La via degli dèi. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi d'iniziazione 9788843088065

Dagli antichi misteri di Eleusi al fuoco divino della teurgia, dagli incantesimi dell'eros alle porte solstiziali d

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La via degli dèi. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi d'iniziazione
 9788843088065

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Dagli antichi misteri di Eleusi al fuoco divino della teurgia. dagli incantesimi dell'eros alle porte solstiziali dell'antro cosmico, dalle discese nell'Ade ai viaggi astrali dell'anima. dall'uovo degli or:fi.ci al serpente degli alchimisti, dalla caverna platonica alle visioni di Ermete: passo dopo passo, in una sequenza di sette capitoli. le voci della tradizione antica risuonano suggerendo pratiche esoteriche e percorsi iniziatici che mutano la percezione ordinaria dell'esistenza e riplasmano la configurazione della soggettività. Dall'età arcaica al tardo- antico, simboli e riti, esercizi del pensiero e lavoro sul corpo, procedure discorsive e metodi di puri:fi.cazione conducono a una forma di oltrepassamento radicale che dischiude la segreta potenza della vita e della natura.

È l'esperienza intensamente vissuta e indicibile di un nucleo fondamentale che sta alla radice dell'essere. Integrare, realizzare, portare la vita al suo assoluto compimento, trasformare il vile piombo in oro splendente: questo è lo scopo di ogni iniziazione. Riascoltare queste voci lontane offre un segnavia a chi voglia esplorare il paradigma di un altro modo di conoscere e di vivere.

Davide Susanetti

La via degli dei Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione

Carocci editore

@ Frecce

A Federico D 'Andrea e Saverio

In copertina:©Jay DeFeo, by

olio su tela (304,8

x

SIAE

Tomeo, amici di Ermete

2.017.

The]ewel (particolare),

139,7 cm), 1959, Las Angeles (cA),

Las Angeles Coumy Museum of Art (LACMA). Dono del 1998 Collectors Committee (AC1998·47.1).© 2.017. Digitallmage Museum Associates/LACMA/ Art Resource NY /Scala, Firenze. 2.• ristampa. ottobre 2.017 1• edizione, maggio 2.017 ©copyright 2.017 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nell'ottobre 2.017 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN

97 8-88·430-88o6-;

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www .facebook.com/caroccieditore www.twitter.com/caroccieditore

Indice

Premessa. Pensieri sparsi sulla soglia I.

2. .

Tra vita e morte. L'esperienza dei misteri



I9

Il compimento del pathos Una fanciulla scompare A pezzi Un uovo, un bimbo, un'acqua di vita

38

Folgorazioni arcaiche. Tra Pitagora ed Empedocle

45

Il figlio del sole

45

La veglia del fuoco La via della Dea Il divino nella natura 3·

9

Cosmo, caverna, città. Itinerari simbolici fra Platone, Plutarco e Porfirio

I9 2.3 32.

53 6I 7I

8I

A ltaca Il respiro astrale dell 'anima I prigionieri della città

87

Parti e incantesimi. La singolare sapienza di Socrate

III

La sapienza del tafano La vergogna e la tortura Tempo di partorire

III

8I 95

II6

12.5

LA VIA DEGLI DEI

8

Un incantesimo per il mal di testa In cella 5·

6.

Misteri d'amore. Tra Platone e Apuleio

1 51

Per sempre Nel prato di Pan Dalla terra, oltre il cielo La statua e l'ala I tormenti di una fanciulla: Amore e Psiche

1 51

177

L'opera divina. Tra neoplatonismo e teurgia

193

La filosofia m isterica Il potere dei simboli Attività demiurgiche Seppellimenti e ascese solari 7·

133 140

Segreti ermetici e pratiche alchemiche

157 164 169

193 198 2.07 2.12.

2.19

La ricerca e la visione L'occhio della Dea, le parole della Vedova Un serpente, un uovo, un'acqua misteriosa Il sacrificio e il tempio

2.40

Riferimenti bibliografici

2. 49

2.19 2.2.7 2. 35

Premessa Pensieri sparsi sulla soglia Andrai nell'etere libero, sarai un dio senza morte.

I versi aurei di Pitagora Materia più grave e materia più sottile son prese nell'uomo in uno stato di magnetismo così profondo, che comincia pri­ ma l'intuizione e poi la sensazione di un mondo che non

è

umano [ ... ] perché riviva la fiaba iridt;scente che gli uomini non conoscono ancora e a cui fingono di non voler credere.

G. Kremmerz, La scienza dei Magi We only live, only inspire Consumed by either fire or fire. What we cali the beginning is often the end And to make an end is to make a beginning.

T. S. Eliot, Four Quartets

Una giornata tranquilla. Starsene a casa in pace, senz' altra compagnia che sé stessi, nel silenzio delle stanze. Un po' di tempo libero, senza alcuna incombenza particolare, senza alcun impegno, senza pensieri molesti che ingombrino la mente. Solo gesti semplici, come rimettere ordine. Nul­ la di più confortevole di una casa dove tutto è lindo e ben disposto. C 'è sempre una certa soddisfazione, un certo elementare piacere nel disporre e ordinare il proprio spazio, il proprio rifugio domestico, perché risulti più accogliente e gradevole. È un modo, anche, di rassicurarsi, di trovare una conferma. Tutto è al suo posto, dove deve stare: gli oggetti della casa, la vita, sé stessi. In bell'ordine. Tutto procede in modo tranquillo e placi­ do. O almeno così si spera: che niente venga a turbare quell'aspirazione così, per l'appunto, ordinaria. Ma può accadere - anche nella giornata più tranquilla, anche nel ripetersi più scontato della routine - che una cre­ pa si apra, all' improvviso, sulla quieta superficie delle cose: un buco, un foro, in quella che si è abituati, senza alcun dubbio e alcuna inquietudi­ ne, a prendere per realtà. È in una giornata come questa che prende avvio

IO

LA VIA DEGLI DEI

La passione secondo G. H di Clarice Lispector. Un'avventura che procede dall'ovvio privo di attese. Un'avventura nella cornice meno avventurosa che si possa immaginare. Ma è proprio lì, nel quotidiano, tra le pareti di casa, che si può essere soggetti a una «passione ». Non un'emozione o un desiderio. Ma una passione nel suo senso primo e più vero. C 'è un evento che si patisce, che si prova in ogni fibra del proprio essere, con conseguenze impreviste e inimmaginabili. G. H., la protagonista, è una donna, ma, nel suo essere femminile esposto a una «passione », ella rappresenta, insieme alla propria singolarità, il genus humanum, il genere umano come specie, cui le sue iniziali allusivamente rinviano. Per accedere alla conoscenza dell 'umano e di ciò su cui esso poggia è forse proprio nella passività recet­ tiva del femminile che bisogna disporsi affinché qualcosa avvenga. G. H. vuole, dunque, mettere ordine. E decide di cominciare dalla par­ te più remota della casa, quella dove, di consueto, meno ci si addentra. In quei « bassifondi » domestici dove si accumula il ciarpame, dove vanno a finire tutte le cose che non si adoperano più. Là c'è anche la stanza dove dormiva la domestica. Il personale di servitù, invisibile per definizione, fa parte di quel fondo che sfugge o si allontana dallo sguardo. Entrando nella stanza, G. H. si accorge che sul muro ci sono delle figure disegnate. Non se n'era mai accorta: un uomo e una donna completamente nudi, insieme a un cane. Nudi com'è nuda la vita quando ogni maschera viene meno. Quelle figure sul muro sembrano quasi un' incisione rupestre, uno di quei disegni tracciati dall'umanità primitiva sulle pareti delle caverne. Un disegno molto arcaico e, nella sua semplicità, assolutamente « ierati­ co ». G. H. procede oltre. Si avvicina all 'armadio. Ha qualche difficoltà ad aprirne l'anta che urta contro lo spigolo del letto. Quando infine riesce a scostarla, si trova innanzi al buio contenuto del mobile. Un'oscurità bana­ le e insieme misteriosa. Quasi inquietante. Come se aprendo quell'anta si fosse spalancata la porta di un aldilà. Come se l'armadio fosse una porta degli inferi, una via a ciò che, non visto e non percepito, sta in.fra, sotto alla superficie dell'esistenza. In quell'oscurità vi è un essere che si muove. Striscia lentamente. Uno scarafaggio nero sbuca dall 'apertura. Una blatta dagli occhi oscuramente lucenti, un insetto di una vecchiezza immemo­ rabile, antico come il mondo, come la terra stessa. Ed è subito disgusto, ribrezzo, odio per quella cosa sporca, per quell'insetto «immondo» che si nascondeva, inavvertito e insosperrato, nel lindore della casa. Ma è più che disgusto. La vista dell' «immondo» è terrore che afferra la mente e il corpo. È minaccia spaventosa di un qualcosa di totalmente

PREMESSA

II

ignoto e fortissimo. Una presenza senza nome. La presenza assoluta di una forza da cui si è invasi, sconvolti, stuprati. È solo un istante, ma, in quell' i­ stante, il tempo e lo spazio non esistono più. La «cosa» è angoscia, panico incontrollabile. Panico nel suo senso più antico e originario, quando il dio Pan, la natura del tutto, si manifesta nella sua inconcepibile e irrappresen­ tabile potenza. Istintivo e immediato è il moto di difesa: proteggersi, farla finita, schiacciare subito la blatta. Ma non c'è difesa. È solo un 'illusione. Non c'è più controllo. Dinanzi alla « cosa », dinanzi all'orrore, l'io va in frantumi. Letteralmente in pezzi. Non è più niente. Quell' io, fino a un momento prima così organizzato e intento a mettere ordine, è sospeso, distrutto, disorganizzato. Ogni maschera, ogni « sovrastruttura », ogni schema saltano in un cortocircuito fulminante. L'ordine in cui si credeva è un velo che si strappa, mostrando la futile pretesa che le cose si possano mettere facilmente al loro posto. «Dissoluzione », non vi è altro nome per tentare di dire l'effetto della «cosa» . Ma nessun « nome» può davvero dire cosa avviene in quel contatto. In quel niente in cui l ' io si sente dissol­ to, vi è ancora, tuttavia, qualcosa che percepisce e pulsa. Vi è un centro, un nucleo che sente, di cui, per la prima volta, forse, si ha davvero coscienza. Vi è un pensare e un sentire che si sprigiona, ma un pensare e un sentire di un diverso ordine e di una diversa qualità. Un pensare e un sentire che si fonda su un nucleo che proprio la dissoluzione ha messo a nudo. Incontra­ re l'orrore della «cosa » è incontrare la radice della vita e insieme la radice del proprio essere: « Vita primaria » , «vita divina», « vita nuda » , «Vita orgiastica » , «nucleo della vita» sono le parole che affiorano sulle labbra di G. H. per esprimere ciò che ha percepito in quell'istante. Nella scossa dell'evento, nel tremito che l'ha afferrata, G. H. ha visto e intuito, per subitanea illuminazione, che quell' « essere io» deriva da «una fonte anteriore e più grande di quella umana ». Ha colto un' «iden­ tità più profonda » ed essenziale che riposa al fondo della sua esistenza: « Stavo uscendo dal mio mondo per entrare nel mondo ». Ma entrare nel mondo, immergersi nella realtà vivente, significa lasciarsi alle spalle i con­ fini che definiscono e proteggono l'umano, significa gettar via la propria "forma". La violenza del panico, la paura che scava non sono altro che la resistenza opposta dalla compagine soggettiva a questo oltrepassamento che elimina ogni riferimento e ogni punto d'appoggio: la «disumanizza­ zione - annota G. H. - è dolorosa >> . Non ci si riconosce più in quell' io a cui ci si affidava, in un nome e in una storia che di quell' io parevano essere l'unico e indubitabile fondamento. Così come non ci si riconosce

12.

LA VIA DEGLI DEI

in quel niente tremendo che si è aperto all'improvviso, in quel « neutro» pulsante che «precede l'umano» . Eppure quel niente irrappresentabile, quel neutro « inumano » è tutto. Anche sé stessi. Quella materia umida e bianchiccia, uscita dal corpo della blatta schiacciata, è rivelazione im­ mediata della vita assoluta: la «materia » primordiale, il «fango » della creazione, l' « umido», il «plasma di Dio», il « neutro dello sperma » . È questo il mistero che G. H. ha visto emergere dalla tenebra dell'armadio. E, avendo visto, compie un gesto inaudito e folle. L'unico possibile adesso che ha coscienza dell'essere: con devozione, con l'innocenza di una bam­ bina esultante, ingoia quella pasta biancastra dello scarafaggio. Mangia la vita, mangia dio, mangia sé stessa. Esultante e liberata, sente di essere, lei stessa, «germe » e « semente » di quell'energia-materia, di quell' « amore-neutro » che le si è appena di­ schiuso. Sente che «il divino è il reale » e che in lei scorre il «plasma » divino. Sente che il tutto è cosa sacra e che, solo sacralizzando la realtà, la si può comprendere: «E allora io adoro » . Null'altro può essere detto, oltrepassata questa soglia. «lo adoro» . Tutto si è compiuto e la parola di G. H. si interrompe consegnandosi al silenzio di una presenza assoluta, di una conquista d'essere che è dono e insieme identità: «La vita mi è » . For­ mulazione impronunciabile e incomprensibile se non si è arrivati là dove la «passione» conduce. «La vita mi è » non esprime la conquista di un possesso e non è, tanto meno, un' ingenua giubilazione. Esprime una per­ cezione e insieme una resa. Una riverenza verso la magnificenza terribile e luminosa della vita. Una riverenza colma di gioia, ma anche di paura e di angoscia. Ci vuole forza per reggere l'illuminazione. Ci vuole forza per sostenerla e mantenersi in quel punto, per fare germinare in sé la « semen­ te ». Altrimenti è solo uno schianto che rompe la banalità dei giorni e li ingoia senza ritorno. Uno scarafaggio, una banalità del quotidiano. Eppure può bastare que­ sto a far ruotare l'esistenza su sé stessa, a produrre un' "estasi" che non por­ ta propriamente fuori di sé, ma nella profondità di sé stessi. Un incidente fortuito: forse per G. H. era il momento giusto, era tempo che accadesse. Avrebbe anche potuto non avvenire mai. Ma è successo. E quel comu­ ne scarafaggio si è come trasformato - dinanzi alla sconvolta e fremente G. H. - in uno scarabeo che ruota tra le zampe la sua palla di sterco: sim­ bolo egizio del sole che nasce a ogni nuovo giorno, rinnovando il miracolo della vita. G. H., ripresasi dallo choc, riflettendo su di esso, si accorge di essere un'altra. Le pare di essere rigenerata, « nuova come una neoinizia-

P REMESSA

13

ta » : ha scoperto « il segreto dei faraoni » . Saprà farne tesoro ? Saprà essere ali ' altezza di tale rivelazione ? Nello scorrere dei giorni, ognuno vive la sua vita. Vive una vita. Ma quella vita è solo un frammento, una parte circo­ scritta e delimitata, fatta di scherni e concrezioni, coartata da automatismi e da condizionamenti, avvolta di fantasmi e di proiezioni. Una vita che non sa della vita, e si è arrestata a un limite. Una vita incompiuta perché non è piena, non è colma della ricchezza della vita. Compiere ovvero compiere: riempire fino all'orlo, giungere al colmo della pienezza, andare fino in fondo. Ma per compiere occorre passare una soglia e misurarsi con una conoscenza che è pura volontà d'essere. « Cosa resta dell'uomo quando non c'è più niente ?», si chiedeva Sat­ prern, al secolo Bernard Enginger. Cosa resta quando al soggetto viene strappato tutto, quando, di colpo, si annulla il nome, la persona, il trac­ ciato che ha definito sin lì un'esistenza? Quando si giunge a un punto in cui sensibilità, percezione e pensiero vengono scardinati dai loro binari. Quando, ancora, si va al di là del piacere e del dolore, del desiderio e del disgusto, e non c'è più confine tra dentro e fuori. Satprern si era posto la domanda sin da ragazzo. Una domanda per nulla astratta o teorica. Così come nulla di astratto vi fu nella risposta cui gli eventi della storia lo co­ strinsero. Un campo di concentramento - il lager in cui fu imprigiona­ to - è un luogo ove quell'annichilimento diviene metodica e feroce realtà: «D' improvviso, in quell'orrenda nullità, sono emerso in un' indicibile gioia ... (ma non posso dire, non so quale parola usare, perché non si tratta di "gioia"). D'improvviso sono emerso in qualcosa di straordinariamente puro e forte ». Al limite estremo del niente « sorge un qualcosa che im­ mediatamente scoppia di pienezza » . È un contatto con l' « essere stesso del mondo », con l'essere che vibra dovunque e in ognuno: «qualcosa di assolutamente pieno, potente e ... "regale" » . Qualcosa: difficile designare altrimenti questa emersione, questo squarcio che si apre. Una dimensione altra che tuttavia non è altra perché è sempre lì, presente, al cuore del tutto. Quella di Satprern, come quella di G. H., sono esperienze radicali. Esperienze nel senso etimologico del term ine: ex- per-ire, andare attraverso completamente, fino al termine ultimo, fino a quel niente che si rovescia in essere. Esperienza è il darsi assoluta dell 'immediatezza. Ma esperienza è anche la trasformazione che parte da quel contatto con l' immediato. È il lavoro che attua e realizza quel « qualcosa » apparso d' improvviso. È il lavoro che conduce il «qualcosa » a essere centro operativo di coscien­ za, a essere centro di un nuovo modo di essere nel mondo. Dopo il lager

14

LA VIA DEGLI DEI

Satprem ha continuato il suo lavoro, mettendosi alla prova dell'estremo. Caienna, la foresta amazzonica, il deserto del Sahara, Ceylon, l'India, la nudità di un mendicante sannyasin sono state le stazioni del suo cammi­ no: «Immaginavo di dover vivere la mia vita come una specie di esperi­ mento chimico, in cui costringere quel tizio che era il cosiddetto "me" a SPUTAR FUORI la sua verità ( ... ], a far RISUONARE il suo vero "suono" » . Alla fine, s i era reso conto che c'è mente e coscienza anche nelle cellule, anche nella materia. Misurarsi con queste forme di esperienza, farle proprie e riflettere su di esse significa anche interrogarsi sul destino del soggetto umano, porre la questione della sua evoluzione. « L'uomo è un' invenzione di cui l'ar­ cheologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono appar­ se, se, a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt'al più presentire la possibilità, ma di cui ora non conosciamo né la forma né la promessa, precipitassero [ ... ] possiamo senz'altro scommettere che l'uomo sarebbe cancellato, come sull'orlo del mare un volto di sabbia ». Sono, queste, le parole con cui Michel Foucault chiudeva il suo scavo archeologico­ genealogico delle scienze umane nella pagina finale de Le parole e le cose. L'uomo cancellato dall'acqua come un labile segno sulla sabbia. In real­ tà, come Foucault si impegnava a dimostrare, la fine riguarda una certa configurazione dell'umano, un modello di soggettività che la modernità ha prodotto e sviluppato attraverso una determinata giunzione di poteri e saperi, di linguaggi e paradigmi di razionalità, di tecniche governamen­ tali ed economiche. L'analisi, e insieme la profezia che Foucault artico­ la, presuppone e dispiega nelle sue conseguenze quell'orizzonte di crisi che Nietzsche, un secolo prima, aveva additato, annunciando, a propria volta, l' imminenza di un «tramonto», i contorcimenti tragico-parodici dell' «ultimo uomo» e la necessità di pensare e agire nella prospettiva di un radicale Vorubergehen, di un « oltrepassamento» di quanto detto e pensato nella modernità. U presente che abitiamo è interamente preso in questo processo di transizione, di un andare oltre, di cui, tuttavia, non è chiara la direzione. Si ha l'acuta e sofferta percezione che un'età, una fase, è terminata e che i suoi paradigmi sono consunti o inefficaci. Si sa di vivere in un post, in un « dopo» che non ha, tuttavia, ancora parole nuove per dirsi e per designare una propria identità. Tra filosofia, scienza e tecnolo­ gia, ci si interroga sul posthuman: soggetti mutanti, soggetti come campi o flussi di energia, innesti uomo-macchina, manipolazioni genetiche. Nel

PREMESSA

15

frattempo, la crisi è diventata una condizione permanente, un orizzon­ te abituale in cui, per effetto stesso della situazione, risuonano l'appello e l'urgenza di un cambiamento. Un cambiamento sociale, ma al tempo stesso individuale. Un mutamento di mentalità e di condotta. «Devi cam­ biare la tua vita » - come nota Sloterdijk - è diventato, nell'arco di alcuni decenni, una sorta di imperativo universale, inscritto «nello spirito del tempo » : tale appello costituirebbe, addirittura, « il contenuto ultimo di tutte le comunicazioni che circolano nel globo» . Per cambiare la propria vita bisognerebbe, anzi tutto, prendersi cura di sé, osservarsi, lavorare su sé stessi e mettere in atto determinate procedure. Le proposte e le formule offerte sullo scenario globale - tra riflessione teorica e mercato dei consu­ mi - sono molteplici quanto disparate. Pratiche del corpo o della mente, esercizi di pensiero o di meditazione, processi di psicoterapia, rivisitazioni di tradizioni antiche tra oriente e occidente. Vi è desiderio o nostalgia del sacro e, insieme ad esso, riemersione di un pensiero analogico che vada al di là della razionalità digitale. Si tratta di fermenti, nel complesso, signi­ ficativi, ma anche soggetti a semplificazioni e a declinazioni parziali nei circuiti della comunicazione stessa. La pratica della cura di sé spesso si risolve e si attua nel tentativo di superare un disagio esistenziale o di migliorare la propria performatività, per essere al passo con l' incalzare dei tempi e delle richieste quotidiane. Trovare serenità o equilibrio, imparare a pensare, vivere il presente, svi­ luppare le proprie potenzialità, stilizzare la propria vita in una forma bella e socialmente apprezzabile, nutrire pensieri positivi, emanare una buona energia: tutte queste sono formulazioni che ricorrono ormai nel discorre­ re e nel sentire comune, testimoniando esigenze effettive. Ma altrettanto comune è il rischio di confondere il cambiamento con la m era ricerca di un più efficace "adattamento" alle condizioni in cui si vive e alle scosse della crisi. Un adattamento magari più consapevole, sensibile e gratificante, ma senza alcuno scardinamento della realtà. Si cerca di sopravvivere meglio. Il che è assai diverso dal vivere. È assai diverso dal fare "esperienza" della vita e di quel «qualcosa» che scoppia all' improvviso. Vi sono, certo, soggetti che non si accontentano di una "cura", di una cosmesi del sé. Vogliono di più, vogliono tutto. Allora si gettano a capo­ fitto, senza rete e senza guida, nell 'avventura dell'esperienza. Con esiti talora tragici e con traumi difficili da medicare. Sottile e fragilissimo è, per tutti, il crinale che separa la fame di conoscenza dallo stordimento e dall'abisso. Perché, come era ben noto in altri tempi e sotto altri cieli, ci

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LA VIA DEGLI DEI

vuole metodo per affrontare l'esperienza. C 'è una "grammaticà', un sape­ re dell'esperienza. Un sapere che è tradizione. Un sapere che - come si vedrà - fa dell'esperienza un percorso di iniziazione. Non un accidente fortuito, un'atrocità della storia collettiva o una sventura personale. Ma una via, un esperimento con sé stessi e con la vita. Un tracciato rituale che libera e insieme protegge. Vi sono, d'altro canto, contesti e ambienti in cui l'importanza del lavo­ ro su sé stessi, il valore di percorsi trasformativi e iniziatici, la necessità di una pratica e di un esercizio vengono ribaditi e sottolineati con riferimen­ to a tradizioni antiche. Si parla, si discute con vari livelli di competenza e, per così dire, di fondatezza. Si parla. Senza mettersi realmente in gio­ co, senza correre il rischio di un'esposizione al reale. E allora non accade niente. Perché l'esperienza e l' iniziazione comportano un rischio e una sofferenza. Un rischio controllato e guidato. Ma si finisce, pur sempre, per essere scorticati vivi, se non si finge, se non ci si trastulla con intellettuali­ smi o con formali parodie. Pensieri diversi e sparsi. Immagini e questioni che ho voluto evocare sulla soglia di questo libro perché tutto ciò mi ha accompagnato nella scrit­ tura. È a partire da questi pensieri che sono tornato, ancora una volta, alla Grecia antica, dall'età arcaica al tardo ellenismo. E ho riattraversato alcuni luoghi, ascoltato alcune voci. I misteri di Eleusi, i miti e i riti di Persefone e Dioniso, la sapienza dell'orfismo, le intuizioni dei presocratici sull'origine e sulla struttura del tutto, gli scenari dei dialoghi platonici, i rituali della magia e della teurgia, il neoplatonismo, il corpus ermetico e gli esperimen­ ti dei primi alchimisti greci. Vita e morte, umano e non umano, sessualità e cibo, conoscenza e trasformazione sono gli elementi con cui tutti questi ambiti si confrontano con insistenza. Non è certo possibile sovrapporre ingenuamente questi resti dell'antico a un orizzonte antropologicamente così distante e mutato come il nostro. Eppure c'è qualcosa di fondamenta­ le che ancora vibra in essi, qualcosa che merita di essere pensato, sentito e soprattutto esperito. Non dottrine o sistemi. Ma simboli, cifre e talismani di una vita da compiere, di un' intuizione da nutrire. In anni a noi vicini, si è molto scritto sul tema della cura di sé e dell'eser­ cizio spirituale a partire dai testi della cultura e della filosofia antiche e tar­ doantiche. Ciò ha prodotto stimoli significativi e importanti problematiz­ zazioni. Non si è forse però sottolineato, con altrettanta attenzione, come vi possa essere un preciso filo rosso che lega il lavoro della cura di sé con gli ambiti della ritualità misterica e dell'iniziazione. Come l'intuizione ini-

PREMESSA

17

ziatica possa essere origine e insieme termine della cura e della conoscen­ za di sé. Come quell'esperienza possa orientare e determinare l'orizzonte stesso della pratica di sé affinché essa non si risolva nella sospensione di un esercizio senza esito. Le filosofie del postmoderno hanno sempre una certa cautela ed esitazione nell'evocare il sacro e il mito. Si preferisce, in modo più neutro, parlare di "tecnologie" del sé o indirizzare vagamente all' iper­ bole acrobatica di una tensione al superamento, senza che sia sempre chia­ ro tuttavia a che cosa si dovrebbe tendere né come farlo. Per converso, sul fronte opposto, le suggestioni della new age mettono in circolo esoterismi coatti e melasse confuse, in cui il sacro annega nelle fantasie personali e nei disturbi psicopatologici. Nell 'agosto 1796, Hegel compose una poesia per l'amico Holderlin. Il suo titolo era Eleusis. In essa Hegel evoca, con nostalgia, la « saggezza» di quei misteri, il sapere dei suoi sacerdoti e la presenza viva del sacro. Una saggezza lontana e silente su cui, a distanza di secoli, si appunta la «curio­ sità» degli studiosi moderni, dei professionisti del sapere e della storia. Una «curiosità» che fruga tra le testimonianze e le fonti, pensando di poter padroneggiare il sapere come un oggetto. In fondo tali studiosi non hanno alcun « amore» per quella saggezza, ma distaccato «disprezzo». «Eterni morti» che si compiacciono del « marcio » e della «putredine », di una « materia senz'anima ». «Si accontentano di poco» e sono soddi­ sfatti di quella pochezza. Ma ciò che essi afferrano è solo «polvere e ce­ nere » : « segni senza vita », « segni disseccati » o, peggio, « mercanzia da sofisti ». Ci vorrebbe una «lingua d'angelo» per parlare di quelle cose e ancora non basterebbe perché il sacro non può essere comunque abbrac­ ciato dal linguaggio o ridotto a «piccola cosa ». Conscio e avvertito della « miseria » delle parole, ho tentato, comun­ que, di dire e di scrivere. Ad animarmi non è stata certo la «curiosità» dello studioso. La prospettiva in cui mi sono messo - in cui sempre mi metto - è piuttosto quella della quete in un senso più antico e tradizionale. Il mestiere mi ha fornito consapevolezze storiche e filologiche per accosta­ re autori e testi antichi. Ma ciò a cui mi sono volto, quello che ho cercato, è l'eco di un 'esperienza. La loro esperienza e insieme anche la mia.

I

Tra vita e morte L'esperienza dei misteri

Il compimento del pathos

Molte sono state le creazioni e le idee che Atene ha prodotto. Ma il suo lascito più prezioso - osserva Cicerone nelle Leggi (2.,14,36) - è stata forse l'istituzione dei misteri di Eleusi, quelli che in terra greca erano i "Miste­ ri" per antonomasia. Per loro effetto gli uomini si sarebbero affinati ed elevati, passando da uno stato rozzo e bestiale a una forma di esistenza più mite e propriamente degna di ciò che dovrebbe essere l'uomo. Gra­ zie alle iniziazioni misteriche - afferma ancora Cicerone - «noi abbiamo conosciuto i principi della vita nella loro vera essenza, abbiamo appreso a vivere con gioia e a morire con una migliore speranza ». I principi della vita, la gioia, un diverso sguardo sulla morte: i misteri trasformano dun­ que l'esistenza e la fanno evolvere. I Latini chiamavano i misteri e il rito che in essi si celebrava initia. Il termine si connette ali' atto di inire, di « en­ trare » : si tratterebbe dunque di un «ingresso », del varcare una soglia, dell'addentrarsi in una diversa dimensione. Di qui l' « inizio » di qualcosa di radicalmente altro, di un modo del vivere che conosce una metamorfosi. Per l' iniziazione m isterica i Greci parlavano invece di teleté, che si lega a télos, « compimento», «fine », « conclusione ». Télos è il pieno sviluppo, la completa riuscita cui si può pervenire a partire da una situazione data. La teleté, l' iniziazione, è un portare a perfezione, una realizzazione piena di tutte le potenzialità insite nell 'uomo. Si potrebbe giocare con la contro­ versa etimologia di télos, ricordando come essa venga connessa ali' idea del «girare », del «volgere » o ancora a quella del « sorgere », del «levarsi ». L' iniziazione, potremmo allora aggiungere, è un punto di svolta, un moto che si fa circolare e che insieme implica un'ascesa, come la rotazione del cielo, che, con il volgere delle stagioni, fa sorgere la luce degli astri. Il nome dei Mustéria, in cui le iniziazioni si svolgono, deriverebbe, invece, da muo, «chiudere », « serrare », in particolare gli occhi, la bocca. Si è pensato che

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LA VIA DEGLI DEI

ciò facesse riferimento a momenti del rito o a prescrizioni a esso connesse. Nei rituali di Eleusi muesis designava il primo livello dell' iniziazione ed è noto che l'iniziando, da principio, veniva velato, immerso nel buio, ed era tenuto a osservare un religioso silenzio; vi era inoltre l'assoluto obbli­ go di tacere ai profani ciò che nell' iniziazione era avvenuto. Ma l'atto di chiusura degli occhi e della bocca possono anche intendersi nel segno di una necessaria discontinuità: lo sguardo e la parola che caratterizzano l'e­ sistenza ordinaria devono essere sospesi e interrotti perché un'altra visione e un'altra parola possano dischiudersi. E, per converso, gli occhi di chi non è iniziato non hanno la capacità di vedere e la sua parola è priva di efficacia. Ingresso, inizio, chiusura, perfezione, compimento, elevazione: sono modi all'apparenza diversi, ma in realtà del tutto complementari per in­ dicare un passaggio decisivo, una transizione che è nuovo principio e al contempo assoluto sviluppo. Ma come si produce questo passaggio ? Ari­ stotele osserva che gli iniziandi ai misteri non debbono mathéin, «impa­ rare » , « apprendere » contenuti, bensìpathéin, « subire », «provare un'e­ mozione » intensa, così da pervenire a « Un certo stato» , a una particolare condizione (Sullafilosofia, fr. 15). Non si tratta dunque di un esercizio di facoltà razionali o di un insegnamento offerto attraverso le usuali moda­ lità del linguaggio, ma di un processo che si inscrive, con forza e con vio­ lenza, nel corpo e nella mente di chi vi si sottopone. Un pathos, appunto, un'affezione che disarticola e modifica il soggetto nei pensieri, nelle sen­ sazioni, nel modo stesso di percepire sé stesso. Un pathos che « modella » o meglio rimodella l'uomo, imprimendovi un tupos, un' « impronta » , una « forma» differente. Si produce allora qualcosa che assomiglia a una « fol­ gorazione », a un lampeggiare intuitivo: la vita si manifesta nella sua luce assoluta e nella sua verità. Questa « illuminazione » sarebbe - sottolinea ancora Aristotele - la modalità « m isterica » del conoscere. Il patire che produce questa conoscenza luminosa passa attraverso lo smarrimento, la perdita e la morte. A spiegarlo è Plutarco che rileva la perfetta corrispondenza tra teleutan e teléisthai, tra « morire » ed «esse­ re iniziati» (fr. 178): «la parola assomiglia alla parola, la cosa alla cosa ». Entrambi i verbi si collegano, ancora una volta, a télos: il compimento del­ la morte chiude la vita, ma il passaggio attraverso la morte apre, all'in­ verso, la via al compimento assoluto della vita stessa. Chi viene iniziato - suggerisce Plutarco - prova la stessa emozione di chi muore e, viceversa, chi lascia la vita terrena si trova a percorrere il medesimo cammino cui l'iniziando viene avviato. In quel momento ogni riferimento è perduto,

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tutto appare estraneo e sconosciuto: ci si trova a «vagare », a « girare » con fatica, a «camminare senza fine nell'oscurità », in preda alla paura. Nel percorso ci si imbatte in deind, « cose terribili» , ed ecco allora che si provano « brividi » , « tremiti », si è madidi di sudore e completamen­ te storditi dallo sbigottimento. Ma, dopo tutto ciò, ecco che si manifesta una «luce meravigliosa » e si dischiudono luoghi di purezza, con « voci, danze, musiche solenni e sante visioni (phdsmata) ». Una nuova e inaudita libertà è stata conquistata. Libertà di chi, morendo, ha lasciato il peso della vita, trovandosi in una condizione felice. Libertà di chi, con l'iniziazione, si è liberato di paure e vane attese, trovando un diverso senso del vivere. Di un passaggio nel regno dell'oltretomba parla anche il protagonista delle Metamorfosi di Apuleio. Il contesto non riguarda Eleusi, ma l' ini­ ziazione ai misteri di Iside. La fenomenologia dell'esperienza è tuttavia, per più versi, analoga al quadro evocato da Plutarco. Anche qui il viaggio iniziatico termina con una luce che rompe l'oscurità: «Arrivai ai confini della morte, posai il piede sulla soglia di Proserpina, e poi tornai indietro passando attraverso tutti gli elementi: nella notte vidi un sole che lampeg­ giava di una fulgida luce; mi presentai agli dei degli inferi e del cielo, e da vicino li venerai » (u,23). L'iniziazione è dunque un'esperienza di morte, o, meglio, è l'emozio­ ne stessa del morire e di ciò che accade dopo quell 'istante. Una discesa all'Ade, un perdersi in un labirinto, vagando alla cieca, senza più direzione e senza alcuna sicurezza. È una fatica estenuante, uno sprofondare nella tenebra, provando il più assoluto terrore. Nel buio ci si trova dinanzi ad apparizioni e immagini impressionanti. Tutto ciò che fin lì aveva definito l'esistenza, tutte le certezze e tutti i convincimenti vacillano e si sgreto­ lano. Ogni bene - o supposto tale -, ogni cosa su cui la propria identità poggiava appaiono perduti per sempre. Si frantuma la forma stessa di ciò che si riteneva la propria vita. È un annientamento - possiamo immagina­ re - che interrompe tutti gli automatismi dell'esistenza ordinaria e manda in pezzi l' individualità soggettiva. Essere iniziati significa davvero subire la propria « fine », se la corrispondenza individuata dal saggio Plurarco deve essere presa alla lettera. Significa anticipare la morte, mentre ancora si respira e si vive, affrontando l' incognita dell'oltre. Ma se si affronta questo cammino di paura e di pena, questa prova estrema, all'improvviso tutto si rovescia in un orizzonte di luce, di suoni rasserenanti e di phdsmata divini. Ora finalmente "si vede" al di là del velo, al di là di come la vita e la morte normalmente appaiono sulla terra, al di là dei timori e dei desideri che at-

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traversano l'esistenza. È il momento culminante di ciò che a Eleusi si chia­ ma epoptéia: la « visione » piena e compiuta che suggella la conclusione del cammino iniziatico. La luce che brilla, il sole che rifulge: il manifestarsi del sacro nella sua pienezza, il nucleo divino su cui la vita si fonda. La conoscenza che la visione dispensa è dono di felicità. Gioia che - come diceva Cicerone - segna l'esistenza sulla terra, ma anche promessa di una beatitudine che si prolunga al di là dell'esistenza mortale: «Felice l'uomo che ha visto queste cose ( tade). Ma chi non è stato iniziato non avrà mai un uguale destino, nemmeno dopo la morte», afferma l'Inno omerico a Demetra, ove si celebra l' istituzione dei misteri di Eleusi ( vv. 48 0-482). « Felice colui che scende sotto terra dopo aver visto quelle cose: conosce la fine (teleutan) della vita e ne conosce il principio (archan) dato da Zeus» , ripete Pindaro (fr. 137 ). «Tre volte beati i mortali che vanno nell'Ade dopo aver contemplato questi riti: solo a essi è dato, laggiù, di vivere (zén), per tutti gli altri vi è solo male », ribadisce ancora Sofocle (fr. 837 ) . Aver visto « queste cose », questi riti: l'espressione resta indeterminata, nessun ulte­ riore dettaglio viene offerto. Lo impone il divieto di divulgare il rituale, poi­ ché il contenuto dei misteri è arrheton, « indicibile » : «Non è consentito profanare, né indagare, né rivelare questi venerandi riti: la riverenza per gli dei frena la voce » afferma ancora l ' Inno omerico a Demetra (vv. 478-479 ) . Ma - possiamo aggiungere - l' iniziazione misterica è un arrheton, un « in­ dicibile » proprio perché è esperienza: è l' intensità di un pathos che ogni iniziato sperimenta. Un pathos che va oltre la parola e che scarso significato avrebbe se si tentasse di dirlo a chi non ha fatto la medesima esperienza. È qualcosa che si custodisce e che semmai si mostra indirettamente e si dà a vedere nella serenità e nei gesti di chi ha visto e sa. Chiara è invece la parola della felicità promessa: per gli iniziati, e solo per loro, vi è « Vita » dopo la morte. Nell'Ade omerico, i morti erano pallidi spettri, ombre vaganti, « te­ ste senza forza » (Omero, Odissea, I0,521); solo l'indovino Tiresia aveva avuto da Persefone il privilegio di conservare, anche laggiù, anche da mor­ to, « mente salda » . Che la «vita » promessa agli iniziati sia la continuità della mente e della coscienza anche dopo aver lasciato il corpo ? Secondo la rappresentazione offerta da Aristofane (Rane, 440-459 ) , nell'oltretomba gli iniziati di Eleusi danzano in un prato fiorito di rose e su di essi splende la «sacra luce del sole». Il sole che è immagine e forza di vita. Dall'età arcaica al tardoantico, sapienti e filosofi faranno ripetutamen­ te riferimento, nelle loro opere, ai misteri e alle pratiche dell' iniziazione: l'esperienza misterica è percepita come origine di una vera conoscenza

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e insieme costituita a modello di un pensiero e di una pratica di sé per coloro che vogliano attingere alla «perfezione ». La dinamica è, per così dire, speculare. Dal percorso dell'iniziazione, dalla luce dei misteri, dal momento dell' epoptéia, deriva un'intuizione che illumina la vita, la na­ tura e il divino, producendo visioni e discorsi. E, viceversa, lo sforzo del pensiero che tenta di indagare la realtà e modellare l'esistenza raggiunge il suo culmine quando riesce ad attingere a quella luce, quando riesce a riprodurre un'analoga esperienza. «L'intuizione [ .. ] di ciò che è puro e semplice - afferma Plutarco (Iside e Osiride, 382 d-e) - accende la nostra anima come un fulmine e ciò ci permette [ .. ] di toccar!o e di contemplar­ lo. È per tale ragione che Platone e Aristotele chiamano questa parte della filosofia "epoptica", alludendo al fatto che quanti sono riusciti ad andare [ . ] al di là di questo umano sapere, opinabile, composto e multiforme, si slanciano verso quell'essere primo, semplice e immateriale; e se arrivano a toccare in qualche modo la verità pura che è in lui, pensano a buon diritto, che questa sia la realizzazione compiuta della filosofi a » . Le scritture e le dottrine di molti amanti della sapienza si nutrono, dunque, di immagini e di dinamiche misteriche e il testo filosofico stesso diviene, per certi ver­ si, un percorso iniziatico attraverso differenti modalità: come memoria di un' iniziazione effettivamente esperita, come indicazione di un metodo di­ segnato sulla filigrana della teleté, o ancora come tentativo di commentare e spiegare i simboli misterici stessi. Ciò comporta, come è ovvio, una dina­ mica di reinterpretazione e di trasformazione che traspongono i dati dei misteri in altri e diversi contesti, inglobandoli in elaborazioni teoriche e in linguaggi differenti. Resta, tuttavia, alla radice e all'orizzonte, la forza di quel pathos. Al di là e prima delle parole, al di là e prima della scrittura e di ogni teoria, vi è l'esperienza di un indicibile: «Tale conoscenza - afferma Platone (Settima lettera, 341 c-d) - non è comunicabile come altri sapel'i. Ma dopo una lunga convivenza con questa "cosà', in modo improvviso e istantaneo, come da un fuoco che scaturisce brilla una luce. Ed essa, una volta prodottasi nell'anima, si nutre di sé stessa» . .

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Una fanciulla scompare

Eleusi «è il santuario comune alla terra intera: tra le cose divine concesse agli uomini, non vi è nulla di più venerabile e di più fulgido. In quale altro luogo sono stati cantati in modo più mirabile i miti ? In quale altro luogo

LA VIA DEGLI DEI le azioni rituali producono un'impressione così forte ? » . Così osservava, in età imperiale, Elio Aristide (Graziani, 19,2.), testimoniando la fama e il valore di uno spazio sacro che, per secoli, è stato venerato come un punto di riferimento imprescindibile dell'esperienza iniziatica. La ri tualità segui­ va una precisa scansione temporale e comportava l'uso di spazi differenti. I cosiddetti "Piccoli Misteri" si celebravano ad Agra, una località situata sulla piana dell 'Il isso, poco più a sud delle mura di Atene. Si compivano a primavera, quando il sole è nel segno dell'Ariete e la natura si risveglia in un rigoglio di forze. Là, secondo la tradizione, era stato iniziato al percor­ so misterico lo stesso Eracle. I "Grandi Misteri", cuore effettivo del percor­ so iniziatico, si celebravano invece nella città di Eleusi, a ovest di Atene e distante da essa una ventina di chilometri. Avevano luogo in autunno, nel momento in cui il sole transita nello Scorpione e la natura si appresta ad assopirsi in un riposo che assomiglia alla morte. Ad Atene ed Eleusi, così come in altri centri sacri del mondo antico, i riti seguono rigorosamente i ritmi e le pulsazioni del cosmo, inserendo uomini e dei, vegetali e animali nell 'orizzonte di un grande tutto, nel respiro della vita universale. Poco si conosce dello svolgimento dei Piccoli Misteri nel territorio ateniese, salvo il fatto che in essi si dispensavano alcuni « insegnamenti fondamentali » e si compivano alcuni riti che costituivano una sorta di propedeutica per le fasi successive dell'esperienza (Clemente Alessandri­ no, Stromati, 5,11 ) . Assai più documentato - dalle fonti e dai resti archeo­ logici è invece quanto concerne i Grandi Misteri. La loro celebrazione occupava più giorni e si articolava in una sequenza di momenti. Nel tredi­ cesimo giorno del mese di Boedromione (settembre-ottobre), un gruppo scelto di efebi, di giovani Ateniesi, si recava a Eleusi per prendere in con­ segna gli «oggetti sacri » posti in una cista chiusa. Essi venivano portati all 'Eleuslnion di Atene, un santuario collocato sull'acropoli della città. Da qui, il diciannovesimo giorno, partiva, in direzione inversa, alla volta di Eleusi, una solenne processione cui partecipavano gli aspiranti al percorso iniziatico dopo che il sacerdote aveva intimato agli «indegni» di allonta­ narsi. L'arrivo a Eleusi, dopo varie tappe e soste lungo il tragitto, avveniva probabilmente nella notte del ventesimo giorno del mese. Avevano quindi inizio le cerimonie segrete che occupavano i due giorni successivi e che culminavano nella celebrazione compiuta nel cosiddetto andktoron, nella sala principale del santuario, i cui resti sono ancora visibili. Per lungo tempo, la partecipazione ai misteri costituì un privilegio esclusivo dei cittadini di Atene. I Greci appartenenti ad altre città, che -

TRA VITA E MORTE. L' ESPERIENZA DEI MISTERI avessero voluto essere iniziati, dovevano prima farsi "adottare" da un membro della polis, come si racconta fosse avvenuto anche per Eracle. Da questo punto di vista - per questa sorta di coincidenza tra cittadinanza e diritto ali' iniziazione - coloro che si riunivano ad Agra e a Eleusi costitui­ vano, per così dire, un doppio simbolico di Atene: una comunità sacra a fronte e a complemento della comunità politica. Si afferma che, nei gior­ ni della ritualità, la città fosse percorsa da una particolare animazione e da un grande concorso di folla. A dispetto di questa ampia e comunitaria partecipazione, è tuttavia plausibile pensare che non tutti coloro che in­ traprendevano il percorso giungessero fino al suo supremo compimento. Tra il primo grado dell' iniziazione (muesis) e il secondo (epoptéia) doveva trascorrere almeno un anno o, secondo una diversa testimonianza, addi­ rittura cinque. Con un ulteriore intervallo di tempo e di preparazione, si poteva accedere al grado detto dell ' anddesis, della « legatura » o del «co­ ronamento» , che costituiva il perfezionamento dell' epoptéia e abilitava a trasmettere ad altri l' iniziazione acquisita. Se erano in molti a partire, po­ chi dovevano essere, per contro, coloro che giungevano a essere holokleroi, «completi » o «perfetti » . Per intraprendere il cammino erano necessari, i n ogni caso, alcuni pre­ requisiti e alcuni atti preliminari. I candidati venivano sottoposti a un esame e non doveva risultare che si fossero macchiati di alcun grave cri­ mine. Era quindi necessario che si preparassero attraverso una pratica di kdtharsis, di «purificazione » che comportava bagni e digiuni. Nei Piccoli Misteri pare che i candidati venissero aspersi e lavati con le acque dell' Ilis­ so, come primo atto di consacrazione. Una successiva e più solenne puri­ ficazione si compiva, invece, in occasione dei Grandi Misteri. I candidati dovevano lavarsi nell'acqua del mare e compiere il sacrificio di un maiale, animale legato al regno ctonio della morte. Più tardi, a Eleusi, l 'iniziando sarebbe stato fatto sedere su uno sgabello coperto dal vello di un ariete, che è simbolo di forza e di energia vitale. Il suo capo veniva velato: non poteva vedere nulla. Sentiva solo che alcune persone si muovevano e danzavano intorno a lui. Che cosa gli sarebbe successo ? Sarebbe forse stato ucciso come l'animale sulla cui pelle sedeva? Una sacerdotessa, in realtà, gli si avvicinava giungendo alle sue spalle. Gli poneva sopra la testa un vaglio: lo strumento che, agitato nell'aria, separa il grano dalla pula. Nell'altra mano una fiaccola accesa. L'acqua del mare, l'aria che separa e pulisce i chicchi, il fuoco che arde: tre elementi fondamentali della natura intervengono a purificare il corpo e la mente

LA VIA DEGLI DEI dell' iniziando secondo una tradizione che durerà nel tempo. Il quarto, la terra, entrerà in seguito nel gioco simbolico di quanto il rito provvederà a compiere. Seduto sullo sgabello, !' iniziando ripete un gesto e una postura che la dea Demetra, un giorno, aveva assunto proprio a Eleusi. Affranta per la scomparsa della figlia, anche lei si era seduta su uno sgabello, con il capo coperto, digiuna di ogni cibo e di ogni bevanda. L'iniziando si cala nel precedente della storia divina e accoglie laparddosis, la « trasmissione » del «discorso sacro » che costituiva il nucleo e il fondamento del percorso m isterico. Tutto era cominciato su un tenero prato: luogo incantevole e ridente, ma anche pericoloso per le fanciulle sole e ignare della forza del desiderio maschile. Su quel prato, Persefone, figlia di Demetra e di Zeus, era inten­ ta, con le arniche Oceanine, a raccogliere fiori: rose, crochi, viole, iris e giacinti. Piante che sono emblemi di bellezza, ma che, in un tempo lonta­ no, erano anche alimenti preziosi per i loro fiori e le loro radici. Un altro fiore, tuttavia, sbocciava in quel prato. La Terra l'aveva generato perché fosse un' insidia, una trappola tesa alla fanciulla: « Un narciso splendente, prodigiosa visione [ ... ] dalla sua radice erano sbocciati cento fiori» e il suo «profumo fragrante» si spandeva dappertutto, facendo sorridere « il cielo, la terra e le onde salate del mare» (Inno america a Demetra, 10 ss.). Quel fiore sembrava un prodigio degno di sébas e di thdmbos, di riverente ammirazione e di stupore assoluto. Da una radice posta sotto terra poteva crescere e svilupparsi, nell'aria e alla luce del sole, un tale incantevole rigo­ glio: mirabile esempio della potenza nascosta della natura che, dall'oscuri­ tà, si manifesta, levandosi al cielo. Ma il « raggiante narciso » - Persefone non poteva ancora saperlo - è il fiore dei morti: cresce sulle tombe ed è legato all'umido e al freddo. Il suo profumo è stordente e narcotico : il suo nome viene da narkdn, «diventare torpido », «paralizzarsi ». Perciò quel­ la bellezza era un «inganno » . Attonita, Persefone si chinò a raccogliere quello che sembrava un « bel giocattolo », una promessa di piacere e di divertimento. Ma, in quello stesso istante, la terra si spalancò e dalla fen­ ditura sorse il carro di Ade. Il signore dell'oltretomba, il dio della morte, ghermì la fanciulla e la trascinò con sé, giù nella tenebra del suo regno. Per­ sefone fece in tempo a urlare, invocando suo padre. Ma non vi era nessuno che potesse aiutarla. Le urla della sua « voce immortale » riecheggiarono potenti attraverso gli spazi della natura fino a raggiungere Demetra: la dea, trafitta da un acu­ to dolore, capì che qualcosa di atroce era avvenuto. Così si lanciò sopra la

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terra e il mare, alla ricerca di sua figlia, alla ricerca del « tenero germoglio» che il suo ventre aveva generato. Vagò per nove giorni, girando e rigirando, reggendo tra le mani due fiaccole ardenti che potessero illuminare la tene­ bra fitta di quella sparizione. Nessuno volle dirle la verità. Solo Helios, il Sole che tutto vede, alla fine le rivelò l'accaduto: era stato lo stesso Zeus, il padre di Persefone, che aveva concesso la fanciulla in sposa al signore dei morti. Quella violenza, quel rapimento, rispondevano a un volere divino. Demetra, ancor più irata e fremente, decise allora di disertare gli dei che l'avevano tradita. Assunto l'aspetto di una vecchia, ella prese ad aggirarsi tra gli uomini fino a che giunse, appunto, nella città di Eleusi. Fu accolta nella casa del re, per essere nutrice di suo figlio. Lo strazio, tuttavia, non la abbandonava. Chiusa in un tetro silenzio, non rivolgeva parola o gesto ad alcuno, rifiutando tenacemente il cibo che le veniva offerto. Solo la vecchia lambe riuscì a scuoterla e a farla sorridere con i suoi scherzi. Alcune fonti - ave essa è chiamata Baubò - suggeriscono che lo scherzo sarebbe con­ sistito in un gesto: la vecchia si sollevò la veste, mostrando i « genitali» alla dea (Clemente Alessandrino, Protrettico, 2.,2.0-2.1 ). L'organo femmini­ le della generazione, per un momento, lenisce la sofferenza di Demetra: il luogo oscuro in cui si forma e cresce il germoglio della vita si impone sullo strazio di ciò che sembra perduto per sempre nella morte, sul dolore per quella figlia svanita nella profondità della terra. Ma, non per questo, Demetra depose il suo furore nei confronti degli dei che avevano osato tale oltraggio. Decise che quell'anno la terra non avrebbe portato alcun frutto. Nei solchi arati, i semi cadevano invano: niente germogliava. La collera di una madre può essere terribile. L'ira di colei che è, in assoluto, la Grande Madre, minacciava la più terribile delle distruzioni, mettendo in crisi gli equilibri del cosmo : «Avrebbe distrutto interamente la stirpe degli uomini [ ... ] , avrebbe privato gli dei dell'onore delle offerte e dei sacrifici » (Inno america a Demetra, 310-312.). Demetra rivoleva sua figlia: questo era il suo unico e inflessibile desiderio. Alla fine, Zeus fu costretto a piegarsi per scongiurare l 'irreparabile. Inviò Ermete nel regno dei morti per riportare la fanciulla sulla terra, per farla risalire da quella profondità in cui si era inabissata. Ade accolse docilmente l'or­ dine del signore celeste. Ma, prima di congedare Persefone, ebbe l' accor­ tezza di rivolgerle un discorso e di compiere un gesto. Le illustrò l'onore e il privilegio di essere sua sposa: «Non sarò per te un marito indegno[ ... ] . Qui tu regnerai su tutti gli esseri che vivono e si muovono» (vv. 3 63-366). « Qui » , sotto terra, nell'oltretomba: è questa forse la più alca e indicibile

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LA VIA DEGLI DEI

signoria. Regnare sulla morte significa regnare sui vivi. È «qui » che si cela il potere assoluto della vita. Persefone saltò allora in piedi, esultan­ te e piena di gioia. La fanciulla era diventata regina e grandissimi onori le sarebbero stati tributati. Terminato di parlare, con fare furtivo, perché nessuno lo scorgesse, Ade offrì quindi a Persefone i semi di una melagrana perché li mangiasse. Quel cibo l'avrebbe legata per sempre a lui, al regno della morte: anche se fosse risalita alla luce del sole, ella sarebbe comun­ que tornata laggiù. La melagrana è rotonda, perfetta come la sfera del co­ smo; al suo interno cela una miriade di semi immersi in una polpa rossa che « sembra sangue» (Pausania, Guida della Grecia, 9,2.5). Per questo suo colore, quando viene aperta in due, assomiglia a una « ferita » (Arte­ midoro, Libro dei sogni, 1,73). Nella melagrana - come nel regno sotter­ raneo di Ade - si nasconde una forza di vita, un' incredibile promessa di fecondità. Ma quei chicchi e quella polpa forse alludono anche ad altro, a un'unione che si è consumata laggiù nell'oscurità dell 'Ade : il sangue sparso dalla vergine, il seme maschile che feconda, la violenza dell'atto. Diventare sposa e madre è, per una fanciulla, la fine di un' integrità e di un'assolutezza, la fine di una forma dell'esistenza. La sessualità è sempre una ferita e una morte, una discesa agli inferi, ma da lì viene anche ogni possibile nascita. La « ferita », il sangue che fluisce, nel sacrificio come nell' éros, è sempre cosa feconda. Persefone risalì dunque sulla terra ad abbracciare Demetra. La figlia ritornò accanto alla madre che l'aveva così tenacemente attesa. La diade sembrò ricomporsi. Ma ciò che ritorna - possiamo chiederci - è l' identico di ciò che è scomparso ? Demetra ebbe il sospetto di un inganno, il timore che qualcosa fosse avvenuto: Persefone non era più "sua", aveva mangiato il cibo dei morti. La figlia tentò di dare spiegazioni: era stata costretta a mangiare quei semi. Ma vi era stata davvero una costrizione ? Nulla, nel racconto, sembrerebbe confermarlo: Persefone aveva gioito del suo desti­ no. La figlia sembrava volersi giustificare davanti alla madre, quasi si fosse trattato di un tradimento. Era sempre figlia, ma non era più solo questo. Sospesa tra due mondi, Persefone è sempre la kOre, la «ragazza » , che tor­ na uguale a sé stessa, quasi fosse impenetrabile e immutabile; ma allo stesso tempo è altra e diversa: la signora temibile e onorata dell 'aldilà, la sposa, la madre destinata a partorire una prole divina. I distinti volti del femminile si fondono in una misteriosa unità ove la differenza tra Demetra e Perse­ fone sembra dileguarsi. Alla fine, in ogni caso, fu siglato un accordo tra gli dei: Persefone avrebbe trascorso nove mesi sulla terra, accanto alla madre,

TRA VITA E MORTE. L' ESPERIENZA DEI MISTERI e tre li avrebbe passati nella tenebra degli inferi, in un ciclico movimento di risalita e discesa. La crisi era stata scongiurata: le messi sarebbero torna­ te a spuntare, gli uomini avrebbero avuto di che vivere e gli dei gli onori a essi dovuti. Nella cerimonia dei misteri, il filo della storia mi tic a, così raccontata, si fondeva con la dinamica, i gesti e i simboli del rito. Legomena, deiknume­ na, dromena, « cose dette », «cose mostrate », «cose agite » erano le componenti, sapientemente intrecciate, del percorso iniziatico, del drdma mustikOn, del «dramma misterico », che, anno dopo anno, si celebrava a Eleusi: azione agita e insieme spettacolo (Clemente Alessandrino, Pro­ trettico, 2.,12.) . Ogni anno Persefone scompariva e ritornava: sprofondava nella terra come un seme per poi, come una pianta, rispuntare dal suolo. li "mistero" non riguardava, tuttavia, solo la fecondità della terra e del gra­ no. In esso lampeggiava, attraverso la tessitura simbolica, il segreto di una vita, della vita, che viene dall' invisibile e che in esso è custodita: l' invisibile della morte, l' invisibile di ciò che sta sotto terra, l' invisibile del ventre ma­ terno. Il segreto sta nella necessità della perdita, del sacrificio, della morte: occorre che qualcosa si stacchi e dilegui perché vi sia sempre e ancora vita. Il sempre che fa di Persefone l'eterna « fanciulla » e il sempre della vita sono forse la medesima cosa. La figlia di Demetra è - come ricorda Euri­ pide (Elena, 1307) - la kore drrhetos, la « fanciulla indicibile », colei che non si può nominare, che non si può descrivere: figura terribile e insieme seducente, presenza assoluta e forma cava, simbolo di un pieno e un vuoto che rinviano circolarmente l'uno all'altro. Al culmine della cerimonia veniva esibita una « spiga di grano mietuta in silenzio » : questo era l'oggetto da contemplare, il simbolo di cui impre­ gnarsi (Ippolito, Confutazione, s ,8). Recisa dalla pianta, essa appariva cosa morta e inerte, ma i suoi chicchi erano in grado di germogliare in mille al­ tre piante, sviluppando la forza in essi contenuta. Questo occorreva vede­ re: la potenza nascosta del seme. Lo ierofante, il sommo sacerdote, in mez­ zo alla luce delle fiaccole, allora proclamava: «La signora ha generato un fanciullo, la Brimo ha generato un Brimos», la «Grande », la «Potente » ha dato alla luce un « Grande » , un « Potente » . Accanto alla dinamica del seme e del frutto, vi è, al cuore del rito, la nascita di un bimbo divino. Un sacro connubio si è compiuto. Ma chi ha partorito ? La signora «Poten­ te» è forse Demetra che è tornata a unirsi con Zeus ? O è invece proprio Persefone ad aver avuto un figlio ? E chi è il padre del nuovo nato ? Una tradizione racconta che Zeus, trasformatosi in serpente, aveva stuprato la

LA VIA DEGLI DEI figlia Persefone per generare Dioniso (Clemente Alessandrino, Protrettico, 2.,1 6). Una violenza inaudita e bestiale, un'unione incestuosa; la nascita di Dioniso, il dio della vita indistruttibile, il dio che è anche toro e serpente. Se fosse questo il nucleo segreto del mistero, se fosse questa la nascita evocata dalla formula rituale, un cerchio forse si chiuderebbe: lo sposo di Persefone e il figlio da lei partorito, l'invisibile Ade e il fremente Dioniso sarebbero una stessa e identica figura (Eraclito, fr. 15). Il che significa che vita e morte sono lo stesso. Ciò che appare vita e ciò che appare morte, perché, al fondo, solo la vita è. La signora della morte partorisce la vita: l'azione rituale, il «discorso sacro » , oggetto di trasmissione iniziatica, miravano a cogliere quest'unica ed essenziale verità. Il sacerdote che pro­ clamava il parto dellaBrimo, della « Potente» - informa Ippolito di Roma (Confutazione, s,S) - assumeva, prima del rito, una dose di cicuta per «rendersi impotente» e « staccarsi da ogni generazione carnale ». Una sorta di castrazione simbolica: alla spiga tagliata risponderebbe il fallo che non può fecondare. Ancora una volta, una perdita, una stasi, che, come la morte, sarebbe solo apparente e preluderebbe al rinnovato trionfo del na­ scere. Ma quel gesto rinviava, forse, anche a qualcos'altro, a qualcosa di più essenziale e profondo, a un orizzonte ulteriore dell'esperienza indicibile. Il seme umano era trattenuto perché, nel culmine del rito, doveva venire alla luce un bimbo divino e non una semplice creatura mortale. La nascita di un dio era il compimento supremo dell'agire sacro, ma quella nascita rappresentava forse anche il desiderio più impronunciabile e segreto di chi affrontava l' iniziazione: la meta indicata solo allusivamente, e accessibile ai pochi in grado di cogliere il mistero e farlo proprio. Essere come il figlio che Persefone genera, partorire sé stessi come un bimbo divino: quello sa­ rebbe stato il télos davvero assoluto. Dali' inizio alla fine, dal racconto del mito ai gesti agiti nella cerimonia, la traiettoria m isterica si muove in un costante contrappunto simbolico tra cibo, sessualità e morte nella cornice di un gioco cosmico. La primavera e l'autunno, le messi di cui si alimentano gli uomini e la melagrana che lega Persefone agli inferi, il seme e il sangue, il violento ratto della vergine e i genitali esibiti da lambe-Baubò, la ierogamia e il parto divino, l 'astensione della spiga e infine il solenne svelamento di un fallo (Tertulliano, Contro i Vàlentiniani, 1). Gli iniziandi erano invitati a manipolare degli ogget­ ti, come ricorda la formula rituale che essi dovevano recitare: «Ho preso dalla cesta (kiste) e, dopo aver fatto quello che dovevo fare, ho riposto nel canestro, e dal canestro nella cesta» (Clemente Alessandrino, Protrettico,

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2,21 ). Di che cosa si trattava? Si è pensato che la cesta potesse contenere un pestello e un mortaio insieme a dei chicchi: gli strumenti necessari per pre­ parare il ciceone, la bevanda caratteristica di Eleusi, composta di farina, ac­ qua ed erbe aromatiche. Ma il tono allusivo indurrebbe a pensare, ancora una volta, a un'operazione simbolica centrata su simboli sessuali. I misteri insistono su tale costellazione perché il cibo e il sesso definiscono la forma della vita, la condizione specifica dell'esistenza. Si è ciò che si mangia. Si è ciò che un certo uso della sessualità ha prodotto. In base a questo si vive o si muore, si è uomini o si è dei. Ogni differenza e ogni trasformazione passano per questo essenziale discrimine. A ricordar! o è la stessa Demetra. Quando la dea, con l'aspetto di una vecchia, si era fermata a Eleusi, la regina le aveva affidato suo figlio De­ mofonte perché lo allevasse. Demetra aveva proclamato di conoscere un «rimedio potente », un « sortilegio» capace di allontanare ogni male (Inno omerico a Demetra, 229 ss.). Grazie alle cure della dea, il bimbo cre­ sceva splendidamente, in modo «precoce » e, per l'aspetto, era « simile a un dio ». Eppure non mangiava alcun cibo umano né la dea gli dava da suggere latte. Prendendolo tra le braccia profumate di «incenso », ella lo cospargeva di ambrosia - la sostanza della «non morte » di cui si ci­ bano gli dei - e alitava dolcemente sul suo corpo. Tutte le notti, quando nella reggia gli altri dormivano, Demetra lo immergeva nella vampa del fuoco come fosse un « tizzone » . Era questa la magia che faceva cresce­ re miracolosamente il piccolo, trasformandone la natura. Ma, una not­ te, la madre li sorprese e, non comprendendo il senso dell'operazione, urlò, convinta che quella strana vecchia volesse ucciderle il figlio. Deme­ tra sdegnata colse il bimbo dal fuoco e lo depose a terra: «Stolti esseri umani, incapaci di distinguere il destino della gioia da quello del dolo­ re. Sventata, che sbaglio hai fatto ! [ ... ] Avrei reso tuo figlio immortale ed eternamente giovane [ .. ] , ora invece non potrà sfuggire al destino di morte» (vv. 255-262). Per la paura tutta umana di una madre, l' immor­ talità appare un privilegio mancato. Demofonte - come tutti gli uomi­ ni - dovrà un giorno morire e lasciare l'esistenza sulla terra. Una linea di demarcazione appare tracciata in modo ineluttabile: mortali e immortali sono tra loro distanti e diversi. Tolto dal fuoco divino, Demofonte è sta­ co posto a terra. È tornato a essere solo terra. Non sarà come il bimbo divino che Persefone ha dato alla luce nella tenebra dell'aldilà. Non di meno, Demetra aveva svelato l'alternativa. Basterebbe invertire il proces­ so, convertire un elemento nell 'altro. Basterebbe che la terra accettasse di .

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purificarsi e dissolversi nel fuoco. Una morte che non sarebbe una morte, ma, ancora una volta, una possibilità di metamorfosi, di puro essere, di rinnovata esistenza. Tra discesa e risalita, tra dolore e gioia, il gioco di Persefone e Demetra dischiude il segreto di una vita assoluta che - al di là dell'apparenza della fine - fa distinti e insieme unisce natura, uomini e dei in un vincolo sacro indistruttibile. Un segreto vissuto e percepito nel pathos della luce misteri­ ca. Una visione folgorante, propiziata da un phdrmakon che dilata i confini dello spazio e del tempo, aprendo il transito alla trascendenza. Era il phdr­ makon estratto da quei papaveri che Demetra soleva stringere tra le mani insieme alle messi. Il succo del papavero che la dea aveva somministrato a Demofonte prima di parlo tra le fiamme dell'immortalità (Ovidio, Fasti, 4,547 ss.).

A pezzi

Dei molti nomi e dei molti epiteti di Dioniso uno, forse, dice l'essenziale. Dioniso è Lusios, « colui che scioglie », «colui che libera » . Egli scioglie tutto ciò che è rigido, chiuso, cristallizzato, tenacemente radicato e uguale a sé stesso. Dissolve le forme e i vincoli, scavalca i confini e le differenze. Scioglie i tratti, le parole, le percezioni e i pensieri con cui ognuno, giorno dopo giorno, fa coincidere e insieme limita il proprio essere, nella fer­ ma convinzione che null'altro vi sia e abbia importanza. Dioniso - dio della maschera con le orbite vuote in uno sguardo inquietante - strappa e dissolve le maschere costruite e inconsapevoli con le quali ognuno si identifica, con le quali ognuno pensa di poter dire "io", "io sono questo". Sciogliendo ogni identità e ogni identificazione, Dioniso è l'estasi supre­ ma, l'atto liberatorio e insieme sconcertante dell'uscire da sé. Uscire dal proprio ruolo, dalla propria casa, dalla propria città per immergersi nella natura, nel cuore fremente della vita dove uomo e dio, animale e vegetale sono uno, dove si raccoglie il nucleo pulsante di ogni potenza e ogni ener­ gia, dove tutto appare prodigio e miracolo perché la "realtà" è altro da ciò che si è abituati a percepire e a vedere. Ciò che allora si produce è l'espe­ rienza della mania, della «follia » o - come sarebbe meglio dire - di uno « stato non ordinario della coscienza » che consente di vedere e di sentire, di toccare e insieme di essere la realtà sacra e divina della vita che è al di là e prima di ogni forma. Per questo, Dioniso è celebrato come signore dei

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katharmoi e delle teletdi, delle «purificazioni » e delle «iniziazioni ». Per questo, il dio - là dove si manifesta - appare sempre come lo Straniero, il Nuovo, l'Altro, il Tremendo: colui che irrompe, inatteso, nello spazio e nel tempo, colui che sospende e sconvolge l'ordine presunto dell'esi­ stenza, aprendo l'orizzonte di un altrove assoluto. Così l'esistenza umana - nella sua quotidiana cecità, nel suo ottuso e pervicace svolgersi - vie­ ne purificata, attingendo al suo télos, al suo divino « compimento ». Ma spogliarsi della propria forma, spezzare il guscio delle soggettive identi­ ficazioni, abbandonare ogni riferimento e convinzione è, da principio, il dolore di una ferita, lo sconvolgimento di un trauma. Non è un caso che - nelle vicende del mito - l'arrivo di Dioniso si configuri sempre come la storia di una resistenza e di un rifiuto: l'opposizione di chi non è di­ sposto a rinunciare al proprio ordine e alla propria forma, il rifiuto di chi nega qualsiasi valore all'esperienza che Dioniso dispensa. Tuttavia, è solo cedendo al suo arrivo, è solo accettando il totale scardinamento dell'e­ sistenza che una trasformazione si può compiere e una diversa felicità si può conquistare. Solo accogliendo il transito in qualcosa di ignoto e di perturbante, solo abbandonandosi alla terribile alterità del dio si può gu­ stare la dolcezza che Dioniso promette, il miele di una vita rigenerata. Per chi resiste, per chi si oppone a oltranza, l' incontro con Dioniso si risolve, all'opposto, in una catastrofe senza ritorno: la punizione di una perdita completa e di una morte definitiva. Così accade nelle Baccanti di Euripide dove lo svolgersi della dramma­ turgia segue il filo e lo schema di una ritualità iniziatica. Dioniso è giunto a Tebe. Ha assunto l'aspetto di un uomo, di uno straniero venuto dall'Asia per portare in Grecia i sacri riti del dio. Ma Tebe non è affatto disposta a rispondere a tale chiamata e nega la divinità stessa di Dioniso. Inesorabile, il dio inizia, allora, a operare con la sua magia e i suoi prodigi: la città deve rendersi conto che le teletdi, i riti, sono indispensabili. Fa impazzire tutte le donne: le strappa alle loro case e ai lavori domestici; le fa salire, in preda alla mania, sul monte Citerone, a correre e a danzare, immerse nel verde dei boschi, in una prossimità assoluta con gli animali e con le forze della natura. Penteo, signore della città, non può e non vuole tollerare questo disordine e questa inaudita secessione femminile. È assolutamente convin­ to che i riti proposti dallo Straniero siano una mera finzione, una « buffo­ nata » che fa da schermo allo sfrenamento incontrollato del desiderio fem­ minile. Il monte di Tebe, su cui le donne sono fuggite, sarebbe una sorta di bordello a cielo aperto: «Corrono per i boschi [ .. ]. Si appartano, una qua .

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una là, e si fanno scopare dagli uomini. Con la scusa che sono invasate, che offrono sacrifici, ma pensano solo al sesso: altro che Dioniso ! » (Euripide, Baccanti, 2.19-2.2.5). Non purificazione e rito iniziatico, ma contaminazione e sozzura: hubris, « violenza» e « oltraggio» è, agli occhi di Penteo, quan­ to lo Straniero propone e opera. Una hubris che deve essere subito spenta con il carcere e le catene. «Legare », «chiudere », « fermare », «tagliare » sono le parole che insistentemente gli affiorano alle labbra. Ma Dioniso, appunto, è Lusios, e non vi è cosa che egli non possa sciogliere, come Pen­ teo dovrà, suo malgrado, scoprire. Quando si trova dinanzi allo Straniero, il re è colpito e sorpreso da quella figura: «Però ... non sei mica brutto ... almeno così direbbero le donne [ ... ] . Che capelli lunghi! Di sicuro non sei uno che va in palestra a fare la lotta, con quei riccioli giù fino alle guance ... ti danno fascino! E che pelle bianca! » (vv. 453-459 ) . La bellezza androgina del dio - che mescola e confonde in uno i sessi - esercita un fascino magnetico e perturbante che fa vacillare l'animo di chi lo osserva. Ma Penteo tenta di sottrarsi al potere di tale fascinazione e, con un movimento contrario, si difende ribadendo il proprio potere e il proprio ruolo. Come se bastasse pronunciare un or­ dine e affermare di essere « signore » per possedere un'effettiva sovranità: « Sono io che comando: legatelo ! » (v. 503). Si illude di avere il controllo della situazione, di fare presa sulla realtà che ha dinanzi. È persuaso di essere nel giusto a opporsi a quegli abominevoli rituali, di essere nel suo pieno diritto di sovrano quando decide che cosa sia il bene della città. Ma Dioniso lo avverte: «Tu non sai come vivi, non sai cosa vedi, non sai neanche chi sei ! » (v. 506). Penteo è avvolto nella nube di un'assoluta incoscienza e di una totale illusione scambiata per realtà. Non sa nulla della vita, non sa nulla dello stato in cui si trova, non sa nulla di sé stesso. Eppure crede di poter rispondere, in modo semplice e immediato, alla domanda provocatoria dello Straniero: «lo sono Penteo, il figlio di Agave e di Echione ! » (v. 507 ). Con ingenua e arrogante fiducia, egli declina il proprio nome e quello dei propri genitori. È quella nascita che lo pone sul trono di Tebe, è in quel nome e in quella discendenza che egli riconosce sé stesso, il suo ruolo e la sua autorità. Senza avvedersi che la conoscenza cui il dio lo richiama va al di là dei nomi e delle appartenenze: va al di là della "persona" determinata dalla famiglia e dalla città. Il «chi sei ? » implicito nelle parole del dio è questione ben più radicale che eccede e sfonda la supposta identità su cui la vita "profana" si basa. Il «chi sei ?», inteso in tutta la sua abissale profondità, è la domanda iniziatica per eccellenza.

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D'altro canto, se Penteo s i fosse arrestato per un momento a riflettere su quel nome di cui andava così fiero, forse vi avrebbe riconosciuto l'asso­ nanza con pénthos, l' « afflizione » , il «lutto» . Forse avrebbe intuito di essere destinato a un'esperienza di dolore che - come in ogni traiettoria iniziatica - spezza il risibile involucro dell'io. L'avvertimento di Dioni­ so - « Sei adatto a immergerti nella sventura, come dice il tuo nome » (v. 508) - rimane inascoltato. Penteo non si vede e non comprende quan­ to ascolta, così come non riconosce chi gli sta parlando. Vorrebbe cerco sapere e conoscere chi è Dioniso, « che aspetto ha » e «come sono i suoi riti» (vv. 471 ss.). Ma non è nella condizione necessaria per accedere a cale conoscenza, né ha fatto alcun passo per aprirsi al sacro, rinunciando a sé stesso. Finisce così per assumere ogni parola del suo interlocutore come una menzogna o un'astuzia, quando si tratta di letterale verità. Quando lo Straniero, giocando con la propria maschera, afferma che Dioniso è lì presente, Penteo esprime irritato la propria incredulità: «E dov 'è ? Non appare ai miei occhi » (v. 501). Non può esservi evidente epifania o com­ prensione della parola per chi è profano e mantiene il proprio pregiudi­ zio: «Non si può dire a chi non è iniziato» , «Dioniso è presso di me, ma tu non lo vedi perché sei empio », ripete lo Straniero (vv. 472, 502). Occorre dunque che si compia un ulteriore passaggio. Dioniso trasfor­ ma la reggia di Penteo in un labirinto di paura e di apparizioni spaventose, di prodigi e di fantasmi, di percezioni alterate e di movimenti convulsi: terrore e smarrimento, come nella tenebra delle iniziazioni misteriche. Da principio Penteo si avventa su un toro, credendo che si tratti dello Stranie­ ro. Lo vuole fare prigioniero e non si accorge di infierire su un animale: «Si è messo a legargli gli zoccoli e le ginocchia e sbuffava di collera, si mor­ deva le labbra, con il sudore che gli colava giù » (vv. 6x8-62r). Poi, tutto comincia a tremare: gli architravi e le colonne vacillano. Un fulmine si ab­ batte e il palazzo appare in preda a un incendio devastante. Penteo, allora, corre avanti e indietro per tentare di spegnere le fiamme, si affanna a dare ordini. Tutto ciò sta accadendo davvero o sono solo phdsmata, «visioni» allucinate ? Penteo, in ogni caso, è preso da un'agitazione assoluta, da un pathos, che lo scuote e lo disorienta. « Poi si interrompe - racconta lo Stra­ niero - e gli viene in mente che io sia fuggito. Prende la spada e si preci­ pita dentro la reggia. Allora Dioniso [ ... ] crea un fantasma là nella coree. E lui con impeto si lancia contro il fantasma, pensando di trafiggermi, ma colpiva solo l 'aria [ ... ] . Avermi messo in catene gli è costata cara: adesso lo vede. Ormai stanco, lascia andare la spada e si accascia » (vv. 623-635).

LA VIA DEGLI DEI L'affannarsi confuso, il respiro pesante, il sudore, l'andirivieni concitato, i colpi sferrati a vuoto, la lotta vana con uno spettro, la catatonia finale: il re di Tebe si trasforma in una marionetta impazzita. Colui che si proclamava « signore », « figlio di Agave e di Echione », viene spogliato di ogni potere e di ogni controllo: si perde in una grottesca parodia di sé stesso e della propria regalità. Ancora un passo è tuttavia necessario per la completa destrutturazio­ ne dell' identità ordinaria, per infrangere la maschera sociale. Bisogna che Penteo rinunci al suo genere, transitando al femminile. Dioniso suggerisce al re di spiare le donne fuggite sul monte. Ma, per fare questo, aggiunge, deve vestirsi come loro, deve apparire come una baccante. Penteo rilutta al travestimento e lo avverte come un effettivo «diventare donna », come una perdita di tutto ciò che lo definisce come uomo e come re (vv. 822. ss.). Immagina la derisione di cui potrebbe essere fatto oggetto da chi lo ve­ desse per le strade della città, con quel sembiante. La resistenza alla me­ tamorfosi è tuttavia vinta da Dioniso che gli instilla una «leggera follia » (v. 851): quell 'alterazione, appunto, che scioglie dal freno della vergogna e del pudore. Quando esce dalla reggia, Penteo è la perfetta replica di una baccante, ma, in questo suo travestimento, si offre e si presenta come l' im­ magine altrettanto compiuta di sua madre: «Allora, che aspetto ho ? Non ti sembra di avere davanti [ ... ] mia madre Agave ? » (vv. 92.5-92.6). Lascian­ dosi alle spalle il dovere di assomigliare alla figura paterna e di imitarne la virilità, Penteo finisce per coincidere con il femminile materno e con quel fantasma sessuale che egli associava alle donne dedite a Dioniso. E, con questo, egli entra anche nel dominio di quell ' androginia divina che tanto lo aveva scosso e disgustato. Ora che Penteo non è più tutto ciò che riteneva di essere e di dover es­ sere, il suo sguardo infine muta e la visione si produce come uno squarcio improvviso: «Mi sembra di vederci doppio, giuro: due soli ... due città di Tebe con le sue sette porte ... E tu che mi guidi... tu mi sembri un toro, ti sono cresciute le corna sulla testa! Eri un animale anche prima? Perché, sì. .. adesso sei proprio un toro !» (vv. 918-92.2.). Le dimensioni percettive si dilatano, la realtà si raddoppia come in un gioco di specchi, e dietro la maschera umana dello Straniero balena l'epifania del toro divino, i tratti animali del metamorfico Dioniso che è dio, uomo e animale allo stesso tempo. Solo nello stato alterato di coscienza si attinge alla verità del sacro. Non resta che salire sul monte perché si compia l'ultimo atto dell'i­ niziazione. Senza rendersene conto Penteo pronuncia la formula che lo

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consacra definitivamente al dio: « Eccomi, sono tuo» (v. 934). E, come una vittima votata al sacrificio, viene accompagnato sul Citerone che si staglia su Tebe. Una vera e propria «processione» rituale di cui lo Stranie­ ro è guida (vv. 1044 ss.). Raggiunto il luogo, Penteo viene collocato sulla cima svettante di un abete, come se si trattasse di occupare un simbolico axis mundi. Ed ecco che un fuoco celeste balena unendo il cielo e la terra. Tutto è immobile, sprofondato nel silenzio più assoluto. È l' istante fatale che precede lo scatenarsi della furia. Dioniso, con il suo urlo, desta dal son­ no le donne che riposavano sul prato, tra gli alberi. Le incita ad aggredire l'uomo che è venuto a spiarle. In preda al delirio, esse circondano l'albero, sbalzano Penteo dalla cima e, come uno stuolo di cagne inferocite, si av­ ventano su di lui. Penteo si ridesta per un momento e tenta di farsi rico­ noscere, spogliandosi del travestimento, ma è proprio sua madre - quella cui aveva voluto assomigliare - ad aggredirlo per prima. Lo stuolo furente .delle donne dà quindi inizio allo sparagmos, allo « smembramento » della vittima, che viene fatta a pezzi, come un animale, mentre ancora è viva e respira: «Gli sono sopra. Non si sentono che urla confuse. Lui si lamenta finché ha fiato [ ... ]. Una ha un braccio di Penteo, un'altra il piede anco­ ra infilato nel calzare. Sul tronco gli sono rimaste solo le ossa: gli hanno strappato tutta la carne e, con le mani grondanti di sangue, si lanciano i pezzi come se giocassero a palla » (vv. 1132.-1136). Penteo, colui che credeva di sapere e di potere, di essere e di comanda­ re, è stato fatto letteralmente a pezzi. Tutto di lui, della sua vita, della sua autorità, della forma stessa del suo corpo, è stato dissolto. Se il percorso iniziatico consiste - come si è visto - nell'affrontare il pathos della pro­ pria morte e della propria disintegrazione, quanto si è compiuto sul monte - lo smembramento del re vestito da donna - costituisce un'iniziazione "perfettà'. Ma Penteo - a differenza dell' iniziato che ha compiuto devota­ mente l'esperienza della sua morte - non è destinato a vedere alcuna luce, né a conoscere alcuna rigenerazione. Per Penteo non c'è ritorno, né risalita dall'Ade. Ha negato il dio, gli si è opposto, lo ha combattuto fino a che ne è stato capace. Il dono dell'iniziazione, per lui, per l' «empio» che ha profanato il sacro, è solo beffa atroce e punizione efferata: vendetta del ter­ ribile Dioniso che farà conoscere ad altri la sua dolcezza. A chi, guardando la sventura di Penteo, saprà cedere e assegnare a quel cammino un diverso télos. A chi accetterà di buon grado di essere fatto a pezzi per compiere, su un piano più alto, la sua vita.

