La tradizione grottesca nel cinema italiano 8887487715, 9788887487718

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La tradizione grottesca nel cinema italiano
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SIMONE GHELLI

LA TRADIZIONE GROTTESCA NEL CINEMA ITALIANO

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Immagine di copertina: Philip Antonello, dal film Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco

impaginazione: marco refe copertina: roberto marinelli

2009

l’Orecchio di Van Gogh associazione culturale

Via Bixio, 120 - 60015 Falconara Marittima (AN) www.orecchiodivangogh.it www.orecchiodivangogh.splinder.com

[email protected] tel. e fax 0719175925

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INDICE

Introduzione................................................................... p. 11 Parte prima La tradizione grottesca 1. 2. 3. 4.

Un’estetica del brutto..................................................p. 17 La caricatura..............................................................p. 21 Meccanica del riso..................................................... p. 24 Teoria del grottesco.................................................... p. 28 Parte seconda Il grottesco letterario e teatrale

1. La tradizione carnevalesca.......................................... p. 35 2. Lo “humour” romanzesco........................................... p. 41 3. Le avanguardie e i “grotteschi italiani”......................... p. 45 Parte terza Il grottesco nel cinema italiano 1. 2. 3. 4. 5.

Lo spazio del “reale” nel cinema..................................p. 55 Dalla tragedia alla commedia.......................................p. 60 Una commedia tutta italiana........................................ p. 63 Logica della perversione............................................. p. 69 Le maschere del politico............................................. p. 75 Parte quarta La “deriva” televisiva e il recupero dell’immaginario

1. Una sopravvivenza deformata..................................... p. 85 2. Sguardi cinici............................................................. p. 89 3. Dal grottesco al tragico: un ritorno.............................. p. 92 Conclusioni fuori campo: divi e redivivi del cinema italiano.p. 97 Bibliografia di riferimento............................................... p. 109

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Ringraziamenti Desidero innanzitutto ringraziare Vincenzo Cascone e Filippo De Dominicis, che con Marco Dinoi, alla cui memoria questo lavoro è dedicato, sono stati compagni preziosi di questo viaggio tra le immagini iniziato tanti anni fa. Un ringraziamento speciale va poi al blog di PolifoNIE, e in particolare a Dimitri Chimenti, perché in questi ultimi mesi è stato un costante punto di riferimento. Ringrazio di cuore anche la redazione di FrameOnLine, dove ho trovato un luogo accogliente e stimolante per ricominciare. Infine, ma non ultimi, vorrei ringraziare Marco Refe e Andrea Rossi per aver creduto in quest’opera e averla trasformata in un libro.

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Io non credo, d’altra parte, che si possa vedere il mondo se non con la lente del grottesco. Credo che sia l’unica possibilità. (Marco Ferreri) Non è che non ci sia più la forza per opporsi, è che non c’è più nulla da opporre, se non la disperazione del ghigno, del grottesco. (Daniele Ciprì e Franco Maresco)

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INTRODUZIONE

Perché uno studio sul grottesco oggi, in un’epoca che tende sempre più a nascondere il punto di vista e ad addomesticare il giudizio, soprattutto per via di quel “trascorrere della visione senza sguardo”1 tipico della televisione e ormai scimmiottato nello stile dalla maggioranza dei critici dei media? È ancora possibile individuare autori o tendenze che ricerchino, senza cadere in sperimentalismi fini a se stessi, una deformazione della realtà concreta come violenza estetica volta a provocare uno shock in chi la recepisca? In un’epoca che si voleva ormai libera da conflitti, stando alle previsioni di alcuni cantori del postmoderno, il cinema, o almeno una sua parte importante, sembra essere tornato a interessarsi della “realtà”. Paradossalmente ciò sta avvenendo grazie ai recenti sviluppi della tecnologia digitale, che, un po’ come ai tempi del neorealismo, permette a un numero sempre maggiore di persone di uscire per strada e riprendere la vita colta sul fatto2 . Da questo punto di vista la tragedia dell’11 settembre 2001 ha costituito un vero e proprio spartiacque3 tra un cinema ridotto all’autoreferenzialità, che sembrava condannato all’impossibilità di registrare nient’altro che la propria “cecità”4 , e un cinema in grado di sperimentare nuovi sguardi per uscire da questa impasse, e che dall’esperienza del grottesco può trarre ancora degli importanti insegnamenti. Si tratta perciò di capire se esista ancora oggi in Italia un cinema che conservi dei legami con la tradizione della commedia italiana – poiché è durante gli anni ’50 e ’60 che si è sviluppato un certo modo di vedere la realtà del nostro paese – o se invece quel bagaglio d’immagini e personaggi non sia ormai stato del tutto soppiantato da un immaginario edulcorato che affonda le proprie radici nel mondo della fiction televisiva. Piuttosto che stilare una lista di film o di autori, ho preferito quindi prendere in considerazione, anche in modo un po’ arbitrario, due esempi di cinema apparentemente lontani nella pratica – Ciprì e Maresco da una parte, Paolo Sorrentino dall’altra – ma che nel risultato comune 11

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di rielaborare certe caratteristiche tipiche della cultura italiana, già espresse in passato dalla letteratura o dal teatro, a mio parere si ritrovano. L’intenzione di evidenziare questo cammino trasversale tra i diversi territori dell’arte mi ha spinto a concentrarmi nella prima parte sulla nozione di grottesco in senso ampio, con l’intento di fare chiarezza su un termine troppo spesso abusato e usato a sproposito. Come vedremo più avanti, il grottesco non può essere considerato né un genere né tanto meno uno stile, quanto una vera e propria modalità di visione del mondo che cerca di riportare in superficie ciò che la censura nasconde a tutti i livelli, operando quella “restrizione dei possibili filmici che altro non è che il volto cinematografico del Verosimile”5 , così come lo intende Aristotele nella sua Poetica. Di conseguenza, la prima parte di questo studio verterà sul rapporto tra arte, realtà e verità e sui loro confini, che la visione grottesca tenta continuamente di spostare e modificare. La dialettica tra bello e brutto, con cui inizia il primo capitolo, dimostra come in un determinato periodo storico sia venuta meno la fiducia in una visione armoniosa e ordinata del mondo, che si reggeva sulla separazione tra sfera dell’arte e sfera della vita. Con il sublime la forza deformante della natura fa il suo ingresso nell’estetica romantica, ma esso non s’ingegna di degradare il bello coma fa la caricatura, bensì tenta di elevare ciò che è terrificante, nel tentativo di ristabilire quella gerarchia tra bello e brutto che soltanto con il grottesco, in quanto rovesciamento degli estremi, viene veramente meno. Nel secondo capitolo si tratterà di verificare proprio questa prerogativa dell’arte grottesca, con un excursus che va dalla letteratura al teatro, per arrivare infine, nel terzo capitolo, al cinema della commedia all’italiana, partendo dal presupposto che “non si può parlare del cinema politico italiano senza ripercorrere le sue connessioni con la tradizione del comico e della beffa, con l’arte di nascondere il desiderio dietro la maschera grottesca dell’etico e del politico”6 . Come già dimostrato da Maurizio Grande, i cui studi costituiscono un costante punto di riferimento per questo libro, nel passaggio dal tragico al comico – ovvero da un’età del dominio dei padri a una civiltà ordinata temporalmente, in cui si ha la definitiva 12

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spersonalizzazione del potere – fa la sua comparsa sulla scena il soggetto qualunque, scisso fra le proprie pulsioni e i modelli di comportamento codificati, e di conseguenza svincolato dal patto di “corrispondenza” tra stimolo e risposta. Da qui nasce quello che potremmo definire trattamento grottesco della realtà – tanto caro alla commedia all’italiana prima e al cosiddetto cinema politico poi – ovvero una sconfessione del realismo dell’azione che “si pone nella ritualità di un tempo ludico e ciclico (il carnevale) o nel senza-tempo di universi pulsionali e ferini”7 . Il grottesco dà vita a quelle che Deleuze definisce “immaginipulsione”, in cui degli “ambienti reali di attualizzazione (...) comunicano dal di dentro con mondi originari”8 . Si tratta di una sorta di naturalismo che trasfigura il realismo portandolo al suo grado estremo, e in cui il tempo viene compreso soltanto come “destino della pulsione e divenire del suo oggetto”9 . Sarà proprio al concetto d’immagine-pulsione che si riallaccerà anche l’ultimo capitolo, quello dedicato al cinema contemporaneo e in particolare a Ciprì e Maresco, che considero grandi costruttori di mondi originari e visionari di un’umanità ridotta allo stato ferino. I due autori palermitani si candidano come eredi di una tradizione che guarda a un autore come Marco Ferreri, ma filtrata attraverso il recupero di un immaginario televisivo ridotto ormai a brandelli, nel quale regna un soggetto qualunque sempre più autocentrato e recluso in una sorta di “immagine-mondo” che comprende tutto – il virtuale e il reale – senza metterne in relazione le parti. Attraverso un rovesciamento tipicamente grottesco, Ciprì e Maresco smascherano questa vita on demand, che diluisce il soggetto tra gli infiniti canali di un palinsesto perennemente in crescita, al quale si tiene legato grazie all’illusoria promessa di una ricompensa finale: l’apparizione in scena come risarcimento e ricomposizione delle innumerevoli e fittizie identità. Questo è il motivo che mi ha spinto a dedicare un ultimo paragrafo a un film come Il divo (2008) di Paolo Sorrentino, dove a essere in gioco è ancora una volta l’immagine del nostro paese e della sua politica; un’immagine che è il risultato di una complessa stratificazione visiva che pone al cinema un problema ormai ineludibile: quello della 13

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sua posizione, sempre meno centrale, rispetto agli altri canali che contribuiscono a fornire materiale al nostro immaginario. Elaborare un senso del politico oggi, sembra suggerirci Sorrentino, significa fare i conti con questo universo espanso di immagini e con i movimenti e le connessioni che vi si stabiliscono. Il cinema è chiamato a fare questo lavoro, se vuole infine restituirci anche una sola immagine originaria del nostro mondo. Un’immagine di rinascita oltre la sua morte sempre annunciata.

Note Maurizio Grande, «Critica per quale cinema», in Il cinema in profondità di campo (a cura di Roberto De Gaetano), Bulzoni, Roma, 2003, pp. 224-225. 2 Per un approfondimento sulla questione si veda Christian Uva, Impronte digitali. Il cinema e le sue immagini tra regime fotografico e tecnologia numerica, Bulzoni, Roma, 2009. 3 Sull’argomento si veda Marco Dinoi Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze, 2008. 4 In proposito si veda Gianni Canova L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano, 2000. 5 Chritian Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano, 1989 (I ed. 1972), p. 307. 6 Maurizio Grande, Eros e Politica, Protagon Editori Toscani, Siena, 1995, p. 13. 7 Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma, 1999, p. 14. 8 Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano, 1984, p. 148. 9 Ibid, p. 153. 1

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PARTE LA

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1. UN’ESTETICA DEL BRUTTO

È con l’affermarsi della distinzione tra bello e sublime, soprattutto in Burke e Kant, che concetti come disarmonico, sproporzionato, immenso, dissonante e conflittuale trovano un loro specifico campo di applicazione. Il primo a occuparsi del sublime è stato lo Pseudo Longino nel suo Perì hypsous, un trattato di retorica che si fa risalire alla seconda metà del secolo I d.C., in cui l’autore si riallaccia alla tradizione platonica per parlare del pathos, la passione che conduce all’ek-stasis, cioè l’andar fuori di sé e fuori di mente, lo slancio e l’elevazione dell’anima verso l’alto in comunione con il divino (hypsous significa ‘altezza’), la mania, la ‘follia’, della parola mistico-poetica che riconduce la disciplina retorica a quelle origini magiche e religiose cui attingevano direttamente i maestri di Verità1 .

Il sublime è dunque effetto di un evento istantaneo, che desta meraviglia proprio in virtù della sua insondabile sacralità originaria. È questo il concetto che Burke riprende nella sua Inchiesta sul Bello e il Sublime2 , quando indica come fonte di piacere quella situazione in cui si è superati dall’evento; un piacere che deve però restare indiretto, che non deve cioè arrivare a coinvolgere il soggetto fino al punto di annullarvelo. Questa precauzione ritorna anche in Kant3 , che del sublime afferma che suscita un piacere negativo in cui l’animo è alternativamente attratto e respinto dall’oggetto, da un piacere che nasce in seguito alla vittoria su un iniziale sentimento di paura e di smarrimento. Il sublime, al contrario del bello, indica un conflitto tra la ragione e l’immaginazione in cui i sensi fanno esperienza del loro limite e della loro finitezza. È quanto rimarca anche Schiller, che nel sublime vede quell’oggetto attraverso il quale “la nostra natura sensibile riconosce i propri limiti, mentre la nostra natura razionale avverte la propria superiorità, la propria libertà da ogni limite”4 . Si deve pertanto porre l’accento soprattutto sul carattere di illimitatezza che accompagna ogni definizione di sublime – associato in Kant allo scatenarsi incontrollabile degli elementi naturali – e che ci 17

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permette di riallacciarci al concetto d’informe, in quanto oggetto privo di forma. Se infatti il bello è storicamente accettato come vittoria dell’ordine e dell’armonia sul caos della vita, il brutto diviene conseguentemente il regno del disordine e della disarmonia. Da Schlegel5 in poi il brutto figura come elemento specifico dell’arte moderna, in quanto negazione del bello che contrasta con l’estetica classica. Sulla stessa linea è anche il pensiero di Hegel6 , che individua nel cristianesimo e nell’adorazione di un Dio sofferente l’origine del mondo moderno, in cui il brutto si lega al dolore cristiano e alle passioni che deformano il corpo e l’animo dell’uomo. Hegel pone al vertice della produzione artistica la commedia nella forma dello humor, anziché la tragedia, poiché nella sua lettura il riso avrebbe la funzione di riconciliare la corruzione del reale con il male e il brutto, di farci vedere cioè la disgregazione del mondo innalzandovisi sopra grazie al principio della “libertà soggettiva”. Ma è con Victor Hugo che l’estetica moderna cerca un nuovo senso, attraverso una riabilitazione delle “arti non più belle” che trasforma il non-essere del brutto in un essere che ha la stessa dignità del bello. Il cristianesimo conduce la poesia alla verità. Come lui, la Musa moderna vedrà le cose con uno sguardo più alto e più ampio. Essa sentirà che tutto nella creazione non è umanamente bello, che il brutto esiste a fianco del bello, il difforme vicino al grazioso, il grottesco come risvolto del sublime, il male assieme al bene, l’ombra assieme alla luce (...). La poesia compirà un grande passo in avanti, un passo decisivo, un passo che, simile ad una scossa di terremoto, cambierà l’intera faccia del mondo intellettuale. Si metterà a fare come la natura, a mescolare le sue creazioni, senza però confonderle, l’ombra con la luce, il grottesco con il sublime, il corpo con l’anima, la bestia con lo spirito”7 .

La stessa posizione è ripresa e portata alle estreme conseguenze da Adorno8 , in cui il brutto rappresenta quella negatività dialettica che l’arte moderna deve opporre al bello convenzionale, in modo da reintrodurre nell’ordine costituito quel caos che l’armonia classicista tende invece a eliminare. È su Rosenkranz che va però posta maggiore attenzione, poiché è il primo autore ad affrontare la categoria del brutto in maniera siste18

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matica9 . Nella sua teoria generale il brutto si situa tra il bello in sé e il comico – suddividendosi nel volgare, nel ripugnante e nella caricatura – mentre al vertice, proprio come in Hegel, si situa lo humor. In quest’ottica il brutto viene considerato da Rosenkranz come un pericolo che entra in relazione con il bello e ne minaccia costantemente l’ordine e l’armonia ma, riecheggiando ancora le posizioni di Hegel, la conflittualità tra bello e brutto su cui poggia l’estetica rosenkranziana non solo produce una lacerazione interna dell’unità, ma ritrova in essa anche l’energia per risolvere le scissioni. Anziché essere qualcosa d’inerte il brutto è piuttosto una potenza attiva, in divenire, che mette in risalto il bello sottomettendovisi. Che il brutto possa piacere sembra un controsenso, come se il malato o il male suscitassero piacere. Eppure è possibile, sia in modo sano sia in modo malato. In modo sano, quando il brutto si giustifica come necessità relativa nella totalità di un’opera d’arte e viene superato dall’effetto contrario del bello. Allora non è il brutto in quanto tale che determina il nostro piacere, ma è il bello che supera la sua negazione, la quale anch’essa si manifesta10 .

Il prezzo che il brutto deve pagare per restare a fianco del bello consiste quindi nella perdita della propria autonomia, che è anche subordinazione gerarchica. Per Rosenkranz il brutto esiste infatti solo in quanto conseguenza del bello, che ne costituisce sempre il “presupposto positivo”. Il bello, in quanto idea, è la perfezione che si contrappone alla relativa imperfezione del brutto, è l’espressione della totalità armonica di libertà naturale e spirituale. Permane quindi anche in questo sistema la suddivisione tra la coppia bello/bene, considerati come “assoluti”, e quella brutto/male, in quanto “relativi” che trovano nei primi la loro misura. Questa relatività verrebbe però smascherata dal comico, come conciliazione che annulla la negatività del brutto, poiché “nel comico è implicito il brutto come negazione del bello: una negazione che il comico a sua volta nega”11 . Ciò che qui preme rimarcare è l’interessante serie di condizioni che Rosenkranz elenca per completare il più esaurientemente possibile la sua definizione di brutto. Innanzitutto esso si caratterizza come assenza di forma laddove essa dovrebbe invece essere presente, op19

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pure come forma che ancora non si accorda però al concetto espresso dal contenuto. Da ciò ne consegue che l’unità di forma e contenuto, in quanto “correttezza” dei rapporti di misura che rispecchia la verità delle forme naturali, rientri nei domini del bello. Va da sé che la seconda caratteristica del brutto consiste dunque nella scorrettezza della forma, ovvero in una disarmonia e innaturalezza che riflettono esteriormente una deformazione interna. Essa consisterebbe in un principio d’illibertà – naturalmente contrapposto alla libertà caratteristica del bello – inteso come “mancanza di autodeterminazione o contraddizione tra autodeterminazione e necessità della natura di un soggetto (...) che poi come fenomeno diventa lo scorretto e l’infernale”12 . L’illibertà, intesa come finitezza, è perciò posta in contraddizione a una libertà la cui natura è invece in sé infinita. Rosenkranz utilizza qui l’esempio di un essere vivente nello stato di malattia, dalla quale è disturbato nella libertà di movimento e di sviluppo, che ne rivela una deformità e un imbruttimento esteriori come conseguenze di un primo logorio interno. È anche il caso dell’essere che si decompone, che dissolve cioè la propria forma sottomettendosi alle forze che da viva essa soggiogava. Arrivati a questo punto l’autore si inoltra nei territori del volgare e del ripugnante, in cui “la smoderatezza inverte il corso ordinato della natura e degrada la bocca ad ano”13 , ma è facendo un passo indietro, laddove l’apparenza della libertà risolve nel comico il brutto, che possiamo scoprire il procedimento della caricatura.

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2. LA CARICATURA

Con la fine del ’600 l’arte europea inizia a dare grande importanza, oltre che al dipinto inteso come sintesi conclusiva di un processo creativo, anche allo stadio dell’abbozzo, in cui prevale più la proiezione di un’immagine interna che non una prossimità al reale che ne determini il valore. L’abbozzo costituisce di conseguenza il primo passo verso una concezione di rappresentazione inverosimile, cioè sensibile alla presenza di forme non concluse o irriducibili ai canoni dell’estetica classica. Il termine caricatura, inventato dai fratelli Carracci (XVI-XVII sec.), deriva infatti dall’italiano caricare, esprime cioè un’esagerazione del caratteristico, ovvero di un elemento d’individualizzazione col quale si mira alla maggior somiglianza con la persona rappresentata, mentre per scherzo, e talora per dileggio, s’ingrandiscono e si accentuano fuor di ogni proporzione i difetti dei lineamenti copiati; cosicché il ritratto appare in complesso come il modello in persona, mentre le sue singole parti sono mutate (Baldinucci, 1681)14 .

La caricatura diventa perciò comica proprio perché, rimarcando uno squilibrio, finisce con il ricordare il suo contrario ideale. Si tratta più precisamente di una doppia “modalità sfigurante” della forma che, operando dinamicamente, ne coinvolge la totalità e riproduce una seconda variante di armonia gravitante attorno ad un “falso” centro. Questa modalità segue sia il principio di usurpazione – dove un fenomeno viene spinto verso una forma superiore a quella che gli spetterebbe per natura – sia quello di degradazione – in cui, al contrario, il fenomeno è collocato in una forma inferiore a quella naturale. La caricatura si rivela perciò principio adattissimo alla commedia, che “ama utilizzare il contrasto tra l’opinione che gli uomini hanno di sé e le loro reali caratteristiche e situazioni, perché attraverso la libertà che dà loro il non sapere come veramente appaiono rafforza lo stimolo del ridicolo”15 . In forza di questa sua capacità di riflettersi nell’immagine positiva che distorce, Rosenkranz intende la caricatura 21

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come stadio di passaggio dal brutto al bello, che finisce però col diventare grottesco quando esagera le proprie esagerazioni, come in Gargantua e Pantagruel di Rabelais o in molti personaggi di Shakespeare. Riferendosi allo studio già citato di Kris e Gombrich, Maurizio Grande parla invece della caricatura come di un procedimento che riesce a cogliere “di sorpresa” il soggetto, “in una sorta di inconciliabilità o contrasto o difformità deforme fra la soggettività che preme e patisce e l’io che si stringe (e si costringe) nella maschera, nel volto come tipizzazione del ruolo: il volto come immagine delle attese sociali agganciate a un ruolo”16 . Dunque la caricatura si pone come obiettivo anche quello di smascherare la persona attraverso una tecnica di degradazione che rivela lo smarrimento del soggetto e la sua perdita di supremazia: (...) il compito del ritrattista è quello di rivelare il carattere, l’essenza dell’uomo nel suo significato eroico; quello del caricaturista ne rappresenta la controparte naturale – rivelare l’uomo vero dietro la maschera della boria, manifestarne l’‘essenziale’ piccolezza e deformità. L’artista serio, stando ai principî accademici, crea la bellezza liberando la forma perfetta che la Natura ha cercato di esprimere nella materia resistente. Il caricaturista ricerca la perfetta deformità, egli indica in che modo si esprimerebbe l’anima nel corpo dell’uomo, se la materia fosse sufficientemente pieghevole agli intenti della Natura17 .

