Luce delle muse. La sapienza greca e la magia della parola

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Luce delle muse. La sapienza greca e la magia della parola

Table of contents :
Copertina......Page 1
Occhiello......Page 2
Frontespizio......Page 3
Colophon......Page 4
Dedica......Page 5
Prefazione......Page 7
Monti, acque, mente......Page 13
L’ordine del mondo......Page 17
La danza dell’universo......Page 21
L’effetto dei nomi......Page 22
Al di là del tempo e dello spazio......Page 25
Iniziazione......Page 33
Soffio, volo, magnete......Page 37
Dal boschetto alla biblioteca......Page 42
Il piacere delle Muse......Page 49
La sapienza delle api......Page 52
Dimenticare......Page 56
Incanto......Page 59
Canto di morte......Page 63
Un potente signore......Page 68
La voce dell’usignolo......Page 72
Frecce infallibili......Page 77
Un’invenzione altrui......Page 82
Versi e oracoli......Page 90
Luce......Page 97
Sole del Nord......Page 101
Coscia d’oro......Page 104
Musica del cosmo......Page 109
L’errore......Page 114
Una fine cruenta......Page 120
Una testa che canta......Page 125
Un altro sguardo......Page 131
Primavera e autunno......Page 137
Se vuoi sapere......Page 143
Una quotidiana vulnerabilità......Page 147
Gloria immortale e poesia omerica......Page 152
Il funerale delle Muse......Page 157
Il luogo dell’arte......Page 165
Il banchetto e il canto......Page 169
Il racconto dell’eroe......Page 177
Tra le ombre......Page 183
A Itaca......Page 191
L’evento della poesia......Page 199
La saggezza del cratere......Page 202
Nel mondo di Afrodite......Page 218
L’oro dei giochi......Page 229
Tutta la città a teatro......Page 241
Il páthos assoluto......Page 246
Resuscitare la poesia......Page 261
Il miglior poeta......Page 277
Le profetesse delle Muse......Page 290
La città che canta......Page 304
Una preghiera......Page 308
Bibliografia......Page 313
Indice......Page 330

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SAGGI

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DAVIDE SUSANETTI LUCE DELLE MUSE La sapienza greca e la magia della parola

SAGGI BOMPIANI

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Immagine di copertina: © Bridgeman Images Progetto grafico: Polystudio Copertina: Paola Bertozzi

www.giunti.it www.bompiani.it © 2019 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani Via Bolognese 165, 50139 Firenze - Italia Piazza Virgilio 4, 20123 Milano - Italia ISBN 978-88-587-8402-0 Prima edizione digitale: agosto 2019

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Alle api laboriose del mio amato ‘alveare’.

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PREFAZIONE

La parola è un condensatore della volontà, un condensatore dell’attenzione, un condensatore dell’intera vita dell’anima. Pavel Florenskij, Il valore magico della parola

Siamo le api dell’invisibile. Rainer Maria Rilke, Lettera a W. von Hulewicz

Ogni giorno siamo immersi in un flusso di parole. Le nostre e le altrui in uno scambio continuo. Ce ne serviamo spesso distrattamente o in modo frettoloso. Dobbiamo dire qualcosa o ottenere una risposta. E non ci soffermiamo troppo a riflettere sul suono che esse hanno, sulla materia di cui si sostanziano, sulla storia cui sono connesse o sui valori più riposti cui le loro radici possono rinviare. Talora, non indugiamo troppo nemmeno sulla scelta, limitandoci a un vocabolario ristretto e ai giri di frase più correnti: parliamo come fanno tutti senza alcuno scarto rispetto a ciò che siamo soliti ascoltare dagli altri e ripetere a nostra volta. In altre occasioni, all’opposto, diveniamo più astuti e accorti. Abituati a decenni di civiltà mediatica e di pubblicità, sappiamo fin troppo bene che un messaggio ben costruito può essere un mezzo per convincere e orientare, per indurre comportamenti, consensi o acquisti in un 7

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prefazione

mondo costruito per consumatori di ogni specie. Tanto in un caso quanto nell’altro – nella banalità della routine o nelle strategie sofisticate della comunicazione – la parola è qualcosa che ‘si usa’ per soddisfare bisogni o finalità pratiche: un mero e meccanico strumento, nel perimetro, sempre più angusto, di un’esistenza unidimensionale e stereotipata. Persino quando le parole paiono veicolare un’emozione soggettiva, si tratta, frequentemente, di semplici dinamiche reattive che fanno eco, in modo pressoché irriflesso e superficiale, a una contingenza o a uno stato. Vi sono, però, nella vita, anche istanti di grazia: momenti – casuali o ricercati deliberatamente – nei quali questo modo di vivere il linguaggio e, insieme a esso, il mondo che ci circonda, si interrompe. Momenti di un silenzio assoluto – dentro e fuori di noi – in cui qualcosa d’altro e di inaspettato affiora nella trama della cosiddetta realtà oggettiva. Si rimane spiazzati, storditi e pieni di meraviglia dinanzi a quell’inaspettato, a quel mai visto o mai percepito che ci viene incontro, svelando il volto celato dell’essere. Abitudini percettive, schemi mentali, grumi emotivi, cristallizzazioni del linguaggio creano una cortina spessa, una barriera che impedisce di vedere e di sentire. Basta, tuttavia, sospendere lo “sguardo semplificatore dell’abi­ tudine” – come racconta Lord Chandos nella celebre Lettera di Hofmannsthal – ed ecco che tutto può mutare, schiudendo, all’improvviso, un orizzonte di “pienezza”, di “smisurata partecipazione” e di “infinita rispondenza” con tutto ciò che esiste. Si è come rapiti in un “vortice”, presi dal “fiotto straripante di una vita più alta”, affatto diversa dall’ottundimento del quotidiano: ogni cosa dell’u8

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prefazione

niverso diviene “vibrazione” di energia che risuona e s’intreccia nella “grande unità” del tutto. Al prodursi di tale esperienza, si rimane ammutoliti: “Le parole,” testimonia il Lord, “mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti.” La lingua viene meno perché non si sa come esprimere quelle “sfere di vibrazione” che sono l’essenza stessa del reale. Le astrazioni mentali, così come l’uso corrente delle parole, sono del tutto inutili a manifestare quell’“intimo intendimento” che solo il “pensare col cuore” è capace di accendere. Lord Chandos compone la propria lettera per confessare quest’impossibilità a dire, rinunciando per sempre a scrivere. Ma il carattere estremo di tale decisione non fa che indicare la radicalità di un’istanza che eccede il caso specifico. È proprio dal sentire acutamente l’impotenza del proprio linguaggio – dall’insoddisfazione e dal limite di un’espressione vuota e inane – che scaturisce, ogni volta, la ricerca inesausta di una parola ‘altra’, di una maniera differente di abitare il linguaggio e il mistero della realtà. La poesia, il mito e il simbolo non sono null’altro che questo: tentativi di accedere e insieme di manifestare la rete delle forze invisibili che tramano l’intera realtà: ‘realizzazioni’ di quell’intelligenza del “cuore” che non è affatto sentimentalità o emozione – come spesso purtroppo s’intende –, bensì intuizione viva e sovrarazionale dell’anima pulsante del mondo. Poesia, mito e simbolo sono, per certi versi, formule magiche che scaturiscono dall’energia racchiusa in ogni cosa e se ne fanno, a propria volta, veicolo, consentendo di entrare in intima relazione con quell’armonia invisibile che attraversa e sostiene la natura. 9

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prefazione

La parola poetica è chiave di un rinnovato rapporto con l’uno e il tutto, di uno sguardo rigenerato che diviene forma superiore di coscienza. È espressione di quel vincolo che stringe fra loro le cose, legame che supera e bandisce ogni separatezza ed estraneità. Ma, proprio per questo, parole e miti non solo iscrivono gli umani nell’orizzonte dell’universo, ma provvedono anche ad avvincerli gli uni agli altri in una dimensione di comunità e di reciproca relazione. La poesia è luogo dell’essere così come è il disegno di una possibile casa comune. Di tutto ciò offrono testimonianza le tradizioni antiche che hanno pronunciato, per la prima volta, l’origine e il fondamento della parola, dando luogo a una catena che, in modo ora più evidente ora più carsico, non si è mai, di fatto, interrotta. Per questo occorre, ancora e sempre, sprofondare il nostro sguardo nel pozzo del passato e udirne le voci. Per rigenerare il nostro stesso linguaggio e la nostra consapevolezza. La relazione con l’antico è e deve essere, ogni volta, l’accadere di un ‘dislocamento’, l’occasione per interrompere quel flusso che ci stordisce senza che nemmeno più se ne abbia consapevolezza. È e deve essere vera esperienza che nutre la vita, offrendole possibilità ‘nuove’ proprio perché, paradossalmente, ‘antiche’. Per l’Europa e l’Occidente – per la natura e l’identità di chi a essi appartiene nonostante la globalizzazione postmoderna – la sapienza greca resta l’imprescindibile scaturigine di tale esperienza. Da qui il percorso che ci attende, a cominciare dalle pendici di quel monte ove le Muse hanno iniziato a far udire le loro voci, per poi proseguire in 10

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prefazione

un periplo attraverso le forme, i poteri e le occasioni della poesia. Da Orfeo a Platone, dagli eroi di Omero ai vincitori olimpici celebrati da Pindaro, dalle divinità che suscitano il canto agli uomini che sanno dispiegare questo dono, dalla dolcezza della melodia alla forza della verità: stazioni di un viaggio che ricordano, in diverso modo, come nulla che abbia valore possa prescindere dal senso del sacro. A proposito delle immagini e dei racconti che la parola ispirata evoca e trasmette, Platone fece, una volta, un’osservazione preziosa: “Affermare fino in fondo che le cose stiano esattamente così come le ho esposte non si addice a un uomo intelligente [...], ma mi pare convenga e valga la pena di correre il rischio di crederlo, perché bello è questo rischio. E bisogna con queste cose incantare noi stessi. Per questo, da tempo, mi dilungo su questo mito” (Fedone 114 d). Perciò anche noi, per il tempo della lettura, proviamo ad affrontare questo “rischio”, osservando se qualcosa in noi risuona e si trasforma. La relazione con l’antico, se ancora merita di essere attuata, deve diventare l’occasione di un esperimento con noi stessi. Calarsi nella materia del proprio corpo e della propria mente, riportarli alla quiete di uno svuotamento completo, arrestare ogni altro moto e solo allora, senza alcun ‘pregiudizio’, disporsi all’ascolto di voci che risuonano da un altrove rispetto a quell’intersezione provvisoria di spazio e tempo con cui facciamo coincidere, per inerzia e per illusoria difesa, la sostanza della nostra vita: questo è ciò che le Muse si attendono da noi. Nella turbolenza contraddittoria del postmoderno che ci irretisce, nella pressione di istanze economiche che ci alienano, non sono le esplosioni 11

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prefazione

verbali della rabbia e del disagio – ancorché umanamente comprensibili – a poter produrre cambiamento. Non sono le dinamiche sempre più violente del discorso pubblico né le contrapposizioni faziose di una politica grottesca a veicolare speranze di rigenerazione. Nulla, d’altro canto, è più menzognero e fuorviante di quelle espressioni e di quei linguaggi che sembrano far appello a evidenze condivisibili, quando, al contrario, non fanno che alimentare la consistenza disperante degli equivoci. Quei modi della parola – che ogni media ingigantisce nell’orrore di un’eco perpetua – non affrancano i soggetti, ma li fanno sempre più prigionieri di un antro buio. Occorre che si produca un radicale salto di coscienza che, come un benefico contagio, si estenda dai singoli soggetti ai piccoli gruppi per formare un’onda sempre più ampia. Ma, per far questo, bisogna liberare un’energia che solo la consapevolezza vissuta e interiorizzata della tradizione può fornire, che solo un rapporto vitale con una diversa parola può far scaturire. Ed è lì che le Muse iniziano a far udire il loro canto, a dispensare il loro miele, ronzando come api dell’invisibile.1

  Le traduzioni dei testi greci – da Omero ai lirici, da Esiodo al teatro – sono volutamente riportate come testo continuo, senza introdurre a capo, che risulterebbero del tutto artificiosi e privi di significato nell’impossibilità di riprodurre le strutture metriche dell’originale. Unica eccezione è stata fatta per l’inno finale di Proclo. Nell’auspicio di raggiungere un vasto pubblico, nel volume tutti i termini greci sono traslitterati nel modo più semplice: si è usato sempre l’accento acuto, senza indicazione di quantità delle vocali e ponendolo sul primo elemento dei dittonghi; per la y greca si è usato sempre u; si rammenta, per la pronuncia, che g corrisponde sempre in italiano a gh e che ou si legge u. 1

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1. NEL REGNO DELLE FANCIULLE

Monti, acque, mente Il silenzio incantato di un monte grande e divino. Acqua purissima che scaturisce da una sorgente: acqua cristallina, ma attraversata da cupi riflessi, color delle viole, il medesimo colore del mare insondabile e profondo. Tra gli alberi e sull’erba aleggiano le striature fitte di una nebbia misteriosa. Fanciulle si bagnano nella fonte, si detergono le membra, per poi raccogliersi nell’ordine di un cerchio. Iniziano, allora, a danzare, nell’aria sospesa della notte: la solitudine del luogo echeggia, all’improvviso, del suono meraviglioso della loro voce. Un canto risuona nel bosco e per la valle, mentre i loro piedi sfiorano delicati e leggeri il suolo, volteggiando intorno a un altare. Armonia sovrana di gesti, armonia di note e di parole che celebrano, a una a una, le potenze dell’universo. Questo sono le Muse: un gruppo di giovani donne che danzano e cantano, avvolte nel velo della nebbia, tra la quiete immota delle rocce e le forze germoglianti della vegetazione. Così le descrive Esiodo all’inizio della sua Teogonia, evocando la scena del loro eterno intrattenimen13

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to: un gioco che da sempre si ripete e non ha mai fine, un cerchio di parole e di corpi che ruotano intrecciati in un unico indissolubile accordo. Montagne, boschi e sorgenti sono i luoghi che esse prediligono, i luoghi nei quali si può percepire la loro numinosa presenza. A loro sono care le alture e le valli del Nord della Grecia, tra la Tracia e la Macedonia: là si erge l’alto e nevoso monte Olimpo, ove si narra che esse siano nate e abbiano avuto la loro prima dimora; là si trovano il monte Pierio, il Pimplia o il Libetrio le cui pendici esse attraversano con passo leggero, scalando le vette. Da quella fredda e scabra regione, un giorno, esse scesero verso la Beozia, per installarsi sul monte Elicona, in una valle tra i villaggi di Ascra e di Tespie: là vi è un bosco a esse consacrato e, poco distante, scorre l’acqua dell’Ippocrene, la “fonte del Cavallo”, che l’alato Pegaso, figlio di Poseidone, aveva fatto scaturire con un calcio del suo zoccolo. E, ancora procedendo, giunsero nella Focide e presero possesso del monte Parnaso, che si staglia a picco sull’oracolo di Delfi. Anche là esse fanno intendere la loro voce, tra la sorgente Cassotide e le acque freschissime della fonte Castalia, in compagnia di Apollo, signore della lira e della profezia: “Acqua pura delle Muse dalle belle chiome [...] acqua amabile e profumata da recessi di ambrosia” (Simonide, fr. 72). Là dove non vi siano pendici o vette, esse sono comunque liete di sostare, a patto che vi siano alberi, prati, acque fluenti e brezze leggere, come sulle rive del fiume Ilisso, fuori dalle mura di Atene, presso un altare che ne segna la presenza. Tali paesaggi dicono forse qualcosa della natura segreta delle Muse. Esse non amano i luoghi 14

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1. nel regno delle fanciulle

abitati e il clamore degli uomini. Cercano gli spazi aperti, i luoghi appartati e solitari, i sentieri impervi, le altezze o le distese deserte. Abitano altrove rispetto ai mortali. O, forse meglio, abitano l’altrove perché altro è l’orizzonte che attraverso di loro si raggiunge, altra è l’esperienza e la coscienza a cui esse chiamano gli uomini. Le Muse vogliono essere là dove pulsano le forze sacre della natura, dove le potenze si manifestano lontano da occhi indiscreti e profani. In questo sono del tutto simili alle Ninfe, fanciulle divine anch’esse, solitarie e sfuggenti, amiche degli antri e dei boschi, signore delle sorgenti e di tutto ciò in cui scorre la linfa della vita. Gli antichi non avevano dubbi nell’accostarle, identificando talora le une con le altre. Musa, Ninfa, linfa e fanciulla paiono così comporre un tutt’uno e confondersi, come in una serie analogica ove a dominare è il principio femminile, che ora rifugge lontano dai mortali, ora si impossessa di loro, invadendone la mente. Principio femminile che ora fluisce inafferrabile ora invece si coagula in forme e in corpi. Forme della natura, forme dell’emozione, forme della parola e del pensiero. Per penetrarne il mistero bisogna forse cominciare a interrogarsi su ciò che il loro nome racchiude. Secondo alcuni, Musa verrebbe proprio da mons, da “monte”, quasi che l’etimo del nome riflettesse l’orizzonte della loro abituale e prediletta dimora. Secondo altri, invece, Musa deriverebbe da un vocabolo di origine lidia, móus ovvero “sorgente”: le dee dalla voce meravigliosa avrebbero, a tutti gli effetti, la natura di creature “acquatiche”, al pari delle Ninfe Naiadi che abitano le fonti e le rive dei fiumi (Mitografi Vaticani 3,8,22). Ma Musa potrebbe connettersi anche alla 15

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radice da cui derivano termini come manthánein, “apprendere”, mnéme, “memoria”, o mens, “mente”: le fanciulle dell’Olimpo e dell’Elicona sarebbero, da questo punto di vista, potenze del pensiero. Platone, per parte sua, riteneva che il nome racchiudesse il medesimo senso del verbo mósthai, “aspirare”, “desiderare”, “ricercare” (Cratilo 406 a): la Musa sarebbe la brama stessa del sapere, la tensione della ricerca, il desiderio della verità e il cammino che a essa conduce. Diodoro Siculo, offrendo un ulteriore spunto, suggerisce un accostamento all’ambito dei misteri (Biblioteca storica 4,7): Musa deriverebbe da múein, “iniziare”, perché – in modo analogo a quanto avviene nei rituali eleusini – le Muse presiedono a una sacra iniziazione, facendo accedere i mortali a una forma superiore e diversa di conoscenza, dischiudendo a essi la via alle cose più belle e mirabili. In questo caleidoscopio di ipotesi, antiche e moderne, il tentativo di afferrare l’etimo non fa, in realtà, che riflettere, in un’ulteriore collana di immagini, altrettanti aspetti che si sprigionano dall’incontro e dalla visione delle Muse per i pochi eletti che ne hanno il privilegio e insieme la volontà. Le fanciulle dei monti e delle selve si stagliano al di sopra delle pianure battute dagli uomini perché custodiscono il segreto di una dimensione sacra che eccede la vita ordinaria. Sono come un fluido che scorre, sono come acqua, non solo perché l’acqua è principio di vita, ma anche perché acqua è la mente stessa: acqua immobile e cristallina che, come un lago di montagna, riflette le idee e le forme del pensiero, o acqua che si increspa e si agita, minacciosa e cupa, nel turbine cangiante delle emozioni. 16

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1. nel regno delle fanciulle

Le Muse sono acque mentali, acque superiori e celesti, in cui appaiono le immagini del mondo e dell’essere. Proprio per questo, chi si accosta a esse, chi vi si immerge, con esperienza totale, può afferrare una conoscenza altrimenti inaccessibile e, insieme a essa, una maestria che lo rende signore degli uomini e delle cose. Giocando ancora con gli etimi si potrebbe ricordare che alla radice da cui deriverebbero mente e memoria si connettono anche ménos, “furore”, “forza”, e manía, “follia”. Emozione, pensiero e memoria non sono allora altro che forme di intensità, vibrazioni di differente altezza, onde che si propagano nel fluido della mente. E le fanciulle divine dispensano il dono capace di portare tale intensità alla sua massima incandescenza: per questo esse sono anche desiderio, brama e aspirazione. La mente vibra come acqua percossa. E subito si produce suono, si levano voce e canto che, a loro volta, si trasmettono nell’aria, mentre il corpo si muove nei passi della danza, accordandosi al ritmo dell’onda. Un agitarsi dell’acqua, un movimento dell’aria, una voce che infine risuona: tale – per l’erudito Varrone – era la semplice e mirabile essenza delle fanciulle dell’Elicona (Mitografi Vaticani 3,8,22).

L’ordine del mondo Ma di chi sono figlie queste divine creature? Come spesso avviene nel regno multiforme del mito, le versioni differiscono. Non per ingenerare confusione, ma per arricchire la comprensione della realtà e dell’ordine del 17

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mondo, indicandone, di volta in volta, ulteriori aspetti che sempre si ricompongono nell’uno da cui promanano. Secondo una tradizione seguita da poeti arcaici come Mimnermo e Alcmane e testimoniata da Diodoro Siculo (Biblioteca storica 4,7), le Muse sarebbero Titanidi: apparterrebbero al novero delle divinità più antiche e più prossime all’origine del tutto. Sarebbero figlie di Urano e di Gaia, ovvero del Cielo stellato e della madre Terra: i due principi primi, maschile e femminile, le due potenze, da cui ogni altra realtà sarebbe poi scaturita nel susseguirsi di un intreccio di generazioni e di accoppiamenti. Le Muse sarebbero presenti sin dall’inizio, testimoni di un processo di genesi, quasi che il loro canto e la loro parola dovesse accompagnare e propiziare, passo dopo passo, fase dopo fase, il dispiegarsi progressivo dell’universo. Nella versione più nota, ricordata dalla Teogonia di Esiodo (vv. 53 ss.), esse sono, per contro, figlie di Zeus. Per nove notti consecutive, in un sacro talamo, lontano da tutti gli altri immortali, il signore dell’Olimpo si unì a Mnemosúne, la dea della “Memoria”. E, a tempo debito, quando i mesi ebbero concluso il loro corso, Memoria partorì nove splendide fanciulle “dall’animo concorde”. Benché molteplici e diverse fra loro, esse sono, al contempo, un’unica cosa, un’unica armonia, un’unica voce. Nel loro petto, nel loro cuore sereno e “immune da affanni”, vi è solo la cura e il pensiero del “canto”: non altro che a questo esse sono intente con tutto il loro essere. Da allora, nelle dimore dell’Olimpo – aggiunge Esiodo – le Muse vivono insieme alle Cariti e a Desiderio. Anche le Cariti sono avvenenti fanciulle: Agláia, “Splendore”, Euphrosúne, 18

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1. nel regno delle fanciulle

“Gioia”, Thalía, “Rigoglio” sono i loro nomi e ben si comprende perché si accompagnino alle figlie della Memoria. Il canto e la poesia sono sempre una festa, un’occasione di gioia, dove tutto risplende, dove tutto è pienezza che fiorisce, dove l’amore della bellezza si accende e divampa. Per questo, anche Desiderio, unica presenza maschile, è sempre al fianco di questo corteggio. Così, nella reggia celeste, le Muse non cessano di rallegrare la mente del loro padre in una sorta di festa perenne. Levando la loro “voce deliziosa”, esse celebrano, senza posa, le stirpi degli dèi, da Gaia e Urano fino a Zeus, come se il loro compito fosse di rifare in perpetuo la storia del mondo, di fissare la forma dell’universo nella trama di una voce che mai si interrompe. Esse cantano “le leggi e i costumi degli immortali”, ma anche la “razza degli uomini” perché anch’essi sono parte del tutto che la loro voce rammemora. Ma un’altra storia è ancora narrata sulla nascita delle divine fanciulle. In uno dei suoi inni (fr. 30), Pindaro evocava il momento in cui Zeus si apprestava a festeggiare le proprie nozze con Temide. Dopo una cruenta lotta tra antiche e nuove potenze, tra dèi e creature mostruose, il processo della genesi del mondo era giunto al suo termine. Con lo stabilirsi della signoria di Zeus, tutto sembrava giunto a una forma perfetta e definitiva. Ma il sommo dio, quasi per togliersi un dubbio, volle interpellare gli altri membri della famiglia celeste: vi era forse ancora qualcosa che mancava? Gli dèi risposero sollecitandolo a creare alcune altre divinità che fossero in grado, con le parole e la musica, di ordinare e ornare (katakosméin) la sua grande opera e l’intero assetto che egli aveva prodotto. Per que19

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sto Zeus subito provvide a generare le Muse. Ma come intendere tale racconto? Kósmos significa “ordine” e “ornamento” e, in quanto tale, indica l’universo stesso, per la bellezza della sua strutturata compagine. L’opera di Zeus aveva organizzato e composto le molteplici forze del mondo, ne aveva determinato gli ambiti, le prerogative e le sfere di influenza, in un orizzonte ormai pacificato e stabile. Eppure tutto questo ancora non bastava. Solo la parola e il canto delle Muse trasformano la realtà nella perfezione sovrana di un kósmos. La voce delle divine fanciulle non si limita, semplicemente, a celebrare ciò che è stato creato, ma lo ordina e, nell’ordinarlo, lo adorna: lo dota di significato e di bellezza. La parola non è un supplemento che si aggiunge all’esistente, ma un potere che compie il mondo e lo fa essere in tutto il suo splendore. Pronunciando e cantando le cose che abitano l’universo, la voce delle Muse dona a esse sostanza e valore. Le rende visibili, pensabili e dicibili, in un ordine che non concerne la mera materia, ma la dimensione della mente e dell’essere stesso. Il canto delle Muse restituisce agli dèi e agli uomini l’immagine e la coscienza dell’universo di cui sono parte. La nascita di queste dee illumina il cosmo, lo fa apparire nella sua forma. E non è un caso che luce e parola, phós e phátis, vengano da un’unica radice. Ma la parola delle figlie di Zeus è anche musica: ritmo, armonia di note, vibrazioni che si effondono da ogni parte. Gli dèi avevano chiesto che questi poteri si dessero congiuntamente. Vi è un mondo, vi è un kósmos, solo dove qualcuno conosce il segreto della parola e della musica.

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1. nel regno delle fanciulle

La danza dell’universo Nell’intonare i loro bellissimi canti, le Muse – come Esiodo ci ha già suggerito – non rimangono immobili. Le fanciulle accompagnano le parole con il ritmo agile e aggraziato dei loro piedi, con i gesti e le movenze del corpo che disegnano figure nell’aria e al suolo. Figure che rappresentano, con linguaggio diverso, il contenuto e il ritmo del canto stesso. E anche in questo si esprime una relazione con l’ordine del cosmo, come le fonti antiche sottolineano. Il canto corale – di cui le Muse, per prime, offrono esempio agli uomini – si sviluppa, nella tradizione greca, come una sequenza di unità fra loro correlate per ritmo e metrica: i versi si raggruppano in coppie di strofe e di antistrofe che rispondono l’una all’altra e che possono essere suggellate da un’ulteriore unità rappresentata dall’epodo. Ma strofe, antistrofe ed epodo implicano, nel momento stesso in cui vengono intonati, altrettanti passi di danza: durante la strofe, il coro dei danzatori-cantori si muove verso destra, per poi tornare verso sinistra in corrispondenza dell’antistrofe e infine arrestarsi, cantando da fermo, al momento dell’epodo. L’insieme di tale movimento, da sinistra a destra e da destra a sinistra, non farebbe che imitare, da un lato, il moto dell’universo da oriente a occidente, e, dall’altro, quello dei pianeti, nell’opposta direzione che va da occidente a oriente. I cori – siano essi divini o umani – si costituirebbero, dunque, come un microcosmo che consapevolmente riproduce e rispecchia, in se stesso, il moto e la vita del macrocosmo. Cantare e insieme danzare equivarrebbe a creare, ogni volta, un’immagine 21

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dell’universo, legando fra loro i diversi piani della realtà. Perché gli antichi non dimenticano mai la relazione fondamentale che connette tutto con tutto, non dimenticano mai che ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso. In ogni danza corale, il cielo e la terra, gli uomini e gli dèi si guardano e si corrispondono nella consapevolezza di appartenere a una suprema Unità. Ogni coro è un ologramma della vita universale.

L’effetto dei nomi Come sull’evento della nascita, anche sul numero e i nomi delle Muse, le opinioni antiche si frastagliano, raccogliendo tradizioni di tempi e luoghi diversi: “Sono nove [...], ma alcuni dicono che sono solo due, altri tre, altri ancora quattro o sette” (Anneo Cornuto, La natura degli dei 14). Il poeta arcaico Eumelo di Corinto conosceva nove Muse, figlie di Zeus e Memoria, ma, in un passo di un’altra sua opera, egli affermava, per contro, che esse erano tre ed erano figlie di Apollo: Cefisia, Boristenide, Acheloia, nomi che rinviano alla designazione di altrettanti fiumi (fr. 17). A un’analoga prospettiva si accordava il poeta Epicarmo: a suo dire, le fanciulle sarebbero state nove, certo, ma prole di una liquida Ninfa, che, per conseguenza, avrebbe dato loro nomi di corsi d’acqua (fr. 39). Quasi a ribadire, se fosse ancora necessario, l’essenza fluida di queste misteriose creature, che i cantori più antichi ben ricordavano. Una storia diversa è offerta, invece, dal sempre curioso e attento Pausania che, percorrendo le vie della Beozia, 22

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riferisce quanto si raccontava, in quella regione, sull’origine del culto delle Muse (Guida della Grecia 9,29). In un giorno lontano, i possenti figli di Aloeo, i giganteschi Oto ed Efialte, sarebbero giunti dalle terre del Nord nella valle dell’Elicona e, in quel luogo, per primi, avrebbero offerto un sacrificio alle divine fanciulle, chiamandole semplicemente Mnéme, Aoidé e Meléte. Tre nomi parlanti che racchiudono il nucleo essenziale dell’opera a cui le dee presiedono: “Memoria”, “Canto” ed “Esercizio”. Una mente che ricorda, l’assiduità di una concentrazione tesa e di una pratica strenua, ed ecco che la poesia si sprigiona. A tale versione si accostava, in parte, anche Cicerone, ma con una variazione densa di significato: accanto ad Aoidé e Meléte, egli menzionava Telxinóe, “Incanto della mente”, e Arché, “Principio” (La natura degli dei 3,54). All’inizio del canto c’è sempre una dea e la sua voce non può che essere memoria e riflesso di ciò che è là, al principio di tutto, perché la poesia non può che dire ed essere il principio assoluto. Il quadro si complica, ulteriormente, se dalla Beozia si passa a Delfi. Secondo quanto riferisce Plutarco (Questioni conviviali 744), presso l’oracolo di Apollo, le Muse non potevano che essere tre, poiché erano venerate come signore dei tre mondi: il regno della terra e della luna, il dominio celeste dei pianeti e infine la sfera superiore delle stelle fisse ove sono gli dèi. E poiché i tre mondi sono uniti e connessi tra loro da un’armonia che è musica e suono, i nomi delle Muse non potevano che rispecchiare tale verità, venendo a coincidere con le tre corde fondamentali della lira e con le tre note della scala musicale: Néte, la 23

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corda più “Bassa”, Mése, l’“Intermedia”, Hupáte, la più “alta”. La materia dell’universo si sostanzia dell’accordo sovrano di una melodia. Di fronte a tali molteplici immagini, ci si potrebbe dunque chiedere in che modo si sia giunti al numero canonico con cui ancora oggi sono conosciute. Ed è ancora Pausania a venire in soccorso con un racconto che illustra una progressione. In un tempo successivo a Oto ed Efialte, infatti, un certo Pierio sarebbe giunto nella valle dell’Elicona. Anche lui veniva dal Nord, dalle vette di un monte che si chiamava con il suo stesso nome. Non si sa se per ispirazione personale, per effetto di un oracolo o per un insegnamento ricevuto in Tracia, Pierio ritenne che l’assetto determinato dai figli di Aloeo dovesse essere modificato: in via definitiva “stabilì che le Muse fossero nove e cambiò i loro nomi in quelli attuali”. Dalla triade originaria si passò così, come per un incremento di perfezione, alla potenza del tre, che, nella sapienza dei numeri, è compiutezza realizzata di quello stesso cosmo cui le Muse danno ordine e bellezza. Ma quali sono, infine, questi nomi “attuali” che anche Esiodo, nel proemio della Teogonia, sciorina con animo devoto? Calliope, la “Bella Voce”; Erato, l’“Amabile”; Euterpe, la “Dilettevole”; Polimnia, “Dai molti canti”; Clio, la “Sonora”; Melpomene, “Colei che danza e canta”; Talia, la “Fiorente”; Tersicore, la “Gioia della danza”; Urania, la “Celeste”. L’elenco riflette e dispiega le qualità e gli effetti che il gruppo delle fanciulle sprigiona con la sua sapiente presenza: il diletto della voce, il variegato intreccio delle parole e della musica, l’eleganza del movimento, 24

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l’esultanza travolgente della festa, lo sbocciare della gioia, il fuoco dell’amore, e, insieme a tutto ciò, il legame sacro con il cielo. Solo molto più tardi, la risonanza mentale ed emotiva di questi nomi, che parlano di un’unica e divina felicità, sarà associata a un’articolazione di generi e di arti, a una specializzazione che sarebbe propria a ognuna delle dee. Accadde così che Calliope, con la lira tra le braccia, rappresentasse la poesia epica; Euterpe, con il flauto, la poesia lirica e l’elegia; Erato, con la cetra, la poesia che parla d’amore; Polimnia, avvolta in un velo, gli inni agli dèi; Clio, armata di rotoli e libri, il racconto della storia; Melpomene, con una maschera luttuosa, la tragedia; Talia, con una maschera ridente, la commedia; Tersicore, accompagnata da una lira e da un plettro, la danza; Urania, con un globo tra le mani, l’astronomia.

Al di là del tempo e dello spazio “Muse, che nell’Olimpo avete dimora, voi che siete dee, e siete dovunque, e tutto sapete e vedete, mentre noi nulla vediamo e sentiamo solo qualche rumore, ditemi dunque chi erano i capi dei Greci. Io, certo, non parlerò della moltitudine degli uomini, non li chiamerò per nome, neanche se avessi dieci lingue o dieci bocche, una voce instancabile, un cuore di bronzo nel petto, a meno che le Muse dell’Olimpo, le figlie di Zeus, non ricordino tutti coloro che vennero a Ilio.” Così il cantore omerico si rivolge alle Muse, ne chiede il soccorso, per poter dire chi furono gli eroi greci venuti a combattere a Troia, varcan25

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do le distese del mare con le loro navi e i loro equipaggi (Iliade 2,484-492). I mortali, proprio perché segnati dalla finitezza del corpo e dei sensi, non vedono e non conoscono. Sono chiusi nel buio di un “nulla”. Possono solo udire un qualche kléos: qualcosa che, letteralmente, risuona, che da fuori giunge alle loro orecchie. Sentono senza poter, di per sé, comprendere se quel kléos sia “fama” ben fondata o vana “diceria”, se sia “gloria” luminosa o mero “rumore”, se sia parola essenziale o un semplice fiato di voce. L’unico kléos che abbia valore, l’unico suono che si distingue da ogni altro, è quello che, attraverso il corpo e la voce del­l’aedo, scaturisce, come un fiotto, dalla sorgente delle Muse: materia sonora che ‘esprime’ e dà corpo alla vibrazione della mente divina. Le Muse vedono e, dunque, sanno, perché, come dice il cantore, hanno il dono di paréinai, di “essere presenti”, di essere là, sempre, dove ogni cosa è. In loro – a differenza di quanto accade agli uomini – non vi è mai assenza, non vi è mai una discontinuità, un venir meno o un dileguarsi. Ogni cosa è presente alle Muse perché esse sono, nella loro stessa sostanza, Presenza assoluta e totale. Così, con voce concorde, in perfetto unisono, le fanciulle divine possono cantare, al cospetto di Zeus o degli uomini, “le cose che sono, che saranno e che furono” (Esiodo, Teogonia 38). Ma tale distinzione ha propriamente senso solo per i mortali che vivono il tempo come una successione di passato, presente e futuro, per gli uomini che abitano lo spazio come determinazione distinta di singoli luoghi. Gli uomini ricordano, quando pure vi riescano, qualche dato trascorso, qualche frammento di ciò che è accaduto a 26

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loro stessi o ad altri; percepiscono, in modo spesso opaco, il ‘qui e ora’ della loro vita nell’istante stesso in cui vi pongono attenzione, e nulla conoscono di quanto potrà accadere nel tempo a venire. Per le Muse, al contrario, non vi è differenza. Esse “ricordano” il futuro nello stesso modo in cui sanno il passato. In questo consiste il loro essere figlie della Memoria. Il ricordare divino non è il recupero, faticoso e parziale, di un dato o di un fatto accaduto: è uno specchio terso che contiene tutte le immagini, è attualità perfetta e immobile di ciò che gli esseri umani percepiscono come flusso e dispiegamento. Attingere alla Memoria celeste, esserne figlio, significa portarsi al di là del tempo e dello spazio, evadere da ogni coordinata limitante, perché chi è presente a sé e possiede intimamente il ricordo di tutto non può che vivere nella dimensione divina del ‘sempre’. Così, quando il cantore è assistito dalla forza integrale della Musa, il kléos che egli pronuncia con la sua “lingua” e con il suo “cuore”, diviene, esso stesso, miracolo di una presenza che si fa visione e parola. E chi ascolta non può che essere preso da quell’effetto mirabile, come accade a Odisseo quando sente Demodoco cantare le vicende troiane: “La Musa ti è stata maestra [...] perché, con ordine e bellezza, tu canti la sorte dei Greci, quanto fecero, quanto osarono, quanto patirono, come se tu fossi stato presente o lo avessi udito da un altro” (Odissea 8,488-491). Demodoco racconta come se egli stesso fosse stato a Troia, come se egli stesso avesse abitato quel passato, o come se un altro, allora presente, glielo avesse narrato. Ma l’“altro”, appunto, non è che la Musa. E, tuttavia, il cantore 27

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non è solo il tramite di un passato che risorge così come è stato, insieme agli eventi, alle emozioni e agli atti che in esso si sono prodotti. La presenza del passato è anche presenza del futuro: “Mi ispirarono un canto divino perché facessi risuonare (kléioimi) le cose che saranno e che furono,” afferma Esiodo (Teogonia 31-32). Se tale è l’esperienza della Musa, ciò significa che non vi è, all’origine, alcuna distinzione tra il cantore e l’indovino. Il canto, il kléos divinamente nutrito, è pura e perfetta veggenza. La poesia è celebrazione di una storia trascorsa e fondante, ma anche preziosa profezia della vita e del mondo mortale a venire. Parola che può pre-vedere e plasmare, con efficace potenza, tutto ciò che sarà. Le Muse, tuttavia, hanno un avvertimento da rivolgere agli uomini che, con differente disposizione, si accostino a esse: “Noi sappiamo dire molte menzogne uguali al vero (pséudea pollá légein etúmoisin homóia), ma pure sappiamo, quando vogliamo, cantare cose vere (alethéa gerúsasthai)” (Teogonia 27-28). Al cospetto delle dee, i mortali sono “esseri spregevoli”, creature fatte solo di “ventre”, di bassi ed elementari appetiti. Che i mortali, dunque, non si facciano troppe illusioni: le Muse non sono facili da avvicinare, non sono sempre disponibili né sempre dispensano il medesimo dono. Solo quando a loro piace, solo se lo vogliono, esse offrono agli uomini parole di verità, mostrando a essi la natura dell’essere. Alethés, la cosa “vera”, è ciò che non lanthánei, ciò che non “sfugge”, che non si “sottrae” nel nascondimento o nell’oblio (léthe). Alethés è ciò che non resta nell’oscurità dell’ignoto o dell’inconsapevole. La verità, così intesa, è, ancora e 28

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di nuovo, una forma della memoria divina: presenza perfetta che non solo si offre alla visione, ma dà il senso della sua compiuta pienezza. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, perché le Muse semplicemente non tacciano quando non siano disposte a intonare un canto della memoria. Forse le fanciulle, per loro stessa essenza, non possono abitare né conoscere il silenzio. Sono una voce che perpetuamente si leva e mai si interrompe, da quando un dio le ha generate. Possono solo discriminare che cosa la loro voce debba far risuonare e a chi debba essere rivolta. “Sappiamo [...], sappiamo,” ripetono le Muse con studiata insistenza. Come se mai ci si dovesse dimenticare che la menzogna e la verità, benché opposte, non si originano in due sfere distinte, ma risalgono a una stessa indifferenziata sorgente. Appartengono a un’unica celeste conoscenza: sono il frutto indubitabile e certo di un medesimo potere sovrano. Nella ripetizione, ciò che cambia è il verbo: “Sappiamo dire (légein) menzogne [...] sappiamo cantare (gerúsasthai) cose vere.” Se la variazione ha un significato, se ne dovrebbe trarre una conclusione sorprendente: il lógos e il légein, il “discorso” e il “dire”, apparterrebbero, in origine, al regime della menzogna e non certo all’enunciazione chiarificante del vero, come spesso, in seguito, si affermerà. La verità abiterebbe solo il canto, solo ciò che risuona ed è proferito in un registro affatto diverso dal semplice dire. Ma, da capo, come intendere l’alternativa e l’ammonimento severo rivolto ai mortali? Forse le Muse vogliono dire che solo alcuni cantori, solo alcuni poeti – come Esiodo o, prima di lui, Omero – hanno ricevuto l’effettivo privilegio della verità. Solo a uomini devoti, che abbiano la 29

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natura, le qualifiche e l’impegno necessario, le Muse sono disposte a offrire un canto che sia integrale disvelamento. Tutti gli altri, coloro che non sono capaci e adatti, sono congedati con mere illusioni e menzogne. I poeti che non godono del favore divino vengono semplicemente ingannati e, a loro volta, ingannano con una poesia che è solo umbratile assenza. A differenza di Esiodo, che da “pastore” diviene profeta della divinità, tutti gli altri resterebbero rozzi “pastori, gentaglia, solo ventre”, ovvero uomini che parlano e dicono menzogne unicamente per soddisfare i propri appetiti e per sopravvivere. L’ipotesi è plausibile, ma non aiuta a cogliere, del tutto, in che cosa consistano queste parole “simili al vero”. Lo pséudos, la “menzogna”, è, nel suo etimo originario, un mero “soffio d’aria”: un soffio tenue e leggero che, nel gioco delle Muse, si confonderebbe con la consistenza della verità. Diversa è peraltro la parola che le fanciulle usano in questo caso: non alethés, ma étumon, ciò che è “vero” e “reale” in quanto può essere saggiato e messo alla prova (etázein). Si tratterebbe, dunque, di un dire “simile” o, meglio, “uguale” (homóia) a ciò di cui gli uomini potrebbero fare prova ed effettiva esperienza, saggiandone il consistere. Le “menzogne simili al vero” rinvierebbero alla realtà delle cose – evocando il legame di una corrispondenza –, ma, al contempo, differirebbero, sostanzialmente, da esse, senza che ciò sia immediatamente evidente. Nel gioco di tale differenza parrebbe aprirsi – come è stato suggerito – quella dimensione che sarà più tardi designata e teorizzata con il nome di mímesis, di “imitazione” o “rappresentazione”, come tratto costitutivo del fare poetico. Le Muse 30

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sarebbero signore di un’imitazione efficace e illusiva quando ritengano che ve ne sia il caso o l’opportunità. Ma forse non è opportuno anticipare troppo i tempi con l’ipoteca di concetti divenuti famigliari ai moderni come mimesi, verosimiglianza o finzione. Concetti carichi di implicazioni diverse e spesso distanti dalla mente arcaica. Meglio indugiare ancora, qualche istante, con saggia ingenuità, dinanzi alla dichiarazione delle fanciulle per tentare di cogliere che altro suggerisca questa scena dell’origine. Lo pséudos, nella vita ordinaria e nelle relazioni reciproche, è “menzogna” o “inganno”. Il termine è pesante perché spesso evoca l’intenzione malevola di confondere o di irretire. Se così fosse, il soffio inconsistente delle parole somiglianti sarebbe un impedimento e un ostacolo temibile. Una trappola tesa a chi vi si accosti senza sospetto. Qualcosa in cui ci si perde nella perfetta convinzione che si tratti di realtà altrimenti provate, di fatti indubitabili. Qualcosa che non ha valore o è addirittura dannoso per chi ascolti assumendo alla lettera tutto ciò che viene detto. Si potrebbe, tuttavia, supporre che l’intenzione delle Muse sia meno malevola ed esiziale. La differenza messa in atto dallo pséudos potrebbe essere intesa come una distanza che occulta il vero, ma che, al medesimo tempo, lo lascia filtrare ed emergere, qua e là, come un raggio di luce che si intraveda nella nebbia. Un po’ come avviene nelle molte “menzogne” che Odisseo racconta a Itaca, quando vuole celare la sua identità. Nessuno dei discorsi che egli ammannisce ai suoi interlocutori dice chi egli è davvero. E tuttavia, in modo indiretto, le parole accennano di continuo alla sua persona e alla sua esperienza. Nulla propriamente corrisponde alla verità dei fatti, ma 31

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nulla è, al contempo, irrelato e privo di significato rispetto a quel nucleo di verità che egli nasconde. Le Muse vorrebbero, allora, avvertire gli uomini proprio di questo: il loro dono può prodursi, di volta in volta, come una rivelazione assoluta o come un velare che rinvia ad altro. Lo pséudos non mostrerebbe immediatamente la realtà delle cose, ma farebbe segno a essa al di là della superficie e della lettera delle parole. Sarebbe una sorta di ‘differimento’ in cui ognuno dovrebbe trovare la misura e il senso di una relazione con la vita e con il mondo. O c’è ancora dell’altro in questa necessità dello pséudos che risale al sapere delle Muse? Qualcosa che inerisce alla condizione mortale stessa e che, come tale, illumina retrospettivamente l’inconsistente consistenza della menzogna. Ciò di cui gli uomini fanno quotidiana esperienza non è la pienezza dell’essere, ma l’inganno dell’apparenza, lo pséudos di ciò che i sensi fisici colgono senza riuscire ad andare oltre. Le “menzogne simili al vero” non saranno forse la natura stessa del mondo che i mortali abitano? Una natura diversa dalla realtà dell’essere che sta nascosto al cuore di essa e che solo a pochi si manifesta? Un giorno, in modo analogo a Esiodo, anche il sapiente Parmenide giunse al cospetto di una dea. Si trattava di una Musa o forse, più probabilmente, di Memoria, la loro madre. E la dea, con le sue parole e il suo canto, gli mostrò il “cuore immobile” dell’essere eterno, gli fece dono della verità. Ma, subito dopo, gli impose di conoscere anche il regno dell’apparenza, di imparare come agli uomini sembra che la realtà sia: “Qui si ferma il discorso certo e il pensiero della verità, d’ora in poi, impara le opinioni dei mor32

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tali, ascoltando l’ordine (kósmos) ingannevole delle mie parole [...]. Questo ordine ingannevole del mondo io ti spiegherò” (fr. 8). Quello delle Muse, allora, non sarebbe un’alternativa in cui un termine esclude l’altro. Si tratterebbe, invece, di un duplice dono che tange piani diversi: la presenza svelata di una realtà divina e insieme l’altrettanto reale e necessaria dimensione di quel cosmo in cui gli esseri umani sono immersi e che a essi si offre come sembianza, parola, e opinione simile al vero. Un duplice dono che offre la misura preziosa della coscienza.

Iniziazione “Prego Memoria e le sue figlie di concedermi una felice riuscita perché sono cieche le menti degli uomini che senza le Muse cercano la via profonda della sapienza.” Così cantava Pindaro (Peani 7 b) nella piena consapevolezza che quella relazione, quel legame con il divino, era ed è necessario: non vi è accesso alcuno alla sapienza se le Muse non sono accanto a chi pronuncia parole. È un legame che si rinnova e vive all’inizio di ogni canto. Ma, ancor prima, è un patto che s’origina in un incontro, in un avvicinamento che è, a tutti gli effetti, consacrazione. Come accadde a Esiodo. Un giorno, mentre pascolava un gregge di candidi agnelli in quella valle dell’Elicona che ormai ci è famigliare, le Muse gli apparvero e gli rivolsero la parola. Gli indirizzarono un múthos, un “discorso” solenne, presentando se stesse perché fosse chiara la distanza abissale che separa i comuni mortali dalla dimensione divina: l’ottundimento 33

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bestiale degli umani, presi dagli elementari bisogni della sopravvivenza, proni alla terra come gli animali che allevano, e la sorgente sacra di una parola di cui essi non dispongono come cosa propria, perché solo le dee ne hanno la custodia e il supremo potere. Ma tale distanza, tale sostanziale differenza di stato, si colma d’un salto quando le fanciulle divine scelgano un mortale ed esse stesse decidano di trasmettergli la loro potenza, conferendogli la parola come un compito, come una missione: “Così dissero le figlie del grande Zeus, signore della parola armoniosa, e mi consegnarono uno scettro: colsero per me un ramo d’alloro fiorito, meraviglia a vedersi [...] e mi ingiunsero di celebrare gli dèi sempre viventi, ma loro stesse, all’inizio e alla fine, sempre dovevo cantare” (Teogonia 29-34). Lo scettro è dei re e quello scettro conferiva a Esiodo la sovranità della parola: gli conferiva l’autorità e l’autorevolezza, dinanzi agli uomini, di dire e di essere ascoltato perché il suo canto non era opera umana, né prospettiva soggettiva né mera abilità tecnica. Quello scettro era la meraviglia fiorente e rigogliosa di un ramo d’alloro: aromatico e sempreverde, come la natura divina che mai appassisce e viene meno, ma anche acre e pungente come il calore igneo che in sé racchiude, poiché la pianta era nata dall’amore infiammato di Apollo per una Ninfa, dal desiderio del Sole per l’Acqua fuggente. E quello scettro d’alloro, oltre che simbolo di una sacra missione e di un’autorità superiore, era anche il segno tangibile di quell’incontro, il segno rimasto fra le mani di Esiodo, dopo che le Muse si erano dileguate, il segno che egli avrebbe mostrato agli uomini come prova della sua investitura. 34

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Un’esperienza analoga capitò ad Archiloco di Paro, secondo quanto racconta un’iscrizione presente nell’isola natia del poeta. Un giorno, quand’era ancora un ragazzo, il padre gli ordinò di recarsi in campagna, nell’amena distesa di un prato, per prendere una vacca che doveva essere venduta al mercato. Archiloco si alzò che era ancora notte fonda, mentre la luna irraggiava il suo niveo splendore, e, preso l’animale, si diresse alla volta della città. Nel suo cammino, giunse presso un luogo ove si ergeva un gruppo di rocce nude e scoscese. E lì si imbatté in un gruppo di donne che procedevano insieme. Pensò, a tutta prima, che esse tornassero da qualche lavoro nei campi, e, avvicinandosi, prese a motteggiare giocosamente con loro, come spesso si fa nelle campagne tra uomini e donne. Ed esse lo ricambiarono di buon grado, abbandonandosi, a loro volta, a scherzi e risa. Quindi chiesero al ragazzo se intendesse vendere la vacca e, alla risposta affermativa di questi, dissero che l’avrebbero presa loro, pagandogli il giusto prezzo. Ciò detto, le donne magicamente svanirono insieme all’animale, lasciando ai piedi di Archiloco una lira. Il giovane fu, da principio, stordito e sgomento di quanto era accaduto, ma, dopo averci riflettuto, comprese che quelle donne non erano altri che le Muse e gli avevano fatto il dono del canto. Tornato a casa, il padre accolse il racconto del figlio con alquanta perplessità. Pensava che si trattasse di fandonie volte a nascondere il semplice fatto che Archiloco aveva smarrito la vacca. Solo dopo aver consultato l’oracolo di Delfi, egli ebbe la conferma che il figlio non aveva mentito e che quell’incontro divino aveva segnato e mutato, per sempre, la vita di Archiloco. Fu così 35

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chiaro che gli scherzi e i motteggi sul prato erano stati la divina anticipazione del genere poetico cui egli si sarebbe dedicato: i giambi mordaci e irriverenti, che parlano il linguaggio del corpo, della natura e della fertilità; quei giambi che si riallacciavano al gesto compiuto dalla vecchia Iambe, quando, per rallegrare l’afflitta Demetra, dea delle messi, ella si era alzata la veste mostrando quel luogo da cui sempre la vita si rigenera. Nel corso del tempo e in luoghi diversi, molti altri hanno narrato di aver beneficiato di simili epifanie e di essere divenuti cantori e poeti solo dopo quella mirabile esperienza. Tali racconti sono stati spesso assunti con uno scetticismo analogo a quello mostrato dal padre di Archiloco. Sono stati considerati semplici e umane allegorie, rappresentazioni meramente convenzionali dell’avvio di una carriera poetica, se non, addirittura, forme di autocelebrazione del poeta stesso. Questi incontri, al contrario, vanno assunti in tutta la serietà di ciò che dicono poiché testimoniano, in forme diverse, l’evento centrale di una sacra iniziazione che muta lo stato e la condizione di un soggetto, aprendo l’accesso a regni altrimenti inaccessibili. Sin dai tempi più antichi, l’iniziazione è proprio questo: la trasmissione di un’“influenza” superiore ed essenziale e, con essa, il prodursi di una radicale metamorfosi che desta capacità e poteri sopiti. Non più bestie, “solo ventre”, ma uomini divini. Per questa stessa ragione, tradire il legame che l’iniziazione ha sancito non può che essere esiziale. Pensare di poter cantare senza le Muse, di rendersi autonomo rispetto a esse, o, peggio ancora, di sfidarne il potere è premes36

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sa per una sicura caduta. Ne offre l’esempio, per tutti, il cantore Tamiri, originario di quella stessa Tracia da cui le Muse erano discese per venire in Grecia. Un giorno, egli prese a vantarsi di poter superare le Muse, come se non fossero state loro stesse a donargli la parola e la musica. Adirate per quell’oltraggio, che negava l’origine divina della parola, le fanciulle non tardarono a punirlo: “Lo mutilarono, gli tolsero il canto divino e gli fecero dimenticare la cetra” (Iliade 2,597-600). Tale è il contrappasso inevitabile delle figlie della Memoria: la mutilazione del silenzio e dell’oblio, l’invalidità perenne di una mente che ricade nell’ottusità e diviene incapace di ricordare ciò che fu, ciò che è e che sempre sarà.

Soffio, volo, magnete “Le Muse m’ispirarono un canto divino,” afferma Esiodo (Teogonia 31). Empnéin, “ispirare”, è l’effetto che scaturisce dall’epifania, l’azione costante che si produce ogni volta che un vero cantore, un iniziato, leva la sua voce. Il dono delle “acquatiche” fanciulle si trasmette come un pnéuma, come un “soffio” che penetra dentro, come un’aria che investe e scuote. Il canto è la circolazione di un respiro che viene assorbito per poi essere, di nuovo, emesso in forma di parole e di note. Acqua e aria sono le Muse e la poesia: mente e respirazione, fluidità e leggerezza, superficie cangiante di immagini e impalpabilità del pensiero. Il moto di questo soffio è avvertito dal cantore nel suo thumós o nelle sue phrénes: termini che usualmente si tra37

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ducono con “animo”, ma che corrispondono, in realtà, alle dinamiche di una fisiologia sottile. Thumós si connette a una radice che significa “vapore” e “fumo”. Phrénes rinvia al diaframma e alla rete fitta dei polmoni. L’insufflazione del pnéuma divino si traduce nello sprigionarsi di un calore fumante, di un ardore che dall’aria si trasmette al sangue, facendosi impeto e forza. Così l’aedo “divino” prende a cantare “come” e “nella direzione” cui “il suo thumós lo spinge” (Odissea 8,45). Il soffio caldo di questa respirazione che viene indotta dalle Muse è, ancora, un potere che fa germogliare e crescere la parola all’interno dell’aedo, come se si trattasse di un seme, gettato nella terra, che si trasforma in pianta. E il cantore non deve far altro che estrarre da se stesso, dal proprio respiro, quel rigoglio che in lui è stato ingenerato: “Ciò che dico lo traggo da me: un dio ha fatto nascere i canti nelle mie phrénes” spiega l’omerico Femio (Odissea 22,43). L’ispirazione delle Muse infonde un germe e al contempo lo riscalda, lo alimenta e lo spinge in alto, come se la poesia fosse natura, come se essa fosse un frutto o un fiore del cosmo. Il canto prorompe dall’impulso delle Muse che, con amabile violenza, “destano”, “risvegliano” la mente (Pindaro, Inni 6 a). Ma tale impeto può dispiegarsi in direzioni molteplici. Perché ogni singolo canto è, in realtà, un’óime, un “cammino”, un “sentiero”, la “traccia” di un percorso in cui l’animo surriscaldato dell’aedo si addentra, seguendo il filo della Memoria, così come Teseo seguì il filo di Arianna per uscire dal labirinto di Creta. Il regno fatato delle Muse è una terra solcata da “vie” sonore, ora più accessibili e battute, ora più impervie e solitarie. Vie 38

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che conducono a imbattersi in storie differenti, a incontrare il volto e le azioni di dèi ed eroi ogni volta diversi. Per poterle percorrere giungendo rapidamente alla meta desiderata, il cantore non può che affidarsi a un mezzo altrettanto fatato: il “carro” veloce e sicuro su cui si muovono le Muse stesse, un “carro alato”, una “quadriga” celeste che “si lancia” attraverso l’aria, destando il ricordo custodito dalla Memoria divina, come Pindaro più volte ricorda (Pitiche 10,54; Istmiche 2,1-5 e 8,57-62). Un carro davanti a cui si spalancano, con un semplice comando, le “porte degli inni”, oltre le quali si apre la terra dei miti, il mondo immaginale delle storie, ove ogni evento fondamentale accadde o accadrà. “Volgiamo il carro verso un puro sentiero, affinché io giunga all’origine di quella stirpe di eroi [...]. S’aprano le porte dei canti” dice, ancora, Pindaro, mentre si appresta a raggiungere, con lo slancio dell’ispirazione, il ‘punto’ preciso ove si trova la storia che deve essere evocata dalla parola (Olimpiche 6,22-28). Un carro alato, guidato da sapienti cavalle e da divine fanciulle, è, ancora, il mezzo magico con cui Parmenide compie un percorso oltreumano che lo conduce alla “porta” cosmica del Giorno e della Notte, al cospetto della Dea che tutto saprà dirgli e ispirargli sui segreti dell’essere e del divenire del mondo. E, tanto più egli procede, quanto più il suo carro avvampa di quella particolare incandescenza che è la condizione stessa per penetrare nell’invisibile: “Le cavalle mi accompagnavano, dopo che mi ebbero posto sulla via della dea, sulla via che risuona di parole e di canti [...], l’asse del carro, infiammandosi, mandava lo stridore di un sibilo” (fr. 1). 39

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L’esperienza e il dono del canto sono, dunque, anche un viaggio o, forse meglio, un librarsi nell’aria, un volo ardente. E il poeta, allora, non può che essere una “cosa leggera, sacra e alata”, come afferma Platone (Ione 534 b). Sacra come sacra è la forza che lo attraversa e la destinazione che lo attende. Leggera e alata perché altrimenti non potrebbe salire su quel carro che sfreccia nell’invisibile, superando ogni determinazione del tempo e dello spazio. Carro e volo ricordano come il poeta-veggente, il cantore iniziato sia, alla sua origine e nella sua essenza, un fratello dello sciamano, di colui che, con il corpo immobile a terra, libera la sua anima affinché ella si muova nel regno degli spiriti, parli con gli dèi e scorga l’origine e la causa di ogni cosa. Sorgenti incantate, soffio, volo e ardore sono i modi con cui si esprime, per immagini, l’esperienza divina della manía, che non è propriamente “delirio”, ma, come si è accennato, forma sovrumana di intensità: quello stato non ordinario della coscienza che trasporta oltre gli angusti confini della percezione sensibile e del pensiero determinato dal corpo, facendo vedere e conoscere ciò che altrimenti agli umani, “solo ventre”, sarebbe precluso e ignoto. Quello stato della coscienza che eleva la mente a una dimensione superiore ove la totalità dell’essere e del divino si mostrano in un unico orizzonte. Quell’intensità da cui s’origina il valore stesso del canto. La luce particolare delle opere poetiche non si deve, in prima istanza, all’uso scaltrito di una tecnica umana, ma all’irradiazione della manía. Come spiega Platone nello Ione (533 d ss.), i poeti compongono canti mirabili non per il mero “possesso di un’arte”, ma 40

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perché sono éntheoi, perché una presenza divina è in loro, perché sono da essa “presi” e “posseduti”. Come gli invasati Coribanti, ministri della dea Cibele, si lanciano nelle loro sacre danze solo dopo essere “usciti” dalla condizione usuale della loro mente, allo stesso modo operano i poeti, quando “entrano nell’armonia e nel ritmo”, quando entrano in trance, e il “furore” si scatena. Allora, al pari di quanto accade alle fedeli baccanti di Dioniso, tutto diventa possibile. Il velo opaco della realtà si squarcia e le forze ignote della natura divina prendono ad agire, sovvertendo ogni legge e ogni misura apparente. Come “le baccanti attingono ai fiumi miele e latte” o fanno scaturire fonti d’acqua da aride pietre al solo tocco del loro tirso, così operano i poeti ogni qual volta il soffio divino li raggiunge: “Essi attingono i loro canti,” spiega ancora Platone, “da fonti di miele, da giardini e valli sacri alle Muse, e li portano a noi, volando, come fanno le api.” E se ogni poeta eccelle in una particolare forma di canto, in un determinato genere di opere, e in nessun altro ambito raggiunge uguali vette, ciò si deve alla medesima ragione: “Ciascun poeta può comporre bene solo ciò a cui la Musa lo spinge [...], chi ditirambi, chi encomi, chi ancora canti corali o poemi epici o composizioni giambiche.” Perché, al fondo, è sempre la divinità che si esprime e parla attraverso la mente e la voce dell’uomo: i poeti, come gli indovini e i veggenti, non sono altro che “profeti”, che “interpreti” degli dèi. Il dispiegarsi della manía, l’ingresso in stato di trance è come lo sprigionarsi di un fluido magnetico che prende a scorrere e a irradiarsi, a partire da un vertice trascendente, da una sorgente posta al di là del mondo materiale e sensi41

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bile. Ciò che “muove il poeta” – suggerisce sapientemente Platone – è una forza straordinaria e misteriosa, come quella che si trova nella “pietra” che Euripide battezzò per primo con il nome di ‘magnete’ e che la gente usualmente designava come ‘pietra di Eraclea’: “Questa pietra non solo attira gli anelli di ferro, ma trasmette tale forza agli anelli medesimi, cosicché essi producono lo stesso effetto, attraendo, a loro volta, ancora altri anelli. In questo modo si forma talvolta una lunga catena di anelli che pendono gli uni dagli altri. E tutti quanti sono connessi grazie alla forza di quella pietra.” Così è la Musa: un magnete che infonde la propria dúnamis, la propria “potenza” nel cantore, il quale, a sua volta, magnetizza gli uomini che lo ascoltano. Il fluido magnetico non è solo la causa dell’ispirazione, non è solo ciò che consente al poeta di comporre e cantare, ma anche ciò che raggiunge chi a quel canto presta orecchio. Anche il pubblico, ultimo anello della sacra catena, viene rapito nel vortice della trance, preso e condotto a un’altra dimensione della coscienza. Senza magnetismo, non si dà creazione né parola efficace che riesca a condurre i mortali al di là di se stessi. Per questo, anche, continuiamo a essere incatenati, oltre i confini del tempo e dello spazio, agli anelli di quell’antica poesia.