LA VIA DEGLI DEI Un uovo, un bimbo, un'acqua di vita

Dioniso stesso era stato, un tempo, ucciso e smembrato con efferata violen­ za, come in Egitto era accaduto al solare Osiride. La storia di questa morte divina era al centro del pensiero e della ritualità degli Orfici. Per loro, la vi­ cenda del cosmo - la pulsazione della vita - muoveva tra due poli: un uovo e Dioniso bambino. Ali' inizio, prima che il mondo fosse, quando tutto era solo oscurità e notte profonda, il Tempo aveva creato un uovo d'argento, forma perfetta dell'unità che racchiude la potenza di tutte le cose. Nessun essere l'aveva fecondato, nessun essere vi aveva impresso la propria forma perché da quell'uovo dovevano scaturire tutte le forme. Solo il vento era en­ trato in lui come energia e forza di vita. Solo il soffio dello spirito, vorrem­ mo dire. Il guscio d'argento infine si spezzò e fu uno squarcio di luce che illuminò di sé l'oscurità. Dal guscio era uscito Phdnes, il « Luminoso» , lo « Splendente », colui che nel nome è il miracolo stesso della manifestazio­ ne che si dispiega. Phdnes come phdinomai, « appaio», « mi manifesto» : è l'apparire del mondo, l'energia dell 'uovo che si esprime, lo scaturire della piena visibilità dell'essere ( Orjici, 54-56, 6o-61, 70, 76, 86). Phdnes era il Protogonos, il «Primo nato » , che, con la sua luce, dava la vita. Era Métis, il supremo « Consiglio» , che presiedeva alla genesi del mondo. Era Eros, che univa gli esseri e guidava ogni congiungimento. Era il supremo Zoon, il sommo «Vivente » , scintillante con le sue ali d'oro, vorticoso e rapido come il turbine del vento, che lo aveva animato. Phdnes possedeva quattro occhi per guardare in tutte le direzioni all'infinito. Aveva testa di capro, di toro, di leone, di serpente: quattro animali che racchiudono in sé il segreto svolgersi del cosmo e della vita, il movimento degli astri e il trascorrere delle stagioni. Dall'oscurità fredda dell'inverno al manifestarsi primaverile della forza generante, dal calore assoluto del sole estivo ali' assopirsi mortale e disgregante dell 'autunno ove la vita si rintana nella terra come un serpente a mutare la pelle per poi, di nuovo, eternamente rinnovarsi. Phdnes era padre e madre, femmina e maschio, l'essere doppio che portava, al di sopra dell'ano, entrambi i sessi: l'andro­ gino divino era il «primo re del cosmo », perché solo l'androgino può da sé creare ogni cosa ( Orjici, 73, 79-81, 86, 98, 107-108). Dal fulgore di Phdnes scaturirono, in successione, gli elementi dell'uni­ verso e le generazioni divine, in una sequenza di regni celesti: da Urano a Crono, da Crono a Zeus ( Orjici, 107). Quest 'ultimo volle assorbire, in sé stesso, l'intero universo per poteri o, da sé stesso, rigenerare. Ingoiò il fallo

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di Urano da cui, con divina eiaculazione, era sprizzato l'etere caldo e lumi­ noso, il seme infuocato del sole (Papiro di Derveni, 13 ). Ingoiò lo splenden­ te Phdnes e, con lui, il cielo, la terra, il mare, la natura intera, tutti gli dei e tutte le dee: tutto ciò che era nato e tutto ciò che ancora doveva nascere era riunito insieme all'interno del suo corpo divino. Ma, con un atto «me­ raviglioso» , Zeus, di nuovo, dal profondo del suo «cuore», fece risalire ogni cosa alla luce, fece riapparire il cosmo nel suo splendore ( Orftci, 8s, 129, 167-168). Con quel gesto, con quella magica operazione, il dio aveva svelato un grande segreto: l'universo può raccogliersi tutto nello spazio infinitamente piccolo del cuore, e il cuore - che è intelligenza e vita - può generare, da sé, tutte le cose in un intenso slancio d'amore. Zeus, infine, generò da Persefone Dioniso, conosciuto con il nome di Zagreo, perché fosse il sommo e l'ultimo «re del mondo ». Ma Dioniso è, di nuovo, lo scintillante Phdnes che si manifesta agli uomini e agli dei. Il primo e l'ultimo sono lo stesso in un cerchio che si chiude, in una spirale che si avvolge su sé stessa (Orftci, 195, 197, 207-208). Quel bimbo meravi­ glioso suscitò, tuttavia, invidia e ostilità. La gelosia di Era, che si era vista tradita da Zeus con Persefone. La gelosia dei Titani, gli dei più antichi, che si sentivano spodestati da quel re fanciullo. Questi decisero, dunque, che doveva essere eliminato ( Orftci, 209, 2II ) . Sette di loro - sette Titani, quanti sono i pianeti del cielo o le note di una scala musicale - si prepara­ rono per tendergli un agguato. Si impiastricciarono la faccia di gesso per rendersi irriconoscibili, dice una fonte antica. Volti bianchi come spettri. Così fanno, peraltro, anche i maestri delle iniziazioni: si dipingono il viso, si mascherano, per presentarsi agli iniziandi come esseri venerabili e terni­ bili di un altro mondo, come spiriti capaci di trasformare chi si sottomette al rito. Ma anche gli iniziandi, a loro volta, possono avere il volto o il corpo dipinto a segnare quella transizione rituale che li farà essere altri da ciò che sono stati. In modo analogo, anche il volto del piccolo Dioniso fu cospar­ so di gesso dalle mani dei Titani. L'assassinio che si stava per consumare era, dunque, anche una cerimonia. Per irretire e distrarre il fanciullo divino, i Titani gli recarono dei bei doni: una palla, una trottola, degli astragali, i pomi delle Esperidi, un rom­ bo e uno specchio ( Orftci, 31, 34). Incantevoli e graziosi giocattoli che su­ scitarono la curiosità e la gioia del piccolo. Ma ognuno di quegli oggetti era anche un simbolo del gioco cosmico e del divino che è in esso, emblemi di un'azione rituale che unisce tra loro i piani dell'essere. La palla rotonda come la sfera celeste; la trottola che gira su sé stessa, con un movimento a

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LA VIA DEGLI DEI

spirale, imitando il moto stesso dell'universo; gli astragali ovvero i dadi che, venendo gettati, determinano le configurazioni della sorte e i cicli del tempo; le mele dorate che sono immagine della felicità e della vita immor­ tale; il rombo, triangolo di legno, che, tenuto per un filo e fatto ruotare vorticosamente, produceva un suono cupo e spaventoso, come un toro che muggisce, o come la voce di Phdnes e di Dioniso. E infine la superficie ri­ flettente dello specchio che, come per magia, sembra contenere e mostrare ogni cosa. Lo specchio è strumento della conoscenza più preziosa perché in esso si può vedere sé stessi, si può conoscere e riconoscere ciò che si è. Ma lo specchio è anche temibile malia e perfido inganno perché ciò che in esso appare è solo simulacro, immagine fuggevole, priva di sostanza. È il terri­ bile equivoco di prendere la mera parvenza per cosa reale o - come Narci­ so - di non riconoscere nell' immagine il proprio stesso essere. Rivelatore e ipnotico, mezzo di verità e gioco straniante: fu proprio lo specchio - tra tutti i balocchi - quello che catturò il piccolo Dioniso. Cosa vide in esso il fanciullo divino ? Contemplò forse la propria immagine e, con il volto coperto di gesso, non si riconobbe, pensando, con sconcerto e con meravi­ glia, che un'altra creatura lo guardasse da quella superficie ? O forse, riflet­ tendosi nello specchio, vide, raccolta in sé, l' intera apparenza del mondo ? Perché Dioniso è Phdnes e la molteplicità variegata dell'universo viene da lui e coincide con il suo stesso manifestarsi. Tutte le cose sono il volto ri­ flesso di Dioniso, tutte le cose sono nello specchio in cui egli si guarda. In quell'immagine, Dioniso è l'unità di sé stesso e insieme l'infinita alterità che si moltiplica e si frammenta, come avevano pensato i neoplatonici me­ ditando sulla mitica vicenda. O, forse, dobbiamo immaginare qualcosa di ancora diverso ? Il dio intravide nello specchio il profilo spettrale dei Tita­ ni che stavano per aggredirlo e, mite come una vittima sacrificale, si offrì, di necessità, al loro coltello perché tutto accadesse: «Essi affondarono la lama del Tartaro nel corpo di Zagreo, mentre contemplava un' immagi­ ne ingannevole riflessa sullo specchio » (Nonno di Panopoli, Dionisiache, 6,172.-173). Compirono quindi lo sparagmos, lo « smembramento» : lo fe­ cero a pezzi, misero le sue carni a cuocere e infine lo divorarono. Ma Zeus, informato del crimine orrendo compiuto sul corpo del suo figlio più caro, reagì immediatamente. E, con la folgore divina, incenerì i suoi perfidi as­ sassini. Tutto sembrava essersi concluso con il suggello della morte. Per Dio­ niso, tuttavia, non si trattava di una fine, ma solo di un passaggio, di una

TRA VITA E MORTE. L' ESPERIENZA DEI MISTERI transizione della sua storia infinita. Apollo, dio dell'unità assoluta, riunì quel che restava del bimbo. Atena raccolse il suo cuore che era ancora pal­ pitante. E da quel cuore, per prodigiosa azione divina, Dioniso ritornò alla vita. Rinacque unico e intero, nuovo e perfettamente integro ( Orfici, 35-36, 2.0 9-2.10, 2.40 ). Dal cuore scaturisce l'unità del cosmo così come, da esso, risorge l'unità rigenerata del dio. Un'unità che si ricostituisce direttamen­ te dal suo nucleo vitale o - come una variante della tradizione immagi­ na - attraverso un'azione magica: quel cuore fu triturato e bollito e quindi dato da bere a Semele perché restasse incinta del dio e dal suo ventre lo rimettesse al mondo (Igino, Favole, 167 ). Ingoiare il cuore, ingoiare il fallo, ingoiare il mondo sono atti diversi e insieme uguali di un atto supremo di palingenesi. Anche dalle ceneri dei Titani, dai resti degli assassini, qualcosa nacque. Dopo che la folgore celeste si abbatté su di loro, «dalla fuliggine dei vapori Ghe si levarono, una volta sedimentata la materia, si generarono gli uomi­ ni». Il genere umano sorse, dunque, da questo delitto e, in ragione di esso, ha in sé una duplice natura: la crudeltà, l' irrazionalità, la cupidigia che avevano indotto i Titani al delitto, ma anche l'essenza divina che i Titani avevano assorbito divorando il figlio di Zeus. Per questo, « noi siamo parte di Dioniso ». Siamo involucri che custodiscono un frammento del divino, siamo - come suggerisce un'altra immagine della tradizione - statue di gesso che racchiudono il cuore sacro di Dioniso ( Orfici, 7, 2.14, no). «l misteri di Dioniso - lamentava un autore antico ( Orfici, 34) - sono inumani» per questo intreccio di violenza: il massacro di un bambino, il pasto cruento e cannibalesco delle sue carni, la genesi degli uomini come residuo di un delitto e di una punizione. Ma l' «inumano» dei misteri è quanto è necessario per andare, appunto, al di là dell 'umano, verso la sovrumana sorgente del divino. La morte del bimbo è un sacrificio che crea l'uomo e che, insieme, apre la via della sua rigenerazione. È il modello stesso su cui si costituisce il rito iniziatico e su cui si fonda la promessa di una rinascita. Il fanciullo sporco di gesso e fatto a pezzi si offre agli uomini perché essi ne ripercorrano la storia e l'esperienza, perché, nella ripetizione del mito e dell 'atto rituale, essi ne incarnino il pdthos e insieme vedano l'origine e la genesi del loro essere. Occorre riattraversare la sofferenza dello smembra­ mento. Occorre che l'unità del soggetto umano si disgreghi, separando le sue componenti. Occorre, ancora, che la purificazione della morte iniziati­ ca elimini le scorie « titaniche » affinché si possa liberare e fissare il nucleo

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divino, la scintilla della vita immortale che viene da Dioniso. li dio è Lusios al grado supremo proprio perché « scioglie » dal « male» dei Titani, dal male di un'esistenza ottusa e feroce, dal male di quella «tomba » che, per gli Orfici, era il corpo squassato dal desiderio e dalle passioni ( Orfici, 8, 229, 233). L'iniziato che ha raggiunto il télos dei misteri di Dioniso è, in vita, un puro e un liberato, e, quando sarà il momento di lasciare la tomba cor­ porea, saprà come affrontare il transito nell'aldilà, saprà cosa dire e come farsi riconoscere dagli dei, saprà come ritornare al divino cui appartiene, lasciando, per sempre, la ruota delle nascite, il ciclo ripetuto dell 'incarna­ zione, cui la componente titanica altrimenti lo ricondurrebbe. Nelle !ami­ nette d'oro, che gli iniziati portavano con sé nella tomba, sono racchiuse le parole di passo e le formule per attingere, senza errore, a una compiuta reintegrazione. A guidare gli iniziati è il « sacro dettato » di Mnemosine: la dea della «Memoria » che suscita il ricordo dell'origine. Un ricordo che non si dà come un contenuto, ma come uno stato di coscienza, come una vibrazione di energia perché la mnemosune al pari di ménos, « furore », e di mania si lega a una radice che indica, anzi tutto, una forma particolare di inten­ sità. Mnemosine ammonisce, dunque, l' iniziato che si appresta al viaggio oltremondano: «Quando ti toccherà di morire andrai alle case di Ade: sulla destra c'è una fonte con un cipresso bianco; là, scendendo, si rinfre­ scano (psuchontai) le anime dei morti. Tu non avvicinarti troppo a questa fonte. Davanti a essa troverai invece la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosine. I suoi custodi, con mente accorta, ti domanderanno che cosa vai cercando nella tenebra dell'Ade. Tu rispondi loro: "Sono figlio della Greve Terra e del Cielo Stellato, sono arso di sete e muoio. Datemi presto da bere l'acqua fredda del lago di Mnemosine"» (Lamine d'oro, II a 1). Le anime giungono laggiù disseccate e tormentate da una terribile arsura. Si sentono « morire» e hanno l'istintivo desiderio di bere, ed è qui, nella scelta dell'acqua di cui dissetarsi, che tutto si gioca. Le anime, le psuchdi, bramano di psuchesthai, di « raffreddarsi » , di « trovare refri­ gerio». Ma psuchesthai per l'evidente connessione con psuché, che è il nucleo vitale dell' individuo - vuol dire anche « rianimarsi », « riprendere vita» . Le anime di chi transita nell'altra dimensione vogliono « rivivere » . D i quale «vita », tuttavia, si tratta? Coloro che non sono iniziati, coloro che non sono guidati da Mnemosine si precipiteranno, avventati, alla fon­ te che sta accanto al cipresso bianco, l'albero che appartiene alle divinità -

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infere, l'albero della morte. Così finiranno per bere l'acqua di Lete, l'acqua dell' «oblio », che li costringerà a reincarnarsi, a ritornare all' «umido» della genesi corporea, a rianimarsi a una vita che non è vita. Penseranno di rivivere e invece moriranno di nuovo, immergendosi, ancora una volta, nel ciclo delle nascite. Gli iniziati, al contrario, si volgeranno ali' acqua che vie­ ne dal Lago della memoria. È anch'essa un'acqua fredda, ma lo psuchron, il «refrigerio» offerto dalla dea è rianimazione in senso del tutto diverso. È il ridestarsi, pieno e assoluto, di una vita divina, di un vita che non è «umi­ da », come la natura dei corpi, ma « secca » e solare, come gli dei. Una volta bevuta quest'acqua di vita - promette Mnemosine - « tu potrai procedere sulla sacra via che percorrono gloriosi gli altri iniziati e i posseduti da Dioniso» . La «gloria » di questa hierd hodos, di questa « stra­ da sacra » è altra e diversa dalla m era fama terrena. È la gloria eroica dell'i­ niziato che, dopo le purificazioni e i riti, dopo le prove e i patimenti, dopo il pathos dei misteri, ha conseguito la propria «perfezione», attingendo alla felicità del bimbo divino partorito da Persefone. Così potrà liberarsi dal ciclo delle nascite umane: «Sono volato via dal ciclo doloroso, greve d'affanni - recita un'altra laminetta, dando voce alla beatitudine di chi ha raggiunto la fine del proprio cammino -, sono salito veloce all'agognata corona. Mi sono immerso nel grembo di Persefone, della regina degli inferi [ . ]. "O felice, o beato, sarai un dio anziché un mortale", e io, come un capretto, mi lanciai nel latte » (Lamine d'oro, II b 1). Identificatosi con Dioniso - il capretto divino -, l' iniziato è un bambino esultante che si bagna nel latte vivificante della dea per rigenerarsi alla pienezza dell'essere che sempre sarà. Dissetato dali' acqua di vita, accolto dal grembo materno della sposa di Ade, nutrito dal suo candido latte, egli può finalmente anap­ néin, «riaversi » dal male della morte e «tornare a respirare » con il soffio dell'etere divino da cui la sua anima dionisiaca proviene. ..

2.

Folgorazioni arcaiche Tra Pitagora ed Empedocle

Il figlio del sole

La nascita di Pitagora era stata annunciata dalla Pizia delfica, dalla sa­ cerdotessa del dio Apollo. A Mnesarco di Samo e a sua moglie Parteni­ de sarebbe nato un figlio prodigioso che, con la sua opera e la sua pre­ senza, avrebbe giovato all'intero genere umano. L'oracolo del dio trovò conferma, mano a mano che il piccolo cresceva. Un essere eccezionale era davvero venuto al mondo. Sin da fanciullo, egli destava l' immediata at­ tenzione di chi lo incontrava. Una « stupefatta ammirazione», una quasi sacrale «venerazione » era suscitata dall' intelligenza che le sue parole e i suoi gesti manifestavano. Tutto in lui era composto e misurato, solenne e infuso di sacralità allo stesso tempo. La luce solare di Apollo sembrava manifestarsi in quel corpo e nei discorsi che egli pronunciava. Anche la sua apparenza esteriore segnalava una differenza dai comuni mortali: la straordinaria bellezza, la corona d'oro sul capo, le vesti candide sotto le quali indossava pantaloni altrettanto bianchi, diversamente dal costume greco, ma in modo simile al rnitico Orfeo, il cantore della nordica Tracia (Giarnblico, Vita di Pitagora, s- u ; Eliano, Storia Vtzria, 12.,32.). Agli abitan­ ti di Sarno pareva davvero che un «ddimon benigno» si fosse manifestato tra i mortali: «un'anima inviata dagli dei» affinché si prendesse «cura » degli uomini e li illuminasse di sapienza. Forse, in quelle spoglie mortali, in quell 'aspetto pacato e venerando, si nascondeva lo stesso Apollo, dio del sole, sceso sulla terra attraverso un suo avatar. Così pensava lo scita Abari, giunto in Grecia e in Italia scendendo dal lontano Nord, dal paese favoloso degli Iperborei, in cui, secondo il mito, Apollo si ritirava nei mesi invernali. Abari aveva compiuto un lungo viaggio a cavallo di una freccia fatata che gli consentiva di viaggiare attraverso l'aria, coprendo distanze immense. Sulla freccia di Apollo, Abari volava come volano gli sciamani

LA VIA DEGLI DEI che sanno staccarsi da terra e aggirarsi liberi nel regno degli spiriti e de­ gli dei. Quando incontrò Pitagora, Abari non ebbe dubbi sull' identità di quell'essere eccezionale. E con un gesto eloquente, gli donò la sua freccia magica. In realtà, non si trattava di un dono, ma di una reverente resti­ tuzione: se Pitagora era un'epifania mortale di Apollo, lo sciamano del Nord non faceva che rendere al dio ciò che questi gli aveva elargito quando era partito dai remoti lperborei. Pitagora, d'altro canto, parve voler con­ fermare la sua natura più che umana, sollevando la veste e mostrando ad Abari la sua coscia. Quella parte del suo corpo era tutta d'oro. Il prezioso metallo era il segno eloquente di una natura superiore, il segno d'elezio­ ne che lo apparentava al divino (Giamblico, Vita di Pitagora, 90-92.). Gli sciamani e gli uomini scelti dagli dei per una missione spirituale avevano sempre sul corpo un marchio distintivo, una parte che era stata sostituita alle carni mortali quando gli dei li avevano fatti nascere o rinascere a un piano superiore dell'essere attraverso una magica metamorfosi. Dei maghi e degli sciamani Pitagora aveva tutti i poteri ( Giamblico, Vita di Pitagora, 6o-6s, 134-136). Possedeva il dono della veggenza che gli consentiva di prevedere ogni evento, di avvertire in anticipo lo scatenarsi di terremoti e di catastrofi naturali, di mettere in guardia i suoi interlo­ cutori da imminenti sventure. Aveva il dono di parlare il linguaggio degli animali e di farsi intendere da loro: un giorno aveva placato un'orsa feroce, accarezzandola mi temente e convincendola a non aggredire mai più alcun essere umano; a Olimpia aveva fatto scendere dal cielo un'aquila che si era posata, docile e riverente, presso di lui, a conferma che gli dei comunica­ no, attraverso gli uccelli, i loro preziosi messaggi; un'altra volta, ancora, aveva persuaso un bue a non cibarsi delle fave di un campo, sussurrandogli sommessamente all'orecchio. Aveva il dono di apparire contemporanea­ mente in luoghi diversi, come quando, lo stesso giorno, si era manifestato a Metaponto in Magna Grecia e a Tauromenio in Sicilia e, in entrambi i luoghi, si era intrattenuto conversando con i suoi discepoli. Aveva, infine, la straordinaria capacità di cogliere ciò che a ogni orecchio umano era pre­ cluso: sapeva udire la musica meravigliosa delle sfere celesti, il suono stes­ so del cosmo nella sua perfetta e regolare rotazione. Sono, questi, i poteri cui accede chi sa spogliarsi del proprio limitato "io" mortale, della propria identità finita, per sintonizzarsi con la voce dell'universo, giungendo a es­ sere uno con la vibrazione della natura intera. A chi sa compiere questa morte del proprio sé umano, tutto improvvisamente parla e diviene lu­ minosa trasparenza, in uno stato di perfetta partecipazione e di compiuta

FOLGORAZIONI ARCAICHE. TRA PITAGORA ED EMPEDOCLE

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comunione di energia. Tutto prende voce, diviene presenza e si dispensa come elargizione incessante, che rende possibile ogni cosa e che permette di agire sulla natura stessa. È questo stato d'essere, questa vibrazione interiore, questo accordo che prende il nome di magia. È la superiore capacità di integrare a sé stessi le forze latenti della natura e dell 'uomo, quelle forze che sfuggono ai più, ma che, attivate e fatte proprie, trasformano l'uomo in un essere «divino ». E il divino Pitagora, cogliendo la voce del cosmo, sapeva, come nessun altro, tradurla in « magia » e «incantesimi » efficaci. Con un sapiente intrec­ cio di parole, il ritmo di un verso, un accordo di note opportunamente modulate, egli agiva sugli uomini, trasformandone le emozioni e gli stati d'animo, inducendo calma serena ed equilibrio là dove regnava patologica agitazione e furore passionale. Con i suoi «incantesimi », con le sue me­ lodie di «preparazione », «correzione >> e « armonizzazione », egli puri­ ficava e apriva la mente ad altre dimensioni (Porfirio, Vita di Pitagora, 30; Giamblico, Vita di Pitagora, m-114). Doppio mortale del solare Apollo, Pitagora, tuttavia, partecipava anche al regno e ai poteri di Ermete, il dio dei transiti e dei passaggi, il signore della parola efficace, il divino accompagnatore delle anime nel viaggio della vita e della morte. Pitagora, in un tempo remoto, era stato infatti anche Etalide, il figlio di Ermete, colui che aveva avuto dal dio il privilegio di ricordare, nei secoli, il susseguirsi delle incarnazioni mortali e di conservare la coscienza di sé attraverso la morte. E Pitagora ricordava tutto: sapeva di essere stato Etalide, e di essere poi rinato come Euforbo, il coraggioso e bellissimo guerriero che aveva combattuto a Troia ed era stato ferito da Menelao. Era poi rinato come Ermotimo e aveva dato prova della sua precedente identità ritrovando nel tempio di Apollo a Branchide lo scudo che, a Troia, era stato imbracciato da Menelao. Nella successi­ va reincarnazione era stato Pirro nell' isola di Delo, l' isola pura e dorata, dove Apollo era stato partorito da Latona. E infine era divenuto Pitagora (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 8,4-5). Gli bastava « tendere i precor­ di », agire sul «diaframma», perché l' immagine di tutte le vite trascorse gli fosse presente. Phrén e phronéin - il nome della « mente» e dell 'atto del «pensare » - erano, per i sapienti arcaici, non i termini di un'attività intellettuale, ma l'arte suprema di usare il respiro, di concentrare quel sof­ fio divino che era l'anima stessa, aprendolo alle dimensioni infinite dello spazio e del tempo. Tutto ciò, nell'antichità, si raccontava sul conto di Pitagora. Leggenda,

LA VIA DEGLI DEI si dirà. Un'agiografia costruita a posteriori, con successive e tarde elabora­ zioni, con proiezioni derivanti da ulteriori ambienti. Il dato storico di Pi­ tagora e della sua cerchia originaria rimane, certo, scarsamente accertabile. Ma non è questo il punto, in una prospettiva di carattere iniziatico. I suoi discepoli - affermano le fonti antiche - non dubitavano di alcun dettaglio che componeva quest'immagine sovrumana. Pitagora stesso aveva, d'altro canto, raccomandato di prestar fede a ogni racconto e a ogni tradizione che riguardasse gli dei ( Giamblico, Vita di Pitagora, 13 8 ) . Non si trattava, e non si tratta, di un cieco e corrivo assenso al prodigioso, ma di una sapien­ te modalità di accordare la mente a una condizione altra, di portarsi a un superiore stato di coscienza, impregnandosi delle parole e delle immagini che parlano del divino e ne manifestano la potenza. Il sovrumano si pro­ duce solo quando ci si identifica con il sovrumano stesso, coincidendovi con tutto il proprio essere, con ogni fibra del corpo e ogni respiro della mente. Il racconto leggendario, il profilo del maestro e l' immagine ideale di una comunità, se ascoltate e intese con tale pastura, hanno un loro par­ ticolare "effetto". Celebrato come «demone» e « dio » , Pitagora era, allo stesso tempo, per gli antichi, la figura del perfetto iniziato, il paradigma di colui che ave­ va conosciuto e praticato tutti i riti e tutti i misteri, senza lesinare fatica e impegno. L'una cosa richiama l'altra perché solo il vero iniziato può aspi­ rare a una condizione divina: «Sarai un dio anche tu » promettevano i suoi Versi aurei a chi seguiva la via indicata dal maestro. La tradizione anti­ ca, dunque, vuole che Pitagora abbia viaggiato dalla Fenicia ali' Egitto, dal­ la Grecia a Babilonia, per apprendere ogni possibile sapere e ogni pratica distillata nei più reputati centri iniziatici. Dai misteri di Eleusi a quelli di Samotracia, dai riti di Lemno a quelli di Imbro, dalle cerimonie dei Magi alle investigazioni celesti dei Caldei: nulla egli avrebbe trascurato nel de­ siderio di elevarsi al di là dell 'umano e di sviluppare alla massima potenza le qualità divine che erano in lui (Porfirio, Vita di Pitagora, 6; Giarnblico, Vita di Pitagora, 14, 151). Un cammino di evoluzione e di trasformazione per il quale era stato disposto ad affrontare ogni prova. Quando era giunto in Egitto, i sacerdoti di Menfi, gelosi del loro arcano sapere, non furono, da principio, disposti ad accogliere quel giovane greco. Lo sottoposero a «grandi patimenti» e a «precetti severi » , convinti che si sarebbe scorag­ giato. E solo quando videro che Pitagora a tutto si prestava con pazienza e fermezza, si decisero, con ammirazione, ad aprirgli le loro porte e i loro culti (Porfirio, Vita di Pitagora, 8). Così, d'altro canto, fanno di solito i

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maestri quando, prima di qualsiasi iniziazione, si accertano delle reali in­ tenzioni e dell'effettiva determinazione di chi chiede la conoscenza. Nel suo periplo sapienziale, Pitagora non mancò di fermarsi anche a Creta, l' isola dove Zeus era nato e cresciuto, dove i divini Cureti e i Dat­ tili Idei, figli di Rea, avevano protetto e nascosto il piccolo dio. I Cureti avevano danzato, facendo strepito con le armi per coprire i vagiti del pic­ colo Zeus e impedire che il padre Crono lo divorasse. Nel tempo, Dattili e Cureti avevano dato il loro nome a confraternite sacerdotali che, nelle grotte cretesi, celebravano, periodicamente, le sacre iniziazioni. Nell'antro del monte Ida, la nascita di Zeus, la nascita del bimbo divino - nutrito dal miele che preserva dalla morte - si ripeteva ogni anno nell'accensione di un fuoco immane, quando il « sangue» versato al parto del dio comincia­ va a « ribollire» (Antonino Liberale, Metamorfosi, I9 ). In quella grotta so­ leva ritirarsi, ogni nove anni, Minosse, per incontrare Zeus e farsi ammae­ strare da lui (Platone, Leggi, 62.4 b). Là aveva dormito, per più di duecento anni, Epimenide, che nella stasi vitale del corpo, nella condizione di morte apparente, aveva potuto liberare la propria anima e addentrarsi nella vi­ sione diretta del divino (Diogene Laerzio, Vìte deifilosofi, 1,109; Massimo di Tiro, Dissertazioni, I O ) . Permanendo nell'antro, egli aveva incontrato «Verità e Giustizia » e ne era uscito completamente trasformato, non solo per i poteri psichici che aveva acquisito, ma anche per il mutamento fisio­ logico che gli rendeva superfluo ogni alimento umano. Anche Pitagora, dunque, volle provare il segreto di quelle esperienze (Diogene Laerzio, Vìte deifilosofi, 8,2.; Porfirio, Vìta di Pitagora, I ? ) . Sbarcato sull'isola, ven­ ne purificato dai Dattili Idei con la ceraunite, la sacra «pietra di folgore» caduta dal cielo. Ali ' alba, si prostrò alle onde del mare e, la notte, coronato di ghirlande, ripeté lo stesso gesto sulla riva di un fiume. Avvolto nel vello di un montone nero, scese quindi nella grotta ove rimase per nove giorni affinché il percorso iniziatico si compisse. Il nero del vello e l'oscurità della grotta erano come una tomba dove morire, ma anche come un utero da cui rinascere dopo che il tempo richiesto era trascorso: nove giorni, la potenza del numero perfetto, del tre, che, come Pitagora sapeva, è inizio, mezzo e fine di ogni cosa, cifra della realizzazione perfetta. Nella grotta, dove ogni moto e ogni percezione si sospende, la tenebra prolungata muta i ritmi del corpo e risveglia i poteri sopiti dell'anima, che, come nei misteri, può fi­ nalmente vedere l'invisibile. Scendere nella grotta è come scendere nell'A­ de e aprire la coscienza alla totalità della vita e della morte. Pitagora aveva compiuto, come Odisseo ed Eracle, la catabasi che marca il passaggio a

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un' iniziazione reale, a una effettiva metamorfosi del sé che si può quindi ricongiungere alle forze sacre del cosmo. Tornato dai suoi viaggi, Pitagora rimase ancora per un po' a Samo, per poi trasferirsi definitivamente in Magna Grecia, ove portò il tesoro della sua sapienza. Divenne maestro e il suo insegnamento si connetteva, nella forma e nell' ispirazione, ai precetti dei misteri. Occultava la conoscenza con il velo di sumbola, di espressioni « simboliche », che ai non iniziati dovevano apparire come sciocchezze: cose da nulla, ciance vane, come le « storie raccontate dalle vecchiette » . Ma quei sumbola racchiudevano « scintille di verità » celesti per coloro che erano in grado di « accenderne il fuoco » (Giamblico, Vita di Pitagora, 104-IOS, 1 62) . Molti desideravano imparare da Pitagora, ma questi sottoponeva a un severo esame i candida­ ti. Ne valutava la fisionomia, la postura, gli atteggiamenti per coglierne le inclinazioni più riposte e inconsapevoli, per verificarne i difetti occulti e le qualità innate. Li invitava a parlare della propria esistenza e della propria famiglia: dei rapporti che avevano intrattenuto con i loro genitori, delle loro abitudini e occupazioni prevalenti, dei loro attaccamenti e delle loro repulsioni. Superato questo primo esame, cominciava un percorso segnato da ulte­ riori prove. Per i primi tre anni, l'aspirante discepolo veniva trattato dagli altri membri della comunità come se fosse una nullità, come se non esi­ stesse neppure. Si doveva verificare, in questo modo, la fermezza interiore e, soprattutto, l'assoluta indifferenza a quegli onori e a quelle distinzioni cui gli uomini comuni, per converso, danno tanta importanza: il desiderio della sapienza non poteva accompagnarsi all'ambizione profana o anche solo alla suscettibilità di non veder riconosciuta la propria persona. Solo rinunciando alla considerazione altrui e comprendendo la propria asso­ luta limitatezza, si poteva sperare di progredire. Seguivano quindi cinque anni in cui si era tenuti a echemuthéin, a « trattenere la parola » . Cinque anni di assoluto silenzio: era una prova di autocontrollo, una rinuncia a manifestare le proprie opinioni, ma era anche l'occasione di un attento ascolto della propria interiorità. Un esercizio che, per certi versi, ricordava l'analogo obbligo del silenzio imposto dai misteri. Quando anche questa fase era compiuta, il discepolo era ammesso alla cerchia degli «esoterici» e poteva accostarsi alle dottrine segrete del maestro. Pitagora prestava, in ogni caso, estrema attenzione nel porgere i contenuti del suo sapere inizia­ tico: a ognuno doveva essere comunicato solo ciò che si confaceva al suo grado di avanzamento e di evoluzione. Niente di più dannoso di una co-

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noscenza offerta a chi non avesse le qualità e la disposizione interiore per farne effettivo tesoro (Giamblico, Vita di Pitagora, 71-73, So, 94). Il numero - insegnava Pitagora - era fra tutte la «cosa più sapiente » perché l' intera trama del cosmo non era altro che un ordinato intreccio, una mirabile armonia di rapporti numerici, a partire dal «parimpari», dall'uno, che era la suprema intelligenza e il generatore di ogni altro nu­ mero. Dai moti celesti alla virtù degli uomini, dalla formazione dei corpi alla vita della mente, dalla genesi delle cose alla loro trasformazione, tutto era racchiuso nel segreto di quella «cosa sapiente ». La sequenza dei primi quattro numeri - la cui somma dà il compimento perfetto del dieci - era venerata come la sacra tetraktus, la « tetrade », che era la «radice» e la « fonte » della natura nel suo eterno fluire poiché, meditando sulla po­ tenza di quei numeri, ogni altra realtà poteva essere compresa e prodotta. La stessa psuché era una « tetrade » che generava ogni arte e ogni sapere dali' articolato rapporto tra intelletto, conoscenza, opinione e sensazione (Aezio, Dottrine, 1,3,8; Porfirio, Vita di Pitagora, 48-53; Giamblico, Vita di Pitagora, 82., 162.). Dalla matematica alla geometria, dall 'astronomia alla musica, lo studio del numero era indagine sulla natura, ma al contempo devoto atto di culto e suprema pratica misterica. Nell'aritmologia di Piea­ gora, scienza e sacro non si opponevano come ambiti distinti e contrastan­ ti, ma costituivano una perfetta unità nella tensione umana al divino. La scienza è costante «iniziazione dell 'anima », continua celebrazione di un « rito m isterico» ( Giamblico, Vita di Pitagora, 74). Per progredire nella conoscenza sacra e nel perfezionamento di sé, era indispensabile, d'altro canto, che la scansio ne stessa delle giornate avvenis­ se secondo un ritmo ordinato, in modo propizio all 'equilibrio della men­ te e del corpo ( Giamblico, Vita di Pitagora, 96-wo ). Di prima mattina - secondo l'insegnamento del maestro - i discepoli erano soliti dedicarsi a passeggiate solitarie in luoghi dove si potesse godere di adeguata tranquil­ lità e solitudine, dove vi fossero templi e boschetti sacri e tutto invitasse il cuore alla serenità. Ritenevano che non bisognasse intrattenersi con nessu­ no prima di aver predisposto la propria anima e portato il proprio pensiero in una condizione di armonia. Dopo la passeggiata, si riunivano presso un tempio o in luoghi analoghi e si dedicavano allo studio, all' insegnamen­ to e alla correzione del proprio carattere. Dopo l'attività intellettuale, si volgevano all'esercizio fisico per irrobustire il corpo. Solo dopo pranzo si occupavano degli « affari » legati alle esigenze del quotidiano e alla vita pubblica: quelle « faccende» cui, per contro, la maggior parte degli uomi-

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ni dedicava tutto il proprio tempo e la propria energia. Nel tardo pome­ riggio facevano un'ulteriore passeggiata, ma non da soli, come la mattina, bensì a gruppi di due o tre, discutendo quanto avevano appreso nel corso della giornata. Terminata la passeggiata, era tempo di prendere un bagno e di recarsi a un banchetto comune, i cui partecipanti non dovevano supera­ re il numero di dieci. Si dedicavano quindi alla lettura e il più giovane dei presenti prestava la sua voce come lettore. Giunto il termine della serata, si faceva una libagione agli dei e il più anziano rammentava alcuni precetti di saggezza per addentrarsi infine nel riposo del sonno, augurandosi sogni profetici. Giorno dopo giorno un particolare impegno era profuso nell'e­ sercizio della memoria. Al risveglio i discepoli non si levavano dal letto prima di aver richiamato alla mente tutto ciò che era avvenuto il giorno precedente: la rimemorazione doveva partire dal primo atto compiuto e seguire, in sequenza ordinata, tutti i gesti, le parole, le emozioni e gli eventi che avevano avuto luogo fino a sera; se si disponeva di tempo, si poteva anche retrocedere alla rievocazione di quanto era successo due giorni pri­ ma (Giamblico, Vita di Pitagora, 165). Non si trattava solo di allenare una facoltà indispensabile allo studio o di rammentare singoli fatti. Era anche un esercizio di padronanza e di osservazione: una presenza a sé stessi, co­ sciente e lucida, in ogni istante del tempo per poter affinare la capacità stessa di uscire dal tempo in direzione dell'eterno. Seguendo tali ritmi e tali pratiche, gli «esoterici » vivevano in comune, dividendosi tutto, in quello stato di uguaglianza e di fraternità che solo gli iniziati sono capaci di porre in atto. Insieme alla realtà sacra del numero, Pitagora insegnava, infatti, a venerare laphilia, l' « amicizia », come legame supremo di armonia e di ordine (Giamblico, Vita di Pitagora, 69-70). La virtù somma era l' « amicizia di tutti con tutti » : la philia nei confronti dei viventi e della natura, la pbilia nei confronti degli dei, la philia degli uomini tra loro e di ciascun uomo con sé stesso, la pbilia dell'anima per il proprio stesso involucro mortale. Coltivando la scienza del « numero» e dell' « a­ micizia » universale, gli « esoterici » acquisivano anche la qualificazione e il sapere necessari per prendersi «cura» degli uomini e portare nella vita della loro polis ordine ed equilibrio. Conoscere la segreta trama del cosmo, approssimarsi al divino, produrre armonia nella comunità umana erano le dimensioni complementari di quella philosophia, di quell' « amore per la sapienza » che il percorso iniziatico di Pitagora aveva saputo alimentare. Vivere - insegnava ancora il maestro - era come partecipare a una fe­ sta solenne in cui l'amante della sapienza si distingueva, fra tutti, per la

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sua particolare attitudine e per il suo sguardo. Le persone che si recano a un'adunanza festiva hanno tutte scopi diversi: c'è chi gareggia negli agoni sportivi, chi si propone di concludere affari e altri, i migliori, che hanno come unico obiettivo contemplare e conoscere tutto ciò che di bello e di eccellente si manifesti in quella occasione. Allo stesso modo, nella vita, « alcuni nascono come schiavi » , sempre « alla caccia di fama e di vantag­ gi », dominati dal «desiderio del potere» e di «ricchezza », bramosi di « agi » e di «prestigio»; altri, invece, gli amanti della sapienza, gli esseri più puri e più nobili, desiderano solo «contemplare la bellezza assoluta » e dedicarsi « alla ricerca della verità » (Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, 8,8; Giamblico, Vita di Pitagora, s8). L'immagine della vita come una solenni­ tà religiosa che invita i migliori alla contemplazione e alla realizzazione di sé fu seguita da altri anche dopo Pitagora. « Il mondo - scrisse Aristote­ le (Sulla filosofia, fr. 14) - è un tempio santissimo. L'uomo vi fa ingresso come spettatore di immagini sacre [ ... ] prodotte da un intelletto divino: il sole, la luna, gli astri, i fiumi [ . ] , la terra. La vita, che è mistero e inizia­ zione perfetta (teleté teleiotdte) a queste cose, deve essere piena di gioia e di serenità [ . ] , qui noi sediamo composti e devoti, perché nessuno si effonde in lamenti quando partecipa ai misteri ». ..

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La veglia del fuoco

A differenza degli amanti della sapienza e dei veri iniziati, la maggior parte degli uomini trascorre la propria esistenza in una sorta di dormiveglia, in uno stato, per così dire, di torpido sonnambulismo. Alla mattina gli uo­ mini si destano e reincontrano un mondo di cose, di colori e di sensazioni che ritengono di conoscere bene e di saper controllare: un mondo in cui tutto sembra familiare, in cui tutto appare concreto e oggettivo. Le cose di sempre, su cui far presa e tra cui muoversi compiendo i gesti consue­ ti. Gli uomini agiscono, incontrano altri esseri uguali a loro, scambiano parole e discorsi: sembrano intendersi e dire le stesse cose, condividendo un medesimo orizzonte. Giorno dopo giorno, perseguono i loro desideri, ora con incertezza, ora con spavalda arroganza. Talora soffrono e hanno paura. Ma, in ogni caso, non paiono avere dubbi che il mondo intorno a loro e la loro stessa esistenza siano come a essi appare, che siano come le abitudini del pensiero e della percezione inducono a credere. Pensano, ap­ punto, di essere desti e di compiere azioni di cui comprendono il senso e le

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conseguenze. E, tuttavia, basterebbe una scossa, un mutamento nel corso abituale del pensiero per scoprire che tutto è diverso. Allora si accorgereb­ bero che ciò che sembra veglia, ciò che sembra vita, è ancora un sonno pro­ fondo attraversato da immagini e da movimenti di cui non hanno alcuna padronanza né sapere. Gli uomini - diceva il sapiente Eraclito - « non sanno ciò che fanno da svegli» così come non «ricordano quanto fanno dormendo » (fr. I). Tra il giorno e la notte non vi è, per loro, alcuna sostanziale differenza. Solo un' illusione : il « fare » e il «dire », il poiéin e il légein continuano a esse­ re uguali a quelli di un continuo « dormire » , di chi non si è mai destato alla veglia. Ogni giorno, fanno «esperienza », hanno péira, «pratica» di «cose » e di «parole ». Ma quella péira è come un guscio vuoto, un fluire che non lascia traccia, un sentire e provare privo di qualsiasi consistenza. Gli uomini comuni - continua Eraclito - sono axunetoi, «privi di inten­ dimento» : non hanno xunesis, la capacità di «mettere le cose insieme » , di « com-prenderle » per ciò che sono e per le relazioni che le legano. Odo­ no, ma è come se fossero « sordi » . Guardano, eppure non vedono, come chi è cieco dalla nascita. Hanno anime « barbare » , anime che « balbetta­ no» confuse, senza intelligenza. Per questo, tutte le cose in cui « si imbat­ tono » , tutte le cose che «incontrano» nel loro cammino, nello scorrere della vita, restano a essi per sempre xéina, « straniere » ed «estranee » , an­ che e soprattutto quelle che essi ritengono massimamente familiari e note (frr. I?, I9, 34, 72-74, 109 ) I «dormienti » sono condannati a essere dei « barbari » e degli « stra­ nieri » in un mondo che rimane a essi alieno e impenetrabile, in un mondo cui, pure, essi partecipano e «cooperano ». Senza sapere le conseguenze di ciò che fanno e senza consapevolezza che i loro desideri e le loro speranze spesso è bene che « non si avverino » (frr. 7 5, uo). Si sforzano, certo, di manthdnein, di « apprendere », e sono convinti di farlo, ma restano sem­ pre al di qua del confine che consentirebbe di diventare davvero intimi alla natura in cui sono immersi e di cui sono parte. Per apprendere si affidano alle opinioni della maggioranza o alle parole dei cantori, dei poeti, o an­ cora ai discorsi di tutti coloro che hanno usualmente reputazione di essere sapienti, ma il risultato non cambia (fr. Io4). Anche l' «uomo che più ap­ pare » , che gode di maggiore fama e di superiore credito fra la massa, an­ che l'uomo «più stimato» secondo i parametri correnti, non fa altro che « custodire » e diffondere « menzogne» e opinioni ingannevoli (fr. 78): le cose che afferma di conoscere sono mere « apparenze » (dokéonta) così .

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come è solo apparenza la fama di essere il «più credibile » e il «più reputa­ to» (dokimotatos). E chi vi presta ascolto non si distingue da un qualsiasi « stupido» , da un « tardo di mente » , che rimanga stordito dinanzi al pri­ mo discorso che gli venga rivolto (fr. 87 ). Allo stesso modo, è una mera illusione che il semplice accumulo di co­ noscenze e di dati sia sufficiente ad avere una qualche «intelligenza » del mondo: la polumathie, « il sapere molte cose » - ammonisce Eraclito ­ « non insegna il noos», non insegna quell ' « intuizione » intelligente che penetra al di là della visibilità e del mero apparire (fr. 40 ). Per i più, per la massa, ma anche per coloro che sono considerati dei maestri - come Omero ed Esiodo -, sapere ed esperienza restano la prigionia di un conti­ nuo assopimento, la condanna di un « mettere insieme a caso» , nella più completa e opaca confusione, le «cose più grandi e importanti » (fr. 47). Per tutti loro - insiste Eraclito - « vale il detto: presenti assenti » (fr. 34). Credono di « esserci» , di «essere » ciò che sono e di « essere » nella realtà che si immaginano. Ma sono assenti a sé e a tutto ciò che li circonda. E così «vengono tratti in inganno» anche nella conoscenza di ciò che è del tutto visibile e sotto i loro occhi. Come era accaduto appunto a O mero che pure « fu il più sapiente tra tutti i Greci » e non seppe comprendere il semplice indovinello propostogli da un gruppo di bambini che si spulciavano dai pidocchi: « Quello che vediamo e prendiamo lo lasciamo, quello che non vediamo e non prendiamo lo portiamo » (fr. s 6). Anche la visibilità più immediata, le parole e i gesti più banali diventano un enigma incompren­ sibile, un'opacità fitta e inintelligibile. O, all 'opposto, ci si convince, con tenacia o con caparbietà, che tutto sia e accada secondo il proprio sogget­ tivo e parziale pensiero. E non c 'è male peggiore di questo: « io credo» , « io penso» , « io sono convinto >> . Questo atteggiamento, comune quanto spontaneo, è la vera « malattia » che ottunde la mente dei mortali, che la ottenebra come il « morbo sacro» dell'epilessia (fr. 46). Le opinioni rigi­ de, le verità date per scontate, i giudizi mai messi in discussione sono ciò che impedisce di vedere e di intraprendere una qualunque evoluzione del proprio essere. Occorre « sperare l' insperabile » perché una via si dischiuda (fr. x8). Occorre porsi nella condizione che vi sia qualcosa d'altro e di diverso al di là di quanto ci si attende: quell' « insperabile » , appunto, che smentisce ogni pregiudizio e ogni preconcetto, ciò che non ci si aspetta e non si im­ magina. Solo questa apertura consente di « trovare » , consente di intrave­ dere un passaggio e di avviarsi per una « strada » , che sarebbe altrimenti

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preclusa. Chi nulla si attende e spera non potrà mai intraprendere alcuna ricerca. Il problema - da capo - resta il « sonno » perché « chi dorme » non abita la realtà, ma si chiude in un suo mondo «privato », in una dimensio­ ne del tutto «personale », non rendendosi conto che ciò che vede e sen­ te è solo « SUO», che quanto percepisce non esiste al di fuori del proprio sogno (fr. 89 ) . È una condizione di isolamento e di separatezza, tanto più grave perché del tutto inconsapevole e inavvertita: «i più vivono come se ognuno avesse un proprio pensare », una «propria e particolare sag­ gezza » (fr. 2.) , quando invece saggezza e pensiero sono proprio la capacità di uscire dalla privata e limitante particolarità del proprio io. Ed è questa prigione di mondi separati che impedisce di distinguere il sonno dalla ve­ glia, la morte dalla vita. Perché chi crede di essere sveglio, ma continua a dormire, è convinto di vivere una vita. Pensa che sia la « vita » ciò che vede e sente. E non si rende conto che «quanto vediamo da svegli » è solo « morte » (fr. 2.1). Non si accorge che ciò che si chiama comunemente vi­ vere è, in realtà, «la morte delle nostre anime », e che, all'opposto, la vita del!' anima si dà solo quando noi moriamo a noi stessi (fr. 77 ) . Solo coloro che si sono davvero risvegliati possono vedere e compren­ dere al di là dell'opinione e della frammentazione irrelata a cui l'assopi­ mento dell' io condanna tutti gli altri. Solo per i «desti» il mondo « è uno e comune » (fr. 89 ) . Solo loro abitano la realtà e possono condividere la meravigliosa articolazione del kdsmos di cui sanno, con piena consapevo­ lezza, di essere parte. Solo loro hanno occhi per ammirare, con intelligen­ te penetrazione, l'assoluta bellezza del mondo: quella bellezza che i tristi dormienti possono scambiare per « Un cumulo di rifiuti sparsi a caso» (fr. 12.4). Il risveglio è il destarsi del noos, della facoltà suprema dell' « in­ telligenza intuitiva» che squarcia il velo dell'apparenza, che attinge allo xunon, a «ciò che è comune », a ciò che connette e lega tutto con tutto, alla «legge divina » che «può quanto vuole, basta a sé stessa e tutte le cose domina » (frr. 2., u4).Xunon e noos sono distinti e, al contempo, si sovrap­ pongono poiché il « comune » che tutto comprende è l' intelligenza stessa che coglie la reciproca connessione. A quest'altezza del vivere e dell'essere, phronéin, «pensare» , non è al­ tro, allora, che sperimentare, dentro di sé, questa universale connessione: sentire, come un'esperienza viva, il «comune » di tutte le cose (fr. u3). Phronéin è un pensiero che attinge al "cuore" della realtà: è ciò che, in altri tempi e in altri testi, verrà chiamata «intelligenza del cuore» . Così,

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a questo «pensare » intuitivo e vivente si rivela il non manifesto: l' « ar­ monia invisibile» , la « trama segreta» , il volto nascosto di quella phusis, che è « origine » e « nascita » della vita e del mondo (fr. 54). Così, al noos, si rende percepibile quell' incessante vibrazione che risuona nell'universo, quella tensione dinamica che unisce e oppone - come sulle corde di una lira - gli elementi contrari e opposti di cui la realtà tutta si sostanzia. Ma come produrre tale risveglio ? Eraclito diceva che le cose «viste » e «udite » nei Misteri sono « rimedi» , « medicine » per i mali e la finitezza della condizione umana (fr. 68). Al contempo, tuttavia, lamentava il modo in cui la maggior parte degli uomini si accostava e compiva quei riti: « le iniziazioni tradizionali vengono celebrate senza sacralità» (fr. 14). Il rito è nulla, mera parodia o addirittura oscenità - per i simboli sessuali che con­ tiene - se il senso del sacro e del divino non lo anima, se chi vi partecipa non ha le qualificazioni necessarie, la purezza e la disposizione interiore ad accogliere quanto i simboli e i miti disvelano. Il rito è nulla se non vi è preparazione adeguata, se non vi è intensità nella celebrazione, se non vi è, ancora, adesione profonda e insieme abbandono al pathos dell'indicibile. Quando tutto questo manca, restano solo parole e immagini risibili, mute e prive di senso: cose morte e non l'emozione trasformatrice della vita di­ vina. Un rito governato da «dormienti » non accende alcuna intuizione : è ancora e solo sonno con l'ingannevole convinzione di aver visto la luce e di essere degli iniziati. Eraclito discendeva da una famiglia regale di Efeso, che godeva di par­ ticolari onori e privilegi. Tra essi la possibilità di assistere ai «riti sacri di Demetra Eleusina » ad Atene (test. 2. ). Ma forse quei misteri, per come era­ no condotti, lo avevano deluso. O forse, ancora, pensava che il rito da solo non bastasse a produrre piena conoscenza, se i gesti e la pratica dei misteri non si accompagnavano a un ulteriore sforzo di penetrazione e di medita­ zione. A più di un secolo di distanza da Eraclito, l'anonimo autore di un commento a un poema di Orfeo avrebbe osservato come i partecipanti ai sacri riti spesso non comprendessero appieno il significato di quell'espe­ rienza perché non si interrogavano su di essa e non ponevano domande a chi li iniziava: « sono degni di commiserazione» - affermava - tutti colo­ ro che «spendono denaro» per partecipare ai riti di iniziazione e, «dopo averli compiuti, se ne vanno, prima di aver acquisito conoscenza, senza fare domande, come se avessero compreso cosa hanno visto, udito o impa­ rato» (Papiro di Derveni, 19 ) Se la ritualità misterica non appariva sempre adeguata o sufficiente, re.

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sta allora da chiedersi in che modo Eraclito avesse attinto l'energia per il suo risveglio. Le biografie antiche non sanno indicare alcun maestro di cui egli avesse seguito l' insegnamento. Ricordano solo, con qualche sconcer­ to, un'altrimenti inspiegabile metamorfosi: da giovane, Eraclito aveva det­ to di «non sapere nulla », ma, da uomo maturo, all'opposto, affermava, con piena convinzione, di « sapere tutto» (test. 1,5). Cosa era accaduto ? Si era compiuta, forse, come talora accade, un' auto-iniziazione, al di là della partecipazione a riti o dell'appartenenza a cerchie consolidate. Un'auto­ iniziazione in cui, possiamo immaginare, il sapere greco del sacro aveva incontrato e messo a frutto le suggestioni provenienti dalla vicina Persia, dall'esperienza e dalle parole dei « Magi » , che, in quella terra, erano cu­ stodi di sapienza e di riti. Forse da qui qualcosa era scaturito. Eraclito, tuttavia, non offriva in proposito alcuna esplicita indicazio­ ne. Diceva una cosa sola: edizesdmen emeouton, «ho cercato me stesso» , ma anche «ho cercato da me stesso » (fr. 101). Questa è la via che aveva seguito. La più immediata, ma anche la più difficile. Indagare su sé stesso attraverso sé stesso. Sottoporsi a osservazione e a esame incessante. Tentare di comprendere che cosa ci sia al fondo e all'origine del proprio essere. Si era immerso nel «profondo» dell'anima. E in questa ricerca una scintilla era scaturita, una visione si era aperta, come il balenare di un lampo che squarcia il cielo. Aveva visto la « folgore » che « tutto governa» (fr. 64). Si era destato alla fiamma divina del « fuoco ». Era questo il principio primo, l'elemento divino, che, con le sue incessanti metamorfosi, reggeva l'intera realtà: «Questo mondo, che è lo stesso per tutti, [ ... ] è sempre stato, è, e sempre sarà, fuoco sempre vivente, che divampa e si spegne secondo misu­ ra » (fr. 30 ). Tutto deriva da questo calore, da questa fiamma eterna e tutto a essa ritorna in un ciclo regolato da sapienti misure. Il fuoco, attraverso i suoi mutamenti, produce tutti gli elementi e tutte le cose esistenti. Si muta in esse attraverso uno scambio incessante ed esse, viceversa, si muta­ no in fuoco. È come l'oro, il valore assoluto, con cui ogni bene può essere scambiato : «Tutte le cose si scambiano con il fuoco e il fuoco con tutte le cose » (fr. 90). Il fuoco è phronimon, pensiero « sapiente » di un processo in cui ogni mutamento è morte e conflitto, ma allo stesso tempo nuova vita e nuova forma: il fuoco muore diventando acqua, come l'acqua muore diventando terra, ma la terra può tornare a essere acqua, e l'acqua ri:trasfor­ marsi in fuoco (frr. 31, 48). La realtà è dunque una trama sottile e invisibile, prodotta da una ten­ sione in cui ogni cosa si oppone a un'altra, ma in essa si rovescia con vi-

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cendevole trasformazione, con reciproca alternanza. Ogni cosa è sé stessa, e, in quanto tale, confligge con il suo opposto, ma gli opposti trapassano gli uni negli altri per ritornare a sé stessi. L'intuizione della « folgore » infuocata è questa suprema unità in cui tutto, al contempo, diverge e con­ verge, discorda e si accorda, si separa e insieme si congiunge, perché, al fon­ do, « tutto è uno » : «da tutte le cose - conclude Eraclito - sorge l'uno e dall'uno sorgono tutte le cose » ( frr. 1 o, so). L'unità è il divino stesso in cui tutto si raccoglie e da cui tutto diviene: « il dio è giorno e notte, inverno ed estate, sazierà e fame, e si trasforma come il fuoco, quando alla sua fiamma si mescolano dei profumi e in base a ogni aroma riceve un nome diverso» (fr. 67 ). Ogni cosa appare distinta e diversa dall'altra e gli uomini impon­ gono a ognuna un nome per poterla designare e riconoscere. Ma, quando l'intuizione illumina e penetra il non manifesto, si coglie, in un istante, che la molteplicità delle cose, la variegata e incantevole fragranza di tanti profumi emana, in realtà, da una medesima fiamma divina, da un'unica «cosa sapiente » . Il dormiente che osserva la superficie visibile del mondo vede unica­ mente lo strazio e la «guerra » continua delle cose che lottano l'una con­ tro l'altra per prevalere; vede unicamente la divisione e la dispersione di elementi che si manifestano e scompaiono, che sorgono e declinano, e il cosmo appare solo come l'infuriare di una lotta crudele e feroce. Ma chi si desta comprende che, in quello strazio e in quel conflitto, vi è una cosa «comune » che è contatto e legame, che è principio di ogni trasforma­ zione. Comprende che la divisione e la differenza sottendono l' identità e l'unione, che il molteplice frammentato e disperso ha una sua segreta unità, una sua intima e profonda connessione in quell'unica cosa che muta sé stessa: lo strazio degli opposti e dei contrari è ineffabile coincidenza nell'uno. Il risveglio di chi ha cercato sé stesso e, in sé stesso, ha trovato la verità delle cose si dispiega in una visione che concatena e congiunge, che fa ve­ dere e sentire l'unità della natura: « una sola cosa è la sapienza, conoscere la mente che governa tutte le cose attraverso tutte le cose» (fr. 41), ma questa « sapienza », diversa e separata da ogni altro sapere, questa « men­ te » , questa « fiamma» sono al fine la natura del divino stesso, quale che sia il nome con cui gli uomini lo indicano (frr. 3 2, xo8). Conquistare la « sapienza » significa allora anche tendere a trasformarsi nella « sapien­ za». Il risveglio è diventare, a propria volta, luce di quella fiamma. «Secco splendore » - diceva Eraclito - è l' « anima più sapiente, l'anima che ec-

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celle fra tutte » ( fr. I I 8): lapsuché dell'iniziato deve essere « secca » come il fuoco divino che governa il cosmo, « arsa » da quel calore supremo, puri­ ficata dall'acqua del piacere e delle passioni, prosciugata dall' «umido » di cui sono fatti i corpi. Allora, in questa veglia del fuoco sapienziale, l'Aion , la «Vita » , la «Forza vitale » del tutto si manifesta a chi ha raggiunto il proprio compimento. E, ancora una volta, la «Vita » appare, all 'inizia­ to, con il volto di un fanciullo divino, che ha la signoria del mondo e del mondo fa il suo eterno gioco: «Il regno è di un bimbo» , afferma Eraclito (fr. 52.), così come gli Orfici avevano fatto del piccolo Dioniso il supre­ mo sovrano del cosmo. Per chi entra, a occhi aperti, nel gioco di questo fanciullo, l' « assenza » del sonno si dilegua in uno stato di assoluta «pre­ senza » : presenza a sé stesso, al pensiero e alla natura in una condizione di partecipazione e di unità. La presenza che si esperisce nella veglia della luce divina è ciò che potremmo chiamare, con altre parole, coscienza asso­ luta. È lo stato "realizzato" di chi ha avuto il coraggio di superare il dolore e la paura, di chi ha attraversato, con tutto sé stesso, la prova del «fuoco» e che, stando dentro il fuoco, ha visto l'uno-tutto. Eraclito aveva raccolto il frutto della propria illuminazione nella com­ posizione di un Logos, di un «Discorso» che aveva depositato - quasi come un dono votivo o un tesoro prezioso - nel tempio di Artemide a Efe­ so perché, in quel luogo sacro, fosse custodito e protetto, lontano dal vol­ go, ma insieme disponibile a chi ne volesse affrontare la sfida. Quel «Di­ scorso » è, esso stesso, uno strumento di iniziazione tanto per l' intensità del pathos che comunica e suscita quanto per la prova estrema cui sottopo­ ne il suo lettore, disorientato e insieme catturato dalla difficoltà di un dire contrario al senso comune e alle abitudini del pensiero. Al modo dell'ora­ colo di Apollo - che « non dice, non nasconde, ma accenna » (fr. 93) -, la trama del «Discorso » fa segno, rinviando alla trama stessa della natura: ne ripete il discorde accordo, nella tensione tra l'uno e il molteplice, tra identità e differenza, attraverso un gioco di antitesi e di risonanze, di con­ trapposizioni e di accostamenti, di giochi di parole e di frasi in cui le con­ giunzioni vengono talora elise. La scrittura non enuncia una dottrina, non spiega e non articola una teoria ma, come accade nei Misteri, trasmette la vibrazione di un'esperienza, che fa coincidere la vita e la morte: «dentro di noi è presente una stessa cosa: il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio» (fr. 88). Occorre seguire il dipanarsi e la combi­ nazione delle parole, impregnarsi di quelle formulazioni impossibili, os­ servare gli impliciti nessi di ciò che, all'apparenza, stride o contrasta ogni

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ordinario sentire. Occorre avere pazienza e costante applicazione per im­ mergersi nell'ardua oscurità del « Discorso », per calarsi in esso come un « tuffatore » che, dopo paziente e prolungato esercizio, scende nell'oscuri­ tà dell' « abisso » . Bisogna diventare - suggeriva Socrate (test. 1,11) - abili come i tuffatori di Delo, l' isola sacra del solare Apollo, per non « annegare nel discorso », ma, al contrario, superare la sfida dell'abisso e risalire con una scintilla di luce. Perché è nel fondo buio che si incontra l' « inatteso » e l' «insperato». È là che tutto si rovescia e ogni posizione si permuta reci­ procamente: identico e diverso, uno e molteplice. Allora, il filo del discorso, la linea del testo si trasforma, agli occhi della mente, in un «cerchio» perfetto in cui ogni punto è «inizio» e «fine» , sé stesso e altro, in divina coincidenza ( fr. 10 3). Allora, l a discesa neU' abisso si rovescia in un'ascesa, perché si vede, come immediata evidenza, che «la via in su e la via in giù sono una e la stessa» (fr. 6o). Tocca, dunque, a chi legge quelle sentenze e quelle sconcertanti parole insistere nell'ascolto e nel movimento cui invitano, fino a farsi afferrare dalla voce di quell'esperienza, fino a trovare la via del proprio risveglio. Perché - avverte Eraclito - a tutti è dato ginoskein heoutous e phronéin, «conoscere sé stessi » e sperimentare il «pensiero del cuore», purché lo vogliano e lo cerchino (fr. 11 6). A tutti è dato conquistare la saggezza che è l' « eccellenza massima » che l'uomo può manifestare vivendo tra i suoi simili: quella saggezza che non è solo misura consapevole e rifiuto di ogni arrogante prevaricazione, quanto piuttosto capacità effettiva e signoria di «fare e dire cose vere » in consapevole e co­ sciente ascolto della phusis, del principio da cui tutte le cose hanno origine e nascita (fr. 112).

La via della Dea

Il viaggio è avventura e sfida, impresa e conquista, apertura di orizzon­ ti e di possibilità. Il viaggio è necessità e costrizione, paura e smarrimen­ to, dolore e mancanza. Il viaggio è un anello che si rivolge su sé stesso: la preparazione e le attese della partenza, le prove e gli incontri imprevisti, i pericoli che ad ogni passo minacciano l'andare, l'angoscia che non ci sia ritorno. Così era stato per Odisseo, che « molto errò [ ... ], che conobbe le città e l'animo di molti uomini, che molti dolori soffrì per salvare la sua vita », scendendo persino fra i morti per trovare la via del ritorno (O mero, Odissea, 1,1-4). Così era stato per gli Argonauti che si erano inoltrati per

LA VIA DEGLI DEI mari e terre ignote alla ricerca del vello d'oro, accompagnati dalla magica lira di Orfeo che cantava la nascita del cosmo e gli antichi dei (Apollonia Rodio, Argonautiche, 1,495 ss.). n viaggio è rito di vita e di morte: è un rito che conduce alla vita por­ tando la vita al di là di sé stessa, portando a sapere ciò che prima non era mai stato né visto né saputo. C 'è una conoscenza che suggella il ritorno, una conoscenza che corona e illumina l'esistenza, facendola apparire nella sua assoluta verità. Come Odisseo, come gli Argonauti, anche Parmenide aveva compiuto un viaggio, addentrandosi per un cammino sconosciuto e impraticato. Il saggio Pitagora aveva sempre raccomandato di « non cam­ minare per la via battuta dalla folla » , di « non seguire le opinioni dei più >> , m a di procedere altrove (Porfirio, Vita di Pitagora, 42.). E Parmenide, che era stato discepolo del pitagorico Aminia, ne aveva seguito il consiglio con fervore e audacia: « Le cavalle, che mi portano fino dove il mio animo (thumos) giunge, mi accompagnavano, dopo che mi ebbero posto sulla via che risuona di parole e di canti, sulla via della Dea, che porta per ogni dove l'uomo che sa (eidota phota) [ . .. ] , là mi portavano le cavalle molto sapien­ ti» (Parmenide, fr. 1,1-3). Così egli racconta nel proemio del suo poema Sulla natura. È tornato e ora, nel ritmo dei versi, ricorda quell'esperienza, la evoca, alternando e fondendo il presente e il passato in quell'unico cer­ chio in cui si è saldato il suo cammino. Alla base di ogni viaggio e di ogni andare ci deve essere un «desiderio» , una determinazione, uno slancio. Ci deve essere uno thumos, un « animo» che vuole raggiungere una meta, un animo che thuei, che « avvampa » , sciogliendo il sangue in un vapore sottile: lo thumos non è altro che questo calore. E, insieme a esso, ci vuole forza che, con tensione costante, sostenga il desiderio, conducendolo alla sua meta: le cavalle lanciate al galoppo, pura energia animale, vigore che si sprigiona, che brucia il percorso senza arrestarsi. La ferma determinazione del desiderio, la foga delle cavalle, un carro che avanza in una corsa rapi­ nasa. Su questo carro, l ' «io», che rimemora e narra, ha compiuto la sua impresa, ha percorso la sua « Strada » . Immagini che, nell' incanto della poesia, evocano in un baleno altre immagini. Il carro impetuoso del nero Ade, che aveva rapito la figlia di Demetra, portandola nell 'abisso della morte. La quadriga splendente del Sole che, ogni giorno, compie il suo corso celeste, dardeggiando la terra con la sua « fiamma d'oro » (Euripide, fr. 771), fino a raggiungere l'oscurità dell'estremo occidente, dove i suoi puledri, ogni notte, riposano (Euripide, Alcesti, 592.). n carro su cui Achil­ le, « fulgido come il Sole », si precipitava, in preda a sovrumano furore,

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sul campo di battaglia: un carro trascinato da cavalli immortali e profetici che correvano veloci come il vento (Omero, Iliade, 19,395 ss.). E, ancora, il carro alato della M usa, che apre al poeta la via di ogni canto e di ogni storia (Pindaro, Pitiche, 10,54). Il buio di Ade, la luce del Sole, la voce della Musa, i destrieri divini, il furore eroico di Achille, il viaggio e il ritorno di Odisseo. Tutto questo rie­ cheggia, come memoria e come forma, nelle parole dell ' «io» che ha avuto la volontà e insieme il privilegio di percorrere una strada divina. È l'io di un eroe, quello che Parmenide mette in scena per dire la sua straordinaria esperienza. È l'io di un eidota phota, di un «uomo che sa », di un «uomo che ha visto» e ha conquistato la conoscenza suprema: l'io di un «inizia­ to», che ha raggiunto il compimento della sua strada ed è tornato fra gli uomini per illuminarli con la sua parola. Un'unica radice, d'altro canto, connette, all'origine del greco, phdos, la «luce », phéme, la «parola »,phOs, l' «uomo », che è cosa vivente finché vede la luce. La parola degli dei, la parola dell' iniziato è luce che dona all 'uomo la vita. Il viaggio di Parmenide, il viaggio dell'iniziato, è stato un percorso cosmico, tra il cielo e l'oltretomba, tra oriente e occidente. Un attraver­ samento solare del cielo, una discesa nell'aldilà, e, di nuovo, una risalita. Catabasi e anabasi, come nei misteri. Una tensione del corpo e della mente portata ali'estremo, per scendere lungo la via e per tornare indietro : «L' as­ se nei mozzi, infiammandosi, mandava lo stridore di un sibilo (surinx) , premuto dai cerchi su ambo i lati rotanti » (Parmenide, fr. 1,6-8). Perché l'iniziazione sia un viaggio reale, occorre che l' «io» si faccia puro ardo­ re, moto infiammato di un carro che sprizza scintille. L' incandescenza del proprio « asse », il girare sempre più vorticoso delle « ruote» fino a quel « sibilo », a quel « fi s chio» che si sprigiona. Surinx indica uno stridore acuto, ma è anche il suono dello zufolo di Pan, il dio dal piede caprigno, che scatena la follia e il sesso nella luce del meriggio. Surinx è ancora la «canna », il «canale », il « meato» che attraversa un corpo. Surinx è, in­ fine, il « sibilo » del serpente che si rizza in tutta la sua maestosa e temibile potenza. Fiamma, asse, ruota, serpente: le immagini dicono forse di uno stato da raggiungere, di un'"operazione" da compiere perché si apra la via a un'altra dimensione e, ali' inverso, perché si possa uscire da essa. Termini singolarmente simili alle tecniche che la sapienza indiana usava per indur­ re un altro piano di coscienza: il movimento dei chakra, dei « cerchi» , che aprendosi ruotano mossi dall'energia sottile; lo sprigionarsi del tapas, del «calore » divino; lo srotolarsi della kundalini, l'energia che riposa alla

LA VIA DEGLI DEI radice sacra del corpo, alla radice del sesso, e che, levandosi, dischiude ogni potere. Nulla si sa dei rapporti che possano essere intercorsi tra i sapienti greci e i saggi di quelle terre lontane, ma le vie della tradizione sono mi­ steriose e, in fondo, convergenti. Suggestivo, in ogni caso, è il nome del padre che le fonti antiche assegnano a Parmenide: egli sarebbe stato figlio di Puretos, che è come dire figlio della «Febbre » , figlio del «Calore » in­ fuocato. Difficile immaginare un'ascendenza più adeguata per un iniziato. Nel percorrere la strada divina, l' «eroe» non era tuttavia solo. E non poteva esserlo perché occorre anche il favore degli dei per oltrepassare la dimensione ordinaria della vita; occorre, insieme all'impegno soggetti­ vo, l' influenza superiore di una guida perché l' iniziazione avvenga. Par­ menide racconta che insieme a lui, a scortarlo, vi erano delle k6rai, delle « fanciulle » : « esse mostravano la via » . Korai, come era kore, fanciulla, l'indicibile Persefone. Ma, questa volta, non si trattava di oscure potenze infere. Il loro nome, dapprima taciuto, risuonava poco dopo con efficace e significativa sorpresa. Quelle fanciulle erano le divine e luminose Eliadi, le figlie sapienti del Sole che tutto vede e tutto conosce. La scorta migliore per chi vuole sapere. Esse - ricorda Parmenide - « si affrettavano a scortar­ mi [ ... ] avendo lasciato le case della Notte, verso la luce (phdos), scostando­ si con le mani il velo dal capo» (fr. 1,8-10). Le figlie del Sole si scoprivano per mostrarsi, come giovani spose nel giorno delle nozze, o come l'aurora che, apparendo, fa dileguare l'oscurità della notte. Il velo si sollevava nell'e­ pifania del loro volto radioso. Un'epifania di luce che si accompagnava al moto verso la luce. Un gesto che era insieme un simbolo della conoscenza che veniva dispensata, come un dono, dal cammino iniziatico. Il sollevar­ si del velo dal capo delle dee era come il sollevarsi del velo che ricopriva l'iniziando, liberando la visione. Il dipanarsi del viaggio era, appunto, la celebrazione di un rito. Ma perché l'aurora del sapere rifulga a oriente, bisogna prima immer­ gersi nel buio estremo dell 'occidente, nel buio dell'aldilà. Il racconto di Parmenide si avvolge a ritroso, andando dalla fine all'inizio della via stes­ sa: «Là io ero condotto [ ... ], là è la porta della Notte e del Giorno, in­ corniciata da un architrave e da una soglia di pietra, e la porta, alta fino al cielo, è chiusa da pesanti battenti » (fr. 1,11-13). Accompagnato dalle Eliadi, Parmenide aveva oltrepassato ogni confine del mondo ed era sceso giù nell'abisso più profondo, in quel Tartaro immane e spaventoso ove - come raccontava anche Esiodo - sono raccolte le « sorgenti», le « radi­ ci» e gli estremi «limiti » di tutto ciò che esiste: «Là della terra nera [ ... ] e

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del mare infecondo e del cielo stellato, di tutte le cose vi sono le scaturigini e i confini» (Esiodo, Teogonia, 735-739 ). Là vi è la «casa terribile » della Notte e l' immane « soglia di bronzo » ove Giorno e Notte si avvicendano, per garantire al cosmo il suo ciclo di luce e oscurità: «Essi si fanno vicini e si salutano, varcando a turno la soglia [ ... ] l'uno scende dentro, l'altra attraverso le porte esce e non si trattengono mai entrambi nel medesimo tempo dentro la casa, ma sempre l'una percorre la terra, mentre l'altro at­ tende che venga l'ora del suo viaggio » (Esiodo, Teogonia, 746-754). Là, in quella profondità infinita e impensabile, vi è dicevano ancora gli Orfi­ ci - la «caverna» della Notte che «contiene e cela in sé tutte le cose che esistono alla luce» (Orjici, 65, 105). L'antro in cui la Notte, immutabile ed eterna, sussurra le sue «profezie » , decidendo della vita e della sorte dell'universo (Papiro di Derveni, n ) . Questa soglia cosmica - questa porta comune al nero Ade e al Sole raggiante, questo orizzonte del non manifesto, in cui tutto si radica e da cui tutto trae origine - è custodita da Dike polupoinos, « Giustizia che molto punisce » , Giustizia che sorveglia inflessibile l'ordine del cosmo e i cicli del tempo, che costringe ogni cosa a rispettare i suoi limiti e le sue prerogative. Con «parole suadenti » e sapiente « accortezza» , le Eliadi - prosegue Parmenide - persuasero Dike a far procedere il carro, a con­ cedere il favore supremo di oltrepassare quel limite altrimenti invalicabile per ogni essere umano: « La convinsero a togliere senza indugio la spranga del chiavistello. Allora, spalancati i battenti, la porta dischiuse un baratro immenso (chdsma achanés), mentre si apriva facendo ruotare con moto alterno i perni di bronzo nel cavo (surinxin) dei cardini » (Parmenide, fr. 1,16-rS). Come l'asse del carro che gira, così girano i battenti su sé stessi, nella surinx, nell' «incavo» che li contiene. Ancora la "rotazione" di un moto solenne e decisivo. E, con essa, tutto cambia e uno spettacolo ignoto e indicibile appare. Parmenide, nella figura dell'iniziando in cammino, si trovava a varcare la soglia della Notte e del Giorno. Si trovava a varcare le dimensioni del tempo e dello spazio, verso il chdsma achanés, l' « apertura spalancata » , l'apertura assoluta che altrove è chiamata «caos» , come ciò che contiene, inespresse e raccolte, tutte le possibilità del cosmo. Subito, al di là di questa porta, le fanciulle solari guidarono «dritto» il carro per una strada «maestra », ormai facile e piana da percorrere. Lo guidarono al cospetto della Dea che là regnava. I versi non indicano il suo nome. Di chi si trattava ? Forse, ancora e sempre, di Persefone, la regina dell 'Ade, o di Mnemosine, la «Memoria », venerata dagli Orfici e dai Pi-

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tagorici, o ancora della «Notte » nel suo oscuro santuario. Forse, nessuna e al contempo tutte. Un'unica grande Dea, dai molti nomi e dai molti vol­ ti. Una Grande Madre che, nell'abisso della notte, nell'apertura immane, custodisce e genera ogni cosa, celando in sé il segreto del tutto. Là dove vi è una Dea madre c'è sempre anche un bimbo che è nato, una giovane vita da accogliere e da nutrire. Ed era così anche in quell'occasione. La Dea, con fare benevolo, con affetto materno, porse la sua destra a colui che era giunto da lei. Lo chiamava kouros, « ragazzo» , com'era giusto, come sempre faceva. Chi si presentava al suo cospetto non poteva essere che un fanciullo, un giovane, di cui ella doveva prendersi cura. Quel giovane do­ veva crescere, doveva imparare, doveva diventare « grande » . L' iniziazione non era appunto questo ? Crescere un «piccolo» essere, portarlo alla sua adultezza, al suo compimento, come solo la sapienza delle madri sa fare. Le cavalle, le Eliadi, la Giustizia, la Dea: su quella strada, in quell'abisso, vi erano solo figure femminili che si prestavano solerti ad aiutare e pro­ teggere quel «giovane » maschio affinché diventasse un «uomo che sa ». Solo la potenza del femminile poteva completare e sostenere quel maschile che cercava la sua perfezione. Ma Muros è anche l'appellativo dell' «eroe », perché ci voleva un ardimento eroico per mettersi su quel cammino, per passare la soglia dell'aldilà: « Compagno di aurighe e di cavalle immortali, rallegrati - diceva la Dea - perché non una sorte maligna t'ha portato su questa strada così lontana dalla via battuta dagli uomini» (fr. 1 ,2.6 2.7) . Parmenide non aveva incontrato la « sorte funesta » della morte. Era an­ cora vivo, in carne e ossa. Ma aveva saputo mettere in gioco la sua esisten­ za, aveva accettato la sfida suprema degli inferi e il suo desiderio, infine, era stato esaudito. Ora, poteva solo «gioire >> della prova che aveva superato e del favore che gli era stato concesso. «Legge sacra» e Giustizia divina lo avevano lasciato passare perché aveva dimostrato di avere le qualità e la disposizione necessarie per toccare la meta del suo percorso. Giunto in quel luogo, egli doveva solo affidarsi alle mani della Dea, alle pazienti parole con cui ella si apprestava a istruirlo, a fargli vedere ciò che doveva essere visto : «Bisogna che tutto tu sappia, bisogna che tu conosca sia il cuore immobile della Verità perfettamente rotonda, sia ciò che appa­ re agli uomini ed è privo di vera certezza » (fr. 1,2.9-30). Come nell'aldilà degli Orfici vi era un bivio che separava l'acqua dell'oblio mortale dall' ac­ qua rigenerante della memoria, così anche laggiù, al cospetto della Dea, vi erano due strade. E una sola era giusta. Una sola doveva essere percorsa dall'iniziato: «Ecco, ora ti dico, e tu fai tesoro della parola che avrai ascol-

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tato, ti dico quali sono le vie della ricerca [ . . . ] : l'una che "è", e che non è possibile che non sia [ . .. ] , l'altra che "non è", e che è necessario che non sia » (fr. 2,1-5). La «via che è» - precisa la Dea - è il « sentiero della Persuasione che tiene dietro alla Verità ». È la via ove la «Verità» diviene un intimo pos­ sesso, un'assoluta e interiore «convinzione », una profonda e inscalfibile «certezza» di chi ha potuto vedere e conoscere. La « via che è » , la via divina, è il sentiero che conduce a « dire » e a «pensare » , con verità e per­ suasione, che solo l'essere è, che solo l'essere esiste: ésti éinai, «è essere » , e «niente non è». Il nulla non è, il nulla non esiste, e non può nemmeno essere pensato perché éinai e noéin, «essere » e «pensare », «essere » e «intuire » sono il « medesimo» (fr. 3). Turco è essere. Tutto è mente. L'u­ no è lo specchio dell'altra in assoluta identità, in compiuta identificazione di conoscente e di conosciuto. «La stessa cosa - ripeteva la Dea - è pen­ sare e ciò per cui è pensiero, perché, senza ciò che è, nel quale è espresso, non troverai pensare» (fr. 8,34-3 6). Il « niente » - oltre a non poter essere pensato - non può neppure essere detto perché anche la parola - la parola di verità - appartiene esclusivamente al regno dell'essere : «Resta solo un discorso della via: "che è"» (fr. 8,1). Cogliere l' étor atremés, il «cuore immobile », «il cuore che non cre­ ma>> della «Verità perfettamente rotonda » significa allora intuire e com­ prendere, nel proprio stesso cuore, questa "cosa" assoluta, totale e altret­ tanto «immobile » , priva di un « tremito » che la scuota o la modifichi. Questa "cosa'' che la Dea, a un cerro punto, scopriva e indicava con l'e­ spressione to eon, «ciò che è » , «l'essente » al di fuori del quale non vi è nulla. To eon non conosce né il tempo né il divenire: « ingenerato e indi­ struttibile [ . .. ] , tutto incero e perfetto, mai è stato o sarà perché è adesso, tute' insieme, uno e continuo [ ... ] indivisibile [ ... ] , tutto uguale a sé stesso [ ... ] , tutto pieno di essere [ ... ] senza inizio e senza fine » . Non vi è nien­ te che possa « cagliare » o «dividere » l'essere dall'essere. Nulla che possa «disperderlo » ovunque o «raccoglierlo» , quasi che fosse stato «reciso » da sé (fr. 4). Come il Titano Prometeo, incatenato a una rupe da ceppi in­ distruttibili, anche « ciò che è » , anche l 'essere è vincolato da eterni legami che lo tengono fermo e gli impediscono di «nascere » o di «perire » . La «Necessità inflessibile » e la «Giustizia » - due volti di uno stesso ordine cosmico - gli impongono « i vincoli del limite che lo serrano tutt'intor­ no »: così, «rimane identico nell' identico e riposa in sé stesso [ .. ], invio­ labile ». Proprio per questo limite che lo circonda, l'essere è «compiuto e .

