La letteratura italiana. Storia e testi. Trattatisti del Cinquecento [Vol. 25.1]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI

VOLUME

2,5 •

TOMO

I

TRATTATISTI DEL CINQUECENTO TOMO I

TRATTATISTI DEL CINQYECENTO TOMO I A CURA DI MARIO POZZI

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO · NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISBRVATI • ALL RIGHTS RBSERVBD PRJNTED IN ITALY

TRATTATISTI DEL CINQUECENTO TOMO I

PREFAZIONE

IX

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

xv

PIETRO BEMBO

Nota introduttiva

3

PROSE DI MESSER PIETRO BEMBO NELLE QUALI SI RAGIONA DELLA VOLGAR LINGUA SCRITTE AL CARDINALE DE' MEDICI CHE POI FU CREATO A SOMMO PONTEFICE E DETTO PAPA CLEMENTE VII DIVISE IN TRE LIBRI

51

DEGLI ASOLANI DI MESSER PIETRO BEMBO NE' QUALI SI RAGIONA D'AMORE

Appendice: LETTERE

SPERONE SPERONI

Nota introdrlttiva

471

DIALOGI DIALOGO D'AMORE DELLA DIGNITÀ DELLE DONNE DIALOGO DELLE LINGUE DIALOGO DELLA RETORICA

APOLOGIA DEI DIALOGI DIALOGO DELLA ISTORIA

511 565 585 637 683

VIII

TRATTATISTI DEL CINQUECENTO

Appendice: LETTERE

GIOVAN BATISTA GELLI

Nota introduttiva I CAPRICCI DEL BOTTAIO

881

LA CIRCE

NOTA AI TESTI

Pietro Bembo

1161

Sperone Speroni

u78

Giovan Batista Gelli

1195

INDICE DELLE LETTERE DI P. BEMBO CITATE NELLE NOTE INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

1207 1215

PREFAZIONE

«Finalmente (qual che si sia la cagione) noi siamo in terra, uo-

mini e donne, quasi in mezo di qualche teatro e d'ogn'intorno per ogni parte del cielo siedeno li dèi, tutti intenti a guardare la tragedia dell'esser nostro. Noi adunque, il cui fine altra cosa esser non dee che 'l compiacere agli spettatori, sotto tal forma dovemo cercar di comparer nella scena che lodati ce ne possiamo partire [ •••] ». Queste parole, che lo Speroni sulla fine del dialogo Della dignità delle donne fa pronunciare a Beatrice degli Obizzi, esprimono bene la concezione della vita che fu propria dei più intelligenti e sensibili scrittori del maturo Rinascimento; una concezione in cui il "filosofo,. padovano si accordava perfettamente con il letteratissimo Pietro Bembo, al di là delle profonde divergenze sul "come" l'uomo debba recitare la sua parte. Quale che fosse larisposta a questo e ad altri interrogativi, appunto perché erano convinti che l'uomo deve vivere con la maggior dignità e consapevolezza possibili, essi sentivano la necessità di riflettere sulla loro condizione di uomini che operavano in una determinata realtà e sulla "civiltà" a cui aspiravano: donde il fiorire della ricca e multiforme trattatistica che è l'oggetto di questo volume. È una trattatistica a cui un tempo si guardava con sufficienza o addirittura con disprezzo, irridendola o comunque biasimandola per l'andamento scopertamente letterario; pertanto veniva collocata fra i prodotti deteriori di un secolo incapace di distinguere fra verità e loci retorici. Oggi però la critica più smaliziata, fatta giustizia dei miti romantici e positivistici, non ha difficoltà a riconoscere che il trattato letterario non fu il gioco ozioso di un'età malata di formalismo, bensl il frutto della convinzione, nient'affatto immotivata, che le hu,nanae litterae per un'indagine sull'uomo offrono strumenti più adatti di quelli forniti dalle scienze dimostrative. La retorica e le arti sembravano più "umane" della logica, della fisica, della metafisica, della teologia, che si aggiravano intorno a verità eterne e immutabili con chiose, commenti, parafrasi: la prima, in quanto strumento di quella civile conversazione in cui l'uomo manifesta la sua dignità; le seconde, in quanto creazione dell'uomo, che per loro mezzo trasforma la natura e riinventa la realtà. Aristotele, cioè la filosofia, non offriva ideali di vita tali da soddisfa-

X

PREFAZIONE

re le aspirazioni di uomini che - desiderosi di realizzare su questa terra le doti peculiari dell'uomo - trovavano un appagamento piuttosto nei umiti" letterari della bellezza, dell'armonia, della grazia, in cui pareva di scorgere il riverberarsi di qualcosa di eterno e di divino. Queste qualità ideali ovviamente venivano ricercate anche e sopra tutto nelle scritture, a cui spesso si affidava la speranza di sopravvivere alla morte fisica; anzi il trattato, nella sua stessa struttura, cercava di raffigurare quell'azione scenica di cui parla l'Obizza. Pertanto, invece di rendere le idee essenziali per via di astrazione, i trattatisti le concretizzano e, mescolando l'universale con il particolare, le incarnano in personaggi che conversano e discutono con urbanità in un armonioso gioco delle parti. Di qui la spiccata preferenza per il dialogo, che riproduce il ritmo di una ricerca a più voci, nella quale s'incontrano o si scontrano opinioni divergenti, eppure tutte in qualche misura dotate di verità, una verità che non si vuole o non si sa isolare. Il desiderio di realizzare e di partecipare a una civile conversazione era in parte soddisfatto anche dalle lettere, che talora sono vere lettere-trattato, in cui il dialogo fra dotti si svolge senza le durezze del trattato dimostrativo per la presenza silenziosa, ma non dimenticata, di un interlocutore. Ma non è solo per questo che ai trattati abbiamo accostato scelte di lettere: entro certi limiti, le lettere ci consentono di instaurare un confronto fra ideali e realtà; inoltre, osservando i cinquecentisti in panni più dimessi e alle prese con i problemi piccoli e grandi della vita quotidiana, possiamo constatare quanto a fondo agissero i "miti" del Rinascimento. Il valore letterario e l'importanza storica delle singole opere, com'è ovvio, è vario e dipende in gran parte dal modo in cui si realizza l'accordo difficile, e sempre precario, fra retorica e filosofia, fra ideale e reale: il dialogo cinquecentesco, anzi, si dissolve (o meglio, si trasforma) quando uno dei due elementi si impone sull'altro o acquista coscienza della propria autonomia. Se troppo prevale l'elemento letterario, il dialogo si muta in commedia o scade nella vacua retorica (quella che già allora veniva decisamente condannata); se invece è il reale (o addirittura la cronaca) a imporsi, si giunge a dissertazioni tecniche che, perdendo di vista l'uomo nel suo insieme, preludono ai moderni trattati sulle varie professioni oppure costituiscono gli incunaboli delle moderne scienze umane: filologia testuale e critica letteraria, estetica e lin-

PREFAZIONE

XI

guistica, storia e politica, ecc. Nei tre tomi di cui si compone questa silloge assisteremo, dunque, a un vario processo di trasformazioni: dagli Asolani e dalle Prose della volgar lingua del Bembo alle Giunte e alla Poetica del Castelvetro, per segnare due punti estremi, mentre, per ragioni editoriali, restano esclusi e destinati ad altri volumi della collana non solo gli scritti su quelle che oggi chiamiamo arti, ma opere significative come il Cortegiano di Baldassar Castiglione e il Galateo di Giovanni della Casa. Un rapporto saldo, anche se variamente dissimulato da "filtri" letterari, con la realtà e la vita sociale è comunque il carattere precipuo del trattato cinquecentesco; un carattere che spiega la sensibile differenza fra le singole opere (s'intende che parliamo di quelle non dozzinali e insignificanti, che esistono in ogni tempo e paese), in cui si rispecchiano le esigenze e si trasfigurano le condizioni di centri culturali assai diversi l'uno dall'altro. Appunto perché lo splendore della forma e la ricerca dell'euritmia nascondono, ma non escludono, il "certo" ricavato dall'esperienza, la trattatistica può subire le trasformazioni cui si è sommariamente accennato e giungere a un passo dalla commedia o concentrarsi sul proprio oggetto, fornendo in nuce verità di ordine estetico o linguistico. Questa concordia discors, questo canto a più voci, è immediatamente avvertibile in questo primo tomo che abbiamo voluto dedicare a tre personaggi "rappresentativi" di ambienti diversi e di diverse concezioni della cultura, capaci di fornire anche dal punto di vista tematico un campione abbastanza preciso delle discussioni che appassionavano i cinquecentisti. Questo tomo, dunque, è formato da tre "monografie", da tre ritratti a tutto tondo; diversa la struttura degli altri due, articolati pur senza dimenticare la personalità dei singoli autori - per questioni o problemi. In particolare, il secondo è dedicato alle discussioni linguistiche e ai trattati sul comportamento, l'amore, la grazia, la bellezza, la donna; il terzo alle poetiche e alle discussioni letterarie (sul poema cavalleresco, sulla tragedia, su Dante, sul Tasso, ecc.). Il commento - nelle intenzioni, almeno - si adegua al carattere particolare dei testi e della silloge in cui sono compresi. Pertanto è volto innanzi tutto a precisare i "filtri" di cui i singoli trattatisti si sono serviti per esporre le loro opinioni, e cioè le fonti o i modelli a cui si sono rifatti, senza trascurare il diffuso (e, in certo senso, analogo) fenomeno dello scrittore che rifà sé stes-

XII

PREFAZIONE

so. Il confronto, per esempio, fra i dialoghi e le Letture dantesche del Gelli non è, crediamo, meno illuminante di quello fra le sue pagine e le fonti plutarchee o ficiniane. Ad illustrare l'incessante ricerca di una forma che aderisca perfettamente al contenuto, è volta l'ampia citazione di varianti redazionali. La documentazione fornita dovrebbe consentire ai lettori di intendere la maniera complessa in cui i trattatisti miravano a un'originalità che non consisteva, o non consisteva soltanto, nella novità delle idee. Niente può essere detto che non sia già stato detto prima, sostengono all'unisono il Gelli, il Doni e il traduttore francese dello Speroni, Claude Gruget. Ma proprio la maniera in cui quest'ultimo si impadronisce di idee speroniane e le volge al servizio del nascente nazionalismo linguistico francese, mostra che non è questione di verità ma di assimilazione storica della verità. La Deffence del Du Bellay, per esempio, non perde la sua importanza storica per essere una traduzione quasi letterale del Dialogo delle lingue dello Speroni: l'imitazione e l'assimilazione dell'altrui pensiero, infatti, non sono classificabili come inerte ripetizione o plagio, sempre beninteso che la traduzione o la parafrasi comportino l'adattamento di una verità a una nuova realtà, e quindi in certo senso una verità diversa. Le note, dunque, si propongono di chiarire fatti e rapporti culturali, di documentare discussioni e polemiche, di studiare l'incidenza delle singole opere sulla cultura italiana ed europea (compresa l'azione negativa esercitata dalla censura). Frequentemente anzi il commento più che un'esplicazione è un'integrazione del testo, o meglio vuol essere le due cose insieme, in quanto riproduce scritti - siano essi fonti, trattazioni similari o risposte polemiche che, mentre spiegano il testo, ampliano il discorso e permettono al lettore di compiere confronti e approfondimenti. Trattandosi di opere che spesso vivono sopra tutto per la loro forma letteraria, una maggior attenzione si sarebbe dovuta prestare ai fatti stilistici, ma non si è creduto di dover appesantire ulteriormente un commento già massiccio, anche se non si è rinunciato a fornire qualche indicazione, là dove era indispensabile per intendere le caratteristiche di un'opera o di uno scrittore: lo stile degli Asolani, per esempio, o gli idiotismi del Gelli. Più in generale le note (non solo quelle a piè di pagina) risentono della varia situazione critica in cui versano i singoli autori; lo stesso si può dire dei testi proposti, tutti

PREFAZIONE

XIII

accertati con scrupolo, eppure di diversa "certezza" testuale perché, mentre per alcuni si disponeva di inappuntabili edizioni critiche, per altri non si poteva andare al di là dei primi sondaggi. Ma il commento, ancor più che lo stato dei testi, è destinato a essere una proposta che presto (ci si augura) altri supererà con un'altra migliore. Anche i commenti sono «un intervallo fra due letture»: lo scopo di questa sarebbe raggiunto se rendesse più facile e più proficua la successiva. E appunto in vista di ulteriori indagini si è creduto opportuno includere nel terzo tomo un Indice analitico generale che, raccogliendo e analizzando le molte trame della trattatistica, consenta preziosi confronti e costituisca - specialmente se accostato a quello analogo degli Scritti d'arte del Cinquecento uno "spaccato" o, se si preferisce, un inventario nel complesso attendibile della cultura cinquecentesca. MARIO POZZI

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

A

= Gli Asolani di M.

PIETRO BEMBO, impressi in Venezia nelle case d'Aldo romano ne l'anno 1505 del mese di marzo.

= Degli Asolani di M.

PIETRO BEMBO, stampati in Vinegia per Giovanantonio e i fratelli da Sabbio, 1530. BEMBO, Opere 1729 = Opere del Cardinale PIETRO BEMBO, ora per la prima volta tutte in un corpo unite, in Venezia 1729, presso Francesco Hertzhauser (4 volumi). BEMBO, Istoria veneta = le due redazioni, latina e volgare, della storia, stampate a fronte in Opere 1729, I. BOCCACCIO, Opere = G. BOCCACCIO, Opere minori in volgare, a cura di M. Marti, Milano 1969-1972 (4 volumi). BORGHINI, Annotazioni al Decameron = Annotazioni e discorsi. sopra alcuni luoghi del Decameron di M. Giovanni Boccacci, fatte dalli molto magnifici, sig. Deputati da loro Altezze Serenissime, sopra la correzzione di esso Boccaccio, stampato l'anno I573, in Fiorenza, nella stamperia dei Giunti, 1574. BoRGHINI, Novellino = Libro di novelle e di bel parlar gentile, in Fiorenza, nella stamperia dei Giunti, 1572,. BRUNI 1967 = F. BRUNI, S. Speroni e l'Accademia degli Infiammati, in « Filologia e letteratura», XIII (1967), pp. 24-71. B. TASSO, Lettere = B. TASso, Lettere, a cura di A. F. Seghezzi, Padova 1733 (2, volumi). B. TASso, Rime, a cura di P. A. Serassi, Bergamo 1749 (2 volumi).

B

=

Redazione manoscritta del Dialogo delle lingue dello Speroni, conservata nel tomo I dei manoscritti speroniani della Biblioteca Capitolare di Padova. Carteggio d'amore = M. SAVORGNAN - P. BEMBO, Carteggio d'amore, a cura di C. Dionisotti, Firenze 1950. CASTELLANI = Nuovi testi fiorentini del Dugenta, con Introduzione, trattazione linguistica e glossario, a cura di A. Castellani, Firenze 1952 (2 volumi). CASTELVETRO, Giunte, I = Correzzione d'alcune cose del Dialogo delle lingue di Benedetto Varchi, e una giunta al primo libro delle Prose di M. Pietro Bembo dove si. ragiona della vulgar lingua, fatte per Looov1co CASTELVETRO, Basilea, [P. Pema], 1572. CASTELVETRO, Giunte, II = Giunta fatta al Ragionamento degli articoli e de' verbi di messer Pietro Bembo, Modena, per gli eredi di C. Gadaldino, 1563.

C

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

XVI

CASTELVETRO, Giunte ms.

=

Giunte al secondo e al terzo libro delle Prose della volgar lingua, riprodotte in calce alle Prose, in Opere 1729, II. CIAN 1885 = V. CIAN, Un decennio della vita di M. P. Bembo (r52rI53I), Torino 1885. CICOGNA = Delle i11scrizioni veneziane, raccolte da E. A. Cicogna, Venezia 1824-1853 (6 volumi). CORONA ALESINA = G. B. GELLI, Opere, a cura di A. Corona Atesina, Napoli 1969.

=

S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 191 1. DE GAETANO 1976 = A. L. DE GAETANO, G. Gelli and tlze Fiorentine Academy. The Rebellion against Latin, Firenze 1976. DEGLI AoosTINI, Istoria degli scrittori viniziani = G. DEGLI AGoSTINI, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, Venezia 1752-1754 (2 volumi). DIONISOTTI = Prose e rime di P. BEMBO, a cura di C. Dionisotti, Torino 1966. D10N1SOTTI 1968 = C. DIONISOTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968.

DEBENEDETTI

Dizionario biografico degli Italiani = Dizionario biografico degli Italiani, Roma 1960 sgg. Du BELLAY = J. Du BELLAY, La deffence et illustration de la langue françoyse, édition critique publiée par H. Chamard, Paris 1961. Enciclopedia dantesca

=

Enciclopedia dantesca, Roma 1970-1976 (5

volumi).

= A.

FANO, S. Speroni (I500-z588). Saggio sulla vita e sulle opere. Parte I. La vita, Padova 1909. F'ERRARI = G. GELLI, La Circe e I Capricci del bottaio, con commento di S. Ferrari, Firenze 1897. FORTUNIO = G. F. FORTUNIO, Regole grammaticali della volgar lingua, Ancona, Bernardin Vercellese, 1 S16.

FANO 1909

GELLI 1855 = G. B. GELLI, Opere, a cura di A. Gelli, Firenze 1855. GELLI, Letture dantesche = Letture edite e inedite di G. B. GELLI sopra la Commedia di Dante, raccolte per cura di C. Negroni, Firenze 1887 (2 volumi). GELLI, Lezioni petrarchesche = Lezioni petrarchesche di G. B. GEL• LI, raccolte per cura di C. Negroni, Bologna 1884. GSLI = u Giornale storico della letteratura italiana».

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

IMU

=

XVII

« Italia medioevale e umanistica».

KEIL = Corpus grammaticorum Latinorum, ex recensione H. Keil, Leipzig 1857-1870 (7 volumi). L. L. = Capricci del bottaio di G10. BATI'ISTA GELLI Academico fiorentino, nelli quali sotto dieci ragionamenti mfJTali, fatti tra il corpo e l'anima, si discorre dottamente di quanto deve operar l'uomo per viver sempre felice, quieto e contento. Opera non meno sentenziosa che dilettevole per le varie materie contenute in essa di cose curiose e molto desiderate da sapersi da ogni vivente. Nuovamente corretta e tolto via tutto quello che poteva offendere il bell'animo del pio Lettore dal Rev. Padre Maestro Livio Legge, teologo deputato dell'ordine di S. Agostino. In Venezia, presso Marco degli Alberti, alla Libraria della Speranza, 1605.

M = Delle Prose di M. P. BEMBO nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de' Medici, che poi è stato creato a Sommo Pontefice e detto Papa Clemente VII, divise in tre libri. Impresse in Vinegia per Francesco Marcolini nel mese di luglio del 1538. MARTI = P. BEMBO, Opere in volgare, a cura di M. Marti, Firenze 1961. MARTI 1955 = P. BEMBO, Prose della volgar lingua, a cura di M. Marti, Padova 1955. NARDI 1965

=

=

B. NARDI, Studi su P. Pomponazzi, Firenze 1965.

Prose di M. P. BEMBO nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de' Medici, che poi è stato creato a Sommo Pontefice e detto Papa Clemente VII, divise in tre libri. Impresse in Vinegia per Giovan Tacuino nel mese di settembre del 1525. PLINIO, Nat. hist. = Istoria naturale di G. PLINIO SECONDO, divisa in trentasette libri, tradotta per M. Lodovico Domenichi, con le addizioni in margine, nelle quali o vengono segnate le cose notabili o citati altri auttori che della istessa materia abbiano scritto o dichiarati i luoghi difficili o posti i nomi di geografia moderni. Di nuovo ristampate, riviste e ricorrette. In Venezia 1603, appresso Pietro Ricciardi. PLUTARCO, Opuscoli = Opuscoli di PLUTARCO, volgarizzati da Marcello Adriani, nuovamente confrontati col testo e illustrati con note da F. Ambrosoli, Milano 1825-1829 (6 volumi). Pozzi 1975 = M. Pozzi, Lingua e cultt,ra del Cinquecento, Padova 1975. Prosatori latini del Quattrocento = Prosatori latini del Quattrocento, a

P

XVIII

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

cura di E. Garin, volume 13 di questa collana, Milano-Napoli 1952. Prosatori volgari del Quattrocento = Prosatori volgari del Quattrocento, a cura di C. Varese, volume 14 di questa collana, MilanoNapoli 1955. RoHLFS = G. RoHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino 1966-1969 (3 volwni).

= Opere di M.

S. SPERONI DEGLI ALVAR0TTI, tratte da' mss. originali, in Venezia 1740, appresso Domenico Occhi (s tomi). SANF.SI = Opere di G. B. GELLI, a cura di I. Sanesi, Torino 1952. SANSOVINO, Venezia città nobilissima = Venezia città nobilissi:ma. e singolare, descritta in XIV libri da M. FRANCESCO SANSOVINO [...]. Con aggiunta di tutte le cose notabili della stessa città, fatte e occorse dall'anno 1580 fino al presente 1663, da D. Giustiniano Martinioni [...]. Dove vi sono poste quelle del Stringa; servato però l'ordine del med. Sansovino. In Venezia, appresso S. Curti, 1663. SANUDo,Diarii = M. SANuoo,J diarii, Venezia 1879-1903 (58 volumi). ScHIAFFINI = Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, con Introduzione, annotazioni linguistiche e glossario a cura di A. Schiaffini, Firenze 1954 (ristampa). Scritti d'arte del Cinquecento = Scritti d'arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, volume 32 di questa collana (in 3 tomi), MilanoNapoli 1971-1977. SFI = «Studi di filologia italiana».

S

T = Prose di M. P. BEMBO nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de' Medici, che poi fu creato a Sommo Pontefice e detto Papa Clemente VII, divise in tre libri. Impresse in Firenze per Lorenzo Torrentino nel I 549 ad instanzia di M. Carlo Gualteruzzi. TISSONI = G. B. GELLI, Dialoghi, a cura di R. Tissoni, Bari 1967. ToMITANO 1546 = B. ToMITANO, Ragionamenti della lingua toscana. I precetti della retorica d' Aristotile e Cicerone aggionti, Venezia, G. de' Farri e fratelli, 1546. ToMITANO 1570 = B. ToMITANO, Quattro libri della lingua toscana, Padova, I. Olmo, 1570. V

=

Gli Asolani di M. P. BEMBO, in Vinegia, presso Gualtero Scot-

to, 1553. VARCHI, Ercolano = L'Ercolano, dialogo di messer BENEDETTO VARCHI nel qual si ragiona generalmente delle lingue e in particolare della toscana e della fiorentina, composto da lui sulla occasì,one della

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

XIX

disputa occorsa tra 'l Commendator Caro e M. Lodovico Caste/vetro. In Fiorenza, nella stamperia di Filippo Giunti e fratelli, 1570. WEINBERG = Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di di B. Weinberg, Bari 1970-1974 (4 volumi).

* Le opere di Aristotele e Platone vengono citate nelle rispettive traduzioni laterziane: PLATONE, Opere, Bari 1967; ARISTOTELE, Opere, Bari 1973 (ma della Poetica si è preferita la versione, ampiamente commentata e col testo greco a fronte, di C. Gallavotti, Milano 1974). Le Vite parallele di PLUTARCO sono citate nella traduzione di C. Carena (Milano 1965-1966). Ogniqualvolta un passo fosse chiaramente individuato dall'indicazione di libro, capitolo, paragrafo, dato il carattere informativo del rinvio, per non appesantire il commento non si sono fornite indicazioni bibliografiche. Le rime del Bembo sono citate dall'edizione curata dal DIONISOTTI; quelle di Dante dall'edizione curata da G. Contini (Torino 1965). Nel commento alle Prose della volgar lingua sarebbe stato opportuno rinviare alle raccolte di rime antiche utilizzate dal Bembo: il Codice Vaticano Latino 3214 (da lui posseduto e postillato), edito da M. Pelaez (Bologna 1895) e il Codice Chigiano L. VIII. 305 (affine a uno, perduto, che egli possedeva), edito a cura di E. Molteni e E. Monaci nel cc Propugnatore», X (1877), I, pp. 124-63, 289-342; II, pp. 334-413; Xl (1878), I, pp. 199-264, 303-32; xn (1879), I, pp. 471-86. Non lo si è fatto perché i rinvii sono presenti nel commento del DIONISOTTI, a cui si rimanda anche per altre informazioni. Le note al terzo libro delle Prose della volgar lingua sono forzatamente sobrie; il lettore potrà integrarle ricorrendo all'Enciclopedia dantesca, all'edizione delle Rime di Dante curata da G. Contini, ai Poeti del Duecento curati dallo stesso Contini (volume 2 di questa collana, 1960), ai Poeti del Dolce stil nuovo, a cura di M. Marti (Firenze 1969), alla Prosa del Duecento, a cura di C. Segre e M. Marti (volume 3 di questa collana, 1959), per non indicare che alcune delle molte opere che ho utilizzato con grande profitto. Per il Decameron, purtroppo, non ho fatto in tempo a servirmi dell'edizione critica secondo l'autografo hamiltoniano, curata da V. Branca (Firenze 1976), se non per pochi ritocchi; troppo tardi anche per questi è uscita l'edizione mondadoriana (Milano 1976), a cura dello stesso Branca, che comunque con il suo ricchissimo commento gioverà molto al lettore. I rinvii al Decameron, curato da V. Branca, s'intendano dunque come riferiti all,edizione lemonnieriana (Firenze 1965), la cui divisione in paragrafi, del resto, è stata mantenuta pressoché intatta nelle due successive edizioni.

PIETRO BEMBO

NOTA INTRODUTTIVA

Nato a Venezia il 20 maggio 1470 da Bernardo e da Elena Marcello, Pietro Bembo apparteneva a una generazione che, pur avvertendo la crisi dell'Umanesimo, non aveva ancora elaborato programmi culturali alternativi. Purtroppo le scarse notizie che possediamo sulla sua adolescenza e prima giovinezza non ci consentono di sapere quali studi compisse, quali fossero le sue relazioni letterarie, quale atteggiamento tenesse nei confronti delle molte e disordinate proposte che venivano allora formulate sia nel campo delle lingue classiche sia in quello del volgare. Ebbe come precettore un umanista poco noto, Giovanni Alessandro U rticio, per il quale provò stima e affetto; ignoriamo però quale insegnamento ne abbia ricevuto. Più importante sarebbe accertare quale influenza abbia esercitato su cli lui Giovanni Aurelio Augurello, che forse prima dell'Urticio - si occupò della sua educazione. Non sarà, comunque, solo per un caso che il Bembo e l' Augurello sono talora ricordati insieme come promotori del petrarchismo regolato: per esempio, nel canto xvu del poema Il monte Parnaso di Filippo Oriolo, essi «ristretti a paro a paro» vengono lodati perché il «volgar idioma, che corrotto / era e oscuro, tutto illuminaro ». Già nel De Aetna Pietro citerà versi dell' Augurello; il 7 luglio 1504 gli manifesterà il desiderio di avere, non appena finita la stampa, una copia dei suoi Cormi11a; più tardi, il I aprile 1512, lo inviterà, per il tramite di Trifon Gabriele, a esaminare i primi due libri delle Prose della volgar lingua e a segnalargli gli eventuali difetti. Da parte sua, il riminese fin dal 1491 aveva lodato il Bembo come poeta latino. È anche difficile dire se prima dei vent'anni il Bembo fu in rapporto con l'ambiente umanistico veneziano. Certo, però, dovette riceverne qualche influsso e conoscere almeno l'opera di Ermolao Barbaro, da lui poi introdotto come interlocutore nel dialogo filologico De Virgilii Culice et Terentii fabulis, composto intorno al 1503 anche se pubblicato solo nel 1530. Fra l'altro Ermolao vi manifesta un rapporto d'affetto con Pietro e Bernardo, che non può essere pura finzione letteraria: «et ipse Bernardum Bembum amo, et ille me. Eius autem Petrus Bembus filius mihi etiam secundum patrem plurimum tribuit ». Sul giovane studioso dovette I.