Il riferimento alla piccolezza e alla deformità ricorda i concetti di usurpazione e degradazione di cui parla Rosenkranz, in cui è la forma, ovvero il corpo, ad essere soggetto a tali dinamiche. Insieme alla maschera esso è infatti uno dei due poli fondamentali sui quali agisce il grottesco in quanto visione. Deformazione del corpo e alterazione del volto costituiscono l’effetto di uno stile realista spinto fino ai suoi gradi estremi, radicalizzato al punto da far coincidere realtà e irrealtà. Siamo molto lontani dal punto di vista espresso da Kant nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, in cui l’autore descrive il caricaturale come qualcosa di presunto sublime ma innaturale, soprattutto dal punto di vista morale. Diversa è invece la definizione datane da Dürrenmatt, che parla del grottesco come arte della precisione che “possiede la crudeltà dell’oggettività” e che “non è però l’arte dei nichilisti, ma piuttosto quella dei moralisti; non della 22

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muffa, ma del sale”18 . Questa contraddizione riporta in luce il problema della definibilità del grottesco, la cui caratteristica è proprio quella di fondere i contrari, non sempre in modo conciliatorio, e di trovarsi, proprio come la caricatura nella versione di Rosenkranz, perennemente catturato il tra comico e il tragico. A questo punto si tratterà dunque d’indagare con precisione la funzione estetica e sociale del riso, poiché, come ci indica Hegel, è attraverso il riso che si può accedere a quella “libertà soggettiva” che è essenziale per una definizione del comico, e di conseguenza per abbozzare una possibile teoria del grottesco.

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3. MECCANICA DEL RISO

Un importante tentativo di fare chiarezza sulle varie sfumature del comico è quello proposto da Mario Moretti che, partendo da presupposti tipicamente rabelaisiani, tenta di istituire una vera e propria anatomia del riso, in cui ne emerga via via il carattere dissacratorio, scandaloso e rigeneratore19. Il riso presuppone molto spesso un rapporto di superiorità nei confronti degli altri, che rivela al tempo stesso una difesa contro l’ansia e un mezzo per padroneggiarla. Come ci ricorda ancora una volta Kris, esso “rappresenta contemporaneamente l’aggressività e la seduzione, si associa alla nascita o alla rinascita e alla procreazione, è segno di una forza divina e quindi di un privilegio divino, ma anche della ribellione della stirpe umana”20. Henry Bergson21 pone invece l’accento sull’umanità del comico, poiché esso ha sempre per oggetto un’attitudine o un’espressione umana. Il filosofo francese ci ricorda anche che un’altra caratteristica del riso, apparentemente contraddittoria con la prima, è una necessaria insensibilità nemica dell’emozione che fa provare pietà per il soggetto deriso. È effettivamente ciò che intende anche Pirandello22 quando definisce il comico come avvertimento del contrario, che nell’umorismo si prolunga, passando attraverso la riflessione, in un sentimento del contrario che prima trasforma il riso iniziale in pietà, e infine in una perplessità nata dallo scarto tra ideale e reale. Il riso ha dunque bisogno dell’intelligenza, in particolare di quella collettiva, poiché non può essere gustato in una situazione d’isolamento. Il suo carattere è eminentemente sociale e presuppone un gruppo di persone che abbiano tra loro un’intesa, che possano cioè condividerne gli effetti. È essenziale poi che vi sia un’accidentalità del comico, una sua incoscienza rispondente a una rigidità di meccanismo che faccia apparire ridicola una certa azione. L’effetto comico risulterà inoltre rafforzato dalla natura della causa scatenante, alla quale possiamo risalire soltanto conoscendo l’origine della storia di cui si va parlando. Bergson fa una suddivisione tra lo spirito, vittima 24

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della rigidità di un’idea fissa (è il caso ad esempio di Don Chisciotte), e il carattere, che invece è piegato dal vizio. La differenza tra dramma e commedia sta tutta qua: che mentre il dramma s’identifica col nome proprio – in quanto incorpora vizi e passioni nelle persone – nella commedia il vizio mantiene sempre una sua indipendenza che lo erige a personaggio principale (si pensi alle tante commedie che portano un nome comune, dall’Avaro al Giocatore). La socialità del riso consiste proprio in una forma di difesa contro questa rigidità di carattere, che “è il segno possibile di una attività che si addormenta ed anche di una attività che si isola, che tende a scostarsi dal centro comune intorno a cui essa società gravita, di una eccentricità, infine”23. È a questo punto che il riso ritrova la caricatura come maschera, in quanto difformità contraffatta, irrigidimento della personalità in una data attitudine o del corpo in una certa smorfia. L’arte del caricaturista sta proprio nel cogliere e ingrandire questo movimento di deformazione, questa contrazione dell’essere su un’unica caratteristica. E ciò che vale per le forme, a maggior ragione vale per i gesti: alla rigidità del corpo si accompagnerà dunque la meccanicità dei movimenti, che si sovrappone così alla fluidità del vivente. Ne deriva che si può ridere di una cosa, moda o cerimoniale, anche quando questa diventa “inattuale”, cioè staccata dal divenire del tempo e ridotta a una forma che ne trascura la materia. Si tratta, per dirla con le parole dello stesso Bergson, del “corpo che prende il sopravvento sull’anima”, della “forma che vuole sorpassare la sostanza, la lettera che cerca di contrastare con lo spirito”24. Ma rimane ancora un aspetto da analizzare, che si associa direttamente all’idea di meccanismo: la ripetizione, che Bergson definisce come “un sentimento compresso che si ritira come una molla ed un’idea che si diverte a comprimere di nuovo il sentimento”25. Il filosofo francese ricorre a diverse metafore legate a commedie teatrali per rendere al meglio il concetto: da quella del “diavolo a molla” a quella del “fantoccio con le cordicelle”. In quest’ultima in particolare riaffiora l’immagine, tanto cara a Pirandello, del personaggio che s’illude di essere libero quando è invece un giocattolo caduto sotto il controllo di mani altrui. Un’altra metafora molto efficace è 25

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quella della “palla di neve”, in cui una causa inizialmente insignificante provoca una serie di effetti a catena che si propagano per mezzo di un meccanismo circolare, in cui “tutti gli sforzi del personaggio tendono, per un fatale ingranaggio di cause ed effetti, a ricondurlo puramente e semplicemente al punto d’origine”26. Questa contrapposizione tra meccanicità e vivente, tra l’ingranaggio e l’umano, viene ripresa anche da Gilles Deleuze nella sua analisi del burlesque cinematografico così come appare in Charlie Chaplin: si tratta della legge della “piccola differenza”, in cui “l’azione è filmata sotto l’angolo della sua più piccola differenza con un’altra azione, (...) ma svela così l’immensità della distanza tra due situazioni”27. I due diversi risultati portano così a due tipi opposti di società, “di cui una fa della piccola differenza tra gli uomini lo strumento di una distanza infinita di situazioni (tirannia), e l’altra farebbe della piccola differenza tra gli uomini la variabile di una grande situazione comune e comunitaria (Democrazia)”28. Ma sia in Chaplin che in Keaton, sia che ci si opponga o ci si allei con la macchina, la differenza passa sempre per un attrezzo o un elemento non funzionale ad un unico sistema. Il comico passa proprio da questa variazione che lo rende in ogni momento convertibile in tragico, poiché il ridicolo non cessa di passare da una presunta rigidità del personaggio ad una manifesta miopia dello spettatore (è ciò che avviene ogni volta che si rende manifesta l’opposizione tra le due situazioni). Ritroviamo quest’aspetto proprio in quelle che Bergson chiama distrazioni momentanee del linguaggio: nel calembourg, ad esempio, in cui “v’è un’unica frase che in apparenza presenta due significati; ma in realtà sono due le frasi diverse, composte di differenti parole, che si finge confondere fra loro perché dànno lo stesso suono”29. I procedimenti per creare questi effetti di linguaggio sono comunque i più svariati, e vanno dall’inversione e l’interferenza alla trasposizione, in cui l’espressione subisce un passaggio di tono che la sposta dall’idea peculiare cui apparteneva (in generale è ciò che si definisce come parodia, la quale sta tra i due estremi della degradazione e dell’esagerazione). In definitiva, possiamo concludere che le caratteristiche essenziali del carattere comico consistono per Bergson in una insociabilità del personaggio 26

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– derivata da un automatismo che lo irrigidisce sulle proprie distrazioni e sulle proprie ossessioni e che lo porta a trascurare ciò che lo circonda, la società appunto – e in una conseguente insensibilità dello spettatore – in quanto la rigidità è sospetta alla società, che attraverso il riso isola il pericolo e se ne difende. Ne deriva che ogni personaggio comico è un tipo, cioè un carattere che esprime qualcosa di generalizzabile (un concetto) fondandosi su una caratteristica individuale (il tratto). Se davvero “l’arte non ha altro obbietto che di scartare i simboli praticamente utili, le generalità convenzionalmente e socialmente accettate, infine tutto ciò che ci nasconde la realtà per metterci di fronte alla realtà stessa”30, la commedia come genere e la caricatura come procedimento si ritrovano allora ancora una volta laddove sia necessario squarciare il velo delle apparenze. Proprio come l’immagine di Oreste nella tragedia per marionette che assilla il signor Meis, dove nel buco apertosi nel cielo passa tutta la differenza tra la tragedia antica e la moderna, che è poi la materia del Fu Mattia Pascal di Pirandello. Anche il riso nasconde spesso una gran dose d’amarezza, quella che appunto ci rende coscienti di un cielo ormai incommensurabile per le nostre misere altezze. Poiché il riso grottesco non è affatto catartico, non ci libera dalle nostre angosce.

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4. TEORIA DEL GROTTESCO

L’apertura, insieme storica ed estetica, che ha dato al concetto di brutto la dignità di oggetto teorico, ha costituito il presupposto necessario alla comparsa di nuove tecniche di rappresentazione; prima fra tutte la caricatura, che mette in funzione gli stessi meccanismi psicologici che abbiamo riscontrato anche nelle tesi sul riso di Bergson. Riferendoci agli studi di Franca Beltrame, possiamo tentare a questo punto di abbozzare una possibile teoria del grottesco. L’autrice parte dal presupposto che non ci debba limitare a una “descrizione” del grottesco, così come farebbero autori quali Bachtin o Pinskij, ma che sia necessario studiarne più approfonditamente sia il carattere estetico che la tecnica artistica di “costruzione”. L’ipotesi iniziale del libro riprende un’intuizione di Pinskij secondo cui “il grottesco in arte è affine al paradosso in logica”31, poiché esso si pone in antitesi dialettica nei confronti dell’estetica classica e classicistica. Tale premessa serve da fondamento a un’idea di grottesco come fenomeno specificamente artistico, come visione della realtà che ne riscopre l’aspetto “dinamico” in opposizione a quello “statico” tipico delle teorie descrittive: “il grottesco non è un risultato ma un processo e dunque la realtà artistica grottesca è quella realtà che diventa grottesca”32. Il procedimento paradossale del grottesco consisterebbe, secondo l’autrice, in una visione dualistica del mondo che pone in rapporto dialettico ciò che è “reale” e “razionale” con la propria negazione, con ciò che è “irreale” e “irrazionale”33. L’arte grottesca va considerata infatti un fenomeno tipico della cultura europea, e più precisamente dei periodi di crisi del pensiero “logico” (le decorazioni murali della Domus aurea neroniana di cui parla Vitruvio risalgono ad esempio al declino della cultura ellenistico-romana, anche se è sempre presente ai margini della cultura ufficiale). Il grottesco possiede, proprio per il suo rapporto dualistico nei confronti del mondo, una struttura “ambivalente” che permette di individuare i tratti “effettivi” della realtà dietro ai tratti “arbitrari” con cui ci si presenta. Le norme estetiche che regolano questa forma di rappre28

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sentazione vengono perciò violate, o meglio violentate34, dal divenire della “realtà concreta” che si esprime nell’arte grottesca attraverso la deformazione e l’iperbolicità. In pratica il grottesco porta alle estreme conseguenze il processo di rovesciamento tipico del comico, per cui il valore delle figure classiche della retorica scolastica – come il sillogismo, la metafora, la similitudine o l’iperbole, che nella definizione datane da Cicerone servono a mediare l’astrazione razionale e l’uso empirico dell’esperienza – viene rovesciato per diventare strumento di derisione e di confronto paradossale. Questa “violenza estetica” è la caratteristica che per la Beltrame accomuna storicamente il grottesco a quella che abbiamo precedentemente definito estetica del Brutto: Nell’estetica classica/classicistica il Bello, che coincide con il Vero e il Bene, è razionalmente concepito come “ordine”, cioè misura, proporzione, simmetria, euritmia, armonia. Il grottesco, in quanto “estetica del Brutto”, è dunque un’estetica dialetticamente anticlassica/ anticlassicistica35.

Quest’arte inventa, proprio come già riscontrato in Dürrenmatt, una nuova moralità capace di svelare e criticare la falsità dei precedenti valori, quelli fondati cioè sulla “finzione originaria” che regge il concetto di verosimiglianza. La paradossalità del grottesco consiste proprio nel “mostrare per assurdo la realtà ‘naturale’ come deformazione della realtà concreta”36. Ciò avviene per mezzo di un procedimento che la Beltrame definisce della libertà soggettiva, ma che in pratica coincide con lo stesso principio che anima la caricatura, secondo il quale si concentra la visione su una parte specifica della realtà concreta, che, diventando il centro della rappresentazione artistica, modifica di conseguenza l’insieme. L’ambivalenza delle immagini grottesche è data proprio dalla compresenza del “vecchio” centro logico e del “nuovo” centro di trasformazione, da “entrambi i poli del cambiamento – il vecchio e il nuovo, ciò che muore e ciò che nasce, il principio e la fine della metamorfosi”37. Schematizzando, l’autrice ci suggerisce per comodità tre caratteristiche che contraddistinguono questa ri-figurazione della realtà per mezzo del grottesco: una fantastica, in cui l’iperbolizzazione suggeri29

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sce per assurdo la realtà “naturale” rispetto alla difettosità della realtà concreta; una simbolica, in cui la paradossalità costituisce la relazione tra il simbolo, cioè la realtà concreta deformata, e l’oggetto simbolizzato, ovvero la realtà “naturale”; infine una realistica, in cui “l’imitazione di ciò che è vero e naturale – la realtà ‘naturale’ – si realizza come iperbolizzazione di ciò che non è vero e non è naturale”38. La visione grottesca della realtà è dunque dialettica, sguardo “in profondità” che non copia la realtà “naturale”, ma bensì la riproduce come miraggio che deforma la realtà concreta da dentro. Possiamo infine concludere che con il grottesco l’autore maschera la realtà attraverso uno straniamento della propria funzione creativa, ovvero fingendo che sia la realtà concreta a deformarsi da sé. Infatti, la realtà artistica grottesca è, in un certo senso, come un segno, per cui vi si distingue: un significante, un mezzo formale, che è ciò che noi abbiamo chiamato téchné, la cui peculiarità – l’iperbolizzazione – è stata illustrata con la metafora della lente; ed un significato, un contenuto estetico, che è ciò che noi abbiamo chiamato epistéme, la cui peculiarità – la metaesteticità (ovvero l’estetizzazione della realtà concreta che allude all’esteticità della realtà “naturale”) – è stata illustrata con la metafora della maschera39 .

Attraverso questo sdoppiamento della visione artistica passa la funzione critica dell’autore, che provoca una “violenza estetica”, uno shock nello spettatore che è insieme attratto e respinto dalla realtà rappresentata. Ritorna qui il carattere fondamentalmente anticlassico e anticlassicista del grottesco. Infatti, se nell’estetica classica aristotelica il pubblico s’immedesima nella rappresentazione artistica, nell’estetica grottesca non vi può essere che “mimesi critica” fondata sullo straniamento dello spettatore. Si può quindi affermare che è in questa teatralizzazione della realtà che trova fondamento il concetto bachtiniano di “vita carnevalesca”, cioè di spettacolo “senza ribalta” che unisce e confonde esecutori e spettatori.

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Note Massimo Carboni, Il sublime è ora, Castelvecchi, Roma, 1998 (I ed. 1993), p.11. Edmund Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime (a cura di G.Sertoli e G.Miglietta), Aesthetica, Palermo, 1985. 3 Immanuel Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Rizzoli, Milano, 1989. 4 Friedrich Schiller, Del sublime, SE, Milano, 1989, p.14. 5 Friedrich Schlegel, Frammenti critici e poetici, Einaudi, Torino, 1998. 6 G.W.Friedrich Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, 1963. 7 Victor Hugo, «Préface de Cromwell», in Théatre complet, tome I, Paris, 1963, p. 416. 8 Theodor L.W.Adorno, Parva aesthetica, Feltrinelli, Milano, 1983. 9 Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, Aesthetica, Palermo, 1994. 10 Ibid, p. 76. 11 Ibid, p. 77. 12 Ibid, p. 82. 13 Ibid, p. 150. 14 Cit. in Ernst Kris e Ernst H.J.Gombrich, «I principi della caricatura», in Ricerche psicanalitiche sull’arte, Einaudi, Torino, 1967, p. 185. 15 Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, op. cit., p. 153. 16 Maurizio Grande, «Nuovi comici vecchie storie», in La commedia all’italiana (a cura di Orio Caldiron), Bulzoni, Roma, 2003, p. 175. 17 Ernst Kris e Ernst H.J.Gombrich, Ricerche psicanalitiche sull’arte, op. cit., p. 186. 18 Friedrich Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo, Einaudi, Torino, 1982, p. 54. 19 Mario Moretti, Anatomia del riso, Bulzoni, Roma, 2003, a cui rimandiamo per una più approfondita ripartizione dei diversi procedimenti comici. 20 Ernst Kris e Ernst H.J.Gombrich, Ricerche psicanalitiche sull’arte, op. cit., p. 232. 21 Henri Bergson, Il riso, Laterza, Bari, 1993. 22 Luigi Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano, 1992. 23 Henri Bergson, Il riso, op. cit., p. 14. 24 Ibid, p. 35. 25 Ibid, p. 49. 26 Ibid, p. 55. 27 Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, op. cit., p. 196. 28 Ibid, p. 199. 29 Henri Bergson, Il riso, op. cit., p. 78. 30 Ibid, p.102. 31 Franca Beltrame, Teoria del grottesco, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1996, p. 11. 32 Ibid, p. 14. 33 Ciò non significa però che si possa considerare come arte grottesca quella degli antichi miti come Polifemo o la Circe, poiché essi appartengono ad un periodo – quello del pensiero “prelogico” – in cui è naturale il mescolamento del piano “reale” con quello “irreale”. 34 Questa violenza sulle forme assomiglia molto al concetto di ebbrezza in Nietzsche. 1

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Simone Ghelli Si veda a tal proposito Pietro Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma, 2007, p. 56: L’artista è colui che fa violenza alle cose, sì, ma al fine di estrapolarne “i tratti capitali” e di metterli in forma. Lo stato di ebbrezza, dunque, è essenzialmente una forza creatrice di forme. (…) Lo stato di ebbrezza, esemplarmente esibito dall’attitudine ricettiva e formativa dell’artista, dalla sovrabbondanza del suo creare che è anche una sovrabbondanza nel ricevere, ci fa ri-trovare, ci ricolloca autenticamente in un “mondo capovolto”. 35 Franca Beltrame, Teoria del grottesco, op. cit., pp. 25-27. 36 Ibid, p. 38. 37 Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medioevale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1995, p. 30. 38 Franca Beltrame, Teoria del grottesco, op. cit., p. 50. 39 Ibid, p. 53.

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PARTE

SECONDA

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1. LA TRADIZIONE CARNEVALESCA

Lo studio di Bachtin1 su Rabelais è di estrema importanza nell’elaborazione di una teoria del grottesco, poiché prende in considerazione il corpo come campo d’investimento e il riso rigeneratore come processo che sovverte un ordine costituito. Si tratta di un legame facilmente spiegabile attraverso il detto comunemente accettato che “ridere fa bene”, come lo stesso Rabelais dà a intendere nel Prologo al suo Gargantua2 . Il carattere rigeneratore del riso emerge sintomaticamente nei vari motti tipicamente rabelaisiani, come “morire dal ridere” o “morte giocosa”, caratterizzati appunto da quella fusione tra vita e morte che è alla base della cultura carnevalesca, il cui effetto evidente sta in un ribaltamento dei valori, sia sociali che culturali. Bachtin riconduce infatti il grottesco alla tradizione del realismo comico popolare, alla sua dimensione antropologica fortemente connessa alle feste carnevalesche. Con Bachtin ci addentriamo dunque direttamente in quella che egli stesso definisce “imagerie grottesca”, ovvero una modalità specifica di costruzione delle immagini e delle figure. Esse si pongono fondamentalmente sotto il segno dell’ambiguità, in quanto alla forza di rigenerazione se ne accompagna anche una speculare di negazione. La visione grottesca del mondo innesca un processo di ribaltamento dei valori, una conversione delle forme “alte” – delle istituzioni e della cultura ufficiale come segni incisi nel tempo della Storia – nelle forze in divenire della Natura – quelle che per contrapposizione vengono definite forme “basse”: (...) il tratto caratteristico del realismo grottesco è l’abbassamento, cioè il trasferimento di tutto ciò che è alto, spirituale, ideale e astratto, sul piano materiale e corporeo, sul piano della terra e del corpo nella loro indissolubile unità3 .

Una delle caratteristiche più evidenti della cultura carnevalesca è infatti quella di cogliere l’immagine del corpo nel suo divenire, nelle sue deformazioni e metamorfosi che lo legano all’avvicendarsi natu35

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rale di vita e morte, a un’eccedenza irrealizzata di umanità al di là di ogni presunta stabilizzazione della vita. Quest’ultima deve essere invece espressione di un’affermazione delle forze a discapito di una cristallizzazione delle forme del mondo. Alla “distanza” storica tipica dell’epica4 , la cultura comica popolare risponde con un’aderenza alla realtà contemporanea e con un rifiuto della tradizione come “santificazione” della memoria. È sempre lo stesso Bachtin a sottolineare anche questo aspetto. La realtà contemporanea, il “basso” presente fluente e transeunte, quella “vita senza inizio e senza fine” è stata oggetto di raffigurazione soltanto nei generi letterari bassi. Ma prima di tutto essa era oggetto principale di raffigurazione nella sfera vastissima e ricchissima della creazione comica popolare5 .