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simile alla massa di una sfera ben rotonda » così come è rotonda la Verità, come è rotondo il cuore. Tali erano i sémata, i « segni », che la Dea offriva al suo «giovane » , perché egli potesse orientarsi verso quella via di verità, perché potesse cogliere da sé il cuore dell'essere. Perché niente è più facile che smarrire la strada, che imboccare, come fanno i più, l'altra via, la via da cui - come la Dea aveva ammonito - bisogna « stare lontani». Da capo: tutto è « questo» , tutto è « questo che è » . Bisogna guarda­ re con gli occhi della « mente » , con il sottile slancio dell' «intuizione» , a cui è « saldamente presente » anche «ciò che è lontano », anche ciò che è assente e non si vede (fr. 4). Ma gli uomini comuni - avvertiva la Dea - si fanno sviare dai sensi: «Occhio che non vede » , « occhio che rimbomba» li « forzano», li «trascinano », senza che se ne accorgano, a un penoso « errare » sulla «via che non è » (fr. 7,4). Sono come «ciechi » e « sordi ». L' amechania, l' «impotenza» abita i loro «petti » , guidandoli su sentieri in cui nulla di vero si può apprendere. Dinanzi allo spettacolo del mondo, che ogni giorno si offre alla loro percezione, rimangono storditi, « stupefatti » , senza comprendere o peg­ gio ingannandosi. Si affidano, senza interrogarsi, senza cercare, all' éthos, all' « abitudine » che appare loro comprovata da « molta esperienza » : all' « abitudine » , erroneamente consolidata e cristallizzata, di vedere e di pensare in un certo modo le cose che si fanno incontro alla percezione; l' « abitudine » , ancora, di seguire le opinioni invalse, le credenze di sem­ pre, quello di cui tutti sono persuasi. Vedono che qualcosa appare, ma più tardi, nello scorrere del tempo, questo "qualcosà' non lo vedono più: sem­ bra scomparso, dileguato. Vedono che, un giorno, qualcosa ha un aspetto e, il giorno dopo, quella "cosa" non sembra più la stessa. Credono, allora, che esista il niente. Credono che qualcosa che «non era » sia venuto dal niente e che nel niente sia tornato. O ancora - come fossero creature « a due teste» - si convincono, con follia ancora più grave, che «essere » e « non essere » siano e non siano il « medesimo» allo stesso tempo. Così, essi insegnano alla loro «lingua » a dire « non è » . Così im­ pongono « nomi » per indicare « cose » che, con inconsapevole ingan­ no, ritengono vere: « nascere e perire, cambiare luogo e mutare colore » ( fr. 8,3 8-40 ). Assumono questi «nomi» come realtà effettive, come verità oggettive ed evidenti, dati definitivi e inconfutabili oltre ai quali non vi è nient'altro. Durante la loro vita tutti gli uomini percepiscono la luce e il buio, «il fuoco etereo » e la « notte senza luce » . Ed era proprio questa la prima e fondamentale esperienza che il genere umano aveva fatto alla sua

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comparsa sulla terra. Ma era da qui, anche, che ogni errore era scaturito. Gli uomini pensarono che la luce cessasse di essere, che la notte fosse il «niente », il non essere del giorno. Li pensarono contrari l'uno dell'altra: «Stabilirono di dare nome a due forme senza credere che fosse necessaria la loro unità. Le giudicarono opposte [ ... ] ricordava la Dea - e così stabi­ lirono segni che le distinguessero» (fr. 8,ss-s6). Ma non sapevano, non si accorgevano di ciò che, invece, sa chi ha attraversato la diversa esperienza dei misteri: vi è luce nel buio, e buio nella luce. «Tutto è ugualmente pie­ no di tenebra e di luce, entrambi alla pari» (fr. 9) perché l'uno e l'altra, in verità, partecipano allo stesso modo dell'essere e ne sono visibili mani­ festazioni. Il gioco del mondo è il cangiante apparire di ciò che riposa, da sempre e per sempre, nel « cuore immobile » di «ciò che è», nella sfera indistruttibile dell'essere. L'universo è l'apparire del tutto dal fondo di un «questo» che rimane sempre uguale a sé stesso nel cerchio della sua puris­ sima inviolabilità. Niente nasce, niente perisce, mai. È solo un errore pen­ sarlo. È solo un' illusione data dal limite dei sensi fisici e dalla compagine del corpo umano. Era «questo» il sapere che la Dea offriva al «ragazzo » calatosi nella profondità della notte materna. In diverse immagini dell'aldilà, nelle evocazioni altrimenti tradizionali di ciò che attendeva, dali' altra parte, i defunti, vi era spesso un tribunale ave sedevano divinità infere a giudicare il destino dei morti, a decidere del loro castigo o della loro felicità eterna. Laggiù invece - dove il Muros, an­ cora vivo, era disceso - la Grande Dea mostrava la necessità di un diverso «giudizio» e di un diverso tribunale. L'unica krisis, l'unico « giudizio », fondamentale e decisivo, che dovesse essere pronunciato, era la netta con­ danna della «via che non è » . L'unica krisis, che dovesse avvenire, era la « scelta » , sicura e definitiva, della « via che è » . Era questo che si doveva dibattere nel tribunale predisposto dalla Grande Madre. La Dea non aveva dubbi sulla « sentenza », ma ne presentava il contenuto come un'arringa, come una disputa, perché fosse il giovane, l 'eroe, a pronunciare il giudizio. Era essenziale che quella « scelta » fosse compiuta, in prima persona, da colui che aspirava a diventare un « uomo che sa». Chi è ormai «persuaso» della verità dell'essere può volgersi, senza più farsi ingannare, anche alle dinamiche dell'universo apparente. Le può «conoscere » e «dire » nel modo e nei limiti che a esse è proprio : sapen­ do, appunto, che sono solo dokéonta, cose che « sembrano» , che « appa­ iono » . «Anche questo imparerai - aveva infatti promesso la Dea - come le cose che appaiono debbano essere nel loro apparire, tutte attraverso -

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tutto» (fr. 1,31-32.) . C 'è una «plausibilità » , una verosimiglianza con cui si può avvicinare e descrivere l'apparenza » , un « ordine » e una « strut­ tura » con cui rappresentare quanto appartiene al piano della manifesta­ zione. «Tu conoscerai - proseguiva la Dea - la natura dell'etere, e nell'e­ tere tutte quante le stelle, e le opere [ ] della pura lampada del sole [ ... ] e la natura della luna vagabonda, e conoscerai il cielo che vi sta attorno» (fr. 10 ). Così la Dea guidava il «giovane » a immaginare le « corone » di «puro fuoco » che circondano il cosmo, il «latte celeste » in cui riposano gli astri, il circolo lunare mescolato di ombra e di luce. E, nel centro di tali corone, un'altra Dea inno minata che «tutto governa » , presiedendo al potere della genesi: «la Signora del coito e del parto doloroso, colei che spinge la femmina all'unione con il maschio, e il maschio alla femmina » (fr. 12.). Un altro volto della Grande Madre che regna, questa volta, sulle mescolanze e sui congiungimenti affinché l'unione delle polarità opposte sia feconda generazione di tutte le cose. La natura è nascita ed è una cosa sacra perché una Dea sovrintende a essa. Ma il «giovane» doveva sempre sentire e ricordare, con la persuasione della verità, che « nascita » è unica­ mente un « nome » e un modo: la genesi è un apparire, un manifestarsi dal fondo misterioso e immutabile di « ciò che è » . «Laggiù » la Dea parlava. O così almeno parve a Parmenide che, ritor­ nando alla luce, aveva tentato, con l' ispirazione della Musa, di fermare quel­ le parole e quegli insegnamenti. Aveva tentato di tradurli in discorsi che i mortali potessero udire e, in qualche modo, afferrare con la loro mente. In quello sforzo, egli aveva teso e torto la sintassi e i termini fino al loro limite estremo. Per poter dire, appunto, cos'era stato quell' incontro. Così aveva creato, nel ritmo della poesia, un'inedita, aspra e difficile lingua dell'essere. Una lingua con la quale i mortali potevano costruire ulteriori pensieri e dispiegare la forma di ulteriori ragionamenti. Una lingua che avrebbe inau­ gurato un'arte della logica e della dialettica. La Dea, certo, aveva invitato il suo discepolo a valutare, per mezzo del lOgos, la «confutazione », la « messa alla prova » delle opposte vie che ella stessa aveva evocato. Ma il !Ogos cui si faceva cenno non era propriamente ragione o raziocinio. Era il «discorso » stesso che la Dea stava articolando. Era il «discorso» che Parmenide aveva udito e poi ridetto ai mortali, separando «ciò che è » da «ciÒ che sembra ». Non vi è logica, tuttavia, né razionalità discorsiva che possa spiegare o pro­ vare fino in fondo ciò che laggiù era stato pronunciato. Non c'è argomento dialettico che possa giustificare la relazione tra quell'essere immobile e il divenire delle cose, tra la sfera perfetta e l'ordine apparente della natura. ...

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Non c'è !Ogos che possa penetrare e dire l'essere «inviolabile ». Solo « se­ gni », indizi per accostarsi, facendo la via, alla verità di quel «cuore che non trema » . Segni per chi è in grado di proseguire, per chi ha il desiderio e le qualità necessarie. Giunti a un certo punto, c'è solo un salto nell'abisso: una porta che si apre, il passaggio di una soglia, la stretta benevola di una Dea, il lampeggiare di una luce. Intuire to eon è - sempre e di nuovo - un pathos: un'esperienza dell' ékstasis, un viaggio della mente, in un'altra dimensione. A Elea, la patria di Parmenide, vi era un culto dedicato ad Asclepio e ad Apollo « Guaritore », di cui Parmenide stesso era un adepto. Il dio della luce e della medicina presiedeva a un rito notturno, a un' iniziazione che si celebrava in un pholeos, un « antro » , una «tana », dove riposavano i ser­ penti sacri ad Asclepio. Nel raccoglimento del buio e del silenzio, durante il sonno o la trance, la mente degli eletti poteva vedersi spalancare quelle por­ te immense, quella voragine infinita. Così, probabilmente, era stato anche per Parmenide. In quell'antro era diventato, a sua volta, un guaritore: un « medico » capace di sanare l' «impotenza » che abita il petto dei mortali, la follia di credere che la morte e il niente siano. Il suo maestro Aminia, d'altro canto, lo aveva preparato a questo traguardo, insegnandogli l'arte dell' hesuchia, della «tranquillità » (test. 1,2.1). Non la semplice «tranquil­ lità » che succede all'agitarsi delle passioni. Ma quella condizione in cui la mente è uno specchio nitido, immobile e indiviso. Quella condizione "assoluta" in cui la mente è davvero « ciÒ che è » .

Il divino nella natura

«lo tra voi mi aggiro non più come un mortale, ma come un dio immor­ tale (theos dmbrotos), cinto di bende e di corone fiorite [ ... ]. E tutti mi venerano, a migliaia mi seguono, desiderosi di sapere quale sia il sentiero che porta guadagno (kérdos) » (Empedocle, fr. 1 12.). Così, vestito di regale porpora, Empedocle si rivolgeva ai cittadini della sua nativa Agrigento e a coloro, più in particolare, che in quella polis avevano «cura di opere buo­ ne» e di saggio governo. Empedocle, come un vero adepto della sapienza, aveva compiuto il cammino che conduce al di là dell'umano, che fa cre­ scere ed evolvere l'uomo verso la pienezza della condizione divina. Illumi­ nato e trasformato dalla sua esperienza, ora voleva portare ad altri il suo messaggio e il suo insegnamento. Gli uomini e le donne che gli si facevano incontro gli chiedevano «oracoli » o «guarigioni » dai mali. Ma, al di là

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di questi benefici doni, vi era un più alto kérdos, un più prezioso guadagno che Empedocle poteva dispensare a chi ascoltasse le sue parole. Certo, lo « slancio della persuasione» cozzava con la mente e con le convinzioni più radicare dei mortali. Era un compito arduo scuotere gli animi. Ma, con la « santità » e il «coraggio» del suo dire poetico, egli si proponeva di diffondere una visione che potesse cambiare l'esistenza degli uomini e del­ le comunità. Il suo dire teneva conto, come era necessario, delle differen­ ze e delle diverse capacità dei soggetti. Vi erano cose che potevano essere pronunciate davanti a tutti e altre che andavano comunicate in modo più riservato, a chi avesse già compiuto un lavoro su di sé. Sul piano essoterico, sul piano di un discorso che poteva essere ascoltato da tutti, Empedocle raccontava la propria storia come paradigma di una vi­ cenda che porta il divino a essere parte del mondo, un modello per pensare l'umano e la possibilità di una sua evoluzione. «Una volta - diceva - sono stato fanciullo e fanciulla, pianta e uccello, e pesce muto che guizza fuori dal mare » (fr. 117 ). La sua esistenza aveva conosciuto forme diverse e dif­ ferenti piani di coscienza. Ma tutto ciò aveva avuto origine in un orizzonte superiore. Quella vicenda di mutazioni era la storia di un castigo necessario, o forse meglio, una via di purificazione: «lo sono un ddimon - spiegava ­ [ ... ] esule dal divino ed errante, per aver prestato ascolto alla folle Contesa ». Il divino è pace, unità e gioia. Gli esseri che, vivendo su quel piano, si abban­ donino alla violenza del conflitto o oscurino la luce della verità - come uno strappo o una ferita che lacera - per «necessità» non appartengono più a tale dimensione. Sono costretti a !asciarla e a scendere ai livelli inferiori, al piano della natura cui appartengono gli uomini. A causa del loro «errore », questi «demoni dalla lunga vita>> devono « andare errando lontano dagli dei beati », « rinascendo nel corso del tempo in molteplici forme morta­ li, mutando e rimutando i difficili sentieri del vivere », per un tempo che assomma a « tre volte diecimila stagioni » (fr. ns). Anche Empedocle era uno di costoro. E anche lui, per la sua « follia », era stato costretto, insieme ad altri, ad abbandonare il proprio «rango », a rinunciare al «culmine del­ la felicità » di cui godeva. Così, egli raccontava per immagini e simboli la via di quella discesa: «Giungemmo sotto quest 'antro coperto [ ... ]. Piansi e mi lamentai vedendo un luogo estraneo » , un «luogo funesto » dove vi sono «Strage e Odio e altri generi di Sventura, aridi Morbi e Putrefazioni che dissolvono» (frr. 119-121). L' « antro coperto » non è uno spazio sot­ terraneo, non è l'oltretomba dell'Ade, ma il cosmo stesso nella forma e nei limiti in cui i mortali lo esperiscono. Nel cosmo, i «demoni » si trovano a

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rivestire « tuniche di carne a essi sconosciute» , divenendo come « morti» da quei perfetti «viventi» che erano. Si trovano a esperire una realtà fatta di contrasti e di polarità stridenti, di stati e di attività opposte, che Empe­ docle immaginava nella figura di entità femminili che si facevano incontro ai "discesi" nell'antro: «Là vi erano la Ctonia e la Solare» , «la Nativa e la Mortale » , «l'Addormentata e la Desta », «la Mobile e la Quieta » , «la Bella e la Brutta» , «la Muta e la Parlante» (frr. 122-123). Oscurità e luce, nascita e morte, sonno e veglia, moto e stasi, bellezza e bruttezza, verità e menzogna, silenzio e linguaggio sono i contrassegni costanti, i termini di cui è fatto il mondo e tra cui oscilla l'esistenza di tutti i mortali. Perché quanto era accaduto a quel «demone» che si presentava con il nome di Empedocle non costituiva, appunto, un'eccezione, ma era la cifra di un de­ stino comune: «Stirpe infelice dei mortali [ ... ] da quali contese e da quali gemiti siete nati» (fr. 1 24). Ma, dando voce alla sua m usa - con un' intona­ zione che ricordava gli insegnamenti degli Orfici e di Pitagora -, Empedo­ cle voleva mostrare agli uomini che anche in loro vi era un ddimon, anche in loro vi era un nucleo superiore, un nucleo divino, da destare, perché fosse tale componente superiore ad agire e guidare la vita nella direzione di una nuova e piena integrazione. Proprio perché il cosmo è fatto di polarità e di contrasti, è dato all'uomo di scegliere verso quali orientarsi, a quali «pre­ stare ascolto» affinché il ddimon si desti. E la scelta diviene, nella prassi, un lavoro di purificazione: katharmoi, «purificazioni » era il nome che Em­ pedocle aveva dato a questa parte introduttiva e a tutti aperta del suo inse­ gnamento. Per questo egli raccomandava, in ogni modo, di «essere digiuni dalla malvagità» e di astenersi dalla violenza: prima fra tutte quella che si consuma su altri viventi, uccidendo e mangiando la carne degli animali. E poi ancora additava, come immagine con cui identificarsi, il regno di un'età felice dove regnava « Cipride sovrana», dove «l'amore era acceso» come fuoco. L'obbiettivo era condurre tanto i singoli quanto le comunità a realiz­ zare ciò che quella figurazione mitica additava. L'obbiettivo era ascendere a forme di consapevolezza sempre più lucida e luminosa. Nel loro vagare millenario, gli uomini che si accostano, per purezza, sempre più al loro de­ mone, ritornano in forme progressivamente più alte: « Alla fine - diceva Empedocle - diventano veggenti e poeti, guaritori e guide degli uomini, e da essi germogliano dei (anablastousi theoi) » (fr. 146). Il cammino dell'e­ voluzione divina è la crescita sempre più rigogliosa, sempre più forte e vi­ tale, di quel seme, di quel germoglio prezioso che è il ddimon in noi. Per significare il traguardo sommo Empedocle usava l' immagine tradizionale

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di una mensa e di un fuoco cui accedere: coloro che sono "germogliati" «spartiscono il focolare e la tavola con gli immortali, non più partecipi di sofferenze umane » e ormai divenuti « indistruttibili », immuni da ogni trasformazione (fr. 147 ). Empedocle sentiva di essere ormai arrivato vicino a quel traguardo. Per questo parlava e poetava, invitando tutti alla purezza. Era il primo passo da compiere. Ma altri ancora ve ne erano per chi volesse davvero seguire quella via e progredire nella propria evoluzione. Al di là del discorso pub­ blico, della predicazione essoterica, vi era appunto un ulteriore orizzonte, un percorso esoterico, rivolto ai pochi che ne avessero la determinazione e la capacità, come il giovane Pausania, che Empedocle aveva scelto come figura del discepolo, come destinatario di quei versi in cui risuonava un ul­ teriore piano di verità. Si trattava a tutti gli effetti di un percorso iniziatico volto non tanto a una semplice enunciazione di contenuti, ma allo svilup­ po effettivo di facoltà e di poteri: « Imparerai i rimedi contro ogni male e contro la vecchiaia, perché, solo per te, io compirò tutte queste cose. Pla­ cherai la forza dei venti che [ ... ] devastano i campi, e poi di nuovo, se lo vorrai, susciterai benefici soffi. Trasformerai la nera tempesta in opportuna siccità e, all 'inverso, farai piovere quando l'estate dissecca [ ... ] , riporterai dall'Ade la forza di un uomo che è morto» (fr. m). La parddosis, la tra­ smissione della conoscenza si articola in parole, ma, come nei Misteri, le parole e i simboli sono solo uno strumento e un' indicazione per ripetere e appropriarsi di un'esperienza viva e vitale. Tutto deve partire da sé ed esse­ re provato su di sé: «Conosci», diceva Empedocle, perché «il discorso è spartito nelle tue viscere » . La parola, il discorso che indica la realtà, è, di fatto, «dentro» di noi, frammentata e dispersa nelle nostre parti e nelle nostre componenti costitutive. Il conoscere è anche un sentire e uno spe­ rimentare che parte dalla fisiologia stessa e dal modo in cui essa può essere utilizzata e mutata. Il «discorso » è, allo stesso tempo, come un cibo che viene «diviso » e assimilato dal soggetto, là dove esso può agire ed essere efficace. Tutti gli uomini hanno paldmai, «facoltà » per conoscere, che sono diffuse nel loro corpo. Paldme è la « mano» e poi, in senso più lato, ogni « mezzo » che consenta di prendere e di operare sulle cose, di "afferra­ re" il mondo e la realtà per farla propria, a cominciare dai cinque sensi. Ma, per la maggior parte dei mortali, le paldmai sono steinopoi, « anguste» o più letteralmente « strette ». Nulla passa, nulla viene davvero afferrato, tanto più quando affezioni o squilibri del corpo «Ottundono» ulterior­ mente la capacità di elaborare le percezioni. Altrettanto spesso gli esseri

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umani fanno un uso parziale e frammentato di ciò che sentono e percepi­ scono, basandosi ora su un senso ora sull'altro: tutto resta irrelato, confuso e, ancora una volta, frammentato : « destinati a rapida morte, gli uomini - sentenziava Empedocle - non colgono che una piccola parte della vita [ . ] prestano fede solo a quello in cui ognuno si imbatte per caso, vagando per ogni dove, e ognuno si vanta di aver scoperto tutto» (frr. 2.,3-6). Ma in questo modo - con questa limitatezza congiunta a presunzione che elegge il frammento casuale a comprensione effettiva - «le cose restano invisibi­ li, inascoltate e impossibili da cogliere con l'intuito» (fr. 2.,7-8). Occorre procedere in altro modo, con un atto di apertura e di attivazione di tutte le proprie risorse, di tutte le paldmai. La conoscenza si dà solo come un processo integrale e integrato: « Osserva attentamente (dthrei) con ogni mezzo (paldme) come ciascuna cosa diviene evidente. Non basarti sulla vista più che sull'udito, né sull'orecchio che risuona più che sulla prova del gusto, e non negar fede a nessuna delle altre membra, dove vi sia un varco per l' intuire » (fr. 3). Athréo indica il vedere, il fissare con attenzione e con intensità, ma, ancor più, come il suo etimo suggerisce, è un atto percettivo athroos, «compatto», « riunito », « tutto insieme ». Raggiungere questo stato di attenzione unitaria che fa appello a tutto il corpo è il primo passo per trovare un poros, un «varco» che connetta esterno e interno, consen­ tendo di accedere all' intuizione: a quel noéin, a quell'intuire che - per Empedocle come per altri sapienti antichi - aveva luogo nel « sangue » sottile e puro che circonda il cuore. «Guarda con il noos», con la facoltà intuitiva - ripeteva perciò Empedocle - « non rimanere stupefatto con gli occhi », non rimanere stordito dalla semplice superficie dell'apparenza (fr. 17,2.1). Per conoscere e conservare in sé stessi la conoscenza è necessaria una precisa pratica che si accorda e corrisponde alla phusis, alla « natura » di cui ognuno dispone: «Se ti poggi sui tuoi fitti precordi (prapides) e con­ templi (epoptéuses), praticando esercizi di purezza (katharésin [ . . ] meléte­ sin), tutte queste conoscenze ti saranno presenti per l'eternità e a partire da esse altre ne acquisterai innumerevoli: di per sé stesse si accrescono secon­ do il carattere individuale, nel modo che è proprio alla natura di ognuno» (fr. no). Indicazioni, queste, essenziali per il metodo e l' impegno che pro­ pongono. Prapides, i «precordi» rinviano, ancora una volta, alla « fitta» rete dei polmoni, al diaframma, allo spazio intorno al cuore, a quell 'uso sapiente del respiro e del sangue che conducono, al di là del visibile, verso altre dimensioni dell'essere, come già Pitagora e i saggi indiani ben sape­ vano. La forza dei «precordi» si completa e si potenzia con la meléte ka.

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LA VIA DEGLI DEI thard, con l' « esercizio» costante e ripetuto della purificazione personale, che isolando e concentrando elimina ogni scoria e armonizza le facoltà. In questo modo si giunge all ' epoptéuein, al «vedere », al «contemplare », secondo quella particolare e superiore modalità che - come si è visto era propria dei misteri nel loro atto culminante: l' epoptéia, quel vedere con assoluta immediatezza, quasi per contatto diretto, il segreto della vita. Nell'atto e nella ripetizione dell' epoptéuein, come Empedocle suggeriva, vi è un accrescimento progressivo di sapere e di essere, un accrescimento del soggetto stesso, secondo le potenzialità del «carattere » e della «natura » che gli sono propri, secondo - potremmo aggiungere - lo stadio raggiun­ to nel ciclo delle incarnazioni, il livello personale di evoluzione. Perché, se a tutti è dato intraprendere il cammino, l'esito del percorso, la conquista effettiva del sapere iniziatico dipende, in ultima istanza, dalla phusis, da « come si è nati » . Nell 'intraprendere tale sentiero occorre, in ogni caso, operare una scelta ferma e determinata tra la costanza di un impegno e l'esistenza qualunque, tra l'adozione di un preciso stile di vita e i modi comuni al resto dei mortali. La mancanza di coerenza non è ammessa per chi voglia essere un iniziato: «Se tu desidererai altre cose, come fanno di solito gli uomini, cose spregevoli, che ottundono il pensiero, presto tutte queste conoscenze ti abbandoneranno, desiderose di tornare là dov'è la loro origine », al piano della realtà cui appartengono (fr. 110 ). Ma a quale visione, a quale esperienza ulteriore Empedocle voleva ini­ ziare il suo discepolo ? Quale segreto lo invitava a «custodire, con il silen­ zio, nel cuore» ( fr. s) ? Egli voleva che il suo discepolo vedesse e sentisse, con potente intuizione, l' immagine di uno « sfera» che, nel « fitto mi­ stero di Armonia» , «gioisce della solitudine che tutto l'avvolge » : uno sfera « rotondo», «da ogni parte uguale a sé stesso », perfetto e omoge­ neo, felice del suo essere uno. La sua figura è simile all'essere di Parmeni­ de, ma, a differenza di questo, lo sfera divino evocato da Empedocle a un certo punto è attraversato da una vibrazione, da un tremito : «le membra del dio fremevano» (fr. 2.0 ) . È l'inizio di un processo che interrompe la stasi e l'omogeneità assolute, il principio di una dispersione che è nascita del molteplice, come l'uovo orfico che si rompe. La beata e solitaria quiete dello sfera era determinata dalla forza della Pbilia, dall' «Amicizia» , che, regnando incontrastata, produceva unità assoluta e uguaglianza perfetta. Il fremito, all'opposto, era scaturito dall'attivarsi di Néikos, la forza della « Contesa », che divide e separa, che scioglie l' identico, facendo essere la differenza. Così dallo sfera scaturirono quattro elementi o meglio - come

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diceva Empedocle - quattro rizomata, quattro «radici », come se la genesi della realtà fosse lo sviluppo di una pianta, come se lo sfero fosse la potenza vitale di un seme che germoglia e si sviluppa. «Per prima cosa - diceva Em­ pedocle - ascolta le quattro radici di tutte le cose: Zeus splendente ed Era che porta vita e Aidoneo e Nesti che di lacrime bagna la sorgente mortale » (fr. 6). La luce di Zeus è il « fuoco» . Era è la « terra » da cui la « Vita » spunta e cresce. Aidoneo - che, per l'etimo, significa l' «Invisibile» - è il soffio dell' « aria » impalpabile. La piangente Nesti è l' « acqua » che irrora la natura mortale: il suo nome significa «Digiuno» perché l'acqua, che è «veicolo» di vita e di « nutrimento», di per sé stessa non basta a «nutri­ re » (test. 33). I rizomata hanno nomi di divinità perché non sono semplici e inerti elementi, come l'uomo comune potrebbe pensare: derivate dall'u­ no divino, le «radici » sono, a loro volta, divine e «immortali», principi eterni di vita. L'intera vita del cosmo deriva dalla loro mescolanza secondo una dinamica governata dagli equilibri di forza di Pbilia e Néikos, che, con­ tinuando ad agire con diversa intensità e alterno prevalere, aggregano e di­ sperdono, generando continuamente nuove forme e altre dissolvendole. Lo sfero, le radici, il vincolo d'amore, la potenza della divisione: se il segreto della natura risiede in questo processo, vita e morte, ancora una volta, non sono che nomi, non sono che passaggi e transizioni di stato. Gli uomini sono come «infanti », come «bambocci» se «credono che qualcosa na­ sca che prima non era e qualcosa muoia» (fr. I I ) . «Un'altra cosa io ti dirò - proseguiva Empedocle -: non vi è nascita di alcuna cosa mortale, non vi è alcuna fine di morte funesta, ma solo mescolanza e separazione » (fr. 8). Uomini, « animali selvaggi », «arbusti» o «uccelli» , tutto è frutto di que­ sto gioco incessante (fr. 9 ) . Lo spettacolo dinamico del cosmo è come un meraviglioso quadro ove un divino artista, armonizzando con sapienza i colori, crei figure ogni volta diverse : « Come quando i pittori dipingono ta­ volette votive [ ... ], con arte prendono le tinte multicolori e le mescolano in armonia, alcune più, altre meno, e da esse [ . .. ] compongono alberi, uomini, donne, fiere, uccelli e pesci [ ... ] e divinità di lunga vita [ . . . ] così - ammoniva Empedocle - non lasciare che l'inganno ti prenda la mente, non pensare che altra e diversa sia l'origine degli esseri mortali, i quali in numero infini­ to sono divenuti manifesti » (fr. 2.3). « Amicizia », « Gioia », «Afrodite» sono i nomi diversi di questa forza che compone il quadro del mondo, le­ gando le cose con «chiodi d'amore » e vincoli di armonia (fr. 87 ) . Ma, se tutto viene dall'uno e all 'uno è destinato a tornare quando la Philia avrà debellato Néikos, tutto è da sempre divino. Tutte le cose, pro-

LA VIA DEGLI DEI dotte dalla mescolanza delle radici dello sfera, sono manifestazioni «mor­ tali» e provvisorie di ciò che è immortale: «Nascono mortali quelle cose che prima sapevano di essere immortali, mescolate quelle che prima erano pure, scambiando i loro cammini» (fr. 3 5). Per questo, la "materià' di cui si compongono il cosmo e la natura stessa del! 'uomo non è una realtà bru­ ta, non è sostanza disanimata. La materia « Sa» la propria immortalità. Proprio perché composte dalle radici divine, proprio perché derivate dallo sfera, « tutte le cose hanno pensiero » (fr. 103): «Sappi - ripeteva Empe­ docle a Pausania - che tutto ha mente, che tutto ha parte di intuizione intelligente» (fr. uo). Ed è questo, forse, il segreto più prezioso, che l ' in­ segnamento iniziatico trasmette e invita a esperire: la presenza di un pen­ siero che attraversa, anima e sostiene l' intera realtà, essendo tutt'uno con essa. Il divino dello sfera, il divino delle radici e dell'universo che da esse scaturisce è «una mente sacra e indicibile che si slancia con rapidi pensieri attraverso il cosmo» (fr. 134). L'iniziato è allora colui che riesce a cogliere questa « mente sacra » , che riesce a intuirne, in ogni cosa, il sapiente potere e il rapido « slancio ». L'i­ niziato è colui che riesce davvero a « vedere», in piena evidenza, questa vita intelligente che è la trama della manifestazione. Per fare questo, egli deve penetrare il gioco delle mescolanze e conoscere, al di là dell'apparenza, la vera natura degli elementi. Gli basta far leva sul potere della Philia, sulla forza attraente dell'amore, perché il simile - diceva Empedocle - « si slan­ cia » sempre verso il simile (fr. 90 ). Così egli impara a conoscere e a percepi­ re la radice della terra con la « terra » che ha in sé e che compone le sue ossa, la radice del fuoco con il calore del proprio «fuoco », la radice dell'aria con il soffio del proprio respiro, la radice dell'acqua con l'umido che irrora il suo essere. Egli sente e comprende, con il proprio pensiero, il «pensiero » di ogni radice. Sente e comprende gli elementi che, in assoluta corrispon­ denza, operano in lui così come nel cosmo. Dentro e fuori di sé, percepisce la dinamica delle forze vitali e i processi che governano il mutamento. Nulla gli è più estraneo e ignoto. Ogni cosa gli diviene « amica », «presente » e disponibile, potenziando, in una continua crescita, la sua stessa capacità di intuire, di vedere e di essere. È come il realizzarsi di un contatto sempre più stretto, più intenso e più armonico con la realtà. Una relazione empatica sempre più perfetta che consente di dominare la realtà stessa della natura perché ogni elemento e ogni forza si manifestano agli occhi della mente e si offrono a chi sa avvertirli e accoglierli dentro di sé. Da questo punto di vista, il lavoro dell'iniziato è un'opera crescente d'Amore e di Gioia, che produce

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coesione, armonia e unità del sapiente con sé stesso e, attraverso sé stesso, con il mondo. È un'opera di perfezionamento che, attingendo alla « mente sacra», realizza e integra le forze insite nella natura e nell'uomo, eliminan­ do ogni squilibrio e ogni ostile separatezza. Nella connessione con il «pen­ siero » che pervade l'universo e nell'accrescimento della propria capacità di pensare e intuire, si compie, per così dire, un' intensificazione progressiva di coscienza. L' iniziato, che ha compiuto fino in fondo tale opera, si trasfor­ ma in un «dio» - come Empedocle diceva di sé stesso - perché diviene attivamente cosciente di essere parte dell'uno divino, di derivare dallo sfera perfetto, di essere fatto della sua sostanza intelligente e immortale. E tale coscienza significa definitivo superamento della comune condizione uma­ na perché nessuna opacità e nessuna disarmonia limitano più la pienezza e il potere della vita. Il ddimon decaduto che lo abita - secondo l'immagine legata al ciclo delle incarnazioni - è la potenzialità stessa di questa realizza­ zione cosciente, il nucleo che deve essere destato alla sua massima potenza e che permane al di là del cangiante mutamento delle forme, fino a che la pace dell'uno riassorbirà tutto in sé stessa. La fine del «divino » Empedocle fu manifestazione simbolica di tale realizzazione, di tale compimento. Si narra che, una notte, si sia dilegua­ to, lasciando la vita umana in modo numinoso: una voce lo chiamò per nome, una luce divina attraversò il cielo, balenarono fiaccole ardenti come nella culminazione dei misteri e nessuna traccia mortale restò di lui. Altri raccontano che sia scomparso nella voragine dell'Etna, nella lava incande­ scente. Luce con luce, fiamma con fiamma (test. 1,68-71 ). Il «demone» si era trasformato e unito alla radice divina del fuoco. Quello che Demetra aveva tentato di fare con il figlio del re di Eleusi. Quello che la dea Teti aveva ripetuto con Achille. Interrotte entrambe dall' insipienza umana che vede nell'ardere solo distruzione. Quello, ancora, che - nella distorsione delle fonti che più non comprendono - aveva provato Eraclito, seppellen­ dosi nel caldo sterco animale, per far prosciugare la sua « acqua » e diven­ tare una luminosa « siccità » (test. 1,3-4). Da Pitagora a Eraclito, da Parmenide a Empedocle, la scienza della na­ tura non è sistema, né tantomeno sapere pratico, ma, sempre e comunque, via iniziatica che deve condurre l'uomo al di là di sé stesso. Il pitagorico Alcmeone, sapiente « medico» , diceva che gli uomini muoiono perché non « sanno congiungere il principio con la fine », l'arché con il télos (Alcmeone, fr. 2 ) . Non sanno essere un cerchio perfetto, una sfera com­ piuta, come il divino.

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Cosmo, caverna, città Itinerari simbolici fra Platone, Plutarco e Porfìrio

A Itaca

Dopo anni di peregrinazioni Odisseo riuscì a tornare in patria, grazie all'aiuto dei Feaci che, su una delle loro navi veloci, lo trasportarono fino a ltaca. Durante tutto il viaggio per mare Odisseo dormì, immerso in un sonno simile alla morte. Ed era ancora addormentato quando i Feaci ap­ prodarono a una delle insenature dell' isola, in un luogo riparato e sicu­ ro che essi ben conoscevano. Lo portarono a terra avvolto in un celo di lino, quasi fosse un cadavere, e deposero vicino a lui ingenti doni, come omaggio e congedo a quell 'illustre ospite. Così racconta Omero all' ini­ zio del libro che apre la seconda metà dell ' Odissea. L'eroe ha attraversato il mare, lasciandosi alle spalle i luoghi lontani e fantastici dove si erano consumate le sue innumerevoli prove. L'approdo è come un ritorno dal regno della morte e dell'invisibile. Destandosi dal sonno profondo che lo avvolge, Odisseo risorge alla vita. Il passaggio delle acque, il sonno, il risve­ glio: l'arrivo a ltaca è come il compimento di un rito iniziatico, come una risalita dall'Ade, secondo il percorso dei misteri e il modello archetipico di Persefone. Prima che Odisseo si risvegli e prenda coscienza, con l'aiuto di Atena, di essere finalmente giunto in patria, il racconto omerico indugia, per alcu­ ni versi, nella descrizione del luogo scelto dai Feaci per lo sbarco. Si tratta di un porto naturale, sacro a Forco, antica divinità marina. All'ingresso del porto, chiuso da due promontori scoscesi, vi è un ulivo e lì vicino un « antro amabile e buio, sacro alle Ninfe che si chiamano Naiadi. Dentro vi sono crateri e anfore fatti di pietra, dove le api depongono miele; e grandi celai di pietra, dove le Ninfe tessono drappi purpurei, una meraviglia a ve­ derli, e fonti di acque perenni. L'antro ha due porte: una, volta a Borea, per gli uomini e una, rivolta a Noto, riservata agli dei: da lì non passano gli uo-

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mini, perché è la via degli immortali » (O mero, Odissea, J3,I02-I 12 ) . I versi offrono un quadro enigmatico quanto suggestivo. Ma perché il cantore si è soffermato su una descrizione che non sembra aver alcuna incidenza sul seguito del racconto ? Si tratta di una m era divagazione esornativa, per dilettare gli ascoltatori, o vi è un significato che deve essere colto al di là della superficie delle parole ? Una più profonda meditazione che il passo richiede e insieme sollecita? Già gli antichi si erano posti la questione. Il geografo Artemidoro di Efeso testimonia l'effettiva esistenza, a ltaca, di un porto dedicato a Forca, presso il quale vi era una grotta, e gli studiosi moderni hanno fatto ipotesi sull'ubicazione precisa dell'insenatura. Gli ulteriori dettagli menzionati dalla narrazione di Omero non si prestereb­ bero, tuttavia, a un effettivo riscontro. La digressione non costituirebbe, in altre parole, una mera finzione poetica, composta arbitrariamente per affascinare il lettore, ma non sarebbe nemmeno l'oggettiva descrizione di un luogo reale. In questi versi, il cantore-poeta intende probabilmente al­ legoréuein, « dire altro », additando a un senso riposto. L'antro e l'ulivo che chiude il porto dovrebbero essere intesi come « simboli misterici », che rinviano alla vicenda dell'anima tra essere e divenire. Tale è l'opinio­ ne del neoplatonico Porfirio che, nel suo Antro delle Ninft, si propone, per l'appunto, di dipanare l' «enigma» posto dal passo america, facendo ricorso a un'articolata messe di riferimenti e di valori tratti dalla sapienza della tradizione. Per Porfirio, infatti, l'antro di Itaca sarebbe espressione di un' « antica saggezza » (Porfirio, Antro delle Ninft, cap. 4): una «costruzione simboli­ ca » che deve essere investigata e contemplata con quell'approccio analo­ gico che è proprio del sacro. Secondo tale prospettiva, l'antro è un' imma­ gine del cosmo, considerato nella sua totalità e nell'articolazione delle sue parti, spazio e tempo, in cui la psuché compie il proprio alterno percorso di discesa e risalita, di incarnazione terrena e ritorno alla patria celeste. « Gli antichi consacravano antri e caverne al cosmo» (cap. s ) ed eleggeva­ no questi luoghi - fossero essi naturali o costruiti artificialmente - come le sedi più opportune e adatte per « celebrare i riti iniziatici » e guidare i candidati all'esperienza del « mistero » della vita (cap. 6). I vasi di pietra e le fonti perenni, evocati da O mero, rinvierebbero ad altrettante caratteristiche della buie, della « materia » di cui il cosmo si compone. Terra, roccia e pietra sono simbolo del carattere solido, resi­ stente e greve della realtà sensibile e del mondo corporeo. La materia, come la roccia, appare cosa «inerte » e « ostile alla forma» finché il de-

COSMO, CAVERNA, CITTÀ mi urgo divino e la psuché non la vivificano e non la plasmano con opera paziente. Ma la materia è anche fluida e sfuggente al pari dell'acqua: per sua natura, scorre sempre senza conoscere limite se qualcosa non la ferma e la contiene. L'acqua è, d'altro canto, l' «umido» necessario alla gene­ si della vita corporea e rappresenta, per questo, ciò che pertiene all'esi­ stenza incarnata e ai processi del divenire. La grotta america è definita dal cantore « oscura » e « amabile>> allo stesso tempo: oscura perché il mondo della materia è buio e tenebra rispetto allo splendore del divino e alla luce del mondo superiore ; ma è anche amabile perché il cosmo, com­ piutamente ordinato dal demiurgo, è uno spettacolo di mirabile bellezza, grazie all'intreccio delle forme eterne che lo strutturano e lo sostengono. L'oscurità, tuttavia, può anche alludere a tutto ciò che sfugge alla vista e alla percezione. Nel buio delle grotte, gli antichi vedevano la figurazione dell'universo materico, ma, allo stesso tempo, consideravano quella te­ nebra impenetrabile come il « simbolo di tutte le potenze invisibili » che operano nel cosmo e la cui essenza non è afferrabile dai sensi corporei. I simboli sono sempre reversibili e polivalenti, come lo stesso Porfirio sot­ tolinea. Se la grotta, buia e rocciosa, è pregnante immagine della consi­ stenza opaca del sensibile, i medesimi tratti possono, all'opposto, offrire una raffigurazione del mondo ideale poiché esso, per ragioni diverse, è sta­ bile e saldo come la pietra e invisibile come ciò che si sottrae allo sguardo (cap. 9). Uno stesso simbolo può dischiudere tanto il mistero di ciò che sta in alto quanto il segreto di ciò che sta in basso, in un gioco di simmetriche rispondenze. Le grotte, che trasudano e stillano umidità, sono spesso dedicate - pro­ segue Porfirio - alle Ninfe e più in particolare a quelle designate con il nome di Naiadi, poiché tali fanciulle divine presiedono, in modo speci­ fico, alle fonti e alle acque (ndo, da cui l'epiteto deriva, significa infatti « scorrere» ). Le Naiadi deterrebbero il duplice segreto delle « acque men­ tali» e delle fonti terrene, delle intuizioni divine e della genesi corporea, dell 'ispirazione celeste e della vita terrena. Il che suggerisce un' immediata associazione simbolica. Le Ninfe che abitano la grotta o m erica non sareb­ bero altro che le anime stesse, dotate per loro natura di una mente divina, ma destinate a vivere temporaneamente all' interno di un corpo. Se l'antro è il cosmo sensibile e l'umido è il regno della materia, le divine fanciulle dell'acqua « sono le psuchdi che scendono alla generazione», «planando sull'acqua» (capp. 11-12) . Sangue e seme, sessualità e procreazione si in­ scrivono, in egual modo, nel plesso simbolico del fluido che scorre e si

LA VIA DEGLI DEI riversa. Per l'anima-ninfa «inumidirsi » significa condurre un'esistenza mortale, turbata e condizionata dalle passioni e dai desideri del corpo. Il che illuminerebbe, a dire di Porfirio, anche la stranezza di quei « telai di pietra » - anziché più normalmente di legno - su cui le Naiadi dovreb­ bero tessere « manti purpurei ». Tutto ciò starebbe a indicare la formazio­ ne dei corpi mortali. Le ossa, la solida struttura dello scheletro, sarebbe­ ro nell'uomo l'equivalente della roccia che attraversa il corpo della terra. I mantelli color della porpora che vengono creati sul telaio sarebbero sim­ bolo della carne che « si forma dal sangue » e che avvolge le ossa. In questo singolare composto di pietra e di tessuto, il corpo mortale è come una « tu­ nica », come una veste, che avvolge l'anima. E non è casuale - aggiunge Porfirio - che proprio Persefone, signora della vita e della morte, sia spesso ritratta mentre lavora al telaio, indicando ciò che attende le anime stesse non appena si compia per loro il momento di « inclinare all 'umido ». Ambivalente è anche il riferimento al miele che le api deporrebbero nei crateri presenti nell'antro. I « teologi » - ricorda Porfirio - «usano H miele in differenti e disparati simboli » (cap. 15). La sostanza prodotta dalle laboriose api ha il potere di «conservare » e di «purificare » e, come tale, viene giustamente connessa con l'ambito dell' iniziazione alle realtà superiori e con i percorsi che conducono alla vita immortale: il miele as­ somiglia, infatti, ali ' ambrosia di cui si nutrono gli dei perché preserva i corpi dalla putrefazione e dal disfacimento. Ma, per altri versi, la dolcez­ za del miele richiama, con facile accostamento, l'allettamento irresistibile del piacere, l' «esca » irresistibile con cui tanto gli uomini quanto gli dei sarebbero indotti alle dinamiche della generazione: il miele «rappresenta il piacere che deriva dall'unione sessuale» e, nei racconti della tradizione mitica, anche gli esseri divini sono catturati dal « miele » e, struggendosi di piacere, sono spinti a « spargere il loro seme » affinché la realtà sensibile abbia vita (cap. 16). Per tali ragioni, il miele - conclude Porfirio - è un simbolo appropriato per le anime-ninfe: come l'acqua, cui le Ninfe pre­ siedono, anche il miele è immagine di purezza incontaminata ma, proprio come l'acqua, il miele rinvia, al medesimo tempo, alla forza irresistibile del coito e della riproduzione, all' « umido » di tutto ciò che appartiene all'u­ niverso cangiante e instabile della materia. L'anima è un essere che oscilla e si muove, con alterno destino, tra due dimensioni, tangendo sia la realtà superiore e immutabile sia il piano della genesi e del mutamento e, proprio per questo, ogni simbolo che si riferisca a essa non può che essere doppio, additando il duplice percorso che la attende e insieme l'alternativa cui è

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condotta dall'ordine cosmico: inclinare verso il basso e sprofondare nella materia oppure innalzarsi al di là della natura e del cielo verso ciò che non conosce fine né alterazione. A questo doppio movimento alludono, d'altro canto, le due porte pre­ senti nell'antro america. L'una è associata a Borea, al vento freddo del Nord, alla direzione del Settentrione. L'altra è legata a Noto, il vento che spira dal Sud e indica l'opposta direzione del Meridione. Considerando il moto apparente del sole e l'asse di rotazione della terra, queste due dire­ zioni indicano due punti precisi sul piano inclinato dell 'eclittica celeste. Il cielo - ricorda infatti Porfirio - ha due « estremità »: l'una settentrionale che corrisponde al tropico estivo del Cancro e l'altra meridionale che è rappresentata dal tropico invernale del Capricorno. Le due costellazioni zodiacali sono a loro volta connesse con due pianeti del sistema solare. Il Cancro è attribuito alla Luna, che è, fra tutti, il più prossimo alla Terra, mentre il Capricorno si lega a Saturno, che è il «pianeta più lontano e alto tra tutti ». Tenuto conto di tali dati astronomici, la porta del setten­ trionale Borea, coincidente con il Cancro e con il solstizio d'estate, è la «via della discesa » per gli uomini: è la porta, in altre parole, attraverso la quale passano le anime che entrano nel cosmo-antro per incarnarsi nei corpi, per assumere l' identità di uomini. La porta meridionale di Noto, la porta del Capricorno e del solstizio invernale, è, all'opposto, la via dell'a­ scesa attraverso cui transitano le psuchdi che abbandonano il divenire e la regione sublunare per riconquistare la loro patria divina. Nel dettato ame­ rica si afferma che la porta di Noto è il « sentiero degli immortali» e tale epiteto - commenta Porfirio - sarebbe del tutto appropriato per le anime poiché esse sono « immortali in sé o nella loro essenza » (cap. 2.3). Il dop­ pio ingresso della grotta, sull'asse nord-sud dei due solstizi, non farebbe dunque che richiamare le due vite dell'anima e le due possibilità del suo destino: essere un uomo mortale o riconquistare lo statuto divino di entità immortale. La menzione dei venti di Borea e di Noto non sarebbe, d'altro canto, solo funzionale all'indicazione dell'orientamento dell'antro, come cifra allusiva delle costellazioni legate al moto di discesa e ascesa. I venti indicano anche il processo trasformativo che interviene nel passaggio tra le due condizioni, in coincidenza con quanto, dal punto di vista terreno, si suole chiamare nascita e morte. Con un linguaggio che, per certi versi, può ricordare le formulazioni dell 'alchimia, Porfirio osserva che il vento caldo del Noto ha la proprietà di «dissolvere» : al momento della mor­ te, il composto sdma-psuché viene meno e l'anima, che si è sciolta da ogni

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legame corporeo, può ascendere liberamente per la porta del Capricorno alla volta di una riguadagnata e felice immortalità: può slanciarsi verso il «calore » della fiamma divina. Il vento di Borea, essendo gelido, ha, inve­ ce, il contrario potere di « congelare » o di «coagulare», vincolando le anime al « freddo della generazione terrestre » (cap. 2.5). Nella tradizione mitica, Borea, figlio di Aurora, è inoltre descritto come essere violento ed «erotico» : potente fecondatore nonché rapitore di fanciulle. Anche per questo la sua figura è quanto mai adatta a rappresentare il desiderio sessuale e l'atto della procreazione, che sono indissociabili dalla natura del divenire. Esaminate le caratteristiche dell'antro, resta da riflettere sul riferimento america a quell'ulivo posto in testa al porto. Porfirio ricorda che quest'al­ bero è sempreverde: dalle sue foglie si intrecciano le corone con cui viene cinto il capo dei vincitori degli agoni e i suoi rami vengono esibiti dai sup­ plici che chiedono protezione e aiuto in nome degli dei. L'ulivo è inoltre la pianta sacra alla sapiente Atena, nata, senza accoppiamento sessuale, dal capo del padre Zeus. Da tutto ciò Porfirio inferisce che quell'ulivo sia il « simbolo della saggezza divina » che ha ordinato l'universo: il cosmo « non è un tutto nato spontaneamente » né, tanto meno, il « frutto del caso » , ma la «compiuta realizzazione di una natura intelligente e di una sapienza » (capp. 33-34). Il cosmo è «governato da una saggezza eterna e sempre fiorente» come l'ulivo : una saggezza eterna che premia gli « ade­ ti della vita », capaci di sollevarsi al di là della materia; una mente divi­ na che guida coloro che, come supplici, si affidano a essa per superare lo strazio dei mali umani. Lungi dal costituire una digressione ornamentale, la descrizione della grotta di ltaca avrebbe, dunque, un' implicita e simbo­ lica connessione con l'avventura dello stesso Odisseo. Per Porfirio e per i « teologi» cui egli fa riferimento, l'eroe america e il suo viaggio acqueo sarebbero, nel loro complesso, la narrazione simbolica di un'anima che rie­ sce, con perseveranza e determinazione, con saggezza e virtù, a sottrarsi al « mare » della materia, ai flutti agitati e peri gli osi del divenire. L'approdo al porto di Forca sarebbe, in tale prospettiva, il compimento di un tragitto iniziatico aspro e difficile, dove, passo dopo passo, ogni rischio viene af­ frontato pur di giungere alla salvezza e alla conquista di ciò che è vera vita. Odisseo - conclude Porfirio - è « icona » di «colui che attraversa tutti gli stadi della generazione per reintegrarsi tra coloro che sono estranei a ogni flutto » (cap. 34). Per riconquistare il proprio regno e il proprio status di sovrano, Odisseo deve prima perdere tutto, fare naufragio, spogliarsi di ogni bene e del suo stesso aspetto, trasformandosi, infine, in un lacero e

COSMO, CAVERNA, CITTÀ avvizzito mendicante. Solo così, pervenendo all'estrema nudità, al nucleo essenziale di sé stesso, potrà diventare ciò che veramente è. Per staccarsi dalla vita dei sensi, per eliminare tutte le passioni e tutti i turbamenti, non si può avere fretta o agire d' impeto. La vita del corpo e della materia non può essere semplicemente troncata o « accecata », come il Ciclope omeri­ co, con un unico gesto. Bisogna placare le potenze e i demoni del sensibile con la «perseveranza » e le «fatiche di un mendico», ora lottando diret­ tamente contro le passioni, ora ricorrendo alla «magia » e agli stratagem­ mi propri di un uomo "astuto", fino a che non si compia una completa me­ tamorfosi. Al termine del cammino iniziati co occorre che l'anima, come Odisseo, divenga totalmente dpeiros, «ignara» delle «opere del mare e della materia » : completo distacco da ogni «esperienza» (péira) impres­ sa dalla realtà inferiore, completa assenza di ogni «limitazione» (péirar) che confini il proprio sé divino nell'angustia di una condizione mortale ottenebrata. Il respiro astrale dell ' anima

L'antro è dunque il luogo simbolico in cui scorre il tempo della vita umana. Ma è anche lo spazio in cui si compiono pratiche e riti al fine di uscire dalle coordinate spazio-temporali del sensibile, conquistando l'esperienza fon­ damentale di un altrove al di là dell'esistenza incarnata. Tra i molti esem­ pi antichi che si possono considerare, uno particolarmente significativo e celebre è il cosiddetto "antro di Trofonio", situato a Lebadea in Beozia. Trofonio e suo fratello Agamede erano stati sapienti e rinomati architetti, costruttori di luoghi sacri e di dimore regali. Opera loro sarebbe stato il tempio delfico di Apollo, di cui erano, fra l'altro, considerati figli. In modo analogo al veggente argivo Anfiarao, Trofonio concluse la sua vita terre­ na con una sparizione miracolosa. Un giorno la terra si aprì inghiottendo l'architetto divino nelle sue profondità. Grazie a questa fine, ben diversa dall'ordinario processo della morte, egli divenne così un nume, un essere immortale, capace di dispensare oracoli e di offrire visioni ultraterrene. Là dove era scomparso fu così costituita una sede oracolare, un antro inizia­ dca, con caratteristiche del tutto particolari. Il luogo era situato nel fitto di un bosco ave si trovavano anche un santuario di Demetra, un tempio di Zeus "Pluvio" e un'area denominata «Caccia di Kore » . Persefone, la kore, figlia di Demetra, aveva un tempo giocato qui con la ninfa Ericina

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e, dando la caccia a un'oca che era sfuggita, aveva fatto scaturire la sor­ gente di un fiume che da Ericina stessa prese nome. Demetra, Persefone, una ninfa acquatica, un'oca, animale legato anch'esso all'acqua e alle dee­ madri: l'insieme delle presenze e dei simboli rinvia coerentemente a quella dimensione ctonia e infera dei riti cui Trofonio presiedeva. La sede dell'o­ racolo era circondata da un anello circolare di pietra e di bronzo, all' inter­ no del quale vi era un chdsma gés, una spaccatura, un'apertura della terra, sul cui fondo uno stretto passaggio faceva entrare nello spazio rituale vero e proprio. Così testimonia Pausania, nella sua Guida della Grecia (9,39 ), descrivendo la meticolosa preparazione e la sequenza rituale necessarie per consultare Trofonio. Chi voleva fare esperienza di questa dimensione ulteriore doveva dimorare, per un certo numero di giorni, in una stanza consacrata al « Buon demone » e alla «Buona fortuna ». Era la fase preli­ minare della purificazione in cui il candidato si aspergeva con l'acqua del fiume Ericina e si cibava unicamente di quanto proveniva dalle offerte agli dei del luogo. Si compivano ripetuti sacrifici osservando se le viscere del­ le vittime recavano segni propizi all 'impresa da compiere. L'ultimo e più solenne sacrificio era celebrato la notte, immolando un ariete, che - come già sappiamo è connesso con il sole primaverile e con le forze germinanti della natura. Le polarità opposte della vita e della morte dovevano essere opportunamente richiamate perché la cerimonia avesse il desiderato effet­ to. Sempre di notte, il candidato veniva condotto presso il fiume Ericina in compagnia di due fanciulli chiamati allusivamente Ermeti, dal nome di Ermete, il messaggero degli dei, il divino psicopompo che accompagna le anime nell'invisibile. I fanciulli lo lavavano con le acque fluviali e lo ungevano di olio, per prepararlo, come un morto, a scendere nell'aldilà. I sacerdoti dell'oracolo lo conducevano quindi presso due sorgenti vici­ ne fra loro. Dapprima l'iniziando doveva bere l' « acqua di Lete », l' « ac­ qua dell'Oblio», per dimenticare « tutte le cose che avevano occupato la sua mente sino a quel momento » : solo distaccandosi dai pensieri e dal­ le percezioni ordinarie, solo dimenticandosi ciò che si è - o si pensa di essere - nella vita di tutti giorni, è possibile entrare in contatto con altri piani dell'essere. Subito dopo, egli doveva bere dall'opposta sorgente di Mnemosine, della «Memoria », al fine di poter ricordare e fare per sempre tesoro di quanto avrebbe esperito e visto nell 'antro. Davanti a una statua - che i sacerdoti mostravano solo a coloro che avevano compiuto tutti i passi precedenti - veniva pronunciata un'ultima preghiera. Il candidato, vestito rigorosamente di un chitone di lino, cinto da fasce e con particolari -

COSMO, CAVERNA, CITTÀ calzari, poteva quindi scendere nell'antro, calandosi con una scala sul fon­ do della voragine. Là si stendeva supino e introduceva i piedi nell'angusto pertugio del « forno », sforzandosi di entrare fino alle ginocchia. Quindi, come fosse afferrato da una forza misteriosa, egli scompariva all' interno: « il resto del corpo - afferma Pausania - viene trascinato dentro [ ] allo stesso modo in cui un fiume grande e impetuoso potrebbe far scomparire un uomo dopo averlo preso in un vortice ». Dopo di ciò, coloro che erano penetrati nell'adito del sacro antro accedevano a una conoscenza che si dispensava in forme diverse a seconda anche delle differenze delle nature individuali: ora come il dispiegarsi di una visione ora come l'ascolto di una voce. Per tornare indietro, chi aveva portato a termine l'esperienza doveva uscire dal «forno» mettendo, ancora una volta, i piedi in avanti. n consultante di Trofonio entrava come un cadavere che scompare nella terra, e successivamente ne usciva come un bimbo che viene espulso dal ventre materno. n « forno» sacro era l'utero di una seconda nascita. Una volta risalito, egli veniva accolto di nuovo dai sacerdoti che lo facevano sedere sul «trono della Memoria » , sollecitandolo a riferire quanto aveva visto o appreso. Il redivivo - o meglio il rinato - veniva poi consegnato ai suoi familiari che lo riportavano nella stanza del «Buon demone » e della «Buona fortuna» affinché potesse gradualmente riaversi. Appena usciti dall'antro, infatti, i consultanti erano ancora in preda al « terrore » e al turbamento più assoluto, al punto da non sapere più chi fossero loro stessi e le persone che avevano vicino. Analogamente ai Misteri eleusini, il pathos di Trofonio era perdita di ogni riferimento usuale, inabissamento nella paura e disintegrazione dell 'identità. Ci voleva un po' di tempo af­ finché il soggetto riprendesse il contatto con la realtà quotidiana e - come aggiunge Pausania - potesse tornare a « sorridere». Un resoconto della discesa neli' antro e di quanto in esso era avvenuto è stato trasmesso da Plurarco nel suo saggio Sul demone di Socrate (590 a ss.). È il racconto dell'esperienza fatta, molto tempo prima, da Timarco, un amico e assiduo frequentatore di Socrate. Timarco voleva comprendere che cosa mai fosse quel demone che guidava Socrate e lo faceva essere così diverso dagli altri uomini. Per questo si era recato a Lebadea, confidando che l'adito di Trofonio potesse illuminarlo e avvicinarlo, in modo diretto, alla natura del demonico. Compiuti tutti i riti prescritti, si era calato nella grotta dove era rimasto per due notti e un giorno, al punto che amici e parenti ormai disperavano che egli ne uscisse vivo e già avevano comincia­ to a piangerlo come un defunto. Ma la seconda mattina, di buon'ora, ne ...

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era risalito, raggiante di felicità e pronto a riferire ciò che aveva conosciu­ to. Dapprima si era trovato immerso nella più totale oscurità e, giacendo a terra, era rimasto sospeso in uno stato in cui non capiva se fosse sveglio o se stesse già sognando. A un certo punto, avvertì un forte rumore e gli sembrò come di aver ricevuto un colpo sulla testa. Ebbe l' immediata sen­ sazione che le suture del cranio si sciogliessero, liberando l'anima. Era come se la testa si fosse aperta e la psuché potesse uscire dall' involucro cor­ poreo, muovendosi nell'aria pura e fluttuando, a suo piacere, in regioni superiori al piano terrestre. Gli sembrava che l'anima, per la prima volta, potesse davvero « respirare » ed « espandersi », aumentando di volume, dopo essere stata così a lungo contenuta e compressa negli stretti limiti della fisicità. Gli pareva ancora che la psuché fosse come una vela che si di­ spiegava in tutta la sua pienezza a opera del vento. Immagini diverse per tentare di suggerire il passaggio a una dimensione extracorporea con il conseguente accesso alla dimensione dell'astrale. Dopo aver percepito una sorta di ronzio, come se qualcosa gli girasse attorno producendo un suono, Timarco - o meglio la sua anima - volse lo sguardo in giro e ciò che vide lo stupì, risultandogli sulle prime incomprensibile: una serie di isole splen­ denti di fuoco, che si illuminavano a vicenda producendo colori di diverse sfumature. Isole di forma rotonda, che si muovevano in cerchio, liberando nell'etere un suono di un'incredibile armonia e dolcezza. Gli pareva che le isole si muovessero in una sorta di mare o di lago, in cui la luce e l'azzurro si mescolavano, ancora, a tonalità differenti. Vi era come un canale o una corrente che trascinava parte delle isole, facendo loro compiere un moto che sembrava avvolgersi in un andamento a spirale. Come si può forse in­ tuire, le isole non erano altro che i diversi pianeti, il canale rappresentava l'equatore celeste, la corrente corrispondeva allo zodiaco con la sua se­ quenza di costellazioni, e la spirale rimandava, infine, al moto apparente dei pianeti in rapporto alle cosiddette stelle fisse. Timarco, dunque, si sta­ va librando nelle altezze sconfinate del cielo. Sotto di sé vedeva un grande abisso circolare, pieno di oscurità e di agitazione convulsa. Una sorta di baratro da cui sentiva provenire lamenti di animali, vagiti di bimbi e gemi­ ti di uomini e donne. Era il regno della materia greve, lo spazio della terra e dell'Ade al di sotto di essa. Quelle urla e quei lamenti provenivano tutti dagli esseri costretti a vivere nella prigione dei corpi. Mentre, confuso e stordito, stava osservando tutto questo, la voce di un demone lo raggiunse per rendergli intelligibile il contenuto e il senso di tutta quella visione. Quattro - diceva la voce demonica - sono i principi di tutte le cose: la

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vita, il movimento, la generazione e la dissoluzione. Nella dimensione su­ periore dell' invisibile, l'Uno connette la vita al movimento. Nella sfera del Sole, la Mente divina unisce il movimento alla generazione, mentre la Na­ tura, nel regno della Luna, governa le trasformazioni della generazione e della corruzione. Mentre le isole-pianeti più lontane dalla terra sono abita­ te dagli dei, la Luna - cui presiede Persefone, signora della vita e della mor­ te - è il luogo delle anime prese nel ciclo alterno dell' incarnazione. Delle anime e dei demoni a esse associati. L'essere umano infatti - spiegava la voce a Timarco - è propriamente un insieme composto di tre elementi: soma, psuché e nous, « Corpo», « anima » e «intelletto » o « mente » . Ciò che si suole chiamare «demone » o genio personale non è, in realtà, che il nous stesso di cui ogni uomo, per sua natura, dispone. Il fatto che molti lo ignorino e non lo percepiscano affatto, o ancora che lo considerino un appannaggio esclusivo di uomini singolari come Socrate, dipende unica­ mente dal modo in cui l'anima di ognuno si rapporta alla dimensione cor­ porea. Tanto più l'anima sprofonda completamente nella materia e se ne fa contaminare, tanto più si allenta e diviene flebile il rapporto con la sua componente superiore. Il nous, infatti, non entra, come l'anima, all' inter­ no del corpo, ma resta al di fuori di esso. L' « intelletto » - « demone» gal­ leggia, per così dire, sulla superficie, senza inabissarsi del tutto nel sensibi­ le: sta sopra il capo dell 'uomo come una sorta di «boa » o di « gavitello» che segnala chi si è tuffato nella profondità del mare. È compito e scelta di chi si è calato nell'abisso mantenersi prossimo alla fune che lo lega alla boa. È compito dell 'anima incarnata non farsi travolgere dalle passioni, per­ dendo il contatto salvifico e illuminante con il proprio demone. Timarco, invitato a guardare verso il basso, in direzione della voragine, vedeva « in­ numerevoli astri » fluttuanti intorno all'abisso : alcuni si immergevano in essa, altri ne uscivano proiettandosi verso l'alto. Le stelle che, inabissando­ si, sembrano estinguere la propria luce - spiegava la voce - sono le anime che discendono completamente nel corporeo, abbandonandosi a esso. Quelle che tornano a risplendere, riemergendo dal fondo della caligine, sono, per contro, le psuchdi che si sono liberate dal corpo. Gli astri proiet­ tati velocemente verso l'alto sono, infine, i «demoni » di quegli uomini che, durante la vita terrena, hanno sempre dato ascolto alla loro parre mi­ gliore. Intesa questa spiegazione, Timarco tornò a contemplare lo straor­ dinario spettacolo, osservando il fluttuare degli astri che ora gli facevano venire in mente l' immagine dei sugheri delle reti da pesca. Alcune stelle avevano un moto lineare e ordinato, come sugheri che, galleggiando sulla

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superficie del mare, sembrano quasi immobili. Altre si muovevano, invece, in maniera del tutto discontinua e diseguale, a strappi e a spirali irregolari, verso l'alto o verso il basso. n movimento placido e regolare corrisponde - secondo la logica dell' immagine - alle anime che, nella vita terrena, si mostrano obbedienti al loro demone: quando ciò avviene, l'astro della « mente» galleggia senza scosse al di sopra delle rispettive psuchdi, che si impegnano a conservare una perfetta armonia con la loro controparte su­ periore. Il moto irregolare e vorticoso del « sughero» - « astro » segnala, per contro, le anime indocili e prive di equilibrio: ora si lasciano traviare dai desideri e trascinano la loro « mente » verso il basso, ora vengono bru­ scamente strattonate dal proprio demone nella direzione opposta, dando luogo a una sorta di convulso e ondeggiante saliscendi. Quando l'anima appare sorda e immemore dei moniti della « mente >> , il demone - prose­ guiva la voce - suole infliggere punizioni e sofferenze affinché l'anima pro­ vi «vergogna » per la propria condotta e si disponga in una condizione più mansueta, come un animale che, per essere addomesticato, venga sot­ toposto a un duro addestramento. Da questo punto di vista, dolore e ver­ gogna, turbamenti e afflizioni non sono il prodotto di eventi o azioni esterne né, tanto meno, gli effetti di una sorte cieca. Se il demone è la « mente» stessa dell'uomo, tutta la dinamica si compie all'interno del soggetto, anche quando egli non ne sia affatto consapevole. È la «mente » che tenta, in ogni maniera, di ricondurre l'anima a sé, riattivando quell'es­ senziale e preziosa connessione che lega l'uomo alla realtà superiore. Solo le anime capaci di una perfetta sintonia con il «demone »-« mente » han­ no piena coscienza della loro vera identità e sono in grado di cogliere, con penetrante sensibilità, ogni segno e ogni simbolo che il demone trasmetta loro per guidarle nel corso della vita. Gli uomini «demonici », come So­ crate, sono semplicemente i soggetti che sono riusciti a realizzare, con co­ stanza, questo perfetto accordo che è fonte di luminosa e chiaroveggente ispirazione. Giunto al termine della propria esperienza astrale, Timarco tentò di vol­ tarsi per vedere a chi appartenesse quella voce che lo aveva istruito. Ma pro­ vò un forte dolore al capo e l'intera visione svanì in un attimo. L'anima era stata, di nuovo, compressa dentro il corpo e Timarco, riprendendosi, vide che giaceva all 'ingresso dell'antro di Trofonio, là dove si era steso all'inizio. Dopo aver volato libero tra le stelle, era ritornato alla vita di tutti giorni. Ma adesso sapeva che ogni uomo ha nella «mente » il proprio demone. Adesso sapeva che ogni uomo può diventare un soggetto « demonico»,

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un individuo superiore e ispirato. Basta che davvero voglia armonizzarsi e identificarsi con il nucleo divino del proprio essere. Il rapporto tra soma,psuché e n6us - in relazione alla natura dell 'uomo e al suo destino oltremondano - è ulteriormente ripreso e approfondito da Plutarco nel dialogo Sul volto della luna (943 a ss.). Qui Silla espone l'in­ segnamento di un anonimo « Straniero » proveniente dalle lande remote dell'estremo occidente, da quel continente misterioso, a nord-ovest della Britannia, che si credeva abitato dall'antico popolo di Crono. In quelle terre lo Straniero aveva a lungo servito il dio e si era dedicato allo stu­ dio della natura, acquisendo una superiore e vasta conoscenza dei segreti dell 'universo. Trascorsi trent'anni in tale operosa e devota attività, era sta­ to preso dal desiderio di visitare e conoscere altri paesi. Così era salpato volgendosi a oriente, in direzione del Mediterraneo. Durante il viaggio aveva conosciuto molti popoli e città. Si era fatto iniziare a «tutti i riti misteri ci » che, nel suo cammino, aveva incontrato, e aveva esaminato i « testi sacri » di tradizioni diverse. Era giunto, infine, a Cartagine, dove Silla aveva avuto modo di intrattenersi con lui, facendo tesoro della sua sapienza. Lo Straniero aveva spesso ripetuto che, fra gli dei visibili, una particolare devozione doveva essere tributata alla Luna, perché essa è « si­ gnora della vita e della morte » e ha un ruolo decisivo per quanto concerne il destino delle anime umane. Se Demetra - spiegava lo Straniero - presie­ de alla terra e governa gli esseri che su di essa vivono, sua figlia Persefone è, per contro, la regina del mondo lunare e la sovrana delle anime. Gli uo­ mini - composti, come già si è visto, da tre parti distinte - ricevono dalla terra la materia del loro s6ma, gli elementi costitutivi del « corpo» fisico. Dal regno della Luna ricevono, invece, la sostanza della psuché, mentre la «mente » , il n6us, proviene loro dalla superiore sfera del Sole. In ragio­ ne di tale costituzione, gli uomini non vanno incontro a un'unica morte, come i più ritengono. Il composto umano sarebbe destinato, in realtà, a esperire due diverse morti. La «prima morte » si compie sulla terra a opera di Demetra che stacca, rapidamente e con violenza, l'anima dal corpo. Da qui deriverebbe l'antico uso ateniese di chiamare "demetri" i defunti non­ ché la connessione della dea con la ritualità m isterica. Nel dominio lunare avrebbe luogo, per contro, la cosiddetta « seconda morte ». Lassù - attra­ verso un processo molto più lungo, ma meno violento - Persefone prov­ vederebbe a separare l'anima dalla « mente », isolando e liberando final­ mente la «parte migliore » dell'uomo. Ma non tutte le anime procedono in ugual modo e con gli stessi tempi, lungo tale percorso. Quando si separa

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dal corpo, lapsuché è destinata, dapprima, a soggiornare nell'aria posta tra la terra e la luna per un periodo variabile, a seconda della condotta che ha tenuto durante l'esistenza terrena. In questa stazione intermedia le anime «incontinenti » e «ingiuste» sono chiamate, da subito, a scontare le pro­ prie colpe e a subire un meritato castigo. Per le anime « buone » si tratta invece, più semplicemente, di compiere un processo di catarsi che elimini le tracce residue della corporeità. A tal fine vengono inviate nella zona più mite e serena dell 'aria, nel cosiddetto «prato di Ade ». Là esse tornano, per così dire, a «respirare » e si purificano da ogni «vapore » e da ogni malsana esalazione derivante dalla materia. Hanno come la sensazione di tornare in patria dopo un lungo esilio e sono pervase da un sentimento in cui si mescolano gioia, stordimento e speranza: una disposizione assai simile - commentava lo Straniero - a quella di coloro che vengono «ini­ ziati » ai Misteri. Ciò non significa, tuttavia, che siano ancora sicure di aver raggiunto, in modo stabile, l'agognata meta della luna. Molte, già sul punto di toccare il regno di Persefone, vengono infatti respinte indietro come dal riflusso di un'onda, che le fa ricadere nella voragine del mondo inferiore. Solo le anime più virtuose riescono a rimanere sulla luna, rice­ vendo, come atleti vittoriosi, il giusto premio per il loro valore e per la loro ferma determinazione. Appaiono simili a « raggi di luce » : luminose e insieme trasparenti come l'etere. La definitiva mutazione avviene, tuttavia, quando riescono a raggiungere la «pianura elisia », il versante della luna opposto alla terra e rivolto alle altezze del cielo. L'agente che produce la separazione ultima è infatti l' « amore del sole », il «desiderio» del Bene assoluto che l' immagine solare simbolicamente rappresenta. Per effetto di questo amore incandescente, di questa irresistibile forza attrattiva, la « se­ conda morte » trova il suo compimento. La « mente» allora si distacca e può ascendere finalmente verso un piano superiore dell'essere, avendo conquistato la libertà e la pienezza di una condizione immutabile ed eter­ na. L'anima, rimasta da sola sulla luna, può conservare ancora per un certo tempo la traccia della vita trascorsa, l'immagine del composto umano cui apparteneva, ma è destinata a dissolversi e a svanire, proprio come fanno i cadaveri sulla terra. «La nostra vera identità - diceva Silla ripetendo le parole dello Straniero - non è la collera, la paura o il desiderio, così come non è la carne e i fluidi corporei ». L' identità di ognuno non consiste nelle mutevoli emozioni della vita psichica né tanto meno nella vita del corpo. Non coincide con i tratti e con il percorso contingente della singola esi­ stenza terrena, ma con ciò che perdura al di là di essa. L' identità riposa e si

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conserva nel nucleo solare della « mente » che ha attraversato con successo le due morti. Il discorso dello Straniero riferito da Silla può essere recepito come una visione escatologica, come un mito sull'aldilà. Ma il ripetuto richiamo ai Misteri ne segnala il valore iniziatico, con l' implicito riferi­ mento a quelle pratiche rituali che si appuntano e favoriscono la doppia dinamica della separazione. Sentire ed esperire, dentro di sé, la terra, la luna, il sole di cui ognuno è, a suo modo, costituito. Provare ad agire su ciascuno di questi piani, esplorarlo fino in fondo, con tutto ciò che esso implica. Per poi staccare un piano dall'altro, facendo coincidere la pro­ pria essenza unicamente con la componente luminosa del sole. L' intero processo - annotava Silla - può essere assai « rapido» per i « saggi » che hanno improntato la loro vita all'amore della sapienza.

I prigionieri della città

Tra il ricordo delle grotte cretesi frequentate in età arcaica da Epimenide e Pitagora e le considerazioni di Plutarco e di Porfirio, che in età imperiale ragionano di antri e di viaggi astrali, vi sono le pagine celeberrime della Repubblica di Platone, passaggio intermedio e imprescindibile di questa catena sapienziale che fa centro sull 'esperienza della caverna. Nella Repub­ blica tutto inizia con un atto di catabasi: « Discesi (katében) ieri al Pireo per pregare la dea e per vedere come avrebbero celebrato la festa ... » . Sono, queste, le prime parole con cui Socrate dà avvio al dialogo, ricordando le circostanze e l'ambientazione cui esso si lega. Lasciandosi alle spalle il centro di Atene, la parte alta della città con i suoi edifici istituzionali e i templi dell'Acropoli, Socrate scende in direzione del Pireo, il quartiere del porto, luogo di commerci, di arrivi e di partenze, ove cittadini e stranie­ ri si mescolano e si incontrano, stringendo affari e scambiando discorsi. Si tratta di una sorta di "margine" simbolico, verso cui Socrate si spinge : quel margine che, da sempre, fa parte della traiettoria iniziatica in quanto rappresenta l'uscita dai perimetri ordinari dell'esistenza, quell 'altrove che disloca il soggetto, portandolo a un mutamento di prospettiva. In questo senso, la calata al Pireo è come una discesa agli inferi, un viaggio nella not­ te e nella morte. Socrate si è recato laggiù per pregare una dea. Come si evincerà poco dopo, i riti che si celebrano sono dedicati a Bendis, divinità proveniente dalla barbara Tracia. Un culto straniero, dunque, che, con la sua processione notturna, si contrappone implicitamente alla solenne fe-

LA VIA DEGLI DEI sta delle Panatenee in onore di Atena, la protettrice della polis. Nel "mar­ gine" del porto, tra terra e mare, Socrate va ad assistere a una ritualità altra e diversa rispetto alle cerimonie che fondano l' identità politica e religiosa di Atene. Ma l' immagine di Socrate che, compiendo una catabasi, va alla ricerca di un'altra «dea » evoca, allo stesso tempo, lo scenario del viaggio di Parmenide che era andato ai confini del giorno e della notte per farsi iniziare da una misteriosa quanto innominata divinità femminile. La di­ scesa al Pireo, per altri versi, rappresenta un'immersione nel ventre oscuro e torbido della città: l'attraversamento di uno spazio dominato dalla tur­ bolenza degli interessi materiali, dalla sete di ricchezza e dagli appetiti più elementari. È un passaggio per così dire necessario: non si può raggiungere la luce della conoscenza se prima non ci si è misurati, fino in fondo, con l'ombra temibile e inquieta delle passioni e dei desideri che abitano l'uo­ mo, con le preoccupazioni e le emozioni che attraversano le menti non risvegliate dalla verità. Laggiù Socrate è intercettato da un amico che lo invita a trattenersi, in­ sieme ad altri, nella casa del ricco Cefalo, un siracusano emigrato ad Atene dove aveva fatto fortuna con la sua fabbrica di scudi. La veglia notturna del­ la festa si trasforma così in una veglia di discorsi che muove dall'orizzonte delle opinioni più comuni e diffuse - da quel "fondo" ove risuona tutto ciò che generalmente si crede e si pensa - per salire progressivamente verso una conoscenza ispirata dallo splendore solare del Bene assoluto. La con­ versazione parte dall'interrogativo posto a Cefalo su come deve intendersi la giustizia. Di qui si snoda un lungo percorso che tocca il tema dell'educa­ zione dei giovani, i valori necessari alla vita associata, le forme del sapere, per giungere al progetto di una nuova e «bella» città, che superi i traumi e le contraddizioni dell'Atene storica nella prospettiva di una completa palingenesi del politico. Alla catabasi infera del Pireo fa da contrappunto e suggello, nel finale, l'evocazione dell 'aldilà con la dinamica che presiede al ciclo delle incarnazioni e alla vita immortale dell'anima. Ed è proprio nel cuore di questo complesso tragitto che Socrate propone ai suoi amici, con un effetto a sorpresa, l'immagine archetipica della caverna. La conversazione si era da poco soffermata sui modi e sulle forme della conoscenza dell'uomo. Per praticare il Bene e rifondare la polis è neces­ sario, infatti, chiedersi anzitutto che cosa esso sia e in quale maniera, per gradi e con metodo, si possa pervenire alla verità (Platone, Repubblica, 509 a ss.). Secondo Socrate, la conoscenza si articola in due livelli: da un lato, la doxa, l' «opinione », che appartiene al dominio del sensibile e della

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percezione; dall'altro, l' epistéme, il « sapere » fondato sulle «idee » imma­ teriali, sui principi intelligibili ed eterni della realtà. IJoxa ed epistéme pos­ sono essere, a loro volta, suddivise rispettivamente in due ulteriori grada­ zioni. Il percorso conoscitivo si dispiega in tal modo in una sequenza che può essere paragonata a una linea suddivisa in quattro segmenti: l' eikasia e la pistis, concernenti l'ambito della doxa, cui fanno seguito la didnoia e la noesis, appartenenti al regime dell ' epistéme. n primo segmento, l' eikasia, corrisponde alle « immagini», alle eikones, prodotte o derivanti dalle cose sensibili, come le «ombre » o i « riflessi » che si vedono in uno specchio o su una superficie levigata. n secondo segmento, la pistis, riguarda le cose sensibili stesse da cui siamo circondati e che i cinque sensi percepiscono. n terzo grado, la didnoia, consiste nella « ragione discorsiva » che, sot­ toponendo a esame le cose sensibili, cerca di formulare su di esse ipotesi seguendo un metodo geometrico-matematico. n quarto e ultimo livello, la noesis, conduce all' « intuizione » pura delle «idee » e del Bene, il prin­ cipio primo, il fondamento assoluto e trascendente, che, come il sole, il­ lumina e vivifica l'intera realtà. Ed è a questo punto della discussione che Socrate mette in relazione le forme della conoscenza con la condizione che contrassegna la vita della maggior parte degli uomini e con ciò che essi intendono (o fraintendono) quando parlano di «educazione » (514 a ss.). «Pensa - dice Socrate - a una specie di dimora sotterranea, a una caverna, e dentro di essa immagina degli uomini che vi abitano, sin da bambini, incatenati alle gambe e al collo, così da dover restare immobili e guardare solo in avanti, dato che non possono ruotare il collo a causa della catena ». Alle loro spalle, alta e lontana, splende la luce di un fuoco. Tra questa fiam­ ma e gli uomini bloccati dalle catene corre un sentiero, lungo il quale è stato costruito un muretto, un po' come quei «paraventi » dietro i quali i burattinai si nascondono al pubblico, facendo muovere al di sopra di esso i loro pupazzi. In modo analogo, ignoti operatori, rimanendo celati, fanno scorrere sopra il margine di questo muretto «oggetti di ogni genere, sta­ tue di uomini, figure di esseri viventi, in legno o in pietra, plasmate nelle forme più disparate ». Alcuni degli operatori rimangono in silenzio, altri parlano, facendo risuonare la loro voce nella grotta. « Ben strana (dtopos) è l'immagine che stai descrivendo e strani (dtopoi) sono questi prigionieri» commenta, stupito, l' interlocutore di Socrate. La rappresentazione che si va componendo appare dtopos, « singolare », « inusitata» , se non « as­ surda» a chi non abbia familiarità con la sapienza iniziatica e non abbia mai riflettuto, a partire da essa, sulla natura dell 'universo. Quella dimora

LA VIA DEGLI DEI sotterranea e quegli uomini immobilizzati sembrano non aver topos, non aver «luogo» o rispondenza alcuna con la realtà altrimenti nota. Gli ami­ ci che si intrattengono con Socrate, cittadini o residenti della democratica Atene, membri, in alcuni casi, delle famiglie più abbienti e altolocate non comprendono, di primo acchito, quell'immagine. Ricchi e influenti, essi pensano a sé stessi come soggetti del tutto liberi di agire, consapevoli della loro condizione, dotati di un' «educazione » che li renderebbe capaci, a ogni momento, di giudicare e operare in modo adeguato. Che cosa avreb­ be a che fare quella strana caverna con la loro condizione e con la splendida Atene, celebrata per il suo rigoglio intellettuale e artistico, p er il valore e l'intraprendenza dei suoi figli ? Che cosa avrebbe a che fare, più in genera­ le, questo paragone con gli uomini, sempre convinti di essere padroni di sé stessi e privi di dubbi sulla consistenza e sulla verità del mondo in cui sono immersi ? Ma è proprio questo su cui Socrate vuole invitare a riflet­ tere, elaborando i contorni di un' immagine sconcertante. Non vi è nulla di «insolito» negli abitanti della grotta: quella - afferma con chiarezza il Socrate platonico - è la «nostra natura ». È lo stato iniziale in cui ci tro­ viamo da sempre, a dispetto dell'educazione ricevuta in seno alla famiglia e alla città, a dispetto delle convinzioni più radicare. Non resta, dunque, che esaminare quali siano le implicazioni e gli effet­ ti di questa condizione "naturale". Costretti a volgere lo sguardo in un'u­ nica direzione, i prigionieri sono in grado di vedere solo le ombre che si proiettano sulla parete della caverna di fronte a loro. Non hanno modo di volgersi indietro e di accorgersi degli oggetti che, muovendosi alle loro spalle, producono quelle ombre. Il livello dell' eikasia, dell' « immagine », è l'unica forma di conoscenza cui possono accedere. Perciò non hanno al­ cun dubbio che le ombre siano realtà: quello è il mondo, quello è lo spazio e il tempo della vita. Non hanno alcun sospetto che possa esistere qualcosa d'altro. Non sono attraversati dal pensiero che vi siano altre dimensioni al di là di quanto percepiscono. Le ombre sono verità ultima e definitiva. L'unico sapere che essi possono sviluppare riguarda la sequenza e i con­ torni delle figure che sfilano sulla parete. Taluni prigionieri, più pronti e abili di altri, riescono a distinguere e riconoscere, con maggiore acutezza, i profili delle ombre. Si accorgono che alcune tendono a manifestarsi prima o dopo altre o ancora tutte insieme. Intravedendo una sorta di regolari­ tà nello spettacolo, si sforzano di ricordare con precisione l'ordine delle apparizioni e, in tal modo, sviluppano una sorta di abilità nell' «indovi­ nare» quello che, via via, sarebbe dovuto apparire. In ragione di ciò, essi

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sono tenuti in grande considerazione dagli altri prigionieri: ricevono ono­ ri, premi ed elogi, conquistando un ruolo di spicco fra gli abitanti della grotta, poiché - rispetto alla condizione e alla misura condivisa - sem­ brano davvero depositari di una straordinaria sapienza. Le loro parole e le loro opinioni godono di grande prestigio e autorevolezza. Ma né gli uni né gli altri immaginano quanto modesta e illusoria sia quella reputazione di sapienza, quanto limitato e pregiudizievole sia quel sapere. La pastura pro­ dotta dalle catene ha, tuttavia, anche un'altra e forse più grave conseguen­ za. Non potendo muoversi in alcun modo né piegare la testa, i prigionieri non sono in grado nemmeno di osservare sé stessi e i propri compagni di prigionia. Scorgono unicamente la propria ombra e quelle altrui. In altre parole, non si conoscono e non si vedono per ciò che effettivamente sono. Se Narciso non riconosceva la propria immagine riflessa nell 'acqua e pen­ sava che si trattasse di un'altra persona, i prigionieri, all'inverso, pensano che il proprio essere consista precisamente nell' immagine che i loro corpi proiettano. Credono che il loro sé consista nell'ombra. Non sono affatto coscienti della propria reale identità. Ma cosa accadrebbe se vi fosse un modo per mutare questa miserevole condizione e questa, peraltro inconsapevole, ignoranza ? «Poni - dice So­ crate - che capitasse un caso come questo: che un prigioniero fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo e a cammi­ nare » (515 c). Un caso, qualcosa che capita: nulla si dice del modo in cui possa prodursi questo scioglimento dai vincoli. Vi è forse qualcuno che gli toglie di dosso le catene ? Vi è una forza esterna e propizia che interviene sul prescelto per l'esperimento ? Socrate non si sofferma sulla questione. Resta il fatto che il prigioniero non può fare da solo il primo passo: non è in grado, da principio, di agire da sé e di propria esclusiva iniziativa gra­ zie a una liberazione che nemmeno immagina o desidera. Come le forme verbali segnalano, egli è, in questo passaggio decisivo, un soggetto del tut­ to passivo: « viene sciolto », « Viene fatto alzare ». Qualcuno o qualcosa viene in suo aiuto e, « all'improvviso », con un brusco scarto, opera su di lui. È come un salto a un altro piano, una rottura drastica dopo la quale niente è uguale a prima. Così ha inizio un percorso che è, a tutti gli effet­ ti, un' iniziazione. E, nelle sue prime fasi, l' iniziazione è, anzitutto, iasis, una «cura», un procedimento di « guarigione» da una malattia di cui il paziente, fino a un istante prima, non sospettava nemmeno di soffrire. «Alzarsi» , « girarsi », «camminare » : il prigioniero è sollecitato a uscire dalla stasi, a superare il blocco, fisico e psichico, dello stato precedente.

