia», consiste nella visione della nullità di tutte le cose, che spegne quella stessa volontà di potenza che crede invece di alimentare. La volontà di potenza, distruggendo quelle stesse illusioni delle quali, per sopravvivere, deve nutrirsi, realizzandosi, si scava progressivamente la fossa da sola: «la filosofia (prima di diventare dottrina dell'angoscia estrema della noia […]) si presenta come dottrina della volontà di potenza e del paradiso tecnico-matematico»183 che, finché si crede tale, non ha ancora

177

Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 187. Leopardi G., Canti, a cura di A. Campana, Roma, Carocci, 2014, Palinodia, vv. 167-72. 179 Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 188. 180 Leopardi G., Zibaldone, cit., p. 1341. 181 Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 192. 182 Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 19. 183 Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 200. 178

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sviluppato totalmente se stesso, annientando quell'illusione che è il fondamento stesso della sua esistenza. Leopardi sa che tutta la filosofia moderna, per quanto aspramente possa criticare la tradizione, non è altro che «il prolungamento della filosofia tradizionale» 184, ossia il prolungamento della «siepe» costituente l'illusione contenuta nel discorso filosofico. Per questo, posto Platone come paradigma della tradizione che vede nell'epistéme illusorio il rifugio mediante il quale salvarsi saziando l'insaziabile volontà di potenza, la critica lockeina all'innatismo platonico è da Leopardi considerata come del tutto superficiale, in quanto anch'essa immersa nell'illusione di quello stesso eterno che anima il platonismo. L'essenza della filosofia moderna è la stessa del platonismo, ed è anche la stessa della filosofia di Leopardi, con la differenza che Leopardi, a differenza della filosofia moderna e cristiana, sa trascendere l'illusione entro la quale le altre due, allo stesso modo, sono immerse. Tale essenza è, nel caso della filosofia moderna, una «essenza nascosta; perché nella sua forma visibile la filosofia moderna si presenta sì come critica alla filosofia tradizionale, ma per ricostruire, su una nuova base, il senso tradizionale della realtà, dove l'essere diveniente del mondo è fondato sull'Essere eterno e immutabile» 185. Tale essenza è però, al di là dei suoi mascheramenti, comune al Cristianesimo, al pensiero greco, alla «vera e perfezionata filosofia», e ciò Leopardi lo sa. Leopardi sa che la radice della considerazione della nullità di tutte le cose sta nel pensiero greco, e il possesso leopardiano di questa consapevolezza appare chiaro dagli espliciti riferimenti che lui fa alla nozione aristotelica di “natura”, intesa come “materia prima” (si pensi alla Operetta su Stratone di Lampsaco e ai riferimenti, anche questi del tutto espliciti, al Frammento 52 di Eraclito, riproposto «nel modo più chiaro» 186 dai versi 154-72 della Palinodia). Si può insomma dire, accostando Leopardi a Nietzsche anche a causa di questa consapevolezza delle radici greche del pensiero, che «la “natura” di Leopardi ha i tratti essenziali della physis. Molto prima di Nietzsche, è Leopardi a ritornare al più antico pensiero dei greci»187. Se la tradizione greca pone l'eterno a fondamento del divenire, la filosofia moderna nega l'eterno, così da lasciare spazio alla volontà di potenza, che altrimenti sarebbe 184

Ivi, p. 205. Ivi, p. 201. 186 Ivi, p. 35. 187 Ivi, p. 18. 185

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inesorabilmente frenata dall'eterno che, in quanto tale, non si lascia plasmare dalla volontà di potenza. L'eliminazione dell'epistéme da parte della filosofia moderna le impedisce, in prima battuta, di vedere tutta l'impotenza che, dall'eliminazione delle illusioni che il pensiero greco portava con sé, deriva. Leopardi «scorge […] al di sotto della maschera della filosofia moderna» 188 l'essenza nichilistica comune a tutte queste apparenti fratture teoretiche che si danno nella storia della filosofia: «mi cred'io, non può la lieta/nonadecima età più che potesse/la decima o la nona, e non potranno/più di questa giammai l'età future» 189 instaurare un orizzonte di salvezza, una età dell'oro eternamente salva dal nulla, in quanto il fondamento stesso sul quale la «nonadecima età» è costruita non lo consente. La verità non è il fondamento della felicità, come ritiene l'età della tecnica. La verità, nella quale consiste l'abbattimento di Dio, toglie l'attrito che serviva per volare, e fa precipitare nella noia. Questo non l'età della tecnica lo vede, ma il filosofo Leopardi che, vedendo filosoficamente che il contenuto del discorso filosofico non può salvare, ricerca la salvezza in qualcosa di altro rispetto al contenuto di quel discorso; qualcosa che sorregge il contenuto di quel discorso da fuori, qualcosa che illude tenendo ferma la coscienza del nulla, che illude tramite la forza del canto, che è una forza (e cioè una illusione, in quanto, di nuovo, non si dà potenza senza illusione) altra rispetto alla forza illusoria del dire.

§5 Vico interprete di Dante 5.1 Il principio del verum-factum come fondazione metafisica della volontà di potenza: una lettura idealistica di Vico La lettura di Dante che qui si sta proponendo può trarre conforto dal discorso che, nella Scienza nuova, Vico va elaborando in merito alla nozione di “poesia”, in generale, e di “poetica dantesca”, in particolare. Una lettura, questa vichiana, che si connette molto strettamente alle osservazioni severiniane che intendono una certa poesia come un atto produttivo. La «nuova arte critica» vichiana, configurandosi come una ermeneutica del mito, studia la poesia come 188 189

Ivi, p. 203. Leopardi G., Canti, cit., Palinodia, vv. 186-9.

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modalità di espressione dei popoli barbari i quali, poetando, si esprimevano, rispecchiavano metaforicamente il mondo civile dando ai fenomeni sociali significati ben determinati, e così li producevano, ma attraverso metafore o, come dice Vico, attraverso tropi inconsapevoli: «Vico trasla la nozione di traslato, fa un tropo della nozione di tropo, adopera metaforicamente la nozione di metafora, etc., per risalire al linguaggio (e pensiero) di quei bestioni»190. Per focalizzare questo problema è opportuno fare riferimento a Dialettica dell'Illuminismo che, partendo da una prospettiva per molti versi difforme da quella vichiana, nel passo seguente dimostra di avere una sensibilità vichiana nel momento in cui si confronta ai problemi della tecnica: «Nella fase magica sogno e immagine non erano considerati solo come un segno della cosa, ma erano uniti ad essa dalla somiglianza o dal nome», e ancora: «Perché le pratiche localizzate dello stregone cedessero il posto alla tecnica industriale universalmente applicabile, era prima necessario che i pensieri si rendessero indipendenti dagli oggetti, come avviene nell'Io conforme alla realtà»191. Questo aspetto tecnico-semiologico del mito, così come è inteso da Vico, non sfugge a Severino che, nella sua storia della filosofia, sviluppa esattamente questo aspetto del pensiero del filosofo napoletano, trascurando gli altri, anche a costo di dare troppa importanza alla nozione del verum-factum, nozione che si presta ad essere applicata ad una lettura volta a porre l'accento su un Vico fautore della tecnica, ma che compare ben raramente nelle pagine dell'ultima – e più importante – opera vichiana. A sottolineare, contro la lettura di Severino, la necessità di ridimensionare la nozione vichiana del verum-factum è, tra i tanti, Vanzulli, il quale sostiene che tale nozione, sviluppata diffusamente nelle opere precedenti (nel De ratione e nel De antiquissima), non gioca un ruolo centrale all'interno della epistemologia della Scienza nuova, nonostante abbia il merito di dare autonomia, alla nuova scienza vichiana, dalla teologia razionale: non possiamo infatti conoscere Dio in quanto non lo abbiamo fatto, e così la storia sacra, il miracoloso, va escluso dall'orizzonte della nuova arte critica esposta nella Scienza nuova, tutta concentrata unicamente sugli aspetti civili che si danno nella storia profana, dove appunto non vi è traccia del miracoloso, e dove gli unici aiuti che il vero Dio, cioè il Dio della religione cristiana, ha dato, sono aiuti ordinari, aiuti che non sono altro che un fondamento antropologico volto a dare unità a tutti gli individui, e permettendo così una storia 190 Amoroso 191

L., Introduzione alla Scienza Nuova di Vico (2011), Pisa, ETS, 2013, p. 102. Horkheimer M./Adorno T., Dialettica dell'Illuminismo, cit., p. 19.

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ideale eterna al di sotto delle diverse storie particolari, un diritto naturale delle genti al di sotto dei particolari diritti positivi, un dizionario mentale comune a tutte le lingue particolari che si danno storicamente. A riprova di quanto si sta sostenendo, è bene sottolineare il fatto che il principio del verumfactum è richiamato solo due volte nell'intera Scienza nuova, mentre nella Autobiografia Vico non fa mai cenno a tale principio. Dopo averlo sviluppato nel De Antiquissima, in riferimento alla aritmetica e alla geometria, e ponendosi per giunta nel solco del tanto vituperato «Renato Delle Carte», uscendo dunque dall'ambito di ricerca della sua opera principale che, lungi dall'essere quello delle scienze dure, è il ben più imprevedibile campo del mondo civile delle nazioni, nella Scienza nuova Vico preferisce fare riferimento ad un altro principio: quello del verum-certum, al quale corrispondono le dicotomie filosofia-filologia, intelletto-volontà, scienza-conoscenza, e dove si cercherà di ricondurre i «rottami» della storia a delle costanze, come vedremo sempre problematiche e mai definitive. Forte di queste osservazioni, atte peraltro a porre in evidenza come la epistemologia dell'ultimo Vico sia fortemente debitrice nei confronti di quella galileiana, Vanzulli polemizza con la lettura idealistica del principio vichiano del verum-factum, che «si basava in gran parte sull'anticartesianesimo di Vico, che veniva in toto fatto coincidere con un antinaturalismo ed un antiscientismo»192 fasullo, dato l'atteggiamento di apertura che Vico aveva nei confronti del nominalismo e dell'empirismo proprio della tradizione scientifica moderna, galileiana ma anche baconiana (si ricordi che Bacone figura come uno dei quattro autori di riferimento di Vico). «L'insistenza di Croce sull'antinaturalismo di Vico è indice della proiezione sulla filosofia vichiana di impulsi e istanze della reazione antimaterialistica e antipositivistica propri dell'idealismo e dello spiritualismo del ventesimo secolo»193. Per riprendere il discorso che Severino fa su Vico, possiamo dunque dire che, contro Vanzulli, egli riprende la lettura idealistica “crociana” di Vico, ma non per andare contro i legami tra Vico e la scienza galileiana, enfatizzati dal lavoro di Vanziulli. Severino, anzi, proprio in virtù della lettura idealistica che dà di Vico, fa emergere la componente tecnofila alla quale il discorso vichiano aderisce a partire, secondo la lettura severiniana, dal principio metafisico del verum-factum che, secondo la sua ricostruzione, dovrebbe permearne 192 193

Vanzulli M., La scienza di Vico. Il sistema del mondo civile, Milano, Mimesis, 2006, p. 97. Ivi, p. 117.

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implicitamente, nelle intenzioni dell'autore, il discorso filosofico, nonostante di tale principio nella Scienza nuova sia difficile trovare traccia. Si è infatti già avuto modo di evidenziare come, per Severino, l'idealismo – e in particolare il neoidealismo italiano, cioè proprio quel neoidealismo del quale, a detta di Croce, Vico sarebbe precocissimo precursore – non sarebbe affatto ostile alla scienza e alle tecnica, ma anzi proprio la dialettica così come è stata messa in luce dall'idealismo sarà il fondamento metafisico del quale la scienza si servirà nella contemporaneità come mezzo per raggiungere il suo fine (cioè l'incremento continuo di potenza, il sempre maggiore dominio sul mondo, dominabile in quanto diveniente).194 La filosofia idealistica, nel suo versante gentiliano, fornisce tutti gli strumenti filosofici atti ad abbattere quel muro di pietra senza il quale la tecnica può agire indisturbata, nella sua opera di continua affermazione di sé, intesa come volontà di potenza che sempre più deve affermarsi sul mondo e che può fare ciò solo in assenza di quel limite inviolabile dinanzi al quale la tecnica sarebbe costretta ad arretrare, e che all'interno della tradizione cristiana è indicato come Dio: proprio in quanto l'idealismo gentiliano (sulla base dell'idealismo classico, al tempo culmine della metafisica epistemica e suo critico implacabile) teorizza filosoficamente la morte di Dio, è non solo in consonanza con la tecnica, ma è precisamente ciò di cui la tecnica necessita affinché possa affermarsi, dato che non sono la scienza, o la politica, o la religione, a poter decretare la morte di Dio, ma solo la filosofia può farlo. In linea con l'idealismo crociano, Severino interpreta Vico partendo dal principio del verumfactum, e insiste sull'idealismo di Vico, che su quel principio si fonda: se il razionalismo dogmatico (pre-kantiano), attraverso il concetto di Dio, risolve il problema gnoseologico tipico della modernità (come superare il divario tra certezza e verità) cadendo infine in un realismo ingenuo, in cui l'essere formale, prodotto da Dio, viene passivamente rispecchiato dall'Io, in Vico si verifica già quella mossa per la quale è l'Io che produce, attivamente, non la natura, bensì il mondo civile, quel mondo civile che l'uomo può conoscere, per quanto in modo problematico, proprio in quanto quel mondo, il soggetto conoscente, lo produce, e lo produce “poetando”. Scrive Severino che «per Cartesio e per il razionalismo la verità della scienza può essere 194

Severino arriverà addirittura a sostenere che, lungo la storia del positivismo (cioè di quell'atteggiamento filosofico impegnato a sviluppare una riflessione teorica atta esplicitamente a giustificare il progresso guidato dalla scienza e dalla tecnica), ad un atteggiamento anti-epistemico sempre più radicale corrisponderà un ritorno, da parte di un positivista come Ardigò, a posizioni idealistiche (cfr. Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 151).

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trovata solo uscendo dall' “io” e afferrandosi a Dio; Vico mostra che […] la verità della scienza può essere trovata rimanendo nell'“io”»195. E poi Severino, ribadendo l'innovazione teorica compiuta da Vico, afferma che, prendendo le distanze dal realismo ingenuo di Descartes, il Napoletano propone già una forma, per quanto acerba, di idealismo: per Cartesio «si tratta di trovare il medio che congiunge le determinazioni della mente umana (“essere oggettivo”) alla realtà che sta fuori di essa (“essere formale”); ma nella “Scienza Nuova” questo medio non è necessario, perché la realtà che sta al di fuori delle modificazioni della mente umana è essa stessa realtà umana, prodotto della mente dell'uomo» 196. E tale «realtà spirituale» prodotta dall'agire umano «è sviluppo, divenire»197, in quanto l'essenza delle cose è il divenire. Non ci stupirà quindi che Severino, dopo queste argomentazioni, scriva che questo – sviluppato così precocemente da Vico – «è il tema che troverà l'approfondimento più radicale nell'idealismo»198, dove per “idealismo” bisogna intendere non certo quella posizione antiscientifica di matrice crociana stigmatizzata da Vanzulli, bensì quel discorso filosofico impegnato a dare quella legittimazione teorica sulla quale sviluppare l'apparato tecnicoscientifico mediante il quale dominare il mondo. 5.2 Le forzature della lettura che Severino dà di Vico Questo “idealismo vichiano” pare svelarsi, nel modo più esplicito possibile, nella breve ma densissima degnità XIV della Scienza nuova, che recita: «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre [= tutte le volte] che son tali, indi tali e non altre nascon le cose» 199. Tale concezione della natura che Vico, come spesso Severino, accosta etimologicamente al verbo nascor (nascere, cioè nascere e morire, cioè divenire), indica una concezione non rigida, non essenzialistica, bensì genealogica, della natura (natura è nascimento in certi modi e in certi tempi). Vico con questa mossa supera l'essenzialismo tipicamente scolastico in nome di una nozione di natura della quale possiamo sì ritrovare una sua costanza, e che tuttavia tematizza anche il fatto che i modi e i tempi in cui le cose nascono non possono essere sempre i medesimi; le analogie che si danno nei nascimenti non implicano mai identità, e dunque le costanze indicano similitudini ma anche variazioni, 195

Severino S., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, cit., pp. 187-188. Ivi, p. 189. 197 Ivi, p. 190. 198 Ibidem. 199 Vico G., Opere (1990), a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 2007, p. 500. 196

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che non si riducono mai a schemi fissi ed aprioristici, che non si riducono mai ad una inderogabile fissità. I cominciamenti e gli sviluppi delle nazioni, pur presentando delle costanze e delle regolarità, non rispondono mai a essenze statiche, ma anzi Vico, con il suo elogio dell'ingegno, della fantasia e della creatività, fin dal De Ratione incita alla rottura del modello statico affinché possa darsi produzione, attività umana: «E se dicessi che gli ottimi modelli lasciati dagli artisti nuocciono, anziché giovare, a qualsiasi istradamento a tal sorta di discipline? […] Coloro che ci hanno lasciato migliori modelli artistici si giovarono forse di modelli anteriori? […] coloro che si propongono d'imitare ottimi modelli lasciati da altri artisti, per esempio da altri pittori, non possono al certo né superarli né eguagliarli. […] dovremmo distruggere tutti gli ottimi modelli artistici»200. «Il metodo vichiano appare dunque di tipo genetico-critico, non essenzialistico, nella misura in cui risolve la natura di una cosa nella sua costituzione genetica. […] La natura sorge nel tempo. […] In ciò è da vedersi la vicinanza di Vico al metodo della scienza moderna, che registra la guisa, ovvero il modo, il come, rinunciando a risalire alle cause prime. La scienza ricerca l'uniformità, la tendenza, la costanza, o, con la terminologia vichiana, l'eterno»201. È proprio quest'ultima parola – eterno – ad introdurci un secondo aspetto, anche questo piuttosto controverso, della riflessione severiniana su Vico. Severino ritiene che Vico, nonostante abbia brillantemente anticipato l'idealismo, non abbia saputo emanciparsi da una concezione, in fondo ancora ingenuamente realista, per cui c'è un Dio esterno e indipendente al pensiero, che resiste e che limita qualsiasi attività dell'io, e che si impone nella regolarità della storia ideale eterna (lo stesso vale per l'idealismo berkeleyano, che in ultima istanza cade in un realismo ingenuo, che teorizza Dio come sostanza esterna e indipendente al pensiero e all'attività umana). Per Severino Vico sostiene che l'io, agendo (ed agire per Vico è anzitutto poetare), produce la storia appartenente ad una nazione particolare, in un tempo particolare, una storia che corre, assieme alle altre storie delle altre nazioni particolari, su di una storia ideale eterna che ha, dice Severino, una «essenza universale», una «struttura immutabile». Severino pare porre troppo disinvoltamente l'accento sul (presunto) determinismo che per Vico dovrebbe reggere la storia delle nazioni, e che dunque dovrebbe regolare, da quanto dice 200 201

Ivi, pp. 198-199. Vanzulli M., La scienza di Vico. Il sistema del mondo civile, cit., p. 59.

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Severino nella sua lettura di Vico, in modo rigido ed aprioristico il divenire che si dà all'interno delle nazioni, che sono prodotto dell'agire poetico degli uomini. Severino pare non avvedersi del fatto che, nella prima edizione della Scienza nuova, Vico, paragonando l'agire umano al lavoro del fabbro, e la provvidenza ai comandamenti della regina (che per l'appunto, dice Vico, non è una «tiranna» i cui comandi sono rigidissimi e inderogabili, bensì una «regina» che lascia spazio al libero arbitrio), va smarcandosi da una impostazione epistemica entro la quale – per il Bresciano – Vico cadrebbe. Calcando ulteriormente la mano Severino dice anche, e soprattutto, che «l'alternanza dei “corsi” e dei “ricorsi” storici» è necessaria202. Molti studiosi hanno scritto, contro Severino, che in Vico non c'è alcun determinismo che riguarda la storia, specialmente quando tale storia si trova al suo apice, cioè nella terza età, nell'età degli uomini, sempre minacciata dalla crisi e mai sostenuta da quella provvidenza divina che invece pareva sostenere, seppure sempre in modo problematico, le prime due età. Risulta singolarmente simile la posizione vichiana a quella esposta dal Kant della terza tesi della Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico: l'uomo della terza età vichiana, cioè della umanità dispiegata, sembra simile all'uomo kantiano che, presa coscienza di sé e della propria libertà, si emancipa da quell'alone teologico-provvidenziale che pareva guidare l'uomo non ancora cosciente di sé, in nome di un uomo nuovo, un uomo più degno, più umano, un uomo illuminato, che pensa da sé, che esce dallo stato di minorità in cui si delegava il proprio pensiero ad altri, un uomo che ora osa pensare, e che si prende la responsabilità e si accolla l'onere di questa sua autonomia: questo uomo è un uomo che ha sì un corpo che non ha fatto da sé, ma che gli deriva da Dio (dagli «aiuti ordinari» della provvidenza divina, direbbe Vico), ma che per il resto non può fare affidamento su Dio, e che deve trarre «tutto da sé», deve riferire tutto «solo a se stesso», va ripetendo quasi ossessivamente Kant. Per questo uomo uscito dallo stato di minorità, che deve trarre tutto da sé, «la decadenza della moltitudo è un orizzonte permanente di possibilità» 203. La decadenza degli stati al loro apice è qualcosa di non prevedibile, di non rigidamente stabilito: «non c'è regola che spieghi questo rovesciamento. Succede quando succede. Né alcuna teoria può davvero prevederlo» 204. Proprio da questo presupposto teorico, per cui il corso delle nazioni non è mai totalmente 202

Tutto ciò ricorda molto le riflessioni sul libero arbitrio presenti nella Commedia, in Purg. XVI, 67-78, Par. IV, 28-63, e soprattutto Par. XVII, 37-42. 203 Caporali R., La tenerezza e la barbarie. Studi su Vico, Napoli, Liguori, 2006, p. 129. 204 Ivi, p. 124.

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risolvibile in schemi concettuali prestabiliti, deriva la perenne insoddisfazione di Vico che, ormai in fin di vita, continua a chiosare la terza edizione della Scienza nuova, con la speranza di avere ancora un poco di vita per pubblicarne una nuova, ancora migliorata edizione. Di certo anche questa quarta edizione, se fosse stata portata a termine, sarebbe stata come le altre ancora bisognosa di correzione, proprio a causa del fecondo anti-determinismo del sistema vichiano, che invece Severino negherebbe, in nome dell'adesione epistemica a un rigido determinismo da parte del filosofo napoletano. Nella Scienza nuova, infatti, cade l'impianto antropologico-teologico-metafisico del Diritto Universale, culminante (come nel caso della filosofia politica dantesca) nello sbocco escatologico, per lasciare spazio allo studio di una umanità il cui sviluppo è prodotto dell'attività dell'uomo (e che per questo può essere indagata: verum ipum factum convertuntur) ma che può essere fatta riemergere solo con fatica e in modo mai definitivo, mai concluso, bensì sempre bisognoso di essere nuovamente e nuovamente chiosato: tale indagine dovrà essere condotta sui rottami del passato (che sono prodotti dagli uomini che, producendoli, hanno prodotto la loro storia: i primi fra questi sono appunto i miti, le poesie dell'antichità), i quali dovranno essere ricondotti nel modo più rigoroso possibile entro un sistema ideale mai compiuto. Questa indagine dovrà essere condotta attraverso mai lineari o scontate comparazioni tra diverse nazioni, tra il piano ontogenetico e quello filogenetico: «Niente di facile e piano. Nessuna immediata, prestabilita armonia. Sintonie faticosissime, al contrario, che richiedono l'inseguimento inesausto della correzione, del miglioramento, dell'aggiunta. Un cercare che termina solo con la morte del ricercatore»205. 5.3 Teologia vichiana: Dio e la questione della tecnica Si è detto che, «se la Scienza Nuova sembra richiamarsi talvolta (ma solo in pochi luoghi) al principio della conversione di “vero” e “fatto”, il rapporto in essa centrale è, piuttosto, quello di “vero” e “certo”»206; e tuttavia in alcuni punti cruciali emerge chiaramente la convergenza di “fare” e di “conoscere”, che riguarda tanto Dio («perocché in Dio il conoscer e 'l fare è una medesima cosa») quanto l'uomo: «in tal densa notte di tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno […] che questo mondo civile egli 205

Ivi, p. 47.

206 Amoroso

L., Introduzione alla Scienza Nuova di Vico, cit., p. 84.

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certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» 207. Il fatto che tale storia sia prodotta dall'agire umano non porta con sé il fatto che «la storia del mondo civile possa essere conosciuta semplicemente a priori, con un atto di introspezione mentale: se Vico intendesse sostenere questa tesi assurda, non si capirebbe fra l'altro la sua insistenza sulla componente filologica della nuova scienza»208. Lo studio della poesia, cioè del fare (poetico) da parte della trascorsa umanità, è un lavoro che può essere compiuto perché noi apparteniamo a quella umanità, quindi siamo noi, in quanto parte di quella umanità, che abbiamo fatto quella storia e che per questo la possiamo conoscere, ma d'altro canto il lavoro atto a far riemergere l'agire (poetico) di quei primi popoli è reso complesso, mai lineare, a causa della distanza che ci separa da quei popoli: «tal natura poetica di tai primi uomini, in queste nostre ingentilite nature, egli è affatto impossibile immaginare e a gran pena ci è permesso d'intendere» 209. La storia è insomma per Vico kantianamente trascendentale, è fatta dagli uomini, ma non per questo si deve pensare che ciò che è prodotto da noi, solo perché da noi è stato prodotto, sia facilmente conoscibile, o peggio ancora, sia conoscibile a priori, come se il nostro agire fosse guidato da un modello di comportamento rigido e predeterminato. Per andare contro questa prospettiva semplicistica, che andrebbe a negare il cristiano principio del libero arbitrio che mai Vico vorrà scardinare, e dunque a favore della complessità della ricerca, Vico utilizza una metafora dal sapore wittgensteiniano: egli si riferisce alla «mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima, come l'occhio corporale che vede tutti gli obietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso»210. Wittgenstein precisa: «l'occhio, in realtà, tu non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio»211. È questa «fatiga» che Vico si propone di tematizzare; una «fatiga» nel ricostruire la storia ideale eterna che non deriva dal fatto che un Ordine prestabilito e rigido (un «muro di pietra») c'è ma non può essere da noi conosciuto. Al contrario, questa «fatiga» indica che questo muro 207

Vico G., Opere, cit., pp. 541-542. L., Introduzione alla Scienza Nuova di Vico, cit., p. 77. 209 Vico G., Opere, cit., p. 440. 210 Ivi, p. 542. 211 Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, cit., 5.633. 208 Amoroso

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di pietra, che impedirebbe l'agire dell'uomo, la potenza tecnica, produttiva, del canto, nonché il libero arbitrio del singolo, non c'è. Certo, Dio esiste, ma viene da Vico relegato, per quanto concerne la storia gentile, alla costituzione dell'uomo in quanto ente naturale. Dio si limita ad essere il fondamento non antropologico dell'antropologia: non indica nessun altro vincolo all'attività tecnica dell'uomo nella storia. Una attività, questa, che si dà grazie alla potenza del canto, una potenza tecnica che deriva dal fatto che, il canto, la poesia, con la sua forza dà significati metaforici, anche se non riconosciuti come tali. Verrà poi il momento in cui la tecnica, mantenuta la verità profonda della poesia, e cioè la verità che attesta l'innegabilità del divenire, cioè l'innegabilità per la quale le cose, in quanto divenienti, possono essere plasmate a piacere dall'uomo attraverso il suo libero agire tecnico, si servirà non più della metafora non riconosciuta come tale, ma della previsione concessa dalla matematica, preferita nell'età moderna alla metaforicità del canto delle prime età non in virtù di una sua maggiore verità, ma in virtù del fatto che la tecnica, usando la matematica, risulta più efficace. Se la civiltà della tecnica, che è la civiltà degli abitatori del tempo, si rendesse conto che la preghiera dà all'uomo una capacità di dominio (una capacità tecnica che è, ridotta all'essenziale, la capacità poetica) superiore di quella che non le conferisce la matematica, tale civiltà non ci penserebbe un secondo: abbandonerebbe la matematica in nome della preghiera! Dunque l'utilità di Dio, il suo potere civilizzatore, è un potere dato non da Dio in quanto vero, ma da Dio in quanto metafora poetica della quale si servono i primi uomini per controllare gli enti, cantando quello stesso Dio. Successivamente, quando ci si renderà conto della maggiore utilità della matematica, ai fini del dominio, si abbandonerà la metafora di Dio: «tali primi uomini […] dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch'è il pensare da bestie»212. Questo pensare metaforico, bestiale, che è un cantare ciò che viene sentito con la potenza delle passioni, è ciò che permette agli uomini di produrre il loro mondo, il mondo delle nazioni. Con ciò non significa che per Vico Dio non esista: Dio esiste, ma quel primo Dio che viene temuto, e cantato, e che quindi permette l'agire tecnico, non è il vero Dio (per Severino il timore di Dio è solo secondario al primo, originario timore che è il timore nei confronti dell'annullarsi degli enti, del loro oscillare tra l'essere e il non-essere, timore che Vico invece, abitatore del tempo, non riesce a scorgere, e per questo non sa elevarsi al di sopra della scacchiera dell'Occidente). 212

Vico G., Opere, cit., p. 547.

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È dal vero Dio, dice Vico, che deriva l'eterogenesi dei fini: l'uomo agisce ma c'è sempre uno scarto tra le sue intenzioni e i suoi risultati, e questo scarto sta in conformità di una struttura posta da Dio. I fraintendimenti stanno tutti qui: per Severino questa struttura posta da Dio è qualcosa di rigido, una «barriera» che impedisce l'autentico agire tecnico, cioè libero di incrementare sempre di più la sua potenza (questo, il fine della tecnica, cantata nel canto dei bestioni). Ma se così fosse non si capirebbe in cosa consistano quei meriti da Severino stesso riconosciuti all'«idealista» Vico: se Vico affermasse la tecnicità dell'uomo, per poi farlo ricadere prigioniero del muro di pietra tipico della tradizione epistemica, se insomma Vico affermasse la tecnicità del canto poetico ma poi non facesse nulla per liberare l'uomo da quella tradizione cristiana che impedisce quella stessa tecnicità, Vico non andrebbe realmente elogiato (ed in effetti gli elogi di Severino a Vico sono ben tiepidi, tanto che ben raramente il filosofo napoletano viene preso in considerazione negli scritti severiniani). Ci si permette di dissentire da questa lettura severiniana, atta a sminuire il valore teoretico di Vico. Quando nella Scienza nuova si dice che «cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della provvedenza perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch'ella v'ha posto sono universali ed eterni» 213, non si intende teorizzare quel soffocante muro di pietra della tradizione cristiana, ma si intende dire, come dirà Kant nell'Idea, che finché l'uomo non conosce se stesso, la propria umanità, non saprà agire consapevolmente, non saprà che agendo attua la sua libertà, e così facendo, alienata questa coscienza di sé, non riuscirà a realizzare intenzionalmente tale sua libertà nella storia. Una volta che l'umanità prende coscienza di sé, una volta che si entra nel periodo della umanità dispiegata, tanto in Kant quanto in Vico viene meno qualsiasi riferimento alla provvidenza, e subentra il rischio della crisi: quando l'uomo prende coscienza di sé, Dio toglie la mano dalla storia, smette di indirizzarla (non che prima realmente la indirizzasse): è l'uomo che «trae tutto da sé», e l'unico suo limite è la sua umanità materiale, quella sì prodotta non da sé ma da quel Dio che funge da fondamento non antropologico dell'antropologia. Nient'altro fonda il Dio vichiano: in questo movimento, piuttosto esplicito nella Scienza nuova, consiste il tentativo vichiano, certo non portato a completezza ma comunque abbozzato, 213

Ivi, p. 549.

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atto a scardinare il muro di pietra, atto a dare oneri e onori all'uomo. Riconoscimento della drammaticità della crisi e delle capacità tecnico-produttive dell'uomo sono, nel discorso vichiano, due facce dell'unica medaglia, quella medaglia che i bestioni non riuscivano a scorgere esplicitamente ma che il loro canto già conteneva implicitamente, e che il filosofo Vico sa scorgere, seppure in modo precario, in termini filosofico-concettuali. La verità implicita del canto, che canta l'eterno, è ciò che dà potenza a quei poeti teologi delle origini, è cioè il riconoscimento che non vi è eterno alcuno, riconoscimento che solo può fondare l'attività tecnica dell'uomo. Nella Scienza nuova Vico vede che «il mondo del mito è il grembo da cui nasce il mondo della ragione»214, e vede che la ragione, separata dalla forza del canto, non ha forza di agire (ed è l'agire, ora lo sappiamo, ciò che preme di più a Vico): la ragione senza la forza del canto gira su se stessa, non ha la forza di fare la storia, ma risulta inutile e astratta: privata e «monastica», e non «politica» e volta alle «morali pubbliche». Ciò che non è razionale, cioè la potenza del canto, la sua forma, che non deve essere mai abbandonata nemmeno al tempo della umanità dispiegata, se non si vuole cadere nell'immobilismo, nell'anarchia, ossia nella «barbarie della ragione», è il sentimento, che sta alla base di tutto l'Occidente il quale, senza sentimento, lungi dal dominare il divenire, sarebbe annientato da esso. Il contenuto del canto del bestione è invece la barriera, quel Dio che ci si deve ingraziare con auspici, che non si può combattere, perché rappresenta un ostacolo insormontabile. Se si desse solo il contenuto del cantare poetico dei bestioni, si cadrebbe nell'immobilità, soffocati dalla pienezza dell'essere che non consente di essere oltrepassato. Allo stesso modo, dirà quell'acutissimo analista della società della tecnica che fu Leopardi, il contenuto della filosofia liberata dal Cristianesimo, e cioè liberata dalle illusioni, priva della forza del canto, una volta scorta la verità in cui consiste la nullità delle cose, ci imbriglierebbe in un immobilismo uguale e contrario: non più immobilizzati dalla soffocante pienezza dell'essere inviolabile, ma immobilizzati dalla visione del «solido nulla» che, imprevedibile perché privo di qualsivoglia ordine, farebbe cadere nella paralizzante angoscia (la «noia») derivante dalla visione della verità delle cose, non più sorretta dalla forza del canto. Questo il destino della umanità dispiegata nel momento in cui viene perdendo ogni contatto con il sentimento poetico che il discorso stesso della umanità dispiegata sostiene. 214

Vanzulli M., La scienza di Vico. Il sistema del mondo civile, cit., p. 191.

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Non si dà azione, produzione (e poesia deriva da poiein, come bene osservano tanto Severino quanto Vico), tecnica, senza ciò che è sentito nella festa, che è la forma, la potenza del canto. Tale forma diviene poi, via via che gli uomini portano storicamente a coerenza il nichilismo occidentale sorto con la metafisica greca, sempre più evidente, dato che il contenuto del discorso non può più sorreggere il discorso medesimo mediante l'illusione epistemica; venuta meno ogni illusione, la forma poetica emergerà nel sentimento della forza del canto, che dal vero nulla detrae, ma che dà l'ultimo barlume di illusione nella stessa forza del canto che canta la nullità delle cose (sarà questa l'opera del genio cantata ne La Ginestra). Tutto ciò Vico lo scorge: la metafisica riposta si fonda su quella volgare, e deve conservare sempre l'illusione propria di quella volgare, una illusione che è tale solo se non è riconosciuta come tale (l'illusione è tale finché si sta nell'illusione, finché non la si guarda da fuori: guardare l'illusione da fuori significa condannarsi all'assenza di illusione). Questa illusione va però accompagnata anche al sentore della verità, nella quale viene riposta la fede dell'Occidente, e che è ciò che dà potenza, che permette quella «morte di Dio» che dà potenza ma che assieme, se diventa totalizzante, fa cadere nella morte della tecnica, nella totale inazione. 5.4 Per una nuova epistemologia: la teologia civile ragionata Cerchiamo ora di mettere a confronto la nozione di “poesia” così come è tematizzata nella Scienza nuova con quella esposta, in modo decisamente più acerbo – in quanto meno consapevole dell'essenza nichilistica dell'Occidente – nel De ratione (scritto più di trent'anni prima della terza ed ultima edizione della Scienza nuova). Ribadiamo ciò che si è detto in merito all'ultima opera di Vico, ossia che «nella Scienza nuova […] ciò che l'uomo innanzi tutto “fa” verrà indicato non più nell'astratto mondo matematico, ma nel concreto mondo umano […]. Questo “fare” sarà allora inteso come un poiein, come una poiesis, cioè come quella “poesia” o creatività mitopoietica con la quale i primi uomini pagani costruirono originariamente il loro mondo: un “fare”, quindi, che è, propriamente, produzione di senso» 215. Questa creatività, questa produzione, si servirà poi, in una età più avanzata ma ancora immersa parzialmente nell'illusione, non più di una metafora non riconosciuta come tale, ma di un ordine matematico inteso ancora come un ordine che consente di dare prevedibilità a ciò che, proprio in virtù del movimento anti-epistemico che si va affermando storicamente, dovrebbe 215 Amoroso

L., Introduzione alla Scienza Nuova di Vico, cit., p. 18.

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essere rigettato totalmente. La Scienza nuova riesce ad apportare innovazioni geniali all'interno del panorama filosofico: tematizza un mondo fatto di significati condivisi, convenzionali, mediati dal linguaggio, concretissimi e veri proprio in quanto significativi per taluni ma non ontologicamente indipendenti da quel significato che traggono da un contesto ben determinato, mediato dalla linguaggio. Per l'ultima opera vichiana è chiaro l'aspetto tecnico della poesia, attraverso la quale si fa il mondo e si dà di esso testimonianza. Il mondo è stato prodotto per mezzo dell'illusione del contenuto della poesia, ma anche grazie a quella verità formale (che non è conosciuta come tale, che non è concettualizzata) che pone le basi ontologiche per quell'agire. È da quel mondo così costituito che nascono, in modo del tutto “sovrastrutturale”, religioni e filosofie che, per Vico, non costituiscono quel mondo, ma ne sono una mera conseguenza. Da ciò si capisce come possa stare assieme quell'apparente ossimoro con il quale Vico definisce la sua nuova «arte critica»: essa è una «teologia civile» in quanto è una fenomenologia degli atteggiamenti religiosi che vengono cantati e che, attraverso la forza del canto, assumono valore civile in quanto permettono di produrre il mondo civile. Tale teologia civile è anche «ragionata» in quanto Vico si sforza di trattare tali religioni civili sollevandosi, concettualmente, al di sopra di quelle illusioni (che sono il contenuto epistemico del canto) dalle quali il mondo antico non si sa sollevare. A tal proposito possiamo sostenere che Vico sa sollevarsi al di sopra dell'illusione nella misura in cui prende seriamente la volontà di potenza dell'uomo, e così cerca, come si è detto, di far arretrare il muro di pietra che la limita. E tuttavia Vico, oltre a rimanere nella fede dell'Occidente, non sa nemmeno giungere al massimo grado di consapevolezza che gli permetterebbe di percorrere fino all'estremità la scacchiera dell'Occidente, senza però ancora rovesciarla; non giunge cioè a quella consapevolezza che saprà raggiungere Leopardi, per la quale si scorge la impossibilità di Dio e il destino autodistruttivo della tecnica, cosa che può essere scorta solo facendo giungere alle estreme conseguenze, anche al di là della scienza contemporanea, quella «morte di Dio» che tuttavia è riconosciuta da gran parte della cultura, non solo filosofica, degli ultimi due secoli: I primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano […] dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però del criare che fa Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il

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facevano in forza d'una corpolentissima fantasia, e, perch'era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all'eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano, onde furon detti “poeti”, che lo stesso in greco suona che “criatori”. Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all'intendimento popolaresco, e che perturbi all'eccesso, per conseguir il fine, ch'ella si ha proposto, d'insegnar il volgo a virtuosamente operare, com'essi l'insegnarono a se medesimi. 216

Dal lungo passo sopra citato possiamo derivare diverse osservazioni. La prima, è quella per la quale Dio, per Vico, crea conoscendo perfettamente le cose, a differenza dei bestioni che creano senza conoscerle. Questa affermazione ci conferma il fatto che Vico, pur non aderendo al rigido determinismo che Severino pare accollargli, è ben lontano dal giungere al grado di coscienza circa le sorti dell'Occidente, che per esempio raggiungerà Leopardi: se Dio vedesse infatti davvero con chiarezza le cose, oltre a vedere la sua morte, cadrebbe nella impossibilità dell'azione. Nel passo citato Vico si mantiene al massimo al culmine della parabola, senza oltrepassarla, e dice che se l'uomo potesse conoscere alla perfezione le cose, le farebbe, e facendole avrebbe la potenza tecnica assoluta. Vico insomma ha ancora la fede in quel paradiso della tecnica il cui valore, che la metafisica presume essere salvifico, Leopardi sfaterà, e questo perché Vico non sa abbandonare definitivamente l'illusione dell'eterno propria della tradizione cristiana, per quanto abbia di certo il merito di fare alcuni passi verso l'idealismo, e dunque verso il superamento di quella tradizione epistemica. La seconda cosa che è bene osservare è che in questo contesto Vico sostiene che la poesia non è fatta da pochi sapienti che educano il popolo, ma è fatta dal popolo nella sua interezza: è «sapienza volgare», che appartiene a tutti; «volgare metafisica», «metafisica poetica», che sente la fede nichilistica dell'Occidente. Il popolo, poetando, si auto-educa e così produce il mondo civile. Va in terzo luogo osservato che questa poesia per Vico ha a che fare con il sublime: non entriamo nel merito di questo concetto, carico di suggestioni kantiane. Ci basti dire che tale nozione di “sublime”, da Vico esplicitamente tematizzata, più che riferirsi ad una teoria del piacere che alcuni studiosi hanno voluto vedere, indica certamente un legame con il senso più profondo dell'estetica: il bello e la negazione del bello sono frutto del riconoscimento delle

216

Vico G., Opere, cit., pp. 570-571.

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categorie ontologiche poste dai greci, che nel loro significato vanno al di là di questioni meramente estetiche (in qualunque senso vogliamo intendere l'estetica), e stanno a fondamento, anzitutto, di quella volontà di potenza che, proprio in quanto viene trattata nel testo vichiano, si serve di quelle categorie metafisiche che ne stanno alla base e che l'estetica (non l'estetica delle anime belle!) sempre sviluppa e riconosce. Va a tal proposito ricordato che anche l'“antiestetica” adorniana, ben più consapevole della direzione intrapresa dall'Occidente di quanto non sia quella vichiana, tematizza la nozione di “sublime”, inteso come momento dell'informe nella forma, come nozione fondamentale per costruire una teoria del bello che abbia attinenza critica alle cose. Un ultimo punto che qui è bene osservare è quello concernente la razionalità dei popoli primitivi: questi poeti, questi bestioni, sono totalmente immersi nei sensi, nei loro corpi sformati e privi della capacità di «spiritualizzare»; essi, in quanto tecnici, non sono razionali, dato che la ragione, realmente dispiegata, non può che condurre alla morte della tecnica, alla morte delle illusioni all'interno delle quali il cantore, anche il cantore che ha saputo penetrare al massimo l'essenza dell'Occidente (il cantore Leopardi), deve trovarsi. 5.5 La nozione di “poesia” nel De nostri temporis studiorum ratione di Vico Così viene intesa la poesia nella Scienza nuova. Facciamo ora un passo indietro, e rivolgiamoci al De ratione. Il De ratione è un testo che ha mire politiche ed educative, per questo è un lavoro che non pretende di sviluppare questioni teoreticamente rilevanti. E tuttavia le riflessioni sulla poesia che vengono fatte nel capitolo VIII di quest'opera possono risultare interessanti, se confrontate con le acquisizioni successive, esposte nella Scienza nuova. In polemica con l'arido metodo cartesiano, inadatto ad educare i fanciulli, il cui animo necessita della topica, del verosimile, e non della riduzione di ogni cosa a calcolo, Vico elogia la poesia che, oltre ai suoi meriti didattici, è lo strumento del quale i conoscitori del vero, il cui compito è eminentemente politico, possono servirsi per persuadere, e dunque per indirizzare al vero, la massa che sta all'oscuro del vero, e che deve essere educata al vero per ragioni anzitutto politiche. La poesia dunque, pur non essendo arida come gli astratti (e politicamente inutili, se non dannosi) discorsi filosofici dei cartesiani, ha comunque di mira il vero, che viene però addolcito, cosicché possa essere assimilato, in vesti non concettuali, anche dal popolo: «il filosofo, che tratta coi dotti, tratta le cose concettualmente, mentre il poeta, che si rivolge alla 268

massa, persuade per via di sublimi fatti e detti propri delle creature poetiche»217. La poesia non è dunque qui, come invece sarà per il Vico maturo, una espressione dello spirito il cui contenuto è lontano dal vero; inoltre in questo contesto, a differenza di ciò che verrà detto nell'opera maggiore di Vico, la poesia è intesa come prodotto di un individuo solitario, un individuo che, a partire dalla sua sapienza individuale, riposta, educa gli altri, che sono per l'appunto “altro” da lui. In questo contesto la produttività della poesia è data da un sapere individuale: il sapere riposa sulla conoscenza risposta, che è sempre conoscenza dell'individuo singolo, e per questo la poesia, così intesa, non può che risultare meno potente, meno “tecnica”, di quanto non sarà intesa nella Scienza nuova, proprio perché, già all'altezza di quest'opera “giovanile”, l'individuo solitario è sempre in una condizione di impotenza rispetto all'azione collettiva. L'aggregato risulta avere sempre una potenza maggiore a quella dell'individuo astratto per quanto, all'altezza del De ratione, l'aggregato non riesca ad affermarsi senza un educatore altro dall'aggregato che riesce egli soltanto ad aggregare, in virtù della sua sapienza riposta, dall'esterno. I contenuti a cui il poeta consapevolmente mira sono veri, mentre è la forma che, venendo addolcita per il popolo ignorante, si allontana dall'aridità cartesiana. Il De ratione non è volto a fare un elogio sperticato della fantasia e del verosimile, in opposizione della verità, come talvolta viene detto; il De ratione sente invece la necessità che la verità dei contenuti venga addolcita con una forma che sta, diciamo così, alla portata di tutti, e che per questo conferisce al discorso vero una efficacia politica che il contenuto vero, che non viene addolcito da una forma poetica, non geometrica, non può vantare. È chiaro quindi che già in quest'opera Vico riconosce il fatto che la poesia dà potenza, permette di plasmare la realtà politica, e non a caso la poesia è qui affiancata alla fisica, che ben più comunemente, nella modernità nella quale Vico vive, viene intesa come la disciplina che permette di dominare la realtà: «Direi che anche la fisica moderna sia utile alla poetica: i poeti infatti adoperano, traendole dalla fisica, buona parte delle frasi con cui spiegano le cause naturali delle cose […] i primi fisici furono poeti» 218; e tuttavia in questo testo Vico non riconosce ancora, nella forma del canto, il suo inconscio profondo, il suo sentito non razionalizzato, e dunque non detto, non capito fino in fondo. Egli non riconosce ancora che la 217 218

Ivi, p. 147. Ibidem.