La comicità ha dunque bisogno di una vicinanza con il proprio oggetto, in modo da distruggere il rispetto e la paura provati nei suoi confronti. Il riso della festa, con la sua ambiguità e la sua carica eversiva, è esattamente quel meccanismo che permette questa familiarizzazione con il mondo e la sua conseguente rigenerazione attraverso il ribaltamento dei valori e la critica delle strutture gerarchiche, e che contribuisce quindi ad aprire uno spazio alternativo a quello delle convenzioni. Al contrario del pianto, sempre simbolicamente “codificabile”, il riso ha infatti la capacità di essere perennemente destabilizzante e incontrollabile, in quanto non rimanda a dei motivi scatenanti individualizzabili. Il riso permette in pratica di aprire spazi irriducibili all’istanza comunicativa, un porsi fuori del soggetto dalla situazione pragmatico-conoscitiva che ne provoca una forma di riflessività (ancora una volta ritorna Pirandello con la sua definizione dell’umorismo). Anche se, in ultima analisi, il riso non è sempre gioioso sintomo di rigenerazione e affermazione della vita, così come se ne deduce dall’opera di Rabelais, poiché esso può anche trasformarsi in ghigno che denuncia una distanza da un reale divenuto estraneo al soggetto. Come vedremo in seguito, questa sarà la caratteristica del “grottesco nero” – sviluppatosi in epoca romantica e ripreso dalle forme di nichilismo novecentesco – in quanto figura in negativo del processo di rigenerazione messo in moto dalla festa carnevalesca. 36

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Per adesso ci basti sapere dell’esistenza di questi due poli, di cui diremo che il primo è di affermazione – della vita e delle sue forze – mentre il secondo è di negazione – del soggetto, attraverso la maschera. All’idea della festa come rito propiziatorio che invoca la rinascita oltre la morte è strettamente legato anche il mito di Dioniso, di cui è opportuno sottolineare alcuni aspetti. Il fenomeno del dionisismo riguarda il culto della violenza che distrugge – attraverso l’abbattimento dell’ordine e della legge, e dunque dei ruoli sociali – e della conseguente festa riparatrice. Essa “disumanizza” nel rito quella violenza originaria su cui si fonda la società e che risulterebbe intollerabile all’uomo se non venisse risolta nel sacrificio. Il mito di Dioniso dilaniato dai Titani testimonia infatti di una separazione tra il mondo degli dei e il mondo degli uomini, di un’umanità come scelta di individuazione nella totalità originaria indivisa, “che nasce da una pratica cannibalica, si fa cenere (avanzo e scoria del pasto rituale), e rinasce come molteplicità che accetta la divisione e le differenze”6 . Il dionisismo, in quanto dismisura che travalica i limiti di una natura formata, non può essere originariamente separato dall’apollineo, cioè dalla possibilità che si produca uno stile oltre la trasformazione – la messa in forma di un nuovo modello. Già con la nascita della tragedia, cioè con il processo operativo del pensiero che instaura l’ordine attraverso il sacrificio rituale, questi due momenti cominciano però a separarsi – in modo sempre più netto dal Medio Evo in poi, attraverso l’introduzione del concetto di colpa con cui si condanna il carattere ebbro della festa. Nelle feste dionisiache, infatti, la maschera posta sul volto serviva a impedire il contatto diretto con la potenza infernale, con il ritorno dei morti che scatenavano una reazione di terrore collettivo, ma la cui presenza garantiva il benessere agricolo e sociale (non va dimenticato che queste manifestazioni sono state riprese soprattutto dalle società contadine). Quando oggi parliamo di festa e di sacrificio, ci riferiamo a due termini dicotomizzati tra loro: la festa non conosce più l’essenza del sacrificio e il sacrificio non vive più la gioia della festa. Invece nel mondo dei misteri dionisiaci questa congiunzione era talmente intensa da non permettere la distinzione tra il rituale, e quindi ciò che di

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In pratica, mentre i dionisiarchi decidevano di separarsi volutamente dal mondo degli altri, nella nostra società – in cui si è affermato un “dionisimo diffuso” che prende il nome di edonismo, come “esposizione teatrale” del sé nella cura del proprio corpo – i diversi vengono coercitivamente confinati in un mondo diverso da quello dei “normali”. Le ideologie “progressiste” e modernizzatrici delle culture urbane hanno cioè assegnato ai singoli individui il compito di separare vita e morte, laddove vi era precedentemente un’elaborazione collettiva del lutto. Si tratta di un passaggio speculativo a quello che avviene tra il grottesco cosiddetto “gioioso”, che appartiene al momento rigeneratore del rituale festivo, e il grottesco “nero”, in cui la maschera separa definitivamente l’individuo (inteso come complesso di desideri e pulsioni) dal soggetto riconosciuto dalla società civile. Che cosa succede precisamente in questi due diversi stadi? Nella tradizione carnevalesca è preminente, come abbiamo già accennato, l’elemento corporeo, poiché l’abbassamento delle forme “alte” passa per un processo di trasformazione e metamorfosi che porta infine a una vera e propria perdita d’identità già data, sia psicologica che sociale. L’armonia posticcia del corpo si disfa a favore delle forze debordanti della vita, che lo attraversano e lo mettono in relazione con il mondo rendendone al tempo stesso indipendenti i singoli organi. Al corpo statico, senza movimento, si sostituisce quindi un corpo esagerato ed eccessivo, scomposto e disarticolato, che diventa immagine della disarmonia tra soggetto e mondo, della loro reciproca mescolanza. A essere evidenziate attraverso le protuberanze e le parti cave del corpo sono innanzitutto le funzioni biologiche e riproduttive del corpo, cioè quelle parti – organi genitali e orefizi – che attraverso un’irriducibile apertura lo reinseriscono nell’ordine del ciclo naturale. Insieme alla sua identità e alla sua compiutezza l’individuo perde conseguentemente anche la propria posizione sociale. La deformazione del corpo è sempre esposizione della natura della carne, della forza (anche deformante) della vita e della morte. È

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La tradizione grottesca nel cinema italiano nel corpo grasso, ma anche in quello troppo magro, che si smarrisce la linea, il profilo e il confine fra le parti del corpo e ne emerge la materia: l’adipe e le ossa8 .

In definitiva la cultura comica popolare e il funzionamento del riso operano sul corpo la stessa forma di abbassamento e di degradazione che la caricatura opera sul volto per mezzo della maschera. Essa, soprattutto nell’accezione della tradizione della commedia dell’arte, è indice di un puro composto di forze che appartiene a più storie che fanno capo a diversi destini, e rappresenta pertanto una possibilità di rinascita oltre la morte. Saranno i romantici, primo fra tutti Victor Hugo, ad allontanarsi dall’origine medievale e rinascimentale per sottolineare il carattere “moderno” del grottesco, in cui la forza rigeneratrice si trasforma in immobilità di un soggetto ormai prigioniero di un mondo irriconoscibile. Si tratta di una seconda fase in cui il grottesco si avvicina maggiormente alle forme del mostruoso e del raccapricciante, dove alla festa popolare succede un teatro individuale agito per mezzo di una maschera che dissimula. Il grottesco oscilla dunque tra la sfera comica e quella tragica, tra la caricatura che ci fa ridere di un individuo ormai isolato dalla comunità (Bergson) e la mostruosità di una società cannibale che divora i propri figli. Il grottesco, in rapporto a questi due metodi espressivi unitari e contraddittori (il comico e il patetico), realizza ciò che ciascuno dei due svolge con la rispettiva coppia di opposti: li unifica. Inoltre, a seconda dell’aspetto sul quale agisce, ne risultano due varianti, due sfumature del grottesco: l’unione formale dei due elementi (comico e patetico) senza il processo della conversione dell’uno nell’altro rappresenta il grottesco soprattutto nel suo aspetto comico; l’unione di comico e patetico non come meccanica compresenza, ma come conversione dell’uno nell’altro, ne determina l’aspetto fondamentale: il grottesco che, pur rimanendo comico, lascia trasparire il suo carattere più proprio: il raccapriccio9 .

Proprio come in Gogol’, autore amato e studiato anche da Mejerchol’d, è attraverso l’eccentricità che si spoglia la realtà della 39

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sua verosimiglianza esteriore, poiché è la realizzazione metaforica della struttura interiore dell’uomo – ottenuta sulla scena grazie ad una recitazione condizionata dalla natura convenzionale del teatro – a trasfigurarla. Questa idea di teatro, che rivela senz’altro le sue radici popolari (soprattutto nei frequenti richiami alla pantomima), permette di superare la figuratività nel senso di una metaforicità che esprime il passaggio ad una vera e propria “arte della sintesi” in cui, proprio come in Ejzenštein, comico e tragico si fondono insieme. Rimaniamo sempre nell’ambito della commedia, questo va benissimo, ma ci prepariamo alla tragedia, perché alla grande tragedia si può arrivare soltanto attraverso la commedia. È proprio con le nostre trovate sceniche che ci avviciniamo alla tragedia. Il grottesco è un particolare metodo di esegesi teatrale, che concilia in sé gli opposti (tragico e comico, buffo e disgustoso, genuino e convenzionale) e gioca con questa sua peculiarità10 .

È proprio sottolineando questi due aspetti, il comico ed il tragico, che si può parlare di un “grottesco gioioso” – quello bachtiniano, che nasce dalla forza rigeneratrice della festa carnevalesca, di cui conserva tutta l’ambiguità – e di un “grottesco nero” – quello di stampo romantico, che cristallizza nella forma più critica le proprie istanze di negazione11 .

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2. LO “HUMOUR” ROMANZESCO

Alla tradizione del comico carnevalesco non appartiene soltanto l’opera di Rabelais, ma essa è sicuramente fondamentale, grazie anche allo studio di Bachtin, poiché riunisce tutta una serie di tratti che si possono riscontrare anche in altri autori. I paragoni tra il mondo umano e quello animale – e non dimentichiamoci che la cultura dionisiaca pone l’umanità a metà strada tra gli dei e gli animali – hanno in realtà radici ben più antiche, che si possono far risalire alla Batracomiomachia degli omeridi e alle commedie di Aristofane, come Le Vespe e Le Rane. Nel campo delle arti figurative sono riscontrabili invece degli esempi già nella pittura murale pompeiana, e in seguito nelle figure grottesche che la scultura medievale collocava nelle chiese. In realtà l’elenco si allungherebbe a dismisura e si capisce subito il perché: la tendenza critica e visionaria riscontrabile nel grottesco non è mai venuta meno nel corso della storia dell’arte; si tratta semmai di riportarne alla luce quei momenti in cui essa ha dovuto subire una censura culturale che l’ha costretta a operare nell’ombra. Un altro problema fondamentale, cui abbiamo già accennato, è quello che riguarda l’assenza di una definizione forte che accomuni la serie di studi comparsi finora sul grottesco. Per questo motivo ho preferito soffermarmi ad analizzare quelle caratteristiche che mi sembrano essenziali al fine di evitare confusioni e invasioni di campo. Non sempre l’individuazione di uno dei tratti analizzati è sufficiente a definire un’opera come grottesca, laddove ad esempio un’estetica del brutto non si associ a una critica della realtà apparente. Questo c’insegna che una lettura retrospettiva è sempre pericolosa quando non si tenga conto delle coordinate culturali in cui una determinata opera va inserita: il discorso vale soprattutto per quelle epoche, come ad esempio il seicento, in cui la tendenza caricaturale e grottesca assume rilievi tali da trasformarsi sovente in una moda e in un puro, e talvolta inoffensivo, sfoggio di tecnica fine a se stessa, di effetti mirabolanti, che anziché alludere a una realtà “naturale” si richiudono in una visione ideale e spettacolare. 41

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Simone Ghelli Il modo ideale di trattare caricaturalmente il soggetto possiamo definirlo anche modo fantastico. L’assenza di misura nella esagerazione rende la caricatura fine a sé stessa e rappresenta il brutto ora come caso inoffensivo, ora come suprema necessità. La deformazione annulla sé stessa perché esce fuori dai limiti della comune realtà e tende a una libertà favolosa12 .

Il rapporto tra reale e ideale è fondamentale per capire la funzione critica – “moralista” direbbe Dürrenmatt – di una determinata tecnica artistica. Lo stesso parametro è usato da Mario Moretti per tracciare un confine tra humour e ironia, descritti come i due poli di uno stesso procedimento. L’humour si distingue dall’ironia, che ne è solo una componente. L’ironia descrive l’ideale fingendo di credere che sia il reale. (...) L’umorismo, invece, descrive il reale fingendo di credere che sia l’ideale13 .

Quando Pirandello definisce l’umorismo come sentimento del contrario – differente in ciò dal comico in senso lato, che si limita invece ad avvertire questo contrario contrapponendo esternamente due immagini – “riesce a creare una ‘proiezione’ dell’immagine fantastica, uno sdoppiamento come ‘ombra del corpo’ sino a scomporre il congegno dell’immagine per vedere com’è fatto”14 . Questo sentimento rifiuta gli ideali impostigli dalla società e tende a smascherare la giustizia e la morale, rivelandocele come prodotti ipocriti della convenienza. Contrariamente al grottesco, che ricerca la realtà “naturale” come ideale orizzonte della realtà “concreta”, bisogna notare che effettivamente l’umorismo si ferma spesso e sovente sul versante dell’ideale. Nello stesso Pirandello la critica della società come convenzione serve da presupposto per una teoria dell’arte che si contrappone all’esistenza: alla vita come mistificazione è preferibile la scena, mentre il personaggio è considerato più vero dell’uomo che finge d’essere come non è. Si può ben dire dunque che l’umorismo pirandelliano riversa il Teatro nella Vita, laddove il grottesco “teatralizza” la realtà per scoprirne la Natura e la Vita dietro il trucco posticcio. Al contrario, parlando del Don Chisciotte di Cervantes, Moretti intende invece il grottesco come una delle possibili forme in cui l’umo42

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rismo moderno può manifestarsi. Proprio come accade nell’Estetica del Brutto di Rosenkranz, esso risponderebbe quindi a un’estremizzazione del procedimento di degradazione della caricatura comica, che andrebbe di conseguenza a identificarsi con ogni forma di esagerazione. Si tratta di una considerazione già implicita nel breve paragrafo che Moretti dedica a Baudelaire, per il quale il grottesco è pura creazione. Il poeta francese aveva però non pochi motivi per considerare la visione grottesca come un punto di vista che domina il comico, inteso come imitazione, da un’altezza in proporzione. Le sue erano le ragioni comuni a tutti i romantici, per i quali l’aspetto creativo e fantastico doveva essere prioritario, e il cosiddetto “grottesco nero” – in cui eccelse come maestro Edgar Allan Poe – rappresentava l’apice di questa tendenza. Non è un caso che lo stesso Cervantes sia stato ripreso, proprio insieme ai romantici, dai surrealisti: fare a pezzi un mulino a vento credendolo un gigante ha certamente in sé quel qualcosa di lugubre e sanguinario che lo apparenta agli umori dell’humour noir. D’altro canto non si può neanche fare a meno di ritrovare – nel rovesciamento degli ideali cavallereschi e nella distruzione del pathos che da questo tipo di azioni deriverebbe – anche la tecnica tipica della caricatura, che porta l’autore del Don Chisciotte a criticare, nell’immagine dell’eroe cavaliere che si attiene a valori ormai scomparsi, l’inadeguatezza della società borghese del suo tempo. Come ci ricorda lo stesso Moretti, l’influenza rabelaisiana è indiscussa su tutta una serie di autori che, definibili o meno come “umoristi”, hanno senz’altro costruito alcune tra le più indimenticabili figure grottesche: dallo Swift de I viaggi di Gulliver al Cervantes di Don Chisciotte, passando per il Carroll di Alice nel paese delle meraviglie e lo Sterne di Vita e opinioni di Tristram Shandy. E poiché il gigantismo gulliveriano di Swift trova la sua matrice in quello gargantuesco di Rabelais, così come i mulini a vento-falsi giganti richiamano le mastodontiche figure dell’epopea rabelesiana, e poiché di rimpicciolimenti e ingrandimenti si tratta ad abundantiam nella meravigliosa Alice di Carroll, possiamo concludere che i tre prelati anglo-irlandesi assai poco attratti dalla vita spirituale ed il laico ma religiosissimo spagnolo debbano molto a quel prete-spretato, mai attraversato da crisi mistiche, che fu il francese Rabelais. Il che è un modo come un altro per ricondurre tutto al nostro, di mulino o, se

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Simone Ghelli si vuole, all’architettura anatomica della comicità corporale. Che in Sterne e nel suo grande romanzo appare spesso correlata ad un elemento dell’apparato riproduttivo, da cui provengono il timore di perdere la virilità e quel senso di impotenza che non sono tra le componenti minori dell’affresco sterniano15.

Che la corporalità e la deformazione siano gli elementi di fondamentale congiunzione tra l’umorismo e il grottesco è chiaro anche in un altro autore come Gogol’, il cui racconto intitolato Il Naso viene preso ad esempio da Franca Beltrame per esemplificare la sua teoria del grottesco16. L’autrice v’individua un chiaro esempio di “realismo grottesco”, in cui la crisi dell’estetica classicistica diventa, per mezzo di una polemica sempre più esplicita nei confronti del principio di verosimiglianza, addirittura oggetto di rappresentazione artistica, effetto di un meccanismo di riflessione che ci riporta così alla concezione pirandelliana dell’umorismo. Così come non si può tralasciare il nome di Luis Ferdinand Céline, dove all’imagerie grottesca legata alla deformazione del corpo e alla fuoriuscita dei suoi umori e rumori, si sovrappone anche un lavoro sulla lingua e sul ritmo, come in Casse-pipe, dove “il concertato narrativo si giuoca tutto sul registro dell’ingiuria, dell’ipertrofica aggressione verbale”, sì da scatenare “un inarrestabile delirio linguistico, irresistibilmente comico (…) tra gli accesi figuranti (…) che forse sono ancor più maschere linguistiche che non caratteri”17. Lo stile di Céline si configura come basso non solo perché legato al ritmo sincopato del parlato, ma anche per via della sua “grana linguistica”, che con le sue continue sospensioni e gli scatti d’ira perentori si configura come lingua “pastosa”, “materica”, che ci fa sentire fisicamente la saliva da cui prende vita per restituirci “un mondo basso degradato e di fango sui motivi della morte dell’uomo, della paura e della viltà”18, nel quale “un processo continuo di dialogizzazione investe i registri narrativi, fa scattare al loro interno la molla del grottesco, il senso comico dell’incongruo con le fantasmagorie e le invenzioni di una parola che si fa per se stessa teatro, solo che si presti orecchio alla malizia concertante della sua semantica a più voci”19.

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3. LE AVANGUARDIE E I “GROTTESCHI ITALIANI”

La formula “teatro grottesco”, mutuata dal Chiarelli e dalla sua La Maschera e il Volto non riguarda un movimento definito né tanto meno organizzato: ha, però, valore lontano nel tempo, nella storia della poesia e dell’arte drammatica italiana e richiama le ragioni più remote e presenti del nostro teatro, dall’antica espressione oraziana dell’Italicum acetum al comico-drammatico moderno20 .

Come ci ricorda giustamente Luigi Ferrante, etichettare il grottesco non ha senso poiché esso non è una formula, né tantomeno un “movimento organizzato”, ma semmai una certa tendenza che abbraccia trasversalmente molti secoli della storia dell’arte, in particolar modo di quella italiana. Quello dell’Italicum acetum è infatti un atteggiamento anti-eroico e anti-retorico, un modo tutto italiano di mescolare il pianto con il riso che rivela il fondo sempre tragico del comico. La nostra letteratura non è popolare nel senso che esprime una comunità del popolo con i suoi eroi, non possiede cioè quel carattere unitario che contraddistingue la forma epica, ma è sempre dissacrante, e perciò di matrice più teatrale che letteraria. Essa risale alla tradizione delle Atellane latine per poi proseguire, attraverso la “poesia realistica” e le farse rusticane e carnevalesche, in una tradizione istrionica che l’accompagna fino al novecento. È proprio in questa matrice popolare e anti-eroica dell’arte comica italiana che bisogna ricercare la “tradizione grottesca”. Si possono in questo senso individuare fondamentalmente due filoni: quello comico-popolare, che risale alla produzione novellistica del Boccaccio, e quello gotico, i cui apici vengono toccati dalla Divina Commedia di Dante: l’affermazione del principio corporeo-materiale che mette in questione la serietà dei valori costituiti (proprietà, religione, casta, sessualità) nel Decameron, e il mostruoso come forma del grottesco “infernale”, effetto del giudizio morale, nella Divina Commedia. Il realismo vitalistico e “immanente” di Boccaccio e quello moralistico e “trascendente” di Dante, ed entrambi contrapposti alla grande tradizione lirica del Canzoniere petrarchesco21 .

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Se lo stile del Boccaccio è caratterizzato da un “abbassamento” dello stile aulico alla sfera materiale e corporea, lo è anche grazie all’espediente della peste, che nel Decameron ha la stessa funzione liberatoria della festa, intesa come spazio e tempo dell’eccezionalità. Il contagio colpisce tutti, indifferentemente dal rango sociale o dalla ricchezza economica, provocando così due diverse reazioni: c’è chi preferisce vivere appartato dal mondo e al riparo dai vizi e chi invece ne approfitta per darsi al godimento sfrenato – la scelta morale non implica però una differenza di trattamento, poiché la morte coglie tutti quanti indifferentemente. È in questo tempo dell’attesa, in questo passaggio che prelude al ritorno alla vita, che ritroviamo il senso del raccontare che spinge la compagnia di giovani e giovincelle, ritrovatasi in un bellissimo palazzo di campagna, a novellare intorno al banchetto conviviale. E non è un caso che il narrare del Boccaccio ruoti sempre intorno alle immagini corporee più pregnanti: non soltanto il sesso che spesso disfa legami per crearne di nuovi, socialmente improponibili, ma anche il cibo come introiezione del mondo che il corpo espelle nelle sue zone “basse”. L’immagine del ventre è d’altronde connessa anche all’immagine dell’inferno dantesco, caratterizzato da un plurilinguismo che mescola i vari stili nell’arco di tutta la Divina Commedia. Ma è soprattutto nei gironi infernali che si trova tutto un campionario grottesco dei corpi agonizzanti, martoriati dalle pene che v’iscrivono direttamente la loro sentenza, immersi nella terra che li tortura con tutta la violenza della sua materia (le acque paludose per gli iracondi, la pioggia di fuoco per i violenti o lo sterco per gli adulatori). Anche considerata nel suo complesso, l’opera di Dante lascia emergere un aspetto moralistico – il giudizio espresso nella distribuzione gerarchica che divide l’alto dal basso, il movimento ascendente da quello discendente – che non è mai separato da un’ambiguità di fondo, che trova la sua espressione in uno stile che potremmo definire dialogico, nel senso che tende a contaminare continuamente la lingua ufficiale. Se insomma lo stile boccaccesco richiama senz’altro le immagini del Ruzante del Pulci e dell’opera del Berni, le cui radici risalgono alla poesia realistico-burlesca di Cecco Angiolieri, quello dantesco può far quantomeno pensare al “maccheronico” del Folengo o al “plurilinguismo” di Gadda. 46

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Questa tradizione popolare dell’arte italiana si caratterizza per il rapporto che lega in vario modo l’aspetto comico a quello drammatico – in modo più o meno “verosimile”, “fantastico”, “assurdo” – e che connette il carattere alla situazione. Carattere e situazione appaiono nel disegno grottesco strettamente connessi: se la sua chiave prediletta è umoristica, sarà il celare, nella comicità del carattere, un dramma, che permetterà di comprendere una situazione; oppure sarà il provocare, attraverso una situazione comica la scoperta o la confessione d’un dolore, a darci il profilo interno del carattere22.