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Deve entrare nella dinamica di un moro progressivo che apre direzioni e prospettive impensate. Il moro è libertà e possibilità di coscienza, ma, in questa particolare situazione, la libertà ha un sapore e una natura ben diversi da quanto co­ munemente si intende. Non si tratta della libertà di cui si fregia la città democratica dove - come diceva Pericle - ognuno può comportarsi, nella sua vita privata, «come gli aggrada» e scegliere « secondo il suo piacere » (Tucidide, Guerra del Peloponneso, 2,37). La libertà dischiusa dall'inizia­ zione è tutt 'altro che un'esperienza di piacere o una scelta arbitraria tra op­ zioni dilettevoli e immediatamente appaganti. Lo sciogliersi delle catene è uno sconvolgimento assoluto. Chi muove i primi passi non-sa dove si trova e cosa vede. È del tutto stordito e spaesato: non è in grado di compren­ dere e di dare un nome a ciò che gli sta accadendo. Nulla gli è familiare e per questo versa in uno stato di completa aporia, di « imbarazzo» e di «incertezza » : è sprovvisto di poroi, « mezzi » o «vie » per orientarsi. Vol­ gendosi, guarda il fuoco e gli oggetti che stanno alle sue spalle. Ma quella visione gli procura una sofferenza e uno sgomento ancora più forte: abba­ gliato dall'intensità della luce, non riesce a scorgere né a distinguere quelle cose di cui prima vedeva le ombre. Se poi indirizzasse lo sguardo proprio verso lo splendore della fiamma, il dolore sarebbe ancora più lancinante e proverebbe l' irresistibile impulso di fuggire. Vorrebbe tornare indietro, alla penombra e allo spettacolo delle immagini di cui godeva quand'era in catene. Le vane apparenze che sfilano sulla parete della caverna gli sembra­ no cose ben più vere, reali e affidabili di quanto gli è stato mostrato. Era abituato alle ombre e nulla risulta più difficile e penoso che staccarsi dalle abitudini inveterate e dai pregiudizi che esse generano. Lui stesso, d'altro canto, era abituato a pensarsi come un'ombra. E adesso che cosa può dire di essere ? Meglio stare in catene: è assai più rassicurante e confortevole. Se dipendesse da lui, il percorso iniziarico sarebbe già finito prima ancora di cominciare: un indesiderabile equivoco. Per continuare su quella strada bisogna, di nuovo, che qualcuno intervenga a « costringerlo », forzando ciò che egli ritiene essere il suo libero volere e la propria autonoma scelta. Ma che significato può avere l'autodeterminazione per chi ignora la pro­ pria identità? Il libero volere per chi sta nella caverna è un' illusione, se non un atroce equivoco: si è solo paghi dell 'incoscienza della propria schiavitù. Altrettanto ovvia e prevedibile è la ribellione verso chi tenti di spingerlo a proseguire il percorso. È un momento che sempre si ripete nello svolgersi della via iniziatica. Il prigioniero non può che provare collera e risentimen-

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to contro la guida che, con implacabile insistenza, lo incalza, rinnovando o addirittura aggravando il dolore dell'esperienza: « Se qualcuno lo trasci­ nasse a forza da lì su per la salita aspra e scabra, e non lo lasciasse prima di averlo condotto fuori, alla luce del sole, non credi - chiede Socrate - che soffrirebbe e sarebbe pieno di rabbia ? » (Platone, Repubblica, 516 b). Nel discorso platonico, l'insistenza sul « costringere » e il « forzare» può in­ quietare o risultare sconcertante. Ma l' iniziazione - come si è visto sin dal principio - è l'intensità di un pathos: qualcosa che si patisce fin nel più profondo del cuore e delle viscere. Pdthei mdthos, «la conoscenza attra­ verso la sofferenza » aveva detto anche Eschilo, facendo eco alla sapienza misterica (Agamennone, 177). Per produrre un'élite di illuminati non vi è altro modo. La democrazia riguarda solo lo spazio e il tempo della città. Il richiamo alla salita aspra e difficile esplicita, se ve ne fosse ancora bisogno, che quanto il prigioniero e la sua guida stanno compiendo è un' dnodos, un' « ascesa », una « risalita », secondo il modello della rituali­ tà misterica, quando Persefone, la « fanciulla indicibile », lasciando la te­ nebra degli inferi, tornava a rivedere la luce. Morte è ciò che, nella caverna, si considera vita. Dominio infero di spettri e simulacri è il cosmo civico, l'universo politico, ove il gioco delle ombre viene scambiato per sapienza. Giunto all'esterno dell'antro, colui che è sulla via della liberazione rima­ ne, un'altra volta, abbacinato. Se poco alla volta si era abituato al fuoco che ardeva nella grotta, il bagliore del sole gli reca nuovo dolore e nuovo spaesamento. Percorrendo la salita ha ormai lasciato alle sue spalle la sfera della doxa, dell' « opinione», e, raggiungendo la superficie, è pervenuto al regno dell' alétheia, della «verità ». Ma ogni transito da un livello all'al­ tro, ogni passaggio da un piano all'altro dell'essere, richiede un paziente adeguamento di facoltà e una trasformazione del soggetto stesso affinché si possa agire adeguatamente nella sfera cui si è pervenuti. Non si dà cono­ scenza di oggetti diversi se, contemporaneamente, non avviene un muta­ mento nella natura di chi vuole conoscere. L'inizi azione, infatti, è sempre anche un progressivo cambiamento della fisiologia di chi si pone su tale strada. Il liberato deve perciò affrontare ulteriori esercizi per « abituarsi », gradualmente, al fulgore più intenso della realtà in cui è immerso. Dappri­ ma non sarà in grado di fissare direttamente lo sguardo sugli enti e sugli esseri che abitano il mondo superiore. Cercherà, dunque, di osservarne inizialmente i riflessi, le immagini e le ombre che essi proiettano. Ombre e riflessi diversi, tuttavia, da quelli presenti nella caverna. Immagini, ma di rango superiore, poiché non derivano da oggetti sensibili, ma da modelli

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trascendenti e divini. Nella scansio ne platonica è l'ambito connesso alla didnoia, all 'astrazione geometrico-matematica e alle immagini, appunto, che essa elabora cogliendo, in forma mediata, elementi strutturali della na­ tura terrena e celeste. Divenuto esperto nell'uso di tali immagini, passerà quindi alla visione degli oggetti stessi, delle «cose che sono », seguendo, per un'ultima volta, un criterio di gradualità. Dapprima si applicherà a una contemplazione, per così dire, notturna, abituando i suoi occhi a un' in­ tensità luminosa che può essere simbolicamente comparata al mite fulgore della luna e delle stelle. Quando si sarà perfettamente adeguato a questa visione astrale, potrà infine giungere al compimento della sua iniziazio­ ne: «Da ultimo, contemplerà il Sole, non la sua immagil).e, ma così come esso è nella sua realtà e nella sede che gli è propria » (Platone, Repubblica, 516 b). È, questa, la noesis, l'intuizione suprema dell ' Uno, la conoscenza del Bene assoluto da cui dipende ed è generata ogni altra realtà, tanto del mondo superiore quanto della caverna. Ma, per tutto ciò che si è detto, l' intuizione dell ' Uno implica che il soggetto abbia trasformato sé stesso fino a portarsi a quel vertice. Vedere il Sole significa, al contempo, aver acquisito una natura solare che plasma e modifica il proprio stesso essere. Irradiato dalla luce del Bene, chi ha compiuto per intero l' « ascesa al luogo della mente » , al « mondo intelligibile» , gode di una felicità piena e incomparabile: nessun altro piacere, nessun'altra gioia esperita nella grot­ ta potrebbe reggere il confronto con la condizione in cui egli ora si trova. Circondato da uno « spettacolo divino » , è felice come mai era stato pri­ ma, come mai avrebbe potuto figurarsi quando era stretto dalle catene. La tradizione racconta che alcuni eroi del mito, in ragione del loro straordi­ nario valore e delle loro eccezionali imprese, ebbero il privilegio di « uscire dall'Ade», dove i defunti sono comunemente relegati: gli dei li avrebbero premiati, concedendo loro di abitare nelle « isole dei Beati » , avvolti dal fulgore di una luce perpetua e nel rigoglio di un'eterna primavera. L' im­ magine del mito, le isole dei Beati - cui Socrate fa riferimento - non sa­ rebbero che un altro modo per designare la metabolé, il « mutamento» radicale, che l' dnodos, l'ascesa dalla caverna, consente a chi abbia l'ardire e la forza di percorrere la scabra salita verso la luce. La metabolé assicurata dalla risalita è una conoscenza che produce, come immediato effetto, la re­ alizzazione e l' integrazione di sé. Il che significa diventare interi e perfetti, liberi di essere, nel senso più alto e autentico che l'essere stesso assume quando si siano contemplate le «cose che davvero sono » . S e il liberato, stando «lassÙ » , s i ricordasse di quanto avveniva nel-

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la caverna sotterranea, non potrebbe che provare «compassione» per i suoi vecchi compagni di prigionia e per la cecità da cui sono affetti. E non avrebbe certo alcun rimpianto per quello che ha abbandonato: «Si troverebbe - aggiunge Socrate - nella condizione descritta da Omero e preferirebbe "essere servo di un uomo povero" e patire qualsiasi sofferen­ za [ ... ] piuttosto che vivere in quel modo» (516 d). La citazione omerica proviene dall'episodio dell' Odissea ( 11,48 8-491), in cui l'anima di Achille, pur godendo di un rango privilegiato tra i morti dell'Ade, confessa che sa­ rebbe disposta anche a essere un servo pur di ritornare alla vita sulla terra. n defunto Achille preferirebbe essere l'ultimo degli uomini piuttosto che regnare nell'oltretomba. Ma, nella prospettiva iniziatica del discorso for­ mulato da Socrate, il passo di O mero va ovviamente letto a rovescio, inver­ tendo la posizione delle polarità rispetto ai valori e alle credenze correnti. n vero Ade - in cui il liberato, al pari di Achille, non vuole più stare - non è un regno dell'aldilà, non è un invisibile altrove ove si raccolgono gli spet­ tri dei morti. L'Ade è lo spazio stesso della caverna, è lo squallore infero della città, dove i prigionieri conducono la loro esistenza, senza sapere che quella che chiamano vita è uno stato uguale alla morte, senza sapere che tutto ciò per cui disputano e contendono aspramente, tutte le distinzioni e gli onori cui ambiscono non hanno alcuna consistenza di verità. Larve, spettri, « teste senza forza » - come direbbe ancora Omero - sono, in re­ altà, i cosiddetti vivi. A partire da questa prospettiva muta anche il valore della sofferenza patita durante l'ascesa: quel dolore è stato prezioso e indi­ spensabile per la trasformazione che ha generato. Valeva la pena di soppor­ tarlo e, al compimento della via, esso non appare forse nemmeno più così grave e penoso. Sofferenza vera e straziante sarebbe, a questo punto, vivere la vita precedente, la vita accecata dell'antro, perché si tratterebbe di pura insensatezza e di intollerabile limitazione. Anche se il liberato non ha alcuna ragione né alcun desiderio di lasciare la sua perfetta felicità, Socrate vuole, tuttavia, immaginare cosa accadrebbe se egli discendesse, nuovamente, nella caverna. Come sarebbe accolto dai prigionieri un soggetto che ha raggiunto la conoscenza? Come si configu­ rerebbe l' incontro tra due dimensioni così distanti e contrarie ? Abituato ormai alla luce piena dell'essere, il liberato avrebbe inizialmente grandi difficoltà a muoversi nella penombra della caverna. I suoi occhi solari, mi­ surandosi con l'oscurità e con il flebile fuoco che arde laggiù, non riusci­ rebbero a discernere alcunché e tutte le ombre gli parrebbero ugualmente indistinguibili. Dovrebbe procedere, letteralmente, a tentoni, brancolan-

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do nel buio, come farebbe un cieco, anche se la sua cecità - come Socrate sottolinea, continuando a giocare con le inversioni polari - avrebbe una causa ben diversa da quell'incapacità di vedere che contraddistingue gli inconsapevoli prigionieri. Chi vede davvero è un cieco tra chi non sa quel che significa vedere. E chi crede di vedere è orbo per chi ha visto la luce. Il confronto tra le due esperienze non può che sortire un atroce equivoco. Le due dimensioni paiono, di primo acchito, intransitive e impermeabili l'una all'altra. Dinanzi ai passi incerti e ai movimenti goffi del liberato - la cui vista non è ancora capace di orientarsi a quella fioca fiamma - gli altri prigionieri non farebbero che sbellicarsi dal ridere. Lo considerereb­ bero un inetto, uno sciocco, traendone l'unica conclusione a loro possi­ bile: uscire dalla caverna rovina irrimediabilmente la vista e procura una grave invalidità. Solo un folle o uno stupido potrebbe essere tentato da un'impresa così nociva. Perciò, se il liberato cercasse, a propria volta, di convincere qualcuno a compiere l'ascesa, se provasse a sciogli erli dalle ca­ tene e trascinarli per la salita, i prigionieri non mancherebbero di reagire e di difendersi con tutta l'asprezza e la determinazione che si usa nei con­ fronti di un criminale che attenti alla vita e alla sicurezza altrui. Il liberato verrebbe considerato un individuo pericoloso e, « se mai lo avessero tra le mani », i prigionieri non si tratterrebbero certo dall'ucciderlo. Questi, a propria volta, non saprebbe difendersi né, se fosse tratto in un tribunale, riuscirebbe a dar conto delle proprie buone intenzioni in un luogo ave la giustizia è solo un'ombra e una pallida parvenza. La liberazione non è dicibile né comunicabile a priori nei suoi conte­ nuti. Non può essere compresa per ciò che rappresenta e produce, se non nell 'atto stesso in cui la si compie e se ne esperiscono, in prima persona, gli effetti. Perciò, a chi la guardi dall'esterno, essa risulta indefettibilmente un'assurdità o una temibile devianza. Se il liberato compatisce i prigionieri che agiscono in uno stato di totale ignoranza e non riesce a farsi accettare da essi, i prigionieri, di contro, deridono e aggrediscono quell'individuo che mina le loro abitudini e l'ordine della loro esistenza. Pietà e paurosa violenza, riso e beffarda aggressione. Se ci si pensa, questi sono i tratti che, a due a due, definiscono la tragedia e la commedia. Generi distinti nella struttura e negli effetti, ma accomunati da una dinamica che inscena ripe­ tutamente lo scontro - ora risi bile ora spaventoso - tra verità e ignoranza, tra saggezza e follia, tra illusione del desiderio e luce della realtà. La caver­ na con il gioco di ombre, con il suo conflitto tra liberato e i prigionieri, è un teatro terribile quanto ignaro di sé: un teatro tragico e comico insieme,

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in cui il prevalere dell uno o dell altro tono è talora pura casualità. n teatro delle ombre è consustanziale all'antropologia della caverna e della città. n teatro propriamente inteso, con la sua cavea e il suo palcoscenico, così come il teatro metaforico che si dispiega, inconsapevolmente, nell'esisten­ za di tutti i giorni. I prigionieri vivono di teatro e nel teatro. E in esso tra­ scinano, suo malgrado, chi abbia la ventura di tornare laggiù, a costo della sua stessa vita. Solo fuori dalla caverna, tragedia e commedia si dissolvono come neve al sole. Dopo questo intenso attraversamento dell'antro simbolico, Socrate torna a ragionare di paidéia, di « educazione ». Date tali premesse, che cosa vuoi dire formare, educare un'élite che possa rendere meno folle e pe­ nosa la vita nella caverna? Ed è mai possibile ottenere un simile risultato ? Educazione - obietta Socrate - non significa trasmettere, con procedura meccanica, discorsi e nozioni agli eventuali destinatari dell'insegnamento. Così operano i sedicenti filosofi che si vantano di offrire ogni genere di sapere in chi sia disposto ad ascoltare le loro lezioni. Come se la conoscen­ za - la vera conoscenza - fosse semplicemente un oggetto inerte che si può trasferire da un luogo all'altro, un mero contenuto che si può porre o riversare in un recipiente vuoto fino a che sia colmo. Questi supposti mae­ stri, questi intellettuali di successo affermano di poter instillare la scien­ za nell'anima che ne sia sprovvista, « quasi che si trattasse di infondere la vista in occhi che non vedono ». Ma ben altro è il processo che l' imma­ gine della caverna suggerisce. Liberare gli uomini dall'ignoranza e dalla prigionia dell'incoscienza significa ridestare in loro facoltà sopite, poteri già insiti nell'anima, ma del tutto inutilizzati. Educare nel senso più alto e più nobile consiste nel risvegliare una vista interiore, un occhio spirituale, capace di andare al di là delle umbratili apparenze e delle illusioni dell'an­ tro. Non è questione di contenuti, ma di una pratica, di un'operazione progressiva che attivi questa «potenza» psichi ca e l' «organo» a essa ine­ rente in modo che possano finalmente percepire e cogliere dimensioni ul­ teriori della realtà. Come gli occhi fisici non possono passare dal buio alla luce, non possono scorgere un oggetto particolare, se anche l'intero corpo non si gira nella giusta direzione, allo stesso modo il risveglio dell'occhio interiore richiede un totale rivolgimento della psuché. Occorre peridgein, « far ruotare », « far girare » completamente l'anima su sé stessa, affinché si distolga dallo stordente e confusivo spettacolo del divenire e si volga in direzione di « ciò che è » , abituandosi a reggere l' intensa luminosità di quella superiore visione. È una vera e propria « arte » , una « tecnica » J

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della periagogé, della «conversione » che muta la prospettiva dell'anima e la ri-orienta, consentendole di vedere quanto, metaforicamente, era sem­ pre stato alle sue spalle. Il destarsi di quest'occhio della mente - insiste Socrate - non si compie se il movimento è parziale, se il rivolgimento non è portato fino in fondo. Per ottenere un risultato effettivo, il soggetto deve lavorare radical­ mente su sé stesso, su tutte le sue abitudini e sul suo intero stile di vita: deve, attraverso un'opportuna dskesis, attraverso opportuni «esercizi », acquisire una diversa conformazione atta ad alimentare e a sostenere la nascita di nuove facoltà. E l' impegno è tanto maggiore se - come avviene di norma - la vita che ha condotto sin dall'infanzia, la cosiddetta edu­ cazione che ha ricevuto, prima in famiglia e poi nella polis, sono state di segno totalmente opposto a questo fine. Abitando sin dalla nascita nella caverna-città, l'anima è gravata dai «pesi di piombo del divenire », dalla zavorra di un'esistenza che la storce e la costringe a guardare sempre verso il «basso », dal turbine di sensazioni, passioni e consuetudini che la porta­ no a ignorare sé stessa. Nell'antro delle ombre, con il passare del tempo, la sua natura viene sconciata e, per così, dire « franta» e « mutilata », come un corpo cui vengano tagliate le membra o cui venga impedito lo sviluppo cui è destinato. Alla fine, la psuché appare pressoché irriconoscibile tanto è stata alterata dai « mali» di questo genere di esistenza. Così irricono­ scibile da suscitare uno sconcerto analogo a quello di chi si imbatte nel mitico Glauco, uomo trasformatosi in una creatura marina: «impossibile discernere la sua forma primitiva perché le membra originarie del suo cor­ po sono in parte spezzate, in parte corrose e sfigurate dalle onde, e sopra di lui si sono formate incrostazioni, conchiglie, alghe e pietre, così da farlo assomigliare più a una belva che a quanto era in precedenza » (Platone, Repubblica, 6u c-d). Nel mare, come nell'antro, l'anima fin isce per essere un « mostro » che fa paura e non sa più nulla di sé stessa. Portare la psuché fuori dai flutti della materia, ripulirla di tutte quelle concrezioni ruvide e spesse che le sono proliferate attorno, sostituire alla « terra » di cui si è sempre cibata un nutrimento più sottile e congenere all 'immortalità di­ vina: sono, queste, altrettante immagini simboliche per suggerire quella medesima operazione di scioglimento e di liberazione che Socrate indica come «educazione » . Ma, per le modalità e il criterio che la caratterizza­ no, questa paidéia, questo processo educativo è, nella sua cifra sostanziale, un modello iniziatico, come l'atto dell'ascesa alla luce aveva sin dall' inizio segnalato. Socrate, certo, raccomanda a chi voglia scuotersi dalle catene e

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aprire l'occhio interiore di applicarsi alle arti e alle scienze: dalla matema­ tica alla geometria, dall'astronomia all'armonia musicale, fino al culmine rappresentato dalla dialettica. Ma la frequentazione di tali discipline non mira ali ' acquisizione di dottrine o ali'elaborazione di teorie fini a sé stesse. Al di là del sapere di cui, in corso d'opera, ci si può impadronire, lo scopo ultimo della meléte, dello « studio» e dell' « allenamento» in questi ambi­ ti è essenzialmente la purificazione. Lo studio conta per l'effetto catartico che produce sull'anima: per la dissoluzione della « terra» che la incrosta, per lo scuotimento dei pesi che la immobilizzano, per la rotazione che le imprime in direzione della vera luce. Il fine perseguito attraverso la fatica e le ripetute prove di questo addestramento, che la pratica dialettica corona e suggella, non è il mero sapere razionale, ma l' «elevazione » che conduce al contatto intuitivo con il Bene e alla metamorfosi del sé: «Tutta questa pratica delle arti che abbiamo considerato ha appunto la funzione di eleva­ re la parte migliore dell'anima alla visione della parte migliore dell'essere, allo stesso modo in cui la parte più acuta dei sensi corporei si elevava, in precedenza, a cogliere l'oggetto più luminoso del mondo materiale e sen­ sibile [ ... ] si tratta di trascinare e sollevare verso l'alto l'occhio dell'anima immerso in un fango barbarico, servendosi delle arti come un aiuto per la conversione>> (532· c-533 d). Ma, tornando alla questione posta in precedenza, chi è riuscito a ele­ varsi e ha conseguito l' illuminazione, sarà disposto a tornare nell'antro, a reimmergersi nelle tempesta del mare, a esporsi alla tragicommedia peno­ sa della polis? Per fare questo dovrebbe rinunciare alla propria felicità ed esporsi, con totale vulnerabilità, all'opposizione degli abitanti della caver­ na. Dopo aver raggiunto la migliore e più nobile forma di vita - la sola vita degna di essere davvero vissuta - dovrebbe piegarsi a una condizione inferiore e «vivere peggio» . Da un punto di vista strettamente personale, il ritorno sarebbe un'assurdità e, se la discesa gli fosse ordinata da altri, tale imposizione potrebbe anche apparire come una somma «ingiustizia ». Chi ha percorso la via iniziatica per propria autonoma scelta, a dispet­ to e contro tutto ciò che lo circondava, chi ha trovato guide e compagni di ascesa al di fuori dei circuiti comunitari e dell'appartenenza civica non avrebbe, in linea di principio, alcun obbligo - osserva Socrate - di sacrifi­ carsi per un contesto familiare e politico che non solo non lo ha agevolato, ma lo ha persino ostacolato nel suo percorso di liberazione. Se lo facesse, sarebbe un atto gratuito. E se gli fosse ordinato, potrebbe forse contestare la richiesta. Diverso sarebbe, invece, se vi fosse una «bella città » in cui, per

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ordinamento e costituzione, le nature migliori fossero educate e guidate verso la luce. Una «bella città » ove si creassero le condizioni necessarie perché un manipolo di eletti, scelti per le loro doti e per i loro talenti, po­ tesse compiere la via iniziatica senza altre preoccupazioni e fosse sostenuto in ogni fase della propria realizzazione. Allora, certo, si creerebbero le con­ dizioni di un patto e di uno scambio. Chi è giunto «lassÙ » non solo per l'impegno personale, ma anche per l'educazione assicuratagli dalla legge della città, sarebbe in obbligo di ricambiare e di restituire in diverso modo quanto ha ricevuto. La costituzione di questa «bella città» - che il Sacra­ te platonico immagina - non può prefiggersi di procurare un particolare benessere a pochi privilegiati, di garantire a una sola classe un'eccezionale felicità di contro alla condizione miserevole di tutti gli altri. La legge di una comunità che conosca il vero senso della giustizia non può che perseguire il bene collettivo e l'armonia dell'insieme, costringendo tutti a scambiarsi reciprocamente quei servizi che ciascuno è in grado di fornire alla collet­ tività. Ognuno ha un compito, una funzione che è chiamato ad assolvere in seno e a beneficio di quel tutto che è il cosmo della città. La missione e il dovere dei liberati, di coloro che hanno contemplato il Sole divino, è diventare «custodi» della polis: governarla e conservarla grazie a quella superiore sapienza che hanno conquistato «lassù » . Trascorso un deter­ minato periodo di tempo dovranno ridiscendere, a turno, tra i prigionie­ ri, «partecipare alle loro fatiche » , preoccuparsi della loro vita e liberare altri che, un giorno, possano prendere il loro posto. Chi ha visto la luce e, rispetto a quel fulgore, ha imparato a misurare ogni altra cosa non ha alcun desiderio di governare né alcuna ambizione di potere: gli onori e le distinzioni mondane non sono « cose serie» per colui che si è liberato. Anzi, sono cose da nulla. Ma proprio questa è la garanzia più sicura per la comunità. Non vi è città meglio governata - sottolinea Socrate - di quella in cui comanda chi non vuole comandare, in cui i governanti designati non hanno alcuna brama di ricoprire quel ruolo, ma si piegano a esso come a un dovere e a una necessità cui non possono sottrarsi. Nella città dove esista, per l'élite di governo, un modo di vita migliore e preferibile all 'esercizio del potere - un'esistenza beata al di sopra e al di fuori della città -, l'am­ ministrazione della cosa pubblica sarà perfetta: «quella sarà, infatti, la sola città dove a governare saranno le persone realmente ricche, non di oro, ma di quella ricchezza che rende l'uomo felice, la vita buona e saggia» ( 5 2.1 a). Ma, fintanto che tali condizioni non si pongano, fintanto che la via iniziatica non costituisca una personale diversione dai parametri correnti,

COSMO, CAVERNA, CITTÀ ridiscendere nella caverna, proporsi di scuotere i prigionieri, felicemente assuefatti alle loro catene, comporta sempre un rischio, con esiti anche fa­ tali. Lo dimostra la vicenda stessa di Socrate, condannato a morte come corruttore di quei giovani che egli tentava di risvegliare a loro stessi e alla loro anima. Nel suo ultimo giorno, tra le pareti della cella in cui le sue gambe sono state vincolate a catene per nulla simboliche, pianto e riso, paura e scherzo si susseguono nell'animo di coloro che si intrattengono con lui fino agli ultimi istanti. Ancora una volta si tratta di quelle emozioni opposte, quella mescolanza di toni gravi e comici, inevitabili nella caverna. Ma Socrate non si stanca di indicare che c'è dell'altro rispetto a quanto i suoi inter­ locutori sono abituati a percepire. Gli uomini sono convinti di muoversi sulla superficie della terra e che il cielo sia quanto essi osservano alzando lo sguardo al di sopra del loro capo. Credono di avere un' idea adeguata e suf­ ficientemente precisa del mondo in cui abitano e dello spazio che percor­ rono nei loro viaggi. Ma non è affatto così. La superficie della terra - spie­ ga Socrate - è costellata di «cavità » di varia forma e grandezza, nelle quali si sono riversate acqua e aria. Ed è sul fondo di una di queste cavità che il genere umano trascorre la propria vita, ignaro di tutto il resto. Gli uomini abitano in un buco e non se ne accorgono. Solo salendo fino in cima si accorgerebbero che la superficie inizia là dove il loro mondo finisce. La «vera » terra, la terra «pura » si trova lassù, al di sopra del loro piccolo "cosmo": « È come se uno, abitando nel fondo del mare, credesse di abitare sulla superficie del mare stesso e, scorgendo, attraverso l'acqua, il sole e le stelle, pensasse che il mare fosse cielo [ .. ] così noi, stando in una cavità, siamo convinti di abitare sulla superficie della terra, e chiamiamo l'aria cielo come se fosse quello il cielo in cui si muovono le stelle [ . . ] se uno giungesse ai limiti dell'aria o, mettendo le ali, volasse fino a lassù, levando il viso fuori dall'aria, così come i pesci mettono il muso fuori dall'acqua, [ ... ] conoscerebbe il vero cielo, la vera luce, la vera terra » (Platone, Fedone, 109 b-d). L'antro di ltaca con i telai delle Ninfe, il cranio che sembra spaccarsi nel buio recesso di Trofonio, il volto misterioso della luna ove regna Per­ sefone, i prigionieri incatenati e rabbiosi con chi voglia liberarli, i pesci immersi nell 'acqua del mare. Una sfilata di situazioni e di simboli, con cui l'anima gioca per sperimentare e conoscere sé stessa. Un gioco sapiente per addentrarsi in territori altrimenti inesplorati e ignoti a chi tenga sempre lo sguardo fisso sulla medesima parete della caverna. .

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Parti e incantesimi La singolare sapienza di Socrate

La sapienza del rafano

L'oracolo di Delfi, interrogato dall'ateniese Cherefonte, aveva sentenziato che Socrate era il più sapiente degli uomini. Socrate era rimasto perplesso quando quel responso gli era stato riferito. Non pensava affatto di essere più sapiente di altri. Anzi, era convinto di non sapere proprio nulla. Ma era lecito dubitare della parola di Apollo, metterne in discussione il valo­ re ? Il «Lossia » Apollo, il dio «Obliquo» - come affermava Eraclito ­ «non dice, non nasconde, ma fa cenno» (Eraclito, fr. 93): il dettato dei suoi oracoli ha significato, ma per coglierlo occorre interrogarsi andando al di là della formulazione letterale e del senso immediato che questa pare suggerire. La parola apollinea contiene un «cenno» , che non addita tanto a un contenuto, quanto piuttosto apre una strada, indica una direzione, invita a un movimento. E Socrate aveva deciso di accogliere quell' invi­ to. Voleva capire che cosa davvero Apollo si aspettasse da lui e che cosa, implicitamente, il dio suggerisse attraverso quel confronto con il sapere altrui. Così aveva iniziato ad andare in giro senza risparmiarsi. Da quel momento, Socrate aveva affrontato una vera e propria pldne, un'erranza, un vagabondaggio, sottoponendosi a molti ponoi, a molte fatiche e trava­ gli. Per questi tratti, la sua avventura poteva ricordare quella di Odisseo, che aveva molto vagato e sofferto sulle vie del mare, misurandosi con ogni sorta di rischio e accumulando le più diverse conoscenze. A differenza di Odisseo, tuttavia, Socrate non si imbarcò per lunghi viaggi né si trovò a sfi­ dare l' ira dei flutti. Non aveva alcun desiderio di allontanarsi da Atene, di uscire dalle mura della sua città. Egli preferì vagare e penare nel perimetro circoscritto della polis in cui era nato e in cui viveva. Uno strano viaggio, una singolare erranza, nel cuore della comunità, nello spazio e nel tempo del vivere insieme. Ma non è solo il mare a configurarsi come un labirinto di incontri e di pericoli, di prove e di scoperte, che rimettono in gioco, a

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ogni passo, la vita e la percezione di sé. Anche la città può essere un labirin­ to in cui si incontrano mostri e prodigi, bestie selvagge e creature mirabili. Anche la polis può essere la superficie di un periplo accidentato e difficile, in cui si fanno esperienze inattese, cercando di salvarsi la vita e ritrovare la propria identità. Non c 'è bisogno di smarrirsi nell'esotico e nel lontano. Anche in città, anche ad Atene, ci si può perdere per sempre o, all'opposto, si può afferrare il filo che conduce a un altro modo di vivere e conoscere. Forse è sufficiente cominciare a guardare in una maniera differente le cose e gli uomini di tutti i giorni. Forse è sufficiente stare nello stesso luogo, ma abitarlo diversamente. Così appunto aveva fatto Socrate. È lui stesso a raccontarlo in tribunale, davanti ai giudici che, di lì a poco, lo avrebbero condannqto a morte. Si tratta di pagine celebri dell 'Apologia di Platone, ove Socrate - il Socrate che Platone aveva eletto e ricreato come modello di amore per la sapien­ za - rievoca e insieme rivendica il percorso cui l'oracolo delfico lo avrebbe indotto. Quell 'evento lo aveva spinto a una zétesis, a una «ricerca» , quoti­ dianamente rinnovata, tra le vie e le case di Atene, tra le persone a lui fami­ liari e le figure insigni della città, tra le riunioni di amici e gli arrivi di ospiti stranieri. In questa particolare quete, in questo paziente e caparbio cercare, era convinto che sarebbe pervenuto, in ogni caso, a una soluzione. Delle due l'una: o avrebbe trovato qualcuno più sapiente di lui, mostrando che il responso della Pizia non coglieva la verità, o avrebbe finalmente compreso come andassero intese le parole del dio e quale effetto mirassero a produr­ re. Aveva iniziato rivolgendosi a colui che, nello scenario civico, sembrava un interlocutore promettente: «Andai da uno di quelli che hanno fama di essere sapienti, pensando di poter smentire l'oracolo e rispondere: "Ecco, questo è più sapiente di me" [ ... ]. Non serve che vi dica il nome, vi basti sa­ pere che era uno dei nostri uomini politici [ ... ]. Ebbene, osservando costui, mi parve che egli potesse sembrare sapiente agli occhi di molti, e a me in particolare, ma che non lo fosse realmente » (Platone, Apologia, 2.1 c). Deluso da questo primo confronto, Socrate non si arrese. Si recò a in­ terrogare altri suoi concittadini che spiccavano, nella vita pubblica, per il prestigio e l'autorevolezza. Ma il risultato non cambiò. Dopo i politici, fu la volta dei poeti e in particolare dei tragediografi, la cui voce e le cui opere erano ascoltate e apprezzate per la saggezza che sembravano dispensare. Anche in questo ambito, tuttavia, Socrate si rese conto che non si poteva parlare di un effettivo e consapevole possesso di sapienza. Accadeva che i poeti dicessero « molte belle cose » , ma ciò era frutto di un' ispirazione

PARTI E INCANTESIMI. LA SINGOLARE SAPIENZA DI SOCRATE

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che essi non controllavano e di cui non erano in grado di dar conto. Scen­ dendo nella scala sociale, Socrate si era dunque aggirato nel mondo degli artigiani. Qui aveva trovato uomini che, da un certo punto di vista, si pote­ vano definire sapienti. Conoscevano alla perfezione la loro arte e avevano sviluppato la maestria necessaria a produrre oggetti utili oltre che belli: sa­ pevano davvero fare ciò cui si dedicavano. Anche in essi vi era, però, un li­ mite: per il fatto di padroneggiare i procedimenti tecnici del loro specifico e particolare ambito, erano convinti di poter giudicare e sapere, allo stesso modo, ogni altra cosa. Allora Socrate comprese il «cenno» che Apollo gli aveva rivolto. Né lui né l' interlocutore che di volta in volta egli esaminava possedevano, in alcun modo, un'effettiva sapienza. Il punto era un altro: mentre l'interlocutore «riteneva di sapere e non sapeva, io - dice Sacra­ te - non sapevo, ma neanche presumevo di sapere: mi sembrava perciò di essere, almeno in questo, più sapiente di lui, per il fatto che quello che non so, non credo nemmeno di saperlo» (Apologia, 2.1 d). Era questo che il dio di Delfi, il solare Apollo, voleva, dunque, che si comprendesse: il limite della « sapienza umana» come cosa « che vale poco o nulla ». « Sapienza umana » può intendersi come espressione ge­ nerica di una condizione antropologica invalicabile: l'uomo non sa, solo il dio conosce. Ma l' «umano» in questione può anche, e più plausibilmen­ te, denunciare il limite e l' illusione di tutto ciò che corrisponde alla men­ talità comune, alle opinioni invalse e alle idee indiscusse: l' inconsistenza di tutto quel sapere e di tutte quelle competenze che, nella vita quotidia­ na della città, assicurano un prestigio e una distinzione apparentemente indubitabili; la temibile vuotezza, ancora, di conoscenze e abilità mera­ mente strumentali per dominare gli altri e assicurarsi il potere. Il primo passo verso la « sapienza » - verso una conoscenza che ecceda quest' « U­ mano» - è il dissolversi della convinzione di sapere davvero qualcosa. Il primo passo è l'esperienza, viva e soggettiva, di una mancanza sostanziale: l'accorgersi che - a dispetto della posizione sociale, dei riconoscimenti ot­ tenuti e del modo stesso di immaginare l' identità personale - la vita non è mai stata pensata fino in fondo. Il rendersi conto che la propria vita non è davvero cosa propria perché non la si è mai davvero vista e interrogata, così da possederla con intima consapevolezza. Ci si è limitati ad adeguarsi a un ambiente e a un contesto contingenti, a conformarsi a un insieme di attese e di modelli di pensiero, a conquistare un successo mondano senza alcuna reale domanda, con l'aggravante equivoco che tutto ciò sia frutto di una scelta soggettiva e di un libero volere.

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li Socrate platonico afferma che quel tour tra i supposti sapienti di Atene gli aveva fatto riconoscere quale fosse la sua funzione, il suo dovere in seno alla comunità. Apollo gli aveva assegnato un compito a cui egli non sarebbe mai venuto meno, quale che ne fosse il costo: mostrare a ognuno che non sa quello che pensa di sapere, mettere ogni interlocutore dinanzi a sé stesso, fargli sperimentare la sostanziale inadeguatezza e il vuoto che lo pervade e che egli nemmeno sospetta. «Prestare aiuto al dio», rispettare la missione indicata dall 'oracolo vuole dire, per Socrate, ripetere, in modo costante e indefettibile, quest'unico gesto, quest'unica e fondamentale scena. Giorno dopo giorno, da un luogo all'altro di Atene, egli non smette mai di invitare gli altri a dar conto di sé stessi, delle proprie opinioni, del proprio stile di vita, dei propri desideri. Perché è proprio nell'atto del dare conto di sé che ognuno si trova, suo malgrado e senza previsione, a sentire e vedere, forse per la prima volta, lo scarto irrimediabile tra sembrare ed essere: il divario tra quello che si crede e si immagina di sé stessi e quello che davvero si è, tra la presunta pienezza della vita e tutto ciò che a essa, in realtà, fa difetto. lntrufolandosi ovunque, circuendo ogni Ateniese in cui si imbatteva, So­ crate formula sempre la stessa esortazione e il medesimo rimprovero: «Non ti vergogni di darti tanta cura per accumulare ricchezze, fama e prestigio, anziché curarti e darti pensiero della saggezza, della verità e della perfezione dell'anima ?» (Apologia, 29 e). E se colui che si sente apostrofare in questo modo pensa di potersela cavare sostenendo che di tutto ciò già egli si cura, l'immediata conseguenza è l'aprirsi di un dialogo, fitto e serrato, in cui So­ crate, di volta in volta, conduce alla verifica e all'ammissione di una verità affatto contraria: «Se qualcuno replicherà che si cura di tutto questo, non lo lascerò andare e lo interrogherò [ ... ] e se lo troverò privo del valore di cui afferma di essere dotato, gli rinfaccerò che non tiene in conto le cose di mag­ gior valore e a esse preferisce cose vili » (Apologia, 29 e-30 a). Obbedendo al proprio compito, prestando ascolto ai sogni, alle parole oracolari e ai segni che confermano il tracciato della sua particolare mis­ sione, Socrate non si stanca di sollecitare gli altri all ' epiméleia heautou, alla «cura di sé » : « Ho cercato di persuadere ognuno di voi di non curar­ si dei propri beni prima che della propria persona, in modo da diventare buono e saggio, e di non curarsi degli affari della città più che del bene della città stessa » (Apologia, 36 c). Ma, da capo, «prendersi cura di sé » significa anzitutto porre in atto una discontinuità, creare una sospensio­ ne rispetto al modo abituale di agire e di pensare. Significa provare il pa ­ thos della mancanza e dell 'insufficienza del proprio modo di essere, e da

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qui muoversi in direzione totalmente altra rispetto a ciò che si è sempre praticato. Significa, ancora, tornare alla radice di sé e chiedersi quale sia infine il vero nucleo del proprio essere. In questo senso, l'esortazione e la pratica dell' epiméleia, della «cura » , è un gesto che può aprire la ricerca di un diverso compimento della vita. Il credere di sapere e non sapere non è questione, infatti, di particolari contenuti o nozioni. Tale può essere il punto di partenza, lo spunto di conversazione - un certo concetto, una certa idea su cui il dialogare prende avvio - ma, al fondo, ciò che si disvela è fondamentalmente un'ignoranza di sé stessi e della propria esistenza. La scena di smascheramento e di verità cui Socrate sottopone i suoi interlocu­ tori - con l' invito e il rimprovero cui essa si accompagna - può essere così il preludio o il primo passo per un cammino di iniziazione alla sapienza e alla vita per chi abbia la costanza di impegnarsi: la preparazione indispen­ sabile per staccarsi da una visione consueta ed essere disponibili e recettivi per un differente conseguimento. Il Socrate platonico sa bene ciò che si dice di lui e non ha esitazione a riconoscerlo. Egli «è diverso da tutti gli altri » e si comporta in modo a dir poco eccentrico (Apologia, 35 a). Per assolvere al suo compito, per perseguire la sua ricerca, ha fatto ciò che per la maggior parte degli uomini è assurdi­ tà o follia: ha trascurato i propri interessi personali, il proprio benessere, la propria stessa sicurezza. Le sue domande continue, l' interrogarsi su ciò che parrebbe ovvio e scontato, il dubitare di quanto agli altri sembra evidente, il non prendere in considerazione, all'apparenza, quella realtà concreta cui tutti fanno affidamento, gli esempi che adduce - spesso tratti dalle attività più semplici e dagli oggetti più umili -: tutto, in lui, suona difforme e sin­ golare. A seconda delle situazioni e degli occhi di chi lo osserva, egli sembra avere l' ingenuità di un bambino, la sprovvedutezza di uno sciocco, l'arro­ ganza di chi non ammette ciò che tutti ammettono, financo la sgradevole rozzezza di chi non conosce le buone maniere. A tutti, in ogni caso, risulta dtopos, « stravagante», «inclassificabile » : non c'è un topos, un «luogo» in cui poterlo incasellare, un termine o un modello con cui poterlo confron­ tare e definire. Non coincide con nessuno, né con figure tratte dall'arsenale mitico, né con personaggi noti della storia (Platone, Simposio, 221 c-d). Da ogni pun­ to di vista, è « incomparabile » e la sua esistenza, per le ragioni dette, può essere giudicata addirittura «inumana » (Apologia, 31 a-c). Ma l' atopia, l'incomprensibile stravaganza è, per l'appunto, la strategia necessaria e in­ sieme l'effetto auspicabile per avviare la «cura di sé » : occorre uscire dai

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canoni, perdere i riferimenti, spostarsi in un altro «luogo>> da cui rico­ minciare a guardare le cose e sé stessi. L' atopia non è solo una caratteristica di Socrate, ma ciò che deve provare e sentire chi vuol prendersi cura di sé: un totale spaesamento come possibilità di un nuovo inizio, uno smarrirsi per trovare un altro spazio e un altro tempo nel cuore della vita. L' atopia è «non umana» perché vuole contraddire ciò che si prende per umano, perché vuole disarticolare, dall'interno, la supposta umanità di ognuno e assegnare al soggetto una meta e un fine al di là di quel sé stesso fallace cui è solito identificarsi. L' atopia è « non umana» perché in essa risuona e opera la forza del ddimon : la voce del «demone» che guidava e tratteneva Socrate, segnandogli la giustezza e la bontà di ogni gesto e iniziativa (Apo­ logia, 27 b, 40 a-d). Ma il ddimon non è che il divino presente e accessibile all'uomo: la sua parte più nobile, la vita della mente1 ciò in cui egli può trasformarsi purché lo voglia. Per questo - contro le accuse che gli vengono mosse e i pregiudizi che pesano sul suo conto - Socrate non esita ad affermare, dinanzi a chi deve giudicarlo, di essere un «dono di dio » e di recare ad Atene un impagabile « beneficio» per quell'unica cosa che ha sempre fatto: egéirein, «svegliare » i suoi concittadini dal torpore in cui versano, scuoterli e includi a mettersi in discussione, esortandoli alla «perfezione » di sé stessi. La città è come un grosso animale, come un cavallo, che deve essere addestrato e pungolato. E Apollo ha posto Socrate ai fianchi di Atene, proprio perché pungesse e inci­ tasse gli uomini dellapolis. Per missione divina e dovere soggettivo, Socrate è come un «tafano» che non concede requie al destriero indocile: un insetto molesto, una creatura inusitata, che non smette di dare il tormento e non consente agli Ateniesi di «dormire per tutto il resto della vita » , sprofondati in quel sonno cui sono così avvezzi (Apologia, 30 e-31 a). Ma gli uomini pre­ feriscono dormire e non sono mai miti con chi ne disturba il riposo. Per la città e tutti coloro che non ritengono di aver bisogno di «cura », la cosa mi­ gliore è sempre sbarazzarsi del tafano. E il tribunale di Atene non ha esitato a emettere, per Socrate, la sentenza di morte.

La vergogna e la tortura

Con la sua ricerca, con il suo esame per appurare chi sia il più sapiente, Socrate si è procurato profonde « inimicizie» e aperte «ostilità », come lui stesso ricorda (Apologia, 23 a). Chi presume di valere e di sapere, chi è

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convinto di essere perfettamente all'altezza del ruolo che ricopre, chi ha conquistato fama e posizioni di spicco non può non irritarsi dinanzi alle domande insistenti e incalzanti di Socrate che discute di ogni cosa e che, so­ prattutto, mina l' immagine che ognuno ha costruito di sé stesso. Quell 'in­ setto molesto, quell 'uomo buffo e petulante, privo di ascendenze aristocra­ tiche e di appartenenze sociali significative, ha l'impudenza di mettere in dubbio il valore altrui. Ognuno ritiene di meritare ciò che ha. Ognuno si aspetta di essere riconosciuto e apprezzato per quelle qualità di cui fa mo­ stra nelle relazioni quotidiane con gli altri. Ognuno si attende di essere con­ fermato nell'opinione che ha di sé stesso, tanto più se nel gioco sociale ha spesso ottenuto lodi e positivi riscontri. Ma l' incontro con Socrate sortisce l'effetto esattamente opposto. La « cura», il trattamento cui egli sottopone i suoi interlocutori, manda in frantumi ogni certezza e liquida ogni pretesa. Non è affatto piacevole essere messi in imbarazzo, vedersi spogliati della timé, del «prestigio » e dell' «onore » di cui si è abituati a godere. Non è gradevole scoprire di non essere capaci di replicare alle obiezioni di Socrate, scoprire di non corrispondere per nulla a ciò che si affermava e si pretende­ va di essere. Chi si sente improvvisamente messo a nudo ha reazioni aspre e sdegnate, espressioni di collera e di risentimento che si riversano sul presun­ to colpevole di quell'imbarazzo: «Se la prendono con Socrate anziché con sé stessi» e, per timore di perdere letteralmente la faccia dinanzi agli altri, per non dare l' impressione di essere in difficoltà, contrattaccano copren­ dolo di calunnie e di accuse (Apologia, 2.3 d-e). Si difendono in ogni modo, pur di non ammettere quella mancanza di essere e di sapere che Socrate li costringe a vedere in sé stessi. Tentano di sottrarsi alle sue domande, rifiu­ tano di rispondere, gli imputano di fare giochi di parole per confonderli, lo accusano di prendere in giro il prossimo, gli rimproverano financo di essere «disgustoso» e « volgare » per le conclusioni che trae dalle parole altrui (Platone, Gorgia, 494 d-e; Repubblica, 336 c-338 d). Da un dialogo all 'altro di Platone, la resistenza e l'irritazione dinanzi a Socrate è uno scenario che si replica, un passaggio, per così dire, prevedibile e obbligato nella dinamica della «cura di sé» . «Una vita senza esame - afferma Socrate - non vale la pena di essere vissuta » (Apologia, 38 a) : anexétastos bios, una vita che non viene interro­ gata, una vita che non si ferma a riflettere su sé stessa, che non si chiede che cosa è vita. Socrate lo ripete spesso: il suo scopo, il suo compito è exetdzein, « indagare » , «esaminare » fino in fondo, fino allo stremo, sé stesso e gli altri. La posta in gioco di questo esame continuo è trovare infine, in sé

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e nella vita, qualcosa di «vero», di « genuino» , di «valido »: qualcosa, appunto, di eteos cui l'atto di exetdzein etimologicamente si connette. Per condurre tale indagine occorre considerare e discutere le proprie convin­ zioni personali, verificare se ciò in cui si crede, se ciò che si afferma, abbia qualche fondamento, se nello sviluppo dei pensieri e delle azioni vi sia co­ erenza e consistenza. Per questo, Socrate si impegna a elénchein le risposte e le idee di chi si intrattiene con lui: « mettere alla prova>> i discorsi, « con­ futare» le opinioni che conducono a contraddizioni e che non si basano su alcunché di vero. Il procedimento sottopone a verifica la tenuta e la fon­ datezza di un discorso. Ma non è solo questione di logica o di linguaggio. Non è solo astratta discussione di un concetto o di una teoria. Il movimen­ to in cui Socrate coinvolge i suoi interlocutori implica una dinamica di emozioni e di reazioni poiché l'esito del confronto si riverbera, in ultima analisi, sulla percezione che ogni individuo ha di sé. Mostrare l' inconsi­ stenza di un'opinione vuol dire rinviare il soggetto a sé stesso, metterlo, per così dire, in crisi. Elénchein non significa infatti solo « confutare », ma anche «disonorare », « sottoporre a riprovazione ». Nel suo valore origi­ nario designa, letteralmente, l'atto di rimpicciolire e diminuire: fare che l'altro, l'interlocutore o l'avversario, sia elachus, «piccolo », «da poco ». In altri termini, ridurlo a un niente, ridimensionarlo drasticamente nelle sue pretese e nelle sue ambizioni. Ed è questo l'effetto salutare che la cura socratica si propone di ingenerare: fare in modo che ognuno si veda per quel poco che è, dissolvere l' inflazione dell'io, allontanare il soggetto da un' autorappresentazione magnifica e appagante quanto fittizia e illusoria. Interrogando e confutando, Socrate induce a vergognarsi di sé stessi. Perché solo la vergogna e l'orrore di sé possono dischiudere la via di una trasformazione effettiva, possono aprire il cammino verso una perfezione diversa dai miraggi e dagli autoinganni di cui l'umano si nutre. Persino il bellissimo, talentuoso e nobile Alcibiade - erede di Pericle e astro del firmamento politico di Atene - si era dovuto scontrare con quest'amara evidenza. Socrate non solo gli aveva dimostrato con i ragionamenti, ma soprattutto gli aveva fatto intimamente sentire e comprendere come tutte le qualità di cui egli andava orgoglioso e superbo come tutte le doti che gli venivano riconosciute non fossero affatto sufficienti a sostenere i suoi progetti e a guidare la sua stessa esistenza poiché, nella sostanza, egli non conosceva ancora sé stesso - non conosceva il nucleo della sua identità e non possedeva alcuna sapienza (Platone, Alcibiade, 106 b ss.; 12.7 ss.). «Nessuno - raccontava lo stesso Alcibiade - potrebbe immaginare che io

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mi vergogni davanti a qualcuno. Ebbene, con lui, e solo con lui, è accaduto. Davanti a Socrate, io mi vergogno, e so di non poter contestare quel che dice, le cose che mi esorta a fare. Ma, poi, appena mi allontano, mi fac­ cio vincere di nuovo dal desiderio degli onori che la folla mi tributa [ ... ] e quando poi lo rivedo, mi ricordo di quello che mi aveva fatto ammettere e mi sento pieno di vergogna » (Platone, Simposio, 216 b). Pépontha, dice e ripete Alcibiade per descrivere quello che gli è capitato con Socrate e che mai avrebbe pensato potesse accadergli: « ho provato quest 'emozione », «l'ho subita », «ne sono stato affetto». Socrate lo forzava ad ammettere la sua inadeguatezza: «Mi costringeva a riconoscere che mancavo di molte cose e che, ciò nonostante, non mi prendevo affatto cura di me stesso, ma mi intrigavo degli affari politici di Atene» (Simposio, 216 a). Socrate è il dono difficile e prezioso, il beneficio arduo e salvifico di questo pathos, di questa vergogna. Un'affezione intensa che può ricorda­ re l'esperienza dei misteri. Un'emozione decisiva, uno stato interiore, che ridesta dal torpore e produce consapevolezza: «Mi sono trovato a sentire - dice ancora Alci biade - che, così come sono, la vita non ha senso» (Sim­ posio, 216 a). Non è possibile vivere a questo modo, continuando a essere uguali a sé stessi, continuando a coincidere con le proprie manchevolezze e con la propria presunzione. È facile cedere alle lusinghe degli onori, ri­ scuotere il plauso della massa. È gratificante ottenere successi mondani, mentre la vergogna è un sentimento doloroso, perché fa comprendere che si dovrebbe operare altrimenti. La vergogna trattiene e impedisce. È come un vincolo o un impaccio che blocca i gesti, le azioni e le parole: tutto ciò che si è soliti fare, per impulso o per piacere; tutto ciò cui spontaneamente e in modo irriflesso ci si rivolge. Davanti a Socrate Alcibiade si sente come uno « schiavo » : non riesce più ad agire come prima, non riesce più a rico­ noscersi nelle cose che gli sembravano così desiderabili. Si sente forzato a qualcosa di diverso e ha un moto di ribellione e di insofferenza. Gli sembra che Socrate gli tolga la libertà, gli impedisca di essere sé stesso. Ma vi è libertà senza pensiero e senza sapienza? Vi è libertà di essere quando non si sa affatto chi e che cosa si è ? Quel sentimento di schiavitù e di arresto non è altro che una presa di coscienza, uno squarcio improvviso che si apre nel fluire dei giorni: la vita deve essere un'altra cosa, altre sono le mete e gli obiettivi degni di essere perseguiti. Quel sentirsi schiavo è, ancora, il sinto­ mo di un dissidio, di una lotta interiore: da un lato, la tentazione di con­ tinuare come sempre ; dall'altro, l'evidenza che non è più possibile e non si deve. Socrate, in realtà, non obbliga nessuno. L'obbligo è qualcosa che

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nasce in chi lo ascolta, l'effetto di un movimento che induce a guardare sé stessi, rovesciando il rapporto tra i termini: schiavo è colui che, pensando di essere libero, è prigioniero di ombre e di illusioni; il senso di vergogna e di schiavitù suscitato da Socrate è, per contro, davvero liberatorio poiché apre la ricerca della verità. Con i suoi discorsi, con la sua presenza, Socrate è ancora Alcibiade a ricordarlo - opera al modo delle Sirene: produce una deviazione nella rot­ ta della vita, arresta la navigazione dell'esistenza e induce a un ascolto che cambia ogni prospettiva. Nel celebre episodio dell' Odissea (12,184 ss.), le Sirene invitano i naviganti a fermarsi e a godere del loro dolcissimo canto, con la promessa che sarebbero diventati più felici e più saggi: le Sirene tut­ to sanno e tutto conoscono. Ma chi accolga questo invito non potrà, poi, riprendere il suo viaggio e ritornare all'esistenza di sempre: le Sirene sono circondate dalle ossa e dalla carne putrescente di chi ha prestato loro orec­ chio. Il canto delle Sirene dona conoscenza, ma fa perdere la vita. Anche Socrate fa smarrire la vita altrui. Anche l' incontro con Socrate è mortale. Ma, come nella relazione tra libertà e schiavitù, tutto si capovolge e si legge al contrario. Quella che i più ritengono vita è solo morte, esistenza spet­ trale: cadaveri che camminano. La vera vita si ottiene morendo a sé stessi. Ma molti arretrano davanti a questa via, si spaventano e scappano, come aveva fatto tante volte Alcibiade, « schiavo fuggitivo», che non riusciva a rinunciare al lusso, al fasto e al potere. L' exetdzein, l' « indagare » e l' «esaminare » che Socrate persegue, è come la ricerca di un tesoro. La verità è un seme d'oro, un granello di pre­ zioso metallo che deve essere ricercato nelle cose, ma, soprattutto, in sé stessi. Un lavoro lungo e paziente perché l'oro va tratto dalle viscere della terra e poi liberato da tutti i materiali e dalle scorie che lo avvolgono: «Per prima cosa si separa la terra e la pietra e molte altre cose diverse [ . ] poi con il fuoco si separano le sostanze affini ali'oro come il rame e l' argen­ to [ ... ] dopo ripetute fusioni ci è possibile vedere, nella sua essenza, l'oro puro». È il procedimento seguito tanto dagli artigiani, dai maestri d'arte, quanto dagli amanti della vera sapienza, come ricorda il Politico platonico (303 e), evocando la conversazione tra Socrate e un autorevole Straniero. Non sono pochi, peraltro, quelli che affermano di essersi impegnati in tale lavoro. Non sono pochi coloro che si vantano di aver trovato e possedere l'oro della sapienza e della perfezione. Ma come esserne sicuri ? Come veri­ ficare l'effettiva acquisizione di questa ineguagliabile sostanza? Bisogna, di nuovo, procedere a una prova, saggiare il metallo che -

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ognuno, a torto o a ragione, ritiene di aver isolato. Ci vuole una bdsanos, una «pietra di paragone», un quarzo o un diaspro nero, su cui strisciare il campione per verificarne il titolo e l'autenticità. L' indagine di Socrate si sviluppa in modo analogo. Per questo egli non cessa di interrogare e di farsi interrogare. Per questo, cerca continuamente interlocutori dotati, capaci di reggere la prova e di essere, per lui stesso, un banco di prova. È l'unico modo per accertare se il sapere o il valore che ognuno pensa di avere in sé stesso sia metallo genuino o solo una patacca luccicante: «Se io avessi un'anima d'oro - dice Socrate nel Gorgia platonico (486 a) - e trovassi una di quelle pietre di paragone con cui si saggia l'oro, la migliore che ci sia, se potessi toccare la mia anima con la pietra e avere la conferma che l'ho curata e coltivata bene, non credi che sarei felice di sapere che sono a posto e che non c 'è bisogno di alcun altro assaggio ? » . Trovare una bdsanos, una «pietra di paragone » è lo scopo e insieme l'effetto del dialo­ gare insieme, del confronto reciproco in cui, dando conto di sé e dei propri convincimenti, si verifica, passo dopo passo, la verità del proprio essere e del proprio dire, scontrandosi con le contraddizioni di un supposto sapere e con i punti ciechi della propria soggettività. Perché tale effetto si produca, perché la prova sia efficace e salutare, occorrono tuttavia - spiega Socrate alcune condizioni. L'atto del basanizein, dell' «esaminare fino in fondo», del « saggiare l'autenticità » deve accompagnarsi a éunoia, «benevolenza» e a parrhesia, « franchezza » ( Gorgia, 487 a). Bisogna essere « ben dispo­ sti » nei confronti dell'altro, aver a cuore il suo bene: non si discute per prevalere o per vincere sull' interlocutore, per affermare una tesi o attestare il proprio prestigio. Il dialogo, il dare conto di sé non è una sfida o una contesa tra avversari: non è una competizione in cui imporsi con qualsiasi mezzo e qualsiasi artificio. È il desiderio della verità che deve animare le parole: una verità che va al di là ed è al di sopra dei soggetti. Non si tratta di contraddire l'interlocutore, ma di volgersi, insieme e in comune, alla ricerca della vita migliore e più saggia. Per questa stessa ragione è necessario usare la massima parrhesia: biso­ gna avere il coraggio di «dire tutto » , di esprimersi senza reticenze, senza il timore di scoprirsi o di urtare la sensibilità altrui. È indispensabile mostra­ re sé stessi, mettersi a nudo completamente. Ma occorre, allo stesso tempo, non risparmiare all' interlocutore alcuna osservazione e alcuna critica per ciò che non convince o appare falso. Chi tace, si offende o si spazientisce mostra di non aver compreso il senso di questa pratica e vive quanto in essa avviene come un'aggressione, come una minaccia o una violazione

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della propria persona. L'esame, tuttavia, mira proprio a questo: superare la "persona", la maschera sociale, l'auto rappresentazione che ognuno è solito offrire e opporre agli altri nella vita quotidiana. Smantellare e decostrui­ re l' involucro delle difese personali per cercare, dietro la maschera, quel granello d'oro che riposa sotto strati di impurità, quel seme aureo su cui si fonda la relazione stessa con il bene e con il divino. La prova richiede un atto di apertura e di fiducia: la piena disponibilità a entrare in un gioco da cui non si uscirà indenni e che procurerà soffe­ renza. Bdsanos e basanizein non indicano, infatti, in greco, solo la prova dell'oro, ma anche la pratica della « tortura » che si applica nei tribuna­ li e nelle sedi di giustizia per estorcere la verità e accertare le colpe. È il procedimento a cui, più in particolare, vengono sottoposti, senza alcuna pietà e remora, gli schiavi nella convinzione che non vi sia altro mezzo per farli parlare. L'indagine di Socrate è, dunque, anche questo: una tortura che egli infligge ai suoi concittadini, a quegli uomini liberi per condizione sociale e diritti politici, ma ignari della propria sostanziale schiavitù. Chi parla con Socrate, quale che sia il punto di partenza iniziale del discorso, viene condotto, attraverso un lungo giro, sempre a questo stesso punto : deve dire in che modo vive o abbia sinora vissuto. Ed è qui che inizia il tormento di un esame implacabile e minuzioso: «Socrate non lo lascerà andare - afferma Nicia nel Lachete platonico (188 a) - prima di aver esa­ minato tutto per bene e a fondo. Una tortura. lo che lo conosco, so che bisogna subire questo da lui e so che mi toccherà, un'altra volta, sottopor­ mi a questo trattamento» . Socrate non dà scampo. Non resta che conse­ gnarsi a lui in modo arrendevole, lasciarsi condurre per mano e pdschein, «patire », tutto ciò che il procedimento comporta. Farlo « è andnke», « è necessità », ammette Nicia. La necessità consapevole di chi non si ferma al semplice gioco delle apparenze e delle menzogne di cui la vita comune­ mente si nutre. Nel corso del torturante esame accade così di trovarsi del tutto scon­ certati e storditi. Sembra che la terra venga meno sotto i piedi: più nulla di stabile e certo su cui poggiare. Non si riesce a parlare. Le parole proprio non vengono, e anche le idee, già tante volte formulate e ripetute in altre occasioni, sembrano svanite. Non ci si raccapezza. Non ci si ritrova con quel che fino a un momento prima si stava dicendo con tanta convinzio­ ne. Si arriva anche a dubitare di sé stessi e di quanto sta attorno. È come se tutto, da familiare che era, diventasse strano ed estraneo. Ci si trova in uno stato di completa aporia: non si vede poros, « Strada », «cammino»

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per proseguire, perché la via praticata fino a poco prima portava - adesso è evidente - solo in un vicolo cieco, in un punto morto, che non solo uccide il ragionamento, ma anche la vita. E, come si è incerti sulla strada - non si sa più dove passare, come uscirne -, così ci si sente, all'improvviso, sprovvisti di qualsiasi « mezzo», di qualsiasi «risorsa » - poros significa anche questo - per trarsi d' impaccio. Disarmati, sgomenti o, ancora peg­ gio, paralizzati, quasi che Socrate disponga di un qualche farmaco o di un qualche veleno in grado di bloccare la mente e il corpo delle sue vittime: «Avevo sentito dire - afferma Menone - che tu non fai altro che gettare te stesso e gli altri in quest'aporia. E adesso mi sembra che tu mi stia come stregando, con qualche droga [ ... ] perché non so più come andare avanti. Assomigli a una torpedine marina che intorpidisce e paralizza (narkdn) chi le si avvicina e la tocca. Tu fai lo stesso effetto. Mi sento tutto torpido, la mente e la bocca paralizzate, e non so che risponderei. E sì che tante vol­ te ho pronunciato discorsi sulla virtù, anche davanti a un grande pubblico, e con successo. E adesso, la virtù, non so più neanche che cosa sia» (Pla­ tone, Menone, So a). Socrate - o chi opera come lui - produce negli altri una particolare forma di narcosi: uno stato, fisico e psichico insieme, che impedisce di agire come sempre, di ripetere i gesti e le parole consueti. Una sorta di paralisi che favorisce il distacco da una parte di sé - da quella forse più superficiale e, a ben vedere, scarsamente consapevole - per permettere un salto a un livello superiore di coscienza e di sapere. L'intorpidimento dell'esame socratico è una stasi, una morte temporanea che accompagna e permette un percorso di trasformazione. Anche la Persefone dei Misteri eleusini - se ricordiamo - era rimasta attonita dinanzi alla bellezza e al profumo "narcotico" del narciso. E fu proprio mentre si trovava in questa condizione che il signore dell'Ade la ghermì. Potremmo dire, dunque, che la stupefazione paralizzante si inscrive nel movimento di morte e di rige­ nerazione: è la premessa del mutamento. Con tale tecnica, Socrate sposta il punto di equilibrio dei suoi in­ terlocutori: li inebetisce, li fa vacillare e li guida su un piano diverso. Il cambiamento del punto di equilibrio è anche cambiamento del punto di osservazione. Si è abituati a guardare le cose e anche sé stessi stando aderenti alla terra, con un movimento e una prospettiva che seguono una linea orizzontale. Socrate, al contrario, « tira » e « trascina in alto», con uno scarto che porta sulla verticale. Chi parla con lui e tenta di risponde­ re alle sue domande si trova, all' improvviso, come « sospeso» nell'aria e costretto a guardare, da lassù, tutto ciò che faceva parte del suo mondo e

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della sua esistenza. Senza alcun apparente appoggio, si vede librare in una dimensione del tutto inconsueta. È smarrito e terrorizzato, come se fosse in bilico su un precipizio, con il vuoto sotto di sé. Comincia a balbettare per l'inquietudine e il turbamento che prova. Si sente ilingidn, «in preda alle vertigini » . È come essere afferrati da un «vortice » , da un « turbine » - ilingos appunto - che rapisce e risucchia nel moto ascendente di una spi­ rale. È un momento di confusione, di sconcerto, ma anche di profondo stupore: «Sono straordinariamente meravigliato (thaumdzo) - confessa Teeteto a Socrate - [ ... ] e, quando mi fisso a guardare che cosa siano que­ ste "apparenze" mi sembra davvero di avere un capogiro (skotodinido) » (Platone, Teeteto, I SS c). Quando si entra nel gioco dell'esame e della prova dell'oro, la testa inizia letteralmente a girare. Ed è un dinéin, un «girare » nello skotos, nel «buio». Come se la vista si ottenebrasse e ci fosse un man­ camento. Ma ciò che viene meno, ciò che si ottenebra è la m era percezione sensibi­ le, il modo usuale di osservare le realtà, le certezze cui si faceva affidamento senza essersi mai davvero interrogati su di esse. Dal buio può scaturire una luce e nel vortice dello sconcerto si intravede che c'è dell'altro: le cose non sono come appaiono, il piano fluente e cangiante del divenire è affatto di­ verso dalla stabilità dell'essere. «Questo stupore, quest'affezione (pathos) che senti - commenta Socrate - è [ ... ] il principio dell'amore della sapien­ za » (Teeteto, I SS d). Vertigine e meraviglia sono l ' arché, il punto,di partenza e il principio della via, sono il poros, il passaggio che permette di transitare al di là dell' aporia «Non sbagliava - conclude allusivamente Socrate - chi diceva che Iride fu generata da Taumante » . Iride è l'arcobaleno che si dise­ gna dopo la pioggia, l'arco colorato che tocca insieme il cielo e la terra. Ma Iride è anche la messaggera degli dei, colei che discende dall'etere per por­ tare le parole e le volontà degli immortali, colei che mette in connessione e in comunicazione i piani dell'alto e del basso. E, come figlia di Thdumas, la sua figura è legata, a filo doppio, con thaumdzo: «mi stupisco », « mi sor­ prendo», « sono pieno di venerazione». Quando la testa comincia a girare e sembra di star per svenire, quando non si sa più dove ci si trova, forse è proprio allora che un' ispirazione divina si fa cogliere, che un messaggio ce­ leste ci raggiunge, portando il frutto di una scoperta e di un'illuminazione. Forse proprio in quel momento si forma un arcobaleno che, con il suo arco, fa salire al divino. Vergogna e tortura, sgomento e vertigine, paura e meraviglia: la «cura » che Socrate sollecita e somministra suscita emozioni che si imprimono a .

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fuoco, affezioni che lasciano il segno. Come è necessario che sia, se lo sco­ po è scardinare il soggetto e condurlo oltre sé stesso. I discorsi di Socrate, i discorsi e i gesti di chi ama la sapienza sono e devono essere un'esperienza che sconvolge, penetrando nelle più intime fibre del sé: « Quando lo ascol­ to - testimonia ancora Alcibiade - il cuore mi sussulta [ ... ] e verso lacrime per le sue parole» (Simposio, 2.15 e). È com'essere posseduti, invasati, tra­ sportati in un altro stato di coscienza, strappati a sé stessi. E l'esperienza, compiuta una prima volta, lascia una traccia indelebile. Niente può più essere come prima. C 'è stata una rottura, una fessura che si è aperta, una crisi i cui effetti non possono essere ignorati o rimossi. La realtà è stata or­ mai vista e sentita altrimenti, con un' intensità e con una verità inaccessibili a chi permanga nell'assopita routine dell'esistenza. È - continua Alcibia­ de - come essere morsi da una vipera: un « morso dolorosissimo» nella parte di sé in cui la sensibilità e il dolore sono «più acuti» . Non c'è scam­ po: un veleno è stato inoculato. Non resta che continuare, che seguire il passaggio che si è aperto. Fa male, ma, solo andando fino in fondo, si potrà scoprire che il veleno è una medicina benefica. Il veleno intossica, uccide, ma rigenera, portando alla soglia del bios biotos, della « Vita » che merita di essere « vissuta » perché ha saputo trovare il proprio compimento.