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forma del canto non può essere qualcosa di meramente superficiale. Solo nella Scienza nuova si tematizza il fatto che il contenuto della poesia è falso, e che (ed è questo l'importante) solo in virtù di questa falsità si dà l'azione. La conoscenza del vero, totalmente separata dall'illusione della forma del canto, non permette l'azione. Vedere la verità al di fuori dell'illusione significa vedere l'imprevedibile, l'ingestibile che conduce all'immobilità. 5.6 La nozione di “poesia” ne Il più antico programma di sistema dell'idealismo tedesco È interessante notare come vi siano grandissime affinità tra il De ratione di Vico e un brevissimo testo, trascritto dal giovane Hegel, ma forse concepito non (solo) da lui, ma da un ambiente romantico più ampio che lo circondava (in particolare: Hölderlin e Schelling). Il testo in questione è Il più antico programma di sistema dell'idealismo tedesco. In questo testo “poesia” è «maestra dell'umanità», «mitologia della ragione», presentata, nel suo valore estetico, come qualcosa di più essenziale della filosofia stessa. La importanza assoluta dell'estetica, ed in particolare proprio della poesia, è per lo pseudo-Hegel dovuta interamente al valore tecnico-politico che la estetica, in generale, e la poesia, in particolare, assumono. Questa tesi, affine tanto al De ratione quanto alla Scienza nuova, viene sviluppata in fortissima consonanza con il primo testo vichiano ora ricordato. L'importanza della poesia viene infatti enfatizzata proprio perché, mediante essa, cioè mediante il «politeismo della immaginazione» che essa porta con sé, si può insegnare anche al popolo il «monoteismo della ragione», al popolo che si mostra culturalmente inadatto a comprendere concettualmente il contenuto primariamente tecnico-operativo che la ragione implica. L'importanza della poesia è quella di essere «mitologia» affine alla ragione: mediante la poesia il popolo comprende le potenzialità della ragione che il popolo impersona. Mediante l'estetica la ragione in sé prende auto-coscienza, e nel suo diventare in sé e per sé si identifica con quel movimento tecnico-dialettico che è il connotato ontologico dello spirito. L'uomo è azione libera e trasformatrice, autonoma da Dio (Dio è, kantianamente, mero postulato della azione libera, non suo fondamento ontologico), e quindi a maggior ragione questa azione libera e trasformativa rivendica la sua autonomia dal «pretismo» e da ogni forma alienante di Stato «meccanico». La potenza dell'uomo è così forte da assorbire tutto il pre-umano: anche la fisica è prodotto dall'attività tecnica dell'uomo, che è libertà, e che è tale solo nella misura in cui è cosciente di esserlo. La poesia è precisamente ciò che permette questa presa di coscienza, che è 270

quindi il fondamento della volontà della potenza dell'umanità nichilistica e della concretizzazione di questa potenza la quale, concretizzandosi, prende il posto della potenza divina, essendo questa l'unica potenza che avoca a sé le caratteristiche della produzione divina, ossia la creazione dal nulla delle cose: L'idea prima è naturalmente la rappresentazione di me stesso come un essere assolutamente libero. Con questo essere libero, autocosciente, sorge al tempo stesso tutto un mondo, dal nulla, l'unica vera e pensabile creazione dal nulla. […] Nessuna capacità sarà più repressa. Allora regnerà una universale libertà ed eguaglianza degli spiriti! Uno spirito superiore, inviato dal cielo, deve fondare tra noi questa nuova religione: essa sarà l'ultima suprema opera dell'umanità.219

5.7 La nozione di “poesia” nella Scienza nuova di Vico Nel De ratione si afferma che il contenuto della poesia è la verità, e che per questo la poesia non è il canto di un popolo intero, bensì il canto del singolo sapiente il quale, in virtù non della verità di quel contenuto, ma della forma (in senso debole) del canto, che superficialmente rende appetibile la verità del contenuto alle masse, conferisce potenza, cioè persuasività impiegata politicamente, al canto stesso. Nella Scienza nuova, invece, Vico comprende che la verità non può essere il contenuto del canto; Vico comprende che, se il poeta comprendesse il vero, starebbe in uno stato di immobilità che non consentirebbe l'azione. Nella Scienza nuova Vico riconosce che, una volta abbandonata l'illusione del contenuto del canto, e approdati al discorso filosofico – non più poetico – si rimane comunque costretti a permanere nell'illusione, cioè nell'inconscio del canto, non per motivi superficiali, ma perché vedere il vero stando fuori dall'illusione non può che comportare l'immobilismo, non può che catapultare nella «barbarie della ragione». Certo, non si può dire che il ragionamento vichiano abbia saputo percorrere la fede nichilistica dell'Occidente sino alle sue estreme conseguenze (per vedere ciò bisognerebbe porsi all'estremità del campo di gioco, o fuori di esso); egli rimane addirittura ancora nel solco della tradizione, della metafisica epistemica, dunque non

219

Per un accurato commento e una vasta introduzione a questo breve testo cfr. Hegel G.W.F. (?), Schelling F.W.J. (?), Hölderlin J.C.F. (?), Der älteste Systemprogramm (1795/96), traduzione e introduzione a cura di L. Amoroso, Il più antico programma di sistema dell'idealismo tedesco, Pisa, ETS, 2007.

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può capire né la tragicità del contenuto della verità, né la dirompenza dell'inconscio del canto, che dà quella stessa verità ma in modo non concettuale, ossia solo sentito. E tuttavia Vico ne avverte la pericolosità, avverte il fatto che percorrendo la strada che conduce al vero, stando nella follia, non si può che finire smarriti, nella rovina della tecnica e di ogni sorta di azione votata al dominio sulle cose. Sono queste riflessioni che lo portano a porre l'attenzione in modo così insistente sulla falsità del mito: il fulmine che, terrorizzando i bestioni primitivi, li atterra, li posta, ponendo fine al loro errare ferino, e facendo sì che essi inizino così, cantando quel fulmine divinizzato come Giove, il mondo civile, è qualcosa di falso. Giove è falso, la ragione spiega la formazione dei fulmini in altri modi. Ed è proprio questa falsità ad essere seria e vera, in quanto solo sulla base di questa menzogna si può dare la concretissima verità dell'azione che produce e domina il mondo circostante. Ciò vuol dire che Vico capisce che la verità razionale, disgiunta dalla potenza del canto, nega l'azione, fa cadere nella noia, nella «barbarie delle ragione». Dopo il fulmine, si diceva, «tutto ciò che gli uomini vedevano o immaginavano o anco essi stessi facevano, apprendevano essere divinità»220, cantate nel mito, il cui contenuto è falso, ma la cui forma (poetica) – sentimento della nullità di tutte le cose che non vede se non immaginando, stando nell'illusione, tale falsità – dà la potenza del canto, che è la potenza della produzione. Il canto rispecchia l'ordine sociale prodotto per mezzo del canto stesso. La forma del canto è la forza che riconosce, non razionalmente, il divenire, e lo lascia andare, aderendo ad esso. Lasciandolo andare, la forma del dire è ciò che permette agli uomini di plasmare il divenire, di dominarlo (se non ci fosse il medio dell'illusione, il canto, una volta oltrepassata l'illusione epistemica, porterebbe solo immobilità). Il canto è una rappresentazione il cui contenuto – a differenza di ciò che ingenuamente diceva il De ratione – è falso, e che proprio in quanto falso permette di produrre cose verissime, concrete. La produzione alla quale fa riferimento Vico è la produzione nichilisticamente intesa, guidata cioè dalla fede nel fatto che il contenuto del dire, al di là dell'illusione mitica, implichi ancora un'epistéme eterna ed immutabile. Tale mitopoiesi è opera collettiva, è illusione collettiva: è il popolo intero a produrre i miti, a produrre il mondo delle nazioni attraverso il contenuto non vero del canto: «essi popoli greci furono quest'Omero»221. 220 221

Vico G., Opere, cit., p. 469. Ivi, p. 842.

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Nella Scienza nuova viene detto che tale fare, tale poetare, è comune a tutti i popoli, perché tutti i popoli han una certa natura, che gli è data da Dio (ecco l'aiuto ordinario della provvidenza divina, base non antropologica della antropologia, muro di pietra messo all'angolo ma comunque non del tutto eliminato). Vico riconosce poi anche la possibilità del miracolo (aiuto straordinario), ma lo relega nell'ambito della storia sacra, concernente i soli ebrei, popolo del quale la sua Scienza nuova non parla, in quanto tale popolo non è oggetto di scienza. Ecco un'ultima disperata mossa atta ad eliminare quel muro di pietra che riconosce come ostacolo all'azione, ma che da Vico, cattolico che non vuole uscire (del tutto) dalla tradizione, non può essere del tutto rigettato. Egli questo muro di pietra lo relega in un angolo, ed elimina quella realtà che ha ritagliato dagli orizzonti della sua nuova scienza così decretando, in ultima istanza, l'impotenza non tanto di Dio, quanto della sua scienza nuova. Il contenuto della poesia è falso, dettato dall'ignoranza che induce all'antropomorfismo e ad anacronismi immaginari, come affermano le prime quattro degnità della Scienza nuova. L'autentica poesia è quella primitiva e pre-concettuale, frutto di ignoranza, che permette di intuire, in virtù della forma e della forza del canto (che è forte in quanto sentita, non intesa concettualmente) la verità del divenire, dell'attrito cioè che dà potenza al soggetto dominante: come la metafisica ragionata insegna che “homo intelligendo fit omnia”, così questa metafisica fantasticata dimostra che “homo non intelligendo fit omnia”; e forse con più di verità detto questo che quello, perché l'uomo con l'intendere spiega la sua mente e comprende essere cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose.222

In questo senso le poesie sono vere e serissime: lo sono proprio in quanto il loro contenuto non guarda in faccia la verità, e per questo non conduce alla noia; quella verità che tuttavia viene avvertita nell'inconscio del contenuto del canto, una volta che emerge, non può che essere combattuto dalla forma de canto la quale, mantenendo l'illusione al di là del contenuto del discorso, ne garantisce ancora un barlume di potenza. Intesa in questo modo, la poesia non è un superficiale abbellire il vero (come invece voleva il De ratione). Il vero va inteso razionalmente, altrimenti manca il fondamento dell'agire, in quanto manca il riconoscimento della disponibilità delle cose a farsi plasmare dall'azione dell'Io, ma non va compreso fino in 222

Ivi, p. 589.

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fondo, perché in tal caso andrebbe ad annientare quell'agire stesso. 5.8 Il significato delle «istorie» dantesche Anche la filosofia e la scienza, nella terza età, che è quella degli uomini e cioè della ragione totalmente dispiegata, devono rimanere nella illusione. Pur non esprimendosi nella forma poetica, proprio in quanto tecnica, anche filosofia e scienza devono possedere ancora il carattere fondamentale del canto, ossia la sua forza, che dice il vero e proprio dicendolo lo maschera, senza però dissimulare del tutto il fondo di questo suo dire. Vico dice ciò, ma non lo sa comprendere fino in fondo. Per Vico, infatti, la verità filosofica rimane ancora la verità della tradizione cristiana, cioè la verità che riconosce l'impedimento all'azione umana, e che così ostacola la tecnica che pure le pagine di Vico pongono a tema. Vico non sa emanciparsi del tutto da ciò che il pensiero filosofico dovrà eliminare, proprio per dare sostengo a quell'agire tecnico che egli ha il merito di sapere prematuramente (rispetto ai suoi contemporanei) riconoscere. Le religioni nascono dal timor, e l'oggetto del timore è il divenire, è il fulmine di Giove che crea orrore perché dà la morte. Le religioni sono il rimedio al divenire, o almeno così le intende la metafisica epistemica. Tale rimedio è falso in tutti i casi, eccetto che per la religione cristiana, che è l'unico rimedio “vero” su un piano concettuale: la religione cristiana, che è l'unica che resiste all'incivilimento che porta fino alla ragione dispiegata, è quella verità dalla quale provvidenzialmente sono scaturite tutte le finte religioni, strumenti della religione vera affinché gli uomini potessero, attraverso queste, o meglio, attraverso il canto che cantava queste, produrre il mondo civile. Questo riferimento al Cristianesimo ci conduce all'interpretazione che Vico dà, nella Scienza nuova, del grande poeta cristiano Dante Alighieri. A questo punto è legittimo che sorga un dubbio: se, come si è detto, autentici poeti furono quelli dei «primi popoli della gentilità […] i quali parlarono per caratteri poetici» 223, come mai Dante, che non è un poeta antico, che non è un poeta della gentilità, può tuttavia essere considerato a buon titolo un poeta, tale da essere in questo modo non solo inteso, ma anche devotamente considerato, da Vico? Per rispondere a questa domanda bisogna prima chiedersi che cosa intende Vico con il termine “Cristianesimo”. 223

Ivi, p. 440.

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La risposta a questa domanda è duplice, in quanto il Cristianesimo appartiene a due ben distinti periodi dell'umanità: il Cristianesimo è per Vico per un verso quella religione, e precisamente la religione vera, che si dà al tempo della umanità dispiegata, in cui il Cristianesimo, a differenza della false religioni (che pure hanno permesso vere azioni nella storia) che sono state eliminate con l'avvento delle «più sublimi filosofie» (cioè la platonica e la peripatetica), ha saputo reggere il confronto con quelle filosofie e unirsi a queste ultime, in un sincretismo reso possibile dalla veridicità, e dunque dalla razionalità, della religione cristiana, che non è perita al confronto con la concettualizzazione filosofica operata nell'età della ragione. Per l'altro verso, invece, il Cristianesimo (ed è questo il Cristianesimo che canta Dante), pur ponendosi sempre come la religione vera, non ha ancora dato prova della sua veridicità, in quanto vive in un'epoca di «barbarie ritornata» (il Medioevo) in cui la ragione non si è affermata. In questo caso il Cristianesimo è sì la religione vera, ma che è tuttavia trattata come una religione fra le altre, che non sa elevarsi al di sopra della utilità meramente civile, non razionale, che è propria di tutte le religioni: tanto quelle pagane, quanto quella «maomettana». Si osservi qui anche il fatto che, facendo congiungere nella modernità Cristianesimo e ragione filosofica, pur mantenendo la necessità che la ragione non possa uscire totalmente dall'illusione – pena la deleteria caduta nella «barbarie della ragione» –, Vico identifica comunque la verità concettuale nel riconoscimento del Dio della tradizione, muro di pietra in contrasto con l'attività dell'Io “idealistico” riconosciuto dal vichiano principio del verum-factum. In quanto appartenente alla barbarie ritornata, dopo lo splendore dell'Impero romano, in una situazione analoga (anche se non identica) a quella della gentilità, si capisce perché Dante possa essere a diritto considerato un poeta barbaro, nuovo Omero, tanto che, parlando della giurisprudenza nella prima età, giurisprudenza che si configura come «“teologia mistica”, che vuol dire “scienza di divini parlari” o d'intendere i divini misteri della divinazione, e sì fu scienza in divinità d'auspìci e sapienza volgare» 224, Vico fa riferimento al noto neologismo dantesco dell'indiarsi, inteso proprio nel senso in cui i primi bestioni si indiavano per interpretare la divinità, laddove interpretare gli dèi mediante la divinazione significa «“entrare in essi padri”, quali furono dapprima detti gli dèi» 225: «ne' tempi barbari ritornati le nazioni 224 225

Ivi, p. 868. Ibidem.

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ritornarono a divenir mutole di favella volgare […] Dante, si diceva “laico” per dir “uomo che non sapeva di lettera”. Anzi tra gli stessi sacerdoti regna cotanta ignoranza»226. Dante, come Omero, è poeta in quanto primitivo, non razionale, non concettuale, non filosofo: Omero e Dante sono ignoranti, rozzi e naturali, e la loro mente, tutta sommersa nei sensi corporali, non sa elevarsi al di sopra della metafisica poetica, del sapere volgare, non razionale, non concettuale, non riposto: i barbari mancano di riflessione […] i primi poeti latini eroici cantaron istorie vere […]. E per questa stessa natura della barbarie, la quale per difetto di riflessione non sa fingere (ond'ella è naturalmente veritiera, aperta, fida, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dotto di altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella sua Commedia spose in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de' trapassati.227

E poi continua, il nostro Vico: «Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie»228, ossia storie reali, vicende che riguardano personaggi storici, e per questo «diede al poema il titolo di “commedia”, qual fu l'antica de' greci, che […] poneva persone vere in favola»229. In molti luoghi della Scienza nuova Vico se la prende con le letture boriose di quei filosofi che vorrebbero ritrovare in Omero una sapienza riposta, razionale: la «base rovinosa» sulla quale poggia la statua di Omero nella «dipintura» è atta per l'appunto a denunciare l'infondatezza della tesi di chi vorrebbe dare verità ai contenuti dei canti di Omero. Come Omero, Dante, in quanto poeta dell'umanità ripiombata nella barbarie del «ricorso», sviluppa una vera e propria poesia, ed in quanto tale è una poesia non razionale, il cui contenuto è falso, ma che porta con sé una verità civile concreta: cantando quelle falsità (falsità che canta sì il Cristianesimo, ma un Cristianesimo ancora non concettualizzato), la Commedia è testo «civile» nel senso che, mediante quel canto, il popolo produce il mondo civile. È ovvio che, se nel caso di Omero, Vico non si fa scrupoli ad identificarlo con la grecità intera, nella sua ampiezza spaziale e temporale (di qui le incongruenze, le diversità di stili e di linguaggi riscontrabili nell'Iliade e nell'Odissea), nel caso del poeta fiorentino, Vico non può strapparlo alla propria singolarità, e tuttavia a lui conferisce la stessa potenza del canto omerico. 226

Ivi, p. 632. Ivi, p. 826. 228 Ivi, p. 814. 229 Ivi, p. 826. 227

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Nel suo canto Dante non canta filosoficamente, in quanto poeta (dei tempi barbari ritornati); per Vico la Commedia non può possedere sapienza riposta, concettuale: le «sentenze poetiche […] sono formate con sensi di passioni e d'affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinî: onde queste tanto più s'appressano al vero quanto più s'innalzano agli universali, e quelle sono più certe quanto più s'appropriano a' particolari»230. Il riferimento fatto nel passo ora citato non è di poco conto: gli universali fantastici, propri della metafisica poetica, sono dei significati, delle metafore non intese come tali da chi le produce, che non si elevano al di sopra dei particolari (Giove non è un concetto universale al quale appartiene, come sottoinsieme, ogni singolo fulmine, per analogia, bensì, in modo del tutto univoco, non analogo, per la metafisica poetica ogni fulmine si identifica con Giove stesso, e non è un suo sottoinsieme), e che sono il segno della creatività del soggetto che dà questi sensi. Il senso che viene dato alle cose presuppone infatti un Ordine, che sta alle base delle cose, che in quanto sensate ed ordinabili sono prevedibili, e dunque dominabili attraverso il senso che viene attribuito loro dal soggetto tecnico. Vedere la verità, per l'Occidente nichilistico, significa, in ultima istanza, vedere l'assenza di Senso, e dunque significa essere schiacciati non più dall'ormai scardinato muro di pietra, bensì dal divenire cieco e ingestibile (ingestibile in quanto annulla imprevedibilmente) e quindi commisto a quell'assolutamente altro dall'essere che è il nulla e che, in quanto assolutamente altro, non è comprensibile, non è in alcun modo gestibile, in quanto l'assolutamente altro non permette comunicazione, afferma solo sé senza poter essere delimitato dall'altro da sé. «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione» 231, e le due cose vanno di pari passo in quanto, quando la passione, l'illusione, è totalmente annientata a favore della razionalità che tutto pervade, la verità emerge e, imponendosi, nega il senso che è frutto, per l'inconscio degli abitatori del tempo, dell'illusione. Il dare senso è il tratto tipico delle nazioni barbare, che però appartiene anche all'umanità dispiegata, fintantoché questa si illude nel paradiso della tecnica o, prima ancora, nel paradiso della religione cristiana. Senza ragione si cade nella barbarie della ragione: tutto diventa arido, nessuno viene più persuaso, si cade nell'immobilismo. La ragione uccide la vita, la ragione uccide l'illusione del paradiso, tanto quello cristiano quanto quello della tecnica, paradisi che contraddittoriamente convivono 230 231

Ivi, p. 515. Ivi, p. 509.

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nel discorso vichiano. Se da un lato Vico si mantiene nell'orizzonte della metafisica epistemica, egli già intravede il fatto che l'evidenza del divenire disgiunta dalla forza del canto, ossia dell'illusione, che dà senso e permette la previsione, fa cadere nella noia e nell'immobilità. Già nell'analisi della poesia che opera Vico l'Occidente prende coscienza del fatto che, da un lato, la forza del canto riconosce il divenire eterno, che permette l'eterna potenza da esercitarsi nella tecnica, e dall'altro riconosce che tale verità cantata dal canto, libera dalla sua forza, libera dalla sua passione, cioè ridotta a verità razionale, farebbe cadere nell'impossibilità dell'azione. Di qui la necessità di riaffermare la poesia, ma non più come contenuto illusorio del canto (come nel caso dei poeti della seconda età), e nemmeno come strumento per addolcire il contenuto di un discorso che non è inteso nella sua drammaticità (come nel caso del De ratione). La poesia viene invece intesa, alla fine della Scienza nuova, come l'ultima illusione che si mostra nel contenuto vero del discorso razionale, impedendo agli uomini – grazie a questo suo mostrarsi – di sprofondare nella barbarie della ragione. Il contenuto vero non supportato dalla forza del canto si risolve nel «deserto» totalmente annichilito dallo «sterminator vesevo» di leopardiana memoria. A queste osservazioni possiamo ricondurre la polemica anti-cartesiana della Scienza nuova, che appartengono già all'orizzonte concettuale del De ratione: Renato Cartesio è infatti il filosofo monastico, inconcludente sul piano politico e pratico, che non sa fare, in quanto non è supportato dalla forza del canto, che riduce ogni cosa a calcolo, e per questo la delimita, e limitandola la riconduce tra le braccia dell'annientamento; Cartesio inoltre introduce Dio solo per dare un colpetto al mondo. Poi i filosofi esporranno concettualmente il contenuto cristiano dell'opera dantesca che sta, come nelle pagine del filosofo Vico, in accordo con la filosofia platonica e peripatetica (che sono le filosofie della provvidenza, contro le filosofie epicuree del caso e contro quelle stoiche e spinoziane della necessità, entrambe escludenti il libero arbitrio), quello stesso Cristianesimo che Dante canta ma non concettualmente. La potenza del canto di Dante, del quale Vico riconosce la produttività, che è una potenza che, ormai lo si sa, va in contrasto con quel muro di pietra che Dante canta non concettualmente ma che poi, per il metafisico epistemico Vico, verrà trattato filosoficamente, cioè razionalmente, contro quella forza del canto che pure Vico riconosce come vera. In questo 278

riconoscere la verità del Cristianesimo e la verità della produttività di ciò che il Cristianesimo vuole spazzare via si dà quel dissidio interno alla tradizione che si risolverà nel superamento della tradizione, stando tuttavia dentro a quella tradizione più profonda, che consiste nella fede nell'evidenza della possibilità, da parte dell'ente, di diventare niente. E tuttavia, come non riconoscere che in qualche modo Vico avverte questo dissidio, e dunque avverte il pericolo di guardare in faccia la verità, tanto la verità del Cristianesimo (illusoria, dalla prospettiva nichilistica) in quanto soffocante l'attività libera dell'uomo, quanto la verità coerente con la più profonda metafisica greca, che vedendo la nullità del tutto, porta al collasso della tecnica stessa? Con la sua concezione genealogica di “natura” Vico si avvicina – e questo Severino lo riconosce con grande chiarezza – alla scienza galileiana, per la quale «sperimentare scientificamente è appunto “possedere la origine”». Severino riconosce che Vico si spinge nella direzione della potenza, poiché tematizza ciò che sta all'origine di questa (volontà di) potenza: il riconoscimento, proprio della civiltà della tecnica, dell'indubitabilità del divenire, e dunque della possibilità, da parte dell'uomo tecnico, del dominio sulle cose, in quanto divenienti, che è sentito, non razionalmente, nella forma, nella potenza del canto. Il contenuto del canto, riferito inizialmente all'eterno, saprà sempre più scorgere il suo inconscio, fino a perdere il contatto con la forza derivante dal mancato confronto con questo inconscio che, se razionalizzato, non può che portare alla perdita di ogni potenza. Ciò che sostiene l'attività della tecnica, superato il culmine della «parabola», conduce alla noia, alla impotenza più essenziale, alla quale l'inconscio nichilistico dell'Occidente non può che portare. Poetico è il contenuto del dire, quando il dire non ha ancora portato alla luce – filosoficamente – l'inconscio che guida il dire nichilistico in sé e per sé. Poetica è la forma che si mostra nel dire filosofico della vichiana terza età; è questa forma poetica che impedisce agli uomini di cadere nella noia, nella barbarie della ragione, per poter affermare ancora una volta, guidati da quest'ultima illusione poetica, la prassi nel mondo. 5.9 «Dio è pratico»: parla il cardinal Ratzinger Una interpretazione di Vico molto diversa rispetto a quella fatta da Severino viene elaborata da Joseph Ratzinger, nelle sue Lezioni sul Simbolo apostolico. Il punto di partenza di Severino e Ratzinger è, a dire la verità, molto simile. Entrambi s'impegnano a legare assieme la 279

metafisica antica e quella cristiana, ritrovando entrambi come fulcro della metafisica premoderna la tematizzazione di un ente eterno, esterno e indipendente al pensiero, che sta a fondamento del divenire degli enti che non sono quell'ente eterno (Dio). Dio è creator Spiritus, è ciò che crea ex nihilo (qui la differenza quasi trascurabile rispetto agli antichi, i quali vedevano nella materia «il fattore a-logico, la sostanza profana esterna al divino» 232) gli enti divenienti; la cosa interessante è che, per la metafisica pre-moderna, quel suo creare – che fa di Dio il tecnico per eccellenza – «Dio è pratico»233 – è sempre anzitutto un pensare. Ciò che esiste, è posto da Dio nel suo pensiero, che pensando crea, e creando dà senso a ciò che ha creato, dato che quel creato è frutto del pensiero del Lógos, e per questo ha senso: «l'uomo può riflettere sul lógos, sul senso dell'essere, proprio perché il suo stesso lógos, la sua ragione, è lógos del Lógos, pensiero del Pensiero originario, dello Spirito creatore che permea tutto l'essere»234. Dopo avere sottolineato il carattere sommamente tecnico di Dio, Ratzinger associa, in linea con Severino, la nozione di “tecnica” con quella di “libertà”. Dio è l'unico autentico tecnico, e per questo è sommamente libero, è cioè amore, ed in quanto Dio è amore e libertà che trascende l'orizzonte del visibile, non può che superare la concezione ingenuamente materialistica che non prevede il Senso che precede l'accidentalità del fatto visibile, senza però rimanere invischiato nelle insidie dell'idealismo, insidie concernenti anzitutto il carattere immanentistico proprio di quest'ultima impostazione: «La fede cristiana in Dio […] dirà che l'essere è essere pensato, che la materia rimanda oltre se stessa, al pensiero in quanto ciò che precede ed è più originario. Ma contro l'idealismo […] la fede cristiana in Dio dirà: l'essere è essere pensato, non però nel senso che esso rimanga unicamente pensiero, e che l'apparenza di autonomia risulti, a uno sguardo più attento, una pura parvenza. La fede cristiana in Dio significa piuttosto che le cose sono un essere-pensato da una coscienza creatrice, da una libertà creatrice, e che tale coscienza creatrice, che sostiene tutte le cose, ha lasciato il pensato alla libertà del proprio autonomo essere. In questo, la fede supera ogni forma di puro idealismo […] per la visione cristiana ciò che sostiene è una libertà creatrice, che pone a sua volta il pensato nella libertà del proprio essere, sicché esso è, da un lato, il pensiero di una coscienza, e 232

Ratzinger J., Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolosche Glaubensbekenntnis (1968), trad. it. di G. Francesconi, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Brescia, Queriniara, 2003, p. 52, nota. 233 Ivi, p. 10, corsivo mio. 234 Ivi, p. 52.

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tuttavia, dall'altro, vero essere a sé stante»235. Da ciò si ricava già ciò che verrà alla luce alla fine di questo paragrafo, e cioè che – nonostante le resistenze alla modernità poste da Ratzinger – in seno alla sua concezione di Dio inteso come azione sommamente libera volta a conferire senso e libertà alle creature, non può che essere già in nuce quella trappola immanentista ultratecnicista che egli, superficialmente, rigetta. Proprio in quanto Dio è l'unico tecnico, per la metafisica pre-moderna la téchne umana non è reale scienza, infatti «nell'università medievale, le artes (le arti) rimasero sempre solo dei preliminari all'autentica scienza, capace di ripensare l'essere stesso»236, che è per l'appunto l'ente eterno e immutabile. Questa posizione pre-moderna, continua Ratzinger, è rovesciata «da capo a piedi» dalla metafisica moderna ed, anzitutto, proprio da Giambattista Vico il quale, in quanto primo filosofo davvero moderno, deve essere per Ratzinger considerato – in termini severiniani – il primo filosofo anti-epistemico che, in quanto tale, investe tutto sulla tecnica, strappando il primato tecnico a Dio. Capiamo subito che l'identificazione della modernità con la degenerazione della vocazione epistemica propria della filosofia greca e medievale si pone in contrasto con la riflessione storico-filosofica del Bresciano, per il quale le espressioni scettiche, critiche ed immanentistiche della filosofia moderna non si trovano in contrasto con l'atteggiamento epistemico proprio della tradizione. Con Vico, «al posto dell'antica equivalenza “verità=essere”, subentra la nuova “verità=fattualità”: conoscibile è soltanto il factum, ossia ciò che noi stessi abbiamo fatto. Pertanto, compito e possibilità dello spirito umano non è riflettere sull'essere, bensì sul factum, su quanto è stato fatto, sul mondo proprio dell'uomo»237. Se con la metafisica epistemica Dio fa il mondo, e per questo la téchne umana risulta del tutto svalutata, con Vico e dunque con la «nascita dello storicismo»238 si comincia a dare importanza a ciò che l'uomo ha fatto, sottintendendo che ciò che l'uomo ha fatto potrebbe essere altrimenti, che ciò che l'uomo ha fatto non ha il Lógos che lo sorregge, bensì solamente un lógos del tutto arbitrario. Da questa impostazione non può che derivare il darwinismo, la cui affermazione sul campo degli esseri viventi – artigiani di se stessi – non può che essere dettata dal caso o, peggio ancora, da interventi artificiali condotti nel laboratorio. Con questa mossa, il pensiero moderno si impegna 235

Ivi, p. 147, corsivo mio. Ivi, p. 53. 237 Ivi, p. 54. 238 Ivi, p. 51. 236

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a «trasfondere completamente il senso della vita umana nel fattibile, anzi, a farli coincidere»239. Un passo ulteriore contro il Dio della tradizione viene poi compiuto da quel continuatore dell'opera vichiana che è Marx, con il quale «al posto del “verum qui factum” – è conoscibile, pregno di verità, solo ciò che l'uomo ha fatto ed è in grado di considerare – subentra il nuovo programma condensato nella formula “verum quia faciendum” – la verità, d'ora in poi, è la fattibilità»240. Contro questa radicalizzazione delle potenzialità tecniche dell'uomo moderno, Ratzinger esalta la fede intesa come «positività […] che non nasce da me e a me si schiude, che di mia iniziativa non sono in grado di procurarmi»241. Compiendo il passo che va dal factum al faciendum la filosofia moderna compie il passo mediante il quale «la signoria della storia viene scacciata da quella della tecnica»242, tecnica che si proietta su di un futuro in cui l'azione è tale in quanto non ha come fondamento il Senso assoluto e in quanto viene controllata in laboratorio, e mediante l'esperimento viene resa ripetibile. «La tecnica diventa così un vero potere e dovere dell'uomo»243. Ricapitolando: per Ratzinger l'allontanamento da Dio si dà già con la metafisica moderna, e questo allontanamento è dovuto a una mossa volta ad allargare sempre più l'ambito di competenza dell'agire tecnico che non appartiene più al sommo artefice divino, ma che diventa di competenza di tutte le creature, che agiscono tecnicamente senza possedere il criterio originario che dà senso all'agire tecnico. Solo la tecnica di Dio ha valore, in quanto solo Dio è il Lógos che, mediante il suo agire, dà il Senso ai prodotti che da quell'agire derivano. La modernità, concentrandosi sulla tecnica insensata che si è fatta dagli uomini nella storia, compie un processo di radicale immanentizzazione, volto ad escludere il centro di interesse proprio della tradizione, cioè ciò che l'uomo non è in grado di vedere. Infatti, Dio è «l'essenzialmente Invisibile, colui che sta fuori dal suo [dell'uomo] campo visivo»244. Essere cristiani per Ratzinger significa non essere paghi dell'immanenza, significa cioè essere anti-moderni, significa avere fede nell'Invisibile che non potrà mai essere veduto dagli uomini – enti razionali finiti – per quanto il progetto dei moderni, tutti volti a costruire il paradiso della tecnica, possa fare progressi, e questo perché «Dio non è soltanto colui che è ora 239

Ivi, p. 65. Ivi, p. 56. 241 Ivi, p. 84. 242 Ivi, p. 57. 243 Ivi, p. 58, corsivo mio. 244 Ivi, p. 42. 240

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effettivamente fuori del nostro campo visivo, che si potrebbe però anche vedere qualora fosse possibile spingersi più avanti; no, egli è invece colui che ne sta fuori per essenza, indipendentemente da tutti i possibili e pensabili allargamenti del nostro campo visivo» 245. Se la modernità tende, concentrandosi su ciò che l'umanità – e non Dio – ha fatto e può realizzare, ad accantonare sempre più Dio, considerando la sua tecnica somma – perché sommamente sensata – come una illusione, riconoscendo valore solo alla tecnica insensata degli uomini, per la fede cristiana – che è la fede nell'Invisibile – Dio «non è affatto l'irreale, ma è anzi l'autentica realtà: quella che sorregge e rende possibile ogni realtà»246. Va detto però – ed è proprio questo il punto fondamentale, basato sulla convinzione severiniana, che regge tutto questo lavoro, per la quale il nichilismo è l'inconscio dell'Occidente – che proprio quando Ratzinger pare allontanarsi nel modo più radicale dell'immanentismo moderno anti-epistemico, fa intravedere tutti quei cedimenti in cui si scorge l'identità della metafisica cristiana con quella anti-epistemica. Ratzinger osserva che con Vico, Hegel, Marx e Darwin «incomincia il dominio del factum»247, cioè l'essere diventa storia, e la storia diventa casualità interamente dominabile dalla tecnica umana che non riceve nulla fuori da sé. Il sottosuolo che Ratzinger non sa scorgere (fino in fondo) al di sotto della superficie del suo discorso è quello per il quale anche il Dio cristiano è tecnica e libertà – esattamente come tecnica e libertà sono le sue creature che, volendo costruire il paradiso della tecnica, lo vogliono scalzare – e soprattutto che anche il Dio cristiano è storia. Se da un lato Ratzinger afferma, contro la modernità, che «il primato di prassi e politica significava, innanzitutto, l'impossibilità di includere Dio nella categoria del “pratico”» 248, dall'altra ci dice che, «in realtà, Dio è pratico» 249: «la fede cristiana ha realmente qualcosa da spartire con factum: essa è inserita in maniera specifica nella storia […] la fede ha indubbiamente a che fare anche col cambiamento del mondo» 250. La prassi fatta propria dalla metafisica cristiana non è altra cosa rispetto a quella che si ferma al visibile, indipendentemente che questo visibile sia il visibile degli scettici o il «visibile nel senso più

245

Ivi, p. 43. Ibidem. 247 Ivi, pp. 54-55. 248 Ivi, p. 10. 249 Ivi, p. 12. 250 Ivi, p. 60. 246

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vasto»251 del quale si è appropriata la modernità grazie agli strumenti della scienza galileiana. Nonostante le apparenti differenze insormontabili, anche per il cristianesimo il divenire – la storia – ha un valore preminente rispetto all'eterno, tanto che – con Cristo – l'eterno si fa storia. Con Cristo, Dio non sta a una distanza infinita, Dio è diveniente in quanto è Cristo: «la fede cristiana non ha a che fare soltanto […] con l'eternità, che esulerebbe completamente dal mondo e dal tempo umano, in quanto totalmente altro; essa ha invece a che fare col Dio nella storia, col Dio fattosi uomo. Nello stesso momento in cui essa sembra colmare il fossato fra eterno e temporale, fra visibile e invisibile, facendoci incontrare Dio in veste d'uomo, l'Eterno sotto l'aspetto di ciò che è legato al tempo, come uno di noi, sa di essere rivelazione. La pretesa di essere rivelazione si basa sul fatto che essa ha, per così dire, introdotto l'Eterno nel nostro mondo: “Nessuno ha mai veduto Dio; soltanto l'Unigenito Figlio che è nel seno del Padre ce l'ha fatto conoscere di persona” (Gv 1,18)»252. Vedremo che proprio a questo capovolgimento dialettico, per il quale quanto più l'Invisibile si allontana dagli enti divenienti, tanto più si identifica ad essi – negandosi in quanto tesi autoidentica – non solo Dante non saprà sottrarsi, ma lo affermerà continuamente, tanto che si potrà sostenere che il nucleo teorico della terza cantica può essere facilmente individuato in questa dialettica che, dall'eterno, costringe il Cristianesimo a muovere verso quel divenire che lo nega, in quanto dal Cristianesimo è proprio questo divenire inteso essere l'unica verità originaria.

251 252

Ivi, p. 51. Ivi, p. 47.

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Capitolo terzo La poesia della Commedia

L'abbraccio della Verità è cioè un abbraccio letale, perché implica e sancisce la nullità – e dunque la non salvabilità – di ciò che salva. Nicoletta Cusano, Capire Severino Ogni forma di salvezza (come ad esempio la salvezza cristiana) appartiene alla volontà di salvezza che coincide col dominio. Emanuele Severino, Legge e caso

§1 Umili piante 1.1 Esempi di umiltà e di superbia nella Commedia Il tema dell'umiltà, che in questo paragrafo verrà trattato, è da Dante accostato alla figura di Adamo – figura della quale si è già ampiamente parlato –, in senso negativo: Adamo è la figura rovesciata dell'umiltà, ovvero la figura della superbia, il più grave tra i vizi capitali, al quale Dante tanto spazio dedicherà nel Purgatorio. La cornice purgatoriale dei superbi, infatti, si apre con l'esempio mariano di umiltà nell'Annunciazione, umiltà attraverso la quale si dischiudono le porte della salvezza, dopo che queste erano state chiuse a causa del peccato commesso da Adamo ed Eva; la stessa cornice si chiuderà vedendo negli uomini i figli di Eva, cioè i figli della superbia, del peccato originale, e vedendo in primo luogo – in quell'oscillare tra universalismo ed autobiografia tipico di tutto il poema – nello stesso Dante il figlio di quella superbia adamitica che la speranza di una salvezza per così tanti anni tenne sbarrata: «Or superbite, e via col viso altero,/figliuoli d’Eva, e non chinate il volto/sì che veggiate il vostro mal sentero!»1. Assieme ai numerosissimi (ben 13!) esempi di superbia menzionati nella prima cornice, esempi disposti in modo da formare, mediante l'artificio di un acrostico, la parola VOM (uom), «a indicare che la superbia è vizio radicato nel genere umano» 2, troviamo l'esempio assolutamente contrario all'umiltà, cioè l'esempio del superbo Lucifero, somma caricatura di quel che fu, cioè un serafino, ora tanto brutto quanto prima era l'angelo più bello dell'Empireo, 1 Alighieri 2

D., Purg. XII, 70-2. Ledda G., La Bibbia di Dante, cit., p. 63.

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con sei ali di «vispistrello» che però non permettono il volo, ali che non riscaldano come quelle dei serafini, ma al contrario ghiacciano (e ghiacciare significa togliere l'amore, laddove l'amore guidato dalla razionalità e dal libero arbitrio testimonia la massima potenza, e quindi la negazione dell'amore implica la massima impotenza) e, soprattutto, somma caricatura di quel Dio del quale godeva la massima predilezione: Lucifero è infatti croce a se stesso, trino come Dio, in quanto ha tre teste orribili, tre bocche che non possono parlare perché piene dei peggiori peccatori da quelle stesse bocche perennemente maciullati, ali che non consentono il volo e sei occhi ciechi e perennemente piangenti. Troviamo poi l'esempio di Nembrot, capo dei costruttori della torre di Babele e ricordato nella riflessione sul linguaggio esposta nel canto dedicato proprio ad Adamo: Nembrot parla una lingua incomprensibile e rude, opposta alla dolcezza dei salmi, dolcezza che invece appartiene all'esempio massimo di umiltà che è descritto nella Commedia, cioè David, «l'umile salmista»3, i cui dolci canti, da lui composti, derivano precisamente dalla condizione di umiltà indiscussa che gli appartiene. David, a causa dei suoi gesti umili è «men che re», e proprio a causa di quella umiltà che lo rende men che re, trova la forza di ergersi al di sopra del più sommo tra i sovrani terreni: «e più e men che re era in quel caso»4. Allo stesso modo Maria, cantata da Bernardo, è la più alta creatura proprio perché massimo esempio di umiltà («umile e alta più che creatura» 5). L'umiltà di David lo rende salmista, o meglio umile salmista, cioè lo rende poeta, poeta alleato di Dio, poeta in quanto produttore di una «teodia» che è massima fonte di speranza6. Proprio sulla scia di David, umile e proprio per questo alto e potente, anche Dante decide di comporre una «comedìa» 7, cioè un poema umile (nella famosa epistola a Cangrande Dante contrappone la sublimità della tragedia alla umiltà della commedia): solo l'umiltà di chi parte peccatore, confinato nella selva oscura, può giungere, mediante l'umile richiesta di salvezza indirizzata a Dio, alla beatitudine riservata a chi giunge nel cielo più alto, narrato da quel poema sacro che può essere tale (Dante lo dirà in Par. XXIII e lo ribadirà in Par. XXV) proprio perché parte da una condizione miserrima che induce a chinare la fronte e a chiedere perdono ed aiuto prima di affrontare il viaggio e durante il viaggio medesimo. 3 Alighieri

D., Purg. X, 65. D., Purg. X, 66. 5 Alighieri D., Par. XXXIII, 2. 6 Cfr. Alighieri D., Par. XXV, 70-8. 7 Alighieri D., Inf. XXI, 2. 4 Alighieri

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Il «poema sacro», per narrare la sommità ontologica dell'universo, non può che essere una «comedìa», non può cioè che prendere le mosse dalla condizione più infima che si possa immaginare. Dante, come per primo Eschilo, ritiene che la salvezza consista nel farsi soggiogare da quel rimedio che «soggioga il divenire angosciante del mondo» 8. Vedremo nel corso di questo capitolo che già in Dante si impone implicitamente come ineludibile la necessità che porta – dialetticamente – la filosofia nel suo darsi storico a liberarsi da quel giogo che è Dio. 1.2 La convinzione fondamentale del Cristianesimo ed il suo fondo torbido «Nella tua luce vedremo la luce». Queste poche parole riassumono ciò che, nel grande pensiero cristiano, è espresso consapevolmente. E questa consapevolezza è ciò che, in quel grande poema cristiano che è la Commedia, viene per lo più espresso dai personaggi che lo animano. La convinzione fondamentale che il cristiano ha, e che si esprime nel modo più ricco nella drammatica vicenda del Virgilio dantesco, consiste nel fatto di riconoscere che, senza la grazia divina, non è possibile che il cristiano (o qualsiasi altra persona) possa entrare «nel tempio del suo voto»9; la grazia divina si configura come l'unico modo per giungere, stando alla coscienza cristiana, alla salvezza suprema, che è la salvezza dalla suprema minaccia dell'annullamento. Sulla base di ciò, è facile capire perché Dante, nel canto in cui giunge finalmente a quel «tempio del suo voto» che è l'Empireo, senta l'esigenza di invocare Dio affinché gli dia la forza di affrontare quest'ultima tappa, e di cantarla: «O isplendor di Dio, per cu' io vidi/l'alto trïunfo del regno verace,/dammi virtù a dir com'ïo vidi!»10. La posizione (epistemica) per la quale è l'eterno che salva dalla evidenza originaria del divenire – da Dante e dalla tradizione cristiana – affonda la sue radici nel più antico pensiero ontologico. Già nell'Agamennone di Eschilo, nell'Inno a Zeus si afferma che «la salvezza consiste in una trasformazione del contenuto del pensiero, cioè nel suo sopraggiungere della verità salvifica […] non è il prodotto di una iniziativa del mortale, ma è il “dono” del sommo principio che ha la potenza su tutte le cose e che sta (heménon) saldamente, “immutabilmente” (biaíos) presso di sé (seduto sul proprio sacro seggio). Il pensiero si salva dal dolore solo se diventa epistéme, pensiero che scorge la somma potenza immutabile del Tutto. […] L'epistéme 8

Severino E., Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano, Adelphi, 1989, p.18. D., Par. XXXI, 44. 10 Alighieri D., Par. XXX, 97-9. 9 Alighieri

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è previsione vera, perché essa vede il principio immutabile del Tutto. Eschilo pensa ormai all'interno della riflessione esplicita sul senso dell'essere e del niente» 11, e Dante lo segue pedissequamente. C'è da osservare che lo stesso Severino, all'inizio del suo percorso speculativo, poneva nichilisticamente la salvezza in Dio; infatti, nella Struttura originaria «il vertice speculativo era costituito dall'affermazione di una “relazione asimmetrica” tra Dio creatore e il mondo» 12. Collocandosi all'interno di questa «concezione armonica della relazione tra la totalità dell'essere e la totalità dell'apparire»13, Severino assegna all'uomo «il “compito” di manifestare più concretamente l'essere mediante la prassi»14. Per il giovane Severino la prassi umana consiste nel toglimento infinito della contraddizione alla quale l'uomo ha fichtianamente «il compito di avvicinarsi, abitando il contrasto, [l'uomo ha cioè il compito di avvicinarsi] a quella necessità che, pur già da sempre raggiunta, non è per lo più riconosciuta come tale» 15 (e non è un caso che, due anni dopo l'uscita della Struttura originaria, Severino pubblichi una monografia dedicata a Fichte): L'uomo è per essenza, l'apertura dell'intero, ma l'intero non si apre nella concretezza, sì che ciò che si apre non è l'intero.16 Il compito è dato dalla necessità del toglimento della contraddizione: il compito – ciò che si deve portare a compimento – è la manifestazione dell'immutabile. Non si dovrà forse dire che si tratta di un compito infinito, e che precisamente “in ciò è l'impronta della nostra destinazione per l'eternità” (come diceva Fichte in relazione a una situazione logica che presenta molta analogica con quella che qui ci si presenta)?17

Va insomma detto che, per Severino, «in una prima fase, il concreto è Dio Creatore»18, e solo «in seguito» viene meno l'asimmetria Dio creatore-mondo, «vale a dire: la differenza tra la totalità del F-immediato e l'intero immutabile non è più affermata da Severino come 11

Severino E., Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano, Adelphi, 1989, p. 42. Messinese L., Alcuni rilievi sulla “contraddizione C” della verità, in «La filosofia futura», 01 (2013), p. 122. 13 Ivi, pp. 122-123. 14 Ivi, p. 123. 15 Brianese G., L'infinito sbocciare degli eterni, in «La filosofia futura», 07 (2016), p. 25. 16 Severino E., Studi di filosofia della prassi (1962), Milano, Adelphi, 1984, p. 277. 17 Severino E., La struttura originaria, cit., p. 555. 18 Dal Sasso A., La ferita del fondamento, in «La filosofia futura», 05 (2015), p. 78. 12

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“differenza teologica”»19. Da questo residuo nichilistico della Struttura originaria derivante dall'affermazione che «l'uscire degli essenti dal nulla e il loro ritornarvi appare»20 si affermerebbe quella nozione nichilistica di prassi che, a detta di Severino, verrebbe oltrepassata negli scritti successivi ma che, a detta di alcuni accorti studiosi21, negli scritti severiniani non verrebbe mai del tutto meno. Ritorniamo ora alla nozione di “prassi” così come è intesa nichilisticamente dal Cristianesimo. Dante canta ciò che vede perché «detto» e «fatto», poesia e vita rispecchiata nella poesia, instaurano nella Commedia una continua dialettica; quando il vedere viene meno, il dire viene meno, a meno che non intervenga la grazia divina a dare una «novella vista» 22 che consente di vedere, e quindi di dire, ciò che prima, senza l'intervento della grazia, non avrebbe potuto essere visto e detto. Dio è gloria e bontà 23, laddove la gloria è non la sua potenza ma la stessa realtà divina, che pervade, secondo un degradare che mai la vede scomparire del tutto (questo motivo neoplatonico viene ribadito spesso nella Commedia: si pensi al terzo dell'Inferno e al primo del Paradiso), e che è l'autentica protagonista della terza cantica, che vede capeggiare la parola “gloria” nel primo verso di Par. I, laddove il riferimento al protagonista-poeta compare diversi versi dopo, e solo per indicare la sua inadeguatezza: «fu'io, e vidi cose che ridire/né sa né può»24. La grazia divina manifesta la sua bontà nel suo rivolgersi alle creature, consentendogli di vedere e dire e, soprattutto, di essere eternamente salve dal nulla. In Conv. III, XV Dante si chiede se la mente umana possa soddisfare il desiderio di conoscenza. A tal domanda la Commedia risponde in modo inequivocabile in Purg. XXI, 1-3, in Par. XXX, 100-2 e in Par. XXX, 73-4: questi passi dicono all'unanimità che, per soddisfare il suo desiderio, l'uomo deve affidarsi alla grazia di Dio. Così, il «disio» di Dante, nei versi conclusivi del Paradiso, viene totalmente soddisfatto solo e unicamente perché Dio glielo ha concesso. Tutta questa superficiale linearità nasconde però un fondo torbido che si cercherà di portare alla luce in questo paragrafo, atto a mostrare come la critica dantesca ai magnanimi pre19

Messinese L., Alcuni rilievi sulla “contraddizione C” della verità, cit., pp. 123-124. Prefazione di Severino E. a Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, cit., 2015, p. 10. 21 Questa, in sostanza, la posizione di Dal Sasso. Cfr. Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, cit., 2015. 22Alighieri D., Par. XXX, 58. 23 Cfr. Alighieri D., Par. XXXI, 5-6. 24 Alighieri D., Par. I, 5-6. 20

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cristiani sia volta solo superficialmente a ricercare conforto tra le braccia della gloria di Dio. Nei capitoli precedenti si sono poste le basi sulle quali ora possiamo costruire alcuni ragionamenti ulteriori, che devono però intendersi come corollari rispetto a ciò che si è detto nel secondo capitolo, che è il cuore di questo lavoro. Lì si è sostenuto che la grandezza della poetica dantesca deriva dal fatto che attraverso essa Dante mantiene ed anzi recupera il rapporto con la festa arcaica, dalla quale non solo la poesia, ma anche la tecnica, la religione, la filosofia, derivano. Nel suo intento, per una buona parte inconscio (date le premesse concettuali, cioè la metafisica epistemica, entro le quali il poeta si muove), la Commedia vuol riproporre l'immagine della festa, atta a salvare dalla morte, sentita nel mondo arcaico ancora non concettualmente, ma che dà già il terrore dell'annichilimento definitivo. Volendo riproporre la festa, contro il suo contenuto, la Commedia riconosce l'evidenza del divenire, l'evidenza dell'annichilimento definitivo al quale le cose sono destinate, come l'evidenza che il contenuto della Commedia, concettualmente, non sa scorgere. Implicitamente Dante non è quindi l'homo viator che vuole giungere a Dio, ma è l'abitatore del tempo che vuole sollevarsi sopra quel deserto più originario rispetto al «gran diserto» del primo canto del poema, quel deserto originario avvertito nella festa arcaica che è il mare «periglioso» precipitando nel quale non si cade nell'eterno tormento infernale (affermato invece nel contenuto, non nella forma, del poema), che è eterna lontananza da Dio ma che è al contempo eterna salvezza dall'annichilimento definitivo dell'ente: l'ente per essenza è contingente, è destinato a cadere nel nulla, è un oscillare destinato all'annichilimento definitivo, laddove il tormento eterno, trasponendo il divenire in una eternità senza tempo, salvaguarda l'essere anche dei dannati, li salva per sempre dall'orrore assoluto, che non è quello delle pene infernali (a Farinata procurano più dolore la condizione dolorosa dei suoi avi in terra, i suoi fallimenti politici, che non il martirio che dovrà subire in eterno!), che non è quello del rimanere sospesi, in un «disio» eterno senza «speme» di riconciliarsi con Dio, ma che è il cadere nel nulla assoluto. L'ontologia dantesca allontana la morte e, alla fine dei tempi, restituisce addirittura il corpo, tanto ai dannati quanto ai beati. Il contenuto della Commedia mette in scena la coscienza della tradizione, del giocatore bianco, la coscienza cristiana, ma inconsciamente nega quella stessa tradizione, riproponendo il sentimento avvertito nella forma del canto, che riconosce il divenire come cadere nell'eterno nulla incompatibile con la fede epistemica nel rimedio divino, incompatibilità che peraltro è già 291

presupposta nell'essenza stessa del Cristianesimo: «tra epistéme e fede cristiana esiste incompatibilità essenziale»25. Proprio in quanto la negazione di Dio, da parte di Dante, rimane solo inconscia (è questo il fondo torbido cantato dalla Commedia dantesca, che fa della Commedia stessa un testo che sa andare oltre l'ingenuità di un Cristianesimo per anime belle), nella sua esplicita convinzione l'affermazione di Dio si identifica con il contenuto del canto. Egli dunque, accogliendo esplicitamente il contenuto di ciò che canta, aderisce alla fede nella salvezza divina. Crede per questo che oltre al contenuto concettualizzato nel suo canto, si dia la salvezza divina. Egli non reputa essere, il sentimento della forma, il sentimento dell'evidenza del divenire, negatrice del suo contenuto epistemico. Egli ritiene invece che il sentimento, la forma del canto, sia in accordo con il contenuto del canto, e dunque in disaccordo con l'autentica forma che egli ripropone, e che dà autentica potenza al suo poema (poesia deriva da poíesis, e la potenza che la produzione poetica può vantare non può essere disgiunta dalla verità che inconsciamente la forma della Commedia canta); se il Cristianesimo ha una vocazione tecnica, allora il Cristianesimo, proprio sulla base di questo suo fondo torbido, non può che negare l'atteggiamento epistemico che superficialmente propugna, e questo perché «la forza che distrugge la tradizione è l'essenza stessa della tradizione, cioè la volontà di dominio del divenire»26. Proprio in quanto cristiano, Dante ritiene che il contenuto del canto non vada a risolvere il reale nella sua interezza: il contenuto non può insomma tutto; la filosofia, la razionalizzazione esposta anche nel canto, sul versante del suo contenuto, può sì tirare l'acqua al mulino della metafisica epistemica, ma non può esaurirla. Proprio per questo Severino ritiene che la metafisica epistemica cristiana debba essere considerata, a differenza di quella greca, un ritorno al mito (per quanto anche la metafisica greca, così come quella anti-epistemica, stiano nell'orizzonte della fede, nella fede nel divenire): tale ritorno consiste nel fatto che Dante, da buon cristiano, considera la filosofia come ancella della mistica, crede cioè che le forze del cristiano vadano esaurendosi, e che il cristiano, per giungere a comprendere fino in fondo il reale, debba di necessità appellarsi a Dio, soggiogandosi ad esso. La filosofia, il contenuto del canto, il concetto, non può esaurire quella verità della forma del canto che per Dante si accorda con il suo contenuto. La filosofia non può tutto, e la verità 25 26

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 68. Severino E., Legge e caso, cit., p. 28.