È questo rapporto che si ritrova alla base della “commedia di carattere”, stilizzazione di un vizio o di un errore che fa di un personaggio la caricatura di un modo d’essere, sì da giudicare, attraverso un singolo difetto, l’assurdità di un’intera società. Inoltre, sempre secondo Ferrante, l’Italia del Cinquecento rivela un’ambiguità storica, in cui il comico di carattere si mescola con quello di situazione – e di conseguenza la tradizione colta con quella popolare –, simile a quella verificatasi dall’incontro tra la commedia greca della palliata e la tradizione latina. Il trapianto di una tradizione comica nell’altra non comportò, in entrambe i casi, una traduzione di un codice per mezzo di un altro, né tantomeno una riduzione o una semplice imitazione, bensì una continuazione nell’attualità della situazione storica. Sarebbe questo il fondamentale antefatto al grottesco: un teatro del gesto, dell’espressione gestuale del carattere, che mostra la stessa radice popolare e democratica dell’Italicum acetum. È in questa direzione che acquista importanza la riscoperta della tradizione della Commedia dell’Arte – più in Gozzi che in Goldoni, che cercò di togliere l’artificio per riformare la scena nel nome di un ritorno alla verosimiglianza. Nelle maschere della commedia dell’arte ogni morte si riconverte in rinascita, poiché esse si pongono come spazio “ulteriore” che si presta ad accogliere gli intrecci più vari, in cui il carattere definitivo della storia cade per lasciare spazio a una vitalità che minaccia le strutture sociali. Inoltre, le maschere della commedia dell’arte conservano, fin nella loro iconografia e nelle posture del corpo che le indossa, anche quella trivialità tipica della tradizione carnevalesca. 47

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Non è quindi un caso se sia proprio questa la tradizione che viene ripresa dal teatro d’avanguardia novecentesco, in cui si può riscontrare “una tendenza marionettistica alla concentrazione in poche e marcatissime smorfie d’una sognata quintessenza del comico e del tragico umano”23 . In Italia questo fenomeno ha riguardato soprattutto il futurismo e quegli autori che, sulla scia di Pirandello, portarono in scena i cosiddetti “grotteschi italiani”. Il primo esempio è senz’altro quello de La maschera e il volto (1916) di Luigi Chiarelli, dove dietro la parodia della coerenza si nasconde “la grottesca rivelazione d’una frattura, ormai insanabile, tra i principi e le azioni, i precetti d’una inesistente moralità e il comportamento morale, tra il diritto umano e la responsabilità”24. La condanna di questi atteggiamenti ridicoli, sempre meno astratta quanto più è riferibile ad una precisa situazione storica, fu portata avanti anche da altri autori – come il Luigi Antonelli de L’uomo che incontrò sé stesso (1918) e L’isola delle scimmie (1918), o l’Enrico Cavacchioli de L’uccello del paradiso (1919) e La danza sul ventre (1921) – che però tendevano troppo spesso a schematizzare il confronto tra una meccanicizzazione del destino e una perdita dell’istintività da parte dell’uomo. Fu piuttosto Petrolini a raccogliere nuovamente la grande lezione antiretorica e antieroica del teatro comico, nonché l’influenza di un montaggio cinematografico che già si poteva presagire nell’Alfred Jarry dell’Ubu Roi (1896) o nella concezione del Teatro di Varietà così come appare nel Manifesto futurista del 1913. In Petrolini il grottesco dilata i confini della scena ai limiti dell’assurdo e dell’inverosimile, moltiplica i contrasti e ritrova “la parola come sintesi sonora, sinfonia poliespressiva ma stridente, espressiva non descrittiva e il corpo umano come corpo meccanico capace di produrre suoni analoghi a quelli della macchina, di mimarne il ritmo, di nascondere i connotati umani del volto”25 . Quella di Petrolini è insomma un’arte che rovescia quella del “grande attore” di tradizione grazie a un’andatura prossima alla moderna marionetta di Gordon Craig o Mejerchol’d, attraverso un antiverismo che carica il volto per mezzo di una maschera che ne esalta i difetti, 48

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che esibisce la voce e i gesti svincolandoli dalla coordinazione corporea. È un’arte che parla dell’alienazione e della frantumazione del soggetto moderno, la cui lezione sarà accolta appieno dal geniale Totò. Questo breve elenco non può però terminare prima di aver ricordato anche Rosso di San Secondo, drammaturgo sensibile all’uso dell’iperbole grottesca, che oscilla costantemente tra “dannunzianesimo” e “pirandellismo”. Il suo testo più importante resta senz’altro quel Marionette che passione! (1918), in cui le iniziali “Avvertenze per gli attori” sembrano un compendio perfetto del sentimento del tragico che attraversa tutto il teatro comico italiano del primo novecento e che molto deve all’umorismo pirandelliano: Tengano presente gli attori che questa è una commedia di pause disperate. Le parole che vi si dicono celano sempre una esasperazione che non può essere resa se non in sapienti silenzi. L’arbitrario, inoltre, che può parere vi sia nella commedia, risultando dal tormento in cui si macerano i personaggi, non deve dar luogo al comico, bensì a un sentimento di tragico umorismo. Pur soffrendo, infatti, pene profondamente umane, i tre protagonisti del dramma, specialmente, sono come marionette, e il loro filo è la passione. Son tuttavia uomini: uomini, ridotti marionette. E, dunque, profondamente pietosi!26

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Note Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, op. cit., Einaudi, Torino, 1995. 2 La funzione fisiologica del riso è oltretutto scientificamente testata, poiché esso contribuisce alla produzione degli anticorpi utili a distruggere gli antigeni, proteine estranee che iniettano malumori e depressioni nel corpo. 3 Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, op. cit, p. 25. 4 Per quanto riguarda una visione alternativa dell’epica rimando al recente saggio di Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro (Einaudi, Torino, 2009), dove l’epica si configura come “eccentrica”, come iperbole che produce attrito tra il familiare e l’estraneo, in quanto caratterizzata da una proliferazione di “sguardi obliqui” che indicano un’ineludibile presa di posizione etica sui fatti del mondo, e dove l’allegoria riveste un ruolo analogo a quello del principio di smascheramento che abbiamo visto all’opera nel grottesco: “il livello allegorico profondo è quello che ‘rinviene’ (riprende i sensi) nell’opera quando provo la sensazione che essa, parlandomi di un mondo e di un tempo altri, stia in realtà parlando del mondo e del tempo in cui vivo” (p. 97). 5 Michail Bachtin, «Epos e Romanzo», in György Lukács e Michail Bachtin, Problemi di teoria del romanzo, Einaudi, Torino, 1976, p. 200. 6 Maurizio Grande, «L’umanità. Una specie titanica», in Studi sul dionisismo (a cura di Maurizio Grande), Bulzoni, Roma, 1988, p. 17. 7 Achille Mango, «Il dionisismo nel mondo contemporaneo», in Studi sul dionisismo, op.cit., p. 82. 8 Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera, op. cit., p. 12. Sul captare le forze e sulla Figura come esorcizzazione del carattere figurativo, illustrativo e narrativo si veda anche Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 1995. 9 Sergey M.Ejzenštein, Stili di regia, Marsilio, Venezia, 1993, p. 13. 10 Vsevolod Mejerchol’d, L’attore biomeccanico, a cura di Fausto Malcovati, Ubulibri, Milano, 1993, p. 49. 11 Sugli autori del cinema italiano nei cui film ricorrono tematiche legate alla compresenza di un “grottesco gioioso” e di un “grottesco nero”, si veda Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera, op. cit. 12 Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, op. cit., p. 305. 13 Mario Moretti, Anatomia del riso, op. cit., p. 31. 14 Luigi Ferrante, Teatro Italiano Grottesco, Cappelli, Milano, 1964, p. 66. 15 Mario Moretti, Anatomia del riso, op. cit., pp. 129-130. 16 Franca Beltrame, Teoria del grottesco, op. cit., pp. 75-126. 17 Giuseppe Guglielmi, «Introduzione», in Luis Ferdinand Céline, Casse-Pipe, Einaudi, Torino, 1995, p. XXVIII. 18 Ibid, p. XXIV. 19 Ibid, p. XXVIII. 20 Luigi Ferrante, Teatro Italiano Grottesco, op. cit., p. 7.

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La tradizione grottesca nel cinema italiano Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera, op. cit., p. 19. Luigi Ferrante, Teatro Italiano Grottesco, op. cit., pp. 17-18. 23 Ibid, p. 39. 24 Ibid, p. 41. 25 Franca Angelini, Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Laterza, Roma/Bari, 1993, p. 100. Si rimanda alla lettura di questo testo per un approfondimento sull’importanza della figura della marionetta nel teatro d’avanguardia. 26 Rosso di San Secondo, Marionette che passione!, Sergio Ghisoni Editore, Milano, 1972, p. 16. 21

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1. LO SPAZIO DEL “REALE” NEL CINEMA

In questa seconda parte vedremo più da vicino come la “tradizione grottesca” della comicità italiana abbia influenzato il nostro cinema dal dopoguerra in poi, a cominciare dal genere “popolare” per eccellenza, ovvero la commedia all’italiana. Un primo fondamentale nodo da dirimere riguarda senz’altro l’indissolubile e ambiguo legame tra l’immagine cinematografica e ciò che comunemente definiamo realtà, dato che è proprio l’idea comune che abbiamo di quest’ultima che il grottesco tende a ribaltare. Il cinema, a causa del suo forte carattere connotativo, intesse con la materia della realtà un rapporto molto più stretto rispetto agli altri media, perciò rappresenta un luogo privilegiato per osservare in che modo l’arte possa lavorare per modificare la percezione comune che abbiamo di essa. Con il termine realtà intendo un costrutto di ordine culturale, che di una cultura delinea l’orizzonte semiotico, e non semplicemente una “polvere quotidiana di fatti che si possa accogliere nel cinema senza mediazioni linguistiche e senza organizzazione dei materiali nei codici posti a fondamento delle realizzazioni testuali”1 . Il realismo comunemente inteso è dunque un fatto culturale ancor prima che estetico: nel cinema è cioè in gioco il rapporto, temporalmente mutabile, tra l’immagine e ciò che nel proprio spazio essa è disposta ad accogliere di quella che comunemente definiamo realtà. Questo rapporto può riguardare sia motivi di ordine formale (come l’organizzazione dello spazio filmico o la scelta dei costumi) che contenutistico (ovvero il riconoscimento di temi e motivi d’interesse “popolare”). Come ho già accennato, al cinema la “questione del realismo” è però ulteriormente complicata dal carattere indexicale dell’immagine, cioè della sua congiunzione analogica alla cosa riprodotta. Il meccanismo di riproduzione analogica tende cioè a ingannare lo spettatore, che può finire col perdere il carattere “misto” dell’immagine cinematografica, che si caratterizza anche per la sua iconicità 2 . 55

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Inganno e perdita: ecco i due termini su cui si fonda, come ogni altra convenzione, il concetto di realismo. Esso non è altro che una costruzione stilistica obbediente a determinati codici di composizione e di scrittura, ma la sua testualizzazione non coincide necessariamente con questi canoni, poiché in ultima analisi è sempre la cultura a stabilire le coordinate di costruzione del reale. E quanto ‘passa’ nell’immagine senza che si veda sulla sua superficie è proprio una maniera peculiare di manipolare le cose, di organizzare i dati reali in vista della significazione; una attività semiotica di trasformazione del reale-naturale e del reale-sociale in un costrutto iconico che si presenta al tempo stesso contiguo e speculare nei confronti dei dati sensibili del mondo fisico e nei confronti del ‘senso comune del reale’ su quelli ritagliato3.

L’inganno è dunque doppio, poiché realismo e reale non sono affatto la stessa cosa, essendo il primo “un fatto testuale ‘contenuto’ nei codici di scrittura e di composizione e produzione dei testi e dei ‘generi’”, e il secondo “un fatto culturale, un costrutto del linguaggio, una dimensione affidata al campo della semiosi in quanto elaborazione di uno spazio socio-culturale rappresentabile e comunicabile”4. Il circuito tra realtà e sua riproduzione si presenta perciò a doppio senso: da una parte la realtà tende ad appiattire l’immagine in un suo riflesso opaco, dall’altra l’immagine cerca di forzare i limiti della realtà e di rifigurarla esteticamente (è il concetto di fotogenia come l’intende Edgar Morin, in quanto “accrescimento” e “maggiorazione” delle qualità fisiche del reale5). Anche André Bazin – il cui punto di vista “idealistico” sul cinema è stato troppo spesso travisato e criticato – riprende questo concetto quando parla del neorealismo italiano, che ha avuto il merito di dimostrare “che non c’è stato ‘realismo’ in arte che non fosse prima di tutto profondamente ‘estetico’”6. È dunque il problema della rappresentazione del reale quello che ci riguarda più da vicino, della sua messa in scena problematica che, incontrandosi con i fatti, del reale trattiene tutta l’ambiguità. È merito soprattutto del neorealismo italiano l’aver riproposto la questione in questi termini, soprattutto grazie ad una serie di violazioni delle convenzioni estetiche – dal suono in presa diretta all’uso di attori 56

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spesso non professionisti – nel nome di una sorta di adesione alla realtà divenuta poi una nuova convenzione, ancor più forte se si vuole, visto che ancora oggi il neorealismo appare come il mitico luogo originario della fondazione del cinema italiano, la pietra di paragone su cui la critica immola costantemente la produzione attuale (non è un caso che il peggior cinema sia spesso proprio quello che cerca di scimmiottare il passato per darsi una spazzolata d’importanza). Nella sua riflessione Bazin non si riferisce tanto a questi aspetti, per così dire tecnici, quanto alla resa di un’atmosfera che diventa il vero soggetto della visione, dove i personaggi trasformati in automi si lasciano portare a zonzo in una realtà dispersiva e lacunare, dove la ricerca diviene casuale quanto l’apparente insignificanza di avvenimenti che non si concatenano più tra loro7. Ecco che il realismo, elevandosi al suo grado estremo, si apre a un nuovo ordine mentale e materiale: quello delle situazioni ottico e sonore pure in cui il cinema diviene veggenza, in cui non si può più discernere tra reale e immaginario, poiché “lo sguardo immaginario fa del reale qualcosa d’immaginario mentre diventa contemporaneamente reale a sua volta e ci restituisce realtà”8. Maurizio Grande parte proprio dal ruolo svolto dal neorealismo, che in un certo senso ha comportato anche “la riduzione del cinematografico al reale e l’espansione del reale nel cinematografico”9, per operare una “ricollocazione” critica del cinema degli anni trenta e quaranta. È il caso ad esempio della “scena bianca” italiana degli anni trenta, in cui il “campo del reale” diviene “un ‘campo dell’esistenza’ delimitato dalla fantasticheria sociale del ‘meraviglioso’ esangue e sognante; fino alla spolveratura di un immaginario allucinato che vezzeggia una sorta di controrealtà aperta di fianco alla vita quotidiana (ciò che, banalmente, prende il nome di ‘evasione’)”10. La realtà, intesa come riproduzione analogica, in queste opere diventa uno spazio inquietante, tutto contratto nella messa in scena di testi “nonrealistici”. Per quanto si cerchi di tenere fuori il reale – inteso come dimensione comune della quotidianità – esso finisce dunque col rimanere sempre implicato nel testo, in quanto spazio possibile del senso. 57

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La commedia italiana degli anni trenta è esemplare proprio perché il “campo del reale coincide con la scena desiderata fatta spettacolo realizzato”11: una commedia che è prima di tutto ideologica, poiché riduce il mondo alla sua spettacolarità scenica. Da un punto di vista ideologico è Comolli a fornirci una definizione di rappresentazione che può tornarci utile: (...) una società non è altro che il suo cammino verso la rappresentazione. (...) Così la variazione storica delle tecniche cinematografiche, la loro apparizione-sparizione, le loro fasi di convergenza, i loro cicli e i loro modi di predominio o declino, non mi sembra che vadano rapportati a un ordine razionale-lineare della perfettibilità tecnologica o a una istanza autonoma del “progresso” scientifico, ma piuttosto agli sfasamenti, agli aggiustamenti e alle sistemazioni che una configurazione sociale attua per rappresentarsi, cioè allo stesso tempo per padroneggiarsi, identificarsi e prodursi essa stessa nella sua rappresentazione12 .

Per conludere questa breve parentesi, ci basti qui ricordare in che cosa consista il verosimile, che Aristotele identificava con i possibili accettati dall’opinione comune – che naturalmente non esauriscono però tutto l’arco dei possibili. Così, il Verosimile è sin dall’inizio riduzione del possibile, rappresenta una restrizione culturale ed arbitraria fra i possibili reali, è immediatamente censura: fra tutti i possibili della finzione figurativa, “passeranno” soltanto quelli autorizzati da discorsi precedenti13 .

Seguendo il filo di questo ragionamento devieremmo però il nostro percorso verso un approccio sociologico al cinema che non rientra tra gli scopi di questo lavoro14 . Ciò che interessa in definitiva in questa sede non sono tanto i “codici di verosimiglianza e plausibilità ‘autorizzati’ dalla stretta vicinanza o contiguità socio-culturale fra il pubblico e la finzione testuale”15 , bensì proprio la capacità tutta iconica del reale di straripare dai propri contorni, di caricarsi di una tensione allucinatoria che oltrepassi la semplice rappresentazione attraverso la stilizzazione del visibile. A interessare devono essere in definitiva i risultati a cui porta un grado estremo di realismo, precedentemente definito come grottesco, 58

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e in che modo anch’esso possa contribuire alla definizione variabile dello “spazio reale”. In altri termini, la domanda che rimane in sospeso è quella concernente la possibilità, soprattutto nell’era della televisione e del digitale, che il cinema ha di mantenere uno scarto rispetto al dilagare dell’immagine nella realtà; poiché il rapporto sembra oggi definitivamente ribaltato, ma questo è un problema di cui mi occuperò più avanti.

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2. DALLA TRAGEDIA ALLA COMMEDIA

“Il grottesco non è un genere né uno stile. È, in primo luogo, una visione del mondo”16 . Come detto in precedenza, il grottesco presuppone uno specifico punto di vista che è anche un atto morale e che in un certo senso “corrompe” lo stile realista dal suo interno. Si tratta di una particolare forma di visione che nasce dal comico, inteso come modalità di istituzione di una società rappresentata: comico e tragico trascendono in questo senso i loro rispettivi “generi”, la commedia e la tragedia, per delinearsi come forme di narrazioni costitutive dei rapporti fra individuo e ambiente, sia naturale che sociale. La tragedia tratta fondamentalmente dell’espulsione dell’eroe fondatore – il responsabile della “colpa originaria”, del sangue mitico che fonda la Legge – dalla società. Questa estromissione provoca anche la scissione tra scena e pubblico, poiché, una volta liberatosene, le vicende dell’eroe non riguardano più questa stessa società, ma vengono consegnate ad una memoria mitica, a-temporale, in cui ciò che è accaduto una volta è per sempre. L’individuo da espellere impersona dunque la colpa, la personalizza, a cominciare da quella più grande: l’atto arbitrario che consiste nel dissociarsi dalla vita naturale e animale, con il passaggio da un universo fisiologico a quello simbolico istituito dal linguaggio. Con l’esclusione dell’eroe si esorcizza “l’eventualità che tutto ciò possa ripetersi in quella forma nella ‘vita qualunque’ di un membro della collettività”17. Conoscendone già l’antefatto, il pubblico della tragedia può infatti concentrarsi esclusivamente sul modo in cui essa viene elaborata. Il teatro può così ripetere le forme rituali del tragico grazie alla rappresentazione di una memoria immutabile (la rovina, il sangue, i lutti), la cui valenza è simbolica e metaforica proprio perché si tratta di fatti ormai definitivamente compiuti18. Se la tragedia, con l’esclusione dell’eroe, rappresenta in definitiva il passaggio da un’età del dominio dei padri a una civiltà ordinata temporalmente (cioè storicamente determinata), con il comico si ha la definitiva spersonalizzazione del potere. 60

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La tradizione grottesca nel cinema italiano Il tramonto del tragico segna pertanto l’aurora della modernità, intesa come era della società storica (...) D’ora in avanti, la responsabilità sarebbe divenuta storica e sociale, legata ai tempi e alla produzione di società come compito umano indiviso19 .

Al contrario della tragedia, che rappresenta una società con un di più situato sopra la propria testa (qualcosa a lei estraneo ma che influiva sui propri eventi), il comico opera dal basso, si ramifica nel quotidiano grazie a un moto continuo senza inizio né fine che sfugge alle maglie del tempo significativo20 . Maurizio Grande definisce in questo modo il comico come istituzione del soggetto qualunque dedito all’anonimato, grazie al quale accediamo a un universo “basso-mimetico” in cui i personaggi si presentano come uguali o addirittura inferiori al pubblico che li osserva21. Va evidenziato in questo caso il richiamo a quella distruzione della “distanza epica” che abbiamo già ritrovato in Bachtin22 , ma anche la centralità del riso, poiché della vita qualunque è più facile ridere che piangere. Il riso apre continuamente nuove prospettive fondate sull’imprevedibilità delle situazioni e “svincola il soggetto dal patto della ‘corrispondenza’ fra stimolo e risposta”23 e questa, come vedremo in seguito, sarà proprio una delle caratteristiche “moderne” della commedia all’italiana, in quanto rappresentazione dello scarto tra le norme codificate della società e le pulsioni individuali. Al contrario della tragedia, che si può definire cronica per il suo legarsi ad avvenimenti ormai accaduti e irripetibili, la commedia è dunque acronica. Essa ci parla sempre dell’ingresso dell’individuo nella società, del suo adattamento a modelli di vita sbandierati e mai realmente realizzati; in definitiva, dei “meccanismi di integrazione e rigetto che regolano senza soluzione di continuità le posizioni del soggetto nei confronti della società”24 . La commedia rappresenta dunque le traiettorie rocambolesche delle trasformazioni del soggetto costretto in continuazione ad aggiustare le proprie mire, a trasformare le proprie pulsioni in desideri realizzabili. Laddove la forma tragica registrava l’esclusione dell’eroe in quanto detentore della colpa originaria, la forma comica della commedia sancisce invece un’appartenenza del soggetto qualunque a norme precostituite, estranee al suo universo pulsionale. Aderendo al principio di rappresentan61

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za, indossando cioè quella maschera sociale che lo rende simile agli altri, il soggetto si trasforma in io sottomesso al principio di prestazione. Grazie a tale principio, che regola l’efficienza del singolo rispetto ai parametri stabiliti dalla società, la società può così introiettare il maggior numero di soggetti possibili, più spesso riconciliati o convertiti che semplicemente ripudiati25. Come sottolinea Bachtin, questa inadeguatezza del personaggio moderno al suo destino e alla sua posizione è anche uno dei temi principali del romanzo, in cui “l’uomo o è più grande del suo destino o è più piccolo della sua umanità”26 . Se quest’adesione del soggetto alla norma costituisce l’intreccio della commedia, si può affermare che il suo tema sia invece costituito dai tentativi di composizione tra le pulsioni del soggetto e la Legge27 .