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PIETRO BEMBO

sopra tutto influire la forte personalità del padre, che non solo godeva di un notevole prestigio come diplomatico ma coltivava le lettere, collezionava libri ed era in rapporto con gli umanisti fiorentini. Appunto col padre, che vi tornava per la seconda volta come ambasciatore, egli fu a Firenze dal luglio 1478 al maggio 1480. Di questo soggiorno non si deve esagerare l'importanza; tuttavia le ottime relazioni di Bernardo col Landino, col Ficino, col Poliziano, con i Medici e con altri letterati fiorentini avranno lasciato indelebili ricordi nell'animo di questo fanciullo che non poteva ancora compiere scelte precise ma era già in grado di sentire simpatie per uomini e ambienti. Non si sa se Pietro nel 1482 seguì il padre mandato come podestà a Ravenna; ma certo anche a lui giunse l'eco dell'entusiasmo che Bernardo suscitò facendo restaurare il sacello contenente le ossa di Dante. Più tardi, l'ambasceria del padre a Roma, durata dal novembre del 1487 all'ottobre dell'anno successivo, gli offrì l'occasione di ammirare per la prima volta quella città che poi gli sembrerà il luogo ideale per realizzare le proprie ambizioni umane e letterarie. A vent'anni, come si conveniva a un giovane di nobile famiglia, Pietro fu avviato alla vita politica; ma una ben diversa investitura ricevette nel giugno del 1491, quando Angelo Poliziano venne in casa Bembo per collazionare un suo esemplare a stampa delle commedie di Terenzio con l'antichissimo codice, ora Vaticano Latino 3226, che, annotò il grande umanista nei margini del suo esemplare, . Nella stessa difesa, del resto, trapela una mentalità estranea all'esperimento del Bembo che, secondo il letterato alvitano, « havendo deliberato scrivere in toscano» - cioè in una lingua straniera - «fece da prudente tucto effingerse et componerse ad quella lingua»: «Laudo lo usare di parole dal mezo de la plebe deducte, per essere grandissimo vitio non sequire el commune senso del parlare [...]. Se alcune parole, ià vecchie in Toscana a' nostri tempi, per renovarle in la opera sparge, è che se recordava havere in M. Tullio lecto le antiquate parole deversi spargere per la oratione, corno le gemme per la veste». Per l'Equicola, come per Battista Fregoso che da tempo aveva pubblicato in volgare un trattato d'amore, I'Anteros (Milano, L. Pachel, 1496), il toscano era solo uno fra i tanti volgari italiani, tutti egualmente imperfetti perché frutto della corruzione del latino. Come prima il Fregoso, egli usava il volgare per necessità, come un ripiego impostogli dalla destinazione della sua opera: la società cortigiana, in cui le donne avevano un posto sempre più grande e il volgare era d'obbligo; ma appunto perché ne sentiva l'inferiorità, cercava di nobilitarlo in ogni modo e sopra tutto riconducendolo il più possibile al latino, nel quale, secondo lui, andava ricercata la sua natia purezza. Il Bembo invece mostra fin d'ora d'aver compreso il fondamentale principio che ogni lingua deve cercare la propria perfezione in sé, nella propria storia, e non altrove: non accattando una discutibile bellezza dal latino, ma tornando al proprio periodo aureo, il volgare doveva e poteva competere col latino. Avviene cosi che negli Asolani, fin dalla prima edizione, i latinismi sono rari e le parole trovano quasi tutte la loro autorizzazione nel Boccaccio, o direttamente o grazie al principio di analogia che tanta applicazione - per forza di cose -

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aveva nello studio del latino. Il volgare diveniva cosi una lingua gracile, povera di esperienze; eppure questo era il prezzo che doveva pagare - in una nazione lontanissima dall'unità politica e divisa in una miriade di dialetti - per imporsi come lingua nazionale almeno della letteratura e dell'alta conversazione intellettuale. Il Bembo stesso, più tardi, nell'epistola De imitatione, avrebbe rivendicato l'importanza linguistica e stilistica della sua opera giovanile: «etiam vernaculo sermone quaedam conscripsimus cum prosa oratione, tum metro piane ac versu: ad quae quidem conscribenda eo maiore studio incubuimus, quod ita depravata multa atque perversa iam a plurimis ea in lingua tradebantur, obsoleto prope recto ilio usu atque proprio scribendi; brevi ut videretur, nisi quis eam sustentavisset, eo prolapsura ut diutissime sine honore, sine splendore, sine ullo cultu dignitateque iaceret». Non si potrà dire col curatore dell'edizione postuma (1553) che negli Asolani il Bembo aveva «una lingua per lungo secolo morta e nella oblivione degli uomini sepelita in luce rivocata, e alla sua natia bellezza e splendore e perfezzione condotta» (così che «non s'ha a dubitare da questo libro solo potersi agevolmente ritrarre la vera forma della toscana eloquenza»), tuttavia bisogna convenire che i primi Asolani hanno una notevole importanza linguistica, anzi che si tratta di un'opera capitale nella storia della nostra lingua nazionale. Non per questo è un'opera riuscita. Anche a una lettura sommaria risulta la frondosità, la freddezza, !'oltranza stilistica, lo scarso distacco dalla materia, la debolezza concettuale; insomma la mancanza proprio del maggior requisito dell'arte classica: la misura. Appunto carenza di misura mostra la maniera in cui sono utilizzati gli elementi stilistici che il Bembo aveva trovato nel Decameron e sopra tutto nelle opere giovanili del Boccaccio: abuso di superlativi, spesso accoppiati; aggettivazione esornativa assai insistita; verbi monotonamente in clausola finale; gerundi posposti all'oggetto, avverbi, attributi, complementi sistematicamente anteposti; iperbati; parallelismi, chiasmi, ripetizione della stessa parola in clausola, ecc. Inoltre, come ha scritto il Segre, il Bembo conferisce al ritmo una preminenza inconsueta: «tutto il periodo, con le immagini stesse che deve rappresentare, segue con i suoi piano e i suoi forte, le sue pause i suoi crescendo, un disegno melodico prestabilito e in definitiva stucchevole», ottenuto con una «continua spezzatura, a caleidoscopio, delle proposizioni, e l'inserzione

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di incidentali riempitive per necessità melodica». È una prosa che non ha nervature logiche, ma solamente nessi retorici. Anche a livello semantico gli elementi sono boccacceschi ma usati con un'intemperanza che denuncia insicurezza e affettazione. Basti ricordare l'abuso di aggettivi in -evo/e (sclzifevole, noievole, rischievole, qui.stionevole, trabocchevole, non dicevo/e "indecente,,, disievole, nimichevole, inchinevole, lusinghevole, lagrimevole, paventevole, sopportevole, di.scer11evole, piagnevole, ramarichevole, festevole, fratellevole, penetrevole, giochevole, mormorevole, parevo/e, stanchevole, con/acevole, guerreggevole, trascorrevole, sembievole, diportevole, maestrevole, accettevole, salutevole, spazievole, ecc. ecc.; fino a superlativi come salutevolissimo) e dei relativi avverbi in -evolmente (vituperevolmente, sollazzevolmente, scherzevolmente,fratellevolmente, abondevolmente, inchinevolmente, ecc.; fino a superlativi come malagevolissimamente), di sostantivi in -mento (pungimento, abbracciamento, alleggiamento,fingimento, cessamento, pensamento, vagimento, di.sco"imento, dimostramento, recamento, raccontamento, obliamento, nascondimento, ascoltamento; III, v: « risvegliamento

d'ingegno, sgombramento di sciocchezza, accrescimento di valore, fuggimento d'ogni voglia bassa e villana», ecc.), in -tore (1, xvii: «molte volte rischievoli andatori di notte, portatori d'arme, salitori di mura, feritori d'uomini diveniamo»; II, ii: ,e di liberalissimo donatore di riposo, di dolcissimo apportator di gioia, di santissimo conservatore delle genti [...] rapacissimo rubator di quiete, acerbissimo recator d'affanno»; II, xxix: « delle nostre donne ricevitori [...] e conservatori fidelissimi e dolcissimi renditori »), di parole formate con prefissi, spesso meramente esornativi (ravolgere, raccendere, ramemorare, rasciugare, racconfortare, raviluppatissima, ramorbidare, raffrenare, raccomunare, rattenere, racconoscente, ecc. ; disagguaglianza, disaventure, di.svolere, di.scaro, di.samare, di.scordare, ecc.; riturare, rifavellare; I, xxxi: «sono le riconcigliagioni non sicure; sono le rinovagioni », ecc.; soprapreso, sopraveduto "molto avveduto,,, sopragravare, sopravincere, sopracadere, ecc.; sottomordere, sottostare, ecc.), di diminutivi e vezzeggiativi,

di participi presenti con valore verbale, di infiniti sostantivati, ecc. Né mancano quelle parole che più davano l'impressione dell'affettazione toscaneggiante: avacciare, chente, sanza fallo, guatare, lavorio, ecc. E si pensi anche a costrutti volutamente arcaicizzanti, come nella collocazione delle particelle pronominali: 1, xxii : «per vi pure

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poter pervenire»; / arlovi; prestar/ami, ecc. Pertanto è quasi con sorpresa che incontriamo ancora qualche venetismo come frezzolosi, tanto bene il Bembo è riuscito a costruire (e lo si dice fuor di metafora) la sua lingua. Eppure, malgrado tanto sfoggio di eleganza, nella prosa degli Asolani, come riferisce l'Equicola, si poté vedere un eccesso di forme plebee; e questa censura serve, se non altro, a capire la situazione culturale che indusse il Bembo a una così insistita ricerca di abbellimenti retorici e linguistici. Tutto questo vale per la prima come per l'edizione definitiva del 1553. Le correzioni, apportate sopra tutto nella seconda edizione ( 1530), sono molte e minute; eppure, malgrado la loro alta frequenza, non mutarono - così almeno mi pare - le caratteristiche della prosa degli Asolani, alla quale soltanto si riferiscono queste considerazioni: conferiscono maggior equilibrio e ritmo più raffinato alla frase, eliminano incertezze linguistiche, mostrano nuove tendenze fonetiche, morfologiche, lessicali; nel complesso però mi sembrano un perfezionamento del primitivo sistema, non un rinnovamento. Più interessanti sono forse le soppressioni, ma anch'esse mirano a eliminare qualcosa di eterogeneo che era rimasto nella prima edizione. 5. Il 9 aprile 1505 Pietro partì per Roma al seguito del padre che faceva parte di un'ambasceria straordinaria inviata dalla Serenissima a Giulio II. Nel ritorno con l'amico Paolo Canal si staccò dalla comitiva e si fermò alla corte d'Urbino e poi a Ferrara e a lVIantova dove fu presentato alla marchesa Isabella Gonzaga. Tornato a Venezia, fece gli ultimi tentativi per intraprendere la carriera diplomatica, ma la sua candidatura ad ambascerie fu sempre respinta: la nobiltà veneziana, che vedeva nello studio solo una preparazione alla vita pubblica, evidentemente non era disposta ad accordar fiducia a un puro letterato, come egli era. L'ostilità del resto era reciproca. Al Bibbiena il 29 agosto 1505 scriveva: «Giuravi per solo Idio che io non mi posso per niente conformare e racchetare a questa nostra o ambiziosa o mercantile vita». Doveva trasferirsi altrove, in un ambiente come quello romano in cui meglio avrebbe potuto soddisfare le proprie aspirazioni; ma non era decisione che si potesse prendere alla leggera: un patrizio veneziano non poteva mettersi al servizio di un signore straniero se non rinunciando ai diritti che gli derivavano dalla sua condizione di nobile e allo stesso stato laicale. Gli occorrevano pertanto appoggi 2

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e favori, per i quali confidava nel cardinale Galeotto Franciotti Della Rovere, giovane e potente nipote di Giulio II, a cui, raccomandandosi per una sistemazione, 1'8 ottobre 1505 scriveva: «confessavi che il primo e più intenso disiderio mio è sempre stato di poter vivere in commoda e non disonorevole libertà, a ffine di mandare innanzi gli studi delle lettere, che sono in ogni tempo stati il più vi tal cibo del mio pensiero». Le intenzioni del Bembo e le difficoltà che gli si frapponevano risultano chiaramente dalla sua lettera del 3 maggio 1506 alla duchessa d'Urbino, Elisabetta Gonzaga, e a Emilia Pio: «tutto questo anno» scriveva«[...] sono sempre stato in ordinare di poter andare a Roma, e starvi due o tre anni, a fine di tentar quella fortuna, alla quale assai parea, mercé di voi e di Monsignor Vicecancelliere [Galeotto Della Rovere], che il cielo favorevole mi si dimostrasse [...].E in tal pensiero stando ho indarno consumato alquanti mesi, sperando di ottener di giorno in giorno che mio padre, che non volea udire che io mi dipartissi, alla fine se ne contentasse, e favoreggiasse questa mia gita. Il quale prima con ogni guisa di persuasione avendo tentato di rimuovermi dall'impresa e di volgermi a seguir la via dell'ambizione e degli onori nostri; vedendo non poter con questo modo trarre a forma e colorire il suo dissegno, s'è ito imaginando e stimando, col negarmi di dare alcun favore all'andata, non potendo io da me valermi alle romane spese, che sono grandi (massimamente volendo io essere in Roma secondo la qualità del mio stato), che io me ne abbia a rimanere mal mio grado. E così egli l'andare a Roma non mi vietava, poscia che egli non potea vietarlomi; ma il favore a ciò del tutto m'interchiudeva, dicendomi non volere essere egli stesso procuratore del mal suo, non rimanendo tuttavia di sollecitarmi quando per una via e quando per altra a pigliar moglie». A Venezia non poteva restare, perché di certo gli sarebbero avvenuti (( due mali grandissimi»: (( l'uno è che io vo a rischio di prendere un dì moglie mal mio grado, la qual cosa ho diliberato che mai non sia; l'altro, che almeno gitterò via e disperderò il mio tempo in cose noievoli, lasciando gli studi, che sono il cibo della mia vita, e quel bene, con ricordo del quale ogni altra noia passo e porto oltre leggermente». Pertanto, con orgogliosa consapevolezza delle proprie capacità - gli pareva di avere la possibilità di > e «quante donne v'avea, che ve n'avea molte» e «nella quale, come che oggi ve vano dalle corrispondenti provenzali: arma (o anma), fora, aucir, auzel. Alma è forma dissimilata di ANIMA [•at(i)ma] ; fora (da FUERAM) venne al toscano dal Mezzogiorno continentale, dov'è comune il condizionale che prosegue il piuccheperfetto latino (è così antico che si trova nel Ritmo cassi11ese, 46); ancidere (dal latino volgare •AUCIDERE per OCCIDERE) è forma tipica della lirica; augello deriva dal latino tardo AUCELLUS (per AVICELLUS) attraverso il provenzale auzel. Ma il Bembo, che pensa alla lingua della lirica, ha ragione anche questa volta di considerare queste voci come dei provenzalismi: solo la coincidenza con la lingua dei trovatori garantì la loro fortuna. Il Petrarca usa circa novanta volte alma e cinquantacinque anima, otto ancidere e undici occidere (o uccidere), tredici augello e una uccello. 1. In verità il Petrarca usa otto volte primiero (provenzale primier, francese premier), forma ben documentata nei poeti del Duecento, e un'ottantina di volte primo. La forma toscana, corrispondente al francese premier, cioè primaio - che è frequente in Dante non è mai usata dal Petrarca e non è nominata dal Bembo. 2. Cfr. Rime, LXXVII, 4; CCCXLVIII, 5; Trio,ifo d'Amore, IV, 45. Conquidere, da cui conquiso (provenzale conquis), deriva dal latino CONQUIRERE. 3. L'imperfetto in -ìa dei verbi in -ere si diffuse in Italia dalla Sicilia, facilitato dalla presenza di tale forma nel provenzale. Per solia cfr. Rime, CXII, 3; CLXXXIV, 14; CCVI, 41; per credia, LXXIII, 16 (tutti in rima). 4. Rime, cxxxv, 76-8; xxx, 28-9.

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n'abbia di ricchi uomini, ve n'ebbe già uno» e « ebbevi di quelli», e altri simili termini non una volta disse ma molte. 1 E è ciò nondimeno medesimamente presente uso della Cicilia. E per dire del Petrarca, avenne alle volte che egli delle italiche voci medesime usò col provenzale sentimento ;2 il che si vede nella voce onde. Per ciò che era on provenzale voce, usata da quella nazione in moltissime guise oltra il sentimento suo latino e proprio. Ciò imitando, usolla alquante volte licenziosamente il Petrarca, e tra le altre questa: a la man, ond'io scrivo, è fatta amica;

nel qual luogo egli pose onde, in vece di dire con la quale; e quest'altra: Or quei begli occhi, ond'io mai non mi pento de le mie pene ;3

dove onde può altrettanto quanto per cagion de' quali; il che, quantunque paia arditamente e licenziosamente detto, è nondimeno con molta grazia detto, si come si vede essere ancora in molti altri luoghi del medesimo poeta, pure dalla Provenza tolto, come io dissi. Sono, oltre a tutto questo, le provenzali scritture piene d'un cotal modo di ragionare, che dicevano: lo amo meglio,4 in vece di dire: Io voglio più tosto. Il qual modo piacendo al Boccaccio, egli il seminò molto spesso per le composizioni sue: «io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni, che, facendo loro agio, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell'anima mia»; e altrove: «amando meglio il figliuolo vivo con moglie non convenevole a llui, che morto senza alcuna». 5 Senza che uso de' Provenzali per aventura fia stato lo aggiugnere la i nel principio di moltissime voci: come che essi la e vi ponessero in quella vece, lettera più acconcia alla lor lingua in tale ufficio, che alla toscana; si come sono istare, ischifare, ispesso, istesso e dell'altre, che dalla s, a cui alcun'altra consonante stia dietro, cominciano, come fanno Cfr. rispettivamente Dee., VIII, 9, s; IX, 3, 4; v, 8, 39; n, 4, s; III, Conci., 18. Per altri esempi del Boccaccio, che usa questa forma davvero con grande frequenza, cfr. nell'edizione del Decameron a cura di V. Branca la nota a II, 5, 77, e l'Indice delle voci annotate alla voce avere. 2. col provenzale sentimento: col significato provenzale. 3. Rime, CCLIX, 12; ccxxxi, 5-6. 4. Per questo comune gallicismo, il Bembo pensava al provenzale amar melhs. 5. Dee., I, I, 35; II, 8, 67. 1.

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queste. 1 Il che tuttavia non si fa sempre; ma fassi per lo più quando la voce, che dinanzi a queste cotali voci sta, in consonante finisce, per ischifare in quella guisa l'asprezza che ne uscirebbe se cib non si facesse; sl come fuggi Dante, che disse: non isperate mai veder lo cielo ;2

e il Petrarca, che disse: per iscolpirlo imaginando in parte.3

E come che il dire in Ispagna paia· dal latino esser detto, egli non è così; per ciò che, quando questa voce alcuna vocale dinanzi da sé ha, Spagna le più volte e non Ispagna si dice. Il qual uso tanto innanzi procedette che ancora in molte di quelle voci, le quali comunalmente parlandosi hanno la e dinanzi la detta s, quella e pure nella i si cangiò bene spesso: istimare, istrano e somiglianti.4 Oltra che alla voce nudo s'aggiunse non solamente la i ma la g ancora e fecesene ignudo, 5 non mutandovisi per cib il sentimento di lei in parte alcuna; il quale in quest'altra voce ignaTJo6 si muta nel contrario di quello della primiera sua voce, che nel latino solamente è ad usanza, la qual voce nondimeno italiana è più tosto, si come dal latino tolta, che toscana. Né solamente molte voci, come si vede, o pure alquanti modi del dire presero dalla Provenza i Toscani. Anzi essi ancora molte figure del parlare, molte sentenze, molti argomenti di canzoni, molti versi medesimi le furarono; e più ne furaron quelli che maggiori stati sono e miglior r. Sem:a ••. queste: il cosi detto i prostetico non è di derivazione provenzale; già nel latino volgare la s iniziale seguita da consonante veniva pronunciata con una vocale d'appoggio, che di solito era i. 2. lnf~,. III, 85. 3. Rime, L, 66. 4. Il Bembo sembra pensare a uno scambio di vocali; in realtà si tratta di un fenomeno di prostesi: le voci latine aestimare e extraneris hanno dato stimare e strano, dai quali per prostesi si sono avuti istimare e istrano. 5. Forse da ignudare (da •EXNuDARB, imudare), forse da gnudo con i prostetica: cfr. RoHLFS, §§ 161, 323. Comunque, pare che gn, peraltro rarissimo in posizione iniziale, tenda a prendere una vocale d'appoggio. 6. Gnavo (gnavus, nav,u), che si usa solo in latino, significa "sollecito, diligente, attivo"; viceversa ignavo significa "indolente, inoperoso". Il Bembo non si accorge che qui non si ha l'aggiunta di un'i prostetica ma del prefisso privativo in-; ed è strano perché CICERONE (Orat., XLVII, 158) aveva scritto: «Noti erant et navi et nari, quibus cum in praeponi oporteret, dulcius visum est ignotos, i"gnavos, ignaros dicere quam ut veritas postulabat ». È però nel giusto affermando che ignavo è parola dotta: questo infatti egli vuol dire osservando che la voce ignavo «italiana è più tosto, sl come dal latino tolta, che toscana •·

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poeti riputati. Il che agevolmente vederà chiunque le provenzali rime piglierà fatica di leggere, senza che io, a cui sovenire di ciascuno essempio non può, 1 tutti e tre voi gravi2 ora recitandolevi. Per le quali cose, quello estimar si può che io, messer Ercole, rispondendo vi dissi, che il verseggiare e rimare da quella nazione più che da altra s'è preso. Ma sì come la toscana lingua, da quelle stagioni a pigliar riputazione incominciando, crebbe in onore e in prezzo quanto s'è veduto di giorno in giorno, così la provenzale è ita mancando e perdendo di secolo in secolo in tanto che ora non che poeti si truovino che scrivano provenzalmente, ma la lingua medesima è poco meno che sparita e dileguatasi della contrada. 3 Per ciò che in gran parte altramente parlano quelle genti e scrivono a questo dì che non facevano a quel tempo; né senza molta cura e diligenza e fatica si possono ora bene intendere le loro antiche scritture. Senza che eglino a nessuna qualità di studio meno intendono che al rimare e alla poesia, e altri popoli che scrivano in quella lingua essi non hanno; i quali, se sono oltramontani, o poco o nulla scrivono o lo fanno francesemente; se sono italiani, nella loro lingua più tosto a scrivere si mettono, agevole e usata, che nella faticosa e disusata altrui. Per che non è anco da maravigliarsi, messer Ercole, se ella, che già riguardevole fu e celebrata, è ora, come diceste, di poco grido. [xii.] Avea messer Federigo al suo ragionamento posto fine,

quando il Magnifico e mio fratello, dopo alquante parole dell'uno I. a cui ••• non può: che non posso ricordarmi di ogni esempio. 2. gravi: molesti, importuni. 3. Ma sì come • .. co11trada: si ricordi che il Bembo pensa alla lingua letteraria, non a quella parlata. Una lingua senza scrittori non è una vera lingua e facilmente si corrompe: il provenzale si è dileguato e ridotto a dialetto appunto perché né i Provenzali (che hanno adottato il francese) né altri popoli hanno continuato a scrivere nella lingua dei trovatori. D'altra parte, che il provenzale fosse lingua morta e difficile da apprendere era opinione diffusa. Per esempio, M. EQUICOLA (Libro de natura de Amore, ed. cit., p. 193v.) afferma che il provenzale antico era composto « de la francese, cathalana e provenzali lingue [...] con alcuni vocaboli genuesi, ma rari, donde al presente quel parlare in Francia, in Cathalogna e in Provenza è perduto, né vi si intende, ma da' pratichi in diete tre provincie non è di quella difficultà che altri existima »; e il CASTIGLIONE (Cortegiano, I, 36): «La provenzale, che pur mo, si po dir, era celebrata da nobili scrittori, ora dagli abitanti di quel paese non è intesa».

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e dell'altro fatte sopra le dette cose, s'avidero che messer Ercole, tacendo e gli occhi in una parte fermi e fissi tenendo, non gli ascoltava, ma pensava ad altro. Il quale, poco appresso riscossosi, ad essi rivolto disse: - Voi avete detto non so che, che io, da nuovo pensamento so-prapreso,1 non ho udito. Vaglia a ridire, se io di troppo non vi gravo. - Di nulla ci gravate, - rispose il Magnifico - ma noi ragionavamo in onore di messer Federigo, lodando la sua diligenza posta nel vedere i provenzali componimenti, da molti non bisognevole e soverchia riputata. Ma voi di che pensavate cosi fissamente? - Io pensava - diss' egli - che se io ora, dalle cose che per messer Federigo e per voi della volgar lingua dette si sono persuaso, 3 a scrivere volgarmente mi disponessi, sicuramente a molto strano partito mi crederei essere, né saperei come spedirmene,4 senza far perdita da qualche canto; il che, quando io latinamente penso di scrivere, non m'aviene. Per ciò che la latina lingua altro che una lingua non è, d'una sola qualità e d'una forma, con la quale tutte le italiane genti e dell'altre che italiane non sono parimente scrivono, senza differenza avere e dissomiglianza in parte alcuna questa da quella; con ciò sia cosa che tale è in Napoli la latina lingua, quale ella è in Roma e in Firenze e in Melano e in questa città e in ciascuna altra, dove ella sia in uso o molto o poco, ché in tutte medesimamente è il parlar latino d'una regola e d'una maniera. Onde io a latinamente scrivere mettendomi, non potrei errare nello appigliarmi. Ma la volgare sta altramente. Per ciò che ancora che le genti tutte, le quali dentro a' termini della Italia sono comprese, favellino e ragionino volgarmente, nondimeno ad un modo volgarmente favellano i napoletani uomini, ad un altro ragionano i lombardi, ad un altro i toscani; e cosi, per ogni popolo discorrendo, parlano tra sé diversamente tutti gli altri. 5 E sl come da nuovo . . . soprapreso : sorpreso da un improvviso pensiero. 2. per: da (e così pure il successivo). 3. persuaso: regge dalle cose che .•. dette si sono. 4. spedirmene: cavarmela. 5. Per ciò che la latina ••. altri: il CASTELVETRO nella Giunta alla Particella nona (Giunte, 1, pp. 208-9) contestò tutto questo paragrafo, sostenendo fra l'altro, senza tener conto del ciceronianismo bembiano, che a più forme e più qualità sono di lingua latina, poi che i libri, da' quali, e non d'altronde, si dee imprendere la lingua latina, non sono tessuti tutti con una sola forma e qualità di lingua. Né perché tale sia in Napoli la lingua latina, quale è in Roma, in Firenze e in Melano e in ciascu1.

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le contrade, quantunque italiche sieno medesimamente tutte, hanno nondimeno tra sé diverso e differente sito ciascuna, così le favelle, come che tutte volgari si chiamino, pure tra esse molta differenza si vede essere, e molto sono dissomiglianti l'una dall'altra. Per la qual cosa, come io dissi, impacciato mi troverei, ché non saperei, volendo scrivere volgarmente, tra tante forme e quasi facce di volgari ragionamenti, a quale appigliarmi. [xiii.] Allora mio fratello, sorridendo: - Egli si par bene - disse - che voi non abbiate un libro veduto, che il Calmeta1 composto ha della volgar poesia; nel quale no altro luogo, si concede perciò che non abbia più forme e più qualità, o che altri non debba essere dubbioso nell'appigliarsi, o con minore dubbio che non sarebbe se s'avesse ad appigliare ad una forma tra le molte della lingua vulgare. Percioché in ogni città per l'agio della stampa si parano avanti a chi vuole scrivere latino tutti i volumi latini di varie forme di lingua, ma a chi vuole scrivere vulgare non si para avanti se non una forma di lingua, ciò è quella della città dove altri si truova, salvo se non si trovasse in Roma, dove gli si parerebbono avanti varie forme di lingua vulgare per le persone delle diverse contrade d'Italia che là concorrono». Inoltre, poiché gli sembra che il Bembo attribuisca al clima le diversità del volgare, ribatte che ciò non può essere avvenuto perché la «diversità dell'aere » può influire solo sulla pronuncia. I. Vincenzo Colli - Calmeta è soprannome desunto dal Filocolo del BOCCACCIO in cui (Opere, I, pp. 668-73) viene introdotto Calmeta, «pastore solennissimo », che ammaestra ldalogos nella scienza astronomica - nacque intorno al 1460 in Chio da padre lombardo. Morì, pare, a Roma nell'agosto del 1508. A Roma, Milano, Mantova e Urbino poté fare ampia esperienza della vita cortigiana; fu anche al servizio di Cesare Borgia. Ebbe notevole fama come poeta, letterato, critico. Il CASTIGLIONE lo pose fra gli interlocutori del Cortegiano (senza farlo intervenire nelle discussioni sulla lingua). Quello che di lui ci resta è stato pubblicato da C. Grayson (V. CALMETA, Prose e lettere edite e inedite, Bologna 1959), alla cui Introduzione si rimanda per più ampie informazioni. Il Bembo lo conosceva di persona fin dal 1503, come mostra la lettera in latino del 4 settembre 1503 a Ercole Pio. Altre lettere (del 20 marzo 1504 a Emilia Pio; del 3 maggio I 506 alla stessa, in cui conia il verbo calmeteggiare, forse col significato scherzoso di "esaltare sé stesso,,; del s gennaio I 507 al fratello Bartolomeo, qui a pp. 388-90) mostrano rapporti nel complesso cordiali. Ma il I aprile 1512 il Bembo scriveva a Trifon Gabriele, mandandogli i primi libri delle Prose della volgar lingr,a: u Caeterum, perché sono alquanti che ora scrivono della lingua volgare, come intendo, pregate da parte mia quelli che questi miei scritti leggeranno, che non vogliano dire ad altri la contenenza loro, ché non mancano in ogni luogo Calmeti ». È verosimile - e questo spiegherebbe meglio la confutazione che qui si legge della teoria cortigiana - che il Calmeta avesse deciso di inserire nella sua opera sulla poesia volgare una teoria linguistica sullo spunto di discussioni urbinati e forse proprio per manifestare le riserve e le obiezioni di coloro che non condividevano la scelta rigorosa del fiorentino di Petrarca

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egli, a ffine che le genti della Italia non istiano in contesa tra loro, dà sentenza sopra questo dubbio, di qualità che niuna se ne può dolere. - Voi di poco potete errare, messer Carlo, - rispose lo Strozza - a dire che io libro alcuno del Calmeta non ho veduto; il quale, come sapete, scritture che volgari siano e componimenti di questa lingua piglio in mano rade volte o non mai. Ma pure che sentenza è quella sua cosi maravigliosa che voi dite? · - È - rispose mio fratello - questa, che egli giudica e termina in favore della cortigiana lingua; 1 e questa non solamente alla pugliese e alla marchigiana o pure alla melanese prepone, ma ancora con tutte l'altre della Italia a quella della Toscana medesima ne la mette sopra, affermando a' nostri uomini che nello scrivere e comporre volgarmente niuna lingua si dee seguire, niuna apprendere, se non questa. A cui il Magnifico: - E quale domine2 lingua cortigiana chiama costui ? con ciò sia cosa che parlare cortigiano è quello che s'usa nelle corti, e le corti sono molte: per ciò che e in Ferrara è corte, e in Mantova e in Urbino; e in Ispagna e in Francia e in Lamagna sono corti, e in molti altri luoghi. Laonde lingua cortigiana chiamare si può in ogni parte del mondo quella che nella corte s'usa della contrada, a differenza di quell'altra che rimane in bocca del popolo, e non suole essere così tersa e cosl gentile. - Chiama - rispose mio fratello - cortigiana lingua quella della romana corte il nostro Calmeta; e dice che, per ciò che facendosi in Italia menzione di corte ognuno dee credere che di quella di Roma si ragioni, come tra tutte primiera, lingua cortigiana esso vuole che sia quella che s'usa in Roma, non mica da' romani uomini, ma da quelli della corte che in Roma fanno dimora. e Boccaccio. Il libro della volgar poesia del Calmeta è andato perduto, e il CASTELVETRO - che poté vederlo - sostiene che il Bembo ne ha esposto le tesi in maniera tendenziosa: ma per questa questione si veda la Giunta alla Particella decima, inclusa nel tomo II di questi Trattatisti. I. Per la tesi della lingua cortigiana, cfr. P. RAJNA, La li11gua cortigiana, nella Miscellanea li11gtlistica in onore di G. I. Ascoli, Torino 1901, pp. 295-314; F. NERI, Note sulla letteratura cortigiana del Rinascimento, in Letteratura e legge,ide, Torino 1955, pp. 1-9; P. V. MENGALDO, Appunti su V. Calmeta e la teoria cortigiana, in «La rassegna della letteratura italiana», LXIV ( 1960), pp. 44-6-69; e il tomo II di questi Trattatisti. 2. domine: diamine, mai (esprime meraviglia).

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- E in Roma - disse il Magnifico - fanno dimora medesimamente diversissime genti pure di corte. Per ciò che, si come ciascuno di noi sa, molti cardinali vi sono, quale spagnuolo, quale francese, quale tedesco, quale lombardo, quale toscano, quale vi.. niziano; e di molti signori vi stanno al continuo, che sono ancora essi membri della corte, di strane1 nazioni bene spesso e molto tra sé differenti e lontane. E il Papa medesimo, che di tutta la corte è capo, quando è valenziano, come veggiamo essere ora, 2 quando genovese e quando d'un luogo e quando d'altro. Per che, se lingua cortigiana è quella che costoro usano e essi sono tra sé cosi differenti come si vede che sono, né quelli medesimi sempre, non so io ancor vedere quale il nostro Calmeta lingua cortigiana si chiami. - Chiama, dico, quella lingua - disse da capo mio fratello - che in corte di Roma è in usanza; non la spagnuola o la francese o la melanese o la napoletana da sé sola o alcun'altra, ma quella che del mescolamento di tutte queste è nata, e ora è tra le genti della corte quasi parimente a ciascuna comune. Alla qual parte, dicendogli non ha guari messer Trifone Gabriele 3 nostro, a cui egli, sl come ad uomo che udito avea molte volte ricordare essere dottissimo e sopra tutto intendentissimo delle volgari cose, questa nuova openion sua là dove io era isponea, come ciò potesse essere, che tra così diverse maniere di favella ne uscisse forma alcuna propria, che si potesse e insegnare e apprendere con certa e ferma regola sì che se ne valessino gli scrittori; esso gli rispondea che sì come i Greci quattro lingue hanno alquanto tra sé differenti e separate, delle quali tutte una ne traggono che niuna di queste è, ma bene ha in sé molte parti e molte qualità di ciascuna: così di quelle che in Roma, per la varietà delle genti che sì come fiumi al mare vi corrono e allaganvi d'ogni parte, sono senza fallo infinite, se ne genera e escene questa che io dico; la quale altresì, come quella greca si vede avere, sue regole, sue leggi ha, suoi termini, suoi I. strane: straniere. 2. E il Papa ..• ora: alla data fittizia delle Prose della volgar lingua era papa Alessandro VI (1492-1503), cioè Rodrigo LanzolBorja di Xativa presso Valenza, che era succeduto a Innocenzo VIII, genovese. 3. Il veneziano Trifon Gabriele (1470 circa-1549) fu tra i migliori amici del Bembo; sue lodi compaiono molto spesso anche nelle opere dello Speroni. Si vedano le notizie che su di lui ha raccolto il C1coGNA (111, pp. 208-23), notizie che bene illustrano il ruolo da lui svolto nella cultura del tempo.