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espressa a tentoni dalla filosofia potrà essere afferrata solo vedendo ed udendo, giacché vista ed udito sono i due sensi (che nel contesto del misticismo del Paradiso non possono che essere pallide metafore dell'afferramento dell'inesprimibile vero) cardine della Commedia. Appena messo piede nelle «segrete cose»27, all'inizio del suo viaggio nei tre regni, Dante si fa largo proprio con questi due sensi: «Quivi sospiri, pianti e alti guai/risonavan per l'aere sanza stelle»28. Le cose vere, nel Paradiso, dovranno mostrare sé trascendendo i sensi del poeta viaggiatore che, per intenderle, dovrà appellarsi a Dio, dovrà «trasumanar»29. Dante si affida al gesto ostensivo, intuitivo: certe cose non possono essere dette razionalizzate da quell'ente razionale finito che è l'uomo. A tal proposito due saranno gli espedienti retorici utilizzati dal poeta nell'ultima cantica: 1) il rivolgersi alla umile fiducia e alla salda fede che il lettore cristiano deve avere, e al quale il poeta deve far credere che, giunto in Paradiso, vedrà quelle cose che la Commedia gli narra, assolvendo al suo incarico profetico; 2) il topos dell'ineffabile, per il quale al poeta mancano le parole, e talvolta mancano anche i sensi, di fronte a ciò che non si può dire (di fronte a ciò di cui non si può parlare, non si può fare altro che tacere, sottolineando però la necessità di questo tacere, mettendo insomma un buco vuoto che non può essere riempito con le parole, con i concetti del contenuto del canto, che fanno sentire la loro presenza proprio mediante quella mancanza). 1.3 «La sete natural che mai non sazia»: il ruolo della filosofia nel Convivio e nella Commedia Queste riflessioni ci portano a comprendere il forte attacco che Dante indirizza contro i magnanimi, contro tutti i grandi, che ben fecero in vita, che esibirono doti intellettuali, strategiche, pratiche e soprattutto contemplative (nel «nobil castello» del Limbo i magnanimi contemplativi, che credettero di riuscire a giungere a Dio tramite i concetti razionali, sono messi in un luogo più alto (e, si sa, tanto maggiore l'altezza, tanto maggiore la caduta), tanto che Dante, per vederli, deve innalzare un poco «le ciglia»30). Tra chi – a causa della filosofia – è caduto nello stato di traviamento che è proprio del magnanimo, c'è Guido Cavalcanti: «Ezra Pound, commentando il capolavoro di Cavalcanti, la canzone Donna me prega, ha mostrato 27 Alighieri

D., Inf. III, 21. D., Inf. III, 22-3. 29 Alighieri D., Par. I, 70. 30 Alighieri D., Inf. IV, 130. 28 Alighieri

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come in questi versi, sotto la metafora dell'amor cortese, venisse in realtà esposta la teoria fisica della luce insegnata all'Università di Bologna, allora all'avanguardia in questi studi. Si trattava di una teoria tratta da Averroè dalla Fisica aristotelica: un commento che conduceva a conclusioni fortemente materialistiche»31. In questo modo Dante se la prende con quel se stesso “averroista” del Convivio – amico di Cavalcanti ed esclusivamente volto alle capacità della ragione naturale – che è poi il se stesso che non riconosce quell'eccedenza che solo da Dio può derivare, eccedenza che solo il vero cristiano riconosce come necessaria per la salvezza e come irraggiungibile se non mediante un atto di abbandono a Dio. In definitiva, nella Commedia Dante prende le distanze dalla fiducia verso la ragione umana intesa come sufficiente per conoscere la totalità delle cose e verso la filosofia, fiducia manifestata invece nel Convivio. Muovendo dalla convinzione per la quale la filosofia dà «l'ultima felicitade», il Convivio inizia parafrasando il magnanimo contemplativo per eccellenza: «Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Quel desiderio naturale di sapere, proprio dell'uomo naturale, che nel suo stato di perfezione è l'uomo che sta sulla vetta della montagna del Purgatorio, porta alla ragione filosofica, quella ragione che, per la Commedia, non sazia: «La sete natural che mai non sazia/se non con l'acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia,//mi travagliava» 32. Ben altra acqua, dice Gesù alla donna samaritana, potrà porre riparo alla sete, naturalmente insaziabile: «chi berrà l'acqua che gli darò io non avrà più sete in eterno», sentenzia il Vangelo di Giovanni. Questa presa di distanza dal Convivio risulta da alcuni passi della Commedia, come per esempio quello in cui, lungi dal seguire, come faceva nel testo precedente, l'ordinamento delle gerarchie angeliche proposto da Gregorio, le cui speculazioni in materia teologica sono speculazioni della ragione umana, nella Commedia seguirà l'ordinamento posto da Dionigi, che «ha potuto descrivere correttamente queste realtà, in quanto ha ricevuto, “con altro assai del ver” del Paradiso, da “chi 'l vide”, cioè da san Paolo»33, e che dunque è ben più degno di essere accolto in quanto è «il frutto della rivelazione divina, l'unico che può dischiudere all'uomo le verità supreme»34. Inoltre, in Par. II Dante riprende la posizione, che aveva assunto nel Convivio, per la quale il fenomeno astronomico delle macchie solari sarebbe spiegabile 31

Sini C., Dante. Il suono dell'invisibile, Milano, et al., 2013, pp. 14-15. D., Purg. XXI, 1-4. 33 Ledda G., Leggere la Commedia, cit., p. 106. 34 Ivi, p. 107. 32 Alighieri

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mediante ragioni fisico-quantitative; Beatrice interviene in questo contesto a confutare tale posizione, dando al fenomeno in questione una spiegazione teologico-metafisico-qualitativa. Ancora nell'ultimo del Purgatorio, al termine della implacabile requisitoria indirizzata da Beatrice contro Dante, per la salvezza di Dante – salvezza che può essere garantita solo riconoscendo l'insufficienza delle proprie forze, e quindi riconoscendo la necessità di altri che consentano di raggiungerla –, il nostro poeta-personaggio «ricorda che la scuola che Dante ha seguito, cioè l'umana sapienza, la filosofia nel suo limite naturale, non può in alcun modo arrivare a comprendere le verità celesti, come egli aveva potuto presumere nella passione intellettuale che lo aveva preso negli anni intorno alla metà della vita» 35 e, si sa, è proprio alla metà della vita che egli finisce per ritrovarsi nella selva oscura36. 1.4 «Gente di molto valore»: i magnanimi del Limbo Il punto nevralgico dal quale prende avvio e si sviluppa la critica ai magnanimi – definiti come «orrevol gente»37 – è il IV dell'Inferno, canto in cui Dante si imbatte in una lunga serie di magnanimi, il cui sterminato elenco verrà ripreso molto più in là nel viaggio, nei versi 94-114 del XXII del Purgatorio. A questi magnanimi è preclusa la salvezza in quanto la magnanimità degli abitatori del «nobile castello»38 «non fu sufficiente a condurli oltre il limite dell'umana ragione, e dell'umana virtù, a quel Dio che si concede solo per grazia, mediante la fede» 39. Come bastò una «lagrimetta»40 in fin della vita a salvare il più mediocre uomo, o addirittura il più incallito peccatore (un esempio su tutti: Manfredi di Svevia), così tutta l'eccellenza e il “ben fare” di questi non li risparmiò dalla dannazione eterna: «che gente di molto valore/conobbi che 'n quel limbo eran sospesi» 41, e ancora: «Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,/Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca/e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,/dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;/ché gran disio mi stringe di savere/se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca"./E quelli: "Ei son tra l’anime più nere;/diverse colpe giù li grava al fondo:/se tanto

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Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Purgatorio, cit., p. 592. Cfr. Alighieri D., Inf. I, 1-2. 37 Alighieri D., Inf. IV, 72. 38 Alighieri D., Inf. IV, 106. 39 Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno (1999), a cura di A. M. Chiavacci Leonardi, Bologna, Zanichelli, 2016, p. 60. 40 Alighieri D., Purg. V, 107. 41 Alighieri D., Inf. IV, 44-5. 36

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scendi, là i potrai vedere»42. Questo ultimo riferimento tratto dal VI dell'Inferno ci anticipa le pene di molti magnanimi, disseminandoli nella parte più bassa dell'Inferno, oltre le mura di Dite. Questi magnanimi sono grandi, e per questo rischiano di essere condotti nel peccato dalla loro superbia, che li allontana da quella umiltà necessaria per la salvezza. «Fecero le eresie soltanto uomini grandi», dice Agostino. Questi magnanimi hanno tutti in comune il vizio della superbia, che preso isolatamente conduce nel Limbo, e accoppiato con altri vizi che derivano direttamente da questa prima, conduce in zone ben più aspre della «città dolente». La superbia è ciò che ci induce a disdegnare ciò che trascende le umane capacità, a non vedere il «muro di pietra» al quale, per la metafisica epistemica, gli enti soggiacciono, o addirittura a volerlo forzare, a volerlo negare con la ragione: questa la colpa dell'eretico Farinata, magnanimo per eccellenza, che dalla sua tomba infuocata «s'ergea col petto e con la fronte/com'avesse l'inferno a gran dispitto»43, quasi facendo il verso allo «spirito superbo» Capaneo il quale, narra Lucano (altro magnanimo del Limbo!) nella sua Tebaide, osò sfidare Dio sulle mura di Tebe, e che nel XIV dell'Inferno è descritto come «quel grande che non par che curi/lo 'ncendio e giace dispettoso e torto»44. La superbia, nei casi più spregevoli, porta il peccatore addirittura a volerlo distruggere, questo muro di pietra (a partire da questa grave colpa Ulisse nel XXVI dell'Inferno giustificherà la sua «orazion picciola»45). In quest'ultimo caso si rivela l'inconscio della poesia dantesca – che è poi l'inconscio nichilistico dell'intero Occidente – per la quale l'inconscio del canto è esattamente il riconoscimento di ciò che Leopardi saprà concettualizzare e tematizzare come contenuto dei suoi Canti, ossia il riconoscimento della negazione del «muro di pietra», atto a svelare il carattere poietico della poesia, il carattere festivo e produttivo, o meglio, tecnico, che la poesia ha e che tuttavia con Leopardi stesso verrà superato (come si è già avuto modo di esporre, la grandezza di Leopardi è tale per cui la stessa volontà di potenza della tecnica viene smascherata come un rifugio inadeguato, alla stregua del Dio cristiano).

42 Alighieri

D., Inf. VI, 79-85. D., Inf. X, 35-6. 44 Alighieri D., Inf. XIV, 46-7. 45 Alighieri D., Inf. XXVI, 122. 43 Alighieri

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1.5 I magnanimi Pier delle Vigne e Romeo di Villanova Un altro esempio di magnanimità che è stato causa della punizione divina è quello di Pier delle Vigne il cui animo, «per disdegnoso gusto,/credendo col morir fuggir disdegno,/ingiusto fece me contra me giusto»46. I magnanimi che stanno all'Inferno non sono mai puniti a causa della loro magnanimità. Come l'esempio del giusto Pier delle Vigne bene illustra, la sua condanna deriva da un peccato dal magnanimo commesso, che non si identifica con la magnanimità, ma che deriva da questa crepa, nobile di per sé, ma che, se isolata dalla umiltà della quale il cristiano necessita proprio a causa della stessa metafisica che sta alla base del Cristianesimo, conduce nell'eterno esilio da Dio. La metafisica epistemica ritiene che il divenire sia contraddittorio senza il «muro di pietra», la Legge, l'Ordine al quale il divenire – evidenza somma – deve conformarsi. La magnanimità, separata dall'umiltà che fa riconoscere il muro di pietra, per sua natura porta a cozzare contro questo stesso muro di pietra, e così fa cadere nel peccato. Può la magnanimità porsi unitamente alla umiltà, e dunque conservare le virtù alla quale essa è mescolata, senza indurre nel peccato, cioè senza fagocitare la parte che eccede l'umano, quell'umano di cui la magnanimità è la vetta più alta? La risposta è affermativa. Dante stesso, ponendosi come contro-figura di quel vecchio se stesso del Convivio incarnato da Ulisse, vuole intendersi proprio come il magnanimo che non solo non si preclude il Paradiso («più lieve legno convien che ti porti» 47), ma che addirittura diventa degno di caricarsi sulle spalle quella missione provvidenziale che, prima Beatrice, poi Cacciaguida ed infine san Pietro, gli affidano: «Tu nota; e sì come da me son porte,/così queste parole segna a' vivi/del viver ch'è un correre a la morte»48. E se il magnanimo Dante è il completamento del magnanimo Ulisse, così il giusto ma disdegnoso Pier delle Vigne trova la sua forma compiuta, cristianamente orientata, in Romeo di Villanova: anch'egli giusto cortigiano ingiustamente infamato, prenderà una via diversa da quella di Pier delle Vigne; se la magnanimità di quest'ultimo lo porta al suicidio, Romeo preferisce sopportare umilmente il peso di quella ingiustizia, così da accrescere ulteriormente la sua magnanimità, tanto che il mondo «assai lo loda, e più lo loderebbe» 49 se potesse misurare la forza e l'umiltà del suo animo. Ma di questo eccesso di lodi lui non sa che farsene, 46 Alighieri

D., Inf. XIII, 70-2. D., Purg. III, 93. 48 Alighieri D., Purg. XXXIII, 52-4. 49 Alighieri D., Par. VI, 142. 47 Alighieri

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dato che la sua virtù lo ha portato ad uno stato di beatitudine tale per cui, a differenza dei dannati dell'Inferno, non s'interessa (più) delle lodi del mondo. La stessa cosa non vale per le altre anime: nell'Inferno i dannati vogliono essere ricordati in terra, mentre chi si monda cerca le preghiere dei vivi per giungere il prima possibile in cielo. Tale magnanimità non si seppe temperare con l'umiltà, nel caso di Guido Cavalcanti: egli, non ancora morto nel tempo del viaggio di Dante, viene già condannato all'Inferno in quanto «ebbe a disdegno»50 quella sottesa Beatrice che a sua volta sottende il muro di pietra che il disdegno dei magnanimi tende sempre a calpestare. Si capisce come da tutto ciò si sia indotti a ricavare che «l'intima vis poetica che si diffonde da tutto il canto, non sta nell'esaltazione di tale magnanimità, ma proprio nella dolorosa esclusione dalla vera beatitudine dell'uomo, cioè dalla felicità»51; e questa esclusione, dovuta alla magnanimità, è tipica del mondo antico, precristiano. Dante insomma ritiene che il muro di pietra, già intravisto dai grandi pagani (ed il «foco» che illumina il Limbo52, che è ben poca cosa rispetto alla luce del sole del Purgatorio e, soprattutto, alle strabilianti fonti di luce dell'ultimo regno, rappresenta quella flebile fiaccola della ragione orfana del sostegno della rivelazione, che tuttavia qualche cosa può intravedere, in quanto tale luce della mente umana presenta sì il suo limite, ma anche la sua analogia, rispetto a quella divina) non sia teoreticamente fondato prima dell'avvento del Cristianesimo tanto che l'Inferno, popolato di magnanimi, è ripartito, a differenza del Purgatorio, secondo i canoni dell'etica aristotelica, e quest'etica non basta per dare la salvezza. Lettura, questa, come s'è visto nel primo capitolo di questo lavoro, incompatibile con quella severiniana,: «"Perché conoschi", disse, "quella scuola/c’ hai seguitata, e veggi sua dottrina/come può seguitar la mia parola;/e veggi vostra via da la divina/distar cotanto, quanto si discorda/da terra il ciel che più alto festina"»53. 1.6 La magnanimità classica: Aristotile, Plato, Virgilio La superbia dei magnanimi, che non sanno riconoscere i limiti della propria ragione, è anche nel III del Purgatorio associata alla filosofia precristiana («io dico d'Aristotile e di Plato» 54), greca ma anche romana: il bersaglio polemico è qui anzitutto Virgilio. Nonostante si apra con 50 Alighieri

D., Inf. X, 63. Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno, cit., p. 61. 52 Cfr. Alighieri D., Inf. IV, 68. 53 Alighieri D., Purg. XXXIII, 85-90. 54 Alighieri D., Purg. III, 43. 51

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elogi al Mantovano55, il canto si impegna a mostrare l'insufficienza di quella ragione umana che Virgilio incarna e oltre la quale lui, pre-cristiano, non seppe andare. Tale ragione umana, limitatissima, non può comprendere la misericordia divina che salva Manfredi, e non può nemmeno capire «come possono le anime separate dal corpo soffrire i tormenti fisici» 56; infatti, se la ragione umana capisse ciò («se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria»57), capirebbe ciò che, nella fede nel contenuto del canto, va oltre il principio di non contraddizione, va oltre le possibilità umane di comprensione. Per questo, l'uomo necessita di appellarsi a Dio, con umiltà, rigettando tutti quegli atteggiamenti che proprio dalla magnanimità prendono avvio: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,/umile e alta più che creatura»58. Se nell'Inferno Virgilio, salvo qualche piccolo intoppo e qualche tentennamento di Dante, se l'era cavata egregiamente59, fin dall'inizio del secondo regno la guida del narratore del viaggio comincia a prendere delle cantonate piuttosto imbarazzanti: si pensi al «picciol fallo» 60 nel quale è incappato durante l'ascolto del canto – attrazione terrena – di Casella, o ancora si pensi all'imbarazzante riferimento a Marzia nel dialogo con Catone 61. Questi errori virgiliani sono però sempre riconosciuti come tali, dalla guida di Dante. Virgilio infatti, come tutti i dannati, riconosce le sue colpe, sa di meritarsele, esattamente come il non ancora morto Dante sa di trovarsi nella selva, ha coscienza del suo peccato, ed è questa autocoscienza che lo risveglia del «sonno» che lo avrebbe condotto allo smarrimento totale (nel caso non si fosse risvegliato prima della sua morte). La differenza tra il peccatore e il dannato consiste nel fatto che solo il primo, oltre che del «disio», è munito della speranza: solo Dante, riscossosi dal «sonno», può intraprendere il viaggio verso l'«alto fattore». Virgilio conosce quello che la sua ragione umana non poteva sapere, ma non può più capitalizzare questo suo nuovo sapere, perché è venuta meno la speranza. 55

Cfr. Alighieri D., Purg. III, 4-6 e cfr. Alighieri D., Purg. III, 8-9. Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Purgatorio, cit., p. 41. 57 Alighieri D., Purg. III, 38-9. 58 Alighieri D., Par. XXXIII, 1-2. 59 Per quel che riguarda i suddetti tentennamenti virgiliani, si pensi ai tentennamenti del II dell'Inferno, dovuti alle ammissioni dello stesso Virgilio di essere ribellante a Dio e di non essere anima abbastanza degna per portare Dante in Paradiso, e si pensi alla domanda retorica dove Dante chiede, in attesa del messo che con una «verghetta» sarà capace di aprire quella porta che tutto l'impegno e tutte le «parole ornate» di Virgilio non erano riuscite a smuovere: «In questo fondo de la trista conca/discende mai alcun del primo grado,/che sol per pena ha la speranza cionca?» (Alighieri D, Inf. IX, 16-18). 60 Alighieri D., Purg. III, 9. 61 Cfr. Alighieri D., Purg. I, 78-93. 56

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In ciò consiste il lato grottesco dei peccatori, quell'impotenza dolce e impacciata che caratterizza Brunetto davanti all'allievo reverente, che caratterizza il fiero Farinata, e che fa torcere animalescamente gli occhi, fino a quel momento diritti, a Ciacco, alla conclusione del discorso politico che gli aveva ridato umanità, riportandolo ancora per una attimo per le strade di Firenze, in quella storia che il contenuto del canto vorrebbe allontanare, inchiodare in un ordine che risulterà essere inconseguente rispetto alle premesse (l'evidenza del divenire) e che risulterà essere, al di là della fede cristiana nel contenuto del canto, peggiore del male. Quegli occhi torti di Ciacco sono l'equivalente dell'impaccio di Virgilio davanti alle cose divine, che ora conosce, ma che non può fronteggiare, tanto tardi è giunto quel suo nuovo sapere, umile in quanto subordinato a Dio. Queste lacune Virgilio pare mostrarle forse nel modo più eclatante in Inferno II, dove scambia l'umiltà cristiana mostrata da Dante («io non Enea, io non Paulo sono»62) per pusillanimità. Dante, all'inizio del canto, si trova nell'«aere bruno», nell'«oscura costa» e lì, da solo davanti al suo destino, si sente indegno a proseguire, e rimane fermo su questa sua titubanza finché non sente quegli «occhi lucenti» che sono giunti trepidantemente (atteggiamento, questo, tipico dell'amore, amore disinteressato e sempre pronto a mettersi in moto) in suo soccorso. È l'intervento gratuito e amorevole di Dio che rende degni («me degno a ciò né io né altri 'l crede» 63), quella gratuità che «ha sì gran braccia,/che prende ciò che si rivolge a lei»64 e che è incarnata nel poema, in questo secondo dell'Inferno come nel trentatreesimo del Paradiso, dalla figura della Madonna: «La tua benignità non pur soccorre/a chi domanda, ma molte fiate/liberamente al dimandar precorre»65. Tale intervento ridà vita ai fioretti metaforici di fine canto. Se l'etica pre-cristiana spinge Virgilio a vedere come valore sommo la magnanimità, senza curarsi troppo della presunzione che potrebbe comportare e preoccupandosi anzitutto di non cadere nell'atteggiamento del pusillanime (peraltro gravemente condannato dallo stesso Dante, che vede nei pusillanimi coloro che non sono degni di stare né in Paradiso, né all'Inferno, né al Purgatorio), il cristiano Dante vede nella presunzione di chi non si cura di vedere i limiti segnati dal muro di pietra, il pericolo sommo. Virgilio, nel momento dell'incontro con Dante, sa del pericolo della presunzione, ma crede 62 Alighieri

D., Inf. II, 32. D., Inf. II, 33. 64 Alighieri D., Purg. III, 122-23. 65 Alighieri D., Par. XXXIII, 16-18. 63 Alighieri

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che un uomo vivo, come Dante era, non lo possa intendere. L'accusa di pusillanimità mossa a Dante da Virgilio, se all'inizio del II dell'Inferno risulta giustificata, non lo è invece alla fine del canto, dopo la spiegazione dell'intervento delle tre donne in soccorso del poeta, e cioè della sua investitura divina (come Enea, come Paolo). Ed infatti, dopo tale spiegazione, compreso che quel volo non era «folle», «matto», Dante, che fece come «quei che disvuol ciò che volle» 66, tornò nel «primo proposito»67, dopo che appunto Virgilio ebbe fissato i limiti del muro di pietra e che gli ebbe assicurato che con quel suo viaggio nell'«alto passo» non avrebbe oltraggiato Dio, come invece avrebbe fatto, è cosa nota, il magnanimo Ulisse. Nell'inconscio del Cristianesimo questi limiti, che Ulisse oltrepassa, non ci sono, tanto che Ulisse non solo pensa di varcarli, ma quella sua impresa ha buon esito, quantomeno per i cinque mesi di viaggio che precedono la sua morte. Ecco dunque che, nel contenuto del canto, ritroviamo da un lato la necessità della punizione («infin che 'l mar fu sovra noi richiuso» 68), ma dall'altro troviamo l'inconscio del Cristianesimo, cioè la forma del canto, la festività arcaica della poetica dantesca, che tematizza, non concettualmente, l'impossibilità, all'interno della scacchiera sulla quale si gioca la partita del nichilismo, della necessità di quella punizione: «e volta nostra poppa nel mattino,/de' remi facemmo ali al folle volo,/sempre acquistando dal lato mancino»69. Virgilio è qui, magnanimo senza Dio, che accusa Dante di pusillanimità, laddove Dante vuole semplicemente stare nei limiti tracciati da Dio, che gli antichi magnanimi per Dante non rispettano per quanto, dopo morti, i dannati conoscano quel vero Dio che, dall'Empireo, fa giungere la sua presenza fin nel profondo dell'Inferno. Certo, Virgilio torna ad assolvere il suo compito di guida stabile, nel Purgatorio, ma solo quando si ha a che fare con peccati umani, come è il caso di quelli immersi negli spessi fumi dell'ira, affrontati da Dante solo grazie all'intervento della «scorta saputa e fida» che «mi s'accostò e l'omero m'offerse»70. Il Purgatorio sembra davvero pensato come l'anti-Limbo: il tratto che domina la seconda cantica è segnata dalla dolcezza, dalla ingenuità dei suoi abitanti, paragonati a pecorelle «semplici e quiete», che nulla paiono sapere rispetto a quel sapere umano dominato da «Aristotile» e da «Plato», e tuttavia salve proprio in virtù di quella ingenuità, di quella 66 Alighieri

D., Inf. II, 37. D., Inf. II, 138. 68 Alighieri D., Inf. XXVI, 142. 69 Alighieri D., Inf. XXVI, 124-6. 70 Alighieri D., Purg. XVI, 9. 67 Alighieri

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semplicità che non induce alla tracotanza, ma che rende più semplice la via che conduce all'umiltà, la via che porta ad arretrare dinanzi all'invalicabile «muro di pietra» che la tradizione cristiana para davanti ad ognuno, papi ed imperatori compresi. È proprio davanti a questo muro, indicatogli da Beatrice sulla sommità del Purgatorio, che Dante piange le sue colpe, e le piange dopo che il suo nome – «Dante»71 – risuona per l'unica volta nel poema, umiliandolo e così sventando il pericolo che la sua magnanimità vada separata dall'umiltà che il buon cristiano necessita di tenere sempre accanto a sé. Senza questo pianto la via verso le stelle gli sarebbe stata preclusa: «lo gel che m'era intorno al cor ristretto,/spirito e acqua fessi,/e con angoscia de la bocca e de li occhi uscì del petto»72. 1.7 «Amor mi mosse»: amore e tecnica nella Commedia A questi magnanimi che stanno nell'Inferno manca «quella fede/ch' è principio a la via di salvazione»73, e ciò vuol dire che la fede è sì condizione necessaria alla salvezza, ma non è certo condizione sufficiente. La fede non è tutto, è solo il principio che conduce alla salvezza. L'anima necessita quantomeno di essere mondata, durante il soggiorno purgatoriale. Certo, basta anche una sola lacrimetta, un solo accenno di pentimento, di umiltà per mezzo del libero arbitrio del singolo, affinché l'amore divino, in modo del tutto gratuito, intervenga a dare la salvezza, quella salvezza che eccede anche la più alta capacità umana la quale, quest'ultima da sola, non può nulla circa la felicità ultraterrena: «L'essere e il moto complessivo dell'universo hanno origine dal primum mobile (cioè dall'amore di Dio tanto quanto dall'amore per Dio). Come la creazione rappresenta un dispiegarsi e riflettersi dell'essere divino, – “Non è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro sire” – così anche il suo moto, anzi tutta la sua attività risale sempre continuamente a lui. […] Dappertutto è “la divina bontà che 'l mondo imprenta”, e il moto che essa produce è amore: “Né creator né creatura mai… fu sanza amore, o naturale o d'animo”»74. Si pensi a Beatrice, giunta nel Limbo in soccorso a Dante in quanto mossa da amore 75, o agli

71 Alighieri

D., Purg. XXX, 55. D., Purg. XXX, 97-9. 73 Alighieri D., Inf. II, 29-30. 74 Auerbach E., Studi su Dante, cit., pp. 93-94. 75 Cfr. Alighieri D., Inf. II, 72. 72 Alighieri

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interventi di Lucia, nelI'Inferno e nel Purgatorio76; «amor mi mosse che mi fa parlare» 77, dice appunto Beatrice, mossa dall'«Amor che move» il Primo Mobile e, mediante esso, ogni altra cosa, in soccorso di Dante, meritevole di quel soccorso amoroso che, in quanto tale, dà salvezza elevando il salvato al di sopra del nulla. Così si esprime Gilson su questa problematica: nella Divina Commedia, Beatrice non è né una causa assolutamente prima né un fine assolutamente ultimo. È l'inviata dell'amore divino presso Dante: Amor mi mosse, che mi fa parlare (Inf. II, 72), e deve condurlo tramite la conoscenza di Dio, all'amore di Dio. Ella, insomma, viene dall'amore e va all'amore. Questo è il motivo per cui Dante, con arte mirabile, ha sottolineato in anticipo il fatto che dal momento in cui comincia a sentire e primi ardori dell'amore estatico, egli comincia anche a dimenticare Beatrice. 78

Dante riceve la salvezza in quanto egli stesso ha amato, uscendo così dalla «volgare schiera»79, in modo realmente nobile, cioè di una nobiltà amorosa che dà salvezza, a differenza di quella nobiltà amorosa, di quella «antica fiamma» amorosa cantata da Virgilio che ha dato l'esclusione dalla salvezza a chi l'ha portata, cioè a Didone, prima, e Paolo e Francesca, poi: amore, poesia e salvezza nella Commedia presentano sempre una stretta correlazione, come dimostrano i canti dell'Inferno e del Purgatorio dedicati ai lussuriosi, sempre carichi di riferimenti poetici oltre che amorosi; canti, questi dedicati all'amore, che segnano già la consapevolezza, per quanto vaga, che Dante dimostra nell'attribuire alla poesia non solo la capacità di dare onore, ma anche, e soprattutto, di dare potere, potere che mai è disgiunto dall'amore e dalla salvezza dall'annullamento che questo amore eminentemente tecnico i cristiani vanno cantando. Non è un caso che il magnanimo Virgilio sia messo all'Inferno, laddove il ben inferiore poeta Stazio sia in marcia con loro verso le stelle (quello Stazio che è diventato cristiano proprio grazie alla potenza della luce della ragione virgiliana, che ha saputo intravedere il Cristianesimo, e così assolvere la funzione di lampadoforo, di profeta inconsapevole), e non è 76

Per esempio, cfr. Alighieri D., Purg. IX, 52-7. D., Inf. II, 72. 78 Gilson É., Dante et la Philosophie (1972), trad. it. di S. Cristaldi, Dante e la filosofia, Milano, Jaca Book, 2016, p. 217. 79 Alighieri D., Inf. II, 105. 77 Alighieri

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nemmeno un caso che persone umili come Piccarda trovino la felicità divina in modo ben più degno del più grande tra tutti i sapienti. Tutto ciò, ai magnanimi confinati all'Inferno, sfugge. A loro sfugge, ed è questa la ragione primaria del fatto che «sanza spene» vivono in «disio» 80, del fatto che son «sospesi», che son «perduti», del fatto che, «dove manca la fede e la grazia, anche la più alta facoltà umana […] non può toccare la beatitudine della vita divina» 81. La «spene» che manca ai magnanimi «è un attender certo/de la gloria futura, il qual produce/grazia divina e precedente merto»82. Ai magnanimi manca tutto ciò, e dunque vivono in un perenne desiderio, che è il desiderio «de l'etterno valore»83, che è il principio verso cui ogni ente diveniente, mondano, che sta «per lo gran mar de l'essere» 84, munito o meno d' intelligenza, tende, come freccia indirizzata da Dio per mezzo «di quella corda/che ciò che scocca drizza in segno lieto»85. Il contenuto del canto dantesco, cioè la coscienza cristiana, che è anche la coscienza del poeta stesso (ma che non è l'inconscio del suo canto) dice che la vera punizione per i peccatori consiste non tanto nella punizione fisica, che tutti i dannati soffrono (eccetto i dannati del Limbo), bensì il fatto di essere lontani da Dio; per questo, chi si monda nel Purgatorio soffre di buon grado: non è mai la pena fisica la vera disperazione dei dannati. I dannati soffrono ancora per gli avvenimenti storici che li hanno coinvolti in vita (questa la grandezza del dannato dantesco: la sua umanità, che permane inalterata, nell'eterno, in tutta la sua miseria, ma anche in tutta la sua grandezza, in tutta la sua dolcezza), e la lontananza da Dio. Questa lontananza da Dio è la lontananza dal fine che, per la tradizione cristiana, è il vero riparo, il vero rimedio, che poi verrà inteso anche in modo esplicito, come contenuto del canto e della metafisica postepistemica, come peggiore del male. Il contenuto della Commedia dice quindi che i dannati sono condannati alla assenza del riparo, che tuttavia permea anche l'Inferno, in una sorta di discesa neoplatonica del divino che tutto pervade, secondo gradi decrescenti, come il poeta illustra nel I del Paradiso e come dicevano implicitamente già le «parole di colore oscuro» incontrate dal viaggiatore e dal suo duca «al sommo» della porta dell'Inferno. Dante non si rende conto che le premesse del suo 80 Alighieri

D., Inf. IV, 42. Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno, cit., p. 62. 82 Alighieri D., Par. XXV, 67-9. 83 Alighieri D., Par. I, 107. 84 Alighieri D., Par. I, 113. 85 Alighieri D., Par. I, 125-26. 81

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discorso vanno sempre nella direzione di allontanare quel presunto riparo, tanto più quel riparo dovrebbe fare sentire sé, ma al contempo non lo negano mai del tutto, nemmeno là dove il riparo non può nemmeno essere nominato. Il Cristianesimo, il contenuto della poesia dantesca, crede che, andando oltre la realtà mondana, si possa superare il principio di non contraddizione, si possa superare il divenire, ma così non è; ciò trapela già, come vedremo, dalle pieghe inconsce del contenuto dell'opera dantesca, e soprattutto si mostra in ciò che non è detto, cioè nella forma del canto che consente di cantare; il contenuto, per la coscienza cristiana, si armonizza con ciò che consente quel cantare. In realtà, la forma del canto, proprio in quanto condizione di possibilità di quel cantare (ed il cantare, essendo un fare, non può per Severino che essere illusione), riconosce l'intrascendibilità di quel divenire al di sopra del quale il contenuto del canto cristiano pretende di volersi sollevare. 1.8 «Da me stesso non vegno»: sul valore salvifico della guida Come si è avuto modo di dire, la magnanimità, di per sé, non preclude la salvezza. Infatti, alcuni personaggi del Purgatorio si rivelano essere dei magnanimi, e tuttavia sono salvi (si pensi a Sordello e a Marco Lombardo). L'importante è che il «ben fare» in terra sia accompagnato da quella dolcezza e da quella umiltà che sono i tratti caratteristici delle anime del Purgatorio. Qui, nella seconda cantica, prevale un «atteggiamento dell'animo non più protervo […] ma pronto a piegarsi»86, ben incarnato dal giunco che fa la sua comparsa alla fine di Purgatorio I. Un esempio di questo atteggiamento dolce (e la parola “dolcezza” viene più volte ripetuta nei primi canti dedicati al secondo regno 87) lo si ritrova nella descrizione delle anime innocenti, appena giunte al Purgatorio 88, le quali intonano il Salmo 113, il salmo dell'uscita degli ebrei dall'Egitto, il cui significato allegorico, spiegato in Conv. II, I 7, è quello per cui l'anima di tutta l'umanità trova la sua liberazione, ritornando in patria dopo l'esilio terreno che allontana l'homo viator medievale il quale, nella sua coscienza, crede che la salvezza autentica consista nel ritorno in patria, che è il ritorno nel cielo Empireo (ben altro dice l'inconscio di quello stesso uomo medievale). Per ritornare in patria, per ritornare tra le braccia di Dio, l'uomo, anche il più dotato di virtù umane e di alto ingegno, deve umilmente 86

Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Purgatorio, cit., p. 3. Cfr. Alighieri D., Purg. I, 13; cfr. Alighiri D., Purg. II, 113; cfr. Alighieri D., Purg. II, 114; cfr. Alighieri D., Purg. III, 66; cfr. Alighieri D., Purg. IV, 44; cfr. Alighieri D., Pug. IV, 109. 88 Cfr. Alighieri D., Purg. II, 52-4. 87

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affidarsi ad una guida. Il ritorno in patria, tema cardine del Purgatorio, non può essere compiuto dal cristiano con le proprie esili forze. Non è un caso che quel «Da me stesso non vegno»89, pronunziato da Dante in aperta polemica con il primo amico Guido ma, più in generale, con tutti i magnanimi dell'Inferno, viene ripreso in apertura della seconda cantica: «Da me non venni»90, «de l'altro scende virtù che m'aiuta»91. Queste anime dolci del Purgatorio vengono poi paragonate, nel clima di sospensione che pervade i primi canti della seconda cantica, a «colombi adunati a la pastura» 92 – che non mostrano «l' usato orgoglio»93 tipico dei magnanimi – desiderosi di tendere le braccia all'altro in segno di dare ma anche di ricevere aiuto; essi si trovano del tutto disorientati nella spiaggia del Purgatorio; essi s'impauriscono per poco e al minimo segnale di pericolo fuggono «ver' la costa,/com'om che va, né sa dove riesca»94. Nel canto successivo un'altra similitudine identifica questi umili, salvi in virtù della loro umiltà: è questa la «celebre similitudine delle pecorelle, nella quale si esprime l'animus, la disposizione interiore, propria di questi spiriti che abitano il monte della purificazione» 95. Se là, nell'Inferno, si dava rilievo a «un ergersi superbo, un protagonismo esasperato. Qui mitezza, semplicità, quasi nascondimento degli uni fra gli altri, nell'uniformità del volere, nella dolcezza degli atti»96. Queste anime miti chiedono a Dante la preghiera di chi sta ancora, in quanto vivente, nell'emisfero boreale, e che può intervenire per accelerare il loro processo di purificazione. Questa richiesta deriva anzitutto dalla volontà divina, in quanto Dio vuole lasciarsi persuadere dagli uomini, che possono persuaderlo finché rimangono in vita, e finché rimangono in vita possono persuaderlo fino all'ultimo momento della loro vita, in quanto solo con la morte vien meno la «speme», viene meno la possibilità di incrementare la propria potenza. Poco prima della similitudine delle pecorelle queste anime, veduta l'ombra che il corpo vivo di Dante proietta, si spaventano e si appiattiscono «ai duri massi/de l'alta ripa» 97, in un atteggiamento di dolce impotenza, tipico di chi non reagisce alla minaccia perché sa che 89 Alighieri

D., Inf. X, 61. D., Purg. I, 52. 91 Alighieri D., Purg. I, 68. 92 Alighieri D., Purg. II, 125. 93 Alighieri D., Purg. II, 126. 94 Alighieri D., Purg. II, 131-2. 95 Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Purgatorio, cit., p. 41. 96 Ibidem. 97 Alighieri D., Purg. III, 70-1. 90 Alighieri

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qualsiasi minaccia non può nulla contro quell'Ordine, quel riparo, al quale essi hanno deciso di appellarsi, scegliendolo come loro guida (guida ben più «degna»98 di Virgilio). Riconoscendosi nella loro impotenza, e riconoscendo su questa base la necessità di affidarsi ad una guida che li soggioghi, tali anime hanno deciso, in vita, per la loro salvezza eterna e dunque per l'incremento infinito della loro potenza, derivante dal legame con Dio che la “salvezza” nichilisticamente intesa dai cristiani comporta. 1.9 Un magnanimo a guardia del Purgatorio Ma, si diceva, anche il magnanimo può farsi pecorella, mantenendo la sua virtù naturale. È proprio in virtù della possibilità del darsi di questo accordo che è possibile per Dante porre il magnanimo precristiano Catone Uticense a guardia del Purgatorio. Egli, in quanto durante la sua vita è andato cercando la libertà, risulta ora, nel Purgatorio, illuminato dalle quattro virtù alla luce delle quali risplende la sua pienezza umana, una pienezza caratteristica dell'uomo naturale, che è l'uomo che esercita la sua libertà senza tuttavia andare contro Dio, contro il muro di pietra e contro le colonne d'Ercole del XXVI dell'Inferno. Il giunco deve agire liberamente in terra, e così risplendere delle virtù umane ma poi, cozzando contro i limiti posti da Dio, deve piegarsi dolcemente al suo cospetto: non è la magnanimità di Ulisse che viene condannata spietatamente, senza commento, in Inferno XXVI, ma è il suo non essersi saputo piegare, il suo non essersi fatto giunco. Il magnanimo Catone, tuttavia, non è ancora salvo. Egli sta a guardia del Purgatorio e, come ogni carceriere, sta anch'esso nel carcere. Un carcere a termine, tuttavia, un carcere dal quale, alla fine dei tempi, tutti i carcerati usciranno: ecco qui il tempo ricadere, nell'inconscio del contenuto del canto cristiano, nell'eternità di ciò che sta dopo la morte! Un tempo che sì, si farà eterno presente quando le trombe del giudizio universale suoneranno, ma che per il momento mantiene una sua temporalità, vincolando così ad un inizio temporale anche quell'eterno presente che giungerà alla fine dei tempi99. È questo il movimento tipico del testo dantesco: là 98 Alighieri

D., Inf. I, 122. «Nell'aldilà non accade più nulla di temporale: la storia è finita. E al suo posto è subentrato il ricordo. Alle anime non accadrà più nulla di nuovo, tranne che al giorno del giudizio; e anche questo porterà soltanto un'intensificazione della loro condizione presente. Essi hanno lasciato lo “status viatoris” e sono nello “status recipientis pro meritis” […]. Non c'è più da sperare né da temere alcun cambiamento; nessun incerto futuro dà loro la coscienza della dimensione “tempo”. Non accade loro più nulla, o meglio, ciò che loro accade accadrà in eterno. E la loro perdurante situazione, senza storia e senza tempo, è il frutto della loro storia terrena; così che nel nell'osservare e rappresentare se stessi, essi sono costretti a vedere sempre questa insieme con quella» (Auerbach 99

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dove si crede di trovare l'eterno, il riparo dal nulla, dal divenire, si ritrova sempre un ostacolo che allontana ancora un poco questo rifugio. L'esempio più eclatante lo ritroviamo nel Paradiso: anche il terzo regno si rivela anzitutto fatto di cieli fisici toccati dall'ombra, poi liberi dall'ombra ma legati ancora alla materialità, e poi ancora, giunti nell'Empireo, lungi dal trovare il tanto sospirato conforto dal divenire, ecco comparire le «bianche stole» 100, i corpi assolutamente terreni dei beati, ed in Dio l'effige dell'uomo – che appare in tutta la sua portata storica, oltre che universale – il quale, identificandosi con Dio, trascina Dio stesso, ancora una volta, e questa volta irrimediabilmente, in basso, su quel terreno che il contenuto del canto non sa di non poter allontanare in nessun modo. Ritorniamo a Catone: pagano, suicida, precristiano, anti-imperiale, egli non è affatto un beato (ai beati spetta solo il Paradiso). Egli è un magnanimo che incarna l'anima alla fine del suo processo di purgazione, nel giardino dell'Eden, dove l'uomo risplende della massima virtù terrena. Catone è un magnanimo che risplende di quella virtù che per Dante è la virtù più alta alla quale il paganesimo poteva arrivare; una virtù che è tale già nel mondo pagano in quanto questo genere di virtuoso non si avventa contro il muro di pietra, e tuttavia non vuole soggiogarsi a tale muro di pietra, non sa riconoscerlo e riconoscere in esso la sua «effige» 101. Riconoscere ciò è invece una acquisizione del Cristianesimo; secondo Dante tale acquisizione incarna il punto in cui il Cristianesimo supera il mondo pagano. I pagani non sanno andare oltre quelle virtù naturali che invece bisogna lasciarsi alle spalle, per trasumanare e così disporsi a «salire alle stelle»102. Bisogna per il cristiano Dante avere il coraggio di abbandonare, non contro ma oltre il paganesimo, poesia e filosofia, che sono legami terreni che danno conforto ma non permettono di giungere alla vera meta dell'uomo. Questo è ciò che la Commedia dice, facendo cantare a Casella Amor che ne la mente mi ragiona, ossia la canzone che indica il periodo “pagano” di Dante, in cui Dante ha creduto di trovare in ciò che la filosofia dice, tutte le risposte. Ora è chiaro, da ciò che si è detto, che cantando tale contenuto, e dunque cantando ciò che di conscio c'è in lui stesso e nel pensiero cristiano medievale, Dante non comprende ciò che in quel suo cantare c'è di inconscio, cioè la forma non detta del dire che il discorso cristiano va dicendo. E., Studi su Dante, cit., p. 130). 100 Alighieri D., Par. XXX, 129. 101 Alighieri D., Par. XXXIII, 131. 102 Alighieri D., Purg. XXXIII, 145.