Dal boschetto alla biblioteca Vi furono secoli bui in cui la Grecia, dopo il crollo dei regni micenei, aveva smarrito il sapere della scrittura. Ogni poema nasceva e viveva nella dimensione di un’orali42

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tà pura. Non vi era un testo fissato. Il canto sorgeva e prendeva forma nel momento stesso in cui veniva pronunciato da un aedo cui la Musa si rendeva presente. Comporre, cantare e fissare nella mente il ricordo del canto stesso si iscrivevano in un’unica operazione, in un unico “fare” ispirato e magnetico. I poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, che presero origine da questa stagione, si sviluppano attraverso una rete di formule ripetute, di epiteti, espressioni e scene tipiche che, pressoché sempre uguali, ricorrono nel canto, scandendo, insieme alla sequenza dettata dalla struttura metrica, il racconto degli dèi e degli eroi. Si è osservato – per confronto con altre tradizioni orali ancora sussistenti nei tempi moderni – che tale materiale formulare, tale tessuto di ripetizioni, aiutava e sorreggeva tanto il cantore quanto il suo pubblico. Aiutava a comporre, improvvisando, ma aiutava anche ad ascoltare e a ricordare. Elementi costanti che permettevano, ogni volta, di dire e insieme di evocare e ricordare il filo delle storie. Se ciò dà conto della genesi materiale di questi antichi poemi, vi sono, tuttavia, anche altri aspetti, più sottili, che tale forma espressiva sottende. Le formule sono altrettante cellule di energia cristallizzata che, nel dispiegarsi del canto, si risolvono in elementi dinamici. Energia che trattiene e fissa un’idea, una qualità, un gesto o un’azione di natura essenziale. Energia che poi si converte nella corrente stessa del fluido magnetico della Musa. Le espressioni formulari sono un modo di dare ordine al mondo e ritmo alla mente. Una modalità di percepire i piani della realtà, di cogliere le costanti di ciò che ha valore e significato, di interiorizzare, nella ripetizione, i tratti e le coordinate di un ‘cosmo’. 43

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Quando la scrittura alfabetica fu introdotta in Grecia, a metà dell’VIII secolo, tutto questo vivo flusso sonoro cominciò a congelarsi sulla superficie di pergamene, di fogli di papiro e di tavolette cerate. I poeti cominciarono a comporre scrivendo, e ciò comportò un progressivo distanziarsi da quell’arsenale di formule e ripetizioni, poiché la superficie immobile della pagina consentiva di organizzare altrimenti l’ordine della realtà e la vita della mente. Sulla pagina – a differenza del canto che si dispiega come un continuum ininterrotto – l’occhio può procedere avanti e indietro, il pensiero può tornare su se stesso, verificare e controllare il proprio avanzare e la propria sequenza: può fermarsi e indugiare. Se nel regno dell’oralità, tutto si dice e si comunica attraverso ciò che i personaggi compiono – tutto è azione ed evento nel susseguirsi di anelli che si incatenato gli uni agli altri –, l’immobilità della pagina scritta consente al pensiero di prendere le distanze dal flusso di azioni concrete e dalla corrente delle parole. Il pensiero ha modo di arrestarsi e, arrestandosi, di astrarre e di formulare concetti, acquisendo un diverso e più analitico sguardo sull’esperienza cangiante della vita e dell’universo. Era l’avvento di una trasformazione epocale. E, tuttavia, per lungo tempo, la poesia, benché ora concepita per iscritto, continuò a essere accolta e goduta dai suoi destinatari solo come una voce che raggiungeva l’orecchio. I poeti scrivevano, ma le loro opere continuarono a essere oggetto di un partecipe e collettivo ascolto, in occasione di riti e di feste, di solennità pubbliche o di riunioni private. La poesia perdurò come un ‘evento’ sonoro che non concerneva un singolo soggetto, ma che si produceva ogni volta 44

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alla presenza di un pubblico raccolto e intento. Non un’esperienza solitaria, ma un momento condiviso nella vita di una comunità, piccola o grande che fosse. Dall’età più arcaica fino alla fine dell’età classica, canto e poesia erano il legame – la catena magnetica – che stringeva gli uomini tra loro, trasmettendo, in forma viva, tutto l’essenziale della conoscenza umana e divina. Più tardi, nel IV secolo avanzato – per il mutare delle condizioni storiche e sociali – questo vincolo tese a spezzarsi. Parola e poesia divennero così, sempre più, qualcosa che si legge: qualcosa di cui si può fruire anche da soli, in tempi e in luoghi diversi, a prescindere dalla partecipazione a una vita comunitaria e da occasioni festive. A differenza di quanto accadeva nelle età precedenti, i poeti non componevano più, rivolgendosi a un pubblico presente e a loro noto; non componevano più perché i loro versi accompagnassero e, al contempo, riflettessero, come uno specchio, l’esecuzione di una specifica celebrazione rituale. Scrivevano per un orizzonte di lettori, ora vicini ora lontani, che avrebbero fruito di quelle parole e di quei canti dove e quando avessero voluto, senza che ciò comportasse, di necessità, la relazione con un contesto specifico. Ed è in questa stessa età che sorsero e presero a organizzarsi le prime grandi biblioteche, come quella di Alessandria o di Pergamo, ove si tentò di raccogliere e catalogare tutto ciò che di significativo gli antichi autori greci avevano prodotto. Luoghi, questi, spesso concepiti nella forma di un Mouséion ovvero come uno spazio dedicato alle figlie della Memoria. Dalle valli dell’Elicona o del Parnaso, il corteggio delle Muse apparve così trasferirsi tra gli scaffali ben ordinati 45

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ove si conservano, in forma di rotoli, le opere dei poeti del passato, già sentiti come canonici e fondamentali. Che cosa rimase, in quell’orizzonte, delle danze notturne, della nebbia misteriosa e del mormorio della sorgente, presso cui Esiodo aveva sorpreso, un tempo, le Muse intente al loro compito divino? I dotti poeti della biblioteca sapevano che l’omaggio alle dee era cosa dovuta e inevitabile, se non altro per testimoniare la continuità di quanto era divenuto tradizione. Continuarono, perciò, a nominarle all’inizio delle loro opere. Così fece, ad esempio, anche Callimaco che tra gli scaffali di Alessandria si era nutrito. Egli concepì il suo poema Áitia, “Cause”, come un dialogo tra lui e le Muse, evocando come segnavia dell’opera la scena stessa in cui Esiodo era stato investito del ramo d’alloro. Alle Muse Callimaco chiedeva l’áition, il “motivo” che aveva dato origine a un nome, a una pratica cultuale o a una storia. Chiedeva alle fanciulle “perché?” Ed esse, pazienti, ogni volta gli rispondevano, evocando, da tempi lontani e immemorabili, l’origine di ogni cosa. Un giorno Callimaco chiese conto dell’amore di Aconzio e Cidippe, dalla cui unione era nato il capostipite della stirpe degli Aconziadi di Iuli nell’isola di Ceo. Tutto era nato da una mela che Aconzio aveva fatto scivolare vicino alla fanciulla. Il frutto recava la scritta: “Per Artemide, io sposerò Aconzio” e l’ignara Cidippe, raccogliendo la mela e leggendo a voce alta quelle parole, si era vincolata per sempre al giovane. Per tre volte, il padre tentò di darla in sposa a un altro uomo, ma, per tre volte, Cidippe cadde ammalata, finché l’oracolo di Delfi non spiegò l’arcano dei ripetuti impedimenti, suggellando l’unione dei due. “Io appresi que46

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sto amore,” conclude Callimaco, “dall’antico Xenomede che tutte le vicende dell’isola ha riunito nella sua raccolta mitologica” (fr. 75 Pfeiffer). E dunque? Da queste parole si dovrebbe dedurre che la figura della Musa si fosse trasformata e ridotta alla semplice consistenza di un libro, allo scritto di un erudito locale, riscoperto, a fatica, nei meandri del Mouséion. Il nome delle mitiche fanciulle era forse divenuto solo un modo per alludere a un repertorio di miti o a un canone di modelli e di forme? Un repertorio cui attingere variamente per trovare, magari, la versione meno nota, il particolare da altri trascurato, la dizione più preziosa? Sotto questa luce, anche il monito di Apollo, che Callimaco aveva ricordato all’inizio degli Áitia, potrebbe, di primo acchito, essere ridotto a una scena del tutto fittizia, senza più rapporto con i viaggi alati degli antichi poeti. Quando Callimaco, ancora giovane, si era posto per la prima volta sulle ginocchia la tavoletta per scrivere, il dio gli avrebbe detto: “Guida il tuo carro non per vie larghe e battute, ma per sentieri non calpestati, anche se procederai per vie più anguste” (fr. 1). Che cosa pensare? Ogni incanto, ogni manía si erano per sempre eclissati? Il carro e la strada erano semplici metafore di un lavoro poetico che si prefiggeva l’unico obiettivo dell’originalità? Le Muse, benigne e accorte, lasciarono dire e non si offesero per il fatto che la loro divina maestà potesse essere, lì per lì, confusa con il nome di uno scrittore poco noto, come Xenomede, né che le vie del canto potessero confondersi con gli scaffali e i corridoi meno frequentati della biblioteca. Anche perché solo la loro indefettibile e celeste memoria poteva conoscere e abbracciare tutti i rotoli e tutti i 47

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libri di ogni biblioteca. Solo loro potevano indirizzare alla giusta ricerca e animare, con fluido magnetico, ogni testo conservato, ogni pagina scritta, affinché diventasse, a propria volta, occasione e fonte per comporre nuova poesia: sorgente per creare, sempre e di nuovo, versi e parole che attraessero altri lettori, legandoli in un’unica ininterrotta catena. Nascoste tra le pagine e talora inavvertite, le Muse continuarono, sempre e comunque, a ispirare, con il loro soffio, la “via” di ogni opera che fosse reale espressione di un pensiero vivente e vibrazione del sacro.

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2. DOLCE COME IL MIELE

Il piacere delle Muse Dalla divina bocca delle Muse – afferma Esiodo – “scorre” una voce dolce e instancabile (Teogonia 40). Il canto che le dee intonano, così come la parola che esse ispirano nei mortali, è cosa che, letteralmente, “fluisce”: una sostanza liquida, una corrente, che suscita la sensazione di una straordinaria dolcezza. Quando le fanciulle fanno risuonare i loro inni, la dimora olimpica degli dèi si distende in un sorriso beato di gioia e di serenità: “Esse rallegrano (térpousi) la grande mente di Zeus [...] e ride (gelá[i]) la casa del padre quando si diffonde, da ogni parte, la voce delle dee, una voce delicata come un giglio” (Teogonia 40-42). In modo analogo, si rallegra l’animo degli uomini ogniqualvolta un aedo sapiente li intrattenga con la sua voce e i suoi racconti. Così, ad esempio, nella reggia omerica di Scheria, i “Feaci, dai lunghi remi, navigatori insigni, godevano ascoltando” quanto il “famoso” Demodoco narrava loro, addentrandosi per le vie dei canti (Odissea 8,368-369). Come i poeti non si stancano di dire, il “sacro dono” delle Muse ha il compito di dispensare térpsis, un 49

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“piacere” ineffabile e intenso che pervade totalmente chi ascolta. E la cifra simbolica di tale piacere si condensa, per l’appunto, nell’immagine canonica di un fluido dolce quanto denso: méli, “miele”, che cola dalle labbra delle fanciulle e dei cantori, così come impregna l’animo e il cuore di chi presta loro orecchio. “La mia lingua desidera il fiore scelto del dolce miele”, “nettare liquido, dono delle Muse, io offro”, “dolci canti dalla voce del miele”, dice, in modo esemplare quanto icastico, Pindaro nelle sue odi (Partenii 2,76; Olimpiche 6,21 e 7,7-10; Nemee 3,1-12). Con méli, “miele”, peraltro, significativamente consuona mélos, il nome stesso del “canto” e della “melodia”, insieme al corrispettivo verbo melízein: “Comporre canzoni cesellate con note di miele (melizémen [...] meligdóupoisi aoidáis),” scrive ancora Pindaro (Nemee 11,18). Quasi che, nella trama stessa della lingua, vi fosse un previsto e originario accordo tra la bella sonorità della parola e l’effetto che essa indefettibilmente suscita. Ma il dono di pronunciare “parole di miele” non appartiene solo al cantore. Anche il saggio consigliere o il sovrano benedetto, sin dalla nascita, dal favore delle Muse sa rivolgersi ad altri con la medesima soave dolcezza. “Dalla sua lingua la parola scorreva più dolce del miele” si racconta dell’omerico Nestore, prototipo dell’oratore “suadente” e “sonoro” (Iliade 1,249). Allo stesso modo, quando le Muse versano “dolce rugiada” sulla lingua di un basiléus, di un “re”, cresciuto e protetto da Zeus, ecco che “dalla sua bocca”, come afferma Esiodo, “fluiscono parole di miele: tutto il popolo guarda a lui che pronuncia sentenze con equo giudizio, ed egli, parlando con sicurezza, subito fa cessare an50

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che una grande contesa [...] facilmente esortando e convincendo con blande parole” (Teogonia 83-90). Aedi, detentori del potere regale ed eroi: tutti coloro che le Muse amano e onorano in maniera particolare hanno il distintivo privilegio di effondere “miele”, esercitando il fascino di una seduzione irresistibile. Il dolce piacere è la risposta sensibile che segue alla percezione della bellezza di parole e di suoni. Ci si può chiedere, tuttavia, se l’insistita sottolineatura di quest’effetto – che coinvolge non solo i mortali, ma anche gli dèi – sia la semplice celebrazione di un dato, per così dire, estetico. Ci si può domandare se il godimento sia, in se stesso, il fine ultimo della Musa e quali implicazioni abbia tale piacere al di là del suo più evidente e immediato fiorire. Una prima osservazione facilmente si impone. L’intensità del godimento produce, infatti, una totale adesione al contenuto del canto e del discorso: ci si fa compenetrare interamente da ciò che la voce e il suono articolano. Giocando con le parole, si potrebbe dire che chi ascolta si presta ancor più ad ascoltare proprio per il piacere che prova: il miele attrae e avvince con la medesima forza che segna la natura dell’éros. Da questo punto di vista, la soavità estrema è condizione e, insieme, prova dell’intima e profonda “persuasione” suscitata da chi fa risuonare, con sapienza e delicatezza, la propria voce. Attraverso la dolcezza del miele, la parola si imprime stabilmente nell’animo, fissando in esso valori, idee e immagini, determinando comportamenti e giudizi. L’effusione del miele sarebbe, dunque, il modo efficace di trasmettere conoscenza e sapere, di suscitare ordine e giustizia. Per questo, tanto l’aedo quanto 51

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il re vi farebbero ricorso. E per questo, anche, il nesso si prolungherà nel tempo, al di là dei confini della Grecia. Per fare assumere ai bambini un’amara medicina, il medico – dirà il latino Lucrezio – deve cospargere di miele l’orlo della coppa e, allo stesso modo, il poeta deve ricorrere alla dolcezza delle Muse se vuole introdurre chi lo ascolta alla comprensione di quella trama complessa che sostiene la realtà: “Ho voluto aspergere la mia dottrina con il miele delle Muse per poter tenere, in tal modo, avvinto il tuo animo fino a che tu non intenda tutta la natura dell’universo” (La natura 1,947-950). Ma tale finalità ‘didattica’ e comunicativa, tale risultato persuasivo, per quanto rilevante, non sembra esaurire il valore di quella dolce sostanza che promana dalle fanciulle divine né chiarire, del tutto, le implicazioni del piacere che stringe in uno le figlie della Memoria, il fare poetico e le reazioni di chi porge orecchio al canto ispirato. D’altro canto, se Zeus si rallegra e gode della voce delle sue figlie, che cosa mai egli dovrebbe apprendere che la sua mente divina già non sappia e non conosca? Per tutto ciò, occorre forse, con un passo indietro, addentrarsi nel regno degli alati animali di cui il miele è segno distintivo.

La sapienza delle api La vita e le abitudini delle api non hanno mai cessato di destare stupore e ammirazione. Una virtù straordinaria e insieme misteriosa sembra inscritta nel corpo di questi piccoli esseri che, pur essendo creature della terra, 52

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mostrano una particolare affinità con il mondo celeste e con le forze invisibili della natura. Un ordine perfetto e armonioso regola la loro comunità e il lavoro cui attendono senza posa. Un’istintiva sapienza le rende abili architetti di perfetti alveari e solerti custodi di un tesoro che esse accumulano con fatica e con previdenza, senza che nulla vada sprecato. Nemiche di ogni sozzura, esse frequentano solo luoghi incontaminati e limpidissime sorgenti: “Non si accostano a nulla di guasto o di corrotto [...], si nutrono solo di dolci succhi e prediligono attingere l’acqua là dove essa zampilla pura” (Aristotele, Storia degli animali 596 b). Amano tutto ciò che è katharón, “schietto”, “pulito” e “limpido”, perché esse stesse sono la quintessenza della purezza. Per queste caratteristiche che le distinguono dal resto del mondo animale, le api appaiono davvero, a chi le osservi, dotate di un “tratto divino” (Aristotele, Generazione degli animali 761 a): “Osservando tali segni si disse che le api partecipano della mente divina e traggono il loro respiro dall’etere eterno” (Virgilio, Georgiche 4,219-221). Il loro stesso regolare ronzio, prossimo al ‘sol’ della scala musicale, sembra riprodurre quella vibrazione fondamentale con cui, secondo l’immaginario vedico, gli dèi hanno creato il mondo. E cosa divina è anche la sostanza che esse raccolgono, aggirandosi tra i fiori, poiché il miele – dice Aristotele – è, in realtà, cibo che “cade dal cielo come la rugiada” (Storia degli animali 553b-554 a). Il miele nutre, cura, purifica i corpi e li rende, financo, immuni da corruzione. Per questo, gli antichi teologi – spiega Porfirio (Antro delle Ninfe 16) – ritenevano di poter assimilare le proprietà del miele a quelle del nettare 53

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e dell’ambrosia: il fluido custodito dalle api sarebbe la sostanza che più si avvicina al misterioso cibo di ‘non morte’ che è proprio degli dèi. Presente nei rituali misterici e nelle sacre iniziazioni, il miele ha il potere segreto di accrescere e di rigenerare, di infondere ebbrezza e di suscitare ispirata manía. Non è, pertanto, un caso che il miele e le api ricorrano in storie nelle quali si narra l’infanzia dei celesti o si svela la trasmissione di doti del tutto particolari. Storie in cui, in modo altrettanto significativo, gli alati insetti si trovano associati alla figura delle Ninfe, quando non sono, addirittura, identificati con esse. Nella grotta di Creta, ove era stato nascosto per proteggerlo dalla furia del padre, il piccolo Zeus crebbe, giorno dopo giorno, alimentandosi di fluido miele. A offrirglielo erano provvide api o, come altri raccontano, una benevola Ninfa che si chiamava proprio come loro: Melissa ovvero “Ape” (Virgilio, Georgiche 1,149; Antonino Liberale, Metamorfosi 19). In modo analogo, Apollo, quand’era ancora fanciullo, era stato nutrito e allevato da tre “vergini alate” che abitavano sul Parnaso: Ninfe-Api che, quando si nutrivano di miele, acquisivano il potere della profezia (Inno omerico a Ermete 555-560). Il destino di alcuni mortali fu, del pari, segnato dal dono precoce del miele che infuse loro sapienza luminosa e parola ispirata. Di Omero, di Pindaro o di Platone, si narra il medesimo evento: nei primi giorni di vita, le api avevano cosparso le loro labbra di biondo nettare (Antologia Palatina 2,343; Eliano, Storie Varie 12,45). La prossimità delle api con tutto ciò che è sacro e divino, la loro affinità con le forze che nutrono la vita, la loro 54

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relazione con le potenze che mediano tra cielo e terra, indusse, ancora, gli antichi sapienti a chiamare “api” non solo le Ninfe, ma anche le “anime”: le psuchái pure e giuste, che vengono a incarnarsi in corpi mortali per poi tornare alla loro originaria patria celeste (Porfirio, Antro delle Ninfe 19). Con lo stesso nome, i sapienti designarono, infine, le caste ministre di Demetra e di Persefone, le profetesse di Apollo, le sacerdotesse della Grande Madre, e “tutte coloro che consacravano la loro vita agli dèi”, facendosi guide di devozione e di pietà religiosa (Scolio a Pindaro, Pitiche 4,104). Si potrebbe ricordare, infine, come in un oscuro antro collocato presso il porto di Itaca – l’isola di Odisseo – api raccolgano miele per le Ninfe, mentre queste tessono splendidi manti purpurei (Odissea 13,102‑112): un’immagine che, nel suo insieme, è simbolo del cosmo e della natura sensibile con le presenze divine e con le anime che la abitano, vivificandola della loro presenza. Api, fanciulle divine, anime, potere della veggenza e della conoscenza, cibo celeste e incorruttibile, rituali di rigenerazione e di iniziazione: tale intreccio consente di cogliere, in filigrana, come il miele effuso dalle labbra delle Muse – dalle Ninfe-Api del canto e della poesia – non si esaurisca nella mera gradevolezza della percezione né possa ridursi alla misura di un’umana dolcezza. Le “parole di miele” non corrispondono alla semplice dote di un eloquio scorrevole ed efficace. Il miele delle figlie della Memoria è – come il miele che ha nutrito Zeus o Apollo – alimento puro che sostiene e corrobora la vita, fonte di sapienza integrale e veicolo di immortalità. Il miele delle Muse è sovrana pienezza d’essere. Perfezione e compiutezza dell’es­ 55

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sere. Per questo, anche la mente di Zeus “gode” al canto delle fanciulle e tutto l’Olimpo si illumina di un sorriso.

Dimenticare Esiodo non si limita a celebrare le Muse e il loro ‘mielato’ potere, ma indugia anche a spiegare con quale intento Mnemosúne, “Memoria”, si fosse unita a Zeus per darle alla luce: “Le generò [...] perché fossero oblio (lesmosúne) dei mali e riposo dagli affanni” (Teogonia 53-55). L’ascolto del canto e della poesia susciterebbe un effetto immediato quanto sorprendente. Un effetto catartico rispetto alla sofferenza e alla fatica che segnano la vita dei mortali. Se un uomo ha l’animo gravato da un “lutto recente” – insiste ancora Esiodo –, se il dolore “prosciuga” e “dissecca” il suo cuore, basta che un aedo, “servo delle Muse”, si metta a cantare gli “dei beati” dell’Olimpo o le storie degli “eroi di un tempo” ed ecco che, in un istante, si produce un cambiamento nel cuore: “Allora subito quell’uomo dimentica le sue angosce e non si ricorda più delle sue pene, perché i doni delle Muse presto lo distolgono da esse” (Teogonia 102-103). Per i rigidi schemi della razionalità moderna, tutto ciò può apparire, di primo acchito, alquanto sconcertante, se non addirittura contraddittorio, tenendo conto della natura complessiva delle divine fanciulle. Che la dolcezza della poesia possa attenuare il dolore, è, di per sé, cosa facilmente intuibile, dopo aver lungamente riflettuto sulla soavità del miele. Meno scontata è, per contro, l’insistita sottolineatura che concerne il potere 56

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della dimenticanza, presentato come il principale beneficio che le Muse offrirebbero all’umana miseria. Proprio le figlie della Memoria, proprio coloro che incarnano il ricordo totale dell’essere – “le cose che sono, che saranno e che furono” – agirebbero avvolgendo la mente degli uomini nel velo confortevole, ma spesso, dell’oblio. Le dee che governano il disvelamento dell’alétheia, impedendo che la verità “sfugga” (lanthánei), si manifesterebbero nell’opposto dono di un canto che occulta e sottrae: di una parola, appunto, tutta tesa a lanthánein, allo “sfuggire”. Come comprendere questa coincidenza paradossale di una memoria che si esplica nel completo “oblio” e avrebbe in esso il suo fine ultimo? Si dovrebbe pensare che la voce delle fanciulle e dell’aedo non sia altro che una droga, un farmaco capace di ottundere, con forza, ogni emozione penosa. Torna alla mente la scena omerica in cui Elena, come una sapiente fattucchiera, versa nelle bevande una misteriosa sostanza chiamata nepenthés, “non dolore”, per rasserenare l’animo dei suoi illustri ospiti: “Nel vino che essi bevevano, ella gettò rapida un farmaco che placava la sofferenza e il furore, che faceva dimenticare ogni pena. Chi lo inghiottiva, sciolto nel vino, per un giorno intero non avrebbe versato una lacrima, neanche se gli fossero morti il padre o la madre, neanche se un figlio o un fratello, davanti ai suoi occhi, fossero venduti come schiavi” (Odissea 220-225). Sul filo dell’analogia, il canto consisterebbe in un drastico quanto efficace anestetico, capace di rendere perfettamente insensibili anche alla sventura più prossima e grave che possa spezzare un’esistenza. Se non vi fosse altro, il dono delle Muse dovrebbe intendersi come uno 57

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stato, sia pur momentaneo, di felice inconsapevolezza e di beata incoscienza. Ma v’è da supporre, per contro, che il farmaco implichi una diversa e più complessa dinamica. L’oblio del canto è oblio di sé in una forma che non coincide con la banale distrazione o con lo stordente obnubilamento. Ciò che la voce poetica allenta e discioglie è, in realtà, il nodo soffocante di ciò che è proprio e personale, il grumo di un’esperienza che è tanto più pesante quanto più appare irrelata, esclusiva e assoluta. Chi ascolta la voce delle fanciulle esce da se stesso, svincolandosi dal perimetro angusto dell’individualità soggettiva, dal confine di una percezione che si limita, ottusamente, a cogliere solo la contingenza più prossima e parziale, solo ciò che è accaduto al singolo. Chi ascolta esce da se stesso per incontrare un mondo di storie che dispiegano l’origine e lo sviluppo dell’universo, raccontando ciò che da sempre è accaduto e che ancora accadrà. Le vicende degli dèi e degli eroi, gli eventi occorsi nel passato assoluto delle origini offrono un precedente per ogni cosa e ogni evento: dispiegano un paradigma di senso e di valore, che consente di sentire, accogliere e comprendere la propria particolare vicenda nei termini di un orizzonte più alto e più vasto. Allora l’oblio cade sul personale affanno perché esso è assorbito e trasfigurato nell’universale della vita e nell’orizzonte di un grande Tutto. Si dimentica la pena soggettiva perché sorge il ricordo dell’ordine delle cose e della natura dell’essere. Per questo, le Muse possono essere, al contempo, signore della memoria e dell’oblio. E ascoltando il loro canto, anche il cuore più “disseccato” dal dolore, più “inaridito” dall’angoscia – per riprendere l’immagine 58

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di Esiodo – torna a irrigarsi di linfa vitale, germogliando di un rinnovato battito all’unisono con la pulsazione della natura e del divino. In età classica, a distanza di qualche secolo da Esiodo, il fiorire del teatro sviluppò, ulteriormente, questo effetto benefico della poesia e del mito, come mezzo per medicare la sofferenza e insieme preparare la mente a ogni evento che possa occorrere nell’esistenza mortale. Con la parola e con il canto, lo spettacolo tragico che inscena la ripetuta catastrofe di eroi ed eroine, divenne una sorta di terapia dell’anima, vicina, per molti aspetti, a quella téchne alupías, a quell’“arte del liberare dal dolore” che Antifonte per primo aveva teorizzato. Osservando ciò che sulla scena teatrale accade ad altri, “la nostra mente,” spiega il poeta Timocle, “è come rapita e si scorda dei propri mali [...]. Guarda i poeti tragici, come sono utili a tutti. Uno è povero, ma quando sente che Telefo è stato povero quanto lui, meglio sopporta la propria miseria [...]. A uno cui è morto un figlio la storia di Niobe offre conforto. E un vecchio disgraziato non ha che da conoscere la storia di Oineo. Basta pensare che non c’è male che non sia già toccato ad altri in forma ancora più grave, perché ognuno si addolori meno delle proprie disgrazie” (Timocle, fr. 6).

Incanto Il piacere del miele e l’oblio della memoria non bastano, tuttavia, a chiudere il cerchio che il dono delle fanciulle stringe attorno a chi intenda la loro voce. Da prin59

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cipio, infatti, e prima di ogni altra cosa, il canto è ‘incantamento’. Tanto in greco quanto in latino, una medesima parola – aoidé o carmen – racchiude, all’origine, entrambi i valori. Il canto è operazione sapiente di parole ‘efficaci’, cariche di forza e di potenza. È formula magica che agisce in modo ineluttabile, con effetti rapidi e certi, sui corpi e sulle menti, quando essa sia pronunciata con l’intonazione necessaria, nella forma adeguata e al momento giusto. La cadenza di un ritmo che si ripete, la trama di suoni che si richiamano fra loro, la scelta e l’ordine studiato delle parole suscitano una corrente di energie sottili che si scaricano sulla realtà, sugli oggetti o sulle persone cui sono indirizzati. Per questo Platone, come si è visto, non ha dubbi nel far consistere la poesia in un atto di magnetismo. Si tratta del dispiegarsi del medesimo potere che, in vario modo e in diverse circostanze, esercitano anche gli dèi, quando, appunto, decidono di thélgein, di “ammaliare” gli uomini e il mondo in cui essi si muovono. Con la sua bacchetta magica, il dio Ermete “incanta (thélgei), se vuole, gli occhi degli uomini”, sprofondandoli nel sonno o, all’opposto, destando i dormienti (Iliade 24,341-343). Con un rapido cenno, Zeus può suscitare un terribile vento di tempesta come quello che, sulla piana di Troia, “incantava (éthelge)” la mente degli Achei, precipitandoli nel più completo stordimento (Iliade 12,244-245). Così Poseidone è in grado di cagionare la morte di un guerriero con il fascino terribile dello sguardo: “Ammaliò (éthelxe) i suoi occhi, impietrì il suo corpo, ed egli non poteva più muoversi o fuggire” (Iliade 13,435-436). Così, ancora, Afrodite è capace di esercitare una seduzione che “rapisce la mente”, 60

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facendo uso della sua magica cintura, splendidamente intessuta, in cui sono tracciati i disegni di “tutti gli incanti (thelktéria)” che accendono l’amore (Iliade 14,214-217). Lo scatenarsi di una forza impetuosa come il vento, la suggestione ipnotica che assopisce o rianima, la malia paralizzante che afferra l’animo, il fascino che cattura lo sguardo, la seduzione cui è impossibile opporsi: tutto ciò si intreccia anche nel prodursi della thélxis, del “sortilegio”, che la Musa o il suo aedo ispirato sanno suscitare. La materia del mito, che si fa poesia, è, infatti, essa stessa, sostanza magica: “Tu conosci,” viene detto a Femio, cantore della reggia di Itaca, “molti incantesimi (thelktéria) che ammaliano gli uomini, imprese di dèi e gesta di eroi, le storie che cantano tutti gli aedi” (Odissea 1,337-338). L’eroe, quando parla e racconta con arte, quando si fa aedo di se stesso, soggioga il suo ascoltatore con la medesima malia: “Come quando si guarda un aedo, che ha appreso dagli dèi a cantare storie mirabili per i mortali, e, mentre canta, lo si vorrebbe ascoltare per sempre, così lui mi incantava (éthelge) nella mia casa” afferma Eumeo per far comprendere quale straordinaria fascinazione Odisseo avesse esercitato, su di lui, per tre giorni e per tre notti, con le sue parole (Odissea 17,528-531). E l’incantesimo, quanto più è efficace, tanto più risulta vincolante e continuo. Chi ascolta rimane immobile e sospeso, stregato da quella voce, come accade ai Feaci mentre Odisseo racconta le sue avventure: “Così diceva e tutti rimasero muti, in silenzio, presi dall’incantesimo, nella sala piena di ombre” (Odissea 13,1-2). Non solo la voce che pronuncia parole, ma anche la musica che a esse si unisce avvince in un legame magico 61

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che sopisce ogni altro pensiero e ogni altra emozione che non siano quelle volute dall’incantesimo stesso. È un vero e proprio stato di trance profonda, che muta la fisiologia del corpo e della mente, portando la coscienza in una diversa dimensione. Quando la cetra, “comune possesso” del dio Apollo e delle Muse “dai capelli di viola”, intona il preludio, dando avvio alla danza e al canto, ecco che allora – afferma icasticamente Pindaro – anche la folgore incandescente, anche il fuoco eterno custodito da Zeus, spegne la sua fiamma, e l’aquila, posata sullo scettro del dio, “dorme”, abbassando quieta le sue ali possenti, con le palpebre che si chiudono come avvolte in una fitta nebbia: “Posseduta dal flusso dei suoni, solleva il morbido dorso nel sonno, come portata da un’onda, e anche il violento Ares, dimenticando la sua lancia aguzza, placa il suo cuore nel tepore di un sonno profondo. Gli incanti della cetra ammaliano (thélgei) anche l’animo degli dèi: è la sapienza (sophía) delle Muse e di Apollo” (Pitiche 1-12). Il canto è un kóma, un “torpore” che lentamente immobilizza. È un calore piacevole che ammorbidisce e rilassa. È un’onda ritmica che culla pervadendo le membra: ogni possibile reazione, anche la più passionale e violenta, viene meno, come una fiamma che si spegne. La magica sophía delle Muse, armata di tale potenza, sarebbe temibile e financo pericolosa, se gli intenti che la animano non fossero benevoli, se non si trattasse di infondere pace, ordine e letizia. Il “miglior medico delle amare contese”, la cura più efficace per le pene che mettono a dura prova, è l’euphrosúne, la serenità e la gioia. E sono proprio le “sapienti canzoni delle Muse” – assicura ancora Pindaro – a evocarle con il 62

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“sortilegio” del loro tocco fatato (Nemee 4,1-4). Ma che accade quando non sono le Muse a disporre della malia del canto? Quando a farne uso siano figure assai meno benigne e rassicuranti?

Canto di morte Le figlie della Memoria non sono le uniche fanciulle divine dotate di una voce melodiosa. Anche le Sirene con i loro corpi alati – uccelli con volto di donne – sanno cantare, procurando un soave piacere. Il loro nome, non a caso, designa anche una particolare specie di ape selvatica e si riconnette forse, nell’etimo, a seirá, “corda”, “fune”: esse sono dolci come il miele, al pari delle sorelle Muse, ma avvincono, letteralmente, chi le ascolta in legami senza scampo, in un nodo indissolubile: il canto e la poesia possono essere, con loro, la trappola di una fascinazione esiziale. Come le Ninfe e le figlie di Zeus, anche le Sirene parrebbero avere una particolare affinità con il dominio delle acque. Si narra, infatti, che il loro padre fosse il fiume Acheloo, figlio di Oceano, o il vecchio Forco, divinità del mare (Sofocle, fr. 861; Apollodoro, Epitome 7,18). Onde e correnti hanno a che fare, una volta di più, con il dono femminile di un canto fluido che è prossimo alle forze primigenie della natura e all’origine del tutto. Più controversa è, per contro, la loro madre. A detta di molti, erano state generate da una delle Muse stesse o da una vergine da esse educata (Apollodoro, Biblioteca 1,3). Per altri, invece, esse venivano dal ventre della madre Terra (Libanio, 63

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Esercitazioni 2,1). La discendenza dalle Muse non farebbe che confermare il condiviso possesso di straordinarie qualità vocali, cui, peraltro, alluderebbero anche i nomi con cui esse vengono, più spesso, designate: Thelxiépeia, “Parole che incantano”, Peisinóe, “Colei che persuade la mente”, Aglaophéme, “Splendida Gloria”, Lígeia, “Voce acuta” (Scolio a Odissea 12,39). La nascita dalla terra ribadirebbe, per contro, la loro stretta relazione con le forze ctonie e con il regno sotterraneo delle ombre. Le Sirene erano state, infatti, compagne di Persefone, signora dell’aldilà, e il loro canto s’inscrive nella dimensione invisibile della morte e dei morti: la loro voce fa risuonare le “leggi” e le “melodie” dell’Ade (Sofocle, fr. 861). È a esse, infatti, che ci si rivolge per piangere i defunti, per evocare il mondo dell’oltretomba: “Alate fanciulle, vergini Sirene, figlie della Terra, accompagnate i miei singhiozzi” prega una dolente eroina di Euripide (Elena 168-175). Non deve trarre, perciò, in inganno il fatto che esse abbiano l’abitudine di sedere nell’incanto di un “prato fiorito” (Odissea 12,159), come fanno le Muse indugiando tra valli e boschetti. Se le figlie della Memoria, con la loro voce, fanno ridere l’Olimpo, il canto delle Sirene, per quanto armonioso, sortisce un risultato affatto differente. Il loro potere di thélgein – di “incantare” tutti gli uomini che giungono presso di loro – non nutre e non scalda il cuore, ma lo ferma per sempre. L’oblio che esse dispensano non è confortante pausa e salutare distacco da un dolore idiosincratico, ma stasi perenne che separa dall’esistenza. La malia del loro canto conduce, senza nemmeno che ci si accorga, a una paralisi mortale e, attraverso di 64

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essa, a una completa putrefazione del corpo che si disfa, divenendo scheletro inerte. “L’ignaro che si accosta alle Sirene e ascolta la loro voce non torna più a casa [...]. Esse lo stregano con il loro limpido canto, adagiate sul prato, e intorno hanno mucchi d’ossa, cadaveri imputriditi con la pelle raggrinzita” (Odissea 12,40-45). Sono, queste, le parole con cui Circe avverte Odisseo, affinché egli non cada in quella trappola funesta. Se vorrà, potrà ascoltare ciò che le Sirene vorranno dirgli, ma dovrà farsi legare, con salde funi, all’albero maestro della nave, per non correre il rischio di venire altrimenti stretto dai legami magici di quelle sinistre fanciulle. Solo così potrà “godere” del canto senza esserne risucchiato e distrutto. Occorre la contromisura di un vincolo che trattenga per non essere immobilizzati dal “legame” della loro voce. Occorre la protezione di una distanza per non aderire, in modo completo e mortale, al contenuto della loro poesia. Quando, più tardi, nel corso della navigazione, Odisseo si avvicina al luogo fatale, le Sirene subito s’accorgono della sua presenza e lo invitano ad ascoltare quel “suono di miele”, che esce dalla loro bocca (Odissea 12,178-191). Esse promettono che il piacere si accompagnerà a un accrescimento di conoscenza, perché anche loro, in modo analogo alle Muse, “sanno tutto quello che accade sulla terra feconda”. Con perfida bugia, esse insistono che chi le ascolta, “dopo” se ne va “lieto e più saggio”. L’incantesimo della “voce bellissima” agisce e Odisseo vorrebbe essere slegato per poterle raggiungere, per potersi fermare con loro sul prato. I suoi compagni, con le orecchie tappate e protette dalla cera, lo legano, allora, ancor più stretto, 65

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come egli stesso aveva loro ordinato, sventando il rischio di quella seduzione canora. Ma che cosa risuona nelle parole mielate che le Sirene rivolgono all’eroe? Che cosa cattura la mente di Odisseo tanto da suscitare, in lui, un desiderio così forte? Le Sirene mostrano, subito, di sapere chi egli è. Lo allettano chiamandolo per nome. Fanno mostra di riconoscere la grandezza della sua splendida fama: “Odisseo famoso, grande vanto degli Achei, ferma la tua nave e ascolta.” Assicurano di conoscere bene la sua storia di guerriero sotto le mura di Troia, di sapere, senza difetto, “quello che Argivi e Troiani hanno patito per volere degli dèi”. La malia che le Sirene esercitano su Odisseo non è altro, allora, che la fascinazione di una gloria fissata e trasfigurata per sempre dal canto: l’immagine cristallizzata e immobile di gesta compiute. E in questo consiste anche il pericolo terribile e mortifero del loro ascolto: farsi catturare dal riflesso iridescente del passato senza più riuscire a staccarsi da esso, senza più fluire nel corso della vita. Benché siano onniscienti, le Sirene, infatti, sembrano porgere a chi si avvicini solo il racconto di “ciò che è stato”. Nulla dicono o accennano in merito a “ciò che sarà”. A differenza delle Muse, esse non ‘ricordano’, o fingono di non ricordare, l’orizzonte del presente e tanto meno quello del futuro, come se uomini e cose non avessero un domani. Nello specchio stregato della loro voce, Odisseo può godere il riflesso di ogni sua trascorsa impresa, può vedersi celebrato come l’eroe che è stato un tempo. Ma, se quel piacere lo pervadesse totalmente, se egli finisse per coincidere, senza alcun residuo, con l’immagine del proprio passato, egli si trasformerebbe 66

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all’istante in un morto: un eroe defunto di cui restano solo le ossa e la trama poetica di una storia ormai conclusa. Per questo, se Odisseo deve vivere e sopravvivere, se deve tornare a Itaca, egli non può farsi catturare dalla voce delle Sirene e dall’immagine grandiosa di una storia finita: non può farsi prendere dal fascino di una forma bella e perfetta, rinchiusa su se stessa e senza più alcuna possibilità di mutare. Se l’Odissea stessa deve svolgersi e continuare, il suo eroe non può farsi consumare dal suono, ancorché piacevole, di un canto che promettere di ripetere, all’infinito, le vicende di Troia, i fatti già narrati dall’Iliade. Seguendo i consigli di Circe – anch’essa incantatrice esperta di filtri e di magie – Odisseo, dunque, procede oltre, senza farsi arrestare dallo specchio canoro della propria gloria. Ma, per chi non voglia o non debba proseguire il proprio viaggio per le vie della terra e del mare, il canto stregato delle Sirene può essere anche la scelta deliberata di una fine, la scelta di una liberazione dalla vita mortale: farsi consumare dal canto fino a che la carne non si stacchi dalle ossa, ascoltare il bel racconto della propria storia in una ricapitolazione che la suggella e la chiude per sempre. Il prato fiorito, cosparso di mucchi d’ossa, diviene allora un viatico per le stelle: un accesso al regno che sta al di là dei confini terreni, una guida benefica, e per nulla terribile, alla dimensione divina in cui si aggirano le anime disincarnate volteggiando nel cielo. Per chi agogni a tale differente viaggio, la figura delle Sirene non avrebbe perciò nulla di pauroso o di temibile, poiché il loro incantesimo è proprio ciò che permette il transito all’invisibile: “Il loro non è un canto funesto [...],” dice il saggio Plutarco, “la 67

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loro musica suscita l’amore per le cose celesti e divine, instillando l’oblio delle realtà mortali. Con il suo sortilegio, tale musica possiede e incanta le anime ed esse, ricolme di gioia, seguono le Sirene, unendosi al loro moto circolare” (Questioni conviviali 745 b-e). Per i seguaci di Pitagora e di Platone, infatti, la natura alata delle Sirene è ciò che consente a esse di librarsi fra gli astri, accompagnando la rivoluzione circolare dei pianeti: posate, come divini volatili, sui cerchi del grande fuso cosmico retto dall’inflessibile Necessità, esse cantano, all’unisono, l’armonia delle sfere (Platone, Repubblica 617 b-c). Se il dolce dono delle Muse nutre la vita degli uomini come un’acqua che feconda, la voce ammaliante delle Sirene dischiude il passaggio che, attraverso la morte, conduce a un’altra dimensione e a un’altra vita.

Un potente signore Nel transito dalla prima età arcaica al cuore del periodo classico, i sortilegi delle divine fanciulle non cessano di ispirare la riflessione e la pratica di una parola che voglia essere efficace. Anche quando il nome delle Muse e delle Sirene non viene esplicitamente pronunciato, il loro dono e il loro divino insegnamento, non di meno, continua ad agire. Con il pretesto di scagionare Elena dall’infame accusa di essere un’adultera, causa di infinite morti sotto le mura di Troia, Gorgia si sofferma a celebrare la forza incantatrice della parola in piena continuità con quelle scene di ammaliante dolcezza che l’antica tradizione aveva 68

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fissato. Quale colpa mai potrà essere imputata a Elena – chiede Gorgia – se un lógos, se una parola o un discorso, l’hanno persuasa, obbligandola a fare e a pensare ciò che le veniva detto? Il lógos, infatti, è potenza che “costringe” e “violenta” la mente senza possibilità di scampo o di difesa: “Il lógos,” continua Gorgia nello slancio di una vera e propria celebrazione, “è un grande e forte signore, che, con un corpo piccolissimo e assai poco appariscente, realizza le opere più divine” (fr. 11,8). La parola è solo un soffio impalpabile che muove e attraversa l’aria: non si direbbe nemmeno che abbia consistenza corporea. Eppure, anche così, essa riesce a produrre effetti straordinari che soggiogano e forzano chi l’ascolti, modificando opinioni e sentimenti, inducendo gesti e azioni fino a poco prima inconcepibili e impensati. Gorgia non ha dubbi nel definire la natura del lógos come goetéia e magéia, “fascino” e “magia”, che si estrinsecano in éntheoi epoidái, “incantamenti divini”: “Insinuandosi nell’anima, unendosi alla sua facoltà di opinare, la potenza dell’incantesimo strega la psiche, la persuade e la trasforma con il suo fascino” (fr. 11,10). Il fatto che il lógos assuma la forma di un canto poetico oppure la veste piana di un discorso in prosa poco importa: la sua forza riesce, in ogni caso, a plasmare e a “modellare” (tupóun) l’anima a proprio piacimento. In tal senso, l’azione e l’effetto del lógos è del tutto analoga a quella di una droga o di un farmaco che intervengano a modificare la fisiologia dell’organismo: “Tra la potenza del lógos e la disposizione dell’anima intercorre lo stesso rapporto che sussiste tra la prescrizione di phármaka e la natura del corpo. Come alcune sostanze espellono dal corpo certi umo69

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ri, altre fanno cessare una malattia e altre ancora pongono fine alla vita, così alcuni lógoi procurano dolore, altri infondono piacere, altri ancora suscitano paura o coraggio, e altri, infine, stregano e affatturano l’anima con una malvagia persuasione” (fr. 11,14). Muovendosi tra gli estremi opposti della terapia e dell’intossicazione, la magia della parola manipola, in modo irresistibile, tanto il colore delle emozioni quanto il contenuto dei pensieri. Con potere benefico, essa può “far cessare il terrore” ed “eliminare la sofferenza”, ma può anche, quando lo voglia, sconvolgere, suscitando queste stesse affezioni. Nello stesso modo, essa è in grado di modificare, in ogni direzione, le dóxai, le “opinioni” degli uomini. Allora, ciò che è “oscuro e incredibile” può apparire, d’incanto, come una cosa chiara e del tutto evidente. Del pari, qualsiasi cosa venga formulata con “arte” dispensa l’immediata ed efficace illusione di una luminosa verità. Il sortilegio del lógos consiste, dunque, in ultima analisi, nella persuasione prodotta da una sapiente apáte, da un “inganno”, che si estende, virtualmente, a ogni cosa e a ogni soggetto. A differenza delle Muse antiche, che sanno dire tanto l’apparenza quanto la verità, Gorgia – come altri pensatori dell’età classica – non crede che alcuna verità sia accessibile all’uomo. Non ritiene che dell’essere e del divino vi possa essere conoscenza alcuna e, se anche vi fosse, non sarebbe in alcun modo comunicabile. La veggenza delle divine fanciulle, capaci di abbracciare la totalità del tempo e della realtà, non sarebbe cosa a cui i mortali, nemmeno per ispirazione, possano attingere. “Se tutti avessero memoria del passato, riflettessero sul presente e conoscessero 70

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il futuro, il lógos, pur rimanendo lo stesso,” egli afferma, “non riuscirebbe a produrre inganno” (fr. 11,11). Nei fatti, tuttavia, ciò non si dà in alcun modo: non vi sarebbe nessun mezzo e nessun sapere che consenta di abbracciare passato, presente e futuro in un unico sguardo né, ancor meno, di affermare la verità dell’essere all’interno di un discorso. Non resta dunque che l’apáte, l’“inganno”, a regnare incontrastato nel mondo e nell’esistenza dei mortali: ingannare ed essere ingannati è l’unica constatabile verità. Gli uomini non dispongono – insiste Gorgia – che di “opinioni vacillanti e instabili” per orientarsi nel corso della vita. E altrettanto “labili e vacillanti” sono, di necessità, i risultati che, di volta in volta, nella trama degli eventi, essi riescono a conseguire. In tale orizzonte, la magéia della parola e del discorso, pur facendosi erede di un’antica tradizione e facendo tesoro della sua esperienza, non mostra più alcun effettivo legame con il sacro né si dispone all’ascolto di alcuna voce divina. Lontano dalle valli del Parnaso e dell’Elicona, nella città degli uomini che si disputano potere e ricchezze, l’incanto si riduce all’arma di una persuasione spesso “malefica”, alle risorse raffinate e ipnotiche di una retorica spesa per vincere e imporsi sugli altri, nel tribunale, nell’assemblea politica, nella contesa dei supposti sapienti. È profano mezzo per affatturare le menti, guidandole ai propri scopi. In tale contesto, “inganno”, e nient’altro, è, alla fine, la poesia stessa. Un inganno forse più bello e più piacevole di altri, al quale – osserva Gorgia – sarebbe “saggio” cedere e abbandonarsi (fr. 23). “Definisco tutta la poesia,” scrive Gorgia, “come un lógos dotato di forma metrica: chi lo 71

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ascolta è preso da un fremito pieno di terrore, da una compassione colma di lacrime, da una voglia di provare dolore” (fr. 11,9). Grazie alla poesia, infatti, l’anima “patisce”, come una “propria affezione”, gli eventi di ogni sorta, che accadono ad altri. È il piacere di immedesimarsi totalmente nelle vite altrui, nelle disgrazie o nei successi dei personaggi che la parola poetica evoca e porge al suo pubblico. È il piacere di farsi travolgere dalle emozioni, quando il cantore narra gli “infiniti lutti” degli Achei nella piana di Troia o quando la scena tragica esibisce la sventura fatale degli eroi. Alla misura di questo godimento e alla perfetta riuscita dell’inganno – che il poeta “migliore” saprà realizzare con arte consumata – si ferma, per Gorgia, il dono delle Muse. Occorre volgersi ad altre voci – a quella, per esempio, di Platone – perché il canto e la voce delle divine fanciulle siano ricondotte alla loro sorgente sacra, perché la magia della parola sia irraggiamento di una sovrumana bellezza.

La voce dell’usignolo Prima di lasciare questo sentiero, ove il ronzio delle api si è intrecciato con il piacere e il sortilegio della poesia, vale la pena, forse, di soffermarsi su un altro essere alato la cui voce spesso fa da specchio al dono delle figlie di Zeus. Il sorgere di un nuovo giorno, così come l’arrivo festoso della bella stagione, sono accompagnati dalla voce garrula e acuta dell’aedón, dell’“usignolo”: “Nunzio della primavera, usignolo dalla voce amabile,” dice Saffo (fr. 136); 72

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2. dolce come il miele

“Quando la luce dell’alba interrompe il sonno e desta gli usignoli” scrive Ibico (fr. 303). Il suo canto melodioso è uno dei simboli pregnanti con cui il dono delle Muse rappresenta se stesso: “Cantare con la voce limpida dell’usignolo” è, infatti, il desiderio di ogni poeta (Teognide, Elegie 539). E chi riesca a infondere grazia alle proprie opere non ha esitazioni a paragonare se stesso all’“usignolo dalla voce di miele” (Bacchilide, Epinici 3,98). Ma, nel verso di questo volatile, non vi è solo l’incanto della dolcezza e della sonorità carezzevole. A ben ascoltare, infatti, le sue note sono screziate anche da un timbro di malinconia e di pena, dall’eco di un dolore che riposa nella storia stessa dell’usignolo. Quell’essere piumato non sarebbe, infatti, che la metamorfosi ultima di una donna che, per vendetta o per errore, aveva, in un tempo lontano, massacrato la sua stessa prole: “La figlia di Pandareo, l’usignolo immerso nel verde, canta in modo soave,” racconta l’omerica Penelope, “quando torna la primavera, e, nascosto nel fitto fogliame, esso diffonde i suoi gorgheggi, modulando variamente la voce, mentre piange Itilo, il suo amato figlio, che un giorno uccise, presa dalla follia” (Odissea 19,518-522). Nella sua versione più nota, il nome di quella donna infanticida è Procne, sorella di Filomela e sposa di Tereo, re della Tracia. Tereo, preso da turpe passione, aveva stuprato Filomela e le aveva mozzato la lingua perché non avesse modo di rivelare l’autore del crimine. Ma le due sorelle riuscirono a comunicarsi l’accaduto e Procne, per punire il marito, gli imbandì un banchetto con le carni del figlio. Per volere degli dèi, i tre furono trasformati in uccelli: Tereo in un’upupa, Filomela in una 73

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rondine e Procne, appunto, in un usignolo. Talora le parti s’invertono ed è Filomela a diventare usignolo con un canto in cui risuona non tanto l’omicidio del bimbo quanto l’atrocità dello stupro. Violenza e rimpianto, orrore e sofferenza sarebbero, dunque, l’origine e il nucleo segreto di quella voce così dolce e incantevole. Un’armonia di suoni che sprigiona dalla follia e dal delitto più efferato. Rovesciando la prospettiva, si può anche pensare che quella morte, quell’atto cruento siano stati, in realtà, una sorta di tributo necessario, un sacrificio terribile, ma dovuto, affinché le figlie di Zeus concedessero, in cambio, il dono del canto, trasfigurando lo strazio dell’anima e della carne in musica e parola: “Procne ha ucciso il suo unico figlio, ma il suo, posso dirlo, è stato un sacrificio offerto alle Muse,” afferma significativamente Euripide in uno dei suoi cori (Eracle 1021-1022). Per questo, il verso dell’usignolo – che sembra ripetere incessantemente il nome del figlio defunto – si presta a diventare l’emblema della poesia che dice il dolore e, più in particolare, della Musa tragica nella sua tonalità più caratteristica. L’uccello che gorgheggia nel folto del bosco è la cifra espressiva propria degli eroi e delle eroine piegati dalla sventura. “Non smetterò mai di piangere e di gemere,” dice Elettra, orfana del padre Agamennone, “non cesserò di far risuonare il mio dolore, come l’usignolo che ha perduto la sua prole [...]. Al mio animo si accorda l’afflitto, querulo uccello, che sempre ‘Iti, Iti’ geme nel suo canto” (Sofocle, Elettra 104-109, 148-149). In questa effusione di pianti e di gemiti, il canto acuto dell’usignolo mantiene, tuttavia, un tratto di dolcezza, una sua partico74

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2. dolce come il miele

lare soavità, proprio perché consente alla pena di trovare sfogo ed espressione: “È dolce piangere e lamentarsi e cantare di dolore, quando si soffre” (Euripide, Troiane 608-609). Il melodioso usignolo dispensa questo piacere, all’apparenza paradossale, di piangere e di far lamento, di lasciarsi andare alla commozione, versando lacrime su di sé e sul proprio destino. Dispensa questo piacere ai personaggi che, nei versi o sulla scena, trovano modo di esprimere lo strazio che li schianta. Ma dispensa tale godimento anche a chi li ascolta e, ascoltandoli, s’immedesima nelle loro storie, poiché in esse trova lo specchio della propria pena. Nella nostra anima – osserva Platone – c’è una “parte che ha sempre voglia di lacrime e di singhiozzi” (Repubblica 606 a). E la benevola Musa non manca di soddisfare anche questo bisogno, affinché gli uomini possano trovare sollievo e conforto ai travagli della loro esistenza mortale.

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3. L’ARCO E LA CETRA DI APOLLO

Frecce infallibili Quando Apollo s’avvicina, con la sua figura bella e terribile, tutti tremano. Anche gli dèi. Nella dimora del­ l’Olimpo, egli irrompe all’improvviso, tendendo il suo “arco raggiante”. I celesti balzano in piedi, sorpresi e spaventati da quell’impeto e da quel gesto che adombra un’aggressione. Solo Latona, sua madre, rimane tranquilla. Con fare amorevole, gli chiude la faretra e lo spoglia del temibile arco. Ella appende l’arma a una colonna e, in cambio, gli porge una coppa, perché il timore si muti in serenità e in pacifico accordo (Inno omerico ad Apollo 1-12). Così deve essere e così tante volte era stato. Sulla vetta dell’Olimpo, infatti, la presenza del dio suole richiamare la gioia sonora della festa. L’arco, allora, riposa perché, al suo posto, subentrino gli accordi della cetra. Deponendo ogni minaccia, Apollo si fa mousaigétes, “guida delle muse”, perché sorga il piacere della musica a rallegrare il convito degli dèi: “Essi banchettarono fino al tramonto e a nessuno mancò giusta porzione di cibo, né il suono della cetra meravigliosa di Apollo né il canto delle Muse, che alternavano le loro bellissime voci” (Iliade 1,600-604). Ma la stes77

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sa atmosfera regna anche tra gli uomini, ogniqualvolta la cetra apollinea risuoni, poiché la musica e la poesia ispirata dal dio infondono, negli animi, serenità e pace: il “buon ordine alieno da ogni conflitto” (Pindaro, Pitiche 5,65-66). Tra l’opposta tensione di queste due differenti corde, tra gli estremi dell’arma e dello strumento, si muove, dunque, il potere di Apollo. Del resto, era stato proprio lui a proclamarlo, quand’era ancora un tenero infante. Spogliandosi delle fasce e dei nastri in cui la madre l’aveva avvolto, il fanciullo divino gridò raggiante: “Siano miei privilegi la cetra e l’arco ricurvo” (Inno omerico ad Apollo 131). Non sempre, tuttavia, v’è qualcuno che, come Latona, possa disarmare il dio. Non sempre i dardi cedono al canto. Tanto più che i due privilegi, talora, paiono richiamarsi a vicenda giusto nella dimensione del suono. Uno stesso verbo, psállein, indica la vibrazione dell’arco e il canto dello strumento, quando la corda è pizzicata con arte. All’inizio dell’Iliade, Apollo, con il cuore gonfio d’ira, scende dalle vette dell’Olimpo per raggiungere la piana di Troia. Le frecce nella faretra risuonano mentre egli avanza “simile alla notte”. Il dio della luce solare sa mutarsi in fosca tenebra ogni volta che il suo furore sia provocato. I Greci hanno offeso il suo sacerdote, ed egli, rispondendo alla preghiera di una giusta punizione, decide di seminare strage nell’accampamento. Apollo, che sa guarire ogni male ed eliminare ogni impurità, lui che è signore della medicina, colpisce i Greci con la contaminazione di una peste che miete l’esercito. Senza avvicinarsi, gli basta scoccare, a distanza, le sue frecce per spargere il contagio della morte: “Si fermò lontano dalle navi e scagliò un dardo: 78

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3. l’arco e la cetra di apollo

pauroso fu il suono del suo arco d’argento” (Iliade 1,58). Perché anche l’arco ha una sua voce e una sua melodia. Perché anche l’arco sa cantare, ancorché la sua musica sia tremenda e letale: “L’arco risuonò,” dice un altro passo omerico, “la corda stridette acuta e la freccia appuntita balzò bramosa di volare fra la folla” (Iliade 4,125). Un analogo intreccio si presenta a Itaca, quando Penelope bandisce una gara per decidere – così sembra – chi tra i Pretendenti avrà il diritto di prenderla in sposa. È il giorno della luna nuova, il giorno consacrato ad Apollo. La regina prende, dalla sala del tesoro, il grande arco lucente che era stato di Odisseo e fa allineare dodici scuri: chi riuscirà ad attraversarne gli ocelli con un’unica freccia sarà il vincitore. Nessuno, tuttavia, riesce a maneggiare, con successo, quell’arma possente. Dopo che altri hanno provato, Odisseo, che ancora si cela nelle vesti di un oscuro mendicante, chiede di poter tentare anche lui. Con cura, egli prende l’arma tra le mani e la rigira osservandola, al modo di un abile suonatore che accorda il proprio strumento: “Come un uomo esperto della cetra e del canto tende, senza sforzo, la corda intorno alla chiavetta, fissando ai due estremi il budello ritorto di pecora, così Odisseo, senza sforzo, tese il grande arco” (Odissea 21,404-409). Al semplice tocco della sua destra, la corda, all’apparenza impossibile da tendere, prende a cantare, emettendo “un suono bellissimo, simile a voce di rondine”, e i Pretendenti, presi dallo spavento, impallidiscono tutti. Alla musica sorprendente dell’arco subentra, subito dopo, la rivelazione dell’eroe che, con quell’arma, si appresta a far strage dei suoi nemici, trafiggendoli uno a uno. 79

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Balzando vittorioso sulla “grande soglia”, Odisseo proclama, nel nome del dio arciere, l’inizio di una mattanza: “L’ardua gara è superata e ora colpirò un altro bersaglio [...], se Apollo me ne concede la gloria” (Odissea 22,5-7). Se le Muse, se le fanciulle della Memoria dispensano dolce miele, i privilegi del maschile Apollo paiono per contro intrecciare, in un indissolubile nesso, la bellezza del canto e l’orrore ultimo della morte: il suono della musica e il grido della strage, l’incanto della cetra e il sibilo sinistro del dardo fatale. Quasi a voler ricordare agli umani che tutto ciò si origina, per loro, in un unico punto. Quasi ad ammonire che morte e poesia – ciò che segna la fine e ciò che nutre la vita – si richiamano a vicenda, celandosi l’uno nell’altra, e solo a pochi è data la maestria di dominarle e comprenderle entrambe. “Il nome dell’arco (biós) è vita (bíos), ma la sua opera è la morte (thánatos)” diceva, con allusiva sapienza, Eraclito, indicando la coincidenza tra ciò che uccide e ciò che fa vivere (fr. 48). Arco e lira sono, in egual modo, simbolo di un’unica nascosta armonia che, lungo una corda tesa, muove unendo gli estremi contrari di un conflitto che è vita e insieme morte di tutte le cose (fr. 51). Ma la corda sonora dell’arco richiama alla mente anche un altro aspetto dei doni che provengono da Apollo e dalle Muse: un tratto che segna, in maniera caratteristica, la natura e l’efficacia della parola che circola tra bocca e orecchio. Pronunciare discorsi è, infatti, rivolgere ad altri épea pteróenta, “alate parole”, secondo un’espressione che tante volte ritorna nei poemi omerici e nella poesia che a essi attinge. Le parole sono piccoli esseri ricoperti 80

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3. l’arco e la cetra di apollo

di piume, che si librano fendendo l’aria. Forse sono come uccelli che, spiegando le ali, volano leggeri e sicuri per poi posarsi, di nuovo, quando raggiungono la loro meta. Ogni pensiero che si fa discorso sarebbe come il levarsi di uno stormo che spicca il volo. O forse, ancor meglio, le parole sono dardi. Di piume, infatti, sono dotate anche le frecce scoccate dall’arco: le frecce che “balzano via dalla corda” tesa, quasi si animassero di vita propria, impazienti di colpire il bersaglio (Iliade 16,773). Le parole che fuoriescono dalla chiostra dei denti, ‘scagliate’ dal respiro e dal moto della lingua, si muovono veloci nell’aria e, come le frecce, si volgono diritte a centrare colui che le ascolta. La natura alata della parola-dardo suggerirebbe insieme la sua rapidità e la sua efficacia nel trasmettere pensiero e nel suscitare risposta. Ma a volare non è solo la parola pronunciata. Alati sono anche, e soprattutto, gli inni e le odi che gli dèi sanno ispirare. Un dardo infallibile, che non si perde nel vuoto, è sempre il canto scoccato dall’“arco delle Muse”: “dolce freccia” che non “cade a terra” quando un poeta fa “vibrare le corde della cetra”; “frecce gloriose” che l’attenzione ispirata indirizza, a colpo sicuro, cogliendo tanto l’oggetto che si vuol celebrare quanto l’animo di chi ascolta (Pindaro, Olimpiche 2,88-89; 9,5-12). La vera poesia è una freccia che, unendo la mira infallibile al moto istantaneo, trafigge il cuore e la mente. Come l’arco, anche la parola e il canto non abbisognano della prossimità fisica e della contiguità dei corpi: lanciati da lontano – senza che talora se ne possa nemmeno vedere la fonte o la traiettoria – raggiungono indefettibilmente il segno. Perché tutto ciò accada, occorre, tuttavia, che il 81

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cantore sia sapiente di una sapienza radicata nell’intimo del suo stesso essere. A poco valgono i contenuti appresi se la conoscenza non è natura e immediatezza intuitiva, se il poeta non si fa aquila che vola alta verso il sole: “Sotto il braccio,” dice Pindaro, “ho molti rapidi dardi che parlano a chi comprende [...]. È poeta chi molto sa per natura. Quelli che hanno imparato schiamazzano, invece, come corvi turbolenti contro l’aquila divina di Zeus” (Olimpiche 2,82-87). In questo intreccio dell’arco e della cetra, della parola e del dardo, la figura di Apollo non fa che evocare la traccia di immemoriali archetipi. Anche nell’India vedica, la dea Vac, la “Parola” sovrana, dispone di arco e di frecce, al pari del temibile figlio di Latona. A lei spetta, in modo analogo, di custodire il sacro e di colpire chi offende il sacerdote. A lei tocca, ancora, la custodia dei metri e dei canti che presiedono alle relazioni di uomini e dèi, penetrando, come dardi, tutto il cielo e tutta la terra.