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confini, ne' quali contenendosi valere se ne può chiunque scrive. 1 - Buona somiglianza - disse il Magnifico seguendo le parole di mio fratello - e bene paragonata. Ma che rispose messer Trifone a questa parte? - Rispose - disse mio fratello - che oltra che le lingue della Grecia eran quattro, come esso dicea, e quelle di Roma tante che non si numererebbono di leggiere, delle quali tutte formare e comporne una terminata e regolata non si pote a come di quattro s'era potuto, le quattro greche nella loro propria maniera s'erano conservate continuo: il che avea fatto agevole agli uomini di quei tempi dare alla quinta certa qualità e certa forma. Ma le romane si mutavano secondo il mutamento de' signori che facevano la corte, onde quella una che se ne generava non istava ferma, anzi a guisa di marina onda, che ora per un vento a quella parte si gonfia, ora a questa si china per un altro, cosi ella, che pochi anni adietro era stata tutta nostra, ora s'era mutata e divenuta in buona parte straniera. Per ciò che, poi che le Spagne a servire il loro pontefice a Roma i loro popoli mandati aveano e Valenza il colle Vaticano occupato avea, a' nostri uomini e alle nostre donne oggimai altre voci, altri accenti avere in bocca non piaceva, che spagnuoli? 1. che sl come .•. scrive: l'illusoria affinità fra la situazione greca e quella italiana fece sì che assai spesso i sostenitori della tesi cortigiana comparassero la lingua italiana o comune alla XOLW) 8wcc-rot; , il greco comune, che in età ellenistica si sostituì ai dialetti. Tale argomento, esposto in forma discreta dal CASTIGLIONE nel Cortegiano (1, 35), è fondamentale nel TR1sSINO, che con l'esempio greco interpretava l'analisi dantesca dei dialetti e il concetto di volgare illustre (cfr., per esempio, Poetica, in WEINBERG, I, p. 27). Ma ai sostenitori della koinè italiana sfuggiva - ma non sfuggiva al Bembo - che ciascun dialetto greco era legato con una forma letteraria da una tradizione tenacissima, così che gli scrittori usavano il dialetto proprio del genere, non quello natio: lo ionico era il linguaggio della poesia epica antica (Omero, Esiodo), degli elegiaci, di Erodoto; il dorico fu il dialetto della poesia corale; l'eolico fu la lingua peculiare della lirica; l'attico fu la lingua di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, Tucidide, Platone, Demostene, ecc. Fu da una lenta trasformazione dell'attico, che accolse elementi dialettali diversi, che si giunse alla koinè. 2. Per ciò che ... spagnuoli: numerosi "catalani" erano andati a Roma al seguito prima di Callisto III e poi di Alessandro VI; e il Bembo, che per compiacere Lucrezia Borgia s'era provato (ma con salda coscienza delle differenze "strutturali" fra le due lingue) a scrivere in spagnolo e a tradurre dallo spagnolo, ben sapeva come la lingua dei personaggi d'autorità venga imitata (i versi spagnoli conservati in un codice dell'Ambrosiana però non sono del Bembo ma trascrizioni che a lui piacque fare di strofette del Cartagena, del Tapia, di Juan Alvarez Gato e di Diego L6pez de Haro): cfr. la nota 1

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Cosi quinci a poco, se il cristiano pastore, che a quello d'oggi venisse appresso, fosse francese, il parlare della Francia passerebbe a Roma insieme con quelle genti e la cortigiana lingua, che s'era oggimai cotanto inispagnuolita, incontanente s'infranceserebbe, e altrettanto di nuova forma piglierebbe, ogni volta che le chiavi di S. Pietro venissero a mano di posseditore diverso di nazione dal passato. Ora, allo 'ncontro, molte cose recò il Calmeta in difesa della sua nuova lingua, poco sustanzievoli nel vero e a quelle somiglianti che udito avete, volendo a messer Trifone persuadere che il parlare della romana corte era grave, dolce, vago, limato, puro; il che diceva dell'altre lingue non avenire, né pure della toscana così apieno. Ma egli nulla di ciò gli credette, né gliele fece buono in parte alcuna. Onde egli, o per la fatica del ragionare o pure per ciò che messer Trifone non accettava le sue ragioni, tutto cruccioso e caldo si dipartì.

[xiv.] - Bene e ragionevolmente, sì come egli sempre fa, rispose messer Trifone al Calmeta - disse il Magnifico - in ciò che raccontato ci avete. Ma egli l'arebbe per aventura potuto strignere con più forte nodo, e arebbel fatto, se non l'avesse, sì come io stimo, la sua grande e naturale modestia ritenuto. - E quale è questo nodo più forte, Giuliano, - disse lo Strozza - che voi dite? - È - diss'egli - che quella lingua che esso all'altre tutte prepone, non solamente non è di qualità da preporre ad alcuna, ma io non so ancora se dire si può che ella sia veramente lingua. - Come, che ella non sia lingua ? - disse messer Ercole - non si parla e ragiona egli in corte di Roma a modo niuno? - Parlavisi - rispose il Magnifico - e ragionavisi medesimamente come negli altri luoghi. Ma questo ragionare per aventura a p. 381. G. GASCA QUEIRAZZA (Gli scritti autografi di Alessandro VI nell'«Archivum Arcis », Torino 1959) ha mostrato che Alessandro VI usava cc un volgare sopraregionale, illustre, distinto per numerosi tratti dal toscano letterario [ ..•J; su di esso la tendenza latineggiante del tempo e la consuetudine del catalano esercitano una influenza moderata, specialmente nella grafia e nella fonetica» (p. 5 I). I cortigiani però certo più di lui abusavano di ispanismi, e quella stessa koinè che traspare dalle lettere del papa al Bembo sarebbe apparsa quanto mai instabile. Cfr. B. CROCE, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari 1949, pp. 79 sgg.; G. L. BECCARIA, Spagnolo e spagnoli in Italia, Torino 1968.

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e questo favellare tuttavia non è lingua. Per ciò che non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore.1 Già non si disse alcuna delle cinque greche lingue esser lingua per altro, se non per ciò che si trovavano in quella maniera di lingua molti scrittori. Né la latina lingua chiamiamo noi lingua, solo che2 per cagion di Plauto, di Terenzio, di Virgilio, di Varrone, di Cicerone e degli altri che, scrivendo, hanno fatto che ella è lingua, come si vede. Il Calmeta scrittore alcuno non ha da mo-strarci della lingua che egli cotanto loda agli scrittori. Oltre a cciò ogni lingua alcuna qualità ha in sé, per la quale essa è lingua o povera o abondevole o tersa o rozza o piacevole o severa, o altre parti ha a queste simili che io dico; il che dimostrare con altro testimonio non si può che di coloro che hanno in quella lingua scritto. Per ciò che, se io volessi dire che la fiorentina lingua più regolata si vede essere, più vaga, più pura che la provenzale, i miei due Toschi vi porrei dinanzi, il Boccaccio e il Petrarca senza più, come che molti ve n'avesse degli altri; i quali due tale fatta l'hanno, quale essendo non ha da pentirsi. Il Calmeta quale auttore ci recherà per dimostrarci che la sua lingua queste o quelle parti ha, per le quali ella sia da preporre alla mia ? sicuramente non niuno, che di nessuno si sa che nella cortigiana lingua scritto abbia infino a questo giorno. Quivi tramettendosi3 messer Ercole: - A questo modo - disse - si potranno per aventura le parole di messer Carlo far vere: che, non essendo lingua quella che il Calmeta per lingua a tutte le italiane lingue prepone, niun popolo della Italia dolere si potrà della sua sentenza. Ma io non per que-sto sarò, Giuliano, fuori del dubbio che io vi proposi. - Sì sarete sl, - rispose il lVIagnifico - se voi per aventura se-guitar quegli altri non voleste, i quali, per ciò che non sanno essi ragionar toscanamente, si fanno a credere che ben fatto sia quelli Ma questo •.• scrittore: è questo un assioma non solo per il Bembo ma per tutti i cinquecentisti, i quali, anche quando si occupavano di dialetti, lo facevano solo in funzione della lingua letteraria. Nel Bembo però c'è fortissima la convinzione che solo gli scrittori possono rendere la lingua rego-lata, vaga, pura. Queste, infatti, non sono qualità naturalmente inerenti alle lingue, che le acquistano solo se trattate dagli scrittori con intenti artistici. Confluisce in questa concezione il frutto di una lunga discussione - che, movendo da Dante, Petrarca e Boccaccio, impegnò gli umanisti - per la quale si veda l'articolo di R. FUBINI, citato nella nota 2 a p. 65. 2. solo che: salvo che. 3. tramettendosi: intromettendosi. 1.

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biasimare che così ragionano ;1 per la qual cosa essi, la costoro diligenza schernendo, senza legge alcuna scrivono, senza avertimento, e comunque gli porta la folle e vana licenza che essi da sé s'hanno presa; così ne vanno ogni voce di qualunque popolo, ogni modo sciocco, ogni stemperata maniera di dire ne' loro ragionamenti portando, e in essi affermando che così si dee fare; o pure se voi al Bembo vi farete dire perché è che messer Pietro suo fratello i suoi Asolani libri più tosto in lingua fiorentina dettati ha che in quella della città sua. Allora mio fratello, senza altro priego di messer Ercole aspettare, disse : - Hallo fatto per quella cagione per la quale molti Greci, quantunque Ateniesi non fossero, pure più volentieri i loro componimenti in lingua attica distendeano che in altra, sì come in quella che è nel vero più vaga e più gentile. [xv.] - È adunque la fiorentina lingua - disse lo Strozza - più gentile e più vaga, messer Carlo, della vostra? - È senza dubbio alcuno, - rispose egli - né mi ritrarrò io, messer Ercole, di confessare a voi quello che mio fratello a ciascuno ha confessato, in quella lingua più tosto che in questa dettando e commentando. - Ma perché è - rispose lo Strozza - che quella lingua più gentile sia che la vostra ? Allora disse mio fratello: - Egli si potrebbe dire in questa sentenza, messer Ercole, molte cose. Per ciò che primieramente si veggono le toscane voci miglior suono avere che non hanno le viniziane, più dolce, più vago, più ispedito, più vivo; né elle tronche si vede che siano e mancanti, come si può di buona parte delle nostre vedere, le quali niuna lettera raddoppiano giamai. 2 Oltre a questo, hanno il loro I. i quali ••• ragionano: cfr. l'analoga argomentazione I, xi, 16-7; ma qui si riflette una reale esperienza del

di DANTE, Convivio, Bembo, la cui riforma non fu accettata senza discussioni, specialmente quando con gli Asolani uscì allo scoperto senza ancora poter contare su precise giustificazioni teoriche. 2. Per dò ... giamai: con una dichiarazione coraggiosa e significativa - se si pensa che apparteneva a una nobile famiglia veneziana -, il Bembo non esita a sostenere che il toscano letterario è superiore al veneziano, che era la lingua ufficiale della Serenissima. Anche questa parte è stata ampiamente discussa dal CASTELVETRO (nella Giunta alla Particella undecima, compresa nel tomo II di questi Trattatisti).

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cominciamento più proprio, hanno il mezzo più ordinato, hanno più soave e più dilicato il fine, né sono cosi sciolte, cosi languide; alle regole hanno più risguardo, a' tempi, a' numeri, agli articoli, alle persone. Molte guise del dire usano i toscani uomini, piene di giudicio, piene di vaghezza, molte grate e dolci figure, che non usiam noi: le quali cose quanto adornano, non bisogna che venga in quistione. Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi; uno de' quali più in pregio è stato a' suoi tempi, o pure a' nostri, per le maniere del canto, col quale egli mandò fuori le sue canzoni, che per quella della scrittura: le quali canzoni dal sopranome di lui sono poi state dette e ora si dicono le giustiniane. 1 E se il Cosmico2 è stato letto già, e ora si legge, è forse per ciò che egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s'è egli dal suo natio parlare più che mezzanamente discostato. La qual povertà e mancamento di scrittori istimo essere avenuto per ciò che nello scrivere la lingua non sodisfà, posta, dico, nelle carte tale quale ella è nel popolo ragionando e favellando; e pigliarla dalle scritture non si può, ché degni e accettati scrittori noi, come io dissi, non abbiamo. Là dove la toscana e nel parlare è vaga e nelle scritture si legge ordinatissima, con ciò sia cosa che ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e genx. 11no de' qrlali • . . giustiniane: importante testimonianza della grande fortuna che alle liriche di Leonardo Giustinian (1388 circa-1446) arrideva ancora dopo quasi un secolo. Al Bembo, però, le giustiniane paiono un genere musicale, in cui la forma letteraria conta relativamente poco. Come osserva E. A. QuACLIO (St11di su L. Giustinian. I. Un nuovo codice di canzo,iette, in GSLI, CL, 1973, pp. 199-200), «i modi cantabili erano apparsi - a torto o a ragione, qui poco importa - la nota rivoluzionaria della poesia giustinianea, quella di fatto dominante e decisiva nella sorte delle parole, fino ad ombrarle>>. E forse il Bembo sapeva che nelle numerose edizioni veneziane delle canzonette i testi erano profondamente corrotti, mutilati, difettosi sotto ogni riguardo: ulteriore prova che alla parola non si attribuiva molta importanza. 2. Niccolò Lelio Cosmico, nato a Padova nel 1420 e morto nel 1500, fu poeta assai lodato dai contemporanei, che di lui poterono leggere a stampa solo diciotto capitoli ternari, in cui sono reminiscenze petrarchesche ma anche, e sopra tutto, echi danteschi. E per le opinioni che il Bembo gli attribuirà nel secondo libro (cap. X."'uomo inesperto e inabile a parlare quanto il fatto che l'inesperto «incondite fundit quantum potest et id, quod dicit, spiritu, non arte determinat, orator autem sic inligat sententiam verbis, ut eam numero quodam complectatur et astricto et soluto». E ciò si può fare perché« nihil est [...] tam tcnerum neque tam flcxibile neque quod tam facile sequatur quocumque ducas quam oratio D. Nel Bembo, però, qui e altrove c'è una maggior attenzione alle convenienze sociali. x. Jnf., xxix, 76-7; 82-3. 2. Jnf., Xl, 44. La voce biscazza (verbo), che non è attestata prima di Dante, non ebbe fortuna; compare nel Boccaccio, nel Varchi, nel Davanzati e in altri, ma come evidente dantismo. Contro questo giudizio del Bembo reagirono energicamente i fiorentini; prima C. LENZONI (In difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole da far bella e numerosa la prosa, Firenze, Torrentino, 1557, p. 71), poi il GELLl che, riferendo appunto l'opinione dell'amico, scrisse: «Questa traslazione di questo verbo fonde ["pigliando la traslazione de la natura de' metalli (perché per il più si giuoca argento o oro), i quali, quando si fondono, passano per ogni minima fessura, e perdonsi, e vanno agevolmente male"] non considerando il Bembo, né manco intendendo la proprietà di quell'altro biscazza, e volendosi far censore, come dice il nostro Carlo Lcnzoni in quella sua difensione di Dante, d'una lingua che, non essendo sua natia, ei non intendeva ben la forza delle sue parole, biasimò (come io vi dissi

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consuma o disperde avrebbe detto, non biscazza, voce del tutto dura e spiacevole; oltra che ella non è voce usata, e forse ancora non mai tocca dagli scrittori. Non fece cosi il Petrarca, il quale, lasciamo stare che non togliesse a dire di ciò che dire non si potesse acconciamente, ma, tra le cose dette bene, se alcuna minuta voce era che potesse meglio dirsi, egli la mutava e rimutava infino a ttanto che dire meglio non si potesse a modo alcuno. [vi.] Quivi trapostosi Giuliano, verso lo Strozza rivolto, disse: - O quanto è vero, messer Ercole, ciò che il Bembo ci ragiona del Petrarca in questa parte. Per ciò che venendomi, non ha guari, vedute alcune carte scritte di mano medesima del poeta, nelle quali erano alquante delle sue rime, che in que' fogli mostrava che egli, secondo che esso le veniva componendo, avesse notate, quale intera, quale tronca, quale in molte parti cassa e mutata più volte, io lessi tra gli altri questi due versi primieramente scritti a questo modo: Voi, ch'ascoltate in rime sparse il suono di quei sospir, de' quai nutriva il core. 1

Poi come quegli che dovette pensare che il dire de' quai nutri'lla il core non era ben pieno, ma vi mancava la sua persona,2 oltra che di sopra) questo luogo, e disse che Dante arebbe fatto molto meglio a dire, in luogo di biscazza e fonde, consrlma e sperde. Il che, come dice il Lenzoni, non sarebbe stato vero; con ciò sia che consuma e sperde sieno due parole generali, che non posson muovere altrui con alcuna particular similitudine o esempio, come muove il significato della metafora del verbo fonde• (Letture dantesche, I, p. 652). In effetti i limiti della poetica bembesca qui sono ben evidenti: consuma e disperde non hanno nulla dell'energia del dantesco biscazza (dal sostantivo biscazza, "bisca"), che ha il valore di "gioca d'azzardo" e quindi "sperpera"; ma non si può pretendere che tale energia fosse apprezzata da chi - come il Bembo - pensava al lessico del Petrarca lirico. 1. Rime, 1, 1-2. È questa la prima notizia che abbiamo su fogli contenenti varianti autografe del Petrarca. Il Bembo ne aveva fatto acquisto in circostanze curiose. V. CIAN (in GSLI, IX, 1887, pp. 445-6) riferisce un appunto di G. Pinelli, che fra le cose viste nello studio del Bembo elenca • alcuni fogli di rime del Petrarca corrette e mutate da lui medesimo, le quali cita il Bembo nelle sue Prose (furono ritrovate in mano d'un pizzicaruolo) ». Abbozzi di rime petrarchesche oggi si leggono solamente nel ms. Vaticano Latino 3196 (edito da A. Romanò, Il codice degli abbozzi, Roma 1955), che fu del Bembo ma non contiene il primo sonetto. Cfr. A. SCHIAFFINI, 11 lafJorio della/orma in Francesco Petrarca, in Italiano antico e moderno, Milano-Napoli 1975, pp. 101-12; G. CONTINI, Saggio d'un commento alle correzioni del Petrarca fJO!gare, in Varianti e altra linguistica, Torino 19701 pp. 5-31. :i. la sua persona: il pronome io.

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la vicinanza di quell'altra voce, di q1tei, toglieva a questa, de' quai, grazia, mutò e fecene di cli'io nutriva il core. Ultimamente sovenutogli di quella voce onde, essendo ella voce più rotonda e più sonora per le due consonanti che vi sono, e più piena; aggiuntovi che il dire sospiri più compiuta voce è e più dolce che sospir; cosl volle dire più tosto, come si legge, che a quel modo. Ma voi, messer Carlo, nondimeno seguite. Il quale i suoi ragionamenti così riprese: - Molte altre parti possono le voci avere, che scemano loro grazia. Per ciò che e sciolte e languide possono talora essere oltra il convenevole, o dense e riserrate; pingui, aride; morbide, ruvide; mutole, strepitanti; e tarde e ratte; e impedite e sdrucciolose; e quando vecchie oltra modo e quando nuove. 1 Da questi diffetti adunque, e da simili, chi più si guarderà, a' buoni avertimenti dando maggiore opera,2 colui si potrà dire che nello scegliere delle voci, una delle parti, che io dissi, generali dello scrivere, migliore compositor sia o di prosa o di verso, e più loda meriti che coloro che lo fanno meno, quando per la comperazione loro si troverà che così sia. [vii.] Altrettante cose, anzi più molte ancora si possono, messer Ercole, nella disposizione considerare delle voci, sl come di parte molto più larga che la primiera. Con ciò sia cosa che lo scegliere si fa, una voce semplicemente con un'altra voce o con due le più volte comparando; dove, a dispor bene, non solamente bisogna una voce spesse fiate comparare a molte voci, anzi molte guise di voci ancora con molte altre guise di voci comporre e agguagliare fa mestiero il più delle volte. Dico adunque che sl come sogliono i maestri delle navi, che vedute potete avere in più parti di questa città fabricarsi, i quali tre cose fanno principali; per ciò che primieramente risguardano quale legno o quale ferro o quale fune a quale legno o ferro-o fune compongano, ciò è con sciolte ••• nuove: il senso finissimo della parola poetica suggerisce al Bembo questa serie d'aggettivi. Solo l'ultima coppia (arcaismi e neologismi) rispecchia precise categorie retoriche; le altre, invece, nascono dalle reazioni di un orecchio raffinato. Per un diverso tentativo di classificare i vocaboli secondo l'orecchio piuttosto che secondo le regole pedantesche dei retori, cfr. DANTE, De vulgari eloquentia, 11, vii. Per tutta la questione dell'electio verborum, cfr. QUINTILIANO, lnst. or., VIII, 3. 2. a' buoni • •• opera: ponendo maggior attenzione ai buoni consigli. 1.

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quale ordine gli accozzino e congiungano tra loro. Appresso considerano quello medesimo legno che essi a un altro legno o ferro o fune hanno a comporre, in quale guisa comporre il possano che bene stia, o per Io lungo o attraversato, o chinato o stante,' o torto o diritto, o come che sia in altra maniera. Ultimamente queste funi o questi ferri o questi legni, se sono troppi lunghi, essi gli accorzano,2 se sono corti, gli allungano, e così o gli 'ngrossano o gli ristringono, o in altre guise levandone e giugnendone gli vanno rassettando in maniera che la nave se ne compone giusta e bella, come vedete. Cosi medesimamente gli scrittori tre parti hanno altresi nel disporre i loro componimenti. 3 Per ciò che primiera loro cura è vederne l'ordine, e quale voce con quale voce accozzata, ciò è quale verbo a quale nome o qual nome a qual verbo, o pure quale di queste o quale altra parte, con quale di queste o delle altre parti del parlare, congiunta e composta bene stia. È bisogno dopo questo che per loro si consideri queste parti medesime, in quale guisa stando, migliore e più bella giacitura truovino che in altra maniera; ciò è quella voce, che nome ha ad essere, come e per che via ella essere possa più vaga, o nel numero del più4 o in r. stante: in posizione verticale. 2. accorza110 per accorciano è un residuo dialettale, sfuggito alle attente cure del Bembo come l'inzelosito del capitolo x, a p. 133. 3. gli scrittori • •• componimenti: cfr. QuINTILIA.i."'l'O, Inst. or., IX, 4, 146-147: « Compositio [..•] debet esse honesta, iocunda, varia. Eius tres partes: ordo, coniunctio, numerus. Ratio in adiectione, detractione, mutatione [...] ». G. PETTENATI (// Bembo ml valore delle "lettere" e Dionisio d'Alicarnasso, in SFI, XVIII, 1960, pp. 69-70) osserva che il paragone, abbastanza funzionale, usato per indicare le tre parti che debbono osservare gli scrittori nella disposizione delle parole (ordine, giacitura, eventuale mutazione) deriva dal De compositione verborum di DIONISIO, VI, 40-42, e lo considera « un esempio paradigmatico di "appropriazione" rinascimentale agilmente acquisita»: « Si noterà• egli scrive « come l'acquisizione venga realizzata su un vero e proprio tertium ,nedirmi fra l'esempio dionisiano dei costruttori di navi (appena accennato, e in fine riaccennato, come secondario a quello degli architetti) e il tenue sentimento bembcsco del "color locale" veneto: tertium medium rappresentato dalle aggiunte "[delle navi] che vedute potete avere in più parti di questa città fabricarsi" (nell 1ed. 138 "in più parti della città"; in quella del ,48, per ottenere maggiore determinatezza, si aggiunge un elemento dittico: "in più parti di questa città" •.. ) e "che la nave se ne compone giusta e bella, come vedete"; notazioni ambientali che, pur nella loro esilità, non mancano di rilevarsi (come le poche altre che si possono additare), e naturalmente proprio in virtù della loro scarsità e della 'variazione' che il loro tono domesticamente affettuoso apporta al tono scorporato del contesto». 4. numero del più: il plurale (quello del meno, viceversa, è il singolare).

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quello del meno, nella forma del maschio o della femina, nel diritto o negli obliqui casi. Medesimamente quello che ha ad essere verbo, se presente o futuro, se attivamente o passivamente o in altra guisa posto, meglio suona; a questo modo medesimo per le altre membra tutte de' nostri parlari, in quanto si può e lo pate la loro qualità, discorrendo. Rimane per ultima loro fatica poi, quando alcuna di queste parti, o brieve o lunga o altrimenti disposta, viene loro parendo senza vaghezza, senza armonia, aggiugnervi o scemar di loro, o mutare e trasporre, come che sia, o poco o molto, o dal capo o nel mezzo o nel fine. 1 E se io ora, messer Ercole, vi vo le minute cose, e più tosto agli orecchi di nuovo scolare che di dottissimo poeta convenevoli ad ascoltare, e già da voi, mentre eravate fanciullo, ne' latini sgrossamenti2 udite, raccontando, datene di ciò a voi stesso la colpa che avete così voluto. Quivi: - E se a voi non grava3 di ciò - rispose lo Strozza - che io a voi do fatica di raccontarci queste cosi minute cose, messer Carlo, come voi dite, di me non vi caglia; il quale come che in niune non sia maestro, pure in queste sono veramente discepolo. E nondimeno fa mestiero, a chiunque apprendere alcuna scienza disidera, incominciare da' suoi principii, che sono per lo più deboli tutti e leggieri. E se io alcuna parte di queste medesime cose, che si son dette o sono a dire, ho altra volta, dando alla latina lingua le prime opere,4 udito, ciò bene mi metterà5 in questo, che più agevole mi si farà lo apprendere e ritenere la volgare, se io giamai d'usarla farò pensiero. Per che, di grazia, seguite, niuna cosa in niuna parte per niun rispetto tacendoci. [viii.] - Poca fatica piglierei per voi - rispose mio fratello - e di poco, messer Ercole, vi potreste valer di me, se io questa volentieri non pigliassi. Dunque seguasi; e a cciò che meglio quello che io dico vi si faccia chiaro, ragioniamo per atto d' essempio così. 1. Allude alla prostesi (aggiugnervi . •• dal capo), all'epentesi (aggiugnervi ••• nel mezzo), all'epitesi o paragoge (aggiugnervi .•. nel.fine), all'aferesi (scemar •.• dal capo), alla sincope (scemar •.. nel mezzo), all'apocope (scemar .•• nel fine) e alla metatesi (traspo"e). 2. sgrossame11ti: rudimenti. 3. non grava: è correzione di T (in luogo di a non cale»), forse per evitare una troppo scoperta ripetizione (di me non vi caglia si legge alla fine della stessa proposizione). 4. dando .•. opere: quando cominciai ad attendere allo studio del latino. 5. bene mi metterà: mi gioverà.

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Potea il Petrarca dire in questo modo il primo verso della canzone1 che ci allegò Giuliano: Voi ch'in rime ascoltate. Ma considerando egli che questa voce ascoltate, per la moltitudine delle consonanti che vi sono e ancora per la qualità delle vocali e numero delle sillabe, è voce molto alta e apparente, dove rime per li contrari rispetti è voce dimessa e poco dimostrantesi, vide che se egli diceva Voi ch'in rime, il verso troppo lungamente stava chinato e cadente, dove, dicendo Voi eh' ascoltate, egli subitamente lo inalzava, il che gli accresceva dignità. Oltra che rime, per ciò che è voce leggiera e snella, posta tra queste due, ascoltate e sparse, che sono amendue piene e gravi, è quasi dell'una e dell'altra temperamento. E aviene ancora che in tutte queste voci dette e recitate così: Voi eh' ascoltate in rime sparse, e esse più ordinatamente ne vanno e fanno oltre a cciò le vocali più dolce varietà e più soave che in quel modo. Per che meglio fu il dire, come egli fe', che se egli avesse detto altramente. Il che potrà essere avertimento2 dell'ordine, prima delle tre parti che io dissi. Poteva eziandio il Petrarca quell'altro verso della medesima canzone dire cosi: fra la 'lJana speranza e 'l van dolore. Ma per ciò che la continuazione della vocale a toglieva grazia, e la variazione della e trapostavi la riponeva,3 mutò il numero del meno in quello del più, e fecene fra le 'lJane speranze; e fece bene, che quantunque il mutamento sia poco, non è per ciò poca la differenza della vaghezza, chi vi pensa e considera sottilmente. E cade questo nel secondo modo del disporre detto di sopra. Per ciò che nel terzo, che è togliendo alle voci alcuna loro parte, o aggiugnendo o pure tramutando come che sia, cade quest'altro: quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono;

e quest'altro: Ma ben veggi' or, .ri come al popol tutto favola fui gran tempo.4

I. Come in altri luoghi delle Prose della volgar lingua, la parola canzone ha qui il significato generico di "componimento poetico". 2. avertimento: indicazione, suggerimento. 3. la riponeva: restituiva la grazia. La e interposta (trapostavi) interrompeva, con opportuna variazione, il succedersi delle a. :i;: questo un esempio del secondo modo: anche il plurale in luogo del singolare può servire ad accrescere la vaghezza. 4. Sono i vv. 4 e 9-10 del primo sonetto del Canzoniere.

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Erano uomo e popolo le intere voci, dalle quali egli levò la vocale loro ultima; la quale se egli levata non avesse, elle sarebbono state voci alquanto languide e cascanti, che ora sono leggiadrette e gentili. Cadono altresl di molt' altri; si come è: che 111'1,a,mo congiurato a torto incontra ;1

dove incontra disse il medesimo poeta, più tosto che co11tra; e sface molte volte usò, e sewi alcuna fiata, e adiviene e dipartio, 2 più tosto che disface e separi e aviene e dipartì; e diemme e aprilla, 3 dovendo dire dirittamente mi diè e la aprì. E perché io v'abbia, di questi modi del disporre, le somiglianze recate dal verso, non è che essi non cadano eziandio nella prosa; per ciò che essi vi cadono. È il vero che questa maniera, ultima delle tre, più di rado vi cade che le altre; con ciò sia cosa che alla prosa, per ciò che ella alla regola delle rime o delle sillabe non sottogiace e può vagare e spaziare a suo modo, molto meno d'ardire e di licenzia si dà in questa parte, che al verso. Ora, sì come e nelle sillabe e nelle sole voci queste figure entrano, così dico io che elle entrano parimente negli stesi parlari, 4 e per aventura molto più. Per ciò che oltra che non ogni parte, che si chiuda con alquante voci, s'acconviene con ogni parte, e meglio giacerà posta prima che poi, o allo 'ncontro; e quella medesima parte non in ogni guisa posta riesce parimente graziosa; e toltone o aggiuntone o mutatone alcuna voce, più di vaghezza dimostrerà senza comperazione alcuna che altramente; si aviene egli ancora che il lungo ragionare e di quelle medesime figure molto più capevole5 esser può, che una sola voce non è, e oltre a questo egli è di molte altre figure capevole, delle quali non è capevole alcuna sola voce; sl come ne' libri di coloro palese si vede, che dell'arte del parlare scrivono partitamente. A queste cose tutte adunque, messer Ercole, chi risguarderà, quando egli delle maniere di due scrittori, o di prosa o di verso, piglierà a dar sentenza, egli potrà per aventura non ingannarsi; come che io 1. Rime, LVII, 11. 2. In verità sface si trova solo due volte: Rime, CL"ICIV, 5, e LXXI, 31 (sfaccia). Per sevri cfr. la nota I a p. 84. Adiviene (o meglio adiven) è presente tre volte: XVII, 3; LIII, 85; Trionfo della Fama, I, 130; dipartio una sola volta: CCCXXIII, 71. 3. Per diemme cfr. Rime, CXCVI, 3 (in rima), e CCCXXXI, 4 (diemmi); per aprilia, CXIX, 54, e Trionfo della Pudicizia, 171 (entrambi in rima). 4. negli stesi pa,lari: nel parlar disteso (locuzioni, frasi, periodi, ecc.), non solamente nelle singole parole. 5. capevole: capace, in grado di ricevere.

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non v'abbia tuttavia ogni minuta parte raccolta di quelle che c'insegnano questo giudicio.

[ix.] Allora messer Federigo, verso mio fratello guardando: - Io volea or ora - disse - a messer Ercole rivolgermi e dirgli che voi fuggivate fatica. Per ciò che molte dell'altre cose potevate recare ancora che sono con queste congiuntissime e mescolatissime; se voi medesimo confessato non r aveste. - E quali sono coteste cose, messer Federigo, - disse lo Strozza - che voi dite che messer Carlo avrebbe ancora potuto recarci? - Egli le vi dirà, - rispose messer Federigo - se voi ne 'l dimanderete, che1 ha le altre dette, che avete udito. - Io sicuramente non so se io me ne ricordassi ora, cercando-ne, - rispose mio fratello - che sapete come io malagevolmente mi ramemoro le tralasciate cose, sì come son queste; posto che io il pure volessi fare ;2 il che vorrei, se a messer Ercole sodisfare altra-mente non si potesse. Ma voi, il quale non sete meno di tenace memoria che siate di capevole ingegno, né leggeste giamai o udiste dir cosa che non la vi ricordiate: e in ciò ben si pare che Monsi-gnor lo Duca Guido vostro zio vi sia maggiore,3 sete senza fallo disubediente, poscia che a messer Ercole, questo da voi chiedente, non sodisfate; non voglio dire poco amorevole, che non volete meco essere alla parte di questo peso. Per che instando con messer Ercole mio fratello, che egli a messer Federigo facesse dire il rimanente, e esso stringendone lui, e che: va unito a Egli. 2. posto .•. fare: posto che pure lo volessi fare. Nella collocazione dei pronomi (e se ne avverte una volta per tutte) il Bembo spesso si rifà all'uso antico. Così poco sopra: le vi dirà, e poco sotto: la vi ricordiate. 3. Guidobaldo da Montefeltro, duca d'Urbino, era maggiore (cioè fra gli ascendenti) di Federigo Fregoso; più precisamente era suo zio, in quanto fratello della madre. La sua memoria doveva essere proverbiale, tanto che il BEMBO nel De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzagia Urbini ducib,u (in Opere I 729, IV, p. 290) scrive: « I taque illud iterum atque saepius, repeto, memoriam nostro Duci tantam fuisse, ut ea pro caera atque codici bus uteretur; quasi enim in illam transcriberentur eisdem literarum monumentis eaque legeret, aut eisdem verbis, quae audiret, sic ordine postea posituque pennanebant, neque temporis ullo spatio longinquitateve delebantur •· Monsignor lo Duca è correzione di T per II Monsignore il Duca» (ma la e finale non è stata soppressa per banale disattenzione); poco sotto • disamorevole » (P, M) è stato sostituito da poco amorevole. 1.