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Dante non comprende cosa significa veramente la poesia, cosa significa quell'atteggiamento festivo che è proprio di tutta la grande poesia, e della tecnica, e della filosofia, e della stessa religione cristiana, tanto pagana quanto cristiana o addirittura post-hegeliana. Tutto ciò Dante non lo sa scorgere, non vede quel tratto festivo, proprio del suo stesso poema. La grandezza del suo cantare sta proprio in ciò (il non detto) che in quel cantare il poeta non vede, e che invece Leopardi vedrà, in modo del tutto chiaro, ponendo tale essenza festiva del canto nel contenuto del canto stesso senza rinunciare all'illusione che, una volta guardata in faccia la follia, non può che abitare fuori dal dire del canto medesimo. Alla fine dei tempi, tuttavia, anche Catone trasumanerà e potrà finalmente risplendere – lasciandosi alle spalle la magnanimità pagana – di quella luce ben più nobile rispetto a quella delle «quattro luci sante»103 che nella spiaggia del Purgatorio gli illuminano il volto. Potrà insomma, alla fine dei tempi, abbandonare l'atteggiamento tipico dei pagani magnanimi, tutto volto alle cose terrene. Catone, simbolo della perfezione terrena, sa ora che il terreno deve essere anteposto al divino (terreno che egli potrà abbandonare solo alla fine dei tempi), e per questo ordina alle anime che stanno ascoltando il piacere terreno della filosofia e della poesia incarnato dal canto di Casella e dalle parole della poesia di Dante, ascoltata con grande interesse anche dal magnanimo Virgilio: anch'egli, come Catone, magnanimo che conosce la verità del Cristianesimo, e che tuttavia talvolta pare dimenticarsene (come è già avvenuto, lo si è sottolineato in precedenza, nel II dell'Inferno). Questo è il contenuto del canto, che non sa scorgere la potenza poetica di quel canto, potenza che va al di là delle sue intenzioni, dei suoi contenuti. Se la poesia cantata da Casella avesse avuto come contenuto la “verità” del Cristianesimo, cioè se Casella avesse cantato, anziché Amor che ne la mente mi ragione, il XXXIII del Paradiso, tale poesia sarebbe stata comunque, anzitutto, poesia; grande poesia, ossia festa, che scava e fa emergere l'inconscio del giocatore bianco, anche quando è il giocatore bianco a cantare ciò che canta. La grande poesia, che non abbandona il suo tratto festivo riducendosi a pura accozzaglia di lettere buona solo per le anime belle, trascende sempre il Cristianesimo, anche quando il suo contenuto è esattamente il contenuto del discorso cristiano. Con ciò non si vuol dire che la teoria del bello sia una disciplina da relegare nell'angusto orizzonte proprio dell'anima bella: l'estetica vive sulla scacchiera in cui giocatore bianco e nero si danno battaglia, e la agita, e la indaga; l'estetica 103 Alighieri

D., Purg. I, 37.

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intesa come teoria del bello non c'entra nulla con le anime belle che non sanno cogliere nulla, nemmeno nel loro inconscio (bisogna avere una coscienza per avere un inconscio!), dell'inconscio nichilistico dell'Occidente. 1.10 «Fatti non foste per viver come bruti»: sull'inconscio nichilistico della Commedia Protagoniste di queste pagine sono posizioni teoriche riconducibili a delle umili piante, precisamente a due umili piante: il giunco e la ginestra, così come sono intese, rispettivamente, da Dante e da Leopardi. La tesi che si vuole proporre consiste nell'affermare che l'umiltà del giunco cantato da Dante si rivela essere, ad una analisi consapevole delle dinamiche dell'Occidente così come sono intese da Severino, solo un abbaglio. Infatti, già Dante, riducendo il canto cristiano a mezzo poetico, supera il muro di pietra in modo ben più radicale di Ulisse. Concludiamo dunque questa rassegna dei “magnanimi” della Commedia parlando del più complesso e importante tra questi: l'Ulisse dantesco, in riferimento al quale Buti chiosa che l'amore verso «virtute e canoscenza» «non era da virtù, ma da superbia» mosso, e per questo, conclude Buti, «Ulisse manifesta qui la sua colpa». «Virtù e conoscenza, le parole per cui si muovono Ulisse e i suoi compagni, sono in realtà quasi il simbolo del mondo antico nella sua coscienza più alta, che è poi la coscienza stessa dell'uomo prima o al di fuori del cristianesimo»104. Come altri grandi personaggi della Commedia, anche Ulisse funge da controfigura di Dante, il quale, a causa della sua «altezza d'ingegno» 105, ha rischiato di far la fine del «primo amico» Guido Cavalcanti e di Ulisse stesso, e questo perché «la superbia […] è il rischio insito nella magnanimità»106, come mostrano le terzine dedicate a Farinata e a Capaneo: «Ulisse è una parte di sé, che l'autore viandante oltrepassa»107 aderendo umilmente al Cristianesimo (vedremo presto come questa umiltà dell'uomo cristiano sia in realtà straripante di hýbris, di volontà di potenza). Ulisse possedeva una «piccioletta barca»108, una precaria «navicella»109 (precaria in quanto viene solamente dall'ingegno umano), non sorretta dalla mano di Dio; viceversa, il «legno che 104

Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno, cit., p. 447. D., Inf. X, 59. 106 Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno, cit., p 176. 107 Ivi, p. 447. 108 Alighieri D., Par. II, 1. 109 Alighieri D., Purg. I, 2. 105 Alighieri

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cantando varca»110 pilotato da Dante ha consentito al poeta di “indiarsi”, di attraversare «l'alto sale»111 indenne: ciò non significa che Ulisse non sia riuscito a varcare «l'alto sale», ma significa invece che, pur avendolo varcato, è stato poi travolto da quello stesso ostacolo, e soprattutto ciò non significa che Dante, forte dell'aiuto divino, non abbia violato Dio in quel suo stesso indiarsi. Questa premura nella ricerca della umiltà per ritrovare la retta via che allontana il pericolo del nulla, portando il ricercatore tra le braccia del divino, è da Dante espressa fin dall'inizio del canto XXVI dell'Inferno, prima della entrata in scena del protagonista del canto, attraverso una terzina che, non a caso, si riferisce al poeta stesso, e non ai peccatori della ottava bolgia: «e più lo 'ngegno affreno a ciò ch'i' non soglio,/perché non corra che virtù nol guidi»112. L'uomo cristiano, contro la magnanimità degli antichi, sente la necessità di piegarsi di fronte al muro di pietra, di allearsi ad esso, temendolo e pregandolo, e con ugual forza il cristiano sente la necessità di affidarsi ad altri – non solo a Dio –, a delle guide e, nel caso delle anime del Purgatorio le quali, sempre sollecite e impazienti ad aiutare il prossimo, a chi in terra per loro possono pregare. Bisogna dire che questo fare affidamento ad altri non può soffocare la responsabilità individuale, e dunque il libero arbitrio, che è uno dei capisaldi del discorso cristiano; di qui la necessità di conciliare la necessità della luce divina che guida chi vuol essere guidato, con la contingenza dell'agire libero degli uomini: «La contingenza, che fuor del quaderno/de la vostra matera non si stende,/tutta è dipinta nel cospetto etterno:/necessità però quindi non prende/se non come dal viso in che si specchia/nave che per torrente giù discende»113. Dante, dunque, appoggiatosi a Virgilio, e riconosciuta la sua colpa e la necessità di essere soccorso con la confessione alla fine del Purgatorio, supera Ulisse mediante il Cristianesimo, sostiene il contenuto del canto cristiano, ma questo è solo quello che superficialmente appare. In realtà, se come filosofo, cioè nel contenuto del suo canto, Dante supera effettivamente l'universo pre-cristiano, per quanto il Cristianesimo conservi in sé, con le categorie ontologiche greche, tutto il nichilismo dell'Occidente, come poeta riduce il contenuto del suo canto, ossia il Cristianesimo, a mezzo del suo canto: «La Commedia si rivolge al divino – al salvifico – per 110 Alighieri

D., Par. II, 3. D., Par. II, 13. 112 Alighieri D., Inf. XXVI, 21-2. 113 Alighieri D., Par. XVII, 37-42. 111 Alighieri

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cantarlo; non canta per rivolgersi al divino»114. Auerbach osserva che «la Commedia ha rappresentato l'unità fisica, etica e politica del cosmo scolastico-cristiano in un'epoca in cui essa cominciava a perdere la sua invulnerabilità ideologica: l'atteggiamento concettuale di Dante è quello difensivo di un conservatore e la sua lotta tende alla riconquista di ciò che è già perduto»115. Sembra di leggere, in questa osservazione, ciò che De Sanctis dice di Vico: «Era la resistenza della coltura italiana, che non si lasciava assorbire e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il retrivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza di Vico. Era un moderno, e si sentiva antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sé» 116. Nella sua lotta con il proprio tempo, Dante cerca di ritrarsi tanto indietro da risultare avanti per la propria epoca. Infatti, è proprio da questo suo ritrarsi che inizia a farsi presente, nella Commedia, quella esigenza teoretica di affermare l'essenza del nichilismo che verrà del tutto esplicitata solo con il rifiuto del Cristianesimo, con la metafisica post-hegeliana. Se il contenuto del canto dantesco è il muro di pietra che Ulisse non solo non considera, ma che cerca addirittura di oltrepassare, peraltro riuscendoci, come il canto dice, riconoscendo, da dentro il Cristianesimo, il suo stesso inconscio (che porterà, nella coerentizzazione del discorso filosofico (cristiano), all'abbattimento di quel muro che sta in grembo alla tradizione fin dal principio, anche nel più intransigente discorso cristiano), la sua forma, la potenza del canto, sente in modo non concettuale l'inconscio filosofico del contenuto del canto, che è quella volontà di potenza, quella hýbris propria della tecnica post-epistemica, che si basa sull'intendimento nichilistico dell'ente, che nel discorso cristiano si presenta nel suo versante tecnico rovesciato, speculare ma identico: la tecnicità del contenuto della Commedia, del discorso filosofico tradizionale, si afferma non uccidendo quel limite sotto ai colpi dell'azione dell'uomo, ma riconoscendo quel limite, alleandosi con esso, ed affermandosi mediante Dio stesso. Ulisse, tecnico come Dante, ma speculare a Dante nel suo modo di essere tecnico, supera quel muro di pietra che Dio ha posto (e che coincide con Dio stesso), «acciò che l'uom più oltre

114

Severino E., La potenza dell'errare, cit., p. 25. E., Studi su Dante, cit., p. 158. 116 De Sanctis F., Storia della letteratura italiana, Firenze, Salani, 1965, pp. 760-761. 115 Auerbach

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non si metta»117. I magnanimi del limbo non intendono il muro di pietra, non si appoggiano a Dio, e non lo vedono neanche. Ulisse quel muro invece lo vede, gli si para davanti (sono le colonne d'Ercole che conducono verso l'emisfero australe), e lui orgogliosamente lo vuole oltrepassare, e così facendo, penetra Dio, attestando la complementarietà sussistente tra la volontà di potenza anti-epistemica e la tecnica cristiana. Quello di Ulisse è un “indiarsi”: allearsi a Dio o distruggerlo è comunque sempre un penetrarlo ed un imporsi con potenza sul mondo per mezzo di quell'atto volto a soggiogare l'eterno. Il fine di Dante e di Ulisse è sempre lo stesso: la realizzazione della potenza; cambiano solo i modi con cui si vuole raggiungere questo fine. L'uno cerca di raggiungerlo cercando di oltrepassare con disdegno il muro di pietra, l'altro “umilmente” (ma si capisce quanto ambigua sia questa umiltà!) alleandosi ad esso. Il vero peccato di Ulisse è quello di avere scelto un modo inefficace, che non gli ha consentito di esercitare la sua volontà di potenza e che, al contrario, lo ha condotto a morte certa, sotto quel mare che presto si è richiuso sopra il suo corpo disperato e impotente («La sete natural che mai non sazia/se non con l'acqua onde la femminetta/samaritana domandò la grazia»118). La volontà di potenza, mai sazia nell'uomo, può essere per i cristiani, che stanno nell'illusione (dal punto di vista del nichilismo al quale partecipano) della divinità eterna ed immutabile, può essere saziata solo dalla grazia divina, e non può essere raggiunta, come vorrebbero i magnanimi del Limbo e Ulisse, solo dalle proprie forze. La differenza tra i primi e il secondo consiste nel fatto che gli abitanti del primo cerchio, pur non appoggiandosi a Dio – bensì alle sole umane virtù, che sono le virtù della mente – cioè a «quella fine e preziosissima parte de l'anima che è deitate»119, non hanno l'intenzione di scardinare il muro di pietra (come vorrà invece fare Ulisse). Ulisse è mosso da «ardore»120, che è ben altra cosa rispetto al «dispitto» 121 che inchiodava all'Inferno Farinata. Ulisse sa che sta varcando limiti inviolabili 122, e nonostante ciò li cerca, li vede, li forza. E se li forza, è perché sa che sono frutto dell'illusione. Dante, a differenza di tutti costoro, vede il limite posto dal muro di pietra, e sa di doversi alleare con esso, umilmente, per 117 Alighieri

D., Inf. XXVI, 109. D., Purg. XXI, 11-3. 119 Alighieri D., Convivio III, II 19. 120 Alighieri D., Inf. XXVI, 97. 121 Alighieri D., Inf. X, 36. 122 Cfr. Alighieri D., Inf. XXVI, 109. 118 Alighieri

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poter avere potenza sulle cose elevandosi sopra la nullità delle cose destinate a cadere nel nulla, infatti egli sa che «se l'uomo non accetta questo limite, e questo aiuto, la sua stessa magnanimità finirà col perderlo»123. Proprio perché consapevole della sua impotenza, facendosi umilmente condurre da Dio, Dante potrà arrivare fino al fine della vita di ognuno, che è il «fine di tutt'i disiri»124. Ulisse va contro quel limite anche nell'Inferno (cosa tanto più interessate quanto inconsueta per i dannati della Commedia). Virgilio, per esempio, riconosce le sue colpe, vive la lontananza da Dio in quanto lo riconosce, dopo la sua morte, e per questo nel secondo dell'Inferno motiva Dante a seguirlo facendo perno non sulle virtù del poeta, ma su quella grazia che in vita egli, Virgilio, non aveva saputo riconoscere. Ulisse invece, che è «il più distaccato di tutti i grandi personaggi dell'Inferno»125, rinchiuso nella sua «fiamma», con la sua presenza solenne e silenziosa, «ignora i suoi due interlocutori, la sua pena, la sua colpa […]. È una “voce recitante”, di nient'altro consapevole che di ciò che narra», «non ha alcun appiglio», né con i poeti lì presenti, né, soprattutto, con la sua colpa e con Dio, presente nell'Inferno come in ogni altro luogo, che la pena proporzionata alla sua colpa gli ha inferto. Egli è una «voce fuoricampo». Egli non si piega a Dio nemmeno dopo la morte, laddove Dante, nella superficiale coscienza cristiana (cioè nella coscienza non cosciente del suo essenziale contenuto), giunge alla meta perché usa mezzi non suoi, perché si affida umilmente a Dio. In questo senso Ulisse, coscienza infelice della tradizione e della filosofia cristiana, lungi dal mostrare un grado di coscienza maggiore, è la voce che, più di ogni altra, nella Commedia giunge a scorgere l'essenza nichilistica insita (anche) nel Cristianesimo, e dunque la sua smania di potere e la sua volontà di innalzarsi al di sopra delle cose mortali, smania di dominio nascosta sotto il velo di una apparente umiltà. Tale consapevolezza di Ulisse è esposta chiaramente nella «orazion picciola», nella quale il peccatore sostiene che la «semenza» dell'uomo, cioè la sua origine, è divina, e proprio per questo bisogna superare i limiti posti da Dio, bisogna «dominare l'infinito (il mare oceano) [meglio ancora: diventare l'infinito], quella realtà che Dio ha riserbato a se stesso» 126. L'uomo, per vivere, deve respirare, deve «fare un varco nella Barriera dell'Inflessibile»: «Nell'atto stesso 123

Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno, cit., p. 448. D., Par. XXXIII, 46. 125 Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno, cit., p. 448. 126 Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Inf. XXVI, 112, nota. 124 Alighieri

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in cui l'Inflessibile acquista per l'uomo il volto del divino, in quello stesso atto l'uomo, per vivere, deve quindi flettere l'Inflessibile, forzare e penetrare la Barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo. Volendo essere “come Dio” Adamo mangia Dio»127. Dante, nella sua superficiale coscienza di uomo cristiano che canta un canto il cui contenuto è in perfetta assonanza con il Cristianesimo, critica questo atteggiamento tecnico, ma già lui supera quel limite, usando ciò che canta (il Limite, la Barriera) solo come un mezzo per cantare una verità, che è la fede dell'Occidente, che è la fede nichilistica nel divenire, verità che il Cristianesimo afferma inconsapevolmente come unica verità originaria che corrode il Cristianesimo dall'interno (negando, questa verità, il contenuto espistemico del discorso cristiano). Ulisse, inconscio dell'Occidente e della poesia dantesca, sa che quel muro di pietra non c'è: Ulisse è l'inconscio del canto, è la (in)coscienza profonda di Dante, del Cristianesimo, dell'Occidente, e proprio per questo ne è la sua forza, e al contempo ne è la sua rovina. Ulisse è già quella coscienza che Leopardi porterà alla luce nel suo canto, nella sua opera del genio (anche se Ulisse non sa intendere che come autentica salvezza la volontà di potenza). Ulisse sa che per la tradizione, per la metafisica epistemica, il volo è folle. Ed Ulisse, in ultima istanza, è Dante, come Platone è tutti i suoi dialoganti: Dante sa, nel suo profondo – in virtù di quel suo stesso cantare, in virtù della forma del suo canto e dell'essenza non esplicitata del contenuto del canto – che il volo è folle solo per la superficie del discorso cristiano, e quel suo cantare ne è testimonianza, in quanto non ci sarebbe canto, non ci sarebbe azione, se non si riconoscesse uno scarto tra Dio e il mondo, in quanto Dio soffocherebbe ed immobilizzerebbe il mondo. Ecco allora che nel suo cantare, nel suo mettersi in salvo in Dio, Dante deve muoversi, e per muoversi deve respirare, deve respingere, mangiare, squarciare, in ultima istanza, negare quell'ineffabile, deve mettersi in salvo da Dio, e cioè deve farsi tecnico, e facendosi tecnico, deve imitare Ulisse, che si rivela essere, al di là della superficie del discorso della Commedia, la più significativa creazione di Dante, il suo inconscio, la sua potenza. Dante, in ultima istanza, mette in scena il Cristianesimo, non aderisce ad esso. O meglio, aderisce ad esso ma, aderendo inconsciamente anche al suo inconscio nichilistico, pone le basi per il suo superamento, per la sua negazione. Il contenuto del canto etichetta come folle la pretesa di volare senza Dio, mentre l'inconscio di quello stesso canto decreta la morte, la follia, di quello stesso Dio che è cantato dal canto cristiano. Quella follia del viaggio senza Dio, 127

Severino E., La potenza dell'errare, cit., p. 95.

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esposta nei due canti “gemelli” di Inf. II e Inf. XXVI, viene poi ripresa in Purg. III, 34-6: qui si dice che la ragione naturale è follia, e tuttavia il fatto di essersi appellati ad esso non è una ragione sufficiente per finire nel basso Inferno («Minòs me non lega» 128, può ben dire il magnanimo Virgilio): il naufragio che conduce al basso Inferno si dà quando si usa la ragione naturale per rompere quel muro di pietra. Come dire: tanto più ci si avvicina alla coscienza nichilistica del Cristianesimo, quanto più le pene si fanno pesanti come se, solo avvertendo la verità dell'Occidente, Dante possa mobilitarsi per allontanarla mediante le punizioni oltremondane che tuttavia, negando la staticità oltremondana, esse stesse la riaffermano. È stato proprio il tentativo di mangiare Dio – cioè di conoscere e di praticare la verità dell'Occidente – che ha determinato il peccato originale. Inf. XXVI, 84 demarca la differenza fondamentale tra Dante e Ulisse. Se il primo, risvegliandosi dal sonno del peccato, si ritrova perduto nella selva, ma dopo di ciò riesce a ritrovare la «diritta via»129, Ulisse è irrevocabilmente perduto, proprio in quanto ha voluto oltrepassare i limiti ed è perito in questo suo tentativo. In concordanza con lo sperticato elogio nei confronti dell'umiltà dei peccatori nei primi canti del Purgatorio – accompagnati da continui riferimenti polemici ad Ulisse, come nei versi 118-20 di Purg. I e poi nei versi 10-12 del canto successivo – viene proposta l'immagine dell'uomo esiliato, che torna in patria, e che può fare ciò solo affidandosi a Dio. Ulisse ha voluto giungere a Dio con le proprie forze, o meglio, ha voluto, come l'uomo della civiltà della tecnica e come Adamo, mettersi al posto di Dio, divorandolo, e quindi è perduto. Nella superficialità del contenuto della Commedia, dalle cui profondità inconsce emerge la dirompente figura (auto)critica di Ulisse, ci viene detto: «credete/che non sanza virtù che da ciel vegna/cerchi di soverchiar questa parete» 130, e successivamente ci viene detto che questa parete, questo muro di pietra, può essere penetrato solo con il consenso del muro di pietra stesso, e che per questo l'andata del peccatore poeta che canta il canto della Commedia, a differenza di quella di Ulisse, non è una andata folle, destinata al naufragio nell'«alto passo»: «Donna del ciel, di queste cose accorta […] disse: “Andate là: quivi è la porta”»131. Ad Ulisse manca l'umiltà, quindi non può che patire la dura condanna. Questa lezione torna 128 Alighieri

D., Purg. I, 77. D., Inf. I, 3. 130 Alighieri D., Purg. III, 97-9. 131 Alighieri D., Purg. IX, 88-90. 129 Alighieri

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ancora con viva potenza nel cielo degli spiriti contemplativi, dove il discorso sulla predestinazione fatto da Pier Damiani in risposta alle domande di Dante si pone come un limite invalicabile, che non può essere compreso non solo da Dante, vivo e peccatore che sta tra i beati, ma nemmeno dai beati stessi: è un limite, il contenuto del discorso di Pier Damiani, dinanzi al quale umilmente arretrare, per lasciare spazio ad un discorso il cui contenuto (la storia, la biografia del beato) può essere fruito e detto dal poeta e dall'anima che con il poeta parla132. Sforniti di questa umiltà che fa arretrare davanti a Dio, siamo destinati a fare la fine di Ulisse e della ninfa Semele, dice la coscienza cristiana di Dante 133. Questo muro di pietra, che nello stesso canto XXI pare essere qualcosa di immobile e inderogabile, si rivela essere in ultima istanza, nello stesso contenuto del canto dantesco, qualcosa di fluido, oltrepassabile. Attraverso questa umiltà, attraverso questo arretrare, infatti, si riesce ad oltrepassare questo limite, o quantomeno a spingerlo, fichtianamente, sempre più in là, pur rimanendo in un dualismo (un realismo ingenuo) mai del tutto risolto. Nel cielo successivo, infatti, sopraffatto e al contempo rinforzato dalla presenza divina ulteriormente incrementata, Dante riesce a sostenere il sorriso di Beatrice, quel sorriso che è immagine del divino, e dunque riesce a non arretrare più dinanzi a quel limite, pur spostandolo più in là, cioè non eliminandolo completamente: «vid'io così più turne di splendori,/folgorate di sù da raggi ardenti,/senza veder principio di folgóri»134. Dante nel cielo successivo può “inventrarsi”, penetrare, mangiare, violare, scardinare quel divino dinanzi al quale prima doveva arretrare, e può farlo proprio in virtù di quella umiltà di cui si è detto, apparentemente remissiva, in realtà mirante a porre le premesse per l'esercizio della volontà di potenza propria di tutti gli abitatori del tempo, compresi i cristiani: «“Apri gli occhi e riguarda qual son io;/tu hai vedute cose, che possente/se' fatto a sostener lo riso mio”»135. Questo il paradosso che la foga tecnica del contenuto del canto cristiano non può eludere. Ma torniamo ora a Ulisse.

132

Cfr. Alighieri D., Par. XXI, 100-5. Cfr. Alighieri D., Par. XXI, 1-12. 134 Alighieri D., Par. XXIII, 82-4. 135 Alighieri D., Par. XXIII, 46-8. 133

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1.11 Tra giunchi e ginestre: disegnare e dissimulare l'idea dell'Occidente Ad Ulisse manca quindi l'umiltà, ed è questa mancanza che lo farà precipitare, dopo la sua morte, nel basso Inferno. Ed è proprio l'umiltà la virtù che permea tutto il Purgatorio – fin dalle prime terzine – che si richiama spesso, non certo a caso, proprio alla figura di Ulisse. Così in Purg. XXX Dante per superare il limite segnato dal fiume Lete per trasumanare e così risalire verso la rosa dei beati, deve pagare lo «scotto» del «pianto»: è proprio questa plateale confessione dei suoi peccati che Dante manifesta di fronte ad una Beatrice guerriera che, colpendolo con la spada delle sue parole, gli conferisce l'umiltà che lo rende disposto a salire a le stelle. In particolare, Chiavacci Leonardi osserva come, nel rimprovero che Beatrice rivolge a Dante in Purg. XXX, 112 («ma per larghezza di grazie divine»), rimprovero che riconosce la colpa di Dante nell'aver male usato il suo ingegno, cioè le doti che naturalmente ha avuto in sorte, si può intravedere la ripresa consapevole, da parte del poeta, ai versi 23-4 del canto di Ulisse («sì che, se stella bona o miglior cosa/m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi»). Ma, soprattutto, il rimando più importante a Ulisse che nel Purgatorio viene fatto, lo troviamo sul finire del primo canto della seconda cantica. Qui fa la sua comparsa il giunco, il simbolo per eccellenza della umiltà che nella Commedia viene proposto: «com'altrui piacque»136, cioè secondo il volere di Catone che lì aveva mandato i protagonisti del viaggio per eseguire un rito che rendesse Dante degno di salire il monte; Dante e Virgilio si recarono «sul lito diserto,/ che mai non vide navicar sue acque» 137 (altro riferimento a Ulisse!) affinché Virgilio cancellasse con la rugiada «ogne sudiciume»138, ossia ogni traccia del suo passaggio infernale, dal volto di Dante, e affinché lo cingesse con «un giunco schietto [= liscio, diritto]»139, simbolo di umiltà. L'umiltà del giunco è quella umiltà massimamente incarnata dalle due figure dominanti il trentunesimo canto del Purgatorio: il Cristo-grifone e Beatrice, due figure sommamente umili in quanto hanno saputo mettere da parte, in terra, la loro grandezza sovrumana, per abbassare il capo in terra fino al sacrificio e all'umiliazione, atto con cui Cristo opera, in modo del tutto disinteressato e conforme alla Legge del Padre, per salvare il genere umano. Per farci capire l'umiltà di queste due figure paradigmatiche per il mondo cristiano, la cui umiltà è data 136 Alighieri

D., Purg. I, 133. D., Purg. I, 130-31. 138 Alighieri D., Purg. I, 96. 139 Alighieri D., Purg. I, 95. 137 Alighieri

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anzitutto dalla rinuncia al loro aspetto glorioso, Dante ricorre ad una immagine evangelica, in riferimento a Cristo, e ad una immagine realissima e quotidiana – di quel realismo che solo Dante può mettere in scena con quella dolcezza, con quell'arte sua inarrivabile – in riferimento a Beatrice. Come la donna amata ancora all'inizio del canto risplendeva di una luce che gli uomini in terra non possono reggere ma che, in un secondo momento, si mette alla pari di Dante («Sola sedeasi in su la terra vera»140, «e con tranquillo aspetto “Vien più tosto”,/mi disse, “tanto che, s'io parlo teco,/ad ascoltarmi tu sie ben disposto» 141), così il Cristo, a «Pietro e Giovanni e Iacopo condotti»142 sul monte Tabor, apparve loro in un aspetto sfolgorante e divino, in compagnia di Mosè e di Elia; e tuttavia, in un secondo momento, seppe ritornare uomo, in tutta la sua umiltà che lo condurrà all'umiliazione della morte in croce per la salvezza degli uomini. Umilmente Cristo cambiò la sua «stola», abbandonando quelle vesti che, dice Marco, «nessun lavandaio sulla terra avrebbe potuto fare tali». Il giunco è simbolo di umiltà in quanto esso è flessibile, capace di piegarsi, umilmente, sotto l'imperversare delle onde che spezzerebbero piante rigide e indisposte a spezzarsi – come fu Farinata, in vita e ancora in morte – ed in virtù del suo essere modesto, semplice, cioè privo di quelle fronde dalle quali sarebbe sempre spogliato: «null'altra pianta che facesse fronda/o indurasse, vi puote aver vita,/però ch'a le percosse non seconda» 143. Ed è solamente in virtù di questa sua umiltà, di questo suo volere umilmente affidarsi alla grazia, al muro di pietra che lo soggioga che il giunco, flessibile, pieghevole, modesto e semplice, una volta colto, subito rinasce; in ciò consiste il segno evidente della vita perpetua, della potenza estrema che secondo l'illusione cristiana il rifugio di Dio, conquistato con l'umiltà, soltanto può dare: «oh maraviglia! Ché quel elli scelse/l'umile pianta, cotal si rinacque/subitamente là onde l'avelse»144. Un'altra pianta, simbolo di umiltà, e tratteggiata in alcuni punti con tratti antropomorfici (come il nostro giunco non può non ricordare, per contrasto, il petto in fuori dell'orgoglioso Farinata che teneva l'Inferno in gran «dispitto», così le cime degli steli di questo secondo fiore sono paragonati al «capo innocente»145), è la ginestra leopardiana: umiltà fra loro antitetiche, 140 Alighieri

D., Purg. XXXII, 94. D., Purg. XXXIII, 19-21. 142 Alighieri D., Purg. XXXII, 76. 143 Alighieri D., Purg. I, 103-105. 144 Alighieri D., Purg. I, 134-36. 145 Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, v. 306. 141 Alighieri

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quelle del giunco e della ginestra. La seconda sa scavare nelle profondità del pensiero occidentale, e dunque anche della poetica dantesca, che di quel pensiero occidentale segna una delle vette più elevate, indicando le incoerenze di quel dantesco cantare. Questo secondo fiore è la ginestra cantata da Leopardi che, in analogia con il giunco, risulta «lenta» 146, ossia flessibile, e le sue «foreste», sulle rive del Vesuvio sterminatore, risultano «molli»147. Leggendo i versi 304-17 del canto leopardiano risulta subito chiaro, come si è detto, che la umiltà “morfologica” della ginestra non significa la stessa umiltà incarnata dal giunco dantesco: in questi versi, infatti, Leopardi, affiancandola ad una critica alla volontà di potenza di chi, agendo come Ulisse contro Dio, pensa di poter giungere con le sue proprie forze soltanto alla salvezza, e quindi «con forsennato orgoglio inver le stelle»148, sviluppa anche una critica contro chi, al contrario, nel segno della tradizione cristiana sta «piegato insino allora indarno/codardamente supplicando innanzi/al futuro oppressor»149. Dunque, dato che «l'unico mezzo per raggiungere l'umiltà nel Paradiso sarebbe stato quello di non scriverlo»150, ha per questa ragione senso dire che «Ulisse è il parafulmine che Dante piazza nel suo poema per attirare e respingere la consapevolezza della propria presunzione»151: il viaggio del poeta non va in senso contrario a quello di Ulisse, ma procede parallelamente: Ulisse persuade i suoi vecchi compagni a oltrepassare i limiti imposti da Ercole, “dov'Ercule segnò i suoi riguardi” (Inf. XXVI, 108); Dante persuade noi a oltrepassare i limiti imposti dalla morte. Si tratta in entrambi i casi di trasgressioni linguistiche, radicate nel “trapassar del segno”.152

Il bersaglio polemico di questa seconda critica leopardiana è appunto l'atteggiamento umile del giunco del primo del Purgatorio. Dunque c'è da chiedersi: a cosa è indirizzata questa altra umiltà, del tutto diversa da quella del giunco cristiano, incarnata e cantata dalla ginestra leopardiana? Possiamo anzitutto anticipare il fatto che è solo questa seconda umiltà – l'umiltà

146

Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, v. 279. Leopardi L., Canti, cit., La Ginestra, v. 304. 148 Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, v. 310. 149 Leopardi L., Canti, cit., La Ginestra, vv. 307-9. 150 Barolini T., The undivine Comedy. Detheologizing Dante (1992), trad. it. di R. Antognini, La “Commedia” senza Dio. Dante e la costruzione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 84. 151 Ivi, p. 81. 152 Ivi, p. 88. 147

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della ginestra – a potersi porre come realmente umile (radicalmente poetica) – a differenza di quella solo presunta, cantata dal canto cristiano che canta l'umiltà del giunco –; è solo con la ginestra che, arrivando a vedere la Follia come Follia, è possibile emanciparsi dall'illusione della tecnica che ancora il Cristianesimo voleva affermare, servendosi dello strumento linguistico e pratico che consiste in una umiltà dissimulata e, per questo, ipocrita.153 1.12 Ricevere «vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui si sente la morte»: Emanuele Severino interprete di Giacomo Leopardi Prima di rispondere a questa domanda, e dunque prima di sciogliere il nodo fondamentale circa il rapporto intercorrente tra il giunco dantesco (cantato dalla coscienza cristiana) e la ginestra leopardiana (cantata dal pensiero che percorre fino alle estreme conseguenze il nichilismo occidentale, e dunque anche la sua radice più profonda, l'inconscio del Cristianesimo cantato nella Commedia), bisogna cercare di capire qual è il significato della poesia leopardiana, che canta la ginestra e che dalla ginestra è cantata; la ginestra canta se stessa, ossia incarna l'essenza di tutto l'Occidente (l'essenza del nichilismo), giacché la ginestra incarna, è bene anticiparlo, il genio che canta il canto che può vantare la massima consapevolezza di quel nichilismo che lo fa cantare, senza però trascendere la scacchiera sulla quale tutta la vicenda del nichilismo viene giocata (bensì ponendosi ai limiti di essa). La ginestra, il fiore del deserto, cantata dal canto del genio, è il cantore stesso del canto: 153

Va notato che, tra la ginestra leopardiana, che si situa al culmine del percorso auto-conoscitivo dell'Occidente, ed il Prometeo di Eschilo, che di questo percorso segna invece il punto di partenza, sussiste una singolare coincidentia oppositorum: in Leopardi la ginestra è il filosofo che, tolto ogni velo illusorio alla folle verità del nichilismo, sopporta il dolore che il divenire comporta senza cedere a illusioni filosofico-epistemiche, laddove in Eschilo il filosofo è Prometeo, il quale sopporta il dolore proprio in quanto sta nella illusione epistemica stessa: «Prometeo legato è il cantore dell'Inno. Ossia è il filosofo. Il sopportare nel modo più opportuno la sorte inviata dal destino (vv. 103-104) è appunto ciò che si ottiene quando si caccia con verità dall'animo il dolore che getta nella follia (Ag., vv. 165-66). Lo Zeus dell'Inno è la Necessità alla quale si rivolge Prometeo» (Severino E., Il giogo, cit., pp. 188-189). Tanto per la ginestra leopardiana quanto per il Prometeo di Eschilo la tecnica va oltrepassata, è debole. La ginestra oltrepassa l'orizzonte della tecnica negando gli eterni e riconoscendo l'impossibilità ontologica di agire (giacché essere e nulla si identificano, la tecnica coincide con il solido nulla, si auto-nega nella misura in cui è posta); Prometeo oltrepassa la tecnica in quanto affermano gli eterni i quali, affermandosi come eterni, affermano la loro immodificabilità che si impone al di sopra di ogni prassi, e che quindi nega qualsiasi tecnica. Per questo il Prometeo di Eschilo oltrepassa l'ingenuità del prometeo tecnico, che è poi il Prometeo-scienziato incarnato da Ulisse e dal magnanimo Adamo, per i quali «l'arte [τέχνη] è troppo più debole della necessità»: «Eschilo indica il superamento del significato mitico di Prometeo: dal Prometeo che crede nel carattere salvifico della téchne, al Prometeo che, al culmine della sapienza, sa che ogni evento del mondo, umano e divino, è prodotto all'interno dell'Ordinamento necessario del Tutto; dal Prometeo della téchne al Prometeo dell'epistéme, dal pro-metheús della pre-visione tecnica al pro-metheús della pre-visione epistemica, che vede nel nuovo significato di Zeus il sommo rimedio» (Severino E., Il giogo, cit., p. 184).

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Leopardi, quel «cantore della morte» si trova, in questo suo cantare, «al culmine della poesia […] al culmine della storia del pensiero filosofico» 154. Il canto che canta la ginestra, il canto che canta il cantore del canto, si diceva, è costituito da una forma e da un contenuto. Il contenuto, che è il contenuto filosofico del canto, è un contenuto che, a differenza del contenuto (filosofico) del canto dantesco, si è liberato dalle illusioni ed ha portato ad estrema coerenza l'inconscio nichilistico dello stesso canto della Commedia. Il contenuto del canto leopardiano per questo canta il de-sertum, canta il nulla delle cose che, intese come divenienti dall'Occidente, non possono che avere come principio il nulla, non possono che essere un nulla esse medesime, non in quanto esse sono «cose da nulla», argomenta Leopardi, ma in quanto sono destinate a ritornare nel nulla dal quale provengono, sono destinate a venire annichilite da quella lava dello «sterminator Vesevo»155 che è sterminatore in quanto datore di orrore, orrore dato dalla morte che egli dà, una morte che non lascia, vinte le illusioni della tradizione, speranza di trovare un Ordine eterno al di là dell'annientamento. Se il contenuto del canto canta il deserto, ossia porta alle estreme conseguenze la fede che tutto l'Occidente condivide, la forma del canto, la poesia propriamente detta (la poesia che non è più produzione, volontà di potenza, come era intesa ancora da Vico), è il profumo che il cantore, ossia la ginestra, cantando se stesso, sparge al di sopra del deserto (senza che questo imporsi al di sopra del deserto sia un imporsi eterno, epi-stemico): «Guardando il deserto si vede il destino di ogni cosa; ma quando è il genio a guardare; il deserto fiorisce» 156. La forma del canto leopardiano è, come la forma del canto dantesco, un sentire il nulla, ed è appunto questo sentire (che è sentire la nullità delle cose) che dà la forza – anche quando questo sentire risulta libero dalle illusioni del contenuto del canto – di cantare ancora una volta; questo sentire dà al genio una forza incarnata dal profumo della ginestra, che per un attimo ancora si innalza, con un volo effimero, che certo non sa sollevarsi né molto né per molto tempo al di sopra dei deserti, ma che ha comunque la forza di sollevarsi e di profumare i deserti, grazie a questo sentire (che in quanto tale non è concettualizzabile, non è dicibile: «il momento estetico [il non-identico che mostra sé quando ogni altra illusione è caduta] […] non è accidentale per la filosofia»157). La poesia canta il vero non in quanto lo canta filosoficamente, ma in quanto lo 154

Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 6. Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, v. 3. 156 Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 233. 157 Adorno W.T., Dialettica negativa, cit., p. 16. 155

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canta in virtù della sua forma, che è la potenza del canto (una potenza non tecnica, che non segue più la logica regressiva della volontà di potenza nichilistica); e proprio per queste ragioni, cantandolo «riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte»158. 1.13 Dissimulare l'umiltà: nichilismo e Cristianesimo È la forza del canto del genio che permette al profumo della ginestra – la forma del canto – di innalzarsi al di sopra del deserto, nonostante il contenuto del canto, libero dalle illusioni che Dante non riusciva pienamente a riconoscere come tali, riduca all'immobilità, alla noia, se preso di per sé, non commisto alla forma del canto, nell'«opera del genio», che è contenuto e forma assieme. L'innalzarsi di questo profumo non è un atto di tracotanza: in ciò sta l'umiltà della ginestra. La ginestra risulta realmente umile, a differenza del giunco dantesco, in quanto non vuole conquistare il cielo: il cielo lo vuol conquistare chi ha ucciso Dio e si è messo al suo posto o chi, inginocchiandosi davanti a Dio (ecco qui emergere i veri intenti del nostro giunco) vuole godere del suo potere, vuole essere quel potere, negandolo. La ginestra è «contenta dei deserti» in quanto non solo conosce concettualmente ciò che vede, ma anche lo sente, e quel sentire, che non coincide con il contenuto del canto, gli dà la forza di cantare il canto, e dunque di cantare anche quel contenuto nell'unità con la sua forma, nonostante il contenuto del canto preso di per sé impedisca ogni cantare. Il nulla e la poesia, il deserto e il profumo: questi due elementi, uniti insieme, danno l'opera del genio, danno il canto che vede il tratto fondamentale dell'Occidente, e non rimane schiacciato da questo vedere in quanto non lo vede solo con gli occhi della ragione filosofica. Leopardi non rimane schiacciato dal nulla che vede in quanto è sostenuto dalla forma del canto: solo così il cantore, ossia la ginestra cantata e cantante, può essere «soddisfatta di se stessa e della propria disperazione» 159. «Alla ginestra non basta il deserto [che, preso singolarmente, impedirebbe ogni forma di prassi e quindi le impedirebbe di spargere il suo profumo]: basta il suo canto» 160. La ginestra «è 158

Leopardi G., Zibaldone, cit., p. 261. Analogamente, scrive Dostoevskij: «il godimento, qui, proveniva […] dal fatto che tu stesso sentivi di essere giunto all'ultimo limite; che era una cosa pessima, ma non poteva neppure essere altrimenti; che ormai non c'era via d'uscita per te […] il punto principale alla fin fine, è che tutto questo avviene per le normali e fondamentali leggi di un'intensa coscienza e per l'inerzia che deriva direttamente da queste leggi […] ma è appunto nella disperazione che si hanno i godimenti più ardenti, specialmente quando senti con molta forza che dalla tua situazione non c'è via d'uscita» (Dostoevskij F., Memorie del sottosuolo, cit., p. 10). 159 Leopardi G., Zibaldone, cit., p. 260. 160 Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 235.

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contenta del deserto, perché il deserto è ciò che essa canta – e che nel canto è sentito come origine e luogo della scontentezza»161. Il canto, tanto in Dante quanto in Leopardi, è l'inconscio dell'Occidente, è ciò che permette di dire, di agire, di dominare il mondo, ma tale forma del canto è solo sentita, non conosciuta concettualmente. Finché il contenuto del canto canta l'illusione dell'eterno, tale inconscio serve per confutare tacitamente quell'eterno che impedirebbe l'azione, per così dire, riempiendo tutto, non permettendo il respiro; viceversa, una volta che, con Leopardi, tali illusioni vengono tolte, tale inconscio, proprio in quanto sente la verità del nichilismo, ormai resa esplicita dal contenuto del canto, senza però conoscerlo concettualmente, riesce a ravvivare ancora l'azione, permettendo di agire là dove il “vero” ha eliminato ogni possibilità di dire e di agire, di prevedere, facendo leva su un Ordine immutabile, che è ciò che consente la prassi (nichilisticamente intesa). Nonostante il nulla immobilizzi e uccida, il canto leopardiano, cantando quel nulla, cioè sentendolo, nel suo aspetto formale, poetico e non concettuale, «apre il cuore e ravviva». E se i fioretti del secondo dell'Inferno si ravvivano nel prendere coscienza, nel contenuto del canto, dell'eterno, la ginestra, al contrario, si ravviva spargendo il suo profumo, grazie alla forza del canto, forza necessaria tuttavia anche nell'ambito dell'illusione epistemica della Commedia: anche l'illusione epistemica, infatti, lasciata a se stessa, impedirebbe l'azione, impedirebbe il cantare medesimo. Quello stare umilmente supplicando Dio da parte del giunco – da parte dell'uomo cristiano – è ciò che permette al giunco di crescere eternamente, di elevarsi al di sopra del deserto, fino alle stelle che, se per Leopardi e per la civiltà della tecnica sono «nodi quasi di stelle», destinate anch'esse, come ogni altra cosa, a cadere nel nulla dal quale provengono, per la tradizione che, dalla prospettiva di Leopardi, in modo speculare e contrario alla civiltà della tecnica, sta nell'illusione senza avvedersene, ritiene che tali astri siano immortali, siano, per usare le parole di Eschilo (primo cantore di un canto avente contenuto filosofico, cioè facente riferimento alle categorie ontologiche greche, e cantante l'eterno), stelle che sono «scintillanti sovrani che portano ai mortali [e i mortali sono mortali in riferimento a qualcosa che mortale non è] inverno e estate, stelle che sorgono e tramontano raggianti nell'etere»162. Non è una preghiera disinteressata, quella che il giocatore bianco rivolge a Dio, ma è invece 161 162

Ibidem. Severino E., Interpretazione e traduzione dell'Orestea di Eschilo, Milano, Rizzoli, 1985, p. 17.