Tempo di partorire

Tutti sono chiamati a prendersi cura di sé e a esaminarsi. L'invito e l'ap­ pello a questa pratica non hanno preclusioni. Ma per chi voglia davvero procedere nel percorso di conoscenza - di cui la cura è solo un avvio - è necessario possedere qualificazioni e doti. Non tutte le nature sono uguali e l'ascesa ai piani superiori dell'essere non è affatto un esercizio indistin­ tamente democratico. È un sentiero aristocratico ed elitario nel senso più nobile e originario di questi termini. Una via del tutto selettiva. I sogget­ ti, dotati delle migliori qualità naturali, hanno la possibilità di compiersi nel modo più felice e più pieno, se correttamente guidati, se seguono con pazienza la parola di un maestro capace. Così come, all' inverso, possono diventare un'assoluta rovina per sé stessi e gli altri se si allontanano pre­ maturamente da una guida e si fanno riafferrare dai presunti valori della corrente comune: il loro potenziale valore, il talento personale e il sape­ re nel frattempo acquisito si convertono e si sottomettono al peggiore desiderio di potere mondano e di possesso materiale, producendo danni

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incalcolabili e tradendo la vocazione interiore. È il caso di Alcibiade che rinunciò, consapevolmente, a perseguire con coerenza quanto aveva inte­ so e intrapreso, gettandosi in una carriera politica dall'esito quanto meno discutibile. Per queste ragioni, Socrate è sempre alla ricerca di giovani prometten­ ti, di fanciulli dotati, per sottrarli alle influenze dei cattivi maestri di cui la città pullula, e per seguire l'armonico sviluppo delle loro disposizioni naturali. Fra i ragazzi che incontra poco prima della sua condanna a morte spicca Teeteto. Nel dialogo platonico, che da lui prende nome, il geome­ tra Teodoro lo segnala, senza esitazioni, a Socrate proprio per le eccellenti qualità che dimostra: Teeteto, certo, non è bello come era Alcibiade, ma in compenso è veloce nell'imparare, pronto di memoria e pieno di ardore: «Negli studi procede liscio e sicuro, arrivando al fine prefì.ssato, in tut­ ta tranquillità, come un rivolo di olio che scorre senza rumore: è straor­ dinario che un fanciullo della sua età sia già capace di tanto » (Platone, Teeteto, 144 a). È un ragazzo eccezionalmente intelligente e acuto, ma sen­ za quell'arroganza e quell'irruenza che spesso contraddistingue i giovani brillanti. Teeteto è sempre mite e docile nell'ascoltare il consiglio altrui, nell'accogliere gli ammonimenti e nel sottoporsi alle prove che gli vengo­ no proposte. Questo fanciullo « meraviglioso» sembra il candidato ideale per il sentiero che conduce fuori dalla caverna. Socrate, perciò, lo vuole mettere alla prova, lo vuole saggiare per accertarsi del suo valore e insieme per renderlo consapevole delle sue possibilità. « È il momento - afferma Socrate - per te di rivelarti e per me di sottoponi a un esame» ( Teeteto, 145 c). Il fanciullo accoglie, di buon grado, la proposta e, con piena dispo­ nibilità, accetta di « mostrarsi» a chi lo interroga. Nel dialogo che così si sviluppa - un «dialogare fra noi» che è anche un «diventare amici» Socrate guida Teeteto a interrogarsi su che cosa sia la conoscenza. Che cosa vuoi dire sapere e in che modo possiamo acquisire un sapere certo ? Quale ruolo hanno i nostri sensi nel farci conoscere la realtà ? Quale rap­ porto sussiste fra le percezioni sensibili e i contenuti della nostra memoria? Come si formano le opinioni e che grado di attendibilità esse hanno? Che differenza c 'è fra apparenza e verità ? Queste sono alcune delle questioni cruciali con cui il giovane deve confrontarsi nello sviluppo progressivo della conversazione che Socrate accortamente conduce. Per comprendere se si è sapienti e che cosa meriti di essere saputo, bisogna avere il coraggio di ripartire dall' inizio e riesaminare l' intero processo che dovrebbe assicu­ rare il traguardo dell' epistéme, del sapere stabile e fondato : « Che cos'è la

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scienza? - domanda Socrate - Siamo in grado di darne una definizione ? Chi di noi parlerà per primo ? Chi sbaglia [ ... ] si metterà a sedere "asino" come dicono i bambini che giocano a palla. Chi vincerà, perché non avrà fatto errori, sarà il nostro re» ( Teeteto, 146 a). Il dialogo parrebbe un gioco da bambini: vince chi arriva in fondo senza mai perdere la palla, senza sbagliare. Sembrerebbe un esercizio di m era destrezza e di abilità. Ma la re­ galità - cui Socrate, celiando, allude - è molto più di questo. Non si tratta solamente di non mancare la presa e di fornire risposte giuste. Diventare «re» vuol dire - al di là della conversazione contingente - acquisire quel­ la conoscenza che è pienezza d'essere e intelligenza cosciente. Sovranità su sé stessi, sovranità sulla vita: il gioco sottende un'arte regale che "realizza" il soggetto nella sua verità più profonda ed essenziale, sviluppandone le conseguenti facoltà. Per questo, il gioco della regalità è, nella sostanza, un parto, un'opera di generazione in cui la conoscenza prodotta coincide con una rigenerazione di sé stessi. Dopo i primi passi, Teeteto si trova presto in difficoltà. Confessa di aver già riflettuto, altre volte, sulla questione postagli da Socrate e di non essere mai riuscito a venirne a capo. Ma non è affatto disposto a rinunciare. Gli « sta a cuore » trovare una soluzione, vuole aver « cura » di sé e del sapere. Questo desiderio lo abita e insieme lo incalza: «Tu hai le doglie - commenta Socrate - perché non sei vuoto, ma gravido » ( Teeteto, 148 e). Teeteto non è un soggetto cavo e sterile. C 'è qualcosa in lui, un "pieno", che deve venire alla luce e prendere vita. In questo non potrebbe trovare un'assistenza più valida di quella che Socrate è in grado di fornirgli. L ' a­ topia, l'assoluta e inquietante stravaganza che tutti gli attribuiscono - quel fastidioso suscitare dubbi e spiazzanti aporie - non sarebbe, in realtà, che un effetto e un modo con cui si manifesta una sua particolare e specifica capacità. Socrate, infatti, era figlio di Fenarete, un'abile e rinomata mdia, un'espertissima levatrice di Atene, ed egli stesso, come accogliendo un'ere­ dità materna, si era sempre dedicato alla pratica di quest' « arte » : «Sappi che è proprio così - dice Socrate a Teeteto - ma tu non andarlo a dire agli altri perché l'ho sempre nascosto» ( Teeteto, 149 a). È una confidenza, si direbbe, quella che Socrate sta facendo al ragazzo. La confidenza di un se­ greto sfuggito ai più, a tutti quegli interlocutori che non si sono resi conto, evidentemente, di quanto Socrate faceva intrattenendosi con loro. La per­ cepivano come una stranezza, senza coglierne il senso e lo scopo. Ma anche questo, forse, fa parte dell'esame per discriminare i «pieni » dai «vuoti» . Inutile dar spiegazioni a chi non ha nulla dentro di sé, così come, per altri

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versi, è proficuo che il procedimento resti in parte implicito, fintanto che la disposizione dell' interlocutore non sia davvero provata. L'importante è che Socrate sappia come procedere e che l' interlocutore gli si affidi con quella disponibilità che Teeteto, per l'appunto, dimostra. Le ostetriche - spiega Socrate - sono, in genere, donne che hanno or­ mai superato l'età fertile. Non sono più in grado di avere figli, ma, con la loro esperienza, aiutano e assistono altre donne nel dare alla luce la vita. Sono le più esperte nel riconoscere da quali unioni e da quali accoppia­ menti potrebbero nascere i figli migliori e più dotati. Sono in grado di capire se una donna è incinta. Conoscono farmaci e incantesimi per miti­ gare la sofferenza del travaglio o, al contrario, per provocare le doglie ove il parto ritardi. Sanno come agevolare le gravidanze più difficili o quando è il caso, al contrario, di provocare un aborto. Il loro è un sapere che si estende all'intero processo naturale del generare: il segreto del concepimento, lo svilupparsi del feto, il momento delicato in cui un nuovo nato esce dal ven­ tre materno o in cui un essere immaturo deve essere soppresso. Su di loro veglia Artemide, la dea che presiede ai parti e alla nascita di tutti i cuccioli, animali e umani. La pratica di Socrate - il drdma, la «cosa fatta » da lui in un dialogare che è anche "teatro" - assomiglia all'opera mirabile delle levatrici. Salvo tre cruciali differenze: opera sugli uomini e non sulle donne, sulle anime e non sui corpi, ed è posta sotto il segno solare di ApollG, il fratello della lunare Artemide (Teeteto, 150 b ss.). È un'arte dedicata al maschile perché sono uomini, e soprattutto ragazzi, quelli cui Socrate si rivolge per ini­ ziarli alla conoscenza. E questa singolare "cosa" che si chiama conoscenza è anch'essa, al fondo, un'esperienza del generare, un'opera di creazione. È un'esperienza della psuché, un'opera dell'anima, che, come un ventre ma­ terno, può essere feconda di vita e far crescere in sé un nuovo essere. La psuché è come una fanciulla che rimane incinta e al giusto tempo si deve sgravare. È una fanciulla che i maschi devono destare dentro di sé perché, solo quando il maschile sa diventare femminile, solo quando si produce, nella mente, uno stato di androginia, solo allora si tocca il compimento della sapienza e dell' iniziazione. "Due cose in unà' è il segreto elementare della conoscenza. Per questa stessa ragione, l'anima fanciulla di questi giovani uomi­ ni - su cui Socrate veglia - non può che restare incinta di sé stessa, non può che essere fecondata dal proprio stesso seme, dal nucleo solare del proprio maschile. Socrate, d'altro canto, non è per nulla un fecondatore

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e non ingravida altri di una sapienza che egli possegga: Apollo - racconta lui stesso - lo ha reso sterile e gli ha impedito di generare. Il suo compito, il lavoro affidatogli dal dio, è un altro: essere uno strumento per mezzo del quale gli altri possano generare. Non perché non sappia nulla, come spesso ripete. Ma perché l'unica conoscenza che abbia davvero valore è quella che ognuno può trarre da sé stesso, facendosi utero e seme del proprio essere. Con l'aiuto di Socrate, coloro che stanno in sua compagnia partoriscono - se hanno la qualità e la natura adatta - parole e pensieri nuovi, idee di cui non si credevano capaci. Ma, partorendo parole e pensieri, ognuno non fa che generare e rigenerare sé stesso. Nella via che Socrate propone, partori­ re implica sempre, come fine ultimo, l'atto di mettere al mondo un altro e nuovo sé stesso. Questo, tuttavia, non lo si comprende subito: occorre aver ascoltato Socrate a lungo; occorre essersi addentrati, per un cospicuo tratto di strada, nel gioco della regalità e del parto. Molti non capiscono il drdma di Socrate e fraintendono quel suo "non sapere". Ai primi risultati del dialogare con lui, si inorgogliscono di qualche idea che hanno concepi­ to e ritengono di non aver più bisogno della sua opera. I pensieri che han­ no prodotto, certo, sono loro, ma non hanno per nulla afferrato la direzio­ ne e il senso della pratica. Così smettono di frequentarlo e per il resto del tempo - commenta Socrate - non fanno che « abortire » . La gravidanza dell'anima, come quella del corpo, esige attenzione e pazienza, cure ade­ guate e opportune precauzioni. È un'opera che richiede tempo. Il giusto tempo. Ogni atto inconsulto, ogni mossa prematura, ogni disattenzione impaziente mette a repentaglio il risultato o, peggio, produce mostri. Bisogna saper attendere e seguire le indicazioni che l'esperto ostetrico sa, via via, suggerire. Per ottenere lo « straordinario profitto>> che il per­ corso promette, bisogna continuare a sungignesthai, a stare in compagnia di Socrate, finché qualcosa di significativo accada e si vedano con chia­ rezza gli esiti del proprio generare. « Quelli che mi frequentano - egli racconta - patiscono le stesse pene delle partorienti: hanno le doglie (odinousi) e sono pieni di turbamento e di confusione (aporia), giorno e notte» ( Teeteto, 151 b). Ancora e sempre un pathos. Dopo il trauma per la scoperta delle proprie mancanze e della propria insipienza, c'è la fatica di un lavoro che trasformi il vuoto in un pieno, che dia vera vita all'essere e al pensare, suscitando facoltà e potenzialità insite nel soggetto. La gravidan­ za è fonte di pena e di inquietudine. Il parto è odfs, «doglia » che lacera e strazia, travaglio insopportabile che sembra non finire mai. I giovani incinti soffrono, sono in preda al tormento e all'angoscia, e non trovano

LA VIA DEGLI DEI pace una volta che il pensiero e l'intelligenza abbia iniziato a muoversi nel ventre della loro anima. Spetta a Sacra te regolare e agevolare il proces­ so. Con la sua arte, a seconda dei casi e delle condizioni individuali, egli procede a «calmare » il dolore o a «risvegliarlo », a sedare o a eccitare la psuché dell ' incerlocutore affinché compia e realizzi ciò di cui è capace, affinché tragga dalla sua sostanza un frutto di verità. Il che non solo è difficile, ma richiede anche ripetuti - e spesso scoraggianti - tentativi che lasciano gli "incinti" sfiniti e talora delusi. Un tratto essenziale distingue infatti il parto del corpo da quello della psuché. Il ventre delle donne par­ torisce, sempre, una creatura in carne e ossa, quali che siano la sua natura e il suo destino. Il nuovo nato può essere bello o brutto, perfettamente sano o debole e bisognoso di cure, ma si tratta, in ogni caso, di una "cosa" che è, di una presenza reale. All'anima accade, per contro, di partorire éidola, di produrre « fantasmi » , che della realtà hanno solo la tenue e ingannevole apparenza. Il frutto della psuché è, di frequente, m era illusione, immagine priva di consistenza, simulacro senza vita e senza verità. Generare pensie­ ro vivente, generare e generarsi nella dimensione dell'essere è, fra tutte, l' impresa più ardua. Per questo è necessaria una sottile capacità di discriminazione che com­ pete non tanto al soggetto, quanto all' « ostetrico» che lo assiste. Chi ha partorito è sempre affezionato e orgoglioso della sua creatura - tanto più se è la prima data alla luce - e la ritiene spontaneamente cosa bella e degna d'amore. Ma l'ostetrico, il levatore delle anime deve opporsi a tale spon­ taneo e ingenuo attaccamento, giudicando, in modo severo e imparziale, che cosa è effettivamente venuto alla luce. Se il prodotto del parto non appartiene all'ordine dell'essere, ma è solo un miraggio e un « fantasma » - l 'ennesima ombra di chi è ancora nella caverna -, esso deve essere gettato via e ripudiato senza remare. Come ogni vera guida, come ogni capace maestro, Socrate è implacabile e spietato. Non esita a far strage dei parti illusori. Contrastando ogni resistenza del suo incerlocutore, egli non si fa scrupolo di « strappargli di dosso» il simulacro fallace che ha partorito : quello spettro di cui il giovane puerpero si bea, senza rendersi conco che è solo un'immagine di morte. È un atto di violenza, certo, ma è il prezzo da pagare per un pensiero vivente. Molti non lo sopportano e, come madri offese e oltraggiate, sono pronti a « mordere » chi sopprime la loro crea­ tura. Aphairéin, « togliere », «portare via » è l'azione che Socrate com­ pie, ripetutamente, da un dialogo platonico all 'altro, nel confronto - ora teso ora sereno - con chi sta in sua compagnia. Da ciò si comprende che

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la sua arte ostetrica, la sua celebre maieutica, nella maggior parte dei casi non accompagna il momento giubilatorio e felice di un'effettiva nascita, ma è, al contrario, la continuazione di un lavoro catartico : la maieutica è, anzitutto, opera di purificazione che spoglia degli inganni e delle menzo­ gne che ognuno continuamente produce senza nemmeno avvedersene. Per partorire davvero bisogna prima aver fatto pulizia di tutto l' inautentico e di tutto il falso di cui la psuché - come una fanciulla sconsiderata - si ingravida senza posa. Come si è più volte sottolineato, la catarsi e la ricerca della sapienza sono incompatibili con la fretta di chi vuole un risultato immediato. Non ammettono di essere contenute da limiti preordinati. È un punto su cui Socrate insiste con Teeteto, disegnando un diverso rapporto con la tempo­ ralità stessa. Nella polis, il tempo scorre e si consuma in una routine logo­ rante di impegni e di obblighi che occupano e alienano chi a essi attende. Tutto è misurato e rigidamente scandito. È un affaccendarsi senza tregua per conquistare vantaggi personali e beni materiali. Un concitato darsi da fare, ave ogni indugio e ogni divagazione espongono al rischio dell' insuc­ cesso. Si tratta, in altre parole, di un tempo sovraccarico o, per così dire, di un tempo senza tempo, perché i discorsi e gli atti sono sottomessi alla quantificazione di effetti immediati, all'urgenza di situazioni contingenti cui occorre rispondere subito. In questo, la vita della città, il ritmo della comunità politica corrisponde in pieno - suggerisce Socrate - alla scena inquieta e litigiosa del tribunale. Là due contendenti si sfidano in un di­ battimento ave non possono svolgere i propri argomenti con agio e come vogliono: sono incalzati dall'acqua della clessidra che segna il tempo con­ cesso a ognuno per esporre le proprie ragioni e per confutare l'avversario. Per raggiungere i propri scopi o salvarsi dalle accuse, essi devono dunque farsi accorti e astuti - oltre che svelti - per ingraziarsi i giudici e attenerne il consenso. Non c 'è possibilità per un esame o per un confronto che si protragga al di fuori di questi angusti limiti: « È come una gara di corsa [ ... ] verso una direzione già segnata e il premio è il più delle volte la vita stessa» ( Teeteto, 172. e). In tale contesto, tutto è « tensione », affanno e paura: la parola e il tempo sono interamente determinati dalle contese e dalle controversie, dalle contrapposizioni dei desideri e delle ambizioni, dalla violenza di scontri ave i soggetti si giocano la possibilità stessa della loro esistenza e del loro ruolo nella comunità. Il tempo di chi si sottomette ai dispositivi della città è, letteralmente, un eterno "processo", contingenta­ to e rischioso: un tribunale permanente in cui tutti sono asserviti al fluire

LA VIA DEGLI DEI di un' inflessibile clessidra. Il tempo della polis - conclude Socrate - è un tempo «da schiavi» che distrugge ogni possibilità di « elevatezza mora­ le », ogni senso di vera «libertà » e ogni «dirittura di comportamento» . Gli uomini che, sin dali' infanzia, vivono di questo orizzonte temporale fi­ niscono, come inevitabile conseguenza, per « abbandonarsi alla menzogna reciproca », con il risultato di « torcersi» e di «rompersi », di diventare « storti e storpiati », senza più nulla di « Sano» nella mente. L'educazione dei giovani, che si consuma secondo questo ritmo, non è altro - insiste Socrate - che un massivo, quanto inconsapevole, « allevamento di schia­ vi », destinati a perpetuare il danno esiziale dell' ascholia, dell'affannosa « mancanza di tempo » . Chi cerca e ama la sapienza non può che sottrarsi, con ogni forza, a tale dinamica perversa. Per produrre verità e giustizia, per partorire pensiero vivente non bisogna preoccuparsi di perdere tempo, di sprecarlo "inutil­ mente" secondo la misura dei più. Al contrario, l'amante della sapienza cercherà sempre di difendere la dimensione della scholé, di quel « tempo libero» - e agli occhi degli altri "ozioso" - come condizione necessaria per esaminare sé stesso e le proprie parole «con serenità e con agio» , senza di­ pendere dal consenso comune né farsi «comandare » dagli ordini o dalle impellenze altrui. Nella cura di sé e nei discorsi che ne conseguono accade, più volte, di cambiare direzione e prospettiva, di tornare sui propri passi e di ricominciare tutto da capo, per l'ennesima volta, se la strada imboccata non è quella giusta o se la purificazione non è ancora -completa. La dire­ zione dell'ascesa è lineare, ma il movimento soggettivo per compierla non lo è affatto. Perciò lo scorrere del tempo - la sua apparente perdita - non ha alcuna rilevanza rispetto all'obiettivo reale : « Importa solo il fatto di raggiungere la verità di ciò che è» ( Teeteto, 172 d). Abitare diversamente il tempo implica anche abitare in altro modo lo spazio. I veri amanti della sapienza evitano di frequentare tutti quei luoghi della polis in cui la parola si riduce a chiacchiera, a mera competizione o a strategia interessata. Non conoscono la strada che conduce all' agora e al mercato, non sanno dove si svolgono le assemblee e le adunanze pubbli­ che, non bazzicano le riunioni delle eterie politiche o i banchetti in cui ci si abbandona a piaceri di ogni sorta: « sono, queste, tutte cose che non si sognano nemmeno ». Chi si avvia per la strada indicata da Socrate vive nella polis come un estraneo a essa: è un cittadino, ma anche e sempre uno straniero. «In verità solo il suo corpo si trova e dimora nella città », men­ tre la sua mente «vola» da ogni parte, allontanandosi dalle cose che gli altri ritengono importanti e che lui, per contro, ritiene «vili e di poco

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conto » : «vola dappertutto [ ... ] scendendo sotto terra e salendo su nel cielo, esplorando l' intera natura degli esseri, senza abbassarsi a niente di particolare che gli sta vicino» ( Teeteto, 173 e). Guardare il particolare, osservare le cose troppo da vicino - le cose che ci toccano proprio perché vicine -, identificarsi con i confini stretti del politico è una forma di accecamento. Ci vuole lontananza e distacco per vedere e per essere. Dislocarsi fuori dalle coordinate spazio-temporali del­ lapolis, sperimentare un altro tempo e un altro luogo, muoversi nel grande tutto tra terra e cielo : questa è la scelta di chi vuole la sapienza. È il "moto" libero e intelligente dell 'anima che fugge la condizione mortale, perse­ guendo l' homoiosis, 1' « assimilazione» al divino: «Diventare simili a dio - conclude Socrate - è acquistare giustizia, purezza e insieme sapienza ». Homoiosis è partorirsi come esseri divini, dando alla gravidanza dell 'anima il suo vero e più prezioso frutto (Teeteto, 176 b).

Un incantesimo per il mal di testa

La palestra di Taurea, ad Atene, è un luogo ben frequentato da adulti e ra­ gazzi, membri dell'élite civica, figure di spicco e future promesse della po­ litica. Esercizi fisici, corpi nudi, conversazioni che si intrecciano. Si allena il corpo, ma anche semplicemente ci si incontra, si discute, si mostra agli altri chi si é o si vuoi essere. Tra sudore e parole, un'atmosfera sottilmente erotica pervade questo spazio, alimentando desideri e legami. La palestra è situata di fronte al tempio di Basile, la « Regina » : figura divina connessa alla sovranità politica, per un verso, ma rinviante dall'altro a quello spa­ zio infero che sta oltre la città. « Regina» è una delle tante designazioni eufemistiche di Persefone, sposa di Ade. Tale è l'ambientazione del Car­ mide di Platone. E, come sempre avviene nella scrittura platonica, nessun particolare è accessorio. Il dialogo è dedicato all'essenziale, ma difficile, nozione di sophrosune: la qualità, etimologicamente, di chi ha sos phrén, « mente sana », «integra ». Una virtù basilare per la vira comunitaria, per le relazioni tra i membri di una polis: moderazione, temperanza, capacità di autocontrollo sono gli antidoti ali ' abuso e alla prevaricazione reciproca. Ma sophrosune è una disposizione altrettanto fondamentale nel rappor­ to del soggetto con sé stesso e con il divino: un equilibrio, diciamo, che predispone allo sviluppo di altre facoltà. Parlare di «mente sana » in una palestra, alla presenza della "meglio gioventù" ateniese, al cospetto di Per-

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sefone, regina della morte iniziatica, non è dunque casuale, e suggerisce implicitamente una prospettiva. Socrate si reca alla palestra di Taurea di ritorno dalla campagna militare di Potidea e, come sempre, si informa di quanto è avvenuto nel frattempo in città. Vuol sapere, in particolare, se tra i ragazzi vi è qualcuno che spicchi per qualità naturali e che mostri amore della sapienza. Tra tutti, gli viene segnalato Carmide, cugino di Crizia e zio dello stesso Platone. Il giovane discende dal matrimonio di due delle famiglie più aristocratiche e antiche della città. È assolutamente un « bennato » e, come ci si augura in que­ sti casi, egli sembra non tradire affatto le attese di così nobile lignaggio. Come Alcibiade, Carmide è di una bellezza assoluta. Ha il fascino di un «idolo» da cui né gli adulti né i coetanei riescono a distogliere lo sguardo. Quando si spoglia in palestra, lo spettacolo è conturbante. Ma Carmide - come afferma convintamente Crizia - non è solo ka!Os, « bello », ma an­ che agathos, «valente » e «virtuoso » per qualità interiori. Il candidato ideale, dunque, per Socrate che non resiste alla tentazione di « denudare » questo bel giovane, così dotato: « Perché - propone Socrate - non comin­ ciamo a spogliarne l'anima e la contempliamo prima dell'aspetto fisico ? » (Platone, Carmide, I SS e). S e la visione di u n corpo perfetto sortisce effetti immediati e ovvi, la nudità dellapsuché può risultare non meno affascinan­ te, quando si sappia come procedere al suo intimo strip-tease. Carmide è leggermente indisposto. Si è alzato, al mattino, con una certa pesantezza al capo : ha il mal di testa. Socrate - suggerisce Crizia - potreb­ be « fare finta di conoscere un farmaco» per far passare il malessere. Una scusa, si direbbe, per poter avvicinare il ragazzo e stare in sua compagnia. Ma, al di là del malizioso espediente proposto da Crizia, non si tratterà solo di « far finta » . Quando Carmide arriva, tutti perdono letteralmente la testa. Rimangono basiti e si danno da fare, con esiti comici, per averlo vicino : c'è chi cade addirittura dalla panca, spinto da chi vuol far spazio al giovane perché sieda accanto a lui. Lo stesso Socrate è profondamente turbato e imbarazzato, in preda a una completa aporia, quando incrocia gli occhi con quelli del ragazzo: non è più tanto sicuro di poterlo interro­ gare con serenità e distacco (Platone, Carmide, ISS e). Tanto più quando Carmide, muovendosi e chinandosi in avanti, lascia intravedere tutto ciò che il mantello nasconde: «Mi sentii avvampare e non ero più padrone di me », confessa Socrate. La bellezza, se reale e perfetta, è una cosa seria. La bellezza è una forza améchanos, « invincibile »: non ci sono rimedi o espedienti, mechandi, per neutralizzare le emozioni che suscita. Accende

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un « fuoco», come quello che Socrate sente bruciare in sé stesso. È un fuoco prezioso. Dipende da come lo si usa. Socrate, in questo, è un esperto e, ripresosi dallo stordimento, si attiene al proposito iniziale di dialogare con il ragazzo. Gli mostrerà la propria dunamis, il proprio «potere », non meno grande e bello dell'avvenenza del suo interlocutore. Socrate spiega che il rimedio contro l'appesantimento della testa con­ siste in un'erba e in un incantesimo, un' epodé. L'impiego deve essere si­ multaneo se la cura vuole risultare efficace e radicale. Occorre recitare, «cantare » la formula dell ' epodé, mentre l'erba viene somministrata. Il che sottende un principio più generale che dovrebbe orientare ogni autentica «terapia » . Curare l'affezione di una singola parte del corpo, concentrarsi su un sintomo o un dolore localizzato, senza prestare attenzione all' insie­ me delle condizioni fisiche del paziente è un procedimento assurdo oltre che privo di risultati. Non è possibile - esemplifica Socrate - curare un male agli occhi senza curare anche la testa, e la testa non può essere curata di per sé, a prescindere dal resto del corpo. Ogni «cura » deve essere sem­ pre cura dell' holon, dell' « intero ». È di questo «intero » che ci si deve an­ zitutto pre-occupare. In che cosa consiste ? L' interezza del soggetto uomo è solo il suo soma, il suo « corpo », ed è a questo che un rerapeuta deve esclusivamente rivolgersi ? Nell'uomo c 'è anche qualcos'altro, non facile cerro da definire e afferrare, ma esperibile e osservabile a certe condizioni e in cerri stati d'essere. C 'è una "cosà' che si indica con il nome, appunto, di psuché, di « anima », che ha una sua conformazione, una sua vita, un suo potere. E quando si esplori effettivamente tale potere, ci si avvede che « tutto prende le mosse dall 'anima, i beni e i mali del corpo e dell'uomo nella sua interezza, e che dall'anima essi si riversano al resto [ ... ] ed è l'a­ nima che, prima di tutto, bisogna curare se si vuole che la resta e le altre parti del corpo siano in salute » ( Carmide, 156 e). A questo servono spe­ cificamente gli incantesimi, le epoddi, a medicare l'anima perché da essa dipende, come il flusso di una cascara, lo stato dell 'intero. Gli incantesimi sono !Ogoi, discorsi, parole, arti a suscitare sophrosune, uno stato di « mente sana », una condizione « integra » e dunque «perfetta» che, con il de­ starsi di ulteriori facoltà e poteri, produce mutamento e autentica "salute" di «rutto» l'uomo. Socrate spiega di aver imparato il criterio terapeutico dell ' holon, non­ ché l'arte dell' incantesimo, quando appunto era impegnato nella cam­ pagna militare. Glielo aveva insegnato, al campo, uno dei «medici della Tracia, quelli che discendono da Zalmoxis e hanno fama di poter rende-

LA VIA DEGLI DEI re immortali (apathanatizein) » (Carmide, 156 d). Da Atene ci si sposta, con un salto, a quel lontano Nord da cui tante pratiche di sapienza erano giunte al Mediterraneo. Pratiche sciamaniche operate da veri specialisti dell'anima, riti e misteri per sconfiggere la dissoluzione della morte e man­ tenere, per sempre, l'integrità della coscienza. Zalmoxis era stato re e sacerdote dei Geti e da loro venerato come un essere divino. Secondo quanto racconta anche Erodoto (Storie, 4·93-95), Zalmoxis era stato un maestro per il suo popolo. Si era fatto costruire un andron, una grande sala e in essa « ospitava i primi cittadini a banchetto, insegnando loro che né lui né i suoi commensali né tutti i loro discendenti sarebbero morti, ma che sarebbero andati in un luogo ave, sopravvivendo in eterno (aiéi perieontes), avrebbero goduto di ogni bene » . Allo stesso tempo, mentre teneva tali discorsi, si era fatto preparare anche una « dimo­ ra sotterranea» . Quando fu completata, « scomparve dalla vista dei Traci e sceso laggiù [ ... ] vi rimase per tre anni» . Tutti lo piansero dandolo per morto. Ma al quarto anno, egli ritornò, come una prodigiosa epifania, «e fu così che per i Traci divennero credibili le cose che Zalmoxis affermava » . Al di l à di quanto Erodoto racconta con un certo grado di scetticismo e di superiorità nei confronti dei «barbari » e «poveri » Traci, alcuni elementi significativi e ormai ben noti al nostro percorso si lasciano cogliere: il pro­ lungato ritiro nella « dimora sotterranea », l'insegnamento impartito in una «grande sala » a un gruppo scelto di uomini lasciano cogliere in fili­ grana l'articolazione di una via iniziati ca che - in modo analogo ai misteri greci - prevede una preliminare istruzione con laparddosis, la trasmissione di un discorso sacro, per poi procedere a una catabasi infera e a una risalita, al passaggio attraverso la morte e la rinascita. Il rutto con l' intervento di opportune formule magiche e rituali, di erbe e di incantamenti. Restare, sopravvivere «per sempre » : questo lo scopo ultimo dell'intera pratica, lo stato di perfetta integrazione. La tradizione greca ed Erodoto stesso col­ legano, peraltro, Zalmoxis con la figura di Pitagora, cogliendo tra i due un 'affinità di esperienze e di sapere. Ai segreti di tale orizzonte Socrate stesso sarebbe, quindi, iniziato. Il seguace di Zalmoxis che gli aveva comunicato queste dottrine lo aveva ob­ bligato a un serio giuramento. Socrate avrebbe dovuto applicare quest'arte attenendosi rigorosamente alle istruzioni ricevute e ai criteri comunica­ ti: «lstruendomi sul farmaco e gli incantesimi mi disse: "Stai attento che nessuno ti persuada a curargli la testa con quell'erba se prima non avrà sottoposto l'anima alla magia dell 'incantesimo [ .. ]". E con veemenza mi .

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raccomandava che io non mi lasciassi convincere da nessuno, ricco, nobi­ le o bello che fosse, a fare altrimenti» ( Carmide, 157 b-e). Le distinzioni sociali, l'appartenenza di classe, le qualità naturali o l'avvenenza fisica non contano in questo contesto. Il procedimento è uguale per tutti, universale, per così dire, poiché deve portare al di là dell'umano, quali che siano le caratteristiche soggettive di partenza. Fatta tale premessa, Socrate interroga Carmide sul suo personale stato. Se egli è già dotato di sophrosune, di « mente sana» - come Crizia e altri dicono di lui - forse non ha bisogno dell 'incantamento volto a ingenerare tale virtù interiore e si può direttamente passare all'uso dell' « erba ». Se Carmide dispone di tutte le capacità che la sua nascita aristocratica e la sua straordinaria reputazione lasciano presupporre, si potrebbe saltare un passaggio del percorso. Ma, appunto, spetta a Carmide dire se egli possie­ de davvero ed esercita in modo attivo ciò che Socrate esige come condi­ zione preliminare. Alla domanda diretta Carmide esita: tutti lo lodano per la sua sophrosune e negarla sarebbe smentire i suoi estimatori, ma, del pari, non gli sembra opportuno o sensato pronunciare un 'affermazione così impegnativa. Meglio, dunque, che sia Socrate stesso a « esaminare », come di consueto, la questione, saggiando l' interlocutore. Per sapere se si è «saggi», «di mente sana», per sapere se si è in grado di operare di conse­ guenza, bisogna sapere che cosa sia sophrosune: che idea si è fatto Carmi de di tale virtù, che significato ha tale parola? Da qui ha inizio - come è avvenuto per Teeteto - un lungo, accidentato e divagante percorso, tra avanzamenti, battute d'arresto e ritorni circolari. La sophrosune potrebbe essere una certa forma di temperanza, un sapersi comportare come si deve, un agire calmo e ordinato, un aspetto del pu­ dore o, ancora, conoscenza di sé stessi, un sapere del bene e del male, una condizione di felicità. Le proposte si susseguono - con il coinvolgimento anche di Crizia -, ma sono via via scartate o provvisoriamente accantonate in quanto non del tutto soddisfacenti, non esaustive o ancora tali da impli­ care, se sviluppate fino in fondo, contraddizioni insolubili e difficoltà che gli intervenuti non riescono ad affrontare. L'esito del confronto conduce al punto morto di un'aporia. Tornando alla questione di partenza, Socrate chiede nuovamente a Carmi de se egli ritiene, dunque, di possedere la sophrosune e se, di conse­ guenza, abbia bisogno o meno dell ' « incantesimo» capace di ingenerare tale virtù. Dopo tutta la traversata discorsiva, il bel ragazzo è costretto ad ammettere che non è in grado di dare una risposta: «lo non so se la

LA VIA DEGLI DEI possiedo né se non la possiedo. Come potrei sapere ciò che neanche voi siete riusciti a trovare, come dici tu [ ... ] . Per quanto mi riguarda, penso di aver assolutamente bisogno dell ' incantesimo e nulla vieta, da parte mia, che io sia incantato da te tutti i giorni, finché tu ritenga che sia sufficien­ te » ( Carmide, 176 a-b). Carmide - come altri che si intrattengono con Socrate - si è reso conto di « non sapere » . Forse ha una naturale dispo­ sizione alla saggezza e alla temperanza e, nella vita di tutti i giorni, come tutti gli dicono, si comporta in modo appropriato. Ma non conosce con chiarezza che cosa sia tale virtù e, soprattutto, a quale fine sia indirizza­ ta. Non ne ha consapevolezza. Ma il punto essenziale è proprio questo: essere consapevoli del senso e dello scopo delle virtù e delle facoltà che si esercitano. Attraverso la conversazione con Socrate, il bel ragazzo è stato «purgato » delle concezioni erronee e parziali che nutriva in merito. Ne ha constatata tutta l'inadeguatezza. La purificazione è sempre il primo indispensabile passo - come più volte è emerso - in ogni « terapia » che voglia essere efficace e produrre "salute". Nella tradizione greca, d'altro canto, la nozione di catarsi - prima di essere concetto filosofico - nasce dagli ambiti del sacro e della medicina: eliminare le impurità, purgare gli umori infetti. Ciò considerato, resta da chiedersi che cosa ne sia dell' «incantesimo » evocato all'inizio e ripreso alla fine come necessario. Si potrebbe pensa­ re, corrivamente, che esso coincida con la procedura discorsiva posta in atto nel confronto tra le idee e i saperi di ognuno: una semplice metafora, fra altre utilizzate dalla scrittura platonica, per indicare la dimensione del dialogo, per designare la pratica che conduce ali ' ammissione del « non sa­ pere » per poi procedere gradualmente, in un'ulteriore prosecuzione del percorso, alla conquista di concetti e contenuti dottrinali più stabilmente fondati. Un altro modo, dunque, per indicare l'esercizio della razionalità: Socrate - si è anche detto - si richiamerebbe alla tradizione antica degli incantesimi proprio per sottolineare implicitamente la transizione da un arcaico orizzonte magico alla conquista di un sapere propriamente "filoso­ fico" e dialettico. L' incantesimo sarebbe superato nella prospettiva e nella necessità di una dimensione del !Ogos come «discorso» improntato alla « ragione ». Solo questo ? La ragione sarebbe sufficiente a trasformare i soggetti, a farli ascendere ? Il modo in cui il Socrate platonico opera non è esclusi­ vamente "intellettuale", ma fa appello a un "intero" assai più complesso per aprire, dislocare e d-orientare chi lo frequenta. L' incantesimo non

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è una parola che enuncia o articola concetti, ma una parola che "fa': un atto rituale che agisce e che, nell 'iterazione, produce stati della mente e condizioni d'essere ben al di là della razionalità discorsiva. L' incantesimo non solo attiva facoltà latenti, ma - cosa decisiva - agisce sulla totalità del soggetto, portandolo a esperire dimensioni di sé, del proprio «intero», prima ignote. Il suo effetto è una forma di intensità e di energia in cui pensare, sentire, potere si intrecciano in un unico plesso. Ed è a questa for­ ma di intensità cui bisogna pervenire per abitare fuori della caverna. Farsi incantare da Socrate «ogni giorno », per tutto il tempo necessario, non significa esclusivamente acquisire dei contenuti, ma disporsi in un certo modo, accedere, nella propria interezza, a un determinato stato che apra l'occhio della mente. Il richiamo all ' importanza dell ' incantamento e alla sapienza di Zalmo­ xis non è liquidabile come un mero passaggio incidentale o uno stratagem­ ma retorico per avviare una conversazione intesa a sviluppi e implicazioni affatto differenti. L'evocazione di un « farmaco» non è nemmeno - come aveva suggerito e creduto Crizia - una semplice « finta » o un pretesto per approcciare Carmide: un modo di dire per fare altro. È piuttosto un' in­ dicazione che rimane sospesa, un "rinvio" che eccede la purgazione delle concezioni erronee e gli esiti aporetici del dialogo. I medici iniziati da Zal­ moxis, i terapeuti di Tracia - aveva detto Socrate - detengono un sapere che mira ad apathanatizein, a «diventare immortali ». È questo il segno che il Socrate platonico lascia all 'orizzonte del discorso, additando una direzione ulteriore. Gli interlocutori non sono ancora in grado di com­ prenderlo e devono, prima, attraversare altre fasi e altri passaggi, liberan­ dosi di quanto li ostacola o li confonde. Ma la sophrosune non è solo una virtù sociale o politica che interviene nell'ordine delle relazioni quotidia­ ne, una scienza dei comportamenti morali. Al di là di questo stadio, sia pur rilevante ed essenziale per una città "armonica", la « mente integra » e il « farmaco» a essa connesso hanno a che fare con la conquista dell' « im­ mortalità » e con quell'assimilazione al divino - «per quanto a un uomo è possibile » - sulla cui importanza Socrate aveva richiamato l'attenzione del giovane Teeteto. Zalmoxis non è un nome da lasciarsi dietro le spalle, ma l'allusione a un seguito e a un lavoro che attende chi ha inteso l'invito di Socrate. Ma di questo ovviamente non si può parlare in una palestra affollata o per le vie di Atene. Né, tanto meno, scriverlo in un dialogo. Gli incantamenti, non metaforici, esigono la riservatezza e il silenzio di altri spazi.

LA VIA DEGLI DEI In cella

Socrate è stato giudicato colpevole dal tribunale di Atene: con i suoi discor­ si, dicono, avrebbe corrotto i giovani e negato l'esistenza degli dei onorati dalla città. Il molesto « tafano» che ha sempre invitato tutti a esaminare sé stessi è stato condannato a morte. La pena, tuttavia, non ha avuto un' imme­ diata applicazione per la concomitanza con un rito in onore di Apollo. Gli Ateniesi sono soliti inviare, ogni anno, una nave a Delo, isola sacra al dio, per commemorare la vittoria di Teseo che aveva ucciso il Minotauro ed era usci­ to incolume dal labirinto. Per tutto il periodo richiesto dal rito nessuna ese­ cuzione capitale può avere luogo: la città deve mantenersi pura dalla morte. Apollo, che aveva designato Socrate come il più sapiente, sembra concedere al suo protetto un'estrema dilazione, un'ultima stazione prima della fine. Il che crea, peraltro, un suggestivo parallelo con la vicenda mitica che il rito celebra: la prova del labirinto, la sfida con il mostro, la conquista della sal­ vezza e della liberazione. Il labirinto è un luogo iniziatico di vita e di morte. Nascere è far ingresso nel labirinto della vita ed essere esposti alla morte. Ma nel labirinto si gioca anche la partita di una vittoria sulla morte. Socrate, come Teseo, sa come uscire vittoriosamente dalla prova di quei meandri. E il Fedone platonico ne offre una compiuta quanto elaborata rappresentazione. Nell'attesa di morire - racconta il dialogo - Socrate ha modo di riflet­ tere su un sogno che lo aveva spesso visitato nel corso della vita (Platone, Fedone, 6o e-61 c). La visione gli ripeteva di dedicarsi alla mousiké, all'o­ pera sapiente delle Muse. Come intendere tale indicazione onirica? L'a­ more della sapienza e i discorsi che essa ispira non sono forse la « musica suprema», l'opera più alta e ispirata cui l'uomo può attendere ? Socrate ne è sempre stato convinto e a questo ha sempre volto ogni suo impegno, come un «cigno» sacro al solare Apollo: un cigno che canta con gioia, sapendo che qualcosa di meraviglioso lo attende al di là dell'esistenza ter­ rena (Platone, Fedone, 84 e-Ss c). Ma se il sogno - si è chiesto Socrate - al­ ludesse anche a ciò che comunemente si intende per poesia e per musica, se l'invito riguardasse una forma più «popolare» e ordinaria di mousiké? Così, tra le pareti della sua cella, egli ha pensato di comporre un inno ad Apollo e mettere in versi alcune favole morali di Esopo. Per togliersi uno « scrupolo », giusto per non sbagliare e non presumere che la sua prima in­ terpretazione fosse quella giusta. Ma nello « scrupolo» vi è forse qualcosa di molto ironico: non vi è epica, lirica o poesia teatrale che possa reggere il confronto con l'amore della sapienza.

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Nel frattempo, la nave da Delo ha fatto ritorno ad Atene e il momen­ to dell'esecuzione è giunto. Nell'arco di quella giornata Socrate deve bere la cicuta e prendere definitivo congedo dalla sua esistenza terrena. Gli ufficiali incaricati predispongono il necessario. Come prima cosa lo sciolgono dalle catene. La cella in cui Socrate, poco prima di morire, si muove finalmente libero, evoca, per istantanea sovrapposizione, l' imma­ gine della caverna con i suoi prigionieri, tutti incatenati, salvo uno che improvvisamente «viene sciolto» e può procedere verso la luce. La cella del Fedone è, a suo modo, un antro, un' immagine del cosmo e della città, ma evoca anche lo spazio ove si celebrano le iniziazioni. La cella è pri­ gione di una vita schiava e non consapevole e insieme spazio di discorso sapienziale. Gli amici di sempre, quelli con cui si era tante volte intrattenuto, en­ trano per salutarlo e discorrere con lui per un'ultima volta. Si crea subito un'atmosfera del tutto singolare, un pathos dtopos: un' «emozione strana» e indefinibile (Fedone, 59 a). Socrate non è per nulla turbato dalla fine im­ minente. Appare sereno, addirittura felice, come se la sua fine rispondesse a un disegno divino e una più grande beatitudine lo attendesse. Gli amici sono consolati da tale disposizione, ma non riescono a non provare dolore e a non piangere per la sua perdita. Sentimenti contrastanti. Ma là dove si produce atopia - come sappiamo - si consuma sempre uno scarto rispetto alla misura comune del sentire e del pensare. L' inclassificabilità dell'emo­ zione è il segno che prelude a uno scenario di sapienza iniziatica affatto distante da ogni altro sapere. Gli amici sono addolorati al pensiero che Socrate diventerà presto un cadavere e si preoccupano di come disporne le esequie. Ma egli ribadisce che lui non è quel cadavere: non sarà Socrate ciò che verrà sepolto. Socrate non è quelle « ossa », quei « nervi » e quella carne. Certo, durante la sua esistenza ha potuto agire e muoversi grazie alle ossa, ai nervi e al corpo. Ma non sono queste cose la causa prima dei suoi movimenti e delle sue azioni. Quel corpo non è tutto e non esaurisce il soggetto. Ciò che ora viene per­ cepito e chiamato come "Socrate" ha in sé qualcos'altro. È qualcos'altro : un principio particolare di vita, un centro di moto e di pensiero, un nucleo stabile di identità. Non l' identità contingente e condizionata da un con­ testo di esistenza e di educazione, ma la radice su cui il soggetto si fonda e opera: la verità del suo essere. Il nome di psuché, « anima », rinvia a tutto questo. Ed è alla psuché che Socrate, appunto, si richiama per la sua sere­ nità di fronte al momento del trapasso. L'anima non finisce con il corpo.

LA VIA DEGLI DEI L'anima persiste e può godere di una condizione infinitamente superiore a quella umana, a patto che si sia preparata a tale scopo. La psuché, certo, è cosa aidés, « invisibile », e impalpabile (Fedone, 8o d). Può essere affermata per dottrina o per credenza. Ma può anche essere esperita nonostante la sua invisibilità. Nella condizione umana co­ mune, l'anima è « impastata » e « incollata » al corpo. Sente, conosce e pensa attraverso di esso. È « trascinata » e « turbata » dalle affezioni so­ matiche, « inchiodata » e «invischiata » da appetiti e da bisogni che la dimensione corporea suscita e alimenta (Fedone, 66 b-e, 82. e). In tale sta­ to, l'anima diviene affatto « corporea », indistinguibile dal soma. Ma se, all'opposto, viene addestrata a « sciogliersi » dal corpo, a « raccogliersi » e «concentrarsi» così da « restare da sola con sé stessa e in sé stessa» , una nuova dimensione si apre. Un diverso modo di cogliere la realtà, una differente qualità di pensiero, e insieme un orizzonte di conoscenza total­ mente altro dal sensibile (Fedone, 65 a, 67 c-d). «Verità » ed « essere » è il nome di quanto, in tale condizione, si conosce per visione e per contatto: la psuché, isolata dal divenire corporeo, vede l' invisibile che le è conge­ nere e insieme lo « tocca >>. E, conoscendo ciò che sta al di là dei sensi e dell'apparenza, l'anima conosce anche sé stessa, vede la propria natura e si percepisce come nucleo autonomo: come «cosa che è» al pari delle « cose che sono», che, in tale raccoglimento concentrato, scopre e tange (Fedone, 66 d-e). Chorizein, « separare» è un termine su cui il Socrate platonico insiste. Separarsi dal tumulto del corpo e dal fluire cangiante del divenire, rag­ giungere uno stato di perfetta purezza per cogliere ciò che è, a sua volta, puro e stabile: le forme ideali, le strutture archetipiche del cosmo, le po­ tenze e le forze del divino. È una condizione di omogeneità: il simile si conosce con il simile, la purezza dell'essere facendosi puri come l'essere, il divino diventando divini. La separazione più radicale delle componenti umane è quella della morte in cui la psuché si libera dai vincoli del soma. Per questo - per analogia con tale completo scioglimento e come pre­ parazione a esso - gli amanti della sapienza si applicano a «essere mo­ ribondi » . Solo così, separandosi dai condizionamenti della corporeità, morendo a sé stessi, alla propria individualità incarnata, possono acquisire la capacità e i poteri necessari per « andare a caccia dell'essere » e non cadere preda dell' « erranza » e dell' «errore » che gli stimoli e i desideri della fisicità ingenerano. In ciò consiste la pratica della meléte thandtou, dell' «esercizio di morte » , che il Socrate platonico indica ai suoi imerio-

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cutori come unica via per chi è mosso dall' « amore della sapienza » . Va­ lorizzare questo esercizio del distacco e della separazione non implica una preoccupazione di carattere morale o un corrivo disprezzo del corpo in sé. Non si tratta, tanto meno, di una sollecitazione a considerare la mortalità umana, a pensare la morte e la finitudine come elemento di consapevolez­ za al fine di orientare le scelte e i comportamenti dell'esistenza quotidia­ na, confrontandosi con il limite imposto alla singola vita. La questione non è propriamente etica, ma epistemologica e trasformativa: esercitarsi a morire è condizione di conoscenza e compimento del proprio essere; è evoluzione del sé e sviluppo pieno di tutte quelle potenzialità che l'impa­ sto con il corporeo ostacola. «La verità - insiste Socrate - è purificazione» (Fedone, 6 9 b-e). E le «virtÙ » tradizionali, dal coraggio alla temperanza, sono anch'esse «ca­ tarsi » : il loro valore non starebbe tanto nell'armonia che creano sul pia­ no civico e nelle relazioni tra individui, ma nella direzione ulteriore che consentono a chi le pratica. La purezza incontaminata dell 'anima auté kath 'hautén, « in sé e per sé» è l'unica via d'accesso alla conoscenza della realtà «in sé e per sé », l'unica via d'accesso a un conoscere che è conquista di verità e insieme integrazione riuscita di quel nucleo chiamato psuché. Il che non costituisce una teoria, ma un dato di esperienza. Se chi ama la sapienza non ha altra «cura » che il « morire e l'essere morto», sarebbe affatto ridicolo e contraddittorio - afferma ancora So­ crate (Fedone, 64 a-b) - temere l'accadimento della morte fisica. Chi ha paura e disgusto della morte dimostra di essere un « amante del corpo» e non della sophia. Dimostra di non aver capito nulla di ciò che la meléte e l' epiméleia, l' « esercizio » e la «cura » raccomandati da Socrate permet­ tono di conseguire. Chi, durante l'esistenza fisica, ha sperimentato quella condizione autonoma dell'anima concentrata e separata, acquista una fi­ ducia, o meglio una certezza. L'anima sopravvive al corpo. L'anima conti­ nua a vivere dopo la fine e lo scioglimento definitivo dall' involucro soma­ tico. Per questo Socrate non è affatto turbato di bere la cicuta. Si attende di « raggiungere gli dei» e, come egli stesso dice, è pronto ad « affermarlo con forza » (Fedone, 63 b-e). Una « forza » che deriva, appunto, dalla sua personale esperienza in quel continuo «esercitarsi a morire ». L'anima è, dunque, immortale. Ma il persistere della psuché non ha un unico significato o meglio non designa una condizione univoca. Non tutte le anime sono "immortali" allo stesso modo. Non tutte le psuchdi condividono e godono, dopo il distacco dal corpo, del medesimo stato.

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LA VIA DEGLI DEI

La differenza sta nel modo in cui ogni singola anima si è preparata a quel passaggio, dalla relazione che ha intrattenuto con il piano somatico, dal «regime » che ha seguito durante la vita. Gli amanti della sapienza non sono interessati a un generico persistere, ma a uno stato in cui l'anima conservi una certa dunamis, una certa «potenza» e un'attiva capacità di «pensiero» (Fedone, 70 b). In più punti del dialogo il Socrate platonico insiste nella specificità di quanto perseguono «quelli che davvero (a/ethOs} amano la sapienza» : i «veri filosofi » operano mirando a una specifica forma di persistenza e a un determinato livello dell'essere (Fedone, 64 a-b, 67 e, 68 b). Socrate si richiama all'ambito dei misteri, alle pratiche e ai saperi drrhe­ toi, « segreti» e «indicibili » , esplicitando - ave fosse ancora necessario che l' « esercizio di morte » non è che una declinazione e uno sviluppo del pathos proprio dell'esperienza iniziatica: « Coloro che istituirono i riti misterici non erano certo gente da poco, anzi, da tempo, ci dicono, in for­ ma di enigma, che chiunque vada nell'Ade senza essere iniziato giacerà nella melma, mentre chi vi arriva dopo la purificazione e l' iniziazione avrà dimora tra gli dei. Infatti, come ripetono gli iniziati "molti sono quelli che portano il tirso, ma di Bacchi ce ne sono pochi". E questi ultimi, a mio parere, sono quelli che hanno amato la sapienza come si deve » (Fedone, 69 c-d). Le parole e le immagini dei misteri sono un « enigma », un'espres­ sione allusiva e simbolica che dovrebbe essere colta per ciò che designa al di là del dato letterale. Il fango e le sedi divine, i premi e i castighi, i bivi e i trivi dell'oltretomba, i sentieri molteplici dell'Ade, l' intera articolazione tradizionale dell'aldilà non farebbero che indicare altrettanti stati dell'es­ sere, altrettante condizioni e forme di vita e di persistenza dell'anima. La melma rinvia al piano della materia, a uno stato di ottenebrata incoscien­ za. Quando si stacca dal corpo, l'anima "profanà' non sa che cosa le accade e dove si trova. Smarrita e ancora impregnata di impurità, rimane vincola­ ta all'erranza del divenire, all'opacità inconsapevole del corporeo, al ciclo dell'incarnazione: è cieca, passiva e trascinata da forze che non controlla e non conosce. L'anima "iniziatà', per contro, non «ignora affatto ciò che le sta succe­ dendo », è cosciente del proprio stato e del proprio piano di esistenza (Pe­ done, 81 a-b, 108 a-b). «Trascorrere il resto del tempo in compagnia degli dei », abitare in sedi celesti, non significa altro - come Socrate non manca di esplicitare - che attingere a un'assoluta pienezza d'essere, a uno stato stabile, incorruttibile e libero di puro pensiero : «Solo il vero amante della

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sapienza, solo chi si è separato completamente puro arriva al génos theon », perviene alla « specie » e alla « forma» degli «dei » (Fedone, 82 c-d). Solo i « veri filosofi>> - avendo praticato e operato fino in fondo in modo e con metodo adeguati la separazione - si trasformano in «Bacchi », in esseri divini, in intelligenze disincarnate. Tutti gli altri, tutti coloro che non han­ no inteso il senso della « filosofia » e dell ' « iniziazione » sono destinati a non ottenere alcun risultato, a non conseguire alcun compimento. Hanno ascoltato i discorsi della filosofia senza comprendere ciò che di conseguen­ za dovevano fare al di là delle mere enunciazioni teoriche. Hanno parteci­ pato ai riti e portato le insegne prescritte - come il « tirso» di Dioniso -, ma la loro è stata partecipazione esteriore e priva di impegno effettivo: la loro iniziazione, se pur c'è stata, è rimasta meramente virtuale. Ovve­ ro un'illusione che non conduce ad alcuna conoscenza e ad alcuna reale libertà, ma solo alla «melma» in cui - come diceva anche Eraclito - si avvoltolano i porci (Eraclito, fr. 13). Socrate spiega la propria disposizione dinanzi alla fine, la convinzione che una parte di sé continui a sussistere, la tranquilla fiducia in ciò che lo attende nel regno dell 'invisibile. Ma, come ricorda Ce bete, uno degli amici presenti nella cella, « molti uomini sono del tutto increduli e temono che l'anima, non appena si allontani dal corpo, non esista più in nessun luogo, ma si distrugga [ ... ] disperdendosi come soffio o fumo» (Platone, Fedone, 70 a). È difficile « credere » a ciò che Socrate e altri sapienti affermano sul­ la psuché. È arduo superare il « timore » di quel momento estremo in cui tutto sembra destinato a cessare. Si vorrebbe una prova, una « garanzia », che confermi la speranza di una vita che continua. Si vorrebbe qualcosa che incoraggi ad assumere, senza esitazioni, quella stessa postura, quella stessa serenità che Socrate dimostra, riempiendo di ammirazione e di stu­ pore gli astanti. C 'è ancora tempo prima che il giorno finisca e Socrate debba bere il veleno. C 'è ancora tempo per dialogare e per esaminare se sia « verosimile » o meno che l'anima sia immortale. Socrate e i suoi amici si impegnano a considerare, una dopo l'altra, una serie di argomentazioni a sostegno di quell'assunto. Nei processi della natura i contrari paiono generarsi l'uno dall'altro : l'accrescimento è una transizione dal piccolo al grande, il riscaldamento è un passaggio dal fred­ do al caldo. Lo stesso potrebbe accadere per il rapporto tra la vita e la mor­ te: i vivi divengono morti, ma, se la dinamica è sempre valida e reversibile, occorrerebbe anche ritenere che dai morti derivino i vivi in una logica di rinascita e di reincarnazione. Se la vita genera la morte, anche la morte

LA VIA DEGLI DEI deve generare vita, come per altri versi suggerivano i misteri. E ancora: ognuno possiede conoscenze innate che gli consentono di interpretare la realtà e di muoversi in essa, di comprendere i dati della percezione sensibi­ le e di rapportarli a contenuti già presenti nella mente. Se tali conoscenze non sono frutto di apprendimento, da dove derivano ? Forse il conoscere è un ricordare qualcosa che già si sapeva e si aveva dentro di sé da sempre, pur non essendone del tutto consapevoli: una «reminescenza » derivante da uno stato anteriore alla nascita, un sapere già acquisito prima dell'esi­ stenza attuale. Il che farebbe presupporre che l'anima preesista al corpo in cui si incarna: la psuché avrebbe goduto di un'altra vita, di molte altre vite, prima di entrare in quella particolare forma umana, in quell' involucro so­ matico in cui, nel presente, si manifesta. L'anima, inoltre, mostra di essere capace di cogliere la verità e l'essere, di entrare in contatto con il divino. Non potrebbe farlo se non possedesse una particolare affinità, una natura « congenere », con quegli oggetti, con quelle realtà superiori alla dimen­ sione sensibile. Se il divino e l'essere non conoscono alterazione e morte, anche l'anima, dunque, in ragione di tale affinità, dovrebbe essere ritenuta una sostanza «incorruttibile ». Un'ultima prova si potrebbe, infine, dedurre dalla teoria delle Idee, del­ le forme ideali, dagli archetipi eterni da cui il mondo sensibile è modellato e strutturato. Ogni idea è realtà in sé, immutabile ed eterna: non ammette di trasformarsi in altro o di coesistere, in uno stesso oggetto, insieme con un' idea che le è opposta. Se l'anima è, per il corpo, principio ed essenza di vita, se la psuché è determinata dall 'idea della vita, non è ammissibile che la sua natura partecipi contemporaneamente dell 'idea della morte. Non può che essere, solo e per sempre, vita. Nella cella i ragionamenti si susseguono e la discussione procede alla ricerca dell'argomento che si riveli più solido e fondato. Ma, passo dopo passo, emergono anche le obiezioni e le incertezze, la difficoltà di «con­ vincersi» che le cose stiano come i ragionamenti portano ad affermare. Socrate non riesce a « convincere» del tutto i suoi amici. Il discorso, certo, sembra « sano», coerente nelle sue premesse e nelle sue conclusioni (Fe­ done, 89 e-9 0 e), ma se ci si ingannasse ? Se, nonostante tutto, si rimanesse prigionieri di un semplice gioco di parole, di un artificio della ragione ? La prova che fa riferimento alle idee eterne parrebbe - per il modo in cui è svolta e per l'orizzonte ulteriore che implica - la più sicura e decisiva. Ep­ pure, anche di questa si potrebbe alfine dubitare. Tutto sembra saldamente articolato, ma l'esitazione rimane: «Non ho ragioni per dubitare dopo

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quel che si è detto - osserva Simmia quando Socrate ha terminato il di­ scorso sull'anima come essenza di vita -, ma la rilevanza della questione e la sfiducia che nutro per la debolezza umana (anthropine asthéneia) mi in­ ducono ad avere ancora diffidenza e incredulità intorno ai discorsi appena fatti» (Fedone, 107 a-b). L'uomo è cosa «debole» e fragile, priva di forza. Il suo linguaggio e la sua ragione si scontrano, continuamente, con limiti che appaiono invalicabili. La parola stessa è debole: l'essere può davvero venir detto da un discorso ? La verità - l' alétheia piena e assoluta - può essere provata con le armi e i procedimenti della razionalità? La debolezza umana è anche il sussultare continuo e incontrollato delle emozioni che, ogni volta, confliggono con quanto la ragione suggerisce: le affezioni e i desideri derivanti da quella corporeità che fa sempre « guerra » alla vita della mente (Fedone, 67 b-d). Gli amici di Socrate non riescono a non es­ sere afflitti, a non disperarsi per quanto sta per accadere. Non riescono - a dispetto dell'impegno profuso nella discussione - a non avere paura della morte. È questo forse l'ostacolo più grande che si oppone e fa resistenza alla persuasione: «Forse in noi - osserva Cebete - c'è un bambino spa­ ventato da queste cose. Prova dunque a dissuaderlo dal temere la morte come uno spauracchio» (Fedone, 77 e). «Noi » possiamo anche prestare fede al ragionamento, ma il « bambino» che ci abita si dibatte e arretra terrorizzato. Il « bambino» non è, in questo caso, immagine di un'inno­ cenza esultante e incontaminata da pregiudizi, quanto piuttosto il segno di un' immaturità, di un legame ancora troppo umano con il sensibile: è il "piccolo" che ancora non sa, che ancora si muove nel buio, senza alcuno spiraglio di luce. È la parte dell'anima che non si è ancora sciolta dai vin­ coli suadenti del corpo. «Questo bimbo - osserva di rincalzo Socrate - bisogna incantarlo ogni giorno finché non si sia placato» (Fedone, 78 a). Anche qui, come nel Carmide, l' epodé, l' incantesimo è prescritto come una pratica quotidiana, come la ripetizione instancabile di parole e di immagini, come l' iterazione di un determinato modo di usare il linguaggio e il confronto dialogico, al fine di ingenerare nell'anima quella disposizione che consente una reale assimilazione al divino e all' incorruttibile. Quello stato del tutto partico­ lare che fa scaturire, all' improvviso, al centro della psuché, una fiamma: la scintilla splendente di una verità indicibile che va oltre ogni nome, ogni figura e ogni argomentazione razionale, come Platone suggerisce nella sua Settima lettera (341 c-d). Ma finché quel fuoco non balza, occorre insistere nel sortilegio. Socrate

LA VIA DEGLI DEI esorta i suoi amici a non desistere. Anche dopo la sua scomparsa dovranno continuare a cercare e a esaminare, come egli ha insegnato loro. Il dialo­ go deve essere un lavoro incessante che occupa l' intera esistenza mortale. Forse non si perverrà mai a un'argomentazione davvero inconfutabile che chiuda il discorso. Ma quel che conta non è tanto l'esito discorsivo - la conclusione logica degli argomenti - quanto piuttosto l'effetto che la pra­ tica gradualmente produce, sciogliendo l'anima dai suoi vincoli e avvici­ nandola a dimensioni ulteriori. Nella pratica "incantatorià' si sviluppano !Ogoi, «discorsi », verifican­ done la tenuta e la plausibilità. Si ragiona e si discute delle opinioni e delle ipotesi che vengono formulate. Ma, accanto all'esame dei logoi, vi è anche l'ascolto di racconti tradizionali: il risuonare suggestivo dei miti. Dopo tutti i tentativi di provare l' immortalità dell'anima, Socrate indugia nell'evocazione degli spazi dell 'aldilà, di ciò che sta oltre la terra abitata dagli uomini. Attingendo a credenze e a motivi antichi, egli dipinge una complessa rappresentazione del cosmo, con i diversi luoghi cui le anime sarebbero destinate: la voragine del Tartaro, la palude dello Stige, le spirali dei quattro fiumi infernali, il ribollire impetuoso di fango e fuoco, ma an­ che, ali'estremo opposto, al di sopra del cielo, la purezza di un luogo felice che riluce di colori smaglianti e di bellezze incomparabili. Dopo essersi ampiamente diffuso nella descrizione, Socrate osserva: «Affermare con forza che le cose siano così come le ho raccontate, non si addice certo a un uomo intelligente, ma che siano così o in modo simile [ ... ] dal momento che l'anima appare immortale, conviene e vale la pena, mi sembra, correre il rischio di crederlo, perché questo rischio è bello. E bisogna incantare noi stessi con queste cose. Per questo da tempo mi dilungo nel racconto» (Platone, Fedone, 1 1 4 d). Il mito è kundinos, «pericolo », «rischio» : non può essere preso alla lettera né confuso con l'assoluta verità. Sarebbe da sciocchi e da ingenui pensarlo. E tuttavia il mito « conviene » all'anima: le è utile, le serve, per orientarla a trovare sé stessa. La bellezza del rischio cui il mito espone sta tutta nell'orizzonte che il racconto lascia intravede­ re, nelle possibilità che apre a chi si lasci incantare. Non si tratta di cre­ dere, ma di condurre, per così dire, un esperimento. Si tratta di utilizzare discorsi e miti come strumenti di un sortilegio che porta la vita al di là di sé stessa. Non solo la parola del mito, ma ogni parola umana è, nella sua sostanza, arrischiata e pericolosa. Anche le prove dell 'immortalità sono kundinos, come le reazioni degli interlocutori di Socrate suggeriscono. Ma «vale la

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pena », in ogni caso, «dilungarsi », protrarre fino alla fine l' incantamen­ to, come Socrate mostra senza esitazioni. Il valore di quelle parole, il valore dei !Ogoi e dei muthoi non riposa in quanto essi dicono, ma nell'esperienza che conducono a fare. Solo il compiersi dell'esperienza offre quella con­ ferma e quella realizzazione che le parole non possono, in alcun modo, dispensare. Socrate ha bevuto la cicuta e si è coricato, coprendosi il volto. Il suo corpo sta divenendo progressivamente freddo e insensibile. Sembra tut­ to finito. Ma all'ultimo momento si scopre per raccomandare a Critone di sacrificare un gallo ad Asclepio, il dio della medicina (Fedone, u8 a). I discorsi pronunciati nella cella sono « sani » : sono veri e capaci di ingene­ rare salute in chi li ascolti. Adesso, sulla soglia tra la vita e la morte, tra il piano della manifestazione e il mondo immanifesto, Socrate sa, ha visto: ha provato, con tutta la sua psuché, ciò che nessuna parola può provare. La sua conoscenza è ora completa e indefettibile. A chi ancora non sa e non ha provato non resta che continuare nell' «e­ sercizio» . Con le pagine del Fedone e dei dialoghi platonici, in cui Socrate, il grande « mago » e «incantatore » , fa risuonare le sue parole e dispiega i suoi gesti. La scrittura di Platone, la scrittura dei sapienti, non è che un prolungato sortilegio della mente: un incantesimo che medica l'anima, re­ stitu endola a sé stessa.

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Misteri d'amore Tra Platone e Apuleio

Per sempre

Nella casa del giovane e affascinante Agatone, un gruppo scelto di amici si riunisce per celebrare un simposio. Vogliono festeggiare la vittoria che il padrone di casa ha appena conseguito alle Grandi Dionisie di Atene con le sue tragedie. Agatone è stato premiato per la sua arte e per la sua sapienza di poeta. E il simposio che si svolge nella sua dimora è, a sua volta, uno spettacolo di raffinata sapienza. Dopo cena, infatti, i convitati decidono di intrattenersi tra loro parlando d'amore. Ognuno, a turno, pronuncerà un discorso per onorare Eros, per lodare i doni e le opere di questo dio e di questo sentimento che abita nell'anima dell'uomo. Ognuno, in base alle proprie conoscenze e alla propria esperienza, tenterà di offrire un' immagi­ ne dell 'amore, di dire quale sia il suo valore e come esso si manifesti nella vita dei mortali. Mito e poesia, etica e medicina, retorica e scienza si susse­ guono e si intrecciano da un intervento all 'altro. I discorsi dei simposiasti fanno riferimento alle parole e ai saperi, ai codici morali e alle elaborazioni teoriche che risuonano nella città. Sono una sintesi tanto efficace quanto sofisticata di ciò che un 'élite intellettuale pensa ed esprime in materia "ero­ ticà'. Modelli e prospettive articolati da soggetti che la polis di Atene sti­ ma e riconosce per le proprie specifiche competenze e per la propria arte. L' intervento di Socrate, a uno stadio avanzato della serata, produce uno scarto e trasporta la conversazione letteralmente altrove. Ai linguaggi e alle conoscenze dei suoi interlocutori, egli oppone un discorso che rimette implicitamente in questione l'effettiva sapienza di quanto è stato fino a quel punto pronunciato: ciò che la città e i suoi intellettuali sostengono e dicono è davvero adeguato e rispondente alla natura dell 'amore ? Socrate non propone una propria personale teoria, non articola una sua opinione, dopo le molte che sono state proposte, ma si limita - o così almeno affer­ ma - a riferire il contenuto di un insegnamento che gli è stato trasmesso.

LA VIA DEGLI DEI Tempo prima aveva avuto la fortuna di incontrare Diotima di Mantinea, una donna sapiente in cose sacre e in purificazioni. Una donna provenien­ te da quella regione dell'Arcadia che custodiva tradizioni e riti di remota antichità. Il suo nome e quello della sua città evocano, per altro, pregnanti associazioni. Diotima è DùJs timé, « onore di Zeus » , quasi che la figura e il potere del signore degli dei si rispecchiasse nella figura di quell' au­ torevole sacerdotessa. Mantinea richiama mantéia, la «divinazione », la conoscenza che, procedendo al di là del visibile, penetra negli arcani della vita e dell'essere. Per un lungo momento quella conversazione sapienziale diviene presente nella sala di Agatone. La voce di una donna, che conosce il divino, si materializza in uno spazio di soli uomini che parlano i linguag­ gi e i codici della comunità politica e della cultura condivisa. Ecco dunque la scena che il Simposio platonico evoca con uno sfon­ damento di prospettiva. Diotima istruisce Socrate e, dapprima, lo puri­ fica dalle concezioni erronee che nutre a proposito dell' éros. Una catarsi di tutte quelle idee correnti e comuni che gli uomini sogliano ripetere a proposito dell'amore, perché così sono stati educati a pensar!o e così lo hanno sempre sentito descrivere. Tutti, certo, fanno esperienza dell'a­ more. Tutti sono turbati e trafitti dalla bellezza che accende il desiderio. Tutti hanno inteso storie di innamorati, voci poetiche che descrivono gli effetti dell'amore, regole e norme per configurare e stilizzare i propri af­ fetti. Ma che cosa davvero si desidera quando si desidera ? Che cosa si cela al fondo dell'amore ? Diotima suggerisce che al cuore dell' éros via sia, in realtà, l' irresistibile ricerca dell' aéi, del « sempre » , la passione e l'anelito dell' «eterno». Possedere il « bene » per sempre, che il « bene » sia per sempre presente e inerente al soggetto: è questo il segreto della felicità, è questo che ognuno vuole, ne sia consapevole o meno nel momento in cui vive l'esperienza del desiderio e sia squassato da pulsioni irresistibili che lo spingono alla conquista di un oggetto d'amore. E vi è una prdxis, un'a­ zione, con cui si esplica e insieme si persegue il desiderio dell' aéi. L'unico modo di realizzare il « sempre » , di conseguire un possesso che duri al di là degli angusti limiti temporali dell'esistenza mortale, è l'atto del generare. L'amore, alla sua radice, è un partorire, un creare che vuole eccedere l'ef­ fimero e il transeunte (Platone, Simposio, 206 a-d). Si genera « secondo il corpo» ed è ciò che i più fanno quando sono spinti, dal desiderio, all'unio­ ne sessuale. Si partoriscono figli che vivranno dopo i loro genitori. Nella dimensione del corpo, l' aéi è la continuità della specie, la prosecuzione della stirpe, la discendenza familiare che perpetua, per eredità genetica,

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caratteri, attitudini e tratti fisici. Ma c 'è anche una generazione « secondo l'anima», una capacità creativa della mente che si estrinseca in azioni e opere. Si partoriscono imprese mirabili, atti eccezionali, come mostrano le vicende degli eroi e delle eroine del passato, che hanno sacrificato sé stessi per conquistare una gloria eterna: imprese che restino inscritte nel­ la memoria dei posteri e facciano risuonare per sempre il nome di coloro che le hanno compiute. Si partoriscono opere di poesia e di scienza, arti e tecniche, forme e ordinamenti della politica: Omero ed Esiodo in campo letterario, Licurgo e Salone nell'ambito legislativo ne costituiscono ful­ gidi quanto tradizionali esempi. Si creano saperi, parole e immagini che durino al di là della scomparsa dei loro autori, che costituiscano un lascito fondamentale per tutte le generazioni a venire. Tanto per il corpo quanto per la mente, l'amore è sempre e comunque - conclude Diotima - tensio­ ne all'athanasia, all' «immortalità » (Simposio, 2.07 a, 2.08 c-209 d). La felicità è diventare immortali nell'azione creativa di cui ognuno è capace secondo il proprio talento e la propria natura: « il concepimento e la gene­ razione sono opera divina e immortale per il vivente destinato a morire» (Simposio, 206 c). Quando si è innamorati, si è colpiti e toccati da qualcosa o da qualcuno che appare bello. Lo si cerca in ogni modo, si vuole la sua prossimità e la sua compagnia. Ma perché questo ? Quale relazione c 'è tra il bello e la prdxis che costituisce lo specifico dell'amore ? La bellezza è come Ilizia, la dea che presiede e favorisce i parti. La bellezza è il mezzo, il particolare sta­ to di eccitazione e di esaltazione che consente il processo della generazio­ ne. Un corpo bello è stimolo al coito e alla riproduzione sul piano fisico. Ma anche l'atto creativo della mente ha bisogno assoluto della vicinanza della bellezza. «L'essere che è gravido - aveva spiegato la sacerdotessa -, quando si accosta al bello, si rallegra, gioisce, si effonde e si spande e così partorisce e genera. Ma quando è vicino a qualcosa di brutto, si incupisce [ ... ] si contrae, si ritorce e si ravvolge su sé stesso, e così non genera, ma sof­ fre trattenendo in sé ciò che ha concepito. Questo spiega, per l'essere che è gravido e già turgido, quell'eccitazione per il bello che libera da doglie atroci>> (Simposio, 2.06 d-e). Tra corpo e mente vi è una dinamica parallela, ma anche una differenza per nulla marginale. Nell'unione fisica dei sessi, del maschio e della femmina, vi è un atto di fecondazione che consente il concepimento, lo sviluppo della gravidanza e quindi il parto. Vi è un maschio che, per attrazione della bellezza, ingravida un ventre femmini­ le. Sul piano della mente - come già si era visto nel dialogo tra Socrate e

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LA VIA DEGLI DEI

Carmide - l'anima è gravida di sé stessa. O meglio si feconda da sola, si ingravida del proprio seme. Per effetto del turbamento intenso prodotto dalla bellezza e sempre grazie a esso, si sgrava infine del proprio frutto, portando a termine la propria particolare gravidanza. L'anima è femmina e maschio. Diotima non esplicita tale androginia - che costituisce l'effet­ tivo segreto della creazione psichica - ma le sue parole mostrano un' im­ plicita oscillazione e un'allusività alla fusione dei generi in uno. « Genera­ re » si dice usualmente, senza particolari implicazioni, sia dell'uomo che della donna. « Concepire », «portare in grembo», « avere le doglie » e «partorire » sono, per altri versi, atti inequivocabilmente pertinenti alla polarità del femminile. Ma «contrarsi », « essere turgido », « spandersi » a quale anatomia, per così dire, si ascrivono ? Al ventre o al fallo ? Al parto o all'effusione seminale ? Il "corpo" dell'anima è, in realtà, l'uno e l'altro. È questo che la sacerdotessa vuoi far cogliere a Socrate. Un uomo ha bisogno di una donna, di una donna sapiente, per comprendere che la sua anima non è solo cosa maschile. Correggendo la prospettiva del suo "allievo", Diotima cerca di spiegare a Socrate quale sia l'essenza e la vera « opera » dell 'amore, nel duplice pia­ no su cui essa si compie. Nel suo articolato e suasivo discorso, a un certo punto, ricorre anche al linguaggio psicagogico del mito, raccontando la nascita della figura divina che quel desiderio incarna e rappresenta. Con un ulteriore spostamento rispetto alla vulgata comune. Eros - afferma non è propriamente un dio, come molti sostengono, ma è un «demone grande », frutto dell 'unione di Penta e di Poros, di «Povertà » e di « Ri­ sorsa » (Simposio, 203 b-e). La sua natura condivide l'eredità di entrambi i genitori. Per parte di madre, Eros è sempre mancanza, vuoto e ricerca perenne di un bene che ancora non si possiede. Ma, per parte di padre, è inventiva feconda di mezzi, capacità di muovere alla conquista, facoltà di trovare la via che conduce alla meta, determinazione ferma e astuzia sovrana nel dare la caccia al proprio bene. Per questo non è mai statico e immobile, ma sempre in movimento e in oscillazione tra polarità opposte: è il supremo metaxu, ciò che sta «in mezzo », l' «intermedio » dinamico tra natura mortale e natura immortale. È il moto continuo che mette in comunicazione e congiunge cielo e terra, uomini e dei. È il passaggio tra gli uni e gli altri (Simposio, 202 b-203 a). Un dialogo preliminare per saggiare l' interlocutore e liberar!o da opi­ nioni infondate, un lungo discorso esplicativo sull'essenza e sulla vera « opera » dell 'amore, la suggestione di un racconto mitico. Così si svolge

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la prima parte dell' insegnamento che Diotima impartisce al suo "allievo", ricalcando la sequenza iniziale di un percorso misterico. Purificazione, istruzione sui contenuti essenziali dell'esperienza, trasmissione di un mito fondante sono, infatti, gli elementi previsti per il primo livello dell' inizia­ zione ai misteri di Eleusi, il grado che si designa con il termine muesis. Ma Socrate sarebbe in grado di procedere oltre ? «Fino a questo punto dei mi­ steri d'amore - osserva Diotima - anche tu, Socrate, potresti essere forse iniziato (muethéies) , ma al grado supremo della visione (télea kai epoptikd), non so se saresti capace. Comunque te ne parlerò [ ... ], tu cerca di seguirmi, se puoi » (Simposio, 210 a). Al di là del dubbio sulle qualificazioni di Socrate, la battuta della sacer­ dotessa non fa che sottolineare - se ve ne fosse bisogno - la natura pretta­ mente iniziatica della via che ella sta indicando. Una via difficile in cui solo pochi giungono al compimento ultimo dell' epoptéia, della « visione » . Una via in cui pochi riescono a transitare davvero dall' iniziazione virtuale, co­ municata attraverso le parole di un insegnamento o l 'esecuzione di un rito, a una realizzazione perfetta. La maestra d'amore, che Diotima incarna, mostra che il percorso è, nella sostanza, un' andbasis, un'ascesa progressiva in cui è essenziale procedere « nel modo giusto», «correttamente », pas­ sando da un gradino all'altro senza salti e senza incoerenze. Meglio se gui­ dati e condotti, per mano, come si fa con un fanciullo inesperto, da chi già sa, da chi è già giunto al termine di quell'esperienza. Da un certo punto di vista, educazione e iniziazione fanno un tutt'uno poiché - come Diotima sottolinea - bisogna cominciare il sentiero sin dalla prima giovinezza, in quell'età in cui si comincia a sperimentare l'attrazione fisica per la bellezza con tutto ciò che essa comporta. «Si va », si è portati naturalmente verso i « corpi belli » . Dapprima, bisogna amare un « corpo solo» e farsi ispirare dalla sua bellezza. Bisogna, nella cornice di questa prima relazione a due, provare che cosa sia quell'affezione, sentire fino in fondo il desiderio per quel bel corpo che sembra l'unico e il più amabile in assoluto. È un'espe­ rienza necessaria per comprendere quali doni l'amore possa dispensare, un passaggio obbligato per cominciare a generare quei « bei discorsi » che la passione suscita nella mente. Ma, subito dopo, si dovrà comprendere che la bellezza di un corpo è « sorella » di quella di un qualunque altro: identica è, in verità, la bellezza che in essi riluce e di cui essi partecipano. Se si è attratti dalle belle forme si dovranno, allora, amare tutti i corpi belli e non più uno solo. Il che non significa abbandonarsi a una disposizione dissoluta, ma ampliare i confini della percezione per distaccarsi. Si tratta

LA VIA DEGLI DEI di liberarsi dagli attaccamenti eccessivi ed esclusivi, dalla schiavitù di un desiderio che si appunti ossessivamente su un unico corpo, su un unico oggetto fisico. Una volta che tale affrancamento si sia prodotto, sarà più agevole per­ cepire la bellezza che, al di là dell'aspetto visibile, c'è nelle anime. E allora si amerà in modo ancora diverso, divenendo sensibili alle qualità interiori e volgendo il proprio desiderio verso di esse. Allontanandosi dalla mate­ rialità dei corpi e dal possesso fisico, lo sguardo si amplierà ulteriormente e, compiendo una serie di transizioni, diverrà capace di scorgere la bellezza che si dispiega nelle diverse « attività » degli uomini, nei prodotti del loro agire virtuoso, nell'ordinata armonia delle tradizioni e delle leggi e infine nell'articolato e immateriale dominio delle scienze. Da un gradino all'al­ tro, la visione si fa sempre più estesa e più libera da ogni limitazione parti­ colare. È come contemplare una superficie sempre più vasta, guardare un mare sconfinato, spingendo lo sguardo sempre più lontano ad abbracciare la linea dell'orizzonte. Non c'è più alcun legame, non c'è più alcun asservi­ mento che vincoli a un unico oggetto o a un'unica pratica, quale che sia il suo specifico valore. È la conquista di una sovranità che coglie rutta la bel­ lezza possibile del mondo dell'uomo e della natura del cosmo. Ma essere capaci di contemplare questa magnifica estensione, questo « grande mare del bello » significa anche acquisire, passo dopo passo, la facoltà di genera­ re discorsi sempre più belli e splendidi, di partorire pensieri « magnifi c i », sostenuti da un amore della sapienza che non ha più confini (Simposio, 2.10 b-2.II c). Al di sopra di tale visione che coglie e insieme produce molteplici bel­ lezze, vi è tuttavia un ultimo gradino cui ascendere, un ultimo e definitivo piano da raggiungere. Il télos, il compimento dei misteri d'amore si realizza quando, «all ' improvviso>>, l' intuizione sottile si accende e gli occhi della mente divengono capaci finalmente di «vedere » quella bellezza « meravi­ gliosa » e indicibile cui tutte le fatiche e i travagli della via erano sin dall' i­ nizio indirizzati. È la bellezza assoluta, eterna e incorruttibile, della quale non si può dare descrizione o rappresentazione alcuna. Bellezza in sé e per sé, di cui ogni altra cosa bella - corpo, attività o sapere - è partecipazione e riflesso. Bellezza divina che si conosce - se di conoscenza si può parlare solo nel prodursi di quell ' istantanea accensione, in quel vedere al di fuori del tempo e dello spazio, in quell' inesprimibile contatto che è un «essere insieme», un « essere uniti» a ciò che è puro essere. Lì, in quel punto, in quel momento senza dimensione, la vita acquista un altro sapore e un

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altro valore: «Quello - dice Diotima - è per l'uomo l' istante della vita che merita, se mai ve n'è un altro, di essere vissuto». Anche chi tange quel traguardo, anche chi perviene a quell 'istante, genera e partorisce. Ma il prodotto del parto non è più costituito da discorsi, da pensieri o atti, come negli stadi precedenti. Quel che «lì » si genera è areté, eccellenza e valore assoluti, come tratti propri del soggetto che ha raggiunto il télos: «Lì egli partorirà vera areté [ . ] perché è a contatto con la verità. E chi ha partorito e allevato vera areté ha la possibilità di diventare caro agli dei e immortale (athdnatos), se mai ad altro uomo è dato», conclude Diotima (Simposio, 2.12. a). Nell'incontro con la bellezza divina è la vita, dunque, che si compie e si realizza al suo massimo grado, con il superamento del limite fisico della morte. Contemplando e «toccando» la bellezza in sé - semplice, unifor­ me e immateriale - l'uomo partorisce la propria indefettibile perfezione, trasformando sé stesso in una natura «immortale ». Il compimento del generare non consiste nella continuità della specie attraverso i figli o nella persistenza della gloria individuale attraverso opere memorabili. La supre­ ma generazione è l' autogenerazione del soggetto che "si partorisce" e "si alleva" nella dimensione dell' aéi, del « sempre ». È questa la vera «opera » dell'amore. È questa la più preziosa gravidanza che l'anima, sapientemente incinta, dovrà portare a termine per vivere tra gli dei. L'amore del bello è ciò che, più di ogni altra cosa, aiuta l 'uomo a "essere': ..