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il Magnifico parimente, che diceva che mio fratello aveva detto assai, egli dopo una brieve contesa, più per non torre a mio fratello il fornire lo incominciato ragionamento fatta, che per altro, lietamente a dire si dispose, e cominciò: - Io pure nella mia rete altro preso non arò che me stesso. E bene mi sta, poscia che io tacere quanto si conveniva non ho potuto, che io di quello favelli che men vorrei. Né crediate che io questo dica, perché in ciò la fatica mi sia gravosa, che non è, dove io a qualunque s'è l1uno di voi piaccia, non che a tutti e tre. x Ma dicolo per ciò che le cose, che dire si convengono, sono di qualità che malagevolmente per la loro disusanza2 cadono sotto regola, in modo che pago e sodisfatto se ne tenga chi l'ascolta. Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si potrebbe considerare quanto alcuna composizione meriti loda, o non meriti, ancora per questa via: che per ciò che due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza ;3 e le cose poi, che empiono e compiono queste due parti, son tre: il suono, il numero, la variazione ;4 dico che di queste tre cose aver si dee risguardo partitamente, ciascuna delle quali all'una e all'altra giova delle due primiere che io dissi. E affine che voi meglio queste due medesime parti conosciate, come e quanto sono differenti tra loro, sotto la gravità ripongo l'onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza, la grandezza e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi e se altro è di questa maniera. Per ciò che egli può molto bene alcuna composizione essere piacevole e non grave, e allo 'ncontro alcuna altra potrà grave essere, senza piacevolezza; sì come aviene delle composizioni di messer Cino e di Dante: ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza; e tra quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico già tuttavolta dove io ... e tre: se le mie parole piaceranno, se non a tutti, almeno a uno di voi tre: insomma, gli basterebbe giovare allo Strozzi. 2. per la loro disusan%a: perché insolite, nuove. 3. la gravità e la piacevolezza: anche se è possibile trovare precedenti classici di queste qualità che, secondo il Bembo, rendono belle le scritture (sopra tutto CICERONE, Orat., LIV, 182: •compositio [...] tota servit gravitati vocum aut suavitati »), tuttavia esse definiscono chiaramente la poetica petrarchesca del Bembo e determinano il canone di tanta poesia cinquecentesca. 4. suono ... variazione: CiCERONE (Orat., XLIX, 163) aveva scritto: «Duae sunt igitur res quae permulceant auris, sonus et numerus». A questi il Bembo aggiunge la variazione, sulla quale invero insiste più che non facciano i trattatisti antichi. I.

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che in quelle medesime che io gravi chiamo non vi sia qualche voce ancora piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli alcun'altra non se ne legga scritta gravemente; ma dico per la gran parte. Si come se io dicessi eziandio che in alcune parti delle composizioni loro né gravità né piacevolezza vi si vede alcuna, direi ciò avenire per lo più, e non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave o piacevole non si leggesse. Dove il Petrarca l'una e l'altra di queste parti empié maravigliosamente, in maniera che scegliere non si può in quale delle due egli fosse maggior maestro. [x.] Ma venendo alle tre cose generanti queste due parti che io dissi, è suono quel concento e quella armonia, che nelle prose dal componimento si genera delle voci, nel verso oltre a cciò daP componimento eziandio delle rime.:~ Ora per ciò che il concento, che dal componimento nasce di molte voci, da ciascuna voce ha origine, e ciascuna voce dalle lettere, che in lei sono, riceve qualità e forma, è di mestiero sapere quale suono rendono queste lettere, o separate o accompagnate, ciascuna.3 Separate adunque rendono suono quelle cinque, senza le quali niuna voce, niuna sillaba può aver luogo. E di queste tutte miglior suono rende la a, con ciò sia cosa che ella più di spirito4 manda fuori; per ciò che con più aperte labbra ne 'l manda e più al cielo ne va esso spirito. Migliore dell'altre poi la e, in quanto ella più a queste parti s'avicina della I. T ha « del» e cosl stampa il MARTI; ma l'emendamento in dal (già compiuto dal DIONISOTTI) mi pare opportuno, tanto più che sia P sia M hanno a: dal». 2. Nella trattazione degli effetti fonici il Bembo dunque distingue fra quelli generati dal componimento ("accostamento") delle voci (capitolo x) e quelli detenninati dalle rime (capitoli xi-xiii). 3. il concento ... ciascuna: cfr. QUINTILIANO, lnst. or., VIII, J, 16: «Nam ut syllabae e litteris melius sonantibus clariores, ita verba e syllabis magis vocalia, et quo plus quodque spiritus habet, auditu pulchrius. Et quod facit syllabarum, idem verborum quoque inter se copulatio, ut aliud alii iunctum melius sonet ». Inizia qui un'analisi degli effetti espressivi dei vari fonemi che, se non ha niente a che fare con le esperienze decadentistiche di un Baudelaire o di un Verlaine, conserva tutta la sua suggestione oggi che un diverso formalismo consente di apprezzarne tutta la finezza. S'intende che il Bembo è strettamente legato al gusto classicheggiante di delibare le parole, un gusto di cui peraltro c'è più che una traccia nel De vulgari eloque11tia, 11, vii. 4. spinto: fiato, respiro. Poco dopo, come ha mostrato G. PETIBNATI (art. cit., p. 75), cielo traduce oùpcxv6c; del De compositione verborum di DIONISIO DI ALICARNASSO, secondo la normale interpretazione del tempo; solo nel Settecento si giunse a intenderne il vero valore, cioè cc palato".

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primiera che non fanno le tre seguenti. Buono, appresso questi, è il suono della o, allo spirito della quale mandar fuori le labbra alquanto in fuori si sporgono e in cerchio; il che ritondo e sonoro ne 'I fa uscire. Debole e leggiero e chinato e tuttavia dolce spirito, dopo questo, è richiesto alla i. Per che il suono di lei men buono è che di quelle che si son dette, soave nondimeno alquanto. Viene ultimamente la u e questa, per ciò che con le labbra in cerchio, molto più che nella o ristretto, dilungate si genera, il che toglie alla bocca e allo spirito dignità, cosi nella qualità del suono come nell'ordine è sezzaia. 1 E queste tutte molto migliore spirito rendono, quando la sillaba loro è lunga, che quando ella è brieve ;"' per ciò che con più spazioso spirito escono in quella guisa e più pieno, che in questa. Senza che la o, quando è in vece della o latina, in parte eziandio il muta, le più volte 3 più alto rendendolo e più sonoro, che quando ella è in vece della u; sì come si vede nel dire orto e popolo, nelle quali la prima o con più aperte labbra si forma che ll'altre, e nel dire opra, in cui medesimamente la o più aperta e più spaziosa se n' esce, che nel dire ombra e sopra, e con più ampio cerchio. Quantunque ancor della e questo medesimamente si può dire. Per ciò che nelle voci gente, ardente, legge, miete e somiglianti, la prima e alquanto più alta esce che non fa la seconda; si come quella che dalla e latina ne vien sempre, dove le rimanenti vengono dalla i le più volte.4 Il che più manifestamente apparisce in queste parole del Boccaccio: «se tu di Constantinopoli se' ». 5 Dove si vede che nel primo se, per ciò che esso ne viene dal si latino, la e più chinata esce che non fa quella dell'altro se', il quale seconda voce è del verbo essere, e ha la e nel latino6 e non la i, si come sapete. Accompagnate, d'altra parte, rendono suono I. sezzaia: ultima. Si noti l'attenzione, tipicamente rinascimentale, non solo al suono ma anche alla forma delle labbra, alla "dignità" insomma della persona che parla. 2. Per le sillabe lunghe e brevi cfr. il capitolo xiv, a pp. 143-5. 3. Nella princeps il Bembo aveva scritto: «lo muta il più delle volte»; in M aveva corretto « lo muta» in il muta e in T « il più delle volte» in le più volte. 4. Senza che .•• volte: il Bembo intuisce che il grado di apertura di e e o dipende dalle vocali latine da cui esse sono derivate. È vero che quando u dà o, questo è chiuso (e cosi e da 1), ma, com'è noto, solo o ed E danno le vocali aperte (donde la limitazione le più volte). Un'ampia trattazione del problema è nello scritto Dell'o chiaro e fosco del TOLOMEI (in L. SBARAGLI, C. Tolomei, Siena 1939, pp. 160-87). 5. Dee., 111, 7, 20. 6. In realtà sei (se') non può derivare direttan1ente dal latino ES; forse (cfr. RoHLFS, § 540) bisogna supporre una forma •sEF.S.

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tutte quelle lettere che rimangono oltre a queste; 1 tra le quali assai piena e nondimeno riposata e per ciò di buonissimo spirito è la z,2 la qual sola delle tre doppie, che i Greci usano, hanno nella loro lingua ricevuta i Toscani; quantunque ella appo loro non rimane doppia, anzi è semplice come l'altre; se non quando essi raddoppiare la vogliono raddoppiando la forza del suono, sl come raddoppiano il p e il te dell'altre. Per ciò che nel dire zafiro, Zenobio, alzato, inzelosito 3 e simili, ella è semplice, non solo per questo, che nel principio delle voci, o nel mezzo di loro in compagnia d'altra consonante, niuna consonante porre si può seguentemente due volte; ma ancora per ciò che lo spirito di lei è la metà pieno e spesso di quello che egli si vede poscia essere nel dire bellezza, dolcezza. Per che dire si può che ella sia più tosto un segno di lettera, con la quale essi cosi scrivono quello cotale spirito, che la lettera che usano i Greci; quando si vede che niuna lettera di natura sua doppia è in uso di questa lingua; la quale non solamente in vece della x usa di porre la s raddoppiata, quando ella non sia in principio delle voci, dove non possono, come s'è detto, due consonanti d'una qualità aver luogo, o ancor quando nel mezzo la compagnia d'altra lettera non vocale non gliele vieti, ne' quali due luoghi la s semplice sodisfà; ma ancora tutte quelle voci che i Latini scrivono per ps, ella pure per due s medesimamente scrive Accompagnate •.. queste: con questa perifrasi il Bembo indica le consonanti, le quali possono essere pronunciate solo se accompagnate (s'intende, dalle vocali). 2. La zeta è fra le consonanti su cui più hanno discusso i grammatici. A causa del rotacismo sparì dall'alfabeto latino nel corso del IV secolo a. C., e si pensa che ad eliminare il segno superfluo abbia contribuito l'avversione che Appio Claudio il Cieco, secondo quanto riferisce MARZIANO CAPELLA (3, 261), portava al suono z: 1.z idcirco Appius Claudius detestatur, quod dentes mortui dum exprimitur imitaturn. Rientrò nell'alfabeto latino al tempo di Silla per il desiderio di riprodurre la ~ greca e si conservò in quello italiano, unico - come dice il Bembo - dei suoni doppi del greco (gli altri sono ~ e 41); ma ancora nel Cinquecento, come già fra i grammatici latini - VELIO LONGO per esempio (De ort/zographia, in KEIL, VII, p. 51) negava che fosse un suono doppio -, si discuteva sulla reale natura di z: C. TOLOMEI (Polito, Roma, L. Vicentino e L. Perugino, s. d., pp. H iii v.-1), per esempio, sostiene, come il Bembo sia pure in modo diverso, che z non è lettera doppia. È poi curioso (dipenderà dal suo orecchio abituato al veneziano?) che il Bembo consideri la z di buo11issi1110 spirito, quando ancora DANTE (De vttlgari eloquentia, 1, xiii, 5) la biasimava perché« non sine multa rigiditate profertur "· 3. inzelosito per ingelosito, come già accorza110 nel capitolo vii di questo libro (a p. 125), è un residuo dialettale veneto. 1.

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sempre. 1 E questa s, quantunque non sia di purissimo suono, ma più tosto di spesso, non pare tuttavolta essere di cosi schifo e rifiutato nel nostro idioma, come ella solea essere anticamente nel greco; nel quale furono già scrittori che per questo alcuna volta delle loro composizioni fornirono senza essa.a E se il Petrarca si vede avere la lettera x usata nelle sue canzoni, nelle quali egli pose experto, extremo e altre simili voci, ciò fece egli per uscire in questo dell'usanza della fiorentina lingua, a ffine di potere alquanto più inalzare i suoi versi in quella maniera; si come egli fece eziandio in molte altre cose, le quali tutte si concedono al verso, che non si concederebbono alla prosa.3 Oltre a queste, molle e dilicata e piacevolissima è la l, e di tutte le sue compagne lettere dolcissima. Allo 'ncontro la r aspera ma di generoso spirito. Di mezzano poi tra queste due la m e la n, il suono delle quali si sente quasi lunato e cornuto nelle parole.4 Alquanto spesso e pieno suono appresso rende la/. Spesso medesimamente e pieno, ma più pronto, il g. Di quella medesima e spessezza e prontezza è il e, ma più impedito di quest'altri. 5 Puri e snelli e ispediti poi sono il b e il d. Snellissimi e purissimi il p e il t, e insieme ispeditissimi. Di povero e morto suono, sopra gli altri tutti, ultimamente è il q; e in tanto più ancora maggiormente che egli, senza la u che 'l 1. Per che dire . .. sempre: come la maggior parte dei grammatici (osservazioni precise sono nel citato Polito del TOLOMEI) il Bembo prende atto che il volgare ha rifiutato le lettere doppie. Per altre proposte di soluzione delle grafie con x e per la discussione sulla z, cfr. B. M1GLIORINI, Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 205-15. 2. E questa .•. essa: «Il Bembo non può aver derivato questa notizia che da un passo di Ateneo (x, 455) a proposito di un carme liatyµ6ç, cioè composto senza mai usare il sigma, del poeta Laso di Ermionc. Su questo passo e sulla disavventura di quella lettera, può darsi che l'attenzione del Bembo si sia fermata anche per la popolarità di un opuscolo di Luciano (tradotto in latino dal Calcagnini e pubblicato a Ferrara nel 1510) in cui Sigma si appella al giudizio delle vocali contro le sopraffazioni di Tau» (D10N1sorr1). 3. E se il Petrarca ••. prosa: è evidente che, secondo il Bembo, le forme con x del Petrarca non avevano un mero valore grafico ma comportavano una pronuncia latineggiante. 4. Di mezzano ... parole: «Poiché senza esplosività unisce le due lettere cui è prossima» (MARTI 1955). 5. Alquanto .•• quest'altri: cfr. P. CORTESE, De cardinalatu, «in castro Cartesio» [in casa del Cortese], N. Nardi, 1510 (citato da D10N1sorr1 1968, p. 6 s): • At vero Traspadani et Insubres monosyllaborum brevitate et interpuncta concinnitate gaudent, quod contra eorum vulgi multitudini evenire cernimus, quae nullam syllabam efferre sine aspiratione solet: in quo eo fit dictio imperita vastior, quo est F et C litterarum asperitate refertior, quarum sonus, cum pinguis sit ipse per se, faucibus tanquam flexibus inclusus ex ore refertur in loquendo crassior ».

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sostenga, non pub aver luogo. La h, per cib che non è lettera, per sé medesima niente pub; ma giugne solamente pienezza e quasi polpa alla lettera, a cui ella in guisa di servente sta accanto.' Conosciute ora queste forze tutte delle lettere, torno a dire che secondamente che ciascuna voce le ha in sé, cosi ella è ora grave, ora leggiera, quando aspera, quando molle, quando d'una guisa e quando d'altra; e quali sono poi le guise delle voci che fanno alcuna scrittura, tale è il suono che del mescolamento di loro esce o nella prosa o nel verso, e talora gravità genera e talora piacevolezza.a [xi.] È il vero che egli3 nel verso piglia eziandio qualità dalle rime; le quali rime graziosissimo ritrovamento si vede che fu, per dare al verso volgare armonia e leggiadria, che in vece di quella fosse, la quale al latino si dà per conto de' piedi, che nel volgare cosi regolati non sono. Ad esse adunque passando, dico che sono le rime comunemente di tre maniere: regolate, libere e mescolate. Regolate sono quelle che si stendono in terzetti, cosi detti per cib che ogni rima si pon tre volte, o perché sempre con quello medesimo ordine di tre in tre versi la rima nuova incominciando, si chiude e compie la incominciata; e per cib che questi terzetti per un modo insieme tutti si tengono, quasi anella pendenti l'uno dal1' altro, tale maniera di rime chiamarono alcuni catena; delle quali poté per aventura essere il ritrovator Dante, che ne scrisse il suo poema; con ciò sia cosa che sopra lui non si truova chi le sapesse.• 1. Il Bembo comprende che h « non è lettera• (o meglio: non ha suono), ma non giunge come altri a ravvisarne l'inutilità, poiché il suo discorso è sempre ancorato a una precisa realtà storica (h, che di per sé non ha suono, serve per realizzare altri suoni). D'altra parte è chiaro che il Bembo non distingue adeguatamente tra fonema e segno grafico, giacché parla dell'h ma non fa cenno della v, che, come è noto, non si distingueva graficamente dalla vocale u. 2. Il passo che qui termina è uno dei migliori esempi di come il senso finissimo della lingua consentisse al Bembo di superare ogni rigidità e astrattezza, infondendo spirito nuovo alle considerazioni della retorica classica e in particolare del De compositione verborum di DIONISIO o'ALICARNAsso, che, come ha mostrato G. PETl'ENATI nell'articolo citato, si può considerare la fonte diretta di questa analisi del valore delle lettere. 3. egli: il suono. 4. Regolate . •• sapesse: le terzine dantesche, che si svolgono secondo lo schema ABA, BCB, CDC, DED, ecc. Comunemente vengono chiamate rime incatenate, e in effetti la loro disposizione richiama l'immagine della catena; non si sa però chi, prima del Bembo, abbia chiamato catena la terza rima. Quanto all'origine di questo metro il Bembo ha ragione di pensare che Dante ne sia stato il ritrovatore: cfr. M. FuBINI, Metrica e poesia, Milano 1970, pp. 168 sgg.; e nell'Enciclopedia dantesca la voce Terzina di I. BALDELLI.

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Sono regolate altresi quelle che noi ottava rima chiamiamo per questo, che continuamente in otto versi il loro componimento si rinchiude; e queste si crede che fossero da' Ciciliani' ritrovate, come che essi non usassero di comporle con più che due rime: per ciò che lo aggiugnervi la terza, che ne' due versi ultimi ebbe luogo, fu opera de' Toscani.2 Sono medesimamente regolate le sestine, ingenioso ritrovamento de' provenzali compositori. 3 Libere poi sono quell'altre, che non hanno alcuna legge o nel numero de' versi o nella maniera del rimargli, ma ciascuno, si come ad esso piace, così le forma ; e queste universalmente sono tutte madriali chiamate, o per ciò che da prima cose materiali e grosse si cantassero in quella maniera di rime, sciolta e materiale altresì; o pure perché così, più che in altro modo, pastorali amori e altri loro boscarecci avenimenti ragionassero quelle genti, nella guisa che i Latini e i Greci ragionano nelle egloghe loro, il nome delle canzoni formando e pigliando dalle mandre. Quantunque alcuna qualità di madriali si pur truova che non così tutta sciolta e libera è come io dico. 4 Mescolate ultimamente sono qualunque rime e in Ciciliani: in T, per una svista, è rimasto« Siciliani»; cfr. Ia nota 3 a p. 71. Sono .•. Toscani: il Bembo distingue l'ottava toscana, comprendente tre rime (ABABABCC) dall'ottava siciliana (ABABABAB), da cui quella era derivata. L'ottava toscana, o semplicemente ottava o stanza, con il suo grande successo come metro della poesia narrativa, ridusse di molto l'uso dell'ottava siciliana, di cui pure si ha qualche esempio nella poesia del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento. 3. Sulle sestine, si vedano, a pp. 76-7, le note al capitolo ix del primo libro; M. FunINI, Metrica e poesia, cit., pp. 299-316; e ne1l' Enciclopedia dantesca la voce Sestina, sestina doppia di I. BALDELLI. 4. Libere . .. dico: il PETRARCA compose quattro madrigali: Rime, LII (schema: ABA, BCB, CC), LIV (ABA, CBC, DEDE), CVI (ABC, ABC, DD), CXXI (ABB, ACC, CDD); ed è evidente che non sono del tutto sciolti e liberi (donde la precisazione del Bembo). Nel Quattrocento invece il madrigale aveva conquistato tanta libertà che, come qui si osserva, comprendeva tutte quelle forme che non hanno alcuna legge e nel numero dei versi (minore però di quello del sonetto) e nella disposizione delle rime. L'etimologia di madrigale è stata discussa a lungo, senza approdare a risultati definitivi. L'ipotesi che derivi da ma11dria, come già pensava ANTONIO DA TEMPO (Delle rime volgari, a cura di G. Grion, Bologna 1869, p. 139: «mandrialis est rithimus ille, qui vulgariter appellatur marigalis. Dicitur autem mandrialis a mandra pecudum et pastorum, quia primo modum illum rithimandi et cantandi habuimus ab ovium pastoribus »), oggi ha perso di credito. Sia pure con motivazioni diverse, dallo Spitzer, dal Rohlfs, dal Li Gotti, dal Pirotta e altri è accettata la prima proposta del Bembo, d'una derivazione da materialis. Cfr. B. M1GLIORINI, Madrigale, in Saggi linguistici, cit., pp. 288-9; G. Cons1, Madrigali inediti del Trecento, in cc Belfagor », XIV (1959), pp. 72-82. 1. 2.

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parte legge hanno e d'altra parte sono licenziose; si come de' sonetti e di quelle rime, che comunemente sono canzoni chiamate, si vede che dire si può; con ciò sia cosa che a' sonetti il numero de' versi è dato, e di parte delle rime; nell'ordine delle rime poi, e in parte di loro nel numero, non s'usa più certa regola che il piacere, in quanto capevoli ne sono quei pochi versi; il qual piacere di tanto innanzi andò con la licenzia che gli antichi fecero talora sonetti di due rime solamente; talora in amenda di ciò, non bastando loro le rime che s'usano, quelle medesime ancora trametteano ne' mezzi versi. 1 Taccio qui che Dante una sua canzone nella Vita nuova sonetto nominasse.2 Per ciò che egli più volte poi, e in quella opera e altrove, nomò sonetti quelli che ora cosi si chiamano. E nelle canzoni puossi prendere quale numero e guisa di versi e di rime a ciascuno è più a grado, e compor di loro la prima stanza; ma, presi che essi sono, è di mestiero seguirgli nell'altre con quelle leggi che il compositor medesimo, licenziosamente componendo, s'ha prese. Il medesimo di quelle canzoni, che ballate si chiamano, si può dire; le quali, quando erano di più d'una stanza, vestite si chiamavano, e non vestite, quando erano d'una sola; sl come se ne leggono alquante nel Petrarca, fatte e all'una guisa e all'altra. 3 1. Mescolate .. . versi: nel sonetto l'ordine delle rime, anche se assai vario, non è del tutto lasciato all'arbitrio del poeta, e alcuni schemi hanno una netta prevalenza: in ogni caso nelle quartine si hanno sempre due rime: ABAB, ABAB oppure ABBA, ABBA; più rare disposizioni come ABAB, BADA (PETRARCA, Rime, CCLXXIX) e altre forme non simmetriche; maggior possibilità di variazioni offrono le terzine. Il sonetto di due rime, a cui allude il Bembo, è il così detto sonetto continuo (per il quale cfr. A. DA TEMPO, Delle rime volgari, cit., pp. 92-3). È una forma che compare di rado nel XI I I secolo fino a Cino. Ben più comune era il sonetto con rimalmezzo. Cfr. L. BIADENE, Morfologia del sonetto nei secc. XIII e XIV, in a Studi di filologia romanza», IV (1889), pp. 1-234; M. FUBINI, Metrica e poesia, cit., pp. 146-67. 2. Anche se so11etto in un primo tempo non aveva ancora un significato tecnico preciso, quanto qui afferma il Bembo non è esatto. Egli probabilmente ha scambiato per canzoni i sonetti rinterzati dei capitoli VII e VIII della Vita nuova. È però strano che il Bembo parli di una canzone e non di due; ed è una curiosa lacuna nella sua cultura il fatto che mostri di non conoscere il trattato di A. DA TEMPO, che pure era stato stampato a Venezia nel 1509: nell'edizione citata del Grion si parla del sonetto rinterzato alle pp. 83-8. 3. 11 medesimo ... all• altra: piuttosto evasiva questa descrizione della ballata, in cui t•elemento caratterizzante è invece il ritornello o ripresa. La distinzione fra ballata vestita e non vestita è parsa strana, perché si credeva che con questi termini si alludesse soltanto alla presenza o assenza della musica; ma G. GoRNI (Lippo amico, in SFI, XXXIV, 1976, pp. 34-5) ha mostrato che, pure in questo

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[xii.] Di queste tre guise adunque di rime, e di tutte quelle rime che in queste guise sono comprese, che possono senza fallo esser molte, più grave suono rendono quelle rime che sono tra sé più lontane; più piacevole quell'altre che più vicine sono. Lontane chiamo quelle rime che di lungo spazio si rispondono, altre rime tra esse e altri versi traposti avendo; vicine, allo 'ncontro, quell'altre che pochi versi d'altre rime hanno tra esse; più vicine ancora, quando esse non ve n'hanno niuno, ma finiscono in una medesima rima due versi; vicinissime poscia quell'altre che in due versi rotti finiscono; e tanto più vicine ancora e quelle e queste, quanto esse in più versi interi e in più rotti finiscono, senza tramissione d'altra rima.' Quantunque, non contenti de' versi rotti, gli antichi uomini eziandio ne' mezzi versi le trametteano, e alle volte più d'una ne traponevano in un verso.2 Ritorno a dirvi che più grave suono rendono le rime più lontane. Per che gravissimo suono da questa parte è quello delle sestine, in quanto maravigliosa gravità porge il dimorare a sentirsi che alle rime si risponda primieramente per li sei versi primieri, poi quando per alcun meno e quando per alcun più, ordinatissimamente la legge e la natura della canzone variandonegli. Senza che il fornire le rime sempre con quelle medesime voci genera dignità e grandezza; quasi pensiamo, sdegnando la mendicazione delle rime in altre voci, con quelle voci, che una volta prese si sono per noi, alteramente perseverando lo incominciato lavoro menare a fine. Le quali parti di gravità, perché fossero con alcuna piacevolezza mescolate, ordinò colui che primieramente a questa maniera di versi diede forma, che dove le stanze si toccano nella fine dell'una e incominciamento dell'altra, la rima fosse vicina in due versi. Ma questa medesima piacevolezza tuttavia è grave; in quanto il riposo, che alla fine di ciascuna stanza è richiesto, prima che all'altra si passi, framette tra la continuata rima alquanto spazio, e men vicina ne la fa essere, caso, la terminologia bembiana trova precisi riscontri nella lirica antica. Sette sono le ballate del PETRARCA: Rime, x1, xiv, LXIII, cxux, cccxxiv non vestite; LV e LIX vestite. I. più vicine .•. rima: il Bembo distingue varie gradazioni di rima baciata: fra endecasillabi {AA), fra versi rotti {cioè settenari: aa), fra più di due versi monorimi {siano essi endecasillabi o settenari), per esempio PETRARCA, Rime, cxxi, 5-7 (con la triplice rima -erba) o la canzone ccvi, formata di stanze in cui i vv. 6-8 sono sempre settenari e monorimi. 2. gli antichi ... verso: per la rimalmezzo cfr. I, ix, a pp. 77-8. Uno dei rari esempi di doppia rimalmezzo si ha nella canzone Donna me prega del CAVALCANTI, che il Bembo cita nel capitolo successivo.

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che se ella in una stanza medesima si continuasse. 1 Rendono adunque, come io dissi, le più lontane rime il suono e l'armonia più grave, posto nondimeno tuttavolta che convenevole tempo alla repetizione delle rime si dia. Che se voleste voi, messer Ercole, per questo conto comporre una canzone, che avesse le sue rime di moltissimi versi lontane, voi sciogliereste di lei ogni armonia da questo canto, non che voi la rendeste migliore. A servare ora questa convenevolezza di tempo, l'orecchio più tosto, di ciascun che scrive, è bisogno che sia giudice, che io assegnare alcuna ferma regola vi ci possa. Non dimeno egli si può dire che non sia bene generalmente framettere più che tre o quattro o ancora cinque versi tra le rime; ma questi tuttavia rade volte. Il che si vede che osservò il Petrarca; il qual poeta, se in quella canzone che incomincia Verdi panni2 trapassò questo ordine, dove ciascuna rima è dalla sua compagna rima per sette versi lontana, si l'osservò egli maravigliosamente in tutte le altre; e questa medesima è da credere che egli componesse cosi, più per lasciarne una fatta alla guisa, come io vi dissi, molto usata da' provenzali rimatori, che per altro. 3 Né dirò io che egli non l'osservasse in tutte le altre, per ciò che nella canzone Qual più diversa e nova si vegga una sola rima più lontana che per quattro o ancora per cinque versi.+ Anzi dirò io che e in tutta Verdi pa,ini essere uscito di questo ordine, e di questa in una sola rima, giugne grazia a questo medesimo ordine, diligentissimamente da llui osservato in tutte le altre canzoni sue; trattone tuttavolta le ballate, dette così perché si cantavano a ballo: nelle quali, per ciò che l'ultima delle due rime de' primi versi, che da tutta la corona si cantavano, i quali due o tre o il più quattro essere solcano, si ripeteva nell'ultimo di quelli che si cantavano da un solo, a ffine che si cadesse nel medesimo suono, avere non si dee quel risguardo che io dico ;5 e trattone le sestine, le quali stare non 1. Per cl,e grawsimo •.. continuasse: per comprendere il discorso del Fregoso occorre ricordare che la sestina amaldesca (colui che primieramente a qllesta matriera di versi diede forma è appunto Arnaldo Daniello: cfr. 1, i.ic:, a p. 76) ha sei parole-rima che si ripetono nelle sei strofe, per la legge della retrogradatio cn,ciata, secondo questo schema: ABCDEF, FAEBDC, CFDA BE, ECBFAD, DEACFB, BDFECA, più la tornata. 2. Rime, xxix. In questa canzone le rime si ripetono ordinatamente di strofa in strofa, a distanza appunto di sette versi secondo lo schema: AbCDEFg, ripetuto otto volte ( + Fg). 3. e questa ••. altro: cfr. 1, i.~, a p. 77. 4. In questa canzone (Rime, cxn.-v) a dista sei versi da A, secondo lo schema: aBbCcDdAaBE eBF(f)A, ripetuto sei volte. 5. trattone . •• dico: utile integrazione a quan-

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debbono sotto questa legge; con ciò sia cosa che per ciò che le rime in loro sempre si rispondono con quelle medesime voci, se elle più vicine fossero, senza fallo genererebbono fastidio, quanto ora fanno dignità e grandezza. [xiii.] Dico medesimamente, dall'altra parte, che la vicinità delle rime rende piacevolezza tanto maggiore quanto più vicine sono tra sé esse rime. Onde aviene che le canzoni che molti versi rotti hanno, ora più vago e grazioso, ora più dolce e più soave suono rendono, che quelle che n'hanno pochi; per ciò che le rime più vicine possono ne' versi rotti essere che negl'interi. Sono di molti versi rotti alquante canzoni del Petrarca, tra le quali due ne sono di più che l'altre. Ponete ora mente quanta vaghezza, quanta dolcezza e in somma quanta piacevolezza è in questa :1 Chiare, fresche e dolci acque, ove le belle membra pose colei, che sola a me par donna; gentil ramo, ove piacqu.e (con sospir mi rimembra) a lei. di far al bel fianco colonna,· erba e fior, che la gonna leggiadra ricoverse con l'angelico seno; aer sacro sereno, ov' Amor co' begli occhi il cor ,n'aperse; date udienzia inseme a le dolenti mie parole extreme.

D'un verso rotto più in quello medesimo e numero e ordine di versi è la sorella di questa canzone, nata con lei ad un corpo. 2 to sulla ballata era stato detto sommariamente sulla fine del capitolo precedente. L'ultima rima della ripresa o ritornello, che era cantato da tutto il coro danzante (corona) ed era composto da un numero vario di versi, tornava nell'ultimo dei versi delle stanze (cantate dal solista). Le ballate prendevano nome diverso secondo il numero dei versi della ripresa: grande, se di quattro versi; mezzana, se di tre; minore, se di due; piccola, se di uno; stravagante, se di oltre quattro versi. Il Petrarca non ci ha lasciato ballate degli ultimi due tipi; pertanto il Bembo può dire che i versi della ripresa d11e o tre o il più quattro essere soleano. 1. Rime, cxxvr. 2. Rime, cxxv. In questa canzone l'ultimo verso di ogni strofa è settenario, mentre nella canzone gemella (nata con lei. ad un corpo) Chiare, fresche e dolci acqu.e è endecasillabo; per tutto il resto lo schema metrico è identico.