Un’invenzione altrui La cetra d’oro con cui il dio suole accompagnare le Muse, lo strumento che egli rivendica come tratto esclusivo, non è, in realtà, cosa che gli appartenga sin dall’inizio. La sua origine s’intreccia con una storia ambientata in Arcadia, nell’antro ombroso di una “venerabile Ninfa dai bei capelli”. Con lei Zeus amava unirsi di nascosto, nel “buio della notte”, disertando l’Olimpo e il letto coniugale di Era. Il frutto di quei segreti e occulti amplessi si palesò 82

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al compiersi della “decima luna”, quando Maia – così si chiamava la Ninfa e il nome vuol dire “mamma” o “nutrice” – mise al mondo un bimbo dalla singolare natura: il piccolo Ermete, precoce quanto nessun altro era mai stato. Nel primo giorno di vita, quando qualsiasi altro infante si agita nella culla, egli già compie due “gesta famose” che ne definiscono il carattere e insieme introducono un nuovo suono nell’universo divino: “Nato all’aurora, a mezzogiorno suonava la cetra, e, dopo il tramonto, rubò le vacche di Apollo arciere,” racconta l’Inno omerico a Ermete, scandendo la prodigiosa sequenza di eventi (vv. 17-18). Poco dopo essere stato partorito, infatti, il bimbo divino, non si sa come, riesce già a camminare e sgattaiola via dalla caverna. E subito, là fuori, si imbatte in una tartaruga che zampetta placida nell’erba. La vista dell’animale suscita il riso squillante del dio, come dinanzi alla scoperta di qualcosa di grazioso e insieme sorprendente. La tartaruga gli sembra un kalón áthurma, un “bel giocattolo”, che promette un piacevole divertimento. In un istante, il dio già vede che cosa potrà diventare quell’essere il cui guscio è rotondo come il cielo e il ventre piatto come la terra, quel placido animale che anche Afrodite amava perché immagine della natura intima e segreta del femminile. In un istante, ancor prima di mettervi mano, Ermete già immagina che l’animale diverrà “amico dei banchetti” e “compagno della danza”. Senza attendere oltre, Ermete porta la tartaruga dentro l’antro, e, in men che non si dica, insinuando una lama nel guscio, ne estrae l’aión, la “sostanza vitale”: “Come quando un pensiero veloce attraversa il petto di un uomo [...] 83

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o come quando un lampo di luce balena dagli occhi, così il glorioso Ermete pensava insieme parola e azione” (Inno omerico a Ermete 43-46). Un’idea fulminea che sorge nella mente, un illuminarsi improvviso che traspare nello sguardo, un pensiero che elimina il tempo e la distanza, facendo coincidere in uno il pensiero, la parola e la realizzazione immediata dell’atto: sono, questi, i tratti che caratterizzano, da allora e per sempre, la figura di Ermete e di coloro che al dio si ispirano. Sagomando il guscio della tartaruga – che di lì a poco diviene, suo malgrado, “canora” – il dio vi infigge due canne a fare da bracci, li unisce con una traversa e, nel centro, tende sette corde di minugia di pecora, che siano in reciproca armonia. Quando il lavoro è completato, prova a percuotere lo strumento con un plettro per vedere che cosa accade. Dall’“amabile giocattolo” si sprigiona un “suono prodigioso” ed Ermete, allora, si mette a cantare improvvisando, “come fanno i giovani, nelle feste, sfidandosi con versi pungenti” (Inno omerico a Ermete 55-56). In una mescolanza, infatti, di serietà e di maliziosa spudoratezza, egli prende a celebrare gli amori di suo padre e di sua madre, quegli adulterini abbracci cui doveva la propria nascita. Prima di ogni altra cosa, con la musica e la parola, Ermete dice il desiderio e insieme la novità della propria divina natura. Se nei banchetti degli uomini canto e cibo si incontrano, non stupisce che, dopo aver provato la sua invenzione, Ermete pensi subito a procurarsi della carne, ancorché egli stesso, essendo un dio, non sia propriamente destinato a cibarsene. Quando il sole è ormai tramontato e la te84

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nebra è divenuta fitta, il dio si reca ai monti della Pieria, ove si trovano le stalle e i sacri buoi degli dèi. Anche qui, tutto corre veloce. Impadronitosi delle vacche che appartengono ad Apollo, le porta via prestando ben attenzione a confondere le tracce. Armato di quella che diverrà la sua magica bacchetta, le fa procedere a ritroso, perché non si comprenda la direzione della mandria: tutte le impronte risultano così rovesciate. Con strane calzature intrecciate di frasche, egli si sposta inoltre da una parte e dall’altra, a rendere ancor più indecifrabile il percorso. Giunto infine in un luogo sicuro, Ermete mette al riparo una parte degli animali, mentre altri li uccide per allestire un sacrificio, quasi a offrire un esempio di quella pratica che gli uomini dovranno sempre seguire per ingraziarsi gli dèi. Quando ha terminato tutte le sue operazioni, egli fa ritorno alla grotta della madre, come se nulla fosse successo. Sono ormai le ultime ore della notte e la luna splende alta nel cielo, prima che arrivi l’alba. In quell’atmosfera ancora sospesa e silente, che più di ogni altra gli è congeniale, Ermete si muove furtivo senza che niente e nessuno si accorga del suo passaggio. Tanto il suo pensiero è istantaneo quanto il suo incedere resta impercepibile ai sensi e privo di ostacoli. Trasformandosi in un soffio di nebbia sottile, egli penetra attraverso la porta dell’antro, senza trovare resistenza alcuna. Rapido, inavvertito, impalpabile ed efficace come la magia di cui diverrà signore. Ma, quando si fa giorno, Apollo non manca di accorgersi del furto e, mettendosi alla ricerca del colpevole, non tarda molto a scoprire la verità, nonostante gli astuti accorgimenti usati da Ermete. Messo sull’avviso da un vecchio – a 85

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cui è parso di scorgere nell’oscurità uno strano bimbo –, Apollo giunge alla grotta. Intanto, Ermete, con la lira sotto l’ascella, si acquatta nella culla, tra le fasce, come un infante che, appena lavato, si appresti a dormire. Interrogato, il piccolo protesta di essere appena nato: come avrebbe mai potuto rubare vacche un tenero bimbo i cui unici pensieri sono il latte materno e il dolce sonno? Le sue astute menzogne non traggono, tuttavia, in inganno Apollo che ben comprende il carattere e la forza di quel “compagno della notte nera”. Preoccupato dallo straordinario potere che le sue azioni dimostrano, il dio tenta di immobilizzare il bimbo: già così pericoloso che c’è da augurarsi non cresca. Lo stringe in saldi legami di vimini, ma invano, perché non è possibile avvincere colui che governa ogni magico vincolo: quei lacci, come per miracolo, tornano a germogliare e si radicano al suolo, mentre una fiamma scintillante attraversa gli occhi di Ermete. Ma è tempo di stornare Apollo dalla sua collera e di trovare un reciproco accordo. Così, mostrando la cetra prima occultata, Ermete si mette a cantare, deliziando il suo divino interlocutore il cui cuore è subito permeato dalla dolce armonia di quei suoni. Il suo canto è una celebrazione degli dèi immortali: il racconto della loro nascita all’origine dei tempi e la descrizione delle prerogative a ciascuno assegnate, a cominciare, come è necessario, dalla dea della Memoria, madre delle Muse, perché proprio “a lei apparteneva il figlio di Maia” (v. 430). Ciò che Ermete intona è dunque, a tutti gli effetti, una teogonia, come quella che le Muse stesse avrebbero ispirato a Esiodo. Quasi si trattasse di un gesto inaugurale, posto prima di ogni altro, Ermete sembra fare 86

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ciò che poi ogni cantore avrebbe fatto, ascrivendosi al dominio della memoria divina e alla parola che dice la genesi del cosmo. Un tratto segnala, d’altro canto, la particolarità di tale ‘inizio’ operato dal dio. Con le proprie parole e con la melodia dello strumento, Ermete kráinei gli dèi immortali: il verbo, prima ancora che “celebrare”, significa propriamente “compiere”, “realizzare”, quasi che gli dèi stessi prendano forma ed esistenza proprio in forza di questo magico canto. Quasi che sia la musica di Ermete a portare, per la prima volta, a realizzazione la struttura divina del mondo. Tale è, d’altro canto, propriamente il carattere di quell’arte magica della parola che, nei secoli, continuerà ad avere in Ermete il suo protettore. Apollo rimane sorpreso e stupito dalla natura e dagli effetti di ciò che quel bimbo gli offre all’ascolto. Le domande si affollano sulle sue labbra: “Dimmi, figlio di Maia [...] quest’opera mirabile ti appartiene dalla nascita oppure qualcuno degli dèi e degli uomini ti ha fatto questo dono stupendo e ti ha insegnato un canto così divino? È nuova davvero questa meravigliosa musica che ascolto! Nessuno tra gli uomini o gli dèi ne ha mai saputo nulla [...] Che arte è questa? Che cos’è questo canto che suscita passioni irresistibili? Come si ottiene? Grazie a esso si ottengono insieme tre cose: la gioia, l’amore e il dolce sonno” (Inno omerico a Ermete 440-451). Non che Apollo fosse del tutto ignaro di musica, né tanto meno si può dire che, sull’Olimpo, l’arte del canto fosse sconosciuta prima di quel giorno. Già da tempo, Apollo era solito accompagnare le Muse nella “danza” e nella “fiorente melodia”. Già da tempo, la “luminosa via dei canti” e il “suono fascinoso” del flauto 87

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erano divenuti cosa familiare agli dèi e ai mortali. Ma nella musica di Ermete c’era qualcosa di nuovo e di assolutamente diverso da quanto era stato fino ad allora praticato. Nel racconto, la novità parrebbe coincidere con il dato materiale, ovvero con quella geniale invenzione della “tartaruga canora”, di cui Ermete sarebbe il primo artefice. E tuttavia l’inaudito non si limita forse a questo né all’arte necessaria per suonare tale strumento. La cetra imbracciata da Ermete è, semmai, un simbolo di quanto il figlio di Maia è capace di infondere, più in generale, nell’orizzonte sonoro. Non si tratta di un genere nuovo che venga ad aggiungersi a quelli cui Apollo e le Muse sarebbero già dediti. Non si tratta, neppure, di una nuova forma – come potrebbe essere, per esempio, la poesia simposiale – concepita o elaborata per arricchire un quadro già altrimenti caratterizzato dalla presenza di differenti risorse: le vie della narrazione epica, le danze della lirica corale o le melodie del flauto. Il nuovo che conquista Apollo è piuttosto una qualità particolare che sprigiona da quel bimbo divino, qualcosa che è inscritto nella sua natura e lo rende diverso dagli altri immortali. È la medesima qualità che gli brilla come un lampo negli occhi e lo fa essere amico della notte profonda e della luna splendente. Un intreccio in cui si fondono desiderio e astuzia, intuizione e malizioso scherzo, fugace volatilità e mirabili portenti. Anche le Muse, lo sappiamo, non sono affatto estranee alle virtù degli incanti. Ma è come se Apollo si rendesse conto, in quel momento, che musica e poesia non possono darsi senza magia. Come se il dio scoprisse che l’arte del canto ha bisogno di un ‘ermetico’ influsso per essere completa e perfetta. 88

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3. l’arco e la cetra di apollo

E a questo allude anche il passaggio di consegne con cui si chiude la scena. Per fare pace, Ermete offre la cetra ad Apollo, investendolo di quel compito che sarà per sempre suo: “Poiché il tuo cuore brama di suonare la cetra, ecco, canta, suona e abbandonati a questo piacere che io ti dono [...]. D’ora in poi, sii lieto e portala con te, dovunque vi siano banchetti fiorenti, amabili danze e splendide feste perché dia gioia di giorno e di notte” (Inno omerico a Ermete 477-483). Per parte sua, Ermete avrebbe abitato negli spazi a lui più congeniali, tra pascoli e monti, come s’addice al figlio di una Ninfa, in compagnia di un nuovo strumento, la bucolica zampogna, che fa compagnia ai pastori. Avrebbe portato fortuna ai mortali che avessero inteso il sussurro della sua voce, catturando un’illuminazione fuggente o un’inattesa scoperta. Apollo, tuttavia, non è ancora tranquillo. E se quel “furfante”, quel “manigoldo”, capace di ogni trucco facesse solo finta? Se gli consegnasse la cetra solo per poi sottrargliela insieme all’amato arco? Meglio impegnarlo con un solenne giuramento. Ermete promette che non avrebbe mai più rubato nulla al divino arciere. E Apollo, facendo a sua volta promesse di amicizia e rispetto, gli offre in cambio un dono che, in modo analogo alla cetra, definisce la prerogativa di un potere divino: “Ti renderò il perfetto mediatore tra uomini e dèi, ti darò la splendida verga d’oro della prosperità e della ricchezza, il caduceo trimembre, [...] che porta a compimento tutte le giuste parole e le giuste azioni,” secondo il volere di Zeus (Inno omerico a Ermete 524-532). Per gli uomini, nessun patto celeste, forse, è mai stato così benefico e fruttuoso. 89

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Versi e oracoli A dire il vero, Ermete avrebbe voluto anche un altro dono da Apollo. Il piccolo furfante desiderava partecipare dell’arte della veggenza di cui il padre degli dèi aveva investito il fratello: “Si dice che tu abbia appreso dalla voce di Zeus il vaticinio [...], ed è facile per te conoscere qualunque cosa tu voglia” (Inno omerico a Ermete 470-472). Ma Apol­lo non è affatto disposto a cedere ciò che costituisce il suo terzo grande ed esclusivo privilegio: “Né tu né nessun altro degli immortali può apprendere la divinazione. La conosce la mente di Zeus e io ho giurato [...] che, all’infuori di me, nessuno degli dèi, che vivono sempre, conoscerà mai il nascosto volere di Zeus” (vv. 533-538). Del resto, sin dalla nascita, Apollo aveva rivendicato tale ruolo: “Io rivelerò agli uomini il volere inflessibile di Zeus” (Inno omerico ad Apollo 132). Il divino arciere, il signore della cetra, è dunque anche la figura di questa sapienza che, con facilità e in un istante, coglie i disegni del fato e la trama nascosta del destino. Apollo è nóos, “mente che tutto conosce”: una mente che non può essere confusa da “alcuna menzogna né ingannata da uomini o dèi con atti o pensieri” (Pindaro, Pitiche 3,29-30). “Tu conosci l’esito e la via di ogni cosa,” disse, un giorno, al dio il saggio centauro Chirone, “tu sai quante foglie la terra fa crescere a primavera, sai quanti granelli di sabbia turbinano nel mare e nei fiumi sotto i colpi delle onde e del vento, tu vedi bene che cosa e da dove sarà il futuro” (Pindaro, Pitiche 9,44-49). Ed è da tale conoscenza, appunto, che sarebbero promanati, per i mortali, ogni vaticinio e ogni profezia. 90

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Ma per Apollo non era stato semplice trovare un luogo che divenisse stabile e gloriosa sede di tale sapere ispirato. Non era stato facile innalzare uno “splendido tempio” che fosse, nei secoli, “oracolo per gli uomini” (Inno omerico ad Apollo 247-248). Aveva girato in lungo e in largo per la Grecia e, solo dopo molte tappe, era infine approdato a Delfi, sotto la gola del Parnaso. Quel paesaggio gli parve adatto e congeniale ai suoi scopi. Ma in esso vi era un’inattesa presenza che si opponeva a ogni intrusione. Accanto a una fonte cristallina viveva, infatti, un mostruoso serpente, “grande” e “selvaggio”, “sanguinario flagello”, che toglieva la vita a chiunque osasse avvicinarsi. Alcuni dicono che si chiamasse Pitone. Altri affermano che fosse una femmina dal nome di Delfine. Era una creatura della madre Terra cui quel luogo, in verità, apparteneva sin dall’origine dei tempi. Là, ben prima che Apollo giungesse, la Terra e sua figlia Temide avevano benignamente dispensato profezie, e una Ninfa dei monti ne era stata custode insieme all’orrida serpe (Pausania, Guida della Grecia 10,5). Apollo, tuttavia, non esitò e, con una delle sue infallibili frecce, trafisse il mostro, che, urlando orrendamente e contorcendosi, lasciò la vita. Il dio lasciò il suo cadavere a púthein, a “imputridire” sotto il calore cocente del sole ed è per questo che il dio avrebbe ricevuto il nome di “Pizio” e Delfi stessa sarebbe stata nota anche come “Pito” (Inno omerico ad Apollo 363-374). L’insediamento di Apollo alle pendici del Parnaso sarebbe stato dunque un atto cruento: lo spodestamento di poteri più antichi, la conquista maschile di un dominio all’origine tutto femminile. Ma forse, nella storia violenta, 91

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vi era una segreta necessità che andava al di là della mera e apparente successione: la forza solare di Apollo doveva fondersi e unirsi al ventre della grande Madre, alla natura ctonia e segreta del serpente, perché Delfi – il cui etimo rinvia peraltro all’utero e alla matrice – potesse divenire un ‘centro’ perfetto di sapienza, un ‘centro’ dove l’alto e il basso, il cielo e la terra, si incontrano e comunicano: un ‘ombelico’ del mondo, a cui ogni umana vicenda sarebbe stata connessa e da cui il corso stesso della storia sarebbe dipeso. Più che uno spodestamento si sarebbe compiuta, allora, una feconda integrazione, una fissazione di potenze complementari in quella sorta di singolare alchimia che faceva cuocere al sole i resti del mostro della terra. Là, dunque, Apollo fece sorgere quel tempio che aveva tanto desiderato. Un tempio che, all’origine, era stato fatto interamente di alloro, la pianta tanto cara al dio quanto alle Muse. All’interno, una donna consacrata al dio, seduta su un tripode e avvolta da suffumigi, si faceva strumento di Apollo. Si diceva che ella inalasse il vapore proveniente da una spaccatura del suolo, ma, se ciò era vero, si trattava solo di un aiuto per entrare più agevolmente in quello stato di trance in cui il dio si faceva presente. In modo analogo alle Muse, a Dioniso o ancora ad Amore, anche Apollo è infatti un suscitatore di manía, di quell’alterazione di coscienza che apre al divino. Come osserva Platone, in fondo, non c’è che una lettera a distinguere la divinazione dall’esperienza dell’ispirata “follia”, tanto è stretta la relazione tra le due: la mantiké, l’arte con cui si conosce il futuro, non è altro che maniké, cui è stata aggiunta una “t” (Fedro 244 c). 92

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Al pari dell’ispirazione delle Muse, anche la trance connessa ad Apollo si traduce in una produzione di parole. Pizie o Sibille pronunciano, infatti, oracoli ed essi, almeno nei tempi più antichi, hanno forma di versi esametrici. Non a caso, “parola”, “verso” e “responso oracolare” possono essere, in ugual modo, designati dall’unico termine épos. Per questa ragione – osserva Plutarco – accanto al tempio delfico di Apollo vi era un santuario delle Muse: “Gli antichi posero qui le Muse come assistenti e custodi dell’arte divinatoria [...] appunto perché la profezia si dava in forma di poesia e di canto. Alcuni addirittura sostengono che proprio qui, per la prima volta, fu pronunciato un esametro”, il metro caratteristico dell’epica (Gli oracoli della Pizia 402 d). Apollo e le Muse non si incontrano, dunque, solo al suono della cetra, ma anche intorno al tripode mantico. Attraverso la voce sconvolta della Pizia, la sapienza del dio non si esprime, tuttavia, in parole e in versi perspicui, che dicano apertamente il futuro, soddisfacendo le ansie o i desideri di chi interroga l’oracolo. Nella formulazione di quel particolare épos, Apollo si manifesta come Lóxias, l’“Obliquo”. I versi dell’oracolo suonano oscuri e ambivalenti, costituendo l’occasione e la sfida di un’ermeneutica, di un’interpretazione, in cui, il più delle volte, i mortali miseramente falliscono. Anche l’oracolo è una freccia che viene scagliata da lontano e che raggiunge indefettibilmente il segno. Ma gli uomini spesso s’ingannano sulla sua traiettoria, poiché, nel dettato dell’oracolo, tendono a leggere ciò che è più favorevole alle proprie aspettative, quando non assumono, stupidamente, le parole alla lettera, senza chiedersi quali altri significati esse possano implicare. Così era 93

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accaduto a Creso quando aveva chiesto ad Apollo se il suo regno sarebbe durato a lungo. Il dio rispose che, qualora un mulo fosse divenuto re della Media, egli avrebbe dovuto fuggire a gambe levate. Creso ne fu tranquillizzato, ritenendo impossibile che un mulo potesse diventare re, ma non aveva pensato che l’animale, frutto di un incrocio tra asino e cavallo, alludesse al sangue misto di Ciro, il quale, divenuto signore di Medi e Persiani, distrusse puntualmente l’impero dello stolto Creso. In questi casi, a poco vale protestare contro il dio o la Pizia (Erodoto, Storie 1,54-55). La responsabilità dell’interpretare è tutta di chi riceve il responso, così come da lui dipende l’avverarsi stesso del destino. La parola-verso del dio non è mai un facile soccorso né una pronta soluzione. Apollo offre ai mortali la propria infinita sapienza nel nodo stretto di un enigma in cui l’uomo si gioca, ogni volta, la vita e la morte, la fortuna o la sventura, a seconda della sua capacità di scioglierlo nel modo opportuno. Come nota Eraclito (fr. 93), al dio non appartiene propriamente né l’esplicitezza del “dire” né l’intenzione univoca dell’“occultare” i disegni del destino: Apollo si limita, piuttosto, a semáinein, a “indicare”, a “dare un segno” a chi sia in grado e si impegni a intendere. Solo coloro, infatti, che accolgono la sua parola assumendola come segno ed enigma possono trarre frutto da essa. Per tutti gli altri, che la ascoltano come ascolterebbero qualsiasi altra parola, Apollo si rivela del tutto inutile, come se il suo sapere non valesse nulla o fosse addirittura banale: “Conosco bene la natura del dio,” dice Sofocle, “per i sapienti egli fa sempre enigmi con le sue profezie, ma per gli sciocchi egli è un maestro da poco e sbrigati94

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vo” (fr. 771). L’oracolo non offre propriamente una risposta, come certo gli uomini vorrebbero. Esso è piuttosto l’aprirsi di una domanda che viene rinviata al mortale, con la sollecitazione di una ricerca che rimette in discussione il soggetto stesso, quando questi accetti, con consapevole saggezza, di entrare nel gioco cui il dio lo invita. La mente di Apollo si rifrange nella voce e nelle parole della Pizia, mantenendo la sua lontananza, anche perché diversi, nella loro effettiva sostanza, sono i piani della realtà cui l’immortale e il mortale appartengono e la loro reciproca relazione non può che darsi nell’assunzione di tale differenza. “Apollo,” osserva Plutarco, “non ha certo l’intenzione di nascondere il vero, ma ne devia la chiara manifestazione, come un raggio di luce che, nei versi, si scompone in molti riflessi e si frange da ogni lato, e, così facendo, egli toglie al manifestarsi del vero la sua durezza e la sua asprezza” (Gli oracoli della Pizia 407 e). La verità si darebbe come una rifrazione luminosa sulla superficie poetica delle parole. Una rifrazione che attutirebbe, per la natura umana, il contraccolpo di un incontro immediato con il divino. Da questo punto di vista, il carattere “obliquo” dell’oracolo sarebbe forse simile alle “menzogne” delle Muse. In entrambi i casi, l’essere si adombrerebbe nel velo di un’apparenza, rilucendo, solo a tratti, nella materia delle parole. A chi ascolta resterebbe, se ne è in grado, il compito di afferrare quel bagliore, apprendendo a muoversi da una dimensione all’altra. Nel centro sacro di Delfi, nell’ombelico del mondo, la sapienza di Apollo non si lega, tuttavia, solo al dono della profezia, ma anche ad altre parole che accoglievano il visi95

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tatore, sollecitandolo a un lavoro su di sé. Sul pronao del tempio erano tracciate in lettere d’oro due celebri massime. A formularle, si dice, erano stati i Setti Sapienti della tradizione arcaica ed erano state lì trascritte perché il loro contenuto corrispondeva a quella fondamentale saggezza a cui il dio invitava gli uomini. Entrambe si risolvevano in un secco comando: “Conosci te stesso” e “Niente di troppo”. Frasi all’apparenza semplici e financo ovvie, ma dense, in realtà, di implicazioni molteplici e ardue da attuare se prese sul serio, come Apollo richiede. Conoscere se stessi significa, anzi tutto, diventare consapevoli della propria natura umana e dei limiti che contrassegnano ognuno. Significa osservare ed esplorare la propria costituzione fisica, le proprie passioni e i propri pensieri senza presumere di essere altro da ciò che si è e senza eccedere la giusta misura, come la seconda sentenza raccomanda, invitando a rifuggire il “troppo”. Perché è proprio la conoscenza di sé a far rinvenire, come necessaria conseguenza, la giustezza di una misura e di una forma da osservare in ogni circostanza dell’esistenza. Ma “conosci te stesso” vuol dire anche riconoscere la sostanza di un legame con il sacro e con il divino che definisce e irraggia la vita, orientandone la direzione e la prospettiva. Altre iscrizioni ornavano ancora le pareti ribadendo, sotto aspetti diversi, quel medesimo invito a stilizzare se stessi secondo gli aurei principi della forma e dell’ordine: “domina il tuo animo”, “odia l’arroganza”, “sia riverente la tua lingua”, “inchinati dinanzi al divino”, “abbi timore dell’autorità”, “osserva il limite”, “non vantarti della forza” erano gli insegnamenti che il dio voleva imprimere nella mente di ogni devoto. 96

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Assai più enigmatica era invece la scritta che campeggiava tra le colonne frontali del tempio. La costituiva un’uni­ca lettera, una “E” che si offriva come simbolo su cui meditare e di cui impregnarsi. “E” come ei, la particella interrogativa con cui i consultanti introducevano i loro quesiti chiedendo alla Pizia “se” sarebbero stati felici e fortunati. “E” come corrispondente del numero sacro cinque, che racchiude il segreto della perfezione del dio e della sua relazione con il mondo e la natura. “E” come éi, “tu sei”, con cui si riconosce e si celebra l’essere eterno e immortale di Apollo (Plutarco, La E di Delfi 386 c, 397 e). Dai versi oracolari a una semplice lettera, dall’oscurità dei responsi alla netta formulazione delle massime, Apollo non cessava di offrire “segni”, sollecitando e sfidando gli uomini a trovare la via della saggezza.

Luce Quando Latona era ormai prossima al parto del divino arciere e già lo strazio delle doglie le squassava il ventre, nessuna terra era stata disposta a darle accoglienza. Quella nascita imminente incuteva paura. Si era diffusa voce che sarebbe venuto al mondo un dio oltre modo atásthalon, “violento” e superbo. Si mormorava anche che la dea Era, gelosa per il tradimento di Zeus, si sarebbe vendicata non poco di chi avesse ospitato la rivale. Solo la piccola isola di Delo ebbe l’ardire di offrire il proprio suolo a Latona in cambio della promessa che là, un giorno, sarebbe sorto un magnifico santuario, meta di pellegrinaggio da ogni parte 97

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della Grecia. Fu così che Latona poté infine sgravarsi appoggiandosi a una palma che svettava al centro dell’isola: “Sorrise sotto di lei la terra quando Apollo uscì alla luce” (Inno omerico ad Apollo 118). L’epifania del nuovo dio suscitò meraviglia e attonito stupore. Un evento prodigioso allora si compì, benedicendo quel suolo ospitale: “Subito l’intera isola di Delo si coprì d’oro, contemplando il figlio di Zeus e di Latona” (Inno omerico ad Apollo 135-136). Tutto prese a risplendere di un fulgore abbagliante: le acque stesse del lago vicino alla palma parevano oro liquido e così pure i virgulti dell’olivo sembravano essere mutati in auree gemme. Questa luce preziosa e accecante non era solo un atto di consacrazione dell’isola, destinata a divenire un centro cultuale di primissimo rango. Era il riflesso della natura stessa del dio: il primo manifestarsi di una qualità che egli, più di ogni altro immortale, pare possedere come tratto precipuo. Una qualità che fa tutt’uno con la musica e con la sapienza di cui egli è signore e custode. Quando sull’Olimpo, infatti, Apollo imbraccia la cetra e si unisce alle danze delle Muse, è come se il suono meraviglioso del canto si moltiplicasse nel dardeggiare continuo di una luce che sprigiona scintille dal corpo divino: “Uno splendore luminoso (áigle [...] phaeiné) gli irradia attorno, balenano lampi dai suoi piedi e dalla bella tunica” (Inno omerico ad Apollo 202-203). E l’alone di questo bagliore avvolge e contorna tutto ciò che gli sta accanto, partecipando alla sua danza: le tre Cariti, che impersonano il dono della grazia; le Ore che scandiscono il ritmo delle stagioni; Armonia, che presiede al sinfonico accordo di 98

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ogni cosa; Ebe, l’incanto dell’eterna giovinezza; Afrodite che porta il piacere dell’amore; e, per un momento, financo il notturno Ermete e il bellicoso Ares sono catturati dal cerchio di quell’aura splendente. Quando è preso dal furore e dalla collera, Apollo, lo abbiamo visto, sa mutarsi in tenebra minacciosa, in notte di luna nera. Ma questo non è che il volgersi al negativo della sua stessa essenza solare, l’eclisse terribile del tratto che lo contraddistingue, come se il potere della luce custodisse, di necessità, al suo interno, anche il segreto di quella totale oscurità da cui la luce stessa, per la prima volta, è scaturita. Ma, nel suo volto benefico e salvifico, il dio è un raggio che illumina anche la nerezza più estrema. Quando gli Argonauti fanno ritorno dalla terra del Vello d’oro, a un certo punto della navigazione smarriscono la rotta e si trovano immersi in una caligine talmente fitta e oscura da avere il dubbio di essere sprofondati nel regno stesso della morte ed è allora che Apollo compare: “Mentre remavano, furono atterriti [...] da una notte funesta, senza stelle né chiarore di luna, nero abisso precipitato dal cielo od oscurità salita dai baratri più profondi [...], non sapevano neppure se navigavano sulle acque del mare o nel­l’Ade [...]. Ma, tu, Apollo, scendesti dal cielo [...], sollevasti in alto il tuo arco d’oro con la destra, e l’arco fece brillare tutt’attorno fulgido splendore, facendo apparire un’isola [...], là sostando, essi invocarono Apollo con il nome di Splendente (aiglétes) per la luce che li aveva guidati” (Apollonio Rodio, Argonautiche 4,1695-1715). Ma quell’áigle che scaturisce da Apollo, quello “splendore” che egli manifesta, non è, in realtà, che la sostanza 99

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stessa del divino e dell’essere immortale. È la cifra di ciò che sta al di là del finito e del mortale, del contingente e del caduco. L’Olimpo, il mondo degli dèi, coincide interamente con tale dimensione luminosa che si espande come una vibrazione costante ed eterna a reggere l’universo, perché áigle deriva appunto da una radice che vuol dire “vibrare”: “L’Olimpo [...], dimora sempre serena degli immortali, dove il vento non soffia, la pioggia non cade e non scende la neve, ma limpido si apre il cielo e un terso splendore (áigle) è sempre diffuso nell’aria” (Odissea 6,43-45). Questo splendore divino è pienezza suprema e insieme fonte sovrannaturale di ogni cosa che abbia forza e valore, tanto nella dimensione dell’essere quanto in quella del divenire. Ogni imperfetta realtà mortale si trasfigura, infatti, in qualcosa di compiuto e di integro nell’istante in cui sia bagnata da questo raggio celeste: “Sogno d’ombra è l’uomo,” afferma Pindaro, “ma quando lo splendore discende dal dio, una fulgida luce risplende sugli uomini e dolce è la vita” (Pitiche 8,95-97). Splendore e luce irraggiano là dove il vivere raggiunga un vertice di pienezza e intensità, là dove si attinga a una perfezione che pare trascendere, all’improvviso, il tempo e lo spazio. Gli eroi stessi, nel momento in cui raggiungono l’acme della loro potenza, scintillano di questa impressionante incandescenza, come avviene, ad esempio, ad Achille che sulla piana di Troia sprigiona luce come una stella ardente: “Attraversava la pianura risplendendo come l’astro di Sirio [...], che brilla fulgido nel cuore della notte fra miriadi di stelle” (Iliade 22,26-28). E così pure gli atleti, nel dispiegarsi della propria forza, sono “luce” che sfolgora nel traguardo della vittoria (Pindaro, 100

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Pitiche 3,84). Splendore è, in analogo modo, la bellezza stessa della parola poetica che illustra, nel senso più proprio, il manifestarsi magnifico dell’eroismo o lo straordinario compimento dell’impresa agonistica. Ogni cosa che eccella tendendosi al limite massimo, ogni cosa che divenga perfetta – parola, pensiero o azione – è una forma assoluta che vibra di luce, una forma che, proprio per la sua perfezione, è epifania abbagliante della natura divina. Nella bellezza del canto così come nei doni della sapienza – in quello che è il dominio dei suoi privilegi – Apollo non è che il manifestarsi di questa forma e di questa luce a cui i mortali agognano per trascendere gli angusti confini della loro condizione: l’oro abbagliante della cetra, le scintille della danza armoniosa, il dardo balenante che illumina il bersaglio della conoscenza, la luce del canto che celebra ogni sfolgorante successo.

Sole del Nord La luce di Apollo, tuttavia, non rifulge sempre e in ogni stagione. Vi sono periodi – nei mesi invernali o, secondo altri, al termine di un ciclo di vent’anni – in cui il dio lascia l’aurea Delo o le pendici boscose di Delfi per ritirarsi nelle lontananze irraggiungibili di un misterioso settentrione, ove un chiarore diffuso sembra non cedere mai il passo alla notte. È il paese degli Iperborei, l’estremo e assoluto Nord, che si estende, in modo letterale e insieme impensabile, al di là dello stesso Borea, il dio del vento gelido, la cui dimora è già di per sé l’opposto di ogni meridione. 101

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“Né per mare né a piedi tu riuscirai a trovare,” afferma Pindaro, “la via meravigliosa che conduce alla festa degli Iperborei [...]. La Musa è sempre con loro: ovunque vi sono danze di fanciulle, suoni di lira e riecheggiare di flauti. Con i capelli coronati di aureo alloro, essi banchettano allegramente. Né malattie né vecchiaia contagiano mai questa sacra stirpe. Senza guerre né fatiche vivono al riparo da Nemesi che punisce con severità ogni ingiustizia” (Pitiche 10,29-44). Questa terra – in cui Apollo ha, da tempo immemore, il suo “giardino” (Sofocle, fr. 956) – è un luogo paradisiaco dove la vita è simile a quella dell’età dell’oro, se non, addirittura, alla beatitudine perenne dell’Olimpo. Festa, musica, assenza di ogni male e di ogni turbamento contrassegnano l’esistenza dei suoi abitanti, rendendoli quanto più prossimi alla condizione divina. Il Nord assoluto, che coincide sostanzialmente con l’asse del polo e con il perno della rotazione celeste, la regione degli Iperborei, del tutto inaccessibile ai comuni mortali, è la casa del sole e della vita: il luogo che, all’interno dei confini del mondo, rappresenta la massima tangenza con il piano superiore dell’essere. La patria remota di Apollo è, a tutti gli effetti, simbolo di quel centro invisibile e segreto da cui dipendono e a cui si connettono, per necessaria influenza e legittimazione, i centri sacri altrimenti visibili nel mondo abitato dagli umani. Il polo iperboreo è la fonte che alimenta e sostiene l’“ombelico” di Delfi così come l’aurea Delo. Da quel Nord, si racconta, venivano periodicamente inviati doni che, attraverso un viaggio infinito, dovevano giungere in Grecia e, più in particolare, all’isola che aveva visto la nascita di Apollo: “offerte avvolte in paglia di grano” che 102

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dal settentrione arrivavano agli Sciti e che questi trasmettevano, a loro volta, ai popoli confinanti, dando luogo a una serie continua di passaggi fino alle coste dell’Adriatico e da lì, attraverso un ulteriore periplo, alle rive di Delo (Erodoto, Storie 4,33-34). Offerte la cui natura doveva, per altro, rimanere per tutti un segreto inviolabile (Pausania, Guida della Grecia 1,31). Questa inusitata e prodigiosa processione – questo dono sempre rinnovato e così accuratamente portato alla sua umana destinazione – pareva legare, come un filo, punti abissalmente lontani, ancorandoli in permanenza al “giardino” felice del dio. In tale catena vi è, peraltro, il simbolo stesso di ciò che si intende per ‘tradizione’: sapienza trasmessa ininterrottamente a partire da una luce e da una dimensione di natura superiore. Simbolo di una tradizione vivente e fondata proprio in virtù di quel vincolo mai rescisso con il suo ‘polo’ invisibile. Ogni volta, per recarsi a quei confini del mondo, Apollo sale su un carro trainato da candidi cigni, volando attraverso le vie dell’aria. E poi, quando è tempo di tornare, sono sempre questi mirabili uccelli, affini alla natura canora e solare del dio, a ricondurlo in terra greca, nei suoi santuari e nelle città a lui care. Nel pieno “bagliore dell’estate”, l’arrivo di Apollo è il rinnovarsi del dolce canto della cetra cui fanno eco tutte le creature dotate di voce armoniosa: in onore del dio “cantano gli usignoli [...], cantano le rondini e le cicale [...], le correnti della fonte Castalia si fanno d’argento e le onde del Cefiso rosseggiano come porpora” (Alceo, fr. 307). Nel fulgore di Apollo, ogni cosa diviene musica e bellezza, perfezione di forma e chiarezza di pensiero, così 103

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come all’opposto, il suo eclissarsi è perdita di sé, violenza e morte. Perché colui che dona la luce è anche chi ha il potere di sottrarla.

Coscia d’oro Si narra che, un giorno, dalla regione degli Iperborei discese un sacerdote di Apollo a visitare le terre del Sud e a raccogliere offerte d’oro in onore del dio. Il suo nome era Abari ed era depositario della più profonda scienza delle cose sacre. Aveva compiuto il lunghissimo viaggio con uno strumento magico che il divino arciere gli aveva fornito: una freccia alata a cavallo della quale – come è proprio degli sciamani, dei poeti e dei veggenti – poteva “volare attraversando luoghi altrimenti inaccessibili, come fiumi, paludi, stagni o montagne” (Giamblico, Vita di Pitagora 90). La freccia gli consentiva non solo di levarsi nell’aria, ma anche di compiere riti potenti: gli bastava rivolgersi a essa, pronunciando parole segrete, per essere in grado di allontanare pestilenze e tempeste di ogni genere. Esercitando quest’arte di taumaturgo e di purificatore – in nome di Apollo che è anche dio della purezza –, Abari arrivò in Magna Grecia e a Crotone incontrò Pitagora, la cui persona e il cui enorme sapere erano oggetto, per tutti, di meraviglia e di venerazione. Pitagora sembrava un “demone buono”, un essere divino che si aggirasse tra gli umani per istruirli e aiutarli. Ma, scrutandolo con attenzione, Abari non ebbe difficoltà a individuare, in modo più preciso e illuminante, la sua reale identità celeste: Pitagora 104

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non era che l’umano avatar dello stesso Apollo Iperboreo. Per fargli comprendere che lo aveva riconosciuto, il sacerdote gli offrì la magica freccia in un atto di simbolica restituzione. Pitagora la accettò e, trattolo in disparte, si alzò la veste, mostrandogli di avere una coscia interamente d’oro. Quel segno sovrumano era il marchio distintivo della sua essenza apollinea: natura aurea celata in carni mortali. Poi, senza esitazione, Pitagora enumerò, uno per uno, tutti i doni votivi presenti nel santuario iperboreo, mostrando di conoscere perfettamente quel luogo remoto. In modo ancor più esplicito, egli dichiarò, infine, la propria identità divina, spiegando di “essere venuto tra gli uomini per prendersi cura di loro e offrire doni benefici, dopo aver assunto un sembiante mortale perché essi non fossero sconvolti dalla superiorità del suo essere e non rifuggissero il suo insegnamento” (Giamblico, Vita di Pitagora 92). Tutto questo, si dirà, è mera leggenda. Ma ciò che conta è la diretta percezione che la figura raggiante di Apollo è fonte di ispirazione e di sapienza: modello di un modo di vivere e di pensare il rapporto con la natura delle cose. A cominciare dalla musica, che Pitagora e i suoi discepoli mettevano al centro delle loro pratiche e delle loro dottrine. Il cosmo tutto è perfetta ‘armonia’: congiunzione di qualità ed elementi secondo giuste proporzioni numeriche a partire dall’Uno divino che coincide con Apollo. Perché il dio è l’unità assoluta da cui discendono i “molti” (pollá). Secondo tale prospettiva, la trama segreta della realtà è racchiusa nella struttura stessa di un’ottava musicale, secondo i molteplici accordi che in essa si rinvengono. Non stupisce quindi che un uso sapiente della musica possa in105

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fluenzare e modificare lo stato dei corpi e delle anime attraverso dinamiche vibratorie di armonica consonanza. Per tale ragione, Pitagora era convinto che, per prendersi cura degli uomini, per indirizzarli a una vita buona, fosse necessario cominciare proprio da un intervento sulle dinamiche sensoriali e sulla facoltà di “percepire” la bellezza tanto delle forme quanto dei suoni: “Pitagora pose al primo posto l’educazione basata sull’arte delle Muse, facendo ricorso a particolari ritmi e melodie in grado di curare l’indole e le passioni degli uomini, riconducendo le facoltà dell’anima al loro equilibrio armonico originario, e oltre a ciò predispose dei mezzi per eliminare e sanare disturbi sia fisici che psichici” (Giamblico, Vita di Pitagora 64). Per il percorso interno alla sua scuola, il divino maestro aveva composto una serie di musiche volte a fini specifici: geniali combinazioni “diatoniche, cromatiche ed enarmoniche” per “preparare”, “armonizzare” e “correggere” ogni possibile stato dei suoi discepoli. Servendosi di tali melodie – che venivano applicate come fossero un “farmaco” –, Pitagora riusciva a invertire e a mutare nei loro opposti “le affezioni interiori [...], le manifestazioni di dolore o di collera [...], le gelosie assurde e le paure immotivate [...], gli stati di eccitazione, di esaltazione oppure di depressione e di aggressività” (Giamblico, Vita di Pitagora 64). Con l’esecuzione di opportuni ritmi, egli favoriva il riposo notturno e financo il comparire di sogni profetici, liberando la mente dai turbamenti e dagli effetti disarmonici degli eventi prodottisi durante il giorno. In modo analogo, al mattino, Pitagora sapeva destare le energie dei suoi discepoli con melodie che dissipavano ogni 106

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3. l’arco e la cetra di apollo

torpore e ogni fiacchezza, predisponendo allo studio e alle attività necessarie. Al suono della lira e alla voce modulata nel canto si aggiungeva la pratica quotidiana della danza che, attraverso il movimento, plasmava e ordinava il ritmo del corpo e dei sensi. E così pure la recitazione di versi scelti di Omero ed Esiodo era utilizzata al fine di rafforzare l’equilibrio interiore. In sintesi, con il magico potere dei ritmi, era in grado di modificare e di sanare ogni patologia. L’opera di Apollo e delle Muse era, in tal modo, una medicina benefica non solo per i singoli individui, ma anche per la vita delle comunità nel loro insieme. Per Pitagora, il dio solare e le divine fanciulle dovevano essere il cuore pulsante della città stessa, la radice del suo consonante e reciproco accordo. Agli abitanti di Crotone egli aveva infatti suggerito di erigere un tempio delle Muse allo scopo di preservare e favorire il legame tra i cittadini: “Queste dee, egli diceva, portano, tutte insieme, il medesimo nome; secondo la tradizione, esse sono legate fra loro e si rallegrano del culto comune di cui sono oggetto; il loro coro è un’unità costante e sempre uguale, che racchiude in se stessa armonia, ritmo e tutto ciò che produce accordo [...], il loro potere si estende non solo alle più belle concezioni del pensiero, ma anche al sinfonico intreccio di tutte le cose che sono nell’universo” (Giamblico, Vita di Pitagora  46). Perché, secondo Pitagora, anche la natura del cosmo ha una propria musica e un proprio suono. Dotato di un divino e ineffabile potere, l’avatar umano di Apollo era infatti in grado, secondo quanto si narra, di tendere il suo sovrumano orecchio fino alle altezze più sublimi, riuscendo a percepire distintamente la purissima 107

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tonalità della “sinfonia universale”: quella melodia emessa dalle sfere e dagli astri nel loro moto sempre regolare, quel suono più pieno e più sostanziale di ogni musica terrena (Giamblico, Vita di Pitagora 65). Per questo, secondo Pitagora, le Muse non sono solo divine fanciulle che cantano nella dimora di Zeus, ma la voce stessa dei pianeti e delle stelle. Ed è a tale melodia celeste che ogni musica umana dovrebbe tendere per essere in sinfonico accordo con la luce iperborea di Apollo e con la danza sincrona delle figlie della Memoria. Dal soffuso chiarore del paradiso del Nord, così come dal terso splendore dell’Olimpo, l’infallibile arciere, in compagnia delle Muse, fa cenno indicando la via che sale agli astri, affinché gli umani s’armonizzino con il ritmo divino dell’ordine cosmico.

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4. ORFEO, IL FIGLIO DELLA MUSA

Musica del cosmo In numerose tradizioni antiche, presso popoli che hanno abitato i luoghi più diversi della terra, la genesi dell’universo è rappresentata come il progressivo espandersi di un suono che, all’improvviso, promana dall’oscurità del nulla o dalla superficie indifferenziata delle acque. Un suono che, nella sua ondulazione, diviene dapprima luce e poi il dispiegarsi di una forma sempre più articolata e varia. Il suono si precisa, si differenzia e insieme si intreccia in unità di carattere più complesso: vocale, consonante, sillaba, parola, metro e canzone. E così ogni cosa, dagli dèi agli uomini, dal cielo alla terra, viene a essere come una sorta di coagulazione materiale del canto. Nell’India vedica, ad esempio, la sillaba fondamentale Om è principio assoluto e immortale da cui tutto deriva in ordinata progressione, ma da cui tutto continua anche a essere permeato e sorretto. Il corpo stesso dell’essere primordiale, Prajapati, dal cui smembramento viene la realtà molteplice del creato, è talora immaginato come un corpo fatto interamente di inni: ogni suo membro e ogni suo organo sono un canto che, con un ritmo preciso, genera singole e speci109

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fiche parti dell’ordine universale. Nel principio assoluto, il suono è l’esteriorizzarsi di un pensiero ancora inespresso e immateriale: Manas, la “Mente”, cominciando a vibrare, si concreta nella divina Vac, la “Parola” creatrice. Il pensiero si fa respiro ed emissione sonora, la cui sostanza si determina non solo nel tessuto del linguaggio, ma anche attraverso il giogo del metro che lo struttura in uno svariare di forme. Il canto creatore si modula in sequenze ritmiche, si differenzia in trame metriche con la combinazione di quantità e di qualità ovvero di durate e di altezze dei suoni. Così, tutto è musica, e ha una propria musica. Se dalla parola-canto scaturisce l’intero cosmo, ciò significa anche, per diretta conseguenza della genesi, che ciascuna realtà particolare viene a essere caratterizzata da un suono e da una canzone che le sono propri. L’essenza di ogni cosa è una cellula determinata di suono e di ritmo a cui deve la propria nascita, ma anche il proprio differenziato permanere nel variegato molteplice dell’universo. La cifra che segna la natura di ogni essere è una parola-canto con una sua intonazione e una sua altezza. Perciò chi conosca il suono-parola di ciascuna cosa e sappia intenderne la musica possiede anche la conoscenza fondamentale per agire sulla realtà e per modificarla: il sapere della parola è il potere segreto di un suono che si fa azione, muovendo e trasformando, a proprio piacimento, ogni dato esistente. Il corpo stesso degli dèi è intessuto di metri e di canti. Ne consegue che chi ha la perfetta padronanza di quella sapienza sonora può, a propria volta, ascendere al cielo: con il giusto ritmo e con la giusta canzone si può tramutare la propria natura caduca e diventare immortali. 110

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4. orfeo, il figlio della musa

In Grecia non vi è un racconto che corrisponda alla forma di tale creazione sonora. La nascita del cosmo segue altre dinamiche a partire dallo spalancarsi del caos e dagli accoppiamenti divini che ne conseguono. Ma di quell’originaria sapienza musicale si rinvengono, non di meno, alcune tracce o, per meglio dire, una serie di rifrazioni e di conseguenze. Se le Muse e Apollo hanno un ruolo fondamentale, come si è visto, nel dare al mondo la completezza dell’ordine e della bellezza, nel dispensare la conoscenza della musica, vi è una figura nel cui profilo riemerge l’idea di una parola-canto come potere che opera e interviene nei diversi domini dell’universo, riuscendo a orientarne diversamente gli effetti e la struttura. Si tratta di Orfeo il quale fu partorito, non a caso, da una Musa. Si dice che Calliope ne sia stata la madre ed Eagro, signore di Tracia, il padre. Ma altri sospettano che dietro il nome di Eagro si nascondesse, in realtà, lo stesso Apollo (Apollodoro, Biblioteca 1,3). Da tale genealogia discenderebbe il potere eccezionale di Orfeo, che è non solo archetipo mitico del poeta per ogni tempo a venire, ma anche mago e detentore di segreti che consentirebbero di andare oltre i confini dell’umano e le usuali configurazioni dell’universo sensibile. Che la musica e la parola possano incantare gli animi di uomini e dèi è un dono su cui già molte considerazioni sono state sin qui spese. Ma il canto di Orfeo procede al di là di tale malia che investe la psiche e ne orienta gli affetti. La cetra e la voce di Orfeo, infatti, conoscono e sanno produrre i suoni che mettono in vibrazione ogni piano e ogni elemento del cosmo. Non vi è regno della natura che non possa essere 111

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mosso e influenzato dalla sua musica. Minerali, vegetali e animali entrano in immediata consonanza con il suo canto e si piegano a esso, realizzando o compiendo ciò che quello richiede. Hanno così luogo eventi che, all’uomo comune, appaiono incredibili prodigi in aperto contrasto con le leggi e le evidenze della realtà. Ma, se la musica orfica riesce a tanto, è proprio perché sa percepire e accordarsi con le leggi profonde della natura, perché conosce le segrete sonorità di ogni elemento ed è in grado, a propria volta, di disporne. La magia non è altro che raggiungere la vibrazione necessaria, impadronirsene e imprimere a essa la direzione voluta. Dall’età arcaica al tardoantico, i testi non si stancano di evocare tale miracolo e di ripetere come nulla potesse opporre resistenza alle canzoni di Orfeo. Al suono del suo canto, le dure rocce sui monti si animano e si muovono a dispetto della loro massa altrimenti greve e inerte. Le correnti dei fiumi improvvisamente si arrestano o prendono a fluire con diversa velocità. I venti cessano di spirare, facendo immediato silenzio. Gli alberi si alzano da terra e, sollevando le loro radici, iniziano a camminare per radunarsi intorno a lui o per seguirne i passi ovunque egli voglia, dai boschi montani fino alle rive del mare: “Le querce selvatiche che crescono fiorenti, disposte in file serrate, sulla costa di Zone, sono quelle che egli stesso fece scendere dai monti della Pieria, incantandole con la sua cetra” (Apollonio Rodio, Argonautiche 1,28-31). Allo stesso modo si comportano gli animali di ogni specie, tutti ugualmente attratti dalla sua voce: “Con le sue canzoni egli raduna intorno a sé gli animali selvaggi” (Euripide, Baccanti 563). Quando imbraccia la cetra, gli uccelli smet112

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tono di cantare per fare cerchio intorno a lui e i pesci, piccoli o grandi che siano, emergono dalle profondità del mare, per seguirne la voce come fossero un addomesticato gregge: “Uccelli innumerevoli volavano sopra il suo capo e dall’acqua balzavano in alto i pesci per il suo bel canto” (Simonide, fr. 384). La musica del figlio della Musa è comunione intima con la natura e insieme signoria di ogni sua più riposta forza. Proprio perché dotato di un simile potere, Orfeo è l’indispensabile compagno degli eroi che si dispongono ad affrontare le imprese più ardue. È lui ad aiutare gli Argonauti nella navigazione verso la terra del Vello d’oro, a propiziarne il viaggio con le sue formule magiche e con le sue sapienti parole. Cantando, egli non solo dà il ritmo della voga, addolcendone la fatica, non solo placa ogni discordia – basta che inizi a celebrare l’origine del cosmo perché la contesa e la tensione tra gli eroi si spenga –, ma riesce addirittura a eliminare una delle peggiori insidie della rotta: adottando un particolare “ritmo veloce e sonoro”, egli riesce a coprire perfino il canto stregato delle Sirene, vincendo le alate fanciulle, come mai nessuno era stato capace (Apollonio Rodio, Argonautiche 1,494-515; 4,905-909). Ma, se memorabile è il suo ruolo a fianco degli Argo­ nauti, se essenziale è per quei guerrieri la sua sapienza, ancor più stupefacente è l’effetto della sua musica sul dominio apparentemente implacabile e ferreo dell’aldilà. Chi, infatti, sa usare le vibrazioni che governano la vita, sa anche, se ne ha la ferma determinazione, volgerle contro la legge della morte, affinché essa ne sia sconfitta. Quando 113

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Eu­ ri­ dice, la sua novella sposa, muore, all’improvviso, mor­sa da un serpente, Orfeo riesce a forzare, con il suo canto, le porte dell’Ade e a scendere, ancora vivo, nell’oltretomba per ottenere che la sua amata torni a vedere la luce. La voce e il canto di Orfeo sono potenza taumaturgica che risana, salva e restituisce la vita. Con la sua musica, egli riesce a placare gli altrimenti inflessibili signori dell’oltretomba: anche Persefone e Plutone, che non prestano mai ascolto ad alcuna preghiera, sono irretiti e vinti dalle sue note e tutti gli spettri restano immobili e sospesi ad ascoltarlo. È questo il grado supremo cui può giungere il sapere magico del suono-parola, che domina tanto il visibile quanto l’invisibile: valicare il punto di confine tra vita e morte, invertire il corso della natura, riportando alla materia il soffio vitale che si è allontanato. La magia orfica è conoscenza che produce realizzazione integrale di ogni proposito e di ogni cosa cui il suo potere si applichi: forza sonora che compie con risultato certo.

L’errore Se Orfeo ottiene che Euridice possa tornare a vedere la luce, il definitivo esito dell’impresa comporta tuttavia un’incertezza nel differenziarsi dei racconti tramandati. Le fonti più antiche paiono celebrare, senza riserve, la potenza del mago-cantore, assumendolo come un esempio che si vorrebbe poter ripetere: “Se avessi la voce e il canto di Orfeo, se potessi ammaliare Persefone, così da strapparti dall’Ade, scenderei agli inferi e niente mi potrebbe ferma114

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re prima di averti riportata alla luce” afferma l’Admeto euripideo che sogna di poter salvare l’amata Alcesti dalla morte (Euripide, Alcesti 357-362). Il che farebbe presupporre un successo pieno e indubitabile di Orfeo. Egli sembrerebbe addirittura aver vinto più volte le forze dell’aldilà, ripetendo per altri ciò che aveva fatto per Euridice: “Orfeo ha ricondotto i morti dall’Ade,” afferma Isocrate con una formulazione al plurale (Busiride 7-8). La versione più nota della vicenda – quella che ha finito per imporsi nell’immaginario a partire da Virgilio – è, per contro, segnata da uno scacco che interviene proprio all’ultimo istante. La coppia sta ormai per completare il proprio percorso di risalita dagli abissi inferi: camminando uno avanti all’altra, essi già intravedono la luce del mondo di sopra, quando, per un errore di Orfeo, Euridice è all’improvviso riafferrata dal regno dei morti, dileguandosi per sempre. Tutto il potere di quella voce meravigliosa avrebbe incontrato l’opposto suggello di una catastrofe, come se si fosse trattato, in fondo, di una mera illusione o di una colpevole arroganza. L’arte di Orfeo si troverebbe così sospesa in una sorta di irrisolvibile ambivalenza: da un lato, l’esaltazione di una parola-canto di cui si ribadisce la capacità di sovvertire l’ordine naturale, e, dall’altro, la sua insufficienza e la sua impotenza di fronte all’ostacolo più arduo ed estremo. La magia è cosa ‘reale’ o solo un sogno che dilegua dinanzi al duro limite della morte? Forse non si tratta propriamente di questo. Ascoltando con più attenzione, ci si accorge che a essere messa in discussione non è l’efficacia in sé dell’arte orfica, quanto piuttosto il comportamento di chi dispone di essa. Gli dèi inferi pongono una 115

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condizione a Orfeo: Euridice potrà essere liberata dalle tenebre, ma egli non dovrà mai voltarsi a guardarla finché essi non siano completamente usciti dal regno della morte. È una condizione affinché l’operazione magica possa avere successo. Ma Orfeo, in modo inconsulto, cede al proprio desiderio o alla propria paura: il che è, nella sostanza, lo stesso. Vuole accertarsi che ella lo segua davvero. Vuole essere sicuro che sia proprio lei e non un ingannevole spettro. O forse, ancora, non resiste all’impazienza di ricongiungersi con chi ama: “Ormai, ripercorrendo i suoi passi, egli aveva superato ogni pericolo ed Euridice, restituita a lui, procedeva verso l’aria della terra, standogli alle spalle,” era questa la legge posta da Proserpina, “quando un’improvvisa follia prese l’incauto amante: si arrestò e, vinto nell’animo, si volse immemore a guardare Euridice [...]. Allora tutta quella fatica andò distrutta [...]. Per tre volte un fragore orribile salì dagli stagni dell’Averno [...] ed ella si dissolse come fumo leggero nell’aria” (Virgilio, Georgiche 4,485-500). Benché sia riuscito, inizialmente, a vincere le leggi dell’abisso che non consentono di norma di sottrarsi alla morte, Orfeo è, all’ultimo, “vinto” da se stesso. Non si domina e non si controlla: la dementia lo offusca e lo fa vacillare, vanificando del tutto l’efficacia di ciò che egli sta compiendo. La dementia lo fa, letteralmente, uscire da quello stato concentrato e intenso della “mente”, che è necessario affinché il rito produca, fino in fondo, il proprio risultato. Perché è un rito, a tutti gli effetti, quello cui la vibrazione della parola ha dato avvio: intonare un canto, evocare un’anima dal dominio degli spettri, riunirla al 116

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proprio corpo sono momenti di un’operazione magica che richiede una determinata postura di chi si impegna in essa. La magia esige, infatti, uno stato di neutralità e di distacco assoluti perché l’intento della parola si traduca nell’esito di una realizzazione piena. Ogni cosa deve essere eseguita con rigore perfetto e senza esitazione, altrimenti tutto si ritorce contro colui che ha avviato il processo. Occorre una volontà pura, lucida ed esente da ogni turbamento della passione. Nessuna debolezza soggettiva, nessun dubbio, nessuna esitazione deve intervenire intorbidando la traiettoria che guida al bersaglio. Solo così la parola ha davvero il potere di modificare la realtà e di rovesciarne i termini. Solo così, nell’inflessibile tensione allo scopo, nella compiuta padronanza di sé, nella sovranità esercitata su ogni pulsione e su ogni moto, l’arte diviene atto magico e non fumo inconsistente che dilegua nel soffio del vento. La versione catastrofica della storia non segna dunque un limite alla forza della parola-canto. Mette, piuttosto, l’accento sulle qualificazioni necessarie per condurla al fine che le è proprio, indicando come i “rischi” e i “pericoli” più gravi non provengano dalla natura delle cose o dalla tenebra della morte, ma dall’incoerenza e dallo smarrimento che abitano il mago-cantore. A rafforzare tale prospettiva contribuisce la stessa costruzione che Virgilio assegna alla storia, intrecciandola con la vicenda di Aristeo. E, una volta di più, sembra che figure e personaggi si inseguano e si rispecchino gli uni negli altri. Se Orfeo viene da una Musa e da Apollo, Aristeo è figlio di una Ninfa – Cirene è il suo nome – e dello stesso dio arciere. Un’aria di famiglia circola nei racconti nel ricorrere di fanciulle divine, abitatrici 117

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dei monti, e un padre che è luce solare. Virgilio narra che Aristeo si era invaghito di Euridice e aveva tentato di farla sua. La giovane, per sfuggire all’inseguitore, era corsa per il prato, senza prestare attenzione ove mettesse i piedi. Fu così che calpestò il serpente, venendone morsa con le conseguenze ormai note. Ma anche Aristeo ebbe a patire un grave scotto per quell’intemperanza che era stata causa di morte. Le sue amate api, cui tante cure aveva prestato, morirono all’improvviso ed egli, non essendo consapevole di quale ne fosse la ragione, si era recato, disperato e piangente, alle rive del fiume Peneo. Si lamentava di una sorte che gli appariva ingrata e immotivata, invocando la propria madre Cirene. Dal profondo delle acque, nella dimora incantata che condivideva con altre Ninfe, ella udì quel grido e fece in modo che la corrente si arrestasse. Le onde si incurvarono come un grembo, affinché il figlio potesse raggiungerla nel cuore del suo umido regno. Come Orfeo si era calato tra gli spettri degli inferi, così anche Aristeo discese in una dimensione sotterranea, in un abisso da cui tutti i fiumi della terra parevano dipartirsi. Laggiù, dopo essere stato riconfortato dalla materna sollecitudine delle Ninfe, egli ricevette un prezioso consiglio: bisognava che si recasse da Proteo, signore del mare e infallibile oracolo, poiché lui solo poteva svelare il motivo di quella disgrazia. Il figlio della Ninfa seguì di buon grado tale indicazione e, dopo aver vinto la resistenza oppostagli da Proteo – che tentava sempre di sottrarsi a chi lo costringeva a svelare gli arcani del destino – ne ottenne il desiderato responso. Così infine apprese la sua “colpa”. Seppe che le Ninfe erano addolorate e irate per la scomparsa di Euridice. Per 118

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questo esse avevano provocato la “rovina” delle api. Non restava dunque che placarle offrendo un sacrificio: la madre Cirene spiegò minutamente ad Aristeo come dovesse procedere, quali animali offrire e in qual luogo compiere il rito. Dopo aver immolato quattro tori e quattro giovenche, egli avrebbe dovuto abbandonarne i cadaveri nel bosco per poi farvi ritorno a distanza di nove giorni, recando ulteriori offerte per Orfeo ed Euridice. Con scrupolosa attenzione, senza trascurare alcun dettaglio, Aristeo mise in pratica ciò che gli era stato detto. E quando, all’aurora del nono giorno, ritornò nel folto della selva, poté assistere al prodigio: dalle carni marcescenti degli animali, dal ventre delle carcasse, si levò dapprima un ronzio e poi un folto sciame di api volò in alto a prender dimora su un albero (Virgilio, Georgiche 4,555-558). Dalla putrefazione della morte era scaturita nuova vita: gli alati insetti, cari anche alle Muse, erano risorti. Aristeo riuscì, dunque, in quel che Orfeo aveva fallito. Riuscì a invertire il processo della natura, trasformando la fatalità della fine in rinnovato principio. Ma, appunto, a differenza del cantore, non era stato “immemore” e non si era distratto. Aveva meticolosamente osservato, passo dopo passo, quanto gli era stato prescritto. Il rito era stato perfetto e così egli aveva potuto riavere il proprio tesoro. Nella tradizione antica, Aristeo era celebrato, peraltro, come un eroe di eccezionale intelligenza e sapere. Sarebbe stato proprio lui a introdurre tra gli uomini l’allevamento delle api e il modo di cagliare il latte. Si racconta che le Ninfe gli avessero insegnato l’arte della divinazione e quella di risanare ogni malattia (Apollonio Rodio, 119

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Argonautiche 2,512-516). Si narra che egli riuscì a placare persino una terribile pestilenza che infuriava sulla Grecia: recatosi all’isola di Ceo, compì un sacrificio al levarsi della stella di Sirio, e subito venti propizi dispersero il male insieme alla soffocante calura (Diodoro Siculo, Biblioteca 4,82). Ci si potrebbe chiedere come mai un eroe, dotato di così grande sapienza, potesse essere stato tanto inconsapevole della propria colpa e del modo per ripararvi, come mai avesse dovuto ricorrere alla veggenza di Proteo e ai suggerimenti rituali di Cirene. Ma la prospettiva adottata dalla versione virgiliana – attraverso il confronto stringente con Orfeo – voleva forse metter l’accento proprio su questo: la sapienza e la magia sono nulla se una pratica rigorosa e coerente non le accompagna. Per poter dominare, con la parola o il rito, le forze della natura, occorre prima aver dominato se stessi.