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una preghiera che cela una volontà di potenza pari a quella di Ulisse. È come se il giocatore bianco, nei momenti di maggiore lucidità (e qui si intende vedere nella Commedia uno di questi momenti) sapesse scorgere quella assenza di fondamento senza la quale lo stesso Dio, in quanto esistente (e dunque in quanto esercitante potenza sul mondo), non potrebbe essere ciò che è e ciò che potenzialmente può fare, assenza di fondamento senza la quale lo stesso Dio, inteso come fondamento della prassi, non potrebbe essere detto: «Il fondamento che in Dio non è Dio stesso, esistente, vivente, è lo stesso della cosa […]. L'Inizio che costituisce il vero “soggetto” del pensare, e che rende concepibile un sistema delle sue diverse membra, è il semplicemente inesprimibile, incoercibile, inafferrabile: “punto” che è intuibile soltanto abbandonando anche Dio, saltando-via dallo stesso Urwesen nell'Ungrund da cui Dio stesso è de-ciso»163. Lo scopo del giocatore bianco e del giocatore nero (l'esercizio illimitato della potenza) è destinato insomma ad essere lo stesso, nonostante le divergenze sul modo attraverso il quale raggiungerlo. 1.14 La Commedia senza Dio Dante ed Eschilo condannano all'unisono quella téchne che è, dice il Prometeo di Eschilo, «troppo più debole della necessità», ossia è hýbris. L'uomo deve invece, per questi filosofi della tradizione – che non si avvedono della specularità sussistente tra il loro discorso e quello di Ulisse, piuttosto che dei filosofi dell'età della tecnica, che appunto Leopardi, una volta riconosciuta l'essenza della scacchiera sulla quale si muove l'Occidente, mette sullo stesso piano del Cristianesimo – in modo umile, alla maniera del giunco cantato nella Commedia, «sottoporsi al “giogo” della verità, cioè a un timore più alto di quello da cui egli intende liberarsi (le religioni lo chiamano “timor di Dio”). Il giogo della verità sta a guardia della mente e allontana la follia provocata dal dolore»164. Questo “timor di Dio” è ciò che consente di trovarsi «nella verità dell'epistéme, che consente di anticipare e prevedere il senso essenziale di tutto ciò che accade nel mondo: panta prouxepistamai: “Tutte le cose (panta) vedo anticipatamente (prou), a partire dal luogo (ek) in cui si apre il sapere stabile dell'epistéme (espistamai)”»165. La tradizione, e in particolare Dante con la sua requisitoria contro il sapere pre-cristiano e soprattutto contro Ulisse, dimostra di non 163

Cacciari M., Dell'Inizio (1990), Milano, Adelphi, 2001, pp. 117-124. Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, cit., p. 80. 165 Ivi, p. 82. 164

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avere consapevolezza del fatto che la supplica, «il rogare, che esprime l'ar-roganza»166, ossia quella hýbris che appartiene anche al giunco, che crede di averla fuori di sé, e che invece non appartiene alla ginestra, umile appunto in modo diverso, ben più intenso e sincero, rispetto a quanto non sia la pianta simbolo del Purgatorio: «e l'uom d'eternità s'arroga il vanto» 167. In modo molto chiaro Severino indica il legame tra Cristianesimo e hýbris (comune alla tradizione cristiana e alla civiltà della tecnica), rapporto che, non dimentichiamolo mai, è consentito dall'inconscio del canto che sa farsi sentire nonostante l'illusione epistemica del contenuto della Commedia, scrivendo: Il cristianesimo si mantiene completamente all'interno di questo rapporto tra volontà di potenza e Dio (ossia il medio che essa produce per avere potenza sul mondo). Quando Dio accetta la supplica, l'uomo è presso Dio, nel “paradiso”. Nemmeno Leopardi scorge il carattere decisivo del pensiero di Eschilo, ma egli vede che il paradiso della tradizione occidentale e il paradiso della civiltà della tecnica hanno la stessa anima. 168

Nonostante anche il canto del genio appartenga alla scacchiera entro la quale si muovono il giocatore bianco e il giocatore nero che ha ucciso Dio ma che rimane ancora vincolato, nel contenuto filosofico del canto, alla illusione che, nell'ambito della scacchiera entro la quale l'Occidente si muove, non può che essere l'illusione del radicalmente altro dal nulla («e mi sovvien l'eterno»169, scriveva il poeta in giovanissima età), Leopardi, vedendo la nullità non solo del paradiso cristiano, ma anche del paradiso della tecnica, che pretenderebbe di tenere salvo ancora un ultimo ordinamento, dopo Dio, al posto di Dio, sa liberarsi della volontà di potenza, della hýbris che caratterizza le posizioni della tradizione e della civiltà della tecnica. E in questo autentico abbandono di qualsivoglia volontà di potenza si incarna l'autentica umiltà della flessibile ginestra: ella è umile non verso Dio (Dio è morto); la ginestra è umile, «non renitente»170, verso la «crudel possanza […] del sotterraneo foco»171. La poesia di Leopardi cessa, finalmente, di essere tecnica (cioè di essere volontà di potenza nichilisticamente intesa). Il canto del genio è realmente umile, e lo è proprio in quanto il genio 166

Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 240. Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, v. 296. 168 Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 241. 169 Leopardi G., Canti, cit., L'infinito, v. 11. 170 Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, v. 305. 171 Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, vv. 300-1. 167

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sa che la sua umiltà non frutterà l'eterno: «Il fiore del deserto non vuole andare presso alcun Dio […]. E la ragione, completamente dispiegata, spegne irrevocabilmente la volontà di potenza, annienta l'illusione della potenza»172. Solo la ginestra, non il giunco, «non vuole opporsi al nulla […] non ha l'“orgoglio” di chi non vede la verità» 173. Il nichilistico non più dissimulato spegne l'orgoglio della volontà di potenza (spegne il nichilismo) e spegne la prassi che la volontà di potenza implica. Il profumo della ginestra (la forma del canto) non vuole conquistare il cielo: è un agire privo di orgoglio, quello della ginestra, laddove le pecorelle dantesche nascondono, dietro la loro mansuetudine apparente, un orgoglio sterminato, dato dalla volontà di sollevarsi sopra alle cose, di disporre delle cose, di controllarle in forza di quell'Ordine costante che consente previsioni (anche se sono previsioni non ancora incanalate nell'efficacia scientifica che si avvale degli strumenti analitici del calcolo matematico). Il profumo della ginestra non conquista e non vuole conquistare il deserto, non lo vuol trasformare; essa sa di poggiare le sue radici sulla cenere, sa della sua precarietà, e la sua forza sta nel non volere ricrescere, una volta strappata dal Virgilio di turno. Ciò che fa ancora gioire, nella filosofia leopardiana, è la forma del canto, che è il sentire non concettualmente la verità (quella verità che è tale entro l'orizzonte della fede nichilistica nel divenire, e la verità è appunto la verità del divenire, della nullità (nel tempo) degli enti, di tutti gli enti, nessuno escluso): «La forza con cui il canto del genio fa sentire la morte, lo tiene sollevato, ancora per un poco, al di sopra di essa; l'anima riceve vita e fiorisce dalla stessa forza con cui sente la morte»174. Dunque, la radice della violenza, della hýbris, non è la forma del canto, ma sono le illusioni dalle quali non sa sollevarsi il suo contenuto. Vedere la verità del contenuto toglie l'orgoglio. È sempre l'aspetto filosofico del canto che pone le basi sulle quali può crescere la volontà di potenza della tecnica (tanto cristiana, epistemica, quanto post- ed anti-epistemica). Anche la forma del canto è una illusione, e per questo dà vita, permette il canto, permette l'azione del canto, ma questa è un'ultima illusione, non concettuale, e per questo priva di hýbris: «la conoscenza della verità, in quanto si esprime nell'opera del genio – dà vita, forza, consolazione, cioè mantiene nell'illusione»175. Tale illusione rimane, nel canto – e non nel contenuto concettuale del canto – anche dopo che son cadute tutte le (altre) illusioni. 172

Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 243. Ibidem. 174 Ivi, p. 244. 175 Ivi, p. 245. 173

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Così scrive Leopardi nel suo diario: Le illusioni, per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo […] tornano a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza e certezza acquisita. 176

Questa è «la positività del sentimento e della cognizione del nulla» 177, e questa positività può darsi solo nella unità di filosofia e canto, cioè nell'opera del genio. Il vero volto della poesia non è quello che ha mostrato tutta la tradizione occidentale, per mezzo del giocatore bianco, e che si dà sempre nella azione mossa dalla volontà di potenza, bensì è quello che muove da una azione libera dalle illusioni del divino e dalla volontà di potenza indirizzata verso il paradiso della tecnica o della tradizione cristiana, ma che non implode sotto il peso di una visione che conduce alla noia, e dunque alla morte del canto e, insieme al canto, alla morte della produzione, legata al canto anzitutto etimologicamente. (Non è un caso che, nel corso del suo sviluppo, La Ginestra prenda una piega politica: «contra l'empia natura/strinse i mortali in social catena»178). La filosofia che vede il nulla cade nella noia, uccide la possibilità dell'azione, uccide il canto che canta il cantore, uccide la ginestra. La poesia che vede il nulla nel suo contenuto, sorretta però da quell'ultimo «quasi rifugio» che è il canto, dà la «vita dalla forza con cui sente la morte di tutte le cose»: «Io sapeva, perché oggidì non si può non sapere, ma quasi come non sapessi»179, «e così quello che veduto nella realtà delle cose accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come per esempio nella lirica, che non è propriamente imitazione) apre il cuore e ravviva» 180. Così Severino può dire che «l'illusione non svanisce nemmeno quando la verità si mostra con estrema forza, e con estrema purezza. Anzi, la verità svelata dal genio, e dunque manifestata nella sua estrema purezza, rafforza l'illusione»181. Se la consolazione che il giunco dà è la consolazione legata alla hýbris, sia pure inconsapevolmente (una hýbris non certo minore di quella che ha gravato Ulisse nel basso 176

Leopardi G., Zibaldone, cit., pp. 213-214. Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 127. 178 Leopardi G., Canti, cit., La Ginestra, vv. 148-9. 179 Leopardi G., Zibaldone, cit., p. 214. 180 Ivi, p. 260. 181 Severino E., Il nulla e la poesia, cit., p. 135. 177

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Inferno) la consolazione della ginestra è invece di tutt'altra natura. È per questo che si può dire che la pieghevolezza, la mitezza, se ad un fiore si può confare, nel nostro discorso non può che riferirsi alla ginestra leopardiana, contenta dei deserti, ed insieme libera dalla smania di potenza della tradizione: Tale consolazione non consiste nel mostrare che il deserto è solo l'aspetto visibile di un universo dominato dall'eterno e in definitiva felice – è, questa, la consolazione metafisica della tradizione occidentale –; e non consiste nemmeno nella volontà di rendere eterno l'uomo nel paradiso della ragione e della tecnica: la consolazione che la ginestra dà al deserto è la forza dolce e potente dello sguardo disperato che vede la nullità di tutte le cose. La forza dello sguardo – la potenza del canto – si solleva come un profumo sul deserto, non vi affonda, e quindi non può consolarlo. 182

§2 Ineffabilità e Cristianesimo 2.1 Rivolgersi al divino per cantare non significa cantare per rivolgersi al divino: Severino interprete della Commedia Il contenuto della Commedia, la sua poesia in quanto contenuto (cioè in quanto filosofia), coincide con la vita di chi canta la Commedia, che è anzitutto la vita di un cristiano che non sa, in quanto cristiano, sollevarsi al di sopra delle illusioni che, da dentro il nichilismo, distolgono lo sguardo dalla verità del nichilismo stesso. Questa identità di vita e contenuto del canto è stata spesso rilevata dai critici; Chiavacci Leonardi, per esempio, a commento dei versi 28-33 di Paradiso XXX, scrive: Per tutta la vita, da quel lontano primo giorno narrato nella Vita Nuova, al capitolo III, egli ha cercato di raffigurare quel viso [il viso di Beatrice], di seguire coi versi (poetando) la crescente bellezza, e questo seguire non gli è stato impedito […] ora è necessario (convien) che il suo seguire si arresti, come ogni artista giunto all'ultimo delle sue possibilità. È tutta la vita di Dante vista in scorcio, che qui più che mai appare coincidere con la sua poesia. 183

182 183

Ivi, p. 236. Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Par. XXX, 28-33, nota.

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La poesia di Dante, però, non si risolve nel suo contenuto. La salvezza non si riduce, nella Commedia, all'illusione del suo contenuto, ed è proprio in ciò che consiste la grandezza della Commedia. Nell'inconscio del poema il fatto di avere smarrito la «diritta via» è inteso non come lo smarrimento di Dio, che è lo smarrimento dell'illusione; tale smarrimento significa, invece, il cadere nel nulla, che è la cosa più «amara» 184 che può accadere. Dante può dare questo significato alla morte in quanto egli si colloca nel solco dell'ontologia nichilistica che è stato aperto da Eschilo per il quale, non a caso, come per Dante, «il morire è un cader giù definitivamente dall'essere. È vero che anche Omero [prima del pensiero filosofico, inaugurato da Eschilo] identifica i morti e i non esistenti (Od., I, V. 289); ma nel senso che i morti “lasciano” certe determinazioni dell'essere, non l'essere stesso delle determinazioni: l'“anima” di chi muore scende nell'Ade, “lasciando il vigore e la gioventù” […]. Vengono lasciati, e dunque lasciati altrove; ma altrove è un'altra regione del mondo, che è l'alterità assoluta del niente. Per Eschilo, invece, con la morte viene lasciato l'”essere” stesso. I morti non abitano un'altra regione dell'essere, dove le loro anime sopravvivono in una forma di veglia angosciosa. I morti sono “sonno infinito”»185, per Eschilo come per Dante (nonostante la posizione dantesca possa ricordare, superficialmente, la posizione pre-ontologica di Omero, per come pone i morti non nel nulla, bensì nell'aldilà). Questa verità più essenziale del Cristianesimo – il nichilismo: il cadere nel nulla, l'adesione all'ontologica greca – trapela, talvolta, nello stesso contenuto del canto, è cioè riconosciuta da Dante per bocca dei suoi personaggi. I personaggi di Dante lodano anzitutto Dio, e tuttavia anche quando ormai stanno nell'Inferno e dunque conoscono la verità cristiana («vanno a vicenda ciascuna al giudizio,/dicono e odono e poi son giù volte»186), spesso piangono ancora le loro sconfitte nel mondo, sconfitte che, ancora all'Inferno, prevaricano sull'illusione della grazia. Così Farinata, ricordando le vicende politiche del suo tempo: «“S'elli han quell'arte”, disse, “male appresa,/ciò mi tormenta più che questo letto”»187. Questa sotterranea comprensione dell'essenza nichilistica del Cristianesimo, sovrastata dalla ben più forte fede nella salvezza illusoria che il dramma che il Virgilio dantesco porta dentro di sé bene incarna, è ciò che porta la Commedia a trascendere 184 Alighieri

D., Inf. I, 7. Severino E., Il giogo, cit., pp. 90-91. 186 Alighieri D., Inf. V, 14-5. 187 Alighieri D., Inf. X, 77-8. 185

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il contenuto del suo canto, e a cercare l'autentica forza che la anima in qualcosa di altro rispetto alla filosofia cristiana. L'insufficienza del dire, che mediante il topos dell'ineffabile viene spesso espressa nel poema, può essere sì intesa come una insufficienza dovuta alle facoltà umane non supportate dalla grazia di Dio che dà la «novella vista»188 e che perciò permette di vedere, e dunque di dire, ciò che senza il sostegno divino non potrebbe essere veduto e detto. Ma la portata dell'ineffabilità, a ben vedere, può essere ben altra cosa. L'insufficienza a dire può essere intesa come l'insufficienza del dire con o senza il supporto divino, o meglio, del dire che sta ormai al di là di quell'illusione che consiste in questo supporto. Il dire che è il contenuto del canto è sempre insufficiente, e l'ineffabilità non può essere emendata dall'illusione anche quando il canto non sa sollevarsi al di sopra di essa. «Dante, nel suo agire poetico, evoca la poesia come fattore indispensabile all'immagine festiva che consente all'uomo di sopportare il dolore e la morte […] perché qui, sulla terra, si libri l'immagine festiva e salvifica è necessario che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche la poesia»189, vale a dire, è necessario che si aggiunga ciò che sente che la nullità delle cose non può essere combattuta per sempre, mediante l'illusione, che sente che l'illusione è solo un mezzo, falso, indifferentemente usato al posto dell'altro mezzo, vero, volto a consentire il canto mediante la distruzione degli eterni; mezzi usati da Dante, si diceva, indifferentemente come meri mezzi per dare espressione a ciò che nel canto mostra sé (la forma del canto). L'insufficienza del contenuto del dire è, per il fedele, l'insufficienza a dire da parte di chi, ancora vivo, non può intendere il divino: il fedele deve credere (di credere) in quanto deve credere nella verità di cose che non può vedere, e che dunque non può confermare nella loro veridicità, finché non sarà morto. Ma, a ben guardare, per il grande poeta tale insufficienza consiste in qualcosa che non appartiene al contenuto del canto, e che non apparterrebbe ad esso nemmeno se potessimo penetrare i più alti gradi dell'essere mediante la «novella vista» concessa dalla grazia divina. In quanto grande poeta, e non in quanto cristiano, Dante sa che «la liturgia cristiana deve diventare liturgia poetica»190; sa che il contenuto del canto non è l'importante, anche se è indispensabile che un contenuto, nel canto, vi sia: «in quanto separato 188 Alighieri

D., Par. XXX, 58. Severino E., La potenza dell'errare, cit., p. 22. 190 Ibidem. 189

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dalla poesia, [il contenuto (filosofico) della poesia] non è più lo scopo a cui l'uomo deve mirare»191. Per il Cristianesimo che non sa riconoscere le tensioni che si danno all'interno del discorso epistemico, invece, la salvezza inizia e termina nella grazia di Dio, «la salvezza si ottiene seguendo Gesù e nient'altro»192, mentre la Commedia intende mostrare che il viaggio dalla terra al cielo è autentico solo se è avvolto, espresso, sorretto dalla poesia. Unita alla filosofia cristiana, la poesia salva. In quanto separato dalla poesia, il contenuto filosofico-cristiano cessa quindi di essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo per poter cantare la verità, cioè per raggiungere quello scopo che è “la verità dell'unità del canto […]. Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva. 193

Il contenuto del canto è solo il mezzo per realizzare l'unità del contenuto del canto e della sua forma. Intendere la necessità di unire il dire filosofico-epistemico a ciò che si mostra in quel dire, significa intendere che quel dire stesso non salva, significa cioè intendere che il “rimedio” della tradizione epistemica non consente di sottrarsi a quel mare periglioso dal quale pretenderebbe di dare rifugio: La Commedia si rivolge al divino – al salvifico – per cantarlo; non canta per rivolgersi al divino […]. Così inteso, il divino non solleva. Certo, il canto della Commedia canta il divino, ma, appunto, è il divino che appare nella sua inscindibile unità alla poesia – e che è salvifico solo in quanto è cantato.194

Dante sente la necessità del canto perché avverte, al di là della sua fede, il fatto che la fede negli eterni immobilizza. Leopardi, al di là dell'illusione epistemica, comprende che l'aver tolto di mezzo Dio porterebbe ad un'immobilità uguale e contraria nel caso in cui non si desse il supporto offerto della «franca lingua»195 che, «nulla al ver detraendo»196, solleva l'uomo dal suo basso stato, non celando più l'immagine della sua impotenza. Come Leopardi se usasse 191

Ivi, p. 24. Ibidem. 193 Ivi, p. 25. 194 Ivi, pp. 25-26. 195 Leopardi G., Canti, cit., La ginestra, v. 114. 196 Leopardi G., Canti, cit., La ginestra, v. 115, corsivo mio. 192

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solo la ragione filosofica non potrebbe dire, agire, filosofare, perché il nulla delle cose lo farebbe cadere nell'inazione della noia, in quanto per cantare il nichilismo, per spargere il profumo del fiore del deserto, ha bisogno della forza del canto, che sente non concettualmente, e così permette di dire, di contentarsi del deserto, così Dante, per dire la suprema illusione del Dio eterno della tradizione cristiana che lui non riconosce come tale, ha bisogno di percorrere una strada diversa dalla razionalità discorsiva, ha bisogno di andare oltre il contenuto del dire, che è andare oltre il dire medesimo, verso ciò che lo anima. Questo oltrepassare il contenuto del suo dire epistemico deriva dal fatto che, quello stesso suo dire – in modo affatto diverso rispetto al dire leopardiano – dice la verità del nichilismo la quale, una volta guardata in faccia, fa cadere nella noia. 2.2 Le due ineffabilitadi: Dante e il problema della dicibilità dell'epistéme Cantando l'illusione, che è l'illusione dell'eterno, Dante si avvolge in essa, e per questo non la riconosce come tale: il canto che ha come suo contenuto l'illusione epistemica, «non può dire che sta avvolto nell'illusione. Nel momento in cui sta al suo interno, la sente e la vede come verità»197. Nel dire ciò, Severino si sta rifacendo alla illusione de L'Infinito leopardiano, che è la stessa illusione cantata nella Commedia. L'altra illusione, quella cioè realmente, essenzialmente salvifica, ossia l'illusione della forma, è anch'essa indicibile, con la differenza che l'illusione della forma del canto non può per essenza essere detta, laddove l'illusione filosofica del contenuto del canto è detta come illusione nella misura in cui è scovata come tale (la storia della filosofia è il luogo in cui quest'ultimo tipo di illusione viene concettualmente inteso come illusione). Il rapporto che lega la verità (del nichilismo) e l'illusione è indagato da Dante già a partire dal Convivio. In particolare, in Conv. III IV si riflette sulla doppia valenza del termine “ineffabilità” (le «due ineffabilitadi», come Dante dice), che è una ineffabilità che si allontana dal significato retorico che a questo termine si suole dare: la prima è una ineffabilità cognitiva, data dallo scacco dei sensi interni (intelletto, memoria), ma anche esterni (si pensi ai riferimenti alla lontananza o all'accecamento che si accompagnano costantemente alla tematica dell'ineffabilità nel Paradiso), che sono causa di una seconda ineffabilità, non più cognitiva, bensì linguistica. 197

Severino E., In viaggio con Leopardi, p. 30.

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Dinanzi a quell'unico «fine di tutt'i disii» che è Dio cedono la memoria, la vista, e dunque la parola. Tema, questo, che si ricollega alla nozione platonico-teologica di ineffabilità: ciò che non può essere detto di un ente sensibile è la sua partecipazione a Dio. Quindi non in quanto sensibile la bellezza (il suo «riso») di Beatrice non può essere detta, ma in quanto in questa si rispecchia Dio. Ma Beatrice non è Dio: ciò che di Beatrice può essere detto è lo scarto tra Beatrice e Dio, mentre ciò che non può essere detto di lei è il divino che si rispecchia in Beatrice. Ciò che appaga il «disio» è Dio, e Dio soltanto, e soltanto Dio è ciò che non può essere detto dal contenuto del canto (Dio è «lo primo e ineffabile valore» 198). Da ciò deriva che, ciò che può essere detto nel canto, è il non essere dell'ente, cioè il non essere Dio da parte dell'ente, cioè l'instabilità dell'ente, destinata a cadere nel nulla, dunque ad essere identica al nulla, mentre l'essere dell'ente deve passare sotto silenzio. E, tuttavia, un rimedio all'ineffabilità del divino, secondo la fede cristiana, può essere trovato mediante una alleanza con Dio, che per questo è inteso come «ultima» (e unica) «salute»199. L'incapacità di afferrare, di dire, e dunque di impadronirsi e di essere la stabilità del divino (che è potenza di sollevarsi al di sopra del nulla) è data dalla volontà del cristiano di imitare Dio affidandosi umilmente a Dio, che solo può colmare le lacune dell'uomo: «Qui vince la memoria mia lo ‘ngegno;/ché quella croce lampeggiava Cristo,/sì ch’io non so trovare essempro degno;/ma chi prende sua croce e segue Cristo,/ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,/vedendo in quell’albor balenar Cristo»200. A differenza di Giove, che usa la sua potenza per annientare Semele, nella sua coscienza il Cristianesimo, che tenta in tutti i modi di obliare la propria essenza vedendo nel Dio cristiano un superamento di Giove senza accorgersi in tal modo della distruttività propria del Dio cristiano medesimo, pensa di superare il modello di Giove con il modello paolino di Anania. Dal modello di Semele, ricordato in Par. XXI, 5-6, si passa al superamento di quel modello con l'identificazione della cristiana Beatrice con Anania 201, e con l'identificazione, questa volta solo implicita, dello stesso Cristo con Anania in quanto, rivelandosi, non incenerisce come fa invece la divinità pagana (Giove), bensì incrementa i poteri del cristiano al quale si rivela. In Par. XXX non sarà più Beatrice-Anania a riparare la vista di Dante, ma lo stesso Dio. In questo senso Dante ingloba e oltrepassa il modello paolino: «Paolo dovette ricorrere ad Anania per 198 Alighieri

D., Par. X, 3. D., Par. XXII, 124. 200 Alighieri D., Par. XIV, 103-8. 201 Cfr. Alighieri D., Par. XXVI, 11-2. 199 Alighieri

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avere la vista risanata, nell'empireo invece la luce emanata direttamente da Dio avvolge e acceca Dante, ma insieme gli rinnova la vista e la rafforza: “di novella vista mi raccesi/tale che nulla luce è tanto mera, / che li occhi miei non si fosser difesi” (vv. 58-60)»202. Un altro riferimento volto a sottolineare la necessità di correggere la superbia classica attraverso l'umiltà cristiana, lo ritroviamo nella bolgia dei ladri, quando Vanni Fiucci viene morso da un serpente, ed in conseguenza di ciò è incenerito, salvo poi rinascere dalle sue stesse ceneri203. A differenza di Marcello, ricordato in Par. XXX – giovane morto e non resuscitato –, e a differenza di Beatrice – nuovo Marcello mediato però dall'umiltà cristiana – nel caso di Vanni Fiucci la resurrezione si dà, ma è una resurrezione lontana da quella che solo l'umiltà cristiana può dare, cioè ben lontana dalla resurrezione dei corpi. Egli, sulla scia delle Metamorfosi, rappresenta la «parodica fenice infernale, e la sua rinascita è ciclica e vana come quella della fenice ovidiana, anziché unica e salvifica come quella della fenice cristiana»204. 2.3 Gnoseologia dantesca Parlare dell'ineffabile in Dante significa parlare della gnoseologia e della antropologia sulle quali la nozione di “ineffabilità” si fonda, e significa parlare della onto-teologia che quella antropologia fonda. In cosa consiste, dunque, la gnoseologia esposta nella Commedia? In nulla di complicato, cioè in un realismo ingenuo o, per dirla in termini hegeliani, nell'affermazione della identità immediata di certezza e verità, di essere oggettivo e di essere formale: «Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,/e fa di quelli specchi a la figura/che 'n questo specchio ti farà parvente»205. C'è il mondo, esterno e indipendente al pensiero, che il pensiero, conoscendo, rispecchia. Rispecchiando passivamente questo mondo, il soggetto conoscente rispecchia e conosce Dio, del quale quel mondo è testimonianza, seppure solo approssimativa, imperfetta, transeunte. Gli occhi del Dante-personaggio sono specchi che rispecchiano passivamente il mondo che è, a sua volta, uno specchio che riflette Dio il quale a sua volta imprime di sé il mondo, secondo un ideale neoplatonico che pervade tutta la Commedia, per cui Dio si trova in ogni parte del mondo – persino nel profondo Inferno – secondo una gradualità via via crescente, fino a 202

Ledda G., La Bibbia di Dante, cit., p. 97. Cfr. Alighieri D., Inf. XXIV. 204 Ledda G., Leggere la commedia, cit., p. 129. 205 Alighieri D., Par. XXI, 16-8. 203

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giungere all'Empireo, dove la presenza di Dio si trova al massimo grado. La tesi per la quale Dio permea di sé tutto il reale si trova esposta, in Par. I, 40-2, nell'immagine del «suggello» che Dio lascia, a mo' di impronta sul fango, come il sigillo impresso sulla ceralacca, metafora della «mondana cera» che quell'impronta divina riceve. Questo stesso concetto nella Monarchia viene ribadito attraverso un passo di Paolo, per cui «le cose invisibili di Dio si vedono attraverso le cose che da lui sono state fatte». E le cose invisibili delle quali Paolo parla sono proprio l'oggetto della fede, da Paolo intesa come credenza in cose che sono invisibili, che sono le cose immutabili, salve dal nulla, a differenza di quelle visibili, che si rivelano essere sempre oscillanti tra l'essere e il suo estremo opposto: «Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami,/sì nol direi che mai s'imaginasse;/ma creder puossi e di veder si brami»206. Tali cose invisibili possono essere testimoniate, negativamente, da ciò che è conoscibile. E ciò che è conoscibile lo è sempre mediante i sensi, che esperiscono la realtà esterna e indipendente dal pensiero e la rispecchiano passivamente attraverso un empirismo realistico e ingenuo: «Così parlar conviensi al vostro ingegno,/però che solo da sensato apprende/ciò che fa poscia d'intelletto degno»207. Dunque, mediante i sensi esterni abbiamo la testimonianza di cose visibili, divenienti, che sono state fatte da Dio, e che ci danno testimonianza delle cose invisibili, nelle quali il fedele ha fede, e che sono sempre salve dal nulla. Queste cose invisibili, sempre salve dal nulla, nelle quali il fedele ha fede, sono a loro volta la salvezza del fedele, in quanto per il fedele la salvezza consiste nel sollevarsi al di sopra del nulla tramite il dominio sulle cose che nel nulla sono destinate a cadere e, nella fede del fedele, queste cose invisibili salve dal nulla danno la salvezza in quanto permettono tale dominio che salva il fedele dal nulla, partecipando al potere che queste cose invisibili nelle quali il fedele ha fede conferiscono al fedele stesso. Questa fede, lo vedremo, si rivolgerà nel suo opposto: saranno proprio queste cose invisibili a negare tale salvezza, ad impedire cioè la realizzazione di quella volontà di potenza nella quale la fede tecnica del Cristianesimo vede l'unica salvezza dalla minaccia dell'annientamento. In virtù di questo legame con la sensibilità, unico modo per giungere alla conoscenza di ciò che, in prima battuta, è inteso come la salvezza dalla coscienza cristiana, Dante si sforza di ricondurre, attraverso immagini terrene talvolta sublimate all'inverosimile, alla sensibilità 206 Alighieri 207Alighieri

D., Par. X, 43-5. D., Par. IV, 40-2. Cfr. Alighieri D., Conv. II IV, 17.

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anche le più alte beatitudini del Paradiso, così da renderle afferrabili mediante i sensi: «chi non s'impenna sì che là su voli,/dal muto aspetti quindi le novelle»208. Proprio in questa logica Dante, pur riconoscendo che i beati «tutti fanno bello il primo giro»209, cioè che tutti abitano lo stesso «scanno», ossia l'Empireo, sente il bisogno di disporli nei cieli tolemaici. Essi sono diversi infatti dall'Empireo: quest'ultimo è un meta-luogo, cioè l'anello di congiunzione posto per rispondere alla annosa questione su dove si trovi il luogo del mondo. In quanto meta-luogo, l'Empireo è un non-luogo, è qualcosa di altro rispetto a ciò di cui vuol rendere ragione, un qualcosa di altro dal luogo, e proprio in quanto non-luogo, l'Empireo è non sensibile, non accessibile ai sensi210. Viceversa, i cieli tolemaici sono cieli fisici, esperibili mediante i sensi esterni, dunque conoscibili, per quanto problematicamente, dall'uomo che col suo corpo terrestre li attraversa verticalmente durante il viaggio oltremondano narrato dal poema. Senza la conoscenza empirica non si dà nemmeno la fede, così come è intesa dal Cristianesimo. La fede è infatti fede in ciò che è non esperito, in ciò che è invisibile, che è immutabile, in ciò che si concepisce e si costituisce a confronto con ciò che viene esperito. La fede nell'invisibile poggia sull'empirismo. Non si può conoscere al di fuori dello spazio e del tempo, al di fuori della sensibilità, e così Beatrice – abbandonando spazio e tempo – si «trasmonda»211 e diventa inconoscibile, dunque indicibile, ineffabile, in quanto troppo forte in lei è la presenza divina perché i sensi umani possano conoscerla 212. Quando tuttavia il divino, che è sempre presente nella realtà esterna e indipendente al pensiero che viene conosciuta e rispecchiata dalla soggettività dantesca, si manifesta in modo troppo forte, i sensi cedono, smettono di conoscere, smettono di rispecchiare la realtà oggettiva a causa dell'insostenibile divario sussistente tra l'oggetto da conoscere e il soggetto conoscente: sono queste le ragioni per le quali gli abbaglianti raggi di luce del Paradiso impediscono a Dante di sentire, e di dire poetando ciò che ha sentito con i sensi esterni, ed ancora è questo il significato dell'«alto sonno» che prende il poeta-personaggio all'inizio del suo viaggio infernale213 e alla fine del

208 Alighieri

D., Par. X, 74-5. D., Par. IV, 34. 210 Cfr. Alighieri D., Par. XXII, 67-9. 211 Alighieri D., Par. XXX, 19. 212 Cfr. Alighieri D., Par. XXX, 28-33. 213 Cfr. Alighieri D., Inf. III, 136 e Inf. IV, 1. 209 Alighieri

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viaggio nel secondo regno214, ed è ancora questo il significato della esortazione alle Muse del canto XXXII dell'Inferno, in cui l'ineffabilità teologica si presenta rovesciata, non in questo caso per troppa pienezza, ma al contrario per troppa penuria di Dio. Di qui la necessità di incrementare la capacità di sentire da parte di Dante-personaggio, affinché egli possa scrivere il «poema sacro» e così assolvere il suo compito profetico e provvidenziale. Già in Par. I, 55-7 Dante parla dell'incremento delle capacità conoscitive, cioè del rafforzamento dei sensi che l'uomo naturale, giunto a perfezione nel giardino dell'Eden, può vantare. Inoltre, al salire di cielo in cielo (e si badi che questo salire non è mai detto, descritto, eccetto che in un solo caso, in cui la descrizione della salita verso uno dei cieli più alti è fugacemente descritta) le capacità conoscitive di Dante-personaggio vengono incrementate, nell'unico modo possibile, e cioè per grazia di Dio. Dunque, i sensi vengono meno quando la presenza di Dio nell'oggetto da conoscere è troppo forte, e solo Dio stesso può consentire di conoscere ciò che prima, a causa sua, non poteva essere conosciuto, mediante un incremento di queste capacità conoscitive, legate sempre alla sensibilità (in particolare: al vedere e al sentire). L'incremento di queste facoltà è concesso sempre per grazia: «come fec'io, per far migliori spegli/ancor de li occhi, chinandomi a l'onda/che si deriva perché v'immegli» 215. Uno dei momenti apicali di questo incremento delle capacità conoscitive del Dante-personaggio è dato dalla celebre esortazione di Beatrice: «“Apri li occhi e riguarda qual son io;/tu hai vedute cose, che possente/se' fatto a sostener lo riso mio”»216. Nulla sta nell'intelletto che prima non sia passato attraverso i sensi. Ciò che i sensi testimoniano, è la realtà esterna e indipendente al pensiero. Non tutta questa realtà può essere testimoniata dai sensi. Quando infatti in questa realtà la presenza di Dio (che in ogni parte della realtà è presente, secondo diverse gradazioni) è troppo forte, i sensi non riescono a dare testimonianza di questa realtà. Questa impotenza a rispecchiare il divino può essere corretta dal divino stesso, come avviene lungo il tragitto che Dante compie nel terzo regno. La luce diretta di Dio, come si manifesta al Dante-personaggio nel centesimo canto della Commedia, è sempre insostenibile, indicibile, anche quando viene sentita dal soggetto conoscente. Così Dante, alla fine del poema: «Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/che 'l parlar mostra, ch'a tal vista

214

Cfr. Alighieri D., Purg. XXXII, 61-3. D., Par. XXX, 85. 216 Alighieri D., Par. XXIII, 46-8. 215 Alighieri

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cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio» 217. Allo stesso modo, nemmeno i più insigni tra i beati sanno speculare, nonostante la loro perfetta armonia con il divino, su alcune questioni che concernono il divino, prima fra tutte la predestinazione, come Dante dice in Par. XXI. Il poter dire il sentito, e dunque il poter sentire, sono sempre un sentire e un dire concessi da Dio: «O isplendor di Dio, per cu' io vidi/l'alto trïunfo del regno verace,/dammi virtù a dir com'ïo il vidi!»218. A proposito del trentatreesimo del Paradiso, Chiavacci Leonardi scrive che questo canto non è altro se non «il racconto di una guerra tra lo sguardo dell'uomo e la luce divina (quella luce che egli “si fa ardito e sostenere”, e nella quale “s'affige” per penetrarne il mistero), che si identifica con la guerra del poeta con le parole per esprimerla» 219. E sempre Chiavacci Leonardi scrive, con la consueta acutezza, che «l'oggetto del vedere si adegua, secondo una costante di tutto il Paradiso, all'occhio di colui che guarda, mentre per converso la sua vista viene sempre più rafforzata e adeguata a ciò che deve vedere. In questo meccanismo riposa tutta la figurazione della cantica. E tale vitale rapporto fra vista e oggetto del vedere, che si fonderanno nell'ultimo canto, non è che un'unica continua raffigurazione – su cui si fonda il Paradiso dantesco come espressione poetica – del rapporto tra uomo e Dio come è concepito dal cristianesimo»220. 2.4 L'ineffabilità teologica della Commedia Solo se Dio dà la capacità di esprimersi (capacità che è un conoscere, dunque sempre un rispecchiare), allora l'uomo può dire ciò che ha sentito, rispecchiato: in Purg. XVII, 13-8 e 224 ci viene detto che, «usualmente», la nostra «immaginazione», cioè il nostro rappresentare il mondo (ciò che Cartesio chiama «essere oggettivo»), deriva dai sensi esterni, anche se tali rappresentazioni possono derivare anche dagli influssi astrali o, straordinariamente, da Dio stesso, come nel caso narrato in questo episodio del Purgatorio nel quale gli esempi di ira punita a Dante sono impressi, mediante una visione estatica, non dai sensi esterni ma da Dio stesso, per grazia. Ecco perché quella della Commedia deve essere definita primariamente come una ineffabilità teologica, e solo secondariamente come una ineffabilità retorica, come può essere quella adottata, in senso contrario, dalla «vertigine della lista» così come è 217 Alighieri

D., Par. XXXIII, 55-7. D., Par. XXX, 97-9. 219 Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 591. 220 Commento di A.M.Chiavacci Leonardi a Par. XXX, 80-1, nota. 218 Alighieri

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concepita nei testi di Hugo o di Manzoni, nella celebre lista delle gride. Primariamente, nella Commedia, Dio è ineffabile in quanto non è mai del tutto conoscibile. C'è un interesse ontognoseologico, prima che retorico-letterario, in questo topos che permea la Commedia, soprattutto nell'ultima cantica. Dio trascende le capacità umane che per questo non lo possono dire, e che dunque non lo possono esperire, se non solo parzialmente. E ciò in virtù del fatto (e non è cosa da poco) che Dio è l'Assoluto, e in quanto tale essenzialmente non ammette altro fuori di sé, non ammette conoscenza al di fuori di sé, non ammette azione di sorta – compreso il poetare – se tale azione è compiuta da altri, da ciò che è altro da lui. Dio è immobile ed assoluto. Dunque, Dio non ammette azione, né in sé né fuori di sé. Dio, il tecnico creatore per eccellenza, si risolve, nella coscienza cristiana, nell'immobilità dell'essere che nega il divenire, e che nega quella salvezza che per i cristiani si identifica con la salvezza dal terrore nei confronti del divenire, essendo la salvezza per i cristiani il dominio di quel divenire, mediante l'agire tecnico supportato dalla possibilità di prevederlo e dominarlo (mediante Dio). Dio può essere detto solo parzialmente, e sempre per grazia. Al di fuori di questa grazia non c'è azione, e all'interno di questa grazia c'è l'immobilità della pienezza dell'essere. In entrambi i casi l'immobilità, la perdita di salvezza data dalla lontananza da Dio ed esemplificata dalla caduta nel nulla (l'«amara morte» del primo canto dell'Inferno), o dalla soffocante pienezza di essere che esclude, e quindi annulla, le determinazioni, per lasciare spazio alla pienezza dell'essere immobile ed indifferenziato. L'identità di fatto e dir, espressa esplicitamente in Inf. XXXII, 12, oltre ad indicare il principio, sempre ricordato e spesso messo in primo piano, della convenientia, esposto nel II libro del De vulgari eloquentia (principio per il quale si deve perseguire una corrispondenza fra il livello formale di un testo e la materia che in questo testo viene trattata), è atto anzitutto a fondare il dire poetico su un ben preciso principio gnoseologico (il già descritto empirismo realistico e ingenuo) subordinato alla onto-teologia cristiana che il contenuto della Commedia adotta: la mente può scrivere solo ciò che vede221 o, più in generale, ciò che sente (e vista e udito sono nella Commedia i due sensi più importanti), e può recepire ciò che Dio, di sé, permette all'uomo di recepire. «Quel pellegrino che si ricrea, e pur tutto preso dal guardare pensa già a come racconterà ciò che ha visto, è straordinaria figura che riassume tutta la vita dell'uomo che nella continua tensione del suo spirito non altro ha fatto che tentare di ridire […] 221

Cfr. Alighieri D., Inf. II, 8.

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ciò che la sua mente e il suo cuore vedevano, coincidendo vista e parola, il fatto e il dir, la vita e la poesia»222. Passato il Cristallino, indicato come l'ultima «riva» del tempo, Dante si trova nella condizione di «nulla vedere», in quanto al di là di questo passaggio, usciti dallo spazio e dal tempo, si rompe il parallelismo tra dire narrato, da un lato, e fatto rispecchiato che consente quel dire e che si fonda nella sensibilità radicata nello spazio-tempo, dall'altro. Per poter riprendere quel racconto di «cose vedute»223 che è la Commedia, il protagonista riceve per grazia la «novella vista» che gli permette di esperire oltre lo spazio-tempo. Nell'ultimo canto del poema, Dante chiede un ulteriore incremento delle sue capacità conoscitive 224 ma, pur ottenendolo, ora eccezionalmente non ottiene più di poter dire ciò che ha sentito mediante questo incremento. Questo sentire è infatti l'appagamento che giunge alla piena soddisfazione del «disio», che è ciò che muove e che dunque, una volta soddisfatto, è ciò che immobilizza e che impedisce di dire e di agire e di dominare. I dannati del Limbo vivono ancora, non sono inghiottiti da Dio, in quanto hanno ancora il «disio» che li tormenta, ma che dà loro potenza. È paradossalmente l'eliminazione del «disio» – la piena riconciliazione con chi quel «disio» toglie – che dà la «morte amara», che determina il crollo del presunto rimedio individuato dal Cristianesimo (più in generale: dal nichilismo, dall'Occidente), la fine della civiltà della tecnica. 2.5 Divorare Dio ed essere divorati da Dio: il contenuto del canto cristiano scisso tra volontà di potenza e noia Da un lato i cristiani dicono che senza questa alleanza con Dio, si rimane fuori dal legame con Dio, e dunque non si trova la salvezza dopo la morte, ma con la morte si cade nel nulla assoluto. E tuttavia, complice l'ideale neoplatonico già citato che permea le pagine della Commedia, il morire nella lontananza di Dio non ci fa morire, ma ci fa andare nell'Inferno in cui tracce di Dio ci sono ancora, come ricorda l'iscrizione posta sopra la porta all'entrata dell'Inferno. È invece la caduta in Dio da parte della determinazione che comporta, essa soltanto, l'eliminazione di questa determinazione, nell'essere indifferenziato di Dio, che quelle determinazioni schiaccia e annulla. La coscienza cristiana crede di servirsi di Dio per dominare 222

Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 556. D., Par. XXX, 82. 224 Cfr. Alighieri D., Par. XXXIII, 67-9. 223 Alighieri

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il mondo, ma in realtà il dominatore per eccellenza è Dio stesso, che non permette azioni che siano alternative alla sua, e che dunque zittisce qualsiasi atteggiamento tecnico che, per i cristiani, è l'unico atteggiamento salvifico. Solo riconciliandosi totalmente con l'«alto fattore» il sentire si chiude in se stesso, negando la sua funzione civile, che è quella del dire, e del produrre dicendo, poetando. Alla fine del poema, e solo alla fine, il rapporto dir-fatto viene meno. Dio, e la determinazione riconciliata con Dio, è una realtà muta, soddisfatta, e per questo immobile, alla quale è impedita ogni azione, soffocata entro le strette maglie del «muro di pietra». «Il fatto, la realtà vissuta, è sempre connesso, in Dante, fino all'ultimo, con il dire, l'esprimere in poesia. Ma […] ormai le cose sono cambiate in lui: la stessa poesia, fidata compagna della sua vita, non è più necessaria, perché la guerra inerente alla condizione umana nel tempo è finita: il suo volere si è identificato ormai con quello di Dio»225. Questo venire meno dell'azione da parte della singola determinazione coincide con il contenuto del canto cristiano, che canta la noia rovesciata (soffoca la pervasività dell'epistéme, non la sua definitiva venuta meno) ed identica a quella cantata dalla società della tecnica dopo avere superato il «culmine della parabola» che porta al superamento anche delle ultime illusioni del dominio tecnico mediante la prevedibilità consentita dalla matematica. Di fronte a Dio il poeta viene «a l'ultimo» sforzo, è sazio e per questo immobile, non dimorante in Dio bensì dimorato da Dio, sommamente alienato in quel presunto rimedio che, al di là della superficialità del dire cristiano, toglie ogni possibilità di salvezza, ogni possibilità di esercitare la prassi sul mondo che annienta. Ormai Dio divora il cristiano e non più l'uomo, adamiticamente, divora il limite che inizialmente, secondo una prima (ulteriore) illusione del Cristianesimo, consentiva l'azione, il dominio sul mondo, e quindi la salvezza. Già davanti alla luce che, nel Cielo Stellato, la «bianca stola» di Cristo emana, il poeta viaggiatore si trova immobilizzato, non può dire, non può fare, non può più salvarsi mediante quel fare che solo – per il nichilismo – concede la salvezza. Riporre fiducia nel fatto che la salvezza sta nel contenuto del canto significa avere fede nel fatto che, al cadere dell'illusione, la morte di quella creduta salvezza, si dà la morte di quella volontà di potenza che con quella “salvezza”, per il Cristianesimo, si identifica: «e per la viva luce trasparea/la lucente sustanza tanto chiara/nel viso mio, che non la sostenea»226. 225

Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 593. D., Par. XXIII, 31-3.

226 Alighieri

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Oltre la Barriera non c'è nulla che possa essere infranto, non c'è nulla a disposizione dell'uomo. Ne L'Infinito leopardiano, che pure non si solleva al di sopra dell'illusione cristiana, le cose stanno diversamente: ancora ne L'Infinito, infatti, si crede che, oltre la siepe, oltre il muro di pietra, ci siano gli orizzonti sterminati e al contempo dominabili, e per questo non angoscianti, ma anzi consolatori, dell'epistéme. L'Infinito crede ancora, nell'illusione cristiana, che l'alleanza con Dio sia la salvezza, laddove, nell'illusione cristiana, salvezza è potenza: in questa illusione dell'illusione dell'illusione il giogo incarnato dal timor di Dio dà potere, consente l'azione che dominando ci dà salvezza, salvezza eterna, da quella cosa “più amara”, che è l'annientamento dell'ente. L'infinito è perciò illusione dell'illusione dell'illusione: cantando L'Infinito Leopardi canta stando dentro l'illusione che attraversa tutta la coscienza occidentale, anche la più acuta, cioè l'illusione dell'innegabilità del divenire, L'Infinito canta l'illusione dell'Eterno al di sopra dell'illusione del divenire e infine – terza illusione – canta la possibilità di salvezza mediante l'alleanza con Dio. Questa impostazione de L'Infinito, che attraversa tutta la Commedia, cade in Par. XXXIII. Qui cade la terza illusione, pur rimanendo salde le prime due: Dio è filosoficamente inteso come ciò che dà l'angoscia suprema, l'“amara morte”, in quanto Dio immobilizza, annulla, come il «solido nulla» derivante dalla assoluta privazione di Dio minaccia di fare. Stando all'interno dell'errore cristiano, ma giunti alla massima coerenza che, stando in questo errore cristiano, può essere raggiunta, si mostra l'identità di Dio con la suprema minaccia del nulla, si vede che «se esiste l'Eterno (comunque esso venga concepito), le cose del mondo non possono provenire dal nulla, ma provengono dall'Essere, che già le contiene: il nulla diventa essere: il divenire è cancellato» 227. Per questo, per Leopardi, la religione cristiana, giunta a massima coerenza, si rivela essere «la più barbara cosa che possa essere nata dalla mente dell'uomo: è il parto mostruoso della ragione» 228. Queste parole sono idealmente rivolte non a L'Infinito, bensì al contenuto di Par. XXXIII. Il grido del Porfirio leopardiano, esplicitamente rivolto contro Platone, ma in realtà indirizzato primariamente verso il Cristianesimo, lo accusa di fare un discorso più barbaro della verità (del divenire), verità alla quale il discorso cristiano si propone di trovare un rimedio che, proprio a causa di ciò che si è detto, si rivela essere peggiore del male. L'illusione del 227 228

Severino E., Pensieri sul Cristianesimo, cit., p. 236. Leopardi G., Zibaldone, cit., pp. 816-817.