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Veggiamo ora, se maggior dolcezza porge il verso rotto dell'una, che dell'altra lo intero: Se 'l pensier che mi strugge, com'è pungente e saldo, cosi vestisse d'un color conforme, forse tal m'arde e fugge, eh'avria parte del caldo, e desteriasi Amor là dwe or dorme; men solitarie l'orme f oran de' miei piè lassi per campagne e per colli, men gli occhi ad ogni or molli, ardendo lei, che come un ghiaccio stassi, e non lascia in me dramma, che non sia f oco e fiamma.

È dolce suono, si come voi vedete, messer Ercole, quello di questa rima posta in due vicini versi, l'uno rotto e l'altro intero: date udienzia inseme a le dolenti mie parole extreme.

Ma più dolce in ogni modo è il suono di quest'altra, della quale amendue i versi son rotti: e non lascia in me dramma, che non sia f oco e fiamma.

Il che aviene per questo, che ogni indugio e ogni dimora nelle cose è naturalmente di gravità indizio; la qual dimora, per ciò che è maggiore nel verso intero che nel rotto, alquanto più grave rendendolo, men piacevole il lascia essere di quell'altro. E questo ultimo termine1 è della piacevolezza che dal suono delle rime può venire; se non in quanto più che due versi porre vicini si possono d'una medesima rima. Ma di poco tuttavia e rade volte passare si può questo segno, che la piacevolezza non avilisca. Dissi ultimo termine per ciò che non che più dolcezza porgano i versi che le rime hanno più vicine, si come sono quelli che le hanno nel mezzo di loro, ma essi sono oltre a cciò duri e asperi, si perché, ponendosi lo scrittore sotto cosi ristretta regola di rime, non può fare o la scelta o la disposizione delle voci a suo modo, ma conviengli bene spesso servire al bisogno e alla necessità della rima; e si 1.

ultimo termine: limite estremo.

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ancora per ciò che quello cosi spesso ripigliamento di rime genera strepito più tosto che suono; si come dalla canzone di Guido Cavalcanti si può comprendere, che incomincia cosi: Donna n,i prega, perch'io voglio dire d'un accidente, che sovente è fero, et è .d altero, che si chiama Amore. 1

Il qual modo e maniera di rime prese Guido e presero gli altri Toschi da' Provenzali, come ieri si disse, che l'usarono assai s0vente.2 Fuggilla del tutto il Petrarca; dico in quanto egli non pose giamai due vicine rime nel mezzo d'alcun suo verso. Posene alle volte una; e questa una, quanto egli la pose più di rado nelle sue canzoni, tanto egli a quelle canzoni giunse più di grazia; e meno ne diede a quell'altre nelle quali ella si vede essere più sovente; si come si vede in quell'altra: Mai non

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più cantar, com'io solea.3

La qual canzone chi chiamasse per questa cagione alquanto dura, forse non errerebbe soverchio. Ma egli tale la fe', a cciò traendonelo la qualità della canzone, la quale egli proposto s'avea di tessere tutta di proverbii; si come s'usò di fare a quel tempo. I quali proverbii, postivi in moltitudine e cosi a mischio, non possono non generare alcuna durezza e asprezza.4 Ma, tornando Questa famosa canzone per la fitta trama di rime interne ha lo schema: (g5)A(h 5)(h.JB(b 5)C, (g5)A(h 5)(h.JB(b 5)C; D(d 3)E(e 5)FF, D(d 3)E (e 5)FF. 110gni strofe» scrisse E. PouND (Saggi letterari, a cura di T. S. Eliot, Milano 1957, p. 206) «è articolata da 14 suoni di rima terminali e da 12 rime interne; il che vuol dire che 52 su ogni 154 sillabe sono vincolate in uno schema». 2. Il qual •.. sovente: cfr. 1, ix, a pp. 77-8. 3. Rime, cv. È una canzone frottolata, cioè intessuta di motti e sentenze oscure, con numerosissime rime al mezzo, secondo la maniera delle frottole venute di moda all'inizio del Trecento. Lo schema è: (a)B(b}C(c)D, (a)B(b)C(c)D; (d)E(e)F(f}EeF(f}GHhG. Il BEMBO, che pur giudica alquanto dura questa canzone, si provò a imitarla (Rime, LV). La rimalmezzo fu usata dal PETRARCA anche in Rime, cxxxv, CXLIX, CCCLXVI. 4. Ma egli ... asprezza: nella princeps si legge: « Ma egli tale la fe' a studio volendo il soggetto di lei oscurare quanto si potea il più »; in M rese più esplicito il suo pensiero, esprimendolo nella forma poi passata tale e quale in T. Correzioni dell'ultima edizione sono, invece, poco sotto, fanciulle in luogo di • vergini» e molte donne per II altre donne». Sulla canzone frottolata del Petrarca si veda quanto il Bembo scriveva all'arcivescovo teatino, Felice Trofirno, il 22 maggio I 525: « Dico adunque che, quanto alla canzone del Petrarca Mai non vo' più cantar, com'io solea, io giudico che ella non abbia soggetto alcuno continuato per tutta essa. Perciocché niuna materia può in tanto adagiarvisi che a lei si possan dare convenevolmente tutti que' I.

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alle due canzoni, che io dissi, del Petrarca, sl come elle sono per gli detti rispetti piacevolissime, cosi per gli loro contrari è quell'altra del medesimo poeta gravissima. La quale, quando io il leggo, mi suole parere fuori dell'altre, quasi donna tra molte fanciulle, o pure come reina tra molte donne, non solo d'onestà e di dignità abondevole, ma ancora di grandezza e di magnificenza e di maestà; la qual canzone tutti i suoi versi, da uno per istanza in fuori, ha interi, e le stanze sono lunghe più che d'alcuna altra: Nel dolce tempo de la prima eta de, che nascer vide et ancor quasi in erba la /era voglia, che per mio mal crebbe. 1

E senza fallo alcuno, chiunque di questa canzone con quelle due comperazione farà, egli scorgerà agevolmente quanto possano a dar piacevolezza le rime de' versi rotti, e quelle degl'interi ad accrescere gravità. E detto fin qui vi sia del suono. [xiv.] Ora a dire del numero passiamo, facitore ancora esso di queste parti, in quanto per lui si può, che non è poco; il qual numero altro non è che il tempo che alle sillabe si dà, o lungo o brieve, ora per opera delle lettere che fanno le sillabe, ora per cagione degli accenti che si danno alle parole; e tale volta e per l'un conto e per l'altro. E prima ragionando degli accenti, dire di loro non voglio quelle cotante cose che ne dicono i Greci, più alla loro lingua richieste che alla nostra. Ma dico solamente questo, che nel nostro volgare in ciascuna voce è lunga sempre quella sillaba a cui essi stanno sopra, e brievi tutte quelle alle quali essi precedono, se sono nella loro intera qualità e forma lasciati ;2 il che non avien loro o nel greco idioma o nel latino. Onde nasce che la loro giacitura, più in un luogo che in un altro, molto pone e molto leva o di gravità o di piacevolezza, e nella prosa e nel verso. La proverbi che vi sono. Ma tengo che ella sia fatta cosi per fare una canzon tutta di proverbi senza dar loro alcun soggetto proprio altro che questo, dico l'adunanza di loro medesima raccolta d'ogni maniera di motteggio e di sentenza, che a guisa di proverbio dire si possa. La qual cosa era in uso a questi tempi, e chiamavansi queste cotali canzoni frottole. Nelle quali ben poteva il componente spargere e intrametter qualche motto ad alcun proposito del suo stato, ma non tutti, che ciò non era il segno a cui si dirizzasse il pensier suo•. 1. Rime, XXIII. Con i suoi venti versi (di cui solo il decimo è settenario) è la più lunga stanza di canzone usata dal Petrarca. 2. se sono ••• lasciati: se gli accenti rimangono nella loro posizione e conservano la loro forza.

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qual giacitura, per ciò che ella uno di tre luoghi suole avere nelle voci, e questi sono l'ultima sillaba o la penultima o quella che sta alla penultima innanzi, con ciò sia cosa che più che tre sillabe non istanno sott'uno accento comunemente, quando si pone sopra le sillabe che alle penultime sono precedenti, ella porge alle voci leggerezza, per ciò che, come io dissi, lievi sempre sono le due sillabe a cui ella è dinanzi; onde la voce di necessità ne diviene sdrucciolosa. Quando cade nell'ultima sillaba, ella acquista loro peso allo 'ncontro, per ciò che, giunto che all'accento è il suono, egli quivi si ferma e, come se caduto vi fosse, non se ne rileva altramente. E in tanto sono queste giaciture, l'una leggiera e l'altra ponderosa, che qual volta1 elle tengono gli ultimi loro luoghi nel verso, il verso della primiera cresce dagli altri d'una sillaba, e è di dodici sempre; ché le ultime due sillabe, per la giacitura dell'accento, sono si leggiere che dire si può che in luogo d'una giusta s1 ricevano: Già non compié di tal consiglio rendere.

E quello dell'altra, d'altro canto, d'una sillaba minore degli regolati è sempre, e più che dieci avere non ne può; il che è segno che il peso della sillaba, a cui egli soprastà, è tanto che ella basta e si piglia per due: con esso un colpo per la man d' Arttì. 2

Temperata giacitura, e di questi due stremi3 libera o più tosto mezzana tra essi, è poscia quella che alle penultime si pon sopra; e talora gravità dona alle voci, quando elle di vocali e di consonanti, a cciò fare acconce, sono ripiene; e talora piacevolezza, quando e di consonanti e di vocali o sono ignude e povere molto, o di quelle di loro che alla piacevolezza servono a bastanza coperte e vestite.+ Questa, per lo detto temperamento suo, ancora che ella molte volte una appresso altra si ponga e usisi, non per ciò sazia, quando tuttavolta altri non abbia le carte preso a scrivere e empiere di questa sola maniera d'accento, e non d'altra; là dove le due dell'ultima e dell'innanzi penultima sillaba, agevolmente fastidiqual volta: ogni qual volta. 2,. DANTE, In/., XXIII, 34; xxxn, 62. 3. stremi: estremi. 4. Temperata • . • vestite: insomma, mentre di per sé stesse le parole sdrucciole sono piacevoli e quelle tronche gravi, le parole piane, in quanto la loro giacitura è temperata, non hanno per il solo accento né gravità né piacevolezza ma ricevono l'una o l'altra dalla quantità e qualità delle lettere di cui constano. 1.

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scono e sazievoli sono molto, e il più delle volte levano e togliono e di piacevolezza e di gravità, se poste non sono con risguardo. E ciò dico per questo, che esse medesime, quanto si conviene considerate, e poste massimamente l'una di loro tra molte voci gravi, e questa è la sdrucciolosa, e l'altra tra molte voci piacevoli, possono accrescere alcuna volta quello che elle sogliono naturalmente scemare. Che si come le medicine, quantunque elle veneno siano, pure, a tempo e con misura date, giovano, dove, altramente prese, nuocono e spesso uccidono altrui, e molti più sono i tempi, ne' quali elle nocive essere si ritroverebbono, se si pigliassero, che gli altri; cosi queste due giaciture degli accenti, ancora che di loro natura elle molto più acconce sieno a levar profitto che a darne, nondimeno alcuna volta nella loro stagione1 usate, e danno gravità e accrescono piacevolezza. Ponderosi, oltre a questo, sempre sono gli accenti che cuoprono le voci d'una sillaba; il che da questa parte si può vedere, che essi, posti nella fine del verso, quello adoperano2 che io dissi che fanno gli accenti posti nell'ultima sillaba della voce, quando la voce nella fine del verso si sta: ciò è che bastano e servono per due sillabe: quanto posso mi spetro, e sol mi stò.3

E se in Dante si legge questo verso, che ha l'ultima voce d'una sillaba, e nondimeno il verso è d'undici sillabe: e più d'un mezzo di traverso no11 ci ha,4

è ciò per questo, che non si dà l'accento all'ultima sillaba, anzi se le toglie, e lasciasi lei all'accento della penultima; e cosi si mandan fuori queste tre voci non ci ha, come se elle fossero una sola voce o come si mandan fuori oncia e sconcia, che sono le altre due compagne voci di questa rima. Sono tuttavolta questi accenti più e meno ponderosi, secondo che più o meno lettere fanno le loro voci, e più in sé piene o non piene, e a questa guisa poste o a quell'altra.

[xv.] Raccolte ora queste maniere di giacitura, veggiamo se nel vero cosi è come io dico. Ma delle due prima dette, ciò è della giacitura che sopra quella sillaba sta che alla penultima è dinanzi 11ella loro stagione: nel momento più conveniente. rano. 3. PETRARCA, Rime, cv, 19. 4. Jn/., xxx, 87. 1.

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2.

adoperano: ope-

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e di quella che sta sopra l'ultima, e ancora di quell'altra che alle voci d'una sillaba si pon sopra, bastevole essempio danno, si come io dissi, quelli versi che noi sdruccioli per questo rispetto chiamiamo, e quegli altri a' quali danno fine queste due maniere di giacitura poste nell'ultima sillaba, o nelle voci di più sillabe o in quelle d'una sola; i quali non sono giamai di più che di dieci sillabe, per lo peso che accresce loro l'accento, come s'è detto. Ragioniamo adunque di quell'altra che alle penultime sta sopra. Volle il Boccaccio servar gravità in questo cominciamento delle sue novelle: «Umana cosa è l'avere compassione agli afflitti». 1 Per che egli prese voci di qualità che avessero gli accenti nella penultima per Io più; la qual cosa fece il detto principio tutto grave e riposato. Che se egli avesse preso voci che avessero gli accenti nella innanzi penultima, si come sarebbe stato il dire: Debita cosa è l'essere compassionevole a' miseri, il numero di quella sentenza tutta sarebbe stato men grave e non avrebbe compiutamente quello adoperato che si cercava. E se vorremo ancora, senza levar via alcuna voce, mutar di loro solamente l'ordine, il quale mutato, conviene che si muti l'ordine degli accenti altresl, e dove dicono: «Umana cosa è l'avere compassione agli afflitti», dire cosi: L'avere compassione agli afflitti umana cosa è, ancora più chiaro si vedrà quanto mutamento fanno pochissimi accenti, più ad una via posti che ad altra nelle scritture. Volle il medesimo compositore versar dolcezza in queste parole di Gismonda, sopra 'I cuore del suo morto Guiscardo ragionate: «O molto amato cuore, ogni mio ufficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare, se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia».2 Per che egli prese medesimamente voci che nelle penultime loro sillabe gli accenti avessero per la gran parte; e quelle ordinò nella maniera che più È l'inizio del Decameron. Il Bembo in questo passo, giustamente famoso, analizza la prosa del Boccaccio servendosi con finezza di un metodo già sperimentato dai grammatici antichi, per esempio da Diomede che così si esprimeva a proposito di un periodo di Cicerone: u huius periodi conpositio decoratur adeo ut, siquid solvere et commutare volueris, pereat omnium rerum atque verborum et dignitas et potestas » (DIOMEDE, Ars grammatica, in KE1L, I, p. 467). Del resto già CICERONE (Orat., LXX, 232) aveva scritto: « Quantum autem sit apte dicere, experiri licet, si aut compositi oratoris bene structam conlocationem dissolvas permutatione verborum; corrumpatur enim tota res [...] »; e aveva mostrato l'esattezza della sua asserzione esaminando alcuni passi della seconda orazione (perduta) da lui pronunciata in difesa di C. Cornelio. 2. Dee., 1v, 1, 57. 1.

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giovar potesse a trarne quello effetto che ad esso mettea bene che si traesse. Le quali voci se in voci d'altri accenti si muteranno, e dove esso dice: «O molto amato cuore, ogni mio ufficio», noi diremo : O sventuratissimo cuore, ciascun dover nostro; o pure se si muterà di loro solamente l'ordine, e farassi cosl: Ogni ufficio mio, o cuore molto amato, è fornito verso te; né altro mi resta a fare più, se non di venire a fare compagm:a con la mia all'anima tua, tanta differenza potranno per aventura queste voci dolci pigliare, quanta quelle gravi per Io mutamento, che io dissi, hanno pigliata. Ne' quali mutamenti, benché dire si possa che la disposizione delle voci, ancora per altra cagione che per quella degli accenti considerata, alquanto vaglia a generar la disparutezza1 che essere si vede nel cosl porgere e prononziare esse voci; nondimeno è da sapere che, a comperazione di quello degli accenti, ogni altro rispetto è poco: con ciò sia cosa che essi danno il concento a tutte le voci e l'armonia; il che a dire è tanto quanto sarebbe dare a' corpi lo spirito e l'anima. La qual cosa se nelle prose tanto può quanto si vede potere, molto più è da dire che ella possa nel verso; nel qual verso il suono e l'armonia vie più naturale e proprio e conveniente luogo hanno sempre, che nelle prose. Per ciò che le prose, come che elle meglio stiano a questa guisa ordinate che a quella, elle tuttavolta prose sono; dove nel verso puossi gli accenti porre di modo che egli non rimane più verso, ma divien prosa, e muta in tutto la sua natura, di regolato in dissoluto cangiandosi; come sarebbe, se alcun dicesse: Voi, ch'in rime sparse ascoltate il suono; e Per far una sua leggiadra vendetta; o veramente che s'addita per cosa mirabile,2 e somiglianti. Ne' quali mutamenti, rimanendo le voci e il numero delle sillabe intero, non rimane per tutto ciò né forma né odore alcuno di verso. E questo per niuna altra cagione adiviene, se non per lo essere un solo accento levato del suo luogo in essi versi, e ciò è della quarta o della sesta sillaba in quelli, e della decima in questo. Ché, con ciò sia cosa che a for1. disparutezza: ineleganza, manchevolezza formale (cosi pure in III, iv, a p. 174). 2. L'endecasillabo, oltre l'accento fisso sulla decima, ha un accento principale mobile che cade di solito - come osserva il Bembo - sulla quarta o sulla sesta sillaba. I tre versi del PETRARCA, di cui viene modificata la posizione regolata degli accenti con una diversa collocazione delle parole, sono: a Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono» (Rime, 1, 1), cr Per fare una leggiadra sua vendetta• (ivi, 11, 1); a che per cosa mirabile s'addita» (ivi, VII, 7).

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mare il verso necessariamente si richiegga che nella quarta o nella sesta e nella decima sillaba siano sempre gli accenti, ogni volta che qualunque s'è runa di queste due positure non gli ha, quello non è più verso, comunque poi si stiano le altre sillabe. E questo detto sia non meno del verso rotto che dello intero, in quanto egli capevole ne può essere. 1 Sono adunque, messer Ercole, questi risguardi non solo a grazia, ma ancora a necessità del verso. A grazia potranno appresso essere tutti quegli altri, de' quali s'è ragionato sopra le prose, dalle quali pigliandogli, quando vi fia mestiero, valere ve ne potrete. Ma passiamo oggimai a dire del tempo che le lettere generano, ora lungo, ora brieve nelle sillabe; il che agevolmente si potrà fare. [xvi.] Allora disse lo Strozza: - Deh, se egli non v'è grave, messer Federigo, prima che a dire d'altro valichiate, fatemi chiaro come ciò sia che detto avete, che comunemente non istanno sott'uno accento più che tre sillabe. Non istanno elleno sott'un solo accento quattro sillabe in queste voci àlitano, gèrminano, tèrminano, consìderano e in simili ? - Stanno - rispose messer Federigo - ma non comunemente. Noi comunemente osserviamo altresì, come osservano i Greci e Latini, il non porre più che tre sillabe sotto 'l governo d'un solo accento. È il vero che, per ciò che gli accenti appo noi non possono sopra sillaba che brieve sia esser posti, come possono appo loro, e se posti vi sono la fanno lunga, come fecero in quel verso del Paradiso: devoto quanto posso a te supplico ;2

e come fecero nella voce pièta, quasi da tutti i buoni antichi poeti alcuna volta cosi detta in vece di pietà ;3 videro i nostri uomini che molto men male era ordinare che in queste voci che voi ricor1. E questo . •. essere: anche il settenario (verso rotto), per quanto gli consente il minor numero di sillabe, è soggetto a precise nonne ritmiche: accento fisso sulla sesta sillaba; accento fondamentale sopra una delle prime quattro sillabe. 2. DANTE, Par., xxvi, 94. Il Bembo conserva la terminologia delle lingue classiche, e considera lunghe le sillabe toniche e brevi le atone. In latino l'accento ritmico poteva cadere su una sillaba atona; in volgare invece l'accento rende necessariamente tonica (lrmga) la sillaba. 3. Pièta è forma nominativale (da pietas, con passaggio alla prima declinazione), presente - come le altre forme consimili tempesta, maièsta, podèsta, trinita - anche in prosa.

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date, e nelle loro somiglianti, si concedesse che quattro sillabe dovessero d'uno accento contentarsi, che non era una sillaba naturalissimamente brieve mutare in lunga; come sarebbe a dire alltano e terminano: il che fare bisognerebbe. Né solamente quattro sillabe, ma cinque ancora pare alle volte che state siano paghe d'un solo accento; sl come in questa voce siamivene e in quest'altra, portàndosenela, che disse il Boccaccio: «e se egli questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che questo v'abbia detto, e sìamivene doluta»; e altrove: « per che portàndosenela il lupo, senza fallo strangolata l'avrebbe». 1 Ma ciò aviene di rado. Vada adunque, messer Ercole, l'una licenzia e l'una agevolezza per l'altra, e l'una per l'altra strettezza e regola altresl. A' Greci e a' Latini è conceduto2 porre i loro accenti sopra lunghe e sopra brievi sillabe, il che a noi è vietato. Sia dunque a noi conceduto da quest'altro canto quello che loro si vieta: il poter commettere più che tre sillabe al governo d'un solo accento. Basti che non se ne commette alcuna lunga, fuori solamente quella a cui egli sta sopra. - E come, - disse messer Ercole - non se ne commette alcuna lunga? Quando io dico uccìdonsi, f erìsconsi, non sono lunghe in queste voci delle sillabe a cui gli accenti sono dinanzi e non istanno sopra ? - Sono, messer Ercole, - rispose messer Federigo - ma per nostra cagione, non per loro natura: con ciò sia cosa che naturalmente si dovrebbe dire uccìdonosi, ferìsconosi; il che per ciò che dicendo non si pecca, ha voluto l'usanza che non si pecchi ancora no 'l dicendo, pigliando come brieve quella sillaba, che nel vero è brieve quando la voce è naturale e intera. La quale usanza tanto ha potuto che, ancora quando un'altra sillaba s'aggiugne a queste voci, uccìd01ise,1e, ferìsconsene, ella così si piglia per brieve, come fa quando sono tali quali voi avete ricordato. 3

1. Dee., Jil, 3, 15; IX, 7, 13. 2. •Qui, e sùbito dopo, in luogo di conceduto, ancora l'edizione 1538 dà co11cesso, in curioso contrasto con quanto il Bembo dice nel libro 111 1 capitolo XXXII: 11 Co11cesso, che alcuna volta si legge, altresì della lingua non è et è solo del verso"• {DIONISOTTI). 3. E come • .• ricordato: lo Strozzi crede che siano lunghe le sillabe postoniche -don- e -scon- (seguite da consonante); il Fregoso spiega che esse nelle parole "intere" sono seguite non da consonante ma da vocale, e che pertanto conservano la loro natura di brevi.

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[xvii.] Ora, venendo al tempo che le lettere danno alle voci, è da sapere che tanto maggiore gravità rendono le sillabe, quanto elle più lungo tempo hanno in sé per questo conto; il che aviene qualora più vocali o più consonanti entrano in ciascuna sillaba. Tutto che la moltitudine delle vocali meno spaziosa1 sia che quella delle consonanti, e oltre a cciò poco ricevuta dalle prose. Del verso è ella propria e domestichissima; e stavvi ora per via di mescolamento, ora di divertimento; si come nelle due prime sillabe si vede stare di questo verso, detto da noi altre volte: Voi, eh' ascoltate;

e quando per l'un modo e per l'altro; il che nella sesta di quest'altro ha luogo: di quei sospiri, ond'io nutriva il core.2

Là dove la moltitudine delle consonanti e è spaziosissima e entra, oltre a cciò, non meno nelle prose che nel verso. Per che volendo il Boccaccio render grave, quanto si potea il più, quel principio delle sue novelle che io testé vi recitai, poscia che egli per alquante voci ebbe la gravità con gli accenti e con la maniera delle vocali solamente cercata: «Umana cosa è l'avere »; si la cercò egli per alquante altre eziandio, con le consonanti riempiendo e rinforzando le sillabe: «compassione agli afflitti». Il che fece medesimamente il Petrarca, pure nel medesimo principio delle canzoni, «Voi, ch'ascoltate », non solamente con altre vocali, ma ancora con quantità di vocali e di consonanti, acquistando alle voci gravità e grandezza. E questo medesimo acquisto tanto più adopera,3 quanto le consonanti che empiono le sillabe sono e in numero più spesse e in spirito più piene.4 Per ciò che più grave suono ha in sé questa voce destro che quest'altra vetro; e più magnifico lo rende il dire campo che, o caldo o casso dicendosi, non si renderà. E cosi delle altre parti si potrà dire della gravità, per le altre posse5 tutte delle consonanti discorrendo e avertendo. meno spaziosa: quanto a durata, naturalmente. 2. Gli esempi (PETRAR• CA, Rime, 1, 1-2) chiariscono che il Bembo chiama divertimento l'elisione (in quanto c'è l' "allontanamento" di una vocale) e mescolamento la sineresi (voi, io). 3. tanto più adopera: produce effetti tanto più efficaci. 4. in numero ••• più piene: più frequenti di numero e più piene nella pronuncia. 5. posse: virtù, qualità. 1.

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Dissi in che modo il numero divien grave, per cagione del tempo che le lettere danno alle sillabe; e prima detto avea in qual modo egli grave diveniva, per cagione di quel tempo che gli accenti danno alle voci. Ora dico che somma e ultima gravità è quando ciascuna sillaba ha in sé l'una e l'altra di queste parti; il che si vede essere per alquante sillabe in molti luoghi, ma troppo più in questo verso che in alcuno altro che io leggessi giamai: fior, frond', erb', ombr', antr', ond', aure soQ'IJi. 1

E per dire ancora di questo medesimo acquisto di gravità più innanzi, dico che come che egli molto adoperi e nelle prose e nelle altre parti del verso, pure egli molto più adopera e può nelle rime; le quali maravigliosa gravità accrescono al poema, quando hanno la prima sillaba di più consonanti ripiena, come hanno in questi . versi: Mentre che 'I cor dagli amorosi vermi fu consumato, e 'n fiamma amorosa arse, di vaga /era le 'Vestigia sparse cercai per poggi solitari et ermi, et ebbi ardir, cantando, di dolermi d'amor, di lei, che si dura m'apparse; ma l'ingegno e le rime erano scarse in quella etate a pensier novi e 'nfermi. Quel foco è spento, e 'l copre un picciol marmo. Che se col tempo fosse ito avanzando, come già in altri, infino a la 2 fJeccliiezza, di rime armato, ond'oggi mi disarmo,

1. PETRARCA, Rime, cccn1, 5. A proposito di questo verso P. CORTESE nel De cardinalatu {in DIONISOTTI 1968, pp. 64-5) aveva scritto: • Siquidem eum [il Petrarca] primum fuisse dicunt quem octo dictiones undecim syllabarum angustiis colligasse velint, dum sic per synaloepham vocales astringendo iungit ut postremae insequentium collisu adimantur, nec earum concursu excitetur stridor, sed plures prope appareant ab ea necti structura sensus quam possit ratio mensioque camùnum definita pati •· E si noti che questo è detto per spiegare «quod Petrarcha fuit primus author limandorum versuum vulgarium ». Viceversa il TR1ss1No nella seconda divisione della Poetica (in WEINBERG, 1, p. 64) scrive che «le frequenti collisioni e remozioni arrecano poca vagheza e manco grazia nei versi, come è in quel verso, "Fior frond' erb' ombr' antr' ond' aure soavi", che par quasi in lingua tedesca; e però sono da usar poco, e quelle che si usano, si dee guardare di collocarle ne le cesure, quanto ne le più principali, tanto meglio». :i. a la: correggo «alla» di T, perché nei versi il Bembo usa sempre le preposizioni articolate senza raddoppiamento.

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con stil canrlto avrei fatto, parlando, romper le pietre e pia11ger di dolcez:za. 1

Non possono cosi le vocali; quantunque ancora di loro dire si può, che elle non istanno per ciò del tutto senza opera2 nelle rime : con ciò sia cosa che alquanto più in ogni modo piena si sente essere questa voce suoi nella rima che quest'altra poi, e miei che lei, e cosi dell'altre. Resterebbemi ora, messer Ercole, detto che s'è dell'una parte a bastanza, il dirvi medesimamente dell'altra; e mostrarvi che si come la spessezza delle lettere accresce alle voci gravità, cosi la rarità porge loro piacevolezza; se io non istimassi che voi dalle dette cose, senza altro ragionarne sopra, il comprendeste a bastanza: scemando con quelle medesime regole a questo fine, con le quali si giugne e cresce a quell'altro ;3 il che chiude e compie tutta la forza e valore del numero. [xviii.] Dirò adunque della terza causa, generante ancor lei in comune le dette due parti richieste allo scriver bene; e ciò è la variazione, non per altro ritrovata, se non per fuggire la sazietà, PETRARCA, Rime, CCCIV. Si noti che al v. 9 spento è lezione errata per i morto». Per bene intendere questo esempio (e più il precedente, che è parso del tutto aberrante) bisogna ricordare che il Bembo qui discorre della gravità, mentre la poesia richiede il contemperamento di questa con la piacevolezza, grazie alla variazione di cui si discorrerà nel capitolo successivo. Ed è pure utile ricordare quanto il Giraldi scriveva, a proposito del sonetto Mentre che 'l cor, nel Discorso intorno al comporre dei romanzi: a: Il quale non senza gran cagione fu scelto da monsignore Bembo per paragone di dolce e di affettuosa gravità, la quale è quasi sempre compagna allo effetto; e posto che vi siano alcuni che il dannano di poco giudizio in questa parte, non è loro da rispondere altro, se non che hanno l'orecchio di Mida, che ancora che in quello sonetto sia la r (lettera non altrimenti frequente nella nostra lingua, che ci sia di rado la be la q), la quale di sua natura è strepitosa, vi è ella però trapposta con tanta grazia, e con tanto giudizio, che diviene, per la compagnia e per la mescolanza delle altre lettere, molle e meno aspra. Onde ne viene espresso quello affetto grave gentilissimamente, e tanta conobbe il Petrarca esser la forza della m, mescolata con la r, nell'espressione dell'affetto che egli si avea tolto a spiegare con affettuosa gravità in quel sonetto che non gli bastò che le quattro rime delle otto finissero l'ultima lor sillaba con la m, e la penultima con la r, ma volle anco nelle sei scegliere due rime che finissero l'ultima lor vocale con la medesima m, e la penultima con la r, come fa marmo e disarmo» (G. B. GIRALDI CINZIO, Scritti critici, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano 1973, pp. 13 2-3 ). 2. senza opera: senza efficacia (P: «ignave e senza opera»). 3. scemando ... quell'altro: diminuendo la gravità con le medesime regole con le quali si aggiunge e cresce la piacevolezza. 1.

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della quale ci averti dianzi messer Carlo :1 che ci fa non solamente le non ree cose, o pure le buone, ma ancora le buonissime verso di sé2 e dilettevolissime spesse volte essere a fastidio, e allo 'ncontro le non buone alcuna fiata e le sprezzate venire in grado. Per la qual cosa, e nel cercare la gravità, dopo molte voci di piene e d'alte lettere, è da porne alcuna di basse e sottili; e appresso molte rime tra sé lontane, una vicina meglio risponderà, che altre di quella medesima guisa non faranno; e tra molti accenti che giacciano nelle penultime sillabe, si dee vedere di recarne alcuno che all'ultima e alla innanzi penultima stia sopra; e in mezzo di molte sillabe lunghissime, frametterne alquante corte giugne grazia e adornamento. E cosi, d'altro canto, nel cercare la piacevolezza, non è bene tutte le parti che la ci rappresentano girsi per noi sempre, senza alcun brieve mescolamento dell'altre, cercando e affettando. Per ciò che là dove al lettore con la nostra fatica diletto procacciamo, sottentrando per la continuazione, or una volta or altra, la sazietà, ne nasce a poco a poco e allignavisi il fastidio, effetto contrario del nostro disio. Né pure in queste cose che io ragionate v'ho, ma in quelle ancora che ci ragionò il Bembo,3 è da schifare la sazietà il più che si può e il fastidio. Per ciò che e nella scelta delle voci, tra quelle di loro isquisitissimamente cercate vederne una tolta di mezzo il popolo, e tra le popolari un'altra recatavi quasi da' seggi de' re, e tra le nostre una straniera, e una antica tra le moderne, o nuova tra le usate, non si può dire quanto risvegli alcuna volta e sodisfaccia l'animo di chi legge; e cosi un'altra un poco aspera tra molte dilicate, e tra molte risonanti una cheta, o allo 'ncontro. E nel disporre medesimamente delle voci, niuna 1. Cfr. il capitolo IV, a p. 121. La variazione - insieme col numero e il suono, già esaminati - produce le dette due parti richieste allo scriver bene: gravità e piacevolezza. La necessità di evitare il fastidio della sazietà era ben nota alla retorica classica. Così CICERONE (De orat., 111, xxv, 97-100) afferma: cc Gcnus igitur dicendi est eligendum, quod ma.xi.me teneat eos, qui audiunt, et quod non solum delectet, sed etiam sine satietate delectet [... ] »; e quindi esamina il fenomeno per cui «omnibus in rebus voluptatibus maximis fastidium finitimum est». L'esigenza della variatio per fuggire la sazietà è ribadita da QUINTILIANO, Inst. or., IX, 4, 43: « cum virtutes etiam ipsae taedium pariant nisi gratia varietatis adiutae ». Cfr. anche Rlzet. ad Her., 1v, I 1: « Sed figuram in dicendo commutare oportet, ut gravem mediocris, mediocrem excipiat attenuata, deinde identidem commutentur, ut facile satietas varietate vitetur ». 2. verso di sé: in sé. 3. in quelle ••• Bembo: l'elezione e la disposizione delle voci; l'ordine, la giacitura e la correzione.