Una fine cruenta La ‘seconda’ morte di Euridice, il suo definitivo inabissarsi nell’Ade lascia Orfeo in una solitudine disperata e inconsolabile. La sua voce magica diviene il canto della perdita e dell’assenza: un canto che non riguarda più l’ordine del cosmo o le forze della natura, ma l’esperienza dolorosa e tragica dell’amore, la trafittura lancinante del desiderio inappagato, che non può in alcun modo raggiungere il suo oggetto. Animali e piante ancora si lasciano ammaliare dalla sua musica, ma tale incanto è, nella sostanza, una risposta commossa e partecipe alla sua pena incolmabile. 120

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Tale almeno è il quadro offerto dai racconti che dipingono il seguito della storia: “Per sette mesi, raccontano, sotto un’altissima roccia, davanti alle onde dello Strimone deserto, pianse da solo, tra sé e sé, e sotto i gelidi antri continuò a ripetere la sua storia, incantando le tigri e facendo muovere con il suo canto le querce” (Virgilio, Georgiche 4,507-510). E, quando non piange e non canta se stesso, egli sceglie, comunque, di parlare ormai solo d’amore, declinando ogni altro tema divino, mentre un consesso di bestie selvatiche e torme di uccelli fanno cerchio intorno a lui: “Tante volte ho celebrato la potenza di Giove e con solenne melodia ho cantato la storia dei Giganti [...]. Ora la mia lira sia più lieve, cantiamo i fanciulli amati dagli dèi e le fanciulle stravolte dal fuoco di passioni proibite” (Ovidio, Metamorfosi 10,152-154). Tutto questo prosegue fino a che, un giorno, una morte improvvisa e violenta lo coglie. Un gruppo di donne furenti, vestite al modo delle baccanti, gli tende un agguato e lo assale con crudeltà efferata: il suo corpo è fatto pezzi, le sue carni sono sbranate da morsi selvaggi e quello che resta viene sparso per i campi della Tracia che gli ha dato i natali. Ci si può chiedere che cosa abbia provocato tale aggressione, quale motivo abbia scatenato questa follia omicida. Le fonti antiche allegano ragioni all’apparenza diverse e fra loro irrelate. Le donne di Tracia si sarebbero sdegnate con il cantore per la sua ostinata fedeltà alla defunta Euridice: chiuso nel lutto, egli avrebbe rifiutato, con dura ostinazione, ogni femminile profferta d’amore (Virgilio, Georgiche 4,518-520). Altri affermano che la radice del furore non sarebbe stata solo il rifiuto di ogni contatto femminile, ma 121

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anche la scelta concomitante di volgersi, in modo esclusivo, a relazioni omoerotiche. Dopo la perdita della moglie, Orfeo si sarebbe dato all’“amore per i teneri maschi” – per i ragazzi colti nel “fiore di quella breve primavera che è la giovinezza” – e sarebbe stato, per così dire, di esempio nell’avviare gli uomini a questa pratica erotica (Ovidio, Metamorfosi 10, 83-85). Secondo un’ulteriore versione, il rancore femminile non avrebbe avuto nulla a che fare con gli intrecci amorosi, bensì con l’esclusione delle donne dai “riti” che Orfeo riservava solo ai maschi in un edificio predisposto per le sacre cerimonie (Conone, Storie 45). Con una prospettiva ancora differente, alcune fonti affermano che la morte del cantore sarebbe stata, in realtà, una punizione divina. Dioniso si sarebbe adirato con Orfeo perché, dopo la sua discesa all’Ade e l’esito infausto dell’impresa, egli avrebbe deciso di dedicare ogni sua devozione al solo Apollo, onorandolo con un quotidiano saluto al sorgere del giorno: “Orfeo cessò di onorare Dioniso, mentre considerò divinità suprema il Sole che egli chiamò anche Apollo. Svegliandosi di notte, in prossimità dell’alba, attendeva il sorgere del sole sul monte Pangeo per vedere il Sole” (Eschilo, fr. 23). Questo caleidoscopio di variegati moventi rinvia, con ogni probabilità, a un nucleo originario ove emerge un ulteriore e complementare tratto dell’identità di Orfeo. Il figlio della Musa, infatti, non è solo signore del canto magico, ma è ricordato anche come maestro di teletái, di “iniziazioni” che egli, per primo, avrebbe introdotto e insegnato agli uomini (Aristofane, Rane 1032). Teleté, “iniziazione”, è rito che conduce al télos, alla meta della “per122

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fezione”: è percorso che fa evolvere e trasforma, in modo sostanziale, la natura e il sentire di chi a esso si sottopone. Attraverso un’esperienza intensa in cui gesti e parole, azioni e simboli producono páthos, si compie un mutamento che investe non solo la percezione di sé, ma anche il rapporto con la realtà stessa a partire dal nodo centrale di che cosa sia la vita e di che cosa sia la morte. Da questo punto di vista, non sorprende che la sapienza di Orfeo inerisca a tale ambito. Colui che, con il suo canto, è riuscito a scendere nell’Ade e a vincerne le potenze è anche colui che può, meglio di ogni altro, “iniziare” gli umani alla dimensione che sta oltre il velo dell’esistenza terrena. Chi, con la sua arte magica, abbia valicato il confine tra visibile e invisibile sa mostrare come la fine possa trasformarsi in rigenerazione e in nuovo principio, come la morte sia, essa stessa, principio di ogni metamorfosi essenziale. Canto e pratica iniziatica, magia della parola e ritualità sono, in Orfeo, due aspetti di una medesima “conoscenza” sacra che dischiude gli arcani della vita e della morte, indicando la via segreta per affrontarli e dominarli. Poesia e iniziazione sono i volti di un’unica arte che ha penetrato il mistero fondamentale della natura ed è in grado di disporne per cambiare lo sguardo e l’esistenza dei mortali. Gli amori maschili e l’esclusione delle donne, cui le versioni accennano, si inseriscono, per altri versi, in questo stesso orizzonte poiché le pratiche iniziatiche possono prevedere percorsi distinti per i due sessi, tenendo conto della differenza che li contraddistingue, e le relazioni omoerotiche sono spesso, per conseguenza, una sorta di via specifica per la trasmissione di una conoscenza sacra e riservata. 123

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Quanto alla tensione tra Dioniso e Apollo, le due divinità costituiscono, di fatto, i poli attraverso cui la figura e la sapienza di Orfeo oscillano. Dioniso è il pulsare di una vita indistruttibile che rigenera continuamente se stessa: la potenza di una vita che scaturisce dal seno stesso della morte, l’estasi di una natura in cui i contrari coincidono e ogni fine si rovescia in un inizio. Apollo, per contro, è luce che dissipa ogni tenebra, principio solare di unità che si oppone all’indifferenziato, forma compiuta del canto e della parola in cui l’esperienza estatica e la sapienza si esprimono. Orfeo canta con l’arte e con la cetra di Apollo, ma penetra nell’Ade, seguendo la traiettoria e l’esempio di Dioniso che laggiù era disceso per strappare la propria madre al regno dei morti (Diodoro Siculo, Biblioteca 4,25). Orfeo è la bellezza solare della poesia, ma è anche l’incontro con la forza dionisiaca che sostiene e risveglia senza posa la vita della natura e degli uomini. La magia del cantore è efficace e potente poiché partecipa dell’esperienza dell’uno e dell’altro dio. La morte di Orfeo, lacerato dalle donne, non fa, per altri versi, che ripetere la vicenda di Dioniso, il selvaggio smembramento di cui egli fu indifesa e ignara vittima. Quand’era ancora un bimbo, il dio fu assalito a tradimento dai Titani. Erano gelosi che Zeus avesse destinato a suo figlio la signoria del mondo, ma forse erano stati anche sobillati da Era, adirata per l’ennesimo tradimento del marito. Dopo averlo distratto con dei giocattoli, i Titani si avventarono sul piccolo e, senza esitare, lo fecero a pezzi. Ne presero le carni e, dopo averle cotte, se ne cibarono. Zeus, sdegnato da quell’atroce gesto, li incenerì all’istante. Ma non tutto era perduto: su ordine di Zeus, 124

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Apollo raccolse i resti di Dioniso – il cuore del piccolo era ancora palpitante – e li pose in un calderone. Ed ecco che, in modo prodigioso, Dioniso risorse vivo e intero, com’era prima: l’assalto della morte si era dissolto nel nulla e, a partire da un nucleo che era stato amorosamente raccolto da Apollo, tutto si era ricostituito nella sua piena forza (Orfici, frr. 35, 36, 209). Anche dalle ceneri dei Titani, dai resti degli assassini, tuttavia, qualcosa nacque. Dopo che la folgore celeste si abbatté su di loro, “dalla fuliggine dei vapori che si levarono, una volta sedimentata la materia, si generarono gli uomini”. In considerazione di tale origine, il genere umano avrebbe, pertanto, una duplice natura: la crudeltà, l’irrazionalità, la cupidigia che avevano indotto i Titani al delitto, ma anche l’essenza divina che i Titani avevano assorbito divorando il figlio di Zeus. Gli uomini sono “parte di Dioniso” (Orfici, frr. 214, 220). Le iniziazioni di Orfeo fanno perno su questo nucleo: Dioniso, riunificato da Apollo, era stato ridestato a nuova vita; in modo analogo, gli uomini, facendo tesoro della poesia e dei riti del cantore, possono sottrarsi alla completa dissoluzione poiché il frammento divino che è in loro è promessa di vita eterna e di rinascita a un piano superiore. La magia di Orfeo è strumento di salvezza se si sa intenderla e impiegarla nel modo necessario.

Una testa che canta In seguito allo scempio compiuto dalle donne invasate, la testa di Orfeo, spiccata dal busto, precipitò, insieme alla 125

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lira, nelle acque del fiume Ebro. Trasportata dalla corrente, essa giunse al mare, ove le onde la sospinsero, infine, alle rive dell’isola di Lesbo, là dove sorgeva Metimna. Qui corse, per un momento, il rischio di scomparire divorata: “Un feroce serpente si avventò contro la testa finita sulla spiaggia straniera, contro quei capelli sparsi e stillanti di rugiada, ma Apollo intervenne e paralizzò il serpente già pronto a mordere, irrigidendolo, così com’era, con le fauci spalancate” (Ovidio, Metamorfosi 11,56-60). Il capo del cantore venne pietosamente raccolto e deposto nel cavo di una grotta. La preziosa reliquia, collocata in quella sorta di antro sepolcrale, non era tuttavia materia morta e inerte. Era cosa viva. Così come aveva sempre fatto, la testa continuò a parlare e a cantare. Pronunciava oracoli e versi rivolgendosi a chi le si avvicinasse e volesse consultarla (Filostrato, Eroico 28). Dopo la morte, Orfeo manifestò, dunque, quello stesso potere divinatorio che era inscritto, insieme alla poesia, tra i privilegi di Apollo. Una celebre coppa, ora conservata a Cambridge, ne offre una significativa rappresentazione. Davanti alla testa mozzata di Orfeo, un giovane, armato di stilo e tavolette, è intento a trascrivere quanto la lingua del cantore ancora fa risuonare. Di fianco, una figura maschile che, con ogni probabilità, va identificata con Apollo, ha il braccio e la mano tesi come a ingiungere la necessità stessa di scrivere e conservare quelle preziose parole. La scena è tuttavia anche un simbolo pregnante di ciò che la figura e la vicenda mitica di Orfeo suscitarono in Grecia. Una copiosa serie di grámmata, di “scritti”, in versi, ma anche in prosa, furono prodotti attribuendone la 126

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paternità allo stesso cantore, come se si trattasse di altrettante opere direttamente dettate dalla sua voce immortale. In tali scritti si esprimeva, per così dire, un indirizzo spirituale che dava forma a un’esperienza del sacro derivante, appunto, dal figlio della Musa. Si trattava di una conoscenza esoterica, altra e alternativa rispetto all’immagine del mondo e dell’uomo che i poemi di Omero e di Esiodo avevano tradizionalmente fissato. Nella propria opera, Esiodo aveva mostrato come dal caos originario fossero sorti Gaia e Urano, la Terra e il Cielo, e come, attraverso una serie di accoppiamenti divini e di lotte feroci, il mondo avesse trovato il suo definitivo assetto nella signoria di Zeus che aveva ordinato, per sempre, ogni cosa, stabilendo tanto le prerogative degli immortali quanto la condizione propria degli esseri destinati alla morte. E in tale ordine, la sorte dell’uomo era determinata dalla fatica e dal lavoro, dalla necessità di sostentarsi alimentandosi dei frutti della terra e delle carni degli animali offerti in sacrificio. Quando il tempo della fine fosse venuto, tutti, indistintamente, senza discriminare meriti o colpe, sarebbero finiti nell’oscurità dell’Ade come pallidi spettri, “teste” senza forza e senza più alcuna vita. Solo qualcuno, per circostanze del tutto eccezionali, otteneva una destinazione diversa e più felice, come Menelao, sposo di Elena, trasportato nell’isola dei Beati, o Eracle, asceso addirittura all’Olimpo. Gli scritti ‘orfici’, per contro, in ragione di ciò che la storia del mago-cantore segretamente suggeriva, affermavano che la verità fosse altra e che altre possibilità fossero date agli umani. L’intera storia del mondo non era che una pulsazione tra due poli: la perfezione di un uovo e la com127

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parsa di Dioniso. All’inizio, quando tutto era solo tenebra e notte profonda, il Tempo aveva creato un uovo d’argento, forma perfetta dell’unità che racchiude la potenza di tutte le cose. Il guscio d’argento infine si spezzò e fu uno squarcio di luce che illuminò di sé l’oscurità. Dal guscio era uscito Phánes, il “Luminoso”, lo “Splendente”, il cui nome dice il miracolo stesso dell’apparire, il processo della manifestazione che si dispiega. Phánes era il Protógonos, il “Primo nato”, che, con la sua luce, dava la vita. Era Métis, il supremo “Consiglio”, che presiedeva alla genesi del mondo. Era il supremo Zóon, il sommo “Vivente”, scintillante con le sue ali d’oro, vorticoso e rapido come il turbine del vento, che lo aveva animato. Phánes era padre e madre, femmina e maschio, l’essere doppio che portava, al di sopra dell’ano, entrambi i sessi: l’androgino divino era il “primo re del cosmo”, perché solo l’androgino può da sé creare ogni cosa. Dallo splendore di Phánes scaturirono gli elementi dell’universo e le generazioni divine, in una successione di signorie celesti: da Urano a Crono, da Crono a Zeus e, infine, da Zeus a quel Dioniso bambino, a quel supremo re del mondo, con il quale il tempo si chiudeva a formare un cerchio perfetto, perché Dioniso non era altro che Phánes: il primo e l’ultimo erano una medesima cosa. Nel cosmo così determinato, gli uomini, essendo partecipi della natura di Dioniso, hanno la possibilità di evadere dalla condizione mortale e di ricongiungersi alla luminosa sorgente celeste, divenendo, a propria volta, esseri eterni e non esangui ombre relegate nelle tenebre. Ma, per far questo, gli scritti orfici indicano la necessità di purifi128

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cazioni, di incantesimi e di riti iniziatici che isolino e fissino quel nucleo divino, quel frammento ‘dionisiaco’, separandolo dalle scorie ‘titaniche’, dalla parte caduca e inerte della complessione mortale. Quel frammento presente nell’uomo è ciò che, in altro modo, è designato dalla parola psuché, “anima”. Una psuché sepolta nella tomba del corpo e nel fango della materia. Una psuché che attende di essere liberata per potersi sottrarre, per sempre, al ciclo delle reincarnazioni. Dai grámmata orfici emerge una dottrina e una pratica dell’anima immortale che fu assunta anche dai pitagorici. Tant’è che lo stesso Pitagora, a quanto le fonti affermano, avrebbe fatto riferimento a Orfeo nello scrivere il proprio Discorso sacro (Giamblico, Vita di Pitagora 146-151). Se gli orfici si riconoscono in Dioniso rigenerato, i pitagorici eleggono, piuttosto, a loro modello, l’unità solare di Apollo, ma tanto gli uni quanto gli altri concordano nella necessità di un regime di vita rigoroso, così come nel rifiuto del sacrificio cruento e dell’alimentazione carnea, perché nulla deve contaminare il frammento divino, legandolo alla realtà inferiore. Quando il tempo della vita terrena giunge al suo termine, gli iniziati a questo esoterico sapere – coloro che, con ogni sforzo, hanno fatto staccare l’anima dal corpo – scendono nella tomba, portando con sé dei versi. Un’ultima poesia li accompagna sulla soglia estrema, a fare loro da segnavia nel transito all’invisibile. Versi scritti su sottili e minuscole lamine d’oro. In essi campeggia, talora, la madre delle Muse, Mnemosúne, colei che, tutto ricordando, oltrepassa ogni dimensione finita del tempo. Perché è solo 129

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destando e accendendo la memoria dell’origine divina che si può fuoriuscire dalle coordinate del tempo e dello spazio. Le sue parole indicano all’iniziato come affrontare il percorso nell’aldilà, evitandone i rischi: “Questo è il sacro dettato della Memoria, quando ti toccherà di morire. Andrai alle case di Ade: sulla destra c’è una fonte con un cipresso bianco; là, scendendo, si rinfrescano le anime dei morti. Tu non avvicinarti troppo a questa fonte. Davanti a essa troverai invece la fredda acqua che scorre dal lago della Memoria. I suoi custodi, con mente accorta, ti domanderanno che cosa vai cercando nella tenebra dell’Ade. Tu rispondi loro: ‘Sono figlio della Greve Terra e del Cielo Stellato, sono arso di sete e muoio. Datemi presto da bere l’acqua fredda del lago della Memoria’” (Lamine d’oro II a 1). Le anime giungono nell’Ade tormentate da una terribile arsura. Si sentono “morire” e hanno l’istintivo desiderio di bere, ed è qui, nella scelta dell’acqua di cui dissetarsi, che tutto si gioca. Coloro che non sono iniziati si precipiteranno, avventati, alla fonte che sta accanto al cipresso bianco, l’albero che appartiene alle divinità infere e alla morte. Così finiranno per bere l’acqua di Léthe, l’acqua dell’“oblio”, che li costringerà a reincarnarsi, a ritornare alla genesi corporea. Trovando refrigerio in quella fresca bevanda, penseranno di rivivere e invece moriranno di nuovo, immergendosi, ancora una volta, nel ciclo delle nascite. Gli iniziati, al contrario, si volgeranno all’acqua che viene dal lago della Memoria. È anch’essa un’acqua fredda, ma il refrigerio offerto dalla dea è rianimazione in senso del tutto diverso. È il risvegliarsi, pieno e assoluto, di una vita divina. Una volta bevuta – concludono i ver130

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si di Mnemosúne –, “tu potrai procedere sulla sacra via che percorrono gloriosi gli altri iniziati e i posseduti da Dioniso”. La gloria di questa hierá hodós, di questa “strada sacra” non è mera fama terrena, altrimenti celebrata dai cantori. La poesia ‘orfica’ addita alla splendente beatitudine del perfetto iniziato.

Un altro sguardo Non sono, tuttavia, solo gli orfici a cogliere, nei loro versi, l’ispirazione di figure divine che dispensano, con la loro voce e la loro presenza, un’altra consapevolezza sull’effettiva natura della realtà. Anche altri sapienti si fanno attraversare dall’afflato della poesia, si fanno assistere dalle dee, per conquistare il tesoro di una conoscenza altrimenti preclusa. È il caso di Parmenide che, nel dettato del suo poema (frr. 1-9), racconta l’esito di una mirabile avventura iniziatica di cui egli stesso – come si è già accennato – è protagonista ed “eroe”: un viaggio che l’ha compiutamente trasformato in un “uomo che sa”, in un individuo superiore che non si fa più ingannare dal gioco umbratile delle apparenze. A bordo di un magico carro alato, trainato da impetuose quanto sagge giumente, egli è accompagnato da un gruppo di fanciulle divine. Non si tratta, questa volta, propriamente delle Muse, bensì delle Eliadi, delle figlie del Sole, colui che su tutto risplende. Analoga ne è, tuttavia, per certi versi, la funzione, perché anche queste kórai, queste celesti “ragazze”, sono lì per indicare la via del sa131

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pere e della parola. Non a caso, esse si scoprono il volto, sollevando delicatamente il velo che avvolge il loro capo: gesto eloquente quanto simbolico del dono di un’illuminazione che si irradia toccando la mente e trasformandola per sempre. Mentre l’asse del carro sfrigola e stride – arroventato dall’intensità sovrumana necessaria a compiere un simile percorso – il nostro “eroe” perviene, in modo inaudito, all’immenso portale del Giorno e della Notte. Varcare questa soglia – custodita dalla Giustizia cosmica – significa oltrepassare il confine estremo. È, questo, il punto ove l’illusione del tempo e dello spazio – l’illusione che governa ogni umana percezione – cessa improvvisamente di esistere. Al di là di esso, alla radice della realtà manifesta e di ogni evento in essa apparente, vi è tó eón, “ciò che è”: l’orizzonte immobile e imperituro dell’“essere”, la visione di una sfera perfetta che non conosce alterazione, il “cuore” saldo e assoluto dell’alétheia, della “verità” unica e suprema dell’eterno. A rendere intelligibile questo spettacolo spaesante – che contraddice e cancella ogni usuale riferimento – è la voce di una dea la cui identità viene taciuta. Potrebbe essere Persefone, la signora dell’oltretomba, colei che custodisce il mistero della vita e della morte, o, più probabilmente, la stessa Memoria, la madre delle Muse, che travalica ogni dimensione temporale, abbracciando ogni cosa. Poco rilevante è forse dirne il nome. Essenziale è che sia una divinità femminile: qui come altrove, per elevarsi al di sopra di se stesso, l’uomo deve, anzi tutto, incontrare una “dea”, che gli apra benignamente i segreti della natura. Con gesto materno, ella accoglie il coraggioso mortale presso di sé, affinché “impari”, affinché si 132

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divincoli da tutte quelle menzogne che stordiscono la maggior parte dell’umanità, rendendola “cieca” e “sorda”, errante e impotente. Stupefatti e confusi, irretiti dalle quotidiane abitudini, gli uomini credono che il “non essere sia”, credono che la realtà possa scaturire dal nulla e nel nulla estinguersi. Sono convinti che “nascere e morire, cambiare luogo e mutare colore” siano dati inconfutabili e definitivi e null’altro vi sia oltre a questo. Sulla base di tali fuorvianti convincimenti, essi si esprimono e usano il linguaggio, assegnando “nomi” distinti e opposti alla molteplicità di quanto cade sotto i loro sensi. Ma così finiscono per aggravare l’inganno, scambiando “ciò che sembra” per “ciò che è”. Ritengono che quei “nomi” corrispondano a “cose vere” e non si accorgono che le loro parole rinviano unicamente a parvenze. Perché è solo nella dimensione dell’“apparire”, che si può dar credito al “niente”. Ma chi venga iniziato dalla dea non potrà più cadere nell’errore, perché saprà, una volta per sempre, che quell’apparire cangiante è un modo dell’essere eterno. Saprà che il gioco del mondo riposa sul fondo di un “questo”, sempre uguale a se stesso nel cerchio della sua purissima inviolabilità. Niente davvero nasce e niente davvero perisce, mai. La dea che dispensa all’“eroe” tale conoscenza è anche colei che gli fa dono di un differente linguaggio, che suggerisce come esprimere ciò che sta al di là del velo. È Musa, per così dire, di una poesia che addita alla Verità, dispensando i “segni” capaci di accendere la folgorante intuizione di quel “cuore” in cui pensiero ed essere coincidono in assoluta perfezione. Su un carro celeste si muove anche la Musa che Empe­ docle invoca all’inizio del proprio poema dedicato – come 133

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quello di Parmenide – alla phúsis, alla “natura” (fr. 1). È un carro guidato dall’eusébeia, da quell’atteggiamento di profonda “venerazione” che riconosce come “sacro” tutto ciò che esiste. In nessun altro modo, infatti, è possibile penetrare nel nucleo più risposto della realtà, se non, appunto, accostandosi a esso come a cosa divina. Allo stesso modo, occorre un linguaggio ispirato a “santità” e ad “ardimento”: occorrono “labbra pure” per poter pronunciare, al cospetto degli “effimeri” mortali, il frutto scaturito dai “vertici della somma sapienza”. Allontanando da sé la “follia” che contrassegna i comuni discorsi degli uomini, il saggio si rivolge alla Musa perché lo renda capace di indicare – a chi sia in grado di comprendere – quel “varco”, quel “passaggio”, che conduce alla “conoscenza immediata” del vero, consentendo di cogliere ogni cosa nell’evidenza del suo stesso essere. “Destinati a rapida morte, gli uomini non colgono che una piccola parte della vita [...], prestano fede solo a quello in cui ognuno si imbatte per caso, vagando ovunque, e ognuno si vanta di aver scoperto tutto” (fr. 2). Ma è proprio il “tutto”, l’“intero” che a essi sfugge. È il nucleo della vita che essi mancano, perché di essa colgono, in modo casuale, solo frammenti irrelati e confusi. Per “conoscere”, al contrario, bisogna impegnarsi ad attivare ogni propria risorsa e facoltà: bisogna protendersi con tutte le proprie forze in una dinamica che è insieme di massima apertura e di concentrata unificazione. Apertura a ogni possibile percezione del reale e, al contempo, sforzo di riportare ciò che è disperso e diviso alla dimensione essenziale dell’unità. Occorre cambiare il proprio respiro e mutare radicalmente il proprio sguardo per 134

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non cadere, da capo, nell’errore che affligge la mente dei più e che distorce il loro linguaggio: “Bambocci, incapaci di profondi pensieri, si aspettano che nasca ciò che prima non era e che qualcosa muoia e si distrugga completamente” e così “chiamano le cose in modo sbagliato” (frr. 6, 9). In verità, per tutto ciò che è, non si danno propriamente né nascita né morte, bensì un’incessante trasformazione. Questo la Musa insegna: tutto è mescolanza e separazione di “radici” ovvero di “elementi”, che non sono materia bruta o sostanza disanimata, ma principi divini e immortali, che ora si fondono nella somma unità di una sfera perfetta, ora si dividono e si combinano fra loro, generando il molteplice. E, proprio in ragione di tale matrice divina, non vi è nulla, nell’universo, che sia sprovvisto di pensiero e coscienza: “Una mente sacra e indicibile si slancia con rapidi pensieri attraverso il cosmo” (fr. 134) e “tutte le cose sono dotate di intelligenza” (fr. 110). Di questa conoscenza la Musa di Empedocle si fa guida e veicolo. Chi la ascolti è sollecitato a ripetere, in se stesso, l’esperienza di un intuire sottile: è invitato a epoptéuein, a “contemplare”, come accade nei misteri, il disvelarsi dell’arcano supremo che sta a fondamento della vita. E quando ciò accade, il soggetto che “vede” comprende, sin nelle sue più intime fibre, di essere, egli stesso, parte della natura immortale. Sente di costituire un frammento di quel mirabile cosmo che oscilla tra l’unità assoluta e la molteplicità delle cose. Si ‘ricorda’, infine, di essere una creatura “divina” che ha assunto, nel lungo corso dei secoli, svariate forme di esistenza: “Una volta sono stato fanciullo e poi fanciulla, pianta e uccello, e ancora pesce muto che guizza fuori 135

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dal mare” (fr. 117). Comprendere, tuttavia, la radice della propria identità e insieme la nascosta armonia dell’universo significa anche poter controllare le forze che innervano l’intera natura: “Imparerai i rimedi contro ogni male e contro la vecchiaia [...] Placherai la forza dei venti che [...] devastano i campi, e poi di nuovo, se lo vorrai, susciterai benefici soffi. Trasformerai la nera tempesta in opportuna siccità e, all’inverso, farai piovere quando l’estate dissecca [...], riporterai dall’Ade la forza di un uomo che è morto” (fr. 111). Nella linea che va da Orfeo a Empedocle, la parola della Musa è sempre, in vario modo, “pura fonte” di un potere che reintegra l’uomo alla pienezza dell’essere.

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5. LA CADUCITÀ E IL VALORE DEGLI EROI

Primavera e autunno “Uomini uccidevano uomini”: tale è la legge della guerra. E il campo di battaglia sotto le mura di Troia non fa eccezione: è una festa crudele di sangue e di morte che l’Iliade omerica rappresenta esibendo, senza risparmio, la nuda violenza del suo accadere. Scontro dopo scontro, le armi trapassano i corpi dei guerrieri. Il ferro della lancia o della spada si apre la strada nella carne: lacera la pelle, penetra nei muscoli e negli organi, spezza le ossa, tronca il respiro e toglie la vita. Vi è tutta un’anatomia, tanto macabra quanto fredda e precisa, che si dispiega ogni volta che un colpo esiziale viene sferrato: “Lo ferì alla gamba, dove è più spesso il muscolo, e intorno alla punta dell’asta si lacerarono i tendini [...], lo colpì al braccio in alto, strappando i muscoli e spezzando l’osso all’interno [...], lo trafisse sotto l’orecchio, la spada penetrò fino all’elsa, solo la pelle teneva ancora, mentre la testa penzolava da un lato [...], la lancia, attraverso la bocca, penetrò fino al cervello, spezzando le bianche ossa: i denti saltarono via, gli occhi si riempirono di sangue, a fiotti sgorgava dal naso e dalle labbra spalancate” (Iliade 16,314-350). Nel divampare 137

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della mischia, i corpi divengono protagonisti assoluti: corpi feriti e violati, che perdono la compatta integrità della loro superficie, come scomponendosi e mostrando il loro interno. Corpi che, in un istante, passano da forza vivente a cadavere esanime. Ma, nell’infuriare della violenza – che trasforma di continuo la vita in morte, che riduce gli uomini a cose mute e inerti – si dischiudono anche momenti di parola, scambi di discorsi, tra i guerrieri che si affrontano. Spesso sono mere parole di sfida o di vanto per intimidire l’avversario o affermazioni di trionfo quando il nemico è atterrato. Altre volte, sono parole di incoraggiamento o di sprone ai propri compagni. Può accadere, tuttavia, che la parola sospenda, per qualche istante, la violenza o addirittura la rinvii, aprendo come uno squarcio o, forse meglio, una temporanea stasi della lotta, in cui la consapevolezza dell’umano e del mortale emerge e risuona proprio nel contrasto con il rischio incombente di perdere la propria vita. Una stasi in cui le identità e le storie personali si impongono, per un momento, sul compiersi indifferente del massacro. È quanto si produce, ad esempio, nell’incontro tra il greco Diomede e il licio Glauco, che combatte a fianco dei Troiani. Tra le opposte file dei due eserciti, essi muovono l’uno verso l’altro, impazienti e smaniosi di battersi, di prevalere, una volta di più, sul proprio nemico. Diomede, tuttavia, non conosce il suo avversario, non l’ha mai incontrato prima nella “battaglia gloriosa”. Prima di aprire lo scontro, egli vuole sapere chi sta per affrontare. Perché la guerra non è solo anonima violenza o strage di massa, 138

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5. la caducità e il valore degli eroi

ma anche, e soprattutto, vicenda di soggetti che si riconoscono reciprocamente e si misurano nella gara del valore, sapendo l’uno dell’altro. Quando si vince, è importante poter dire su chi la propria forza e il proprio coraggio abbiano prevalso. A tutta prima, Diomede sembra attraversato dal dubbio che quell’avversario, proprio perché ignoto, possa essere un dio sotto mentite spoglie, considerando che, sulla piana di Troia, le divinità non esitano a combattere a fianco dei due schieramenti. E, se di un dio si tratta, l’eroe non vuole commettere la stoltezza e l’empietà di sfidare un immortale, perché, sempre, in tal caso, l’umano ha la peggio: “Chi sei, nobile guerriero, tra gli uomini mortali? [...] Non ti ho mai veduto in passato, eppure ora sei superiore a tutti per il coraggio e attendi a piè fermo la mia lancia [...]. Se sei un dio, disceso dal cielo, io non voglio ingaggiare battaglia [...]. Ma se appartieni ai mortali che mangiano il frutto della terra, avvicinati pure e presto raggiungerai i confini della morte” (Iliade 6,123-143). Glauco non tarda a replicare e, tuttavia, da principio, pare volere eludere la risposta che gli viene sollecitata. Alle parole precise di Diomede, egli oppone, a sorpresa, una considerazione malinconica quanto distaccata sulla condizione umana: “Grande figlio di Tideo, perché mi chiedi la mia stirpe (geneé)? Le stirpi degli uomini sono come le foglie: il vento ne sparge molte a terra, ma altre ne spuntano sugli alberi in fiore, quando torna la primavera. Così le stirpi degli uomini, una sboccia e l’altra svanisce” (Iliade 6,145-149). Il nome che dice l’identità personale, la “stirpe” da cui ognuno discende sarebbe un nulla senza importanza, un particolare inessenziale, un 139

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orgoglio vano e insensato, se si riflette, anche solo un momento, sulla realtà della vita mortale, se si proietta la propria individualità, la propria finitezza, sullo sfondo della “natura” e sul ritmo che essa, per sua legge interna, segue con ferrea necessità. Il rigoglio della primavera, il ridestarsi delle forze sopite, la potenza del germogliare e del crescere, la nascita innumerevole di nuove foglie e di nuovi fiori. E, poi, il movimento contrario dell’autunno, il ritrarsi della forza generativa, il rifluire della linfa vitale, l’appassire, lo sfiorire, il venir meno. In questo stesso ciclo è inscritta l’esi­ stenza degli umani: un avvicendarsi di nascita e morte, un processo continuo di forme che compaiono e svaniscono. Fermando lo sguardo sulla natura, ogni pretesa individuale di essere e di persistere parrebbe sommamente ridicola e inane: una stolta illusione. Solo la natura è. Solo la “selva rigogliosa” persiste da una stagione all’altra. Foglie e uomini sbocciano e cadono senza lasciare traccia. Così, nella piana di Troia – in cui Glauco e Diomede si fermano a discorrere in una sorta di pausa incantata e protetta – i guerrieri, colpiti a morte, non smettono di schiantarsi come piante o alberi, abbattuti dal vento o tagliati dal ferro della scure. Gli eroi precipitano riversi nella polvere “come un pioppo cresciuto sul prato di una palude”, “come un frassino che depone a terra le sue tenere foglie”, “come una quercia o un pino altissimo”, o ancora come “un ulivo sradicato da una tempesta” (Iliade 4,482; 13,178; 13,389; 17,54). Lo scempio della battaglia è come un campo falciato o un autunno che incombe. Nell’infuriare della lotta, le parole di Glauco fanno, dunque, risuonare, con uno stacco dolente, la coscienza 140

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della fragilità di tutto ciò che è terreno e mortale, la caducità di ogni soggetto e di ogni forma che, per breve tempo, compare sulla scena del mondo. Che senso ha, allora, dire il proprio nome o vantarsi della propria origine se l’una e l’altra sono solo una provvisoria infiorescenza del bosco? Se, nell’insieme della foresta, tutte le foglie, alla fine, sono uguali e sostanzialmente indistinguibili le une dalle altre? Che cosa conta la singola foglia o il singolo essere? Guardando dall’alto l’ingente dispiegamento di forze che assediano Troia – l’innumerevole esercito che combatte per riavere Elena, rapita da Paride – lo spettacolo non è diverso, come un altro passo omerico suggerisce: tutti quei guerrieri in armi sembrano stormi di uccelli che stridono e sbattono le ali, nugoli di “mosche” che si affollano intorno ai secchi di latte caldo nelle stalle, “granelli di sabbia” sul mare o “foglie e fiori a primavera” (Iliade 2,463-468). Impossibile e forse privo di senso pretendere di nominare o di distinguere tutte quelle “mosche” o quelle “foglie”. E, allo stesso modo, gli uomini appaiono agli dèi nell’assoluta differenza delle reciproche condizioni. Se gli abitatori dell’Olimpo parteggiano, per l’uno o l’altro schieramento, avendo ognuno i propri favoriti e protetti, ciò non toglie che quel divino affaccendarsi nella guerra abbia un punto di arresto proprio nella distanza che oppone uomini e dèi. In un’ulteriore scena di battaglia, Poseidone sollecita Apollo a scendere in campo e a non sottrarsi al combattimento: “Apollo, perché noi due ce ne stiamo lontani? [...] È una vergogna tornare all’Olimpo senza combattere. Comincia tu che sei più giovane” (Iliade 21,435-439). Ma Apollo, favorevole ai Troiani, si sottrae a uno scontro che 141

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gli appare insensato e che lo porterebbe a sfidare lo stesso Poseidone, schierato a fianco dei Greci: “Dovresti considerarmi davvero stolto se mi mettessi a combattere con te per dei mortali miserabili [...], simili alle foglie, ora si mostrano pieni di forza, mangiando il frutto della terra, ora si logorano e muoiono. Lasciamo la battaglia al più presto. La guerra la facciano loro” (Iliade 21,462-468). Se gli dèi “esistono sempre” e non sono soggetti ad alcun mutamento, i “miserabili” umani sono segnati da un’irrimediabile discontinuità: il fuoco della loro energia, sostenuto dal cibo che essi sono costretti ad assumere, “ora” divampa pieno di vigore, “ora” si spegne senza più riaccendersi. Perché darsi pensiero e affanno per degli esseri così inconsistenti? L’immagine delle foglie, che l’Iliade formula per ben tre volte, attraversa, di fatto, tutta la cultura greca, riproponendosi, in contesti e in autori diversi, come un essenziale memento che gli uomini dovrebbero continuamente ripetere a se stessi, per non scordarsi dei propri limiti. Ancora in età arcaica, Mimnermo riprende la similitudine, associandola alle opposte stagioni dell’esistenza. L’unico momento felice corrisponderebbe all’hébes ánthos, al “fiore della giovinezza”, che è rigoglio di forza vitale e insieme seducente bellezza dei corpi nel gioco dell’amore. Ma il “fiore” presto svanisce e, con esso, sfiorirebbe il valore stesso della vita: “Noi siamo come le foglie nate nella stagione fiorita della primavera, quando al raggio del sole subito crescono; simili a esse, per un attimo godiamo dei fiori della giovinezza, e dagli dèi non sappiamo né il bene né il male, ma ci stanno accanto neri destini: la vecchiaia penosa e la morte. Dura 142

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un momento il frutto della giovinezza, quanto il sole si diffonde sulla terra. Ma quando è trascorsa questa stagione, allora è davvero meglio essere morti che vivi, perché molti mali nascono nel cuore” (fr. 2). A secoli di distanza, l’imperatore Marco Aurelio ripeterà i versi dell’Iliade come un fondamentale esercizio di meditazione sulla caducità: “A chi ha sperimentato la forza dei veri principi, basta anche una breve massima [...] per ricordarsi di ciò che può liberarlo dal dolore e dalla paura. Per esempio: ‘Foglie sparse a terra dal vento, così sono le stirpi degli uomini.’ Foglioline sono i tuoi piccoli figli, foglioline questi esseri che ti acclamano e ti esaltano con aria convinta, o che, al contrario, ti maledicono, ti criticano in cuor loro o ti deridono. Foglioline sono anche quegli esseri cui sarà affidata la tua fama postuma [...]. Comune a tutti gli esseri è la breve durata [...]. Ancora un po’ e chiuderai gli occhi, e già un altro piangerà chi ti ha sepolto” (A se stesso 10,34). Tutto svanisce. Per nulla, nemmeno per se stessi, si dovrebbe, dunque, provare attaccamento. Con nulla, nemmeno con il proprio nome, ci si dovrebbe, con pervicace adesione, identificare. E, tuttavia, questo è solo un aspetto del doppio movimento che la saggezza greca, in realtà, suggerisce.

Se vuoi sapere Evocare l’anonima e fragile esistenza delle foglie potrebbe, infatti, condurre a una completa rinuncia, a un rifiuto dell’azione così come a un diniego nel pronuncia143

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re un nome che corrisponda al profilo di un’identità. Ma Glauco, dopo aver replicato con una domanda spiazzante all’interrogativo di Diomede, non si sottrae, nei fatti, alla risposta: “Perché chiedi la mia stirpe? [...] Ma se proprio vuoi sapere anche questo, se vuoi conoscere la mia stirpe, te la dirò: a molti essa è nota.” L’oscillazione non si arresta nel silenzio, ma completa il proprio movimento in un racconto. Il nome e la stirpe non hanno importanza. Eppure ci sono e meritano di essere ricordati. Glauco prende così a svolgere una storia che, a dispetto delle premesse, costituisce la più lunga narrazione genealogica interna al poema omerico: “C’è una città, Efira, nella valle di Argo. Qui visse Sisifo che era il più astuto degli uomini [...]. Egli ebbe un figlio, Glauco, e Glauco, a sua volta, generò il nobile Bellerofonte, a cui gli dèi donarono forza, grazia e bellezza” (Iliade 6,151-156). Nel tono di una fiaba si dispiegano i passaggi fondamentali che hanno segnato, in un tempo lontano, la carriera eroica dell’antenato più celebre: le splendide qualità di Bellerofonte; il modo in cui egli virtuosamente respinse le profferte amorose della moglie del re Preto; la falsa accusa con cui la donna, offesa dal rifiuto, tentò di vendicarsi; il viaggio che Bellerofonte dovette compiere alla volta della Licia; le insidie mortali che fu costretto ad affrontare – dall’uccisione della mostruosa Chimera allo sterminio delle Amazzoni – fino al coronamento finale rappresentato dal matrimonio con la figlia dello stesso re della Licia. Una sequenza di imprese gloriose e di successi memorabili cui tuttavia seguì una parabola discendente quando gli dèi “lo presero in odio” e gli negarono il loro favore. Ma nulla, del resto, è stabile 144

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nelle esistenze umane e ogni fortuna può cedere il passo alla sventura: Bellerofonte finì i suoi giorni nella cupezza più nera, errando nella pianura di Alea, con il cuore roso da un’angoscia immedicabile. Da uno dei figli di Bellerofonte, Ippolico, Glauco dichiara, infine, di essere nato: “Fu Ippolico a mandarmi a Troia, raccomandandomi di eccellere sempre ed essere il più forte, di onorare la stirpe dei padri, che furono sempre i migliori tanto a Efira quanto nell’ampia Licia” (Iliade 6,208-211). Il discorso, iniziato con il disincanto della caducità e con la vanità della stirpe, termina con l’imperativo di essere all’altezza del­ la propria genealogia e del proprio nome. Manifestarsi come il migliore, raggiungere la massima eccellenza, tenere fede a un modello condiviso di eroismo: questo è ciò che, alla fine, conta. Può apparire una contraddizione, ma nella tensione tra questi due poli vi è – come si vedrà – la misura aurea di una saggezza tradizionale e di un codice etico. Non illudersi di sfuggire alla fragilità, essere consapevoli di avere la stessa sorte delle foglie, ma, proprio per questo, far buon uso della propria natura caduca, finché il sole della vita risplende a picco e il fiore della giovinezza si apre nella pienezza del vigore e nell’incanto della grazia. La passione della perfezione e dell’eccellenza nasce dal sentimento acuto e lucido del ciclo che muove dalla primavera all’autunno. Osservarlo e farsi compenetrare dall’immagine di questo ritmo è la sorgente stessa del valore. La storia della stirpe – salvata e ricordata a dispetto dell’universale caducità dell’umano – sortisce, peraltro, un effetto inatteso nell’incontro dei due guerrieri. Proprio il 145

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“nome” di Bellerofonte ridesta in Diomede un ricordo inscritto nella sua stessa tradizione famigliare: Oineo, nonno di Diomede, aveva, in quel tempo ormai lontano, accolto e ospitato Bellerofonte nella sua casa. Il legame stretto dagli avi si riverbera sui discendenti, a dispetto del conflitto in cui sono coinvolti. Ogni casa, ogni stirpe conserva non solo le imprese gloriose dei propri membri, ma anche la rete complessa di amicizie e di rapporti che essi hanno intrecciato: un patrimonio che viene trasmesso a ogni generazione successiva attraverso i racconti o grazie a oggetti che vengono custoditi come segno significativo di un passato. Diomede si sovviene di avere ancora, nella propria dimora, la coppa d’oro che Bellerofonte aveva donato a Oineo in cambio della splendida cintura di porpora che questi, a propria volta, aveva offerto come omaggio ospitale. L’antico legame non può essere calpestato ed esige, per contro, di essere riattualizzato, un’altra volta, nel presente. Dismettendo il proprio atteggiamento ostile, Diomede rinuncia al duello e invita Glauco a scambiare con lui le armi, “affinché,” egli spiega, “sappiano anche costoro che ci vantiamo di essere ospiti antichi” (Iliade 6,230-231). Nel campo di battaglia, lo scambio diviene inusitato spettacolo perché anche gli altri guerrieri, anche gli altri eroi, siano testimoni dell’evento, lo riconoscano e lo possano ricordare in ulteriori racconti. Il doppio movimento di Glauco – dall’inconsistenza del nome al mito di Bellerofonte – sospende e rinvia, per una volta, la dura necessità della violenza e del sangue. Le parole allontanano, provvisoriamente, l’incombere della morte. Gli uomini, certo, sono foglie che cadono e poco conta, nell’orizzonte del cosmo, chi essi 146

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siano, ma le storie, tuttavia, rimangono e vengono ridette quando gli uomini si incontrano, permettendo loro di riconoscersi e di onorarsi reciprocamente, al di là della dura legge della distruzione e della fine. Le storie che ognuno ricorda per averle udite da fanciullo. Le storie che gli aedi stessi non cessano di intonare. E anche questo è un dono delle Muse.

Una quotidiana vulnerabilità Prima di addentrarsi nelle dinamiche della scelta eroica, propria dei guerrieri dell’Iliade, è tuttavia opportuno attuare una modesta diversione alla volta dell’Odissea, ove risuona un motivo complementare alle foglie della foresta evocate da Glauco. Tornato in patria, Odisseo si aggira travestito da mendicante, e, grazie a tale espediente, si confronta, mantenendo l’incognito, con i Pretendenti che assediano la sua casa. A essi rivolge obliqui avvertimenti e parole di ammonimento sul rischio cui essi si espongono con il loro comportamento arrogante: la posizione di forza e la sicurezza di cui hanno goduto fino a quel momento potrebbe capovolgersi in maniera del tutto inattesa. E se Odisseo tornasse? Avvicinando Anfinomo – che, nel gruppo dei Pretendenti, sembra più saggio e accorto di altri – Odisseo racconta una sorta di fittizia autobiografia che dispiega, al suo interno, un’immagine della condizione mortale e un aureo criterio di consapevolezza: “Anch’io, una volta, potevo essere un uomo felice, ma ho compiuto molti soprusi, ho abusato della forza e della violenza, confidando 147

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nel sostegno di mio padre e dei miei fratelli. Nessun uomo dovrebbe mai comportarsi ingiustamente, ma accontentarsi, in silenzio, dei doni che gli dèi gli concedono. Ora vedo che i Pretendenti meditano soprusi, distruggono gli averi e oltraggiano la sposa di un uomo che non starà a lungo lontano: anzi è molto vicino. Ti auguro che un dio ti riporti a casa prima di incontrarlo [...] perché non credo che lui e i Pretendenti si separeranno senza spargimento di sangue, quando ritornerà” (Odissea 18,138-150). Facendo da specchio all’interlocutore, l’eroe offre la storia di una stolta e colpevole cecità: non bisogna illudersi di poter sfuggire alle proprie colpe e alle proprie responsabilità; non bisogna cullarsi nell’incoscienza poiché la condizione di cui si gode non è affatto certo che duri, così come non è nel potere dell’uomo comune controllare il dispiegarsi della sorte. Per rendere ancor più chiaro l’invito alla moderazione e alla consapevolezza, Odisseo si sofferma a illustrare, in termini generali, il tratto caratterizzante dell’esistenza umana: “Ti voglio dire una cosa e tu ascolta con attenzione: sulla terra non esiste un essere più debole e misero dell’uomo [...] finché gli dèi gli concedono forza e vigore, egli non pensa mai di poter soffrire, un giorno, qualche male, ma quando poi i celesti gli infliggono dolori e lutti, gli tocca sopportarli, suo malgrado, con pazienza. Perché la mente (nóos) degli uomini è tale quale il giorno (émar) che a essi manda (ep’ [...] áge[i]si) Zeus, padre degli uomini e degli dèi” (Odissea 18,129-137). Assumere il presente come assoluto, come stato definitivo e immutabile, sarebbe l’errore fondamentale: vedere solo ciò che si ha dinanzi, pascersi di uno stato temporaneo di prosperità, di benessere o di fortuna, 148

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pensando di essere immuni dal dolore, di essere esenti dalla sofferenza e dalla morte, come sono, in realtà, solo gli dèi. Proprio dei mortali è, per contro, l’essere ephémeroi, come la tradizione poetica greca, proprio a partire da questo passo omerico, non si stanca di ripetere. L’uomo è “effimero” non tanto perché la sua vita è breve – come il ciclo diurno in cui il sole sorge e tramonta –, quanto perché il suo esistere dipende, a tutti gli effetti, dal “giorno”, che, a ogni aurora, “sopraggiunge” ed è potenzialmente diverso da quanto lo precede: l’uomo è legato all’émar, sempre nuovo e differente, che il padre del cielo e degli dèi porta “in aggiunta (ep’)” ai giorni già trascorsi e vissuti. Il che ha due implicazioni, come il discorso di Odisseo suggerisce e come la tradizione greca successiva provvederà a ribadire, sfaccettando la valenza dell’effimero. Anzi tutto, un dato di natura oggettiva che inerisce alla realtà e che non può essere dominato o controllato. Che lo voglia o meno, che ne sia cosciente o lo ignori, l’uomo è sempre esposto e vulnerabile all’accadere, al di là delle aspettative e dei convincimenti personali. Come spiega anche Erodoto, facendo eco a questo medesimo principio, la natura dell’uomo è, in se stessa, mera sumphorá, nudo “evento”: la vita umana non si sviluppa come una linea continua e regolare, sempre uguale e coerente rispetto a se stessa, ma piuttosto al modo di una sequenza discreta e disomogenea di giorni che si inanellano l’uno all’altro. E “non vi è giorno,” ricorda Erodoto, “che abbia qualcosa di simile all’altro”: “Accade di vedere molte cose che non si vorrebbero vedere e molte anche si subiscono che non si vorrebbero subire” (Storie 1,32). 149

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Ma il carattere “effimero” dell’umano non dice solo dell’esposizione inevitabile agli eventi. A ciò si aggiunge un secondo e forse più determinante aspetto: un riflesso intimo, una dimensione soggettiva che può risolversi in un ulteriore limite. La mente degli uomini – afferma Odisseo – è “tale quale il giorno”. Si pensa e si sente in modo sempre diverso, a seconda di quel che avviene. Il che, tuttavia, può anche significare: si pensa, si percepisce e si provano sentimenti nell’orizzonte circoscritto del singolo giorno, senza avere la capacità di vedere e intendere oltre, senza produrre alcuna comprensione di ciò che la condizione umana comporta e racchiude nel suo insieme. È una forma di ottundimento: se il giorno è felice, l’uomo “non pensa mai di poter soffrire [...] qualche male” o se, all’opposto, il giorno è sventura, l’afflizione e la pena appaiono senza uscita. Da questo punto di vista, l’effimero viene a coincidere con un pensiero angusto e cieco, che non riesce a distaccarsi dall’evento, ma finisce per aderire totalmente a esso, facendosene condizionare in modo esiziale. E, se pure vi è una proiezione nel futuro, essa rischia di essere, da capo, una vana illusione, un miraggio, poiché è una semplice e irriflessa reazione al peso del presente “effimero”, senza che ciò comporti un’effettiva consapevolezza di esso: “Non c’è mente negli uomini:” sentenzia Semonide (fr. 1,1-14); “come gli animali viviamo effimeri, in rapporto al giorno, senza sapere come il dio condurrà ognuno alla sua fine. Ma la speranza e il convincimento nutrono in noi desideri impossibili [...]. Non c’è nessuno che non si immagini di avere ricchezza e benessere. Ma alcuni li coglie la triste vecchiaia, altri li consumano ma150

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lattie penose, altri, vinti in battaglia, Ade li manda sottoterra”. Proprio perché “l’animo dei mortali è tale quale il giorno” – osserva ancora il poeta arcaico Archiloco, facendo eco al passo omerico – gli uomini finiscono per “pensare a seconda delle vicende che incontrano” (frr. 131-132). La mente e il cuore non sono liberi e indipendenti, ma chiusi e determinati dalla stretta della realtà in cui, di volta in volta, ci si imbatte, da ciò che si produce nell’istante discontinuo e diviene unica immagine della vita. La saggezza esige, per contro, l’esercizio di uno sguardo, che consenta di distaccarsi dal contenuto e dalle affezioni del giorno, moderandone il peso e l’effetto: “Non esultare apertamente se vinci, non abbatterti e non gemere, chiuso in casa, se sei vinto,” suggerisce ancora Archiloco, “non rallegrarti troppo delle gioie e non rattristarti in modo eccessivo delle sventure: guarda e riconosci il ritmo che regge le vicende umane” (fr. 128). L’antidoto al limite dell’effimero sarebbe la consapevolezza del “ritmo”: una visione che abbraccia i giorni dall’alto, osservandone il gioco mutevole, senza identificarsi né coincidere del tutto con nessuno di essi. Il rimedio sarebbe, ancora, la capacità di nutrire e custodire, al medesimo tempo, un duplice pensiero nel proprio animo. Godere di ciò che il giorno porta, rallegrarsi di quanto è a propria disposizione, fidando e sperando che la serenità e il benessere possano resistere nel tempo, ma, contemporaneamente, avere la lucida consapevolezza che tutto può improvvisamente cessare e che, allora, la pazienza e la sopportazione sono l’unica risorsa cui ricorrere. “L’uomo deve tenere in sé due pensieri gemelli:” afferma 151

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in una sua ode Bacchilide, riferendo un insegnamento che il dio Apollo avrebbe dato al pio Admeto, “deve pensare che vedrà solo la luce del giorno successivo e che godrà, per cinquant’anni, di profonda felicità” (Epinici 3,72-76). Nell’oscillazione tra gli estremi che segnano la condizione “effimera”, occorrerebbe posizionarsi in un punto centrale che conosca il nulla della morte, ma che, non per questo, rinunci alla prospettiva e alla fiducia del perdurare. Un punto centrale che accoglie, con piena lucidità, la dipendenza dal giorno senza nutrirsi di illusioni, ma che, al contempo, non si consegna per intero al limite dell’effimero. Il che equivale, con altre immagini, alla dinamica esemplificata da Glauco, tra le foglie sparse a terra in autunno e il mito dell’eroe che continua a risuonare.

Gloria immortale e poesia omerica La battaglia infuria dinanzi al muro che i Greci hanno costruito per proteggere il loro accampamento e la flotta delle navi. I Troiani e i loro alleati non desistono dall’assalto. Sarpedonte, con la furia e la violenza di un leone assetato di strage, cerca di sfondare la difesa e di scalare il muro, abbattendo i parapetti. Altri tentano di scalzare i pilastri che sorreggono le torrette o di forzare le porte. Ma, di nuovo, mentre fioccano le pietre, i colpi si susseguono e il turbine della violenza si avvita su se stesso, vi sono parole che, come in un ‘a parte’, commentano l’accadere della guerra e spiegano la ragione di quella che, per altri versi, potrebbe apparire follia o insensatezza. E, in modo 152

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forse non casuale, è ancora la figura di Glauco a suscitare tali considerazioni. A lui si rivolge Sarpedonte con una domanda cruciale che insiste sulla distinzione eccezionale di cui i nobili guerrieri godono rispetto a tutti gli altri uomini. Una distinzione che fa di essi un’ammirata e ristretta élite al di sopra della comunità stessa: “Perché ci onorano più di ogni altro, ci assegnano posti d’onore, ci offrono cibo scelto e coppe ricolme [...]? Perché tutti ci guardano come fossimo dèi?” (Iliade 12,310-312). A tale interrogativo vi sarebbe un’unica risposta possibile: il privilegio e l’onore, il géras e la timé, sono la diretta conseguenza del fatto che Glauco e Sarpedonte, al pari di altri eroi, sono disposti, giorno dopo giorno, a esporsi senza esitazione e risparmio: sono pronti, con coraggio, a rischiare la propria integrità e la propria vita. “Bisogna resistere e affrontare la battaglia infuocata,” prosegue Sarpedonte, “perché dicano di noi [...]: ‘Non sono privi di gloria i nostri signori, mangiano pecore grasse e bevono vino pregiato, ma grande è anche la loro forza poiché combattono in prima fila’” (Iliade 12,315-321). E tuttavia ciò non esaurisce, del tutto, il significato di quella disponibilità a porsi in prima linea e a perire nello scontro con i nemici. Il riconoscimento sociale e i privilegi di natura materiale – dal cibo al vino, dall’agiatezza al ruolo autorevole – sono premi attesi e necessari in un circuito di scambio tra i pochi coraggiosi e la moltitudine. Ma tutto ciò forse non basterebbe, se un altro e più radicale fine non animasse il cammino dell’eroe. Un fine che va al di là della dimensione mondana e della mera iscrizione in un ruolo sociale. Alla radice vi è una tensione che potremmo definire, letteralmente, ‘metafisica’: una 153

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tensione di procedere oltre l’orizzonte finito della materia e del divenire. “Amico mio,” aggiunge Sarpedonte guardando Glauco, che ben conosce il destino delle “foglie”, “se scampando a questa battaglia, potessimo vivere sempre senza vecchiaia ed essere immortali, certo non sarei tra i primi a combattere né ti spingerei a farlo, ma poiché ci sovrastano innumerevoli destini di morte e a nessun uomo è dato sfuggirli o evitarli, andiamo dunque all’assalto: daremo gloria ad altri o altri la daranno a noi” (Iliade 6,322-328). Se gli uomini fossero, per loro natura, del tutto uguali agli dèi – “sempre viventi”, immuni dalla fine e dalle offese del tempo – non vi sarebbe alcun motivo per scendere in guerra, non avrebbe alcun senso stare in prima linea ad affrontare i colpi degli avversari. Ma proprio perché la morte è inevitabile, è necessario andarle incontro con slancio ardente. Proprio perché non si è immortali, bisogna sfidare e abbracciare fino in fondo il limite della mortalità. È questo il principio – solo all’apparenza paradossale – dell’eroismo: accettare di morire per vincere la vecchiaia e la morte stessa. Il desiderio che spinge a ogni istante il guerriero è l’aspirazione a “essere” e persistere a dispetto della stessa caducità: “Se potessi essere immortale e giovane per sempre e onorato al pari di Apollo e di Atena!” esclama Ettore sul campo di battaglia (Iliade 8,538-540). Nelle parole dei personaggi omerici, questo oltrepassamento del confine umano si esprime nella luce del kléos, nello splendore della “gloria”. “Ora la morte crudele non è più lontana [...]” afferma ancora Ettore, quando si rende conto che la sua fine è ormai imminente, “Ora mi ha raggiunto il destino. Ma non voglio 154

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morire senza lotta e senza gloria, voglio compiere qualcosa di grande, che sia tramandato in futuro” (Iliade 22,300305). Essoménoisi puthésthai, “che sappiano i posteri”: tale è il pensiero che balena nella mente quando l’istante fatale si approssima. Diventare aóidimos, “materia di canto” per i posteri è l’aspi­razione dell’eroe che si precipita ad accogliere il colpo mortale. Ma, da capo, tale “fama”, così fortemente agognata e perseguita, non corrisponde alla mera eco umana di un nome o di un’impresa né alla semplice ambizione di essere ricordato dai membri della propria comunità. La “bella morte” sul campo di battaglia – la fine cercata e voluta con lucido intento – è, nella sua essenza, un’operazione metafisica poiché trasfigura il soggetto umano in una ‘forma’ eterna, sottratta al mutamento e trasposta sul piano immobile dell’essere. Come infatti i versi omerici non si stancano di ripetere, il kléos, la “gloria” che l’eroe conquista, è áphthiton, cosa “indistruttibile”, “imperitura”: è la fissazione di un’immagine immortale, così come sono immortali le figure degli dèi o quelle idee che Platone porrà al di là del cielo. Un’immagine, una forma tracciata in modo indelebile e conservata nella memoria divina delle Muse e da esse trasmessa ai poeti nell’ispirazione del canto. L’essere ricordati dai posteri è solo la conseguenza di tale passaggio che traspone il tracciato della propria esistenza e della propria identità a una sfera altra dall’umano. Da questo punto di vista, la fine eroica è, a tutti gli effetti, un atto rituale il cui effetto sembra rendersi, per così dire, percepibile già nel cadavere stesso. A dispetto delle ferite, quel corpo valorosamente stroncato nella lotta appare 155

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come uno spettacolo di bellezza che suscita ammirazione, come se, attraverso la carne, trasparisse, da subito, la ‘forma’ prodotta dal valore personale e dalla morte gloriosa. “Quando un giovane muore in battaglia, trafitto dal bronzo affilato [...],” afferma significativamente Priamo, “tutto è bello quel che di lui si vede, anche se è morto” (Iliade 22,70-73). Ed è quel che accade quando i Greci si affollano intorno a Ettore, steso nella polvere e ormai esanime: “Essi ne contemplavano la statura e la bellezza stupenda” (Iliade 22,370). Il corpo eroico non solo appare bello, ma anche sempre giovane, persino nei casi in cui il caduto abbia oltrepassato il confine di quell’età verde. Tale è l’effetto della ‘bella morte’: nel momento stesso del trapasso, essa conferisce all’eroe il fiore di una giovinezza ideale e immutabile al pari della gloria conquistata. Ma, perché questa transizione all’“imperituro” si realizzi definitivamente, occorre che il rituale sia compiuto fino in fondo. Occorre che quel corpo, da cui il soffio vitale si è allontanato, venga lavato, ricomposto e cosparso di unguenti, per essere infine consegnato al rogo funebre che costituisce l’ultima stazione del percorso eroico. Talora sono gli dèi stessi a vegliare su questo delicato momento, affinché tutto avvenga nel modo dovuto. Quando Achille, rifiutandosi di consegnare il cadavere di Ettore, si accanisce, per giorni, su di esso, trascinandolo nella polvere, Afrodite provvede a cospargerne il corpo con olio divino, profumato di rose, perché la pelle non si rovini; in modo analogo, Apollo scherma il sole con una coltre di nuvole perché il calore non consumi la carne, bruciando i muscoli e i tendini. Così, quando Priamo riesce infine a ottenere la restituzione delle spoglie di Ettore, 156

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il suo cadavere appare miracolosamente intatto e perfetto: “Da dodici giorni il suo corpo giace, ma la carne non marcisce e non la mangiano i vermi” (Iliade 24,413-414). Come se fosse un’operazione alchemica, il compiersi della fine eroica imprime il suggello di un’incorruttibilità che è cifra della gloria stessa. Ma anche quel corpo, miracolosamente intatto e preservato, deve, in realtà, scomparire nell’invisibile. Il fuoco della pira deve consumare ogni residuo materiale. Quando l’involucro fisico è interamente distrutto, ciò che resta, per sempre, è una forma immateriale che vive nel mito e nel canto.