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3. UNA COMMEDIA TUTTA ITALIANA

Parlandoci di un’impossibile conciliazione tra il soggetto e la Legge, la commedia si presta facilmente al principio della caricatura, poiché instaura la rilevanza del tipico nella società dell’anonimato. Essa richiama atteggiamenti peculiari alla maggioranza degli individui e ne sintetizza il carattere in un vizio o in una qualità ingombrante, facendo così scattare quel meccanismo proprio al riso sottolineato dal saggio di Bergson. Questa capacità di rappresentare dei tipi, in quanto calchi che comprimono delle singolarità umane, è stata la caratteristica principale di quella che viene comunemente definita “commedia all’italiana” – termine usato originariamente per il film Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi ed esteso in seguito a tutta una serie di film comparsi in Italia tra gli anni cinquanta e sessanta. Essa è stata infatti capace di contenere situazioni e personaggi tipici di un certo clima morale della nostra società del dopoguerra; una società avviata verso la propria ricostruzione, che dell’uomo “medio” – in quanto rappresentante dei nuovi ceti nascenti, riflesso en abîme dalla costruzione di uno spettacolo “medio” che sapesse riunire le esigenze degli intellettuali e del grosso pubblico – ha fatto l’eroe della propria epopea. L’origine e l’impiego del termine sono, ad ogni modo, spregiativi, e, proprio sulla falsariga tematica di Divorzio all’italiana, stanno ad indicare una specificità tutta “negativa” della vita sociale e una modalità “ambigua” del rappresentare sullo schermo quel vivere, per un sospetto strisciante o dichiarato di una adesione compiaciuta (o quanto meno acritica) a quel modo di vivere e di spettacolare il quotidiano28 .

Il termine si riferisce dunque in primo luogo a una modalità tutta “italiana” di affrontare i problemi, cioè secondo un’impronta culturale medio-bassa – la cosiddetta “arte dell’arrangiarsi”, concezione di uno stile di vita in cui ognuno è portato a occuparsi soltanto degli affari propri – che ben rappresenta l’intramontabile scollamento storico fra individuo e società che caratterizza il nostro paese. L’accezione 63

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“negativa” è però un prodotto del paragone col neorealismo avanzato dalla critica dell’epoca, secondo cui i film appartenenti al genere avrebbero tradito la carica etica e umana, che caratterizzava la precedente produzione cinematografica, in nome di un’esaltazione acritica di questo modo di “vivere alla giornata” – eppure, come vedremo più avanti, un buona parte del cinema politico degli anni settanta (quello meno utopico e più spesso legato all’etica nichilista della rinuncia) è più vicino alla commedia di quanto non lo sia al neorealismo. La forza della “società della commedia” deriva dal suo porsi al tempo stesso come fonte e destinazione sociale delle proprie rappresentazioni, dunque insieme destinatore e destinatario, in funzione di un coinvolgimento totale del pubblico che diviene oggetto implicito delle tematiche della commedia, la cui destinazione è esplicitamente dichiarata 29 . L’effetto di questa contiguità è la relativa incompiutezza del genere, “costretto” a una costante flessibilità causata dagli elementi extratestuali che “premono” dall’esterno. Ciò che intende Grande è che il realismo della commedia non investe tanto un “codice” di generazione testuale – non ci sono cioè dei veri e propri modelli prefigurati che indichino delle norme compositive – quanto un campo d’interazioni possibili tra “scritture” e “letture”, la cui analisi dovrà quindi riguardare gli effetti di campo della messa in scena. Gli effetti di campo possono essere intesi come retroazione o feed-back del pubblico sul testo, ma anche come azione o “influenza” del destinatario sul modo di produzione testuale sia all’origine e sia alla fine del processo, sia come influenza sul testo e sia come interpretazione e “consumo” del testo; ma possono essere presi in considerazione anche dal punto di vista di un campo degli effetti testuali, inteso come zona di inter-azione fra testo e destinatario, fra produzione del testo e “produzione del (suo) pubblico”30 .

Di conseguenza si hanno anche degli effetti di testo, che costituiscono la composizione delle attese, più o meno rispettate, provenienti dal pubblico e “messe in forma” al momento del loro rilancio verso il destinatario. Si possono così individuare due direzioni possibili: una in cui la consonanza esasperata fra proposte del testo e attese del pubblico 64

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porta a un realismo centrifugo, che rasenta la verità quotidiana attraverso una sua stilizzazione; l’altra in cui una dissonanza intollerabile tra le due parti dà invece il “la” a un realismo centripeto, basato su una rappresentazione esagerata del reale. La seconda scelta rappresenta in definitiva la strada che porta la commedia all’italiana verso l’accettazione di una crisi della rappresentazione realistica che si fa via via sempre più grottesca, attraverso un’accentuazione dei caratteri e una costante sfigurazione del reale. Questi due tratti derivano esattamente dall’eccesso di consonanza o di dissonanza che caratterizza i personaggi principali di queste commedie, come rappresentanti dello scollamento tra individuo e società. Maurizio Grande individua una serie di attori per le due diverse tipologie: da una parte Manfredi e Tognazzi, ovvero le maschere dell’adattamento a tutti i costi, che arriva fino all’autolesionismo, e rappresentanti di una “commedia del travestimento alienato”; dall’altra Sordi e Gassman, in quanto esempi di una “incapacità caparbia all’adattamento ribaltata in vanteria millantatrice”31 che li rende impostori verso gli altri e con se stessi. Nel primo caso l’io resta in balia del caos del reale, che si trasforma in una persecutoria concatenazione di minacce, e diviene incapace di controllare le proprie pulsioni e d’incanalarle in una forma di produttività, fino a burattinizzarsi per rispondere alle aspettative altrui e nascondere agli altri ciò che realmente è – insomma, nell’eccessiva adesione la soggettività finisce per essere ingerita nel proprio ruolo, in cui l’io debole risulta incapace di riconoscere i propri limiti. Nel secondo caso il soggetto si caratterizza invece per la propria avidità ed eccentricità, per una sicurezza e un istrionismo talmente ostentati da rivelare gli infimi trucchi del sopravvivere quotidiano. In entrambi i casi la maschera delle prestazioni, cioè l’immagine di sé proposta in pubblico, finisce dunque per reprimere le pulsioni di una soggettività inabile. Che cos’è precisamente una maschera? Essa deve essere innanzitutto distinta dalla faccia, che è caratterizzata da una “costanza fisionomica” che combina elementi fissi ed elementi variabili, e dal volto, che invece può essere definito come il quadrante espressivo di un individuo. Mentre la faccia viene da sempre considerata come il supporto fisico della nostra identità, il volto si muove invece come il canale espressivo delle nostre affezioni. 65

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Gilles Deleuze, ne L’Immagine-movimento, fa una precisa distinzione tra il volto intensivo ed il volto riflessivo. Del primo si può dire che “patisce” qualcosa lasciando ogni volta che i tratti sfuggano al contorno, mentre il secondo “riflette” qualcosa riunendo tutti i tratti sotto il dominio di un pensiero fisso32 . La capacità del volto è dunque quella di sintetizzare la faccia e la maschera, di “manovrare” cioè le espressioni, e ciò è particolarmente evidente nelle due tipologie attoriali che Maurizio Grande individua come caratteristiche della commedia all’italiana (e non solo): (...) quelle basate sulla versatilità della faccia ad assumere la maschera come un “secondo volto”, e quelle basate sulla capacità attrattiva della faccia nei confronti del ruolo; tale per cui il volto diventa ribalta del “carattere” o del “tipo” senza essere costretto ad indossare, sia pure metaforicamente, una maschera33 .

Nel primo caso la costruzione del personaggio comporta una cancellazione virtuale del volto dell’attore, per cui faccia e maschera coincidono in una sorta di identificazione somatico-espressiva; nel secondo caso invece il volto dell’attore assorbe la maschera, operando una sintesi tra la “costante simbolica del ruolo” e la propria identità fisionomica. La distinzione tra attori indossatori di maschere e attori costruttori di maschere passa tutta da qua: dall’attitudine dei primi a indossare una maschera, poiché “imposta” dal ruolo, e dalla destinazione al ruolo dei secondi, in quanto portatori di una maschera virtualmente inscritta nella faccia. In definitiva, mentre nel primo caso il ruolo si accorda con le “attese sociali” – è la maschera cioè a essere “sociale”, poiché impone una fisionomia “derivata” – nel secondo caso la faccia è portatrice di “attese di previsione”, riflette cioè la propria disponibilità al ruolo, che dunque si identifica come “offerta di prestazione”. È proprio sugli attori costruttori di maschere che Maurizio Grande pone la propria attenzione, poiché, combinando le attese esterne e le pulsioni interne, essi esibiscono quell’arte della contraffazione che è una delle caratteristiche principali della commedia all’italiana. Attori come Totò, Alberto Sordi o Ugo Tognazzi possiedono una faccia capace di mettere in questione l’identità e la persona, un volto66

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medusa che, anziché essere maschera dell’Altro, attrae i personaggi. In questo modo essi si fanno carico della scissione tra soggetto e ruolo, tra pulsioni e Legge a cui ho precedentemente accennato34 . La matrice grottesca che caratterizza la commedia all’italiana è infatti insita nella deformazione e tipizzazione dei caratteri, nell’eccessivo ingrandimento che fa scattare il meccanismo del comico (Bergson), e, in definitiva, in una sorta di degenerazione di quel “tallonamento” dell’individuo che Zavattini aveva teorizzato come stile e che finisce per mettere in mostra una galleria di “mostri” inoffensivi35 . Se i mostri dediti all’accumulo di beni e alla ricerca di consenso possono apparire inoffensivi – perché figli di una società benestante e in espansione – ben diverso è invece il discorso per tutta una serie di personaggi che emergono sul finire degli anni sessanta, e che disegnano il tracciato discensionale che porta alla “seconda” commedia all’italiana (quella del dopo boom), dove la polverizzazione dei miti e delle certezze inaugura la crisi della società della commedia, il cui protagonista è un soggetto ormai definitivamente sclerotizzatosi nel tipo. Divorzio all’italiana e Il sorpasso segnano lo spartiacque fra la commedia ascensionale caratteristica di una società “verde”, in espansione, e la commedia discensionale, caratteristica di una società stabilizzata; nella quale si ha, per così dire, un movimento centrifugo, una forza di pressione sui lati, una forzatura delle “cornici”36 .

I protagonisti di queste nuove commedie sono soggetti sfibrati dal tentativo di sopravvivere e conservare disperatamente quanto hanno accumulato in precedenza. La deformazione grottesca di questi tipi consente di avvicinare il presente grazie all’invenzione della trovata, che per Dürrenmatt ha il “potere di trasformare il mondo in commedia”, proprio come accade in Aristofane37 . Questa caratteristica della nuova commedia attica, capace di portare la commedia nella società, anziché limitarsi a essere rappresentazione della società (di accostare cioè il reale attraverso una galleria di personaggi tipizzati), costituisce uno dei punti chiave per capire l’atteggiamento un po’ ottuso della critica militante nei confronti dei film dell’epoca – atteggiamento che la critica si trascinerà dietro anche e soprattutto durante gli anni settanta, dominati dal cosiddetto “cinema politico”. Lungi 67

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dall’essere “apolitica”, la nuova “società del malessere” dipinta dalla commedia degli anni sessanta rappresenta invece la “palestra feroce” di un soggetto ormai abituato alla propria malattia di vivere, divenuto “scoria umana” fagocitata in uno spettacolo di resti e di avanzi. Questa “galleria di mostri” si farà sempre più raccapricciante – in un’accozzaglia avvilente dei luoghi comuni del comico, che con il “sale” della morale grottesca non ha ormai più niente a che fare – durante gli anni ottanta, in quella che Grande ha definito “ l’era dello stordimento comico di massa, annunciato in grandezza massima dalla maschera allucinata della ‘servitù felice’ di Villaggio; ridotto alla penuria dolciastra (truccata da snobismo intellettuale e anarchia culturale) nella maschera astratta di Renzo Arbore”38 . È il trionfo del “politicamente scorretto”, che raggiunge il suo apice negli anni ’90 con i film di Neri Parenti, dove la mostruosità dei protagonisti viene non solo accettata, ma addirittura esaltata, e che trova da ormai vent’anni il suo spazio natalizio (ed estivo) nelle nostre sale cinematografiche, riempite dalla popolarità della collaudata coppia Boldi – De Sica (che si sono separati recentemente, offrendoci così una doppia portata condita a suon di doppi sensi e battutacce volgari)39 . Si tratta di un nuovo tipo di commedia che, come vedremo nell’ultimo capitolo, apre sempre più le proprie strutture drammaturgiche e formali allo spettacolo rimasticato della televisione, in cui l’adeguamento al trucco e all’inganno arriva fino all’autocompiacimento, all’esibizionismo sfrenato per aderire a un’immagine di sé creata ad hoc dai direttori dei palinsesti. Oggi la galleria di tipi mostrati nella commedia sembra non avere quasi più agganci diretti con la realtà, poiché già al di là dei sogni a occhi aperti dei timidi protagonisti dei nuovi teenmovies, proiettata in un mondo di cartapesta in cui la realtà della strada è passata tutta insieme dalla parte dello studio televisivo, dove sfilano continuamente i protagonisti dei nostrani cinepanettoni natalizi per reclamizzarci le loro storie di desideri indotti40 .

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4. LOGICA DELLA PERVERSIONE

Con la commedia ascensionale degli anni sessanta il cinema italiano entra in una fase caratterizzata dalla prevalenza di un registro grottesco, che spinge il realismo fino ai suoi limiti, sino a un’invasività che lo rende a tratti irreale. In che modo il cinema italiano perde progressivamente per strada i propri pezzi – non soltanto l’etica e il pathos della lezione neorealista, ma anche l’intreccio comico tipico della commedia – fino a perdersi nella visione allucinatoria che caratterizza la rappresentazione tragico-comica del grottesco? Roberto De Gaetano individua una possibile risposta nel “rapporto anomalo” che lega il cinema italiano ai generi, alla rappresentazione dell’azione che comporta l’unità presupposta di un “mondo” costruito, in cui c’è accordo implicito fra soggetto e oggetto, anche quando questo rechi i tratti della conflittualità41 . Ciò che è mancato al cinema italiano sarebbe dunque la memoria dell’epos riflessa nell’unità del mondo, l’armonia dei rapporti tra uomo e natura espressa in una struttura “non-problematica”; in definitiva, quei valori comuni grazie ai quali una società progetta il proprio futuro. L’epos è sempre racconto del movimento organico di una comunità a partire dalla tradizione che la fonda e dal progetto che la anima. È questa “organicità” di movimento ad essere assente dalla storia, dalla cultura e dalla società italiana42 .

Questo scollamento tra individuo e comunità si è di conseguenza riflesso nella forma anti-epica e caricaturale del grottesco, in cui all’azione intrapresa per il raggiungimento di un fine si sostituisce un ambiente ottico e sonoro che disorienta l’individuo, che lo fa vacillare e lo consegna disarmato all’aggressività di norme inumane. Il grottesco salta la mediazione delle forme e diventa forma (informe) del reale; forma che il reale – una faccia, un corpo, il mondo stesso – assume aderendo all’immagine. Il grottesco è la forma che il reale prende quando accede nella sua disarticolazione e nella sua brutalità a rappresentazione, senza più la possibilità di pensare e costruire alcuna mediazione estetica43 .

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Questo processo si estremizza senz’altro con il cinema degli anni ottanta, quando l’immagine si manifesta in tutta la sua oscenità, senza più nessun argine: un’immagine plastificata che fa della propria irrealtà la realtà della scena. Questa irruenza di reale nel cinema avviene dunque attraverso un costante processo di derealizzazione che caratterizza il nostro paese da quasi un secolo; una società il cui corpo si presenta sotto il segno della scissione (tra mondo e individuo) e della deformità (rispetto a una tradizione e a un mondo ormai ridotti a brandelli). Un processo inauguratosi già con la fase ascendente della commedia, che copre quel periodo che Maurizio Grande definisce di “amministrazione del neorealismo”, inteso come patrimonio che delinea un orizzonte di senso – la poetica neorealista come “intrusione” della realtà sul set – valido sia per la critica che per la pratica cinematografica. Da un punto di vista stilistico vale per molti di questi film la definizione di “poetica della medietà”, che registra un modo di produzione “popolare”. (...) è “popolare” tutto ciò che non risulta marcato dal modo di produzione, ciò che si autoenuncia come privo di marche di enunciazione, ed entra nel circuito della “proprietà comune” che amministra i cliché collettivi, gli standard di proiezione del pubblico44 .

Per questo fenomeno si è anche parlato di “neorealismo rosa” – inteso come normalizzazione estetica e culturale del movimento originario – cioè di un cinema che mirava a una forma di “consenso” ideologico basata sull’identità dei tipi e delle situazioni rappresentate con le nuove classi in ascesa. L’ombra della crisi ha però finito col traghettare ineluttabilmente la forma commedia verso gli anni sessanta e dunque verso la sua fase discendente, con la conseguente ripresa delle forme caratteristiche della “poetica degli autori”. In definitiva, mentre negli “anni dell’amministrazione” si assiste alla dominanza del bozzetto45 in quanto “standardizzazione accennata” dei prodotti di genere – inteso qui come restrizione di un’area del discorso, come unità “forte” di forma e contenuto – in cui la tecnica si rende “impersonale”, negli “anni della crisi” si consolida una riaffermazione della nozione di autore in quanto soggetto che pone l’accento su un linguaggio e una poetica, e che nella realizzazione 70

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dell’opera – intesa invece come “unità irripetibile”, compiuta in sé – piega la crisi stessa a modello di senso. Come vedremo più avanti, è con il cinema di Marco Ferreri che s’intravede più chiaramente questo nodo fondamentale, in cui il modello “popolare” si travasa in una visione “autoriale”, mentre la comunità si sfilaccia definitivamente per lasciare il passo a un soggetto inabile e compiaciuto. Il passaggio cruciale avviene però con la fase del cosiddetto “cinema politico” italiano, che ha messo in luce l’importantissimo ruolo svolto dalla forma-commedia nel nostro cinema, tanto che si può supporre che essa abbia sostituito nel nostro paese la funzione riservata in Europa al romanzo di formazione – intendendo con ciò soprattutto il grande “realismo” borghese alla Balzac o alla Zola, presente in Italia soltanto nell’esperienza di Verga. La commedia ha infatti avuto in Italia il merito di mostrare al nostro popolo la sua identità – fatta non soltanto della sua storia, ma anche del suo costume, della sua mentalità e dei suoi comportamenti – rivelandone il carattere attraverso l’ingrandimento del tipo “medio”. In definitiva, è nella pronunciata teatralità del nostro comportamento che ritroviamo la tendenza al grottesco come stile che la rappresenta. Questa vocazione al tragicomico – che rappresenta con crudeltà ed esasperazione i nostri caratteri individuali e sociali, passando dall’epos neorealista all’intonazione realistica del comico – è presente in maniera decisiva anche nel nostro cinema politico, che è stato prima di tutto un desiderio di cinema politico perseguitato dall’ombra di una rivoluzione impossibile (quante volte ci è capitato in fondo di sentir dire, quando non siamo stati noi stessi ad affermarlo, che gli italiani la rivoluzione non la faranno mai perché fa parte del loro carattere l’attitudine ad adattarsi e a lasciar fare?). La proposta forte di Maurizio Grande consiste dunque nell’affermare che non vi è mai stato un cinema politico italiano in senso stretto – esso è stato piuttosto un vero e proprio “miraggio” che ha attratto la critica, che nel “fantasma” ha voluto vedere il proprio oggetto “ideale” – ma semmai una rappresentazione grottesca di “mutanti politici e di replicanti rivoluzionari”, in cui il desiderio di rigenerazione politica coincide spesso con la pulsione di morte46 . Quello italiano degli anni settanta è un cinema che ha semmai mostrato con precisione chirur71

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gica il crollo del mito della politica, inevitabile proprio in conseguenza della sua eccessività47 . Quanto al politico, basti qui ricordare che esso non è un “genere”, ma una “categoria” riferita alle pratiche sociali di una comunità articolata in ceti e sfere di attività, dove la politica rappresenta il livello più alto delle possibili pratiche unificanti. Il politico, inteso come “status concettuale” non “attualizzato”, va distinto perciò dalla vera e propria attività politica che lo converte nella processualità di un “fare”, senza però tralasciarne le interrelazioni con la politicità di tutta una serie di pratiche sociali – non soltanto la sfera economica, ma anche e soprattutto l’attività scientifica e la cultura – e che nasconde molto spesso i propri reali valori sotto la maschera dell’ideologia. Ciò che qui interessa è dunque l’immagine che questi film, etichettati come “politici”, hanno dato della vita pubblica italiana. Grande rileva che essi non abbiano in realtà prodotto alcuna immagine politica della società italiana – cioè non raccontano un processo politico in atto, né smascherano delle ideologie dominanti –, ma siano piuttosto rimasti ancorati, proprio come nella “commedia di costume”, alla cronaca politica di quegli anni. I film cosiddetti politici finiscono in definitiva col raccontare, anche se con tonalità diverse, le stesse storie di conflitti, corruzione e immoralità a cui ci aveva abituato la commedia – e Grande non nasconde qui di preferire ancora quest’ultima, che ritiene senz’altro più “politica” di tanti film inchiesta o di denuncia48 . Il senso politico di un film può ritrovarsi tanto nello smascheramento di un’ideologia dominante, quanto nella messa in crisi del “patto convenzionale” che veicola l’immedesimazione passiva dello spettatore con la finzione drammatica (secondo il principio dello “straniamento” brechtiano), ma secondo Grande “l’oggetto del cinema politico italiano è, in linea generale, lo smascheramento di una verità nascosta o camuffata”49 – smascheramento dei rapporti fra potere politico, istituzioni e criminalità organizzata nei film di Elio Petri e Francesco Rosi, o smascheramento di una condizione umana in quelli dei fratelli Taviani. Non va però dimenticato che i vari autori differiscono poi fra loro per gli intenti delle proprie opere: c’è infatti una notevole differenza tra il monito alla “vigilanza” a cui ci esorta Rosi e la denuncia dell’aspetto ossessivo e perverso del potere 72

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così come ce lo mostra Petri. Un discorso a parte lo merita poi il cosiddetto “cinema militante”, inteso come messa in questione sia del “cinema d’autore” che del “cinema d’intrattenimento”50 . Nel cinema italiano degli anni settanta il mito collettivo della Rivoluzione finisce per essere così il vero e proprio oggetto assente, riscontrabile soprattutto nella “degenerazione” della forma-commedia, in cui l’azione scompare del tutto, o meglio, passa tutta dalla parte del soggetto e dei suoi fantasmi che si nascondono dietro le infinite maschere del desiderio51 . Nel percorso teorico di Maurizio Grande l’opera di Ferreri ricopre una grande importanza, proprio perché sintetizza la dinamica in cui l’inabilità del soggetto si fonde, grazie all’illustrazione iperbolica grottesca, con l’inesauribilità del proprio desiderio. I film di Ferreri mostrano dei soggetti direttamente generati dal proprio ambiente – dalle ossessioni della società contemporanea che li costringe alla routine dei rituali che dovrebbero addomesticarne il desiderio – e irriducibili all’astrazione ideologica perché incastrati nell’infima banalità del quotidiano. E se l’ambiente li schiaccia, l’intreccio, anche quando si rivela come mancanza di plot, li ingabbia con la sua intransigenza, riversando il peso della vicenda sulla rilevanza fisica dell’attore che la somatizza con il proprio apporto umano e umorale52 . Quelle di Ferreri sono storie che si mantengono sempre ai limiti del tragico, che lo sfiorano continuamente perché rivelano un meccanismo comico di fondo, quello del soggetto strappato ai propri automatismi e privato perciò della propria identità, del proprio “spazio di proiezione nel reale”. I suoi film ci mostrano lo scheletro della vita quotidiana, che emerge sotto l’armatura degli istituti simbolici che traducono l’atto in significato: non soltanto il matrimonio in quanto legittimazione della sessualità, ma anche il lavoro come destinazione dell’attività sociale al profitto e, in ultimo, tutte le forme di consenso che fanno da collante e garantiscono l’interazione fra gli uomini. Il soggetto, svincolato dalle proprie certezze, scivola a forza di passi falsi in un reale sempre più orribile e insopportabile, concentrato di tic e manie che ne rivelano il tracciato eroicomico. Con Ferreri il grottesco perde definitivamente le proprie capacità rigenerative – in questo senso è capitale l’esempio de La grande 73

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abbuffata (1973), in cui il banchetto tramuta il festino in una macabra processione funebre – per chiudersi su una “comicità nera”, in cui la “commedia quotidiana dell’adattamento” dimostra tutta l’incapacità di vivere e la tendenza autolesionista di un soggetto catapultato in una “società dei rifiuti”, dove per sopravvivere si deve imparare a non affogare nell’abbondanza. È proprio grazie a questo scollamento continuo tra la prestanza fisica dell’attore e la sua fragilità psicologica che Ferreri riesce a caricare il reale ingrandendone un particolare – tic o mania – ma distruggendo al tempo stesso gli effetti comici in un finale mai liberatorio né consolatorio. Il mito del desiderio come liberazione resta perciò schiacciato sotto le macerie di una società che paralizza il soggetto – non importa se tentato da un’adesione eccessiva o da un distacco eroicomico – e lo condanna al “destino dello scacco”. In questo le storie di Ferreri sono esemplari, poiché esplorano sia il problema della dissoluzione del soggetto dietro la propria maschera, che quello di un ambiente dominato da pulsioni che rosicchiano i brandelli di una rappresentazione verosimile che non tiene più, fino alle estreme conseguenze di una negazione del reale e di una sconfessione dell’agire.