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Cristianesimo ormai giunto a coerenza soffoca la vita, in modo uguale e contrario alla noia che scaturisce dal paradiso della tecnica, intesa come volontà di potenza e come unico rimedio contro l'annichilimento: il Cristianesimo «si presenta come ragione che proibisce il suicidio minacciando un'infinita pena futura per chi lo compia» 229. «Il cristianesimo non ha trovato altro mezzo di correggere la vita che distruggerla – scrive Leopardi –, facendola riguardare come un nulla anzi un male, e indirizzando la mira dell'uomo perfetto, fuori di essa» 230, verso un'altra vita. L'illusione dell'illusione dell'illusione ci fa rifuggire il nulla verso un'altra vita, una vita altra dal nulla, che è la vita che si realizza in Dio, “inventrandosi” in lui. Questa mossa tecnica conduce però alla non esistenza della vita al di fuori di Dio, ma contemporaneamente (ed è questo punto che il Cristianesimo tarda a capire) porta alla “nonesistenza” della determinazione dentro di lui. È questo il culmine della coscienza che, entro l'orizzonte speculativo del Cristianesimo, può essere raggiunta, e che viene raggiunta, contro l'intento tecnico di tutta l'opera, nel canto XXXIII del Paradiso, il quale teorizza ciò che tutto il percorso della Commedia aveva cercato di allontanare: «L'“essenza del Cristianesimo” richiede che il “perfetto impiego dell'esistenza” sia “l'annullarla quanto è possibile all'ente”; sì che “il primo scopo dell'esistenza dell'uomo” non è l'esistenza, “come lo è in tutte le altre cose o create o anche possibili” (non è lo scopo della natura in quanto volontà di esistere), ma è la “nonesistenza”»231. L'autentico dramma che vivono i dannati della Commedia non consiste nel dolore delle pene infernali, ma nell'assenza di speranza – proclamata solennemente da Caronte 232 – di potere un giorno giungere a Dio, e cioè di potere trarre da Dio il potere di dominare il divenire, elevandosi, mediante Dio, al di sopra di esso. Questo è ciò che l'illusione dell'illusione dell'illusione sostiene. E tuttavia lo stesso contenuto del canto dantesco, contro questa prima tesi, si rende conto che anche i dannati, privi di speranza, non sono in realtà privi di potenza. Con ciò non significa, per il contenuto del canto dantesco, che Dio non sia la fonte di potenza (la Commedia non sa sollevarsi al di sopra di questa illusione epistemica) ma significa, al contrario, che anche i dannati partecipano al potere di Dio, in quanto Dio raggiunge anche i dannati: «Giustizia mosse il mio alto fattore;/fecemi la divina podestate,/la somma sapïenza e 'l 229

Severino E., In viaggio con Leopardi, cit., p. 105. Leopardi G., Zibaldone, cit., pp. 1687-1688. 231 Severino E.., Cosa arcana e stupenda, cit., p. 245. 232 Cfr. Alighieri D., Inf. III, 85. 230

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primo amore»233. Mettendo inoltre a confronto la situazione dei dannati, partecipanti al potere di Dio ma al contempo da esso distanti, e quella dei beati in cui il «disio» è placato in quanto questi ultimi sono immersi in Dio, si vede come il potere risieda nei primi, e non nei secondi: placato il «disio», infatti, non rimane che l'immobilità, esattamente come, passato il culmine della parabola propria dell'età della tecnica, cioè venuta meno anche quella traccia di Dio che ancora nell'Inferno dantesco si ritrova, si dà l'immobilità data questa volta non più dalla pienezza, ma dalla noia: in entrambi i casi, la colomba kantiana non si muove, l'una volta per assenza di attrito, l'altra volta poiché l'attrito è un muro di pietra che impedisce il movimento, come se la colomba, diremmo figuratamente, fosse caduta nell'appiccicoso petrolio che gl'impedisce di aprire le ali così da rendersi capace di volare. Per Caronte, immerso nella tripla illusione di cui s'è detto, la potenza è data da Dio, e la morte dei dannati consiste nella loro assenza di speranza di congiungersi con Dio, cioè nella loro totale lontananza da Dio: il questo senso per Caronte Dante è vivo, cioè è ancora a contatto con Dio e ancora disposto a trovare in Dio la sua dimora, al contrario dei dannati, i quali «son morti»234, privi di Dio, privi di «speme». Poi però nello stesso contenuto del canto cristiano ci si rende conto che, se i dannati fossero totalmente privi di Dio e della potenza che deriva da Dio, sarebbero l'esatto opposto di Dio, cioè sarebbero nulla. In questo senso l'Inferno, lungi dall'essere luogo adibito, come per l'appunto è, ad accogliere i corpi risorti dei dannati dopo il Giudizio Universale, sarebbe un non-luogo: ci sarebbero solo i beati, mentre i dannati non sarebbero più nulla. Invece anche i dannati non sono «cose da nulla», un nulla loro medesimi. Non sono nulla, cioè sono potere, sono amore, sono vettori di prassi. Dante si rende conto, da dentro la coscienza cristiana, che i dannati non sono nulla, ed avverte, alla fine del poema, che proprio nei beati vien meno il potere, in quanto i beati cadono nell'eterno che annienta la loro determinazione. Ovviamente, la coscienza cristiana non può percorrere questa verità fino in fondo dato che, coerentizzando questa verità che la abita, la coscienza cristiana sarebbe negata da questa stessa verità (che è poi la verità del nichilismo): vedere che il soddisfacimento del desiderio di riconciliarsi con Dio significa l'annichilimento della potenza di quell'ente che quel «disio» 233 Alighieri 234 Alighieri

D., Inf. III, 4-6. D., Inf. III, 89.

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soddisfa raggiungendo Dio, significa comprendere che il rimedio è il peggiore del male. A questa coscienza il canto cristiano della Commedia non giunge, e tuttavia esso prepara già tutte le premesse grazie alle quali questa consapevolezza possa darsi. Se pensiamo che il rimedio sia l'alleanza con Dio, andiamo a contrapporre storia ed eternità, essere e nulla. Ma proprio perché Dante avverte la falla che questo discorso comporta (dato che vede che l'eternità nega la storia, quella storia che egli invece traspone nell'eterno, armonizzandola con l'eterno), e con ciò avverte (filosoficamente) la necessità della forma del canto (che permette la vita malgrado la distruzione degli eterni, che danno morte), oltre che dell'inconscio del suo contenuto, proprio per questo Dante non compirà mai la mossa definitiva, atta a contrapporre in modo netto essere e nulla, eternità e storicità. L'obiettivo di Dante fu dunque quello di «rappresentare tutto il mondo terreno-storico, di cui era giunto a conoscenza, già sottoposto al giudizio finale di Dio, e quindi già collocato nel luogo che gli compete nell'ordine divino, già giudicato, e non in modo tale che nelle singole figure […] il carattere storico fosse soppresso o anche soltanto indebolito, ma in modo da mantenere il grado più intenso del loro essere individuale terrenostorico, e da identificarlo con la sorte eterna»235. Identificando essere e divenire, riconosce implicitamente che Dio soffoca, non salva, e riconosce che dare totale spazio a Dio, nel Paradiso, o togliere totalmente Dio, nell'Inferno, significa negare l'unica dimensione (e questa divisione è il divenir niente da parte dell'ente) che in ultima analisi lo stesso Cristianesimo, come la società della tecnica, riconosce, anche se tale unicità del riconoscimento non è dal Cristianesimo pienamente intesa. Se dal Cristianesimo si desse questo riconoscimento in modo limpido, il Cristianesimo imploderebbe su di sé, senza tuttavia abbandonare quel terreno che con mani e piedi condivide con la metafisica anti-epistemica. La vera essenza del Cristianesimo conduce all'annichilimento dell'ente, all'essenza del nichilismo: Dio fa diventare nulla l'ente, Dio si identifica con la potenza nientificante, lungi dall'allontanarla contrapponendo ad essa la sua pienezza di determinazioni e di significato. L'essenza del Dio cristiano è, a rigore, l'essenza del nichilismo. Pensiamo al rapporto intercorrente tra il divino e Beatrice: ella è tanto bella ed indicibile in quanto partecipa del divino, in quanto riflette come uno specchio il divino che si manifesta in lei 236. Da un lato Dio concede all'uomo un incremento delle sue facoltà visive, cosicché egli possa contemplare il 235 Auerbach 236

E., Studi su Dante, cit., pp. 78-79. Cfr. Alighieri D., Par. XVIII, 13-8.

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divino, riflesso dagli occhi e dal riso di Beatrice, e tuttavia mai Dio concede totalmente il suo potere all'uomo, come dimostra anche l'episodio di Adamo e di Lucifero («similis ero Altissimo»), e ciò lo dimostra il fatto che, nell'Empireo, là dove Beatrice si fa immagine di Dio con la massima intensità quasi diventando, come la Madonna, «la faccia che a Cristo/più si somiglia»237, viene detto che lì, nell'Empireo, solo Dio può contemplare Beatrice così fatta, cioè solo Lui può contemplare se stesso, compiutamente, escludendo l'uomo da tale contemplazione; o meglio, al limite dell'investitura divina, tale contemplazione all'uomo viene permessa, salvo però proibirgli, durante questa, l'azione del dire e del fare, e dopo essa del ricordare: dopo tale visione, e durante essa, anche nel caso dell'eccezionalità della concessione divina, non si dà che somma impotenza, che lascia spazio solo alla dichiarazione dell'impotenza da parte del poeta: «La bellezza ch’io vidi si trasmoda/non pur di là da noi, ma certo io credo/che solo il suo fattor tutta la goda» 238. «Cotal qual io lascio a maggior bando/che quel de la mia tuba, che deduce/l’ardua sua matera terminando» 239. Coerentizzare il divino significa riconoscere che non c'è spazio per esso. Tutte le premesse che conducono a questa mossa (filosofica, in quanto si costruisce concettualmente sulla base delle categorie offerte dalla ontologia greca) sono presenti nella Commedia. Alla civiltà della tecnica non rimarrà che metterle a frutto.

§3 Divenire in Dante e resurrezione dei corpi 3.1 Giudizio Universale e storia dell'umanità: nichilismo, Cristianesimo, filosofia della storia Introducendo la nozione di “creazione dal nulla” da parte di Dio, il Cristianesimo massimizza i poteri di Dio, che esercita il suo infinito potere sugli enti divenienti, mediante l'amore. Se già per l'uomo cristiano – così come lo si intende nella Commedia – emerge la coscienza del fatto per cui la sua volontà di potenza è ostacolata da Dio, per Dio l'uomo non è un ostacolo. Dio può soffocare l'uomo; Dio, se esistesse, lo soffocherebbe, essendo Dio il tecnico per eccellenza, negatore di qualsiasi volontà di potenza che non sia la sua assoluta volontà di potenza. Proprio in quanto volontà di potenza, Dio non si può fermare di fronte 237 Alighieri

D., Par. XXXII, 85-6. D., Par. XXX, 19-21. 239 Alighieri D., Par. XXX, 34-6. 238 Alighieri

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all'uomo, non lo può risparmiare: l'essenza della volontà di potenza consiste appunto nel suo incrementarsi quanto più possibile, nel suo cercare di scardinare ogni ostacolo che si frappone tra essa e la potenza in atto che mira ad esercitare, e che fin da subito esercita, essendo il Dio della tradizione “puro atto”. Per Dio l'uomo è un ostacolo facilmente aggirabile: Dio annienta l'uomo di necessità, nella sua azione tecnica. Ma l'uomo non è niente, l'uomo non è l'annientato. L'uomo, invece, è azione, è libero arbitrio che liberamente agisce e s'impone sul mondo: l'uomo pretende anch'esso, contro Dio, di essere tecnico. Dunque, se l'inconscio del Cristianesimo afferma che Dio, se esistesse, dovrebbe uccidere l'uomo, allora afferma che Dio non esiste, proprio in quanto l'uomo non è nulla. Anziché guardare in faccia questa verità, il Cristianesimo frappone tra la potenza infinita di Dio e la potenza finita dell'uomo la mediazione dell'alleanza tra l'uomo e Dio, atta a porre un freno alla volontà di potenza di Dio. Dio, amando le sue creature, le crea dal nulla, e creando dal nulla esercita quella somma potenza che, con amore, a rigore non dovrebbe risparmiare nulla. Ciò che dovrebbe annientare tutto (cioè Dio), e che tutto non annienta (smascherando così la menzogna nella quale consiste), lungi dal porsi come annientatore si pone, nel contenuto del discorso cristiano, come ciò che risparmia e che anzi dà la forza, a colui che dovrebbe annientare (cioè all'uomo), di annientare le altre cose, compreso il datore di quella stessa forza annientatrice. Soggiogandosi a Dio, il cristiano vuole la forza per annientare Dio, quel Dio il quale, nella misura in cui è il tecnico per eccellenza, non dovrebbe permettere alcuna vita (alcuna prassi) al di fuori della sua. Il fatto che Adamo possa imporsi contro Dio, decreta la morte di Dio, in quanto Adamo non potrebbe esistere, se la potenza di Dio fosse realmente quella che i cristiani gli attribuiscono: Dio non lascia spazio per agire, nemmeno in certi limiti. La hýbris di Adamo consiste in qualsiasi azione, perché qualsiasi azione che Adamo compie è volta contro Dio. Dio, a rigore, non dovrebbe lasciare nessuno spazio di azione ad Adamo. Nel momento in cui Dio lascia una certa libertà di azione ad Adamo, sia pure solo entro certi limiti, Dio prepara il terreno teoretico atto a giustificare la possibilità dell'oltrepassamento di qualsiasi limite da parte di Adamo, il quale viene sì punito per questo suo agire sfrenato, illimitato, ma non viene annichilito da Dio (così Ulisse non viene fatto cadere nel nulla assoluto). Dio non lo annichilisce in quanto Dio è, nell'inconscio del Cristianesimo che già emerge nel contenuto della Commedia, impotente: se Dio potesse annichilire, l'annichilimento sarebbe aprioristico, e Adamo non avrebbe avuto il 348

minimo spazio di azione perché ogni spazio di azione sarebbe stato, sin dal principio, riempito dalla illimitata potenza soffocante di Dio. Dunque, nella Commedia nemmeno i dannati cadono nel nulla in quanto Dante stesso riconosce, per quanto implicitamente, la morte di Dio. Dante però non sa andare oltre il culmine della parabola, non vede che, portato al limite, il pensiero cristiano identifica l'essente con il nulla. Dante dà salvezza a tutte le anime (che possono salvarsi dalla amara morte in quanto sono vettori, depositi di volontà di potenza pronta a tradursi in atto) proprio in quanto le libera dall'abbraccio mortifero di Dio. Dante non si rende conto che il passo successivo da fare, per coerentizzare questo atteggiamento nichilistico che egli stesso porta avanti, è la tematizzazione dell'impossibilità dell'esercizio di quella volontà di potenza che Dante pensa di salvare proprio mediante quella mossa nichilistica che, in ultima analisi, la nega. Adamo, dopo avere commesso il suo peccato, riceve persino il Paradiso. Ed Ulisse, novello Adamo, nella sua dimora infernale sa comunque stare al di sopra della morte tanto amara: Ulisse, dopo che ha superato il limite posto da Dio, ha fatto naufragio nelle acque del peccato che non lo hanno condotto nell'assoluto nulla. Ulisse è ancora qualcosa, e proprio per questo, si può dire che Dante è già proiettato nel paradiso della tecnica: il suo Dio non ha i connotati della potenza estrema, in quanto si ritrae per dare potenza estrema all'uomo. Dante vuole affermare la potenza umana, a scapito di quella divina; Dante vuole la felicità in terra – come dice la celebre epistola – e per fare questo pone la terra nel divino. La morte non è un cadere nel nulla, non consiste nel cadere tra le braccia del Dio eterno, che sarebbe soffocante quanto il nulla: l'oltremondo, dal più basso Inferno fino al cielo che tutti li abbraccia, è in ultima istanza un cadere nella storia, proprio in quanto «l'oggetto della Commedia, anche se essa raffigura lo stato delle anime dopo la morte, rimane la vita terrena in tutta la sua ampiezza e il suo contenuto […] la Commedia è veramente un'immagine del mondo terreno: con tutta la sua ampiezza e la sua profondità esso è compreso nella struttura dell'aldilà»240. Questo indicato da Auerbach è un perdurare storico che si estinguerà solo al risuonare delle trombe del Giudizio Universale: solo da quel momento Dio soffocherà i dannati impedendogli di non vedere più nulla, e riempirà i beati della sua luce, altrettanto soffocante. Eppure, anche in questo orizzonte cristiano apparentemente compiuto costituito dal realizzarsi di suddetta polarizzazione alla fine dei tempi (il nulla presente ed eterno per i dannati e l'essere eterno per i 240 Auerbach

E., Studi su Dante, cit., pp. 121-122.

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beati) riemerge, più forte che mai, la storia: con il Giudizio Universale il corpo risorto attribuito ai dannati e ai beati li solleva, per l'ultima volta, dal pericolo della caduta nell'eterno presente immobile. Questo ultimo tentativo di salvare il principio di individuazione e di salvare il principio di non contraddizione (cioè il divenire) anche al di là del tempo è l'ultimo tentativo (riuscito) di salvare la potenza dell'uomo, salvaguardata da Dante anche dopo la morte. Dire che la storia all'interno della riflessione nichilistica tende sempre più ad egemonizzare il campo dell'epistéme (e la storia, a sua volta, verrà sempre più intesa come interpretazione priva di direzione oggettiva, come accadrà già in Kierkegaard, per il quale «ogni situazione storica (quindi anche la ricostruzione storica della vita di Gesù) è qualcosa di non oggettivo, non constatabile, ossia è il risultato di una interpretazione, sprovvista di qualsiasi garanzia assoluta e tale quindi da poter essere continuamente rimessa in discussione» 241), non significa che la storia, al di fuori dell'alienazione nichilistica, sia qualcosa da marginalizzare. Il divenire, e quindi anche il divenire storico, lungi dall'essere rifiutato, è da Severino affrontato con grande dedizione, dato che «l'alienazione nichilistica non dipende dal conferire realtà al divenire, ma dall'intendere quest'ultimo in modo tale da implicarne necessariamente il carattere autocontraddittorio, e per ciò, l'impossibilità. L'oltrepassamento del nichilismo al quale alludono gli scritti di Severino è viceversa proprio ciò che conferisce al divenire il massimo di realtà e la concretezza più piena, mostrando che il divenire non è altro dall'essere, né un essere depotenziato, bensì l'essere stesso che si manifesta in modo processuale e necessario alla coscienza»242. Il secondo capitolo di un celebre libro della dantista Teodolinda Barolini affronta il tema che stiamo qui affrontando – cioè il tema della storia, del tempo e del concetto di “novità” nella Commedia, che «è permeata da una poetica del nuovo, una poetica del tempo» 243, «un divenire interrotto dalla novità»244 – con grande acume, ponendolo sullo sfondo di una «deteologizzazione» del poeta che, proprio in quanto poeta, prima ancora che teologo, è un costruttore di cose (costruttore di una «realtà virtuale»), di cose nuove, di cose che mutano nella storia245, dato che «il nuovo denota il tempo, il mezzo che sottrae a tutte le nuove cose precedenti la capacità di rimanere nuove, che assegna la mortalità – movimento, cambiamento, 241

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 114. Brianese G., L'ontologia anarchica di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», 03 (2014), p. 28. 243 Barolini T., La “Commedia” senza Dio, cit., p. 38. 244 Ivi, p. 39. 245 Cfr. Barolini T., La “Commedia” senza Dio, cit., pp. 11-35. 242

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assenza di essere – che ci condanna a desiderare sempre» 246. Dopo avere posto in relazione il fatto (l'esperienza della vita, del viaggio, del divenire) e il testo che testimonia il viaggio del pellegrino, Barolini comprende perfettamente che, per Dante, la necessità di porre Dio significa la necessità di prevedere, attraverso di lui, quella realtà diveniente che è per l'Occidente l'esperienza originaria, realtà casuale in quanto diveniente, che altrimenti non potrebbe che causarci il thauma del quale la filosofia, già per Aristotele, deve cercare di trovare una soluzione, dopo esserne stata la causa: Per Dio, che conosce ogni cosa, che vede tutto prima che succeda, prima che abbia origine e occupi la sua posizione storica in quanto cosa nuova, il futuro non riserva sorprese, non c'è mai nulla di nuovo all'orizzonte storico o, si potrebbe dire, narrativo. Per noi, invece, tutte le cose sono nuove, e abbiamo bisogno di sapere qual è la più nuova, qual è quella maggiormente in grado di condurci verso una priorità relativa, in assenza di una priorità assoluta. 247

Gli enti sensibili, nella Commedia, sono sempre a contatto con la novità, come testimoniano moltissimi passi del poema248. Sono invece gli angeli, con la loro visione “sinottica” che ricorda un poco quella del dialettico platonico249, e i dannati, con la loro assenza di memoria250, a non essere più a contatto con la novità. Tutto ciò che è ancora vivo, invece, è anzitutto a contatto con l'esperienza originaria del divenire incessante, della novità imprevedibile. Questa esperienza originaria, osserva Barolini, è continuamente testimoniata non solo dalle spie lessicali della Commedia, ma anche dalla struttura formale del poema dantesco, dalla «imitazione della storia umana da parte della terza rima» 251, cioè lo schema aba/bcb/cdc, che indica il «processo, per mezzo del quale un'alterità, la nuova rima, diventa l'identità della terzina successiva, imita il flusso genealogico della storia umana, in cui la creazione di ogni nuova identità richiede l'innesto di una alterità dentro dentro la precedente identità»252. Questa ultima citazione potrebbe tranquillamente essere letta nella Fenomenologia dello spirito, senza destare sospetti. E nonostante il nome “Hegel” non compaia mai nel testo della 246

Ivi, pp. 44-45, corsivo mio. Ivi, p. 41, corsivo mio. 248 Cfr. Alighieri D., Inf. VI, 4, Inf. VII, 20, Inf. XXVIII, 22-3. 249 Cfr. Alighieri D., Par. XXIX, 76-81. 250 Cfr. Alighieri D., Inf. VI, 9. 251 Barolini T., La “Commedia” senza Dio, cit., p. 42. 252 Ibidem. 247

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Barolini, c'è da dire che un riferimento implicito al filosofo tedesco risulta scontato, se si legge qualche riga dopo la citazione appena riportata. Barolini continua infatti dicendo che la centralità del divenire all'interno della creazione virtuale della Commedia risulta chiara non solo da ciò che si è detto fino a qui, ma anche della struttura del paesaggio che va costituendo le prime due Cantiche, che è una struttura a spirale, che è cioè la struttura più caratteristica con la quale viene proposta la dialettica hegeliana. Rifacendosi a Inf. XIV, 124-9, la dantista italoamericana può così esprimersi: Questa combinazione di passato e futuro, vecchio e nuovo, movimento progressivo e regressivo, si trova anche nella spirale, la forma che definisce il viaggio del pellegrino attraverso l'inferno e il purgatorio […] poiché guida e pellegrino viaggiano in spirali, senza mai attraversare l'intero perimetro del cerchio, non si sorprenda Dante se improvvisamente dovesse apparire una “cosa nova”.253

3.2 Il “paradosso” dell'Uno e dei Molti nella Commedia Tematiche hegeliane vengono riprese da Teodolinda Barolini quando si tratta di affrontare la questione teoretica fondamentale del Paradiso. Questa questione – «la domanda ossessiva del Paradiso»254 – deve essere intesa come un vero e proprio «paradosso filosofico» 255, che «si riferisce al disagio e al sospetto in presenza del molteplice» 256; più precisamente, si tratta del «paradosso che la differenza esiste […] ma è inclusa e risulta in una unità che comprende tutto»257. Barolini espone in questi termini il paradosso che, a suo dire – a mio avviso correttamente – pervade la terza cantica: In questo contesto [cioè in Par. VIII] simile significa ripetizione, identità, stasi e morte, l'opposto della differenza che stimola la vita; nel canto VII, in contrasto, simile significa conformità, identità, unità con il – e dunque vita nel – divino-tutt'uno. Il contrasto fra questi canti può essere considerato sintomatico del programma di Dante nel Paradiso, programma secondo cui egli 253

Ivi, p. 43, corsivo mio. Ivi, p. 241. 255 Ivi, p. 240. 256 Boyde P., Dante Philomytes and Philosopher: Man in the Cosmos, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, p. 219. 257 Barolini T., La “Commedia” senza Dio, cit., p. 248. 254

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privilegia alternativamente l'unità e la differenza, nel tentativo di includere entrambe le soluzioni del dilemma, l'Uno neoplatonico/agostiniano e il Molteplice aristotelico/tomistico. 258

Questa posizione di Dante, così bene esemplificata da Barolini, illustra apparentemente la posizione della metafisica epistemica, volta a riconoscere il divenire sulle spalle di un Ordine trascendente il divenire medesimo. E tuttavia la questione non è così lineare. Barolini, infatti, sottolinea non solo che ciò è un paradosso, ma anche – e soprattutto – che per Dante questa mossa epistemica da lui compiuta (in quanto cristiano) nella Commedia è avvertita come un paradosso dall'autore stesso del poema. Dante si rende conto della paradossalità del tentativo cristiano di amalgamare assieme ciò che per la metafisica epistemica è il “rimedio”, con il male/divenire, già a partire dalla prima terzina del primo canto della terza cantica: «La gloria di colui che tutto move/per l'universo penetra, e risplende/in una parte più e meno altrove»259. La gloria è appunto una, è ciò che dà senso, che è stabile e sempre identico a sé; dall'unità del senso auto-identico deriva ciò che imita più o meno accuratamente ciò che è sempre identico a sé, e che per questo non è sempre identico a sé: «Dante vuole rendere non solo la differenza, il più e meno […] ma anche – e questo è molto più problematico – l'unità di Dio, la gloria indifferenziata di “colui che tutto move” e la cui luce abbraccia tutto simultaneamente»260.

Se,

sul

piano

impersonale,

questa

consapevolezza

appare

immediatamente, sul piano dialogico la ritroviamo con la prima anima incontrata nel terzo regno: Piccarda, «la prima dei molti apologeti della differenza dell'esistenza della differenza, del “più e meno”, nel regno di Dio»261. Questa questione, che Dante avverte come cruciale e sommamente problematica – e che per questa ragione fa sì che Dante sappia già (intra)vedere la paradossalità del Cristianesimo: la contraddizione della contraddizione – è una problematica già bene esposta da Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia. Dante si trova infatti davanti al problema di come conciliare l'Assoluto, che non può essere solamente Assoluto, con ciò che è molteplice, particolare, e che per questo pare contraddire l'Assoluto, dato che si pone come altro dall'Assoluto, quando l'Assoluto, per definizione, non potrebbe avere nulla al di fuori di sé. «Nell'Uno i contrari

258

Ivi, p. 267. D., Par. I, 1-3. 260 Barolini T., La “Commedia” senza Dio, cit., p. 243. 261 Ivi, p. 241. 259 Alighieri

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coesistono (e per questo la loro armonia, nell'Uno, è “migliore”, κρείττων; Eraclito, fr. 54); separati dall'Uno, diventano reciprocamente incompatibili, e il venire ad esistere di qualcosa implica l'annientamento o la nientità del suo contrario. Il separarsi dall'Uno, contrapponendosi alle altre parti è infatti lo stesso separarsi dalla propria essenza eterna, eternamente custodita nell'Uno, diventando una accidentalità che, come tale, esce dal proprio niente ed è destinata a ritornarvi»262. «Chiudendo in sé il Tutto e subordinandolo a sé, la hýbris della parte pone sé stessa come fondamento e principio del Tutto. Il pensiero, infatti, può giungere a osar tutto perché avverte come qualcosa di accidentale e di oltrepassabile la propria dipendenza da Tutto»263. La mossa hegeliana consiste, come è noto, nel considerare l'Assoluto come un assoluto pieno, radicalmente diverso rispetto a quello schellingiano, e alla molteplicità senza unità propria della ontologia intellettualistica kantiana. Sappiamo che, per Severino, è proprio questa mossa compiuta da Hegel, volta ad immanentizzare l'Assoluto, a portare Hegel sul crinale che sta tra metafisica anti-epistemica e metafisica epistemica, crinale in definitiva tutto sbilanciato verso Nietzsche, molto più che verso Platone (come dimostra anche il darsi storico della riflessione dell'Occidente sulla sua follia, che proprio a partire dalla riflessione hegeliana si smarca dai retaggi metafisico-epistemici della tradizione greca e moderna). Questo problema paradossale è tuttavia, prima che un problema hegeliano, anzitutto un problema platonico (il riferimento di Dante non è, chiaramente, l'idealismo tedesco, bensì il neoplatonismo). La seconda parte del Parmenide si apre parlando dell'Uno che è e che non sta in relazione agli altri, cioè un Assoluto schellingiano, una notte in cui tutte le vacche sono nere nella quale non è possibile nemmeno dire, di questo uno che è, che è, dato che l'essere implicherebbe la partecipazione dell'Uno a ciò che è altro da sé, cioè all'essere 264; la seconda parte del medesimo dialogo si chiude dando ragione del lato opposto del ventaglio ontologico, quello che vede gli Altri non essere in relazione all'Uno, che non è265. In questo secondo caso si dà la prospettiva “intellettualistica” estrema, che vede una molteplicità illimitata non categorizzabile in alcun modo, non molto differente dalla molteplicità così come è presentata in Par. VII, dove si presenta la caduta dell'umanità che, in quanto tale, non può che essere caduta 262

Severino E., Il giogo, cit., p. 144. Ivi, p. 146. 264 Cfr. Platone, Parmenide 141d-142a. 265 Cfr. Platone, Parmenide 165e-166c. 263

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nella diversità estrema senza la ben che minima unità. Come mettere assieme molteplicità e unità? Come potere affermare senza sentirsi in errore che «Diverse voci fanno dolci note;/così diversi scanni in nostra vita/rendon dolce armonia fra queste rote»266? Che Dante sappia che per il Cristianesimo dall'uno non possa che derivare il molteplice, come prodotto dall'uno e come dall'uno traente senso, è fuori discussione: «Ove è da sapere che la divina bontade in tutte le cose discende, e altrimenti essere non potrebbero; ma avvenga che questa bontade si muova da simplicissimo principio, diversamente si riceve, secondo più e meno, da le cose riceventi»267. Il punto è che, al contempo, Dante si rende conto della paradossalità di questa affermazione che la metafisica cristiana non può non fare. Si rende cioè conto, seppure in modo confuso, che l'Uno deve venire meno, per lasciare spazio alla esperienza originaria del molteplice diveniente. Si rende conto cioè che la differenza non è compatibile e spiegabile attraverso l'Uno, che è soffocata dall'Uno, dal muro di pietra. Se ne rende conto a tal punto che il suo Paradiso sembra sfilacciarsi ogni verso di più, nonostante i tentativi di dargli forma compiuta (i cieli sono molti, così come molti sono i gradini dell'Empireo, e molte e storicamente determinate sono le anime che lo popolano). E può rendersi conto di ciò proprio in quanto, stando egli totalmente entro il paradigma metafisico che domina l'Occidente, ha fede nel (non)fatto che il divenire è l'evidenza originaria, e se ne rende conto a tal punto da far vacillare la fede propria della metafisica epistemica per la quale il divenire non sia l'unico orizzonte incontrovertibile entro la scacchiera del nichilismo. Che Dante consideri il divenire come l'evidenza originaria è bene esposto da Teodolinda Barolini, la quale traccia un rapporto biunivoco tra la narrazione del poeta e il contenuto di quel narrare, che è un contenuto diveniente, storico, dominato dal tempo e dalla diversità: «Tempo e differenza sono esigenze che Dante deve affrontare nella rappresentazione della realtà al di fuori del tempo e della differenza» 268. Secondo Barolini, la contrapposizione tra l'atemporalità e la mobilità del linguaggio, che Dante tematizza, sarebbe a lui pervenuta tramite le Confessioni di Agostino: il linguaggio di Dio, quando risuona nel tempo, è come il linguaggio umano. Altrimenti, la parola di Dio è silenziosa ed eterna, e gli angeli leggono la sua volontà “sine syllabis temporum” 266 Alighieri

D., Par. VI, 124-6. D., Convivio III VII 2. 268 Barolini T., La Commedia senza Dio, cit., p. 244. 267 Alighieri

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(“senza sillabe distribuite nel tempo”, [Conf.] XIII 15) […]. Le nostre parole esistono in sequenza (“ex ordine”, XI 6); la parola di Dio esiste tutta subito e per sempre (“simul ac sempiretne”, XI 7). Dio non è differenza ma identità, mai aliud ma sempre ipsum […]. Le sillabe del tempo, d'altro canto, sono sempre aliud, mai ipsum, sempre differenti e moriture piuttosto che simultanee ed eterne. In questa meditazione, Agostino distilla l'essenza del problema dello scrivere del paradiso: le “sillabe del tempo” o, come diremmo ora, la temporalità del racconto. 269

Non è mia intenzione mettere in discussione tutto ciò. E tuttavia voglio sottolineare che il fatto che Dante avverta in questo discorso una trazione il cui stridore percorre tutta la terza cantica, lo proietta, mediante Agostino, ben oltre quella metafisica epistemica alla quale il vescovo di Ippona è vincolato. Dante sa che Dio per il Cristianesimo non può che essere immobile e uno, e al contempo testimonia, mediante il suo narrare e mediante il viaggio che è il contenuto di quel narrare, il divenire mediante il quale si vuole approssimare all'eterno. Sembra che, inconsciamente, mediante quest'opera di «decronologizzazione»270 che è la Commedia, Dante voglia andare a negare gradualmente l'ente eterno, l'esistenza del quale, per un altro verso, da cristiano egli riconosce come necessaria affinché il divenire possa imporsi come evidenza originaria. «Figurando il suo paradiso, Dante alza incredibilmente la posta della rappresentazione, accingendosi a rendere l'istantaneità di Dio – il suo totum simul – con un linguaggio, con un sistema, cioè, di differenze scandite dalle sillabe del tempo» 271. Nel fare ciò, l'impresa cade nello scacco della irrappresentabilità (“ma v'è dell'ineffabile!”), ineffabilità che riguarda la fede cristiana che Dante non ha saputo lasciarsi alle spalle (la quale fa resistenza alla progressiva conquista dei regni ultramondani da parte del divenire), e che riguarda la parte anti-epistemica che Dante intravede nel suo discorso ma alla quale non sa dare voce esplicita, in quanto non fa mai venire meno la necessità che il molteplice derivi dall'uno, eterno ed immutabile, che garantisce l'evidenza originaria che tiene assieme i due aspetti del discorso dantesco che sul divenire si fonda, essendo un discorso metafisico. Torniamo per questa via al discorso di partenza di questo sottoparagrafo, inerente il rapporto unità/molteplicità nella Commedia. Proprio in quanto in Dante c'è «un'enorme dedizione alla causa della differenza e del pluralismo […] Dante esige il molteplice, la sua poetica 269

Ivi, pp. 234-235. Ivi, p. 233. 271 Ivi, p. 239. 270

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dell'incarnazione, con il forte e caratteristico investimento dell'irriducibile storicità dell'individuo, dipende dal molteplice»272. Non che Dante rinunci a volere fondare tale storicità mediante l'eterno e tuttavia, facendo sì che la storicità permei tutti e tre i regni oltremondani, pone egli stesso le premesse affinché l'intento metafisico epistemico sia destinato a capitolare: «Se non ci fosse il problema del molteplice, della differenza che l'uno deve includere pur rimanendo uno, non ci sarebbe più e meno a rovinare l'unità del paradiso»273. Esplicitamente, Dante da buon cristiano vuole tenere assieme l'epistéme metafisica e l'evidenza originaria del nichilismo, senza riconoscerla come tale, ma dall'altra, riconoscendo la paradossalità del rapporto uno/molti – paradossalità che porterà Hegel ad immanentizzare e, in ultima istanza, a liquidare il Cristianesimo – Dante implicitamente pone tutte le premesse per rifiutare quel soffocante muro di pietra che impedisce la storia: «È proprio la capacità di conservare la storicità che rende la differenza un bene al quale non si può rinunciare – nemmeno in paradiso»274. 3.3 Lukács interprete di Dante Una interpretazione di Dante che può venire incontro alla lettura che qui si sta proponendo, è esposta da Lukács, in Teoria del romanzo. In questo testo l'autore, dopo avere inteso il romanzo come il luogo in cui «la viva immanenza del senso diventa problematica» 275 a causa della frattura che è venuta creandosi tra io e mondo, tra fattualità e filosofia della storia, sostiene che, nel romanzo – che risulta essere la forma artistica paradigmatica della modernità – l'assoluto non può pensare di vincere se non perdendo, si sostiene cioè che l'uomo moderno, il protagonista del romanzo, può trovare, nella trascendenza, un senso solo in negativo, solo sulla base della consapevolezza della sua assenza nell'immanenza. Dopo avere delineato questa tesi di fondo, Lukács fa riferimento al «balzo dalla Vita nuova alla Divina Commedia»276, intendendolo come il balzo che porta paradossalmente nella dimensione romanzesca la stessa Commedia proprio perché, nel poema in questione, a detta di Lukács emergerebbe già chiaramente l'esigenza, tutta moderna, di respingere la trascendenza in nome di una alterità sensata proprio in quanto radicalmente alternativa all'immanenza privata del senso; Dante 272

Ivi, p. 242. Ivi, p. 241. 274 Ivi, p. 268. 275 Lukács G., Teoria del romanzo, cit., p. 49. 276 Ivi, p. 46. 273

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avrebbe relegato il senso in un orizzonte altro e negativo in modo più radicale di quanto non venga attestato nell'opera shakespeariana: «epica è vita, immanenza, empiria, e il Paradiso di Dante è più affine all'essenza della vita [che è scissione, divenire, assenza di stabilità] che non la traboccante pienezza di Shakespeare»277. In Dante viene perduta l'organicità immanente tipica dell'epos greco, che poteva ancora riflettere un senso immanente al reale, in favore di «vere e proprie parti ordinate gerarchicamente»278, attraverso le quali vengono rappresentati atti di «resistenza» operati da individui intesi come diversi, separati da un mondo che li esclude dal senso, che il mondo stesso non possiede proprio in quanto è inteso come alterità rispetto al senso medesimo. Questi atti di resistenza si concretizzano mediante il viaggio, ossia nell'apertura utopica atta a riaffermare l'evidenza della scissione in modo tanto più forte quanto più fortemente emerge la mancata conciliazione tra l'individuo e l'orizzonte entro il quale l'individuo si muove. «Nel mondo di Dante l'immanenza del senso della vita è, sì, presente e puntuale, ma nell'aldilà: è la perfetta immanenza del trascendente»279. 3.4 «Sola nel mondo eterna, a cui si volve/ogni creata cosa,/in te, morte, si posa/nostra ignuda natura»: le mummie di Federico Ruysch e i personaggi della Commedia si confrontano con il problema della morte La vita, per chi è vivo, per chi è, come Dante, homo viator, è «stupenda» in quanto suscita stupore. È questo che dice il coro dei morti che canta la sua verità all'inizio del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie di Leopardi. Questa vita è detta essere stupenda proprio in quanto è insicura, ed è insicura proprio in quanto non sa cosa sta oltre sé, proprio in quanto brancola nel buio; in questo quadro la speranza dell'eterno si dà solo, come osservato nell'interpretazione luckácsiana di Dante, in assenza di luce, ma quel che conta è che in assenza di luce si dia questa speranza; quel che conta è che, oltre la vita, la scissione tra vita e mondo possa, in negativo, ricomporsi, nonostante la scissione tra questa stessa vita e il mondo che segna il destino terreno di quell'homo viator che è il protagonista del romanzo. Questa vita, oltrepassando sé, diventa «non lieta», ma «sicura» del fatto che «Il nulla, ormai, è sicuro, non è

277

Ivi, p. 47. Ivi, p. 61. 279 Ivi, p. 52. 278

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insolito, non stupisce, è lo stato originario e naturale delle cose (“Tutto è nulla”, P72)»280. Se per i vivi lo stupore terrifico dello thaûma è il nulla entro il quale gli enti vanno, morendo, per il «coro dei morti», che nell'opera leopardiana si leva in piedi e canta la coscienza del giocatore nero, lo thaûma non è più la morte, bensì la vita. E la vita può essere la fonte dello thaûma se e soltanto se la vita si smarca dalla fede nell'epistéme: “Che fummo?” – si domandano i morti. La domanda non significa soltanto “Che cosa siamo stati?”. Ma anche, e innanzitutto: “Perché siamo stati invece di essere rimasti il niente in cui sorge effimera l'esistenza?”281

Il “Giudizio Universale” messo in scena da Leopardi si trova al culmine dell'autocoscienza dell'Occidente. I morti riprendono le loro «stole» di carne, e cantano l'eternità della morte, poiché sanno che la morte è l'eterno, che la morte è l'unico eterno. I morti leopardiani si alzano in piedi cantando l'infinità e la necessità della morte, che è il nulla, proprio in quanto tematizzano concettualmente il crollo dell'epistéme e vedono nella vita, e non nella morte (cioè nel nulla, come ritiene invece il giocatore bianco), l'unico arcano, giacché, venuti meno gli eterni, l'identificazione di essere e nulla fa sì che l'oscillare dell'ente tra l'essere e il nulla risulti stupendo in quanto, per un certo tempo, ritarda quell'identificazione che l'essenza del nichilismo cantata dai morti afferma già da subito: «Cosa arcana e stupenda/oggi è la vita al pensier nostro». Si cercherà di dimostrare che la centralità che, nella Commedia, ha la resurrezione dei corpi collocata nel momento del Giudizio Universale anticipa già, per quanto in modo del tutto mascherato, la verità del canto dei morti del Giudizio Universale così come è inscenato nel leopardiano Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Cerchiamo dunque di capire cosa è la morte per Dante, e quali sono i rapporti tra la morte e l'ontologia che Dante, a partire dalla sua coscienza greca, nella Commedia sviluppa. All'inizio della Commedia si afferma che la «selva selvaggia», che è oscura e bassa come una valle, e che quindi simboleggia, all'interno dell'atmosfera vaga e onirica del primo canto, la lontananza da Dio, è qualcosa di molto “amaro” ma non tanto amaro quanto amara è la morte. La morte è più amara della selva, dunque la selva, che pure è amara, non coincide con la morte. La selva è altro dalla morte. Si potrebbe osservare che lo scarto tra le due, e la conseguente minore 280 281

Severino E., Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi, cit, p. 21. Cfr. Ivi, pp. 19-27.

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amarezza della prima rispetto alla seconda, è giustificato dal fatto che, quando si è nella selva, pur avendo smarrito la via che conduce al divino che salva, non la si è perduta; stando nella selva si è cioè ancora in tempo a ritrovare la via che salva per sempre dall'annientamento. La morte, invece, consiste nella definitiva perdita di speranza di ritrovare la diritta via, cioè di riconciliarsi con Dio che dà potenza, che dà salvezza. Questa posizione non è del tutto scorretta: l'Inferno infatti, pur essendo popolato da personaggi per certi versi ancora storici, vivi, partecipi delle vicende terrene, ancora immersi nella temporalità (temporalità che verrà invece meno dopo che le trombe del Giudizio Universale risuoneranno), differiscono da un elemento fondamentale dai vivi: i dannati, a differenza dei vivi, non hanno più libertà di scelta, non hanno più la possibilità di ritrovare la via che hanno smarrito e che, per questo, per loro è definitivamente perduta. I dannati non hanno più la speranza di poter riconciliarsi con Dio e dunque di soddisfare il desiderio che solo la riconciliazione con Dio, ottenuta mediante il libero arbitrio, può concedere («che sanza speme vivemo in disio»282): «Questo inferno infatti non è abitato da esseri non simili a noi, estranei e distorti dalla nostra realtà. Essi vivono le nostre stesse passioni terrene in un ambiente che a quello terreno è pur analogo […] ma quelle passioni sono divenute la loro condizione eterna, senza più possibilità di scelta»283. I dannati che Dante incontra (Dante non incontra il peccato, ma sempre il peccatore, che si descrive a partire dalla sua terra natia, dalle sue passioni politiche, dal suo lavoro, insomma da tutto ciò che lo caratterizzava e che ancora lo caratterizza e che lo caratterizzerà per l'eternità) sono degni di essere compatiti da Dante proprio in quanto questi dannati non sono diversi da Dante, ma sono ancora immersi nel divenire, nella storicità. È pur vero che ora il divenire che li tormenta è cieco, non lascia più la possibilità di scelta, li schiaccia totalmente su un destino cieco in quanto immodificabile, ma è anche vero che, nell'inconscio del contenuto del poema, così come i dannati sono schiacciati su questo destino, così i beati che a rigore dovrebbero essere salvi, sono nel centesimo canto schiacciati dal muro di pietra che li abbraccia in modo mortifero nell'Empireo. Così i due cognati del quinto dell'Inferno sono ancora insieme, e lo saranno per l'eternità, proprio perché nell'eterna loro punizione loro devono perpetuare ciò che liberamente hanno scelto in vita. 282 Alighieri 283

D., Inf. IV, 42. Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Alighieri D., Commedia. Inferno, cit., p. 80.

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I dannati sono invischiati in ciò che hanno scelto e che li ha condotti alla dannazione, senza più possibilità di sottrarsi a quella scelta, ormai diventata un obbligo (un altro muro di pietra) inderogabile. Questo perpetuarsi che più non offre speranza alcuna proprio perché ormai del tutto separato della libertà che essenzialmente compete agli uomini vivi, è ciò che rende la morte più amara dalla vita dell'uomo perduto. L'uomo perduto ma vivo non è schiacciato dalla necessità del perpetuarsi di quella che fu la sua scelta, ma è ancora libero di emanciparsi da questa scelta. Beati e dannati non hanno più scelta, con la differenza che i beati gioiscono di questa necessità che li sovrasta, ne sono appagati, mentre i dannati la patiscono doppiamente, in quanto questo loro patirla passivamente è anche un detestarla moralmente e, dal secondo cerchio, fisicamente. C'è da dire, comunque, che questa differenza tra i beati e i dannati si rivela essere una differenza in fin dei conti superficiale dal punto di vista di una coscienza come quella cristiana, che nel suo profondo crede che la salvezza consista nell'esercizio della potenza tanto voluta, e dunque nella libertà di agire e di imprimere liberamente questa potenza sul mondo: il beato non si rivela essere colui il quale, mediante l'alleanza con Dio e concessa da Dio, riesce a sollevarsi al di sopra del divenire, imponendosi sul divenire. Il beato risulta essere invece colui il quale, nell'alleanza con Dio, cede tutto a Dio, diventando – in quanto determinazione particolare – tanto impotente quanto il dannato. Se essere impotenti significa – secondo le categorie ontologiche greche – essere nulla, allora tanto il dannato quanto il beato si identificheranno con il nulla. E tuttavia questa lettura della morte che, nel caso del dannato (ma – ed è questo ciò che i più non vedono – anche nel caso del beato) schiaccia e rende impotenti, e che è bene espressa dall'atteggiamento di Ciacco in conclusione del suo discorso284, non tiene conto dell'atteggiamento ancora umano, ancora partecipe e quindi libero dei dannati, che – in virtù della partecipazione alla storia che ancora manifestano da morti – escono da questo loro perpetuare necessitato la scelta alla quale essi hanno aderito e alla quale sarebbero condannati, nella superficie del discorso cristiano, dopo la morte. I dannati sono anche creativi, partecipi, non sordi ai cambiamenti e alle preoccupazioni che esulano il “già compiuto” che è il loro dramma infernale. Questo lo riconosce la stessa Chiavacci Leonardi, affermando che Francesca, nel suo dialogo con Dante, «esce in un certo senso dal chiuso cerchio infernale» per

284

Cfr. Alighieri D., Inf. VI, 91-3.