Il funerale delle Muse La dea Teti avrebbe voluto che Achille – quel figlio natole dall’unione con Peleo – acquisisse natura divina. Quand’era appena nato, lo immergeva, tutte le notti, nel fuoco per purificarlo dalla natura mortale che gli derivava dal padre, mentre, di giorno, lo cospargeva di ambrosia, la sostanza celeste della “non morte”: l’ardore delle fiamme e l’unguento divino ne avrebbero completato la trasformazione in un “sempre vivente”. Ma, una volta, Peleo spiò quel segreto rituale ed, equivocando le intenzioni della madre, lanciò un grido, quando vide il figlio dibattersi tra le fiamme. Sdegnata per non aver potuto portare a termine l’opera di trasformazione, Teti abbandonò il piccolo e se ne tornò nel proprio regno marino. Ed è proprio forse quest’immortalità mancata a decidere della sorte stessa di Achille. Non potendo divenire un dio, egli non può, allo157

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ra, che essere un eroe teso alla “gloria imperitura”, un eroe che tenta, con la propria morte, di vincere la morte stessa. L’una cosa rinvia all’altra, come Sarpedonte aveva spiegato a Glauco. La mancanza di una vita senza fine si converte nella traiettoria di un’esistenza che deve, per conseguenza, consumarsi rapida come una fiamma. Sin dall’inizio, Achille conosce la traccia del proprio destino. Sin dall’inizio, egli sa bene di essere minunthádios, “di breve durata”. E, tuttavia, la trama dell’Iliade – che intorno a lui ruota e si dipana – sembra, in un primo momento, allontanarlo da tale percorso. Sembra concedergli la prospettiva di un rinvio o di una diversione, come se egli dovesse maturare, per gradi, la ‘scelta’ di quella stessa sorte. Quasi che la guerra di Troia dovesse essere lo scenario della sua iniziazione alla morte eroica. Quando Agamennone rimette in discussione la spartizione del bottino di guerra ed esige che Achille gli consegni Briseide, il figlio di Teti prorompe nella collera più estrema. L’ordine di consegnare la schiava che gli era stata assegnata – l’imposizione di rinunciare a quel premio che gli era stato dato in ragione del suo valore – costituisce per lui un’offesa intollerabile. Davanti a tutta la comunità, egli si sente spogliato del proprio “onore”, privato di quella distinzione che costituisce il palese riconoscimento dell’eccellenza individuale. Non crede di meritare un simile affronto, proprio lui, che più di ogni altro aveva contribuito al successo dei Greci, esponendosi sempre in prima linea, a differenza dello stesso Agamennone che tutt’altro atteggiamento aveva esibito: “Tu non hai il coraggio di armarti alla guerra insieme all’esercito,” lo rimprovera Achille, “tu non hai 158

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il coraggio di appostarti in agguato con i più forti degli Achei: tutto questo ti sembra morte” (Iliade 1,226-228). Reagendo all’offesa, Achille decide dunque di abbandonare il campo di battaglia e di ritirarsi presso la sua tenda, apparentemente incurante delle sorti della guerra. Ma l’esercito greco non può fare a meno di lui per fronteggiare le forze troiane. Un’ambasceria, guidata da Fenice, Aiace e Odisseo, gli viene inviata con l’offerta di doni riparatori affinché deponga la collera e si convinca a riabbracciare le armi. Ma i discorsi che gli vengono rivolti, così come gli esorbitanti premi che gli vengono offerti, non lo persuadono. Al di là del conflitto personale con Agamennone, un altro pensiero appare attraversare la sua mente. Il pensiero – e insieme la tentazione – di rinunciare alla “bella morte” e allo splendore della gloria perché il semplice fatto di essere vivi costituisce un valore assoluto la cui perdita nulla potrebbe davvero compensare: “Si possono predare buoi e pecore grasse, con il denaro si possono comprare tripodi  e cavalli, ma la vita di un uomo non ritorna indietro, non la si può rapire o ricomprare, quando ha passato la chiostra dei denti” (Iliade 9,406-409). La psuché, la “vita”, il “soffio” che anima il corpo, è inestimabile e irripetibile. Perché allora continuare a metterla a repentaglio se è possibile decidere altrimenti? Un’alternativa alla “breve durata” sarebbe ancora possibile: “Mia madre Teti,” spiega Achille, “mi dice che due diversi destini mi possono condurre alla morte: se rimango qui e continuo l’assedio di Troia, non avrò ritorno, ma immortale sarà la mia gloria; se invece ritorno a casa, nella mia terra natia, non vi sarà per me splendida gloria, ma lunga sarà la mia vita, e non 159

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mi raggiungerà presto l’istante finale della morte” (Iliade 9,410-416). Meglio dunque salpare alla volta di casa, fare vela in direzione di Ftia, e godere, il più a lungo possibile, della calda luce del sole, senza preoccuparsi di altro. Immaginando la propria imminente partenza, Achille suggerisce di seguire il suo esempio e di abbandonare, come un inane progetto, la presa di Troia: “E anche agli altri vorrei consigliare di tornarsene a casa per mare, perché mai vedrete la fine di Ilio” (Iliade 9,417-419). A dispetto di tale rinuncia, l’urto imprevedibile degli eventi lo riporta, tuttavia, sul cammino della “breve durata” e della fine gloriosa. Quando l’amato Patroclo viene ucciso da Ettore, un dolore atroce lo dilania e una nuova più feroce collera lo accende, facendolo ritornare sui suoi passi. Ora, il suo unico intento, la sua unica necessità è vendicare la morte del compagno, l’uccisione di colui che egli aveva amato come e più di se stesso: “Ti seguirò sottoterra e non ti darò sepoltura prima di aver portato qui le armi e la testa di Ettore”, così promette (Iliade 18,333). E il pensiero della vita più non conta: importa solo il dovere cavalleresco e aristocratico di onorare la memoria del compagno, importa solo l’intensità dell’affetto perduto. In tutto questo, la scelta di Achille si muove attraverso un gioco di specchi che gli rimandano, per ben due volte, la sua stessa immagine e, insieme a essa, il profilo di quella fine che si era figurato di allontanare da sé. Patroclo era sceso in battaglia indossando l’armatura di Achille, al punto da poter essere scambiato con lui. E, quando la lancia di Ettore gli tronca il respiro e la vita, è come se, nella figura di Patroclo, anche Achille una prima volta perisse, incon160

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trando il riflesso anticipato della propria morte. Quando, più tardi, l’eroe affronta Ettore, di nuovo, ciò che gli si mostra è una sorta di doppio, poiché il nemico troiano, dopo aver spogliato il cadavere di Patroclo, indossa le armi che erano state di Achille. Così, uccidendo Ettore, il figlio di Teti sembra uccidere anche se stesso. La scelta della “gloria indistruttibile” – per quanto prevista dai disegni del fato – è, dunque, per Achille, un avvicinamento progressivo e sofferto. Un processo, appunto, di iniziazione, in cui la fine diviene, nella dinamica delle anticipazioni e dei riflessi, sempre più cosa “propria”, per poter essere infine abbracciata e, con un ultimo estremo slancio, oltrepassata nella conquista di un’immagine ideale e imperitura. La morte di Achille non viene peraltro mostrata nel­ l’Iliade, quasi che non fosse necessario narrare ciò che ormai era scontato accadesse e ciò che il gioco dei doppi aveva già implicitamente inverato. L’ultima volta che l’eroe compare nel poema è nella scena notturna della restituzione del cadavere di Ettore. Senza che nessuno se ne accorga, scortato da Ermete, Priamo penetra nell’accampamento greco, giungendo alla tenda di Achille. L’anziano re si prostra supplice ai piedi dell’eroe e bacia quelle mani che tanti figli gli avevano ucciso durante la guerra. Chiede che gli sia reso quel corpo su cui Achille aveva infierito con furore selvaggio. E, nel formulare tale preghiera, Priamo invita l’eroe ad aprirsi, per una volta, alla compassione. Lo invita a ricordarsi di suo padre Peleo, che, come Priamo, è ormai debole e anziano: “Abbi pietà di me nel ricordo di tuo padre: io sono ancora più degno di pietà di lui, io che ho sopportato, come nessun altro uomo mai sulla ter161

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ra, di portare alle labbra le mani dell’uomo che ha ucciso mio figlio” (Iliade 24,503-506). Le parole producono un effetto. E, per alcuni istanti, è come se il tempo si fermasse, dischiudendo una dimensione altra dalla violenza del conflitto che sempre divide gli uomini e alimenta passioni opposte. Le lacrime cominciano a scorrere sul volto di entrambi. Con il capo imbiancato dalla canizie, Priamo piange, a dirotto, per Ettore che era stato il baluardo di Troia, per quel figlio che giace riverso sulla terra, fuori dalla tenda. Achille piange per suo padre, che non rivedrà mai più; piange per l’amato Patroclo, la cui tomba recente si leva poco lontano; piange forse anche sulla sua stessa vita, che sta per giungere al termine fatale. Lo strazio della perdita li accomuna e li rende uguali al di là degli atroci contrasti determinati dalla storia. Uno stesso sentimento di desolazione, di solitudine e di impotenza li afferra. È il dolore per quella condizione caduca ed effimera che segna, in modo ineluttabile, l’esistenza di tutti gli uomini. Quel dolore che il codice eroico tenta di superare, portandosi oltre l’effimero. Kléos ed éleos, “gloria” e “pietà” rimandano l’una all’altra, nel cerchio perfetto che la voce delle Muse e il canto dell’aedo disegnano per i loro ascoltatori. E sono proprio le Muse a far intendere la loro voce quando anche la vita di Achille si spegne. L’ultimo canto dell’Odissea, come riprendendo ciò che l’Iliade aveva lasciato in sospeso, evoca il quadro grandioso del funerale dell’eroe attraverso una descrizione che costituisce un paradigmatico suggello alle ragioni ideali della “bella morte”. Il cadavere di Achille era stato appena lavato e unto, i Greci gli tributavano i dovuti omaggi, recidendosi i capel162

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li, quando un urlo immane si era levato dal mare, seminando il panico nell’accampamento. Era Teti, che, con il suo corteggio di ninfe marine, era venuta, anche lei, a piangere quel figlio che non aveva potuto rendere immortale. E, insieme a lei, nella piana di Troia, giunse anche il coro delle nove Muse. Non potevano che essere loro a celebrare Achille. Non potevano essere che le figlie di Zeus dalla voce di miele a cantare per l’eroe che più di ogni altro meritava parole di gloria e di pietà: “Le nove Muse cantavano tutte il lamento, alternandosi con la loro bellissima voce, e non c’era nessuno che non piangesse, tanto commovente era il limpido canto delle dee” (Odissea 24,60-62). Per diciassette giorni e diciassette notti, uomini e dèi, mortali e immortali, fianco a fianco, non avevano smesso di rendere omaggio ad Achille, compiendo i gesti rituali, fino a che il suo cadavere non fu bruciato e le sue “bianche ossa” furono poste nella medesima urna che conteneva i resti di Patroclo. Splendidi doni furono ancora offerti da Teti perché i giochi funebri in onore del figlio fossero celebrati nel modo più fastoso. Un funerale ‘monumentale’ che, con le lacrime e la voce delle Muse stesse, consacra, nel modo più alto, l’immagine eterna dell’eroe: “Così, Achille, neppure da morto, hai perduto il tuo nome, ma per sempre vivrà la tua nobile gloria” (Odissea 24,94-95).

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Il luogo dell’arte È ormai trascorso quasi un decennio dalla caduta di Troia, da quella notte di ferro e di fuoco, in cui una lunga guerra – intrapresa per riconquistare la bellezza di Elena – aveva trovato il suo cruento suggello. Molti eroi greci erano morti sotto le mura della città, in terra straniera. Altri erano stati più fortunati ed erano riusciti, infine, a vedere il “giorno del ritorno”, a riguadagnare la via di casa, dopo che tutto si era concluso. Ma non era accaduto così per Odisseo. Dopo aver vagato per tre anni, sulle rotte del mare, tra pericoli e incontri esiziali, era infine rimasto solo, disperso in un labirinto d’acqua che sembrava non avere termine e uscita. I suoi compagni erano tutti morti, la sua nave distrutta da un fulmine e ingoiata dai flutti. Sbattuto dalle correnti, era finito per approdare all’isola solitaria della bella Calipso, una Ninfa il cui nome rinvia all’atto di kalúptein, di “nascondere”, di “celare”. Giungere in quel luogo incantato e remoto – ugualmente distante da uomini e dèi – era come entrare nel dominio dell’invisibile, in una sorta di limbo sospeso tra la vita e la morte, in una stasi 165

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ove l’esistenza non cessa, ma nessuna azione e nessun incontro sono di fatto possibili. Per una durata di sette anni – un numero simbolico che corrisponde al passaggio dalla potenzialità latente al compimento della manifestazione effettiva – Odisseo è rimasto “celato” in questa condizione. Ma è tempo, come il sette appunto segnala, che egli ritorni all’esistenza piena. Gli dèi hanno così decretato e ingiungono a Calipso di far partire l’eroe, riconsegnandolo alla vita. Odisseo, con l’arte di un consumato carpentiere, si costruisce così una zattera e in essa si imbarca, tenendo gli occhi fissi alle Pleiadi e alle stelle dell’Orsa, per trovare la giusta direzione. Ma l’ira di Poseidone – sdegnato per l’accecamento del Ciclope – ancora lo perseguita e la violenza della tempesta scatenata dal dio lo travolge. Sarebbe irrimediabilmente perduto se, dalle onde, non emergesse soccorrevole la divina Ino che gli fa dono di una fascia magica, capace di salvarlo dalla furia dei marosi. Si compie così un altro naufragio, un altro approdo in una terra sconosciuta. Nudo e stremato, Odisseo è sbattuto sulle rive di Scheria, l’isola dei Feaci. È questa la sua ultima ed estrema tappa prima di poter tornare all’amata Itaca. Una tappa fatta di poesia e di racconti, come se, prima di riguadagnare il mondo dei vivi, prima di riconquistare la propria visibile identità, fosse necessaria un’ulteriore, ma differente sosta, dove la parola e il discorso consentano di ritrovare una forma dell’essere e dell’esistenza, dove la storia vissuta si riavvolga su se stessa e si ricapitoli, permettendo il compiersi di una reintegrazione. L’isola dei Feaci sembra fatta proprio per questo. È anch’esso un luogo separato e altro, ma in modo diverso dal 166

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regno di Calipso. È uno spazio felice dove la vita umana scorre in pace e in letizia, protetta dal dolore e dalla violenza. Di rado qualcuno vi giunge dall’esterno. Rarefatti sono i rapporti con gli uomini di altri paesi, ma i suoi abitanti, in compenso, hanno il privilegio di essere visitati dagli dèi e di poterli vedere nel loro effettivo sembiante. Sono distanti dal tumulto del mondo, ma vicini e benedetti dalla presenza del sacro. La loro è una terra dove la bellezza e la gioia sembrano aver trovato una dimora d’elezione. Ogni cosa vi appare costruita e forgiata con sapienza e perizia. Il palazzo del re Alcinoo è tutto uno splendore d’oro e d’argento, di bronzo e di pietra azzurra, finemente lavorati e fra loro intrecciati. Cani forgiati di metallo prezioso, opera dello stesso Efesto, il dio artigiano, vi fanno la guardia. Statue auree di fanciulli reggono le fiaccole che illuminano a giorno ogni stanza. Drappi sottili e preziosi avvolgono i seggi e il trono. All’esterno, un giardino meraviglioso solcato dalle acque di due fonti e costellato di alberi che fioriscono e danno frutti copiosi in ogni stagione. Un eden ove la vita umana sembra distillata e trasfigurata nella misura della perfezione. “Amiamo il banchetto, la cetra, le danze, cambiare le vesti, i caldi bagni e l’amore”, “Siamo superiori a tutti nell’arte navale, nella corsa, nella danza e nel canto”: così i Feaci descrivono se stessi (Odissea 8,148-149; 233-234). L’arte della musica e della poesia, l’eleganza degli oggetti e dei corpi, la passione per l’attività sportiva, la cura di un confortevole vivere quotidiano, il piacere di stare insieme, la dolcezza degli intrecci amorosi: tale è lo stile perfetto e aristocratico che essi hanno assegnato alla loro esistenza. Un’arte che oltrepassa qualsiasi misura co167

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mune e assurge, per così dire, alla forma di una realizzata magia. Le navi dei Feaci non hanno né timoni né nocchieri: a guidarle basta la forza della mente ed esse, che ogni rotta conoscono, attraversano gli abissi marini, immuni da ogni pericolo e più veloci del pensiero stesso. È un mondo, quello di Scheria, ove la vita umana, per la sua vicinanza al divino, ha trovato una dimensione ideale: una forma compiuta che appartiene al tempo mortale, ma, insieme, si distingue da esso. In questo regno della bellezza e della sapienza artistica, Odisseo entra stretto dal bisogno più assoluto, tormentato dai morsi atroci della fame, con l’aspetto spaventevole di una fiera selvaggia, di un “leone” con gli occhi che “mandano lampi” minacciosi (Odissea 6,130; 8,215-216). Ha toccato l’estremo della nuda e animale sopravvivenza, della totale spoliazione, e da qui deve risalire. Protetto da una nebbia con cui la dea Atena l’ha avvolto, Odisseo raggiunge, senza che nessuno lo scorga, il palazzo di Alcinoo. Entra nella grande sala e si pone supplice alle ginocchia della regina, per poi sedersi umilmente presso la cenere del focolare. Egli appare come dal nulla, chiedendo di essere aiutato a tornare a casa. Il re e i nobili Feaci rimangono stupefatti e in silenzio, ma sanno – loro che sono “cari agli immortali” e rispettosi delle norme divine – che ogni straniero viene da Zeus e gode della sua protezione. Sanno che ogni supplice è sacro e inviolabile: sotto le sue spoglie un dio stesso si potrebbe nascondere. Per questo, essi non esitano ad accogliere la richiesta di Odisseo: si impegnano a ricondurlo in patria, come egli desidera. Ma prima, come è giusto e necessario, colui che è stato accolto e rico168

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nosciuto come ospite deve essere riconfortato e festeggiato. Deve ricevere doni ed essere onorato, partecipando dei beni e della prosperità della terra cui è pervenuto.

Il banchetto e il canto Alcinoo vorrebbe sapere chi Odisseo sia, da quale luogo sia giunto. Ma l’eroe, proprio perché affamato e stremato, non ha forze e animo per presentarsi in modo adeguato. Fa solo qualche cenno all’ultimo naufragio, senza dire il suo nome. Con tatto e rispetto, Alcinoo non insiste, lasciando l’eroe al riposo del sonno. La notte è ormai prossima. Ma, quando sorge l’aurora del giorno successivo, tutto viene predisposto perché l’accoglienza assuma la debita forma. I Feaci vengono informati dell’arrivo dello straniero e Alcinoo invita i nobili a palazzo: “I signori che hanno lo scettro [...] vengano nella mia casa bellissima per accogliere l’ospite. Nessuno si neghi. E chiamate l’aedo divino, Demodoco, cui gli dèi hanno concesso il dono del canto, per dare diletto, così come il suo cuore lo ispira” (Odissea 8,40-45). Ed è così che ha inizio un ricco banchetto. In mezzo ai convitati, su un trono d’argento, viene fatto accomodare Demodoco. La sua cetra appesa a una colonna. Quando tutti hanno soddisfatto il desiderio di “cibo” e di “bevanda”, ecco che giunge il momento proprio della Musa, il momento in cui la gioia del canto deve intervenire a completare la bellezza della festa, elevandone il tono e arricchendola di significato. Demodoco prende a cantare i kléa andrón, le 169

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“glorie degli eroi”, scegliendo, tra le tante storie del suo repertorio, un episodio “la cui fama saliva fino al vasto cielo”: “La contesa tra Odisseo e il figlio di Peleo, Achille, come avvenne che essi litigarono con aspre parole in un sontuoso banchetto offerto agli dèi”, mentre Agamennone ascoltava l’alterco gongolando, perché l’oracolo di Apollo gli aveva predetto che Troia sarebbe caduta quando i primi fra i Greci fossero venuti a contesa tra loro (Odissea 8,74-82). La storia scelta per dilettare la corte di Scheria appartiene, dunque, alla saga troiana e, benché l’Iliade non ne faccia menzione, essa inerisce alla medesima materia mitica su cui l’altro poema omerico aveva centrato il proprio racconto. Con un singolare effetto di ricapitolazione e insieme di specchio. Anche se in modo all’apparenza inconsapevole – per quanto nulla possa sfuggire alle Muse –, l’aedo canta, proprio in quel momento e in quel luogo, una vicenda che coinvolge l’ospite, ancora incognito, dei Feaci: canta della gloria di Odisseo dinanzi all’eroe stesso. Ma egli non trae piacere da ciò che ascolta. Afferra i lembi del mantello e se ne avvolge il capo, per nascondere il pianto irrefrenabile che gli scorre sulle guance. Quando Demodoco fa una pausa, interrompendo il racconto, Odisseo si scopre e, asciugandosi le lacrime, offre una libagione agli dèi. Ma, poi, di nuovo, torna a coprirsi, non appena il canto riprende e le lacrime gli riempiono gli occhi. Il pubblico della corte, rallegrandosi di quanto ascolta, non si accorge della reazione. La nota solo Alcinoo, che propone di proseguire la festa all’esterno. Fuori della reggia, uomini e ragazzi mostrano il proprio valore e la propria forza, gareggiando chi nella corsa, chi nella lotta e chi ancora nel lancio con il disco. Ma 170

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dopo le prove dell’eccellenza fisica – nelle quali, suo malgrado, viene coinvolto anche l’eroe – la Musa fa, ancora una volta, avvertire la propria preziosa presenza. Viene preparato, con cura, un ampio spiazzo per la danza e, al centro di esso, viene accompagnato l’aedo con il suo strumento: “Nel mezzo si reca Demodoco e intorno a lui si dispongono ragazzi nel pieno fiore dell’adolescenza, abili danzatori, che coi piedi ritmano la danza divina. E Odisseo contempla, pieno di stupore, il guizzare dei loro piedi” (Odissea 8,262-265). Questa volta, pizzicando le corde della cetra, l’aedo propone al suo pubblico una storia che ha, per protagonisti, gli dèi. Egli canta “gli amori di Ares e Afrodite, come per la prima volta essi si unirono, di nascosto, nella casa di Efesto” e come il marito tradito tese loro una trappola per prenderli in flagrante e denunciarne l’adulterio davanti alla famiglia divina. La storia diverte tutti i presenti e anche Odisseo, per un momento, sembra rallegrarsi. Ma l’intrattenimento non è ancora finito. Dopo l’esibizione concomitante dell’aedo e dei danzatori, Alcinoo chiede che due di loro, i più bravi in assoluto, si esibiscano da soli. Ed essi iniziano così una serie di evoluzioni, giocando con una palla “bella e purpurea”: “L’uno, curvandosi all’indietro, la lancia in alto, fino alle nuvole, mentre l’altro, spiccando un salto, la riafferra agilmente, prima che i piedi tocchino terra.” E, dopo aver gareggiato con la palla, ancora si alternano ripetutamente nella danza, mentre gli altri giovani, al bordo del campo, scandiscono il ritmo con grande fragore (Odissea 8,374-382). Le due esibizioni del cantore offrono una rappresentazione archetipica, se così si può dire, della modalità in 171

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cui il dono delle Muse viene accolto e fruito in una comunità arcaica. La poesia è qualcosa di cui si gode insieme, nella convivialità di uno spazio raccolto o nell’esultanza di un’occasione pubblica. Tra le mura della reggia, al cospetto di un pubblico aristocratico, l’aedo propone un tema serio, un episodio eroico tratto dalla saga epica. All’aperto, dinanzi a un pubblico più ampio ed eterogeneo, risuona una storia più giocosa e, per certi aspetti, comica, in cui l’irresistibile desiderio erotico per il corpo della divina Afrodite finisce per suscitare, a dispetto dello sdegnato Efesto, anche il “riso irrefrenabile” degli dèi. A questi due movimenti ne segue un terzo che chiude il tutto in una sorta di cerchio perfetto. Alcinoo e i suoi tornano nella reggia a preparare i ricchi doni che verranno offerti a Odisseo prima della sua partenza. E, un’altra volta, la corte si riunisce a banchetto. Demodoco riprende la propria posizione al centro, da dove tutti possano intendere la sua voce. In segno di omaggio e di apprezzamento, Odisseo offre al cantore un prelibato pezzo di carne. Un gesto che ribadisce, se fosse ancora necessario, il valore e il ruolo dell’arte che egli esercita: “Per tutti gli uomini che vivono sulla terra, gli aedi sono degni di rispetto e di onore perché a essi la Musa ha insegnato le vie del canto” (Odissea 8,479-480). Nella sua prima esibizione, Demodoco ha narrato i fatti troiani in modo mirabile – li ha disposti nel kósmos, nell’“ordine bello” di un racconto compiuto e perfetto – e ora Odisseo, quasi per metterlo alla prova, gli chiede espressamente di evocare un altro episodio: “Adesso cambia argomento e canta la storia del cavallo di legno [...], la trappola che il divino Odisseo 172

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portò nella rocca di Troia dopo averla riempita di uomini che distrussero la città” (Odissea 8,491-494). Se, anche in questo caso, egli saprà narrare i fatti in modo giusto – assegnando a ogni personaggio la móira, la “parte” che gli spetta all’interno della storia – Odisseo si impegna a proclamare a tutti la sapienza di Demodoco, la divina ispirazione che sostiene la sua voce. L’aedo non si sottrae alla sfida e, accompagnato dalla cetra, sgrana, passo dopo passo, il tempo di quella notte in cui il destino di Troia fu deciso per sempre. Racconta l’incertezza dei Troiani davanti a quel singolare simulacro ligneo portato all’interno della città: trapassarlo con le lance, gettarlo giù dalle rocce o lasciarlo lì, sull’acropoli, come un dono propiziatorio agli dèi? Racconta come quest’ultima scelta prevalse, portando a compimento il disegno del fato, come i Greci, fuoriusciti dal nascondiglio, seminarono ovunque devastazione, e come ancora Odisseo insieme a Menelao si recò a casa di Deifobo per riprendere Elena. Ma, mentre Demodoco si diffonde nel canto, Odisseo non riesce a goderne, come accade, invece, agli altri presenti nella sala regale. Lacrime cocenti tornano a rigargli le guance: “Come piange una donna, riversa sul cadavere del suo sposo, caduto davanti alla città e ai suoi uomini per allontanare dalla patria e dai propri figli il giorno fatale, e lei che l’ha visto morire e sussultare nell’agonia, manda acuti gemiti e lamenti, abbandonata su di lui, mentre i nemici, da dietro, le pungono con la lancia la schiena e la trascinano in schiavitù, verso una vita di dolore e di fatica, e le sue guance si consumano per lo strazio insopportabile, così lacrime di pietà Odisseo versava da sotto le ciglia” (Odissea 173

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8,523-531). Similitudine ampia, struggente quanto sconcertante rispetto alle dinamiche che, in astratto, presiedono al rapporto tra il valore eroico e il dono del canto. Eroi e aristocratici guerrieri a null’altro ambiscono che a manifestare la propria eccellenza, a trasformare la loro impresa in un’immagine e in un modello perenne. Per questo corrono incontro alla morte e la sfidano a ogni istante, perché vogliono che, al di là della fine, qualcosa di loro resti e si fissi in una memoria imperitura che sia di ispirazione per altri. E l’inganno del cavallo, cantato da Demodoco, era stato un’idea risolutiva di Odisseo, il piano che aveva chiuso, con successo per i Greci, la guerra decennale sulla piana di Troia. Quell’inganno era stato forse il vertice della fama eroica di Odisseo, la sua gloria più rifulgente. E ora, alla corte dei Feaci, può vedere che tutto è già divenuto poesia e racconto. L’aedo, ispirato dalla Musa, gli offre l’alétheia, la “verità” del passato di cui è stato protagonista. Gli offre la prova che il suo valore non è caduto nell’abisso di léthe, dell’“oblio”, ma che, al contrario, è stato fissato in una traccia durevole di parole e di versi sapientemente composti. La Musa gli fa dono di quella “forma” perfetta che egli aveva desiderato in ogni sua azione, riconoscendogli la móira, la precisa “parte” che gli compete nel risuonare delle “glorie degli eroi”. Eppure, tutto questo non lo rallegra, non lo fa esultare, come ci si attenderebbe e come forse egli stesso si attendeva. La sua risposta è il pianto o, meglio, come dice il passo omerico, “lacrime di pietà”. Di che cosa piange il trionfatore di Troia? Di che cosa prova éleos, “pietà”? Forse, come alcuni hanno immaginato, tale reazione si deve alla lun174

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ga lontananza dal mondo degli uomini, a quella singolare stasi nell’isola nascosta di Calipso. Pensava di non esistere più, di essere stato cancellato e dimenticato, di essere diventato, appunto, egli stesso, invisibile come il luogo abitato dalla Ninfa. Pensava che tutte le sue azioni e le sue imprese fossero diventate anonime ovvero, letteralmente, prive del suo nome e della fama che meritavano. Ma, nella reggia di Alcinoo, scopre, per contro, che nulla si è cancellato, che ogni verso parla ancora di lui per celebrarlo, che la Musa non è venuta meno al suo impegno, e allora si è sciolto nella commozione. Piange perché si è ritrovato, perché la poesia gli ha restituito la sua immagine e la sua storia. Perché il canto di Demodoco lo ha salvato e lo ha fatto di nuovo ‘essere’ ciò che egli è. Tuttavia, nelle lacrime c’è anche dell’altro, se bisogna accordare un significato alla similitudine. Qualcosa che va al di là del desiderio stesso della gloria. Una dimensione che oblitera ogni differenza e trascende la “parte” assegnata a ogni singolo uomo. Odisseo si dispera come una donna che ha perduto gli affetti, la patria e la libertà. Si dispera come una di quelle donne a cui egli stesso, con il suo celebre inganno, ha distrutto la vita in quella notte fatale. Il vincitore piange come chi è stato vinto. Ed è questa la voce della “pietà” che supera ogni ruolo e ogni condizione, perché nulla è stabile nell’esistenza mortale: come la poesia arcaica non si stanca di ripetere, fortuna e sventura, felicità e infelicità si avvicendano di continuo per tutti coloro che vivono e si muovono sulla terra. È la voce della “pietà” che, al di là di Odisseo, la Musa e il cantore fanno risuonare sui destini umani, mostrando che, se la gloria 175

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non si spegne, resta, in ogni caso, un inobliabile orizzonte di dolore che nessun provvisorio trionfo può cancellare. Il dono della poesia è anche il dono pietoso delle lacrime per tutto ciò che, come l’uomo, è fragile e caduco. È il dono di una misura che, senza togliere la luce conquistata dal valore, ricorda l’ombra che può avvolgere, a ogni istante, tutto ciò che è destinato alla morte. Tuttavia, nel pianto di Odisseo, vi è forse un’ulteriore ragione di natura estetica, intrinseca al dispiegarsi del piacere stesso del canto. La poesia può rappresentare i fatti più crudi e le vicende più atroci, può narrare le storie più sventurate e ciò nonostante offrire diletto. Ci si immedesima nelle disgrazie dei personaggi e ci si commuove, piangendo per ciò che a loro è accaduto e per quanto potrebbe accadere a ognuno. Nelle vicende altrui si ripensa alle proprie e si finisce per piangere anche su se stessi. Ma le lacrime che si versano sono dolci e non disperate poiché, in ogni caso, le storie della poesia riguardano altri e non sono l’immediato riflesso di vicende personali. Vi è una distanza, protettiva e salvifica, che separa la storia dalla realtà. Vi può essere una somiglianza che echeggia, ma non letterale identità. Il contrario di ciò che accade a Odisseo, poiché lui e il canto sono la medesima cosa e la realtà del passato, la realtà della guerra e della violenza lo travolgono al di là del premio e del prestigio della gloria. Non vi è dolcezza quando la parola fa rivivere, senza filtro, la propria stessa pena.

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Il racconto dell’eroe L’ascolto del canto di Demodoco è ciò che prelude e insieme prepara il disvelarsi di Odisseo. La risonanza interiore della poesia, la reazione soggettiva dell’eroe, difforme dal resto del pubblico, fa ritornare alla domanda rimasta in sospeso all’inizio: chi è e da dove viene quello straniero? È come se, per rispondere all’interrogativo di Alcinoo, fosse prima necessario passare attraverso la poesia dell’aedo che racconta la gloria dell’eroe. Come se fosse necessario che la voce stessa della Musa provvedesse a creare un ambiente e un’atmosfera. Solo dopo un canto che dice chi è stato Odisseo e che cosa egli ha compiuto, si produce il contesto in cui Odisseo stesso può dirsi e parlare di sé. Alcinoo interrompe Demodoco, richiamando l’attenzione di tutti sul dolore dell’ospite. Se il banchetto e la voce delle Muse sono occasione di gioia, nessuno deve essere escluso dalla serenità condivisa: “Taccia l’aedo, affinché tutti possiamo essere lieti, l’ospite e noi che lo ospitiamo: è meglio così [...]. Per chi abbia un minimo di saggezza, l’ospite, il supplice, è come un fratello. Perciò ora non mi nascondere quello che ti domando” (Odissea 8,543-549). Questo legame fraterno – che viene ribadito con esplicita rassicurazione e che tutta l’accoglienza festiva testimonia – è l’elemento che sollecita e garantisce l’articolarsi di un’ulteriore parola. È quanto consente di mostrarsi reciprocamente senza timore, di scambiare discorsi in risposta a quelli che altri hanno già fatto risuonare nella conversazione comune o secondo il dettato della Musa. E non è un caso che Odisseo, nel suo esor177

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dio, sottolinei, una volta di più, proprio il valore di quello spazio e di quel modo di stare insieme: “Io dico che non esiste cosa più bella di quando la gioia regna tra il popolo e i convitati: seduti l’uno accanto all’altro, ascoltano il cantore e le tavole sono piene di pani, di carni, e il coppiere attinge vino dal grande vaso per versarlo nelle coppe” (Odissea 9,5-10). Da qui egli comincia il suo lungo racconto, facendosi, a tutti gli effetti, cantore di se stesso perché i suoi ascoltatori possano conoscere e ricordare, per il tempo futuro, la sua storia. Quel che egli narra ai Feaci intenti all’ascolto non è che il prolungamento del canto di Demodoco. Se l’aedo si era soffermato sui fatti troiani, sulla materia alla base dell’Iliade, l’eroe dispiega e fa esistere quanto segue alle imprese di guerra: egli dischiude, attraverso le sue parole, il cuore stesso dell’Odis­ sea nello snodarsi delle disgrazie e delle mirabili avventure che hanno segnato il suo accidentato e, per il momento, incompiuto ritorno. La narrazione sarà un sicuro diletto per i Feaci, così come lo era stata l’esibizione di Demodoco. Ma, per la stessa ragione, Odisseo non potrà fare a meno di soffrire ricordando e raccontando, così come egli aveva pianto per quello che la poesia dell’aedo gli aveva ricordato: “Il cuore ti ha spinto a chiedermi delle mie penose disgrazie,” osserva Odisseo, “perché io pianga e soffra ancora di più” (Odissea 9,12‑13). Anche chi racconta, al pari di chi ascolta, dovrebbe essere distante e ‘altro’ dai fatti narrati per poter godere e non essere turbato dal contenuto del racconto. Ma, a dispetto della dichiarazione di Odisseo, ci si può chiedere se proprio l’atto di narrarsi in prima persona non sia il modo 178

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migliore di dar forma e significato alla propria sofferenza, trasformando anch’essa in un dono delle Muse. Andando a ritroso nel tempo, Odisseo prende, quindi, a raccontare ciò che gli era accaduto tra il momento della partenza da Troia e l’approdo all’isola di Calipso. Un susseguirsi di vicende tra terra e mare, di pericoli mortali e di creature mostruose che avevano decimato i compagni e messo a dura prova la resistenza dell’eroe. Dallo scontro con i Ciconi all’approdo presso i Lotofagi, sprofondati nella narcosi del frutto drogato di cui essi si nutrono; dal cannibalismo ferino del Ciclope all’arrivo alla casa di Eolo, signore dei venti; dalla violenza belluina dei giganteschi Lestrigoni ai sortilegi di Circe, che trasforma gli uomini in maiali; dalla discesa nell’Ade alla rovinosa malia delle Sirene; dalla furia assassina di Scilla e Cariddi all’arrivo presso la fatata isola del Sole, dove i compagni avevano empiamente ucciso le vacche del dio, scatenando il prodursi di un orrendo prodigio: a ogni tappa, l’eroe aveva rischiato di perdersi nell’incontro traumatico e distruttivo con tutto ciò che è assolutamente Altro e che, proprio per questo, minaccia di dissolvere ogni forma di identità soggettiva. Nello svolgersi di quella rotta ondivaga e del tutto involontaria, oscillante di continuo tra oriente e occidente, Odisseo aveva lottato strenuamente, passo dopo passo, per essere e per ritrovare se stesso, ed è questa forse la gloria più grande che si offra a un eroe. Aveva lottato per uscire dalle anse funeste di quel labirinto in cui il suo viaggio marino si era trasformato. Trionfare sulla trappola micidiale di quel disorientante disegno: era, quella, la prova iniziatica che egli era stato chiamato a superare. 179

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I Feaci ascoltano rapiti le parole di Odisseo. Godono del racconto, come egli stesso aveva implicitamente previsto, e non dubitano, in alcun modo, di tutti quegli esseri mostruosi e di quelle inusitate peripezie che egli sciorina per rispondere alla preghiera che Alcinoo aveva formulato: “Dimmi con esattezza,” aveva chiesto il re, “come ti è accaduto di andare errando, in quali terre e presso quali uomini sei giunto [...], chi di loro è violento e selvaggio [...] e chi invece è ospitale e rispettoso degli dèi” (Odissea 8,572-576). Nel suo progressivo svolgersi, la narrazione dell’eroe suona come un discorso “sincero”, preciso e ricco di dettagli, e, per ciò stesso, degno di fede. A un certo punto è lo stesso Alcinoo a intervenire con un commento che testimonia l’effetto di quelle parole: “Odisseo, tu certo non sembri a vederti un imbroglione o un furfante come ce ne sono tanti sulla terra, sparsi ovunque, gente che costruisce menzogne (pséudea) [...]. Le tue parole hanno forma e bellezza, e saggi sono i tuoi pensieri. Con arte e sapienza, come un cantore, hai raccontato le tue sventure e quelle di tutti i Greci [...]. La notte è lunga, infinita, e nella grande sala non è ancora ora di andare a dormire, continua, raccontami imprese mirabili. Fino all’alba io starei qui, se tu volessi narrarmi le tue pene” (Odissea 11,373‑376). Il re dei Feaci appare, dunque, persuaso che Odisseo non stia ingannando i suoi ospiti. Il suo racconto non sarebbe un artificio intessuto di falsità per confondere chi lo ascolta. Non vi sarebbe pséudos, “menzogna”, in quel che afferma. Ma il giudizio di Alcinoo non si fonda sulla possibilità di accertare una congruenza tra parole e cose. La convinzione che l’eroe non menta non si basa su 180

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un sapere o su un’evidenza che garantisca la perfetta corrispondenza tra discorso e realtà. Non si dà, per così dire, alcuna prova oggettiva, alcuna verifica fattuale, che quel che viene affermato sia avvenuto o esista. Alcinoo è sicuro che il suo ospite non sia un imbroglione in virtù di tutt’altro criterio. Il discorso che egli pronuncia appare, infatti, dotato di morphé epéon, di una “forma” che organizza e dispone le “parole” nella bellezza di un intreccio ordinato. E il contenuto che tale forma veicola è percepito come espressione di “validi” e “nobili” pensieri. La “verità” del racconto consiste, unicamente, nella bellezza e nella saggezza che lo ispirano e che lo fanno essere. “Menzogna” è, per contro, ogni discorso che sia sprovvisto di tali qualità, ogni parola in cui non sia possibile scorgere nulla di bello e di nobile. Ma da tutto ciò deriva un’ulteriore conseguenza. La “verità” della narrazione offerta ai Feaci sarebbe, più in generale, la “verità” della poesia stessa se, come Alcinoo osserva, il dire di Odisseo è in tutto simile alla “sapienza” e all’arte di un aedo. E, proprio per questo, nonostante sia ormai tardi, Alcinoo e la sua corte non sono ancora stanchi e non pensano di andare a dormire. Vogliono ascoltare ancora, vogliono continuare a godere di quella nobile bellezza, nel tempo raccolto e accogliente di una notte che il desiderio stesso fa sembrare “infinita”. La notte, il racconto e la poesia fanno parte di un unico incanto, di un’unica, preziosa e particolare verità, in cui l’eroe e l’aedo, il protagonista di gloriose imprese e l’arte di colui che le evoca, finiscono per coincidere nella medesima persona. Tale singolare quanto significativa sovrapposizione – che è cifra simbolica di quel mondo arcaico – non si 181

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limita, peraltro, alla figura del solo Odisseo e al poema che dispiega la sua storia. Anche nell’Iliade, per due volte, i due ruoli combaciano. Lontano dal campo di battaglia – da cui si è ritirato per l’offesa inflittagli da Agamennone –, Achille sembra trascorrere il suo tempo nel diletto della poesia e della musica. Anziché compiere nobili imprese, egli, per il momento, le narra, accompagnato dalla melodia della cetra. Sta seduto dinanzi alla sua tenda e intona il racconto di fatti gloriosi al cospetto dell’amico Patroclo, suo unico, ma non per questo meno rapito, ascoltatore: “Lo trovarono intento a godere della cetra sonora, bella, ben lavorata, con un ponte d’argento [...], con questa egli rallegrava il suo cuore e cantava gesta di eroi, e davanti a lui, Patroclo, da solo, se ne stava seduto in silenzio” (Iliade 9,186-189). Solo più tardi, quando Patroclo verrà ucciso, egli tornerà a combattere, lasciando che altri – Omero stesso e i poeti del ciclo epico – cantino di lui e della sua fine, chiudendo quel cerchio perfetto in cui le belle “forme” della parola e dell’azione si specchiano le une nelle altre. In modo analogo, nella reggia di Troia, Elena attende a un prezioso lavoro di tessitura e di ricamo: “Nella stanza ella lavorava a una grande tela, doppia, color della porpora, e in essa ricamava molte nobili imprese dei Troiani domatori di cavalli e degli Achei dalle bronzee corazze, quelle imprese che essi dovettero sostenere a causa sua” (Iliade 3,125-128). Tessere parole e tessere immagini è, in fondo, il gesto di una medesima arte. Elena, Achille e Odisseo sono i primi poeti della loro stessa gloria.

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Tra le ombre Le osservazioni di Alcinoo, con la concezione di verità e menzogna che esse sottendono, si producono, peraltro, in uno degli snodi più particolari e salienti dell’intera narrazione. Il re interviene, infatti, proprio nel momento in cui Odisseo sta raccontando l’avventura che, fra tutte, può apparire come la più incredibile ed estrema. Ma il suo commento implicitamente conferma il valore e il significato di quell’episodio che rappresenta, da ogni punto di vista, il cuore e il nucleo più profondo del viaggio dell’eroe. Odisseo, dunque, ricorda come Circe gli avesse dato un’indicazione del tutto sconcertante e terribile. Per far ritorno a casa, l’eroe non avrebbe dovuto indirizzare la rotta della sua nave alla volta di Itaca, come il senso comune avrebbe potuto suggerire. Per ritrovare la via del ritorno, Odisseo doveva procedere, paradossalmente, in senso opposto, recandosi all’estremo occidente del mondo, là dove una caligine spessa e una tenebra ininterrotta segnavano l’accesso al regno dei morti: “Non dovete più restare contro voglia nella mia casa,” aveva detto Circe a Odisseo impaziente di partire, “ma prima c’è un altro viaggio da compiere: dovete recarvi alla dimora di Ade e della tremenda Persefone [...], quando avrai attraversato l’Oceano, là dove troverai una riva bassa e il bosco sacro a Persefone, tira la nave a secco e poi scendi alle orride case di Ade, là dove il Piriflegetonte e il Cocito si gettano nell’Acheronte [...], là scava una fossa [...], intorno a essa versa libagioni per i defunti [...], quando avrai pregato e implorato le stirpi gloriose dei morti, allora sgoz183

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za un montone e una pecora nera, rivolgendone la testa verso l’Erebo, ma tu distogli lo sguardo [...], verranno in gran numero le anime dei defunti [...], ma tu non lasciare che le ombre senza forza dei morti si accostino al sangue prima di interrogare Tiresia [...], lui ti dirà la via e la durata del viaggio, come potrai navigare sul mare pieno di pesci” (Odissea 10,505‑540). Circe impartisce a Odisseo le istruzioni di un rituale terribile e spaventoso, perché nulla fa più paura che entrare nella morte, perché non c’è passo più estremo che accostarsi a quel mondo di tenebra, esponendosi al pericolo di essere risucchiati, per sempre, dalle forze di quella notte senza fine. A Odisseo si spezza il cuore quando sente quelle parole. Sconvolto dall’angoscia, non può fare a meno di piangere a dirotto e di dimenarsi come coloro che si rotolano a terra quando un lutto li schianta. Toccare l’Ade è già come essere morto: “Non volevo più vivere e vedere la luce del sole” (Odissea 10,498). Eppure, quella rotta è necessaria e inevitabile. Per tornare a casa, in senso proprio e simbolico, occorre passare attraverso la morte, occorre calarsi nel dominio invisibile che sta al di là della vita. È il principio cardine di ogni iniziazione e di ogni rito misterico: per essere in senso pieno, per rinascere e rigenerare se stessi, bisogna morire. Non c’è altra strada che questa. E, nell’esperienza oscura della morte, si accende una luce di conoscenza che attende chi a tale prova si espone: un insegnamento si dischiude, una diversa parola risuona. Nel caso di Odisseo, tale sapere ‘altro’ ed essenziale prende la veste di Tiresia, il celebre indovino cieco di Tebe, colui che aveva svelato a Edipo il suo atroce destino di figlio parricida e incestuoso. Tiresia 184

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è il solo – spiega Circe – cui Persefone ha concesso il privilegio di mantenere “salda la mente” anche nell’aldilà. In quest’Ade omerico, egli è il solo a conservare la continuità della coscienza e dell’intelligenza dopo la fine del corpo: il solo ad avere una mente capace di dominare ogni dimensione del tempo e della vita, allo stesso modo delle Muse e degli dèi per cui la morte semplicemente non esiste. Ma perché tutto ciò avvenga, occorre non solo darsi il coraggio dell’impensabile impresa, ma anche compiere un rito sacrificale. Il commercio con le ombre, la relazione con l’invisibile, ha un prezzo. Esige il tributo di sangue caldo e fumante. Esige il dispendio della sostanza stessa della vita data in offerta alla morte. Per parlare con i vivi, per far risuonare voce e parola, gli spettri devono abbeverarsi alla linfa vitale che scorre e anima i corpi. Per quanto straziato, Odisseo si sottopone alla prova. Ripetendole a se stesso e ai compagni, egli esegue, in ogni dettaglio, le istruzioni di Circe perché solo così il rito può funzionare. E, per la stessa ragione, si frena e controlla le sue emozioni perfino quando vede, fra i morti che si affollano, lo spettro di sua madre. Trattiene l’impulso di farla accostare, per prima, al sangue. Sa di dover restare impassibile affinché l’operazione abbia effetto. Con la spada sguainata, tiene discoste le ombre assetate in modo che il solo Tiresia si accosti: “Allontanati,” gli intima l’indovino, “affinché possa bere e dirti parole infallibili” (Odissea 11,96). Senza risparmiargli alcun dettaglio di un percorso che sarà in ogni caso duro e penoso, Tiresia dispiega dinanzi all’eroe il tracciato del destino che lo attende, mostrandogli le svolte e le alternative che esso gli offre, po185

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nendogli ulteriori condizioni, come la necessità di non cibarsi delle vacche del dio Sole. Lo rassicura sul ritorno e sulla vendetta, che egli non mancherà di compiere contro coloro che assediano la sua casa, ma al contempo gli impone, dopo che sarà giunto a Itaca, di ripartire un’ultima volta. Dovrà recarsi in un altro luogo remoto, in un paese i cui abitanti non conoscono né mare né navi, e là dovrà conficcare al suolo un remo e offrire un sacrificio a Poseidone, signore degli abissi marini: solo così il cerchio sarà definitivamente chiuso, solo così il labirinto delle avventure marine sarà suggellato ed esorcizzato per sempre, consentendo all’eroe di proseguire con dolcezza la sua esistenza fino al suo ultimo respiro terreno. Per conquistare la felicità e la vita non basta l’atto materiale di salvarsi dai flutti, non basta approdare al suolo della propria patria o varcare la soglia della propria dimora: un’intera sequenza di prove e di gesti rituali deve essere indefettibilmente compiuta per giungere alla realizzazione del proprio desiderio e della propria effettiva natura. Dopo che Tiresia ha parlato, Odisseo può concedere ad altri di avvicinarsi. A sua madre Anticlea, anzi tutto, che è morta di “nostalgia” per quel figlio che mai tornava: morta di aganophrosúne, di un “pensiero tenero e affettuoso” per colui che troppo era stato assente. Perché anche la dolcezza di un pensiero e di un affetto può uccidere. Odisseo tenta di abbracciarla, ma gli spettri non hanno corpo ed egli stringe solo il vuoto dell’aria. Ma non è un inganno o un’illusione: “Questa è la legge dei mortali,” ella replica paziente, “quando si perde la vita: la carne e le ossa non sono più sostenute dai nervi [...] e l’anima se ne vola via 186

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come un sogno” (Odissea 11,218-222). Potrebbero sembrare parole ovvie, quasi che Odisseo, a dispetto di tanti travagli e di tanti massacri, ancora non sappia che cosa sia quel momento in cui la forza del corpo si spegne e il rogo funebre ne consuma la materia. Ma tutt’altra cosa è che a dirlo sia una madre, la propria madre. Altra cosa quando è colei che ha dato la vita a pronunciare la díke, la “norma” stessa della morte. Anche in questo un cerchio si chiude e una conoscenza si imprime nell’anima in un modo che nessun’altra esperienza potrebbe produrre. Se Tiresia ha donato all’eroe il sapere del suo destino, Anticlea offre a suo figlio, nella massima e indelebile intensità, la verità assoluta del ciclo che presiede all’esistenza umana. Dopo questi due colloqui cruciali, Odisseo volge intorno lo sguardo e scorge le ombre di compagni, di coloro con cui aveva condiviso tante imprese di guerra e tante gesta del proprio passato. Vede Agamennone, Achille e Aiace, gli eroi che, in diverso modo, avevano segnato il corso dei lunghi anni trascorsi nella piana di Troia. E anche con loro si apre un dialogo o un confronto in cui il tempo si avvolge su se stesso, tangendo l’esperienza vissuta e insieme aprendosi a ciò che gli uni ignorano degli altri nella dimensione degli eventi che hanno fatto seguito o che contrassegnano il presente: la morte che Agamennone ha incontrato per l’infedeltà assassina di Clitemnestra, moglie ben diversa dalla fedele Penelope che aspetta Odisseo senza cedere a coloro che la assediano; il valore e il coraggio di Neottolemo che, seguendo l’esempio paterno di Achille, si è coperto di onore e di gloria; il silente rancore di Aiace che non ha perdonato a Odisseo di avergli sottratto la distinzione di 187

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ricevere le armi che erano state di Achille. Ma non è solo il profilo di relazioni personali, il contenuto di esperienze comuni, a farsi incontro a Odisseo. Un intero stuolo di eroi ed eroine gli si stringe attorno mostrando e dicendo, a prezzo del sangue, quei fatti e quelle passioni che erano state la cifra del loro destino: “E per prima vidi Tiro [...] che si innamorò di un fiume, il divino Enipeo [...], e generò Pelia e Neleo [...]. Vidi Antiope, figlia di Asopo, che si vantava di aver dormito fra le braccia di Zeus e aveva generato Anfione e Zeto, i fondatori di Tebe dalle sette porte [...]. E vidi Alcmena che mise al mondo Eracle, cuor di leone [...]. E vidi la madre di Edipo, che grande colpa commise senza saperlo [...]. E vidi Leda che a Tindaro diede due forti figli, Castore e Polluce [...]. E Fedra e Procri io vidi e la bella Arianna, che un giorno Teseo condusse al colle sacro di Atene [...]. E vidi Minosse [...], Orione [...] Tizio, [...] e ancora Tantalo [...] e Sisifo [...] e il fortissimo Eracle” (Odissea 11,135-600). Un intero catalogo si svolge, una sfilata di figure e di vicende, che sembra interminabile in quel susseguirsi di “e vidi...”. A differenza di Tiresia, gli altri defunti nulla sanno del futuro o del tempo successivo alla loro dipartita. Per questo sono “teste senza forza”. Per questo sono definiti, più in particolare, éidola, “simulacri” ovvero “immagini” in cui si è fissata, per sempre, la forma di una vita, la traccia specifica dell’esistenza che hanno vissuto. E questa forma possono esibire e raccontare a chi a essi si accosti e dia loro da bere, fino a che Persefone lo consenta. Perché, quando il contatto troppo si prolunga, c’è il rischio di rimanere impietriti dalla morte stessa, di essere paralizzati dallo sguardo micidiale 188

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della Gorgone, senza più poter tornare a vedere la luce: “E avrei visto altri eroi più antichi [...], ma innumerevoli schiere di morti si raccolsero, con grida paurose ed ebbi il terrore che Persefone mi mandasse contro la testa mostruosa e orrenda della Gorgone [...], perciò rapido tornai indietro” (Odissea 11,630-637). In questa discesa infera, che è al contempo un rituale evocatorio e necromantico, Odisseo non trova, dunque, solo le immagini del proprio passato eroico sotto le mura di Troia e la traccia del proprio futuro. Ciò che laggiù egli vede e apprende è, in realtà, l’intero mondo delle storie che tra cielo e terra sono accadute in un altro tempo: quelle storie di dèi e di eroi che costituiscono il fondamento e l’immaginario sostanziale di un’intera civiltà. Quella sfilata di simulacri spettrali – di forme cristallizzate di destini compiuti e di eventi decisivi – non è che l’universo stesso del mito. Un universo multiforme che si fa incontro a Odisseo in una sorta di ricapitolazione totale. Tale è il prezioso e ineguagliabile sapere che l’eroe riporta dall’Ade. La conoscenza strappata alla morte addita a un compito soggettivo da svolgere – a un destino individuale da esaurire –, ma, al medesimo tempo, si traduce in una sfera che appare racchiudere ogni altro destino e ogni altro racconto. Come se le forme dell’Ade, i simulacri dei morti fossero, da un certo punto di vista, coincidenti con quella memoria assoluta di cui le Muse e i cantori sapienti sono signori. Nel regno dell’invisibile, Odisseo, eroe e aedo, “vede” quello stesso orizzonte che la mente delle Muse abbraccia ogni qualvolta il vibrare della sua ispirazione infonde e genera canto. 189

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Da capo, un quadro sembra completarsi. Dopo essersi smarrito lontano dagli uomini, in uno spazio senza nome, in una dimensione che non ha storia, Odisseo deve come riattraversare tutto il campo delle parole e dei racconti per poter tornare a casa. L’isola dei Feaci è questa sosta necessaria nel regno delle storie e della poesia, dove il mito risuona come memoria di ciò che è stato e come modello di ciò che sarà. È lo spazio di una transizione dove tutto sembra riannodarsi e ricomporsi in un unico disegno. L’ascolto dei canti di Demodoco, il diffuso intervento di Odisseo, l’evocazione delle storie dell’Ade sono un unico, progressivo e ineludibile movimento che apre alla reintegrazione soggettiva. Solo dopo aver conosciuto la cifra della propria storia e insieme l’intero tessuto della memoria mitica, Odisseo può tornare a “essere” Odisseo. O forse meglio, può essere se stesso con una compiutezza e perfezione che altrimenti non avrebbe raggiunto. Perché solo l’esperienza della poesia e del canto, solo l’universo delle storie tratte dalla morte sa far dono della vita e dell’essere, permettendo a ognuno di riappropriarsi di sé. Solo allora, nell’istante in cui si è davvero se stessi, l’agire diviene possibile e ha pieno valore. Quando infine, nella reggia di Alcinoo, ogni cosa è stata detta e cantata, per Odisseo è veramente il momento di partire, con i ricchi doni che i suoi ospiti hanno raccolto. È il momento di muovere verso Itaca. Sulla nave fatata dei Feaci, egli sprofonda nel sonno. Ed è ancora addormentato quando essi lo depongono, avvolto in un sudario, come fosse un morto, sul suolo della sua patria. Poco più tardi, rimasto solo, si desta. È questo l’attimo, reale e simbolico, 190

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del suo definitivo “risveglio”. Adesso è tornato. Adesso può e deve trovare la via dell’azione efficace per riconquistare quel ‘regno’ che è suo e che lo attende. Vicino al luogo ove i Feaci hanno lasciato l’eroe, vi è – come si è già accennato – un “antro bellissimo”, avvolto in quella nebbia leggera che è tanto cara alle Ninfe e alle Muse. Al suo interno, accanto al fluire di fonti perenni, le api depongono dolce miele e le dee tessono magnifici manti di porpora su telai fatti di pietra: è, questo, il simbolo dell’opera eterna della natura che genera e nutre la vita, infondendo anima e saggezza nella materia dei corpi. Agli estremi dell’antro vi sono due porte: “Una per i mortali verso settentrione e l’altra al meridione per gli immortali” (Odissea 13,110-111). Due porte perché, in fondo, sono sempre due le direzioni che ogni viaggio può avere: verso il mondo degli uomini, preso in un incessante mutamento, o verso la luce dell’immutabile universo divino. Ci si potrebbe chiedere, come già facevano gli antichi, se la descrizione, apparentemente accessoria, di tale caverna non sia allusione a un significato ulteriore, nascosto nelle pieghe dell’intera vicenda: la meta a cui Odisseo perviene è il mero ritorno di un uomo alla sua casa o è la conquista di una condizione superiore alla misura finita dell’umano?

A Itaca Mentre Demodoco intrattiene i Feaci nell’isola di Scheria, anche nel palazzo di Itaca vi è un cantore che fa risuonare la sua voce. Femio – così si chiama l’aedo – canta 191

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per coloro che banchettano e gozzovigliano nella casa che era stata di Odisseo, per quei Pretendenti che non vedono l’ora di sposare Penelope e di farsi signori dell’isola. Femio deve prestare attenzione a ciò che propone a quell’inquieto e arrogante uditorio. Non può certo narrare le “glorie” di Odisseo a Troia, come aveva fatto Demodoco. La Musa lo soccorre ispirandogli un tema assai più adatto alla situazione: “Cantava il ritorno dei Greci, il triste ritorno da Troia che a loro inflisse Pallade Atena” (Odissea 1,326‑327). Non racconta le imprese o il successo della guerra, ma la sventura che, per volere divino, ha colpito chi sperava di poter rivedere la propria casa. Penelope, dalle sue stanze, sente riecheggiare il canto, e l’angoscia le cresce nel cuore perché quelle parole toccano, nel vivo, la pena che la consuma nell’interminabile attesa: forse anche Odisseo non ritornerà, forse anche suo marito è perduto per sempre. Decide allora di scendere e di interrompere l’aedo. Così come era accaduto a Odisseo, Penelope piange e non prova alcuna gioia dall’ascolto perché troppo vicino al suo cuore è quel che si racconta: “Femio, conosci molte altre storie che incantano gli uomini, imprese di dèi, gesta di eroi, quelle che intonano tutti gli aedi. A loro canta una di queste [...], ma smetti questo canto tristissimo che mi strazia di continuo il cuore [...], dolore tremendo, insopportabile per me che rimpiango un grande uomo, un eroe la cui fama riempie la Grecia intera” (Odissea 1,338-344). Ad attenuare il rimprovero interviene, subito, Telemaco: “Madre mia, perché non lasci che l’aedo fedele canti come lo spinge il suo cuore [...], non bisogna adirarsi con lui se canta il terribile destino dei Greci: gli uomi192

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ni amano sempre il canto che suona più nuovo” (Odissea 1,346-353). Ma dietro questo piacere procurato dalla storia più recente e nuova – rispetto a canovacci tradizionali tante volte già uditi – si nasconde lo sbilanciato rapporto di forze: i Pretendenti sono numerosi e violenti; Penelope, Telemaco e l’aedo stesso poco possono fare per opporsi a essi o per contrastarli in modo aperto. La scelta di un racconto non è quindi mai un atto indifferente o arbitrario, un moto interiore irrelato rispetto al luogo e alla circostanza specifica in cui la poesia viene offerta a un pubblico. La sapienza della Musa e dell’aedo si dispiega non solo nella bellezza e nei contenuti del canto, ma anche nell’attenzione particolare per il contesto in cui, di volta in volta, la parola viene pronunciata. Le dinamiche di gruppo, le identità e le attese dei soggetti a cui una storia o un mito viene indirizzato sono parte essenziale dell’ispirazione poetica e dell’esibizione in cui essa si estrinseca. Altre e diverse parole risuonano, tuttavia, a Itaca, nel momento in cui, senza che nessuno lo sappia o lo sospetti, Odisseo si ridesta dal sonno del viaggio e si incammina verso casa. Nonostante la lunga assenza e la lancinante nostalgia, l’eroe non cede all’impulso più ovvio di farsi immediatamente riconoscere. In un primo momento, egli decide, al contrario, di non rivelarsi. Ha bisogno di saggiare gli animi e di valutare la difficile situazione che la sua mancanza ha prodotto. Ha bisogno di comprendere in quale modo egli possa debellare la tracotanza dei Pretendenti e come riappropriarsi, con successo, del ruolo che gli compete. Con accortezza e prudenza, si traveste da mendicante. Per meglio celarsi, non si copre solo di stracci, ma si 193

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avvolge anche in una fitta trama di discorsi che egli offre, di volta in volta, alle persone cui si avvicina. Come aveva fatto nell’isola dei Feaci, anche a Itaca Odisseo si prodiga in racconti. Continua a fare il narratore. Ne ha l’abilità e la passione. Ma ciò che dice è alquanto differente dai contenuti espressi nella reggia di Alcinoo. Costruisce, di fatto, il canovaccio di un’altra storia e di un’altra identità, mutando o aggiungendo particolari a seconda dei propri interlocutori. Lo sentiamo affermare di essere nato a Creta, una terra i cui abitanti avevano, peraltro, fama di essere abili e incorreggibili mentitori. I suoi fratelli, arroganti e superbi, lo avevano quasi totalmente spogliato – così egli dice – dell’eredità paterna. Ma, grazie al suo valore, egli era riuscito a sposare una donna di ricca famiglia e a conquistare una condizione di prosperità. Forza e audacia non gli erano mai mancati e con tali qualità aveva costruito la sua fortuna: “I remi e le navi, le guerre e le lance lucenti” erano state la sua passione e la sua vita. Aveva partecipato alla guerra di Troia e ne era tornato sano e salvo. Ma, poi, si era presto imbarcato, di nuovo, per un altro viaggio. Era andato in Egitto dove, tuttavia, le cose avevano finito per volgersi al peggio poiché i suoi compagni avevano disatteso gli ordini e le raccomandazioni che egli aveva dato loro. Molti erano periti o erano stati fatti schiavi. Lui si era salvato prostrandosi come supplice al re del paese. Era rimasto là per sette lunghi anni e, dopo aver riacquisito beni e ricchezze, si era apprestato a tornare. Nuovi incidenti ne avevano, però, funestato il percorso: le cattive intenzioni di chi meditava di spogliarlo dei suoi averi, il naufragio della nave colpita da una folgore, l’approdo alla terra dei 194

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Tesproti – dove, peraltro, gli era capitato di sentire che Odisseo era vivo e ormai prossimo al ritorno – e infine l’arrivo a Itaca dove era stato abbandonato dai marinai con cui si era imbarcato. Tale è il modo in cui Odisseo si presenta e si racconta al porcaro Eumeo che, per primo, lo accoglie, ospitandolo nella sua umile capanna (Odissea 14,191 ss.). Più tardi, parlando con Penelope, l’eroe ritocca la versione: questa volta sostiene di essere figlio del sovrano stesso di Creta e fratello del principe Idomeneo, aggiungendo – come un discorso che avrebbe a propria volta ascoltato – il resoconto di alcune avventure che sarebbero occorse al ‘vero’ Odisseo: la sosta all’isola del Sole, l’empia uccisione delle vacche sacre al dio o il naufragio alla terra dei Feaci (Odissea 19,170 ss.). In entrambi i colloqui, l’eroe, sotto mentite spoglie, ripete di aver ben conosciuto Odisseo ed evoca, per corroborare tale affermazione, imprese condivise o episodi di cui egli sarebbe stato il protagonista tanto a Troia quanto nel viaggio che a essa lo aveva condotto. I suoi racconti, immancabilmente, colpiscono e affascinano sia per gli orizzonti che evocano sia per la risonanza che producono in coloro che vorrebbero, più di ogni altra cosa, rivedere Odisseo. Ed è proprio Eumeo che, parlando con Penelope, commenta, con l’entusiasmo di uno spettatore rapito, la sapienza e l’abilità narrativa di quel mendicante straniero: è come ascoltare un aedo senza essere mai sazi delle mirabili storie che la sua voce fa risuonare (Odissea 17,528-531). È il medesimo apprezzamento formulato da Alcinoo, il quale aveva concluso, proprio in base alla bellezza delle storie, che il suo ospite non era af195

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fatto un “imbroglione” o un “truffatore”. A Itaca, tuttavia, non vi è dubbio che Odisseo stia mentendo e che tutte le vicende narrate non gli appartengano in senso effettivo e letterale. “Uomo ricco di astuzie, mai sazio di inganni, neanche adesso, nella tua terra, smetti di tessere imbrogli e racconti bugiardi, che tanto sono cari al tuo cuore”: sono queste le parole con cui la dea Atena lo apostrofa, quando essi si incontrano poco dopo lo sbarco sull’isola (Odissea 13,291-295). Odisseo, infatti, non riconoscendola, aveva raccontato anche a lei di provenire da Creta, spiegando, in modo ancora diverso, di essere fuggito da lì in seguito all’assassinio di Idomeneo, dato che questi aveva tentato di privarlo del bottino troiano. Per tutto il tempo che intercorre dall’arrivo nell’isola alla riconquista effettiva della propria identità, Odisseo non farebbe altro che “raccontare menzogne (pséudea) simili al vero”, proprio come fanno le Muse quando non vogliono cantare la verità o non ritengono che i mortali siano degni di tale favore (Odissea 19,203). E tuttavia le sue storie – al pari di ciò che intonano le figlie di Zeus nell’ambivalenza della loro arte – non consistono di una falsità assoluta: non si tratta propriamente di una finzione che non rinvia a nulla al di là di se stessa. La ‘somiglianza’ con il vero si misura, per contro, in una duplice forma. Non solo l’annuncio dell’imminente ritorno di Odisseo corrisponde a un dato effettivo, ma l’intera trama delle storie è, a ben vedere, costellata di tracce e di segni che si rapportano alla vicenda dell’eroe. Il ripetuto richiamo ad abusi di cui lo straniero sarebbe stato vittima, la spoliazione di beni, le insidie portate alla sua persona, la sottolineatura del valore personale nel campo di batta196

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glia e nelle rotte del mare, la disubbidienza e la cecità dei propri compagni, l’evocazione dei naufragi e dei soccorsi ricevuti, i sette anni trascorsi in una terra remota rimandano, pur nella trasposizione, ad altrettanti aspetti del tormentato percorso dell’eroe. L’autobiografia declinata dallo straniero è del tutto fittizia, ma ciò non toglie che essa trasponga e rifletta, come uno specchio opaco e distante, tratti essenziali della vicenda reale. Odisseo si nasconde nel velo di una diversa identità, ma, allo stesso tempo, proietta e rappresenta nuclei della propria esperienza e del proprio doloroso vissuto nel tessuto del racconto che costruisce. Le sue parole parlano di Odisseo anche quando parlano d’altro. E forse è sempre così che funzionano la poesia e i bei racconti “simili al vero”: ci riguardano anche se non siamo davvero noi ad aver vissuto quelle storie; dicono di noi anche se si tratta solo di “menzogne” che raccontiamo o con cui ci immedesimiamo. L’esempio offerto da Odisseo, aedo di se stesso, aiuta non poco a comprendere il duplice dono che le Muse porgono ai mortali ogni volta che suscitano nella mente il moto e la forma di un mito, di un’immagine poetica. Ma vi è un momento in cui anche le storie tacciono e la verità emerge nella nuda crudezza dell’azione. Quando Penelope bandisce la gara per decidere chi dei Pretendenti dovrà sposarla, Odisseo cessa ogni narrazione. Adesso è il suo arco a “cantare” nel sibilo delle frecce che stroncano, uno dopo l’altro, tutti coloro che avevano attentato ai suoi beni e alla sua casa. Solo quando la vendetta è stata consumata e l’identità personale è stata pienamente ristabilita, l’eroe può tornare a quel piacere di raccontare che 197

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è inscritto nel suo cuore. Nella stanza nuziale, sul letto che tanti anni prima aveva costruito con le sue mani, Odisseo prende a narrare, da capo, tutte le sue avventure. Le narra, per un’ultima volta, alla saggia Penelope nel lungo tempo di una notte fatta di abbracci e di parole. È in quel talamo che ogni racconto si conclude e si ricapitola, come se la moglie, amata e ritrovata, fosse la vera ed effettiva destinataria a cui consegnare la propria storia: “Quando furono sazi d’amore, godevano delle parole, dicendosi l’uno l’altra, lei quanto aveva sofferto al vedere la folla funesta dei Pretendenti [...] e lui, il divino Odisseo, quante pene aveva inflitto agli uomini e quante ne aveva patite egli stesso. Tutto narrava e Penelope godeva ascoltandolo e il sonno non le scese sugli occhi finché lui non ebbe narrato ogni cosa” (Odissea 23,300-308). Osservando l’intero quadro della vicenda, un’ultima considerazione, tuttavia, emerge. A ben vedere, nessuno di coloro che ascoltano Odisseo, forse nemmeno Penelope, può davvero essere certo che ogni parola sia vera: le sue parole sono sempre seducenti e persuasive, ma nessuna verifica è data di quella “sincerità” e di quella esattezza “senza errore”, che l’eroe più volte protesta. Alla fine, solo la Musa, che ha ispirato l’intero poema all’aedo, può distinguere e garantire la differenza tra la verità e le sapienti “menzogne simili al vero”.