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5. LE MASCHERE DEL POLITICO

Il cinema politico italiano degli anni settanta sembra dunque connotarsi come l’effetto di pulsioni di morte che dominano una società in cui dilaga l’utopia della violenza del desiderio. L’impossibilità di attualizzare questa eccessività del desiderio costringe cioè il soggetto a mascherare le proprie frustrazioni, a deviare la propria attenzione su mete perverse che camuffano la pulsione fino a scaricarne la carica autodistruttiva su formazioni feticistiche. I feticci rappresentano infatti la serie dei fantasmi del desiderio pervertito, le mete transitorie su cui il soggetto tenta inutilmente di scaricare la violenza di pulsioni che non possono trovare una via d’uscita esterna all’io. La costituzione e l’uso degli idoli e dei feticci sono regolati di conseguenza secondo l’ordine simbolico, che registra quei fantasmi che permettono di bloccare quello che Deleuze e Guattari definiscono uno “stock di desiderio”, cioè un condensato di energia libidinale che fa “defluire” la produzione continua del desiderio nel suo consumo. Nell’ottica della “macchina schizofrenica” di Deleuze e Guattari il desiderio è quella forma di energia che produce e libera in continuazione altra energia attraverso la quale il soggetto mira a disfarsi del proprio corpo. Poiché, in verità – la sfolgorante e nera verità insita nel delirio – non ci sono sfere o circuiti relativamente indipendenti: la produzione è immediatamente consumo e registrazione, la registrazione e il consumo determinano direttamente la produzione, ma la determinano in seno alla produzione stessa. Cosicché tutto è produzione: produzione di produzioni, di azioni e di passioni; produzioni di registrazioni, di distribuzioni e di punti di riferimento; produzioni di consumi, di voluttà, d’angosce e di dolori. Tutto è a tal punto produzione che le registrazioni sono immediatamente consumate, consunte, e i consumi sono immediatamente riprodotti. Questo è il primo senso del processo: portare la registrazione e il consumo nella produzione stessa, farne le produzioni d’uno stesso processo53 .

Maurizio Grande, a ragione, ritrova l’“ipertesto” marxiano nell’“ipotesto” deleuziano proprio a proposito del feticcio – di quello 75

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che Marx definiva il carattere feticistico della merce – e della sua “relazione fantasmatica” con il desiderio. Per Deleuze e Guattari la produzione capitalistica è schizofrenica perché riprodotta a ogni livello, sia perché produce azioni e passioni – si agisce sull’oggetto ma anche lo si patisce – sia perché produce il desiderio e la necessità di consumo ad esso correlata. Se il feticcio è la meta transitoria di un desiderio continuamente spostato, si può allora affermare che l’idolo sia invece il vero e proprio corpo senza organi, cioè il fine ultimo a cui tende il dispendio senza utile di energia libidica: ovvero la morte per consunzione del soggetto desiderante. È proprio a questo punto che incontriamo la “politicità” del cinema italiano degli anni settanta, innestata sul rapporto tra la situazione politica del nostro paese in quegli anni e la degenerazione dell’individuo nella società tardocapitalistica. È di questo che ci parlano i film di Bellochio, Ferreri o Petri, attraverso le tinte grottesche che esasperano i tratti del desiderio dietro le maschere ghignanti del potere54 . Il soggetto inabile è l’effetto di un “affetto degenerato” o di un’azione embrionata, secondo lo statuto di quella che Gilles Deleuze definisce “immagine-pulsione”. Essa si trova tra il realismo dell’“immagine-azione” – dove si attua la “configurazione drammatica” che permette a un personaggio di modificare o ristabilire la situazione di partenza in un ambiente determinato – e l’idealismo dell’“immagineaffezione” – che ritroviamo invece nell’intervallo tra la percezione e l’azione, in cui il soggetto patisce la potenza dell’oggetto contemplato senza reagire. L’“immagine-pulsione” non è relativa né agli affetti né ai comportamenti, ma semmai alle impressioni, cioè alla capacità della pulsione di far comunicare gli ambienti reali (attualizzati), sia geografici che sociali, con i “mondi originari”. La pulsione, ci dice Deleuze, è strettamente legata con i pezzi che preleva dai “mondi originari”, in quanto mondi dei “gesti senza forma”; ma il mondo originario non è soltanto questo. È anche l’insieme, non che riunisce tutto in un’organizzazione, ma che fa convergere tutte le parti in un immenso campo di sporcizia o in una palude, e tutte le pulsioni in una grande pulsione di morte. Il mondo originario è dunque al contempo inizio radicale e fine assoluta; e, infine, lega l’uno con l’altro, mette l’uno nell’altro, secondo una

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Deleuze identifica questo modo di “configurazione estetica” del mondo con il “naturalismo”, che accentua e prolunga i tratti del realismo in una sorta di surrealismo (proprio come fa il grottesco, inteso come visione che “gonfia” il reale e ne “altera” il profilo). Le pulsioni strappano i “pezzi” agli oggetti formati in un ambiente preciso – definito “derivato” perché immanente al mondo originario – fino a esaurirlo. Tra i grandi creatori di “immagini-pulsioni” Deleuze individua Stroheim, Buñuel e Losey, ma anche Marco Ferreri56 . In quest’ultimo si ritrova non soltanto l’arte di evocare un mondo originario in fondo a un ambiente realistico – è l’esempio sia dell’immenso cadavere di King Kong sul terreno del complesso edilizio che del museoteatro in Ciao maschio (1977) – ma anche quella d’inseminarvi strane pulsioni – è il caso della pulsione materna del protagonista per restare ancora a Ciao maschio, oppure dell’irresistibile pulsione di soffiare in un palloncino in Break up (1965), o di riversare il proprio desiderio su un portachiavi dalla voce femminile che risponde solo quando ne ha voglia in I Love You (1986). Deleuze invita però a non confondere il “mondo originario” con un arcaismo, poiché esso non oppone la Natura alle creazioni dell’uomo, bensì s’impadronisce tanto dei resti originari di un ambiente che non smette più di morire, quanto degli abbozzi derivati di un mondo che non riesce mai a nascere. O al massimo, proprio come succede nei film di Ferreri, questo mondo diventa un coacervo di idoli e feticci, di simulacri che trasformano la vita in una coazione a ripetere. È ciò che accade ad esempio a Rodolfo in El pisito (1958), che prima si “consuma” nell’attesa della morte della vecchia proprietaria dell’appartamento e poi in un matrimonio che certifica la morte di ogni speranza e di ogni desiderio “pre-sociale”. Ma è con Dillinger è morto (1969) che Ferreri ci illustra, secondo un’ottica sempre più “moralista”, il cinema come “specchio della ripetizione” e “spettacolo dell’identico” in cui il soggetto perde definitivamente se stesso57 . 77

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Dillinger è morto può essere considerato a tutti gli effetti come il film-manifesto di Ferreri, quello che inaugura il ciclo dell’inazione, in cui il soggetto, anziché ri-conoscersi, si duplica nella pura esecuzione degli atti più banali – ma è anche la storia di un’esecuzione, quella della moglie, nonché l’esecuzione di una serata in cui il protagonista segue un proprio “programma” diviso in vari movimenti. Se dunque vi può essere un’implicita politicità nel cinema di Ferreri, essa consiste in definitiva proprio in una caricatura della civiltà, “in una visione senza pathos o partecipazione o ‘sentimento’ nei confronti delle cose e degli uomini”58 . Una caricatura della civiltà che scivola inesorabilmente, come ci insegna la “legge di massima pendenza” dell’immagine-pulsione, verso la fine della civiltà; o almeno ce ne dà un assaggio attraverso delle immagini che hanno ormai definitivamente inghiottito le cose, primo fra tutti l’individuo, che la civiltà contemporanea ha costretto a un forzato adattamento alla morte. Quest’ultima poi, risultando ormai svuotata di qualsiasi senso, priva anche la vita del suo ordine simbolico e vi si mescola in maniera indifferenziata. Tutto diventa artificiale, simulacro in cui si perde il limite fra l’animato e l’inanimato, fra l’organico e l’inorganico. È il trionfo dell’attore senza personaggio, dei riti ossessivi e dei gesti maniacali per controllare l’ansia e l’angoscia di un individuo ormai perso in una “iper-natura estetizzante”, immobile simulacro del bello distrutto da un manipolo di sopravvissuti. È proprio il tema della morte della civiltà e dell’individuo a rappresentare il raccordo ideale tra il cinema di Marco Ferreri e quello di Ciprì e Maresco, come vedremo nel prossimo capitolo.

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Note Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 8. Ibid, p. 10: ovvero tutta quella “densità di significazioni” che si distribuiscono nel testo e che “alludono alla “convenzionalità” simbolica della messa in forma (e della visione: poiché anche la visione ‘naturale’ è accordata con i codici del sapere e dell’interpretare, che regolano la selezione significativa dei dati immediati e la contestualizzazione formale e semantica dell’“evento iconico”). 3 Maurizio Grande, «L’icona cinematografica», in Il cinema in profondità di campo, op. cit., pp. 50-51. 4 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 14. 5 Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano, 1982. 6 André Bazin, «Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione», in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano, 1986, p. 285. 7 È ciò che Deleuze intende con il termine bal(l)ade, ovvero un “andare a zonzo” che trasforma il personaggio in una specie di spettatore che registra anziché reagire. Si veda in proposito Gilles Deleuze, Cinema 2. L’Immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, e in particolare tutto il primo capitolo. 8 Ibid, p. 19. 9 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 7. 10 Ibid, p. 18. 11 Ibid, pp. 22-23. 12 Jean-Louis Comolli, Tecnica e ideologia, Pratiche, Parma, 1982, p. 11. 13 Christian Metz, op. cit., p. 308. 14 In proposito si veda anche Pierre Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano, 1979, p.192: Ogni epoca, e in un’epoca ogni gruppo, ha le proprie regole per organizzare il mondo esterno – il mondo degli oggetti e dei rapporti sociali – in maniera da trovarvi una coerenza ed applicarvi delle regole di comportamento; in particolare possiedono categorie di analisi per mezzo delle quali una certa maniera di designare, verbalmente o iconograficamente, gli oggetti è giudicata stilizzata, falsa, caricaturale, umoristica o fedele alla realtà. 15 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 47. 16 Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera, op. cit., p.7. 17 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 30. 18 Wu Ming, New Italian Epic, op. cit., p. 72: Riprendo un termine usato dal mitologo Károly Keréni: un mitologema è un “ammasso” di “materiale mitico”, un insieme di racconti formatosi nel tempo intorno a un tema, un soggetto, un racconto-base. Tale materiale è riplasmato senza sosta, rinarrato, modificato, in letteratura, nell’entertainment, nella vita quotidiana. 19 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 33. 20 Michail Bachtin, György Lukács (a cura di), Problemi di teoria del romanzo, op. cit. Si veda in particolare l’introduzione a cura di Vittorio Strada, pp. XLIV-XLV: Il mondo epico è il mondo del ‘passato assoluto’ (...) è il mondo del passato eroico; la sua fonte è la tradizione nazionale non l’esperienza personale né la libera invenzione che da quella esperienza nasce; il mondo epico è diviso dal presente, cioè dall’età 1

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Simone Ghelli contemporanea all’autore, dalla distanza epica assoluta. Fare del presente e della sua incompiutezza il punto di partenza e il centro di orientamento ideopoetico è stato un grandioso rivolgimento della coscienza creativa umana e in ciò è consistita quella che potremmo chiamare la rivoluzione temporale del romanzo. 21 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 35: (la commedia) laicizza l’esperienza e la rappresentazione dell’esistenza minuta, la diffusione dei valori comuni e dei cliché sociali, gli standard del comportamento e le piccole vicende di una comunità vista da vicino, (...) i cui desideri, tensioni e conflitti sono in larga parte prefigurati in una sorta di non saputa istruzione alla adesione a modelli di vita prefabbricati, preesistenti all’ingresso del singolo nella società. 22 Idea per altro curiosamente in contrasto con quella espressa da Dürrenmatt, per il quale la commedia crea invece distanza attraverso la trovata, perché, al contrario della tragedia che “presuppone un mondo già plasmato, (...) annulla la distanza, trasferisce i miti primordiali nel tempo presente”, la commedia necessita invece di un mondo informe, in dissoluzione, in movimento (si veda in proposito Friedrich Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo, op. cit., p. 41). Questa definizione della tragedia mi sembra invece più vicina al tentativo di ricollocare l’epica nel presente per rigettare non tanto lo humour, quanto il tono gelido, distaccato ed ironico di tante opere postmoderne (si veda in proposito Wu Ming, New Italian Epic, op. cit.). 23 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 36. 24 Ibid, p. 38. 25 Su questo punto si veda Northrop Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino, 1969, soprattutto il capitolo «Il mythos della primavera: la commedia». 26 Michail Bachtin, György Lukács (a cura di), Problemi di teoria del romanzo, op. cit., p. 217. 27 La trasformazione del soggetto in io può essere anche letta come il passaggio ad una società degli adulti, ed in questo senso l’istituto del matrimonio costituisce spesso e volentieri quel passaggio che ratifica l’appartenenza dell’individuo alla legge di tutti, come ci è dato a vedere in molti film della commedia all’italiana. 28 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 44. 29 Ibid, p. 47: In questo senso, il “realismo della commedia” è quello di una società rappresentata secondo codici di verosimiglianza e plausibilità “autorizzati” dalla stretta vicinanza o contiguità socio-culturale fra il pubblico e la funzione testuale. 30 Ibid, p. 48. 31 Ibid, p. 51. 32 Si veda in proposito Gilles Deleuze, Cinema I. L’immagine-movimento, op. cit., e in particolare il capitolo intitolato «L’immagine-affezione: volto e primo piano». 33 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 249. 34 Si veda in proposito Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., e in particolare il capitolo intitolato «Costruttori di maschere». 35 Galleria che Maurizo Grande suddivide in quattro grandi tipologie caratterizzanti la commedia ascensionale, nella quale a essere centrale è il tema dell’ingresso del soggetto in società e dell’adattamento alle sue regole. Tra i film che formano questo corpus ci basti qui ricordare come esempi Le ragazze di Piazza di Spagna di Luciano Emmer (1952) – per la tipologia del “mythos dell’ingresso nella società”; I soliti

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La tradizione grottesca nel cinema italiano ignoti di Mario Monicelli (1958) – appartenente invece al “mythos dell’adattamento forzato”; Divorzio all’italiana di Pietro Germi (1961) – ovvero il “mythos della truffa e del travestimento”; Poveri ma belli di Dino Risi (1957) – dove a prevalere è invece il “mythos dell’innocenza perduta”. 36 Ibid, p. 83. 37 Friedrich Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo, op. cit., pp. 50-51: Quel che accomuna tutti questi intrecci è indubbiamente la trovata, il fatto che nascono dall’invenzione, senza la quale sarebbero impossibili. Sono trovate che, per usare una metafora, esplodono nel mondo come proiettili, e, scavandovi grossi crateri, trasformano il presente in comicità: con il regno degli uccelli si allude alla temeraria avventura siciliana di Alcibiade, che portò Atene alla rovina. Queste commedie sono vere e proprie intrusioni nella realtà, perché i personaggi che mettono in gioco e in scena sono tutt’altro che astratti, sono anzi concretissimi, uomini politici, filosofi, poeti, generali contemporanei. 38 Ibid, p. 88. 39 Si veda Christian Uva e Michele Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano, Edizioni Interculturali, Roma, 2006, e in particolare il paragrafo intitolato «La politica nel “panettone”: i film di Neri Parenti». 40 Ibid, p. 184: (…) Si può pensare all’opera di Muccino come a una potente ed efficace “cinetelevisione” nella quale si aggirano figurine da spot pubblicitario che tentano di vendere, invece di un detersivo o di un’automobile, una visione del mondo progressista, di sinistra. 41 Sul concetto di immagine-azione rimando alla lettura di Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, op. cit., e in particolare i cap. IX-X-XI-XII. 42 Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera, op. cit., p. 26. 43 Ibid, p. 27. 44 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 203. 45 Ovvero di uno schema basato su un’“istantaneità sommaria” e incisiva che si muove sullo sfondo di un “realismo minore del quotidiano”. 46 Maurizio Grande, Eros e politica, op. cit., p. 14: Da Petri a Bellocchio, da Rosi a Bertolucci, da Ferreri ai Taviani il cinema italiano degli Anni 70 racconta con toni e accenti assai diversi la stessa storia di esaltata impotenza e di grottesco camuffamento del principio di realtà. 47 Grande apre qui una parentesi sull’ideologia della liberazione del desiderio che nel ’68 ha imperversato sull’onda de L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, per un approfondimento della quale rimando al capitolo IV del già citato Eros e politica, intitolato «Il cinema politico e la sua ideologia». 48 Ibid, p. 23: La natura politica di un film risiede nel tema politico che lo ispira, così come deve ispirare la sua costruzione e la sua produzione di senso, al di là della rappresentazione di un contesto politico, al di là della “politica rappresentata”, messa in scena. In tal senso, il film politico produce sempre una domanda di politica, piuttosto che una risposta ideologica. Fare un’opera “politica” non significa rappresentare un determinato momento politico, bensì elaborare il politico come senso e come atto dell’opera, al di là della immediatezza di uno scopo politico particolare, che viene affidato all’opera di propaganda.

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Simone Ghelli Ibid, p. 27. Ibid, p. 28: A metà strada fra l’“arte per l’arte” e la propaganda solipsistica della forma, il cinema militante è “politico” nel senso che manifesta la sua politicità nell’avversione per il prodotto e per il consumo. È un episodio “luddista” nella storia delle forme cinematografiche. 51 Ibid, p. 30: Le cattive passioni, le pulsioni deviate nella meta, le perversioni emergono come motivi “parapolitici” nei film di Bellocchio, Petri, Ferreri, ma anche come critica radicale al nucleo sociale più resistente: la famiglia nella sua forma borghese. Emerge la differenza di questi film da strutture più tradizionali presenti nelle opere di Rosi, Taviani, Bertolucci, dove la componente epica e melodrammatica anima la rappresentazione di insiemi corali, di situazioni sociali o di gruppo, impedendo la tipica frammentazione della soggettività individuale in crisi. 52 Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., p. 154: (l’attore comico) deve come appiattirsi dietro l’incapacità del personaggio a padroneggiare il reale; non deve interpretare il personaggio ma esporlo come una sua emanazione, starlo a guardare come uno spettatore; approfondendo la scissione fra soggetto e maschera, rinunciando allo strapotere dell’io, alla stessa rassicurante certezza del vizio e del tic rituale. 53 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 2002, pp. 5-6. 54 Maurizio Grande, Eros e politica, op. cit., p. 38.: La distruzione della famiglia (I pugni in tasca), il delirio di onnipotenza nel delitto (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), l’orgia di sangue come riscatto della “purezza originaria” della politica (Todo modo), l’universo sadomasochistico del potere illimitato (Salò o le centoventi giornate), il flusso desiderante di morte per eccesso di alimentazione (La grande abbuffata) sono solo alcuni esempi della trappola mortale che il desiderio tende al soggetto cavo, svuotato di ogni volere e di ogni meta ideale 55 Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, op. cit., p. 149. 56 Per riallacciarci al presente possiamo aggiungere alla lista anche Emanuele Crialese. Si veda in proposito Dimitri Chimenti, «Estraneità, differenza e rinascita. Il cinema di Emanuele Crialese», in Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo (a cura di Riccardo Guerrini, Giacomo Tagliani, Francesco Zucconi), Le Mani, Recco (Ge), 2009. 57 Maurizio Grande, Eros e politica, op. cit., p. 55 (i corsivi sono miei): È una consistente trasformazione che consente a Ferreri di mostrare tutto l’orrore del banale, il raccapricciante dell’ovvio, il disgusto per una civiltà di automi, la derisione dei rituali ossessivi e delle mitologie solipsistiche del soggetto moderno. È la condizione umana nella civiltà industriale: l’isolamento nel grande traffico della merce, l’aberrazione del desiderio in un mondo sovraffollato di feticci e di idoli. 58 Ibid, p. 58. 49

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PARTE QUARTA LA “DERIVA” TELEVISIVA E IL RECUPERO DELL’IMMAGINARIO

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1. UNA SOPRAVVIVENZA DEFORMATA