Nel prato di Pan

Dal Simposio al Fedro, la scrittura platonica insiste nell'intrecciare il pa­ thos e gli effetti dell'amore con i simboli e con le cifre dei Misteri. Vivere e comprendere la forza dell' éros richiede un' iniziazione che si svolge con metodo, secondo una gradualità di fasi e di transizioni. Alla verità dell'a­ more ci si inizia o si viene iniziati, per poi scoprire che la potenza dell ' éros è la chiave stessa di quella realizzazione e di quel compimento. Riuscire a cogliere la natura profonda dell'amore coincide, in atto, con la trasfor­ mazione della propria natura. È un unico e medesimo movimento. Se nel Simposio l ' insegnamento sapienziale echeggia tra le pareti di una casa, nel­ lo spazio raccolto di una conversazione serale, il Fedro traspone e prosegue l' indicazione della via iniziatica in un contesto en plein air, nell'aperto luminoso di luoghi impregnati da un'aura potente. Il testo non offre una precisa determinazione temporale, ma i particolari che contrassegnano la

LA VIA DEGLI DEI scena suggeriscono che tutto si compia in un giorno d'estate, sotto il segno del Leone, quando il fuoco solare brucia con la sua massima intensità. E non potrebbe essere diversamente se l'amore è il fuoco che la conversazio­ ne iniziatica deve far ardere. Tutto inizia con l'entusiasmo del giovane Fedro, appassionato di reto­ rica. Egli ha da poco ascoltato un'orazione di Lisia, un erotikds logos, un «discorso sull'amore », brillante e suasivo, con il quale l'oratore vorrebbe sedurre un ragazzo per mezzo di un'argomentazione ingegnosa e origina­ le. Colpito dalla bravura dell'autore, Fedro è in piedi dalla prima mattina a ripetere i passaggi del cesto, per mandarli a memoria e saperli a sua vol­ ta recitare. Ma, dopo tanto esercizio al chiuso, ha deciso di ritemprarsi facendo una passeggiata: una pratica salutare, secondo i consigli del suo amico Acumeno, rinomato medico di Atene. Mentre è per via, si imbatte in Socrace e subito lo invita a unirsi a lui per una breve sortita fuori porta. A dire il vero, Socrace non ama uscire dalle mura della città: gli piace aver sempre gente intorno con cui dialogare, stare in luoghi frequentati dove c 'è sempre qualcosa di nuovo da ascoltare e da discutere. Gli spazi solitari e silenziosi non lo attraggono affatto. Ma Fedro ha l'esca opportuna per vin­ cere questa resistenza: lo incuriosisce accennandogli al discorso di Lisia e gli promette di fargliene parte. Il giovane, in realtà, non vede l'ora di poter continuare il proprio esercizio, ripetendo a qualcuno quanto ha ascoltato e appreso. Socrate, tuttavia, non carda a scoprire che Fedro porta con sé, nascosto sotto il mantello, il discorso stesso di Lisia. Tanto vale leggerlo in­ sieme piuttosto che fare da pubblico alle esercitazioni del giovane. Il cesto dell'orazione - osserva scherzosamente Socrate (Platone, Fedro, 230 d) ­ si è rivelato, nell'occasione, un phdrmakon efficace: un «rimedio», una «pozione », che ha l' immediato potere di fargli superare la riluttanza a passeggiare in campagna. Per conoscere quel discorso sull'amore Sacra­ te sarebbe pronto, come un docile asino allettato dal cibo, a seguire Fe­ dro per tutta l'Attica. Conoscendo l'ironia socratica viene tuttavia subito da chiedersi: quel phdrmakon sarà davvero salutare, come la passeggiata suggerita dal medico, o non risulterà piuttosto « tossico» per chi lo legge e chi lo ascolta? Il discorso di Lisia, che ha così rapito ed entusiasmato Fedro, avrà un benefico effetto sull 'anima o non risulterà piuttosto una droga inebriante e nociva? Nel frattempo, i due amici attraversano una delle porte di Atene e pro­ seguono lungo il corso dell ' Ilisso che bagna la pianura antistante alla città (Fedro, 29 d ss.). L' itinerario scelto dalla scrittura platonica non è affatto

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casuale poiché proprio sulle rive di quel fiume, presso il santuario di Agra, si celebrano i Piccoli Misteri, dedicati ali' infera Persefone e a Dioniso cra­ nio. Come le fonti letterarie e i dati archeologici segnalano, l'intera piana è, peraltro, costellata di altari e di santuari. Insieme alla figlia di Demetra e a Dioniso, le figure e le potenze di numerose altre divinità aleggiano, in­ fatti, nell 'area, con i luoghi di culto a esse dedicati: la vergine e casta Arte­ mide, signora degli animali e della natura in contaminata, l'aurea Afrodite, dea del desiderio amoroso e della copula, il venerando Poseidone, signore delle acque, il benefico Asclepio, dio della medicina. Il corteggio stesso delle Muse, venerate con l'epiteto locale di Ilissidi, è presente nella pianu­ ra, presso l'altare a esse consacrato. E anche le Muse sono, per certi versi, figure di sapienza arcana: «Si chiamano Muse per il fatto che esse iniziano (muein) gli uomini, rivelando loro cose mirabili e di grande valore » e il loro insegnamento «non differisce affatto dai Misteri », come Diodoro Siculo (Biblioteca, 4,7 ) e Fazio (Biblioteca, 2.79 ) affermano riportando opi­ nioni antiche. Dal dominio della morte ave regna Persefone alla parola ispirata cui presiedono le Muse, un ricco plesso di simboli e di archetipi abita, dunque, lo scenario in cui il dialogo conduce Socrate e Fedro. Al­ cuni di essi rimangono impliciti, altri sono richiamati dalle osservazioni stesse dei due amici che si guardano attorno durante il cammino e nella successiva sosta. Tutto ciò che essi si apprestano a dire risuona nel campo di forza di uno spazio sacro la cui influenza non mancherà di agire sui loro discorsi. La campagna fuori dalle mura non è affatto muta o priva di po­ tenza ispirativa, come Socrate, inizialmente, affettava di temere. Strada facendo, Fedro si rammenta del mito di Orizia, che la tradizione ambientava presso l ' Il isso: «nel punto in cui si passa il fiume in direzione di Agra, là infatti c'è un altare di Borea », precisa Socrate (Platone, Fedro, 2.2.9 c). In un giorno lontano, Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene, stava giocando - come fanno le fanciulle in quell 'età spensierata - nel prato tra il fiume e le rocce, insieme all 'amica Farmacea quando, all ' improvvi­ so, Borea, dio del vento, pieno di desiderio, venne a rapida, avvolgendola nel suo turbine impetuoso. Una vergine che scompare, preda dell'amore prepotente di un dio che la strappa alla sua vita per portarla in un altro­ ve remoto, per farla sua sposa. In questo, l' innocente Orizia assomiglia a Persefone di cui, poco lontano, si celebrano i rituali misterici. Desiderio, violenza, sparizione sono elementi di storie analoghe che alludono all'ac­ cesso a una diversa condizione, al passaggio a un mondo divino. Il vento rapisce e feconda, vivifica e uccide. Il suo soffio, che squassa ogni cosa, è

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forte e invincibile come la pulsione del desiderio. Il vento, che scorre libero nel cielo, attraversa anche le profonde cavità della terra, gli spazi inferi ove si celano le potenze della vita e della morte. Il corpo di Borea termina con le spire di un serpente, l'animale ctonio che sempre rinnova la sua pelle. Nell'antro omerico di ltaca, commentato da Porfirio, il gelido soffio di Bo­ rea è legato - come si è visto - alla generazione e alla discesa delle anime nel cosmo sensibile. Dalla storia riaffiorata, quasi incidentalmente, alla mente di Fedro, altre suggestioni vengono, dunque, ad aggiungersi all'atmosfera in cui è immer­ sa la passeggiata: effetti, per così dire, subliminali, risonanze e latenze che, dallo spazio circostante, riverberano sul pensiero, disponendolo in una de­ terminata condizione. Fedro si pone anche l'interrogativo se quel « mito sia vero » . Come bisogna accogliere quelle antiche storie ? Si può essere, in qualche modo, «persuasi » da quanto raccontano ? Vi sono « sapienti » , o presunti tali, che s i applicano - replica Socrate - a elaborare sottili in­ terpretazioni dei miti nel tentativo di coglierne, appunto, la verità sottesa (Fedro, 229 c-230 a). Si tratta, di fatto, di razionalizzazioni che spogliano le storie delle loro apparenti inverosimiglianze, riportandone il contenuto alla misura del senso comune e ai termini di una supposta congruenza con la realtà oggettiva: Orizia potrebbe essere semplicemente caduta da una rupe a causa di una folata di vento. La morte accidentale della principessa ateniese si sarebbe poi mutata nella «diceria » di un misterioso quanto fantastico rapimento del signore dei venti. Una scienza del mito, eserci­ tata con tali intenti e con tali esiti, appare a Socrate alquanto « rozza » e «grossolana>>. Per quanto lo riguarda, meglio attenersi semplicemente a quanto viene tramandato, meglio «prestare ascolto alla tradizione dei miti », così com'è, senza volerla trasformare in altro e senza sottoporla a sofistiche riletture. Voler spiegare il mito sarebbe, per altri versi, un'inutile perdita di tem­ po rispetto al ben più urgente compito di conoscere e indagare sé stessi. Perché discutere il mito quando, sul piano soggettivo, non si sa affatto che cosa si è? Quando si ignora se la propria natura corrisponda alla fumante ferocia di un mostro o alla serena semplicità di un essere partecipe del di­ vino ? La conoscenza di sé è il lavoro primario, ma le obiezioni di Socrate non implicano - come un' impressione affrettata potrebbe suggerire - che il mito debba essere accantonato o negletto. Ciò che Socrate contesta è il modo di accostarsi alle storie. Bisogna, certo, «esaminare » sé stessi, ma il mito, al pari di ogni altra espressione simbolica, non è cosa che debba

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO essere «esaminata ». Esso ha valore ed effetto solo se ci si lascia «persua­ dere» dalle sue immagini, se le si accoglie facendole vibrare nella mente. Nella scrittura platonica, è Socrate stesso a ricorrere al linguaggio del mito ogniqualvolta il suo discorso incontra la vita e la pulsazione dell'anima. Perché è proprio attraverso la particolare «persuasione » del mito che la psuché può vedersi e conoscere sé stessa, come nessuna spiegazione razio­ nale può fare. Il che spiega anche la saturazione di emblemi e di riferimenti sacri che punteggiano il paesaggio in cui Socrate e Fedro si addentrano. Tutto pre­ para e favorisce l'esperienza che essi dovranno fare. Anch'essi, come Orizia, saranno, in un certo senso, rapiti dalle potenze che albergano sull' Ilisso. Rapiti in un altrove, in un orizzonte diverso da quelli che si sono lasciati alle spalle, uscendo dalla città e dai suoi discorsi. Se il testo di Lisia è stato il phdrmakon che ha suscitato la passeggiata, il nome dell 'amica di Ori­ zia, Farmakéia forse inventato dallo stesso Socrate platonico, dato che non ve n'è altro riscontro - suona come un' indicazione allusiva e insieme ambivalente a quanto dovrà prodursi: il gioco con il discorso-phdrmakon di Lisia sarà presto interrotto - come fu interrotto il gioco di Orizia e Farmacea - dal vento rapinoso di un'ispirazione divina che aprirà la via ali' invisibile e ali ' immanifesto. Quel rapimento sarà un evento di morte, come ritengono coloro che immaginano Orizia semplicemente precipitata da una rupe ? Una morte provocata dal «veleno» del testo lisiano ? O si tratterà dell'acquisto di un altro piano di esistenza, come accade a chi si unisce a un dio ? Il ratto di Borea è l'evento che vincola l'anima alla ge­ nerazione e alla materia, facendola morire alla sua vita incorporea o è il passaggio necessario cui la psuché deve sottostare per adempiere al proprio destino e sapere quale sia la propria natura? Si potrebbe immaginare che Fedro, tutto preso a giocare con il discorso di Lisia, assomigli pericolo­ samente a Orizia: egli corrisponderebbe alla fanciulla che, trastullandosi con Farmacea, si espone al rischio di una fine funesta. Ma Socrate, per contro, potrebbe anche essere un Borea salvifico che sottrae Fedro a un gioco nocivo e privo di valore. Gli interrogativi restano sospesi, ma nel frattempo Socrate e Fedro hanno trovato un luogo ameno in cui riposare e intrattenersi al riparo dalla calura (Fedro, 2.30 b-d). E nuovi segni numinosi li circondano. Si fermano all'ombra di un enorme platano. Le sue foglie a cinque lobi ri­ cordano la forma di una mano umana, ma l'albero, per altri versi, presenta una particolare analogia con il serpente, poiché ogni anno rinnova la sua -

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corteccia così come il serpente muta la pelle. L'uno e l'altro sono simboli di quella perpetua rigenerazione della vita cui anche l'uomo aspira. Il pla­ tano è l'albero sacro di Elena, eroina della saga epica, ma venerata anche come una dea a Sparta e in Magna Grecia. Una dea associata alla sfera della luna crescente e decrescente nell'alterno ciclo della generazione. Creatura mortale o essere demonico, Elena è il simbolo stesso di una bellezza asso­ luta che trafigge gli occhi e il cuore. Una bellezza per la quale si è pronti anche a morire e a perdere ogni altra cosa. Elena è il nome del desiderio assoluto e insieme la cifra della distruzione e della perdita cui la passione può condurre. A lei e alle sue vicende Socrate stesso farà, poco più tardi, riferimento. Sotto al platano scorre l'acqua freschissima e cristallina di una fonte « deliziosa» che viene ad aggiungersi al fluire dell ' Ilisso. Attorno vi sono statue e immagini che fanno comprendere come l' intero luogo sia consa­ crato alle Ninfe e ad Acheloo. Le Ninfe, la polarità femminile e animica delle forze che agiscono nella natura germogliante. Creature benefiche per i doni e i poteri che sanno dispensare a chi sappia accostarle. Ma allo stesso tempo temibili perché aneh'esse, come il vento di Borea, possono strappare i mortali alla loro esistenza. Li attirano nel loro regno, come era accaduto a Ila inabissatosi nelle acque di una sorgente. Oppure ne catturano la mente, rapendola in un'illuminazione temporanea o in un delirio permanente. Acheloo, figlio di Oceano e Teti, che qui a esse si accompagna, è divinità delle acque fluviali e padre di fonti. È acqua che irrora e feconda la madre terra. Ma è anche potenza che travolge. In un giorno lontano, Acheloo si era innamorato della vergine Deianira e a tutti i costi voleva possederla. Per questo aveva lottato con Eracle, trasformandosi in toro mugghiante e in serpente dallo spaventoso sibilo. Dove si aggirano le Ninfe - tra acque e boschi, tra rocce e sorgenti - vi è sempre anche Pan, il loro eterno insidiatore. La sua presenza non sfugge a Socrate che, per due volte, lo evoca (Fedro, 263 d; 279 b-e). Pan, figlio di Ermete e di una Ninfa, è il dio perturbante dal piede caprino e dalle orec­ chie appuntite, che, nella selva e nei prati, fa echeggiare il suono amma­ liante del suo flauto: il sibilo della « siringa » dalle sette canne che suscita uno stato singolare di esaltazione e di frenesia, invitando alla danza (Inno omerico a Pan, s-ro, 20-25, 39-43). Pan è costitutivamente duplice. Per un verso, appare tenero e morbido, come la pelle di lepre in cui fu avvolto da piccolo (la lepre lasciva e feconda, cara ad Afrodite). Ma, allo stesso tempo, è irsuto, ispido e selvatico, come il capro di cui ha le fattezze: è la pulsione

MISTERI n 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO prepotente di un fallo eretto, il nudo istinto che brama l'accoppiamento. Egli è la pulsione inflessibile della natura e insieme il terrore disgregante che si prova quando si è sommersi da essa, perdendo ogni controllo. Pan - come il suo nome stesso suggerisce - è il «tutto» dell'universo sensibile nel suo moto perenne e dinamico di forze. Come si afferma nel Crati/o pla­ tonico ( 408 b), egli è il tutto che « gira e si muove sempre » : tratto che ben si addice a chi è nato dal mobile e inafferrabile Ermete. Per neutralizzar!o e contenerlo bisogna forse avvincerlo stretto tra vimini di agnocasto, come, un tempo, aveva fatto Apollo per arrestare l' irrequietezza dello stesso Er­ mete bambino (Inno omerico a Ermete, 409-412.). L'agnocasto è, infatti, pianta che induce a uno stato di purezza e di serena castità o che, per altri versi, si connette alla passione temperata del matrimonio a cui presiede Era, dea dei legittimi connubi. Non a caso nel prato su cui Socrate e Fedro si adagiano, all'ombra del platano, vi è un agnocasto che spande il suo so­ ave profumo, quasi a bilanciare e a proteggere dall' irruenza delle potenze che albergano in quel luogo. La terra è comoda e accogliente con la sua distesa erbosa leggermente digradante. La fonte fa sgorgare placida la sua fredda corrente. Una brezza piacevole spira a moderare la vampa del sole estivo. Terra, acqua, aria e fuoco: i quattro elementi fondamentali del cosmo si intrecciano in una perfetta e seducente armonia che colpisce i due amici. Tutto è chdris, gra­ zia, incanto e piacevole meraviglia, che conquista e distende l'animo, su­ scitando un sentimento di serena gioia. Tutto, per così dire, è sinfonico e consonante per propiziare i discorsi di Socrate e Fedro. Sopra di loro svetta il platano frondoso, quasi a costituire una verticale simbolica, un asse che lega terra e cielo, completando il piano orizzontale della natura sensibile. Quel platano di Elena che è archetipo di una bellezza umana e insieme divina. Tra le foglie friniscono le cicale, che, secondo la tradizione, sono minime e ancelle delle Muse: quelle Muse Ilissidi che, poco lontano, fanno compagnia alla Persefone misterica. Gli spiriti divini della natura vegliano sulla scena, per il momento invisibili e silenziosi. Che cosa acca­ drà ? Come reagiranno i due appassionati di !Ogoi a questo paesaggio in cui ogni cosa è gioia dei sensi e insieme presenza sacra ? Un'osservazione si impone prima di seguirne gli sviluppi. Il paesaggio magico del! ' Il isso crea un forte contrasto con l'atmosfera che regnava nel­ la cella del Fedone. Là Socrate raccomandava di isolare l'anima da tutto ciò che è corporeo, di separarla, con ogni sforzo, dal turbine confuso della materia e del piacere per portar! a nell' immanifesto. Qui, invece, tutto è

LA VIA DEGLI DEI immerso in un incanto sensibile, nel rigoglio di una natura che si dispiega e si offre alla percezione della vista e del tatto, dell'udito e dell'olfatto. È qualcosa che si gusta con intensità. E sulla bellezza visibile le parole molto, ancora, indugeranno. Elena, Pan e le Ninfe non potrebbero volere altri­ menti. La differenza tra le due scene è così netta da poter apparire contrad­ dittoria o frutto di un ripensamento. In realtà, si tratta di due momenti di una stessa tecnica, di una medesima via. Occorre separare le componenti di un intero per paterne osservare le caratteristiche e le facoltà, occorre isolare gli elementi per paterne esaminare gli effetti e imparare ad agirli indipendentemente gli uni dagli altri. Ma, quando si abbia tale conoscen­ za e tale abilità, è possibile riaccostare le componenti per coordinarne, consapevolmente, i poteri e le risorse in direzione di un fine. L'anima che abbia conosciuto sé stessa può trarre dal corpo un'energia preziosa e indi­ spensabile al suo compimento. Non ha paura dell'energia e delle pulsioni della natura, ma è capace di armonizzarsi con esse, volgendole a proprio beneficio.

Dalla terra, oltre il cielo

Comodamente distesi, Socrate e Fedro possono finalmente attendere alla lettura che li aveva spinti ad addentrarsi nella campagna. Nel suo discorso Lisia sostiene che sia meglio, per un ragazzo, concedere i propri favori a chi non ama piuttosto che a un innamorato (Platone, Fedro, 2.31 a ss.). Chi ama ed è trafitto dalla passione sarebbe, infatti, fonte di infinite noie e danni per colui cui egli rivolga le proprie attenzioni. Gli amanti sono molesti e sostanzialmente inaffidabili. Smaniano per vedere soddisfatto il loro desi­ derio, ma assai spesso perdono ogni interesse per la persona che avevano tanto bramato e corteggiato una volta che ne abbiano goduto le grazie. Sono possessivi, gelosi e temono il confronto con altri. Per questo tendono a isolare il loro amato, lo vogliono tutto per sé e, in tal modo, lo privano degli amici e di ogni altra frequentazione. Ossessionati dal controllo, han­ no bisogno di sentirsi sempre in una posizione di superiorità e, per que­ sto, impediscono all'amato ogni occasione che egli abbia per maturare una propria autonomia o migliorare sé stesso. Gli amanti, ancora, si rivelano incapaci di quell'elementare discrezione che dovrebbe preservare l' intimità amorosa perché hanno il vizio di vantarsi delle loro conquiste, mettendo a repentaglio l'onore e la reputazione altrui. Durante il rapporto, affettano di

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dedicare ogni loro pensiero e cura al loro oggetto d'amore, ma poi, quando il turbine della passione è cessato, si pentono del tempo e delle energie che hanno profuso nella relazione. E sono quasi risentiti come se fosse stato l'amato a privarli di qualcosa o a far perdere loro altre proficue opportunità. Al contrario, chi non è innamorato saprebbe valutare, con assoluta lucidità, tanto il proprio interesse quanto quello del proprio partner, con la conse­ guenza di un comportamento ben più coerente e avveduto: egli sarebbe consapevole di ciò che dà e di quello che si attende, senza pentimenti, senza inquietudini e soprattutto senza risultare molesto e nocivo. Concedersi a chi non ama sarebbe, dunque, un utile affare, suscettibile di prolungarsi, al di là del piacere e della passione, in un'amicizia sicura. Terminato l'ascolto, Socrate è alquanto perplesso. Lo stile di Lisia è certo elegante così come raffinata è la scelta delle parole, ma il discorso gli sembra, nel suo insieme, contrassegnato da una sensibile povertà di conte­ nuti: poche idee, più volte ripetute e poco articolate nei loro presupposti. Fedro, che vede così ridimensionato il proprio idolo retorico, sfida So crate a cimentarsi, a sua volta, in un discorso che rimedi ai difetti e alle lacune che egli ha riscontrato. Dopo qualche resistenza, Socrate accoglie l'invi­ to, ma, con la consueta ironia, si dichiara dubbioso, lui che non è affatto sapiente, di poter competere con un oratore così celebrato come Lisia. Si proverà a farlo, ma coprendosi il capo, egli dice, per vincere l'imbarazzo e la vergogna di prodursi, al cospetto di Fedro, in una performance che po­ trebbe suonare deludente. Ma, al solito, non è quello che accade. Ripren­ dendo la tesi del discorso lisiano, Socrate provvede, di fatto, ad argomen­ tarne, con metodo, il nucleo essenziale (Fedro, 237 a ss.). L' éros è, per sua natura, un «desiderio irrazionale » che contrasta il principio del giusto e del meglio, un desiderio che mira al piacere della bellezza e prende forza in connessione con tutte le altre pulsioni indirizzate alla sfera corporea. A partire da tale definizione - e definire è l'atto necessario ogni qualvolta si proceda seriamente all'esame di un concetto - tutto il resto discende per logica conseguenza : l'irrazionalità che predomina sull 'aspirazione al me­ glio è causa di tutti quegli aspetti negativi che caratterizzano la condotta e la condizione degli amanti. La lode di chi non ama si può sviluppare, in modo altrettanto conse­ guente, per semplice rovesciamento e contrapposizione. Dal che potreb­ bero sorgere, tuttavia, alcune domande piuttosto ovvie: se non si ama e non si desidera, perché mai si dovrebbe corteggiare qualcuno, perché ci si dovrebbe impegnare in un'opera di persuasione al fine di conquistare gli

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altrui favori ? E perché mai, sul versante opposto, ci si dovrebbe concedere a chi non prova nulla? Prima di addentrarsi nell'argomentazione, Socrate aveva fatto un interessante quanto maliziosa premessa: il discorso in lode di chi non ama sarebbe pronunciato, in realtà, da un innamorato che sem­ plicemente nasconde di essere tale per meglio convincere il ragazzo amato affinché questi risponda alle sue richieste senza remare. Chi ama fingereb­ be, strategicamente, di non essere innamorato al solo scopo di risultare rassicurante rispetto a quell' irrazionalità che lo domina e di cui, forse, è penosamente consapevole. L'amato non avrebbe nulla da temere da chi lo avvicina con tali parole, salvo scoprire, più tardi, che la realtà è un'altra. Il rapporto amoroso sarebbe, dunque, solo questo ? Un utile affare pri­ vo di sentimento, come sembra voler dire Lisia? Un'accorta simulazione che vela il persistente e insopprimibile disordine delle passioni corporee, come precisa la replica di Socrate ? Un imprevisto interviene, tuttavia, a rilanciare la conversazione proprio quando l'esame pareva concluso e i due potevano fare ritorno in città. Socrate è raggiunto dalla voce del suo de­ mone, da un segno che lo trattiene e lo costringe a tornare sui suoi passi. I discorsi sin qui pronunciati sono empi e blasfemi poiché disconoscono e dimenticano la sacralità dell'amore, riducendo l' éros agli angusti confini di un umano troppo umano, alla coercizione di istinti meramente animali (Fedro, 242 b-243 a). Rimodulando il discorso di Lisia, Socrate aveva finito per coincidere con i luoghi comuni della città e con la misura di quanto in essa riscuo­ te plauso e successo. Ma - al di sopra della retorica e delle parole della polis - vi è il cielo ove abitano gli dei. Vi è un sacro che non può essere misconosciuto: gli dei non possono e non debbono essere offesi. Occorre un «rito espiatorio», una radicale «purificazione» che liberi dalla col­ pa commessa, dall' ignoranza e dalla superficialità con cui Amore è stato trattato. L'unico modo è pronunciare una «palinodia », un ulteriore di­ scorso, che sovverta e smentisca quanto è stato incautamente affermato. È così che vengono, tradizionalmente, espiati gli errori commessi contro la verità del « mito», contro il divino che nel mito si riflette. Socrate si richiama all'esempio del poeta Stesicoro. Questi, in un primo momento, aveva cantato la vicenda di Elena secondo la vulgata prevalente: la storia di un'adultera fuggita a Troia con il suo amante, la storia di una guerra terri­ bile e sanguinosa scatenata da una passione infame. Ma i Dioscuri, i celesti fratelli di Elena, avevano accecato Stesicoro, punendolo per la menzogna di quel racconto. Il poeta, allora, aveva composto un secondo canto, una

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO palinodia appunto, ritrattando la versione precedente: «Non è vero quel discorso, non sei mai salita sulle navi, non sei mai stata a Troia» (Fedro, 2.43 a-b). La divina e bellissima Elena era pura e innocente e mai si era fat­ ta travolgere dalla furia dei sensi. Quell' Elena che tutti credevano di aver visto a Troia era, in realtà, solo un simulacro fatto d'aria, un doppio che ne riproduceva illusoriamente le sembianze. In tal modo Stesicoro aveva potuto riacquistare la vista. Non era più cieco alla vera natura di Elena. In modo analogo - e prima di patire qualsiasi punizione - Socrate si ravvede, grazie alla sua intuizione demonica, della cecità, propria e altrui: l'amore, nella sua radice più vera e profonda, non è un danno da temere o un di­ sordine da negare, ma una "cosà' divina, un dono celeste che, come uno squarcio, apre la vita umana alla dimensione della verticalità. L'amore è mania, « follia ». Ma ciò che questo termine designa non va confuso con il mero opposto della razionalità ordinaria. Come si è già accennato, mania deriva - al pari di alcuni altri termini connessi con la vita della mente ­ da una radice che esprime forza e potere: è una condizione di massima intensità, un piano di supercoscienza che consente di fare e di agire al di là dei limiti umani. Mania - come ricorda Socrate - è la veggenza ispirata da Apollo, la creatività artistica delle Muse, la trance delle consacrazioni misteriche e dei riti catartici cui presiede Dioniso. Mania è éros quando strappa i soggetti dalla loro condizione mortale, facendoli fuoriuscire da quel banale e avvilente gioco di seduzione, possesso e piacere che il testo lisiano, come molti altri, piattamente riproduce. Mania è éros quando non è bestiale appetito - «fame » al modo dei «lupi che bramano gli agnelli» (Fedro, 2.41 d) - ma esaltazione di facoltà oltreumane che rendono la vita perfetta. Quell'atto di velarsi il capo, che Socrate aveva compiuto all'inizio del primo discorso, acquista così, retrospettivamente, un diverso valore: il di­ chiarato pudore a esibirsi dinanzi a Fedro si traduce nella ben più grave vergogna di aver profanato l'amore con un linguaggio e una mentalità del tutto inadeguati. Allo stesso modo, l'entusiasmo e l'estasi bacchica che So­ crate diceva di provare gareggiando con Lisi a rivelano tutta la loro inconsi­ stenza e il loro retrogusto ironico (Fedro, 2.38 c). Per pronunciare la catartica palinodia, Socrate, infatti, con un gesto opposto, si scopre la testa. Théion pathos, emozione divina è quella che ora muove davvero la parola, in uno slancio mitico e immaginativo che ascende a un'altezza vertiginosa. Alle mura della città che si profilano in distanza, al paesaggio dell'Ilisso, si sosti­ tuisce, con lo scarto dell' ispirazione demonica, il panorama indicibile di un

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mondo superiore che splende di luce radiante. Lassù, nel cielo - dice Socra­ te -, gli dei e le anime disincarnate si muovono in una mirabile processione, guidando i loro carri alati: un' immagine, quella della biga trainata da veloci destrieri, che già Parmenide aveva utilizzato per descrivere il viaggio in uno spazio ultraterreno. Al primo posto è Zeus, il sommo sovrano, che presie­ de all 'ordine cosmico, «curandone » la conservazione e la sussistenza. Lo segue, secondo un preciso e immutabile ordine, il corteggio delle altre di­ vinità e dei demoni, per svolgere il compito e la funzione che a ognuno di essi sono assegnati nel governo del tutto. Un vero e proprio «esercito», disposto in «undici schiere » , che attraversa il cielo con un moto circola­ re, per attendere all'armonia e alla vita dell'universo (Fedro, 247 a-e). Con Zeus sono, in tutto, dodici gli dei impegnati a compiere regolari diéxodoi, «rivoluzioni» o «transiti » , nello scenario astrale. Dodici quante sono le costellazioni dello zodiaco che ritmano il tempo dell'anno e delle stagioni, con il carattere e l' influsso che sono propri a ciascuna. Solo la vergine Estia, la custode del fuoco, non partecipa - precisa Socrate - a questa solenne processione: un'allusione forse a un più arcaico sistema zodiacale in cui le stelle dello Scorpione si estendevano fino alla Vergine, omettendo quello che più tardi sarebbe stato il segno della Bilancia. Le schiere divine non si muovono, tuttavia, solo secondo la traiettoria delle costellazioni. Quando è il momento di « banchettare » ascendono, con le loro bighe, fino alla sommità della volta celeste e, poggiando al di sopra di essa, si lasciano trasportare dalla sua rotazione, per contempla­ re lo spettacolo dell' «iperuranio» : ciò che sta oltre l'orizzonte visibile dell' ouranos, del cielo e delle stelle. È quello il luogo dell' «essere », che non è percepibile dai sensi, ma che solo l' intuizione della mente riesce a cogliere. È il luogo della «verità» ove risplendono, in assoluta purezza, tutte le idee, tutti gli archetipi, che strutturano la realtà dell'universo. Gli dei e le anime che li accompagnano si immergono in quella visione in cui le molteplici forme ideali si susseguono una dopo l'altra, fino a che il moro della rotazione celeste torna al suo punto di partenza, offrendo la compiuta conoscenza dell'essere nella sua totalità. La contemplazione - come il So­ crate platonico insistentemente sottolinea - è « banchetto» o «pascolo » : la visione è «cibo » d' immortalità che alimenta la natura degli dei e delle anime al loro seguito. Per «essere » , occorre nutrirsi d'essere: assimilare significa assimilarsi e, per questo, è decisiva la scelta di ciò che si offre agli occhi della mente. La vera conoscenza è, per così dire, consumazione di un pasto sacro la cui "sostanza" assicura la piena e felice condizione del divino.

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO Lassù, nella pianura oltre il cielo - in quel «prato » iperuranio che fa da contrappunto metafisica al prato dell' Ilisso - il banchetto degli dei e delle anime assume la forma e la dinamica di una ricualità misterica, intensa quanto abbacinante (Fedro, 2.48 d). Lassù si celebra la «più beata delle iniziazioni » poiché essa coincide, di fatto e senza riserve, con uno stato di perfezione e di assoluta completezza (Fedro, 2.49 c-2.50 c). Nei misteri - come sappiamo - il percorso iniziatico è un'esperienza scon­ volgente di phdsmata, di cose che appaiono e che si mostrano in piena evidenza: emozione prodotta da immagini che portano altrove la mente e trasformano il soggetto. Ma phdsmata, nelle parole di Socrate, sono le visioni stesse, le particolari "immagini" di cui le anime divine e umane godono nella rotazione iperurania. Phdsmata « integri e perfetti» con­ templati nello splendore di una «luce pura » , da esseri che, in quella dimensione, sono, a loro volta, « integri, puri e immuni ad ogni male ». Phdsmata sono le idee che si rivelano e appaiono nel fulgore della verità, come nutrimento proprio di un' integrità realizzata. Se ciò che avviene nel pascolo iperuranio può essere concepito nei termini di una teleté - di un atto rituale che corrisponde al compimento dell'essere e ciclicamente lo rinnova nella rivoluzione celeste - l'azione e le visioni dei misteri che si celebrano nella dimensione terrena non sarebbero altro che lo sforzo di riattualizzare, specularmente, quella condizione. Nella prospettiva del Socrate platonico l' iniziazione e le immagini che in essa si dispiegano sono gli strumenti per ridestare il ricordo di un'esperienza già da sempre vissuta, per riconquistare ciò che l'anima già possedeva e ha dimentica­ to nella discesa all'incarnazione. Da questo punto di vista l' iniziazione è sempre anche memoria di sé. Ma come si compone tutto questo con la follia d'amore e con la pas­ sione suscitata dalla bellezza? Carri in movimento, transiti astrali, ascese al vertice celeste, misteri perfetti: Socrate indugia su tale scenario proprio perché tutto ciò costituisce la necessaria premessa a un discorso ave l'amo­ re divenga l'evento iniziatico per eccellenza.

La statua e l ' ala

Nella processione celeste ogni anima umana è assegnata alla schiera di una particolare divinità di cui segue il movimento e le evoluzioni. Ogni psuché, partecipando al banchetto iperuranio, gode della visione delle idee, per

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quanto le è possibile, ma la sua contemplazione - la sua prospettiva visua­ le, per così dire - è determinata dal «coro» cui appartiene, dalla posizione e dall'ordine del corteggio divino cui è inscritta (Fedro, 252 d). Il che ha una conseguenza significativa nel momento in cui, non riuscendo più ad ascendere all' iperuranio, precipita nella dimensione sensibile. Chiusa tra le valve di quell' « ostrica » terrigna che è il corpo, l'anima dimentica gran parte dei phdsmata che le erano apparsi lassù. Non è più capace di richia­ mare a sé stessa lo spettacolo degli archetipi ideali. Non è più capace di "vedere". Solo la bellezza la scuote e la fa vacillare. Solo la bellezza le fa ba­ lenare, in modo confuso e incerto, il ricordo di qualcos'altro, la memoria di una diversa dimensione. La bellezza infatti - spiega Socrate - ha avuto in sorte di essere la «cosa più manifesta ed amabile » : con il suo sfolgorare luminoso, essa è l'unica realtà ideale che traluce nella dimensione materia­ le, l'unica che gli occhi del corpo riescano, in qualche misura, a percepire (Fedro, 251 d-e). Ma non ogni bellezza, non ogni sembiante pieno di luce e di grazia colpisce e attiva la psuché nello stesso modo. La bellezza che più l'attrae, che la accende fino al delirio, risponde sempre a una certa parti­ colare forma, a un determinato modello: è la bellezza della divinità cui era legata nell ' iperuranio. Si avvia così un duplice movimento. Ogni anima, se vuole destarsi a sé stessa, deve riscoprire il volto del proprio dio e realiz­ zarne, per quanto possibile, la natura durante l'esistenza corporea, poiché quella forma divina è la radice sopita della sua stessa identità. Ma ciò può avvenire solo nel momento in cui quaggiù ella riesca a trovare, racchiusa in un corpo, un'altra anima che assomigli a quello stesso archetipo divino. Un'altra psuché che mimeticamente ripresenti e ricordi le fattezze del mo­ dello perduto. Così - spiega Socrate - ognuno vive e sceglie tra tutti i belli il suo amore, andando, come un segugio, sulle « tracce » di quanto aveva contemplato. Coloro che, nel prato della Verità, seguivano il cocchio di Zeus, cercheranno un amato che abbia un'anima « gioviale » , incline al comando e alla sapienza, secondo il carattere proprio del sovrano degli dei. Così chi apparteneva a Era o ad Apollo andrà alla ricerca di nature psichiche corrispondenti (Fedro, 252 c; 253 a-b). La scoperta e l' incontro con un amato davvero "congeniale" accresce e attualizza il nesso con il di­ vino, ne disseppellisce il ricordo e la forza, fino allo scoccare di una mania travolgente. Fissare «intensamente» lo sguardo sull'amato significa co­ gliere e toccare, al di là di esso, la propria divinità, entrando in uno stato di autentica possessione, di trance ispirata che moltiplica le forze e le capacità della mente. Guardare l'amato significa « attingere » a una sorgente mira-

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colosa, far scaturire un fluido divino, al modo delle Baccanti che, invasate da Dioniso, riescono a far fluire miracolosamente latte, vino e miele dalla dura pietra. Accade che di tale processo non si abbia spesso piena consapevolezza. Il soggetto che sperimenta tali effetti tende ad attribuirne il merito e la causa alla persona amata, ma chi ha scienza d'amore sa bene a quale «origine », a quale «sorgente» debbano essere ricondotti. La relazione tra amante e amato, il legame che li avvince non è un rapporto duale, ma un triangolo il cui vertice è dato dalla divinità che li accomuna, dal volto celeste di cui entrambi partecipano. Un triangolo segnato da una dinamica "mimeticà' poiché ognuno dei due letteralmente miméitai, «rappresenta », per l'altro, la figura del dio, di un unico e medesimo dio (Fedro, 253 a-c). La rappresen­ ta e cerca di farla rappresentare, in un perfezionamento progressivo della riproduzione divina. L'amante si sforza di imitare il proprio dio, di rispec­ chiarne i caratteri e le attitudini. Si studia, con ogni cura, di assomigliargli. Ma allo stesso tempo cerca di guidare l'amato affinché, a sua volta, riprodu­ ca in modo sempre più effettivo l'archetipo che lo abita. L'uno e l'altro "si assomigliano" e, assomigliandosi, pervengono al cuore del proprio sé. In una prospettiva moderna, che sa di psicanalisi, si potrebbe dire che il discorso di Socrate sia un tentativo di dar conto della cosiddetta scelta oggettuale, di formularne un'eziologia che rinvii alla storia e alla forma­ zione del singolo soggetto, a ciò che precede il manifestarsi del desiderio adulto. Secondo tale ottica, la figura divina potrebbe essere riformulata come un ideale dell' io, un ideale grandioso e accecante, così come la ten­ sione mimetica che avvince amante e amato - entrambi di sesso maschi­ le secondo il codice dell'antico amore per i ragazzi - si ridurrebbe a una dinamica omosessuale di proiezioni narcisistiche. Ma ciò equivarrebbe a misconoscere il carattere sacro dell'esperienza che il Socrate platonico va delineando. Una sacralità che eccede i gorghi dell 'ordinaria psicologia e delle quotidiane in consapevolezze. La ritualità m isterica sottesa all'intero discorso fa riferimento a una fenomenologia dell' éros, ma addita, al con­ tempo, una dimensione ulteriore cui indirizzarla per realizzare quel seme divino che riposa in ognuno al di sotto delle concrezioni della storia per­ sonale. Quella che Socrate va descrivendo è un'iniziazione maschile che pone in atto una particolare "magia". L'amante « adora» il suo amato, lo fa oggetto di una vera e propria therapéia, di un «culto ». « Guardandolo lo venera (sébetai) come se fosse un dio e, se non temesse di passare per folle, gli offrirebbe sacrifici come a

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un' immagine sacra (dgalma) e a una divinità » (Fedro, 251 a). In una pro­ spettiva profana, secondo la misura dell'opinione comune, tali parole po­ trebbero suonare come il quadro di una fissazione maniacale, come un'i­ dolatria meramente umana o ancora come una riformulazione enfatica di un servaggio amoroso in cui l'amante si sottomette interamente alla per­ sona amata. Ma il richiamo al sébas, alla «venerazione » va assunto in tutta la sua intensità semantica: è il timore, la reverenza, lo sgomento dinanzi a qualcosa che trascende la misura umana; è il riconoscimento di un'aura o di una potenza che fa arretrare al suo cospetto. L'epifania del sacro fa « rabbrividire » . Davanti alla bellezza si trema, così come si è presi dalla paura quando nei misteri phdsmata deind, visioni straordinarie e terribili, mostrano l'invisibile radice della vita e del divino. Altrettanto pregnante e significativa è la presenza di dgalma. Nell'uso greco il termine può riferirsi a realtà apparentemente diverse, ma con un tratto che le accomuna. Agalma è l 'ornamento, il manufatto squisito, il dono di prestigio circonfuso di gloria e splendore. È , più in particolare, l'oggetto prezioso degno degli dei: l'offerta che a essi si porge, la statua che si dedica nel loro tempio, l' immagine che li rappresenta e in cui essi possono manifestarsi. Agalma è la « cosa » che attrae a sé in modo irresi­ stibile. È la forza delfascinum che lega e sconvolge chi ne viene a contatto, la forza che invade e soggioga la mente. È il simulacro che sta sulla soglia di dimensioni diverse. Agalma è il corpo adolescente del bel Carmide che, nell'omonimo dialogo platonico, tutti fissano in preda allo stordimento, senza riuscire a distogliere lo sguardo. «Divinissimi agdlmata », splendidi e « tutti d'oro» , si celano nella natura segreta di Socrate, all'interno della sua anima e dei suoi discorsi, secondo quanto afferma Alcibiade nel Simpo­ sio platonico: simulacri divini che incatenano l'anima altrui e costringono ad andare al di là del visibile e dell'apparente. Quale che ne sia la forma o l'aspetto, dgalma è, nella sua più intima essenza, l'oggetto magico carico di potere, l'oggetto che opera e mette in rapporto l'alto e il basso, il visibile e l' invisibile, il corporeo e l' incorporeo, il mortale e l' immortale. Agalma, ancora, sta in relazione con agdllomai, il verbo che esprime il sentimen­ to della gioia e dell'esaltazione: quel particolare stato di «esultanza » che è propizio per uscire dalla misura ordinaria dell'umano stesso. Agalma è l' immagine sacra di cui il dio stesso gioisce rendendosi in essa presente. È il simulacro che esalta l'anima dell'uomo che lo contempla. « Come se l'amato fosse quel dio - prosegue Socrate nella sua palino­ dia - l'amante gli leva una sorta di dgalma e lo adorna con l'intento di

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rendergli onori cultuali e celebrarne i misteri » (Fedro, 2.52. d-e). L'amante tektdinetai, «lavora», «costruisce » con arte una « statua» , un' « immagi­ ne sacra» dell'amato e per l'amato, il quale è, a sua volta, mimema, rappre­ sentazione della divinità. Ma come e dove viene forgiato questo simulacro ? Non si tratterà di una statua di pietra o di legno come quelle che si levano nei templi. Si tratterà di un dgalma plasmato con materia psichica: ogget­ to configurato dall'immaginazione quando essa viene accesa dal fuoco del desiderio, sigillo magico che opera sul piano mentale per evocare il dio e renderlo presente. L' dgalma è l'oggetto di un orgidzein, di un «fare sacro» come quello della teleté misterica e dell'eccitazione dionisiaca: un oggetto su cui concentrarsi in un'azione rituale ripetuta per accedere a un superio­ re stato dell'essere. Occorre disegnare e costruire il profilo "immaginale" della divinità cui si è legati per incontrarla e unirsi a essa. Occorre katako­ sméin, ornare e disporre la figura nel modo più appropriato perché abbia effetto. L ' dgalma erotico riproduce il dio contemplato nell ' iperuranio: è la riattualizzazione plastica e volontaria del phdsma contemplato nell' incor­ poreo spazio al di sopra del cielo. L ' dgalma è la ricreazione della «visio­ ne» goduta lassù. In questa dinamica, immagine sacra e fantasma d'amore si saldano in un unico straordinario portento. L'operazione immaginale che lo configura e lo produce sortisce un duplice effetto: l'amante aderi­ sce all'dgalma fino ad assimilarsi a esso, ma, allo stesso tempo, si applica a trasformare il suo amato affinché anch'egli si assimili e incarni, con la maggiore perfezione possibile, quella stessa immagine sacra. Una dinamica circolare e speculare, un processo di trasformazione guidata dalla traccia mnestica del divino e resa attiva dal lavoro sull' dgalma-phdsma: simula­ cro e fantasma, plasmato da una materia immateriale, che rende manifesta la forma celeste. Nella pratica quotidiana della polis, l'amore dei ragazzi è spesso un mero gioco predatorio dettato dalla ricerca del piacere o una dinamica che si inscrive nelle affiliazioni delle cordate politiche, nella crea­ zione di gruppi di potere e di alleanze fra famiglie. L'operazione platonica dell ' dgalma trasforma, per contro, l'amato in un fanciullo incantato, in un tesoro fiabesco che guida alla scoperta di altri e più grandi tesori. Ma che cosa accade all'anima che si trova in tale condizione, che pro­ cede per tale percorso ? E come si configura l'anima stessa alle prese, con­ temporaneamente, con il simulacro erotico e con la presenza fisica dell'a­ mato, con le violente emozioni che l'uno e l'altro suscitano ? La scrittura platonica offre indicazioni che non si compongono in un quadro unitario, in un disegno dai contorni definiti e facilmente leggibili. La psuché appare

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piuttosto come un oggetto alquanto singolare, inquietante e insolito, per l'assommarsi di determinazioni molteplici e di specie diverse cui la sua na­ tura viene riferita. Un oggetto che si compone e scompone, appunto, in una serie di immagini evocative e forse, ancora Wla volta, dense di allusio­ ni operative. L'anima è un carro che vola. Ma l'anima, afferrata dal delirio d'amore, è descritta anche - nelle parole di Socrate - come una pianta che «germoglia » e che deve essere «irrigata » da un idoneo fluido o come un corpo che presenta una sua particolare fisiologia. Nel susseguirsi delle me­ tafore e dei simboli (Fedro, 251 a-e), la psuché è una « radice » che cresce e si sviluppa, una «durezza » che deve essere « ammorbidita» dal calore e dalla linfa, una rete di meati «chiusi» che si devono aprire, un «pulsare violento » come quello del flusso sanguigno che scorre nelle arterie. E an­ cora: una gengiva irritata dallo spuntare dei denti, un'epidermide irritata dal prurito, attraversata da fremiti e madida di sudore. L'anima è un «ca­ nale» in cui deve scorrere un liquido, un organo segnato da una propria « respirazione ». L'anima è un'ala ove il flusso del desiderio, suscitato dalla visione della bellezza, fa spuntare le piume, un'ala che «cresce » e « si sol­ leva » fino a dispiegarsi completamente: il kaulOs, il « fusto» di quest'ala, opportunamente irrorato, si gonfia e si rizza a partire dalla « base ». Il volo dellapsuché, il dispiegarsi delle sue ali con la compiuta crescita delle piume, si incrocia con la suggestione di ben altra anatomia. Ad ascoltare tale de­ scrizione, l' insipiente potrebbe ridere o sogghignare malignamente, distor­ cendo il senso e l'orizzonte in cui tutto ciò si colloca: «Tu che sei giovane - avverte Socrate, apostrofando Fedro, il « bel ragazzo» cui il discorso è rivolto - forse ti metterai a ridere» (Fedro, 252 b). Ma l' iniziato, colui che è in grado di intendere, conosce la lingua degli dei e sa quali parole essi usino per designare i segreti della natura. L'iniziato e il maestro d'amore - avver­ te Socrate - conoscono i versi di una «tradizione segreta », che al profano possono suonare, per così dire, hubristikd, «insolenti » e «audaci», come il lazzo sguaiato di una commedia che riducesse il celeste volatile dell'anima a una più grossolana realtà. Gli uomini chiamano questa passione éros, ma «gli immortali lo dicono ptéros perché costringe l'ala a crescere» . Nel fare tale precisazione Socrate dice di richiamarsi all'autorità di épe apotheta: «versi segreti » , «parole preziose » e «messe da parte », che gli Omeridi, i cantori della tradizione epica, avrebbero conservato e trasmesso oralmente al di là della tradizione ufficiale. La dimensione del segreto e il richiamo a una lingua usata dagli dei - distinta dal linguaggio corrente dei mortali sono il segnale di una dimensione esoterica che avvolge e sostanzia l'intero

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discorso: l'enigma che lega insieme le componenti rituali e gli atti di questo culto, la cifra di una via sacra che eleva il mortale al divino. I discorsi di So­ crate - come viene suggerito anche nel Simposio - non devono essere forse dischiusi accortamente per liberarli dalla loro apparenza ridicola e scorgere gli agdlmata che vi sono celati ? Il paesaggio in cui Socrate e Fedro conversano, i transiti celesti degli astri, le rivoluzioni dello zodiaco, la pianura della verità, le schiere celesti, i fremiti e gli spasmi indotti dalla bellezza. Tutto, al fine, si compone in una scena fantastica e incantata, in cui il fantasma d'amore, la statua divina e il volo alato suonano come indicazioni di un mistero da celebrare, di un'o­ perazione da svolgere, di un rito magico capace di sortire mirabili effetti. Il desiderio d'amore è una « corrente » , un «soffio » che circola tra amante e amato in un gioco di specchi (Fedro, 251 c; 255 c) . È un «fluido» che dischiude la porta di un altro mondo, se il rito è eseguito correttamente, se l'esperienza dell 'innamoramento si riconfigura come iniziazione. Passo dopo passo, la palinodia di Socrate costruisce e svela, ali' ancora ignaro ascoltatore, il corpo magico dell 'anima e gli incantesimi a esso ap­ propriati. Un corpo contiguo, ma diverso dal corpo di carne. Un corpo che agisce e opera con sue facoltà. Un corpo appartenente a quella dimensio­ ne immaginale che l ' dgalma e il phasma dispiegano nella tensione verso il divino. Il corpo psichico assume e trasferisce su sé stesso alcune affezioni della sfera propriamente somatica, ma le sfrutta e le orienta, con sapiente incantesimo, per avere accesso a un piano diverso dal sensibile. Attraverso le operazioni suggerite da éros-ptéros, l' innamorato, guidato da un mae­ stro d'amore, è invitato a visualizzare, plasmare ed esperire questo corpo immateriale come strumento di una superiore conoscenza intuitiva, come strumento di estasi e di metamorfosi divina. U carro dell'anima - spiega ancora Socrate aggiungendo nuove imma­ gini - ha due destrieri pronti a lanciarsi verso l'oggetto d'amore quando appare sfolgorante dinanzi a essi (Fedro, 253 c ss.). Da un lato, il cavallo bianco, più docile, incline al pudore e obbediente alla guida del suo saggio auriga. Dall'altro, lo stallone nero, focoso e indomito, massiccio, peloso, torvo, con gli occhi iniettati di sangue, violento e nitrente. Il cavallo nero vuole a tutti i costi avvicinarsi a ciò che desidera, rizza la coda e scalpita. Vuole consumare l'unione fisica e non è disposto ad arrendersi facilmente. Nell 'impeto, la bestia trascina con sé il suo compagno e, insieme a esso, l' au­ riga che, a fatica, tira le briglie e frena la corsa, perché si ricorda della visione misterica dell' iperuranio. L'auriga sa che c'è qualcos'altro da cercare e da

LA VIA DEGLI DEI perseguire al di là dell'impulso alla copula e per questo trattiene l' impe­ tuoso destriero. Come intendere queste ulteriori figure in movimento ? In genere vengono accolte come prescrizioni di una morale sessuale ascetica, richiamo a un controllo razionale sulle passioni, invito a sublimare la libido. Morale, razionalità, sublimazione non sono forse i termini più adatti per accostarsi a ciò che questa iniziazione erotica mira a realizzare ? L'amore - come aveva detto anche Diotima nel Simposio (203 e) - è un «mago» e un «incantatore ». Ed è questa lh prospettiva da assumere se si vuole che le allusive indicazioni sull'amore alato producano il loro effetto, se si vuo­ le che l'incantesimo funzioni. Fissare il fantasma divino, forgiare la statua d'amore, far crescere il corpo dell'anima sono momenti di un'unica opera rituale: l'uno si riverbera sull'altro, l'uno dà luogo all'altro, quasi in una dinamica di "copià' mimetica, tra sbigottimento e ardore, spasmo e sacra venerazione. E in questa dinamica, anche l'impulso focoso della bestia nera si rivela una risorsa preziosa perché senza il suo iniziale impeto nulla si fa e nulla si compie. Alla fiamma di Eros - alla fiamma di un fuoco ardente e insieme ben temperato - si sviluppa quel portentoso veicolo che consente a psuché di volare e di tornare tra gli dei, ormai immune dai mali umani. La palinodia di Socrate agisce, peraltro, sullo stesso Fedro che è con­ quistato da quelle parole e vede ormai tutta l' insignificanza della retorica di Lisia. Quel discorso che aveva prima tanto ammirato non vale nulla. Pan e le Ninfe, le divinità del prato, sono state benigne e hanno dispensato un 'ispirazione davvero superiore alla misura umana: «Le Ninfe, figlie di Acheloo, e Pan, figlio di Ermete - commenta Socrate - sono più bravi a far discorsi di Lisia, figlio di Cefalo » (Fedro, 263 d). Gli spiriti dell'acqua e dell'aria, gli spiriti della natura donano una sapienza più preziosa, se li si sa ascoltare, riconoscendo in essi il manifestarsi del sacro, se si è capaci di entrare in contatto con loro, usando ne la potenza, ma senza farsene travol­ gere. Ed è ancora a Pan che Socrate rivolgerà devotamente una preghiera quando l' intero dialogo sarà giunto al termine: « Caro Pan e tutti voi dei che siete qui, concedetemi di diventare bello dentro e che tutto ciò che ho fuori sia affine a ciò che ho dentro. Che io consideri ricco solo il sapiente e possa avere tanto oro quanto solo chi è sophron può prendere e portare con sé » (Fedro, 2 79 b-e). Bellezza dell'anima, compiuta armonia tra interno ed esterno, tra ciò che pertiene all 'apparenza sensibile e alla sfera materiale e lo spazio dell 'interiorità. Ma soprattutto l'oro della sapienza, l'unica ric­ chezza davvero inestimabile. L'oro che consente la rigenerazione di sé e il cammino di perfezione. L'oro che può conquistare solo il sophron, colui

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che, con «mente sana » e con disposizione «temperata >>, sa utilizzare i doni di Pan. Socrate definisce il suo discorso sui misteri d'amore come un «inno mitologico, non privo di persuasione » (Fedro, 265 b-e). Lo chiama paidid: è solo un «gioco» da bambini, uno « scherzo» . Una sottile sprezzatura che sembra minimizzare l'importanza di tutto ciò che è stato detto. Certo, il mito non è dimostrabile e non è verità come in altri contesti si intende. Ma l'anima ha bisogno di quel «gioco». Ha bisogno di giocare, esultante come un bimbo, con le favole e con le magie perché non potrebbe acco­ stare in altro modo la conoscenza di cui esse sono tramite. Non potreb­ be, in altro modo, fare esperienza di sé. La persuasione del mito è ciò che consente alla psuché di entrare in un diverso rapporto con sé stessa, è ciò che le permette di "lavorare" la propria immateriale materia. Paidid, sem­ plice «gioco» - ricorda ancora Socrate - è la pratica stessa della scrittura (Fedro, 276 d ss.). Un intrattenimemo da non prendere troppo sul serio. Un « farmaco» dagli effetti ambivalenti e incontrollabili. Per conseguen­ za, anche l'intero testo del Fedro, con tutte le sue immagini dell' éros e il suo esame dell'arte dei discorsi, sarebbe un mero gioco a cui non dare ec­ cessiva importanza né, tantomeno, assumerlo alla lettera. Ciò che conta - dice Socrate - non sono le parole tracciate su un foglio, ma i segni che si inserivano nel corpo vivente di ogni anima. Prezioso e importante - più di qualsiasi testo che può essere frainteso e andare fra le mani di chiunque - è quanto l'anima trae «da dentro», quanto la psuché ricava e produce da sé stessa con un paziente e lungo travaglio (Fedro, 27 5 d; 276 a-b). Le scrit­ ture e i libri non comunicano direttamente alcuna sapienza: valgono solo come traccia per chi già sa, come promemoria di una conoscenza che già si possiede. Ma, al fondo di sé stessa, ogni anima sa. Ogni anima possiede già una conoscenza che riposa in lei. Occorre solo risvegliarla. E le scritture, che nascono dal pdthos di una reale esperienza, servono appunto, come la bellezza, a suscitare ricordi, rinviando l'anima a un via che la attende, ter­ minata la lettura.

I tormenti di una fanciulla: Amore e Psiche È un giorno felice, un giorno di nozze. La bella Carite - «graziosa » come il

suo nome stesso suggerisce - sta per sposarsi con l'amato Tlepomeno. Con l'aiuto della madre si sta abbigliando per la cerimonia nuziale. Ma, proprio

LA VIA DEGLI DEI in quel momento, una banda di briganti irrompe nel luogo e rapisce la vergi­ ne, ripromettendosi di ricavarne un lauto riscatto. La fanciulla viene portata nel covo dei malfattori. Una buia spelonca, un «carcere di pietra» in cui la prigioniera piange, singhiozza e si dispera senza requie. Strappata alla sua bella casa e ai suoi affetti, preda di un «orrendo branco di assassini», teme di perdere la vita e di non rivedere più il suo promesso sposo. E l'angoscia si accresce quando un sogno sembra preannunciarle la morte dello stesso Tlepomeno. Un'anziana serva, che da tempo attendeva ai bisogni della ban­ da, tenta di calmarla e di distrarla con una piacevole storia. Una di quelle «favole» che le «vecchie» donne sanno, da sempre, raccontare così bene. Tale è la cornice in cui Apuleio propone al suo lettore la celebre favo­ la di Amore e Psiche. Un prezioso intermezzo incastonato al centro delle Metamorfosi ( 4,28-6,24), nel cuore delle avventure dello sventurato Lucio, trasformato in asino a causa della sua indiscreta curiosità per la magia e le arti delle streghe. Una fanciulla rapita, la segregazione in un'oscura ca­ verna, lo smarrimento, la paura e il dolore. Tutti elementi ormai familiari a chi ha prestato orecchio ai miti e ai simboli dei misteri, alle storie sacre che accompagnano le iniziazioni. Carite è una novella Persefone. E la bel­ la Jabella, l'incantevole favola che le viene proposta a consolazione della sua pena è, a propria volta, un racconto iniziatico che ha per protagonista - come in un gioco di specchi - un'altra fanciulla. Come tutte le favole che si rispettino, anche questafabella deve essere ascoltata, lasciando che essa eserciti la sua malia, senza pretendere di spiegarne in modo univoco ogni particolare. Le antiche storie parlano il linguaggio tradizionale dell'a­ nalogia e non sopportano - come anche Socrate aveva detto nel Fedro sofisticherie dell' intelligenza razionale. «C 'era una volta, in una certa città, un re e una regina, che avevano tre figlie » , comincia dunque la vecchia (4,28). Erano tutte e tre belle. Ma la più piccola era di un'avvenenza che sembrava superare ogni misura uma­ na. Una bellezza ineguagliabile e meravigliosa, uno splendore che nessuna parola riusciva a descrivere. Una bellezza che lasciava attoniti e stupefatti come contemplando un miracolo o a un'apparizione celeste. Dinanzi a essa l'unico atto possibile era l'adorazione. Quando la luce del bello sfol­ gora in tutta la sua potenza, non ci si può che chinare in devota venerazio­ ne, perché è il sacro stesso che in quello spettacolo si manifesta e si rende percepibile. La fama della fanciulla si spandeva ogni giorno di più e da tutti i paesi accorrevano per vederla. Sembrava l ' incarnazione stessa di Venere, come

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se la dea in persona avesse deciso di prendere forma umana e di aggirarsi tra i mortali. E, a poco a poco, l'ammirazione per lei si trasformò in un vero e proprio « culto » . Le rendevano omaggio, le rivolgevano offerte e preghiere, come avrebbero fatto dinanzi all'immagine sacra, all ' dgalma della divinità conservata in un tempio. Al punto che i santuari tradizio­ nali di Venere - i templi di Pafo o di Cnido - cominciavano a languire, disertati dai devoti che preferivano recarsi in quella città ove la bellezza divina di Venere sembrava essere una vera presenza, ove la dea dell'amore pareva mostrarsi non come figura di un femminile già esperto del deside­ rio e della passione, ma come il più prezioso fiore di una verginità incon­ taminata. Psiche, «Anima » , era il nome di quella ragazza. Ogni anima è un'Afrodite, una Venere, come dirà più tardi il neoplatonico Platino : ogni psuché, nel suo stato di purezza e di integrità assolute, è splendore vivificante del bello in sé (Platino, Enneadi, 3,5,4). Ma la principessa Psi­ che, per quanto seducente e magnifica, era pur sempre una ragazza e non un'anima volteggiante nell' iperuranio. Identificarsi o essere identificati con un archetipo divino è sempre pericoloso e fatale per un essere mortale che abiti nella finitudine e nei limiti del corpo, per un soggetto ancora lontano dalla propria perfezione. Guai a dimenticarsi della differenza che sussiste tra i diversi piani dell'essere, e pensare di trovarsi dove, di fatto, non si è. Le conseguenze di questo errore sono inevitabili quanto rapide nel compiersi. Accorgendosi del culto che veniva tributato a Psiche, Venere, la signora degli elementi, la madre della natura universale, andò su tutte le furie per quell' inmodica translatio, per quel « trasferimento smisurato » di onori e di venerazione (Apuleio, Le metamorfosi, 4,29). Per quel transfert che at­ tribuiva a una semplice fanciulla una maestà sacra e una potenza affatto improprie. L'usurpazione del nome divino, la profanazione sacrilega della grandezza celeste andava punita. Per questo Venere si rivolse al suo gio­ vane figlio, a quell'irrequieto e turbolento Cupido che, con le sue frecce infallibili, usava colpire indifferentemente i cuori di uomini e dei, senza alcun riguardo per il rango e l'età delle sue vittime. Eros, Cupido, Amore: ere nomi per un'unica, universale potenza. A lui Venere chiese di infligge­ re a Psiche l'umiliazione di un amore infimo e degradante: colpita dagli serali di Cupido la fanciulla avrebbe dovuto innamorarsi perdutamente dell' «ultimo degli uomini », dell'essere più disgraziato e miserabile che vi fosse al mondo, privo di ogni dignità, di ogni grazia e di ogni fortu­ na (4,31). Per atroce contrappasso, ella avrebbe dovuto amare alla follia il

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massimamente indesiderabile, colui che non aveva nulla che meritasse di essere amato fino allo spasimo. Mentre in cielo si progettava tale vendetta, la famiglia reale si trovava, per altre ragioni, in gravi ambasce. Tutti ammiravano Psiche ma, tra i tanti principi e signori che si erano recati a vederla, non vi era nessuno che ne avesse chiesto la mano. La stessa straordinarietà che aveva indotto al culto pareva disarmare ogni desiderio e ogni proposta. L'eccezione della bellez­ za che avvolgeva la figura di Psiche le precludeva la possibilità stessa di una relazione. Ciò in cui la forza del sacro si manifesta o sembra manifestarsi è, per sua natura, segnato dall'esclusione del consorzio umano: il sacro è ve­ nerando, ma intoccabile. Il padre di Psiche, preoccupato dalla situazione, decise dunque di consultare l 'oracolo di Apollo a Mileto, ottenendone un responso chiaro, quanto sconcertante. In mancanza di pretendenti umani, Psiche doveva essere esposta sul picco di un monte altissimo, ove l'avrebbe raggiunta uno sposo di natura non umana: «Un crudele mostro, un ser­ pente che vola alato per il cielo, seminando, con ferro e fuoco, tormento e pena a ogni cosa », un essere spaventoso che infonde «terrore e spavento» anche agli dei (4,33). Psiche era destinata - così tutti si erano convinti sulla base di quelle parole - a «nozze di morte » : il matrimonio sarebbe stato, per la bella vergine, la fine della sua vita: una discesa nell 'Ade, come era accaduto alla figlia di Demetra. Per quanto afflitti e straziati, il re e la regina si arrese­ ro al responso apollineo e devotamente lo mandarono a effetto. Psiche fu portata sulla vetta e lasciata ad attendere la sua sorte funesta. Nessuno si poteva immaginare quanto sarebbe accaduto. I dettati oracolari, d'altro canto, vengono sempre presi alla lettera dai mortali che, spaventati o illusi da quanto ascoltano, non si fanno in genere ulteriori domande. Nessuno, nemmeno Psiche, si era chiesto chi potesse essere quell 'essere vipereo che seminava terrore per l'universo intero con le sue armi, quell'animale che incuteva timore anche fra i signori dell' Olimpo. Nessuno ebbe il sospetto che potesse trattarsi del figlio di Venere, sempre intento a ferire gli animi con passioni infiammate. Quale mostro più amabile e insieme feroce si aggira, infatti, per il cosmo ? Benché incaricato di castigare Psiche, Cupido si era follemente inva­ ghito della bellissima principessa e, disattendendo l'ordine materno, aveva deciso prontamente di farne la sua sposa. Per una volta il fanciullo divino si era ferito con le sue stesse frecce, soccombendo alla forza del desiderio che aveva sempre infuso in altri. Ma che cos'altro potrebbe amare Amore

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO se non l'anima stessa? Non sono le nozze sempre un'unione d'amore e d'anima? Ecco dunque avvenire l' insperabile e l' inopinato. Sulla cima del monte Psiche è raggiunta da Zefiro, dal soffio delicato del vento, che la solleva de­ licatamente e la conduce nel regno del dio (4,35). Come la vergine Orizia rapita da Borea nel Fedro, anche Psiche è portata altrove dal vento. L'a­ more è un' ispirazione: aria che rende leggeri e fa volare, soffio che avvolge e sostiene, aprendo la porta di un'altra dimensione. Così Psiche si trova all 'improvviso in un prato delicato tra fiori profumati e tenera verzura. Ancora un prato incantato come luogo del desiderio e del divino. Poco più in là un boschetto, altrettanto invitante, ove si erge un palazzo che nessuna mano umana avrebbe potuto costruire. Un palazzo tutto d'oro massiccio e di pietre preziose, una reggia così sfavillante da risplendere di luce propria anche in assenza del sole. Amore non ha bisogno di fuoco o di lucerne per rischiarare l'oscurità perché la sua propria fiamma vince ogni tenebra. Psiche si addentra nella dimora ove contempla, con crescente meraviglia, tutto quell'indicibile sfarzo. Un risuonare di voci l'accoglie: invisibili an­ celle che si pongono al suo servizio, pronte a soddisfare ogni suo bisogno. «Tutte queste ricchezze sono tue » , le dicono le voci (5,1-2). Psiche è felice di quel tesoro messo a sua disposizione. Ogni anima, invero, può disporre di un tesoro, ma è sempre in grado di usare bene le proprie ricchezze ? È capace di comprendere la propria fortuna o non rischia spesso di rimanere preda di miraggi o di illusioni ? Nel frattempo si fa notte e il signore del palazzo giunge a far visita alla sua sposa. È buio, Psiche non vede nulla, ode solo un «dolce suono », il suono di una «voce misteriosa» che la raggiunge (s.4-s). Trema e inor­ ridisce, come trema ogni vergine intatta che nulla conosce degli atti d'a­ more, come trema chiunque quando, pur desiderandolo, si misura per la prima volta con il mistero del sesso. Ma nella paura di Psiche c'è anche dell'altro, un'angoscia anche maggiore, poiché ella nulla conosce del suo sposo: è alla completa mercé di uno sconosciuto. Cosa sarà di lei ? Quella notte, come le notti successive, tutto si consuma nella più completa oscu­ rità: il talamo nuziale è un 'inquietante dark room. Psiche sente mani che la accarezzano, che le attraversano il corpo. Un alito che si avvicina al suo. Una lingua che la bacia. Morbidi capelli e tenere carni che la sfiorano e si fanno prossimi. Si sente penetrare, qualcosa entra dentro di lei. Non sa chi le stia facendo tutto questo. È solo tatto, sensazione: intensità di un godi­ mento senza volto, senza identità. Abbandono al puro ignoto. Rabbrivi-

LA VIA DEGLI DEI dire di paura e di piacere. Essere esposti a una violazione e insieme scossi dalla voluttà. Le "cose di Afrodite", il mistero di Venere è anche questo. O forse, alla radice, soprattutto questo. Il tempo trascorre e Psiche continua in questa vita beata, fatta di incan­ to e di assoluta ignoranza. «Anima » è felice, ma nulla sa effettivamente della propria condizione e di ciò che le sta intorno. Il non sapere sembra proteggere la sua felicità, ma vi può essere vera felicità senza coscienza di ciò che essa comporta e di ciò su cui essa si fonda? È saggio cullarsi nel godimento di un amore così cieco ? È prudente avvolgersi nel velo che na­ sconde la verità, quale che essa sia? Cupido, certo, giunge sempre nella notte ed evita di mostrarsi: non vuole farsi vedere. Anzi, fa esplicito di­ vieto a Psiche di scoprire il suo volto: se l'amata volesse coglierlo in piena luce, egli subito si dileguerebbe e Psiche rimarrebbe sola e desolata, priva di ogni bene. Ma il divieto, che garantirebbe la prosecuzione della beati­ tudine, addita, allo stesso tempo, il limite che contrassegna tale stato. Il limite, forse, della stessa Psiche, che non sarebbe in grado di poter vedere e di poter conoscere. Vedere la verità dell'amore, conoscerne il mistero, è necessario, ma non può essere frutto di un atto incondito o di una scelta inconsulta. È l'esito di un lavoro. È il compimento di una via. La fanciulla chiama il suo sposo meum lumen, «mia luce» e ancora, con un gioco di parole, Psychae dulcis anima, «dolce anima di Psiche», cara « anima dell'anima » (s,6; 5,13). Ma sa quanto sta dicendo ? Sa che cosa sia quella luce e perché l'amore sia il cuore dell'anima? Psiche - come più volte viene detto dallo stesso Cupido - è ancora « semplice» e «ingenua» : priva di esperienza (s,Is). Perché tutto ciò che ha provato e prova, tutto ciò che l'ha resa felice, non si può dire esperienza finché una consapevolezza non è maturata. Finché l'amore dell'anima non cessa di essere cieco. Cosa cui provvede il seguito dellaJabella, aprendo per Psiche un cammino di tentazioni e di ostacoli. Un cammino di reale iniziazione che faccia pas­ sare dall'oscurità dell'amplesso alla luce di una diversa realtà, dall' incanto di una sospensione fiabesca a un'azione che è conoscenza vera. I ripetuti incontri notturni sortiscono un prevedibile effetto. Psiche rimane incinta di Cupido e osserva con assoluta meraviglia l' incrementum del suo utero, il progressivo svilupparsi di una vita dentro di lei. È bastata una «piccola punturina » a far diventare il suo ventre così turgido e pesante. Qualcosa sta germogliando nell'anima, ma quale sia la natura del frutto è ancora incer­ to. Psiche - avverte Cupido - potrà partorire un fanciullo «divino » o un semplice bimbo «mortale » (s,u- 12.). Tutto dipende da lei. Tutto dipende

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO da come Anima saprà custodire e sostenere la sua gravidanza, da come, più in particolare, saprà vivere il suo rapporto con Amore: se ne profanerà il «segreto» o sarà in grado di proteggerlo e comprenderlo. L'occasione e il rischio di tale alternativa si macerializza ben presto nella figura delle sorelle di Psiche. È questo il grande «pericolo» che in­ combe sulla felicità della fanciulla. Un pericolo con cui l 'Anima deve mi­ surarsi decidendo con quale dimensione e con quale prospettiva far coin­ cidere sé stessa. Le sorelle di Psiche si recano nel luogo in cui ella era stata esposta e levano alci lamenti. Psiche ne sente la voce e ha nostalgia di quei passati legami familiari. Così ottiene da Cupido che esse possano aver accesso al suo palazzo mirabile. Le sorelle rimangono stupite di tanta ma­ gnificenza e, rose dall' invidia per quella condizione regale, vogliono asso­ lutamente sapere chi sia lo sposo di Psiche. La fanciulla, confermando la sua sostanziale simplicitas, la sua ancora disarmata ingenuità, si schernisce e, senza avvedersene, si contraddice, fornendo due ritratti completamente diversi del marito. Prima afferma che è un adolescente con le guance om­ breggiate dalla prima peluria, un giovane molto bello, sempre impegnato in battute di caccia. Più tardi sostiene che è un uomo maturo, con i capelli già brizzolati, un uomo d'affari dalle ingenti risorse. Le sorelle, cogliendo la difformità delle versioni e l'imbarazzo di Psiche, comprendono che ella non conosce la vera identità del marito. E ne traggono un'importante conclusione. Se Psiche davvero ignora chi sia il suo compagno, se la fortu­ nata fanciulla non sa affatto con chi si è congiunta, questo può voler dire un'unica cosa: «di sicuro è andata in sposa a un dio» (5,16). Il divino è ciò che i comuni mortali non arrivano a comprendere e a vedere. Per co­ noscerlo e abbracciarlo, bisogna elevarsi a esso, superando il limite della mortalità. Perché il divino si sveli, bisogna aver raggiunto un piano dif­ ferente dell'esistenza e dell'essere. Bisogna porsi alla sua ricerca. E Psiche è solo una fanciulla che non si è fatta ancora alcuna necessaria domanda. Per effetto dell'azzeccata deduzione, l' invidia delle sorelle si accresce ulteriormente: Psiche metterà al mondo un figlio divino ed esse non pos­ sono nemmeno tollerarne l' idea. Meditano, quindi, di funestare cale im­ menso privilegio, inducendo Psiche a rovinarsi con le sue stesse mani. La terrorizzano riprendendo le immagini dell'oracolo di Apollo. La povera Psiche non si rende conto - insinuano minacciose le sorelle - dell'atroce inganno di cui è vittima: quel marito sconosciuto è un serpente immane e orribile, dalle fauci profonde e dalle spire velenose, un mostro che la divo­ rerà, insieme al succulento frutto del suo utero, non appena la gravidanza

LA VIA DEGLI DEI sarà giunta a compimento. L'unico modo per sottrarsi a morte certa - le suggeriscono ancora - è cogliere di sorpresa il serpente e ucciderlo prima che sia lui a ingoiarla in un sol boccone (5,17-2.0 ). Le parole fanno presa. Psiche è scossa da quanto ha udito e, per la prima volta, è attraversata dal dubbio e dalla paura. Forse dietro a quel sogno in cui si è cullata c 'è qualcos'altro, qualcosa di misterioso e terribile. Forse quel divieto di vedere il volto dello sposo nasconde davvero una minaccia. I discorsi delle sorelle la mettono di fronte alla sua ignoranza, facendola tremare. Decide, perciò, di seguire il loro consiglio e di passare all'azione. Le sembra l'unica via possibile per salvarsi. Ma l'agire riposa, di nuovo, su una mancanza di conoscenza, su un'avventatezza e su una contraddizione inesplorata. Psiche, allo stesso tempo, « ama» suo marito e le carezze not­ turne che le dispensa, ma «odia la bestia>> che abiterebbe in quel corpo invisibile (5,2.1). Il contatto fisico nell'oscurità può essere il colmo della dolcezza e insieme il vertice dell'orrore ? Psiche si risolve a infrangere il divieto, ma, nel far questo, non sembra animata dal desiderio di vedere finalmente lo sposo. Se ne vuole difendere, eliminando quanto immagi­ na come una minaccia. Non pensa di scoprire il mistero di quell'amore, quanto piuttosto di ucciderlo perché crede di doverne morire. Seguendo i suggerimenti delle perfide sorelle, Psiche si appresta al misfatto. Lei che non è affatto « forte nel corpo e nell'anima », lei che è solo una tenera fan­ ciulla, si arma e opera come un maschio. La passiva Psiche diviene, all' im­ provviso, virilmente attiva: sexum audacia mutatur, l'audacia necessaria all'impresa le fa mutare sesso (5,2.2.). L'anima - come sappiamo - non può che essere androgina, quando, nel bene o nel male, voglia compiere un effetto. Attendendo il momento opportuno, Psiche procede, nella notte, con un coltello in una mano e una lucerna nell'altra. Un coltello per troncare il capo della bestia. Una lucer­ na per dirigere l'azione al suo bersaglio. Quando, tuttavia, è sul punto di sferrare il colpo, lo spettacolo che le si fa innanzi è di stordente meraviglia. Disteso sul letto c'è il corpo di Cupido, il corpo d'amore nella sua divina bellezza: un corpo sfolgorante di luce, un bagliore che illumina più del fuoco della lampada. Ma se amore è, per sua natura, così sfolgorante da vincere la tenebra, come mai, ci si potrebbe chiedere, Psiche non aveva mai percepito quell'intensa luminosità nelle tante altre notti insieme ? Forse perché, al di là della proibizione di vedere, l'anima era, di fatto, incapace di visione. Adesso, in ogni caso, Psiche vede, contro ogni sua aspettativa. E ciò che vede la sconvolge.

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Disarmata, si accascia e vorrebbe immergere nel suo petto quella lama con cui voleva troncare la vita di Cupido. Vorrebbe essere lei a morire per aver concepito un tale progetto. Si rende conto di tutta la sua insipienza e pochezza. E tutto cambia: « spontaneamente, senza accorgersene », Psi­ che è «presa da amore per Amore » (5,23). Ma se la passione è innescata dalla visione « straordinaria » che si è appena dischiusa, se solo in questo momento l'anima si accende d'amore, ciò significa che prima Psiche non era davvero innamorata: non era amore quell'emozione inconsapevole e trasognata che ella aveva sentito e di cui si era beata. Amore è un'altra cosa e per raggiungerlo occorre una perdita di "innocenza'', occorre trasgredire i divieti, commettere errori e soffrirne. Psiche si rende conto del suo ingan­ no, si rende conto di non aver compreso nulla. Cercando di vedere, ha certo disubbidito. Ma i divieti delle favole sono fatti per essere violati. E la scena, per certi versi, potrebbe ancora conclu­ dersi senza nefaste conseguenze. Cupido, infatti, non si è accorto di quan­ to è accaduto nella stanza. Ha continuato a dormire sereno mentre Psiche lo contemplava rapita. È un imprevisto - non privo di significato - a com­ piere l' irrimediabile. La lucerna che Psiche tiene in mano non è forse un semplice oggetto. Ha una vita propria e si anima, a sua volta, dinanzi al mirabile corpo del dio. Emozionata e turbata da tanta bellezza, la lucerna all'improvviso «schizza » una goccia d'olio incandescente sulla pelle di Cupido. La lucerna non riesce a trattenere, dentro di sé, il proprio liquido, il combustibile materiale della propria fiamma. Si lascia andare e non si controlla. Una reazione molto umana e, per così dire, maschile nel ples­ so androgino dell 'immagine dell'anima che qui si dispiega. Una reazione molto fisica, ma del tutto inopportuna per il dispiegarsi dell 'operatività iniziatica che la favola allusivamente sottende. Ed è proprio questo l'erro­ re fatale che - a prescindere dalla lettera del divieto - l'azione segnala. Il calore del fuoco è indispensabile all'anima per vedere e per incamminarsi in una via di trasformazione che la faccia evolvere dalla condizione ordi­ naria. Ma la fiamma deve essere sapientemente moderata. Il fuoco deve essere regolato. Altrimenti ci si brucia senza ottenere alcun positivo effet­ to. Il mistero d'amore non è cosa che possa essere aggredita con violenza o con un impeto lasciato al suo spontaneo sfogo. Il coltello e la lampada potrebbero anche essere strumenti utili per misurarsi con quella «bestia» serpentiforme che Cupido è, quando non si manifesta come un fanciul­ lo. Ma occorre saperli usare. E non è, per ora, il caso di Psiche. La goccia bollente ustiona Cupido con l'effetto di produrne l' immediato risveglio

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e insieme l' istantanea fuga. Veloce e inafferrabile come Mercurio, Amore si dilegua, reagendo - come era ovvio - alla profanazione di cui è stato oggetto, all' intempestiva e inesperta azione della fanciulla. Tradita dalla sua fiamma, Psiche, in un istante, perde tutto. Rimane sola con sé stessa, immersa nella più completa disperazione. Ora com­ prende anche che cosa significhi l'assoluta mancanza e l'assoluta povertà, che cosa significhi quel bene di cui aveva semplicemente "goduto" senza sapere. Il suo primo impulso è di suicidarsi. E si getta in un fiume. Vuole sprofondare, farsi sommergere, annegare nell'acqua del suo stesso scon­ volgente dolore. Ma il fiume pietosamente la rifiuta, riportandola con la sua corrente sulla solida terra. Psiche non deve perdersi, ma, all'asciutto, sulla consistente terra, riprendere la sua avventura dando a essa un nuovo corso. E non è un caso che a confortarla e a incoraggiarla sia proprio il rustico dio Pan, il dio della natura primigenia e selvaggia, il signore della pura istintualità. Il Pan che già Platone aveva evocato nei sortilegi del Fe­ dro. E Pan, appunto, invita Psiche a non abbandonarsi a quel desiderio di autodistruzione. Anima soffre per amore, ma l'unica saggia misura è porsi a venerare la divinità di Amore nel modo e nella forma che sono necessari ad acquistare il suo favore (5,25). Inizia, così, per Psiche, quella ricerca, quella quéte, che è propria di ogni iniziazione e di ogni traiettoria realmente sapienziale. Il primo luogo ave ella sosta è un tempio di Cerere, la Demetra romana ( 6, 1 2 ). Una stazione dal valore simbolico che rinvia al nucleo dei misteri. Demetra aveva vagato per tutta la terra per ritrovare Persefone, la figlia che le era stata strappata da Ade. Così Psiche deve vagare per « tutte le genti » , girare e penare se vuole ritrovare e riconquistare quel bene assoluto che ha perduto e di cui ha necessità per essere. Deve affrontare un viaggio che sarà irto di difficoltà e di dolore. Non ha altra possibilità perché l'anima non può vivere senza amore. Nel suo vagabondaggio, Psiche si reca anche nel tempio di Giuno­ ne, sperando che la dea delle nozze e del legittimo amore coniugale possa soccorrerla. Ma nulla ottiene poiché la radice del problema riposa sulla questione dell'amore stesso e sul rapporto con Venere, la dea che a esso presiede nella vita dell'universo. Nel frattempo, infatti, Venere ha appreso l'intero accaduto, accenden­ dosi di uno sdegno incontenibile. È l'ira di una madre nei confronti del fi­ glio che ha disubbidito. È l' ira di una dea nei confronti di una donna che ha osato infrangere i limiti della sua condizione. Cupido non solo non ha in­ flitto alla fanciulla il castigo richiesto ma, per di più, si è sconsideratamente -

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO unito a lei. E Psiche, che già aveva usurpato gli onori e la fama della dea, ora si troverebbe a esserle inopinatamente parente, con l'aggravante di una gravidanza. «Nozze impari », lamenta Venere furibonda: come può una comune mortale unirsi a un dio ? Come hanno osato, quei due, sfidare il volere e la legge della Grande Madre divina? Si sono abbandonati ad « am­ plessi licenziosi e prematuri ». Nessuno dei due era pronto a fare quello che ha fatto: hanno usato dell'amore e del sesso senza la «maturità» e la quali­ ficazione necessarie. E cosa potrà nascere dal ventre di Psiche ? Sicuramente un «bastardo », una prole illegittima, poiché i genitori non partecipano di una medesima natura, di una stessa condizione ( 6,9). L' impulsivo Cupido, già sofferente per la bruciatura dell'olio, dovrà dunque - decide Venere ­ essere sottoposto a una salutare e drastica cura di « sobrietà» : solo così i suoi bollori e la sua sregolatezza potranno trovare la misura di una saggia moderazione ( 5,2.9-30 ). Quanto a Psiche, una punizione ancora più aspra la attende. Ma prima bisogna trovarla e catturarla. Per far questo Venere ricorre all 'alato Mercurio affinché questi dif­ fonda un bando, promettendo un premio a chi riveli dove la fuggitiva sia nascosta. Tra le righe della favola emerge così un ulteriore particolare si­ gnificativo: Venere - per sua stessa ammissione - non fa mai nulla senza Mercurio ( 6,7 ). Per raggiungere i suoi scopi, la dea dell'amore ha sempre bisogno dell'alato e rapidissimo messaggero che mette in comunicazione cielo e terra: ha bisogno dell' intervento di quel dio, di quella forza che, per eccellenza, trasporta le anime dal visibile all' invisibile e, in senso inverso, dall'invisibile alla dimensione del manifesto. Il bando di Mercurio - l'in­ tervento del divino psicopompo, del «conduttore di anime », il corrispet­ tivo latino di Ermete - fa decidere Psiche di presentarsi spontaneamente alla dimora di Venere. Dove altro potrebbe trovare l'amore che ha perdu­ to se non nella casa dell'amore ? Accada quel che accada. Anima è ormai pronta a subire qualsiasi cosa, anche ad affrontare una « morte certa », pur di ottenere ciò che più desidera ( 6,s; 6,8). Ed è questa la condizione richiesta per passare la soglia dei Misteri. Al di là di essa - all'interno del palazzo divino, nel luogo della morte e della trasformazione - la fanciulla viene subito ghermita dalle fide ancelle della dea, Ansia e Tristezza, che la sottopongono a ogni sorta di tormento ( 6,9 ). Nell'anima e nel corpo Psiche è excruciata, messa in croce, straziata e umiliata. Una tortura a oltranza, senza pietà, una « flagellazione » che non la risparmia in alcuna sua parte. Ed è quel che accade, sempre, una volta imboccata la via dell 'iniziazione. Spogliata di tutto, ridotta a un nucleo

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dolente, Psiche deve quindi affrontare una serie di prove. Sono prove im­ possibili e iperboliche con cui Venere la sfida. La dea mescola e confonde in un unico enorme mucchio semi di ogni genere di pianta, dal grano al papavero, dall'orzo alle fave. La fanciulla dovrà, prima che cali la sera, ri­ mettere tutto in ordine, distinguendo i vari tipi di granelli e raggruppan­ doli secondo la loro specie ( 6,10 ). Psiche non sa come districarsi in quella confusione immane di elementi minuscoli. Ma in suo soccorso, come in ogni favola che si rispetti, compare un insperato aiuto. Le formiche, impie­ tositesi di lei e assai esperte nel raccogliere semi, si mettono subito all'ope­ ra e ben presto assolvono al lavoro, liberando Psiche dall'impaccio. Venere, perplessa per il risultato comunque raggiunto, le propone un'ulteriore prova. Attraversato un fiume, la fanciulla si imbatterà in un gregge di singolari pecore il cui vello è tutto d'oro: Psiche dovrà recare alla dea proprio un bioccolo di tale preziosa lanuggine. Nel formulare l'ordine Venere omette, tuttavia, di dire che quelle pecore sono ferocissime e sbra­ nano chiunque le avvicini. Il pericolo è mortale e l' ignara Psiche andrebbe incontro a una fine atroce se non fosse per l'ulteriore aiuto che le viene offerto. Una canna che cresce sulla riva del fiume la avverte del rischio e la istruisce sul momento opportuno in cui accostare gli animali senza incor­ rere nel loro furore ( 6,11-12.). L' impresa è superata con successo, ma Venere non si arrende e rilancia con un compito ancor più estremo. Da un'altissima vetta scaturisce una fonte tenebrosa e gelida che, scorrendo lungo il dirupo scosceso, va a irri­ gare nientemeno che la palude Stigia e il corso dell'infero fiume Cocito. Un'acqua letale anche per gli dei, un'acqua che, nella sua discesa tra le roc­ ce, è protetta da venefici serpenti. Psiche dovrà - comanda la dea - essere capace di raccogliere un po' di quel liquido in un'ampolla ( 6,13-IS). E, di nuovo, l'ingiunzione inadempibile viene risolta grazie a un'aiutante che si presenta a Psiche: un'aquila si offre di volare, per lei, alla vetta, sfidando le fauci delle serpi e attingendo le pericolose stille della sorgente. Tre prove gravide di risonanze simboliche e di allusioni rituali. Le for­ miche sono, come il testo ricorda, « alunne della terra» ed è alla terra che il primo compito si riferisce: la madre terra che accoglie il seme e lo fa ger­ mogliare nel giusto tempo. Ma se tutti i semi sono mescolati alla rinfusa, che raccolto ne potrà derivare ? Bisogna discriminare o, per essere più pre­ cisi, separare un seme dall'altro, una specie dall'altra, se si vuole ottenere un determinato frutto. Separare equivale a purificare, come faceva il vaglio del grano, scosso sulla testa degli iniziandi dei misteri di Eleusi. Separare

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO significa, ancora, isolare qualità specifiche in vista di un risultato. Il gregge di pecore, d'altro canto, ricorda l'impresa degli Argonauti: in entrambi i casi si tratta di affrontare pericoli terribili per conquistare il vello d'o­ ro, che è immagine di sapienza e di perfezione. Ma per raggiungere l'oro bisogna attraversare le acque - il corso di un fiume o quelle del mare - e ascoltare la voce di un essere che, come la canna, è cresciuto nelle acque e da esse ha tratto il suo nutrimento. L'aquila, infine, che ascende volando alla vetta è una creatura del! 'aria ed è attraversando l'aria che si può racco­ gliere quell'acqua misteriosa e temibile: un'acqua che sgorga in alto, ma si raccoglie nel basso più profondo dell'Ade. Terra, acqua, aria: le tre prove corrispondono ad altrettanti viaggi nei regni della natura. Viaggi iniziatici attraverso gli elementi fondamentali, come accade negli itinerari misterici. Prove superate facendo appello alle creature che abitano tali elementi e ben li conoscono. Ma le creature, questi aiutanti fatati, sono altrettante facoltà che l'anima deve trarre da sé stessa nel suo cammino. Venere è stupefatta che Psiche abbia portato a termine quanto ordina­ to. E significativamente sbotta: «Mi sa proprio che sei una maga assai po­ tente ed esperta, se sei riuscita a eseguire, in tutto e per tutto, i compiti che ti ho imposto» (6,16). Per superare il limite, per affrontare l' impossibile occorre sviluppare doti magiche. Ed è a questo, d'altro canto, che le prove stesse servono. Ad accrescere e a orientare le potenze dell'anima affinché riesca a fare ciò che nel suo stato ordinario le sarebbe precluso. Ma un passaggio, il più estremo, resta ancora da compiere. La dea con­ segna a Psiche un vasetto e le impone di scendere nel regno di Proserpina, ovvero di Persefone: dovrà chiedere alla regina dell'oltretomba di porre in quel contenitore un misterioso farmaco di «bellezza » di cui Venere ha bisogno. L'ultima prova è, dunque, la tradizionale catabasi nell 'Ade, la di­ scesa negli inferi. La potenza di Venere si mette in relazione con quella di Proserpina, la forza dell 'amore con il potere della morte, per ottenere una particolare forma di « bellezza ». Psiche si rassegna, ma non sa bene come procedere per penetrare nell 'Ade. Pensa di gettarsi giù da un'alta torre (6,17-19). Togliersi la vita è il modo più ovvio per accedere all 'aldilà. La morte fisica è la via consueta e naturale per lasciare la dimensione finita del corporeo. Ma la morte iniziatica è un'altra cosa, un'altra modalità del mo­ rire. È una tecnica, un metodo rituale con finalità determinate. Chi non ha praticato i misteri non ne vede la differenza e può financo ammazzarsi, prendendo sbrigativamente alla lettera la parola e l' indicazione. Ci vuole sempre un' istruzione e una guida per evitare rischi assoluti quanto inutili.