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delle otto parti del parlare, 1 niuno ordine di loro, niuna maniera e figura del dire usare perpetuamente si conviene e in ogni canto; ma ora isprimere alcuna cosa per le sue proprie voci, ora per alcun giro di parole, fa luogo; e questi medesimi o altri giri, ora di molte membra comporre, ora di poche; e queste membra, ora veloci formare, ora tarde, ora lunghe, ora brievi: e in tanto in ciascuna maniera di componimenti fuggir si dee la sazietà, che questo medesimo fuggimento è da vedere che non sazii, e nell'usare varietà non s'usi continuazione. Oltra che sono eziandio di quelle cose le quali variare non si possono; sl come sono alcune maniere di poemi di quelle rime composti, che io regolate chiamai ;2 con ciò sia cosa che non poteva Dante fuggire la continuazione delle sue terze rime; si come non possono i Latini i quali eroicamente scrivono fuggire che di sei piedi non siano tutti i loro versi ugualmente. 3 Ma queste cose tuttavolta sono poche; dove quelle che si possono e debbono variare sono infinite. Per la qual cosa né di tutte quelle delle quali è capevole il verso, né di quelle tutte che nelle prose truovano luogo, recar si può particolare testimonianza, chi tutto dl ragionare di nulla altro non volesse. Bene si può questo dire: che di quelle, la variazione delle quali nelle prose può capere, gran maestro fu, a fuggirne la sazietà, il Boccaccio nelle sue novelle; il quale, avendo a far loro cento proemi, in modo tutti gli variò che grazioso diletto danno a chi gli ascolta; senza che in tanti finimenti e rientramenti di ragionari,4 tra dieci persone fatti, schifare il fastidio non fu poco. Ma della varietà che può entrar nel verso, quanto ne sia stato diligente il Petrarca, estimare più tosto si può che isprimere bastevolmente; il quale d'un solo suggetto e matePer le discussioni sulle parti del discorso cfr. QUINTILIANO, Inst. or., I, 4, 18-21. Per lo più i grammatici riconoscevano otto classi: nomen, pro11omen, verbum, participium, adverbium, coniunctio, praepontio, interiectio. Il Bembo, nel terzo libro, distingue gli articoli dai pronomi e gli aggettivi dai sostantivi (ma come sottoclassi del nome). Inoltre sembra riunire gli indeclinabili in una sola classe; tuttavia, pur senza usare i termini tecnici, distinguendo in vario modo fra gli indeclinabili, sembra riconoscere l'avverbio, la preposizione e la congiunzione (ma non l'interiezione). Si avrebbero cosi queste otto parti del discorso: articolo, nome (aggettivo e sostantivo), pronome, verbo, participio, avverbio, preposizione, congiunzione. 2. che io regolate chiamai: cfr. il capitolo xi, a pp. 135-6. 3. s1 come •• • ugualmente: il metro della poesia eroica latina era, infatti, l'esametro. 4. finimenti • •• ragionari: conclusioni e riprese del discorso, cioè le parti di raccordo fra novella e novella e fra giornata e giornata. 1.

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ria tante canzoni' componendo, ora con una maniera di rimarle, ora con altra, e versi ora interi e quando rotti, e rime quando vicine e quando lontane, e in mille altri modi di varietà, tanto fece e tanto adoperò che, non che sazietà ne nasca, ma egli non è in tutte loro parte alcuna, la quale con disio e con avidità di leggere ancora più oltra non ci lasci. La qual cosa maggiormente apparisce in quelle parti delle sue canzoni, nelle quali egli più canzoni compose d'alcuna particella e articolo del suo suggetto;2 il che egli fece più volte, né pure con le più corte canzoni, anzi ancora con le lunghissime; si come sono quelle tre degli occhi,3 le quali egli variando andò in cosi maravigliosi modi che quanto più si legge di loro e si rilegge, tanto altri più di leggerle e di rileggerle divien vago; e come sono quelle due piacevolissime, delle quali poca ora fa vi ragionai,4 per ciò che estimando egli che la loro piacevolezza, raccolta per gli molti versi rotti, potesse avilire, egli alquante stanze seguentisi, con le rime acconce a generar gravità, diè alla primiera; e questa medesima gravità, a ffine che non fosse troppa, temperò con un'altra stanza, tutta di rime piacevoli tessuta allo 'ncontro.5 Nel rimanente poi di questa canzone e in tutta l'altra, e all'une rime e all'altre per ciascuna stanza dando parte, fuggì non solamente la troppa piacevolezza o la troppa gravità, ma ancora la troppa diligenza del fuggirle. Somigliante cura pose molte volte eziandio in un solo verso, si come pose in quello che io per gravissimo vi recitai :6 fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure

IOQTJi.

Con ciò sia cosa che conoscendo egli che, se il verso tutto si forniva con voci e per conto delle vocali e per conto delle consonanti e per conto degli accenti pieno di gravità, nella guisa nella quale esso era più che mezzo tessuto, poteva la gravità venire altrui parendo 1. canzoni: composizioni poetiche. 2. d'alcuna particella ••• mggetto: sopra un punto particolare del suo soggetto, l'amore per Laura. 3. Le tre canzoni degli occhi (Rime, LXXI-LXXIII), molto celebrate allora e poi, grazie anche al giudizio del Bembo; fra l'altro furono dottamente commentate da B. VARCHI in otto lezioni (in Opere, 11, Trieste 1859, pp. 439-86). 4. delle quali . •. ragio11ai: Se 'l pensier che mi stTUgge (cxxv) e Chiare, fresche e dolci acque (cxxvI), esaminate nel capitolo xiii, a pp. 140-1. 5. Nella prima (Se ,l pensier) delle due canzoni si hanno rime acco,ice a generar gravità (con doppia consonante dopo la tonica) nella prima e nella terza stanza (mentre sono in prevalenza nella seconda stanza): la quarta stanza, tutta di rime piacevoli (con una sola consonante e ricche di vocali), rappresenta un,opportuna variazione. 6. in quello ••. recitai: nel capitolo :x:viiJ a p. 151.

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troppo cercata e affettata e generarsene la sazietà, egli lo forni con questa voce soavi, piena senza fallo di piacevolezza e veramente tale quale di lei è il sentiinento; e a questa piacevolezza tuttavolta passò con un'altra voce 1 in parte grave e in parte piacevole, per non passar dall'uno all'altro stremo senza mezzo. I quali avertimenti, come che paiano avuti sopra leggiere e minute cose, pure sono tali che, raccolti, molto adoperano, sì come vedete. [xix.] Potrebbesi a queste tre parti, messer Ercole, che io trascorse2 v'ho più tosto che raccontate, al suono, al numero, alla variazione, generanti le due, dico la gravità e la piacevolezza, che empiono il bene scrivere, aggiugnerne ancora dell'altre acconce a questo medesimo fine: si come sono il decoro e la persuasione. Con ciò sia cosa che da servare è il decoro degli stili, o convenevolezza che più ci piaccia di nomare questa virtù, mentre d'essere o gravi o piacevoli cerchiamo nelle scritture, o per aventura l'uno e l'altro; quando si vede che agevolmente, procacciando la gravità, passare si può più oltra entrando nell'austerità dello stile; il che nasce, ingannandoci la vicinità e la somiglianza che avere sogliono i principii del vizio con gli stremi della virtù, pigliando quelle voci per oneste che sono rozze, e per grandi le ignave, e per piene di dignità le severe, e per magnifiche le pompose. E, d'altra parte, cercando la piacevolezza, puossi trascorrere e scendere al dissoluto, credendo quelle voci graziose essere, che ridicule sono, e le imbellettate vaghe, e le insiepide dolci, e le stridevoli soavi. 3 Le quali pecche tutte, e le altre che aggiugnere a queste si può, fuggire si debbono, e tanto più ancora diligentemente, quanto più elleno sotto spezie di virtù ci si parano dinanzi e, di giovarci promettendo, con un'altra voce:« aure», piacevole per le molte vocali; grave forse per la r e per il dittongo discendente. 2. trascorse: esaminate rapidamente. Correggo «trascorso » di T sulla base di P e M che hanno ,e trascorse». 3. Potrebbesi .•• soavi: sono considerazioni tipiche della retorica classica. Cfr. ORAZIO, Ars poet., 24-30: «Maxima pars vatum [...] / decipimur specie recti. Brevis esse la boro, / obscurus fio; sectantem levia nervi / deficiunt animique; professus grandia turget; / serpit humi tutus nimium timidusque procellae; / qui variare cupit rem prodigialiter unam, / delphinum silvìs adpingit, fluctibus aprum»; Rhet. ad Her., IV, 10: «Est autem cavendum, ne, dum haec genera conscctemur, in finituma et propinqua vitia veniamus. Nam gravi figurae, guae laudanda est, propinqua est ea, guae fugienda; quae recte videbitur appellari, si suffiata nominabitur »; QUINTILIANO, lnst. or., VIII, 3, 56. Era il principio aristotelico del giusto mezzo applicato alla retorica. I.

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ci nuocono maggiormente, assalendoci sproveduti. Né è la persuasione, meno che questo decoro, da disiderare e da procacciare agli scrittori; senza la quale possono bene aver luogo e la gravità e la piacevolezza; con ciò sia cosa che molte scritture si veggono, che non mancano di queste parti, le quali non hanno poscia quella forza e quella virtù che persuade, ma elle sono poco meno che vane e indarno s'adoperano, se ancora questa rapitrice degli animi di chi ascolta esse non hanno dal lor canto. 1 La quale a dissegnarvi e a dimostrarvi bene e compiutamente, quale e chente ella è, bisognerebbe tutte quelle cose raccogliere che dell'arte dell'orare si scrivono; che sono, come sapete, moltissime: per ciò che tutta quella arte altro non c'insegna, e ad altro fine non s'adopera, che a persuadere. Ma io non dico ora persuasione in generale e in universo; ma dico quella occulta virtù che, in ogni voce dimorando, commuove altrui ad assentire a cciò che egli legge, procacciata più tosto dal giudicio dello scrittore che dall'artificio de' maestri. Con ciò sia cosa che non sempre ha, colui che scrive, la regola dell'arte insieme con la penna in mano. Né fa mestiero altresi in ciascuna voce fermarsi a considerare se la riceve l'arte o non riceve, e speziaimente nelle prose, il campo delle quali molto più largo e spazioso e libero è che quello del verso. Oltra che se ne ritarderebbe e intiepidirebbe il calore del componente, il quale spesse volte non pate dimora.2 Ma bene può sempre, e ad ogni minuta parte, lo scrittore adoperare il giudicio e sentire, tuttavia scrivendo e componendo, se quella voce o quell'altra, e quello o quell'altro membro della scrittura, vale a persuadere ciò che egli scrive. Questa forNé è ••• canto: come osserva lo stesso Bembo, la persuasione era il fine primario dell'oratoria, e quindi su di essa s'insiste in ogni trattazione retorica. Ma accettando questa istanza dell'oratoria, il Bembo non snatura la poesia: come subito chiarisce, egli non intende parlare della « persuasione in generale e in universo n ma di «quella occulta virtù che, in ogni voce dimorando, commuove altrui ad assentire a cciò che egli legge n. ORAZIO (Ars poet., 99-100) aveva spiegato che le composizioni poetiche non debbono solo essere belle ma anche commuovere e trascinare l'animo di chi ascolta. Il Bembo, che pensa alla poesia del Petrarca, va più in là e piega la norma retorica, nata per regolare l'eloquenza pubblica, al colloquio individuale con la poesia: la persuasione è, per così dire, il senso di verità che i versi debbono comunicare al lettore. 2. Né fa niestiero •• . dimora: cfr. QUINTILIANO, lnst. or., IX, 4, 112-113: «Totus vero hic locus non ideo tractatur a nobis, ut oratio, quae ferre debet ac ftuere, dimetiendis pedibus ac perpendendis syllabis consenescat [.••]. Nonne ergo refrigeretur sic calor et impetus pereat, ut equorum cursum delicati minutis passibus frangunt? ». 1.

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za e questa virtù particolare di persuadere dico, messer Ercole, che è grandemente richiesta e alle gravi e alle piacevoli scritture; né può alcuna veramente grave o veramente piacevole essere, senza essa. Per che, recando le molte parole in una, quando si farà per noi a dar giudicio di due scrittori, quale di loro più vaglia e quale meno, considerando a parte a parte il suono, il numero, la variazione, il decoro e ultimamente la persuasione di ciascun di loro, e quanta piacevolezza e quanta gravità abbiano generata e sparsa per gli loro componimenti, e con le parti, che ci raccolse messer Carlo, dello scegliere e del disporre, prima da noi medesimamente considerate, ponendole, potremo sicuramente conoscere e trarne la differenza. E per ciò che tutte queste parti sono più abondevoli nel Boccaccio e nel Petrarca che in alcuno degli altri scrittori di questa lingua, aggiuntovi ancora quello che messer Carlo primieramente ci disse, che valeva a trarne il giudicio, che essi sono i più lodati e di maggior grido, conchiudere vi può messer Carlo da capo che niuno altro così buono o prosatore o rimatore è, messer Ercole, come sono essi. Che quantunque del Boccaccio si possa dire che egli nel vero alcuna volta molto prudente scrittore stato non sia; con ciò sia cosa che egli mancasse talora di giudicio nello scrivere, non pure delle altre opere, ma nel Decamerone ancora; nondimeno quelle parti del detto libro, le quali egli poco giudiciosamente prese a scrivere, quelle medesime egli pure con buono e con leggiadro stile scrisse tutte; il che è quello che noi cerchiamo. 1 Dico adunque di costar due un'altra volta che essi buonissimi scrittori sono sopra tutti gli altri, e insieme che la maniera dello scrivere de' presenti toscani uomini cosi buona non è come è quella nella quale scrisser questi; e cosi si vederà essere infino a ttanto che venga scrittore, che più di loro abbia ne' suoi componimenti seminate e sparse le ragionate cose. [xx.] Tacevasi messer Federigo dopo queste parole, avendo il suo ragionamento fornito; e insieme con esso lui tacevano tutti gli I. Che quantunque ••. cerchiamo: davvero sintomatico degli scopi che il Bembo si propose nelle Prose della volgar lingua è questo giudizio sul Boccaccio. Come d'altra parte aveva già dichiarato nel capitolo iv, a pp. 119:20, il Bembo si cura solo della forma, dello stile, della lingua. Questo non vuol dire che per lui la materia non conti; la riserva sulle pagine del Decameron che - per il contenuto troppo libero - offendevano il suo senso del decoro mostra il contrario.

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altri; se non che il Magnifico, veggendo ognuno starsi cheto, disse: - Se a queste cose tutte, che messer Federigo e il Bembo v'hanno raccolte, risguardo avessero coloro che vogliono, messer Ercole, sopra Dante e sopra il Petrarca dar giudicio, quale è di loro miglior poeta, essi non sarebbono tra loro discordanti sl come sono. Ché quantunque infinita sia la moltitudine di quelli da' quali molto più è lodato messer Francesco, nondimeno non sono pochi quegli altri a' quali Dante più sodisfà, tratti, come io stimo, dalla grandezza e varietà del suggetto, più che da altro;' nella qual cosa essi s'ingannano. Per ciò che il suggetto è ben quello che fa il poema, o puollo almen fare, o alto o umile o mezzano di stile, ma buono in sé o non buono non giamai; con ciò sia cosa che può alcuno d'altissimo suggetto pigliare a scrivere, e tuttavolta 1. Se a queste • • • altro: inizia uno dei capitoli più famosi, e a ragione, delle Prose della volgar lingua. Contro l'opinione del Bembo scriverà pagine molto assennate il BoRGHINI, il quale mostrerà anche d'aver compreso che il letterato veneziano, data l'idea di poesia che veniva propugnando, non poteva non condannare la Commedia (cfr. Pozzi 1975, pp. 10512). Un giudizio più comprensivo della poesia di Dante qui sarebbe davvero una stonatura, una smagliatura nel discorso che è di esemplare coerenza e nasce da un gusto sicuro. Di quattrocenteschi "paragoni" fra Dante e Petrarca abbiamo scarse notizie. Il DIONIS01TI ricorda un sonetto di Gaspare Visconti fatto non • per voler iudicar tra dui tanti omini, ma sol per motteggiar con Bramante sviscerato partigiano di Dante•, che cosi si conclude: • Pur fu ciascun di lor zentil toscano, / ma chi ambi mira cum accuto ingegno,/ dirà il primo Ennio [cioè Dante] e l'altro il Mantuano [cioè il Petrarca]». l\1a per la maniera in cui dal Bembo viene motivato il giudizio favorevole a Dante, si comprende che Petrarca e Dante erano i campioni di due diversi atteggiamenti umanistici. Si pensi, per esempio, alle vite di Dante e di Petrarca di LEONARDO BRUNI, in cui vien data la preferenza a Dante non per la qualità letteraria ma per l'altezza del contenuto civile, morale, scientifico. Significativa è pure la lettera a Lorenzo il Magnifico del 15 luglio 1484 (in Prosatori latini del Quattrocento, pp. 796-805), in cui GIOVANNI Pico DELLA MIRANDOLA istituisce un parallelo fra la poesia di Lorenzo e quella di Dante e Petrarca: mentre del Petrarca amnùra t>eleganza formale, la sua simpatia in definitiva va alla maggior profondità di contenuto della Commedia, nonostante la rude veste. Il Pico, è vero, conclude che Lorenzo ha saputo contemperare i due aspetti; comunque le sue osservazioni confermano che spesso gli umanisti esaltarono la grandezza filosofi.ca del capolavoro dantesco, pur non nascondendosene le pecche formali, finché una minor considerazione dell'argomento e della grandezza umana di Dante e una maggior attenzione alla forma non aprirono la via al trionfo del Petrarca volgare. Cfr. C. GRAYSON, Dante nel Ri11asci111ento, in Cinque saggi su Dante, Bologna 1972, pp.89-116; C. DIONISOTrI, Dante nel Quattrocento, in Atti del Congresso internazionale di studi da11tesclii, Firenze 1965, pp. 333-78; E. B10I, Dante e la cultura fiorentina del Q11attrocento, in GSLI, CXLIII (1966), pp. 212-40.

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scrivere in modo che la composizione si dirà esser rea e sazievole; e un altro potrà, materia umilissima proponendosi, comporre il poema di maniera che da ognuno buonissimo e vaghissimo sarà riputato; sì come fu riputato quello del ciciliano Teocrito, il quale, di materia pastorale e bassissima scrivendo, è nondimeno molto più in prezzo e in riputazione sempre stato tra' Greci, che non fu giamai Lucano tra' Latini, tutto che egli suggetto reale e altissimo si ponesse innanzi. 1 Non dico già tuttavia che un suggetto, più che un altro, non possa piacere. Ma questo rispetto non è di necessità; dove quegli altri, de' quali s'è oggi detto, sono molti e ciascuno per sé necessariissimo a doverne essere il componente lodato e pregiato compiutamente. Onde io torno a dire che se gli uomini con le regole del Bembo e di messer Federigo essaminassero gli scrittori, essi sarebbono d'un parere tutti e d'una openione in questo giudicio. Allora disse messer Ercole: - Se io questi poeti, Giuliano, avessi veduti, come voi avete, mi crederei potere ancor io dire affermatamente cosi esser vero come voi dite. Ma per ciò che io di loro per adietro niuna sperienza ho presa, tanto solo dirò, che io mi credo che così sia, persuadendomi che errare non si possa per chiunque con tanti e tali avertimenti giudica, chenti son questi che si son detti; co' quali, messer Carlo, stimo io che giudicasse messer Pietro vostro fratello, del quale mi soviene ora che, essendo egli e messer Paolo Canale,2 da Roma ritornando e per Ferrara passando, scavalcati alle mie case e da me per alcun di a ristorare la fatica del camino sopratenutivi, 1. Teocrito . •. innanzi: cfr. 11 xviii-xix, a pp. 106-8. Già QUINTILIANO, Inst. or., x, I, 90, aveva giudicato severamente l'autore del poema De bello civili ( u Lucanus ardens et concitatus et sententiis clarissimus et, ut dicam quod sentio, magis oratoribus quam poetis imitandus »), mentre aveva dato un giudizio positivo (x, 1, ss) sul siracusano (ciciUano) Teocrito, il più illustre poeta bucolico dell'antichità, che Virgilio - secondo l'opinione degli umanisti - aveva imitato ma non superato. 2. Nel maggio del 1502 il Bembo fece un viaggio a Roma, ma non risulta che con lui fosse Paolo Canale. Sappiamo invece - e forse il Bembo ha volutamente confuso le date per poter ricordare l'amico prematuramente scomparso - che i due andarono a Roma nell'aprile del 1505 al seguito di Bernardo Bembo inviato a Roma in un,ambasceria speciale al papa e che nel ritorno si staccarono dalla comitiva e si fermarono a Gubbio, Ferrara e Mantova. Nel De litteratorum infelici.tate (Venezia 1620, p. 31) PmRIO VALERIANO racconta che Paolo Canale - spossato da eccessivi studi letterari, filosofici, astronomici, matematici, geografici (sopra tutto per restaurare la Geografia di Tolomeo) - cadde malato e mori a soli venticinque anni.

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un giorno tra gli altri venne a me il Cosmico, 1 che in Ferrara, come sapete, dimora, e tutti e tre nel giardino trovatici, che lentamente spaziando e di cose dilettevoli ragionando ci diportavamo, dopo i primi raccoglimenti fatti tra loro, egli e messer Pietro, non so come, nel processo del parlare a dire di Dante e del Petrarca pervennero; nel quale ragionamento mostrava messer Pietro maravi-gliarsi come ciò fosse, che il Cosmico in uno de' suoi sonetti al Petrarca il secondo luogo avesse dato nella volgar poesia.2 Nella qual materia molte cose furono da lor dette, e da messer Paolo ancora, che io non mi ricordo; se non in quanto il Cosmico molto parea che si fondasse sopra la magnificenza e ampiezza del suggetto, delle quali ora Giuliano diceva, e sopra lo aver Dante molto più dottrina e molte più scienze per lo suo poema sparse, che non ha messer Francesco. - Queste cose appunto son quelle - disse allora mio fratello sopra le quali principalmente si fermano, messer Ercole, tutti quelli che di questa openion sono. 3 Ma se dire il vero si dee tra noi, che non so quello che io mi facessi fuor di qui, quanto sarebbe stato più lodevole che egli di meno alta e di meno ampia materia posto si fosse a scrivere, e quella sempre nel suo mediocre stato avesse scrivendo contenuta, che non è stato, così larga e cosi magnifica pigliandola, lasciarsi cadere molto spesso a scrivere le bassissime e le vilissime cose; e quanto ancora sarebbe egli miglior poeta che non è, se altro che poeta parere agli uomini voluto non avesse nelle sue rime. Che mentre che egli di ciascuna delle sette arti4 e I. Cosmico: cfr. la nota z a p. 97. Comunemente si ritiene che il Cosmico sia morto nel I 500; pertanto appare strano che il Bembo parli di lui come di persona viva. z. volgar poesia: volgar è aggiunta di T. Non ci è nota alcuna poesia del Cosmico in cui si confrontino Dante e Petrarca. 3. tutti quelli ••. sono: anche nel medio Cinquecento, specialmente dai membri dell'Accademia Fiorentina, Dante fu esaltato sopra tutto per la vastità e profondità del contenuto. Contro questo atteggiamento protestava il BoRGHINI con una chiarezza che mostra una piena comprensione della lezione bembiana: « Egli [il Bembo] presuppone che rammirazione di Dante sia tutta in noi per le molte scienzie che sono in quel poema inchiuse e io non vo' dire che io ne tenga poco conto, che sarebbe sciocchezza, ma io dico bene che io l'ho per serventi di quel poema e non per principali, e ammiro il poeta come poeta e non come filosofo o come teologo, se bene mi pare una quasi divinità d'ingegno l'aver saputo e potuto innestarle di sorte ch'elle servano al bisogno del poema con grazia e con leggiadria» (in Pozzi 1975, p. 107). 4. sette arti: quelle del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia).

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della filosofia e, oltre a cciò, di tutte le cristiane cose maestro ha voluto mostrar d'essere nel suo poema, egli men sommo e meno perfetto è stato nella poesia. Con ciò sia cosa che a ffine di poter di qualunque cosa scrivere che ad animo gli veniva, quantunque poco acconcia e malagevole a caper nel verso, egli molto spesso ora le latine voci, ora le straniere che non sono state dalla Toscana ricevute, ora le vecchie del tutto e tralasciate, ora le non usate e rozze, ora le immonde e brutte, ora le durissime usando, e allo 'ncontro le pure e gentili alcuna volta mutando e guastando, e talora, senza alcuna scelta o regola, da sé formandone e fingendone, ha in maniera operato che si può la sua Comedia giustamente rassomigliare ad un bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d'avene e di logli e d'erbe sterili e dannose mescolato; o ad alcuna non podata vite al suo tempo, la quale si vede essere poscia la state sl di foglie e di pampini e di viticci ripiena, che se ne offendono le belle uve. [xxi.] - lo, senza dubbio alcuno, - disse lo Strozza - mi persuado, messer Carlo, che così sia come voi dite; poscia che io tutti e tre vi veggo in ciò essere d'una sentenza. E pure dianzi, quando messer Federigo ci recò le due comperazioni degli scabbiosi,1 oltre che elle parute m'erano alquanto essere disonoratamente dette, sl mi parea egli ancora che vi fosse una voce delle vostre, dico di questa città, là in quel verso: da ragazzo aspettato da sig,ròr so,2

nel quale so pare detto in vece di suo, forse più licenziosamente che a grave e moderato poeta non s'appartiene. Alle quali parole tra ponendosi il Magnifico: - Egli è ben vero - disse - che delle voci di questa città sparse Dante e seminò in più luoghi della sua Comedia che io non arei voluto; sl come sono f antin e f antoli'n, che egli disse più volte, e fra in vece di frate, e ca in vece di casa, e Polo, e somiglianti.3 1. Le due comparazioni degli scabbiosi nel capitolo v di questo libro (a p. 12:2) sono citate da Carlo Bembo, non dal Fregoso. 2. so in veneziano corrispondeva al toscano suo. 3. delle voci • .• e somiglianti: era opinione abbastanza comune nel Cinquecento che, per usare le parole dello SPERONI nel Dialogo delle lingue, la lingua di Dante senta • bene e spesso più del lombardo che del toscano•; ma fantin (Par., xxx, 82), fa,ztoli,i (Purg., XXIV, 108; XXX, 44; Par., XXIII, 121 j XXX, 140), fra (In/., XXVIII, SSi

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Ma questa voce signòrso che voi credete, messer Ercole, che sian due, ella altro che una voce non è; e, oltre a questo, è toscana tutta e non viniziana in parte alcuna; quantunque ella bassissima voce sia e per poco solamente dal volgo usata, e per ciò non meritevole d'aver luogo negli eroici componimenti. - Come una voce? - disse messer Ercole - o in qual modo? - Dirollovi - rispose il Magnifico, e seguitò in questa maniera: - Voi dovete, messer Ercole, sapere usanza della Toscana essere con alquante così fatte voci congiugnere questi possessivi mio, tuo, suo, in modo che se ne fa uno intero, traendone tuttavia la lettera del mezzo, ciò è la i e la u, in questa guisa: signòrso signòrto in luogo di signor suo e signor tuo; e fratèlmo in luogo di /ratei mio; e pàtremo e màtrema in luogo di patre mio e matre mia; e mògli"ema e mòglieta e alcuna voltafigliuòlto, e cosi d'alcune altre; alle quali voci tutte non si dà l'articolo, ma si leva: ché non diciamo dal signòrso o della mòglieta, ma di mòglieta e da signòrso; si come disse Dante1 in quel verso e come si legge nelle novelle del Boccaccio, nelle quali egli e signòrto e mòglieta pose più d'una volta, e fratèlmo ancora.2 E dicovi più, che queste voci s'usano ragionando tutto dì non solo nella Toscana, ma ancora in alcuna delle vicinanze sue, che da noi prese l'hanno, e in Roma altresl; e messer Federigo le dee aver udite ad Urbino in bocca di quelle genti molte volte. 3 - Così è, Giuliano - disse incontanente messer Federigo. Né pure queste voci solamente s'usano tra que' monti, come dite, che vostre siano, ma dell'altre medesimamente; tra le quali una ve n'è loro così in usanza, che io ho alle volte creduto che ella non sia vostra. E questa è avaccio, che si dice in vece di tosto; con ciò sia cosa che in Firenze, si come io odo, ella oggimai niente più s'usa, o poco. Alle quali parole il Magnifico cosi rispose: - Egli non è dubbio, messer Federigo, che avaccio, voce nostra, non4 sia tratta da avacciare, che è affrettare, molto antica e Par., xn, 144) per frate, ca (lnf., xv, 54), Polo (Par., XVIII, 136) non sono - nemmeno i più sospettabili ca e Polo - forme sicuramente venete. Anzi stupisce che al Bembo il normalissimo fra sembrasse un venetismo. 1. Ma non pnr dubbio che DANTE (In/., XXIX, 77), abbia scritto proprio « dal signorso •· 2. Cfr. Dee., v, S, 17; VIII, 6, 7 e 28; VIII, 7, 35. 3. E dicovi . .. volte: per l'estensione del fenomeno, cfr. RoHLFS, § 430. 4. Si noti il costrutto alla latina: Egli 11011 è dubbio ••• c/ie ..• non (non dubiu,n est quin).

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dalle antiche toscane prose ricordata molto spesso, dalle quali pigliare l'hanno Dante e il Boccaccio potuta, che avacciare in luogo d'affrettare più volte dissero. Dal qual verbo si fe' avaccio, voce molto più del verso che della prosa; la quale usò il medesimo Boccaccio nelle sue ottave rime, se io non sono errato, alquante volte, e Dante medesimo per la sua Comedia la seminò alquante altre. 1 Né l'una di queste voci né l'altra si vede che abbia voluto usare il Petrarca. Ma in luogo d' avacciare, che ad uopo gli veniva, disse avanzare, fuggendo la bassezza del vocabolo, come io stimo, e in questo modo inalzandolo: ri fJedrem chiaro poi, come sovente per le cose dubbiose altri s'avanza;

o pure ancora: e ben clie 'l primo colpo aspro e mortale fosse da sé, per avanzar sua impresa una saetta di pietate ha presa.2

La qual voce usò la Toscana assai spesso in questo sentimento di mandare innanzi e far maggiore, non guari dal sentimento d' avacciare scostandola; con ciò sia cosa che chiunque s'avanza, per questo s'avanza, che egli s'affretta e si sollecita le più volte. Ma, tornando alla prima voce avaccio, ella poco s'usa oggi nella patria mia come voi dite, divenuta vile, si come sogliono il più delle cose, per la sua vecchiezza. Usasi vie più ne' suoi dintorni, e spezialmente in quel di Perugia, dove le levano tuttavia la prima lettera e dicono vaccio. 3 [xxii.] Avea così detto il Magnifico e tacevasi, quando lo Strozza, che attentamente ascoltato l'avea, disse:

1. Avacciare è frequente nella Crotrica di G. VILLANI (IV, 21; VII, 69, 9S, 131; x, 48). DANTE l'usa nel Purg., IV, 116; VI, 27 (avaccio: cfr. /11/., x, I 16; XXXIII, 106; Par., xvi, 70); il BoccAcc10 nel Filostrato, 111, 26, 6, nel Filocolo (n, 62: Opere, 1, p. 264), nella Fiammetta, III, (Opere, 111, p. 485), nel Corbaccio (Opere, IV, pp. 213,246), nel Dee., II, 6, 39; II, 7, 52; 111, 7, 21 (avaccio: cfr. Filostrato, 111, 32, 6; 44, 4; Ninfale fiesolano, CCLXXIX, 4; CDXV, 8). 2. Rime, XXXII, 12-3; CCXLI, 5-7. 3. Per vaccio, cfr. RoHLFS, §§ 4001 933. CELSO CITTADINI nelle sue postille alle Prose della volgar lingua, all'indicazione di Perugia, precisa: • Anzi in Arezzo, dove è nativa e propria» (BEMBO, Opere 1729, 11, p. 218).