Con gli anni ottanta il cinema italiano si allontana progressivamente dalle strutture sia drammaturgiche che formali della commedia – almeno nel senso in cui si era sviluppata nella sua fase “discensionale”, ovvero sotto l’influenza di una marcata impronta autoriale – anche se ne riprende le tematiche e i contenuti nel tentativo di ricostruire uno spettacolo che però si dà come prodotto eterogeneo, sfilacciato. La commedia dei “nuovi mostri” si propone in definitiva come adattabilità indolore alle nuove mitologie, prime fra tutte quelle di un consumismo che con la televisione si fa sempre più dilagante, eccedente – fino al tentativo, questo sì davvero grottesco, di recuperare il linguaggio della pubblicità come prodotto estetico1 . Formalmente, e di conseguenza “politicamente”, si può dunque affermare che la commedia degli anni ottanta va alla deriva2 , poiché letteralmente incapace di “mettere in forma” il conflitto tra l’individuo e una società che sotto la maschera della tolleranza nasconde il più spietato cinismo. Basti pensare ai personaggi dei film di Carlo Verdone, in cui l’accanita adesione all’immagine che di sé offrono alla società sfocia costantemente nell’autoinganno – essi “perdono la faccia” semplicemente perché non l’hanno mai avuta – sempre in bilico tra un esibizionismo sfrenato dell’azione ed una narcisistica inettitudine. Lo stesso effetto lo sortono ad esempio anche l’aggressiva buffoneria del primo Roberto Benigni (che espone se stesso anziché interpretare un personaggio), la “vocazione persecutoria” di Paolo Villaggio, la “spaesata arrendevolezza” di Massimo Troisi o l’infantilismo di Francesco Nuti. La perdita d’identità che accomuna i personaggi interpretati dai “nuovi comici”3 – che specularmente sembra riflettersi nella perdita d’identità della forma commedia, che alla “deriva” non può ormai che nutrirsi dei propri brandelli – rappresenta dunque il prodotto finale della parabola “discendente” percorsa dalla commedia all’italiana, e in questo la “nuova commedia”, pur se agonizzante, mantiene ancora 85

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un punto di contatto con le proprie origini – comprese le capacità istrioniche degli attori che da sempre hanno reso possibile questo tipo di comicità. Pur se in maniera sempre più blanda e arrendevole, le pratiche del travestimento e del mascheramento conservano infatti ancora una volontà di non crescere, di non lasciarsi cogliere dagli obblighi della vita che, come abbiamo visto in precedenza, costituisce uno dei leitmotiv della società della commedia. Ciò che deve far riflettere è semmai il tentativo di ricercare una forma di sopravvivenza sempre meno traumatica, una sorta di compromesso che, cancellando i limiti del mondo, porta anche alla perdita di centro dell’Io. In definitiva, con l’avanzare degli anni ottanta sembra dominare sempre più un tipo di commedia incentrata sul travestimento alienato, sull’adesione fin troppo disponibile del soggetto ai modelli proposti, o per meglio dire imposti dalla società. Così come durante gli anni trenta, all’epoca dei cosiddetti “telefoni bianchi”, negli ultimi due decenni si è assistito a un prepotente ritorno di un cinema essenzialmente di evasione – in cui lo spazio chiuso della televisione ha definitivamente preso il posto di quello degli interni borghesi – ma se i film dei “telefoni bianchi”4 rispecchiavano ancora un desiderio del pubblico – desiderio di cambiare che sembrava realizzabile soltanto attraverso l’immaginario – quelli proposti dalla “nuova commedia” sembrano piuttosto muoversi verso la produzione di desideri indotti. In pratica, con gli anni ottanta il rapporto tra testo e destinatario nel campo degli effetti testuali sembra improvvisamente sbilanciarsi, con il risultato che gli effetti di testo finiscono col prevalere sugli effetti di campo. Con ciò intendo che, a parte i casi sempre più sporadici di alcuni autori5 , la “nuova commedia” procede per prototipi anziché per tipi, nel senso che il cinema diventa sempre più strumento di consenso proiettato verso la ricerca di una consonanza fra attese del pubblico e proposte del testo, occultando attentamente la possibilità di una loro dissonanza. Nei film dei Vanzina o di Neri Parenti – solo per dirne alcuni – il comico non funziona più come movimento di allargamento e sviluppo della società (Frye); non ha neanche più bisogno cioè di proporsi come soluzione alle tensioni provocate dall’integrazione di nuovi soggetti, poiché essi sono già frutto 86

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di quel modello di società. Se dunque il tipo della commedia riassumeva ed esponeva degli atteggiamenti peculiari che rimandavano a più individui – sintetizzabili poi in un particolare “ingombrante”, qualità o vizio che fosse, e proprio perciò “caratteristico” – il prototipo semmai suggerisce, o meglio, induce a determinati atteggiamenti. Laddove il tipo sintetizza una concreta realtà sociale – è cioè a tutti gli effetti tipico – il prototipo la modella, la piega a uno scopo che non riflette nient’altro che una volontà di consenso istupidito. Negli anni ottanta l’Italia vive così la propria epopea del benessere, un benessere che però si è rivelato illusorio, in cui la commedia perde la propria dimensione politica per dedicarsi all’illustrazione spettacolare dei sogni facili, veicolata da una forma di comico che non deforma più la realtà poiché essa è stata definitivamente proiettata fuori campo – ed insieme vi sono finiti anche i destinatari. Con la televisione si è infatti verificato sì un allargamento di pubblico, così come già era accaduto negli anni quaranta e cinquanta, ma è mancato, al contrario del dopoguerra, l’emergere di nuove classi sociali con cui il cinema potesse confrontarsi per poi aprirsi a nuove tematiche. Le trame delle “nuove commedie” sono basate più sulle gag di certi personaggi fissi che non sull’esplorazione delle dinamiche conflittuali innestate dai tentativi d’integrazione dell’individuo nella società di appartenenza. Si pensi ad esempio ai vari Massimo Boldi, Christian De Sica, Lino Banfi o Ezio Greggio, al modo in cui la loro maschera è ormai tutt’uno con la loro faccia e con il ruolo che rivestono indifferentemente nei film o nelle trasmissioni televisive, fino a una totale indiscernibilità tra la persona e il personaggio6 . I “nuovi comici”, con i loro tic e le loro manie, si limitano così a riproporsi attraverso delle vicende “esemplari”, proprio come accade nella migliore tradizione della serialità televisiva. Non va infatti dimenticato che il cinema degli anni ottanta e novanta ha costruito, proprio grazie a questo meccanismo di ripetizione, tutto un bacino di personaggi che poi la televisione ha finito col riciclare per la recente esplosione del fenomeno dei reality show, in cui si verifica un curioso capovolgimento del rapporto tra immagine e realtà. È proprio con questo nuovo tipo d’immaginario che hanno fatto i conti alcuni degli autori emersi negli ultimi anni. Un immaginario che non sembra più radicarsi nella “realtà 87

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della strada”, o almeno non direttamente, ma che si nutre dell’iconosfera e di tutta la galleria di personaggi creati ex novo dalla televisione e dalla sua programmazione. Il volto icona ha insomma cancellato la maschera, e con essa la capacità di rifare il verso al popolo, la possibilità di metterlo in scena: la funzione di questi attori-personaggi è ormai diventata quella di proporsi ed esporsi piuttosto che esporre, di essere imitati anziché imitare. Paradossalmente il cinema italiano, di cui la commedia continua a essere il “genere” di punta, non sembra per questo aver indebolito il suo rapporto con la realtà, non sembra essere cioè meno “realista”. Non a caso questo discorso sembra valere ancora di più per le fiction, in cui la piattezza formale esportata dalla televisione – dall’illuminazione alla recitazione, dalla messa in quadro al montaggio – è ormai diventata uno standard riconosciuto e apprezzato dal pubblico (ma come si fa ad esserne così sicuri quando ormai non c’è neanche più la possibilità di scegliere qualcos’altro, quando uno standard è diventato lo standard?); tanto che il fenomeno principale verificatosi negli ultimi due decenni può essere considerato senz’altro quello di un’egemonia dell’occhio professionale, in cui la “funzione estetica” viene soppiantata da una “funzione sociale” – che preferisce l’inserirsi televisivo al raccordo cinematografico, il “piano medio” e lo “zoom contatto” al montaggio e al piano-sequenza, e in cui l’arricchimento tecnico è diventato il valore estetico supremo7 . La televisione tende così a sostituirsi al mondo – al contrario del cinema che cerca di renderlo abitabile – al punto da occultare il punto di vista e recidere il fuoricampo, che viene delegato alla funzione rafforzativa del commento8. Accanto a questo cinema che accarezza lo standard televisivo si è però sviluppato, e in maniera più visibile soprattutto negli ultimi dieci anni, un cinema che con l’immagine veicolata dal tubo catodico si confronta in maniera originale e critica. È di questo tipo di cinema che vorrei parlare come esempio forte del persistere di uno sguardo grottesco, anche se ormai liminale, all’interno della nostra tradizione cinematografica. Il caso più eclatante è naturalmente quello dei registi palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco, che dal cinema sono passati alla televisione per poi tornare nuovamente al cinema, creando una rete di rimandi – di stile, di situazioni, di personaggi – che si è dimostrata particolarmente feconda. 88

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2. SGUARDI CINICI

Amiamo il contaminato, l’ibrido, lo sporco, quindi la TV con tutte le sue porcherie per noi è un invito a nozze. D’altra parte la TV fa parte del nostro immaginario, noi lavoriamo tenendo conto del fatto che è una realtà con la quale bisogna fare i conti9 .

In queste parole ritroviamo già una prima importante indicazione, che riguarda la commistione tra il “basso” – della trivialità televisiva – e l’“alto” – non solo della forma cinematografica, ma anche delle citazioni musicali e visive – tipica del grottesco. Si tratta di un passaggio essenziale per tutto il cinema contemporaneo, che per Ciprì e Maresco è quasi una dichiarazione di poetica dalla quale ripartire. Soltanto in quest’ottica si può infatti capire come il cinema dei due registi palermitani non possa esaurirsi nell’autoironia metalinguistica – riscontrabile soprattutto nell’incipit di Totò che visse due volte (1998), in cui viene simulata la proiezione de Lo zio di Brooklyn (1995) davanti ad una platea schifata, di cui fa parte l’uomo che poi si toglierà l’occhio – cui si riferisce Canova10 . Al di là dell’operazione demistificante messa in atto sul corpo del cinema, quello dei due autori palermitani costituisce a mio parere un tentativo di “ritrovare” uno sguardo – anziché di “reinventarlo” come succedeva in Un chien andalou (1929) di Buñuel – laddove è rimasto il vuoto della sua orbita. Il loro è infatti un discorso destinato a un tipo di spettatore, ormai divenuto maggioranza, che è letteralmente drogato da immagini televisive davanti alle quali si rutta abitualmente e non solo – il rapporto tra la serialità televisiva e la cadenza dei pasti sarebbe un altro aspetto interessante da approfondire – uno spettatore che ha perso la forma cinematografica dietro lo scorrere senza sguardo delle immagini televisive, ormai incapace di metabolizzare la valanga d’informazioni che gli piovono addosso11 . Da questo punto di vista lo sguardo cinico di Ciprì e Maresco si avvicina più a quello crudele che caratterizza molti autori della modernità – uno sguardo che non si ritrae dall’orrore della realtà, ma che anzi lo raffigura attraverso una rigorosa disciplina compositiva – che non appoccio 89

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anaffettivo tipico di tanti prodotti contemporanei, che tende a fagocitare e a liquidare le pratiche formali e di pensiero tipiche dell’avanguardia. Sono invece proprio i tratti tipici di quest’ultima – soprattutto l’ironia ed il radicale sperimentalismo – a essere ripresi dai due autori palermitani, riflessi dalla volontà morale di riprendere la fine del cinema, o almeno di un certo tipo di cinema, causata dallo strapotere delle nuove tecnologie12 : una visione della fine non conciliatoria, ma assolutamente lucida e distaccata. Nelle nostre immagini, c’è una sgradevolezza molto evidente e forte, tale da generare, per istinto, un moto di rifiuto. Ma è nostra precisa convinzione che rappresentare un personaggio con cui sia possibile l’identificazione, oggi ma anche appena ieri, sia qualcosa di sostanzialmente immorale, perché segno inequivocabile di un cedimento13.

I due autori palermitani ricercano dunque una scena originaria, una “preistoria” del cinema che assume alcuni dei tratti caratteristici del grottesco, a partire da quella volontà antimimetica che abbiamo visto essere alla radice del comico. In questo senso, il mondo fisico che emerge dalle opere di Ciprì e Maresco corrisponde perfettamente alla definizione che Deleuze dà dell’immagine-pulsione: un’astrazione geografica, storica e culturale dei luoghi ripresi; una degradazione che accomuna natura e uomo all’interno delle inquadrature fisse; il riemergere costante di pulsioni non sublimate in attività produttive e redditizie per se stessi e per la società. Ciprì e Maresco rivelano in questo modo il fondo del percorso iniziato da Marco Ferreri: una parabola che porta definitivamente ad abbandonare la tradizione della forma commedia, per compiersi nella volontà di guardare la fine dell’uomo (anche quando non si avrebbe più voglia di guardare) pur di non arrendersi alla stolta ricerca del divertimento che ha caratterizzato gli anni di vuota euforia di un paese che si è lasciato dietro di sé interi pezzi di territorio, dimenticandoseli nella corsa al benessere; pezzi che hanno continuato a premere ai bordi della nostra storia, e che con Ciprì e Maresco tornano a occupare il centro della scena in tutta la loro oscenità.

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La tradizione grottesca nel cinema italiano Io a volte ho voglia di non vedere più. Bisogna mettere a riposare la testa. Molti amici mi rimproverano perché non vado quasi mai al cinema, non ho questa fame di vedere. La moda della cinefilia mi fa schifo, bisognerebbe disintossicarsi, far riposare gli occhi, perché non distinguiamo, non apprezziamo più nulla14 .

Quella che può essere considerata come tragedia della vista finisce con l’identificarsi così con una coazione a vedere, che altro non è se non la conseguenza inevitabile di una mercificazione dello sguardo provocata ancora una volta dalla presenza ingombrante della televisione. Per questo non possiamo che uscire disgustati dalla visione delle immagini di Ciprì e Maresco: perché lo sguardo vi ritrova una profondità letteralmente oscena, un distacco che elude quella compassione che ci viene servita quotidianamente dai casi umani invitati ai vari talk show, che poi dimentichiamo puntualmente il giorno seguente. È proprio questa umanità s-naturata che Ciprì e Maresco riprendono senza nessuna pietà, un’umanità sì lussuriosa – di guardare, di masturbarsi – ma pervasa da un desiderio mortuario – guardare la morte in diretta, differire il desiderio sui simulacri – da cui il cinema non può che prendere commiato se non vuole esso stesso rischiare di morire.

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3. DAL GROTTESCO AL TRAGICO: UN RITORNO

Nelle inquadrature lunghe di Ciprì e Maresco si sente la voglia di ritrovare una dimensione più umana in uno spazio sempre più tecnologico, in cui la moltiplicazione degli sguardi porta sempre più spesso allo svuotamento e allo sfinimento del senso. I due autori palermitani cercano insomma di sfidare la televisione e l’informatica sul loro terreno, proprio come auspicava Deleuze, inserendosi nel flusso televisivo – e questo vale soprattutto con i loro esordi di Cinico TV – e rimettendo in discussione il rapporto che si è creato tra simulazione e realtà nell’era della “spettacolarità espansa” e della “esteticità diffusa”. È quanto sottolinea anche Maurizio Grande riagganciandosi alla “questione estetica” avanzata da Lizzani nel suo libro sulla televisione15. L’idea di non adeguarsi al ritmo imposto dai tempi televisivi, di ricreare cioè una “scena originaria”, corrisponde esattamente a una delle dimensioni possibili del politico. In Ciprì e Maresco vi è infatti l’imperativo morale d’invalidare innanzitutto l’immedesimazione passiva dello spettatore con i personaggi e con la storia, tentativo che viene portato avanti sia cortocircuitando i dispositivi tipici della comunicazione televisiva – tempi lunghi contro tempi corti; un’estetica del brutto che richiami la bestialità dell’uomo contro un’estetica del bello artificiale; l’uso di un bianco e nero marcatamente fotografico contro il colore saturo del digitale; una solenne iconicità dell’immagine contro una parola prigioniera di un linguaggio che non dice più niente – sia rifondando dei “mondi originari” attraverso la forza di uno sguardo cinico che isoli le deformità del reale per smascherarne l’artificiosità. Quello che i due autori palermitani ritrovano al fondo dell’orbita nera senz’occhio è un mondo ridotto ai minimi termini, un’umanità abbandonata da Dio, in cui gli uomini si confondono con gli animali e dove la donna non è ancora stata creata; o meglio, esiste soltanto al fondo di un desiderio irrealizzabile che sfoga le proprie pulsioni contro i feticci – nell’abbracciare la statua di una santa strofinandovisi addosso, ad esempio. Per questi e altri motivi gli uomini ripresi da Ciprì e Maresco sembrano dei non-vivi che ritornano dopo l’apocalisse ferreriana – in 92

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cui la stasi e la coazione a ripetere dovevano ancora confrontarsi con un ultimo tentativo di adattamento – ma anche dopo il carnevale bachtiniano; essi non ambiscono più a una rigenerazione, ma non ispirano neanche pietà: togliendo la maschera – abolendo i ruoli e, di conseguenza, la società – il grottesco ritrova un corpo le cui protuberanze ed escrescenze non rimandano ad alcunché di “gioioso”, ma semmai a un sublime che nasce dal disgusto e dal raccapriccio16. Riprendendo il corpo con le sue posture e nelle sue attese Ciprì e Maresco non potevano così che ritrovare il corpo quotidiano, anche se spoglio di quell’aspetto iniziatico e liturgico che si liberava dalle riprese fisse di Andy Warhol o del cinema sperimentale della scuola di Vienna17 . Al di là del recupero di una sua “originarietà”, si tratta infatti di un corpo ormai doppiamente “alienato”, perché schiacciato tra la comunicazione a senso unico della televisione da una parte – che tende ad azzerare tutte le differenze ed a confondere ogni posizione nell’indistinto brusio della confusione18 – e i codici e i ruoli di una tradizione che ancora permane come scheletro portante (ma in molti casi ormai privo di senso) dall’altra. L’abolizione della distanza tra sguardo e corpo ci introduce inoltre nel dominio di quella che possiamo definire come “fruizione pornografica”, cioè a un’esperienza di consumo, proposta intenzionalmente, che rimanda alla crescente offerta voyeristica disponibile su Internet – ma non solo, se si pensa al fenomeno televisivo delle veline, del corpo oggetto che richiama lo zoom contatto ed il moltiplicarsi delle angolazioni impossibili. Tutto questo è particolarmente evidente soprattutto nei corti realizzati per Cinico TV e Fuori Orario, nei quali la voce fuori campo di Maresco richiama non solo il ruolo del regista – del deus ex machina che decide del destino dei personaggi – ma opera anche un ribaltamento grazie al quale non è più il pubblico a inserirsi nel programma, bensì è il conduttore a invadere il mondo di questi spettatori ormai ridotti alle loro pulsioni primarie – la scena iniziale di Totò che visse due volte, in cui il pubblico si masturba nella sala buia del cinema, è in questo caso particolarmente indicativa: un mondo in cui ogni conflitto sembra del tutto scomparso e i cui atteggiamenti vengono messi cinicamente alla berlina dalla perentoria voce off19. È vero che la voce fuori campo scomparirà con la realizzazione dei lungometraggi, ma la 93

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scelta mi sembra rafforzare l’idea che non si possa ritrovare un’originarietà dell’uomo se non attraverso la critica e la distruzione di tutti i cliché – anche i propri, per quanto funzionali – che lo imprigionano quotidianamente. Si può quindi affermare che, seguendo un trattamento dell’immagine tipicamente grottesco, Ciprì e Maresco ritrovano la “realtà naturale” attraverso una deformazione della “realtà oggettiva” – che in questo caso non può che essere quella che ci rimanda continuamente la televisione attraverso la propaganda dei propri modelli. Se con lo Zio di Brooklyn i due autori palermitani s’interrogano su cosa ci possa essere dopo la fine del mondo e del cinema, con Totò che visse due volte si registra invece un ritorno a un modello di cinema “alto”, d’autore, proprio grazie a un al di là della frammentazione televisiva e della deriva del racconto. Attraverso il recupero del tema del sacro, Ciprì e Maresco ritrovano il tragico, ma in una dimensione “moderna”, poiché orfana dei presupposti dell’antica tragedia – al posto della polis ritroviamo pertanto la periferia degradata, abbandonata dalle donne e da dio, in cui il rapporto tra individuo e società è venuto definitivamente meno. Se consideriamo il “mostro” come colui che per natura si trova escluso dalla società e dalla civiltà stessa, ne deriva che in questo cinema non può più sussistere una formacommedia, che poggia sulle dinamiche di incorporazione dell’individuo nella società. Nel loro tentativo di ri-fondare un’originarietà della scena, Ciprì e Maresco ripristinano la società antecedente a quella della tragedia, lo stadio dionisiaco di fusione panteistica tra uomo e natura, in cui viene meno la distanza tra scena e pubblico – quanto meno di quello che si riguarda schifato nel buio della sala cinematografica di Totò che visse due volte20 – che seguiva all’estromissione dell’eroe che impersonificava la colpa. L’eroe diventa dunque “mostro” perché si rifiuta di fondare la nuova società, non accetta cioè il gesto arbitrario che lo collocherebbe fuori natura e si abbandona all’universo fisiologico, rifiutando di conseguenza sia la resa del corpo a finalità produttive che l’universo simbolico instaurato dal linguaggio – o quantomeno ne denuncia l’artificiosità coatta e coercitiva che la fiction televisiva vorrebbe far apparire come “spontanea” e “naturale”. Ai 94

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cedimenti della lingua corrisponde un incespicare della memoria – anche questa lontana da quell’immutabilità propria della tragedia – che rimanda a una cacofonia del mondo (e del cinema) in grado di liberare immagini e suoni da una stretta interdipendenza, ritrovando così il dionisiaco dietro l’apollineo21 . Si potrebbe affermare, senza esagerare, che quello di Ciprì e Maresco sia perciò un cinema talmente autosufficiente – in cui, alla maniera di Ejzenštein, dal lavoro sulla forma emergono i concetti – da non aver neanche bisogno della critica, anche se la deve prepotentemente ri-guardare22 . Che il cinema di Ciprì e Maresco ci guardi e ci riguardi talmente da vicino da infastidirci ne è prova l’accoglienza riservata dalla censura a Totò che visse due volte – a suo modo geniale, nel riuscire a far risorgere un film di risorti. Che il destino del loro cinema non possa che essere tragico lo si capisce dalle difficoltà – produttive e distributive – che i due autori palermitani incontrano ogni volta che vogliono portare a termine la loro ultima fatica, dallo scandalo e dal clamore provocato da ogni loro nuovo lavoro, in definitiva dalla volontà di voler vivere da “esiliati” da un mondo – quello della televisione, ma forse ancor di più quello del cinema, o almeno di un certo cinema – in cui non si riconoscono affatto. In modo cinico, proprio come Diogene dentro la sua botte.