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mettersi «sullo stesso piano» dei «vivi»285. E d'altronde è esplicitamente riconosciuto che nello stato di dannazione viene sì meno la speranza di potersi ricongiungere con Dio, ma non viene mai meno il «disio», la volontà, che è volontà di potenza; là dove c'è volontà, c'è già l'esercizio di una potenza che non è schiacciata dal nulla della morte o dal muro di pietra che fa cadere la determinazione nel nulla in relazione alla sua pienezza: permane l'atto (la prassi) di voler volere. Ciò traspare per esempio dalla preghiera di Francesca: «se fosse amico il re de l'universo,/noi pregheremmo lui de la tua pace»286. Allo stesso modo, in Inf. IX, 94-6 il messo giunto dal Paradiso all'Inferno per soccorrere Dante rimprovera i diavoli ed interviene contro di essi in conseguenza del fatto che essi hanno potuto, non meno del vivo Ulisse, nonostante fossero all'Inferno, ribellarsi al volere di Dio: il messo sopprime l'infrazione delle leggi divine dopo che queste leggi sono state infrante. Se dunque intendiamo con il termine “morte” il venir meno della volontà di potenza (che è già un agire in quanto volontà di volontà), non possiamo a rigori ritenere, stando a quanto si è argomentato, che la condizione dei dannati sia una condizione di morte amara, cioè non possiamo ritenere che i dannati siano nulla assoluto anche se, nella (in)coscienza cristiana, proprio un nulla assoluto dovrebbero essere tutti quegli uomini che non si sono riconciliati con Dio, nella misura in cui Dio è quell'unico ente che permette ai morti di sollevarsi al di sopra del nulla relativo nel quale, con la morte, senza l'appoggio di Dio si è destinati a cadere. Dovremmo anzi riconoscere che sono ben più morti dei dannati, i beati del Paradiso: nei beati infatti non solo vien meno la «speme», ma vien meno anche il «disio», come si dirà in Par. XXXIII; da ciò deriva che, nel caso dei beati, viene autenticamente meno ogni volontà di potenza, qui sì la dolce vita cede il passo alla amara morte, per quanto anche qui, disseminati nei cieli tolemaici, anche i beati non sono annichiliti dalla luce di Dio (mantenendo una loro determinatezza, una loro storicità), per non parlare del fatto che Maria può rompere le leggi divine, cioè può fare quel gesto tecnico per eccellenza che consiste nello sgretolare il muro di pietra, «sì che duro giudicio là su frange»287. La tesi esposta da Chiavacci Leonardi, per la quale la morte coincide con la dannazione in quanto priva del libero arbitrio, pur dando prova di comprendere l'importanza che ha il libero arbitrio – cioè della volontà di potenza – per la tradizione cristiana, incappa nei problemi ora 285

Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Inf. V, 93, nota. D., Inf. V, 91-2. 287 Alighieri D., Inf. II, 96. 286 Alighieri

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illustrati, ed in particolare cade nella necessità di dover intendere il cadere nell'Inferno come un annullarsi, in quanto solo l'annullarsi priva della volontà di potenza. Ma questo non può essere accettato, come la stessa Chiavacci Leonardi constata in svariate occasioni, come per esempio nella nota a Inf. III, 46; nei confronti della affermazione che Virgilio dà in questo verso («Questi [i pusillanimi] non hanno speranza di morte»), Chiavacci Leonardi afferma, richiamandosi a Inf. XIII, 118, che nessuna anima dell'Inferno muore (cioè, si annulla: a tal proposito Purg. XVII, 36 ci dice che, nonostante il desiderio dei suicidi sia quello di trovare, attraverso il suicidio, l'annullamento di sé, tale annullamento non lo si trova perché la morte, compresa quella che ci si dà da sé, non porta all'annullamento di sé), e quindi afferma che non solo le anime dei pusillanimi non cadono nel nulla assoluto, giacché questo è un destino che riguarda tutte le anime dell'Inferno: Virgilio, parlando di “morte” in riferimento ai pusillanimi, intende quindi dire che questi dannati non possono essere annullati, ed intende dire che le pene degli altri dannati, che non sono nulla nemmeno loro, sono meno forti di quelle dei pusillanimi, e quindi intende dire che la condizione di tutti i dannati, compresi questi dell'anti-Inferno, è migliore, meno amara, della condizione dell'annullamento, che non riguarda nessun dannato. Che cadere nell'Inferno non significhi, per Dante, annullarsi, e che quindi i dannati mantengano un certo grado di volontà di potenza (un grado superiore a quello che possono vantare i cosiddetti beati), è chiaro a Severino. Nell'Inferno viene mantenuto il distacco tra l'uomo e Dio, distacco necessario affinché la volontà di potenza dell'uomo non venga soffocata nell'abbraccio mortale del muro di pietra, ma al contempo nell'Inferno non si perdono totalmente i contatti con Dio, cosa che se si avverasse determinerebbe quell'annullamento nel quale consiste la morte intesa in senso forte (morte come cadere nel nulla assoluto), come la cosa più «amara». Che permanga una certa qual connessione tra uomo e Dio, necessaria affinché per i cristiani si dia la salvezza – dai cristiani intesa come traduzione in atto della volontà di potenza –, è chiaramente espresso in Inf. VI, 103-111; a garantire il mancato annichilimento dell'ente dopo la morte ci pensa il fatto che, con il Giudizio Universale, l'ente anche dannato acquisterà maggiore essere, e per questo, maggiore tormento, rispetto a quello che non aveva già prima: «“Maestro, esti tormenti/crescerann’ei dopo la gran sentenza,/o fier minori, o saran sì cocenti?”/Ed elli a me: “Ritorna a tua scienza,/che vuol, quanto la cosa è più perfetta,/più senta il bene, e così la doglienza./Tutto che questa gente maladetta/in vera

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perfezion già mai non vada,/di là più che di qua essere aspetta”»288. La “morte” dei dannati non è dunque la morte amara che il Cristianesimo teme, cioè la morte che annulla l'ente, che annulla la volontà di potenza dell'ente, che annulla la salvezza dell'ente. L'annullamento viene meno quando viene meno il divenire, la storia, ma nell'Inferno non viene meno il divenire. Nell'Inferno, invece, viene allentato, ma non estinto, il rapporto con Dio, laddove Dio è ciò che consente il divenire, nella misura in cui la presenza di Dio non si fa totalizzante; il divenire viene meno laddove Dio sparisce del tutto (ma, come si è detto, non è il caso dell'Inferno), laddove, nella coscienza cristiana, è solo mediante l'alleanza con Dio che può darsi potenza e dunque divenire (potenza è sempre potenza sul divenire), e il divenire viene meno laddove Dio si afferma come Dio, cioè come assoluto che non ha nulla fuori di sé e che assorbe in sé ogni determinazione, negandola in quanto determinazione (la celebre notte in cui tutte le vacche sono nere). Se non fosse per l'assenza di libero arbitrio che per lo più intrappola le anime nel turbinio della necessità alla quale non possono più sottrarsi, si potrebbe dire che l'Inferno coincide (ma per le ragioni che si sono dette l'Inferno dantesco, sfornito di libertà, non coincide) con il paradiso della tecnica. Oltre il Cristianesimo, il paradiso della tecnica vede nell'allentamento dei rapporti con Dio il motore che incrementa la potenza, e che dunque incrementa la salvezza che la civiltà della tecnica, come il Cristianesimo, identifica con la volontà di potenza (non è a dire il vero impossibile intravedere nella “futuristica” città di Dite una sorta di distopica città dei giorni nostri). Ribadiamolo: nonostante il Cristianesimo senta il bisogno di allearsi con Dio, già scopertamente, con la Commedia, si tematizza il fatto che l'alleanza con Dio non può essere troppo stretta. Insomma già nella Commedia l'epistéme viene intesa come un mezzo necessario per prevedere il mondo ma che, al contempo, rischia di negare il mondo, laddove l'epistéme si imponga come assoluto, a scapito degli enti particolari (essi soltanto divenienti). Non è un caso che l'esistenzialismo, ponendosi al culmine dell'autocoscienza nichilistica dell'Occidente, intenda l'assoluta alterità rispetto agli enti come un nulla (rispetto agli enti medesimi): «Heidegger sottolinea con forza che la nullità – trascendenza, differenza – dell'essere rispetto all'ente è la luce in cui gli enti si manifestano, ossia è l'apparire, il mostrarsi degli enti. La luce dell'apparire non produce gli enti, è impotente rispetto a essi, li “lascia essere” e li lascia 288 Alighieri

D., Inf. VI, 109-11.

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vedere. La luce dell'essere lascia essere gli enti che si mostrano in sé stessi»289. Dire che l'annullamento non si ritrova passando per la morte che porta all'Inferno, non significa dire che la paura della morte, intesa come paura dell'annullamento, esca dagli orizzonti del contenuto della Commedia. Al contrario, perpetuando il divenire nell'oltretomba, Dante perpetua eternamente il timore che il divenire sempre comporta, anche se non ci si può sottrarre ad esso, che è esattamente quel timore sommo che l'annullamento dell'ente implica. Questa fede nel fatto che l'ente è un continuo sporgere dal nulla minacciato dal nulla dal quale sporge – fede che si perpetua nell'oltretomba –, è consolidata, osserva acutamente Severino, dalla concezione cristiana che pur non si limita ad affermare l'immortalità dell'anima, ma proclama la resurrezione dei corpi. Il cristianesimo pensa infatti che alla fine dei tempi la terra e il cielo saranno “nuovi”, usciti dal nulla, e che i “vecchi” saranno andati definitivamente nel nulla – come nel nulla se ne sarà andato il nostro corpo attuale, cioè il “seme” (dice l'apostolo Paolo) che deve annientarsi affinché possa germogliare la pianta del nuovo corpo glorioso. […] Anche per la scienza e la tecnica, come per l'Apocalisse cristiana, il prolungamento della vita cresce sull'annientamento della vita “vecchia” dell'uomo. L'annientamento è la condizione del prolungamento dell'esistenza.290

3.5 «Il convento delle bianche stole»: Giudizio Universale e resurrezione dei corpi Il rinnovamento del corpo dà potenza, conferisce nuovo essere tanto ai “morti” dell'Inferno, quanto ai beati del Paradiso i quali, proprio nel momento del loro annientamento nell'omogeneità della luce di Dio che soffoca ed immobilizza ogni determinazione, ottengono tutta la concretezza che serve loro per liberarsi dalle annichilenti strette maglie dell'epistéme/Dio. Tutto ciò ha, a pensarci bene, dell'incredibile: la Commedia è la storia di un corpo vivo, che fa ombra, che pesa, e che suscita continuamente stupore in quelle «vanità» 291, in quelle «ombre vane»292, che sono tali nell'oltretomba fino al momento del Giudizio Universale, a causa della sua concretezza. È appunto con questa concretezza, che sarà propria 289

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 365. Severino E., Immortalità e destino, cit., pp. 16-17. 291 Alighieri D., Inf. VI, 36. 292 Alighieri D., Purg. II, 79. 290

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di tutte le anime (e che è già, prima del Giudizio, propria di Gesù e di Maria) che Dante, portando nei regni dei morti la storia che quel corpo implica, percorre il suo viaggio orizzontale, dal centro dell'universo fino al (non)punto più alto che l'universo contiene. In questo viaggio il tempo e la storia sono da Dante continuamente allontanati, e con essi il divenire che la storia comporta, ma sempre ed inesorabilmente di nuovo affermati. Prima nell'Inferno e nel Purgatorio la storia può essere ancora giustificata per il semplice fatto che questi mondi sono ancora terrestri, non così difficili da raggiungere da un mortale munito di una tecnologia semplice come una solida imbarcazione e di una volontà di potenza abbastanza forte da permettere di fare uno sgarbo a Dio (si veda a tal proposito l'impresa di Ulisse o la celebre sentenza di Minosse il quale dicendo «non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!» 293 sottende che anche per un corpo vivo è tutto sommato facile entrare nell'Inferno, per quanto ben più difficile sia uscirne fuori). Con il “trasumanare” del corpo vivo verso il cielo le cose sembrano cambiare: qui i mezzi umani non bastano, qui la terra si allontana sempre più, e con lei le vicende storiche degli uomini. E tuttavia i primi tre cieli tolemaici, toccati dal cono d'ombra della Terra, devono proprio per questa ragione presentare un qualche legame con essa, e quindi con il tempo che essa incarna. Dopo questi tre primi cieli le cose sembrano finalmente cambiare, ma in realtà non si entra ancora in una dimensione di indifferenza storica; al contrario, gli spiriti che abitano i cieli che vanno dal quarto al sesto sono stati attivi nella storia, e non risparmiano strali appassionati contro la situazione storica che si è creata in terra (si pensi alle fortissime invettive contro la Chiesa avignonese e corrotta che proprio nel Paradiso si fanno sentire più forti che mai). Il silenzio che accoglie il viaggiatore nel settimo cielo sembra costituire quel tanto agognato distacco dalle vicende terrene, ossia dalle vicende storiche: «Dante, lasciando sotto di sé i ben noti, fidati cieli dei pianeti, si innalza fino al firmamento, il cielo Stellato, il primo dei tre cieli superiori, dove non s'incontreranno più beati con cui familiarmente conversare, dove cioè si è oltrepassato un limite, di spazio e di tempo, oltre il quale la storia non è più operante, ma vista come lontana»294. Tale distacco dal «mortal mondo»295, però, per l'ennesima volta, non avviene, come non avverrà nemmeno nei due cieli successivi, proprio perché questi sono ancora cieli materiali, 293 Alighieri

D., Inf. V, 20. Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 392. 295 Alighieri D., Par. XXV, 35. 294

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legati alle vicende terrene e che, anzitutto, queste vicende terrene vanno ad influenzare. L'ultima occasione per giungere a questo distacco dalla storia, dal divenire, dal pericolo dell'annullamento, è dato a Dante nell'Empireo, dove per l'appunto si dà quell'abbraccio non certo salvifico in Dio di cui si è detto nei sottoparagrafi precedenti: «L'uomo è evidentemente creatore; dunque richiede quel vuoto, reso impossibile dal Pieno assoluto [che è Dio], senza di cui la creazione umana sarebbe impossibile»296. E tuttavia proprio qui nell'Empireo – dove pare che questo (autolesionistico) obiettivo epistemico mirante alla eliminazione del divenire a discapito della determinazione dell'ente, soffocata in quel Dio in cui la determinazione “beata” “s'inventra” – emerge la questione delle «bianche stole», trattata costantemente da Dante in tutto il poema e che proprio sul finire della Commedia deflagra in tutta la sua concretezza, riportando la concretezza, anzi la più estrema concretezza che si sia trovata in tutta la Commedia, proprio lì dove il legame con il divenire, con la concretezza della determinazione, dovrebbe essere stato definitivamente reciso. «Lo sguardo rivolto, alla fine del canto XXII, ai pianeti sottostanti e alla piccola terra al centro di essi, segna il distacco, quasi un addio, del pellegrino del cielo al mondo della storia»297, distacco che pare suggellato dalla grande similitudine di Par. XXIII, 1-12, ma che in realtà così non è. È questa la follia (della Follia), la contraddizione (della Contraddizione), che da un lato fa dire a Dante, in questo frangente rigoroso sostenitore della tesi cristiana più ingenua, che nell'Empireo non c'è moto e dunque divenire 298, ma che assieme gli fa dire, in questo frangente in modo più consapevole della radice tecnica del Cristianesimo, che in quello stesso Empireo si ha l'affermazione più radicale del principio di individuazione, della autonomia ontologica dei corpi nuovi e risorti dal divino, che va al di là della passiva loro concordanza necessitata, che significherebbe la ricaduta nel terrore dell'annichilimento e cioè dell'impotenza assoluta. Affermare il principio di individuazione nel luogo sommamente illuminato da Dio significa già uccidere Dio. È precisamente in questo modo che la voce della coscienza del cristiano cantore della Commedia si identifica con la voce, narrata da quello stesso narratore, che è la voce del magnanimo Ulisse. La questione relativa alla resurrezione dei corpi, della quale ora ci tocca parlare, ha una grande importanza per il Cristianesimo in generale, e per Dante in particolare; egli nella 296

Severino E., Immortalità e destino, cit., p. 13, corsivo mio. Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 410. 298 Cfr. Alighieri D., Par. XXII, 61-6. 297

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Commedia solleva il tema teologico della resurrezione dei corpi che ha da avvenire dopo il Giudizio Universale, e dunque solleva il tema dell'importanza del corpo per i cristiani, in modo costante, quasi ossessivo; l'importanza che questo tema ha per Dante è dimostrata dal fatto che egli indica nel termine ultimo della «speme» (e la virtù teologale della speranza è tutto, per i cristiani, tanto che il vero tormento infernale è sempre l'assenza di speranza, e solo secondariamente e del tutto accidentalmente si può dire “tormento” il dolore provocato dalle sofferenze del corpo fisico) proprio la resurrezione dei corpi, nella beatitudine eterna299. 3.6 Il ruolo della corporeità nella Commedia dantesca Dante-personaggio è spesso soverchiato dalla sua corporeità la quale, talvolta, prende il posto della sua stessa personalità; la corporeità del poeta narratore talvolta interagisce con le anime al posto e prima di Dante stesso, anime che, a loro volta, sono individuate come corpi al negativo, come vanità che hanno lasciato il loro corpo in terra ma che, indipendentemente dal fatto che si ritrovino nell'Inferno o nel Paradiso, con il loro corpo, al suonare delle trombe del Giudizio Universale si riconcilieranno con esso. Nel Purgatorio, invece, di corpi non se ne troveranno più, per il semplice fatto che alla fine dei tempi il Purgatorio si svuoterà, e non è infatti un caso che il Purgatorio sia il più terreno dei regni, legato allo scorrere del tempo, misurato dal moto dei pianeti in modo identico a come quegli stessi pianeti misurano lo scorrere del tempo nell'emisfero boreale. Del corpo, però, non è in possesso solo Dante, nell'aldilà, ma anche Cristo e Maria, i due personaggi più vicini a Dio che si trovano nella Commedia, e che sono muniti di corpo prima ancora della fine dei tempi. E il possesso di quel corpo risplendente da parte di Cristo è ciò che ne indica, nel modo più evidente, la loro potenza. Narrando della discesa del figlio di Dio nell'Inferno, discesa già narrata nel Vangelo di Nicodemo, Dante caratterizza non a caso Cristo come un «possente»300, identificando la sua potenza con l'amore, concesso agli uomini attraverso un atto libero, gratuito, cioè appunto attraverso un atto d'amore. Solo in questo amore, che è la libertà ed è la potenza di Cristo, può darsi, come effettivamente si dà, la possibilità della salvezza, che è salvezza dal nulla, e che gli uomini fanno propria, perpetuandola, attraverso l'imitazione della potenza di Cristo, cioè attraverso l'imitazione di 299

Cfr. Alighieri D., Par. XXV, 88-96. D., Inf. IV, 53.

300 Alighieri

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quel libero amore che a Cristo conferisce potenza, che è anzitutto la potenza di salvare dal nulla l'ente ontologicamente più “pieno”, ossia l'ente costituito e dall'anima e dal corpo. È per questa ragione che la potenza di Cristo viene esplicitamente connessa alla capacità di salvare anima e corpo dal nulla: i corpi e le anime salvate dal nulla assoluto (dalla morte amara) sono quelle degli uomini (di tutti gli uomini, compresi i dannati!), ma anzitutto l'anima ed il corpo salvati dal nulla sono quelli di Cristo stesso il quale, come si è detto, dimora in cielo con il suo corpo: «e per la viva luce trasparea/la lucente sustanza tanto chiara/nel mio viso, che non la sostenea»301. «“Modicum, et non videbitis me;/et iterum”, sorelle mie dilette,/“modicum, et vos videbitis me”»302. Che Paolo, nel suo viaggio in Paradiso, avesse avuto il corpo, il cristiano Dante non ne ha prova certa. Ma «non Paulo» Dante è, in quanto egli, a differenza di Paolo e in accordo con il «giusto/figliuol d'Anchise»303, per tutto il suo viaggio «fu sensibilmente»304 (cioè con il corpo) e questa corporeità del viandante non manca di essere sottolineata ogni momento da Dante stesso. Proprio prendendo come termine di paragone il suo corpo, in positivo, Dante sottolinea la (non)corporeità degli altri personaggi danteschi, per lo più in negativo; ed è per questo che le anime dell'Inferno e del Purgatorio (ma anche i guardiani dei primi due regni) con sgomento si accorgono del fatto che Dante respira, che pesa agli «omeri forti» 305 di Gerione e alle barche che lo trasportano, e si accorgono che fa ombra, e che necessita di dormire, e che può venir reso «di smalto»306 proprio in quanto ha un corpo che di smalto può diventare, e che non può abbracciare, e che a causa di «quel d'Adamo» 307 può dividere il fumo purgatoriale degli iracondi e per tutte queste ragioni le anime lo circondano, lo pregano di mantenere un contatto tra il loro tempo necessitato e il tempo segnato dalla libertà dei vivi, e lo pregano di far sì che i vivi preghino per loro; proprio in quanto Dante ha il corpo, nel Purgatorio gli si ammassa tutto attorno una «turba spessa»308 di gente, come quella che si ammassa attorno al giocatore del gioco «de la zara»309 quando vince, eccetera eccetera. 301 Alighieri

D., Par. XXIII, 31-3. D., Purg. XXXIII, 10-2. 303 Alighieri D., Inf. I, 73-4. 304 Alighieri D., Inf. II, 15. 305 Alighieri D., Inf. XVII, 42. 306 Alighieri D., Inf. IX, 52. 307 Alighieri D., Purg. IX, 10. 308 Alighieri D., Purg. VI, 10. 309 Alighieri D., Purg. VI, 1. 302 Alighieri

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Per quel che riguarda il corpo degli altri personaggi della Commedia, si pensi all'attenzione ricca di pathos che viene riservata al corpo sepolto di Virgilio e di Manfredi, nell'antipurgatorio, alla tristezza che la profanazione dei cadaveri mette addosso al cristiano, al dramma che si compie quando il diavolo profana il corpo di Buonconte da Montefeltro, e all'ancora più drammatica consapevolezza che, a causa del loro gesto malsano, i suicidi non potranno ricongiungersi con il loro corpo, che pure verrà rinnovato anch'esso, giù tra la selva cantata nel tredicesimo canto dell'Inferno. Che nei primi due regni oltremondani ci sia andato con il suo, di corpo, Dante non dà mai da dubitare. Più problematica è la questione nel Paradiso dove, sulla scorta dell'avventura paolina nell'oltretomba, Dante mantiene un certo riserbo. E, tuttavia, un indizio (che è quasi una certezza) a favore della tesi per la quale Dante sia andato anche in Paradiso con il suo, di corpo, lo traiamo da Par. XXII: «Questo passo viene così a confermare la presenza del corpo di Dante nella sua salita al paradiso proprio nel momento in cui si lasciano i cieli dei pianeti e si entra nell'ultima regione, quella dei due cieli, lo Stellato e il Cristallino, non più abitati dalle anime degli uomini, dove la scena cambierà del tutto» 310. Questi corpi che popoleranno ed anzi costituiranno la «candida rosa» dell'Empireo – a immagine di Cristo – saranno diversi rispetto a quelli che gli uomini hanno prima della rinnovazione offerta dalla resurrezione: il corpo umano risorto, come quello assunto da Cristo, diventerà un «corpo spirituale». «Queste qualità del corpo risorto del Cristo erano attribuite dalla teologia ai corpi di tutti i risorti alla fine dei tempi sulla base di 1 Cor. 15. E qui appare che il corpo che Dante immagina di portare nella sua ascesa al cielo è pensato simile […] a quello glorioso di Cristo e dei beati»311. Il cielo Empireo è un non-luogo, sta fuori dallo spazio e dal tempo, quindi la storia e la corporeità non appartengono alla dimensione dell'Empireo, a meno che non si voglia cadere in contraddizione ed affermare l'esistenza del corpo al di fuori dello spazio e del tempo. E tuttavia Dante scrive: «Qui vedrai l'una e l'altra milizia [quella umana e quella angelica]/di paradiso, e l'una in quelli aspetti/che tu vedrai a l'ultima giustizia» 312. In questa terzina è contenuto l'oltrepassamento del principio di non contraddizione, che Dante vorrebbe ricondurre a una insufficienza psicologica e gnoseologica dell'uomo, e non ad una falla dell'ontologia sulla quale il pensiero cristiano (meglio: occidentale) si erge. In questo passo del Paradiso si dice infatti 310

Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Par. XXII, 103-5, nota. Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Par. II, 41, nota. 312 Alighieri D., Par. XXX, 43-5. 311

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che proprio in quella «luce intellettual» estranea al tempo e allo spazio, cioè nell'Empireo, è posta la «carne gloriosa e santa»313 che costituisce la candida rosa, che non può più intendersi come una mediazione letteraria atta ad introdurre la sensibilità e il principio di individuazione là dove sensibilità e principio di individuazione mancano, solo per esigenze di ordine narrativo, come invece accadeva nei cieli tolemaici. Qui, al contrario, l'introduzione nell'Empireo del principio di individuazione risponde a una esigenza di ordine ontologico. Senza la carne, che per forza di cose sta nello spazio e nel tempo, non c'è salvezza. L'unico modo per sottrarsi dall'annientamento è l'azione, e l'azione non può che esercitarsi nello spazio e nel tempo. Venuto meno il tempo, viene meno la possibilità della salvezza, la possibilità dell'azione, la possibilità di giustificare l'essenza dell'ente, che è quella di oscillare tra essere e nulla, in un tempo che solo può ricevere, senza contraddizione, questa oscillazione tra le due radicali alterità riconosciute dalla ontologia greca proprio mediante la formulazione del principio di non contraddizione, che può essere attaccato dalla filosofia occidentale, come accade anche in Dante, ma che non può che essere abbracciato dall'inconscio più autentico di quella stessa filosofia che superficialmente lo contesta: «è l'evidenza della “non contraddizione” – l'evidenza di ciò che la tradizione occidentale chiama “principio di non contraddizione” e che Nietzsche tien ferma, differenziandola dalla falsità e illusorietà del “principio di non contraddizione”, considerato come schema metafisico che impone ordine al caos»314. Nell'Empireo, regione della salvezza e vetta ontologica del creato, non può che essere garantita la potenza che quella salvezza conferisce, una potenza che è garantita dal corpo, dalla libertà del corpo e dell'anima individuali, quella potenza cioè che la luce che ogni determinazione soffoca in sé non può che negare: «La resurrezione della carne è il senso profondo della rosa dantesca»315. La contraddittorietà della carne, della quale Dante si avvede, è la contraddittorietà del Cristianesimo stesso, il quale parte dal presupposto per il quale si deve affermare la potenza, giacché l'evidenza originaria del divenire non può che implicare l'evidenza originaria della potenza esercitata dall'uomo sul divenire medesimo; ma per affermare l'inevitabilità della potenza, il Cristianesimo afferma contraddittoriamente la necessità di quell'ente privilegiato che è Dio alleandosi al quale l'uomo può affermare la 313 Alighieri

D., Par. XIV, 43. Severino E., L'anello del ritorno, cit., 178. 315 Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Par. XXX, 115-17, nota, corsivo mio. 314

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necessità della sua potenza. Quando il cristiano giunge a fare i conti con il portato teoretico del suo discorso – come accade nell'ultimo del Paradiso – comprende che Dio non salva, che Dio contraddice con l'evidenza originaria. Essendo Dio un presupposto mediante il quale affermare la potenza, e dunque affermare l'evidenza originaria, ed essendo in ultima analisi Dio in contraddizione con l'evidenza originaria, non si potrà che negare Dio in quanto contraddittorio. Dante, immerso nell'illusione epistemica, dopo avere fatto emergere la contraddizione (dopo avere insomma già posto le basi per oltrepassare la posizione del giocatore bianco) preferisce intendere la contraddizione come derivante da una mancanza (psicologico-ontologica) dell'uomo, anziché riconoscerla come una contraddizione che va ad interessare il fondamento del Cristianesimo. I corpi risorti sono la garanzia della potenza di Cristo, attribuita per imitazione di tale potenza agli individui. Per questo i corpi, che stanno nello spazio e nel tempo in quanto sono estesi e liberi e individuali, devono essere presenti, nell'Empireo (cioè nel non luogo che sta fuori dallo spazio e dal tempo), alla fine dei tempi (dopo il Giudizio Universale) e al di fuori dallo spazio. Uscire da questa contraddizione significherà per l'Occidente uscire dalla menzogna epistemica. Abbandonato Dio, rimarrà la potenza del corpo, intesa come l'unica via per la salvezza da una parte consistente della filosofia contemporanea. Venuta meno anche questa illusione, che intende la potenza garantita dal corpo come la via della salvazione, potrà entrare in gioco quel sottosuolo poetico che fin da subito aveva mosso le aspirazioni e la speranza degli abitatori dell'Occidente: «qual è colui che tace e dicer vole,/mi trasse Bëatrice, e disse: “Mira/quanto è 'l convento de le bianche stole!»316. La salvezza estrema, dunque, non si dà senza la resurrezione della carne, proprio perché la maggiore potenza si dà là dove c'è maggiore essere, e il maggiore essere si dà là dove corpo e anima sono uniti317. La salvezza si dà insomma, anche per il canto cristiano cantato da Dante, là dove si dà la contraddizione, volta ad affermare gli individui contro Dio. Riconosciuta la contraddizione come appartenente all'essenza di Dio, e non alla accidentalità fisiologica, la distruzione della metafisica epistemica viene di conseguenza. La Commedia ha il grande merito di porre – da dentro il Cristianesimo – questa contraddizione, pur non riuscendo ad oltrepassarla. 316 Alighieri 317

D., Par. XXX, 127-9. Cfr. Alighieri D., Inf. VI, 106-11.

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3.7 Amore, tecnica, libertà L'amore liberamente concesso da Cristo agli uomini, che consente la salvezza dei beati e quindi la resurrezione della carne dei ben e dei mal nati, è causa di maggiore essere e dunque di maggiore potenza (e tanta più potenza, quanta più salvezza: questa l'equazione del Cristianesimo) agli uomini. Dato che Dio impedisce la prassi, possiamo dire che tanta maggiore potenza, quanta maggiore autonomia da Dio. Dio pone la sua potenza nella misura in cui annienta qualsiasi altra potenza che non sia la sua. La salvezza dell'ente dalla morte, concessa dall'amore di Cristo, richiede il ridimensionamento della potenza di Dio, che però è al contempo inteso dai cristiani come ciò di cui non si dà il maggiore, secondo la celebre formula di Anselmo. Daccapo: l'Occidente, raggiunto un certo grado di autocoscienza, ha riconosciuto l'inconciliabilità di questi due movimenti che pretende di armonizzare, e dunque ha compreso ciò che a Dante non è ancora del tutto chiaro: ha cioè compreso la necessità di sacrificare Dio in nome della potenza che in prima battuta era intesa come derivante da Dio. A proposito dei versi 37-40 del primo canto del poema, Giuseppe Ledda osserva che tali versi parlano «della creazione del mondo da parte di Dio per un atto d'amore […] una rigenerazione universale, che rinnova il mondo grazie all'amore divino, che al mondo stesso ha dato vita e movimento nell'atto della creazione» 318, e nel parlare di questa rigenerazione, osserva sempre Ledda, Dante utilizza le medesime parole («sole», «stelle», «amor», «movere») che ritorneranno alla fine del poema («l'amor che move il sole e l'altre stelle» 319). Questa analogia lessicale potrebbe far pensare che «la fine del testo si ricollegherà all'inizio e segnerà il compimento di quegli auspici di speranza e di salvezza che questa terzina iniziale annuncia»320, e tuttavia mi pare di poter dire che proprio quella luce di Dio che tutto pervade e che, affermando sé, vuole appiattire tutta la potenza che – affermandosi – lo negherebbe, lungi dall'inverare questa speranza di salvezza – che per il cristiano si dà con l'affermazione della propria potenza in armonia con Dio ma non di Dio (Dio che invece viene negato da una potenza che è altra, seppure conforme alla sua, dato che Dio è l'assoluto che non vuole altro al di fuori di sé), e dunque contro Dio –, la conclusione del poema sembra smentirla. Imitare il potere di Dio, cioè imitare l'amore di Dio, dato liberamente da Dio stesso, significa affermarsi con Dio, significa negarsi in favore di quel Dio che, soggiogando, afferma sé annientando ogni 318

Ledda G., La Bibbia di Dante, cit., p. 14. D., Par. XXXIII, 145. 320 Ledda G., La Bibbia di Dante, cit., p. 15. 319 Alighieri

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determinazione altra da lui. Questo nodo teorico si rivela essere, in ultima istanza, il significato della grande sezione di Purg. XVII, 91-139321. Questo passo «racchiude la grande idea che, già presente nel primo motore aristotelico, diventa nel Nuovo Testamento l'amore personale del Dio cristiano: “Dio è carità” (1 Io. 4, 16). Così san Tommaso: “ogni essere agente, qualunque esso sia, compie ogni sua azione in forza di un qualche amore”»322. In questa chiosa Chiavacci Leonardi a ragione pone una stretta connessione tra la ontologia greca e quella cristiana, fondate entrambe sulla convinzione nel valore salvifico dell'amore, connessione che – come abbiamo visto – Dante spesso non vede, ritenendo che il mondo pagano sia sprovvisto di quei limiti che solo il Dio cristiano impone. Dante sbaglia doppiamente: non vede come l'esigenza della metafisica epistemica greca richieda già la necessità del limite intrascendibile e, fatto più grave, non si rende conto che quel limite intrascendibile è già tacitamente superato dalla religione cristiana così come è cantata dalla Commedia, proprio in virtù della convinzione nel valore salvifico dell'amore che essa sostiene, anzitutto nella parte finale del Canto XVII del Purgatorio. La posizione cristiana muove da questa convinzione: Dio è carità, tanto che la Madonna, la creatura più vicina a Dio, è anzitutto carità, e così la premura mostrata da Beatrice (figura christi per eccellenza) in Inf. II, rivela l'amore disinteressato che la muove e che la muove contro le rigide regole di Dio, che la muove cioè a esercitare la propria prassi contro il limite invalicabile: «amor mi mosse»323, ella dice, quello stesso amore che nello stesso canto fa a

321

«Né creator né creatura mai»,/cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,/o naturale o d’animo; e tu ‘l sai./Lo naturale è sempre sanza errore,/ma l’altro puote errar per malo obietto/o per troppo o per poco di vigore./Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,/e ne’ secondi sé stesso misura,/esser non può cagion di mal diletto;/ma quando al mal si torce, o con più cura/o con men che non dee corre nel bene,/contra ‘l fattore adovra sua fattura/Quinci comprender puoi ch’esser convene/amor sementa in voi d’ogne virtute/e d’ogne operazion che merta pene./Or, perché mai non può da la salute/amor del suo subietto volger viso,/da l’odio proprio son le cose tute;/e perché intender non si può diviso,/e per sé stante, alcuno esser dal primo,/da quello odiare ogne effetto è deciso. Resta, se dividendo bene stimo,/che ‘l mal che s’ama è del prossimo; ed esso/amor nasce in tre modi in vostro limo./È chi, per esser suo vicin soppresso,/spera eccellenza, e sol per questo brama/ch’el sia di sua grandezza in basso messo;/è chi podere, grazia, onore e fama/teme di perder perch’altri sormonti,/onde s’attrista sì che ‘l contrario ama;/ed è chi per ingiuria par ch’aonti,/sì che si fa de la vendetta ghiotto,/e tal convien che ‘l male altrui impronti./Questo triforme amor qua giù di sotto/si piange; or vo’ che tu de l’altro intende,/che corre al ben con ordine corrotto./Ciascun confusamente un bene apprende/nel qual si queti l’animo, e disira;/per che di giugner lui ciascun contende./Se lento amore a lui veder vi tira/o a lui acquistar, questa cornice,/dopo giusto penter, ve ne martira./Altro ben è che non fa l’uom felice;/non è felicità, non è la buona/essenza, d’ogne ben frutto e radice./L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,/di sovr’a noi si piange per tre cerchi;/ma come tripartito si ragiona,/tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi» (Alighieri D., Purg. XVII, 91-139). 322 Commento di Chiavacci Leonardi A.M. a Purg. XVII, 91, nota. 323 Alighieri D., Inf. II, 72.

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Maria “frangere” il «duro giudicio»324 di Dio. Alla base della ontologia cristiana si dà quindi la seguente convinzione: Dio crea in quanto ama. L'amore è la potenza di Dio, e dell'uomo in quanto imita l'amore che muove Dio a produrre e che si identifica con Dio stesso. Tale potenza, che dall'amore liberamente voluto deriva, è potenza di trasformare, e dunque di rinnovare, le cose, che si prestano ad essere rinnovate e trasformate in quanto credute divenienti. Il supremo rinnovamento è il rinnovamento del corpo, che ospita la libera volontà che rende quel rinnovamento non solo fatto, ma anche a sua volta fattore di rinnovamento. Cristo permette con libertà – cioè tramite il sacrificio di sé da lui liberamente scelto – la libertà degli uomini e dunque permette l'esercizio della loro potenza, che viene da loro esercitata attraverso il libero arbitrio, che condanna o dà salvezza agli uomini prima che si dia il Giudizio Universale. Attraverso il libero arbitrio, infatti, nel tempo gli uomini scelgono il loro destino eterno, che si declina per la via della dannazione o della beatitudine, la prima lontana (ma non altra), la secondo vicina, a Dio. La vicinanza a Dio risulta per i cristiani migliore non a causa dell'assenza della pena (anche nel Limbo non c'è pena, e tuttavia il Limbo non pesa meno a Virgilio di quanto non pesi a Maestro Adamo nel profondo Inferno), ma dal minore potere che il corpo risorto dei dannati può vantare rispetto a quello dei beati. L'impotenza del corpo dei dannati, a confronto della «possanza» del corpo dei beati, simile alla «possanza» del corpo di Cristo, è bene rappresentata da uno dei pochi discorsi teologici dell'Inferno, nei versi 106-8 del canto di Farinata: qui si dice che alla fine dei tempi ci sarà solo eterno presente, ma i dannati sanno vedere solo nel futuro, quindi alla fine dei tempi non potranno vedere più nulla, e non vedere più nulla significa essere impotenti in quanto la potenza si misura, per i cristiani come per la civiltà della tecnica, sulla previsione (epistemica). Per il cristiano solo morendo nella «diritta via» (cioè sottostando umilmente alla Legge di Dio) è possibile raggiungere la potenza (la salvezza dal nulla assoluto), mentre per il giocatore nero sono la uccisione di Dio e la matematizzazione ipotetico-deduttiva del reale a porre sulla «diritta via». Sia per il giocatore bianco che per il giocatore nero la salvezza è la previsione epistemica, volta a dare potenza sul divenire, che è l'evidenza originaria: «Però comprender puoi che tutta morta/fia nostra conoscenza da quel punto/che del futuro fia chiusa la porta» 325. Se i dannati dopo il Giudizio Universale non vedono nulla, allora nulla possono prevedere; 324 Alighieri 325 Alighieri

D., Inf. II, 96. D., Inf. X, 106-8.

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dunque, nessun potere hanno per sottrarsi dal nulla, mentre i beati – questa la convinzione del Cristianesimo – tutto vedono in Dio: «Voi vigilate ne l'etterno die,/sì che notte né sonno a voi non fura/passo che faccia il secol per sue vie»326. La scelta libera che conduce l'uomo ad aderire alla «diritta via» viene sì dall'uomo (altrimenti non sarebbe una scelta libera, e quindi non sarebbe suscettibile di errore, errore che può condurre alla salvezza come alla dannazione), dall'uomo che liberamente sceglie di salvarsi attraverso un atto di umiltà, cioè «pentendo e perdonando» 327, liberamente, e tuttavia tale libertà di amare è sempre concessa dalla grazia, e quindi non deriva, in ultima istanza, che da Dio, che è altro dall'uomo, anzitutto perché, senza il volontario sacrificio di Cristo, cioè senza il «lume del ciel»328 che “fa accorti” i mortali, non ci sarebbe possibilità di salvezza: «e là dov'io fermai cotesto punto,/non s'ammendava, per pregar, difetto,/perché 'l priego da Dio era disgiunto»329. Così come, mediante l'amore, Maria infrange le infrangibili leggi di Dio 330, allo stesso modo i fedeli, pregando, cioè amando Dio liberamente, vincono il supremo volere di Dio che da queste preghiere vuol esser vinto331: «ché cima di giudicio non s'avvalla/perché foco d'amor compia in un punto/ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla»332. 3.8 Quando arriva il tempo di abbandonare il tempo? La poesia di Dante è creduta da Dante medesimo identica alla fede cristiana che quella poesia canta333. In realtà, come è stato chiarito precedentemente, il Cristianesimo è il contenuto del canto dantesco, e il contenuto non coincide con la forma del canto, che è la poesia in senso stretto. La forma del canto dantesco, lungi dall'affermare la verità del Cristianesimo, ne mostra il sostrato nichilistico che, declinato su un piano filosofico-contenutistico, nega la “verità” cristiana. Dico “declinato su un piano filosofico” non nel senso che il nichilismo non abbia una base primariamente filosofica, dato che le categorie ontologiche sulle quali il nichilismo si fonda sono sviluppate esclusivamente dalla filosofia intesa come luogo in cui l'Occidente 326 Alighieri

D., Purg. XXX, 103-5. D., Purg. V, 55. 328 Alighieri D., Purg. V, 54. 329 Alighieri D., Purg. VI, 40-2. 330 Cfr. Alighieri D., Inf. II, 96. 331 Cfr. Alighieri D., Par. XX, 94-9. 332 Alighieri D., Purg. VI, 37-9. 333 Cfr. Alighieri D., Par. XXV, 10-2. 327 Alighieri

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prende coscienza di sé, ma lo dico perché il discorso non può mai coincidere con la potenza del canto, il contenuto del canto non coincide con la prassi, nella misura in cui il contenuto del canto canta con coerenza ciò che intende cantare (vede e dice cioè la Follia come Follia). La verità del Cristianesimo, spazzata via dalla potenza del canto e da ciò che di realmente poetico c'è nella poesia della Commedia, afferma che l'epistéme sta sopra all'evidenza del divenire ed ordinandolo e prevedendolo, permette agli uomini di controllarlo: «Nel suo profondo vidi che s'interna/legato con amore in un volume,/ciò che per l'universo si squaderna» 334; e poi ancora: «così vedi le cose contingenti/anzi che sieno in sé, mirando il punto/a cui tutti li tempi son presenti/[…]/“La contingenza, che fuor del quaderno/de la vostra matera non si stende,/tutta è dipinta nel cospetto etterno»335. «Ogni accadimento del tempo umano, anche il più amaro, è in Dio come una nota in un dolce e armonico canto»336. A questa verità del Cristianesimo, che pretende di porsi oltre la storia e oltre il tempo Dante, che sostiene – sia pure criticamente – esso stesso questa tesi, oppone il suo viaggio nei tre regni ultraterreni, che culmina in Dio, e che è un viaggio in Dio con «il corpo, con i suoi sensi (vista, udito)» 337. In questi tre regni Dante non ritrova altro che la storia, il tempo, investiture profetiche e invettive politiche pronunziate dai dannati più distanti, verso il basso, e dai beati più distanti, verso l'alto, da quella terra, da quella temporalità che Dante vorrebbe evitare proprio per via di quella distanza non solo e non tanto topografica, quanto esistenziale (laddove l'esistenza si costituisce proprio provenendo da quell'altro (exsistere) dal mondo dei vivi che Dante percorre durante il suo viaggio verticale). Il segno più grave di questo fallimento dantesco (che è poi il fallimento del Cristianesimo) lo si ritrova nella concretezza più terrena che è descritta durante tutto il viaggio, ma che si para davanti con massima forza proprio alla fine di quel viaggio, nel luogo più distante da quella concretezza terrena che l'homo viator aveva creduto di essersi lasciato alle spalle: questo segno è ovviamente il corpo, che Dante non può esimersi dal mettere nell'Empireo, poiché «l'uomo è tutto intero, anima e corpo destinato all'eternità divina»338. Anche dopo avere superato il Cristallino, la «riva» del tempo, non si supera in realtà il tempo, la storia. In conclusione del canto XXX, canto atto a inscenare il superamento di questa 334 Alighieri

D., Par. XXXIII, 85-7. D., Par. XVII, 16-8 e 37-9. 336 Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 305. 337 Ivi, p. 4. 338 Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Purg. I, 103 nota. 335 Alighieri

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riva del tempo, giunge infatti «inatteso – un breve manipolo di versi, rivelatore della profonda, insopprimibile passione per la misera condizione della terra» 339, ma questa passione è giustificabile dal fatto che quella terra è la sua terra, la terra di Dante, la terra di quel Dante viaggiatore ancora vivo, ancora legato per forza di cose ai legami terreni. La storia tuttavia, che nella Commedia mai vien meno, non viene mai meno solo per Dante il quale, piangendo i dannati, piange la loro storicità, ed elogiandoli li elogia, per forza di cose, per i loro meriti storici, e lo stesso si dica per i beati del Paradiso. Proprio per il fatto che Dante è ancora vivo, non meraviglia che ancora in Par. XXXI, 28-30 e 37-9 egli ritorni su tematiche storiche. Il punto è un altro: è la stessa struttura del mondo, così come il Cristianesimo la intende, che non può prescindere dal divenire, e che quindi non può togliere il divenire da quella zona il cui statuto ontologico è il più elevato, ergo il più autentico, ossia l'Empireo. Il Cristallino, unico cielo corporeo senza distinzioni, omogeneo, radice del moto e del tempo, non può invero lasciarsi alle spalle quello spazio e quel tempo che, a rigore, dovrebbero essere intesi come altri rispetto al Cristallino stesso, dato che dal Cristallino derivante, e non con lui coincidente (così l'occhio che permette di vedere i fatti nel campo visivo non sta nel campo visivo). Il punto è che se viene meno il tempo, viene meno l'orizzonte di salvezza entro il quale il Cristianesimo muove i suoi passi. Far venire meno il tempo significa guardare in faccia il mostro, significa affermare la nullità dell'ente senza poter affermare, al contempo, quella temporalità che l'esistenza dell'ente, per quanto precariamente, poteva salvaguardare. Senza storia, senza tempo, non c'è potenza dell'uomo sull'ente, non c'è salvezza, se non di un Dio che legittima solo se stesso; ma dato che il Cristianesimo – ritenendo che l'evidenza del divenire sia irrinunciabile – concepisce Dio ai fini di legittimare la potenza dell'uomo, al venire meno della potenza dell'uomo, viene meno la legittimazione dell'esistenza di Dio. La suprema pace del «ciel che più de la sua luce prende»340 (cioè dell'Empireo) deve sempre tenersi lontana dal rischio di rivolgersi nell'impotenza. Per evitare ciò, anche quando finisce la storia ancora presente nei cieli tolemaici non si può allontanare la concretezza terrena. Se venisse davvero meno la dimensione spazio-temporale, e tutto venisse racchiuso in Dio, verrebbe meno la potenza di ciò che non è Dio, compresa quella della determinazione che sta in Dio, cioè verrebbe a cadere il principio di non contraddizione, dato che verrebbe meno la 339

Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 537. D., Par. I, 4.

340 Alighieri

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possibilità da parte dell'ente di dominare il mondo, e quindi verrebbe meno l'evidenza originaria (il divenire) che è tematizzata su un piano onto-logico proprio mediante il principio di non contraddizione. I beati non possono mantenere la loro storicità, la loro determinatezza, solo nella finzione scenica dei cieli tolemaici. «L'aldilà che il protagonista sta visitando è ancora soggetto al tempo. Solo dopo il giudizio finale le anime riprenderanno i corpi e la loro condizione sarà immutabile per l'eternità»341. Ed è proprio dopo il Giudizio, con l'arrivo del corpo nell'Empireo, che il divenire si fa assoluto, scalzando l'Assoluto della tradizione. Per tutte queste ragioni, che emergono nella Commedia, Dante si ritrae dall'abbraccio mortale del Dio di Par. XXXIII, e preserva la storia anche nell'Empireo, suggellando tale acquisizione mediante l'importante teorizzazione della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi. Alla fine dei tempi entra in gioco la temporalità di una corporeità sublimata proprio nel luogo più lontano dalla storicità che la tradizione cristiana abbia concepito. È questa la mossa decisiva, dalla quale emerge l'inconscio nichilistico del contenuto del canto cristiano. Proprio dalla Commedia può emergere questo inconscio, dato che la Commedia non si limita a cantare il Cristianesimo nel modo in cui le anime belle lo fanno, bensì si sforza di comprenderlo dialetticamente, cioè di farne vedere le crepe, le contraddizioni, per quanto queste contraddizioni vengano, alla fine, riassorbite entro quell'armonia dalla quale il credente non riesce, in ultima battuta, a staccarsi. Dante allontana sempre più la storia dagli orizzonti della Commedia, senza mai riuscire a liquidarla definitivamente. Si pensi alla solenne apertura di Par. X, che segna il passaggio dai tre primi cieli, ancora segnati dal cono d'ombra della terra, ai cieli più alti, non più segnati dall'ombra terrena; in questo frangente Dante presenta l'armonioso ordine dell'universo, invitandoci «a sollevare con lui lo sguardo verso quel perfetto movimento delle grandi orbite astrali, che Dio stesso contempla con l'occhio di un innamorato. Sembra che in questo invito Dante voglia distaccare definitivamente il suo lettore […] dalle preoccupazioni della terra» 342. Dalle amare vicende terrene, cariche di sangue e di passioni, narrate nel canto IX, si passa alla contemplazione della armonia celeste, distante dalle vicende umane, o almeno così sembra. In realtà, tali terrene vicende non vengono mai del tutto allontanate. Già in Par. XI e XII «Dante presenta infatti, con le due vite di Francesco e di Domenico, un 341 342

Ledda G., Leggere la Commedia, cit., p. 22. Commento di A.M. Chiavacci Leonardi a Alighieri D., Commedia. Paradiso, cit., p. 173.