LA VIA DEGLI DEI In questo caso, è la torre stessa che prende la parola per ammaestrare Psiche, insegnandole che c 'è un'altra via per raggiungere Proserpina e al­ cune accortezze da osservare strada facendo. Psiche affronta anche questo viaggio, attenendosi con grande scrupolosità alle istruzioni ricevute. Supe­ rate le insidie e gli ostacoli della via infera, ella compie la propria missione, ricevendo da Proserpina il vasetto colmo del prezioso balsamo. Quando ormai è ritornata, sana e salva, alla luce del mondo, la fanciulla è tuttavia afferrata da un improvviso quanto temerario pensiero. La torre le aveva raccomandato di « non voler aprire né guardare dentro al vasetto » , di non cedere alla «curiosità di spiare il tesoro nascosto della bellezza divina » . Ma è proprio quell 'impulso che ora la attraversa. Ripetendo quanto era accaduto nella relazione con Cupido, Psiche parrebbe, di nuovo, tentata dal desiderio di una visione proibita. E proprio come nella scena notturna del talamo, anche adesso sembra dimenticarsi del monito ricevuto, infrangendolo senza preoccuparsi delle conseguenze. Tanto in un caso quanto nell'altro, Psiche sarebbe mossa dalla «curiosi­ tà ». Peccherebbe di un'esiziale indiscrezione, violando un tabù divino. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, se proprio di curiositas si tratti, nel sen­ so che questo termine usualmente richiama. A ben considerare entrambe le scene, il proposito di Psiche non è primariamente quello di vedere ciò che le è stato negato, bensì di compiere un'azione sulla base di un deside­ rio e di una convinzione. In entrambe le situazioni vi è un intento che la anima e guida le sue mani, al di là della mera curiosità. Allora pensava di uccidere un pericoloso mostro per non esserne a sua volta uccisa e non aveva alcun dubbio, in sé, che nel letto giacesse un serpente. Ora ciò che la spinge a dischiudere il vasetto è - come ella stessa dice, ragionando fra sé - il desiderio di farsi bella per poter riconquistare il suo Amore ( 6,2.0 ). Non dubita che nel vaso ci sia una sostanza capace di produrre tale effetto. Vuole semplicemente godere del suo beneficio. Anima desidera parteci­ pare della bellezza divina, desidera essere divinamente splendida. Nel suo agire imprudente e forse confuso vibra un nobile intento. Un intento che coincide con il compimento stesso della via iniziatica, quale che sia, per il momento, l'effettiva consapevolezza della fanciulla. Ma è appunto sin lì che la strada e le prove la guidano. Così apre il vaso che non contiene, in realtà, alcun unguento. Dentro non c'è « alcuna cosa » , niente di propriamente materiale, come ci si aspet­ terebbe. Solo una nebbia, un vapore che si sprigiona, avvolgendo Psiche. Un « sonno infero », un «torpore » che si impadronisce della fanciulla

MISTERI D 'AMORE. TRA PLATONE E APULEIO e la paralizza. Uno stato simile alla morte, una sospensione della vita, la «possiede ». Psiche giace immobile come un «cadavere addormentato » ( 6,21 ). Il sonno e la morte, la possessione della mente e la stasi fisica si intrecciano sempre nelle pratiche di trasformazione. Il corpo di Psiche appare morto e "disanimato", ma questa è forse proprio la condizione ne­ cessaria affinché la sua anima attraversi l'ultima soglia. Affinché Psiche, Anima, sia ridestata a un'altra condizione. Cupido, infatti, non tarda a intervenire in soccorso della sua amata. La risveglia, liberandola dal son­ no mortale. La riporta alla vita. Ma non è più la stessa vita, l'esistenza sin qui condotta. Cupido ottiene che Psiche sia accolta nell 'Olimpo, ottiene che l'anima divenga anch'essa una potenza immortale, bevendo la divina ambrosia (6,22-23). È sempre e solo l'amore che può donare all'anima una vita senza fine, al di là del tempo e dello spazio. Nell'Olimpo Psiche porta a termine la propria gravidanza. Da Anima e Amore nasce una meravi­ gliosa e incantevole figlia: Voluptas ( 6,24 ). Il suo nome può suonare am­ bivalente e destare sorpresa nella conclusione di questo percorso. Voluttà, nell'accezione più comune, evoca il piacere dei sensi e della carne, le gioie del sesso o ancora un godimento da cui è assente ogni spiacevole dolore. Ma la voluptas che nasce, in cielo, da questa divina unione è qualcos' altro. Uno stato di pienezza e di perfezione, una gioia assoluta che eccede ogni misura mortale e ogni esperienza ordinaria. Non si tratta di contrapporre la voluttà dei sensi a un «piacere» di ordine differente, negando la prima a favore della seconda. Ma di transitare, sapientemente, dall'una all'altra, in una conversione di energie che riguardano congiuntamente l'anima e il corpo. È il medesimo suggerimento che Pan e le Ninfe avevano ispirato a Socrate sull ' Bisso. Voluptas, d'altro canto, ha a che fare etimologicamente con volo e con voluntas. È l'espressione, appunto, di una volontà e di un intento indirizzato a un fine. Una volontà e una gioia di creare una cosa che duri. Una vita divina. La bella fobella, narrata dalla vecchia a consolare la desolata fanciulla rapita, richiede orecchie attente per cogliere quanto il «piacevole » rac­ conto suggerisce. Nella caverna, accanto alle due donne, Lucio, chiuso nel corpo di un asino, ascolta tutto, senza perdersi nemmeno una parola. Più tardi, come sappiamo, mangiando le rose di lside, si spoglierà di quella veste bestiale che lo sfigura e lo tiene prigioniero. Anche lui, come Psiche, troverà un compimento. Il romanzo di Apuleio, che incastra una storia nell'altra, oscilla continuamente tra il serio e il faceto, tra l'indicazione allusiva e il dilettevole intrattenimento, tra l'aura m isterica e lo smaliziato

LA VIA DEGLI DEI trafficare mondano. Ma delle cose più serie non si può parlare, non si può scrivere propriamente che scherzando. La scrittura, che richiama e ricorda le cose più «preziose » , non può essere che gioco, come il Fedro platonico aveva detto. Forse non si è mai così vicini al sacro, così fedeli al divino, che quando tutto sembra avvolto nell'atmosfera dello scherzo e della parodia. È il modo di dire queste "cose" senza tradirle. Gli iniziati, avverte un vec­ chio adagio, sono sempre dei grandi burloni.

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L'opera divina Tra neoplatonismo e teurgia

La filosofia misterica

Erano passati secoli dall'Atene di età classica. L' impero romano, nelle sue alterne vicende, tra occidente e oriente, aveva cambiato l'aspetto del mon­ do. Ma la memoria e l' insegnamento di Platone continuavano a essere vivi. Vi era stato chi aveva continuato a nutrirsi delle sue parole e a meditare nel solco tracciato dal maestro, a Roma come ad Alessandria, in Siria come in Grecia. Da Platino a Porfirio, da Giamblico a Proda, i dialoghi platonici costituivano una fonte di ispirazione e di sapienza. A quasi dieci secoli di distanza, Proda iniziava la sua Teologia platonica, celebrando Platone come «guida » e «ierofante » degli « autentici riti» che mostrano all'uomo la via per conquistare i « beni davvero grandi e soprannaturali ». I dialoghi che Platone aveva scritto e quanto era stato trasmesso oralmente non costi­ tuivano solo un sistema di sapere, una teoria, fra le tante, che si potevano studiare e commentare come un esercizio scolastico, per poi, magari, pro­ fessarsi "filosofi". Quegli scritti e quelle parole - affermava Proda - con­ tenevano una vera e propria mustagogia, una sacra « iniziazione ai misteri delle realtà divine » : grazie a «quell'unico uomo», la sapienza iniziatica aveva potuto « rifulgere in modo venerabile e ineffabile come avviene nei sacri riti». Platone aveva indicato quella preziosa mustagogia, racchiuden­ dola « saldamente» nelle sue opere come « ali' interno dei penetrali di un tempio ». Molti, tuttavia, non avevano inteso e non erano riusciti a pene­ trare n eli'dduton, nella cella più riposta di quel santuario. Vi avevano visto solo l'esercizio della dialettica, la confutazione degli inganni dei sofisti, la teoria delle «idee » come strumenti intellettuali per definire una nozione di verità. Ciò che vi era di sacro e di divino in quelle parole era rimasto « in­ visibile » a molti sedicenti filosofi di professione e di scuola. Perché non si trattava solo di studiare o di disputare, ma di adottare uno stile di « Vita» coerente e confacente a quell' «iniziazione misterica ». Si trattava di vivere

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davvero ciò che, nell'opera del maestro, si evocava: bisognava portarsi nella condizione dell' «estasi dionisiaca » , bisognava esser in grado di giungere all' epoptéia, alla «visione » diretta del divino. Per dare la «caccia all'esse­ re », gli amanti della sapienza non dovevano divenire - come si direbbe oggi - degli intellettuali, ma trasformarsi in alethinoi ieréis, in « autentici sacerdoti» e in «maestri della visione »: «Non è possibile - concludeva Proda - intuire il divino se non si è stati iniziati per mezzo della luce che da lì proviene, non è possibile farlo conoscere ad altri se non ci si fa guidare dagli dei e da quanto è racchiuso nei loro nomi, allontanandosi dalla varietà delle opinioni e dei discorsi» (Proda, Teologia platonica, 1,1 ) . L'egiziano Platino - che Proda annoverava tra i maestri che lo avevano preceduto - affermava che per intraprendere quel percorso occorre fare di sé stessi un dgalma, una « statua divina », secondo un'immagine che lo stesso Platone aveva usato. Il lavoro non consiste nell'abbellire la propria identità di uomini, aggiungendovi semplicemente qualche ornamento. È un'operazione ben più radicale. Bisogna prendere sé stessi come un blocco di pietra grezza e, come fa uno scultore incontentabile, scalpellare e to­ gliere strato dopo strato. Bisogna estrarre da quella pietra scabra la forma invisibile e perfetta che in essa è sepolta. Questa scultura è, in realtà, un'o­ pera estrema di purificazione e di isolamento di quel nucleo divino che sta dentro a ognuno: «Fai come fa lo scultore che da una parte elimina, da una parte assottiglia, qui leviga, lì ripulisce [ ... ] così anche tu elimina ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto, purifica e rendi luminoso ciò che è oscuro, e non cessare di scolpire la tua statua finché il divino fulgore della virtù non risplenderà in te » (Platino, Enneadi, 1,6,9 ). Liberare dalla pietra una bella immagine, togliere ogni impurità, non costituisce, tuttavia, il termine ultimo del lavoro. Per toccare il traguardo supremo, per raggiungere l'unione con l' Uno divino, bisogna andare al di là anche della forma più bella, perché l ' Uno è prima di ogni forma e di ogni bellezza. Bisogna cancellare da sé stessi ogni limitazione e ogni trac­ cia di alterità, spegnere ogni pensiero, eliminare ogni contenuto e ignorare persino il proprio stesso essere. Per essere folgorati dalla «pienezza » e dal­ la «luce » dell' Uno è necessario trasformarsi, a propria volta, in pura luce: «una sola vera luce non circoscritta da alcuna figura [ ... ] una luce priva di misura perché superiore a ogni misura e a ogni quantità » . Come può prodursi questa condizione ? Aphele pdnta, «elimina ogni cosa », « togli tutto» rispondeva Platino (Enneadi, 5,3,17 ). Così, l'anima può incontrare il principio supremo di ogni cosa, « da solo a sola » in uno stato di assoluta

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« semplicità » poiché « non c 'è più nulla fra loro, non sono più due, ma una cosa sola [ ... ] come gli amanti che si fondono nel loro comune amo­ re » (Enneadi, 6,7,34). Platino raccontava di aver provato questa esperienza. Ed era questo, d'altro canto, l'unico desiderio che animava i veri « amanti della sapien­ za » : «Spesso mi è accaduto di destarmi dal sonno del corpo, diventando estraneo a ogni cosa e intimo solo a me stesso. Allora contemplavo una bellezza meravigliosa e avevo la certezza di appartenere a una realtà supe­ riore, vivevo la vita più alta ed ero diventato identico al divino» (Enneadi, 4,8,1). Altrove aggiungeva, rivolgendosi a chi poteva intendere per essere stato partecipe di analoghi risvegli: « Chiunque ha visto sa ciò che dico, sa come l'anima possegga allora un'altra vita quando si accosta all' Uno e or­ mai gli è vicina e ne partecipa» (Enneadi, 6,9,9 ) Dopo quelle esperienze di « stasi in seno al divino» , tornando alla dimensione del corpo e ai confini di un'identità umana, Platino si era interrogato su come fosse possibile tale transizione tra i piani, come fosse possibile che l'anima fosse « discesa » in una realtà corporea, se la sua natura era quella che egli aveva potuto speri­ mentare destandosi. Giunse a una conclusione che, in parte, sovvertiva la tradizionale immagine dell'anima irrimediabilmente «caduta» nella ma­ teria e nel divenire: «La nostra anima non si è sprofondata tutta quanta nel corpo, ma qualcosa di essa rimane sempre nel mondo intelligibile; quando, tuttavia, la sua parte che si occupa del sensibile prevale, o per meglio dire, è soggiogata e dominata dal sensibile stesso, noi non abbiamo consapevolez­ za di quello che la sua parte superiore contempla » (Enneadi, 4,8,8). L'anima, dunque, non avrebbe mai completamente rescisso il suo le­ game con il divino e con la realtà superiore. La sua parte o le sue facoltà superiori continuerebbero, in permanenza, a vivere la pienezza di quella vita. Siamo « noi » che non ce ne accorgiamo, che non siamo consape­ voli dell' « attività» e della somma beatitudine del nostro «uomo supe­ riore » perché ci identifichiamo esclusivamente con il « secondo uomo» , con l ' «uomo aggiunto» che attende alla vita e ai bisogni del corpo, che sente e ragiona in base ai dati dei sensi. Non siamo davvero «coscienti » di «chi siamo» e di che cosa possiamo essere. Non « facciamo uso» di quanto pure possediamo in noi stessi, perché orientiamo la nostra anima unicamente verso il basso, distogliendo l'attenzione da ciò che appartiene ai livelli superiori. li divino e l'Uno sono sempre e ovunque «presenti », siamo « noi »che «ci assentiamo» dal divino e non siamo «presenti» a noi stessi, perché ci «voltiamo altrove » e ci chiudiamo nella determina.

LA VIA DEGLI DEI zione finita di una parte, limicandoci a essere « qualcuno » anziché vivere la vita del «Tutto» (Enneadi, 6,5,12). Ogni anima «è e diviene ciò che contempla » , «è e diviene ciò di cui si ricorda » (Enneadi, 4,3,15; 4,3,5). Se guarda e ricorda solo il mondo sensibile, finisce per coincidere con esso, completamente ignara di quell'oltre e di quelle altre facoltà che la costitu­ iscono. Per questo è essenziale ampliare la dimensione della coscienza. Per questo è necessario mutare orizzonte e fissare saldamente l' « attenzione» a quell' «uomo » divino, che, in verità, non abbiamo mai cessato di essere: «Bisogna smettere di guardare - raccomandava Plotino -, chiudere gli oc­ chi e sostituire questo modo di vedere con un altro, destando quella facoltà che tutti hanno, ma ben pochi usano» (Enneadi, 1,6,8). Tutti, dunque, se volessero, potrebbero « vedere» , attivando una facoltà assopita. Altri « sacerdoti » dei misteri platonici - da Giamblico a Proclo - non concordavano, tuttavia, con cale opinione di Plocino. Non credevano che il vertice dell'anima fosse in perenne contatto con il mondo superiore quando essa si trovava legata a un corpo di carne. Pensavano, al contrario, che il rapporto con il corpo e con la materia modificasse e limitasse la na­ tura della psuché, crasformandone in parte la «sostanza» (Proclo, Com­ mento al Timeo, 3,333). In questo senso, l'anima era davvero « discesa » perché, pur essendo immortale, essa non godeva più delle facoltà e della pienezza del divino: si era prodotto un distacco, uno iato, che non poteva essere colmato con un rivolgimento dello sguardo. Tali differenze di pro­ spettiva non erano, probabilmente, solo questioni teoriche o variabili di un ambiente culturale. Erano, forse, anche diversità di nature individuali e di capacità soggettive. Le vie del risveglio non potevano e non possono essere le medesime per tutti. Tecniche e metodi si adattano, di necessità, ai destini e alle facoltà di ognuno, ai punti di partenza e alle condizioni di vita di cui ciascuno dispone. Per Giamblico, come per Proda, non si trattava solo di «chiudere gli occhi » e di « togliere tutto» . L'ascesi del pensiero e le facoltà della mente umana, a loro avviso, non erano sufficienti, di per sé stesse, a procedere oltre una certa soglia. Vi erano poteri, perduti con l' incarnazione, che do­ vevano essere generati e sviluppati in altro modo. Perché i « misteri» pla­ tonici fossero davvero «vita » e non dottrina, lo studio, la concentrazione interiore e la purezza del regime quotidiano dovevano essere affiancati e completati da una pratica di «riti sacri » , da un esercizio progressivo quan­ to intenso della magia. Non la magia volgare, dedica a interessi e finalità materiali che legano, ancor più, l'uomo al mondo del divenire e alla cor-

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poreità. Ma una magia che aprisse la via dei mondi superiori e portasse al cospetto degli dei, valicando i limiti della ragione umana. Si volsero così alla « teurgia », a quell 'arte il cui nome significa appunto «opera divi­ na » : l' «opera » che eleva l'uomo all ' huperphués, al « sovrannaturale » e al « super-umano» . Per questo, si dedicarono allo studio degli Oracoli cal­ daici attribuiti a Giuliano il Teurgo, che di quelle pratiche arcane era stato maestro. Esplorarono le tradizioni greco-egizie che si legavano alla figura divina di Ermete «Tre volte grande ». Rimeditarono sugli enigmi e sulle immagini dei poemi orfici. Tutto si doveva fondere in un'unica scienza sacra che inverasse quell' « assimilazione al divino» e quelle «iniziazioni perfette» cui Platone aveva accennato nel Teeteto e nel Fedro. I « misteri » della sapienza platonica dovevano accompagnarsi e tra­ dursi in un complesso cerimoniale di preghiere efficaci, di consacrazioni potenti e di estasi luminose. Il pensiero, trascendendo sé stesso, doveva tra­ sformarsi, a un certo punto, in «opera » e in « azione ». In tale prospettiva, filosofia e teurgia finivano per designare due livelli distinti e progressivi di un unico percorso ascensivo. Lo scopo dell'esercizio «filosofico », propria­ mente inteso, consisteva - affermava il neoplatonico Olimpiodoro - nel «fare di noi una "mente" », nel portarci a essere un nous capace di accostar­ si alle « idee» e di intuire le strutture intelligibili della realtà. Ma, una volta che tale livello fosse raggiunto, il lavoro avrebbe dovuto dispiegarsi verso un ulteriore e supremo compimento. La « mente», destata dall 'esercizio filosofico, doveva «unirsi », attivamente, a quel mondo divino al punto da diventare identica con la suprema sorgente dell' illuminazione. Tale infatti - concludeva Olimpiodoro - era lo scopo e il fine della teurgia: « farci es­ sere una "cosa solà' con l'intelligibile e conformare la nostra "attività" a quel modello» (Olimpiodoro, Commento al Fedone, 8,2), fino al punto che la mente, unificata a sé stessa, venisse, infine, a coincidere con l ' Uno. Secondo tale articolazione, la dialettica, la divisione degli enti in generi e specie, la definizione e l'intuizione del modello ideale - il consueto ad­ destramento della pratica filosofica - rappresentavano il grado preliminare di una purificazione necessaria per sviluppare e potenziare la mente, astra­ endola dalla dispersione e dall'opacità confusiva dell'universo materiale. Come un coltello che smembra la vittima sacrificale, l'arte dialettica - che Platone aveva insegnato ai suoi discepoli - penetrava il corpo del mondo, scarnificando il sensibile e isolando in esso le strutture noetiche che ne sono il fondamento. Con un duplice movimento di ascesa e di discesa, di sintesi e di divisione, il procedimento filosofico coglieva l'unità e insieme

LA VIA DEGLI DEI l'articolazione dei modelli ideali che tramano il tessuto dell'universo. Così operando, al termine del percorso si poteva giungere a intuire quell'infi­ nita dunamis, quella meravigliosa «potenza » che - come Platone aveva suggerito (Sojìsta, 2.47 e) - caratterizza td onta, «le cose che sono ». Ma essere «congiunti » con quella «potenza», vivere e agire sul piano dell'in­ telligibile e, di lì, slanciarsi all' ineffabile dunamis dell' Uno costituiva un grado ulteriore di sviluppo e di perfezionamento. Per accedere a quel livello occorreva - affermava Platino - l'unificazione intensiva di una mente con­ centrata in sé stessa; occorreva - dicevano, per contro, i filosofi dediti alla teurgia - un'arte elargita dal divino stesso, un'arte che trascendesse ogni fa­ coltà umana. Tutto ciò che esiste - la natura del cosmo così come la natura degli uomini - può unirsi e risalire ai principi superiori e alle cause divine della realtà, seguendo tre «vie », fra loro distinte e insieme concatenate in una progressione, a seconda del grado cui ogni cosa appartiene e del livello da cui muove per realizzare l'ascesa: « alcune cose - sintetizzava Proclo - si congiungono ai loro principi per mezzo della follia amorosa, altre attraverso il divino amore per la sapienza, altre ancora per mezzo della potenza teur­ gica che è superiore a ogni saggezza e a ogni sapere dell 'uomo, in quanto raccoglie in sé i poteri della veggenza, le forze purificatrici dell' iniziazione e tutti gli effetti della divina possessione » (Proclo, Teologia platonica, 1,2.5).

Il potere dei simboli

Il cosmo - aveva detto Platone nel Timeo (37 d-e) - è un dgalma, un' « im­ magine sacra» che il divino «demiurgo » aveva plasmato, contemplan­ do un « modello » ideale, che è, per sua natura, un «eterno vivente » . Per questo l'universo e l'uomo, in ogni loro articolazione, partecipano della vita e della rifrazione di quel parddeigma, che è sempre uguale a sé stesso. Dall' Uno - avevano esplicitato i continuatori di Platone - tutto si svilup­ pa secondo un'ordinata e progressiva «processione » di piani e di entità fino a giungere al mondo della materia: una catena ininterrotta di anelli che unisce l'alto e il basso, la sorgente eterna e la dispiegata manifestazione del divenire. Ma, proprio per questa perfetta catena dell'essere, ogni cosa e ogni entità contiene una traccia che la lega a ciò che l'ha prodotta, un' im­ pronta specifica che riproduce il piano da cui deriva. Ed è seguendo il filo di queste tracce, ponendosi sulla pista di queste impronte che è possibile attingere alla «potenza » generatrice di ogni realtà.

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Tutto il cosmo è legato, in orizzontale e in verticale, da una trama di corrispondenze. Una portentosa sumpdtheia, un «con-sentire » , che è co­ munanza e affinità, attraversa l'universo, facendo sì che ogni parte e ogni elemento, a seconda della sua funzione e della sua specifica natura, « sen­ ta» e « risponda» a un'altra. « li cosmo - affermava Proclo proprio com­ mentando il Timeo di Platone (Commento al Timeo, 2,53) - è amico a sé medesimo in ragione dell'analogia e della simpatia, e in tal modo conserva sé medesimo» . In tal modo, tutte le cose - osservava il neoplatonico Si­ nesio (I sogni, 2) - « fanno segno (semdinei) le une alle altre in virtù della parentela che le unisce [ ... ] , le parti dell'universo, animato da un unico re­ spiro e da un unico sentire, appartengono le une alle altre, poiché appunto sono membra di un unico corpo [ ... ] e si attraggono a vicenda così come sono segni le une delle altre >> . Entità e cose, fra loro distanti e collocate su piani diversi dell'essere, si trovano, in tal modo, reciprocamente avvinte in ragione di un principio di somiglianza. «In ciascun genere - diceva anco­ ra Proclo (Elementi di teologia, 145) - vi è un tratto distintivo delle poten­ ze divine» da cui deriva un «carattere » che si diffonde per « irraggiamen­ to » e che determina specifiche connessioni: «Tutti gli esseri dipendono, infatti, dal divino, gli uni sono illuminati da alcuni dei, altri da altri, e le serie discendono fino agli ultimi gradi dell'essere. Alcuni sono collegati agli dei immediatamente, altri attraverso un numero variabile di media­ zioni». Ciò produce, per conseguenza, un effetto di attrazione tra ciò che presenta in sé caratteri analoghi e deriva da una medesima potenza: «La comunione delle potenze simili, l'opposizione di quelle contrarie e una certa conformità tra ciò che agisce e ciò che ne subisce l'effetto - spiegava del pari Giamblico (I misteri egiziani, 207) - muovono congiuntamente ciò che è simile e affine, diffondendosi, secondo la legge della simpatia, fin dalle cose più lontane come se fossero vicinissime ». Le dinamiche della partecipazione e dell'affinità seguono, per le ragioni dette, la catena delle cause che - dal piano divino a quello terrestre - hanno prodotto la natura particolare di ogni singola cosa. Ciascun essere parte­ cipa, pertanto, al divino « secondo la propria qualità intrinseca» : alcuni, ad esempio, «come sostanze dell'etere», altri «come sostanze dell'aria » o altri ancora « come sostanze dell' acqua » (Giamblico, I misteri egiziani, 33). Ma, proprio per questa connessione, alto e basso finiscono per esse­ re specchio l'uno dell'altro: «Sulla terra è possibile vedere, secondo una modalità terrestre, soli e lune, così come è possibile vedere in cielo tutte le piante, le pietre e gli animali secondo una modalità di vita intelligibile »

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(Proda, L'arte ieratica, 148). Il cosmo, per certi versi, è come un' immensa preghiera, come un inno solenne in cui tutte le cose, al livello che è loro pertinente, celebrano i principi primi della vita da cui scaturiscono « alcune secondo una modalità intellettiva, altre in forma razionale, altre ancora a livello fisico e sensibile » : come il « girasole che si muove spontaneamente con il sole », come il «loto» che apre e schiude i suoi petali al sorgere di ogni nuovo giorno, come la pietra « selenite » che cangia il suo aspetto «in sintonia con la luna » (Proda, L 'arte ieratica, 149 ). Proprio in base a questa universale dinamica, gli adepti della teurgia avevano sviluppato la loro hieratiké epistéme, la loro « scienza sacra » : « tutto è in tutto», «la simpatia non solo lega le cose visibili fra di loro ma le unisce alle potenze invisibili » , « i termini ultimi della realtà sono pre­ senti nei primi così come i primi sono presenti negli ultimi» (Proda, L 'ar­ te ieratica, 149 ). Sapienza iniziatica è dunque saper cogliere, con profondi­ tà di sguardo e di intuizione, questa relazione segreta tra le cose di quaggiù con l'una o l'al tra delle realtà celesti così da « attirare» le forze divine e le energie eterne nello spazio e nel tempo della vita « mortale » . La mente divina - recita, con ispirazione teurgica, un Oracolo caldaico (fr. w8) ­ «ha in seminato di simboli (sumbola) tutto il cosmo, la mente che pensa le idee, le indicibili bellezze, come è giusto chiamarle ». Sumbolon viene da sumbdllein, «mettere insieme », « accostare », « avvicinare ». Attraverso l'accostamento di due elementi, il simbolo ricompone un'unità e insieme comprova la reciproca appartenenza degli elementi stessi: la ricostituzione di una completezza a partire da frammenti dispersi, la coappartenenza del­ le parti nella dimensione di un ulteriore orizzonte. Nel suo primo e pratico impiego, sumbolon era, già in età arcaica, la tessera dell'ospitalità, la porzione di un oggetto che, saldata alla parte mancante, permetteva a due uomini di riconoscersi reciprocamente come soggetti legati a vincoli di amicizia e di alleanza che si trasmettevano da una generazione all'altra. Il simbolo, da questo punto di vista, esprime la radice di un' identità e di un legame, che si manifesta, appunto, attraver­ so quell'atto del « mettere insieme » . Termine affine e sinonimo di sum­ bolon è sunthema da suntithénai, che, in modo analogo, indica l'azione del «comporre » e del « raccogliere », ma significa anche «concordare », « stabilire di comune accordo» . Sunthema è, dunque, tanto il «contrasse­ gno» materiale, quanto il « segnale concordato» o la «parola di passo» che permette di distinguere amici e nemici, iniziati e profani, dando ac­ cesso a dimensioni riservate o suscitando, tra i soggetti, immediate intese,

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non percepite o riconosciute da estranei. Sul piano teurgico, sumbolon e sunthema sono i « segni » che attivano le connessioni tra gli elementi e le forze di piani differenti : sono i contrassegni che permettono a entità, materiali e immateriali, di riconoscersi e di slanciarsi le une verso le altre. Grazie ai « segni mirabili » infusi dalla mente divina, «l' inesprimibile viene espresso in simboli segreti, ciò che è senza forma viene racchiuso in una forma e le realtà che sono superiori a ogni immagine sono modellate in forma di immagini » così che tutto sia manifesto e insieme consonante (Giamblico, I misteri egiziani, 6s). Questa rete di « segni» e di « segnatu­ re » che costellano l'universo attrae esseri e cose in ragione di specifiche affinità costitutive e di particolari catene causali, ma, allo stesso tempo, a un livello superiore, connette la molteplicità degli esseri al principio da cui tutti derivano: « Attraverso questi contrassegni, la divinità che è causa dell'universo - illustrava efficacemente Proda ( Teologia platonica, 2,8) ­ ha posto tutti gli esseri in relazione a lui [ ... ]. Ogni cosa, dunque, pene­ trando nel carattere ineffabile della propria natura, trova il simbolo del padre dell'universo [ ... ] e, attraverso il segno confacente, si unisce a lui ». Per la genesi stessa della realtà, i sumbola e i sunthémata non sono con­ cepiti, tuttavia, solo come « segni » statici e immobili, come semplici tratti di identità e di legame. I sumbola propri di ogni cosa sono rifrazioni "di­ namiche" di idee e di forme divine. Nel sistema della sapienza caldaica, i pensieri scaturiti dalla mente divina sono immaginati come uno sciame ronzante di api e come folgori che lampeggiano attraversando l'universo : «La mente del dio padre ronzò, con volontà potente, intuendo idee di ogni forma, e tutte si slanciarono da quell'unica sorgente [ ... ] , il signore dispose per il cosmo multiforme un' impronta mentale indistruttibile, e il cosmo, ancora informe, si affrettò a seguirne la traccia, manifestando la sua forma, tutto inciso dai caratteri (kecharagménos) di idee multiformi [ ... ], le idee, ronzando, si dividono e si frangono nei corpi del cosmo [ ... ] si aggirano a sciami, balenando qui e là in varie direzioni» (Oracoli caldaici, fr. 37 ) . I simboli sono - seguendo la suggestione di queste immagini - i «caratteri» di cui il cosmo, dal cielo alla terra, è interamente cesellato. Ma tali «caratteri » - che riproducono idee e forme noetiche - hanno la par­ ticolare proprietà di racchiudere in sé stessi il « ronzio» e la «luce » che li ha prodotti nella processione creativa della realtà. Essi sono «vibrazioni» di quell 'energia che si è diffusa e rifranta in ogni cosa, da un piano all'altro, nella divisione progressiva che, a partire dalla « sorgente » , ha generato la compiuta articolazione dell'universo.

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La sapienza caldaica designa queste forme di intelligenza dinamica e formante anche con il nome di funges. Il termine indicherebbe, in senso proprio, una specie di uccello, il « torcicollo» , che ha la capacità di ruotare il capo in ogni direzione, emettendo uno stridio simile al suono di un flau­ to. Il mito vuole che Afrodite abbia fissato quest'animale a una ruota per fabbricare uno strumento magico destinato a produrre infallibili sortilegi d'amore. Da qui il nome sarebbe stato assunto dai teurghi per designare le potenze che, con altrettanta magia d'amore, trasmettono i «pensieri paterni » attraverso i « tre mondi » del fuoco, dell'etere e della materia. Le funges sono intese come forze-pensiero e al contempo come « messag­ gere », che veicolano e connettono le idee divine a ogni ordine di realtà (Oracoli caldaici, frr. 76-78). Ma, proprio per questa funzione di « traghet­ tatrici » - di elementi connettivi tra i piani dell'essere - le funges finiscono per identificarsi, in ultima istanza, con la sostanza stessa dei simboli e dei caratteri che costellano l'universo. Ogni simbolo, ogni « messaggio» delle funges è, quindi, allo stesso tempo, forma e forza. Ogni sunthema, ogni «contrassegno » conserva e insieme sprigiona la «vibrazione >> dell'energia specifica che l'ha prodotto e che gli pertiene, consentendo di suscitare in senso inverso - dal basso verso l'alto - la connessione delle forze e delle potenze che animano l'u­ niverso. La « ronzante » vibrazione di ogni « segno » entra in risonanza armonica con le corrispondenti vibrazioni cosmiche, dando luogo, nella congiunzione, a una «potenza » che si esalta e si moltiplica a beneficio di chi si serve del simbolo stesso. Perché tutto è energia intelligente che si propaga dal «volere» di una mente divina. Nella pratica rituale, i sumbola e i sunthémata che possono essere im­ piegati efficacemente si suddividono in categorie che, per così dire, seguo­ no, in gradazione progressiva, la catena ordinata dell'essere, da ciò che ha solida consistenza corporea a quanto è solo ineffabile forma che risuona nella mente. In tal senso, i primi e più immediati « simboli » sono rap­ presentati da « sostanze » che appartengono alla dimensione materiale: «pietre, erbe, aromi e altri oggetti sacri» o ancora « animali» che hanno « intrinseche affinità con ciascuno degli dei» e con le potenze che presie­ dono alla loro particolare natura (Giamblico, I misteri egiziani, 2.33, 2.35). I maestri dell 'arte ieratica - ricordava Proda - hanno scoperto come en­ trare in contatto con le potenze superiori « a partire dalle cose che si trova­ no sotto i nostri occhi, mescolando alcuni elementi e cogliendone altri in modo appropriato» (Proda, L 'arte ieratica, 150 ) : se ogni singola sostanza

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ha in sé il carattere di un dio, non sempre, tuttavia, è sufficiente, da sola, a evocarne la forza e la presenza. Per un effetto più sicuro, i teurghi soglio­ no, pertanto, « mescolare fra loro una pluralità di sostanze» : in tal modo « essi riuniscono in un unico composto le singole emanazioni e rendono l'unità risultante da tutti i componenti simile a quell' intero che preesi­ ste a essi [ ... ], raccogliendo in un'unica mistura i vari simboli particolari ottengono, attraverso l'arte, una qualità che risponde all'essenza del dio nell'unione dei diversi poteri [ ], la mescolanza così prodotta si innalza alla forma del suo modello divino » (Proda, L'arte ieratica, 151). Ma « simboli» sono anche i «caratteri» e i «disegni» che vengono tracciati al suolo per convocare la presenza divina o demonica da essi rap­ presentata: segni che poi, alla chiusura del rito, devono essere cancellati per « sciogliere» nuovamente le forze evocate e insieme liberare i celebranti dal loro influsso ( Giamblico, I misteri egiziani, 131; Porfirio, Lafilosofia de­ gli Oracoli, 248, 250 ) . Di natura simbolica sono le insegne e gli abiti stessi portati dai celebranti poiché, per l'efficacia della pratica, è necessario che chi vi partecipa « vesta la figura degli dei », identificandosi pienamente con essi: durante le celebrazioni, « gli iniziati consacrati agli dei, gli evo­ catori e i medium portano tuniche e cinture di diversi colori a imitazione delle vite divine alle quali essi si riferiscono nelle loro azioni cultuali», e così pure i « turbanti » e le « bende » che cingono i loro capi non fanno che «connettere » le loro «vite ieratiche agli dei cui esse sono consacrate » (Proda, Commento alla Repubblica, 246-247 ). Costellata di « caratteri » è ancora la cosiddetta « trottola di Ecate» che viene fatta vorticare in un legame simpatico con i moti celesti e le forze cosmiche: «una sfera d'oro, che racchiude al suo interno uno zaffiro, avvolta in una pelle di toro e inci­ sa di segni su tutta la superficie [ . .. ] strumenti di tal genere sono chiamati anche iunges» (Psello, Commento agli Oracoli caldaici, 1 132). Simboli e «parole d'ordine » sono ancora le formule che risuonano nel­ le preghiere e nelle « suppliche ieratiche » : i « nomi sacri » con cui gli dei vengono chiamati a manifestarsi, i « nomi » che solo gli iniziati conoscono e sanno pronunciare in modo adeguato. Sono spesso «nomi barbari» , vo­ caboli mutuati da una lingua altra o sconosciuta, espressioni che appaiono prive di significato. A volte possono consistere in arcane modulazioni del­ le sette vocali della lingua greca in rispondenza a ognuna delle sette sfere planetarie (Demetrio, Sullo stile, 71; Giamblico, Teologia dei numeri, 12-18, s6-s7 ) Possono essere combinazioni in intelligibili di suoni che, ali'orecchio di un profano, appaiono come «grida sconnesse », «voci animalesche », ...

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sibili o schiocchi nell'aria (Psello, Commento agli Oracoli caldaici, 1 133). In nessun caso si tratta, comunque, di arbitrarie convenzioni umane. I « nomi sacri» , le formule rituali, i suoni incomprensibili e all'apparenza « bestiali » non sono frutto di invenzione o di inconsulta esaltazione. Anch'essi sono vibrazioni specifiche di energia, forme e forze determinate che si connetto­ no, per natura, agli elementi del cosmo e alle entità che lo abitano. Per que­ sto, « nomi» e « suoni» tramandati dalla tradizione iniziatica non devono essere alterati: «Non cambiare i nomi barbari » - ammonisce severamente un Oracolo caldaico (fr. 150) - poiché essi contengono una «potenza ineffa­ bile ». I « nomi» - siano essi conosciuti o sconosciuti a «noi», siano essi «comprensibili» o «incomprensibili » agli umani - «hanno in ogni caso un significato per gli dei [ . ] un significato intuitivo e non pronunciabile, migliore e più semplice » ( Giamblico, I misteri egiziani, 2.50 ). Per tale ragio­ ne, bisogna astenersi da tutte le spiegazioni razionali e da ogni riferimento a elementi della natura materiale: « quel carattere simbolico, intuitivo e di­ vino della rassomiglianza con gli dei si deve supporlo presente anche nei nomi» ed è grazie a essi che l'anima umana può cogliere e custodire, in sé stessa, un' «immagine mistica e impronunciabile degli dei» , un mezzo potente e infallibile per elevarsi al divino stesso. Simboli delle realtà trascendenti sono, in questa traiettoria iniziatica, i « numeri » stessi, come già avevano insegnato i Pitagorici: le «misure eter­ ne » di tutto ciò che esiste in terra, in cielo e nei piani superiori dell'essere fino al principio primo. Il culto e il rito non fanno, nella sostanza, che ri­ produrre, in modo inesprimibile, queste « misure » divine e il segreto della genesi stessa ( Giamblico, I misteri egiziani, 6s). Se tutto viene dali' Uno che si sdoppia nel Due per creare, nella forma del Tre, un universo di idee e di esseri eterni, il Quattro è il numero del cosmo materiale e della natura cre­ ata. Per questo, un Oracolo ammonisce - con modalità giustamente sim­ bolica (fr. 104) - di « non approfondire la superficie ». Se tre punti defini­ scono geometricamente un piano, passare al quattro significa trasformare la semplice superficie nella dimensione di un corpo solido. Ma l'iniziato non ha altro desiderio che uscire dal quattro della natura per elevarsi al tre della mente e da lì ascendere ali' Uno. Dalle pietre ai profumi, dai caratteri ai numeri, la sequenza dei «con­ trassegni » - rivelati dagli dei e posti in atto dalla pratica cerimoniale corrisponde anche a una progressiva elevazione del soggetto stesso che ne dispone. O forse meglio a uno sviluppo di capacità, che, partendo dalla manipolazione di sostanze tangibili, giunge a essere sempre più psichica e ..

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mentale, fino a non aver più necessità di appoggiarsi al corporeo. Ma, da un capo all'altro di questo percorso, resta fisso e ineliminabile il solco che separa gli adepti della teurgia dai semplici filosofi. L'anima, quando per­ segue la sostanza che è superiore a ogni altra realtà, non può servirsi della congettura o del sillogismo o dell 'opinione, che appartengono al regno del «tempo». Per raggiungere quel traguardo l'anima deve poggiare su «intuizioni pure ed irreprensibili » che le sono state trasmesse dagli dei, quelle intuizioni che sono i simboli stessi: «Non è il pensiero che unisce i teurghi agli dei. Altrimenti anche i filosofi potrebbero arrivare ali 'unio­ ne teurgica. Sono altri i mezzi che producono tale effetto: l'esecuzione di azioni segrete, compiute in modo adeguato agli dei, il potere dei simboli inesprimibili, che solo gli dei comprendono [ ... ], senza che noi pensiamo, sono i segni stessi (sunthémata) che, per propria virtù, agiscono e la poten­ za degli dei, alla quale tali segni appartengono, riconosce, essa stessa da sé stessa, le proprie immagini» (Giamblico, I misteri egiziani, 6s). Simboli e segni non sono, tuttavia, solo risorse divine che il soggetto può reperire al di fuori di sé stesso, nella realtà del cosmo. Non sono solo materie da manipolare, cifre da tracciare o suoni da pronunciare. La real­ tà del simbolo è presente nell'anima stessa come un suo tratto essenziale: una dimensione, per così dire, strutturale che le pertiene in ragione della modalità con cui il divino demiurgo ha provveduto alla sua formazione. Come spiega Proclo nella Filosofia degli Oracoli caldaici (s,I9S), ogni psu­ ché è infatti costituita da hierdi ldgoi e da théia sumbola. Gli hieroi ldgoi sono «discorsi sacri» , ma anche, più specificamente in questo contesto, «rapporti» o « ragioni formali» che derivano dal mondo delle idee eter­ ne: i logoi sacri portano e riproducono, a livello animico, tratti e forme di quelle «essenze intelligibili», di quei paradigmi ideali da cui tutto è stato modellato. Théia sumbola sono, invece, i «contrassegni divini » che apparentano, in modo immediato, l'anima a quella dimensione divina e unitaria, a quella realtà suprema, che, per sua natura, è prima e al di là delle idee stesse in quanto ne è la sorgente: «Noi - osserva Proclo - siamo copie di essenze intelligenti e immagini di simboli inconoscibili » . Tutti «noi », tutte le «anime» che «noi» siamo, contengono queste «forme », questi «rapporti », questi «segni» che ci connettono alla mente divina e all 'U­ no. Ogni psuché è un mondo che partecipa totalmente a tale superiore re­ altà nella catena dell'essere che scende dall' Uno alla Mente, dalla Mente alle idee, dalle idee all 'anima e dalle « ragioni formali» presenti nell'anima alla struttura dei corpi. Ma ogni psuché partecipa alla totalità dell'essere

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secondo una sua modalità specifica. Una modalità determinata dalla con­ figurazione dei suoi «rapporti » e dall' «impronta » particolare che è stata impressa in essa: «ogni anima si distingue per forma dalle altre [ ... ] e anche se contiene i medesimi rapporti, ha pur sempre avuto in sorte una forma differente dalle altre » : una « forma solare » - esemplifica Proda - «im­ prime nell'anima un carattere solare» . Ognuno deve, perciò, attraverso lo strenuo esercizio teurgico, riuscire a «ricordare» - a portare alla memoria cosciente - ciò che lo caratterizza in quanto forma divina, in quanto essere superiore. Deve poter cogliere quel « contrassegno», quel «discorso sacro » che la sua anima racchiude. Quel sunthema, quel « segno» è, infatti, il « nome sacro» che rappresenta la sua essenza - vorremmo dire la sua identità sacra - e che, insieme, rinvia alla divinità da cui deriva. È , in altri termini, la «parola di passo» che dischiu­ de l'accesso ai mondi superiori. Con uno sforzo intuitiva, l'anima deve afferrare il proprio « simbolo » e «pronunciare » , nel silenzio di un' inte­ riorità raccolta, quell' «ineffabile » e quell' «indicibile » che le consente di ascendere i piani della realtà: la «mente paterna », il dio, «non risponde al volere dell'anima - avverte un Oracolo caldaico (fr. 109) - finché essa non sia uscita dall'oblio e abbia pronunciato la parola, ricordando il puro sim­ bolo paterno ». Il sunthema inscritto nella psuché coincide, in ultima ana­ lisi, con il vertice dell'anima stessa, con la sua più alta facoltà. Il sunthema costituisce e insieme rende potentemente attivo ciò che la sapienza caldaica , denominava dnthos nou, il « fiore della mente », il « fiore dell intuizione » . Tale facoltà corrisponde allo stato più elevato e intensivo di «unità » che l'anima possa raggiungere. Perché è solo in uno stato di « unità » assoluta che è possibile cogliere quell' «unità » che è il divino stesso. È solo attra­ verso una suprema « unificazione » che è possibile congiungersi con l' Uno che è padre di tutte le cose. Il « fiore » è il simbolo psichico del dio supre­ mo: «Vi è un qualcosa di intuibile» - recita un Oracolo (fr. 1) - «che devi intuire con il fiore della mente [ ] se cerchi di pensarlo come qualcosa di determinato, non riuscirai a coglierlo [ ... ] non devi intuirlo con veemenza, ma con la fiamma sottile di una sottile intuizione [ ... ] devi intuirlo con il puro occhio della tua anima distolta da ogni altra cosa, devi protenderei come una mente vuota [ .. ] , perché esso è al di là della mente ». Dal sapiente utilizzo degli elementi naturali all'unione suprema, i « segni ineffabili » accompagnano e scandiscono, fino al compimento ul­ timo, il percorso di colui che non vuole condividere la vile e miserabile esistenza dell' agéle, del «gregge » rappresentato dall 'umanità comune. La ...

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maggior parte degli uomini è interamente sottomessa alla natura, schiava degli impulsi e soggiogata da un destino incomprensibile. Solo «pochi » felici - i veri adepti della scienza sacra - sanno come sviluppare «una po­ tenza sovrannaturale» della « mente » che li fa superiori alle forze brute della natura e agli stessi limiti dell'umano (Giamblico, I misteri egizia­ ni, 223-224). Solo i veri iniziati sanno - come dice un ulteriore Oracolo (fr. uo) - « congiungere la parola sacra all'azione » : sono capaci di salda­ re, in un modo mirabile, la «parola sacra dell'anima » all'esecuzione per­ fetta dell' « azione » rituale.

Attività demiurgiche

La pratica teurgica - come si evince anche da quanto detto - si articola in riti e in cerimoniali di differente natura, a seconda delle finalità che si desiderano perseguire e del grado di avanzamento degli stessi iniziati. Pri­ ma fra esse è la cosiddetta telestiké, l'arte di «consacrare » statue e simula­ cri divini. Le « statue » degli dei - diceva Porfirio (Le immagini degli dei, frr. 351-352) - non sono certo semplici «pezzi di legno o di pietra », come gli «ignoranti » possono ritenere. Le immagini, concepite dalla sapien­ za di alcuni uomini ispirati, rispondono al fine di portare al «visibile », in maniera percepibile ai sensi, le qualità e le potenze «invisibili» degli dei. Sono un modo di tradurre e di rappresentare - attraverso figure, co­ lori e tratti appropriati - gli esseri che hanno plasmato e che governano il cosmo. Da questo punto di vista, i simulacri sono, a loro volta, simboli che impregnano l'anima, strumenti di meditazione che, al di là della loro materialità, avvicinano la mente all' incorporeo, segni che - come le let­ tere raccolte in un libro - vanno letti e fatti risuonare nella mente. Per la prassi teurgica, tuttavia, le statue divine non costituiscono solo un mezzo - sia pur efficace - di suggestione iconica o di attività immaginativa. Per la scienza sacra i simulacri devono essere « ricettacoli » nei quali richiamare, con riti opportuni, la presenza stessa del divino. La «consacrazione » delle statue è l'operazione magica con la quale il simulacro viene « animato» ovvero caricato della potenza che la semplice figura rappresenta. La forza dell 'immagine viene così intensificata e moltiplicata per mezzo di ulteriori segni e materiali efficaci che a essa vengono aggiunti. «Tutto intorno alle statue » vengono posti simboli e caratteri in modo da renderle più adatte a partecipare alle «potenze superiori » (Proclo, Commento al Timeo, 1,51).

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All' interno della statua stessa, nella sua cavità, vengono, inoltre, collo­ cate le « sostanze » che « appartengono» specificamente alla divinità raf­ figurata: « animali, piante, pietre, erbe, radici, gemme incise, formule scrit­ te, a volte anche profumi» (Psello, Lettere, 187 ). Grazie a tale operazione, accuratamente eseguita, la statua può diventare una cosa «viva » poiché «partecipa del dio ed è mossa da lui» (Proda, Commento al Timeo, 3,1ss). L' iniziato, ponendosi dinanzi a essa e pronunciando le formule richieste, riesce a entrare in contatto con il potere divino, a dialogare con il dio, a riceverne consigli o predizioni sul futuro. Talora sono gli dei stessi a offrire, per ispirazione misteriosa, il metodo preciso per produrre i loro simulacri, come avrebbe fatto Ecate con un suo devoto: « Consacra una statua di le­ gno, purificala come io ti dirò. Fai la superficie del corpo con ruta selvatica, adornala con animaletti selvatici e con salamandre [ ... ] . Poi prepara un mi­ scuglio di mirra, storace e incenso [ ... ] e stando all'aria aperta, in una notte di luna crescente, compi il rito [ ... ] , rivolto alla statua recita a lungo la pre­ ghiera e io ti apparirò in sogno» (Porfirio, Lafilosofia degli oracoli, fr. 317 ). Ma gli dei possono essere « chiamati» anche con altre ineffabili opera­ zioni. Grazie a esse, entità superiori di vario rango e forza possono prodursi in manifestazioni luminose e penetrare in un corpo preparato a riceverle. Perché ciò avvenga, occorre, anzitutto, che i partecipanti al rito si purifichi­ no con l'odore acre dello «zolfo» e con l'aspersione di « acqua di mare » , il cui «potere igneo» elimina ogni scoria (Proda, L 'arte ieratica, 151). Un klétor, un « evocatore », provvede, quindi, a guidare il rito, ricorrendo ai gesti, alle cifre e alle formule designate dalla tradizione teurgica, fino a che il fine desiderato non sia raggiunto. Allora, la potenza divina discende nel dochéus, nel «ricevente » che entra in uno stato di trance, divenendo puro « veicolo» e « strumento» degli dei. Chi perviene a tale condizione di en­ thousiasmos, di «invasamento », è come se « sostituisse la propria vita con un'altra vita, più divina, dalla quale è ispirato e interamente posseduto» (Giamblico, I misteri egiziani, no). Fintanto che l'estasi è attiva, il « rice­ vente » gode di visioni, ode voci e parla, a sua volta, pronunciando profezie e oracoli divini. Talora la sua coscienza umana è completamente assopita ed egli non ha percezione di nulla al punto da perdere ogni sensibilità cor­ porea e ogni consapevolezza di sé, tanto da non bruciarsi nemmeno se il fuoco viene accostato alle sue membra. In altri casi si produce, per contro, una sorta di « attività congiunta » in cui il dio opera insieme al soggetto umano che rimane vigile e cosciente. «Comunione », «partecipazione», «unione » sono - come spiega Giamblico (I misteri egiziani, m ) - gradi

L' OPERA DIVINA. TRA NEOPLATONISMO E TEURGIA diversi di intensità con cui l'operazione si dispiega, a seconda del livello di potenza - «estrema», « mediana» o «ultima» - che il divino stesso, di volta in volta, irradia. Da ciò deriva anche lo svariare delle condizioni fisiche del dochéus e dei fenomeni che in lui hanno luogo: «Può accadere di vedere il corpo sollevarsi, distendersi o essere portato in alto nell'aria [ ... ], così la sua voce può avere un tono del tutto uniforme [ ... ] o essere del tutto diso­ mogenea, con un'alternanza di suoni acuti e gravi». La presenza del dio si manifesta come un «soffio» o come una «for­ ma» che si rendono, in vario modo, «visibili» e percepibili a chi parte­ cipa all'evocazione. Tutto dipende dalla perfezione del rito e dal livello iniziatico dei soggetti coinvolti. È questa la «cosa più importante» che dovrebbe accadere: il teurgo - colui che guida la cerimonia ed è riuscito a chiamare il dio - « vede il soffio scendere e penetrare nel ricevente », lo «vede qual è per dimensione e natura », ed è in grado, in modo miste­ rioso, di «guidarlo» e di «governarlo ». Il «ricevente » stesso riesce, a sua volta, a percepirlo come «forma di fuoco» prima che entri in lui e lo possieda. Talora, esso appare come cosa «evidente» anche a tutti i parte­ cipanti, «quando il dio giunge e si allontana » . Coloro che sono avanzati nella pratica teurgica riescono a discernere compiutamente il carattere di ciò che si manifesta in queste luminescenze; sanno riconoscere la specifi­ ca forza, il grado di verità e l'estensione del potere che tali « soffi » e tali «forme» possono, di volta in volta, comunicare o esercitare. Sotto questo aspetto, la pratica teurgica è un esercizio strenuo e porten­ toso della facoltà di visualizzare e di «vedere », che la ritualità evocatoria prepara e insieme sostiene con l'uso dei simboli e delle formule. Si tratta di sviluppare la capacità di vedere «come corpo ciò che corpo non è», di percepire come figura quanto non è, in sé, comparabile a una forma sen­ sibile. È la facoltà di destare, « attraverso gli occhi del corpo », «gli occhi della mente » affinché visione fisica e visione mentale sembrino diventare come una cosa sola. Così è possibile cogliere «epifanie divine » che hanno un' «evidenza » e una « chiarezza » superiori alla «realtà » stessa, quasi che l'apparizione sia più concreta e tangibile di un qualsiasi oggetto colto dall 'ordinaria attività dei sensi. Attraverso lo sviluppo di tale potere e la concentrazione agevolata dal rituale si dischiude uno spettacolo di immagini splendenti che rifulgono di un «fuoco inesprimibile » e di una « bellezza immensa » , immagini magnifiche la cui «dimensione » appare maggiore del cosmo stesso al punto che il « cielo intero », il sole, la luna e la terra sembrano scomparire

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( Giamblico, I misteri egiziani, 7 3-7 8). Le parole degli Oracoli traducono il contenuto di quella contemplazione suprema che i teurghi chiamano, alla maniera dei misteri antichi, epoptéia: «Dopo l' invocazione, tu vedrai un fuoco con fiamme guizzanti nell'aria, un fuoco che assume la forma di un fanciullo, oppure vedrai un fuoco senza forma da cui scaturisce una voce, o ancora una luce splendente che ronzando si avvolge a spirale [ . ] o un ca­ vallo fulgido e [ . ] su di esso un ragazzo avvolto di fuoco o coperto d'oro o completamente nudo [ .. ] che lancia dardi » (fr. 146). La descrizione delle epifanie che i testi oracolari presentano è, sotto certi aspetti, una guida e una preparazione per l'iniziato che deve ripetere, in prima persona, quelle esperienze, conquistando il potere e insieme il privilegio dell 'autopsia: la «visione diretta », come in un faccia a faccia, degli dei che scendono a manifestarsi. L ' autopsia non è, tuttavia, solo la conquista di un « vedere » che si pro­ tende alla realtà superiore. È anche un evento che trasforma e modifica il soggetto. Pervenire all ' autopsia e godere delle epifanie divine produce effetti che si prolungano al di là della visione, incidendo sulla fisiologia e sulle capacità dell' iniziato: esperire la «presenza » degli dei, in quelle forme fulgide, «dona salute al corpo, virtù all'anima, purezza alla mente e, per dirla in breve, l'ascesa di tutte le cose che sono in noi verso i loro principi » (Giamblico, I misteri egiziani, 81-82). Sviluppare la facoltà di vedere il divino e di fruire di quelle felici epifanie significa, dunque, avvia­ re un processo che conduce a uno stato di perfezione integrale. Il corpo si fortifica e diviene immune alle malattie così come a ogni « forza » che lo corrompa. Nutrita e sorretta dalla «luce » degli dei, la psuché si slancia al di là di ogni limite della sua condizione ordinaria: «Nel contemplare le visioni beate, l'anima vive diversamente ed esercita un'altra attività al punto da pensare di non essere più nemmeno un essere umano, ed è un giusto pensiero perché, spesso, essa, abbandonando la propria vita, assume la beatissima attività degli dei » ( Giamblico, I misteri egiziani, 41 ). La visione iniziatica non è dunque solo conoscenza, ma anche, e soprat­ tutto, enérgeia, «attività » ed «energia » che da quella esperienza scatu­ risce. L ' autopsia teurgica è "visione di potere", conquista della capacità di essere e di agire secondo una modalità sovrumana. Attraverso la «visione diretta » si perviene, quindi, alla SUStasis, al «COntatto», al «Congiungi­ mentO » con le forze del mondo divino, che divengono disponibili e uti­ lizzabili dal teurgo. Entrando in « comunicazione » attiva, in «congiun­ zione » con la divinità richiamata a manifestarsi, l'iniziato può operare, ..

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di volta in volta, sui diversi piani della realtà, secondo il potere di quella stessa entità divina, secondo l'energia specifica che è riuscito a evocare e a vedere. Egli può, così, agire sulla natura e sui corpi, modificando gli stati della materia e la configurazione degli elementi. Può orientare e riconfigu­ rare l'assetto delle forze presenti nel mondo fisico, secondo gli effetti che desidera produrre. Per mezzo della sustasis, il teurgo si impossessa del po­ tere «demiurgico » degli dei e diviene lui stesso «demiurgo » della realtà, contribuendo al governo e al perfezionamento del cosmo: la teurgia - ri­ badisce Giamblico (I misteri egiziani, 292) - «conduce e accosta l'anima al demiurgo universale, unendola alla potenza automotrice [ ... ] che ordina l'universo [ ... ], la salda alle singole potenze demiurgiche del dio, una a una, cosicché l'anima teurgica si stabilisce, in modo perfetto e compiuto, fra le attività, i pensieri e le creazioni di quelle potenze » . Partecipando della « mente» divina che « è volta al governo del tutto», l'iniziato ha la facoltà e insieme il compito precipuo di epimeléisthai, di «prendersi cura » della realtà e degli « esseri inanimati » . Ha la funzione, vorremmo dire, di «cu­ rare » la vita del cosmo. Testimonianza di tale conseguimento sarebbe offerta dalla vita stessa di Proclo che, con impegno e nel giusto ordine, si era applicato alla via ini­ ziatica della teurgia. Purificandosi con le «lustrazioni rituali » prescritte, egli aveva goduto - racconta la sua biografia antica (Marino, Vita di Proclo, 28) - della «visione diretta » della divinità ed era divenuto capace, ap­ punto, di «provvedere alle realtà inferiori, secondo il modo che è proprio degli dei » . Praticando la « congiunzione con gli dei», recitando le pre­ ghiere caldaiche e maneggiando con sapienza gli strumenti magici, aveva ottenuto risultati mirabili: aveva fatto piovere, liberando l'Attica da una terribile siccità; aveva preparato dei talismani per allontanare i terremoti; era riuscito, ancora, a risanare la figlia del suo maestro, quando i medici - con la loro scienza semplicemente umana - avevano ormai disperato di poterla salvare dalla malattia. Sviluppando una facoltà di chiaroveggenza, egli era divenuto capace di pronunciare profezie e aveva avuto conferma, in sogno, di appartenere « alla catena di Ermete », alla catena degli iniziati perfetti. Purificazioni, simboli, evocazioni, congiungimenti, opere demiurgiche sono - come si è visto sin qui - i mezzi e insieme i passaggi previsti dalla sa­ pienza caldaica per procedere sulla via di tale perfezione. Ma, per giungere alla realizzazione completa, occorre il suggello definitivo di un'ulteriore pratica che riguarda il transito della morte e le sorti dell'anima. Occorre

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LA VIA DEGLI DEI

compiere il rito dell' anagogé, dell' « elevazione » che consente di accedere alla condizione permanente di un' immortalità divina.

Seppellimenti e ascese solari

Negli Oracoli caldaici il divino è un mondo di luce e di fuoco che scatu­ risce dall' « abisso sovracosmico» (fr. 18), dall'assoluto « Silenzio» (fr. 13) e dall' insondabile profondità dell' Uno. «Tutte le cose sono nate da un solo fuoco » (fr. w ) , sono scaturite dall'irraggiarnento dell' Uno, da quella «Monade » suprema, che è « sorgente delle sorgenti », « matrice» ineffa­ bile dell'universo. La Monade si dispiega come la forza di una «triade » che genera i mondi poiché l ' Uno è insieme «Padre », « Mente» e «Po­ tenza ». « Ogni cosa è stata seminata dal grembo di questa triade » e «in tutto il cosmo essa risplende », da un piano all'altro, poiché ne rappresenta il principio e insieme la «misura » essenziale (frr. 4, 2.3, 2.7-30). La forza della «Mente paterna » è come un sole che diffonde i suoi raggi e il suo calore, come una « fonte» da cui fluisce un fuoco intelligente che plasma e vivifica. Per creare e sostenere la variegata realtà del molteplice - la « multi­ forme materia» - l'energia infuocata dell' Uno si suddivide in una pluralità di ochetoi, di «correnti » o di «canali» attraverso cui scorre e discende. Come se il cosmo, dall'alto al basso, fosse una rete di « condotti » in cui il fuoco della Monade si propaga fino all'estremo confine della materia oscu­ ra. Così il « fuoco che porta la vita discende fino ai canali materiali», là dove la luce della « folgore », i «raggi stupendi » del sole divino, a poco a poco, attenuano la loro intensità nell'opacità oscura e consistente della dimensione corporea (frr. 34, 6s). Attraverso tali ochetdi, attraverso questi «canali» che percorrono ver­ ticalmente il cosmo, l'anima stessa discende, quando deve abbandonare la pura luce divina, il mondo infuocato cui, per nascita ed essenza, appartie­ ne. Il dio ha infatti composto lapsuché come un essere conforme all'ordine superiore, dotandola di caratteristiche a esso congeneri: « mescolando alla Scintilla dell'anima due essenze concordi, ovvero la Mente e il Volere di­ vino, per terzo egli aggiunse Amore, legame venerabile di tutte le cose » (fr. 44). Ma, pur recando in sé questo triplice legame con la sfera trascen­ dente, l'anima è segnata dalla sorte di lasciare questa dimensione. Così, essa discende, seguendo un « certo ordine», per thetéuein, per « servire » un corpo in cui è chiamata a incarnarsi. La vita mortale è infatti un « servi-

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2.13

zio», un «lavoro» cui la psuché è convocata per completare la demiurgia divina. Calandosi dali'empireo al mondo materiale, l'anima si riveste di un involucro composto dalla sostanza delle sfere celesti e dei piani che in­ contra durante il suo viaggio: «porzioni di etere, di sole, dei canali della luna e dell'aria » (fr. 61). Tutto ciò va a costituire quello che la sapienza caldaica e i neoplatonici a essi ispirati chiamano ochema, «veicolo» del! ' a­ nima (fr. 12.0), corpo « sottile », pnéuma, o ancora éidolon, « simulacro» . Su questo «veicolo» preso a prestito dalle «sfere » e dai «condotti» co­ smici, la psuché compie e completa il suo percorso discensivo, giungen­ do quindi a entrare in quel guscio di « terra » che, nel codice simbolico, rappresenta la greve compagine del corpo umano fatto di carne e di ossa. In tal senso, il «veicolo» dell'anima costituisce una sorta di «corpo inter­ medio», di corpo "non corporeo", che fa da cerniera e da mediazione tra l'assoluta incorporeità della psuché e la matericità "terrosa" del soma vero e proprio. In ragione di questa duplice tangenza, il «veicolo» svolge una funzione essenziale per la vita deli' anima incarnata. Da un lato, esso racco­ glie, coordina e interpreta i dati provenienti dai cinque sensi fisici, operan­ do come una sorta di percezione delle percezioni o di senso comune cui ogni sensazione fa capo. Dall'altro, riceve i contenuti intuitivi dell 'anima e li dispiega in rappresentazioni accessibili alla ragione discorsiva: tradu­ ce in immagini l' intuizione delle forme ideali, il coglimento istantaneo dei modelli noetici così come rende percepibili le ispirazioni che vengono dagli dei. Le visioni degli dei e la preconoscenza del futuro non sono altro che effetti prodotti dali' irradiarsi della luce divina sul corpo « sottile» del «veicolo» (Giamblico, I misteri egiziani, 132.; Sinesio, I sogni, 6). L'anima che abita un corpo non può «pensare » senza immagini: tanto la realtà sensibile quanto le dimensioni superiori del divino le re­ sterebbero totalmente ignote così come ogni azione le sarebbe preclusa senza rappresentazioni che la orientino e la sostengano. Il suo « veicolo » pneumatico è il suo prezioso indispensabile organo di un'"immaginazio­ ne" che fa da ponte e da comunicazione tra i diversi piani dell'essere : il suo «corpo sottile » è il luogo "immaginale" ove ogni realtà può manifestar­ si e rendersi conoscibile. Perciò le condizioni del «veicolo» - passibile di modificazioni a seconda del regime e della condotta individuale - ri­ sultano assolutamente decisive. Il che vale tanto più per l'iniziato se egli vuole, durante la sua esistenza terrena, accrescere la propria conoscenza ed entrare in contatto diretto con gli dei. Solo quando il corpo « sottile» è nitido come uno specchio può accogliere in sé le realtà divine e le forme

LA VIA DEGLI DEI del mondo intelligibile. Solo quando è in stato di purezza può trarre frutto dagli insegnamenti iniziatici o essere fecondato dai poteri celesti: «Agli uni - recita un Oracolo il dio ha concesso di cogliere il simbolo della luce attraverso l' insegnamento, altri, mentre dormivano, li ha fecondati con la sua forza » (fr. u8). Ma le condizioni del veicolo hanno un ruolo essenziale anche al mo­ mento della morte. Un «veicolo», gravato dalle impurità della materia, contaminato dal disordine delle passioni e dei desideri, diviene umido, pesante e opaco. Per effetto di tale deterioramento, esso non solo impedi­ sce qualsiasi conoscenza dell'essere, ma si trasforma - cosa ancor più gra­ ve - in una zavorra che ostacola l'anima nel suo ritorno alla «sorgente » celeste. Anziché fungere da veicolo di ascesa - anziché ricondurre l'anima alla « soglia delle sette vie », delle sette sfere planetarie (fr. 1 64) - il corpo « sottile », ispessito e contaminato, vincola la psuché alle regioni inferiori. La fa sprofondare negli abissi dell'Ade, nella tenebra più fitta della mate­ ria, consegnandola alla ferocia dei « cani » della « terra », ai «demoni» degli elementi (frr. 90, 135). Per questo gli Oracoli insistono con ripetuti ammonimenti di non farsi irretire dalla dimensione corporea, di non vol­ gere l'anima e il suo veicolo verso l'oscurità della materia bruta: «Non insozzare il pnéuma » (fr. 104), «Non affrettarti verso il mondo che odia la luce, verso questa furia della materia, dove c'è solo morte, discordia, sof­ fi infetti, malattie che disseccano, putrefazioni e cose che scorrono via » (fr. 134), «Non inclinare in basso, verso il mondo che riluce di un cupo splendore, sotto di esso si apre un abisso informe, indeterminato, avvolto dalle tenebre, folle e sozzo» (fr. 1 63). Conservare la sottigliezza del « veicolo » è la prima istanza per chi voglia seguire la via dell'iniziazione. Ma, per chi abbia penetrato fino in fondo i misteri della teurgia, si dischiuderebbe un'ulteriore possibilità, un ulteriore compimento cui pervenire: «Salvate anche l'involucro morta­ le dell'amara materia» (fr. 12.9), «Non abbandonerai all'abisso il residuo della materia. Anche il simulacro ha una parte nel luogo circonfuso di luce» (fr. 158). Così recitano, in modo alquanto enigmatico, due Oracoli. A quale «involucro », a quale «residuo» si riferiscono ? Il neoplatonico Sinesio, che commenta il secondo di essi, fa intendere che si tratti della salvezza del «veicolo» (Sinesio, I sogni, 9). Durante l'ascesa dell'anima, il corpo « sottile» si potrebbe semplicemente dissolvere, restituendo le sue componenti alle regioni e alle sfere da cui l'anima li aveva tratti nella discesa all 'incarnazione: gli elementi venuti a comporre la sua «materia » -

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tornerebbero alle loro sedi naturali, senza che del corpo sottile resti più nulla. I riti teurgici consentirebbero, per contro, di impedire tale dissolu­ zione e di condurre integro il «veicolo» fino al mondo della luce. Ciò av­ verrebbe attraverso un processo di trasformazione o meglio di transustan­ ziazione degli elementi stessi per mezzo di un atto rituale. Gli elementi passerebbero dalla loro conformazione originaria allo stato di « éteri degli elementi » stessi, essendo portati a una sorta di quintessenziale purezza e potendo quindi transitare al di là della loro sfera e del loro confine proprio. Si compirebbe - come Sinesio altrettanto sibillinamente suggerisce - una sorta di assimilazione della natura inferiore a quella superiore in modo tale che il «composto» sia, come per alchimia, trasformato interamente in tale sostanza superiore. In questo modo, il «veicolo » dell'anima potrebbe continuare a sussistere e persistere al di là della morte: la psuché salverebbe e porterebbe con sé, in alto, il suo "supporto" vitale. Ma se il « veicolo» è appunto il luogo dell ' « immaginazione » legata all'esistenza terrena - il luogo ove si conservano le immagini di un tracciato di vita - tale persi­ stenza implicherebbe una sorta di continuità dell' «io» o, per meglio dire, la continuità di un nucleo individuale, anche una volta che si sia lasciato il corpo e si sia ritornati alla « sorgente ». A persistere non sarebbe solo un'a­ nima disincarnata, ricongiunta al divino e dimentica di ogni cosa. Insieme a essa vi sarebbe un « simulacro » - per usare il linguaggio caldaico - che porta il segno di una vita particolare e di una tendenza specifica. Da questo orizzonte la via iniziatica si dispiega e su di esso si rivolge per chiudere il cerchio, per comporre l'anello perfetto del ritorno divino. Il teurgo sa di essere disceso nel cosmo sensibile per «compiere un servi­ zio » , come fosse un thés, un «operaio» che lavora a salario al comando di un padrone. Ma ogni suo sforzo è teso a non trasformare il « servizio » in una « schiavitù » inconsapevole alla materia. «Servire senza piegare il capo » (Oracoli caldaici, fr. 99 ), senza farsi «domare » dalla realtà inferiore, perdendo la consapevolezza della propria origine celeste. «Servire » senza consegnarsi alle « bestie » e ai «cani » della « terra », senza farsi possedere dai «demoni » del « mondo che odia la luce » . n teurgo vive l'incarnazio­ ne della sua anima e compie quanto è suo dovere, ma non si confonde con il « gregge sottomesso alla fatalità » (fr. 53), non si perde nella massa degli uomini comuni e dei profani, che si sottomettono ciecamente alle forze della generazione e della corruzione, alle potenze della natura, come se nessun'altra dimensione esistesse, come se questo fosse l'unico e inevita­ bile «destino ». «Ascendere », conquistare l' «elevazione » suprema al di

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LA VIA DEGLI DEI

là della natura sensibile: questo è il suo più forte desiderio, la sua volontà più strenua. Trasmutare la propria essenza così da diventare, con tutto sé stesso, una sostanza più sottile e più luminosa: il «corpo» dell' « uomo sacro » deve essere « fatto di éteri » (fr. 98), della stessa « materia » del « mondo circonfuso di splendore ». In ciò consiste la meta, il compimen­ to : l 'apathanatismos, la conquista della « non morte » in una dimensione che è al di là e al di sopra della « fatalità » della materia. Certo, l'anima è, per sua natura, indistruttibile ed eterna, ma non ogni anima e ogni « vei­ colo» partecipano dell'immortalità allo stesso modo: non ogni psuché si eleva alla «non morte» divina. Bisogna « affrettarsi verso la luce e i raggi del Padre » (fr. us). Ma bisogna, soprattutto, sapere come ciò possa avve­ nire e compierlo nel "giusto" modo. Di qui la necessità dei riti che risvegliano, alla sua massima intensità, il « fiore dell'anima » . Di qui le operazioni segrete e le «consacrazioni » iniziatiche che «dinamizzano» il suo «veicolo» così da renderlo capace di levarsi sempre più in alto e di mantenere la sua coesione (Psello, Com­ mento agli Oracoli caldaici, I I 32. a). L'operatività ultima, che conduce al traguardo dell ' anagogé, dell ' «elevazione » , si sviluppa - secondo quan­ to le fonti lasciano intravedere - in tre momenti. Dapprima è necessario « morire » : attuare, come in un suicidio simbolico, la fine volontaria del­ la propria compagine umana. Secondo quanto racconta Proda ( Teologia platonica, 4,9 ), « i teurghi, nella più alta e segreta delle iniziazioni, ordina­ no di seppellire il corpo a eccezione della testa », che è la sede dell'anima, il luogo nobile della mente: la parte del corpo che imita, nella sua forma, la « sfera » celeste. Platone aveva insegnato che la ricerca della sapienza con­ siste nell' « esercitarsi a morire » in vita, separando la psuché dalla tomba corporea e isolandola in sé stessa. Il rito teurgico "agisce" tale separazione non solo come esercizio della mente concentrata, ma anche e soprattutto come un pdthos: come il prodursi di un' intensa « esperienza misterica » che disarticola la fisicità dell'essere umano e modifica, per sempre, la rela­ zione stessa con il corpo, affinché l'anima possa conquistare il privilegio dell'ultima e suprema epoptéia, della visione unitiva con il divino. Il seppellimento volontario è un drdma, una « cosa che viene fatta » perché la morte non sia passivamente subita come un evento impensato e non atteso, ma si muti in effetto deliberato, sprigionando un pdthos di ordine superiore e di significato completamente altro. Coperto di terra come un cadavere che viene consegnato alla tomba, l' iniziato sperimenta, fino alla propria fibra più intima, il venir meno del suo organismo mortale.

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Sperimenta e attivamente produce, come un sentire assoluto e senza ritor­ no, la «dissoluzione degli elementi » che costituiscono il suo involucro di carne. Li "separa" e li vive come ormai staccati da sé e isolati gli uni dagli altri, prima che la natura, nel suo corso ordinario, compia da sé la « fata­ lità » di quella dissoluzione. La fine non è cosa « subita » , ma « azione » coscientemente condotta e controllata in un'anticipazione magica. Così l'iniziato realizza ciò che la sapienza teurgica chiama thdnatos huperphués: « morte sovrannaturale » , « morte » che anticipa, guida e insieme supera, come in una sorta di metamorfosi, l'evento assegnato dali 'ordine naturale. Raggiunto questo primo traguardo, la ritualità teurgica procede a una serie di operazioni che - come Proclo ancora suggerisce (Commento alla Repubblica, 1,152-153 ) - si potrebbero cogliere, per inopinata somiglianza, in una scena dell ' Iliade. Nel passo omerico si narra come Achille predispo­ se e officiò gli atti necessari a consegnare l'amico morto all'aldilà. Il cada­ vere di Patrodo fu posto sulla pira affinché il fuoco lo consumasse. Ma la fiamma stentava e la pira non riusciva a divampare. Allora Achille, offrendo libagioni con una « coppa d'oro», si volse a pregare gli dei del vento, Zefiro e Borea, perché venissero, con il loro soffio potente, ad attizzare il fuoco. Ascoltando le sue parole, le forze celesti dell'aria subito giunsero, abbatten­ dosi violente sulla pira. La « fiamma divina» cominciò, così, a divampare, «crepitando sonoramente » e Achille, per tutta la notte, rimase davanti a essa: «da un cratere d'oro, attingeva vino con una coppa e lo versava al suolo [ ... ] invocando l'anima di Patrodo» (Omero, Iliade, 24,192-221 ) . La sequenza di tali gesti - afferma Proclo ripetendo l'insegnamento del suo maestro Siriano - « imita la procedura che i teurghi adottano per donare immortalità ali' anima » : il soffio dei venti e l'ardore della fiamma purifica­ no, secondo un trattamento « appropriato » , il «veicolo» affinché esso, « attirato dai raggi dell'aria, del sole e della luna » , possa innalzarsi alla re­ gione da cui proviene. Il «cratere d'oro», da cui Achille attinge ripetute libagioni, « simboleggerebbe la Sorgente delle anime» da cui si riversa, per tutta la durata del rito, l' «efflusso» di una potenza celeste, di una «vita su­ periore » che dona l'energia dell'ascesa. L'invocazione dell'anima di Patro­ clo - che Achille protrae per l' intera notte - corrisponderebbe alle formule con cui il teurgo chiama la psuché dell'iniziato a uscire dal corpo perché essa si elevi, libera, verso l' invisibile. I dodici Troiani, infine, che Achille sacrifica sulla pira dell'amico, rappresenterebbero le dodici potenze divine - dodici quanti i segni dello zodiaco - che dovrebbero, come un corteggio, accompagnare l'anima nel suo volo. L'aria, il fuoco, l'influsso efficace di

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LA VIA DEGLI DEI

una forza celeste, il corteo zodiacale, l'evocazione magica dell'anima fuori dal suo involucro "terrigno": tutto ciò si fonde e coopera a suscitare l'ef­ fetto desiderato che suggella l'ultima fase dell'iniziazione. «Coloro che, inalando, spingono fuori l'anima sono prossimi alla liberazione » afferma un Oracolo (Oracoli caldaici, fr. 12.4). La psuché, infatti, richiamata fuori dal corpo per mezzo dell'azione rituale, comincia a inalare il calore della forza celeste. Diviene «leggera » per il « soffio caldo» che discende su di lei e «si accende di fuoco » (frr. 12.2.-12.3). Ritrova il proprio ochetos, il « canale » luminoso da cui era discesa nel corpo (fr. uo ). Attirata e insieme sostenuta da quei « raggi» incandescenti, essa si alza progressivamente, con il suo « veicolo», in direzione della « fonte » da cui deriva. Come se fosse a caval­ lo di un destriero, tende le « briglie infuocate » della sua sostanza purificata e corre verso la meta. Giamblico definisce, non a caso, gli iniziati della teurgia « atleti del fuoco» (I misteri egiziani, 92.). Ma «guerrieri di luce » potrebbe essere un appellativo altrettanto appropriato. Perché è proprio come un guer­ riero sul campo di battaglia che l'iniziato, con sapiente furore, persegue la vittoria dell' «elevazione » divina. L'america Achille, avvolto nella sua armatura di bronzo, animato da un « ardore » sovrumano, risplendeva, sulla piana di Troia, come una « stella », sprigionando un bagliore simi­ le a « fuoco che brucia » o a un « sole che sorge » (Omero, Iliade, 2.2.,2.5; 134-135). In modo analogo, il teurgo, proteso al vertice divino, si leva « in­ teramente avvolto dalla culminazione di una luce risonante ». «Armato nell 'anima e nella mente dalla forza tricuspide » delle potenze divine, egli « lancia nel suo cuore », come un « grido di guerra », come un « segnale di battaglia », il sunthema, il « simbolo» che lo porterà a conquistare il vertice del cosmo, a varcare, vittorioso, il «giardino» degli dei (Oracoli caldaici, frr. 2., 165). Senza «disperdersi per i canali» del fuoco, ma «con­ centrandosi » allo stremo di sé stesso, egli «getta » nel seno fecondo della propria «immaginazione » le formule e i nomi segreti che compiono il mistero dell 'anagogé. Allora, «levandosi in volo, l'anima stringerà (dnxei) in sé stessa Dio, completamente inebriata, senza possedere più nulla di mortale ». «Stringere », « serrare», con una presa sempre più intensa, come due mani che si chiudono a tenaglia intorno a una gola. Con un atto di sublime violenza, l'anima chiude a forza dentro di sé il fuoco divino, la forza del sole trascendente e diviene, essa stessa, sole radiante. Ubriacarsi di fuoco, inebriarsi di luce, e insieme agire con la determinazione lucida di una volontà cosciente. Null 'altro che questo è diventare dei.