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CONCLUSIONI FUORI CAMPO: DIVI E REDIVIVI DEL CINEMA ITALIANO

Quando si giunge alla fine di un percorso resta sempre la tentazione di fare un passo indietro, di riprendere alcuni passaggi per modificarli, di aggiustare inomma la mira. Si resta sempre presi tra l’ossessione di essere chiari e comprensibili – che nasconde poi la pretesa di dare una parvenza di scientificità all’analisi – e la paura di aver piegato il proprio oggetto di studio alle strette maglie di una teoria a priori. Sono paure giustificate, poiché rivelano la difficoltà di tenere conto della capacità di resistere – alla morte, all’analisi – dell’arte, ma bisogna anche avere il coraggio di lasciare che sia lo stile a parlare per sé, riconoscergli cioè la capacità di far apparire i testi sotto un’altra luce, di farli brillare anziché chiarirli. Credo che tutto questo diventi effettivamente possibile soltanto quando si prende il largo, quando ci si liberi delle zavorre del sapere pratico/scientifico per portarsi dietro soltanto le proprie emozioni e una bussola, che serve a non perdere mai la propria posizione all’interno del discorso, a mantenere cioè una (parvenza di) coscienza intellettuale che vigili sull’incoscienza affettiva. Più che contribuire alla formazione di un sapere, ritengo che questo tipo di approccio stia alla base del rapporto pedagogico, di un discorso cioè che per trovare deve cercare, che insegni le domande più che le risposte23 . Personalmente è quello che ho provato nel rileggere i libri che Maurizio Grande ha dedicato alla commedia all’italiana, all’interno dei quali si avverte chiaramente il tentativo di cercare qualcosa di diverso sotto i cumuli di teorie e di critiche che hanno ricoperto il cinema di quegli anni, affibbiandogli spesso etichette superficiali e viziate da pregiudizi ideologici. In questo tentativo di dire ciò che forse ancora non si sa, io credo di aver riconosciuto ciò che invece sentivo già: che un certo tipo di cinema, che qui ho associato al grottesco per le modalità con cui riconfigura la “realtà concreta”, è quello in cui mi ritrovo, quello che più di tutti mi riguarda. Per questo ho cercato di fare di questi testi la mia bussola ed ho tentato di spostare l’orizzon97

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te un po’ più avanti, probabilmente errando – ma il viaggiatore che altro può fare se non errare? Nella prima parte di questo studio ho perciò raccolto tutti i miei strumenti – ed è qui che ho temuto per la chiarezza – mentre nella seconda ho provato a usarli, ma in modo da piegarli all’oggetto e non viceversa. Ho creduto di vedere nel grottesco un modo d’inquadrare il mondo – anche se oggi liminale rispetto all’importanza che ha rivestito nella storia teatrale italiana e nel cinema, almeno fino agli anni settanta – che ancora resiste – ma non è il solo – ai tentativi omologanti di stampo televisivo. Anzi, il tipo di sguardo che più m’interessa è proprio quello che si confronta con la mancanza di sguardo della televisione, e che, proprio perché l’ama odiandola – è il caso di Ciprì e Maresco – riesce a lavorare un nuovo tipo d’immaginario, che per forza non può più essere quello da cui partiva la commedia all’italiana. L’idea, ancora tutta da approfondire, è insomma quella di vedere nella televisione un mezzo che genera la realtà più che rappresentarla, che ridisegna dunque un nuovo verosimile attraverso la messa in circolo di modelli – come nel caso paradossale dei concorrenti del Grande Fratello, selezionati inizialmente per rappresentare dei tipi, e che finiscono per diventare delle icone da imitare, fino al passaggio che li traghetta dalla televisione al cinema – che anziché rispecchiare la nostra società, tendono appunto a modellarla. L’esempio di Ciprì e Maresco è dunque sintomatico di una certa “tradizione” italiana d’inquadrare la realtà, che, lungi dal limitarsi a ripresentarla senza prospettiva, resiste nella pratica di alcuni autori – penso ad esempio a Tano da morire (1997) e Sud Side Stori (2000) di Roberta Torre, che meriterebbero un discorso a parte. Si tratta di un tipo di cinema che ho definito politico perché non si riduce a criticare la situazione di “spettacolarità diffusa” incoraggiata dall’ingombrante presenza della televisione, ma che a questo modello riesce a rispondere per così dire dall’interno – che è poi proprio il modo di funzionare del grottesco attraverso l’esagerazione del particolare – cioè senza snobbare intellettualisticamente il mezzo, ma anzi riconoscendone l’importanza sociale in quanto nuova fabbrica dell’immaginario. Il cinema di Ciprì e Maresco rivela dunque tutta la sua importanza nel mettere in prospettiva – nel ritrovare cioè un’estetica che 98

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esibisca le proprie forme – un linguaggio televisivo che esalta l’apparato tecnologico e riduce il proprio sguardo a quello dell’occhio professionale. In questo modo i due autori palermitani portano avanti la loro danza macabra del cinema sulla televisione, facendo così risorgere il cadavere della comicità italiana per troppo tempo imbalsamato nei mascheroni patetici e volgari della “nuova comicità” figlia degli anni ottanta. E sotto la maschera, fuori dall’illuminazione che esalta il trucco, ritroviamo sempre gli stessi mostri. Proprio come quello impersonato dal bravissimo Tony Servillo ne Il Divo24 (2008) di Paolo Sorrentino, che ci ricorda come la politica abbia appreso appieno la lezione della televisione – o è forse vero il contrario? – riuscendo a mantenere vive le stesse maschere, che si spartiscono le poltrone (e magari cambiano anche partito) ma che poi ritroviamo sempre al centro delle sequenze salienti della storia del nostro paese. Più di trent’anni dopo lo straordinario Todo Modo (1976) di Elio Petri, Sorrentino ha ripreso il registro grottesco per parlarci ancora una volta (ma non sembrerebbe mai abbastanza) del ruolo della Democrazia Cristiana nel rapimento e nell’uccisione di Aldo Moro. Mentre la classe politica protagonista di Todo modo è rappresentata da un partito che maschera la propria natura, che opera sotto la superficie del proprio corpo – in realtà già corrotto – quella offertaci da Il divo esibisce invece le proprie malefatte e sfida la legge alla luce del sole. In questo senso il film di Sorrentino sembra indissolubilmente legato a quello di Petri, come se al sacrificio di Todo Modo non potesse che seguire il festino organizzato per l’occasione da Cirino Pomicino, in cui gli ospiti si dimenano al ritmo dei tamburi, ma soltanto dopo il saluto ad Andreotti, che sembra essere l’unico detentore di tutti quei segreti ben nascosti sotto la postura rigida della sua camminata. Ne Il divo la festa non rappresenta tanto il momento della sovversione delle regole, quanto l’ultimo fuoco di paglia di una stagione politica ormai avviata alla fine, che, se non segna il ribaltamento dei ruoli di potere, disegna quantomeno il passaggio a un nuovo governo (del potere). Per certe trovate stilitiche, definibili come manieriste, il film di Sorrentino potrebbe rischiare di passare per una forma di celebrazione del protagonista, che non a caso è un divo – ma anche qui c’è un 99

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bel paradosso grottesco, frutto di un’inconciliabilità di fondo tra lo stile di regia e la figura impeccabile di un vecchietto quasi amabile per i suoi piccoli difetti (a volte persino ridicolo per la sua incapacità di uccidere con le proprie mani, come nella scena della caccia in cui gli si apre il fucile e ha un sussulto quando sente uno sparo) – ma questo non intacca assolutamente la politicità del film: al contrario di Todo modo, qua non vi è più la necessità di smascherare il potere, ma semmai quella di mettere il popolo italiano davanti allo specchio. L’incipit del film, dove Andreotti dice di esser sopravvissuto a tutti, e in cui il suo volto è associato dal montaggio alla serie di delitti eccellenti dei quali ripeschiamo indizi anche dal nostro immaginario, è una chiara accusa preventiva nei confronti di noi tutti, che abbiamo sempre saputo e siamo stati conniventi, come si evince dalla scritta a spray sul muro che il politico costeggia assieme alla sua scorta per recarsi in chiesa a confessarsi col prete. Un popolo, quello italiano, che è da anni in balia di una perdita della memoria alla quale si associa una sorta di regressione infantile: se la memoria è prigioniera del grande archivio di cui parla Andreotti (e nel quale, come s’intuisce dal finale, finiscono archiviate tutte le accuse nei suoi confronti), non resta allora che la regressione infantile, la riduzione del linguaggio a puro divertissement – come fa lo stesso divo durante la telefonata alla moglie dal Cremlino, quando si diverte a farle pronunciare delle parole che la costringono a scoprire i suoi difetti di pronuncia (d’altronde, nel finale del film si scoprirà che la donna non è meno feroce con il linguaggio scritto, visto che ha passato la sua vita a stracciare le lettere arrivate dalle spasimanti di Andreotti). In questo senso il film di Sorrentino non ci parla solo della spettacolare vita del divo o degli anni del crollo della Democrazia Cristiana, ma anche e soprattutto della politica all’epoca della Seconda Repubblica25 , dove tutto è riso e sberleffo, dove ci si può permettere di dire qualsiasi cosa e il suo contrario per poi fare la smentita dopo poche ore; dove il privato invade il pubblico con i suoi gesti incontrollati, come dimostrato dalla scivolata di Cirino Pomicino nelle stanze del quirinale, il cui urlo è lo stesso di un potere che non teme più nessuna etichetta, che invade i salotti televisivi al fine di ridurre a opinione qualsiasi argomentazione. 100

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Il divo è insomma il ritratto di una politica che già si avviava a divenire spettacolo, intrattenimento (un teatro in cui i protagonisti entrano in pompa magna e dal quale escono scortati dai carabinieri), e che ormai esibisce il proprio corpo posticcio e la propria maschera in modo così sfacciato da rendere impossibile qualsiasi caricatura. Quello presentato da Servillo è in fondo un ritratto “carico”, nonostante la volontà di perdere la propria individualità dietro l’esatta riproduzione della postura del potere (o forse proprio per quello, dato che quella postura, ingobbita dal peso dei segreti, è già carica di suo). Lo stesso vale per lo stile di Sorrentino, nonostante l’apparente rigore formale che da sempre lo caratterizza, poiché vi è sempre nei suoi film qualcosa di eccessivo – uno sguardo, una voce – che ci mette di fronte alla pulsione (che sia il denaro, il potere o più semplicemente il desiderio). Come non ripensare al suono stridulo della voce di Cirino Pomicino, al suo accenno di passo di ballo che forse presagisce alla sfilata dei corrotti davanti alla corte dei magistrati, oppure al ghigno di Ciarrapico mentre in parlamento plaude all’elezione di Scalfaro? Il motto del film sembra essere proprio lo stesso di tanti grotteschi politici del cinema italiano: “Una risata vi seppellirà”. Ciò che però distingue profondamente questo film dall’illustre precedente di Elio Petri è proprio il lavoro degli attori protagonisti sulla maschera, ovvero Gian Maria Volonté/Aldo Moro da un lato e Toni Servillo/Giulio Andreotti dall’altro. Se nel primo caso si può parlare del volto come ribalta del “carattere” o del “tipo”, nel secondo ci troviamo invece davanti a una faccia che assume con versatilità la maschera come “secondo volto”. La scelta della coppia SorrentinoServillo non è certo casuale, poiché con l’avvento della televisione la politica italiana ha perso gradualmente la propria capacità di presa sui problemi reali del popolo che essa governa per concentrarsi sull’esposizione della propria faccia (o, per meglio dire, della facciata) e del proprio corpo26 come prova di una capacità performativa che deve sopperire al vuoto lasciato da discorsi che si riducono sempre più spesso all’aggressione verbale nei confronti dell’avversario di turno. Il politico si è trasformato cioè nella maschera di se stesso attraverso un processo molto simile a quello che ha coinvolto molti degli attori della commedia italiana degli anni ’80 e ’90. 101

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Questo mutamento ha indubbiamente lasciato delle tracce anche sul corpo della politica, che ha inaugurato, proprio con l’avvento della cosiddetta “Seconda Repubblica”, una nuova strategia di consenso, il cui successo non può che basarsi sul supporto dell’immagine televisiva: il politico di professione è oggi un attore, e l’arte dell’attore non è più un fatto politico. Proprio per questo Il divo di Sorrentino è un film politico, poiché mette a fuoco l’obiettivo su questo passaggio, non soltanto parlandoci del fallimento del settimo governo Andreotti – quello segnato dal tragico attentato a Falcone – ma anche facendosi carico di farci vedere, spesso parodiandolo, il linguaggio del potere. Non penso soltanto all’immagine del divo Giulio che guarda con la moglie il concerto di Renato Zero in tv (dalla quale la canzone gli ricorda “i migliori anni della nostra vita”), ma soprattutto a una delle ultime sequenze, nella quale Andreotti confessa tutte le sue malefatte guardando direttamente in camera, come se ci trovassimo improvvisamente nel confessionale del Grande Fratello. Così come nei salotti televisivi, anche nel film il politico sembra essere colui che ha il diritto ad avere l’ultima parola, anche se in questo caso – altro effetto di rovesciamento – lo fa per autoaccusarsi. Il divo esce insomma con un colpo di scena, e quasi ci aspettiamo che Toni Servillo getti la maschera per mostrarci il suo vero volto, ma lo spettacolo non lo consente, così come non lo permette quella politica che Sorrentino presenta come una pacchiana messa in scena, sottolineata già dall’iniziale presentazione dei vari esponenti della corrente andreottiana della Dc. Il divo si offre quindi come esempio di un cinema che sa fare propri gli altri linguaggi senza per questo essere meno cinematografico, senza dover sottrarre niente all’immagine. Sorrentino non celebra la spettacolarizzazione della politica, ma piuttosto la smaschera di fronte ai nostri occhi abituati al teatrino grottesco (ma solo per via del cattivo gusto che la caratterizza) che essa mette qutoidianamente in scena. Prendiamo ad esempio la famosa baruffa avvenuta in parlamento al momento dell’elezione del presidente della Repubblica, quando la nomina di Scalfaro impedì a Giulio Andreotti di coronare nel migliore dei modi la sua trentennale carriera. Vista in televisione, quella scena avrebbe semplicemente destato indignazione – effetto paradossale di 102

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un mezzo che si nutre soprattutto di finto moralismo, sempre pronto a giudicare comportamenti che essa stessa alimenta – mentre nel film di Sorrentino ci viene mostrata per ciò che effettivamente essa è: nient’altro che una messa in scena, frutto di una serie di strategie dettate da interessi particolaristici, che con il bene comune – lo Stato – hanno ben poco a che vedere. Il divo non si limita pertanto a ricordarci la scia di sangue che ha lasciato un partito di maggioranza che per decenni ha fatto il vuoto intorno a sé – non è cioè un documentario, né un film di denuncia o d’inchiesta – ma ci mostra la vera natura di quel potere, dietro la cui maschera non troviamo nient’altro che il trucco. Ecco allora svelato il motivo dell’aderenza di Servillo alla faccia del personaggio che deve interpretare, poiché qua non si tratta più di far vedere la scollatura tra il volto e la maschera – così come accadeva con la commedia all’italiana – ma di rendere evidente la mancanza di qualsiasi distanza tra un dentro e un fuori, tra un davanti (il proscenio) e un dietro (il camerino). Ed ecco spiegata anche la volontà di segnalare la presenza di Aldo Moro attraverso gl’inserti vocali, che sembrano giungere da un al di là radiofonico non ben localizzabile, che marca visivamente la distanza tra lo statista sequestrato e il proprio partito – distanza segnata soprattutto dalle accuse che Moro rivolge ai suoi compagni, primo tra tutti proprio Giulio Andreotti. Quella voce ci riporta con forza all’ultima immagine di Todo modo, in cui Gian Maria Volonté si spara per raggiungere i propri compagni già morti, sui quali pesa oggi il grave sospetto di aver bleffato. I veri morti sono stati altri, quelli che Sorrentino ci mostra in un montaggio veloce e alternato che ci ricorda quello dei telegiornali nostrani, dove le notizie si accavallano le une con le altre senza logicità apparente, ma senz’altro mirata ad anestetizzare lo spettatore davanti allo spettacolo dilagante del dolore; con la differenza che ne Il divo ci sono delle associazioni che legano tra loro queste immagini di morte – a cominciare da quella reiterata dell’esplosione dell’auto su cui viaggiava il magistrato Giovanni Falcone – mentre in televisione il montaggio non è mai associativo. Anzi, a dire il vero in televisione non vi è mai un vero e proprio montaggio, se non nel senso che esso sovrappone un’immagine all’altra col fine di rendercele indistinguibili. 103

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Il divo rende così giustizia a un cinema che ha ancora la forza di riprendersi le immagini dal flusso ininterrotto dei palinsesti e di restituirle al mondo; a un cinema che ride sotto i baffi mentre osserva il trucco che si scioglie e la maschera che si disfa, e che serve forse anche a rendere giustizia a questo paese, che al cinema continua a togliere senza mai dare.

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Note 1 Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli, 2003, p.33: Oggi ci sono molte forze che si propongono di negare ogni distinzione fra il commerciale e il creativo. Più si nega questa distinzione e più si pensa di essere originali, aperti e colti. In verità si traduce solo un’esigenza del capitalismo, la rotazione rapida. Quando i pubblicitari spiegano che la pubblicità è la poesia del mondo moderno, quest’affermazione sfrontata dimentica che non c’è arte che si proponga di comporre o di rivelare un prodotto che risponda all’attesa del pubblico. La pubblicità può anche scioccare o voler scioccare, ma risponde comunque a una presunta attesa. Un’arte produce invece necessariamente un che di inatteso, di non-riconosciuto, di nonriconoscibile. Non c’è arte commerciale, è un non-senso. 2 In questo caso il termine “deriva” vuole avere un significato diverso rispetto a quello che ritroviamo in De Gaetano, che per “derive della commedia” (riferendosi in particolar modo al cinema di Ettore Scola) intende il movimento di “completo dissolvimento dell’umano nell’animale, come unica e ultima incarnazione del ‘basso’”. In proposito si veda Roberto De Gaetano Il corpo e la maschera, op. cit., pp. 99-108. 3 Sulla questione dei “nuovi comici” si veda Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit, in particolare il cap. V intitolato «Nuovi comici vecchie storie», pp. 163-180. 4 Sui film dei cosiddetti “telefoni bianchi” si veda Maurizio Grande, La commedia all’italiana, op. cit., pp. 18-25. 5 L’esempio più importante di questa latente resistenza di un cinema d’autore anche durante gli anni ottanta è senz’altro quello di Nanni Moretti. Si veda in proposito Roberto De Gaetano, La sincope dell’identità. Il cinema di Nanni Moretti, Lindau, Torino, 2002. 6 Si veda in proposito Paolo Noti, Il pesce ulivista e altre storie. La politica nel cinema comico-farsesco italiano da Tangentopoli a oggi, in «Close up. Storie della visione» n. 23, dicembre 2007-marzo 2008. 7 Su tutti questi punti si veda Gilles Deleuze, Lettera a Serge Daney, in «Bianco e Nero», n.1-2, gennaio/giugno 1996. 8 Si veda in proposito il mio articolo intitolato L’insicurezza del fuori campo: riflessioni tra violenza, politica e informazione, in «FrameOnLine», n. 77, maggio/giugno 2008: http://www.frameonline.it/ArtN044_Fuoricampo.htm. 9 Valentina Valentini (a cura di), «Teatro tragico e galleria comica. Uno zapping fra interviste e conversazioni con Ciprì e Maresco», in El sentimento cinico de la vida ( a cura di Valentina Valentini ed Emiliano Morreale), Catalogo retrospettiva, Palermo, 1999, p. 15. 10 Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, op. cit., p. 37: (...) per Ciprì e Maresco lo sguardo è già morto da tempo. Sopravvive come residuo, ma non funziona più. Il cinema di Ciprì e Maresco nasce da questo lutto, si genera a partire da questa perdita: dalla trasformazione dell’occhio in un simulacro che mantiene la forma di quel che è stato, ma non sa più (né, forse, lo vuole) captare i segni del mondo. 11 Valentina Valentini, «Il pathos della fine», in El sentimento cinico de la vida, op. cit.,

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Simone Ghelli pp. 42-43: A noi sembra che l’opera di C&M non sia assimilabile al repertorio dei prodotti postmoderni che, dichiarando esaurite le possibilità creative del soggetto, accettano l’omologazione e rinunciano alla contestazione. La loro produzione va contro l’accettazione del pluralismo che armonizza le differenze ed elimina i contrasti, concilia le polarità in quanto sostiene che gli opposti coincidano, così come è in antagonismo con il relativismo tollerante, la moltiplicazione scriteriata di tutti i discorsi, l’abolizione delle differenze e delle distanze, come viene proposta dall’interculturalismo: fra sé e il mondo, fra opera e realtà, fra oriente e occidente... 12 Sul rapporto tra estetica, tecnica e politica nell’ambito delle nuove tecnologie si veda Pietro Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma, 2007. 13 Valentina Valentini (a cura di), «Teatro tragico e galleria comica », in El sentimento cinico de la vida, op. cit., p. 30. 14 Ibid, p. 29. 15 Carlo Lizzani, Il discorso delle immagini. Cinema e televisione: quale estetica?, Marsilio, Venezia, 1995. Si veda anche Maurizio Grande, Il cinema in profondità di campo, op. cit., pp. 259-260: La realtà non esiste più senza un’adeguata messa in scena, o, quanto meno, è indecifrabile se non presenta una certa intensità ritmica (montaggio) e un corrispondente sviluppo drammatico. L’indifferenza con cui la gente può assistere a una rapina o a uno stupro in un parco è dovuta, secondo Lizzani, al fatto che la realtà diventa irriconoscibile senza la messa in scena degli eventi alla quale l’uomo di oggi è abituato. 16 Pietro Montani, «La vendetta di Lazzaro», in El sentimento cinico de la vida, op. cit., p. 78: (...) il disgusto cancella la distanza e ci impedisce di riflettere perché ha il potere di scambiare la rappresentazione (l’attività del ri-presentarci qualcosa) con la presenza (la passività dell’essere meramente affetti da un dato percettivo). Dunque l’immagine non si rivolge alla riflessione ma direttamente ai sensi (meglio: al godimento dei sensi), che ne sono sopraffatti, e pertanto non è, propriamente parlando, una rappresentazione ma un mero stimolo inelaborato che ambisce, nondimeno, a un’inappropriata prestazione simbolica. 17 Si veda Gilles Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, op. cit., e in particolare il cap. VIII intitolato «Cinema, corpo e cervello, pensiero», p. 213: Facendo degli emarginati i personaggi del proprio cinema, l’Underground si dava i mezzi di una quotidianità che travalicava nei preparativi di una cerimonia stereotipata, droga, prostituzione, travestimento. 18 Per un approfondimento sull’opposizione tra comunicazione ed estetica si veda Mario Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004. 19 Flavio De Bernardinis, «Cine non-luoghi italiani», in El sentimento cinico de la vida, op. cit., p. 51: Ciò che colpisce davvero, che inquieta, al di là dei gusti e disgusti, è esattamente l’esperienza di un eccesso che è causa e fine, al tempo stesso, dell’azione tragica. Il movimento della lussuria procede solo al soddisfacimento di sé e allo scarico libidico immediato. Non esiste, infatti, alcuna mediazione per un cinema così diretto e assoluto. 20 Per una diversa interpretazione degli elementi “metacinematografici” in Ciprì e

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finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso la Digital Team di Fano (PU) per conto de l’Orecchio di Van Gogh

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