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- Deh, se1 il cielo, Giuliano, in riputazione e stima la vostra lingua avanzi di giorno in giorno, e voglio io incominciare a ragionar toscanamente da questa voce, che buono augurio mi dà e in speranza mi mette di nuovo acquisto, non fate sosta cosi tosto nel raccontarci delle vostre voci, ma ditecene ancora e sponetecene dell'altre. Che io non vi potrei dire quanto diletto io piglio di questi ragionamenti. - E che volete voi che io vi racconti più oltra? - rispose il Magnifico. - Non avete voi oggi da messer Carlo e da messer Federigo udite molte cose? - Sì di vero - rispose lo Strozza - che io ne ho molte udite, le quali mi potranno ancora di molta utilità essere o nel giudicare gli altrui componimenti, se io ne leggerò, o nel misurare i miei, se io me ne travaglierò giamai. Ma quelle cose nondimeno sono avertimenti generali, che vagliono più a ben volere usare e mettere in opera la vostra lingua, a chi appresa l'ha e intendela, che ad appararla; il che a me convien fare, se debbo valermene, ché sono in essa nuovo, come vedete. Per la qual cosa a me sarebbe sopra modo caro che voi, per le parti del vostro idioma discorrendo,2 le particolari voci di ciascuna, le quali fa luogo a dover sapere, pensaste di ramemorarvi e di raccontarlemi. - Io volentieri ciò farei, in quanto si potesse per me fare, - rispose il Magnifico - se più di spazio a quest'opera mi fosse dato, che non è; ché, come potete vedere, il di oggimai è stanco, e più tosto gli 'nteri giorni sarebbono a tale ragionamento richiesti, che le brievi ore. - Per questo non dee egli rimanere - disse mio fratello, a queste parole traponendosi - che a messer Ercole non si sodisfaccia. E poscia che egli fu da noi ieri allo scrivere volgarmente invitato, convenevole cosa è, Giuliano, che noi niuna fatica, che a questo fine porti, rifuggiamo. Vengasi domani ancor qui, e tanto sopra ciò si ragioni quanto ad esso gioverà e sarà in grado. - Vengasi pure - disse il Magnifico - e ragionisi, se ad esso cosi piace; tuttavolta con questa condizione: che voi, messer Carlo e messer Federigo, m'aiutiate; ché io non voglio dire altramente. 1. se: con valore deprecativo, regge avanzi (congiuntivo, perché puro desiderio) e voglio: "possa il cielo accrescere ... e io volere (come voglio) .•. ". 2. per le parti ••. disco"endo: considerando a parte a parte la vostra lingua.

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A queste parole rispondendo i due che essi erano contenti di cosi fare, quantunque sapessero che a llui di loro aiuto non facea mestiero, e messer Ercole aggiugnendo che esso ne sarebbe loro tenuto grandemente, tutti e tre insieme, si come il di dinanzi fatto aveano, dipartendosi, lasciarono mio fratello.

DI MESSER PIETRO BEMBO A MONSIGNORE MESSER GIULIO CARDINALE DE' MEDICI DELLA VOLGAR LINGUA TERZO LIBRO

[i.] Questa città, 1 la quale per le sue molte e riverende reliquie, infino a questo di a noi dalla ingiuria delle nimiche nazioni e del tempo, non leggier nimico, lasciate, più che per li sette colli, sopra i quali ancor siede, sé Roma essere subitamente dimostra a chi la mira, vede tutto il giorno a sé venire molti artefici di vicine e di lontane parti; i quali le belle antiche figure di marmo e talor di rame, che o sparse per tutta lei qua e là giacciono o sono publica1nente e privatamente guardate e tenute care, e gli archi e le terme e i teatri e gli altri diversi edificii, che in alcuna loro parte sono in piè, con istudio cercando, nel picciolo spazio delle loro carte o cere la forma di quelli rapportano ;2 e poscia, quando a fare essi alcuna nuova opera intendono, mirano in quegli essempi, e di rassomigliarli col loro artificio procacciando, tanto più sé dovere essere della loro fatica lodati si credono, quanto essi più alle antiche cose fanno per somiglianza ravicinare le loro nuove; per ciò che sanno e veggono che quelle antiche più alla perfezzion dell'arte s'accostano, che le fatte da indi innanzi. 3 Questo hanno fatto più che altri, Monsignore messer Giulio, i vostri Michele Agnolo fiorentino e Rafaello da Urbino, l'uno dipintore e scultore 1. Qllesta città: Roma. Per la finzione secondo la quale le Prose della volgar lingua sarebbero state terrrùnate a Roma nel periodo 1515-1516, cfr. la nota I a p. 55. 2. rapportano: riproducono in scala. Roma - osserva il Bembo - è una città inconfondibile non perché edificata sui sette colli ma «per le sue molte e riverende reliquie»; quelle reliquie che fin dai tempi di Donatello, del Brunelleschi e dell'Alberti erano state attentamente studiate dagli artisti. L,imitazione delrantico, appunto, avrebbe consentito alle arti figurative di raggiungere la loro perfezione nel Cinquecento. Il CAST.ELVETRO (Girmte ms., pp. 83-5) contesta quasi tutte le affermazioni di questo proemio e, fra l'altro, osserva: « Le reliquie, che sono avanzate in Roma dall'ingiuria delle nazioni nimiche e del tempo, appartengono alla scultura e all'architettura ma non alla dipintura, se non alcune, chiamate grottesche. Adunque come si può presupporre che Michefagnolo e Rafaello, per le opere degli antichi vedute in Roma, sieno divenuti nobili dipintori; o in questa arte, nella quale essi spezialmente tra sé sono simili e valentissirrù tra tutti i maestri di oggidi, o sieno molto o poco . .prossimi a' buoni dipintori antichi?». 3. da indi innanzi: da allora

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e architetto 1 parimente, l'altro e dipintore e architetto altresi; e hannolo si diligentemente fatto che amendue sono ora così eccellenti e cosi chiari che più agevole è a dire quanto essi agli antichi buoni maestri sieno prossimani,2 che quale di loro sia dell'altro maggiore e miglior maestro. La quale usanza e studio, se, in queste arti molto minori3 posto, è come si vede giovevole e profittevole grandemente, quanto si dee dire che egli maggiormente porre si debba nello scrivere, che è opera cosi leggiadra e cosi gentile che niuna arte può bella e chiara compiutamente essere senza essa? Con ciò sia cosa che e Mirone e Fidia e Apelle e Vitruvio, o pure il vostro Leon Battista Alberti,4 e tanti altri pellegrini5 artefici per adietro stati, ora dal mondo conosciuti non sarebbono, se gli altrui o ancora i loro inchiostri celebrati non gli avessero, di maniera che vie più si leggessero, della loro creta o scarpella o pennello o archi penzolo le opere, 6 che si vedessero. Quantunque non pur gli artefici, ma tutti gli altri uomini ancora di qualunque stato, essere lungo tempo chiari e illustri non possono altramente. Anzi eglino tanto più chiari sono e illustri ciascuno, quanto più uno che altro leggiadri scrittori ha de' fatti e della virtù sua. Per che ragionevolmente Alessandro il Magno, quando alla sepoltura d'Achille I. architetto: aggiunta di T; forse solo tardi il Bembo si rese conto della genialità di Michelangelo nell'architettura. Anche P. G1ov10, che scrisse la Miclzaelis Angeli Vita fra il 1523 e il 1527, loda Michelangelo solo come pittore e scultore (cfr. Scritti d'arte del Cinquecento, 1, p. 10). Vostri sono detti Michelangelo e Raffaello perché favoriti dal cardinale de' Medici, a cui il Bembo si rivolge. Più sotto, invece, l' Al berti è detto vostro perché compatriota del cardinale. 2. prossimani: vicini. 3. in queste ... minori: la pittura, la scultura e l'architettura restano anche per il Bembo arti minori. Per la disputa sulla dignità della arti figurative e il loro rapporto con la poesia, cfr. A. HAUSER, Storia sociale dell'arte, Torino 1964, 1; M. Pozzi, L'i>, « Io son contento di darmiti prigione», « Il suono incomincia a farmisi sentire».2 Dartimi o f arsimi non si dicono, ma diconsi i detti in quella vece: «Tu sei contento di darmiti prigione», e simili. Dissi tra 'l verbo e lei, per cib che qualunque volta tra lei e il verbo altro v'ha, la si nella se si muta, rimanendo nondimeno la dinanzi a llei3 senza mutamento fare alcuno per questo; sì come si muta nel Boccaccio, che disse: «e questo chi che ti se l'abbia mostrato, o come tu il sappi, io no 'l niego ».4 Usasi medesimamente ciò fare, e servasi la regola già detta, eziandio con queste due voci che luogo dimostrano, vi ci: «Le acque mi vi paion dolci», « Queste ombre ti ci debbono essere a bisogno la state »5 e paionmivi dolci. e essertici a bisogno altresl. Ma, tornando alla somiglianza delle tre voci, 6 dico che in essa tuttavia una dissomiglianza v'ha, la quale è questa: che quando essi dopo 'l verbo si pongono e sotto l'accento di lui, senza da sé averne,7 dimorano, il primiero e il terzo di loro nelle rime e in i e in e si son detti, e veggonsi all'una guisa e all'altra posti ne' buoni antichi scrittori; ma il secondo a una guisa sola, ciò è finiente in i, ma in e non giamai. Per ciò che dolermi consolarme, duolmi valme, dolersi celarse,

1. Si come . .. arricchirmi: aggiunta di T, per la quale si veda G. SALVOCozzo, in GSLI, xxx (1897), p. 379. 2. Citazioni non identificate. Per l'ultima, col DIONISOITI, si può ricordare DANTE, lnf., v, 25-6: « Ora incomincian le dolenti note / a farmisi sentire [...] ». 3. la dinanzi a llei": la particella atona mi o ti che precede se. 4. Dee., IV, x, 36. 5. Citazioni non identificate. 6. tre voci: cioè me, te, sé. 7. che quando ••• averne: quando, cioè, sono enclitici.

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stassi ja,sse si leggono nel Petrarca ;1 il che non si fa del secondo, che lo hanno sempre, e esso e gli altri antichi, posto come io dico: consolarti, salutarti," e non altramente. Il che pare a dir nuovo. Ché se mi si concede il dire onorarme, perché non debbo io poter dire eziandio onorarte? Nondimeno l'opera sta3 come voi udite; dico appo gli antichi, ché da, moderni s'è pure usato alcuna volta per alcuno il porlo eziandio in quella maniera. È ancora da avertire che, quando il terzo predetto si pone finiente in e, si ponga solo nel numero del meno; per ciò che in quello del più la i gli si convien sempre, dansi /ansi, e non danse o /anse, che sarebbe vizio; solo che quando esso si ponesse dopo 'l verbo e avesse nondimeno l'accento da sé, si come del me e del te dissi, in questa guisa: «Essi fecero sé e gli altri arricchire ».4 [xv.] Dissi delle due primiere voci che in vece di nomi si pongono, nel numero del meno. Ora dico che elle, in quello del più, · quando sono intere niuna varietà fanno, ma così si dicono, noi voi, per tutti i casi. Ma qualora esse la lettera del mezzo lasciano adietro, la prima ad un modo si scrive sempre cosi, 1ze, o ne' versi che ella entri o nelle prose; la seconda medesimamente ad un modo così, vi, in tutti gli altri luoghi; solo che o nella rima, quando ella sotto l'accento si sta del verbo che si ponga senza termine, 5 nel qual luogo, secondo che alla rima mette bene, e vi e ve parimente dire si può: / arvi, darve; o pure quando ella si pon con questa particella ne. Per ciò che in quel caso ella medesimamente in e finisce continuo: mi ve ne dolsi; mi ve ne sia doluta. La qual particella tanto ha di forza che ancora con le altre già dette voci posta, in e le fa finire similmente: «Me ne rendo sicuro», cc Te ne do licenzia», "Vi se ne conviene». I. Il Bembo opportunamente sceglie parole in rima: dolermi (Rime, CCCIV, 5), consolar-me (ccL, 1), duolmi (CCCLXIII, 5), valme (CCLXIV, 80), dolersi (xcv, 4), ce/arse (XXIII, 154), stassi (cxxv, 11; e anche Trionfo della Morte, I, 70), f asse (ccxxv, 8). 2. Anch'essi in rima: consolarti (Rime, CCCLIX, II), salutarti (Trio1ifo della Morte, II, 107). 3. l'opera sta: sostituisce «la cosa sta» di P e M. L'affermazione è a un tempo troppo rigida e troppo generica, come del resto almeno in parte riconosce il Bembo stesso, giacché la considera nuova, cioè strana. Nelle sue Rime anzi scrisse colparte (LXIII, 2), lasciarte (XCVI, 4), andarte e seguitarte (CXLIII, 12 e 14). 4. Citazione non identificata. 5. verbo ... senza termine: verbo all'infinito. È appena il caso di ricordare che il rapporto stabilito dal Bembo fra noi voi e ne vi non ha fondamento storico: ne deriva forse da INDE e vi da IBI.

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A volere ora intendere quando le intere di queste voci usar si debbano e quando le non intere, oltra quello che detto s'è, altro sapere non vi bisogna; se non che a qualunque guisa io e tu, e a qualunque guisa me e te, aventi sopra sé gli accenti, si pongono, poniate voi e noi medesimamente; a quelle maniere poscia del dire, alle quali mi e ti si danno o pure me e te, che da altri accenti si reggano, come io dissi, diate le non intere. È oltre a cciò che si vede la ci, in vece della ne, comunemente usarsi da' prosatori: cc Noi ci siamo aveduti che ella ogni di tiene la cotal maniera», e altrove: «egli non sarà alcuno che, veggendoci, non ci faccia luogo e lascici andare». 1 Da' poeti ella non cosi comunemente si vede usata, anzi di rado, e sopra tutti dal Petrarca, il qual nondimeno la pose ne' suoi versi alcuna volta. Questa ci tuttavia muta la sua vocale nella e, a quella guisa medesima che del vi,, vegnente dal voi, si disse: « Tu non ce ne potresti far più »,2 e somiglianti. [xvi.] Ora il nostro ragionamento ripigliando, dico che sono degli altri che in vece di nome si pongono; sì come si pone elli, che è tale nel primo caso, come che elio alle volte si legga dagli antichi posto in quella vece e nel Petrarca altresl, 3 e ha lui negli altri, nel numero del meno; la qual voce s'è in vece di colui alle volte detta, e da' poeti, sì come si disse dal Petrarca: Morte biasmate, anzi laudate lui, che lega e scioglie,

o pure: poi piacque a lui, che mi produsse in vita;•

e da' prosatori, sì come si vede nel Boccaccio, il qual disse: cc ma egli fe' Adamo maschio e Eva femina; e a llui medesimo, che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella>>. 5 Né solamente negli altri casi ma ancora nel primo caso pose il Boccaccio questa voce in luogo di colui, quando e' disse: «si vergognò di fare al monaco quello che egli, si come lui, avea meritato ».6 Con ciò sia cosa che, quando alla particella come si dà alcun caso, quel caso se le dà, che ha la voce con cui la comperazione si fa; si co1. BOCCACCIO, Dee., pio, Rime, xcu, 14. 6. I vi, I, 4, 22. 13

IV, 5, 20; II, 1, 10. 2. lvi, VIII, 6, 55. 3. 4. lvi, CCLXXV, 12-3; LXXX, 16. 5. Dee.,

Per esemConci., 6.

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me si diede qui: « Donne mie care, voi potete, si come io, molte volte avere udito»; 1 il che tuttavia è cosi chiaro che non facea bisogno recarvene testimonianza. Anzi, se altro caso si vede che dato alcuna volta le sia, ciò si dee dire che per inavertenza sia stato detto, più che per altro. Posela eziandio Dante nel primo caso in quella vece, quando e' disse nel suo Convito: «Dunque se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e se lui fu vile, tutti siamo vili». 2 Nel numero del più egli serba la primiera sua voce per aventura in tutti i casi, dal terzo in fuori. 3 E questo numero non entra nelle prose se non di rado ; con ciò sia cosa che le prose usano il dire essi nel primier caso, e negli altri loro in quella vece; ma è del verso. Le quali prose nondimeno, accrescendonelo d'una sillaba negli antichi scrittori, l'hanno alle volte usato nel primo caso cosi: ellino.4 E queste voci, che al maschio tuttavia si danno, i meno antichi dissero egli e eglino più sovente. Ella appresso e elle, che si danno alla femina, e elleno medesimamente, non si sono mutate altramente. Sono nondimeno comunalmente ora eglino e elleno in bocca del popolo più che nelle scritture, come che Dante ne ponesse l'una nelle sue canzoni. 5 Quellino eziandio disse una volta Giovan Villani nella sua istoria, in vece di quelli.6 Ma lasciando da parte quelle del maschio, ha ella, che voce del primo caso è, similmente lei negli altri casi sempre, solo che dove alcuna volta lei in vece di colei s'è posta altresl, come lui in vece di colui, come io dissi; e elle ha loro, dico nelle prose, nelle quali questa regola si serva continuo. Ma nel verso sì si leggono ella nel numero del meno r. BoccACCIO, Dee., I, lntr., 52. 2. Convivio, IV, xv, 4. Ma, come già osservava il BoRGHINI, altri testimoni leggevano non lui ma e': cc E tornando al lui, non si troverrà agevolmente alcuno di questo buon secolo averlo usato nel primo caso, e di questo posso far fede che ovunque si truova in questo scrittore [G. Villani] nello stampato esser ciò sempre per colpa dello stampatore, perché negli scritti buoni e antichi egli si legge [...]. Al Bembo parve averlo trovato una volta nel Convivio di Dante, ma il cattivo testo gliene fece senza sua colpa credere perché negli scritti vecchi, che io ho veduti e si possono da ciascuno tutta via vedere, cosi si legge quel luogo: "Dunque se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili; e se e' fu vile, tutti siamo vili", dove i testi comuni delle stampe hanno: "se lui fu vile"» (Annotazioni sopra G. Villani, Biblioteca Nazionale di Firenze, ms. II. x. 66, pp. 35-6). 3. Al plurale il pronome di terza persona è lo stesso del singolare (elli), tranne che nel dativo (terzo caso). 4. e/li110: il Bembo poteva leggerlo nel Novellino, XLI. 5. Le dolci rime, 73 (canzone commentata nel IV trattato del Convivio). 6. «Questo preciso riferimento al Villani, in cui trovo queglino (cfr. ad esempio 1x, 329), ma non quellino, è aggiunta dell'edizione 1549 » (DIONISOTTI).

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e elle in quello del più, molte volte poste in tutti gli altri casi, dal terzo in fuori, e massimamente nel sesto caso, 1 operandolo la licenzia de' poeti più che ragione alcuna che addurre vi si possa. [xvii.] Di poco avea cosi detto il Magnifico, quando messer Federigo, ad esso rivoltosi, disse: - Egli si par bene, Giuliano, che la natura di queste voci porti che ella solamente al primo caso si dia, e lei agli altri, come diceste usarsi nelle prose. Ma si come si vede, e voi diceste ancora, che ne' poeti si truova alle volte ella posta negli altri casi, cosi pare che si truovi eziandio lei, nel primo caso posta, appo il Petrarca, quando e' disse: e ciò che non ~ lei, già per antica usanza odia e disprezza. :i

Con ciò sia cosa che al verbo è solo il primo caso si dà e dinanzi e dopo, come diede il Boccaccio, che disse: «Io non ci fu' io», e ancora: «e so che tu fosti desso tu». 3 O pure io non intendo come queste regole si stiano. Alle quali parole il Magnifico cosi rispose: - Lo avere il Petrarca posto questa voce lei col verbo è, non fa, messer Federigo, che ella sia voce del primo caso. Per ciò che è alle volte che la lingua a quel verbo il quarto caso appunto dà, e non il primo; il qual primo caso non mostra che la maniera della toscana favella porti che gli si dia; sì come non gliele diede il medesimo Boccaccio, il quale nella novella di Lodovico disse: «credendo egli che io fossi te», e non disse che io fossi tu, che la lingua no 'I porta. E altrove: «Maravigliossi forte Tebaldo che alcuno in tanto il somigliasse che fosse creduto lui »,4 e non disse che fosse creduto egli. Tra le quali parole se bene v'è il verbo creduto, egli nondimeno vi sta nel medesimo modo. Né vi muovano que' luoghi che voi diceste: « Io non ci fu' io» e «so che tu fosti desso tu». Per ciò che in essi solamente la voce che fa5 si replica e dicesi due volte, niente I. sesto caso: l'ablativo. Nell'escludere che il singolare ella (non solo il plurale elle) si possa usare nel terzo caso, il Bembo forse pensava a DANTE, Par., JG{III, 96: «e cinsela e girossi intorno ad ella». Ammettendo il sesto caso gli riusciva invece accettabile «e suon di man con elle» (bif., III, 27). Ello, ella, elli, elle in realtà erano comuni nei casi obliqui anche in prosa. 2. Rime, CXVI, 7-8. 3. Dee., III, 2, 18; VII, S, 53. 4. lvi, VII, 7, 43; III, 7, I 2. 5. la voce che fa: il soggetto.

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del sentimento mutandosi, nel quale primieramente si pone: «Io non ci fu, io» e «tu fosti desso tu»; e come si replica eziandio in questo verso delle sue ballate: Qual do11na canterà, s'io non cant'io. 1

Là dove in questi, « credendo egli che io fossi te» e «che alcuno fosse creduto lui» e «ciò che non è lei», il sentimento della voce che fa si muta in altro; ché io e tu non sono una cosa medesima, né alcuno e egli, né dò e ella altresl. Oltre che in questo modo di dire, dò che non è lei, il verbo è ha quella medesima forza che avrebbe contùme o ha in sé o dimostra o somiglianti. E tanto è a dire credendo che io fossi te, quanto che io fossi in te; e tanto che fosse creduto lui, quanto che fosse creduto esser lui. z E prima che io di queste due voci lui e lei fornisca di ragionarvi, non voglio quello tacerne, il che si vede che s'usa nella mia lingua, e ciò è che elle si pongono alle volte in vece di questa voce sé, di cui dianzi si disse; sì come si pose dal Boccaccio in questo ragionamento: « essendosi accorta che costui usava molto con un religioso, il quale quantunque fosse tondo e grosso, nondimeno, per ciò che di santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo uomo fama, estimò costui dovere essere ottimo mezzano tra lei e 'l suo amante ». 3 Nel qual ragionamento si vede che tra lei e 'l suo amante, in vece di dire tra sé e 'l suo amante, s'è detto. Il che s'usa di fare ancora nel numero del più alcuna fiata, si come si fece qui: «voglio che domane si dica delle beffe, le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a' lor mariti ».4 [xviii.] Ma tornando alla voce elli, dico che sì come, aggiugnendovi due lettere, la fecero gli antichi d'una sillaba maggiore e dissero ellino; cosi essi, levandone le due consonanti del mezzo, la fecero d'una sillaba minore e dissero primieramente ei, ristrignendola ad essere solamente d'una sillaba, e poscia e', levandole ancora la vocale ultima, per farne questa stessa sillaba più leggiera. Il che è usatissimo di farsi e nelle prose e nel verso; dico nel numero del meno. Quantunque ancora in quello del più ella s'è pur detta alcuna volta dal Boccaccio: cc E appresso questo, menati i gentili I. BOCCACCIO, Dee., II, M. 3. Dee., 111, 3, 8.

Conci., 12. 2. Oltre che ••. esser lui: aggiunta di 4. lvi, v1, Conci., 6.

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uomini nel giardino, cortesemente gli dimandò chi e' fossero»; e ancora: ..'VI, 15), che il Bembo cita subito dopo. 3. Cfr. Rime, XXXVII, 44. 4. et Queste epitesi sono, salvo errore, scomparse nelle moderne stampe del Villani» (DIONISOTTI). 5. et Al die giudicio» si legge in Gurno GIUDICE, x, 4. 6. Il verbo essere, di cui stava parlando prima di aprire una sorta di parentesi sulla e epitetica. 7. Dee., I, 7, 23. 8. voce • •. si disse: cfr. I, x, a p. 84. 9. Cfr. l11J., xxxu, s; ROHLFS, § 541.

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salvatica, e per questo detta dal Petrarca nelle sue canzoni, 1 tolta nondimeno da' più antichi che la usarono senza risguardo; dalla quale si formò aggia e aggiate, che il medesimo poeta nelle medesime canzoni disse più d'una volta.2 Dalla ho, prima voce del presente tempo molto usata, formò messer Cino la prima altresl del passato ei, quando e' disse: Or foss'io morto, quando la mirai, che non ei poi, se non dolore e pianto, e certo son ch'io non avrò giamai.3

[li.] Esce so, che alcuna volta si disse saccio, si come si disse dal Boccaccio in persona di Mico da Siena: temo morire, e già non saccio l'ora,4

la qual voce tuttavia non è della patria mia; e che ha nella terza voce sa e alcuna volta sape, di cui si disse, 5 per terza voce, e sapere per voce senza termine. Del qual verbo più sono ad usanza saprò e saprei che saperò e saperei non sono. E questo parimente dire si può di tutte l'altre voci di questi tempi. Esce fo, che si disse ancora faccio da' poeti, sì come la disse messer Cino,6 di cui ne viene /ace, poetica voce ancora essa, della qual dicemmo, e / acessi; le quali tutte dafacere, di cui si disse,7 voce senza termine usata nondimeno in alcuna parte della Italia, più tosto è da dire che si formino. Escono riedi e riede, da' poeti solamente dette, se Dante l'una non avesse recata nelle sue prose,8 e in tanto ancora escono maggiormente, in quanto elle sole, che in uso siano, così escono senza altra. È il vero che 'l medesimo Dante nella sua Comedia e messer Cino nelle sue canzoni e il Boccaccio nelle sue terze rime redire alcuna volta dissero ;9 ma questa pose Dante eziandio nelle sue I. Cfr. Rime, LXI, 3; xxix, 16; X.U"VII, 19; XCVI, 3. 2. Cfr. ivi, CIII, 3; cxxv, 71; cxx.vin, 53; Trionfo d'Amore, IV, 33. 3. Sonetto Amore è uno spirito, 12-4. 4. Dee., x, 7, 20. Per la voce meridionale saccio, cfr. RoHLFS, § 549. 5. e che ha .•• si disse: cfr. il capitolo xlvi, a p. 239. 6. Faccio è ora di norma; pertanto può stupire che il Bembo la consideri forma poetica e senta il bisogno di citare CINO (sonetto Chi ha tm buon amico, 7), ma nel Decameron si ha solo f o e non mai/accio, e cosi nel Petrarca. 7. / acere ... si disse: cfr. il capitolo xxx.iv, a p. 222. 8. Cfr. Vita nuova, XL, 6. 9. Cfr. DANTE, Par., XVIII, 11; CINO, sonetto Ciò ch'i' veggio, ro; BoccACCIO, Comedia delle ninfe fiorentine (Opere, III, pp. 63 e 196); Amorosa visione, XXVII, 87; XXXVIII, IO.

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prose e Pietro Crescenzo altresi, 1 e oltre a cciò rediro in vece di tornarono nell'istoria di Giovan Villani, 2 e redì in vece di tornò in più antiche prose ancora di queste si leggono. 3 Tengo pongo flengo e simili non si può ben dire che escano, come che essi, nella voce senza termine e nella maggior parte dell'altre, la g non ricevano. Escono per aventura degli altri, de' quali, per ciò che sono più agevoli, non ha uopo che si ragioni. E sono di quelli ancora che poche voci hanno, si come è cale, che altre voci gran fatto non ha se non calse caglia calesse calere e alcuna volta caluto e radissime volte calea e calerà e antichissimamente carrebbe in vece di calerebbe.4

[lii.] Sono, oltre a questi, ancora verbi della quarta maniera che escono in alquante loro voci, e tutti ugualmente: ardisco, nutrisco, 1."mpallidisco e degli altri; con ciò sia cosa che con la loro voce senza termine, ardire nutrire impallidt're, questa voce non ha somiglianza. Escono tuttavia nelle loro tre primiere voci del numero del meno e nell'ultima di quello del più, ardisco ardischi ardisce ardiscono, e nelle tre del numero del meno di quelle che all'uno de' due modi condizionalmente si dicono, che sono nondimeno tutte una sola, ardisca, o pur due; per ciò che la seconda fa eziandio cosi, ardischi, come si disse ;5 e nella terza parimente del più, ardiscano. Quantunque i poeti hanno eziandio regolatamente alle volte usato alcune di queste medesime voci. Per ciò che fiere dissero in vece di ferisce, e pato e pate in vece di patisco e patisce, e pero e pere e pera, e nutre e langue, 6 e per aventura dell'altre. [liii.] Deesi, per ciò che detto s'è del verbo e per adietro detto s'era del nome, dire appresso di quelle voci che dell'uno e dell'altro col loro sentimento partecipano, e nondimeno separata forma hanno da ciascun di questi, come che ella più vicina sia del nome I. Cfr. Convivio, 11, r4, r2; P. CRF.SCENZIO, I, 2; 11, 19, ecc. 2. Cfr. G. VILLANI, VI, 86. 3. in più antiche • •• si leggono: per esempio nel Novellino, LXXV. 4. Calea è in BoccACCIO, Teseida, vn1, 124, 8, e nel Dee., v, 6, I r;

caluto nel Novellino, LIX, nella Comedia delle ninfe jiore11tine (Opere, Ili, p. 87), nel Corbaccio (Opere, IV, p. 260), e nelle Rime (XLVII, 2) del BocCACCio; carrebbe nel Novellino, LIX. Le altre forme (calse, caglia, calesse, calere} erano comuni. Calerà, salvo errore, non si trova nei testi su cui si è fondato il Bembo. 5. la seconda . •. si disse: cfr. il capitolo xlv, a p. 238. 6. Queste forme erano comuni nella lingua antica (cfr. RoHLFS, § 523) e, tranne pato, si trovano in Dante e Petrarca.

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che del verbo. Ma egli poco a dire ci ha, con ciò sia cosa che due sole guise di queste voci ha la lingua e non più. Per ciò che bene si dice amante tenente leggente ubidente e amato tenuto letto ubidito, ma altramente non si può dire. 1 Per ciò che questa voce futuro, che la lingua usa, s'è cosi tolta dal latino, senza da sé aver forma. Formasi l'una di queste voci da quella voce del verbo che si dice amatzdo tenendo, di cui dicemmo; l'altra è quella stessa voce del passato di ciascun verbo, la quale col verbo avere o col verbo essere si manda fuori, di cui medesimamente dicemmo. Di queste due voci, come che l'una paia voce che sempre al tempo dare si debba che corre mentre l'uom parla, amante tenente, e l'altra, che è amato tenuto, medesimamente sempre al tempo che è passato, nondimeno egli non è cosi. Per ciò che elle sono amendue voci che a quel tempo si danno, del quale è il verbo che regge il sentimento : «La donna rimase dolente oltra misura», 2 il che tanto è a dire quanto la donna si dolse, per ciò che rimase è voce del passato. E: La donna rimarrà dolente se tu ti partirai, dove rimarrà dolente vale come se dicesse si dorrà, per ciò che ritna"à del tempo che è a venire è voce. E ancora: La donna amata dal marito non può di ciò dolersi, nel qual luogo amata tanto è quanto a dire la quale il ma1·ito ama, e così fia del presente, per ciò che è del presente voce può dolersi. O pure: La donna amata dal marito non poteva di ciò dolersi, nel qual dire amata è in vece di dire la quale il marito amava, per ciò che poteva è voce del pendente altresi. E cosi per gli altri tempi discorrendo, si vede che aviene di questa qualità di voci, le quali possono darsi parimente a tutti i tempi. [liv.] È oltre a cciò da sapere quello che tuttavia mi sovien ragionando della detta voce del passato, restituito messo e somiglianti; la quale alle volte si dà alla femina, quantunque si mandi fuori nella guisa che si dà al maschio; e, posta nel numero del meno, dassi a quello del più similmente. Il che si fece non solamente da' poeti, che dissero: ma altramente non si pul> dire: per la mancanza, nel volgare, del participio futuro, come chiarisce Pesempio della voce futuro che - spiega il Bembo - non è il participio futuro di essere ma una voce tolta tale e quale dal latino. 2. Nel Decameron si ha soltanto- almeno nell'edizione BRANCA - • La donna, dolente senza misura, le disse» (v, 7, 23); ma dolente senza (oltre) misura (modo) è formula assai comune nel Decameron, e forse il Bembo ha voluto comporre una nuova frase con materiali boccacciani. I.