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7. IL RITO E LA FESTA

L’evento della poesia Se la voce delle Muse appartiene alla dimensione dell’aéi, ovvero proviene e si inscrive in ciò che è “sempre”, la parola poetica si manifesta nella vita dei mortali con la determinazione vibrante di un evento: è qualcosa che, letteralmente, accade, di volta in volta, in un tempo e in uno spazio precisi, in un orizzonte destinato e insieme prefigurato dalla voce che si leva in essi. Come si è avuto modo di apprezzare nelle scene dell’Odissea, Demodoco offre il suo canto adattandolo e intonandolo, per così dire, ai diversi momenti in cui la sua sapienza e il suo intervento sono richiesti dalla corte dei Feaci: ne accoglie le istanze e al contempo ne interpreta i desideri e i pensieri, narrando ciò che è più adatto e consono alla circostanza e ai sentimenti che la pervadono. È un tratto, questo, che caratterizza – lo si è già accennato – tutta la produzione poetica greca arcaica e classica, a prescindere dai generi differenti in cui essa si può estrinsecare. Anche quando, con l’introduzione della scrittura alfabetica, il canto non è più improvvisazione estemporanea, ma elaborazione meditata che si produce nel tracciato di una superficie di segni, il 199

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poeta forgia i suoi versi per la dimensione specifica di un luogo e di un momento. Egli compone in rapporto a un kairós, a un’“occasione” e ogni sua parola si commisura a essa. Può trattarsi di una riunione di amici, di una cerimonia famigliare – come un matrimonio, un funerale o la partenza di una persona cara –, dell’elogio di un vincitore o di una delle feste religiose che scandiscono la vita comunitaria nel ciclo delle stagioni. In tutti questi casi, l’“occasione” orienta e sostanzia ciò che viene pronunciato secondo una dinamica che connette saldamente l’ideazione del canto e l’istante stesso della sua esecuzione. L’effetto che ne scaturisce potrebbe essere descritto con due immagini: lo specchio e il cerchio. I versi evocano e inglobano, al loro interno, lo spazio cui sono destinati, richiamandone alcuni particolari salienti: l’arredo di una stanza, gli oggetti che vengono utilizzati, le linee di un paesaggio, il profilo di un santuario o di un palazzo. I gesti e i movimenti stessi, che si svolgono mentre il carme viene eseguito, sono descritti e accennati dal poeta che sa e prevede precisamente come e dove il suo canto sarà intonato: i dettagli di un rituale che la voce è chiamata ad accompagnare, la postura e gli atti di coloro che vi prendono parte o ancora gli stati d’animo, le opinioni e i sentimenti di chi ascolta. Il poeta conosce coloro cui si rivolge così come egli è noto al gruppo che sollecita la sua ispirata maestria. Tutto ciò che caratterizza l’occasione – dai dati materiali dell’evento alla soggettività dei presenti – si riflette nel tessuto delle parole a comporre un’immagine in cui il poeta e il suo pubblico si possono specchiare, vedendo, per così dire, nella dimensione sonora e mediata del canto, ciò che stanno compiendo, il mo200

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mento condiviso cui partecipano, nonché le emozioni e i valori che condividono. La parola poetica abita un ‘qui e ora’: lo prevede, lo rappresenta e, potremmo aggiungere, lo porta effettivamente a essere nella forma di una superiore consapevolezza. Così, mentre il componimento si dispiega nell’esecuzione, un cerchio si disegna abbracciando e contenendo in un’unità simbolica tanto il presente dell’occasione vissuta quanto coloro che ne hanno diretta esperienza. Si crea in tal modo un legame che avvicina i soggetti fra loro, un’armonia che raccorda all’unisono i battiti e il respiro di ognuno. Anche quando i versi dicono “io”, quell’“io” diviene veicolo di un ‘noi’ che si compone e si rafforza nell’istante del canto. La parola poetica greca non è espressione idiosincratica. È un filo che, per propria virtù, tesse la trama preziosa di un manto che avvolge gli uomini: è magica ‘sinfonia’ che genera comunità. Il dono delle Muse è, in ogni suo accadere, cosa ‘viva’ che plasma la vita stessa, infondendovi il senso della totalità pulsante, dell’intero cui ogni frammento e ogni singolo concorre. È un dono che unisce fra loro gli uomini così come unisce il ‘qui e ora’ del suo manifestarsi con la periferia del divino da cui promana. La poesia è rito che annoda il tempo vissuto dell’esistenza mortale – il molteplice kairós delle vite umane e del calendario festivo – con l’ordine divino dell’universo. Un quadro di tali aspetti può essere degnamente offerto da tre diversi ambiti cui le figlie di Zeus e Memoria presiedono: la letizia dei simposi, il tiaso animato dalla “veneranda” Saffo e le celebrazioni agonali cui Pindaro presta il “marmo” levigato della sua arte. 201

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La saggezza del cratere “Ora il pavimento è lindo (katharón), pulite le tazze e le mani di tutti. Uno ci incorona il capo di ghirlande intrecciate, un altro ci porge fiale di balsamo profumato. Il cratere troneggia, colmo di gioia (euphrosúne) [...]. Aleggia un puro aroma d’incenso [...], al centro l’altare coperto di fiori, la musica e la festa risuonano nelle stanze”: sono questi i versi di una celebre elegia di Senofane (fr. 1,1-12). Versi composti per un simposio di hetáiroi, di “compagni”, che si riuniscono per rinsaldare vincoli di amicizia e condividere, nell’allegria spensierata della circostanza, pensieri e affetti. Si tratta di una delle occasioni canoniche della produzione arcaica, uno degli spazi-tempi cui sono connessi diversi generi poetici: dalla lirica monodica, con la sua esplorazione della soggettività e delle emozioni, al giambo, con la sua irriverente e mordace descrizione di tipi e difetti umani, o ancora all’elegia, con il carattere riflessivo e sentenzioso che spesso la caratterizza. E, secondo la modalità cui si accennava poc’anzi, le parole di Senofane, destinate a tale momento, non fanno che riflettere, come uno specchio, i preparativi e gli atti necessari al suo stesso svolgersi, evocandone i dettagli significativi così come l’atmosfera di cui tutti sono invitati a compenetrarsi al fine di creare quell’unità armoniosa che la celebrazione simposiale richiede. A differenza del mondo omerico – in cui l’aedo intrattiene i commensali mentre essi stanno mangiando e bevendo –, l’età successiva distingue, secondo un preciso cerimoniale, due momenti successivi. Solo quando il déipnon, 202

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il “pasto” o “banchetto”, si è concluso, può avere inizio il simposio vero e proprio, quel “bere insieme”, durante il quale la consumazione del vino si intreccia alla recitazione della poesia, alla conversazione su argomenti di comune interesse o ancora ai giochi della seduzione amorosa. La transizione dalla cena al simposio è, per solito, scandita dalla preparazione delle cosiddette “seconde mense” destinate ad accompagnare la parte successiva della serata: “C’è acqua fresca, dolce e pura, e biondo pane, e la tavola è carica di formaggi e di miele denso,” specifica Senofane (fr. 1,8-9). Attraverso la cura e l’attenzione a ogni dettaglio, si crea progressivamente un kósmos, un universo di ordine e di bellezza, che isola i partecipanti dal fluire del tempo e dal vivere ordinario, facendoli entrare in una dimensione ‘altra’. La purezza e il lindore della sala e delle suppellettili, le abluzioni compiute dai partecipanti, le corone fiorite che ornano il capo di ognuno, la fragranza dei profumi che impregnano i corpi e l’aria: sono tutti tratti che favoriscono un differente stato interiore. Si deve produrre euphrosúne, termine che non indica solo un sentimento di allegria, ma esprime, in senso più proprio, una “buona (éu)” disposizione della “mente (phrén)”: quella disposizione necessaria alla comunione dei cuori e all’ascolto della sapienza poetica. Lungo le pareti sono disposti a ferro di cavallo i letti su cui i simposiasti si accomodano, in genere a due a due, quasi a formare delle coppie. Il centro, verso il quale lo spazio simbolicamente converge, è occupato dal “cratere” che troneggia ricolmo del succo prezioso della vite che, con il suo fuoco, allenta le tensioni, consentendo a ognuno di uscire dal bozzolo cristallizzato 203

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della propria individualità e delle proprie preoccupazioni. Ma al centro vi è anche un bomós, un “altare”, anch’esso splendidamente ornato di fiori, a ricordare che il tempo della festa – il tempo di una privata riunione amicale – non è mero e casuale svago o profano intrattenimento, ma orizzonte su cui vegliano e a cui partecipano gli dèi con la loro forza e la loro presenza. Il simposio è, a tutti gli effetti, un rito e, come tale, prevede una consapevole consacrazione di quanto avviene in esso. Per questo, il primo vino attinto dal vaso comune non è destinato ai mortali, ma viene offerto alla divinità come libagione: alcune gocce devono essere versate fuori dalla coppa, sull’altare o a terra, come necessario dispendio, come atto sacrificale che connetta il piano umano alla trascendenza, convocando nel microcosmo del simposio l’orizzonte divino da cui ogni cosa deriva. E tale offerta deve ripetersi ogni volta che, nel corso della serata, il cratere centrale venga nuovamente colmato. Non si può bere prima di essersi ricordati di ciò che è dovuto agli dèi. Non si può consumare prima di essere divenuti pienamente consapevoli che ogni gesto umano s’inscrive e appartiene all’unità suprema del tutto. Così, secondo quanto le fonti testimoniano, il primo cratere deve essere dedicato a Zeus Olimpio, padre e signore di uomini e dèi; il secondo ai dáimones ovvero agli eroi defunti; il terzo ancora a Zeus, ma questa volta nella sua funzione di Salvatore. Al momento della libagione, tutti si uniscono nell’intonare, ad alta voce, il peana: il canto che ha la funzione di propiziare l’inizio di ogni impresa e di ogni attività, così come di suggellarne la felice conclusione, grazie al favore e all’aiu204

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to dei celesti. Le stesse corone non sono meri elementi ornamentali o piacevole decoro estetico: sono tratti che accomunano i simposiasti agli iniziati dei misteri o a coloro che si apprestano a un sacrificio animale. Quel serto fiorito che cinge il capo richiama il rigoglio potente della natura e, per la sua figura circolare, la completezza e la perfezione stesse del divino che non ha inizio né fine: per chi la porta, quella corona è il segno distintivo dell’accesso a una sfera affatto distinta dalla corrente comune in cui l’agire quotidiano è immerso. L’apertura e lo svolgimento del simposio sono, per questi aspetti, una modalità del ‘fare sacro’ che, come avviene in ogni festa tradizionale, produce un punto di incrocio tra eternità e divenire, tra lo scorrere delle vicende umane e il piano di ciò che permane immutabile. Si potrebbe dire, con parola moderna, che la sala ove si celebra la riunione simposiale è un’eterotopia ovvero un luogo che crea una discontinuità e una cesura rispetto al fluire irriflesso dell’esistenza: uno spazio-tempo che, come un recinto protetto, sospende e purifica il vissuto, contrapponendosi e neutralizzando gli altri spazi e le altre temporalità che segnano i giorni e le occupazioni dei mortali. Nella ritualità del simposio, lo slancio e l’energia della vita – con tutto il plesso delle passioni, dei desideri e dei moti che innervano il corpo e la mente – fluiscono e, al contempo, coagulano in una forma e in un ritmo, come in una paradossale tensione tra moto e stasi, tra spontanea immediatezza e riflessivo distanziamento. E tanto più nitida e perfetta è la forma del rito, quanto più intenso è l’effetto che ne scaturisce. Un effetto che si traduce in percezione e coscienza della realtà: visione di ciò che è ‘proprio’ della condizione 205

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umana e di ciò che, per altri versi, contrassegna il divino; visione di ciò che pertiene alla cangiante e caduca natura mortale e di ciò che, all’opposto, è potenza assoluta di vita eterna. Il simposio, da questo punto di vista, è anche – come ricorderà Platone – un’“occasione” per conoscere se stessi, sperimentando, in compagnia d’altri, le dinamiche dei sensi e delle emozioni, osservando le proprie reazioni e i pensieri che ne derivano. La sequenza rituale, il cratere del vino, il risuonare della poesia si fondono così nella pienezza di un’esperienza che è insieme esultanza e consapevolezza, sentimento e ragione, spontaneità e arte. La sacralità del bere condiviso è thalía: nome che significa “festa”, ma che, nel suo etimo, rinvia a ciò che “cresce” e “si sviluppa” in abbondanza e splendore. Ed è la vita, appunto, che gli uomini, dentro e fuori dal recinto del simposio, devono far fiorire in tutta la luce della sua bellezza. “Anzi tutto,” raccomanda ancora Senofane, sintetizzando alcuni degli aspetti appena evocati, “gli uomini saggi devono lodare il dio con parole devote e puri discorsi, poi bisogna offrire libagioni e formulare la preghiera di poter compiere sempre ciò che è giusto, ed è questa la cosa più importante, evitando l’arroganza e la violenza” (fr. 1,13-17). Purezza, saggezza e giustizia devono essere i pilastri fondamentali dell’evento. Se il simposio è la creazione e la rappresentazione di un ‘cosmo’ ordinato, in esso deve regnare díke, “giustizia”: il principio sovrano della misura e del limite che assegna a ogni cosa il suo ruolo e la sua funzione, che garantisce e protegge l’equilibrio del tutto e delle sue parti. Una giustizia che i partecipanti sono chiamati ad agire non solo nei loro rapporti reciproci du206

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rante la riunione festiva, ma anche nella ripresa del vivere corrente. L’universo della giustizia, esperito e attuato nel simposio, deve essere una pratica modellizzante degli animi, che si prolunga nella quotidianità, come esito stesso di quella condivisione del “bere insieme”. A vegliare che tutto si svolga, appunto, nel “giusto” modo e nella necessaria misura provvede, di norma, l’árchon póseos, il “signore del bere” o simposiarca: eletto fra coloro che partecipano alla riunione festiva, egli ha il compito, per tutti, di favorire e di proteggere quell’equilibrio di gioia e di assennatezza che deve unire fra loro i soggetti: il godimento comune dell’allegria e della serenità, il prodursi della socievolezza che apre e avvicina gli animi, ma anche il beneficio ponderato della saggia temperanza che è chiamata a orientare gli atti e le parole. Ogni forma di húbris deve essere bandita: l’insolenza di una parola inopportuna o intempestiva che rischia di offendere o di ferire, l’aggressività animosa nei confronti di qualcuno dei presenti, l’eccessiva sfrontatezza di un approccio o di un gesto, l’impulsività incongrua che turba l’armonia. Durante il simposio, si deve creare una condizione di omogeneità tra coloro che vi partecipano. Nessuno deve prevaricare: i “compagni” che bevono insieme devono essere, per definizione e per prassi, tutti “uguali” fra loro. Al simposiarca, come a un benevolo custode della legge, compete di controllare e di intervenire quando tale armonia e tale uguaglianza rischiano di incrinarsi. Ma a lui spetta anche di determinare, in base all’opportunità e alle circostanze, come e quanto si deve bere, scandendo l’ordine e il numero dei brindisi comuni o, in altri casi, dando a ognuno la facoltà di sor207

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seggiare a suo piacere. È ancora lui che, auscultando gli animi e le disposizioni dei presenti, regola il tono e i modi del comune intrattenimento: può proporre giochi con cui svagarsi o – cosa più importante – sottoporre ai presenti temi di interesse comune, argomenti consoni alla serata, che dovranno essere sviluppati nella recitazione poetica così come nella conversazione condivisa. Perché tutto ciò avvenga nel migliore dei modi, la prima disposizione da prendere, in ogni caso, riguarda le proporzioni con cui bisogna mescere il vino versato nel cratere centrale. Di norma, solo un primo sorso viene consumato puro, giusto per ricordarsi ed essere consapevoli della “potenza” del dono che Dioniso ha dispensato agli uomini: il vino è phármakon – ricorda il poeta Alceo (fr.  335) – ma ogni phármakon può essere “medicina” o “veleno” a seconda di come se ne usi. Fino a una certa misura, la sua forza riscalda i cuori, consentendo a ognuno di aprirsi agli amici, manifestando liberamente, senza penose inibizioni o rigidezze, pensieri e affetti: in tale senso, il vino è anche uno strumento di “verità” – per citare ancora Alceo (fr. 366) – attraverso il quale ciascuno palesa se stesso, la propria interiorità e il proprio sentire agli altri. Ma, superata una determinata soglia, il phármakon può divenire obnubilamento e violenza. Dioniso è, per i mortali, il “più dolce” e insieme il “più terribile” degli dèi (Euripide, Baccanti 861). A esso bisogna accostarsi con prudenza e nelle forme, appunto, dettate dalla tradizione. “Chi supera la giusta misura (métron) del bere,” si legge in un’elegia attribuita al poeta Eveno, “non controlla più la lingua né la mente: parla senza ritegno, dicendo cose che fanno ver208

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gognare i sobri, e si comporta in modo indecente, quando è ubriaco. Prima era assennato e ora è un povero sciocco” (Silloge teognidea 479-483). Per tali ragioni, è saggia norma tagliare il succo della vite con acqua, per attenuarne il fuoco e mitigarne i dirompenti effetti: “Prendi, ragazzo, le grandi coppe variopinte: il vino, oblio dei mali, che il figlio di Semele e Zeus ha dato ai mortali. Mescola due parti d’acqua e una di vino” prescrive Alceo (fr. 346). In maniera analoga, Anacreonte ricusa la smodatezza chiassosa e sguaiata dei popoli barbari, che si abbruttiscono nel bere, spegnendo la luce della parola e dell’arte (fr. 356): “Non così, non beviamo fra strepiti e urli! Non facciamo come gli Sciti! Pratichiamo il bere, sorseggiando fra bei canti”, “Presto, ragazzo, una coppa, voglio bere tutto d’un fiato! Mesci dieci parti d’acqua e cinque di vino, voglio l’ebbrezza ispirata di Dioniso, ma senza trascorrere nella dismisura.” Lo stesso numero dei crateri consumati deve essere controllato con accortezza: “Tre crateri di vino, non di più, mescolo per gli uomini saggi: il primo è per la salute, il secondo per l’amore e il piacere, il terzo invita al sonno. Bevuto questo, chi vuol essere temperante torna a casa. Perché il quarto cratere non è più nostro, ma appartiene all’eccesso, il quinto sono urla, il sesto schiamazzi per strada, il settimo occhi pesti, all’ottavo arrivano le guardie, al nono monta la bile, e il decimo è pura follia,” osserva scherzosamente il comico Eubulo (fr. 93). In circostanze particolari, non manca, per converso, l’invito a esagerare: “Dobbiamo ubriacarci! Beviamo anche a forza! Mirsilo è morto,” proclama Alceo, esultante per la morte dell’odiato tiranno della città 209

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(fr. 332). Ma, se si prescinde dai momenti di deliberato eccesso – dal tripudiare esaltato in circostanze eccezionali – o dai contesti in cui la rozzezza e l’ignoranza deturpano ogni forma, il tratto caratteristico del simposio, nella sua declinazione ideale, è dato, per l’appunto, dalla ricerca di una sapiente krásis: una saggia “miscela”, un’equilibrata “combinazione”. Tale krásis non concerne solo le proporzioni del vino e dell’acqua o il limite opportuno delle coppe, ma si estende ad abbracciare tutti gli elementi e tutte le forze che il rito convoca per la sua riuscita. L’ebbrezza del succo della vite deve fondersi, in modo temperato, con la bellezza della parola e del canto così come con gli incanti dell’amore. Il “cosmo” simposiale è perfetto quando le potenze di Dioniso, delle Muse e di Afrodite si compongono in mirabile unità, cooperando fra loro e agendo sui corpi e le anime degli uomini. Quando le forze e l’ispirazione di questi dèi si equilibrano, in modo analogo all’accorta proporzione con cui si taglia il vino nel cratere, allora, come un fiore, sbocciano quella felicità e quello stato di “buona mente”, che, più di ogni altra cosa, avvicinano i mortali alla beatitudine dei celesti: “Non amo chi, bevendo presso un cratere colmo, parla di contese e di guerre luttuose ma chi, mescendo gli splendidi doni delle Muse e di Afrodite, pensa all’amabile gioia” afferma, programmaticamente, un’elegia di Anacreonte (fr. 2). Nell’armonia e nella giustizia cui il simposiarca attende, i brindisi e gli interventi individuali si susseguono secondo un preciso ritmo circolare, a confermare non solo l’ordine della cerimonia, ma anche l’unità progressiva che si crea nella forma ideale di ciò che ruota intorno a un centro. 210

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Tutto si svolge epí dexiá, da sinistra “a destra”, secondo quello stesso movimento che contrassegna la circumambulazione dei templi: il moto del simposio come quello di molte ritualità non fa che mimare, nel microcosmo dell’azione liturgica, il viaggio del Sole da oriente a occidente: ciò che gli uomini fanno ‘in basso’ non è che la studiosa e devota replica di quanto avviene ‘in alto’, nel cielo. Procedendo dunque in direzione destrorsa, ogni hetáiros, ogni “compagno”, a turno, con un ramoscello di mirto in mano – che gli conferisce il diritto e l’onore della parola  – offre il suo éranos, il suo personale “contributo” alla serata: esprime, in forma discorsiva, la sua opinione sull’argomento che si è deciso di condividere, o pronuncia versi pertinenti alla circostanza e ai temi proposti. Se il simposiasta è poeta in senso proprio – come Anacreonte o Alceo o ancora Senofane –, egli offrirà ai presenti quanto ha composto in vista di quella riunione amicale. Gli altri, per converso, attingeranno dalla loro memoria, in base alle proprie attitudini e ai propri gusti, citazioni poetiche che hanno appreso in altre occasioni e iscritto nella mente come significative: citazioni che rappresentano, attraverso la mediazione della creatività altrui, il proprio sentire e la propria visione della realtà. Ciascuno è invitato a mostrarsi agli altri, manifestando il valore, la cultura e la sensibilità che egli possiede, come un’offerta e una testimonianza di amicizia rivolta ai presenti. Il simposio richiede, infatti, che tutti siano partecipi: ognuno deve essere, in prima persona, attore e spettatore, al medesimo tempo, dell’azione comune. Ognuno è chiamato a godere di ciò che si fa e insieme a ‘fare’ perché il kósmos festivo e sacrale trovi 211

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il suo armonico compimento: “Intorno al cratere, fate bei discorsi, evitando ogni litigio fra voi, parole che riguardino ognuno e tutti, con voce concorde: in questo consiste l’eleganza e la grazia (cháris) del simposio” (Silloge teogni­ dea 493-496). La perfezione e la “giustizia” del rito consiste in questa circolazione di energia e di parola, in questo ‘spettacolo’ partecipato, che via via si compone sotto gli occhi e per iniziativa dei presenti. I “compagni” finiscono, in tal modo, per costituire un corpo unico, vivo e animato, pur nella molteplicità delle indoli e delle inclinazioni soggettive: una comunità realizzata, che si scambia emozione e conoscenza, nel segno di ciò che è “nobile” e “bello”. Alcune tracce di tale dinamica si rinvengono nelle raccolte antiche che ci sono state tramandate. Nei due libri della già ricordata Silloge teognidea, per esempio, non tutti i versi sono attribuibili a Teognide. Vi sono sezioni ove, visibilmente, si alternano voci differenti che articolano altrettanti punti di vista intorno a un medesimo nucleo tematico; sezioni ove vengono ripresi, citati o riadattati componimenti di autori diversi, che declinano, per analogia o per contrasto, uno stesso motivo. Nella loro successione, questi gruppi di versi danno luogo a vere e proprie ‘catene’ di parole e di immagini, in cui ogni anello mostra una sfaccettatura e un’inflessione differente in rapporto alla soggettività e alle convinzioni di chi prende la parola. Un simposiasta può esprimere poeticamente la propria predilezione per la musica di uno strumento a fiato che rallegri e accompagni la serata: “Il mio cuore sempre si riscalda quando ascolto l’incantevole suono dei flauti” (vv.  531‑532). Al che un altro compagno risponde, con212

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trapponendo la propria preferenza per il suono della lira con l’implicita attestazione della propria abilità nel pizzicarne le corde: “Godo bevendo e cantando al suono del flauto, ma mi piace anche suonare la lira melodiosa” (vv. 533-534). A volte può trattarsi di una replica contrassegnata da un entusiastico consenso per l’opinione appena espressa. A un simposiasta che, citando Solone, afferma: “Felice chi gode di fanciulli e di cavalli, di cani da caccia e di ospiti di terre lontane” (vv. 1252-1253), un altro manifesta il proprio accordo, rimodulando al negativo il medesimo parere: “Non può avere la gioia nel cuore chi non ama i ragazzi e i cavalli!” (vv. 1254-1255). Se i passi ricordati toccano questioni di poco momento, soffermandosi su mere preferenze individuali, in altri casi il confronto non manca di focalizzarsi su aspetti valoriali e tratti etici più decisivi. Nel loro reciproco inanellarsi, questi giochi di botta e risposta, queste catene di parole sono peraltro il modo in cui si estrinseca e si rinsalda l’unità coesa e amicale dei simposiasti: la catena affettiva e ideale che li avvince reciprocamente e che si rinnova a ogni riunione festiva. “Amabilità”, “grazia”, “benevolenza reciproca” sono queste le qualità richieste per stare insieme, ma questo è anche ciò che il simposio stesso deve produrre come un frutto che ciascun compagno porterà con sé, tornando a casa e alle occupazioni consuete: quella philanthropía, che è “amore dell’uomo per l’uomo”, e insieme tratto di “civiltà” ed “educazione del carattere”, come ricorda, a distanza di secoli, il savio Plutarco (Questioni simposiali 606 a-d). Ma che cosa, dunque, si deve cantare e celebrare durante un simposio? Quali aspetti della realtà occorre evocare 213

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e quali scartare? Se la cornice rituale e i principi ispiratori rimangono, in generale, i medesimi, si può osservare, d’altro canto, come ogni gruppo di amici riuniti a simposio abbia un proprio modo di concepire la festa e i suoi contenuti: una cifra peculiare che dipende dalle affinità e dagli orientamenti dei soggetti così come dai contesti in cui essi operano. Si ha così – per quanto è dato di cogliere dai frammenti poetici superstiti – uno svariare di toni e di caratterizzazioni specifiche, a seconda dei luoghi e dei tempi. Nell’isola di Lesbo, Alceo canta per una cerchia aristocratica, coesa nella lotta politica e preoccupata per le tensioni che minacciano tanto la città quanto i membri stessi del gruppo. Ambizioni individuali e dinamiche sediziose rischiano di travolgere l’ordine civico come una nave assediata dai marosi: “Avanza di nuovo quest’ondata spinta dalla furia dei venti e faremo fatica a svuotare l’acqua che ha invaso la nave [...], nessuno esiti, nessuno mostri indecisione, ormai è chiaro che una violenta tempesta ci è dinanzi: ora ogni uomo deve saper resistere. Non disonoriamo la memoria dei nostri nobili genitori che ora riposano sotto terra” (fr. 6). Una coloritura politica ed etica insieme ha pure la poesia simposiale di Teognide che, a Megara, rivolgendosi all’amato Cirno, depreca la decadenza dei costumi e l’avidità dei nuovi arricchiti, privi di cultura e di valori tradizionali: “Cirno, la città è la stessa, ma diversi sono gli uomini: adesso sono diventati primi cittadini, gente importante, quelli che, una volta, non conoscevano né legge né giustizia ma, con una consunta pelle di capra, pascolavano come animali fuori dalle mura! E quelli che un tempo erano i nobili, adesso si trovano a essere gli ultimi. 214

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Non tollerare una simile situazione [...]. È gente che non sa distinguere il bene dal male [...] non farti amico di nessuno di loro, per nessun motivo” (Silloge teognidea 53-62). La levità giocosa delle schermaglie amorose e la trafittura iterata del desiderio contrassegnano, per contro, l’universo in cui si collocano i versi di Anacreonte: “Fanciullo dagli occhi di vergine, io ti desidero, ma tu non mi ascolti e non sai che tu reggi le briglie del mio cuore”, eppure “i ragazzi dovrebbero amarmi perché intono dolci canti e so dire dolci parole” (frr. 303, 387). In terra di Ionia, le elegie di Mimnermo celebrano il piacere e l’incanto della gioventù, unico momento luminoso e intenso della vita, prima che i mali della vecchiaia e della morte privino l’esistenza di gioia: “Che cos’è la vita, che cos’è la gioia se manca Afrodite d’oro, se non abbiamo il piacere dell’amore?” (fr. 2). A un simposio di compagni d’arme si rivolge, per contro, una parte della produzione di Archiloco, che si fa vanto di saper servire Ares, dio della guerra, ma anche di “conoscere l’amabile dono delle Muse” (fr. 1), rallegrando e confortando i suoi commilitoni durante le veglie notturne e i momenti di navigazione: “Presto, corri veloce con la coppa tra i banchi della nave, attingi da bere dagli orci panciuti, attingi rosso vino, perché in questa notte di guardia non riusciremo a restar sobri!” (fr. 4). Nell’orizzonte di un simposio militaresco si inscrivono anche i versi di Tirteo che, a Sparta, esorta i giovani a combattere valorosamente, sacrificando le loro vite per l’onore e la difesa della città: “È bello quando un uomo valente muore, combattendo in prima fila per la patria [...]. Voi giovani, dovete combattere fianco a fianco, senza paura e senza 215

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darvi alla fuga [...]. Dovete resistere con le gambe piantate bene a terra, mordendovi le labbra con i denti” (fr. 10). Ad Atene, per altri versi, Solone rivolge all’occasione simposiale versi in cui si sofferma a riflettere sulla propria opera di legislatore, ribadendo come la giustizia e l’eunomía, il “buon governo”, siano il fondamento stesso della città e dello stato: “Questo il mio cuore mi ordina di dire agli Ateniesi: tanti sono i mali che il malgoverno procura! Il buongoverno, al contrario, fa splendere su ogni cosa ordine e armonia, lega in catene gli ingiusti, appiana le asperità, frena gli eccessi, cancella la violenza, dissecca sul nascere i fiori della rovina [...], mette fine alla discordia civile e alla collera dei litigi: grazie a esso tutto fra gli uomini è misura e saggezza” (fr. 3). In altri casi, la riunione privata degli amici può essere l’occasione per commentare, con i motteggi salaci della poesia giambica, i vizi, le debolezze o l’insipienza altrui, attingendo al variopinto e risibile scenario della realtà cittadina: “Mangia e ancora mangia, tonno e intingoli tutti i giorni [...], alla fine si è divorato tutto il patrimonio, adesso è a zappare pietre sui monti, a pane d’orzo e vini scadenti come uno schiavo”, “Sbattuto dalle onde [...] a vomitar alghe e a battere le brocche [...], ecco cosa vorrei che gli capitasse, lui che mi ha fatto ingiustizia e ha calpestato i giuramenti, proprio lui che prima era un compagno” (Ipponatte, frr. 26, 115). Trasversale è, per contro, la riflessione sentenziosa e sapienziale sulla precarietà dell’esistenza mortale, sull’esposizione alla sventura e al dolore, sull’illusorietà ingannevole dei desideri e delle vane aspettative di cui la vita spesso si nutre senza cogliere il senso profondo del destino e della volontà celeste: 216

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“Tutti così gli uomini: ognuno ha un’alta opinione di sé, prima che gli capiti qualcosa. Allora si lamenta, ma prima se ne stava là a bocca aperta, baloccandosi di vuote speranze [...]. Uno è un vigliacco, ma è convinto di essere un prode, un altro è brutto e pensa di essere avvenente. Chi è povero, piegato dalla miseria, si convince che guadagnerà senz’altro grandi ricchezze [...]. Ma a quel che danno gli dèi immortali, nessuno può sfuggire” (Solone, fr. 1). Una riflessione che, tra vino e poesia, invita ripetutamente alla lucida consapevolezza del proprio essere e alla conquista della misura necessaria per reggere l’urto degli eventi e controllare l’impeto delle passioni: “La ragione, o Cirno, è il più bel dono degli dèi, la ragione che abbraccia i limiti di ogni cosa. Felice chi l’ha nel cuore: essa domina la sciagurata arroganza e la terribile avidità, che è il peggiore dei mali” (Silloge teognidea 1171-1174). Di fatto, nulla di ciò che pertiene all’umano rimane estraneo ai contenuti poetici e alla condivisione emotiva del simposio. Proprio questo è forse, da ultimo, il suo valore: offrire, nella letizia del vino e dell’affettività, l’opportunità di sedimentare e distillare i tratti dell’esistenza in un piccolo tesoro di saggezza che i simposiasti potranno portare nella loro vita di tutti i giorni. Nel tempo e negli spazi della pólis, il frutto di tale saggezza potrà essere agito individualmente, ma anche insieme ai compagni stessi, quando, attraverso un’azione concertata e la reciproca collaborazione, si voglia tentare di infondere e di trasmettere alla comunità civica quegli stessi ideali etici e politici che il gruppo ha messo a fuoco al suo interno. Per ciascuno e per tutti – potremmo dire parafrasando Senofane da cui 217

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si è partiti –, la gioia assennata del simposio deve divenire il kairós, l’occasione per anapháinein esthlá, per “portare alla luce cose buone”, per “manifestare nobili pensieri”, mettendoli in comune e insieme rafforzandone la sostanza grazie al reciproco confronto. Alimentare l’aspirazione all’areté, al “valore” e all’“eccellenza” è il nobile scopo del bere insieme: “È da lodare chi, nel bere, rivela cose eccellenti, secondo l’educazione e la tensione alla virtù che egli possiede” conclude il poeta, ricordando, tuttavia, come, al di sopra degli affanni e delle cose mortali, sia sempre necessario “aver cura e pensiero degli dèi” (fr. 1,19-20).

Nel mondo di Afrodite “Desiderio [...] fiore [...] desiderio”: questo solo si riesce a leggere, con chiarezza, nel frammento di un papiro che raccoglieva alcuni componimenti di Saffo (fr. 78). Tre parole semplici, ma potenti, in cui si racchiude, per certi versi, l’essenziale di un universo soggettivo e insieme poetico. Il “fiore” della bellezza, della grazia, del corpo giovane e armonioso, da cui ogni incanto e ogni seduzione promana. Il “desiderio” che trafigge il corpo e la mente, come uno spasmo doloroso o un pensiero ossessivo. Il “desiderio” che è esultanza di una passione che si accende ma, allo stesso tempo, strazio e ferita, perché l’amore – dice Saffo con un aggettivo da lei stessa coniato – è sempre glukúpikron, “dolceamaro”, coincidenza ossimorica quanto inscindibile di estremi opposti (fr. 130): l’amore è una “fiera invincibile” che striscia e s’insinua nel cuore; 218

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una potenza che “divora” l’anima e “scioglie le membra”; è una forza che “cuoce” e “agghiaccia”; è una raffica violenta che “squassa” e “soggioga”, come la furia del vento che si abbatte, sulle querce, piegandone i rami e strappandone le foglie (frr. 38, 42, 47, 96). Il “desiderio” suscitato dall’incanto del “fiore” è esperienza mirabile, acuta e terribile che tutto investe e tutto coinvolge, penetrando in ogni fibra dell’essere e nulla lasciando intatto: “Questo mi sconvolge (eptóaisen) il cuore nel petto: ti guardo e non riesco più a parlare, la lingua si è spezzata, un fuoco sottile mi corre sotto la pelle, non vedo più nulla e le orecchie mi rimbombano, un sudore gelido mi cola sul corpo, un tremito tutta mi afferra, e divento più verde (chlorón) dell’erba, mi sembra di stare per morire” (fr. 31). Tali sono i sintomi di un páthos intensamente vissuto che, dettaglio dopo dettaglio, il tessuto poetico evoca e tenta di mettere a fuoco. Il prodursi del turbamento profondo è ptoiéin: una paralisi che immobilizza gli arti, uno sgomento che paralizza la mente, rendendola attonita e smarrita, incapace di pensiero e reazione, come accade a un animale ipnotizzato dalla paura. I sensi si offuscano, confondendo e impedendo ogni altra percezione. Le parole si interrompono nel blocco dell’afasia. La forza dirompente dell’emozione si dispiega in riflessi somatici tra loro contrari, iterando sul piano fisico l’intreccio ossimorico della psiche: da un lato, il calore improvviso e inspiegabile di un fuoco che avvampa e, dall’altro, la morsa di un gelo che irrigidisce e fa tremare. L’incarnato si altera, mutando colore, per far luogo, infine, alla sensazione di venir meno, come se il cuore di colpo s’arrestasse e la vita fosse strappata a forza 219

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dalle membra. Il quadro che ne scaturisce, intrecciando le manifestazioni estreme della passione, unisce la precisione di un’osservazione per così dire clinica alla tangenza di memorie omeriche: il soggetto amoroso che illividisce e avverte l’incombere della fine non è troppo diverso, per alcuni tratti, da un guerriero impegnato nella furia dello scontro: impetuoso come fuoco, ma anche madido di sudore, teso a resistere e insieme spaventato alla vista dei nemici, per poi finire attonito e vacillante quando un colpo mortale lo raggiunge, lacerandone le carni. Allora, la vista si ottenebra, le ginocchia si sciolgono, il corpo si accascia, senza vita, mentre l’anima, distaccandosi, se ne vola via nell’Ade. Una donna può morire d’amore come i virili eroi dell’Iliade muoiono sul campo di battaglia. Ma si può produrre anche la situazione contraria: fuggevoli istanti di requie in cui la vita sembra tornare a fluire e la salvezza baluginare all’orizzonte. Nonostante l’orrore della mischia violenta e l’impossibilità di sottrarsi alla pena della guerra, accade che l’eroe omerico riesca a “riprendere fiato” e a “trovare sollievo”, sia pur per breve momento, dall’assedio incalzante degli avversari (Iliade 10,575; 3,84). Allo stesso modo, lo spasmo e l’angoscia della passione talora giungono a placarsi: il soggetto, stretto da un desiderio bruciante, “trova refrigerio” e “torna a respirare”, grazie all’arrivo, insperato quanto atteso, della persona amata: “Sei qui! Io ti volevo, smaniavo per te. Sei acqua fresca sul fuoco della mia passione” (fr. 48). Perché, alla radice, la dinamica essenziale dell’éros sta tutta qui: nell’alternante tensione tra la presenza e l’assenza dell’oggetto d’amore. Nella gioia del suo manifestarsi o nel vuoto scavato dall’abbandono e 220

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dalla solitudine: “È tramontata la luna, scomparse sono le Pleiadi: è mezzanotte, l’ora è trascorsa ed io dormo sola”, “davvero io voglio morire” (frr. 94, 168). Ma questo páthos, che unisce i fili della vita e della morte, non è un evento meramente mortale né una vicenda limitata alle angustie dell’umana psicologia. È, al contrario, il dischiudersi di un orizzonte di trascendenza. Il “desiderio” che fa ardere e gelare è, nella sua essenza, cosa “sacra”. Ogni amore, felice o infelice che sia, non è solo un rapporto ‘orizzontale’ tra soggetti, ma tensione volta a quella verticale che si connette con il mondo celeste. In ogni amore è la maestà di Afrodite e di suo figlio Eros, che si manifesta e agisce nei corpi e nelle menti. Così pensava Saffo e, come lei, gli antichi. Riconoscere e venerare la sacralità del desiderio amoroso assegna all’esperienza individuale un valore e un significato che va al di là della semplice emozione o del soddisfacimento di un impulso: è un consapevole aprirsi a un potere che governa, sin dalle origini, la natura del cosmo. Amare significa compiere, ogni volta, un atto di culto in cui Afrodite si rende presente con lo splendore della sua potenza e dei suoi incantesimi. Per questo, la poesia che dice l’amore diviene anche atto di venerazione e preghiera. Diviene, grazie all’uso sapiente di parole e immagini, evocazione vivente della dea stessa: realizzazione di un’epifania che si dispiega in un dialogo tra l’anima amante e la luminosa sovrana del desiderio. “Immortale Afrodite, dal trono variopinto, figlia di Zeus, tessitrice di amorose trame, io ti prego:” dice Saffo in una sua celebre ode, “Mia signora, non piegare il mio animo con dolori e affanni, ma vieni 221

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qui, se mai altre volte, da lontano, hai ascoltato le mie parole, e sei giunta da me, aggiogando il tuo carro d’oro [...], e i bei passeri, sbattendo veloci le ali sopra la terra nera, giù dal cielo ti hanno portata attraverso gli spazi dell’etere” (fr. 1,1-12). Anche in passato, la dea era accorsa, benevola e affettuosa come una madre, alle preghiere di Saffo, e, “dischiudendo in un sorriso il suo volto immortale”, le aveva domandato in che cosa mai potesse esaudirla: “Mi domandavi che cosa di nuovo (déute) mi accadesse e perché, di nuovo, ti invocavo, e che cosa il mio animo folle di passione mai volesse [...]: ‘Chi, di nuovo, debbo indurre ad amarti? Chi, Saffo, ti fa torto? Perché, se fugge, presto inseguirà, e se non accetta doni, poi donerà, e, se non ama, presto amerà, anche se non vuole’” (fr. 1,14-24). Rassicurata e insieme grata di quell’aiuto divino che mai le era venuto meno, Saffo formula il voto che il favore celeste le sia nuovamente accordato e tutto si compia: “Anche ora vieni a me! E che tutto ciò che il mio animo brama, si avveri, fallo avverare tu, e sii mia alleata” (fr. 1, 25-28). Il fervore della preghiera poetica non è solo un gesto di riverente omaggio, ma, a tutti gli effetti, un atto magico, un incantamento d’amore, come le parole pronunciate dalla dea stessa testimoniano, indicando il desiderato e immancabile rovesciamento della situazione: chi non risponde alle profferte si troverà, anche contro la sua attuale disposizione, a provare la medesima passione. Il soccorso celeste e l’incantamento avranno un sicuro effetto come “altre volte” è accaduto: “di nuovo”, “di nuovo”, “anche ora” segnalano tanto il riaccendersi ciclico del desiderio – ciclico come il tempo delle stagioni, che si 222

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riavvolge su se stesso – quanto il ripetersi di un rito di cui la preghiera è strumento e sostanza. I sintomi dirompenti e contrastanti del desiderio così come l’inno ad Afrodite non devono, tuttavia, essere intesi come esclusive espressioni di un’esperienza individuale, né devono essere, tanto meno, limitati a una sorta di tracciato autobiografico. Anche in questo caso, la parola poetica vive e si rivolge a una comunità, divenendone cifra e insieme materia condivisa. Saffo nomina se stessa, si rappresenta e dice “io”, ma la sua scrittura si inscrive nell’attività di un thíasos. Il termine indica un gruppo coeso che si riunisce e si riconosce nel culto di una divinità: una cerchia di devoti che celebrano insieme azioni rituali e condividono un determinato approccio all’esistenza. E il thíasos saffico, per l’appunto, è il regno consacrato di Afrodite, unitamente alle Cariti, alle “Grazie”, che sempre accompagnano la dea, e alle Muse, che ispirano i canti dedicati all’amore in ogni sua sfaccettatura. Membri di tale comunità sono giovani fanciulle, di nobili e ricche famiglie, delle quali Saffo è guida e maestra: è una paidéia, un’“educazione” incentrata sulla poesia, sulla danza e sulla ritualità che la vita comunitaria consente e insieme sostiene nella condivisione di un ritmo e di un modo di percepire la vita. In questo spazio, Saffo insegna e trasmette alle ragazze i modi, il valore e l’essenza della femminilità per prepararle al giorno in cui esse, lasciato il thíasos, dovranno sposarsi, diventando mogli e madri in dimore altrettanto aristocratiche. Insegna loro che cosa siano l’amore e la seduzione. Lo insegna e lo mostra, amandole lei stessa e bruciando di passione per la loro fiorente giovinezza, come nume223

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rosi frammenti della sua opera testimoniano: un intreccio iterato di gesti e di affetti, di sentimenti e di situazioni che legano fra loro la “veneranda” maestra e le hetáirai, le “compagne” del gruppo afroditico. Il che non deve stupire come una contraddizione. Secondo la tradizione nel mondo greco, l’omoerotismo è, per ragazzi e ragazze, un’iniziazione all’adultezza, un rito di passaggio che, nel vincolo dell’amore, conduce al compimento del proprio essere: è specchiandosi negli occhi innamorati e saggi di un uomo adulto che un ragazzo apprende a essere uomo; è attraverso l’amore di una donna che una fanciulla giunge a comprendere che cosa sia il mistero del femminile. La via che conduce all’incontro con l’altro da sé, con il genere opposto, passa attraverso la relazione affettiva con l’identico, attraverso l’amore per l’uguale, ove, in una dinamica per così dire mimetica, si esplora e si conosce se stessi. Se nella sfera dei valori maschili contano la forza, la conquista e il potere, la cerchia del tiaso, per converso, si concentra e si riassume simbolicamente in ciò che è phílon, in ciò che è “caro” e “amato”, in ciò che è relazione e appartenenza: “Alcuni dicono che sulla terra la cosa più bella sia un esercito di cavalieri, altri una schiera di fanti, altri ancora una fila di navi. Io dico: è ciò che ciascuno ama. È tanto facile, per tutti, comprenderlo” (fr. 16,1‑6). L’amore ha la purezza di un’evidenza assoluta e tuttavia diversi sono gli sguardi e i modi con cui esso si manifesta e si percepisce. Come e che cosa si ama davvero? Che cosa vuol dire innamorarsi? La poesia di Saffo rappresenta l’éros e, attraverso la trama e il ritmo dei suoi versi, offre parole per dirlo e per riconoscerlo, perché tutti lo “comprendano”. Quella 224

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vibrazione che, di primo acchito, appare del tutto personale ed esclusiva, quello spasmo, affatto intimo, si estrinseca in un codice di immagini e di pratiche, nel disegno variegato di una fenomenologia, che la recitazione poetica – nel privato del tiaso o in occasioni pubbliche che comprendono anche gli uomini – trasforma nel dono prezioso di un’educazione ‘sentimentale’. Perché se “è bello ciò che si ama” (fr. 16), il bello è anche la misura e la manifestazione visibile di ciò che è “buono” (fr. 50), di quell’agathón che è radice di virtù e si traduce nella “giustizia” dei propri comportamenti e dei propri affetti. L’amore è dunque anche una questione di stile e di forma, creazione di un’atmosfera, evocazione di un’aura che avvolge e impregna i soggetti, squisitezza di modi e raffinatezza dell’apparire. “Io amo l’abrosúne” dice un ulteriore frammento di Saffo (fr. 58). Abrosúne e abrós rinviano a tutto ciò che appartiene, per sua essenza, alla sfera radiosa dell’“eleganza” e della “delicatezza”, della bellezza incantevole e insieme della fastosa ricercatezza. Splendore e grazia si intrecciano nella costruzione di un universo immaginale e insieme di una comunità, ove l’incontro felice di anime e corpi si dia, di volta in volta, come un abbraccio malthakós, “tenero” e “soffice”, come un regno ove ogni tensione si spegne e riposa nella “morbidezza”: “mani delicate” che toccano e sfiorano soavemente ogni cosa, “morbidi cuscini” su cui adagiare il “tenero collo”, “morbidi letti” ove dormire insieme, riposando su un “delicato seno” (frr. 46, 81, 94, 126). Di qui, da un frammento poetico all’altro, l’emergere di dettagli che rinviano alla cura, tutta femminile, della toilette così come a un’aristocratica 225

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attenzione per il compiersi di ogni azione e movimento. La bellezza femminile è una qualità naturale che si impone nello “splendore abbagliante di uno sguardo” o nei tratti di un candido volto che, come luna tra le stelle, sembra effondere, attorno a sé, una luce “argentea” (frr. 13, 34, 96). Ma bellezza è anche cultus, arte e ricerca consapevole di un effetto che i particolari dell’abbigliamento, i tratti della postura o la raffinata gestualità concorrono a produrre: il “sandalo colorato” che orna un piede affusolato, una “mitra variegata” per raccogliere i capelli, “braccialetti d’oro” per cingere i polsi, “tessuti di porpora, fragranti di profumo” in cui avvolgersi, vesti lunghe che bisogna saper drappeggiare, sollevandole elegantemente fino a scoprire la caviglia sottile (frr. 39, 44, 57, 98). Fragranze di unguenti, di balsami e di profumi – dalla mirra alla cassia – cosparsi sulla pelle o aleggianti nell’aria: aromi penetranti che appartengono, per tradizione, al dominio di Cipride. Il cultus si riverbera in un universo floreale che è insieme ornamento personale e paesaggio ideale di una primavera sacra in cui riluce la potenza della dea: “meli” e “rose sbocciate”, “corone di viole”, “delicati cerfogli” e “meliloto fiorente” (frr. 2, 94, 96, 122). Di tutto questo vive e si nutre il tiaso di Saffo. Di tutto questo si sostanzia la sua poesia in un cerchio che, rivolgendosi su se stesso, va dalla parola musicalmente intonata alla ritualità di un culto d’amore, dalla rappresentazione di una forma d’essere alla sua diretta esperienza. Come il canto fa eco all’evento della passione, così l’amore stesso è suscitato dalla melodia e dalla parola poetica. Basta far vibrare una corda e pronunciare il verso perché il deside226

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rio si accenda librandosi attorno al fulgore del bello: “Ti esorto a cantare [...],” dice Saffo “prendi la delicata lira finché di nuovo il desiderio voli intorno a te, voli intorno alla tua bellezza.” In tal modo, la poesia si espande, senza soluzione di continuità, dal palpito intimo e dal dettaglio quotidiano alla celebrazione solenne cui Saffo e le fanciulle prestano le loro voci chiamando a sé la dea affinché si unisca alle sue devote nel recinto reale e simbolico dello spazio sacro: “Vieni qui da Creta, vieni a me in questo tempio santo, attorniato da un bosco di meli, tra altari fumiganti di incenso. Qui fresca acqua gorgoglia tra i rami, ombra di rose e stormire di foglie, che incanta la mente. Qui sul prato, dove si pascono le cavalle, vi sono fiori di primavera e brezze che spirano con la dolcezza del miele. Qui, o Afrodite, vieni a versare delicatamente in coppe d’oro nettare per la nostra festa” (fr. 2). Per ognuna delle ragazze verrà il tempo di ritornare alla propria città, verrà il momento di abbandonare Saffo e quella vita comunitaria. Ma ciascuna di loro dovrà serbare viva memoria di quanto esse hanno condiviso, trasformandola nella cifra interiore di una sensibilità e di uno stile, di un affetto e di un mondo emotivo: “Ricorderete [...], queste cose noi facevamo [...] molte e belle cose,” raccomanda un frammento (fr. 24). Ed è proprio la poesia a essere alimento e tesoro necessario di questa memoria. Ascoltata ed eseguita giorno per giorno, la poesia ribadisce e fissa il ricordo dell’esperienza vissuta, esaltandone il valore e il significato. Nel suggellare emozioni e istanti, i versi fondono in ‘uno’ le coordinate del tempo: rivolgendosi anche a chi è ormai lontano e assente, le odi rendono presente il 227

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passato e insieme lo riconsegnano al futuro di ognuna delle amate “compagne”. “Se non ricordi,” dice un poema indirizzato a una fanciulla che ha lasciato il gruppo, “io allora voglio farti ricordare [...], di molte corone ti cingesti il capo stando accanto a me [...], sui morbidi letti placavi il tuo desiderio [...], non c’era tempio né festa cui fossimo assenti” (fr. 94). Ciò che ridesta la memoria di una relazione trascorsa è, allo stesso tempo, paradigma offerto a tutte coloro che ancora abitano il tiaso, affinché apprendano e inscrivano in se stesse il dono prezioso che stanno condividendo. L’universo stesso dell’aurea Afrodite non potrebbe vivere senza il canto e l’ispirazione delle Muse: “Mie fanciulle, onorate i bei doni delle Muse dal seno di viola,” esorta Saffo in un componimento ove si intravede l’ombra di una vecchiaia incombente, ma insieme la consapevolezza del proprio fare poetico (fr. 58). “A me,” si afferma con fulminea sintesi di un destino e di un’arte, “l’amore del sole ha dato in sorte splendore e bellezza.” Amare il sole significa amare la luce della vita, come cosa sacra e divina, ed è solo grazie a ciò che il bello si percepisce e si genera. Si racconta che Saffo si sia suicidata gettandosi in mare da una “rupe bianca”. Un gesto, si dice, dettato dalla disperazione per l’amore non corrisposto del bel Faone. Ma questa leggenda, elaborata in età successiva, non sarebbe che l’eco distorta di un’immagine mitica e di un dato rituale contrassegnati da tutt’altro significato. Il nome di Faone – di cui si racconta facesse il barcaiolo – deriva da una radice che significa “luce”. Quella calda luce solare che, a ogni tramonto, sembra tuffarsi nelle acque, scomparendo in esse per poi riemergerne sul fare di un nuovo giorno. 228

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La vicenda del Sole che dilegua e risorge, navigando nella notte su di una barca attraverso l’Oceano, non è solo la traiettoria di un ciclo cosmico, ma è anche e soprattutto il simbolo di quel percorso di morte e rinascita che è proprio dei riti di passaggio e delle iniziazioni a una condizione superiore di esistenza. Da tale prospettiva, il leggendario salto di Saffo nelle profondità del mare non avrebbe nulla a che fare con l’esito di una passione infelice, ma dovrebbe, all’opposto, essere ricondotto a quel medesimo fondamento iniziatico che sta alla radice del tiaso. La stella di Afrodite è la prima a brillare nel cielo della sera quando il disco del sole scompare all’orizzonte, ed è la prima, al mattino, ad annunciarne il fulgente ritorno. Il desiderio della femminea Afrodite per il calore del Sole fa tutt’uno con quell’éros luminoso e vitale che Saffo ascrive al suo destino e al ruolo di maestra. Il salto dalla bianca rupe non è che il simbolo potente di un’esistenza realizzata attraverso l’amore sacro di Cipride e il dono immortale delle Muse. Mimesi, ancora una volta, di un moto cosmico che trova corrispondenza nell’universo interiore e nell’esistenza di un’anima amante.

L’oro dei giochi Occasione solenne è l’evento dei giochi sportivi che si svolgono, con cadenza regolare, a Olimpia presso le correnti dell’Alfeo così come nella valle di Nemea nel Peloponneso; a Delfi sotto le pendici aspre del Parnaso così come sulle rive dell’Istmo di Corinto. Il tempo e 229

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lo spazio degli agoni si configura come una panéguris, un’“adu­nanza festiva solenne” che raccoglie gli uomini e crea, ancora una volta, comunità. Ma non si tratta, in questo caso, di una comunità locale o di un gruppo ristretto: è il prodursi temporaneo di un vero e proprio orizzonte panellenico che supera le rivalità tra le singole città e le differenze delle etnie. Da ogni parte della Grecia, infatti, gli uomini arrivano in questi luoghi per partecipare alle competizioni o anche solo per assistervi, tanto è il valore e il prestigio che a esse si assegna. Eventuali ostilità o operazioni belliche che siano in corso vengono sospese perché a nessuno sia impedito di essere presente a quella festa che riunisce tutti coloro che parlano greco e si riconoscono nelle coordinate di una comune tradizione culturale. È un’occasione di pace e di unione su cui vegliano gli dèi poiché i giochi si svolgono nel perimetro di venerati e famosi santuari, come la dimora delfica di Apollo con il suo celebre oracolo o l’altare di Zeus che, a Olimpia, affianca il tempio di Era e la tomba eroica di Pelope. Anche gli agoni, come ogni altra dimensione festiva, sono cosa “sacra” che interrompe la profanità del quotidiano: tant’è che un autore antico come Pausania non aveva dubbi nell’accostare i giochi olimpici ai rituali misterici di Eleusi poiché tanto gli uni quanto gli altri sarebbero mirabile manifestazione di un “pensiero divino” (Guida della Grecia 5,10). Si partecipa ai giochi non solo per dimostrare la propria eccellenza sportiva dinanzi a tutta la Grecia, ma anche per godere di uno spettacolo mirabile ove sacralità, perfezione e sapienza si fondono in uno. Theoría, prima ancora di essere un termine specificamente filosofico, è il nome stesso 230

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con cui si designa il dispiegarsi delle celebrazioni agonali: “visione” e “festa” che si offrono agli occhi e alla mente di un pubblico intento e insieme rapito. Nei giorni delle competizioni, la forza e l’agilità dei corpi, la destrezza e il vigore degli atleti e la loro stessa bellezza concentrano su di sé sguardi ammirati, e tuttavia non è solo la dimensione fisica a richiamare l’attenzione. Accanto alle gare vi è infatti un risuonare intenso di parole e discorsi: scrittori e poeti, oratori e sapienti colgono l’occasione per incontrarsi e, al medesimo tempo, per divulgare, dinanzi a un pubblico così vasto e vario, il contenuto delle proprie opere e i frutti del proprio pensiero. È noto, ad esempio, che, proprio durante i giochi olimpici, Erodoto recitò e diffuse brani di quella sua historíe, di quella ricerca ‘storica’, con cui intendeva salvare dall’oblio “le imprese grandi e meravigliose compiute dai Greci e dai Barbari” (Storie 1, proemio). A questo universo appartiene la parte più cospicua della produzione superstite di Pindaro: le quattro raccolte di epinici ovvero di odi che celebrano, di volta in volta, i fortunati e valenti vincitori dei singoli agoni. Lo sport – al pari della guerra e dell’amore della sapienza – è una passione aristocratica: passione per il valore assoluto che si manifesta e si impone su ogni altra cosa. Essere áristos, il “migliore”, compiere atti e opere che di tale eccellenza siano il necessario esito: null’altro conta per l’uomo nobile. Adulti e ragazzi di famiglie aristocratiche, principi e sovrani di città, sono i vincitori che ricorrono alla maestria di Pindaro per celebrare i propri successi. E aristocratica è l’arte stessa del poeta non solo perché riflette tale universo valoriale con perfetta coincidenza, ma perché quest’arte è 231

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frutto di pura sophía, di nobile “sapienza”, che scaturisce dalla superiorità di un talento naturale e dall’ispirazione celeste. L’érgon, l’“impresa” agonale, coronata dal successo, sollecita e insieme esige il suggello di una “parola” di lode, di un canto che rappresenti il valore e insieme lo fissi in ricordo perenne: “Grandi prove svaniscono nella tenebra se mancano d’inni,” afferma Pindaro. “Conosciamo un unico specchio per le belle imprese, un unico modo: parole e canti di gloria, con cui la dea della Memoria offre il compenso di ogni fatica” (Nemee 7,6-11). Le Muse, figlie di Memoria, “amano ricordare le grandi gare” (Nemee 1,11-12), ed è così che la gloria si sottrae all’effimero, sfidando la potenza corrosiva del tempo: “Le parole vivono più a lungo delle azioni” e un “tesoro d’inni”, forgiato con arte suprema, è cosa che “né la pioggia invernale [...] né il vento potranno mai sospingere negli abissi del mare” (Nemee 1,11-12; Pitiche 6,10-13). Quando, con dispendio di forze e di risorse, un uomo si impegna e attende al “valore” con tutto se stesso, allora è “giusto” tributargli, senza riserve e senza reticenza, l’omaggio di una “magnifica lode” poiché è questo il “più sublime guadagno” dell’impresa gloriosa (Istmiche 1,40-50). I versi che Pindaro tesse per rendere imperitura la fama dei suoi nobili committenti sono come un gioiello prezioso cesellato da mani divine nell’intreccio di “oro, candido avorio e fior di corallo carpito alle rugiade marine” (Istmiche 7,75-58). Le sue odi sono come la splendida “facciata” di un tempio che risplende da lungi, avvolto da “pura luce” (Pitiche 6,17-18). Le parole di lode si stagliano come “colonne d’oro” di un sontuoso edificio eretto alla virtù (Olimpiche 6,1-4). Sono 232

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perfette e monumentali come statue scolpite in candido marmo, ma, a differenza di esse – immobili nello spazio ove sono poste –, le parole degli inni volano tra gli uomini e si piegano, duttili, alle circostanze: gli epinici possono essere intonati da un coro nel luogo stesso della vittoria o essere inviati alla città natale del vincitore affinché un corteo festoso li faccia risuonare dinanzi all’intera comunità, o ancora essere riascoltati, per voce sola, nella cerchia di un privato simposio. Quale che sia il momento e la modalità della loro esecuzione, le odi della vittoria abitano ed esprimono un mondo di luce intensa: luce è il valore di cui risplendono gli uomini, luce è la gloria nell’attimo in cui si conquista, luce è il canto che celebra i mortali sottraendoli all’invisibilità dell’oblio. Proprio per questo, Pindaro apre uno dei suoi epinici, invocando la celeste Théia, la “divina madre del Sole” che dona essere, visibilità e pregio a ogni cosa bella ed eccellente. È grazie a lei che gli uomini “stimano l’oro più di ogni altra cosa”, è grazie a lei, che, “negli agoni per i grandi premi”, lo splendore dell’“amabile fama” circonda i vincitori: “Solo due cose, infatti, nutrono il dolce fiore della vita nella pienezza della felicità: la gioia del successo e le parole di lode” (Istmiche 5,1-11). Ambire al traguardo più alto è nobile aspirazione così come il successo è meritato premio alla fatica e all’impegno, ma non bisogna mai smarrire il senso della misura nell’ebbrezza della vittoria e nell’esaltazione che la lode stessa dispensa: “Se la sorte ti ha concesso queste cose, tu hai tutto: non devi desiderare d’essere Zeus,” ammonisce Pindaro, “perché ai mortali si addicono cose mortali” 233

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(Istmiche 5,14-16). La gioia del primato, il conseguimento della gloria devono stemperarsi nell’equilibrio di una meditazione consapevole che richiami, volta per volta, i limiti della condizione umana e i principi invalicabili della saggezza. L’esultanza non deve trasformarsi in un’esaltazione immemore della misura e dell’armonia. Allo stesso modo, quel presente che la vittoria sembra rendere assoluto deve essere ricompreso e riconnesso all’alveo del passato più antico, al filo di quella tradizione che costituisce il fondamento dell’esistenza tanto individuale quanto collettiva. In una trama spesso vertiginosa di immagini suggestive e di parole-chiave che si richiamano per analogia, i canti di Pindaro si sviluppano in una sorta di sapiente contrappunto tra tali istanze. Di necessità, i versi illustrano il kairós, l’“occasione” specifica che suscita parole di lode: lo spazio e il tempo della gara, così come il nome del vincitore e la famiglia da cui discende. Ma subito, accanto al kairós, emerge il monito della gnóme, della “massima” che richiama, in modo sintetico, i valori etici a cui il vivere deve essere sempre e comunque improntato. Tra kairós e gnóme risuona, infine, la voce suadente del múthos, il tesoro variegato delle imprese compiute dagli dèi e dagli eroi: a suscitare il ricordo di una storia – a guidare la scelta della vicenda più pertinente alle circostanze – può essere il luogo stesso degli agoni, la patria cui il vincitore appartiene o la lontana origine della sua stessa stirpe. Da tale intreccio scaturisce una visione in cui ciò che è particolare e individuale viene ricondotto al­l’unità di un significato più vasto, all’orizzonte di un tutto cui mortali e immortali, esseri viventi ed elementi naturali, ugualmente 234

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appartengono, perché “da un’unica madre hanno respiro le stirpi di uomini e dèi” (Nemee 6,2-4). Esempio paradigmatico di tale arte – ammirato come tale dagli stessi antichi – è il canto che apre la raccolta delle Olimpiche, celebrando la vittoria del potente Ierone, tiranno di Siracusa, nella corsa a cavallo: “Ottima è l’acqua, ottimo è l’oro che splende come fuoco acceso nella notte, superando ogni immane ricchezza. Se tu vuoi, cuore mio, celebrare i giochi, non cercare nel giorno, nel cielo deserto, un astro più fulgido e caldo del sole: no, non potremmo cantare un agone più illustre di Olimpia” (Olimpica 1,1-8). La purezza cristallina dell’acqua, l’inestimabile fulgore dell’oro, i raggi caldi del sole a picco nell’etere sono simboli di un valore assoluto e abbagliante che oscura ogni altra realtà: vertici supremi della natura così come Olimpia è vertice assoluto, che si staglia, per il suo prestigio e la sua magnificenza, al di sopra di ogni altra competizione. Senza soluzione di continuità, l’idea di un’eccellenza sovrana trascorre dagli elementi del cosmo al mondo umano dei giochi perché un medesimo principio di valore attraversa ogni cosa. Ma ora – dice Pindaro – bisogna staccare la cetra dal chiodo perché una nuova felice vittoria merita di essere coronata di inni. Il kairós, l’“occasione” del canto è data da Ferenico, il veloce destriero di Ierone, che, senza bisogno di sproni, si è lanciato d’un balzo nella corsa: sfrecciando lungo le correnti dell’Alfeo, ha assegnato al suo signore la palma più ambita. Bastano pochi cenni a dire la gioia di Ierone e i “dolci pensieri” che attraversano ora la sua mente, e poi subito, con una transizione immediata quanto naturale, si spalanca l’immane porta del 235

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passato, avvolgendo le parole nell’aura incantata della leggenda eroica. Perché ogni evento, ogni azione e ogni sentimento hanno un precedente e un archetipo con cui possono essere confrontati e compresi: dietro ogni storia c’è sempre un’altra storia nella catena ininterrotta di una temporalità che si ripete e insieme si rinnova a ogni istante. L’immagine e il luogo della corsa richiamano, come per un’associazione inevitabile e necessaria, l’impresa di Pelope, cui si connette la fondazione della città e l’origine dei giochi stessi: “La gloria risplende a Ierone nella maschia colonia del lidio Pelope, di cui un giorno il possente Poseidone, lo scuotiterra, si innamorò” (vv. 23-26). Evocare un mito non è, tuttavia, cosa scontata: occorre trovare la giusta via del canto fra le molte “cangianti menzogne” che la voce degli uomini spesso non esita a diffondere e accreditare. Ben sappiamo che non a tutti le Muse dicono il vero ed è compito del poeta realmente ispirato sgombrare il cammino da ciò che non può e non deve essere creduto: “Il fascino, che rende ogni cosa gradevole ai mortali, spesso dà valore e credito all’incredibile, ma miglior giudice è il tempo a venire. È giusto che l’uomo dica cose belle sugli dèi: minore è la colpa” osserva il poeta con spirito reverente (vv. 30-35). Si racconta che Tantalo, il padre di Pelope, avesse ricevuto l’eccezionale onore di diventare commensale degli dèi. Preso da un’incondita e delirante follia, egli volle ricambiare, a propria volta, il favore, invitando i celesti a un eccezionale quanto inaudito banchetto. Dopo aver fatto a pezzi il giovane Pelope, Tantalo cucinò le carni e, quasi si trattasse di uno squisito manicaretto, le offrì agli dèi. Si sarebbero accorti della natura di quel cibo o avreb236

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bero ignari pasteggiato con il corpo del figlio? Secondo la versione altrimenti nota, Demetra, ancora scossa per la perdita della figlia Persefone, si sarebbe messa a sbocconcellare, distrattamente, quello che era stato il braccio del ragazzo, senza nutrire alcun sospetto. Con gesto imperioso e autorevole, Pindaro, tuttavia, non ha dubbi nel rigettare tale immagine empia, contestando quanto altri hanno narrato: “Mai potrei dire che gli dèi sono schiavi del ventre. Mi rifiuto! Parole blasfeme non portano nulla di buono” (vv. 52-54). Impensabile che gli dèi siano feroci quanto storditi cannibali. Altra è la ‘verità’ della storia che Pindaro vuole celebrare, smentendo le vane credenze che non si addicono alla natura degli dèi. Se, a un certo punto, Pelope scomparve, irreperibile a ogni ricerca, non fu esito di atroce violenza, bensì frutto prezioso d’amore: l’avvenenza del fanciullo – spiega Pindaro – accese l’animo di Poseidone che, vinto da irresistibile passione, lo rapì con il suo carro dorato, portandolo tra gli dèi, come un tempo aveva fatto anche Zeus con Ganimede. È sempre uno straordinario privilegio essere amati o favoriti dagli dèi, ma occorre saper fare tesoro di tale esperienza, bisogna saper “reggere” a una fortuna così grande, senza smarrirsi, senza trascorrere nella húbris, nella “tracotanza” e nella “dismisura”. Un’immensa felicità, infatti, può anche stordire e rendere avidi: il kóros, la “sazietà” acceca la mente e facilmente si trasforma in eccesso e in imprudente audacia. Questa – spiega Pindaro – era stata l’effettiva colpa di cui Tantalo si era macchiato. Non l’uccisione del figlio e il pasto cruento – eventi mai avvenuti –, ma l’accecamento della superbia e la mancanza di discer237

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nimento cui egli aveva ceduto all’apice di una magnifica sorte. Gli dèi lo avevano reso immortale consentendogli di gustare l’ambrosia – il cibo della non morte –, ma egli, anziché essere grato di questo dono esclusivo e rispettarne le condizioni, si era messo a dispensarlo ai propri compagni, come se egli potesse disporre a proprio piacimento di quella sostanza celeste. Il gesto aveva fatto scattare un’immediata e terribile punizione: quel supplizio cui il nome di Tantalo è tristemente associato nella condanna eterna a una fame e a una sete inestinguibili. “Sbaglia chi si illude di fare qualcosa sfuggendo al dio,” commenta Pindaro nella forma tradizionale della “massima” (vv. 63-64). Per effetto della colpa di Tantalo, Pelope dovette lasciare la dimora celeste e tornare fra gli uomini. Ma, diversamente dal padre, egli seppe usare saggiamente del favore degli immortali. Una notte, sulla riva del mare, si mise a pregare Poseidone, chiedendo il suo aiuto in contraccambio di quelle delizie amorose che si erano scambiati. Voleva tentare un’impresa estrema: desiderava partecipare alla gara che – proprio nel territorio ove sarebbe sorta Olimpia – il re Enomao aveva bandito per chi volesse sposarne la figlia. Una corsa con il carro in cui chi perdeva, raggiunto da Enomao, veniva trucidato sul posto. A tal fine Pelope aveva bisogno che il dio gli stesse accanto: “Poseidone, se i dolci doni di Afrodite ti sono stati cari, [...] portami nell’Elide con il tuo carro più veloce e conducimi alla vittoria. Già tredici pretendenti Enomao ha ucciso [...], ma un grande rischio non vuole codardi. Se siamo destinati a morire, perché rimanere nell’oscurità e consumarsi in un’inerte vecchiaia, senza nome e senza glo238

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ria? Io affronterò questa prova, tu dammi il buon esito” (vv. 75-85). A differenza di Tantalo che dissipò sconsideratamente il dono inatteso di una facile immortalità, Pelope si volse saggiamente alla via dell’eccellenza eroica: sfidare il rischio della morte, conquistare fama e onore imperituro a prezzo del proprio valore e del proprio ardimento, nella consapevolezza che ogni sforzo umano trova, tuttavia, compimento solo in virtù del favore e del sostegno dei celesti. Poseidone non mancò di esaudire la devota preghiera dell’amato, illuminando l’oscurità notturna con un aureo carro trainato da “cavalli infaticabili, veloci come il vento”: “Così egli vinse la forza di Enomao ed ebbe in moglie la vergine, generando sei figli, principi valenti e virtuosi. Ora partecipa a splendidi sacrifici presso le rive del­ l’Alfeo in una tomba molto frequentata dai visitatori [...]. Lontano rifulge la gloria di Pelope nelle corse di Olimpia, dove si gareggia in velocità e in forza” (vv. 90-97). Il cerchio del canto si chiude, saldando il passato e il presente: la vicenda di Pelope non è solo l’áition mitico, la leggendaria “ragione” degli agoni che continuano a celebrarsi, ma è il modello stesso che ogni concorrente, venuto a Olimpia, deve rammentarsi e, per così dire, imitare nella ricerca di quella “luce” capace di risplendere nella notte degli umani destini. Né vi potrebbe essere modo migliore per rendere omaggio al traguardo ora raggiunto da Ierone: “Devo incoronarlo con un canto equestre” conclude Pindaro nell’auspicio che il suo nobile destinatario possa, in futuro, vincere anch’egli la corsa del carro al modo di Pelope (vv. 101-102). Lecita speranza a patto che, di nuovo, non 239

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venga mai meno la moderazione: “Altezze diverse vi sono per l’uomo e la vetta più alta è occupata dai re. Non spingere oltre il tuo sguardo! Possa tu incedere sempre sulle cime più alte e io frequentare chi vince, ovunque famoso per la mia arte!” (vv. 113-116). Mentre questo canto risuona dinanzi a una comunità intenta all’ascolto, la parola si trasforma in visione e tutto diviene, allo stesso tempo, presenza assoluta e vera realtà: l’acqua, il fuoco di Olimpia, la corsa alata di Pelope si fondono in un’esaltante theoría di virtù e di saggezza il cui il valore sacrale si riassume nel fulgore di un simbolo assoluto ed eterno: “L’oro è figlio di Zeus, né tarme né vermi lo consumano: l’oro è potenza che domina i cuori” (fr. 222).