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quadro storico-profetico della Chiesa del suo tempo, quella Chiesa […] che […] andava corrompendosi e degradandosi»343, storicamente e concretamente. Mai vien meno la storia, mai vien meno il divenire in quanto, se venisse meno questa fede di base, verrebbe a crollare tutta l'impalcatura nichilistica che sorregge il Cristianesimo cantato da Dante, fondato sulla formidabile fede (cioè la fede che, non riconosciuta come tale, determina lo tháuma filosofico così come è inteso da Severino) sulla base della quale Dante riceve, in uno dei punti più alti del poema, la sua investitura profetica: «Tu nota; e sì come da me son porte,/così queste parole segna a' vivi/del viver ch'è un correre a la morte»344.

343

Ivi, p. 193. D., Purg. XXXIII, 52-4.

344 Alighieri

380

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Conclusione

Se si crede che l'essente divenga, cioè esca provvisoriamente dal niente e vi ritorni, e se si crede che esistano forze capaci di controllare il rapporto dell'essente con l'essere e col niente, cioè il divenire, e si agisce conformemente a questa convinzione, allora chiamando “Occidente” (o “storia dell'Occidente”) l'insieme di eventi che sono unificati da tale fede – è necessario affermare che l'Occidente è la storia del nichilismo, cioè della persuasione che l'essente è niente. Che però questa fede sia la dimensione reale, di cui sono segni e aspetti gli essenti che vengono intesi come segni e aspetti della storia dell'Occidente, questo non è qualcosa che debba essere affermato necessariamente, ma è qualcosa di voluto, secondo certe regole, dalla volontà interpretante. Emanuele Severino, La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire

1. «Per lo gran mar de l'essere»: figure acquatiche in Dante e Kant Il primo personaggio della Commedia ad interagire con Dante in un modo che poi diventerà esemplare, ripetendosi innumerevoli volte nel corso del poema, è il personaggio di Francesca. L'esemplarità di questo incontro è data anzitutto dalla modalità attraverso la quale questo personaggio si descrive, e che verrà ripresa dai grandi personaggi in tutte e tre le cantiche. Tale presentazione avviene, infatti, attraverso la descrizione dei luoghi ai quali appartenne in terra: «Siede la terra dove nata fui/su la marina dove ’l Po discende/per aver pace co’ seguaci sui» 1. L'acqua ravennate che, scendendo sino al mare, trova lì la sua «pace» – quella pace che ai dannati è negata in modo definitivo, tanto che essi vivono ormai «sanza disio» – viene ripresa in un racconto fatto da un'altra, dolcissima donna del poema: «E ‘n la sua volontade è nostra pace:/ell’è quel mare al qual tutto si move/ciò ch’ella cria o che natura face»2. Piccarda, come Francesca, riconduce la pace che essa non desidera – come invece accadeva nel caso della fanciulla dannata tra i lussuriosi – bensì possiede, all'acquietarsi dell'acqua nel mare che è il fine del suo viaggio; immagine questa dell'acqua come luogo di movimento attraverso il quale giungere al porto, esposta nel discorso teologico di Beatrice all'inizio della

1 Alighieri 2 Alighieri

D., Inf. V, 97-9. D., Par. III, 85-7.

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terza cantica: «Ne l’ordine ch’io dico sono accline/tutte nature, per diverse sorti,/più al principio loro e men vicine;/onde si muovono a diversi porti/per lo gran mar de l’essere, e ciascuna/con istinto a lei dato che la porti»3. Si capisce allora che l'immagine, così importante per l'uomo cristiano Dante, dell'esilio e del viaggio per giungere in patria 4, trova una ulteriore declinazione nelle immagini nautiche ora esposte. Un'altra metafora nautica è stata quella, sviluppata da Kant nei suoi due più importanti scritti teoretici, con la quale ho aperto questo lavoro. È acqua «perigliosa», quella della Critica della ragion pura di Kant, che il filosofo trascendentale «guata», intimorito ma al contempo conscio della necessità di affrontarla. Quell'acqua «perigliosa», fuori di metafora, indicava l'insensatezza del divenire, insensatezza che non può mai ottenere pieno senso, proprio perché l'alterità dall'essere che il divenire ha in sé non permette che gli possa venire accollato significato alcuno, e che non può essere elusa (a causa della fede nichilistica che Kant ha nel fatto che «quando l'essere non è (quando ha lasciato il campo) allora non si oppone nemmeno più al nulla: perché esso stesso è diventato un nulla» 5). Quell'acqua «perigliosa» la ritroviamo anche (e quell'“anche” non è un accidente, ma indica una ben precisa continuità di vedute) nella celebre similitudine (che poi è la prima delle «oltre seicento» 6 similitudini che compongono il poema) di Inf. I, 22-7. In quel frangente onirico l'acqua «perigliosa» si rivela essere l'acqua del male, incarnata anche dalla «selva oscura», che poi è una valle bassa, opposta al colle alto ed assolato. Quell'acqua di Inf. I è mare in tempesta («pelago»); con lo stesso termine viene indicata in Par. II, 5 l'impresa che la poesia di Dante (la «navicella dell'ingegno» di Purg. I, 2) compie. Questa navicella, osserva però Dante in Par. II, 1, non è una «piccioletta barca», bensì un solido «legno»7 adatto ad attraversare l'«alto sale»8 che l'«ultimo lavoro»9 gli riserva. A differenza del legno di Ulisse, destinato ad essere inghiottito dall'alto passo che ha voluto mettersi davanti 3 Alighieri

D., Par. I, 109-14. La nozione di “esilio” nella Commedia viene esposta in Purg. II, 46-8 e in Par. XXV, 55-7 (oltre che nel Convivio e nell'Epistola XIII) nei termini dell'esilio ebraico in Egitto; in Par. XXIII, 133-5 nei termini dell'esilio babilonese; in Inf. XXIII, 126 e in Purg. XXI, 16-8 come etterno essilio per i dannati dell'Inferno; in via biografica in Par. X, 129 nella (contro)figura di Boezio; in Par. XXVI, 115-7 nel caso di Adamo; nel modo più eclatante (questa volta autobiografico) in Par. XVII, 57. 5 Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 21. 6 Ledda G., Leggere la Commedia, cit., p. 140. 7 Alighieri D., Par. II, 3. 8 Alighieri D., Par. II, 13. 9 Alighieri D., Par. I, 13. 4

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senza chiedersi «ch'l concede?», il legno di Dante troverà compimento, giungerà a porto, come le acque del Po da Francesca ricordate. Il «miro gurge» 10 affrontato da Dante, lungi da trascinarlo nel fondo, gli dà la spinta per arrivare nel punto più alto dell'universo, che non è nemmeno più “punto”, e nemmeno più “alto”, dato che quella spinta gli permette di raggiungere un (non)luogo fuori dallo spazio, un meta-luogo mediante il quale ogni cosa può avere luogo, insomma una intuizione pura realisticamente intesa. 2. Sinossi È questo viaggio «per lo gran mar de l'essere»11 che questo lavoro, partendo dalla particolare prospettiva volta a sottolineare la essenziale tecnicità-poeticità dell'Occidente, ha cercato di tematizzare. Un viaggio che è il viaggio della metafisica classica, cioè della ontologica che, «dopo Parmenide», si rivela «incapace di vedere l'essere – e l'essere è, in quanto tale, l'essere-che-è – e affida questo compito alla teologia razionale»12, quella teologia che Dante bene accoglie e che sviluppa, sul fondamento di quello smarrimento del senso dell'essere «comune a Melisso, ad Aristotele, a Hegel, a Heidegger», che consente anche di affermare che l'essere non è oggetto di contemplazione, ma di una prassi infinita»13. Questo viaggio è il viaggio mediante il quale la Follia prende coscienza di sé ed, in questo modo, costruisce il mondo che le sta attorno, trasformandolo e dominandolo. Mediante il filtro della “poesia dell'Occidente”, si è cercato di presentare la Follia nel mondo più radicale, così da conferirle «l'estrema coerenza e insieme la portata del suo “punto critico”» 14, nella consapevolezza che, giungendo al suo «punto critico», ossia al «culmine della parabola», la Follia stessa non possa che implodere su se stessa; questa venuta meno della Follia è per Severino resa necessaria in quanto, a suo dire, «quando la Follia appare come Follia questo apparire è la Non-Follia, cioè il destino della verità che già da sempre si apre al di là della Follia. La Follia non può apparire a se stessa come Follia: a se stessa essa appare come l'evidenza suprema del divenire, che implica con necessità la negazione di ogni immutabile»15. Per fare ciò, si è partiti (capitolo 1) da una rassegna storico-filosofica piuttosto sistematica, 10 Alighieri

D., Par. XXX, 68. D., Par. I, 113. 12 Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 25. 13 Ivi, p. 34. 14 Severino E., L'anello del ritorno, cit., p. 27. 15 Ibidem. 11 Alighieri

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atta a porre il luce non tanto e non solo il susseguirsi delle diverse posizioni filosofiche così come sono intese da Severino; tra i filosofi presi in esame spicca anzitutto Aristotele, a cui va il merito di avere sistematizzato il principio di non-contraddizione, principio sul quale si fonda l'ontologia di tutto l'Occidente nichilistico; questo principio è da Severino identificato con quel «giudice che, colpevole dei delitti più gravi, punisce i reati di poco conto e che infine ha intenzione di commettere»16. In secondo luogo, l'altra figura fondamentale della filosofia è, per Severino, quella di Hegel, che ha il merito di rivelare che «il principio di non contraddizione, nega, in quanto tale, il divenire dell'essere» 17 ma, forte della distinzione tra intelletto e ragione, non ha saputo liberarsi di esso, facendo al contrario un grosso passo avanti verso la coerentizzazione dell'errore nichilistico dei suoi predecessori, avvicinandosi alla posizione nietzschiana senza però ancora avere il sentore dell'insostenibilità dell'affermazione atta a sostenere il potere salvifico dell'atteggiamento tecnico. Si è di conseguenza esposta la pars destruens del discorso severiniano, ma soprattutto il modo attraverso il quale Severino fa la sua storia (teoretica) della filosofia. In questa rassegna si è data molta importanza ai rapporti tra filosofia antica e medioevo, ai fini di preparare il terreno per l'analisi del pensiero esposto nella Commedia da Dante (capitolo 3). Con il secondo capitolo, per concludere, ci si è posti come fine quello di leggere la storia della filosofia presentata nel capitolo 1, a partire dalla nozione di “poesia”, che in Severino può essere intesa a partire dalle riflessioni che Vico – vero e proprio antagonista del discorso che si è portato avanti – è andato facendo: per la Scienza nuova la poesia incarna il luogo di maggiore potenza della collettività, che credendo un mondo concettualmente falso, lo canta poeticamente e così lo rende concreto, e rendendo concreto questo mondo stesso modifica, plasma, rafforza (ma al contempo anche indebolisce!) gli individui che lo cantano, e che cantandolo poetano, e poetandolo lo fanno. La nozione di “poesia”, così come è stata intesa in questo lavoro, dice tutto il contrario. Per il Vico del De ratione e – in modo totalmente stravolto ma, sotto questo punto di vista, assolutamente coerente con i contenuti del De ratione – per il Vico della Scienza nuova, la poesia ha un valore eminentemente tecnico. Il poeta poetando domina la collettività (nel testo del 1709), e nel capolavoro del filosofo napoletano la società arcaica, poetando all'unisono, 16 17

Severino E., Essenza del nichilismo, cit., p. 23. Ivi, p. 36.

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impone il suo dominio su di sé, si educa, e perturbandosi si domina, esercitando potere attraverso quell'esercizio di auto-dominio; così il bestione che canta Giove, che teme Giove, riesce, attraverso quel timore, a controllare la sessualità delle donne, si impadronisce dei campi, segna con forza i confini e si appropria di ciò che sta entro un limite che, con potenza pari alla soggezione a quel Giove fasullo che ha cantato, ha tracciato. Generalizzando la posizione vichiana, possiamo affermare che lo thauma filosofico è una mossa mediante la quale l'Occidente realizza il suo dominio nichilistico sul mondo, scambiando l'alienazione somma (la massima impotenza) per l'autentico rimedio. Per Severino, viceversa, l'autentica poesia è ciò che muove ma che non domina, è la forza del canto che permane anche quando tutto è stato inghiottito dal nulla e che anzi – per essendo già da sempre alla base di ogni dire filosofico – mostra sé proprio al venire meno di ogni altra forma di illusione, ossia al venire meno di ogni altra (presunta) possibilità di salvezza; la poesia per Severino viene riconosciuta come tale, dagli abitatori del tempo, nel punto di massima autocoscienza alla quale l'Occidente nichilistico può pervenire, senza però cadere nella noia, cioè nel punto in cui la Follia nel suo darsi storico giunge al suo «punto critico», iniziando ad intendersi come Follia. La poesia è l'ultima difesa, l'ultima illusione atta a far distogliere lo sguardo da questo intendimento, senza però fare venire meno quella consapevolezza che a quell'intendimento ha portato. Poetare significa conoscere quella “verità” nella quale l'Occidente, in tutte le sue manifestazioni, anche e soprattutto extrafilosofiche, pone la sua fede; poetare significa cioè conoscere che tutto è nulla, traendo però potenza da ciò. E questa potenza, che giunge alla fine, è la potenza del canto che sta nel canto fin dal principio. Il canto è ciò che dà potenza malgrado il contenuto della fede nichilistica si sia rivelato, ed anzi dà potenza proprio sulla base di quella rivelazione. E questa potenza può darsi solo nel momento in cui il contenuto di quella fede si è rivelato proprio perché questa potenza, che è la potenza della poesia, è una potenza non tecnica (una prassi radicale). Un siffatto tipo di potenza può giungere solo alla fine, cioè può giungere solo a partire dal riconoscimento dell'identificazione di essere e nulla, può giungere solo una volta che sono venute meno tutte quelle mediazioni (il paradiso cristiano e il paradiso della tecnica) che, prima di quel “alla fine”, la occultavano. Vedere il contenuto della fede, per l'uomo occidentale, significa vedere la nullità della tecnica, significa vedere la falsità della poesia nichilisticamente intesa o di ogni altra 386

espressione dello spirito, che si pone come tecnica. L'identificazione di tutto e nulla rigetta la tecnicità del canto, ma non può rigettare il deserto. E la poesia consiste proprio in questo: giunta alla fine, nel momento della massima autocoscienza occidentale, canta il deserto traendo forza da esso, maturando una potenza non più animata da una qualsivoglia volontà di dominio. Questa la posizione severiniana che ci ha guidati attraverso il capitolo centrale di questo lavoro, e che per le ragioni ora riassunte ci fa comprendere come mai il poeta vichiano giochi, all'interno di questo scenario, il ruolo di perfetto antagonista del poeta così come è inteso dal filosofo bresciano. Ci si è così concentrati, nel capitolo terzo, su uno dei protagonisti indiscussi del panorama filosofico, che è per l'appunto la figura di Dante. Sottolineo l'espressione “panorama filosofico” in quanto, come si è avuto modo di osservare lungamente, la nozione di “poesia” non ha a che fare con il verso o con l'espressione non discorsiva e non “filosofica”, come non ha nulla a che fare con la bellezza come essa è intesa dalle “anime belle”. La forma del canto, con la quale, in ultima istanza, la poesia si identifica, può essere ravvisata anche nella prosa, per quanto questa forma, proprio in quanto consiste nella vera potenza del discorso filosofico (non poetico), si rivela essere una potenza che, proprio in quanto tale, sa smarcarsi, in ultima istanza, dall'illusione del paradiso della tecnica o, peggio ancora, dal paradiso della tecnica camuffato sotto gli incensi del Cristianesimo. Verrebbe da chiedersi quali benefici possa apportare uno sguardo sui rottami del mondo nichilisticamente inteso, quale è indubitabilmente quello del poeta così come è inteso da Severino (il “genio”). Il poeta vede la follia della tecnica, e mediante questa sua visione trae forza dalla constatazione del suo franare (ricordiamo che «la θεωρία contempla ed è visione»18, per quanto quel che vede il genio (il contenuto del discorso filosofico) sia altro e dia un altro genere di potenza rispetto alla potenza trasformatrice che dà la contemplazione che ancora non sa scorgere l'identità del contenuto “vero” di quel guardare con il contenuto della Follia medesima). Questi interrogativi non devono certo vincolare il discorso filosofico, che in quanto tale non è un discorso reazionario, non è un discorso che canta il franare del mondo, ma che lascia parlare quello stesso canto, quello stesso franare. Le cose stanno dinanzi e la filosofia le lascia parlare, senza cadere in nessun facile rispecchiamento, ma contemporaneamente senza l'esigenza di dare giustificazione ad una 18

Severino E., Legge e caso, cit., p. 18.

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“dottrina”, perché ciò significherebbe cedere il campo alla pervasività del concetto, che nell'orizzonte nichilistico è noia, negazione in ultima istanza anche della poesia che è stata presa come oggetto di questo lavoro; vale ciò che Wittgenstein dice nella Prefazione al Tractatus: «Esso non è, dunque, un manuale». Uscire dall'illusione del “manuale” dà il vantaggio di oltrepassare con indifferenza certe moralistiche riflessioni. Quello che conta, è la consapevolezza dell'apertura del limite, del fatto che, vivendo, non possiamo non stare nella fede (siamo fede, dice spesso Severino), ma ciò non esclude affatto la necessità di ciò che è altro dal deserto. Tutto ciò verrebbe inoltre meno nel momento in cui si scadesse nella banalità dell'utopismo. 3. Il viaggio della metafisica Credo sia opportuno concludere questo lavoro con una terzina posta all'inizio del Paradiso, dedicata agli Argonauti, terzina che verrà poi ripresa alla fine del poema, dove altri tre versi saranno dedicati a coloro che per primi solcarono il mare, verso la Colchide, per impadronirsi del vello d'oro: Que’ gloriosi che passaro al Colco non s’ammiraron come voi farete, quando Iasón vider fatto bifolco.19

Ancora un mare da solcare, dunque, ed una imbarcazione che lo solca e che, solcandolo, compie una impresa grandiosa, mai conclusa. Ai fini del discorso dantesco, questa impresa in mare, che è poi l'impresa di Giasone che, fatto «bifolco», doma i due buoi spiranti fuoco, è l'impresa della sua poesia, guidata dall'investitura divina che gli dà la forza di portarla a compimento, cioè di giungere a porto o, per rimanere nella metafora, di conquistare il vello d'oro. Questa impresa degli Argonauti può essere però intesa in modo più ampio, cioè può essere intesa come lo sforzo che la metafisica dell'Occidente, dopo avere fatto emergere la causa dell'angoscia più grande, cerca di sottrarsi da essa. È proprio la poeticità del canto che permette la conquista del vello, che permette di distogliere, ancora per un momento, lo sguardo da quel 19 Alighieri

D., Par. II, 16-8.

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fondo oscuro, periglioso, dal quale però l'Occidente, stando nella scacchiera entro la quale si muove, non può, nemmeno facendo affidamento alla forza poetica del canto, abbandonare definitivamente. Anzi, la poesia dell'Occidente è ciò che di necessità fa sprofondare sempre più in quel fondo imprevedibile che è il nulla, senza però permettere di sprofondarci del tutto, mantenendo cioè sempre un residuo di alterità dal nulla, che la «legge del divenire» deve portare con sé (verrebbe infatti a mancare l'evidenza originaria che per l'Occidente è il divenire, se tutto fosse già nulla, cioè se nulla più nel nulla potesse sprofondare). La potenza del canto, che è una “potenza” tecnica – incapace di scorgere la sua somma impotenza – nonostante tutto, non può sollevarsi al di sopra di quel mare che attraversa, non può sfuggire allo sguardo di Nettuno, che da sotto la scruta esterrefatto. Il sollevarsi al di sopra del dolore è infatti un sollevarsi temporale, un punto nel tempo che necessita per Dante di un punto fuori dal tempo per potersi attuare, ma che necessita sopratutto di emanciparsi da quel punto fuori dal tempo per attuarsi in modo efficace. Efficace sì, si diceva, ma non definitivo. Il punto in cui Nettuno contempla il viaggio, la grandezza che consiste nel momento in cui ci si appropria del vello d'oro, domando i buoi, ricadrà, dopo aver distolto fugacemente lo sguardo, nelle inquiete acque narrate nelle pagine dalla metafora della prima Critica kantiana che abbiamo visto nella Introduzione, e questo perché Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ‘mpresa, che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.20

4. Contro Severino Seguendo il discorso di Alan Turing, per il quale «oltre una certa soglia di complessità, le macchine pensanti potrebbero diventare, da “subcritiche”, “supercritiche”»21, Severino ci dice che questa “supercriticità” della macchina deve essere intesa come una “filosoficizzazione” della macchina. Subito dopo, però, si corregge, dicendoci che queste macchine, diventando «più che macchine»22 (più che umane), dovrebbero essere forse considerate più come 20 Alighieri

D., Par. XXXIII, 94-6. Severino E., La filosofia futura, cit., p. 140. 22 Ibidem. 21

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«macchine poetiche, preganti, amanti»23, che non come macchine filosofiche. Poche pagine prima, Severino ci aveva informato che «la volontà di potenza è l'anima dell'uomo» 24, «l'essenza tecnica dell'uomo»25. Posto che l'essenza dell'uomo è la sua volontà di potenza, e posto che le macchine, superata la soglia della loro “subcriticità” e superata la soglia della umanità (infatti non è a rigore dimostrabile il fatto che «per la scienza sia impossibile in linea di principio costruire un'intelligenza qualitativamente identica e anche superiore a quella dell'uomo»26) si configurano come “macchine poetiche”, si può intendere la poesia come un superamento dell'umanità intesa essenzialmente come vettore della prassi, della volontà di potenza. Posto che l'uomo è prassi, il superamento dell'uomo è il superamento (la negazione (determinata)) della prassi. Tale superamento è – per quanto disinvoltamente – da Severino inteso come un superamento che va in direzione della poesia. È quanto si è sostenuto lungo questo lavoro. Essere più che umani (essere dei superuomini) significa andare al di là della prassi che ha attraversato tutto l'Occidente, configurandosi prima secondo le acquisizioni teoriche della metafisica epistemica, poi, avendo l'Occidente riconosciuto anzitutto filosoficamente che «oggettivandosi nella struttura immutabile dell'epistéme la volontà di potenza rende impossibile il divenire, cioè rende impossibile sé stessa come fede nell'esistenza del divenire»27, significa configurare i propri sforzi di dominio sulla base della filosofia antiepistemica. In un primo luogo, eliminando qualsiasi muro di pietra che non si piega alla volontà di potenza degli uomini, il discorso filosofico sembra realizzare il paradiso in terra (il paradiso della tecnica, così bene prefigurato dall'attualismo gentiliano) in cui l'uomo, inteso come luogo in cui la volontà di potenza si irradia per trovare espressione attuale, può dominare ogni cosa, nel senso estremo che l'Occidente, sulla base delle categorie ontologiche greche, ha assegnato per la prima volta al termine “dominio” («il dominio richiede l'isolamento del dominato, e l'isolamento [l'isolamento dell'essente dalle due categorie filosofiche fondamentali, ossia l'essere e il nulla] è estremo quando il dominato è sciolto dall'essere e dal niente» 28 e, proprio in quanto è sciolto tanto dall'essere quanto dal niente, può essere fatto oscillare 23

Ibidem. Ivi, p. 136. 25 Ibidem. 26 Ivi, p. 138, corsivo mio. 27 Ivi, p. 147. 28 Ivi, p. 119, corsivo mio. 24

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mediante la prassi umana tra queste due radicali alterità). A ben guardare, però, la metafisica anti-epistemica, se coerentemente intesa, porta al di là della prassi nichilistica, senza però portare al di là della scacchiera sulla quale la partita del nichilismo viene giocata. Il paradiso della tecnica, infatti, collassa su se stesso proprio nella misura in cui si traggono le estreme conseguenze dalle premesse anti-epistemiche poste dalla filosofia contemporanea. Giungendo fino al punto più alto della sua autocoscienza, l'Occidente – mediante i più grandi filosofi della contemporaneità (che per questo sono anche poeti) – ha compreso che «si è sicuri, solo se si domina, e il dominio richiede che il mondo non sia un caos, ma una struttura stabile e prevedibile» 29, ma tale struttura stabile e prevedibile (cioè anticipabile) dalla scienza che, anticipando, irrigidisce il mondo – come già bene Hegel aveva compreso mediante la tematizzazione della differenza tra intelletto scientifico e ragione filosofica – è in contrasto con l'evidenza originaria del divenire, cioè con la condizione di possibilità del dominio che, per necessità, è l'imprevedibile, l'inanticipabile, essendo l'oscillare tra i due estremamente altri (essere e nulla) i quali, in quanto tali, non possono assicurare nessuna previsione, nessuna possibilità di dominio. Comprendere ciò, sulla base della metafisica epistemica, significa comprendere che il dominio non è realizzabile proprio sulla base di quelle categorie ontologiche greche che dominano l'Occidente e che hanno portato ad intendere l'uomo essenzialmente come volontà di potenza. Arrivato a questa acquisizione teoretica, l'Occidente non può che superare la volontà di potenza stando però entro l'orizzonte nichilistico (senza cioè abbandonare la metafisica antiepistemica, ma anzi in virtù della riflessione antiepistemica). Questo superamento della prassi nichilistica da dentro il nichilismo è ciò che porta alla forma poetica, così come è stata da noi intesa nella pagine di questo lavoro. Superare poeticamente l'umano – superare poeticamente la prassi nichilistica – significa quindi porsi al di là dell'umano, collocandosi entro la (meglio: ai limiti della) scacchiera del nichilismo. Il passaggio al poetico si dà insomma sul riconoscimento teoretico per il quale dominare significa anticipare il divenire, ma il divenire è il caos che nega la possibilità di anticipare (di dominare) il divenire stesso; dunque, riconoscere il divenire per anticiparlo significa affermarlo come caos che nega la prassi. Severino espone questa tematica fondamentale ricorrendo ad un'ennesima immagine nautica: 29

Ivi, p. 120.

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Certo, per navigare occorre che l'imbarcazione sia re-sistente (cioè capace di “stare contro” le forze che premono su di essa), con-sistente (cioè stabilmente unita), occorre che non si dissolva nell'acqua, che non abbia il carattere di liquidità dell'acqua, ma che sia solida, rigida, il più possibile immutabile. Ma si naviga, perché si vuole imporre l'immutabilità dell'imbarcazione alla mutevolezza dell'acqua; si domina perché si vuole imporre il “firmamento” [cioè “ciò che è fermamente”, “ciò che rimane fermo”] degli immutabili al divenire del mondo. E si può volere questa “imposizione”, solo se si crede che il divenire esista. Solo se si ha questa fede si può voler imporre degli immutabili al divenire, cioè dominarlo. Per i Greci, epístema è l'ornamento della prua della nave. È il simbolo dell'imporsi della prua sulla fluidità minacciosa del mare [quella fluidità minacciosa del mare che abbiamo incontrato, nella Introduzione a questo lavoro, nella metafora kantiana dell'isola!]. L'epistéme e l'epístema della prua del dominio. Si impone sulla fluidità vorticosa e imprevedibile del divenire. 30

Comprendendo

che

anche

l'atteggiamento

ipotetico-probabilistico

della

scienza

contemporanea conserva quell'atteggiamento epistemico che nega l'evidenza originaria del divenire, l'Occidente dovrà sbarazzarsi anche di questo residuo epistemico per cadere nella noia. Ed è nella noia, nell'impossibilità del dire, che si mostra ciò che già da sempre si dà come forma del dire nichilistico (che, in quanto tale, è sempre un dire nichilistico): la forma poetica. È, questo, un rovesciamento dialettico che si dà all'interno della storia dell'autocoscienza dell'Occidente nichilistico (la storia della filosofia), che è una storia fatta di rovesciamenti dialettici e di superamenti dialettici, giacché la struttura dell'Occidente (e dunque anche la struttura dello sviluppo dell'autocoscienza occidentale) è essenzialmente dialettica, essendo la dialettica il modo più efficace con il quale l'Occidente nichilistico ha inteso l'essenza dell'essente. Facendo la sua comparsa (mostrando sé), la forma poetica mostra l'impossibilità della prassi, l'impossibilità del dire, che viene perduta concettualmente non appena la si categorizza (la si dice): «Che il concetto, ciò che etichetta e mutila, possa trascendere il concetto e cosí arrivare all'aconcettuale, è irrinunciabile per la filosofia»31. L'esigenza poetica di andare oltre la prassi, intesa come esigenza di andare oltre il dire, di andare oltre l'azione nichilisticamente 30

Severino E., La filosofia futura, cit., p. 121. W.T., Negative Dialektik (1966), trad. it. di P. Lauro, a cura di S. Petrucciani, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 2004, p. 11. 31 Adorno

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intesa, non porta affatto alla mossa teorica che compie Schopenhauer alla fine del Mondo, mossa teorica mirante al rifiuto di «questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee». Schopenhauer propone l'accettazione del nulla (questo nostro universo tanto reale è «nulla», conclude il Mondo) relativamente a quella realtà ancora epistemica nella quale consiste, a detta di Severino, la teologia negativa schopenhaueriana. Se la negazione della prassi operata da Schopenhauer fa cadere nella metafisica epistemica, e quindi nell'illusione dell'eterno che, ponendosi all'inizio del percorso mirante alla presa di coscienza dell'Occidente, non sa sollevarsi al di sopra di quella prassi nichilistica che solo alla fine del «Sentiero della Notte» mostra sé, per Severino andare oltre la prassi significa negare l'evidenza originaria del divenire (in ciò consiste la «”Luce” […] già (da sempre) accesa» 32 che il discorso severiniano (la filosofia futura) pone a tema, oltre il nichilismo e dunque oltre la stessa nozione di forma poetica che, come abbiamo visto, si situa all'interno della scacchiera che intende l'essente come diveniente); per Severino, insomma, oltrepassare la prassi significa fare una mossa radicalmente diversa da quella che si è fatta in queste pagine, giacché la mossa che si è fatta in queste pagine non solo non ha bisogno di oltrepassare il divenire per riformare la “prassi” nichilistica, ma ritiene addirittura che la mossa severiniana di oltrepassare la prassi oltrepassando il nichilismo (giacché, per Severino, stando nel nichilismo non si può voltare le spalle alla prassi alienante33) sia una mossa quantomeno rischiosa su un piano teoretico, giacché presuppone ciò che vorrebbe combattere (la violenza nichilistica della parola). In queste pagine si è detto che, per vincere il bisogno essenziale dell'uomo di incrementare sempre più la propria potenza mediante una prassi che, in assoluta sintonia con il pensiero severiniano, possiamo intendere come sommamente «alienante» 34 (nonché terribilmente antiecologica, giacché nel mondo dominato dalla volontà di potenza «si teme non solo la catastrofe ecologica, ma anche l'annientamento nucleare»35), si deve negare la prassi da dentro la scacchiera del nichilismo (ponendosi ai limiti del nichilismo medesimo), giacché è proprio dopo avere attraversato questa scacchiera che si mostra, ai limiti di essa, quella forma poetica 32

Severino E., La filosofia futura, cit., p. 126. «Sino a che si rimane all'interno della fede greca del divenire – ossia della fede in ciò che è la radice della forma estrema del dolore e dell'angoscia – il dolore e l'angoscia sono insuperabili» (Severino E., La filosofia futura, cit., p. 165). 34 Cfr. Severino E., La filosofia futura, cit., pp. 131-132. 35 Ivi, p. 169. 33

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che permette di oltrepassare la prassi nichilistica che il nichilismo fino ad un certo punto comporta, per abbracciare quella prassi radicale che è la verità del nichilismo e che mostra sé già da sempre, anche se solo alla fine del percorso può essere carpita dagli abitatori dell'Occidente, dopo che questi hanno saputo abbandonare ogni forma di superbia. Affermare invece – come Severino afferma – la necessità di uscire dal nichilismo per uscire dalla alienazione, significa affermare l'alienazione (la schiavitù che la prassi nichilistica comporta) proprio nella misura in cui si dice di rifiutarla ponendosi fuori dal nichilismo. Infatti, per porsi fuori dal nichilismo – e quindi, per Severino, per porsi fuori dalla alienazione data dalla prassi nichilistica e da tutto quell'«Apparato» alienante che tale prassi comporta – bisogna rovesciare il tavolo, bisogna rovesciare la scacchiera sulla quale la civiltà occidentale si costruisce. Per rovesciare il tavolo, per dire che la filosofia che viene “prima” della filosofia futura e che le civiltà che sulla filosofia si costituiscono sono Follia, bisogna volerlo rovesciare, bisogna avere fede nel fatto che questo tavolo può essere rovesciato. Bisogna dominare (in senso nichilistico) questo tavolo, per poterlo rovesciare. Rovesciare il tavolo è una prassi (la forma più radicale di prassi, giacché crede di poter dominare tutto l'Occidente, oltrepassandolo e cioè proiettandolo nel suo futuro) che smentisce sé nella misura in cui vorrebbe porsi come la mossa anti-tecnica per eccellenza. Per Severino ciò che smentisce la prassi (la Luce che la filosofia futura indica) c'è già da sempre, ed è la struttura originaria, l'affermazione della radicale alterità (questa volta non nichilistica) di essere e nulla, ossia l'affermazione dell'eternità di ogni essente. Il “già da sempre”, che per Severino non può che darsi al di fuori della scacchiera del nichilismo, è chiaramente diverso dal “già da sempre” nel quale consiste la forma poetica indicata in questo scritto, la quale si mostra già da sempre all'interno del discorso nichilistico. Entrambi questi “già da sempre”, tuttavia, mirano a salvare dalla alienazione che porta con sé la prassi nichilistica. Ciò che mi induce a sostenere che l'ontologia severiniana non sappia davvero sottrarsi dalla prassi nichilistica è la mia convinzione per la quale il “già da sempre” severiniano – che afferma sé oltre il nichilismo – non possa che essere affermato attraversando l'errore, il pathos che la vita così come è intesa dal nichilismo, e dunque che la morte «amara» del nichilismo comporta. È dalla parola greca tháuma che l'ontologia severiniana prende le mosse, ed è da un confronto serrato e mai concluso con essa che il “controcanto” severiniano può andare ad 394

elaborare la sua ontologia non nichilistica. Anche per Severino il punto di partenza è la Follia, e proprio per questo si pone nel pensiero di Severino la necessità di giustificare in modo non nichilistico che, a partire dalla Follia, si oltrepassi la Follia (rovesciando il tavolo); per liberarsi della Follia bisogna aderire ad essa, riconoscendola ed attraversandola in tutte le sue manifestazioni storiche, facendo particolare attenzione alle più folli, cioè a quelle che con maggiore spregiudicatezza vanno a coerentizzare la Follia, guardandola in faccia senza temere le conseguenze che questo riconoscimento comporta, ma anzi comprendendo quel «piacere dell'annientamento» del quale parla Nietzsche alla fine del Crepuscolo degli idoli. È, paradossalmente, proprio la volontà di potenza – lo volontà di chiamare “Follia” la Follia, e di volerla rovesciare dopo averla smascherata – che anima Severino nel momento in cui egli afferma quella Luce che già da sempre vorrebbe scacciare la volontà di potenza andando oltre il nichilismo. Il punto è che non si può affermare questa Luce se non ponendola nella Follia, giacché non si può saltare al di là della propria ombra, senza saltare il nostro ineludibile stare nella Follia, nella condizione che la parola tháuma ben descrive. Proprio in quanto Severino così bene riconosce la concretezza della vita (del «pelago» mai ancorato, mai stabile), e tutto ciò che la vita comporta, Severino non può sottrarsi a questa concretezza. Ma solo sottraendosi a questa concretezza si potrebbe affermare in modo non contraddittorio l'estraneità dalla alienazione in quanto estraneità dal nichilismo. Il “già da sempre” inteso da Severino perde la sua forza proprio nella misura in cui viene affermato da Severino assieme al riconoscimento della concretezza della vita e quindi assieme al riconoscimento di quella astrazione filosofica che sola ha permesso la vita nel modo in cui si è data. Rovesciare il tavolo significa negare la prassi mediante una prassi che rovescia il tavolo. E dire «“già da sempre” il tavolo è rovesciato» non nega l'apparire della volontà di potenza che si afferma nell'atto teoretico e pratico di affermare ciò in cui il nichilismo ha fede, e che si afferma nell'atto di negare questa fede, nella misura in cui questa negazione non può che darsi ad un certo livello della presa di coscienza dell'Occidente (che, a detta di Severino, giusto quel certo livello, si trova fuori di sé, aprendo la strada alla filosofia futura); così, dire «il divenire non appare» non ci permette di affermare che l'eterno appare giacché optare per una di queste due estremità della dialettica significa svilire la natura metalinguistica della filosofia, significa risolvere la dialettica negativa, significa dire qualcosa sul mondo (significa fare scienza!). Nell'atto di affermare ciò che “già da sempre” negherebbe la prassi – al di là del nichilismo 395

– Severino la riafferma. La prassi alienante verrebbe superata ponendosi al di là del nichilismo se e soltanto se non ci fosse la necessità di agire – di dominare, di dire – per rovesciare il tavolo. Solo se il tavolo fosse già da sempre rovesciato, si potrebbe affermare la salvezza. Ma, anche se la Luce che la filosofia futura tematizza è “già da sempre”, “già da sempre” non è rovesciato quel tavolo da gioco che, per l'appunto, sta “prima” della filosofia futura. Se Severino ritenesse che il tavolo da gioco fosse “già da sempre” rovesciato, non riconoscerebbe tháuma, non riconoscerebbe la vita. Ma abbiamo detto che Severino riconosce eccome la concretezza della vita, e proprio per questo non può evitare di agire nichilisticamente proprio nell'atto di situare la salvezza al di fuori della scacchiera del nichilismo (per quanto la scacchiera del nichilismo sia – per Severino – “già da sempre” compresa all'interno dell'orizzonte del destino; ma tutto ciò presta il fianco alla critica che lo stesso Severino muove contro la metafisica epistemica: che Dio esista come ciò che tiene lontano il nulla, non fa sì che Dio metta in salvo l'annientamento delle singole determinazioni che cadono nel nulla!). Proprio in quanto sostengo ciò, non posso venire accusato di ricadere in quella schiera di interpreti i quali ritengono che il pensiero di Severino stia in «una torre d'avorio avulsa dal qui ed ora della nostra esistenza»36 e che non credono che «il discorso proposto dai suoi scritti si rivolge principalmente al cuore della vita, valorizzandola fino in fondo e consentendo a ciascuno […] di viverla con tutta la pienezza che merita»37. E tuttavia non posso mancare di riconoscere che Severino, proprio nel momento in cui dà testimonianza della drammaticità della vita, le volta le spalle, teorizzando l'avvento di un “superuomo” (un «superdio»38!) che c'è già da sempre e che nega l'uomo che vuole, che è l'uomo concreto e che è concreto in quanto tenta di rovesciare i tavoli che si trova di fronte; voltando le spalle a questo uomo concreto che pure tematizza mirabilmente nella sua ricostruzione della Follia occidentale, Severino volta le spalle al se stesso che si oppone a questa Follia, per costruire un “superuomo” «che ci porta oltre l'uomo, quando la fede nel divenire tramonta, e tramonta quindi l'angoscia che essa produce»39. Tramontando l'angoscia, tramonta la vita sulla base della quale soltanto quel tramonto ha potuto realizzarsi. Nonostante in questa Conclusione io abbia sentito il bisogno di accennare una critica alla 36

Brianese G., “Agire” senza contraddizione, cit., p. 26. Ivi, p. 26, nota. 38 Severino E., La filosofia futura, cit., p. 291. 39 Ivi., p. 189. 37

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proposta teoretica severiniana, in questo lavoro ho deciso di occuparmi esclusivamente della pars destruens della filosofia di Severino, senza uscire dai limiti tracciati dal discorso nichilistico, ma mostrando tuttavia – contro Severino – che la speranza di salvezza può darsi entro questi limiti. Questo accenno agli elementi di criticità del discorso severiniano, quindi, qui non può che rimanere un accenno giacché, per dargli una dignità critica reale, bisognerebbe prendere in considerazione tutti quei punti in cui Severino, nei suoi scritti, cerca di sviluppare un apparato teorico atto a difendersi da critiche analoghe a quelle che in questa Conclusione sono state appena abbozzate; Severino, cioè, è ben consapevole del fatto che il suo discorso non può eludere domande del tipo: «Il tramonto della fede nel divenire e della volontà di potenza non è dunque anche il tramonto della volontà interpretante? Ma che cos'è un apparire dell'essente, in cui l'essente appare, ma non appare come interpretato? E se la filosofia futura è un linguaggio [un dire], il linguaggio non è forse [sempre] legato all'interpretazione?»40. Quel che è certo è che, per andare contro Severino, così da dare a queste domande una risposta diversa a quella che egli formula nei suoi scritti, è necessario uscire dal rigido sistema severiniano. Stando entro l'autoreferenzialità del discorso severiniano, non è possibile liberarsene giacché, da dentro questo sistema così raffinato, ogni tentativo di critica è destinato a fallire (ad auto-negarsi originariamente). Ed un discorso analogo vale, per Severino, nel caso del nichilismo giacché l'unico modo per scorgere la follia del nichilismo è porsi al di fuori del nichilismo, intendendolo come qualcosa che può tramontare nella misura in cui questo «tramonto dell'Occidente avviene all'interno del destino della verità»41. Solo ponendosi fuori dall'orizzonte del nichilismo (solo rovesciando il tavolo) lo si può intendere come errore, follia. L'originalità del lavoro che ho svolto non sta nell'avere percorso questa direzione, che è una direzione a mio avviso inconcludente in quanto non sa sottrarsi dalla violenza del nichilismo. L'originalità di questo lavoro si vuole affermare senza rovesciare il tavolo del nichilismo; ossia, si è voluto mostrare che, senza agire violentemente, senza rovesciare il tavolo (e l'agire violentemente, il rovesciare il tavolo, è sempre un dire), è possibile scorgere la liberazione dall'alienazione che deriva dalla prassi nichilisticamente intesa. Affermare l'impossibilità di rovesciare il tavolo significa affermare l'impossibilità di voltare le spalle alla vita; affermare la possibilità dell'emancipazione stando dentro il nichilismo significa affermare la possibilità 40 41

Ivi, p. 232. Ibidem.

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dell'emancipazione senza voltare le spalle alla vita. E la possibilità di questa emancipazione deriva appunto dal fatto che non si vogliono rovesciare tavoli, per affermare questa emancipazione, bensì non si vuole dire nulla; si vuole invece mostrare che la liberazione si dà nel silenzio, che il nichilismo stesso, giunto ai suoi limiti, esige come unica autentica possibilità di sfuggire dalla alienazione che il nichilismo, altrimenti inteso, comporta. In questo lavoro si è voluto dire, contro Severino, che è nel non-discorso che non sa oltrepassare la scacchiera del nichilismo (giacché l'oltrepassare la scacchiera del nichilismo, il rovesciare il tavolo, è sempre una prassi, è sempre un dire, che nella misura in cui dice, perde quella liberazione che voleva tematizzare, ma che libera solo nella misura in cui mostra sé, non si dice) che si dà l'autentica emancipazione; l'altro modo per andare contro Severino sarebbe quello di affrontarlo sul terreno della pars costruens del suo discorso, mostrando come anche il suo discorso, in quanto è un dire, non può non porsi come violenza alienante. Si dovrebbe mostrare che non ci si può sottrarre dall'alienazione derivante dalla «volontà interpretante» mediante il gesto volto a rovesciare il tavolo di gioco.42 42

Queste osservazioni vanno considerare a partire dalle osservazioni svolte nella Introduzione a questo lavoro, ed in particolare a partire dalla nozione di “filosofia” nella Introduzione abbozzata, e che ora conviene riportare testualmente: «La filosofia, essendo una impalpabile linea di confine, non può che avere una vocazione dialettica, dato che la linea di confine riceve una sua concretezza solo per mezzo di ciò che quel confine costituisce; la filosofia è dialettica in quanto irrimediabilmente antinomica. Il discorso filosofico è essenzialmente dialettico a causa della natura metalinguistica della filosofia; se la filosofia si rivolgesse al mondo (se la filosofia fosse un linguaggio oggetto), allora la filosofia presenterebbe degli enigmi sempre risolvibili (potenzialmente) mediante un confronto con il mondo (ogni proposizione scientifica (in senso ampio), cioè ogni proposizione del linguaggio oggetto, proprio in quanto si confronta con il mondo, è vera-falsa (va poi detto che il mondo non è un che di rigido da rispecchiare passivamente, bensì è sempre simbolicamente orientato, giacché il mondo delle scienze naturali è un altro mondo rispetto al mondo delle scienze dure; e tuttavia, una volta stabiliti i paradigmi condivisi mediante i quali il mondo viene categorizzato, il mondo si impone come una alterità volta a dare senso alle proposizioni scientifiche, che con il mondo non possono non confrontarsi). La filosofia, invece, ha una vocazione metalinguistica, in quanto non si rivolge al mondo, ma anzi vuole sabotare il mondo (vuole sabotare il linguaggio), usando un apparato categoriale condiviso per farlo saltare, e non per categorizzare (dire e dominare) il mondo mediante quello stesso apparato categoriale, come invece fa la scienza. In questo senso le proposizioni filosofiche, non riferendosi al mondo, sono insensate, non sono enigmatiche, non sono vere-false, in quanto non possono essere verificate o falsificate mediante un confronto con il mondo. Filosofare significa fare implodere il pensiero su di sé, indicando l'ineludibilità di questa irresolutezza: per dire “che” il mondo è, bisogna perdere questo “che”, dicendolo, cioè categorizzandolo. Il “che” della filosofia diventa il “come” della scienza nella misura in cui è detto; e dato che la filosofia non può non servirsi di un apparato simbolico-categoriale, la filosofia non può che essere destinata al tradimento del suo compito, che è quello di scrollarsi di dosso il linguaggio, di scrollarsi di dosso la violenza. Severino non comprende che le proposizioni filosofiche, non riferendosi al mondo, non possono uscire dalla loro situazione antinomico-dialettica; affermando in modo risolutivo la necessità del mondo, Severino trasforma la filosofia in un linguaggio oggetto, e così facendo le fa perdere quella vena dialettica (negativa) mediante la quale soltanto può mostrarsi quella possibilità di trascendere la parola per mezzo della parola stessa. È proprio questo mancato riconoscimento della vocazione metalinguistica della filosofia che impedirà a Severino di intendere fino in fondo quella nozione di poesia che in queste pagine verrà tematizzata, a partire da alcune riflessioni severiniane che tuttavia già nella prospettiva che qui si tenterà di tracciare intendono muoversi».

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Pur sapendo che le critiche mosse esplicitamente in questa Conclusione e articolate nel corso di questo lavoro sono stare prese in considerazione da Severino e da molti studiosi, ho creduto di risolverle in un modo mi auguro originale, mediante l'introduzione della nozione di “forma poetica” così come l'ho delineata in queste pagine. Mediante questa nozione, ho creduto di riuscire a riprendere le fila di quel discorso (nichilistico-)fenomenologico di derivazione kantiana il quale, ricordando che non possiamo saltare al di là della nostra ombra, mi ha indotto a risolvere la questione della alienazione derivante dalla prassi nichilistica stando all'interno del nichilismo, senza cioè saltare al di là della “nostra” ombra, del “nostro” mondo, riconoscendo la drammaticità (la dialetticità mai conclusa nella quale consiste l'attività del filosofare, attività che mira – fallendo – a risolversi nel silenzio, a liberarsi dall'impianto categoriale al quale è indissolubilmente legata) che si mostra in questo mancato superamento: Il limite del linguaggio si mostra nell'impossibilità di descrivere il fatto che corrisponde a una proposizione […] senza appunto ripetere la proposizione. (Abbiamo qui a che fare con la soluzione kantiana del problema della filosofia). 43 Nella filosofia movimenti di pensiero in sé coerenti possono apparire come semplici giochi intellettuali; ma poiché si tratta invece delle cose più serie, in realtà uno si trova in una situazione simile a quella della farfalla che di sera picchia continuamente la testa contro il vetro e non riesce a passare. ‒ Forse il vero compito della filosofia non è altro che l’imitazione di quel movimento; poiché rinunciare semplicemente a questo movimento equivarrebbe a rimanere nell’oscurità, ma se si vuole uscire dall’oscurità si deve necessariamente correre questo rischio. […] Questo rischio è proprio l’elemento vitale della filosofia, […] la filosofia comincia, diventa interessante […] solo quando affronta anche il rischio di fallire, mentre quando dispone di conoscenze assolutamente sicure e positive si riduce preliminarmente a un puro accertamento fattuale o a una pura operazione logica.44

43

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400

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