7

Segreti ermetici e pratiche alchemiche

La ricerca e la visione

Ermete è il grande mediatore tra il cielo e la terra, tra gli uomini e gli dei. È il signore delle trasformazioni e dei passaggi da uno stato all'altro. È il signore che presiede alle iniziazioni perfette, colui che consente di acco­ starsi e di penetrare tutto ciò che eccede l'ordinaria ragione umana. È il custode dei «misteri » del mondo « inferiore » così come del mondo «su­ periore ». Nel corpus testuale e nella tradizione spirituale che da lui prende nome, Ermete è la prima «emanazione » del Dio supremo e, allo stesso tempo, il primo e assoluto destinatario della sapienza dispensata, in origi­ ne, da Dio. È a Ermete, infatti, che Dio si rivela come Poimdndres, «pasto­ re di uomini », e come Nous, come « Mente » della « sovranità assoluta ». Egli si manifesta a Ermete, rispondendo al suo desiderio di comprensio­ ne: «Voglio apprendere le cose che sono, intuirne la natura e conoscere Dio» (Corpo ermetico, r,r ) . «Ascoltare » , « contemplare », « intuire» , « apprendere », «conoscere » : queste sono le azioni che muovono Ermete nella sua tensione a cogliere la vera natura degli esseri e a indagare i segreti del cielo. Questo è lo sforzo della « ricerca» che consente di fuggire dal male assoluto dell ' «ignoranza » e dell' inconsapevolezza che rende schia­ vi della fatalità e dell'opacità della materia. Ermete stesso racconta come il suo sforzo sia stato un giorno premiato. Egli si era concentrato sulle «cose che sono» e aveva «levato la mente verso l'alto », mentre i suoi « sensi corporei» erano «trattenuti » e assopiti, come avviene quando il cibo e la fatica procurano un pesante torpore. Ed ecco che, in quel particolare stato di « sonno» fisico, di sospensione corporea, gli « sembrò» di vedere un «essere enorme ed illimitato» che lo chiamava per nome e si offriva di « insegnare » ogni cosa. Ricevuto l'indispensabile assenso, quell'essere «mutò quindi di aspetto» e allora - afferma Ermete - «tutte le cose mi

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LA VIA DEGLI DEI

si svelarono all' instante ed ebbi una visione infinita perché tutto si era tra­ sformato in una luce serena e gioiosa » ( Corpo ermetico, 1,4). La rivelazione è un atto di «apertura » , un «dischiudersi » improv­ viso e magnifico che rende tutto diversamente visibile ed esperibile nella «luce » della Mente divina e nella «parola » scaturita da lei. Il cosmo di­ viene il segreto di uno splendore che si palesa agli occhi dell'anima mentre il corpo è abbandonato al suo riposo. È un vedere senza limiti e senza osta­ coli, l' immersione in un fulgore che accende di desiderio e di meraviglia crescenti chi si addentra e si sofferma nell'esperienza della contemplazio­ ne. Un vedere che diviene sempre più intenso e profondo perché è la stes­ sa Mente divina a guidare lo sguardo incorporeo di Ermete, rendendolo capace di un'inaudita penetrazione. Come in un faccia a faccia ipnotico, il Nous « fissò a lungo» il suo allievo negli occhi, per comunicargli il potere di procedere oltre, per farlo entrare nel suo stesso sguardo e all' interno della sua stessa natura. E allora un'ulteriore soglia si spalancò: « Contem­ plai - prosegue Ermete - nella mia Mente una luce che si dispiegava in un numero incalcolabile di potenze, una luce che era divenuta un mondo senza limiti [ ... ]. Contemplando, io colsi queste cose nella mente, grazie alla parola di Poimdndres» (Corpo ermetico, 1,7 ). La «Mente » di Ermete diviene tutt'uno con la «Mente » e la «parola » di Dio : la « sua » mente è la stessa della «Mente » che gli si manifesta. Egli vede e ascolta attraverso di essa, lasciandosi invadere dalla luce che, a sua volta, si rende conoscibile come uno sfavillare di «potenze» molteplici, come un mondo variegato e mirabile di forze anteriori a ogni natura sensibile. In questo spettacolo irresistibile e indicibile si compie la rivelazione di una verità assoluta: una verità sentita e sperimentata dentro di sé come un evento e come una cer­ tezza al di là di ogni ragione. Passo dopo passo, Dio si mostra e insieme si dice come la perfezio­ ne di un essere « androgino », come «Vita e luce », da cui procede la ge­ nesi dell'universo intero. Tra visione e parola, l' insegnamento rivolto a Ermete dispiega i segreti della creazione del cosmo, l'ordinamento delle sfere celesti e degli elementi, fino alla generazione di Anthropos, l'arche­ tipo celeste dell' « Uomo », in tutto simile a Dio e, come lui, perfetta­ mente androgino. Ali ' « Uomo » la Mente divina affidò - riferisce ancora Ermete - « tutte le sue opere » e gli concesse, a sua volta, la facoltà di «creare » . Ma l' incauto Anthropos, anziché permanere nei confini del re­ gno celeste, finì per squarciare l' «involucro delle sfere » e precipitò in seno alla «Natura », sprofondando nella realtà dei corpi e della materia.

SEGRETI ERMETICI E PRATICHE ALCHEMICHE

2.2.1

Come Narciso, egli aveva contemplato la propria immagine nelle acque inferiori e, innamoratosi di quel sembiante illusorio, aveva voluto unirsi ad esso, lasciando la propria sede originaria. Di qui la sua "cadutà' e la sua parziale trasformazione, dopo che la Natura lo aveva stretto a sé, con un terribile e amoroso abbraccio. Anthropos - che, al pari di Dio, era stato solo «luce e vita » - divenne, da quel momento, un essere «duplice » : « mortale a causa del corpo », ma « immortale a causa dell'uomo sostan­ ziale », dell'essenza celeste, che pur continuava ad abitare dentro di lui. « Sebbene immortale, l'uomo patisce le cose mortali, poiché è soggetto al destino [ ... ], sebbene superiore alla compagine delle sfere celesti, ne è diventato schiavo, essendo sottoposto alla loro armonia » (Corpo ermeti­ co, 1,1 6). Da androgino autosufficiente, l'uomo fu diviso in «maschio» e « femmina », esposto al tormento del desiderio e della procreazione. Ter­ ra, acqua, fuoco e pnéuma intervennero a formare il suo corpo mortale con un intreccio di polarità e il concorso di un opportuno calore: «La terra era la femmina e l'acqua costituiva la funzione generativa maschile, ma la maturazione del tutto avvenne attraverso il fuoco e dall'etere la na­ tura ricevette il soffio vitale » (Corpo ermetico, 1,17). In questa « forma » umana, prodotta a imitazione dell 'archetipo celeste, la pura « Vita » di­ vina si trovò trasformata nell'essenza dell' «anima », e lo splendore della «luce » divenne la sostanza della « mente » . «Dalla vita è venuta l a psuché e dalla luce è derivato il nous » : m a se questo è vero - come Poimdndres assicurò a Ermete - l'uomo, nella sua esistenza terrena, può sempre attingere alle risorse della sua « anima » e della sua «mente » se vuole davvero riconquistare quella «Vita » e quella «luce » che gli appartenevano e che costituivano la sua autentica natura. Turto sta nel «conoscere sé stessi » o meglio nel « riconoscersi » come es­ seri di una realtà superiore: è questo - disse ancora la «Mente divina » - il «bene supremo », il « fine ultimo» . Chi è pervenuto a «contemplare sé stesso», a «vedersi » nella propria reale essenza, non può che «procedere verso Dio » : «Colui che è Dio padre, dal quale è nato Anthropos - afferma­ va la voce risonante nella visione di Ermete - è luce e vita, e se tu, dunque, riconoscerai te stesso come un essere di vita e di luce e comprenderai di derivare da essi, farai ritorno alla Vita :» (Corpo ermetico, 1,2.1). Il riconosci­ mento della propria natura è conoscenza di Dio e insieme conquista di una vita divina come una condizione da sempre inscritta nel proprio essere. Il «compimento » supremo per chi ha raggiunto lagnosis, per chi è arrivato a questa «conoscenza » essenziale, è «partecipare dell'immortalità» : «è

2.2.2.

LA VIA DEGLI DEI

diventare dio», come cosciente attivazione delle proprie facoltà sopite e ignorate, come riappropriazione suprema e integrale del proprio Sé e del proprio «uomo essenziale » . Muoiono, per contro, e sono «degni della morte » coloro che, giorno per giorno, abitano esclusivamente nella realtà della «morte » stessa e con tale realtà si identificano, perché ignorano af­ fatto l'altra dimensione da cui traggono origine. Sono «degni di morire» coloro che si immergono, totalmente, nel limite dei corpi individuali, nel «buio» di quella «natura umida », da cui la morte stessa «si abbevera » (Corpo ermetico, 1,2.0 ). La gnosis, la vera «conoscenza » è acquisire dunque la consapevolez­ za di questa verità: l'uomo «che abita sulla terra » può, se vuole, essere un «dio mortale », finché trascorre la sua esistenza quaggiù, così come il «dio che abita in cielo » non è, in realtà, che un «uomo immortale » che ha lasciato le bassure terrene (Corpo ermetico, 9,2.4). Al momento della morte fisica, l'uomo abbandona il proprio corpo materiale alle for­ ze naturali dell 'alterazione, così come la sostanza dei suoi sensi corporei e le facoltà inferiori fanno ritorno alle loro rispettive sorgenti cosmiche. L' «uomo» si slancia quindi attraverso le sfere planetarie, spogliandosi delle energie, delle passioni e degli impulsi che da esse gli erano derivate: dalla concupiscenza di Venere alla brama di ricchezze di Giove, dalla col­ lera di Marte alle menzogne insidiose di Saturno. E così - ormai «privo degli effetti della compagine delle sfere » e della fatalità determinata dalle configurazioni dello zodiaco celeste - egli può giungere all'ottavo cielo e proseguire ancora oltre. Può consegnarsi alle «potenze » divine e diventa­ re, lui stesso, una dunamis, una «potenza » specifica del mondo superiore, rinascendo definitivamente in dio. Tutti gli uomini - osservò Ermete - hanno virtualmente una « men­ te », un nous, per « ritornare alla Vita », per sapersi «dei » e diventare «divini». Ma non tutti, appunto, ne hanno la percezione o la coscienza. Non tutti ne hanno la capacità o conducono un'esistenza che consenta di conquistare un barlume di gnosis: « lo, la Mente divina, sto presso coloro che sono santi, buoni, puri, misericordiosi [ ... ] la mia presenza li aiuta e subito comprendono tutte le cose » (Corpo ermetico, 1,2.2. ) . Occorre una pratica di vita perché la « mente » si trasformi da mera virtualità a facoltà attiva e operante. La «mente» è un «premio da conquistare », una meta da raggiungere attraverso uno sforzo tenace e un impegno indefettibile, attraverso un cercare inesausto, assistito e sostenuto dal favore celeste. Solo chi ha «cercato» e « trovato » può sperare di « riuscire » (Estratti

SEGRETI ERMETICI E PRATICHE ALCHEMICHE di Stobeo, 23,4). Solo chi si è chiesto «per che cosa è nato», solo chi ha sviluppato in sé una certa attitudine alla conoscenza, solo chi ha prestato ascolto alle parole della sapienza può conquistare il privilegio e il premio di «immergersi » nel «grande cratere » della «Mente» divina e diventare un «perfetto» . Tutti gli altri sono condannati a essere dei meri «logici », uomini dotati di logos, di « ragione » discorsiva e di razionalità applicata al cosmo della materia sensibile. Ma la «ragione » e la razionalità, appunto, non bastano per conoscere «perché e da chi si è venuti al mondo» (Corpo ermetico, 4,4). La natura di Dio, la nascita dell'uomo, il suo destino, l'acquisizione della vera «conoscenza » e la conquista dell' « immortalità » : quel giorno felice, Ermete aveva potuto vedere e imparare ogni cosa direttamente dalla Mente divina. Aveva raggiunto la « sobria veglia dell'anima» contro ogni ottun­ dimento e ogni ebbrezza del corpo. Aveva imparato come la « chiusura de­ gli occhi» - il gesto misterico del muein, del «chiudere » e interrompere la visione corporea - conducesse a un « autentico atto del vedere » (Corpo ermetico, 1,30 ) . E come da questo «vedere » ogni segreto fosse dischiuso nella sua ineffabile evidenza. L'autentico «vedere» produce un «intuire » al di là di ogni apparenza e consente di accedere alla pienezza della gnosi, come i testi ermetici non si stancano di ripetere: «Ermete vide tutte le cose, e, avendo visto, comprese, ed, avendo compreso, ebbe il potere di rivelarle e di mostrarle» (Estratti di Stobeo, 23.5). Per l'esperienza di cui ha goduto, Ermete riassume, nella sua figura, il modello dell'iniziato e insieme del maestro. È un' «anima che ha un'affi­ nità (sumpdtheia) con i misteri del cielo>>. È un essere la cui natura «sen­ te » e «consente » in armonia con i piani superiori dell'essere: un' « ani­ ma» divina che non ha rescisso il legame con la sua origine. E, proprio per tale ragione, ha la qualificazione necessaria perché i «misteri » gli vengano svelati e perché la contemplazione suprema si produca. Solo in una con­ dizione « simpatetica» con il cielo è possibile levarsi a esso e « compren­ dere ». Ma il compimento della « conoscenza », l' «essere istruiti » sui misteri celesti non è acquisizione di un contenuto. La gnosi che si produce entra nell'anima come una dunamis, come una «potenza » che trasforma il soggetto. Avendo contemplato, essendo stato istruito sulla natura del tutto, Ermete fu « investito di potenza » , fu «caricato» di «potere » e di « forza » (Corpo ermetico, 1,27 ) . Ed è a tale dunamis che ogni iniziato deve, a sua volta, aspirare, seguendo l'esempio perfetto di Ermete, divenendone la compiuta "replicà'.

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2.2.4

Ma chi « Sa» e chi «puÒ» ha anche il compito di rivelare ad altri, di istruire gli uomini immersi nel sonno e di portarli, se essi prestano ascolto, alle soglie dell'iniziazione autentica: «Dunque perché indugi ? - disse la Mente divina a Ermete - Ora che hai conosciuto tutte le cose, non sarai guida (kathodegos) per coloro che ne sono degni ? » (Corpo ermetico, 1,2.6). Ermete ebbe così la missione e il dovere di insegnare e di destare al per­ corso di salvezza coloro che hanno la capacità di percorrere tale strada. Insegnare non solo la natura degli « esseri » , ma - cosa ben più importan­ te - «come e in che modo avrebbero potuto salvarsi ». Lagnosis è dottri­ na, ma soprattutto sapere e tecnica di trasformazione: «potere », come si è detto, di «diventare dei» e di accedere alla «vita » immortale. «Iniziai - racconta ancora Ermete - ad annunciare la bellezza della pietà e della conoscenza [ ... ]. Seminai in loro i discorsi della sapienza ed essi furono nu­ triti con acqua di ambrosia » (Corpo ermetico, 1,2.7-2.9 ) . La sophia ermetica è cibo della «non morte » , è acqua di vita perenne poiché, per l'appunto, insegna «come» sfuggire al destino della dissoluzione e della fine. Ermete non solo parlò agli uomini, ma trascrisse la sua gnosi in superfi­ ci che la potessero trasmettere e conservare: raccolse il sapere iniziatico in «libri sacri», «incorruttibili » e «imputrescibili », vergati dalle sue mani divine e «unti » , a loro volta, con quel « filtro dell' immortalità » che il loro stesso contenuto custodisce e racchiude. Ma la stesura di questi pre­ ziosi libri, la scelta di tracciare queste scritture sacre è nel racconto della tradizione - accompagnata, sorprendentemente, dalla decisione opposta di occultare quanto era stato appena prodotto : «Ermete incise quello che ave­ va conosciuto e, dopo averlo inciso, lo nascose» (Estratti di Stobeo, 2.3,7 ) . Un'operazione all'apparenza sconcertante e contraddittoria. Perché celare quanto era stato fissato a futura memoria? Perché nascondere quanto do­ veva servire alla trasmissione iniziatica? Perché sottrarre quella conoscenza appena rivelata ? Non meno enigmatico è quanto ancora si narra: «Quan­ do sorse l'alba, Ermete fissò i suoi occhi onniveggenti a oriente e contemplò qualcosa di invisibile. E, lentamente, mentre osservava, gli venne in mente la decisione giusta: deporre i simboli sacri degli dementi cosmici accanto agli oggetti segreti di Osiride e, dopo aver pregato, tornare in cielo» . Il mo­ mento magico dell'alba, la luce che sorge a oriente, l' indugiare nella con­ templazione dd sole, la presenza di un'entità «invisibile » che solo la chia­ roveggenza di Ermete può cogliere, e infine l'atto di collocare i «simboli sacri » in un luogo segreto. Tutto ciò costituisce un vertiginoso incastro di piani che moltiplica la sfida dell'enigma. La scrittura ermetica contiene i -

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«simboli» che aprono i misteri divini, ma i «simboli» sono riposti nella dimensione «nascosta» di Osiride che è signore dei morti e immagine del sole notturno. La conquista della sapienza passa, come sempre, attraverso la morte e balugina come la luce di un'aurora che sorge dall'oscurità. n na­ scondimento operato da Ermete rinvia dunque alla dinamica stessa del per­ corso iniziatico: la « conoscenza » non è mai data una volta per tutte, non è un discorso apertamente fissato e a tutti accessibile, non è una rivelazione definitiva e comunicabile nella trasparenza di segni univoci. La «conoscenza » è stata scritta, ma quella scrittura deve essere ogni volta riscoperta, riattraversata e intesa in modo appropriato da chi ne ab­ bia le giuste facoltà. La trasmissione iniziatica è un processo che si rinnova continuamente, ogni qual volta un soggetto voglia tendere a essa. La scrit­ tura ermetica, il tracciato dei simboli, comportano la difficoltà di un'in­ terpretazione che è essa stessa parte del processo iniziatico. I «libri sacri » sono visibili e insieme invisibili. Sono tangibili e incorruttibili come un possesso perenne e un bene concreto, ma al contempo sembrano occulti e introvabili come oggetti smarriti. La «giusta decisione » di Ermete rinvia alla necessità di «cercare>> perché solo il desiderio soggettivo della ricerca, solo lo sforzo di comprendere, solo il lavoro ermeneutico su di sé e sui sim­ boli consentono di appropriarsi della «gnosi» e della divina « ambrosia» che essa promette: Ermete «preferì» nascondere i suoi scritti e avvolgere quei «misteri» nel « silenzio» « affinché ogni generazione venuta succes­ sivamente al mondo li cercasse» (Estratti di Stobeo, 23.5). Secondo il mito ermetico, Héuresis, «Scoperta» sarebbe, d'altro canto, la divina figlia di Phusis e di Ponos, della «Natura » e della «Fatica » (Estratti di Stobeo, 23,13). Per «scoprire » occorre il penoso «travaglio» di un «lavoro » che si applica alla «natura» e riesce ad andare al di là di essa. Non a caso, per volere divino, Héuresis è stata chiamata a essere «guida » e « signora » dei «misteri » che costellano l'esistenza del cosmo. I «libri» che compongono l'articolato corpus ermetico indicano dun­ que una possibilità di « salvezza» , ma insieme la pongono come un com­ pimento che ognuno deve riuscire a raggiungere con la propria «fatica» e con il risveglio della propria « mente » . Le parole, le visioni e gli inni che si susseguono, da un testo all'altro, si offrono come primi strumenti di iniziazione, come avvio a un percorso misterico di perfezionamento. La scrittura si dispiega ripetutamente in esercizi di immaginazione attiva che guidano l'anima a elevarsi, a penetrare progressivamente nella natura invisibile del divino, a percepire la grande unità del tutto. I segni « incisi »

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2.26

da Ermete sono, per molti versi, parole-immagini, che sollecitano chi legge a sviluppare la facoltà di una «visione» superiore, la capacità di un sentire e di un comprendere al di là della comune misura umana. È un entrare all'interno delle cose, un identificarsi con esse, togliendo il confine del­ la differenza e della singolarità individuale. Non si tratta di contemplare il cosmo come cosa «esterna» e diversa da sé, né di concepire il divino come un'astrazione della ragione. Non si tratta di percorrere, sottoposti alle scansioni del tempo, i luoghi e le regioni molteplici dell'universo né di indagare la materiale consistenza del sensibile. Occorre, invece, attraverso le risorse sapienti della phantasia ermetica, raggiungere istantaneamente tutto ciò che si vuole «trovare » e « scopri­ re » . Occorre imparare a "viaggiare" al di là dello spazio e del tempo, al di là delle estensioni della materia, valicando ogni dimensione esperita e concepibile nell'esistenza ordinaria: « Ordina alla tua anima di viaggiare fino all 'India ed essa sarà là, più veloce del tuo comando. Ordinale di tra­ sferirsi sull'Oceano e di nuovo essa sarà là, non come se avesse viaggiato, ma come se fosse già sul posto [ .. ] comandale di volare in cielo: nulla le farà da ostacolo, né il sole, né il fuoco, né l'etere [ ] e se tu volessi sfondare la volta dell'universo stesso e contemplare quello che c 'è al di là, potre­ sti farlo» (Corpo ermetico, 11,19 ). Sviluppare la capacità di phantdzesthai, di «immaginare » - non «attraverso la vista degli occhi », ma con l' «e­ nergia mentale delle potenze » interiori - significa dilatare all 'infinito il proprio essere, superando ogni limitazione e ogni separatezza: «Accresci te stesso fino a una misura incommensurabile, balza lontano da ogni cor­ po, va al di là di ogni tempo, divieni Eternità e concepisci Dio» (Corpo ermetico, 11,20). Quest 'arte dell' « immaginare » è una via che porta alla rigenerazione di sé, poiché l' iniziato cessa di essere e di concepirsi come un frammento isolato o un soggetto finito. L'adepto di Ermete diviene tutto con tutto, coincidendo con ogni dimensione e con ogni piano della realtà: «Sono in cielo, nella terra, nell'acqua, nell'aria, negli animali, nelle piante, nel ventre materno, prima del ventre materno, dopo il ventre ma­ terno, sono dovunque » (Corpo ermetico, 13,11). L' « io» non è più da qual­ che parte o in qualche tempo poiché è diventato uguale alla natura sacra e divina dell 'intero universo. La «gnosi », la comprensione ermetica delle «cose che sono», è il potere attivo di trasformarsi nella pienezza dell'esse­ re stesso, nella « Vita » e nella «luce » che sostiene tutte le cose. La ricerca della conoscenza è la ricerca e la pratica di una visione capace di modificare l'anima e di innalzar! a a un piano sovrumano. .

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SEGRETI ERMETICI E PRATICHE ALCHEMICHE L'occhio della Dea, le parole della Vedova

Kore non è solo il nome della «fanciulla », della vergine divina che nel nostro percorso iniziatico, più volte, è comparsa nella svolta decisiva della morte. Kore è, in greco, anche il nome della «pupilla » luminosa dell'oc­ chio umano. Secondo un'antica credenza, l'occhio non solo è lo specchio rivelatore dell'anima, ma è la sede della psuché stessa: il luogo corporeo in cui ella si renderebbe visibile e si affaccerebbe a contemplare il mondo. Fissando lo sguardo nella superficie lucente dell' iride si potrebbe, infatti, scorgere un profilo, una sagoma contenuta in essa: la figura dell'anima, appunto, che, come una minuscola « fanciulla », come una tenue ed eva­ nescente "bambola'', balugina e si manifesta a chi voglia coglierla. Ma la figura che compare nell'occhio può essere anche, per converso, il profilo di chi, fissando lo sguardo, contempla l'occhio stesso. Socrate aveva un giorno spiegato al giovane Alcibiade che conoscere sé stessi significa cono­ scere la propria anima. Vedersi e conoscersi significa riflettersi in un altro occhio: «Il volto di chi guarda una persona negli occhi appare riflesso, come in uno specchio, nello sguardo di chi gli sta di fronte [ .. ] . Ciò che chiamiamo "pupilla'' è appunto l' immagine di chi guarda [ ... ] . Un occhio, guardando in un altro occhio, riuscirà a vedere anche sé stesso [ . ] . Così l'anima, per conoscere sé stessa, dovrà guardarsi in un'altra anima» (Pla­ tone, Alcibiade, 1, 133). L'anima è una «fanciulla » che guarda e al contem­ po si guarda nel gioco speculare della «pupilla ». La kore è conoscenza e visione che si protende all'esterno, che si volge ad altro, per tornare su sé stessa poiché ciò che si vede e si conosce è sempre e comunque la natura divina della psuché. Non è dunque un caso che uno dei testi più pregnanti del corpus erme­ tico greco si intitoli Kore kOsmou, la «Fanciulla del cosmo », la «Pupilla del mondo» (Estratti di Stobeo, 23): colei che è anima e vita dell'universo è, allo stesso tempo, l'occhio che contiene il mondo e lo fa conoscere a chi in lui si specchi. Kore kOsmou è la dea lside, la grande maga, la madre universale, la sposa lunare del solare O siride, la signora della vita. Quando Osiride fu ucciso dal suo nemico Seth e il suo cadavere fu smembrato e disperso, lside si era posta alla ricerca di quelle membra dilaniate ed era riuscita a ricomporre il corpo del suo sposo. Era riuscita, con il suo magico potere, a rianimare quel cadavere esanime così da poter concepire un fi­ glio, lo splendente Horus, che continuasse la regalità solare del suo sposo. lside è il potere della vita e della generazione al di là della morte. È il pote.

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2.28

LA VIA DEGLI DEI

re della palingenesi che ella dispensa ai suoi figli devoti, elevandoli a una natura superiore. Chi si ciba delle sue mistiche rose rinasce e si trasforma, spogliandosi della bestialità delle passioni e degli istinti, liberandosi dai vincoli abbruttenti della materia greve. Così era accaduto al protagonista di quella fobula m isterica che sono Le metamorfosi di Apuleio. Grazie a lside, lo sventurato Lucio aveva potuto mutare la propria condizione e la­ sciare quell' involucro animale che aveva occultato e sconciato il suo vero essere. Aveva potuto abbandonare il sembiante di « asino» e riacquistare la propria identità perduta. Da animale era diventato uomo e da uomo aveva raggiunto lo status di perfetto iniziato: «lo sono la madre della natura - aveva detto la dea a colui che l'aveva intensamente invocata -, io sono la signora di tutti gli elementi, l'origine prima dei tempi e delle generazioni, l'archetipo di tutti gli dei [ ... ] , io governo le volte del cielo, le brezze del mare, i silenzi degli inferi [ ... ] , io, unica e multiforme, che il mondo venera con riti e nomi diversi [ ... ], io sono lside regina [ ... ] e per opera mia già splende il giorno della tua salvezza [ ... ] , coglierai le rose e subito ti spoglierai della pelle di questo odioso animale » (Apuleio, Le metamorfosi, n,6-s). Vergine, madre e pupilla argentea della luna, lside detiene il segreto della vita eterna. E chi rinasce dal suo grembo, chi diviene « figlio della Vedova » divina, non conosce la fine della morte, perché un altro e su­ periore «compimento » è assegnato al suo essere. Tradizione vuole che «ella abbia scoperto il farmaco dell ' immortalità e con esso abbia resusci­ tato » il suo stesso figlio Horus, quando, al pari di Osiride, egli fu vittima di una congiura mortale (Diodoro Siculo, Biblioteca, 1,25). Ed è proprio con un'allusione a questo «farmaco » che la scrittura iniziatica della Kore kosmou prende avvio. Una scena simbolica tra madre e figlio, l'offerta di una bevanda e il risuonare di un insegnamento segreto : «Pronunciate queste parole, lside versa a Horus la dolce bevanda dell'ambrosia, che le anime hanno la consuetudine di ricevere dagli dei e così comincia il suo sa­ cro discorso» ( 1 ) . Horus è l'amata progenie solare, ma, al contempo, rap­ presenta l'anima di ogni iniziato che riceve il privilegio della non-morte e il dono della conoscenza. Qui lside si presenta come maestra e come guida, come sacerdotessa dell ' iniziazione suprema e come colei che è capace di trasmettere la «gnosi » di Ermete, poiché da Ermete lei stessa e Osiride erano stati, a loro volta, istruiti e iniziati. Da Ermete essi avevano appreso il sommo principio che sintetizza, in una formula, il nucleo della sapienza: «Essi impararono da Ermete che le cose che stanno in basso hanno, per

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disposizione del Demiurgo, un legame con le cose che stanno in alto, e così istituirono, sulla terra, quelle cerimonie sacre che si trovano in corrispon­ denza con i misteri del cielo » (68). Come in alto, così in basso: tutto si risponde per un vincolo di «simpatia », per un «consentire » universale che permette, a chi sa, di muoversi, con libero e sovrano potere, tra le due dimensioni, oltrepassando ogni distanza. La « simpatia » è disposizione e ordine del divino demiurgo che ha plasmato il tutto nella duplice articolazione di un mondo superiore e di un mondo inferiore. Ed è proprio sul dispiegarsi progressivo dell'opera demiurgica che il «sacro discorso » di lside si appunta, ripetendo e rin­ novando ciò che, all'origine dei tempi, Ermete aveva contemplato, scritto e nascosto. L'insegnamento procede evocando il momento di un doppio passaggio cruciale: dall' «ignoranza » alla «conoscenza », dall' «inattivi­ tà » all' «azione ». All' inizio Dio era una realtà nascosta e immani festa, incognita e inoperosa, interamente raccolta nella propria invisibile e im­ mutabile essenza. Ma poi qualcosa cambiò e Dio decise di manifestarsi: «il tempo dell ' inattività e del nascondimento era durato abbastanza » ( 8 ). La «natura » doveva esistere e i mondi diventare una realtà popolata di «cose » e di «esseri », di «spiriti» e di «anime». La stasi doveva ces­ sare perché tutto fiorisse come moto ed energia di vita. Così - racconta lside - il Dio supremo diede inizio alla sua technitéia, alla sua «opera di artigiano », al suo «fare da artista » , creando e plasmando tutto ciò che era indispensabile affinché il cosmo raggiungesse l' « attualità » e la com­ piutezza dell'essere. Nella narrazione ermetica della creazione risuona la memoria del Timeo di Platone, ave il dispiegarsi della demiurgia cosmica era stato distesamente illustrato in forma di mito. Comune a entrambi i testi è l'idea che l'artista celeste abbia operato una « mescolanza» per produrre la materia prima del­ la sua opera. Differente è, tuttavia, lo sviluppo della procedura. Il demiurgo platonico aveva mescolato fra loro l ' « essere », il «diverso» e l' «identico» formando un composto « intermedio» fra il «divisibile » e l' «indivisibi­ le », tra ciò che permane immutato e ciò che è passibile di divenire. Aveva poi proceduto a tagliare le parti di tale mescolanza e le aveva disposte se­ condo proporzioni matematiche e intervalli armonici, così da ottenere, al fine, due cerchi intersecantisi che costituivano l'anima del mondo, il movi­ mento perfetto della vita universale. A questo modello geometrico-musica­ le si sostituisce, invece, nella prospettiva ermetico-isiaca, un'operatività, per così dire, da officina o forse meglio da laboratorio. Il demiurgo - spiegava

LA VIA DEGLI DEI la dea - trasse dal proprio stesso essere una quantità sufficiente di pnéuma - di «spirito» o di «soffio vitale» - e lo mescolò con il calore del «fuo­ co»; quindi vi aggiunse delle «materie sconosciute » in modo da creare un « amalgama» . Pronunciando « formule segrete », attese che gli ingredienti risultassero perfettamente fusi fra loro e «unificati » in un «tutto» . Quin­ di « agitò con forza » il composto. Dopo un po', sulla sua «superficie » , egli vide «brillare » - come la luce candida di un sorriso - una sostanza « molto più sottile, più pura e più trasparente delle componenti da cui il miscuglio era costituito» . Una sostanza che «non si fondeva» se sottopo­ sta ulteriormente al fuoco, ma che «neppure si raffreddava» una volta por­ tata al suo massimo livello di perfezione. Una sostanza del tutto «singo­ lare » e specifica, derivante dalla « costituzione » altrettanto «peculiare » della «mescolanza » operata. Il dio decise di chiamarla con il nome che gli pareva più simile e confacente al potere che da essa sprigionava: psuchosis, « animazione » ovvero l' «energia » della « Vita» (14-15). Dali' « addensamento» di questa sostanza l'artista divino trasse il necessario per produrre «miriadi di anime », di psuchdi particolari. Le «plasmÒ », con ordine e proporzione, tenendo conto del fatto che l' «e­ vaporazione » riduceva l' «omogeneità » degli «strati » che via via af­ fioravano e venivano attinti dal composto (16). Dopo aver assegnato le anime alle « altezze della natura superiore », il demiurgo predispose un ulteriore amalgama, «mescolando gli altri due elementi affini » rappre­ sentati dall' « acqua » e dalla «terra » (18). Di nuovo, pronunciò oppor­ tune formule magiche - ma meno «potenti» delle prime - e agitò per bene il tutto, infondendo in esso un «elemento vivificante ». Quando la «crosta » del composto, galleggiando sulla superficie, assunse il « colore » e la «consistenza» desiderata, il dio la prese e con essa plasmò i segni celesti dello Zodiaco, accordando armonicamente le loro forze e i loro influssi ai movimenti delle anime ( w ) . Conclusa la parte più ardua della demiurgia, il dio affidò quindi alle psuchdi la sostanza residua del com­ posto affinché esse a loro volta plasmassero dei viventi ( 22) . Lo « strato superficiale » della «materia » aveva una « crosta leggera », adatta a cre­ are le specie degli uccelli. La «solidificazione » e l' « indurimento» della porzione sottostante si prestava a generare, da un lato, la «compatta » materia dei quadrupedi e, dall'altro - essendoci ancora un «certo grado di umidità » -, le diverse varietà dei pesci. Il restante composto, ormai divenuto completamente freddo e sedimentato, fu impiegato per la natura altrettanto fredda dei rettili.

SEGRETI ERMETICI E PRATICHE ALCHEMICHE Terminato tale compito, le anime, tuttavia, non furono paghe di per­ manere negli spazi e nei ranghi celesti che il dio aveva assegnato loro. Mosse dalla curiosità, dall'orgoglio e dall 'inquietudine, vollero andare al di là di quanto il demiurgo aveva ordinato. Il che condusse all 'ultima e più penosa fase della demiurgia cosmica. Le psuchdi dovevano scontare la trasgressione di cui si erano macchiate, venendo ad abitare nei corpi di un'ulteriore specie vivente: «Al signore e sovrano di tutti gli esseri parve opportuno fabbricare l'organismo umano, affinché la stirpe delle anime, imprigionata in esso, trovasse la sua punizione» (25). Il demiurgo, tuttavia, non si occupò in prima persona di quest'ultima produzione. La delegò al sapiente Ermete che, forse anche per questo, divenne partico­ larmente "prossimo" alla natura degli esseri umani. Il «miscuglio » che le anime avevano usato per la loro creazione era, nel frattempo, diventa­ to tutto « secco » : «lo allora - riferiva Ermete - adoperai una quantità d'acqua superiore alla mescolanza stessa in modo tale da rinnovare la con­ sistenza della materia » (3o). Una così abbondante diluizione rinfrescò l'impasto, ma ebbe anche l'effetto di rendere la sostanza estremamente molle. Un risultato non accidentale, ma una scelta deliberata dell'opera­ tore: «Feci in modo che l'oggetto plasmato fosse del tutto debole, fiacco e impotente: così, pur essendo dotato di intelligenza, esso era privo di potenza (dunamis) » (30). Il corpo umano, modellato dall 'artefice per contenere le anime, è intriso di un'umidità che è al contempo necessaria ed eccessiva: l'acqua è indispensabile per la sussistenza di ciò che vive sulla terra, ma l' «umido» che pervade il mondo della materia - l ' «umido» che è il simbolo stesso della realtà corporea - comporta, per inevitabi­ le conseguenza, un drastico ottundimento di tutto ciò che deriva da un piano superiore: la «potenza » dell'anima si illanguidisce e, letteralmen­ te, si annacqua nell'umida fluidità dell'esistenza mortale e delle passioni corporee. Solo la fiamma di un fuoco solare, solo il calore di un «soffio» celeste potrebbe, con procedura opposta, asciugare il composto della psu­ ché, restituendo a essa la pienezza della sua originaria dunamis, come già Eraclito, in età ben più antica, aveva intuito. Mescolare e agitare, cuocere ed evaporare, coagulare e diluire, impie­ gare ingredienti noti e aggiungere sostanze occulte, unire elementi della natura visibile e materie invisibili estratte dal divino, usare formule segrete e pronunciare parole magiche: la demiurgia ermetica, evocata da lside, è concepita - come il lessico ben fa comprendere - nei modi di una mirabile opera alchemica che, con una sequenza ordinata di fasi, ha prodotto tutte

LA VIA DEGLI DEI le cose e tutti i corpi del cosmo a partire da quella materia prima, «diafa­ na» e brillante, che la sapienza del dio aveva saputo elaborare. La conferma che tutto questo racconto si riferisca ali' « arte sacra » dell'alchimia è data, quasi per accidentale corollario, da una notazione della stessa lside. Dopo aver ricordato la creazione finale dei corpi umani, la dea evoca, con il tono di un inciso sibillino, l'atto della trasmissione iniziatica: «Stai attento, fi­ glio mio, perché stai ascoltando la dottrina segreta che il mio antenato Ka­ mephis apprese da Ermete [ ... ] e poi da Kamephis la udii io, quando egli mi onorò con il dono del Nero perfetto ( Téleion Mélan ) e infine tu, adesso, la ascolti da me» (3l). Da Ermete, la prima emanazione del dio supremo, a Kamephis, che è adattamento greco del dio egizio Kamutef: il progenitore delle successive stirpi divine, l'antenato celeste identificato con l' itifallico Min-Arnun che generò gli altri dei masturbandosi e ingoiando il proprio sperma. Da Kamephis a lside, e infine da Iside, la «Vedova » di Osiride, al figlio Horus. Una « teoria occulta» , un sapere segreto si tramanda da una generazione all'altra, nel conferimento di un magistero che l'espressione «Nero perfetto» enigmaticamente designa. Il greco mélan corrisponde all'egizio chemi; l'uno e l'altro rinviano al colore del fertile limo deposto, ogni anno, dal fiume Nilo su quella terra che era considerata patria elettiva dell'arte alchemica: «l'Egitto - diceva Plutarco - è la terra più nera che ci sia, nera come la pupilla dell'occhio, e gli Egiziani la chiamano Chemia, paragonandola al cuore che è umido e caldo» (Iside e Osiride, 364 c). U « nero» dell'Egitto è come il « nero» dell'occhio, è come la pupilla divina di lside che rivela la natura del cosmo. Il « nero» dell' Egitto è come il calo­ re fumante di un «cuore» che sostiene la vita del tutto: il «cuore» posto su un braciere di incenso è, per gli Egizi, il simbolo del cielo. La nera « ter­ ra » è «cuore», ma «cuore » è anche la fiamma celeste in una speculare corrispondenza tra alto e basso (Iside e Osiride, 355 a). Ma il « nero» è anche il colore che simboleggia il punto di partenza della stessa operatività alche­ mica. Il « nero» è ciò che contiene e nasconde in sé ogni altra cosa e ogni altro colore: rappresenta il tutto e tutto può diventare, poiché costituisce l'immagine di quel caos indifferenziato posto all'origine dell'universo e del divenire. U «nero» è, nel linguaggio allusivo di questa dottrina, il colore della « morte » cui l'adepto di Ermete deve sottoporre la propria materia per poterla rigenerare. L' « annerimento » (mélansis), lo « sbiancamento » (léukosis), la transizione dell' «ingiallimento» (xdnthosis) e la culminazio­ ne del «rosso purpureo » (iosis) il colore della regalità compiuta e della perfezione - sono i passaggi operativi e insieme i colori simbolici di una ,

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prassi iniziatica che muta e transustanzia i prodotti della natura, attingendo al segreto divino della creazione. Il «discorso sacro» dell'ermetica Kore kosmou non è, peraltro, l'unica occasione in cui lside si attesta come maestra del «Nero perfetto» dinan­ zi a un figlio-allievo che deve essere istruito. La dea è l'emblematica pro­ tagonista di un ulteriore episodio che evoca la conquista della sapienza alchemica. « Quando tu sei andato a combattere per il regno di tuo padre - ricorda la dea rivolgendosi a Horus - io mi sono recata a Hermonthis, la città dove si coltiva l'arte sacra dell'Egitto [ ... ] . In un momento favorevole della rivoluzione degli astri, accadde che un angelo volesse unirsi a me [ ... ) , ma io non mi sono concessa perché volevo prima imparare da lui la prepa­ razione dell'oro e dell'argento» (Alchimisti greci, 1,2.9). lside, come ogni alchimista, voleva conoscere il segreto per trasformare la materia, voleva apprendere come un vile metallo, qual è il piombo, potesse mutarsi nella sostanza preziosa del bianco argento o del giallo oro. Per questo, con op­ portuna astuzia, resistette alle voglie del messo celeste e chiese, in cambio, il dono di quel prezioso sapere. L'angelo confessò che non gli era permesso parlare di « misteri così elevati ». Ma promise che, il giorno successivo, sarebbe giunto da lei un angelo di rango superiore in grado di rispondere a ogni domanda. Il suo nome era Amnaele: avrebbe avuto un segno parti­ colare sul capo e le avrebbe mostrato un vaso « non coperto di pece » nera, bensì « ricolmo di acqua splendente (hudor diaugés) » . Quando Amnaele si presentò allo scoccare dell'ora meridiana - con il sole a picco nel cielo -, lside ripeté la medesima strategia. Anche questo secondo angelo, infatti, voleva possederla, ma lei, con ostinazione, si sot­ trasse all'amplesso, rinnovando la propria richiesta. Così, alla fine, l'angelo fu costretto a cedere, consegnandole ciò che ella voleva: «la tradizione dei misteri rivelata senza riserve e in assoluta verità ». Amnaele impose, tuttavia, a lside di giurare l'assoluta segretezza dell' insegnamento : non doveva rivelare a nessuno questi santi « misteri» a eccezione del suo «ca­ rissimo figlio » . Solo chi, in senso proprio o figurato, può dirsi figlio del­ la «Vedova » di Osiride ha il diritto di conoscere quei segreti. Ebbe così inizio un'esposizione il cui nucleo centrale si riassumeva nella pregnanza di un' immagine su cui meditare: «Vai, guarda e interroga il contadino - disse l'angelo - [ ... ] e impara da lui chi è che semina e chi è che racco­ glie, e saprai che chi semina orzo raccoglie orzo [ ... ] il grano genera grano, l'uomo genera l'uomo, così l'oro serve a raccogliere l'oro e, in generale, il simile a produrre il simile. Così il mistero è stato rivelato » (Alchimisti

LA VIA DEGLI DEI greci, 1,30-31). Il segreto alchemico sarebbe, dunque, interamente racchiu­ so nella natura e nella forza dello spérma, nella potenza e nella qualità del « seme » che viene, di volta in volta, utilizzato al fine di «raccogliere » la « messe » che si desidera. Dalle piante agli animali, dai metalli all'uomo, un medesimo principio, una medesima legge si ripete. Per produrre qualsiasi sostanza - si dedu­ ce dalle parole dell'angelo riportate da lside - occorre anzitutto disporre, con opportuna preparazione, di uno spérma specifico che trasformi e as­ simili a sé la « terra » o la « materia» nella quale viene introdotto. « La natura - aggiunge la dea - gode della natura, la natura trionfa della na­ tura ». Nature affini si attraggono, «godono» e « Si rallegrano» le une delle altre: il simile, inevitabilmente, « ama» il simile. Ma chi conosca le procedure dell' « arte sacra» può intervenire e modificare le relazioni e i rapporti di forza tra le « nature » . Può far sì che una « natura » trionfi e domini su un'altra, neutralizzando le caratteristiche di quest'ultima e imponendo a essa le proprie. Può far in modo che la « natura sostanziale » di uno splendente « seme » d'oro « domini » e renda uguale a sé la vile « materia » del piombo, attraverso un'occulta lavorazione che conduce il « nero» alla perfezione regale del « rosso » . Dopo che i principi generali - illuminanti e allo stesso tempo elusivi ­ sono stati enunciati, lside procede a illustrare una serie di ricette che do­ vrebbero costituire l'applicazione pratica dei principi medesimi: « Prendi del mercurio e fissalo mediante la terra o mediante il corpo della magne­ sia o mediante lo zolfo ... » . Il mercurio, fluido, fuggente, privo di forma, corrosivo e insieme coagulante, passivo e recettivo come il femminile che accoglie in sé l' impronta di un seme. Lo zolfo, acre e pungente, igneo e infiammabile, principio attivo e dinamico che, come il maschio, feconda e imprime una forma. La terra, consistente e greve, feconda e insieme ricca di scorie, base dei corpi e ricettacolo di molteplici metalli. La magnesia, solida e biancastra, derivante dalla commistione di sostanze diverse e as­ similabile, per certi versi, al piombo stesso. Con un breve cenno, l'elenco raccoglie le sostanze più ricorrenti del laboratorio alchemico. Ma che cosa avviene nel loro incontro e in che senso si possono « fissare » o fondere insieme ? Di che cosa si sta effettivamente parlando ? lside aveva preteso una rivelazione « senza riserve » e, con la medesima attitudine, pareva ri­ volgersi al figlio. L' insegnamento alchemico, tuttavia, rifugge, sempre e comunque, le dichiarazioni esplicite e le indicazioni troppo dettagliate. Anche quando fa mostra di assolvere al compito della chiarezza, anche

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quando si afferma che il « mistero è rivelato», il senso del discorso e il metodo della pratica si nascondono al di là delle parole come qualcosa che deve essere autonomamente colto e conquistato. Gli ingredienti e le operazioni che vengono enunciate sono segni cifrati per chi può e deve, per proprio conto, intendere. Uno stesso nome può indicare sostanze del tutto diverse così come un'unica sostanza può essere designata da mille termini differenti. I discorsi di Ermete, gli insegnamenti di lside, i segreti dell'angelo appartengono tutti al regno di un pensiero analogico che si esprime nella polivalenza reversibile di espressioni simboliche. Le deter­ minazioni univoche e le distinzioni stabili sono escluse da questo regime di comunicazione e di esperienza. Ogni rivelazione sollecita, in realtà, una rete di connessioni che vengo­ no lasciate ali' impegno e all'intuizione della « ricerca » individuale. Ac­ qua, terra, seme, oro, argento, piombo, mercurio, zolfo sono le sostanze che i nomi indicano, ma insieme rinviano a qualcosa di ulteriore e diverso. I loro nomi designano phusikd, «cose naturali », ma al contempo rinviano ed alludono a mustikd, a «cose misteriche » che vanno al di là dell 'evi­ denza sensibile e dell'intelligibilità immediata. La comunicazione criptica è strategia per proteggere i segreti di un'arte, confondendo i profani con formulazioni molteplici e contraddittorie. Ma non si tratta solo di questo. L' « arte sacra » richiede e sollecita, attraverso il suo particolare linguaggio, la transizione da una dimensione meramente «logica» alla forma di una conoscenza «pneumatica », ispirativa e immaginativa. «Intuisci, figlio mio - aveva detto lside, terminando la sua lezione a Horus - il mistero del farmaco della Vedova ». Ma, per tentare di condividere tale conoscenza, bisogna tornare, da capo, a riflettere su quella sostanza cotta dal demiurgo divino e accostare, con pazienza, i simboli ai simboli fino a che qualcosa accada e una luce interiore rifulga. Un serpente, un uovo, un ' acqua misteriosa

Il drdkon ouroboros, il « serpente che si morde la coda » è una delle imma­ gini predilette dagli adepti dell'alchimia. In essa si racchiude un aspetto essenziale della loro arte sacra. Il serpente, che muta la sua pelle, è antico simbolo di immortalità e di rinnovamento, figura di potenze che si na­ scondono nella terra, ma che si legano, contemporaneamente, ai misteri del cielo. Raffigurato nell'atto di rivolgersi su sé stesso unendo le sue estre-

LA VIA DEGLI DEI mità, il simbolico animale compone, con il proprio corpo, un cerchio che contiene e abbraccia tutte le cose: «l'Uno è il Tutto e il Tutto è grazie a questo e per questo, e se l'Uno non contiene il Tutto, il Tutto è nulla » (Alchimisti greci, 1,1 33). Ma la totalità che esso rappresenta non costituisce un insieme statico, non corrisponde alla sfera immobile dell'essere divino. Il serpente alchemico è, al contrario, raffigurazione di un divenire conti­ nuo e incessante: è il ciclo dinamico della natura, il moto perenne della trasformazione universale. Come il serpente che mangia la sua coda, la na­ tura muta e si rigenera senza sosta, alimentandosi di sé stessa, divorando sé stessa. Come il serpente, la natura muore e rinasce in un cerchio ove inizio e fine fanno sempre "uno". Nei manoscritti alchemici che ne recano il di­ segno e ne commentano l' immagine il corpo del serpente è dipinto di vari colori: da un lato, il «verde » che costituisce la potenza del germoglio, la forza attiva della fermentazione, la materia allo stato crudo in via di svilup­ po e di lavorazione; dall 'altro, il « giallo oro» che fiorisce dalla maturazio­ ne del «verde », e ancora l' intensità del « rosso cinabro» che rappresenta la forza del sangue e del calore, l'essenza della vita, e insieme il compimen­ to assoluto del processo con cui la materia evolve verso la perfezione della sua potenza. Il serpente ha quattro zampe che corrispondono ai quattro elementi fondamentali, ai quattro metalli vili e impuri - piombo, rame, stagno e ferro - che l'arte, gareggiando con la natura, manipola ed elabo­ ra sino alla metamorfosi in oro. Tre orecchie ornano il capo dell'animale, alludendo ai «vapori » che si sollevano quando la materia naturale viene cotta e sublimata nella sua essenza. E il tre è il numero perfetto di ciò che è generato in forma compiuta. Il serpente, infine, è dotato di un pericoloso «veleno» che uccide e distrugge ogni cosa, ma ciò che uccide è sempre an­ che ciò che rigenera perché - come i misteri antichi insegnano -, la morte non è la fine, ma il passaggio necessario dell'evoluzione di ogni essere e di ogni sostanza, la transizione a un livello superiore e a una nuova forma. L' immagine del serpente rinvia a quanto la natura eternamente opera e produce da sé stessa, ma, al contempo, evoca il segreto su cui l'adepto di Ermete si fonda per mutare la « composizione » della materia: «Ecco il mistero - afferma un anonimo testo alchemico -: il serpente che si morde la coda è la composizione che, nel suo insieme, è divorata, fusa, dissolta e trasformata » (Alchimisti greci, 1,21-22). Accanto al serpente, l'altro simbolo essenziale offerto alla meditazio­ ne del cercatore alchemico è l'uovo. Se gli orfici vedevano in esso l'unità da cui scaturisce il molteplice, i figli di Ermete, per contro, sono interes-

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sati alla natura dell'uovo come ciò che precede l'organismo compiuto, come ciò che contiene la potenza del generare. Comprendere il segreto dell' «uovo», intuire i suoi elementi e le sue forze costitutive, significa comprendere il segreto della vita e poter, a propria volta, indirizzare la vita a produrre ciò che si desidera. Dalla sostanza dell'uovo, simbolica­ mente inteso, si possono generare esseri e nature differenti, a seconda del «seme » da cui l'uovo è fecondato, a seconda della specifica determina­ zione formale di cui l'uovo si fa portatore. Per questo, le parti dell'uovo vengono messe in rapporto, dagli alchimisti, con le due sostanze fonda­ mentali da cui - come si è già accennato - dipende la generazione di ogni corpo e di ogni organismo presente in natura: il mercurio, soffio vitale passibile di essere determinato da una forma, e lo zolfo, che tale forma trasmette e fissa nella materia. Il « bianco dell 'uovo lo chiamano mercurio, acqua d'argento [ ... ], fumo bianco, schiuma del mare [ ... ], rugiada, latte di vergine [ ... ] , fermento irresistibile ». Il «giallo lo chiamano acqua di zolfo incorruttibile [ ... ] acqua di nirro rosso [ ... ], tintura d'oro, zolfo che non brucia » (Alchimisti greci, 1,1 8-19 ). L'uovo è quella cosa « unica» che contiene rutto ciò che "serve" per creare. Quella cosa «unica » fatta di due componenti che consentono di dar vita a ogni cosa. Il « guscio» dell'uovo corrisponderebbe invece alla «terra » o al «piombo», ovvero alla materia grezza, al corpo determinato, da cui bisogna estrarre i principi essenziali del giallo e del bianco, dello zolfo e del mercurio. Una volta estratti devono essere opportunamente lavorati affinché, in seguito, nuovamente riuniti, formino una materia e un corpo differenti da quelli di partenza, secondo le intenzioni che l'operatore, di volta in volta, si prefigge. «0 iniziato, la verità è resa evidente da una parola al plurale: uova », afferma Olimpiodoro, subito dopo aver nominato il serpente (Commento a Zosimo, 2.,8o ). In greco, «uova » si scrive da, «omega» e « alfa » : l 'ulti­ ma e la prima lettera dell'alfabeto, o se vogliamo, in altri termini, la coda e la bocca del serpente. Ma quale «verità » si renderebbe manifesta in rutto questo ? Dal lungo e tortuoso percorso sin qui tracciato - nell'eco delle parole di lside e di Ermete, nella filiera delle immagini e delle parole un' intuizione comincia a baluginare. Il demiurgo divino aveva iniziato la sua opera preparando l'amalgama luminoso dell ' « animazione », della psuchosis, per poi scendere, attraverso successivi passaggi e con l'aiuto di Ermete, alla composizione della materia dei corpi in cui l'essenza animata era stata infine racchiusa. Se la materia sottile e trasparente è l' « alfa » del processo, la forma determinata dei singoli corpi rappresenta l' « omega»

LA VIA DEGLI DEI dell'esito finale. Gli adepti dell 'alchimia non fanno che procedere al con­ trario. Partono dall' « omega » di un corpo e di una materia per attinge­ re all' « alfa» di ciò che sta a monte dell' intero processo per conquistare l' « anima » e lo « spirito», la psuché e lo pnéuma, della vita universale, che precede ogni determinazione individuale e ogni specie materiale. Il se­ greto e il fine dell'arte alchemica consistono nell' «invertire » la dinamica della creazione, nell' «invertire » la natura, riportandola alla sua sorgente e al suo momento primigenio. L'alchimista vuole possedere quella «mate­ ria prima », quell' « anima» e quel « soffio», che stanno alla base del tutto e da cui tutto può essere, in sequenza, generato. Nel linguaggio simbolico dell'arte, l' « omega» - come suggerisce Zo­ simo (Memorie autentiche, x ) - corrisponde a Kronos ovvero a Saturno: è l'emblema della « terra » e del «piombo» da cui si parte per l' inversione del processo. Ma l' « omega », con la sua perfetta forma rotonda - qua­ si come il cerchio del serpente o l'uovo - allude, allo stesso tempo, a ciò che nel «piombo» e nella «terra» si cela, a ciò che da essi deve essere ricavato: l' «Oceano» primordiale, l'origine di tutto, il «Seme » universa­ le. L' «omega » racchiude, in sé, l' « alfa » , che l'alchimista deve liberare. L' « omega » è l' « alfa » nella misura in cui la contiene. Non a caso, gli alchimisti, tornando a giocare con i termini, identificano l' «uovo » e il «piombo», dicendo che sono la medesima cosa. Questo «Oceano» , quest'anima-soffio, questa materia prima, quest' « alfa » - « omega », che può dar vita a qualsiasi cosa, coincide dun­ que con l' « acqua brillante » che l'angelo aveva portato a lside nel miste­ rioso vaso. Théion hudor, « acqua divina » la chiama il sapiente Zosimo: « Questo è il grande divino mistero, l'oggetto di tutta la ricerca: questo è il tutto. Due nature, un'unica sostanza, l'una attira l'altra, l'una domina l'altra. Questa è l'acqua d'argento, l'ermafrodita, ciò che fugge sempre, ciò che si affretta verso le realtà particolari, l'acqua divina, che tutti ignorano e la cui natura è difficile da comprendere » (Memorie autentiche, s). La « sostanza unica », che precede ogni specificazione particolare, è andro­ gina poiché è sintesi perfetta di due nature: è insieme maschio e femmi­ na, mercurio e zolfo. È femmina che attira a sé il maschio e, al contempo, maschio che domina la femmina. È zolfo pungente, ma è anche mercurio volatile che, nella sua facilità ad amalgamarsi, « si affretta » ad assumere forme proprie e particolari. Questa sostanza - prosegue Zosimo - « non è un corpo solido e non è facile da catturare» : « essa è l'elemento uni­ versale presente in tutte le cose, ha vita e pnéuma, ma è anche una forza

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distruttrice. Colui che la intuisce e la comprende possiede oro e argento ». L' « acqua divina » non è solo principio di vita, ma - come il veleno del serpente - anche causa di morte poiché ha il potere di corrodere e di ri­ portare all 'in differenziato le materie particolari con cui viene a contatto. Unica e doppia, essa è l'agente di ogni trasformazione e, allo stesso tempo, ciò che si trasforma. Per ottenere l' « acqua divina» - dicono i savi alchimisti - bisogna por­ re il piombo nel vaso di Ermete e riscaldare il tutto con un uso regolato della fiamma, con la pazienza di un fuoco « dolce» e « moderato » che riscaldi senza distruggere (Olimpiodoro, Commento a Zosimo, 2,8o). Per effetto del calore, la materia grezza - il corpo o la terra prescelti per il pro­ cedimento - deve dissolversi e putrefarsi, perdendo la propria consistenza e le proprie caratteristiche di partenza: tutto deve ridursi al « nero» che segnala e produce uno stato informe e indifferenziato, un «Oceano» in cui tutto è perfettamente sciolto e libero dai legami e dalle strutture prima esistenti. La didlusis, il «dissolvimento» dei «corpi», è il primo passo per chi voglia cogliere la «natura nascosta ali' interno di essi» ( Sinesio, Annotazioni a Democrito, 2,60-61): quella natura invisibile che è « acqua divina » e « anima » della materia. Il lavoro si sviluppa e procede, quin­ di, secondo un ciclo attento e delicato di «decorporificazione» e di suc­ cessiva « incorporazione » : «Se non privi di corpo i corpi e se non rendi corporeo l'incorporeo, i risultati attesi saranno nulli », recita un antico adagio dell'arte, attribuito allo stesso Ermete (Alchimisti greci, 3,114). Nel vaso di Ermete i corpi perdono il loro corpo, riducendosi a cenere o a fec­ cia, mentre la psuché e lo pnéuma, l' « anima» e lo « spirito » volano in alto, «evaporano» . Sarebbe, tuttavia, un errore sbarazzarsi di quel residuo che rimane sul fondo perché le ceneri e la feccia saranno essenziali per il risultato finale: anche quelle che appaiono mere « scorie » sono preziose per l' «intero mistero» che si deve compiere (Olimpiodoro, Commento a Zosimo, 2,92). Errato sarebbe anche aprire intempestivamente il vaso poi­ ché l' « anima » e lo « spirito», essendo ormai del tutto volatili, fuggireb­ bero via e nulla si potrebbe più realizzare. Bisogna, per contro, continuare a tenere il vaso sigillato affinché ciò che è evaporato torni a condensarsi, ad acquisire una consistenza corporea, raggiungendo di nuovo quanto sta in basso. Insistendo nella prosecuzione di questo ciclo, « anima » e « spiri­ to » si raffinano sempre più, acquisendo la loro divina e originaria purezza. Ma anche il residuo della materia, le ceneri o le scorie, sottoposte a questa dinamica circolare, si purificano a loro volta: il «cadavere» della mare-

LA VIA DEGLI DEI ria - dicono gli alchimisti, facendo riferimento alle pratiche egizie - viene « imbalsamato» in una « mummia » esente da corruzione e da alterazione. Nella sapiente ripetizione di questa doppia dinamica di «dissoluzione » e di «coagulazione » , di « decorporificazione » e di « incorporazione », si perviene al compimento del «mistero » : la psuché e lo pnéuma rianimano, infine, il «cadavere » , restituiscono la vita alla « mummia » . Ma, in ragio­ ne di tutti questi passaggi, ciò che si ottiene nella riunificazione finale è del tutto diverso dal corpo da cui il lavoro aveva preso inizio. Il «cadavere » rianimato si trasforma nella luce dell'oro. La « mummia » riprende a vive­ re non come il corpo e la materia che era, bensì in una forma superiore e trasfigurata rispetto a ciò che era « morto» nel fondo del vaso. Attraverso queste arcane operazioni l'arte alchemica migliora la natu­ ra, la fa evolvere, la perfeziona. La greve e opaca materia viene nobilitata, resa più « sottile» e «luminosa » : diviene «Oro», ma il glorioso splen­ dore dell' «oro» è anche il simbolo dell'essenza immutabile del divino. Metalli, erbe, tinture: le ricette e i trattati alchemici non parlano, apparen­ temente, che di ingredienti e di operazioni di laboratorio; procedure mol­ to pratiche, ancorché sofisticate e protette dal segreto. Ma c 'è da chiedersi se, in questa dinamica di « spiriti », di « anime » e di « corpi», l' « oro» perseguito dagli alchimisti sia solo ciò che comunemente si designa con questo nome.

Il sacrificio e il tempio

Zosimo è uno tra i primi e più autorevoli alchimisti greci, nato a Pano­ poli, in quell' Egitto che, da secoli, aveva elaborato e trasmesso una scien­ za integrale del divino. Tra le opere che la tradizione ci ha trasmesso, vi sono tre prdxeis dedicate al tema dell ' areté: tre «lezioni » o forse meglio tre trascrizioni di altrettante « azioni», di altrettanti «procedimenti ope­ rativi » volti a conseguire la «perfezione » . Areté è il nome della « virtÙ» e del «valore » o più precisamente, in questo caso, dell' « eccellenza » as­ soluta cui l'adepto di Ermete aspira per la metamorfosi della materia e per la propria stessa vita. Areté viene da aréion, « migliore » , «più forte » : è l' « efficacia » di ciò che consegue, con modalità differenti, uno « Stato» superiore alla comune misura umana e ali'ordinaria condizione dei corpi naturali. Le lezioni cominciano evocando i termini e i concetti chiave del­ la prassi alchemica: la «composizione delle acque », necessaria a estrarre

SEGRETI ERMETICI E PRATICHE ALCHEMICHE il «liquido divino », la sostanza universale; il moto e il progressivo « ac­ crescimento» della materia cotta nel vaso; la « separazione dello spirito (pnéuma) dal corpo» e, all' inverso, il successivo «legame dello spirito con un corpo». Le operazioni che ne risultano - annota - non sono prodotte dall' « addizione » di « materie estranee » , « aggiunte dall'esterno» , ma sono dovute alla « natura stessa » , a una « natura unica » , che « agisce su sé stessa» , guidata dall'alchimista, in base al principio ermetico secondo cui l'uno è il tutto e un medesimo « seme » è alla base di ogni cosa. Mentre stava parlando e riflettendo su questi principi, Zosimo raccon­ ta di essere scivolato, senza accorgersi, in un diverso stato di coscienza. Si « addormenta » e, nel sonno, vede e phantdzei, vede e «immagina » un complesso e articolato drdma, un' « azione » in cui intervengono personag­ gi diversi. Nel sonno accede a quella dimensione che tradizioni successive chiameranno « mondo immaginale » : il luogo intermedio tra il divenire e l'essere, tra il mondo dei corpi e la sfera del divino; il luogo proprio dello pnéuma e della phantasia che, come insegnavano i platonici, è corpo «in­ corporeo » ave i diversi ordini della realtà si manifestano all'anima dell' uo­ mo. In tale stato, egli si vede trasportato in un luogo sacro ave si compie un sacrificio: l'atto rituale per eccellenza, l'atto che, distruggendo e immo­ lando, permette ai mondi di essere e di sussistere. Davanti a lui compare un « altare » che, per quella condensazione propria dell'onirico, appare, allo stesso tempo, nella forma di una phidle: una «coppa» , un' «urna » o, meglio ancora, un « alambicco» . L' « altare » del sacrificio è lo stesso del «vaso di Ermete» in cui la materia viene posta per essere uccisa e rigenera­ ta. L'altare sembra contenere « quindici gradini» che devono essere prima discesi e poi risaliti in una sequenza che transita dall' « oscurità» alla piena «luce» . Quindici gradini che - possiamo supporre - corrispondono alle sette sfere celesti, percorse nelle due direzioni, fino a un punto di arrivo superiore a esse: sette gradi discendenti nella tenebra della morte, nel fondo opaco della materia caotica, e sette gradi di una progressiva illuminazione rigenerante. Una voce all'improvviso risuona. La voce di colui che si è sot­ toposto a tale duplice movimento: « Il sacerdote del sacrificio mi rinnova, liberandomi dalla natura spessa del corpo. Vengo consacrato e, per neces­ saria conseguenza, raggiungo il compimento dello spirito (pnéuma teMu­ mai) » ( Zosimo, Memorie autentiche, 10,1-2) . Il « Sacrificio» nel vaso-altare è dunque una teleté, un' «iniziazione » ineffabile, che può essere espressa solo attraverso parole e immagini sim­ boliche, attraverso l'atmosfera fluida e "fantasticà' dell'onirico. In questo

LA VIA DEGLI DEI sogno che potremmo definire "lucido", Zosimo interroga colui che ha pro­ ferito quelle parole. E così scopre la contraddizione solo apparente di una coincidenza che il pensiero razionale rifiuterebbe: l'operatore dell'azione rituale è anche la vittima che viene immolata. Il sacrificante e il sacrificato sono uno stesso soggetto, una stessa materia: «lo sono Ione, il sacerdote del penetrale del tempio e subisco una violenza intollerabile. Qualcuno, sul far del giorno, è arrivato di corsa e, afferrandomi, mi ha fatto a pez­ zi con un coltello [ ... ] , ha completamente scorticato la mia testa e poi ha mescolato le ossa e le carni, cuocendole nel fuoco finché mi sono accorto che il mio corpo si trasformava e io diventavo spirito » (Memorie auten­ tiche, 10,2.). Un atto fulmineo e insieme cruento: come nel sacrificio ani­ male e nel mistero della passione di Dioniso, la vittima viene sottoposta a uno sparagmos, a uno smembramento per poi essere cucinata. Come nel mito di Marsia - cui Apollo tolse la pelle in un'atroce tortura -, la testa viene scorticata, privata del suo involucro esterno. La « testa », formata a imitazione della sfera dell'essere e della volta celeste, è la parte più nobile dell'uomo poiché è la sede dell'anima superiore e dell' intelligenza. Ma la testa è anche la parte che più corrisponde all' identità individuale e all 'io di un soggetto. Lo scorticamento del capo sembra così suggerire, al contem­ po, due diversi valori: da un lato, l'immagine di un uovo o di un nucleo so­ stanziale che deve essere spogliato dalla limirazione del suo guscio; dall 'al­ tra, la parte che deve essere recisa dal resto del corpo, perché si spezzi e si dissolva l' identità di una forma individuata e di una materia particolare, così da liberare la potenzialità della metamorfosi. Nel mito orfico, d'altro canto - come ben sappiamo -, l'uccisione di Dioniso, lacerato e cucinato dai Titani nel calderone, non rappresentava una morte definitiva, ma solo la necessaria transizione a un'unità rinnovata a partire da un nucleo sacro che veniva isolato e preservato. Dopo aver pronunciato tali parole, il sacerdote, che è allo stesso tem­ po animale sacrificale - soggetto e oggetto di uno stesso agire rituale -, subisce un ulteriore mutamento di stato: i suoi occhi cominciano a « san­ guinare » mentre la bocca, presa da uno spasmo convulso, «vomita le sue stesse carni ». Il sacerdote appare ora come un «omuncolo », privo di una «parte di sé stesso » : «con i suoi denti si masticava e veniva meno ». Im­ magine spaventosa in cui si cela un segmento essenziale dell'arcano. Per­ ché l' iniziazione abbia effetto e l'operazione trasmutatoria giunga al suo compimento, è necessario - tanto a livello simbolico quanto come effet­ tivo atto rituale - mangiare sé stessi, nutrirsi della propria sostanza, per

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poi espellerla e nuovamente ingerirla e digerirla, nel ciclo ritmico di una progressiva purificazione che elimina ogni scoria e ogni residuo non ap­ partenente al nucleo essenziale che deve essere recuperato. Per conseguire l ' « acqua divina » della vita, bisogna prima uccidere la propria materia, farle perdere la struttura contingente che la « individua» come corpo e soggetto particolare. L'uccisione è tutt'uno con la messa in opera di un "pasto sacro" che è indicibile atto di autofagia tesa alla transustanziazione: auto-distruzione, auto-alimentazione, auto-rigenerazione, al modo del serpente che incessantemente si pone in bocca la sua "coda" e la divora. L' «omuncolo» che sembra « venir meno» nel vaso-altare può assomi­ gliare a un metallo che, cotto e corroso da un acido, si affloscia su sé stesso e si dissolve. Ma, in questo caleidoscopio onirico, in cui le operazioni sulle sostanze naturali prendono l'aspetto di protagonisti umani, si potrebbe iniziare a chiedersi se quanto descritto si riferisca effettivamente al metallo vile posto nell 'alambicco alchemico o non riguardi anche e soprattutto l'operatore. A che materia il fluire immaginale del drdma sta alludendo ? Si tratta di un cibo estratto dal piombo o di una materia, per così dire, di origine umana? Il segreto non può essere violato né pronunciato, ma solo, appunto, «intuito» , come lside aveva suggerito a Horus, parlando del « farmaco» dell' immortalità che muta lo spérma, il « seme » del piombo nel fulgore di un « seme » d'oro. Terrorizzato da quanto il sogno gli ha posto innanzi, Zosimo si desta e prende a riflettere, ispirato da quella immagine. Comincia a intuire, pur continuando a esprimersi nel linguaggio criptico dell 'arte: «Non è forse così che si compongono le acque ? » . Non è forse così che si può produrre quell' « acqua brillante » che tutto può ? Il torpore nuovamente lo afferra, riportandolo nel mondo immaginale. Gli compare di nuovo l' altare-alam­ bicco. In esso c'è un' « acqua » che gorgoglia e ribolle, e una gran folla che si dirige a essa per immergervisi: «Mi meravigliavo del ribollire dell'acqua e degli uomini che venivano cotti e che pur continuavano a vivere » . Una voce interviene a commentare e a spiegare quel misterioso spettacolo: « Lo spettacolo che vedi è l'entrata, l'uscita e la trasformazione [ ... ] . Questo è il luogo ove si opera l'esercizio che viene chiamato macerazione. Gli uo­ mini che vogliono raggiungere la perfezione ci entrano e divengono spiriti dopo essersi liberati dei corpi » (Memorie autentiche, 10,3 ) . Entrare, uscire, trasformarsi: il procedimento richiesto - come ricorda la voce - non ha nulla di piacevole o di indolore. Nel vaso-alambicco, gli uomini «gemo­ no» mentre l'acqua è sempre più calda e ribollente: sono sottoposti a una

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2.44

sofferenza inaudita, a un tormento al di là di ogni comune immaginazione. L'altare è un luogo di «pena » e di «punizione » , in cui gli uomini, che vogliono diventare «perfetti », volontariamente si immergono e volonta­ riamente "patiscono" un'esperienza cruciale. Perché è solo così, attraverso la «macerazione » di un dolore assoluto, attraverso l' « ascesi» dell'estre­ mo, che si possono risalire i gradini della luce. La voce invita i sofferenti ad « acquietarsi » e ad attendere con pazienza fino a che «l'uva non sia maturata », fino a che, da tutta quella cottura, non si possa "spremere" un liquido finalmente puro che, perdute le caratteristiche originarie, rechi in sé il nucleo solare dell'oro. Zosimo si ridesta, una seconda volta, da questa trance ispirata e, di nuo­ vo, commenta, alternando esplicite formulazioni generali e indicazioni tra­ sparenti solo a chi abbia già iniziato a esperire quell'acqua gorgogliante: «Nell'altare-alambicco, tutte le cose vengono intrecciate e tutte vengono dissolte. Tutte le cose si mescolano e si ricompongono. Tutte si fondono e si separano. Tutte germogliano ed appassiscono [ .. ] . Tutte le cose si armoniz­ zano per separazione e per unione, e se il metodo è ben applicato, la natura se ne esce trasformata. La natura, invertendo il proprio corso, ritorna su sé stessa. La perfezione del tutto consiste in questo» (Memorie autentiche, ro,4). A tali affermazioni seguono cenni simbolici destinati a chi procede sulla via del compimento. Zosimo invita l' iniziato a costruire un tempio da «una sola pietra » luminosa come l'alabastro. Una pietra, dunque, già in parte sgrezzata e mondata dalla nerezza delle sue scorie. All' interno di questa pietra, che è stata trasformata in un puro santuario, vi è una « fon­ te di acqua purissima» e una «luce solare radiante » . È a quest'acqua e a questo sole che bisogna pervenire. Ma per attingere l'acqua solare - ripete Zosimo, ricapitolando le fasi del lavoro - bisogna ben comprendere dove è l'accesso al tempio, bisogna trovarlo e aprirsi un varco, con la spada in pugno; bisogna affrontare una lotta, misurandosi con il drago che ne cu­ stodisce la soglia; bisogna farlo a pezzi e cuocerlo e usare quanto si ricava da tale cottura per procedere oltre verso l'obiettivo prefissato. Solo così si sarà davvero «dentro » : «Là troverai ciò che cerchi». Come un eroe del mito, l'adepto di Ermete deve sgominare il mostro e servirsi dei suoi preziosi resti per compiere l' impresa. Ma la pietra, il serpente, il santuario, l'acqua e la luce sono sempre è bene non dimenticarlo - una stessa e unica cosa, una medesima materia, vista sotto aspetti diversi. Una medesima materia che i maestri dell'arte suggeriscono, senza mai nominarla. Chi abbia compiuto tutti i passi necessari previsti dal « metodo» vedrà, nella cella del tempio, .

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come l' « uomo di rame» - il sacerdote che si era inunerso nel vaso e vi aveva trovato la giusta « fonte» - cominci a mutare il «colore della sua natura» : dal rame, uno dei quattro metalli di base dell'arte, passa al bian­ co lunare dell'argento e al caldo «Oro » . « Questo preambolo - conclude provvisoriamente Zosimo - è la chiave d'accesso che ti apre [ ... ] la ricerca della perfezione, della sapienza e della saggezza [ .. ] , la rivelazione che ren­ derà chiare ed evidenti le parole nascoste e i discorsi segreti» (Memorie autentiche, 10,6 ) . «Entrare » nel mistero è difficile e insieme estremamente semplice: «Fondandoti su queste intuizioni [ .. ] , concentrati e considera che la natura, anche se appare fatta da molte sostanze diverse, è di un'unica materia. Ma non dirlo a nessuno [ . ] . È meraviglioso vedere le trasforma­ zioni dei quattro metalli, il piombo, il rame, lo stagno e l'argento, in oro perfetto» (Memorie autentiche, 10,8 ). Le due successive lezioni riprendono, con immagini e simboli diffe­ renti, la sostanza di tale visione e il segreto dell'arte: fuoco e fiamme in cui gli uomini devono gettarsi per consumare il proprio corpo e rinascere, occhi che si colmano di sangue (Memorie autentiche, u). Da una sequen­ za all'altra, il sogno e la trance dispiegano la «celebrazione di terribili misteri » e lo scopo del « Sacerdote del penetrale segreto del tempio » : «Egli vuole trasformare i corpi in sangue, restituire la vista a ciò che ne è privo, resuscitare ciò che è morto » (Memorie autentiche, 1 2,1 ) . Nella filiera simbolica, il dissolversi del corpo individuato in « sangue », che è essenza di vita, equivale, ancora una volta, alla liberazione dell' « acqua divina » e alla realizzazione dell ' «oro» . Da qui anche la conquista di una «vista » dell' invisibile e del divino, che è negata al profano. E infine il dono della « resurrezione » , che è promessa di immortalità attraverso la riunificazione di un corpo e di uno spirito rigenerati dall'arte. Di tutto il percorso è suggello finale la potente scena in cui compare, dalla luce dell'oriente, un « uomo» di grande « bellezza » , interamente «vestito di bianco» . Il suo nome eloquente è « Meridiano del Sole » : il momento in cui il luminare della vita occupa il punto più alto del cielo. Ed è, allora, con l'ultima e definitiva ripetizione dell'atto sacrificale, che si perviene al termine tenacemente agognato: « L'arte è ormai compiuta » (Memorie autentiche, 1 2,2 ) . Tornando al quesito inizialmente posto, una conclusione si impone a chi si sia lasciato impregnare dalle immagini, prestando orecchio alla loro dimensione analogica. Tutto ciò che si dipana nel drdma onirico implica, passo dopo passo, una relazione biunivoca e reversibile, in un intreccio .

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LA VIA DEGLI DEI ove « fisico» e « misterico » sono del tutto inseparabili. Gli uomini che soffrono nel vaso rappresentano, a un primo livello di significato, i metal­ li propriamente intesi che nel laboratorio vengono lavorati con metodo e pazienza. Le formulazioni enigmatiche cui il testo ricorre rinviano ad altrettanti procedimenti che l'operatore deve mettere in atto per trasfor­ mare la sostanza racchiusa nel vaso e posta sulla fiamma. Ma - a un livel­ lo più alto e profondo di comprensione - i metalli cotti e purificati fino allo splendore dell'oro sono immagine degli uomini stessi che procedono per la via indicata da Ermete. Quanto le visioni suggeriscono è simbolo di un procedimento che l' iniziato conduce sul proprio corpo e sulla propria mente. Con la ferma determinazione di chi sa affrontare anche la prova più estrema, l'artista alchemico lavora il proprio spérma, lavora quella ma­ teria somatica e psichica, che egli stesso è, secondo la chiave allusivamen­ te suggerita. Deve riuscire a cogliere e a estrarre dal proprio «piombo » - dalla natura composita del proprio essere - quell' « acqua divina » capa­ ce di una radicale trasformazione. Avendo rettamente inteso il « mistero» dell'arte, l'adepto di Ermete perfeziona e transustanzia la propria natura, fino a diventare quel sole che irradia a picco nel cielo e che non conosce morte. Transitando attraverso tutte le fasi - dallo smembramento alla ci­ composizione, dalla separazione alla riunificazione, dal dissolvimento alla coagulazione - l' iniziato si rigenera come un essere di una «razza >> e di una « specie » superiore alla condizione umana. Un essere «pneumatico» che ha il privilegio di una « mente » divina e imperitura. All'amica e allieva Teosebia, cui aveva insegnato i segreti delle « tintu­ re » e dei procedimenti alchemici, Zosimo raccomandava di raccogliersi nella propria interiorità, acquietando il corpo e le sue passioni: «Non agi­ tarti, andando qua e là alla ricerca di Dio. Stai seduta presso il tuo focolare e Dio verrà da te. Riposa il tuo corpo, calma le passioni, resisti alla colle­ ra e al dolore, alle dodici parti della fatalità della morte ». Dodici quanti sono i segni zodiacali che, con il loro influsso, determinano il cielo natale e i ritmi della vita del divenire, la « fatalità » del mondo naturale. Ma chi segue il percorso trasformativo dell'arte sacra si propone di ascendere a un piano superiore rispetto alla fatalità, divenendo signore del proprio desti­ no. È essenziale trovare la « via dritta» di una sostanziale rettificazione della propria materia. Perfezionare la pratica delle « tinture » che mutano i metalli in oro è processo parallelo e concomitante - come Zosimo espli­ citamente suggerisce - al perseguimento della propria stessa perfezione, alla conquista del compimento personale : «Rettificando te stessa, chiama

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2.47

a te il divino [ ... ] . Così operando, tu otterrai tinture opportune, autentiche e naturali. Procedi in tal modo fino a quando ti renderai conto che la tua anima è divenuta perfetta » . Baphé indica la « tintura » con cui metalli e materie cambiano colore e natura. Ma baphé significa anche « immersione », «bagno ». Ed è l'opera­ tore che, in ultima analisi, deve bagnare sé stesso nel segreto dell'acqua lu­ minosa per colorarsi dell'aurea tinta della Mente divina. L'iniziato, perve­ nuto alla fine del suo lungo e paziente lavoro, può immergersi finalmente in quel «cratere » simbolico che rappresenta la palingenesi totale dell'es­ sere. Nel «cratere » egli riceve il « battesimo» della conoscenza integra­ le e l'accesso definitivo a quella dimensione superiore, che Poimdndres, il dio supremo, aveva dischiuso a Ermete: « Rifugiati presso Poimdndres - conclude Zosimo -, immergiti nel cratere e affrettati verso la tua razza» (Zosimo, Computofinale, 2.,2.45 ) . Gli adepti dell 'arte sacra evolvono a un génos, a una "stirpe", a una "razza'' che oltrepassa l'umano. Dai misteri anti­ chi ali'alchimia, un unico profondo e sostanziale intento orienta i riti e le pratiche: affrettare l'evoluzione della specie, attualizzando la potenzialità divina che è in essa. «Unica è la stirpe degli uomini e degli dei - aveva detto un tempo Pindaro - e da un'unica madre entrambi hanno respiro» (Nemea, 6,1 -3). Ma occorre che ciò divenga sostanza e materia effettiva di una coscienza rigenerata.

Riferimenti bibliografici

Nella Premessa le citazioni di Foucault, Lispector, Satprem, Sloterdijk fanno riferi­ mento alle traduzioni ed edizioni indicate più sotto. Più in particolare le citazioni si riferiscono alle seguenti pagine: Foucault, Le parole e le cose, p. 415; Lispector, La

passione secondo G H , pp.

42.5, 42.7, 44 S · 4 47, 453, 45 8, 4 6 1-2., 4 66 , 474- s. 48 3 , 491,

49 6 -7, 5 19, 52.4- 6 , 54 6 , ss3; Satprem, L'uomo

dopo l'uomo, pp. 2.4-s; Sloterdijk, Devi

cambiare la tua vita, p. S 4 S · Per i frammenti e le testimonianze di Eraclito, Parmenide, Empedocle e degli altri presocratici i numeri rinviano alla canonica edizione di Diels e Kranz con l'abbre­ viazione "fr." o "test.". Per i frammenti della tradizione orfica

( Orjici)

la numerazione dei frammenti cor­

risponde a quella di Kern, anche se si è tenuto conto per il testo della più recente edizione di Bernabé. Per le laminette auree, ricondotte all'ambito orfico, si fa riferi­ mento all'edizione di Pugliese Carratelli. Per i frammenti di Euripide e di Sofocle la numerazione è rispettivamente quella delle edizioni di Kannicht e di Radt. Per gli

Oracoli caldaici i frammenti seguono l'edizione di des Places. In questa stessa

edizione sono raccolti i testi di Psello e Proclo sugli Oracoli. Per L'arte ieratica di Pro­ do la numerazione si riferisce all'edizione di Bidez. Per i frammenti di Porfirio l'edizione di riferimento è quella di Smith. Per i testi degli alchimisti greci la numerazione corrisponde alla Collection des Anciens Alchimistes Grecs di Berthelot e Ruelle (parte e pagina), salvo che per le Memorie autentiche di Zosimo, la cui numerazione segue l'edizione di Mertens. Si ricorda che il trattato ermetico Kore Kosmou ci è pervenuto grazie a Stobeo (Estrat­ ti di Stobeo 2.3, come figura nelle edizioni complessive del corpus ermetico); la nume­ razione indicata nel testo si riferisce ad esso. Nell'auspicio di raggiungere un vasto pubblico, nel volume tutti i termini greci sono traslitterati nel modo più semplice: si è usato sempre l'accento acuto, senza indica­ zione di quantità delle vocali e ponendolo sul primo elemento dei dittonghi; per la y

LA VIA DEGLI DEI greca si è usata sempre u; si rammenta, per la pronuncia, cheg corrisponde sempre in italiano

agh e che ou si legge u.

Vastissima è la bibliografia relativa agli argomenti trattati nel volume e molto dif­ ferenti sono spesso anche gli approcci. Quanto indicato di seguito rappresenta una scelta essenziale di testi che hanno accompagnato il lavoro o ne hanno ispirato alcune prospettive. ABBATE M.,

Proclo. Teologia platonica, pref.

di W. Beierwaltes, introd. di G. Reale,

Milano 2012.

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