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Tutta la città a teatro “Abbiamo procurato al nostro spirito numerose occasioni di svago per riprenderci dalle fatiche: celebriamo feste e gare durante tutto l’anno,” così il grande Pericle descrive, dinanzi ai suoi stessi concittadini, lo stile di vita del­ l’Atene classica (Tucidide, Guerra del Peloponneso 2,38). Il fitto calendario festivo, che scandisce il volgersi delle stagioni, così come le numerose competizioni poetiche e sportive che lo accompagnano, non costituisce, tuttavia, solo un’opportunità di riposo e di rilassamento – momentanee tregue al lavoro e agli impegni – né rappresenta un semplice diversivo per evadere spensieratamente dagli angusti confini del quotidiano. Le feste civiche sono, in modo ben più essenziale, momenti in cui, con scansione regolare e con l’evocazione degli dèi, si rinnovano e si rinsaldano i legami fondanti della comunità: i vincoli che idealmente stringono i cittadini-fratelli nella comune appartenenza alla pólis. Il rituale festivo con il suo dispiegarsi di processioni, atti cultuali, danze e canti è, per così dire, strumento di una palingenesi collettiva, che tocca – nella differenza delle singole occasioni e delle divinità coinvol241

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te – i molteplici aspetti dell’esistenza in cui la città si riconosce e fonda la propria ragione d’essere. E, in tale orizzonte, una delle feste più rilevanti è senza dubbio quella che vede l’intera popolazione raccogliersi nella cavea del teatro, alle pendici dell’acropoli, accanto al santuario di Dioniso. Quando la primavera fa ritorno e le giornate si intiepidiscono, quando il mare si placa e riprende a essere navigabile, a fiorire con rigoglio non è unicamente la natura. Ad Atene, nel mese di Elafebolione, tra marzo e aprile, fiorisce anche, in tutto il suo splendore, la cháris, la “grazia” di Dioniso con le “sfide appassionate dei cori e la musica fremente dei flauti” (Aristofane, Nuvole 311-313), con gli agoni in cui, anno dopo anno, poeti tragici e comici offrono il frutto della loro arte a beneficio tanto della città quanto dei numerosi stranieri che per tale evento la raggiungono. È questo il tempo in cui si celebrano, con magnificenza e solennità, le Grandi Dionisie o Dionisie Urbane. Nell’arco di sei giorni – dal 9 al 14 – è come se la vita quotidiana e ogni occupazione corrente si arrestassero per dare spazio alla sapienza del teatro, cui tutti i cittadini sono chiamati a partecipare. Il festival dionisiaco è, nel suo insieme, una sorta di grandioso spettacolo che la pólis offre a se stessa, con un dispiegamento immane di risorse e di energie, tanta è l’importanza che si attribuisce all’ascolto condiviso della poesia. Un fastoso quanto articolato cerimoniale ne scandisce l’intero svolgimento. Il primo giorno, il 9, è occupato dalla processione che simboleggia l’arrivo stesso di Dioniso nel cuore dello spazio a lui consacrato. Il giorno successivo, il 10, un ulteriore corteo di fanciulle sfila, per le vie, recando ceste d’oro ri242

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colme di primizie e di offerte agli dèi, mentre il sacro fallo, emblema dello stesso Dioniso, dio della vita pulsante e indistruttibile, è fatto oggetto di rituale ostensione e un toro viene accompagnato all’altare del sacrificio da una schiera di giovani efebi. Nel pomeriggio prende quindi avvio la prima competizione: dieci cori di fanciulli e dieci di adulti – in rappresentanza delle altrettante ‘tribù’ in cui la popolazione ateniese è suddivisa – si affrontano, danzando e cantando, nella gara del ditirambo dionisiaco. La mattina successiva, alle prime luci del mattino, lo squillo di una tromba segna l’inizio degli spettacoli teatrali veri e propri. A esibirsi per primi, per tutto il giorno 11, sono cinque commediografi, ognuno dei quali sottopone al pubblico una sua nuova opera. È poi la volta del genere tragico che occupa le giornate successive, dal 12 al 14, durante le quali tre poeti portano in scena una tetralogia a testa: tre tragedie, per ognuno, seguite da un dramma satiresco le cui tonalità più lievi e giocose stemperano la precedente serietà delle vicende rappresentate. A presiedere e a regolare la complessa organizzazione della festa è la stessa autorità civica. È compito dell’arconte eponimo selezionare, nell’estate dell’anno precedente, i drammaturghi chiamati a comporre e a rappresentare le loro opere. La scelta dei poeti cui “concedere il coro”, ovvero la partecipazione all’agone, è fatta sulla base di un abbozzo che ognuno di essi provvede a presentare. Ed è ancora l’arconte che provvede alla designazione dei cosiddetti “coreghi”, dei cittadini che sono chiamati a finanziare l’allestimento degli spettacoli stessi, sostenendone i costi, dai costumi allo stipendio dei coreuti, dai musicisti 243

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ai maestri dei cori stessi: è una “liturgia”, un pubblico servizio che i soggetti più abbienti sono tenuti, proprio in ragione della loro ricchezza, a prestare all’intera comunità. L’allestimento e i preparativi non sono certo cosa da poco, se si calcola che solo i cori – necessari tanto per i ditirambi quanto per le tragedie e le commedie – coinvolgono, ogni anno, circa milleduecento persone. La rilevanza civica dell’evento è percepibile anche in altri aspetti che ne segnano lo svolgimento. Prima degli spettacoli veri e propri, nello spazio del teatro, la voce del pubblico araldo presenta agli spettatori gli orfani di coloro che sono caduti in guerra a difesa della patria: quegli orfani che la città si è fatta un dovere di mantenere a proprie spese fino al compimento dell’adolescenza proprio in ragione del sacrificio compiuto dai loro genitori. Dinanzi a tutti vengono inoltre proclamati i nomi dei cittadini che, per loro benemerenze nei confronti di Atene, hanno meritato l’onore di una corona. Un ulteriore momento è rappresentato dall’esposizione pubblica del tributo che le città alleate sono tenute a versare, ogni anno, alla città, nell’occasione del festival. A completare il quadro vi è la disposizione stessa del pubblico sui gradini del teatro: nei posti d’onore sono schierate le autorità pubbliche, gli arconti, gli strateghi e i sacerdoti, a cominciare da quello di Dioniso, seduto al centro della prima fila. Subito dopo, in un settore a essi dedicato, vi sono i membri del Consiglio della città e, a seguire, raggruppati secondo le tribù di appartenenza, i cittadini di pieno diritto. Più sopra vi sono i posti degli stranieri e delle donne. L’esito stesso della competizione è frutto di una procedura che fa appello all’ar244

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ticolazione civica: dieci giudici – in rappresentanza, ancora una volta, di ciascuna suddivisione in cui il popolo ateniese è ripartito – esprimono su una tavoletta il loro voto; dall’urna che le raccoglie ne vengono estratte cinque a sancire i poeti vincitori. Da tutto ciò si comprende come il kósmos del teatro, l’universo ordinato della festa, divenga simbolo dell’“ordine” stesso che struttura la vita di Atene: nell’orizzonte dedicato alle rappresentazioni, è la pólis che, per prima, si autorappresenta, ribadendo la natura e il valore di ciò che la costituisce e la fa ‘essere’. Ma la costruzione e la conferma dell’immagine identitaria, dell’orizzonte politico condiviso, sono, in realtà, solo uno dei poli della festività consacrata a Dioniso. Il dio della maschera, il dio che riunisce in se stesso l’insostenibile tensione degli opposti, giunge infatti ad Atene, a ogni nuova primavera, non solo per rinnovare un ordine esistente, ma anche e soprattutto per rimetterlo ciclicamente in questione. Egli costringe i cittadini a interrogarsi su loro stessi, al di là delle apparenze, al di là dei discorsi ufficiali e dell’ideologia. Li induce a guardare e a guardarsi, a esplorare, nel viaggio offerto dal teatro, le contraddizioni che li abitano, le antinomie e i punti ciechi di quell’ordine cui essi riconducono, quotidianamente, la loro esistenza, tanto come membri della comunità quanto come nudi esseri umani. Li forza a vedere che cosa sia la natura mortale e che cosa, all’opposto, contraddistingua il divino. Da un lato, gli eroi della tragedia, le cui vicende scaturiscono dal passato assoluto e fondante del mito. Dall’altro, i buffoni esuberanti della commedia, che dialogano in 245

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modo diretto e insieme fantastico con i problemi del presente. In modo complementare – attraverso la sventura o con una trionfante risata –, tanto gli uni quanto gli altri offrono, agli spettatori riuniti dalla festa, uno strumento di kátharsis, di “purificazione”. Il che significa non solo liberarsi, attraverso gli spettacoli, dalle passioni che turbano gli animi – tornando più pacificati al quotidiano –, ma anche, e in modo forse più prezioso, disfarsi delle illusioni e degli inganni che abitano la mente e il linguaggio di ognuno come di tutti. Della copiosa produzione del teatro di Atene ben poco è rimasto. Due, fra le opere superstiti, mettono in scena lo stesso Dioniso. Una tragedia: le Baccanti di Euripide. E una commedia: le Rane di Aristofane. Entrambe appartengono all’ultimo scorcio del V secolo. E, proprio per questo, vale la pena di soffermarsi su di esse, sia per la presenza del dio sia perché offrono, sul finire di un’epoca, una sorta di sguardo retrospettivo sul teatro stesso.

Il páthos assoluto “Eccomi: sono arrivato a Tebe!”, esclama il dio nel dare inizio al gioco terribile delle Baccanti euripidee (vv. 1-5). Dioniso è sempre colui che giunge, colui che irrompe da un altrove, portando una cesura nello spazio e nel tempo, aprendo una porta verso le dimensioni altrimenti ignote e rimosse della realtà. Egli si presenta e viene percepito, dapprima, come uno straniero, dotato del fascino inquietante di un’esotica alterità o di una disturbante differenza. 246

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La sua vera natura si occulta nella metamorfosi e nel travestimento – come è proprio d’altronde del teatro stesso – per meglio mescolarsi ai comuni mortali e metterli alla prova: “Ho cambiato aspetto e mi sono trasformato in uomo” (v. 4). Sulla scena, il suo sembiante è quello di un forestiero venuto dall’Asia a portare la parola e il culto di una nuova divinità. Eppure non vi è nulla che lo faccia propriamente altro dal luogo in cui egli ha deciso di manifestarsi: Tebe è la patria di sua madre Semele, la figlia di Cadmo, il fondatore di quella stessa città. Lì Dioniso era stato generato nel connubio segreto tra la principessa e il grande Zeus. E lì vi sono ancora le rovine fumanti della dimora in cui Semele era morta tra le fiamme della folgore, a causa dell’incauto desiderio di vedere il proprio celeste amante nella pienezza insostenibile della sua divina maestà. A Tebe, dunque, Dioniso non è affatto un estraneo, come potrebbe sembrare. È di casa: i membri della dinastia regnante sono suoi congiunti; il paesaggio su cui il suo occhio indugia si inscrive nell’origine della sua stessa storia. Anche se nessuno lo riconosce, egli appartiene, sin dall’inizio, a quell’orizzonte. Assolutamente alieno e, al contempo, massimamente intimo, straniero e insieme famigliare: è questa la dicotomia disorientante attraverso la quale il dio si muove, qui come altrove, per andare incontro agli umani. Dioniso è il volto nascosto di quell’esistenza di cui tutti sono partecipi. È il volto che fa paura e non si vuole vedere perché in esso ogni distinzione vacilla e viene meno, perché ogni tratto rassicurante s’inabissa nel cuore meraviglioso e terribile della natura divina che sta al fondo e all’origine del diveni247

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re e del cosmo. Quel fondo in cui tutto coincide e si fa uno per poi di nuovo frammentarsi nelle differenze del molteplice. Ma di tutto ciò non si danno consapevolezza e coscienza se non ci si cala, almeno per una volta, nell’abisso. Nulla si comprende se ci si ostina a ritenere che la superficie del visibile e le presunte certezze della mente umana siano dimensioni definitive e autosufficienti. La struttura e l’ordinamento della stessa pólis sono un mero simulacro, se non addirittura una gabbia mortifera o un involucro sclerotizzato, quando ricusa di accostarsi alla ‘cosa divina’, alla pulsazione sacra, che Dioniso custodisce in se stesso. Per questo, bisogna che il dio giunga e si mostri, costringendo chi rilutta, sovvertendo la rigidezza di ogni pensiero e di ogni parola che siano chiusi e ripiegati su se stessi. Nei contorni della fabula scenica, il rifiuto di ciò che il dio rappresenta assume la forma di una miscredenza. Le sorelle di Semele hanno diffuso la convinzione che Dioniso non esista e che l’intera storia sia un’astuta quanto pietosa menzogna per salvare l’onore compromesso della principessa. Non vi sarebbe stata nessuna unione con Zeus, né tanto meno il parto di un bimbo immortale, ma solo la squallida vicenda di un amore clandestino. E Semele sarebbe stata incenerita dagli dèi proprio per aver avuto l’ardire di sostenere tale bugia. Ma tanto le sorelle quanto l’intera Tebe dovranno ricredersi. “La città deve imparare, anche se non vuole. Deve rendersi conto che non è iniziata ai miei sacri riti,” afferma perentoriamente Dioniso (vv. 39-40). Bisogna che la comunità si renda conto che la verità è l’opposto delle convinzioni di cui essa vanamente si nutre. Bisogna che comprenda di non poter sussistere senza la 248

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necessaria “iniziazione” al dominio cui il dio dà accesso. Il manthánein, l’“imparare” cui il figlio di Zeus allude non è, tuttavia, questione di contenuti o di discorsi. È l’effetto dirompente di un páthos che modifica, per sempre, la natura dei soggetti: l’intensità indicibile di una “passione” che fa vedere ed esperire la realtà come mai era accaduto prima. Da tale punto di vista, tutto ciò che sulla scena delle Baccanti si compie non è che lo spettacolo allestito da Dioniso a tale scopo: dall’inizio alla fine, l’azione del dramma – che il dio conduce e dispiega quasi ne fosse l’autore e il regista – è l’inverarsi costrittivo e implacabile di un’esperienza che si fa dono di conoscenza. È forse, questa, peraltro, l’essenza stessa del tragico, anche quando Dioniso non sia direttamente presente. Páthei máthos, “conoscenza attraverso il patire” aveva enunciato, ben prima di Euripide, Eschilo: “Zeus guidò i mortali sulla via della saggezza, ponendo come stabile legge che con la sofferenza s’impara [...] e anche chi non vorrebbe diviene saggio: tale è la grazia violenta degli dèi che governano il timone del cosmo” (Agamennone 176-183). Ma pathéin, “subire”, “patire” fino alle più intime fibre del proprio essere, attraversare l’esperienza del dolore, della paura e della morte, è anche il tratto costituivo delle iniziazioni misteriche antiche: coloro che si sottopongono al rito devono “provare un’emozione intensa” così da pervenire a “un certo stato”, a una particolare condizione del corpo e della mente, del tutto diversa da quanto ordinariamente esperiscono (Aristotele, fr. 15). Un sottile filo rosso lega la ritualità dei misteri allo spazio teatrale, la visione raggiunta dagli iniziati e quanto l’arte poetica esibisce sulle sce249

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ne. E il Dioniso delle Baccanti richiama consapevolmente entrambi i domini, ricordando come essi gli appartengono: tragedia e mistero, azione drammatica e sacra liturgia si implicano reciprocamente nell’insegnamento che egli si appresta a dispensare ai Tebani. Con un duplice segno, Dioniso fa avvertire la sua sconvolgente presenza a Tebe. Per prima cosa, egli infonde nelle donne della città il soffio della divina manía, il rapimento dell’estasi. All’improvviso, tutte insieme abbandonano le loro case e le loro occupazioni abituali, per salire sul monte, per addentrarsi nel bosco, in quegli spazi che – come abbiamo visto – sono cari anche alle Ninfe e alle Muse. Là, rivestite di pelli di cerbiatto, agitando fra le mani il tirso bacchico, esse, divenute baccanti, “femmine folli” del dio, sperimentano una totale fusione con le forze e gli incanti di una natura che non è più una dimensione altra ed estranea all’umano, ma una sorta di eden pronto a offrire spontaneamente i suoi tesori: basta percuotere il suolo perché vino e acqua zampillino, mentre dagli alberi stillano gocce di miele. I serpenti leccano loro docilmente le guance, mentre alcune allattano cuccioli di fiere. Un’energia sovrumana le attraversa: corrono veloci come uccelli e spiccano balzi, senza avvertire il peso della gravità; hanno fuoco che rifulge tra i capelli e tutto sembra cedere alla loro inusitata forza. Cantano e danzano. È la pienezza sovrabbondante della vita ad animarle: quella vita che è il regno di Dioniso e, al contempo, il potere divino del femminile. Contemporaneamente, egli ordina a un altro stuolo di baccanti – a un gruppo di devote che l’hanno seguito dalla Lidia in Grecia – di occupare lo spazio antistante alla 250

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reggia e di intonare, al ritmo dei tamburelli, il sacro inno in onore del dio. Attraverso la loro voce si dispiegano il fremito possente dell’universo dionisiaco e la libera felicità che lo contrassegna: “Felice chi conosce, con il favore del cielo, i misteri degli dèi, chi conduce una vita santa, e consacra la sua anima unendosi al gruppo dei devoti, chi partecipa sui monti ai riti del dio e si purifica! [...] Che gioia sui monti! Ballare, correre all’impazzata e poi cadere a terra, con la pelle di cerbiatto sul corpo, [...] levate la vostra voce in onore del dio, strepiti e urla come si usa in Frigia, quando la sacra armonia del flauto fa risuonare le sue melodie, mentre le femmine folli corrono per i monti. La baccante va veloce e salta, come una giovane puledra al pascolo con la madre” (vv. 64-167). Ma, dal punto di vista maschile, dal punto di vista della città e di chi la governa, tutto ciò rappresenta una sovversione e una sfida all’ordine costituito. Penteo, il sovrano di Tebe, avvertito dell’accaduto, è scandalizzato. Per lui, quelle danze e quei riti sul monte, quella libertà nella natura sono un’orribile oscenità: un mero pretesto, ne è fermamente convinto, con cui le donne si abbandonano alla più sfrenata licenza sessuale. Egli le immagina avvinte in amplessi tra alberi e cespugli, prese da una foia bestiale. Perciò, senza esitazioni e in modo imperioso, ordina di far cessare tutta quella confusione e quella follia. Imprigionare, ridurre al silenzio, punire, riportare tutto alla misura della cosiddetta ragionevolezza: ogni sua parola è dettata da una feroce volontà di controllo. Quando lo straniero che avrebbe sobillato le donne gli viene condotto innanzi, Penteo si appresta a interrogarlo. 251

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Ma è chiaro che nulla, in realtà, egli vuole ascoltare o comprendere. Ogni affermazione di quell’ignoto interlocutore suona alle orecchie del sovrano come una provocazione o addirittura come un’ulteriore conferma dei suoi peggiori sospetti: è un ciarlatano, un astuto millantatore, che, con abili giri di parole, mira unicamente a confondere, facendosi schermo di un’inesistente divinità e di un culto ancor più pretestuoso, cui solo rozzi barbari, come le stolide genti dell’Asia, potrebbero dar credito. Giocando sul suo aspetto umano e parlando di sé in terza persona, Dioniso tenta di ammonirlo e di sedarne le reazioni sempre più furenti: “Anche adesso il dio è vicino e vede quello che mi stai facendo [...]. È qui accanto a me, ma tu non lo vedi perché bestemmi” (vv. 500-502). Ed è proprio questo il limite di Penteo così come quello di ogni ‘profano’ che rigetta il sacro. L’ottenebramento che vela lo sguardo e ottunde la mente: l’incapacità di superare abitudini di comportamento e modalità di pensiero, di procedere oltre i confini dei propri pregiudizi, l’ostinazione a ritenere valore solo ciò che coincide con aspettative e convinzioni tanto radicate quanto parziali. Da ciò il conseguente rifiuto per tutto ciò che non si concilia con la schematica fissità delle proprie opinioni e delle proprie attitudini percettive. E la ripulsa è tanto più ostinata e violenta quanto più perturbante è il confronto con l’altro da sé, quanto più forte è l’evento, impensato e imprevisto, che rischia di far vacillare le presunte certezze. Penteo cerca di imporsi, illudendosi di poter sottomettere quello straniero. Ribadisce, con voce stentorea, il proprio potere: “Sono io che comando: legatelo!” Ma è proprio tale affermazione – il bisogno di 252

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gridare la propria autorità – a denunciare un’irrimediabile debolezza. “Tu non sai come vivi, non sai cosa vedi, non sai neppure chi sei!” lo avverte il dio, mettendo in luce il male che lo affligge (v. 506). Un’analoga apostrofe era stata rivolta, in una diversa occasione, anche al glorioso Edipo dal veggente Tiresia: “Tu non vedi in quale sciagura ti trovi, né dove vivi né con chi stai!” (Sofocle, Edipo re 413-414). Perché l’eroe tragico, nel teatro di Dioniso, finisce sempre per scontrarsi con il medesimo ostacolo, per soccombere alla propria cecità: una presunzione di sapere che si rivela, all’opposto, radicale ágnoia, assoluta ignoranza dell’essenziale. L’impotenza a cogliere la complessità del reale – la trama divina del tutto che unisce il visibile e l’invisibile, il mortale e l’immortale, l’essere e il divenire – è, infatti, alla radice, ignoranza di sé: non vedere il fondamento riposto della propria stessa natura. Con una reazione ridicola quanto inconsapevolmente disperata, Penteo oppone al dio il proprio supposto sapere, la certezza che egli ritiene di possedere: “Sono Penteo, il figlio di Agave e di Echione” (v. 507). Il proprio nome, il nome dei propri genitori, la discendenza da una dinastia regale, il ruolo di sovrano, l’iscrizione nelle vicende e nella storia di una comunità: in questo egli fa consistere la propria identità, in questo egli dice e riconosce la consistenza di un ‘io’. Ma conoscere se stessi è ben altro che declinare le generalità anagrafiche, l’appartenenza famigliare o il ruolo sociale: la verità balugina solo quando si procede al di là di tale superficie, solo quando l’‘io’ percepisce di essere cosa differente dalla persona, dalla “maschera” rigida che ognuno indossa, giorno dopo giorno, senza neppure ac253

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corgersene. La risposta di Penteo è una sublime ‘idiozia’ nel senso etimologico del termine: chiudersi nello spazio di un ídion, di una dimensione “particolare” e “distinta”, come se ciò costituisse l’unica misura possibile del reale e della conoscenza, e non esistesse, invece, un koinón, un orizzonte “comune” e trascendente al quale ogni particolarità e ogni frammento appartiene, acquisendo senso e funzione. L’errore dei più – come aveva insegnato anche Eraclito con dionisiaca saggezza – è vivere identificandosi, in maniera esclusiva, con i privati limiti della “propria mente” e del “proprio pensiero”, senza avvedersi che “il cosmo è uno e comune”, e che tutte le cose si riconducono a una divina unità (frr. 2, 50, 89). Se il re di Tebe, peraltro, non fosse così cieco e sordo alle parole del dio, forse avrebbe potuto riflettere sul significato di quello stesso nome “proprio” che con tanta sicumera pronuncia per affermarsi al cospetto del suo interlocutore. Perché i nomi, al di là del loro valore e uso correnti, spesso alludono alla traccia di un destino e alla radice segreta di un’esistenza. Penteo, infatti, consuona con pénthos, “dolore”, “afflizione”, “lutto”, che condivide la medesima radice di páthos. “Un nome che ti fa adatto alla sventura” commenta Dioniso (v. 508), anticipando l’atroce percorso cui il re di Tebe è avviato. Passo dopo passo, egli sarà costretto a spogliarsi di tutto ciò con cui, fino ad allora, si era vanamente identificato. Per tradizione, Dioniso è Lúsios, colui che “libera”, che “scioglie” da ogni vincolo. I misteri cui egli presiede non sono che questo: completa distruzione di quell’‘io’ che è prigione e causa di inganno; inesorabile quanto spietata dissoluzione di 254

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tutte le cristallizzazioni che incrostano e oscurano la vera natura dell’essere. La prima stazione del percorso discensivo in cui Dioniso sprofonda, forzatamente, Penteo, concerne la percezione sensoriale. La realtà si arresta forse a ciò che i sensi fisici percepiscono nel loro ordinario funzionamento? Credere che il mondo esterno si limiti a una sorta di consistente e oggettiva datità, ritenere che tutto sia come normalmente appare, è, anche questo, un inganno destinato a dissolversi. La reggia diviene, così, un luogo di prodigi e di manifestazioni inquietanti. Nella rabbia crescente di dominare quell’impudente straniero, il re si preoccupa, personalmente, di stringerlo in vincoli da cui non possa fuggire: “Sbuffa di collera, si morde le labbra, con il sudore che gli cola giù per il corpo” (vv. 619-621). È convinto di infierire sul suo odiato interlocutore, quando, invece, si sta semplicemente accanendo su un animale: “Credeva di incatenarmi, ma non mi ha neanche sfiorato: era solo un’illusione!” racconta Dioniso, “Nella stalla, dove mi aveva portato per rinchiudermi, ha preso un toro e si è messo a legargli gli zoccoli e le zampe, mentre io ero lì accanto, seduto tranquillamente a guardare” (vv. 617-619). Poi, all’improvviso, sembra che un incendio divampi con violenza nel palazzo. Allora, Penteo, correndo da una parte e d’altra, si affanna, pieno di concitazione, a impartire ordini: bisogna portare acqua, al più presto, perché le fiamme siano spente. Nessun fuoco, tuttavia, sta veramente bruciando la reggia: “Tanta fatica per nulla!” commenta beffardamente il dio (v. 626). Il pensiero ritorna quindi al prigioniero nel timore che questi, approfittando della confusione, possa scap255

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pare. Armato di spada, il sovrano, sempre più stravolto, si precipita nel cortile. Comincia a menare fendenti a destra e a manca nel disperato tentativo di colpire il fuggitivo. Ma la figura verso cui si lancia con tanto impeto è solo un “fantasma” fatto d’aria. Sfinito da tanta agitazione, egli si accascia quindi a terra. Da un punto di vista razionale, si tratta di mere allucinazioni che confondono la mente. La ragione, tuttavia, non è un assoluto e quanto essa è in grado di cogliere non esaurisce affatto il mistero dell’essere. Al di là dei parametri della cosiddetta oggettività, esistono forze e arcani che la mente ordinaria nemmeno sospetta. La prospettiva, di necessità, si rovescia: ciò che viene assunto come reale è mero simulacro, ombra inconsistente, mentre l’invisibile si rivela unica effettiva realtà. Per chi è ancora prigioniero dell’illusione, l’azione si traduce in un vano e ridicolo dibattersi: spettacolo pietoso di una marionetta che non fa presa su alcunché. Dráma viene da drán, “agire”, e il dono drammatico della tragedia è la visione netta dell’inanità degli atti umani, quando essi siano rescissi dalla sfera della potenza divina. Ed è, questa, appunto, l’esperienza, il páthos, cui Dioniso sottopone gli ottusi mortali tanto nel dominio esoterico dei misteri quanto nella rappresentazione essoterica del teatro. La seconda tappa si concentra, invece, su quel tratto identitario che gli uomini considerano, forse più di ogni altro, come elemento imprescindibile della propria natura e del proprio ruolo sociale. Penteo è maschio e, proprio in ragione di ciò, egli ha ereditato il trono e detiene il potere. Maschile è il suo stesso modo di governare la città, secondo i collaudati stereotipi di una società andro256

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cratica: ai suoi occhi, le donne sono un disordine da sottomettere, una deriva di desideri sfrenati da soffocare. Al primo incontro con Dioniso, egli era rimasto turbato dalla bellezza ambigua dello straniero: la pelle bianca, i riccioli fluenti che scendono a coprire il volto, un aspetto affatto diverso dai canoni virili e più prossimo alla grazia erotica del femminile. Alla fascinazione inquietante di quell’androginia, egli aveva reagito con disprezzo e con violenza, quasi per proteggersene: per allontanare da sé l’immagine di una disturbante commistione di generi. Ma è proprio qui che egli ora deve, suo malgrado, addentrarsi, perché il regno del dio è al di là di ogni differenza e tutte le raccoglie nella propria unità. Facendo perno sull’ossessione di Penteo – disgustato, ma anche morbosamente curioso nei confronti delle donne fuggite sul monte –, Dioniso gli suggerisce di travestirsi da baccante, come unico stratagemma possibile per poterle spiare e intrufolarsi nel loro gruppo. Una tunica lunga di lino, una parrucca, una fascia sulla testa: “Cosa? Sono un uomo e devo diventare una donna! [...] Mi vergogno [...]. No, non ce la faccio a vestirmi da donna!” recalcitra Penteo (vv. 822-836). Le resistenze capitolano, tuttavia, ben presto sotto l’incalzante “guida” del dio. Quando il sovrano esce dalla reggia, la transizione è ormai compiuta. L’androginia dionisiaca l’ha afferrato. Adesso egli assomiglia, in tutto e per tutto, a quelle “femmine folli” che gli facevano orrore. Adesso sembra la replica perfetta della propria madre – invasata sul monte al pari delle altre donne della famiglia –, e nessuna traccia è rimasta della vergogna o dell’imperativo sociale di assomigliare al modello dei padri. Preoccupato unicamen257

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te di muoversi e di apparire come una baccante perfetta, Penteo chiede ulteriori istruzioni a Dioniso. Il dio gli ricompone un ricciolo della parrucca, gli aggiusta la fascia, gli sistema la veste perché cada uguale da ambo i lati. Gli tocca la testa, la vita e i piedi, punti simbolici del corpo, per consacrarlo, senza che questi lo sappia, per l’ultima fase del rito. Non più re, non più maschio, non più essere umano: Penteo è ora come un animale, come una vittima destinata al compiersi di un sacrificio. Si è spogliato completamente di tutto ciò che egli, fino a poco prima, reputava essere la propria irrinunciabile identità. Si è spogliato di quell’‘io’ e di quei pensieri che la nascita, la famiglia, l’educazione, la pólis gli avevano cucito addosso. Ed è proprio ora che la sua vista si fa diversa, addentrandosi oltre quel velo che la oscurava: “Mi sembra di vederci doppio: due soli... due Tebe... E tu che mi guidi... tu mi sembri un toro, ti sono cresciute le corna sulla testa! Eri una bestia anche prima?” (vv. 918-922). Accedendo a un differente stato di coscienza – una “leggera follia” –, Penteo intravede, per un istante, quel che si cela dietro alla maschera dello straniero: la verità metamorfica e cangiante del dio che è toro, leone e serpente. “Ora vedi quello che devi vedere,” conclude Dioniso (v. 924). I due salgono infine sul monte come in una sorta di solenne processione. Il re viene sistemato sulla cima di un albero affinché – così gli dice la sua guida – da lassù possa spiare lo stuolo femminile senza correre rischi. Ma è vero l’opposto. Incitate dal dio, le baccanti si accorgono dell’intruso e subito si mettono a bersagliarlo di colpi. Si dispongono in cerchio intorno al tronco. Con forza inusi258

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tata, lo divelgono dalle radici e, in preda al furore, si avventano su di lui. La prima è Agave, la sua stessa madre, e poi, subito, tutte le altre. Ha così inizio l’atroce mattanza: “Agave gli prende il braccio sinistro e, puntando il piede sul fianco di quel poveretto, gli strappa tutta la spalla [...]. Ino se lo lavora dall’altra parte per farlo a pezzi. Autonoe e tutto lo stuolo delle baccanti gli sono sopra. Non si sentono che urla confuse [...]. Loro gridano esaltate per la vittoria. Una ha un braccio di Penteo, un’altra il piede ancora infilato nel calzare. Sul tronco gli sono rimaste solo le ossa: gli hanno strappato tutta la carne e, con le mani grondanti di sangue, si lanciano i pezzi come se giocassero a palla” (vv. 1125-1136). È il compiersi cruento dello sparagmós, dello “smembramento” della vittima ancora viva: il momento culminante della ritualità dionisiaca. Di quella forma umana o animale, che, fino a poc’anzi, sussisteva, non resta più nulla. Solo frammenti sparsi ovunque. È quello che, nel mito, era accaduto anche al piccolo Dioniso, fatto crudelmente a pezzi dai Titani. Ma il dio – come si è visto parlando della sapienza di Orfeo – era stato ricomposto a unità e riportato a nuova vita, per volere di Zeus e intervento provvidenziale di Apollo. La ‘passione’ di Penteo non fa che ripetere il mistero stesso della passione divina. Con un’unica sostanziale differenza: per il re di Tebe non vi è alcun ritorno. Nessuna ricomposizione, nessuna salvezza lo attende. Nel disegno della drammaturgia, la sua fine è senza appello: punizione efferata dell’ateo, del profano, che aveva osato irridere e calpestare il sacro. Ma, per gli spettatori che assistono all’intera vicenda, la parabola tragica è chiara allusione al 259

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principio cui l’iniziazione misterica si fonda: occorre morire a se stessi, occorre distaccarsi dalla propria forma, per poter rinascere a una condizione superiore, per poter attingere a un’effettiva palingenesi sul modello che Dioniso, primo e ultimo signore del mondo, aveva offerto ai mortali. È questo l’effetto supremo del páthos. Mentre la trama procede, avviandosi verso la propria inevitabile conclusione, una domanda insistentemente riaffiora nella voce del coro delle baccanti. Che cos’è davvero la sophía? A quale “sapienza” occorre rivolgersi come cosa indispensabile e insieme vitale? Tó sophón d’ou sophía, “il sapere non è sapienza” affermano seccamente le devote di Dioniso (v. 395). Le elaborazioni intellettuali, le teorie filosofiche, le scoperte scientifiche sono poca cosa, se non addirittura un danno e un pregiudizio esiziale, quando pretendano di opporsi o, ancor peggio, di sostituirsi al dominio del sacro, del mito e della tradizione. “Non bisogna conoscere, non bisogna praticare idee che si allontanino dalle tradizioni,” ribadiscono le baccanti, “Questi due principi hanno forza e valore [...]: il divino, qualunque cosa esso sia, e la tradizione antica che è per natura e vive da sempre” (vv. 890-896). La “conoscenza” cui il dio chiama attraverso i suoi riti è qualcosa di ben superiore e più essenziale della razionalità umana: è l’accesso al mistero stesso della vita nel suo eterno sussistere. In altre sue opere, Euripide aveva spesso fatto eco ai dibattiti intellettuali contemporanei e alle dottrine più rivoluzionarie del panorama culturale ateniese, al punto da essere tacciato – come si vedrà fra poco nelle Rane aristofanee – di essere un pericoloso innovatore. Il che par260

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rebbe, di primo acchito, contraddittorio rispetto all’esito e alla prospettiva delle Baccanti. In realtà, il contrasto è solo apparente, così come tendenziosa è l’accusa rivoltagli. Riflettere le dinamiche della cultura coeva non significa aderirvi o accoglierle senza riserve. Implica semmai una serie di questioni cruciali e assai più rigorose: che cosa ha fatto Atene della sua tradizione e insieme della sua straordinaria e più recente produttività intellettuale? Come le ha spese per il bene della comunità? In che misura è stata capace di armonizzare il passato con il presente? Sono queste le domande che il dio, insieme al suo poeta, rivolge alla comunità riunita nella cavea teatrale.

Resuscitare la poesia Se, sul versante tragico, Dioniso guida gli uomini all’esperienza lacerante della dissoluzione, come risuona, invece, la sua voce nello spazio della commedia? All’inizio della Rane di Aristofane, lo sentiamo confessare un turbamento che non gli dà pace: “All’improvviso un desiderio (póthos) ha squassato il mio cuore, un desiderio così violento che neanche te lo immagini” (vv. 52-53). Póthos è il nome della nostalgia e della mancanza, del desiderio acuto per ciò che è ormai lontano o penosamente perduto. Ma quale voglia può straziare in modo così lancinante il dio del teatro? “Un desiderio? E di che? Di una donna? [...] Di un ragazzo? [...] Forse allora di un uomo?” chiede perplesso il possente Eracle, poco sensibile agli affetti sublimi e assai più incline alle attrattive del cibo o del sesso 261

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(vv. 55 ss.). “Ti è mai capitato all’improvviso di aver voglia di un bel minestrone?” tenta di spiegarsi Dioniso, “Ecco, fai conto che io ho lo stesso desiderio per Euripide!” Quando le Rane vengono rappresentate, nel 405 a.C., Atene è ormai orfana dei suoi drammaturghi più valenti: Euripide e Sofocle sono scomparsi l’anno precedente, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, e i poeti che ancora restano, a detta di Dioniso, non sarebbero minimamente all’altezza né di quei due nomi gloriosi né dell’arte tragica stessa. “Ho bisogno di un buon poeta perché non ce ne sono più e quelli che ci sono fanno schifo,” afferma seccamente il dio: “Spazzatura, chiacchieroni, corruttori dell’arte, gente che scompare dopo il primo spettacolo: pisciano una volta sulla tragedia e non ne senti più parlare. Un poeta creativo, uno che sappia pronunciare nobili discorsi, non lo trovi più, neanche a cercarlo con il lanternino” (vv. 7172, 93-97). Nelle parole di Dioniso – e di Aristofane che attraverso di lui si esprime – non risuona solo il lamento per una penuria di validi talenti. L’amaro commento non si limita a una valutazione estetica. In gioco vi è molto di più: la crisi della poesia è la spia e la controparte di una ben più grave crisi politica e civile. Atene è ormai allo stremo. Alla guerra contro Sparta, che dura da anni, si aggiunge l’instabilità politica che, da un decennio, lacera la pólis: un tentativo di colpo di stato, processi e delegittimazioni reciproche, rancori e dissensi in un clima sempre più avvelenato e incapace di far fronte alle emergenze che premono sulla comunità. Persino una vittoria strappata alle forze nemiche – come quella ottenuta alle Arginuse nel 406 – riesce a trasformarsi in una sorta di disastro, con la condanna a morte 262

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dei generali che pur avevano procurato tale insperato successo. Nell’anno successivo alle Rane, nel 404 a.C., Atene capitolerà definitivamente dinanzi agli Spartani, vedendo smantellare il proprio impero e la propria potenza. È in questa congiuntura che il póthos di Dioniso si palesa: sul crinale di un abisso in cui la città sta per precipitare, perdendo, per sempre, il suo fulgore. Ed è per questo che la poesia è importante: là dove il discorso della politica e della guerra falliscono, là dove l’incubo della fine è opprimente, l’ultima speranza si volge alla sapienza delle Muse come fosse un salvifico talismano. Se tale è la condizione in cui versano gli Ateniesi, non resta, dunque, che mettersi alla ricerca del bene smarrito affrontando il viaggio più estremo. Occorre scendere nell’Ade per far resuscitare la voce poetica. Affrontare il regno della morte, penetrare nell’oltretomba è la prova iniziatica per eccellenza, l’impresa suprema sostenuta –  come ormai ben sappiamo – da eroi quali Odisseo, Teseo, Orfeo o Eracle. Nella tradizione del mito, si racconta che lo stesso Dioniso fosse disceso agli inferi per riportare in vita la propria madre Semele. Ma, nel gioco scherzoso della commedia, il dio sembra aver smarrito il ricordo di tale esperienza. Come un neofita, come colui che, per la prima volta, debba essere iniziato, egli chiede lumi sul modo di sostenere la prova. Per questo, egli si rivolge a Eracle come a una guida esperta e, per calarsi ancor più nella parte, tenta di vestirsi come lui, indossando la pelle di leone e la clava sopra la veste lunga e sugli alti coturni che caratterizzano, per solito, il protagonista tragico. Il risultato d’insieme è, per così dire, improbabi263

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le, ma queste insegne eroiche dovrebbero servire – così si spera – a dotarsi del coraggio necessario per intraprendere un cammino tanto difficile e pericoloso. Una volta istruito da Eracle sulle tappe del percorso e sulla geografia infera, Dioniso si mette, dunque, in marcia, assistito dal suo servo Xantia. Nello snodarsi dell’itinerario che porta il duo alla reggia infera di Plutone, a emergere è ripetutamente la paura: Dioniso se la fa letteralmente sotto dinanzi alle figure mostruose e agli incontri che, via via, si producono, finendo, addirittura, per essere torturato e flagellato a colpi di frusta. Il genere comico esige che tutto ciò si volga alla levità del riso e alla sistematica presa in giro nei confronti di un atteggiamento per nulla ardito e determinato tanto da parte del dio quanto del suo servitore. Il travestimento stesso assunto da Dioniso diviene fonte di equivoci e di incidenti: scambiato per Eracle, egli si trova a dover fronteggiare le minacce e il risentimento delle figure infere che l’eroe aveva a suo tempo sfidato. Nel moltiplicarsi delle gag resta tuttavia fisso e leggibile, in filigrana, lo schema proprio delle ritualità misteriche: la perdita di riferimenti noti, il vagare a lungo e con fatica nell’oscurità in preda alla paura, l’imbattersi in cose “terribili”, lo stordimento accompagnato da brividi e sudore, fino a quando non si manifesta, all’improvviso, una “luce meravigliosa”: allora si dischiudono luoghi di purezza, con “voci, danze, musiche solenni e sante visioni” (Plutarco, fr. 178). Ed è, per l’appunto, quel che accade ai due sbigottiti viaggiatori: un inatteso suono di flauto, un “misticissimo” baluginare di fiaccole, un inno soave che si leva al di là della palude infera, in un delizioso prato, vicino alla reggia di Plutone. È 264

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il coro festante di coloro che, in vita, erano stati iniziati ai misteri di Eleusi e che, in tal modo, si erano assicurati una condizione privilegiata nell’aldilà. Nell’oltretomba, essi continuano a cantare e a danzare, celebrando in eterno la sacralità e insieme la beatitudine di quei riti che vedono le figure di Demetra e Persefone intrecciarsi con la divinità dello stesso Dioniso, invocato con il nome di Iacco: “Tu che abiti in questi luoghi, o venerato Iacco, vieni a danzare sul prato con la compagnia dei tuoi devoti, scuotendo sul capo una rigogliosa corona di mirto, vieni a scandire con il tuo piede ardito la danza sfrenata, piena di gioia e ricca dei doni delle Grazie, la danza sacra degli iniziati [...]. Taccia e si allontani dai nostri cori chi ignora questi discorsi o non è puro di mente, chi non ha mai visto e danzato i sacri riti delle nobili Muse” (vv. 323-356). Nel canto del coro, la ritualità eleusina e la voce delle Muse si fondono significativamente in un’unica dimensione di pienezza e di gioia: ad Atene, iniziazione e poesia, misteri e teatro sono reciprocamente avvinti nella radice di una medesima sapienza che fa centro su se stessa. E, non a caso, sono gli stessi iniziati che, nel celebrare gli dèi, si assumono, con autorevolezza, il compito di dispensare saggi moniti alla pólis, richiamandola all’armonia e all’equilibrio: “È giusto,” essi dicono, “che il sacro coro dia buoni consigli e insegnamenti alla città [...]. Anzi tutto è necessario rendere uguali tutti i cittadini e togliere loro ogni ragione di paura [...]. Nessuno deve essere privato dei diritti civili [...]. Abbiamo notato che la città si comporta con i cittadini perbene come fa con la moneta antica rispetto alla nuova. Quella vecchia, non adulterata, la 265

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migliore fra tutte [...], la scartiamo per usare invece questi pezzi di bronzo scadente [...], così anche i cittadini migliori, nobili, saggi, giusti, cresciuti tra palestre e cori, dotati di cultura, li mettiamo da parte per servirci [...] dei mascalzoni e degli ultimi venuti! Almeno ora, sciocchi, cambiate sistema e rivolgetevi di nuovo a gente onesta” (vv. 718‑735). Dimenticare i dissidi nati dalle vicissitudini politiche, ristabilire la coesione comune al di là dei contrasti pregressi e delle posizioni assunte dai singoli nello scontro delle fazioni, essere sempre “benevoli” verso i propri concittadini, affidare il governo ai migliori senza cadere in balia della peggiore demagogia: sono, questi, i principi che il coro sgrana, uno dopo l’altro, come rimedi alla crisi ed estremo tentativo per invertire il corso degli eventi. Se la commedia è, per sua natura, gioco e divertimento, ilare beffa e risata, ciò non toglie che essa possa anche esprimere, con la massima serietà, ciò di cui la città necessita per la propria salvezza. E lo esprime, appunto, nel segno di Eleusi: il cuore sacro di Atene, che, con le sue iniziazioni, aveva svelato il segreto della morte e della rinascita, l’arcano di una vita che non cessa con la fine del corpo. Gli iniziati eleusini non sono tuttavia l’unica voce corale che accompagna Dioniso nella sua impresa. Ancor prima, attraversando la palude infera sulla barca di Caronte, il dio si era visto accogliere dai “bellissimi canti” di un coro di rane da cui deriva il titolo stesso della commedia. Singolari “rane-cigni”, capaci di gracidare in modo assordante – con un onomatopeico brekekekex koax koax –, ma anche di celebrare la pura bellezza del canto: “Noi siamo care alle Muse dalla bella lira e a Pan dai piedi caprini, che 266

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suona il suo zufolo, e anche Apollo, signore della cetra, ci ama [...]. Nei giorni di sole, saltiamo tra i ciperi e i giunchi, felici di cantare tra tuffi e melodie; quando Zeus fa piovere, balliamo sul fondo, intonando un’aria di danza in uno screziato gorgogliare di bolle” (vv. 230-249). Attraverso la voce di queste creature – che sembrano non cessare mai di cantare e danzare – emerge la visione di una poesia che condivide l’immediatezza e la spontaneità della natura: la grazia di una poesia che è felicità della vita. Ma le rane che abitano questa palude dell’aldilà rinviano, nel medesimo tempo, al cosiddetto santuario di Dioniso “nelle Paludi”, presso il corso dell’Ilisso, nonché alla festa ateniese delle Antesterie, in cui si aprivano i tini del vino nuovo e le anime dei morti tornavano a mescolarsi, per un giorno, al mondo dei vivi. Tutto ciò fa segno, ancora una volta, a quella sfera del sacro che appartiene a Dioniso stesso. È come se il dio, nel corso del viaggio iniziatico agli inferi, incontrasse progressivamente se stesso e i suoi emblemi, divenendo ciò che egli propriamente è: signore del teatro, dei misteri e del vino. In tal modo, Dioniso si fa modello iniziatico per i cittadini di Atene affinché anch’essi divengano ciò che sono e che devono essere. Sulla scena, il dio parrebbe, a tutta prima, irritarsi con quella “razza di animali canterini”, che sembrano incapaci di tacere anche solo un momento. Ma l’estemporanea sfida che Dioniso ingaggia con le rane – “Con me non ce la farete mai: strillerò, se necessario, per tutto il giorno sino a quando vi avrò vinto” (vv. 264-265) – non fa che preludere alla ben più impegnata competizione che occupa la seconda metà della commedia. 267

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Giunto infine alla meta, dopo aver superato le paurose prove del percorso, il dio si trova dinanzi a una situazione inattesa. Nel mondo dei morti è scoppiata una rissa violenta o meglio una vera e propria “guerra civile” che oppone due fazioni. Secondo la “legge” dell’aldilà – viene subito spiegato – il defunto più illustre, in rapporto a ognuna delle arti, avrebbe il privilegio di avere un seggio vicino a Plutone fino a quando non scenda tra le ombre “un altro più bravo” cui cedere il posto. Il trono della tragedia era stato a lungo di Eschilo, senza alcun contrasto. Ma Euripide, con il suo recente arrivo, ha rimesso tutto in discussione: egli pretende la palma del migliore e l’onore del seggio, sostenuto, per altro, dal consenso di una vasta folla di morti che si mostrano entusiasti, al pari dei vivi, delle sue opere. Non essendoci altro modo per sedare la contesa, Plutone ha dovuto indire un agone al fine di “pesare” l’arte di entrambi e di pronunciare una sentenza definitiva. Ma dove trovare un giudice davvero “competente” e all’altezza dei contendenti? Chi se non Dioniso stesso potrebbe valutare la maestria dei due drammaturghi? È il momento che il dio assuma il ruolo e la responsabilità che gli sono propri, perché il teatro è davvero cosa sua. Mettendo da parte l’iniziale “brama” per Euripide, Dioniso invita, quindi, i rivali a misurarsi nella “grande gara della sapienza”, dove dovranno mettere in risalto i reciproci pregi e difetti. Nella dinamica giocosa della commedia, Eschilo ed Euripide sono se stessi e al contempo non lo sono. Le parole che Aristofane presta loro fanno riferimento all’identità e all’opera effettiva dei due poeti con una complessa trama di citazioni e di parodie. Ma ciò 268

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che essi dicono e agiscono – così come quanto viene affermato sul loro conto – eccede la dimensione della lettera e dell’individualità storica così come la complessità del rispettivo pensiero. Divengono personaggi o, forse meglio, emblemi di modi differenti di fare e di intendere il teatro nel mutare delle stagioni culturali e nell’evoluzione stessa della società ateniese. Le due figure, costruite per opposizione polare, offrono un’occasione preziosa per riflettere, più in generale, sul valore e sul senso del dono stesso di Dioniso. Quando la gara ha inizio, il primo ad attaccare è Euri­ pide che non lesina le critiche al suo illustre predecessore. Il linguaggio di Eschilo sarebbe tutto intessuto di parole altisonanti, di termini coniati per stupire e stordire il pubblico, per avvolgerlo in un’aura di solennità: “Parole pesanti come buoi, cariche di cipiglio e di pennacchi, terribili come spaventapasseri, mai viste né sentite dagli spettatori [...] parole vertiginose quanto incomprensibili” (vv. 924929). All’opposto, Euripide si sarebbe preoccupato di ridurre tutta questa “pomposità”, di rendere più comprensibile e ordinato lo sviluppo della trama: “Quando ho ricevuto da te l’arte, gonfia di paroloni e ampollosità, per prima cosa, l’ho fatta dimagrire a furia di versi leggeri e giri di parole [...]. Non blateravo a caso, facendo una gran confusione. Da me, il primo che entrava in scena diceva l’origine e la natura del dramma” (vv. 939-947). In linea con tali innovazioni della dizione e della costruzione drammaturgica, vi sarebbe poi la scelta di avvicinare il contenuto delle tragedie alla realtà e alle esperienze del quotidiano, alla dimensione di un “umano” spogliato di ogni sublime altezza 269

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e visto, per contro, nella sua nuda fragilità: “Ho portato in scena le cose comuni, quelle con cui abbiamo sempre a che fare, con cui viviamo” (v. 959). Tali scelte avrebbero avuto, a suo dire, un effetto benefico sul pubblico ateniese, accrescendo l’intelligenza e la capacità critica dei cittadini. Adottare un linguaggio più perspicuo, mettere in scena articolate discussioni su temi di comune interesse, mostrare le diverse sfaccettature di una medesima situazione, fare eco ai fermenti culturali contemporanei, rappresentare situazioni in cui l’identificazione e il rispecchiamento fossero più agevoli: tutto ciò avrebbe costituito un positivo insegnamento dispensato alla comunità attraverso lo spettacolo teatrale. “Ho insegnato a tutti a parlare [...] ad applicare regole sottili, a squadrare le parole, a riflettere, a osservare e a comprendere [...] considerando attentamente ogni cosa [...], mettendo nell’arte analisi e riflessione, li ho educati a ragionare. Adesso sanno meditare su tutto, distinguono le cose, e amministrano meglio di prima la loro casa” (vv. 953-958, 971-975). Euripide ha la ferma convinzione che il compito di un poeta sia, nella sostanza, proprio questo: “Rendere migliori e più valenti gli uomini nelle loro città” (vv. 1008-1009). Eschilo condivide il medesimo principio, ma contesta che i drammi euripidei abbiano migliorato la comunità di Atene. Il risultato sarebbe stato del tutto opposto: “Considera com’erano quando io te li ho lasciati in eredità: nobili e forti, e non, come ora, [...] volgari, cialtroni e furfanti. Erano gente coraggiosa che respirava armi e lance [...] con un cuore foderato di sette strati di cuoio [...]. Hai insegnato loro a chiacchierare e a parlare a vanvera [...], adesso persino 270

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i marinai rispondono ai superiori” (vv. 1013-1017, 10691072). L’esercizio dello spirito critico e della discussione, esibito e dispensato a tutti sulla scena teatrale, si sarebbe risolto in una degenerazione dei costumi e in un generale scadimento della coesione civica, alimentando l’individualismo e la malizia. Valori condivisi e credenze tradizionali sarebbero stati messi in dubbio e contestati allo stesso modo in cui non vi sarebbe più il necessario rispetto per l’ordine e per la gerarchia. L’eccesso di parola può fomentare il dubbio e la mollezza piuttosto che il coraggio e il valore. Divulgare nuove teorie desunte dall’indagine della natura e dalla ricerca filosofica può condurre all’ateismo e al rifiuto delle divinità tradizionali su cui si fonda la vita comunitaria. Sostituire, come avrebbe fatto Euripide, la venerazione per Demetra o per Zeus con l’“Etere” e il “Vortice” celeste – principi tratti dalla scienza del tempo – non produrrebbe, necessariamente, menti più illuminate e consapevoli, ma una generale miscredenza che rischia di ripercuotersi sui comportamenti e sull’etica: non tutti sono in grado di accogliere, in modo adeguato, nuove teorie e nuovi saperi. Vi sono inoltre – insiste Eschilo – aspetti della realtà che non dovrebbero essere rappresentati. Le derive della passione e i lati oscuri dell’éros – che Euripide aveva ripetutamente esplorato attraverso memorabili figure femminili – sono certo “cose vere”, ma ciò non significa che debbano essere mostrate: “Il poeta deve nascondere il male, non portarlo in scena e insegnarlo. Per i ragazzi è il maestro di scuola a far lezione, per gli adulti c’è il poeta. È nostro dovere parlare solo del bene” (vv. 10541056). Ugualmente dannoso sarebbe l’abbassamento del 271

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registro tragico attuato da Euripide: “Per grandi pensieri ci vogliono parole adeguate. È naturale che i figli degli dèi usino un linguaggio più solenne, e anche i loro abiti sono più magnifici dei nostri” (vv. 1059-1062). I re e gli eroi del mito devono costituire un paradigma nobilitante e mantenere, anche nella sventura, quel tratto che ne contrassegna la superiore statura: portarli in scena “vestiti di stracci”, come fossero comuni pezzenti, avviliti dalle miserie della vita, significa, per Eschilo, “rovinare tutto” e tradire quel carattere venerando e sublime che dovrebbe essere proprio del tragico. Riallacciandosi alla tradizione arcaica ed enfatizzandone l’effetto didascalico, Eschilo ribadisce la necessità che la poesia sia al servizio degli uomini e della convivenza civile: “Queste sono le cose cui deve badare chi vuol essere poeta. Considera come sono stati utili, fin dall’inizio, i migliori poeti. Orfeo insegnò i sacri riti misterici e a non uccidere. Museo gli oracoli e la cura delle malattie, Esiodo i lavori dei campi, l’aratura e le stagioni del raccolto, e il divino Omero, perché, secondo te, ebbe tanto onore e gloria? Perché insegnò cose utili, come l’arte della guerra e gli atti di valore” (vv. 1030-1035). Ma, da capo, in che modo la poesia può rivelarsi davvero utile ed educativa? Che cosa implica il raggiungimento di tale fine? Il contrasto scenico tra i due drammaturghi – che, nei fatti, rivendicano lo stesso obiettivo con modalità del tutto opposte – articola una serie di alternative e di dilemmi che vanno al di là delle opere di Eschilo e di Euripide, additando un orizzonte più vasto: la poesia deve essere un’edificante guida al bene etico-politico o fungere da strumento di un pensiero che non arretra davanti a nul272

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la? Deve produrre un’elevazione dei sentimenti o rappresentare anche gli aspetti più crudi del reale? Bisogna rapire gli ascoltatori nella sfera di un sublime eroismo o farsi specchio della loro esistenza con tutte le contraddizioni e le brutture che essa comporta? Occorre confermare i principi della tradizione religiosa e dell’ideologia civica o farsi portavoce di posizioni che rimettono in questione l’ordine stabilito e i modi della convivenza? Bisogna, ancora, arroccarsi rigidamente ai modelli del passato o tentare di accordare l’immaginario tradizionale con nuovi linguaggi e conoscenze? A decidere sono spesso i contesti e le urgenze che premono sul presente, tanto più se l’ascolto delle opere non è scelta individuale o privato diletto, ma – come avviene ad Atene – esperienza che coinvolge ritualmente l’intera comunità dei cittadini. Ed è quel che accade infine anche nella dinamica delle Rane. Dioniso, di per sé, mostra di apprezzare entrambi i poeti, sia pur nelle diversità dei loro talenti e del loro stile: “Mi sono cari tutti e due e non riesco a scegliere [...]. L’uno è un grande poeta e l’altro mi piace” (vv. 1411-1412). Ma una decisione deve pur essere presa perché l’agone, in fin dei conti, non concerne un astratto primato o il valore atemporale dell’arte, ma la vita stessa di Atene. Riscuotendosi dall’incertezza, il dio torna alla questione centrale che attanaglia lo stesso pubblico presente allo spettacolo: “Statemi a sentire: io sono sceso quaggiù per cercare un poeta. Per quale ragione, direte voi? Perché la nostra città si salvi e continui ad avere il suo teatro. Porterò con me chi di voi saprà dare un buon consiglio alla città” (vv. 1417-1421). Quando tutto vacilla, ai poeti non si chiede bellezza o per273

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fezione, ma una parola chiara e salvifica che scaldi i cuori e illumini le coscienze, una parola che dia speranza per il futuro. Messi alla prova, Eschilo ed Euripide esprimono il loro parere su ciò di cui Atene avrebbe bisogno. A dire il vero, i suggerimenti di entrambi paiono contenere spunti assennati ed è con una sorta d’improvviso scarto che Dioniso pronuncia il suo giudizio. Rovesciando l’iniziale proposito di resuscitare l’amato Euripide, il dio opta per Eschilo. Sarà lui a “ritornare a casa per il bene dei cittadini, per il bene dei suoi amici e parenti, grazie alla sua intelligenza” (vv. 1487-1490): “Divinità degli inferi,” canta infine il coro degli iniziati, “concedete un buon viaggio al poeta che da qui risale alla luce, e alla città ispirate saggi pensieri che portino grandi fortune: così potremmo essere liberi da enormi sofferenze e dai terribili scontri della guerra” (vv. 1528-1532). Perché questa scelta che, nei termini della scena, sembra, per certi versi, sorprendente e non del tutto motivata? La preferenza accordata a Eschilo è forse più una petizione di principio e un’espressione di nostalgia che un effettivo giudizio sull’arte. Egli è il simbolo della stagione più prospera e positiva di Atene, quando, vinte le guerre persiane, la pólis aveva fondato il suo impero navale, fiorendo progressivamente in tutto lo splendore della sua potenza. La vittoria di Eschilo è implicitamente il desiderio di tornare a quell’età felice, di ripristinare – come spesso accade nelle commedie di Aristofane – le condizioni di un passato sentito come il tempo di una buona vita. È un desiderio, una tensione che si esprime attraverso la forza della poesia nella fiducia che essa possa avere un potere di rigenerazione collettiva. 274

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Atene, tuttavia, non riuscirà a salvarsi. A dispetto del tentativo di Dioniso e del coro degli iniziati, è troppo tardi per invertire il corso degli eventi. Un intero mondo scenderà in quello stesso oltretomba da cui le voci di Eschilo ed Euripide si sono levate per il breve spazio dello spettacolo. Ma, da laggiù, esse continuano a farsi udire come un lascito e una fonte d’ispirazione per i posteri. Spetterà, poco più tardi, a Platone fare tesoro di quell’esperienza, mettendo a frutto quell’eredità storica e culturale per creare, nelle pagine dei suoi dialoghi, l’orizzonte di un nuovo e differente teatro.

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Il miglior poeta Il giovane Agatone, astro nascente del teatro tragico di Atene, ha appena conseguito il primo premio nel solenne agone delle Grandi Dionisie. Un brillante successo che merita di essere degnamente celebrato. Dopo un primo festeggiamento, egli ha deciso di riunire, la sera successiva, un gruppo di amici a casa propria. Una cerchia colta e raffinata di compagni il cui sapere variegato è destinato ad accompagnare il tempo trascorso insieme: da Erissimaco, che è medico, ad Aristofane, il grande commediografo; da Fedro, appassionato di retorica e di discorsi, a Pausania, fedele amante dello stesso Agatone. Anche Socrate è stato invitato. Ed egli, contrariamente alle sue abitudini – per solito poco attento all’aspetto esteriore –, si è lavato e calzato, facendosi “bello” per “andare a casa di un bello”. Lo accompagna Aristodemo, un suo appassionato discepolo. Quando si tratta di entrare nella dimora del poeta, accade, tuttavia, un buffo incidente. Voltandosi, Aristodemo si accorge che Socrate non c’è. Sulla via, si è fermato, all’improvviso, raccolto in se stesso e assorto in qualche pensie277

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ro: una meditazione intensa che, come spesso gli accade, lo astrae da tutto ciò che lo circonda. Quando, infine, fa il suo ingresso – mentre gli altri convitati sono ormai a metà della cena – Agatone sarebbe curioso di conoscere il contenuto delle riflessioni di Socrate: quale preziosa “sapienza” egli abbia tratto da quel suo concentrato isolamento. Ne vorrebbe, anzi, essere partecipe e per questo lo invita a sdraiarsi accanto a lui, quasi che la vicinanza dei corpi possa consentire la trasmissione del sapere. Socrate, al solito, si schernisce: sarebbe bello se la sapienza potesse scorrere dall’uno all’altro, dal più “pieno” al più “vuoto”, attraverso un semplice contatto, come un filo di lana fa passare l’acqua tra due vasi comunicanti. Ma la vera conoscenza non è, certo, cosa che possa essere semplicemente trasferita in chi ne sia sprovvisto: non è un dato o un oggetto che possa essere ceduto, quanto piuttosto un modo di vedere e di essere, che ognuno deve conquistare da sé, facendolo scaturire dalla propria interiorità. E poi, se si considera l’esito del concorso teatrale, sarebbe semmai Agatone a dover illuminare gli altri con la luce della propria intelligenza: la sua “sapienza” non è forse stata applaudita e acclamata dinanzi a un pubblico di più di trentamila Greci? Al confronto, il sapere di Socrate – come osserva egli stesso – rischia di essere più inconsistente di un umbratile sogno. Paiono parole di omaggio al vincitore e all’ospite, ma Agatone non manca di cogliere l’ironia del suo interlocutore: fingendo di complimentarsi, Socrate sta, in realtà, mettendo in dubbio il “fulgore” di quel successo pubblico nonché il valore dell’arte che lo avrebbe prodotto. “Sei un insolente, o Socrate!” replica piccato Agatone, “Ma lo ve278

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dremo fra poco, tu e io, chi è davvero sapiente, e prenderemo Dioniso come giudice.” Nello spazio privato di una casa, una nuova competizione – altra e diversa dalla festa civica appena conclusasi – parrebbe accendersi, evocando la presenza numinosa e decisiva del signore del teatro. È questa la scena d’avvio del Simposio (175 a-e), uno dei dialoghi più celebri di Platone, letto e riattraversato nei secoli per i discorsi sull’amore che in esso risuonano. Gli ospiti di Agatone decidono, infatti, di trascorrere la seconda parte della serata interrogandosi sulla natura e la potenza di Eros. Ognuno, a turno, secondo la prassi simposiale, dovrà pronunciare un encomio dell’amore, mettendone in luce gli aspetti più significativi a partire dalle proprie personali competenze e dalla propria esperienza. Un prisma, a poco a poco, si compone: dalla scienza di Erissimaco, che pone Eros come forza presente nella natura del cosmo, alla tradizione mitologica e poetica richiamata da Fedro con l’esempio di coppie celebri di eroi e amanti; dalle osservazioni di Pausania che si sofferma sulle norme del costume e sullo stile del corteggiamento pederastico, alla storia, seria e comica insieme, proposta da Aristofane per cui l’impulso erotico non è altro che il desiderio di riportare l’umanità alla sua antica e felice natura. L’iniziale motivo della contesa sapienziale parrebbe accantonato nel bon ton della riunione in cui la parola circola, in modo egualitario e cortese, tra i compagni. Quando arriva il suo turno, il padrone di casa stupisce i presenti con un intervento tanto studiato quanto rutilante di effetti retorici. Con una maestria che gli viene dall’insegnamento sofistico di Gorgia, Agatone pronuncia un perfetto elogio del 279

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dio, attribuendo ad Amore tutte le più alte e apprezzabili qualità: la fresca e incantevole bellezza di un magnifico fiore, unita al possesso di tutte le virtù cardinali nonché al potere di infonderle negli uomini innamorati. Tutti applaudono rapiti dal suono e dai motivi del discorso. Per un momento, la sala del privato simposio si trasforma e si confonde con lo spazio di una cavea teatrale esultante e in estasi per lo spettacolo proposto. Ancora una volta, il padrone di casa è riuscito a conquistare e sedurre il suo pubblico. A eccezione di Socrate che si mostra, per contro, perplesso e fa mostra, per un momento, di volersi ritrarre dal confronto per presunta inadeguatezza: “Nella mia ingenuità, pensavo,” egli spiega, “che nel pronunciare un encomio su qualsivoglia soggetto si dovesse anzitutto dire la verità e che poi, sulla base di questo presupposto, si dovesse fare una scelta delle verità più belle disponendole nell’ordine più evidente ed efficace [...]. A quanto pare non è così che si fa: si dovrebbero attribuire a una certa cosa tutte le qualità più magnifiche che si possano immaginare [...] senza preoccuparsi se siano false [...]. Ma, in questo modo, io l’encomio proprio non lo faccio: se volete, sono pronto a dire la verità, come sono capace” (198 d). Con tali osservazioni, Socrate produce un brusco scarto, riportando l’attenzione sulla questione che l’inizio della serata sottintendeva: l’arte del poeta – la parola di chi viene riconosciuto come sapiente – è solo uno splendido e piacevole inganno, un gioco illusorio di apparenze oppure deve farsi consapevole veicolo di alétheia, deve essere, anzi tutto e in maniera essenziale, disvelamento del “vero”? Occorre perseguire con ogni mezzo, tra fantasma280

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gorie verbali e artate falsità, il consenso e il plauso altrui, o invece è compito imprescindibile dell’arte tentare di esprimere ciò che è? Accingendosi, infine, a offrire il proprio contributo, Socrate fa scaturire la sua parola da una dimensione totalmente altra rispetto al sapere dei propri interlocutori. Riferendo l’insegnamento che, un tempo, gli avrebbe dispensato Diotima di Mantinea – donna esperta di purificazioni e di mantica –, egli salda la conoscenza dell’amore alla sfera delle iniziazioni misteriche. È solo lasciando i discorsi e le opinioni correnti, il linguaggio e i comportamenti condivisi dalla massa, che una luce di “verità” può cominciare a rifulgere. È solo trasferendosi nell’altrove del sacro che la radice dell’éros si lascia cogliere. L’amore, spiega Socrate, è desiderio di generare nella bellezza per attingere un bene eterno. È tensione all’immortalità, a quell’“essere sempre” che è proprio della natura divina. Le mirabili imprese degli eroi celebrate dalla tradizione, il prezioso lascito dei poeti e dei legislatori più sapienti – da Omero a Esiodo, da Solone a Licurgo – non avrebbero altra radice che questa. Ma per accedere al mistero dell’amore – per esperirlo nella sua vera essenza e generare, a propria volta, opere di virtù e valore – è indispensabile compiere un percorso di ascesa, graduale e metodico. Partendo dal mondo sensibile – dal fulgore molteplice dei bei corpi che accendono la passione – occorre elevarsi alla bellezza immateriale dell’anima e, da questa, al dominio altrettanto incorporeo della scienza e del pensiero, fino a quando, in un istante, dopo lungo impegno, l’iniziazione si compie nella visione suprema di quel bello ideale, uni281

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co, incorruttibile, sempre uguale a se stesso, di cui ogni altra bellezza è partecipe. La folgorazione intuitiva dell’idea trascendente non solo è coglimento definitivo della “verità” divina, ma anche trasformazione del soggetto che a tale risultato perviene: “Non credi che allora gli accadrà di partorire vera virtù e che in tal modo [...] diverrà caro agli dèi e, se mai ad altro uomo fu concesso, conquisterà l’immortalità?” (212 a). È questa la sola “conoscenza” che valga la pena di conquistare nel corso della vita. A null’altro deve tendere chi voglia dirsi vero philósophos, “amante della sapienza”. Non appena Socrate ha terminato di pronunciare tali parole, rivelando il vertice sommo cui la natura umana può ascendere superando se stessa, si ode, all’improvviso, uno schiamazzo provenire da fuori. In modo del tutto inatteso, qualcuno bussa alla porta e irrompe prepotentemente nella sala. È l’avvenente Alcibiade, completamente ebbro, cinto di edera e di viole. Egli è venuto – così spiega – per incoronare il capo del più bello e del più sapiente, per rendere omaggio al successo di Agatone. Gli si accosta per cingerlo di nastri festosi, quando si accorge della presenza di Socrate. E allora non può fare altrimenti. Senza che il padrone di casa se ne abbia a male, egli deve ornare anche quella “testa meravigliosa”: “Perché Socrate nei discorsi vince tutti gli uomini, e non solo l’altro ieri, come te, ma sempre” (213 e). Il giudizio è stato pronunciato. Il volere di Dioniso si è manifestato attraverso Alcibiade. La consacrazione effettiva della vittoria spetta alla sapienza iniziatica di Socrate, ben superiore e fondata rispetto al contingente successo 282

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del tragediografo. Ed è lo stesso Alcibiade che, scompaginando l’ordine e il tema della serata, si produce in un encomio di Socrate, testimoniando quel che accade a chi lo avvicina. I suoi discorsi, il suo modo di fare, il suo stesso aspetto assomigliano a quelle statuette cave che si vendono nelle botteghe degli scultori. All’esterno, tali simulacri riproducono le fattezze irsute dei Sileni, amici di Dioniso: esseri dalla natura ibrida, in parte umana e in parte animale, creature tanto impudenti e smodate quanto grottescamente buffe. Ma basta aprire le statuette per scoprire che esse, in realtà, sono uno scrigno: il loro interno cela e insieme custodisce immagini auree e magnifiche degli dèi. Così è Socrate: per nulla avvenente, sgraziato, sempre a caccia – così sembra – di bei ragazzi da conquistare. E, tuttavia, non appena lo si frequenti, entrando nel gioco ironico con cui egli irretisce i suoi interlocutori, il velo si solleva, lasciando intravedere un tesoro nascosto di conoscenza e di virtù. Quando comincia a parlare, di primo acchito, il suo discorrere – che spesso prende spunto da cose quotidiane e apparentemente banali – può suonare ridicolo e inusitato, finanche fanciullesco e del tutto distante dalla consueta serietà degli intellettuali e dei sedicenti maestri di saggezza. Si sarebbe indotti a sottovalutare le sue parole, scambiandole per ingenuità o dabbenaggini. Allo stesso modo, le sue domande possono sembrare irritanti o del tutto scontate in quel continuo appuntarsi su concetti e idee che tutti credono infallibilmente di conoscere come evidenti ovvietà. Ma un effetto dirompente, a poco a poco, si produce: chi si intrattiene con lui ha, all’improvviso, la sensazione di essere preso da una vertigine: la testa comincia a girare e 283

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la terra manca sotto i piedi. Tutto quello che si credeva di sapere e di pensare, tutti i convincimenti e le abitudini nutriti nel corso di un’intera esistenza si rivelano inconsistenti, ogni consueto punto di riferimento viene meno in un totale spiazzamento della mente e delle emozioni. Allora il cuore comincia a tumultuare nel petto, le lacrime bagnano gli occhi e l’anima è come rapita in una sfera del tutto altra rispetto all’ordinario e inconsapevole fluire del quotidiano. I suoi discorsi sono vere e proprie “melodie”, potenti “incantesimi” che traggono le anime al delirio e all’estasi, mostrando come la vita che fin lì si è vissuta è stata solo la tenebra di un autoinganno: “Noi,” afferma Alcibiade, “quando sentiamo parlare un altro, si tratti pure di un grande oratore, non proviamo nulla, ma quando ascoltiamo te o un altro che riferisca le tue parole [...], siamo tratti a forza fuori di noi stessi, come fossimo posseduti [...]. Tante volte sono arrivato al punto da sentire che, essendo come sono, non vale la pena di vivere” (216 a). A dispetto di ogni iniziale impressione, dialogare con Socrate, lasciarsi esaminare da lui, rispondendo a quelle domande apparentemente innocenti o banali, significa, infine, essere sottoposti a una “tortura” che fa scaturire verità tanto inattese quanto sgradite: “Mi costringe a riconoscere che manco di mille cose e, tuttavia, invece di prendermi cura di me stesso, mi intrigo degli affari e della politica di Atene [...]. Mi ha fatto vergognare di me stesso” (216 a-b). Uscire dalla gabbia di un falso sé, provare orrore dell’esistenza che si è condotta senza porsi alcun sostanziale interrogativo, vedere il vuoto al posto di quel ‘pieno’ che si credeva di possedere: con il suo lógos, Socrate mette immancabilmente ognuno dinan284

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zi alla propria mancanza d’essere. Ma è appunto questo il primo indispensabile passo per avviarsi alla ricerca di una “sapienza” che non sia mera presunzione di ‘sapere’, adesione irriflessiva alla corrente comune, bensì forza capace di rigenerare il corpo e la mente: rendersi conto del proprio nulla e della nube di illusioni mentali da cui si è avvolti. Quando questo avviene, si ha come la sensazione di una trafittura, che dà il tormento, generando un’insopportabile inquietudine e un’insoddisfazione per ogni cosa cui, fino a poco prima, si era così legati: “Io mi trovo in una condizione simile – confessa Alcibiade – a quella di chi è stato morso da una vipera [...]. Ma la mia è stata una puntura ancor più dolorosa e nella parte più sensibile in cui si possa venir morsi, perché, nel cuore o nell’anima o come altro vogliate chiamare questa parte, sono stato piagato e morso dai discorsi della filosofia” (217 e-218 a). Il morso della vipera sapienziale è il sintomo e insieme il simbolo di un risveglio: un ridestarsi a se stessi e alla realtà, l’aprirsi di un occhio interiore capace di intravedere una bellezza ben diversa da ciò che fa tanto penare e smaniare il gregge dei ‘dormienti’. Nel dischiudersi di una mirabile visione che trascende il dominio di ogni cosa apparente, il senso della vergogna e il dolore del morso si trasformano in un divino entusiasmo, nella sensazione di essere attraversati da una rinnovata e superiore energia: la philosophía, l’amore della sapienza, diviene allora celeste manía, intensità vibrante di un’anima che scopre di poter attingere, da sé, inesauribili tesori. Da un capo all’altro del suo intervento, Alcibiade ripete, insistentemente, che la compagnia di Socrate è stata l’even­to di un pathéin, di un “patire” e di un “senti285

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re” contrassegnati da un’inusitata violenza. È il medesimo páthos con cui, come si è visto, Dioniso scuote e disintegra le identità dei mortali nei rituali dei misteri e sulle scene del teatro, fino a che la luce solare di Apollo non li restituisca al nucleo unitario di una coscienza rigenerata. Eros che desidera la bellezza e la sapienza, Dioniso che sconvolge, Apollo che illumina: i discorsi del Socrate platonico non sono altro che la fusione perfetta del potere di questi tre dèi. A tarda notte, quando ormai la maggior parte degli invitati al simposio sono addormentati sui loro letti, Socrate, immune alla stanchezza, continua a parlare, rivolgendosi ad Agatone e ad Aristofane. Facendo riferimento ai generi di cui essi sarebbero rispettivamente maestri, il Sileno filosofico sostiene la teoria – inedita rispetto alla prassi poetica del tempo – secondo la quale chi sappia comporre tragedie, di necessità, dovrebbe essere anche in grado di comporre commedie perché unica è, nella sostanza, l’arte che presiede a entrambe. I due poeti, alquanto assonnati, sembrano consentire, ma nulla viene detto a dimostrazione della tesi. Un semplice cenno che sembra rimanere sospeso sul termine estremo della serata conviviale, quasi si trattasse di un’estemporanea aggiunta. In verità, un cerchio si disegna, saldando implicitamente la fine con l’iniziale contesa tra Socrate e Agatone. Come Socrate si è rivelato superiore al poeta incoronato, così la scrittura di Platone – la scrittura di questo come degli altri dialoghi – si vuole e si pensa come un nuovo teatro della sapienza, che sappia fondere tragedia e commedia, serietà e comico, nell’unità di una sintesi trascendente. Una fusione che è insieme su286

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peramento poiché al cuore di questo teatro vi è un’anima che sa di essere immortale e di potersi assimilare agli dèi. Se il tragico termina nel dolore della sventura e del lutto, se il comico vive nel sogno carnevalesco e utopico di una felicità terrena e materiale da riconquistare, lo ‘spettacolo’ del Socrate platonico addita la via di una vita che non conosce la limitazione né della morte né del corpo, la via di un’identità che permane al di là di ogni tragica o comica vicissitudine dell’esistenza fisica. Come Platone fa dire altrove a Socrate (Fedone 61 d), l’“amore della sapienza” è megíste mousiké, “suprema musica” o, forse meglio, la forma più alta di conoscenza e di espressione cui l’ispirazione delle Muse può guidare gli uomini. È un vertice verso cui ogni parola e ogni canto, ogni ritmo e ogni misura convergono in un sinfonico accordo con l’armonia del cosmo e la fonte dell’essere. E megíste mousiké è la scrittura stessa che, nell’opera platonica, fa segno a tale vertice, indicando l’orizzonte di una “vera terra” e di un “vero cielo” cui le anime possono accedere, quando la loro capacità di “vedere” si ampli e si potenzi, mostrando come il mondo che sono abituate a percepire sia solo uno dei molteplici piani dell’essere: come pesci che balzino fuori dal mare, scoprendo che altro esiste al di là dell’acqua in cui sono immersi, così anche gli uomini, prestando orecchio alla “musica suprema”, potrebbero, con un salto di coscienza, scoprire un ‘tutto’ che nemmeno sospettano. A più riprese, dalla Repubblica alle Leggi, attraverso la figura di Socrate e di altri personaggi, la voce di Platone risuona aspramente contro i poeti, al punto da formulare, 287

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nei loro confronti, una sorta di solenne bando per allontanarli dalla città, onde non possano traviare e contaminare, con le loro opere, i membri della comunità. Bisognerebbe dire addio a Omero, Esiodo e a tutti gli autori di teatro, congedandoli con risolutezza, poiché essi non sono affatto in grado – a dispetto di quanto essi dichiarano e di quanto generalmente si creda – di “rendere migliori” gli uomini. Questa severa censura si origina da un’accusa di sostanziale ignoranza. A differenza degli amanti della sapienza, i poeti non avrebbero alcuna conoscenza effettiva della natura delle cose: si limiterebbero a riprodurre le apparenze umbratili del sensibile, raddoppiando e rafforzando l’illusione stessa che già il comune vivere alimenta a sufficienza. Ciò che essi producono e offrono agli spettatori sarebbe mero inganno, proliferazione incontrollata di simulacri privi di sostanza, semplice gioco di maschere che si avvicendano e si scambiano in un gioco equivoco che non poggia su alcun fondamento. Per conseguenza, la rappresentazione che i poeti offrono tanto della natura divina quanto della vita umana non solo sarebbe viziata dall’errore, ma costituirebbe anche un’esiziale trappola che imprigiona ancora di più i mortali anziché farli liberi e più saggi. Eppure non si può fare a meno della poesia e del mito, del canto e della danza: Platone sa bene che l’opera delle Muse è necessaria e vitale per l’anima dell’uomo e per il cuore della città. E i suoi dialoghi ne sono testimonianza non solo per la struttura teatrale che, come si è detto, li caratterizza, ma anche per la memoria poetica che essi sottendono: in modo ora esplicito ora implicito, un’intera tradizione di autori e di opere scorre e viene riplasmata 288

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dalla sua scrittura. La censura e il rigetto sottendono, al medesimo tempo, una sorta di continuità. Una sostanziale fedeltà – si potrebbe quasi affermare – all’origine stessa della parola e della divina ispirazione. A ben vedere, sin dall’inizio dei tempi, le Muse avevano avvertito i mortali che, non sempre e non a tutti, sarebbero state disposte a “cantare la verità”: avrebbero potuto limitarsi a dispensare “menzogne simili a vero”, negando al cantore il dono dell’essere. Ed è a questa scena che la scrittura platonica, per così dire, sembra far ritorno. Non si tratta di bandire le Muse, ma di farsi degni della “verità” che le dee sanno dispensare. Non si tratta di rifiutare la poesia ispirata, ma di saperla discriminare dalla “menzogna”. A dispetto delle dichiarazioni recise e della loro formulazione letterale, gli strali di Platone sono forse rivolti non tanto a Omero e a Esiodo, quanto alla pólis classica che ha tradito le Muse e il valore sacrale dell’arte, prestando più volentieri orecchio al piacere ingannevole di una poesia degenerata e decretando il successo degli autori che di essa si sono fatti veicolo. Solo chi è davvero philósophos, solo chi, con tutto se stesso, è “amante della sapienza”, è vero poeta. E la sua opera può considerarsi, a tutti gli effetti, come la “tragedia più bella” perché è “rappresentazione della vita più nobile ed elevata” (Leggi 817 b). Nel segno delle Muse e di Apollo si era compiuta, d’altro canto, la vocazione filosofica di Platone. Si narra che Socrate avesse sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno – animale consacrato al dio solare dell’arco e della cetra –, il quale, dispiegando le ali, se n’era volato via, cantando soavemente. Il giorno successivo, il giovane Platone 289

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si sarebbe presentato a Socrate, chiedendo di essere preso come discepolo: era lui l’alata e melodiosa creatura destinata al volo della sapienza (Diogene Laerzio, Vite dei fi­ losofi 3,5). Più tardi, nella maturità, Platone scelse come sede della sua scuola un luogo ombreggiato da alti alberi, appena fuori dalla Porta Sacra di Atene: un boschetto consacrato all’eroe Academo. Là egli provvide a erigere un santuario in onore delle Muse. La cerchia dell’Accademia platonica fu fondata come un tiaso dedicato alle divine fanciulle (Pausania, Guida della Grecia 1,30). Occorre essere fedeli alla manía ispirata dalle dee, ma è necessario anche che i doni dell’estasi si saldino al piano della coscienza e della ragione nell’unità di un’anima consapevole di se stessa e delle sue facoltà. Non si tratta di rinunciare alla poesia, ma di operare un’‘integrazione’ tra i piani e le dimensioni della psuché. È questo che, rispetto alla tradizione precedente, il discorso platonico propriamente persegue e propone ai suoi cittadini e ai suoi lettori.

Le profetesse delle Muse È un caldo giorno d’estate a determinare la scena in cui si svolge il Fedro, un ulteriore dialogo in cui Platone intreccia i temi della sapienza, dell’amore e della verità. Socrate e Fedro sono usciti dalle mura di Atene e, passeggiando, hanno raggiunto la piana del fiume Ilisso, costellata di altari: un’area sacra dedicata, fra le altre divinità, alle Muse e alle Ninfe. Riparatisi all’ombra di un grande platano – mentre una lieve brezza mitiga la calura e il profumo 290

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dell’agnocasto, con i suoi fiori violacei, si spande nell’aria –, i due attendono alla lettura di uno scritto di Lisia, che tanta ammirazione ha suscitato in Fedro sin dal primo ascolto. Non si tratta di una di quelle orazioni giudiziarie a cui il celebre autore ateniese deve, per lo più, la sua fama e il suo successo. È un discorso rivolto a un bel ragazzo con l’intento di sedurlo. Paradossale e insieme astuta è la tesi che vi si sviluppa: meglio concedere le proprie grazie a chi non è per nulla innamorato, piuttosto che rispondere al corteggiamento di un uomo in preda alla passione. Dopo il primo momento, ogni amante, infatti, si rivelerebbe, immancabilmente, molesto, se non addirittura nocivo per il malcapitato giovane che gli accordasse i propri favori. Geloso, possessivo, financo irascibile, l’innamorato sarebbe del tutto concentrato sul proprio desiderio, senza preoccuparsi in alcun modo del bene dell’amato: finirebbe, anzi, per procurargli un danno nell’isolarlo da ogni altra relazione e contatto. Un rapporto privo di passionalità sarebbe, per contro, un più utile ‘affare’ da cui entrambi i soggetti coinvolti possono trarre piacere e utilità senza recarsi alcuna noia. A dispetto dell’entusiasmo di Fedro, Socrate non è per nulla convinto del valore dello scritto: il linguaggio è certo appropriato e forbito, ma il contenuto è segnato da ripetizioni e mancanza di chiarezza, come se Lisia non sapesse escogitare nient’altro a favore del proprio punto di vista. Ed ecco che di nuovo – come nel Simposio – una competizione si accende: un agone tra l’amante della sapienza e un autore acclamato dalla città. Dopo aver invocato la Musa, Socrate si impegna, dunque, a produrre un discorso migliore, sviluppando, con mag291

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gior rigore ed efficacia, gli spunti del testo lisiano, a partire dall’argomentazione principale. Se la passione amorosa è un male, ciò si deve – spiega Socrate, approfondendo il concetto – alla natura del tutto “irrazionale” dell’eros: quanto Lisia ha sommariamente descritto non è altro che la conseguenza di tale mancanza di ragione e misura da cui l’amante sarebbe travolto. Ma, perché mai, se non si prova alcun desiderio, si dovrebbe tentare di sedurre qualcuno, indirizzandogli un discorso? In realtà, il dettato letterale della tesi nasconderebbe una ben diversa prospettiva. Si tratterebbe di un’accorta quanto sofistica strategia per meglio catturare l’interlocutore: a parlare non è un soggetto savio e immune dalla passione, ma un innamorato che finge di non essere tale, che nasconde il proprio bruciante desiderio, al solo scopo di rassicurare il ragazzo su tutti quegli effetti negativi che inevitabilmente si produrranno. Senza troppa fatica, Socrate è riuscito a superare Lisia, mostrandosi oratore più valente ed efficace di lui, come il plauso di Fedro gli attesta. E tuttavia, proprio quando la competizione parrebbe conclusasi a suo favore, un segno ‘demonico’ – quella voce interiore che sempre accompagna Socrate – lo induce a tornare sui suoi passi e a sconfessare quanto ha appena sostenuto, fuorviato dal contraddittorio con il presunto avversario. L’amore è un male o un ‘affare’ ingannevole solo per gli uomini che, sprofondati nella dimensione corporea e viziati dalle comuni opinioni, ignorano la sacralità e la radice celeste dell’eros. Il vero amore è dono divino della manía: condizione magica e oltreumana, che desta, all’improvviso, il ricordo di un’altra dimensione e di un’altra esistenza, quando le anime, libere 292

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dal peso della materia, volteggiavano nel cielo al seguito degli dèi, nutrendosi della contemplazione delle pure forme dell’essere. Il vero amore è scorgere nel volto dell’amato l’immagine del dio cui la propria natura appartiene sin dall’origine. È tensione ad assimilarsi sempre più a quella figura divina: volo di anime alate che si innalzano dalla terra alla ricerca della “Pianura della Verità” cui, un tempo, avevano accesso. Il secondo e più elevato discorso di Socrate è, a suo stesso dire, un “inno mitologico”. “Inno” perché la parola celebra la realtà divina, invitando gli uomini a riconoscerla e a venerarla. “Mitologico” perché dell’invisibile e dell’immateriale non si può dire se non adottando la forza di un linguaggio simbolico. Ogni qualvolta ci si voglia accostare all’essenza dell’anima e alla vita che le è propria, è la voce del mito a dover risuonare, alludendo e indicando ciò che, per sua natura, non può essere dimostrato né espresso dagli usuali strumenti della ragione discorsiva. Nel frattempo, il sole è giunto al suo picco nel cielo e la calura si fa sempre più intensa. Che cosa possono fare, a questo punto, Socrate e Fedro? Si assopiranno, cedendo alla stanchezza, o continueranno a discorrere, anche se lo scopo iniziale della passeggiata parrebbe ormai raggiunto? Sopra il capo dei due amici, friniscono le cicale. Quel suono intenso e suadente è, invero, un ulteriore segnale rivolto agli amanti dei discorsi e della sapienza: uno stimolo e insieme una nuova sfida che li attende. In un tempo remoto – racconta Socrate, evocando, di nuovo, la sfera del mito – le cicale erano state uomini. Quando Zeus e Memoria misero al mondo le Muse e, per la prima volta, 293

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nel cosmo, risuonò il loro canto meraviglioso, essi ne furono talmente colpiti e conquistati da dimenticare ogni altra cosa, unicamente intenti al piacere che l’ascolto della voce divina offriva loro: “Non si curavano più né di mangiare né di bere e, senza rendersene nemmeno conto, scivolavano nella morte” (259 c). Da essi, per metamorfosi pietosamente concessa dagli dèi, sorse la stirpe delle cicale, “che dalle Muse ricevettero il dono di non aver alcun bisogno di cibo, ma subito, fin dalla nascita, di poter cantare, senza mangiare né bere [...], e una volta morte, esse si recano dalle Muse per annunciare alle dee chi tra gli uomini renda loro onore e a quale in particolare di esse. A Tersicore riferiscono di coloro che le hanno onorate con canti e danze corali [...]. A Erato danno notizia di chi ha composto poesie d’amore [...]. A Calliope, la più anziana, e a quella che viene subito dopo di lei, Urania, portano, invece, notizia di chi ha trascorso la vita dedicandosi all’amore della sapienza, onorando la musica che è loro propria, perché, fra tutte le Muse, sono proprio queste che si occupano del cielo nonché dei discorsi divini e umani, modulando la loro bellissima voce” (259 c-d). Anche le cicale, dunque, sono il simbolo di una manía che rapisce e conduce al di là della natura mortale e della dimensione fisica che la determina. Il loro mito addita a un desiderio totalizzante e assoluto che si fa distacco dai bisogni e dagli appetiti del corpo: dedizione totale a una forma di “piacere” più nobile e alto, che travalica le dinamiche della mera sopravvivenza animale. In questa completa incuranza che si fa concentrazione assoluta, quelle canore creature – dalla minuscola consistenza, ma dalla voce così 294

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potente – sono l’immagine di tutti coloro che sacrificano se stessi e la propria vita all’arte e alla conoscenza, allontanandosi e rigettando tutto ciò che i comuni esseri umani considerano, per contro, necessario e indispensabile all’esistenza. Divenute, per così dire, mediatrici tra terra e cielo, le poetiche cicale non solo si consumano interamente nella “musica”, ma si trasformano anche in testimoni e messaggere delle dee, segnalando loro gli umani capaci di quella stessa estrema devozione. Ed è all’altezza di tale passione che Socrate e Fedro sono chiamati dal loro frinire, superando la fatica e la tentazione del sonno. Il ripetitivo e regolare canto delle cicale potrebbe indurli ad addormentarsi come “pecore” nell’ora meridiana. È una prova cui le profetesse delle Muse li sottopongono: continuare a essere “desti”, a parlare e a interrogarsi, resistendo all’ottundimento dei sensi e del corpo. Questo è il dovere e insieme il compito di chi vuole onorare Calliope e Urania. Come nel chiudersi di un cerchio, la conversazione si volge, quindi, al punto d’origine. Dopo aver letto e pronunciato discorsi – in parte per spirito ‘agonistico’ e in parte per subitanea ispirazione – non è forse doveroso chiedersi, con impegno più consapevole, quale sia la maniera più “bella” di comporre e scrivere in versi o in prosa? “Mi domandi se dobbiamo?” osserva Fedro da vera “cicala”, “Per che cos’altro mai dovremmo vivere se non per piaceri come questi? [...]. Di sicuro, non per i piaceri corporei che giustamente sono detti degni degli schiavi” (258 e). L’arte del dire – inizia così a osservare Socrate – è psuchagogía: arte del “condurre l’anima”, di guidarla ad aderire a una prospettiva, a un contenuto o a un’emozio295

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ne. E, per far questo, occorre conoscere a fondo che cosa sia la psuché: comprenderne l’universale essenza, ma anche osservare le diverse tipologie con cui essa si manifesta e si determina nella molteplicità dei soggetti umani. Per ogni genere di anima bisogna saper individuare la parola e il tono che, di volta in volta, siano più efficaci e suggestivi per raggiungere lo scopo desiderato. Si deve essere in grado di cogliere, caso per caso, momento per momento, la forma discorsiva, lo stile e gli argomenti che meglio possano far presa. Ma tutto ciò comporta – se si vuol essere davvero valenti e persuasivi – un progressivo allargarsi della prospettiva e dello sguardo, senza limitarsi agli aspetti meramente tecnici del comporre o alla categorizzazione delle circostanze e dei destinatari. Le psuchái degli uomini sono parti, infatti, al pari di ogni altra cosa, di un grande “tutto”: come corde che vibrino in consonanza, il loro modo d’essere e di sentire discende e insieme risponde alla complessa struttura della realtà, all’intreccio delle forze e degli enti che, tra eternità e divenire, danno vita al cosmo. Come il medico esperto, secondo l’insegnamento di Ippocrate, non può e non deve curare il singolo organo senza considerare l’hólon, l’“intero” cui appartiene, così l’oratore e il poeta debbono, di necessità, non solo avere conoscenza delle anime cui si rivolgono e delle tematiche che intendono trattare, ma anche possedere un vasto sapere sulla phúsis, sulla “natura” dell’universo. Per parlare, nel modo migliore, di ciò che contrassegna la vita di coloro che abitano la terra, bisogna, al contempo, volgere lo sguardo verso il cielo: “Tutte le grandi arti hanno bisogno,” sottolinea Socrate, “di discussioni e di indagini sul296

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la natura delle cose celesti: l’elevatezza del pensiero e la capacità di compiere qualsiasi cosa non sembrano avere, infatti, altra origine che questa” (270 a). Chi ambisca a eccellere nell’arte discorsiva, chi vuol essere vero philólogos, “amante della parola”, dovrà farsi anche philósophos, amante di quella conoscenza che è fonte di nóus e di diá­ noia, di “intelligenza” e di “ragione”. Ma, se tali sono i presupposti della psuchagogía – l’apprendistato necessario alla sua acquisizione – a quale meta, propriamente, le psuchái degli ascoltatori devono essere condotte? Il che significa implicitamente: in che modo è lecito usarne, se non si vuole ridurre l’arte a una mera e interessata manipolazione di chi ascolta? La maggior parte di coloro che parlano alla città – nelle assemblee come nei tribunali, nelle cerimonie pubbliche come a teatro – non si curano affatto del vero o del falso, del giusto o dell’ingiusto. Il loro unico intento è strappare il consenso e imporsi sulla platea, sfruttando le aspettative e le convinzioni, spesso fallaci, che essa nutre: “Quando chi parla, ignorando il bene e il male, comincia a persuadere una comunità che si trova nella stessa condizione di ignoranza, [...], facendo un elogio del male come se fosse un bene, e, dopo aver fatto pratica delle opinioni della massa, la convinca ad agire male anziché bene, quale frutto – chiede Socrate  – potrà mai raccogliere l’arte del dire dalle cose che ha seminato?” (260 c). Anche nei contesti ove sarebbe non solo essenziale, ma vitale, discriminare l’apparenza dalla sostanza, il giusto dall’ingiusto, criterio prevalente è il gioco umbratile e ingannevole del “sembrare” che domina pericolosamente le scelte: “Nei tribunali a nessuno in297

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teressa nulla della verità: importa solo ciò che è persuasivo e tale è appunto il verisimile [...], al punto che talora non bisogna neppure parlare dei fatti stessi se non appaiono credibili” (272 e). Tuttavia, non è a questo che mira la Musa divina cui Socrate fa appello, evocandone la volontà: “Quali sciocchezze andate dicendo, o strani uomini! Io non obbligo nessuno che non conosca la verità a imparare a parlare, ma, se il mio parere vale qualcosa, deve essere l’esatto contrario. Bisogna impadronirsi di me, solamente dopo aver appreso il vero” (260 a). Ma ciò, ancora, non basta perché questo “vero” deve essere anche il fine e il traguardo cui avviare e trarre chi ascolta. Se si vuol essere fedeli alla dea, la parola non deve essere strumento di asservimento che imprigioni gli uomini a parvenze illusorie in un gioco di reciproca sopraffazione, bensì mezzo di un pensiero liberato dalle sue angustie e dalle menzogne del quotidiano. Chi parla secondo la logica della città – secondo il criterio dell’utile soggettivo e del successo mondano, secondo l’incostante incresparsi delle opinioni e delle emozioni irriflesse – rende “servi” coloro cui si rivolge, ma è “servo” egli stesso nella misura in cui è costretto a dipendere dal consenso e dal piacere dei suoi destinatari. Altra è la natura della psuchagogía propria della Musa platonica cui il personaggio di Socrate dà voce: “Non è per parlare e trattare con gli uomini che chi è sapiente affronta tanta fatica, ma per poter dire cose gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo che sia, per quanto possibile, di loro gradimento [...]. Chi ha intelligenza non deve affannarsi a compiacere i compagni di schiavitù, se non in modo del tutto seconda298

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rio, bensì a essere gradito a quei padroni che sono buoni e discendono da buona stirpe” (273 e). “Buoni padroni” sono gli dèi ed è volgendosi a essi che la parola acquista valore, guidando i mortali ad assimilarsi, per quanto ne sono capaci, a un principio e a un’intelligenza che trascende le miserie e le piccolezze dell’umano troppo umano. Ma se tale è l’obiettivo cui tendere, in che misura è utile e sensato – chiede Socrate – dedicarsi a comporre discorsi? Lo scrivere è davvero un’attività con cui ci si possa accostare al divino e compiacere ai celesti? Ricorrendo di nuovo alla modalità del mito, Socrate indugia nel racconto del momento in cui la scrittura, per la prima volta, sarebbe stata inventata. È una scena ambientata in Egitto che, per i Greci, è il luogo simbolico dell’origine e della conoscenza. Un giorno, il dio Theuth – figura vicina ed equivalente, per così dire, all’Ermete greco, padre di folgoranti intuizioni e signore della parola – si recò da Thamus, sovrano di Tebe, presentandogli le molte scoperte e arti che egli aveva tosto messo a punto: dalla matematica all’astronomia, dalla geometria al gioco degli scacchi. Nel dialogo tra i due, ognuna di essa venne soppesata nel suo valore e nella utilità che poteva recare all’esistenza umana. Quando, infine, si giunse alla scrittura, Theuth affermò entusiasticamente che essa costituiva un salutare ed efficace “farmaco” per rafforzare la “memoria” e accrescere la “sapienza”. Thamus si mostrò, tuttavia, alquanto perplesso, formulando, infine, un giudizio affatto contrario. La scrittura costituirebbe un “veleno” piuttosto che un “farmaco”, uno strumento di oblio piuttosto che di ricordo per chi vi si fosse dedicato: “Facendo affidamento sullo 299

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scritto, ci si abituerà a ricordare dall’esterno, attraverso segni estranei, e non dall’interno, grazie a se stessi [...]. Della sapienza tu offri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: [...] essi crederanno di conoscere molte cose, mentre rimarranno per lo più ignoranti [...] conoscitori di opinioni e non sapienti” (275 a). La scrittura – prosegue Socrate illustrando le implicazioni di tale sfavorevole sentenza – è simile, per certi versi, alla pittura, le cui figure danno l’illusione d’essere vive, ma sono, in realtà, cose disanimate e mute, come può accorgersi chiunque provi a rivolgere loro la parola: “Lo stesso fanno i discorsi: ti sembra che parlino, dotati di un loro pensiero, ma, se vuoi capire bene che cosa hanno detto e li interroghi, questi continuano a ripetere sempre una sola e medesima cosa. Inoltre, una volta scritto, un discorso rotola da tutte le parti, andando nelle mani tanto di coloro che sono in grado di intendere quanto di coloro che non sanno cosa farsene, perché non è capace di distinguere a chi debba parlare e a chi no” (275 d-e). Interno ed esterno, vivo e morto, verità e opinione: tale è l’asse oppositivo che discrimina l’invenzione della scrittura da una sapienza tradizionalmente espressa attraverso l’oralità. La parola scritta sarebbe un oggetto cadaverico, incapace di discernere i suoi destinatari, impossibilitato a replicare ai loro dubbi e suscettibile pertanto di ogni fraintendimento. Mero deposito di segni che rinviano a un vuoto e a un’assenza. Da un lato, il loro autore non è presente a essi e non è in grado di “soccorrerli”, chiarendoli e spiegandoli. Dall’altro, chi ne fruisce non sarebbe in grado di appropriarsi effettivamente del sapere e del 300

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pensiero cui essi rimandano, finendo per abbracciare l’inconsistenza di un simulacro. L’unica vera sapienza – insiste Socrate – è quella che scaturisce da una parola viva, da un dialogo che stringe due soggetti in un comune movimento di ricerca, in uno scambio inesausto di domande e di risposte. L’unica scrittura che abbia valore non è quella deposta sulla superficie di una pagina – irrimediabilmente altra ed esteriore al soggetto che la osserva –, bensì il segno che viene indelebilmente inciso nel cuore dell’anima, divenendo tutt’uno con essa: tracciato interiore di una conoscenza che è vita, non solo perché scaturisce da un dialogo “vivente”, ma anche perché, in una dinamica di progressiva appropriazione, trasforma la sostanza stessa dell’esistenza. La parola che abita un insegnamento orale, che si dispiega nella fatica e negli accidenti di un lungo percorso condiviso, è come un seme che, a tempo debito, germogli in uno splendido frutto da cui l’anima può trarre stabile nutrimento. La parola scritta, per contro, assomiglierebbe – secondo il paragone proposto da Socrate – a quei “giardini” che, in piena estate, vengono offerti per la festa di Adone: effimero e sterile rigoglio di piantine che rapidamente crescono, ma altrettanto rapidamente si disseccano nella canicola. Ma se le “cose di maggior valore” – quella vera conoscenza che è metamorfosi integrale del soggetto – non si trasmettono attraverso l’invenzione di Theuth, perché allora scrivere, come ha fatto del resto lo stesso Platone? Se la scrittura non può comunicare sapienza, a che scopo intrattenersi in essa? Si scrive per “gioco” – risponde il Socrate platonico – al fine, anzi tutto, di accumulare, per 301

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se stessi, un tesoro di memorie tratte dalla propria esperienza e dal vissuto della propria ricerca. Si scrive per additare ad altri la necessità di un cammino che ecceda la pagina stessa. Si scrive, infine, per destare, come in una scossa, un ricordo che già riposa nel fondo della psuché. Un sapere già altrimenti posseduto, che attende solo di essere riattivato in maniera appropriata: “I discorsi migliori non sono che strumenti utili a far ricordare coloro che già sanno. Solo i discorsi pronunciati nel corso dell’insegnamento e allo scopo di far apprendere, i discorsi scritti realmente nell’anima intorno al giusto, al bello e al bene, hanno chiarezza, perfezione e sono degni di effettivo impegno” (278 a). Per questo, l’opera platonica ‘finge’ deliberatamente di non essere scritta, mettendo in scena il movimento costante di voci che, dialogando, si interrogano sul valore di ciò che fanno e di ciò che dicono. Una mimesi attentamente costruita di ciò cui ci si dovrebbe dedicare, procedendo al di là del testo stesso. L’esempio di una pratica dialettica che si sviluppa in una duplice direzione. Da un lato, si tratta di “raccogliere il molteplice ovunque disperso” – così come si dà nella dimensione materiale e nella percezione dei sensi – al fine di “ricondurlo all’unità di un’idea”, in modo chiaro da “rendere chiaro, definendolo”, l’oggetto che si vuole, di volta in volta, insegnare e apprendere. Dall’altra, all’opposto, occorre suddividere l’unità ideale secondo le molteplici articolazioni che, per propria natura, le appartengono, allo scopo di isolarne una forma particolare. Accanto all’esercizio della dialettica – e complementare a essa – vi è la forza delle narrazioni mitiche che, 302

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con la loro suggestione simbolica, toccano la radice dell’anima nella sua esistenza sospesa tra essere e divenire. Il mito – come Platone sottolinea in altro contesto – ha il potere di imprimere nell’anima un túpos, un’“impronta” permanente, un paradigma che la sagoma e ne orienta tanto le emozioni quanto il pensiero (Repubblica 307 c-d). Al di là dei loro contenuti, del dettato con cui si dispiegano, dialettica e mito sono vie di “purificazione”: “incantesimi” – come spesso nei dialoghi viene ricordato – per mezzo dei quali l’anima viene distaccata dal fluire convulso della materia e portata a concentrarsi nel suo nucleo divino, affine, sin dall’origine, a quell’immateriale ed eterna verità cui ogni sforzo tende. Solo il simile, infatti, può conoscere il simile. Se la scrittura è un semplice rinvio alla pratica di una parola orale, anche quest’ultima trova un limite dinanzi al quale si arresta, cedendo all’esperienza di un indicibile intuire. Come Platone altrove spiega, il “nome”, la “definizione”, l’“immagine” – di cui, giorno dopo giorno, ci si serve nel tentativo strenuo di cogliere “ciò che è” – sono, al fine, come semplici legnetti che, dopo un diuturno e penoso sfregamento, facciano scaturire lo splendore di una fiamma: “Perché questa non è una conoscenza comunicabile come altri saperi. È qualcosa che, dopo un lungo rapporto e una prolungata convivenza con il suo oggetto, nasce nell’anima, all’improvviso, come la luce che s’accende all’instante da una scintilla di fuoco e poi si nutre di se stessa” (Settima lettera 341 b). Tale è l’approdo cui la Musa filosofica può condurre i suoi più fedeli amanti.

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La città che canta “Un dio o un uomo, o stranieri, è stato responsabile dell’istituzione delle leggi nelle vostre città?” Tale è la domanda che risuona, quasi a bruciapelo, all’inizio dei Nómoi, delle Leggi, che Platone, ormai al termine della sua vita, compose nel tentativo di immaginare come si potesse, in effetti, creare e far sussistere una comunità bella e giusta. E in modo sintomatico theós, “dio” è la parola posta sulla soglia stessa del testo, perché è forse solo nel segno del sacro e del divino che la città degli uomini può trovare una propria forma stabile e felice. Nella cornice dell’opera, la riflessione su questo tema – su questo essenziale quanto ambizioso obiettivo – si sviluppa nel tempo di una passeggiata, intervallata da soste in boschetti di indicibile bellezza, lungo la strada che da Cnosso conduce all’antro di Zeus: la caverna nella quale, secondo la tradizione, Minosse, re di Creta, si recava periodicamente per essere istruito dal signore degli dèi su quale fosse il modo migliore di governare il suo paese. A percorrere tale cammino sono tre saggi anziani, la cui provenienza rinvia, in modo simbolico, alle póleis che, forse più di tutte le altre, avevano segnato la cultura e l’evoluzione spirituale della Grecia sin dal tempo più antico: Atene, Sparta e la stessa Creta sono le rispettive patrie di questi venerandi personaggi intenti al progetto di fondare una nuova colonia – Magnesia ne sarà il nome – in cui si possa, superando i traumi e le vicissitudini della storia, realizzare il fine di una buona vita. In modo sintomatico e altamente significativo, l’esame di quali possano essere le disposizioni e le norme più 304

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adeguate allo scopo è preceduto da una discussione su un tema che costituisce la base e l’avvio della fondazione stessa. Prima ancora di determinare la costituzione e il puntuale dettato legislativo che presiederà al governo della città, i tre saggi fermano, infatti, la propria attenzione sulla paidéia, sull’“educazione”, su quel processo che conduce un páis, un “bimbo” a essere uomo e cittadino, consapevole di se stesso, del proprio compito in seno alla comunità e della meta cui la sua esistenza deve tendere. Perché è proprio la paidéia che, giorno dopo giorno, conduce a interiorizzare quello stesso ordine che il dettato delle leggi dispone, per così dire, dall’esterno. Le norme della città non devono essere cosa che si impone sui soggetti in contrasto con il loro modo d’essere, bensì forma che si inscrive, dalla prima infanzia, nella loro stessa natura. La vita è, per sua essenza, kínesis, “moto”. Il corpo e la mente dell’uomo, sin dalla nascita, sono essi stessi perpetuo e incessante movimento. Organi, membra, pensieri ed emozioni non conoscono stasi se non al momento della morte. Ma a che cosa tende questa kínesis? In che modo essa si dispiega? A quali oggetti essa s’indirizza e quali rifugge nell’opposta dinamica del piacere e del dolore? È in questo, a ben vedere, che si gioca la possibilità di una vita felice: accordare ogni movimento – sia esso fisico o spirituale, personale o collettivo – con ciò che è buono, bello e giusto, in modo che si provi, spontaneamente, piacere e appagamento nel volgersi a esso. Vera e nobile paidéia, condizione sostanziale di una pólis realizzata, è dunque il prodursi di un’“armonia” e di un “ritmo” che abbracci ogni cosa e ogni aspetto dell’esistenza, così da creare 305

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una sorta di unica e suadente sinfonia in cui ogni elemento, ogni voce e ogni gesto si accordino perfettamente fra loro. L’areté, la “virtù” e l’“eccellenza”, tanto dei singoli quanto della comunità, non sono che un accordo musicale, una consonanza determinata da misura e proporzione. Il dispiegarsi dell’areté è come lo svolgersi di una “danza” in cui gli uomini si muovono riproducendo il mirabile moto del cosmo vivente. Il che, ancora una volta, chiama in campo, come imprescindibile presenza, la figura delle Muse, di Apollo e di Dioniso, a cui la paidéia di necessità si connette, se l’educazione è “musica” che mette in equilibrio il corpo e la mente di ognuno e di tutti. “Queste divinità,” spiega Platone, “ci sono state offerte come compagne di danza, per farci dono del senso del ritmo e dell’armonia [...] e sono loro che sollecitano i nostri movimenti e guidano i nostri cori, legandoci l’un l’altro con canti e danze, e li hanno chiamati ‘cori’ perché chará, la ‘gioia’, è connaturata a essi” (654 a). È cantando e danzando sotto la guida degli dèi, nelle feste e nei riti a essi dedicati, che gli uomini “divengono migliori”, dando ordine e bellezza alla loro esistenza. Ed è ancora cantando e danzando che i cittadini imparano a stare gli uni con gli altri, a condividere sentimenti e pensieri, sintonizzando all’unisono il battito dei loro cuori, in modo tale che la molteplicità dei soggetti, fra loro diversi per attitudine e carattere, si fonda nel respiro di un unico organismo. Affinché ciò si realizzi – facendo sì che la comunità si riconosca e si appropri nell’“ottimo” modello ispirato dagli dèi – l’Ateniese propone che la nuova colonia venga organizzata in tre gruppi corali suddivisi per fasce di età. Per 306

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primo dovrà esibirsi il coro delle Muse, composto dai fanciulli, che, con grande impegno, dinanzi a tutti i cittadini, intoneranno canti capaci di persuadere, attraverso l’uso di miti e immagini, al compimento del bene e della virtù. Poi sarà la volta dei giovani fino ai trent’anni, il cui coro invocherà Apollo Peana, il dio risanatore, a testimone della verità dei canti stessi, affinché anche tutta la gioventù aderisca, con slancio e con gioia, all’ideale condiviso dell’eccellenza etica. Terzo e ultimo sarà il coro di Dioniso, costituito dagli uomini maturi e dagli anziani: coloro che, più e meglio di tutti gli altri, saranno in grado di discernere la perfezione dei ritmi e delle melodie, individuando e suggerendo, di volta in volta, le musiche e i componimenti più adatti all’armonia collettiva. Dioniso, il signore del teatro, il dio dei misteri e delle iniziazioni, colui che mette in causa l’identità, additando al nucleo della vita divina, sarà il supremo custode della voce comunitaria. In tal modo, con l’iterato spettacolo di questi cori, “l’intero stato incanterà se stesso incessantemente”, saldando il piacere del canto a un’intima e sempre più radicata disposizione, al fine di incarnare, negli atti quotidiani, quei valori di cui inni e danze si fanno veicolo. Cantando, la città rappresenta e insieme realizza, nello spazio della perfor­ mance corale, quei medesimi principi che costituiscono il contenuto delle proprie leggi. Nella sostanza, canto e legge sono la medesima cosa. E non è un caso che, in greco, il termine nómos possa designare tanto l’uno quanto l’altra, secondo una tradizione che Platone consapevolmente riattiva per rigenerare l’orizzonte del vivere insieme tra le mura di una pólis. 307

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Gli esseri umani – osserva ancora l’Ateniese – non sono, in fondo, che páignia, “giocattoli” fabbricati dagli dèi, forse per loro stesso svago o per un motivo più serio che ai mortali, tuttavia, rimane per lo più ignoto (803 d-e). Un “giocattolo” il cui valore e il cui significato stanno unicamente in quell’origine celeste da cui esso ha tratto la propria esistenza. Ma se così è, la vita stessa non dovrà essere esperita e attraversata che come un gioco, senza alcun attaccamento nei confronti di tutte quelle cose che, con tanta pena e affanno, vengono prese così sul serio dalle anime obnubilate. Un nobile gioco in cui, tenendosi lontani dal moto scomposto delle passioni, occorre farsi guidare unicamente dal “filo d’oro” della ragione e della misura, dalla “corda” che salda in verticale il cielo e la terra. Il “miglior modo di condurre la propria esistenza” consisterà, allora, nell’attendere, con sereno distacco e lucida consapevolezza, al “gioco” che a ognuno è assegnato, “sacrificando, cantando e danzando”, così da rendersi gli dèi propizi e avvicinarsi sempre di più alla loro natura. Per aiutarci a far questo, le Muse, Apollo e Dioniso ci hanno dispensato, con generosa provvidenza, i loro doni.

Una preghiera Dopo la morte di Platone, il boschetto e l’altare dell’Accademia continuarono per secoli a essere frequentati, approfondendo e sviluppando l’insegnamento di colui che lì aveva scelto di far risuonare la propria parola. Fu così fino a quando, con il definitivo imporsi del cristianesimo 308

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come religione di stato, questa e altre scuole di saggezza furono chiuse con un editto imperiale di Giustiniano che metteva al bando la cultura pagana e ne vietata espressamente l’insegnamento (529 d.C.). Poco prima che tutto ciò si compisse, una delle ultime e più significative guide della scuola ateniese fu Proclo, che dedicò la propria indefessa attività a commentare le opere di Platone – dalla Repubblica al Timeo, dal Cratilo al Parmenide – nonché ad articolare un sistema di pensiero che aveva nell’Uno il proprio vertice. Nella copiosa messe degli scritti di cui fu autore, figura anche un inno dedicato alle Muse. Non si tratta, tuttavia, di un estemporaneo e letterario omaggio alla memoria culturale di un passato ormai divenuto a suo modo classico. Questo – al pari di altri inni da lui composti – è un testo destinato a una pratica rituale che, nel quotidiano, si affianca allo studio e alla meditazione. Pregare, secondo Proclo, non è infatti solo un atto di devozione, ma una modalità attiva di connettersi ai principi costitutivi della realtà, di suscitare in se stessi quelle stesse forze che da tali principi scaturiscono. Ed è forse con queste parole – destinate ancora e di nuovo a suscitare la luce della sapienza, a destare un diverso stato di coscienza – che merita di essere chiuso il percorso iniziato con Esiodo alle pendici dell’Elicona, con la danza delle divine fanciulle. È la catena ininterrotta di una tradizione che non ha mai smesso di infondere ispirazione ed energia creativa, di suscitare forme e immagini. Una catena che, nell’approssimarsi del tramonto, si trasforma nell’arca di una biblioteca preziosa quanto essenziale. I “libri” di Platone così come gli scritti dei sapienti dell’età arcaica e classica – ancorché privi del309

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la viva voce dei loro autori e lontani dal loro mondo – possono ancora e sempre divenire teletái, “iniziazioni” a una realtà altra e superiore, a mondi segreti: la scrittura degli antichi opera sui posteri come un “rito” magico capace di agire e modificare lo spirito. Le Muse possono infondere non solo il potere della parola soave, ma anche la scintilla ermetica di un’interpretazione che schiude le porte della Verità: Cantiamo, cantiamo la luce che in alto conduce i mortali, le nove figlie di Zeus dalle splendide voci: hanno salvato le nostre anime erranti negli abissi della vita, le hanno liberate dalla penosa agonia di questo mondo, attraverso le immacolate iniziazioni racchiuse in libri capaci di risvegliare la mente, hanno insegnato a seguire con slancio la traccia che conduce al di là dell’oblio profondo, la via che guida in purezza alla propria stella, da cui un tempo ogni anima cadde alle rive del divenire, resa folle dal destino della materia. O dee, fate cessare il mio agitato desiderio, accendetemi di sacro delirio con le parole e le intuizioni dei sapienti: che la razza degli uomini empi mai mi allontani dal fulgore e dallo splendido frutto del sentiero divino, trascinate la mia anima confusa lontano dal tumulto di quella razza errante, innalzatela alla sacra luce, gravida della potenza intuitiva del vostro alveare, con la gloria immortale di una parola che incanta.

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BIBLIOGRAFIA

Nella prefazione la citazione posta in esergo viene da Pavel Florenskij, Il valore magico della parola, a cura di Graziano Lingua, Milano, Medusa, 2003. Le citazioni della Lettera di Lord Chandos sono tratte dall’edizione curata da Marga Vidusso Feriani (Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, Milano, bur, 1985). Il passo di Rilke è desunto invece dal volume a cura da Andreina Lavagetto (Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926, Torino, Einaudi, 2000). Nel testo i frammenti legati a opere antiche sono citati secondo la numerazione delle rispettive edizioni critiche di seguito riportate e indicate per esteso nella successiva bibliografia. In particolare, i frammenti della lirica arcaica fanno riferimento alla numerazione delle edizioni di Page e di Davies. Per Saffo e Alceo si segue, invece, l’edizione di Voigt. Per i poeti e i testi elegiaci, quella di West. Per Pindaro, il riferimento è l’edizione di Maehler. Per i frammenti dei presocratici, i numeri rinviano alla canonica edizione Diels-Kranz. Per i frammenti di Euripide e 313

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bibliografia

di Sofocle, la numerazione è rispettivamente quella delle edizioni di Kannicht e Radt. Per i frammenti dei comici l’edizione canonica di Kassel-Austin. Per i frammenti dell’epica arcaica, si fa riferimento all’edizione di Bernabé. Per i frammenti e le testimonianze dell’Orfismo la numerazione corrisponde a quella di Kern. Per le laminette d’oro, ricondotte all’ambito orfico, si fa riferimento all’edizione di Pugliese Carratelli. Per i frammenti di Aristotele e Plutarco relativi ai misteri si rinvia al volume di Colli (La sapienza greca), ove sono riportate anche le rispettive corrispondenze numeriche con l’edizione dei frammenti aristotelici di Rose e quella di frammenti plutarchei di Sandbach. Vastissima è la bibliografia relativa agli argomenti trattati nel volume e molto differenti sono spesso anche gli approcci. Quanto indicato di seguito rappresenta una scelta essenziale di testi che hanno accompagnato il lavoro o ne hanno ispirato alcune prospettive. Insieme ai saggi critici, nella bibliografia riportata, si troveranno traduzioni e commenti di testi. Per il lettore che voglia leggere o rileggere le principali opere antiche menzionate nel corso della trattazione, segnaliamo, sin d’ora, alcune edizioni utili per un primo approccio (le cui indicazioni per esteso sono presenti nella bibliografia sotto il nome degli studiosi che le hanno curate): per l’Iliade e l’Odissea la limpida traduzione in prosa di Maria Grazia Ciani; per Esiodo le edizioni di Graziano Arrighetti e Eleonora Vasta; per gli inni omerici le edizioni commentate di Filippo Cassola e Giuseppe Zanetto; per gli autori della poesia lirica le raccolte antologiche rispettivamente 314

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bibliografia

curate da Carmine Catenacci e Bruno Gentili, da Camillo Neri e da Filippo Maria Pontani. Per il teatro tragico si può ricorrere alla raccolta di tutti i drammi superstiti nella traduzione di Angelo Tonelli. Per Aristofane, l’edizione di Giuseppe Mastromarco e Piero Totaro. Per i dialoghi platonici l’edizione complessiva guidata da Giovanni Reale. Per i frammenti orfici la raccolta ad opera di Elena Verzura. Per gli inni di Proclo si può vedere l’edizione commentata da Daphne Varenya. A questo succinto e basico elenco si aggiungono, per un ulteriore approfondimento, gli strumenti di lettura, reperibili di seguito sempre sotto il nome degli studiosi che li hanno curati.

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INDICE



Prefazione

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1. Nel regno delle fanciulle

13 Monti, acque, mente 13 L’ordine del mondo 17 La danza dell’universo 21 L’effetto dei nomi 22 Al di là del tempo e dello spazio 25 Iniziazione 33 Soffio, volo, magnete 37 Dal boschetto alla biblioteca 42

2. Dolce come il miele

49 Il piacere delle Muse 49 La sapienza delle api 52 Dimenticare 56 Incanto 59 Canto di morte 63 Un potente signore 68 La voce dell’usignolo 72

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3. L’arco e la cetra di Apollo

77 Frecce infallibili 77 Un’invenzione altrui 82 Versi e oracoli 90 Luce 97 Sole del Nord 101 Coscia d’oro 104

4. Orfeo, il figlio della Musa

109 Musica del cosmo 109 L’errore 114 Una fine cruenta 120 Una testa che canta 125 Un altro sguardo 131

5. La caducità e il valore degli eroi Primavera e autunno Se vuoi sapere Una quotidiana vulnerabilità Gloria immortale e poesia omerica Il funerale delle Muse

6. Odisseo nella reggia Il luogo dell’arte Il banchetto e il canto Il racconto dell’eroe Tra le ombre A Itaca

7. Il rito e la festa L’evento della poesia La saggezza del cratere Nel mondo di Afrodite L’oro dei giochi

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137 137 143 147 152 157 165 165 169 177 183 191 199 199 202 218 229

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8. Voce di Dioniso Tutta la città a teatro Il páthos assoluto Resuscitare la poesia

9. Platone e l’amore della sapienza

241 241 246 261

Il miglior poeta Le profetesse delle Muse La città che canta Una preghiera

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Bibliografia

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