PIETRO BEMBO

passato è quella, di cli'io piansi e scrissi,

e altrove: che poclzi lzo visto in questo viver breve, 1

e somigliantemente assai spesso; ma da' prosatori ancora, e dal Boccaccio in moltissimi luoghi e, tra gli altri, in questo: 11 I gentili uomini, miratola e commendatola molto, e al cavaliere affermando che cara la dovea avere, la cominciarono a riguardare», e in quest'altro: «E cosi detto, ad una ora messosi le mani ne' capelli, e rabbufatigli e stracciatigli tutti, e appresso nel petto stracciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte ». 2 Nel qual modo di ragionare si vede ancor questo, che si dice miratola e commendatola in vece di dire avendola mirata e commendata, e così messosi le mani ne' capelli in vece di dire avendosi le mani ne' capelli messe. La qual guisa e maniera di dire, sì come vaga e brieve e graziosa molto, fu da' buoni scrittori della mia lingua usata non meno che altra, e dal medesimo Boccaccio sopra tutti. Il quale ancora più oltre passò di questa guisa di dire. Per ciò che egli disse eziandio così, nella novella di Ghino di Tacco, assai leggiadramente,« concedutogliele il Papa», in vece di dire avendogliele il Papa conceduto. 3 Né oltre a questo fie per aventura soverchio il dirvi, messer Ercole, che quando la detta voce del passato si pone assolutamente con alcun nome, al nome sempre l'ultimo caso4 si dia, sì come si dà latinamente favellando: caduto lui, desto lui; come diede Giovan Villani, che disse: cc lncontanente, lui morto, si partirono gli Aretini l>, e altrove: c1 avuto lui Milano e Chermona, più grandi signori della Magna e di Francia il vennero a servire» ;5 e come diede il medesimo Boccaccio, che disse: «voi dovete sapere che generai passione è di ciascun che vive, il veder varie cose nel sonno; le quali, quantunque a colui che dorme, dormendo tutte paian verissime, e desto lui, alcune vere, alcune verisimili». Fassi parimente ciò eziandio nella voce del presente di questa maniera: «e non potendo comprendere costei in questa cosa aver operata malizia né esser colpevole, volle lei presente vedere il morto corpo ». 6 Rime, CCCXIII, 3; CCCXXVIII, 2, 2. Dee., x, 4, 32; Il, 8, 22. 6. Il quale • •. conceduto è aggiunta di T. 4. l'ultimo caso: 5. G. VILLANI, IX, 53 e 15. 6. Dee., IV, 6, 4; IV, 7, 16.

I. PETRARCA, 3. lvi, x, 2,

l'ablativo.

PROSE DELLA VOLGAR LINGUA • III

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[lv.] Avea tutte queste cose dette il Magnifico. E messer Federigo, vedendo che egli si tacca, disse: - Voi m'avete, col dir dianzi di quella parte del verbo che si dice amando leggendo, una usanza della provenzale favella a memoria tornata di questa maniera; e ciò è che essi danno e prepongono a questo modo di dire la particella in, e fannone in andando, in leggendo. Della quale usanza si vede che si ricordò Dante in questo verso: peri, pur va, e in andando ascolta;

e il Petrarca in quest'altro: e se l'ardor f al/ace duri, molt' anni in aspettando un giorno. 1

Il che si truova alcuna volta eziandio negli antichi prosatori, sl come in Pietro Crescenzo, il qual disse, parlando di letame: «ma il vecchio l'ha tutto perduto in amministrando e dando il suo umore in nutrimento»,'- e in Giovan Villani, che disse: ,e E fatto il detto sermone, venne innanzi il Vescovo, che fu di Vinegia; e gridò tre volte al popolo, se voleano per Papa il detto frate Pietro: e con tutto che 'l popolo assai se ne turbasse, credendosi avere Papa romano, per temo risposano in gridando che sl »,3 e in Dante medesimo, che nel suo Con'llito disse: « Quanta paura è quella di colui che appresso sé sente ricchezza, in caminando, in soggiornando ».4 Quantunque non contenti gli antichi di dare a questa parte del verbo la particella in, essi ancora le diedero la con; si come diede il medesimo Giovan Villani, il qual disse: «con levando ogni dì grandissime prede», 5 in vece di dire levando. Ma voi tuttavia non vi ritenete per questo.6

Llvi.] Laonde

il Magnifico, cosi a ragionare rientrando, disse:

- Resterebbe, altra le dette cose, a dirsi della particella del parlare che a' verbi si dà7 in più maniere di voci, qui lì poi dinamzi.8 e simili, o delle altre particelle ancora che si dicono ragionando Purg., v, 45; Rime, CCLXIV, 45-6. Il Bembo ha ragione di pensare che la diffusione in italiano del gerundio preposizionale sia dovuta a influsso provenzale: cfr. RoHLFS, § 721. 2. P. CRESCENZIO, II, 13. 3. G. VILLANI, x, 72. 4. Convivio, IV, xiii, II. 5. G. VILLANI, IX, 318. 6. non vi ritenete per questo: non trattenetevi, per il mio intervento, dal proseguire il vostro discorso. 7. della particella ••• si dà: dell'avverbio. 8. dinanzi: aggiunto in T. 1.

PIETRO BEMBO

come che sia. Ma elle sono agevoli a conoscere, e messer Ercole da sé apparare le si potrà senza altro. - Non dite così - rispose incontanente messer Ercole - ché ad uno del tutto nuovo, come sono io, in questa lingua, d'ogni 1ninuta cosa fa mestiero che alcuno avertimento gli sia dato e quasi lume che il camino gli dimostri, per lo quale egli a caminare ha, non v' essendo stato giamai. - Cosi è - disse appresso messer Federigo, nel Magnifico risguardando che si tacea - e messer Ercole dice il vero. Di che voi farete cortesemente, a fornir quello che così bene avete, Giuliano, tanto oltre portato col vostro ragionamento; massimamente picciola parte a dire restando, se alle già dette si risguarderà. Per la qual cosa il Magnifico, disposto a sodisfargli, seguitò e disse: - Sono voci da tutte le già dette separate, che quale a' verbi e quale a' nomi si danno, e quale all'uno e all,altro, e quale ancora a' membri medesimi del parlare come che sia si dà, più tosto che ad una semplice parte di lui e ad una voce. Delle quali io, così come elle mi si pareranno dinanzi, alcuna cosa vi ragionerò, poscia che così volete. Sono adunque, di queste voci che io dico, qui e qua, che ora stanza1 e ora movimento dimostrano, e dannosi al luogo nel quale è colui che parla. E è costi, che sempre stanza, e costà, che quando stanza dimostra e quando movimento, e a quel luogo si danno nel quale è colui con cui si parla, e in costà detta pure in segno di movimento; e è là, che si dà al luogo nel quale né quegli che parla è né quegli che ascolta, e talora stanza segna e talora movimento, che poscia lì, sì come qui, non si disse se non da' poeti. La qual particella nondimeno s'è alle volte posta da' medesimi poeti in vece di costà: Pur là su non alberga ira né sdegno?·

Dissesi eziandio colà, ciò è in quel luogo e a quel luogo. E è quivi, che vale quel medesimo, e ivi, dal latino e in sentimento e in voce tolta, 3 la b nella v mutandovisi. È tuttavia che alle volte ivi si dà al tempo, e dicesi ; «a me si para dinanzi»; cc allo Stradicò andò davanti »;3 e innanzi e avanti senza essa: ,, avendo un grembiule di bucato innanzi sempre» e e< co' torchi avanti» ;4 e sl come è ancora che la dinanzi al luogo si dia: «se noi dinanzi non gliele leviamo», 5 e le altre si diano al tempo: ressori verrà, ella fia senza dubbio alcuno ridotta da loro in• volgare, ché non vorranno perderne quel guadagno; il qual guadag"no tanto maggior sarà, quanto ogni qualità d'uomini, essendo ella istoria, volentieri la leggerà. E perché le scritture latine fatte volgari dagli impressori, sogliono per lo più disonoratissime essere e iscorettissime, ché d'altro non curano, se non che elle volgari siano, mi ricordate che bene sarebbe che io, che l'ho latina fatta, fa facessi eziandio volgare, a fine che ella uscisse anco in questa lingua tale, quale dee, opera e fatica mia essendo. A che rispondo Laura Descalza, che insegnava a Elena il cucito. Cfr. la lettera a· Elena! del 24 dicembre 1539: «Impara dunque meglio, e fatti più erudita che possi, perché non potrai aver parte in te più bella di questa. Del cuèire mi• piace,- e credolo, però che sei in cura di Mnd. Laura, che-è- la più valente maestra in questa arte, che abbia· cotesta città e· ogni altra». z. Lisabetta· Quirina: cfr. la nota 2, a p. 458. I.

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PIETRO BEMBO

che io ho da rendervi molte grazie, avendo voi pensato a quello in utilità e profitto mio, a che io medesimo pensato non avea; ché non m'era nell'animo venuto che la mia istoria dovesse essere volgare fatta giamai. E ora certo sono che cosi appunto le avenirebbe, come voi dite. Ma che vi posso, o pure vi debbo io promettere sopra ciò, che ho le cose volgari lasciate in tutto da parte ? Oltra che non m'avanza tempo da spendere in altro, che in attendere a fare il debito mio con questa Santa Sede e con N. S. Dio, come Cardinale e come Vescovo. Questo di altra vita, altri costumi si ricerca. Ma tuttavia, per non mancare in ogni parte del vostro ricordo a me stesso, m'è venuto nell'animo di trovare alcuno mio amico atto a ciò, e pregarlo a fare in mia vece questa fatica, e cosi col vostro avertimento darò al mio bisogno riparo. 1 State sana, e seguite in giovare agli amici vostri col vostro fertile e pellegrino ingegno.

A' 7 di fehraio z544-. Di Ogobbio. [LIV] A TORQUATO BEMBO 2

A me avanza poco che risponderti altro che lodarti, se fai quello, che mi scrivi di fare. Il che farei volentieri, se io fossi certo che cosi fosse. Ma tanto tempo è che mi dai perpetue cagioni di dolermi del tuo poco ardente animo alli studii, che ancora che M. Felice 3 mi scriva in consonanzia delle tue lettere, io poco ardisco di credere né a te, né a lui. So che ogni picciola occasione di sviarti 1. Ma tuttavia ..• riparo: il 15 marzo il Bembo scriveva a Girolamo Quirini: cc L'avviso della mia valorosa Mad. Lisabetta m'è stato sl caro che ho già incominciato a far volgare il principio della mia Historia, e seguirò mentre averò ozio e tempo. Ma per ciò che conosco, come io sia da potermi essercitare, e la mia podagra non mi tenga impedito, io non potrò aver tempo d'attendere a ciò, ho diliberato di sostituire altri in mio luogo. E questi sarà M. Carlo nostro [il Gualteruzzi], che per sollevarmi anco di questa fatica come fa tutto dì di molte altre, ha tolta l'impresa volentieri, e la potrà e saperà ben fare n. Ma poi trovò il tempo e le forze per portare a termine egli stesso il volgarizzamento. Le P. BEMBI Historiae venetae libri XII saranno stampate la prima volta a Venezia dai figli di Aldo nel 1551; il volgarizzamento da G. Scotto nel 1552, sempre a Venezia. In Opere 1729, I, i testi latino e volgare sono stampati a fronte. 2,. Torquato Bembo: cfr. la nota 2, a p. 459. 3. Felice Albano, il nuovo maestro di Torquato.

LETTERE

dallo studio è sempre subito da te presa per grande e che in nessuna cosa sei più constante, che in esser debole allo apprender virtù e dottrina, la qual cosa non è opera di generoso cuore, come vorrei che fosse il tuo. E so anco, se inganni me, tu inganni molto più te stesso. Questo dico, perché sarebbe ufficio tuo studiar di modo, che il tuo maestro ti riprendesse della troppa diligenzia, e alle volte cercasse di levarti dai libri; il che son certo che esso non faccia giamai, né tema della tua sanità per questo. Ma alla fine se tu non t'invaghirai e accenderai da te stesso a non voler rimanere ignorante, il danno sarà il tuo. Se io avessi dormir voluto tutti i miei sonni, quando io era della tua età, potresti tu ora giustamente riprendermi, come io te posso, e non puoi tu me. 1 Sta sano, e salutami il Signor Cavalier Albano, e rendigli molte grazie dell'amore, che Sua Signoria ti porta.

A' 25 di settembre I546. Di Roma.

I. Il Bembo era molto preoccupato per l'educazione e l'istruzione del figlio, che si mostrava svogliato e non sembrava trarre profitto dagli studi. Il 13 luglio 1542 gli aveva scritto: «Torquato, tu sai quanta cura e diligenzia ho posta insieme con molta spesa per darti modo e commodità che apparasti buone lettere e ti facessi erudito e dotto, sapendo io quanto le lettere illustrano chi le possiede, e sono scala più agevole che altro a pervenire ad ogni avere e grandezza. E sai che mai non ho disiderato da te altro che questo: e sperava che tu me ne facessi lieto e contento, conoscendo in te essere un bello e vivo ingegno. Ora quanto mi sia giovata cotal diligenzia, dico in non avere risparmiato dalli tuoi primi teneri anni insino a questo dì nessuna mia fatica e opera e facultà a questo fine, tu il sai; il quale essendo già entrato neWanno diciottesimo della tua età non sai pure ancora scrivere una sola epistola latina, ma pure una lettera volgare che bene stia. Di che io rimango molto mal contento di te: massimamente sentendo che oltre alla poca voglia che hai di farti dotto e d'essermi in ciò figliuolo amorevole e grato, hai preso a volerti dare alli vizii più tosto che alle virtù, e ad essere assai scapestrato e di tua voglia in tali cose». E, come in una lettera a Flaminio Tomarozzo del 29 giugno, minacciava di diseredarlo; quindi aggiungeva il poscritto: « Ti ricordo ancora che ti guardi d'andarti rimescolando con le femine, che agevolmente si concedono a denari, alla qual cosa intendo che hai cominciato a dare opera; per ciò che assai tosto potrai pigliare un mal francese che farà la tua vita o corta o sempre tormentata».

SPERONE SPERONI

NOTA INTRODUTTIVA

I.

« [ ••• ] Dico che il fondamento de lo scriver bene giudico esser

il sapere; a la quale impresa chiamo tutti quelli cui sommo studio è di farsi eloquenti. Così piacesse a Dio che a me fosse stato lecito spender tutta la mia vita in questo nobile essercitamento, da cui sempre fui rimosso per colpa di quelle occasioni che, quasi contrarie onde, ebbero forza di risospigner il mio ardente disio, a questa laude pur troppo inclinato. A la quale mi invitava anco la pietosa cura di mio padre, come quello che, letterato essendo e medico, giudicò niuna infirmità esser ne l'uomo maggiore e più pestifera de l'ignoranza. Egli adonque procurò ch'io fanciullino apparassi quelle lettere di cui si costuma formar l'età puerile; né cessò di chiamarmi sì per tempo a la filosofia, madre e moderatrice degli animi nostri, che !'insegne del dottorato, quasi fanciullo, prender mi fece; e in uno tempo istesso a leggerla nel nostro Studio mi diedi, se non con molta isperienza, almeno con pronto e valoroso core. Ma ecco la cura fa1nigliare, nemica d'ogni animo filosofico, quasi scoglio, opporsi al mio camino e contra mia voglia risospignermi al lido de la vita civile; ove e per occasione di me stesso e delle mie fortune, e a bisogne degli amici, mi fu forza, quando in Vinezia, quando nella mia patria, parlando, ora consigliar sopra il ben commune, ora favellar ne le private cause di color cui grandemente amo. Da le quali occasioni, quasi for di speranza e d'opinion mia, mi venne fatto onde nome d'oratore venissi a conseguire. l\1a lasciando il parlar di me medesimo e ragionando di quello che voi da me ricercate, dico che, volendo uno scrivere e parlar gentilmente, dee questo tale procurar con la dottrina fondar l'edificio del suo intelletto e quello alzar da terra con l'aiuto de le buone arti; poscia polirlo con ogni maniera d'ornamento oratorio; il che facendo, questo tale arrà un palagio sì fattamente nobile e adorno che, essendo d'animo ben composto e di temperati disii, poco avrà da invidiare a le stanze dei re o a le fortune dei prenc1p1 ». Queste parole che Bernardino Tomitano - certo rispecchiandone la reale conversazione - fa pronunciare allo Speroni nel terzo dei Quattro libri della lingua toscana meritano di essere citate qui, in limine, perché mostrano come lo Speroni stesso interpretasse

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SPERONE SPERONI

la propria formaz•ione alla· luce di un concetto di eloquenza ben diverso da quello propugnato dal Bembo, che pure era un maestro acclamato in Padova proprio negli anni in cui egli veniva riconoscendo la propria vocazione di studioso. Sulla sua giovinezza, del resto, poco c'è da aggiungere a "quanto risulta da questo passo. Nato a Padova il 12 aprile 1500 da Bernardino, medico di buona fama e docente nello Studio, e da Lucia Contarini, il 10 giugno 1518 nella sua città si laureò in artibus e fu accolto nel Sacrò Collegio degli Artisti e Medici.« Nell'anno[...] della salute 1520» scriverà egli stesso nell'Apologia dei. dialogi «qual fu ventesimo di mia vita, la lettura della ordinaria di logica nello Studio della mia patria al primo luogo fu il mio primo negozio». Nel novembre del I 523 la Signoria di Venezia, evidentemente soddisfatta del suo operato, gli offrì di tenere «una lettura extraordinaria in medicina over filosofia, qual più li piacerà di exercitar cum salario de cento fiorini a l'anno», e poi lo propose « ad secundum locum extraordinarie ·-philosophie ». Ma il giovane studioso era troppo serio per ritenersi pago di una facile carriera universitaria: « nel corso ancora della mia giovane etate» confesserà nel discorso II Del modo di studiare «sopra preso da una certa ambizion puerile di parer esser giunto per te~npo, ove ben tardi mi contenterei arrivare, innanzì fui sforzato insegnare che io avessi imparato». Di questa « ambizion puerile», però, si liberò presto e, invece di accettare il nuovo incarico, si trasferì a Bologna, dove alla scuola del Pomponazzi formò la propria mentalità di studioso. Tornato a Padova dopo la morte del maestro (1525), ottenne la cattedra straordinaria di filosofia «secundo loco» e fino al 1528 il suo negozio - com'egli dice nell'Apologia dei dialogi - «fu legger sempre e filosofare alla maniera peripatetica intorno al cielo e alli elementi, intorno a l'anima e ai principii della natura». Ed è significativo che nel 1525, proprio quando egli riprendeva l'insegnamento, il Bembo in una lettera del 6 ottobre al Ramusio protestasse vivacemente perché a Giovanni Montesdoch i Riformatori dello Studio avevano preferito Marcantonio Zimara, detto l'Otranto; il quale Otranto, scriveva, «è già da ora tanto in odio di questi scolari tutti dall'un capo all'altro, che se ne ridono con isdegno. Per ciò che dicono che ha dottrina tutta barbara e confusa, e è semplice ~verroista; il quale autore a questi dì assai si lascia da parte dai buoni dottori e attendesi alle sposizioni de' comn1enti greci e a far

NOTA INTRODUTTIVA

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progresso ne' testi. E ·costui pare che sia tutto barbaro e pieno di quella feccia di dottrina, che ora si fugge come la mala ventura». Parole che, mutatis mutandis, il Bembo - tanto insofferente della dottrina espressa senza eleganza da rinunciare alla laurea, pur di non doversi impegnare nello studio della filosofia aristotelicoaverroistica - avrebbe potuto usare anche per il giovane Speroni, che non avrà certo fatto mistero della propria indifferenza per la filologia testuale e dell'incondizionata ammirazione per il Pomponazzi: indifferenza e ammirazione che resteranno tratti tipici di tutta la sua varia attività letteraria. Per la morte del padre ( 1528) dovette abbandonare gli studi disinteressati. Lasciò l'insegnamento e si dedicò alle faccende domestiche, che gli procurarono innumerevoli amarezze e fastidi. L'attaccamento alla casa però, malgrado i continui lamenti, era allora, e sarà sempre, tenacissimo in lui, che del resto nel discorso I Del modo di studiare avrebbe sostenuto che •; SPERONI, Dialogo della istoria, qui a p. 764. Tale fama si estese oltre i confini d'Italia. Il 12 dicembre 1579 Pierre Dupuy scriveva a Gian Vincenzo Pinclli: • la limosine est la plus rude et grossière de toutes les dialectes de ceste langue, comrne vous diriez la bergamasquc cn Italie,,; e ancora il 1 marzo 1585: ala langue limosine [ ...] est une chimère, et ne pense point qu'on aie jamais escrit en ceste dialecte, laquelle est aussi grossière et inepte entre les dialectes de la langue gasconne, que la bergamasquc en ltalie » (citato da V. CRF.SCINI, Lettere di J. Corbinelli, in GSLI, II, 1883, p. 306). 1. alle quali . .. proferire: in C: u alle quali parole non se ne proferirebbe una simile volgare nella Corte di Roma senza grandissime risa degli ascoltanti». 2. Allude alla mitica gara musicale fra Apollo e Pan, che suonavano rispettivamente la cetra e la zampogna (calami, ca111rae, dice Ovidio); come giudice fu scelto il Tmolo, che sentenziò in favore di Apollo. Tutti approvarono questo verdetto, tranne Mida, a cui per punizione Apollo fece crescere le orecchie d'asino: cfr. Ov1010, Metam., XI, 146-193. 3. volgari: in C: • non pur del Petrarca ma d'altri moderni di minor prezzo•·

DIALOGO DELLE LINGUE

vole. Ma il numero e l'armonia dell'orazione e del verso latino non è altro che artificiosa disposizione di parole, dalle cui sillabe, secondo la brevità e la lunghezza di quelle, nascono alcuni numeri, che noi altri chiamiamo piedi; onde misuratamente camina dal principio alla fine il verso e l'orazione. E sono di diverse maniere questi tai piedi, facendo i lor passi lunghi e corti, tardi e veloci, ciascheduno al suo modo, e è bell'arte quelli insieme adunare si fattamente che non discordino fra sé stessi, ma l'uno all'altro e tutti insieme siano conformi al soggetto; peroché d'alcune materie alcuni piedi sono quasi peculiari, e fra lor piedi quali meglio, quali peggio s'accompagnano al loro viaggio, e qualunche persona quelli a caso congiugne, non avendo riguardo né alla natura di quelli né alle cose di che intende di ragionare, i versi e l'orazioni sue nascono zoppe, e non dovrebbe nutrirgli. E di questa cotal melodia non ne sono capaci gl'orecchi del vulgo, né lei altresl possono formare le voci della lingua volgare, la cui prosa io non so dire per qual ragione sia numerosa chiamata, se l'uomo in lei o non s'accorge o non cura né di spondei né di dattili né di trochei né d'anapesti e finalmente di niuna maniera di piedi, onde si move l'orazione ben regolata. Veramente questa nuova bestia di prosa volgare o è senza piedi e sdrucciola a guisa di biscia o ha quelli di specie diversa molto dalla greca e dalla latina; e per conseguente di così fatto animale, come di mostro a caso creato oltra il costume e l'intenzione d'ogni buono intelletto, non si dovrebbe fare né arte né scienzia. I versi veramente, in quanto son fatti d'undici sillabe, non paiono in tutto privi di piedi, ché le sillabe in loro hanno luogo e officio di piedi ; ma in quanto quelle cotali possono esser lunghe e brevi a lor voglia, mai non dirò che sia diritto il lor calle, salvo se l\llonsignor non dicesse le rime esser l'appoggio de' versi, che gli sostengono e fanno andare dirittamente. La qualcosa non mi par vera, peroché, per quello ch'io n'oda dire, le rime sono più tosto come catena al sonetto e alla canzone che piedi o mani di versi loro. E tanto voglio che ne sia detto da me, brevemente certo per rispetto a quello che se ne può ragionare, ma a bastanza, se alla vostra richiesta, e troppo forse, se alla presenza di" lVIonsignore si riguarderà, il quale meglio di me 1 conosce e può nu-. merare i difetti di questa lingua. 1. meglio di me: in C: • molto meglio di niun altro •· Ma il BEMBO nel secondo libro delle Prose della volgar lingua aveva già mostrato che il volgare è

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SPERONE SPERONI

Questa cosa di numeri come si stia e se così la prosa come il verso toscano n'ha la sua parte e in che modo la si abbia, per essere assai facile da vedere ma lontana dal nostro proponimento, ora con esso voi non intendo di disputarla; anzi confessando quello esser vero, che ne diceste, non tanto perché sia vero quanto perché si veda ciò che ne segue, 1 io vi dico questa lingua moderna, tutto che sia attempatctta che no, esser però ancora assai picciola e sottile verga, la quale non ha appieno fiorito, non che frutti produtti che ella può fare : certo non per difetto della natura di lei, essendo così atta a generar come le altre, ma per colpa di loro che l'ebbero in guardia, che non la coltivorno a bastanza, ma a guisa di pianta selvaggia, in quel medesimo deserto ove per sé a nascere cominciò, senza mai né adacquarla né potarla né difenderla dai pruni che le fanno ombra, l'hanno lasciata invecchiare e quasi morire. 2 E se que' primi antichi Romani fossero stati sì negligenti in coltivare la latina quando a pullular3 cominciò, per certo in si poco tempo non sarebbe divenuta si grande; ma essi, a guisa di ottimi agricoltori, lei primieramente tramutarono da luogo selvaggio a domestico; poi, perché e più tosto e più belli e maggior frutti facesse, levandole via d'attorno le inutili frasche, in loro scambio l'innestarono d'alcuni ramuscelli maestrevolmente detratti dalla greca ;4 li quali subiBEM.

pur esso capace di numero e armonia, nascenti da artificiosa disposizione di parole. 1. Questa ••. ne segue: il Bembo, dunque, non manifesta la propria opinione, ma vuol mostrare le assurde conseguenze a cui porterebbero le affermazioni di Lazzaro; donde la conclusione: « queste poche parole dette da me contra la lingua latina per la volgare non dissi per vero dire; solo volsi mostrare ... »: insomma gli argomenti del Bonamico in difesa del latino sono controproducenti. Ma questo niente toglie al vigore di questa pagina, specialmente nella parte finale dove sembra quasi di leggere l'amaro esame di coscienza di un ciceroniano; essa pertanto ebbe grande influenza sui trattatisti successivi (sul Borghini, per esempio) e offrì più d'uno spunto - così almeno mi pare - al Ragioname11to sopra le difficultà del mettere in regole la nostra ling11a del GELLI. 2. io vi dico .•• morire: cfr. Du BELLAY, pp. 24-5: «Ainsi puys-je dire de nostre Langue, qui commence encores à fleurir sans fructifier, ou plus tost, comme une piante et vergette, n'a point encores fleury, tant se fault qu'elle ait apporté tout le fruict qu'elle pouroit bien produyre. Cela, certainement, non pour le default de la nature d'elle, aussi apte à engendrer que les autres: mais pour la coulpe de ceux qui l'ont eue en garde, et ne l'ont cultivée à suffisance, ains commc une plante sauvaige, en celuy mesmes desert ou elle avoit commencé à naitre, sans jamais l'arrouser, la tailler, ny defendre des ronccs et epines qui luy faisoint umbre, l'ont laissée envieillir et quasi mourir». 3. pullular: germogliare. 4. dal-

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tamente in guisa le s'appiccarono 1 e in guisa si ferno simili al tronco, che oggimai non paiono rami adottivi ma naturali. Quindi nacquero in lei que' fiori e que' frutti sl coloriti dell'eloquenzia, con quel numero e con quell'ordine istesso il quale tanto essaltate; li quali, non tanto per sua natura quanto d'altrui artificio aiutata, suol produrre ogni lingua. 2 Peroché 'l numero, nato per magistero di Trasimaco, di Gorgia, di Teodoro, Isocrate finalmente fece perfetto. 3 Dunque se greci e latini uomini, più solleciti alla coltura della lor lingua che noi non semo alla nostra, non trovarono in quelle, se non dopo alcun tempo e dopo molta fatica, né leggiadria né numero, già non de' parer meraviglia, se noi ancora non n'avemo tanto che basti nella volgare; né quindi de' prender uomo argumento a sprezzarla come vii cosa e da poco. 4 Oh, la latina è

la greca: in C: 11 dalla pianta d'Atene n. 1. s'appiccarono: attecchirono. 2. suol produrre ogni li11gua: in C: « produsse la greca medesma 11. Cfr. Du BELLAY, pp. 25-6: 11Que si les anciens Romains eussent eté aussi negligcns à la culture de leur Langue, quand premierement elle commenca à pululer, pour certain en si peu de tens elle ne feust devenue si grande. Mais eux, en guise de bons agriculteurs, ront premierement transmuée d'un lieu sauvaige en un domestique: puis affin que plus tost et mieux elle peust fructificr, coupant à l'entour les inutiles rameau."'(, l'ont pour cchange d'iceux restauréc de rameau.x francz et domestiques, magistralement tirez de la Langue Grcque, Ics quelz soudainement se sont si bien entez et faiz semblables à leur tronc, que desormais n'apparoissent plus adoptifz, mais naturelz. Dc la sont nées en la Langue Latine ces fleurs, et ces fruictz colorez de cetc grande eloquence, avecques ces nombres et cete lyaison si artificielle, toutes les quelles choses, non tant de sa propre nature que par artifice, toute Langue a coutume de produyre». 3. Cfr. CICERONE, Brut., VII-VIII, dove si afferma che Isocrate a primus intellexit etiam in soluta oratione, dum vcrsum effugeres, modum tamen et numerum quendam oporterc servari », mentre prima di lui « verborum quasi structura et quacdam ad numcrum conclusio nulla erat ». Isocrate (436-338) fu, dunque, il fondatore della prosa d'arte. Fra coloro che prima di lui studiarono l'arte del dire Cicerone nomina i sofisti Gorgia di Leontini, Trasimaco di Calcedonia, Protagora di Abdcra, Prodico di Ceo e Ippia di Elide. Teodoro di Bisanzio invece è ricordato nel Bmtus, xn, 48, ncll'Orator, xn, 39, e poi da QUINTILIANO (111st. orat., 111, i, 8-13), che riprende e integra l'excurslls storico del Brutus. Cfr. anche PLATONE, Phaedr., 51; ARISTOTELE, Soph. El., 183 b. Gorgia, Protagora e lppia sono i protagonisti degli omonimi dialoghi di PLATONE; Trasimaco ha molta parte nel primo libro della Repubblica. 4. Dunque .•• poco: cfr. Du BELLAY, pp. 26-7: «Donques si les Grecz et Romains, plus diligens à la culture de leurs Langues que nous à celle de la nostre, n'ont pcu trouver en icelles, si non avecques grand labeur et industrie, ny grace, ny nombre, ny finablement aucune eloquence, nous devons nous emerveiller si nostre vulgaire n'est si riche comme il pourra bien estre, et de la prendre occasion de le mepriser comme chose vile et de petit prix? n. 39

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migliore d'assai! Oh, quanto sarebbe meglio dir fu e non è, ma sia stata per lo passato e sia ancor tuttavia si gentil cosal Tempo forse verrà che d'altra tanta eccellenzia fia la volgare dotata; ché, se per essere a' nostri giorni di niuno stato e men gradita, non si dovesse apprezzare, la greca, la quale era già grande sul nascimento della latina, ne' nostri animi non dovea lasciar fermare le radici d'un'altra lingua novella; e altrettanto direi della greca, per rispetto alla ebrea: 1 concluderebbesi finalmente dalle vostre premisse dover essere al mondo sola una lingua, e non più, onde scrivessero e parlassero li mortali; e avverrebbe che ove voi credereste d'argumentar solamente contra la lingua toscana, e quella con vostre ragioni estirpare del mondo, voi parlareste eziandio contra la latina e la greca. Benché questa pugna si estenderebbe non solamente contra i linguaggi del mondo, ma contra Dio, il quale ab eterno diede per legge immutabile ad ogni cosa criata non durare eternan1ente, ma di continuo d'uno in altro stato mutarsi, ora avanzando e ora diminuendo, finché finisca una volta, per mai più poscia non rinovarsi. Voi mi direte: troppo indugia oggimai la perfezzione della lingua materna; e io vi dico che cosi è come dite; ma tale indugio non dee far credere altrui esser cosa impossibile che ella divenga perfetta; anzi vi può far certo lei doversi lungo tempo godere la sua perfezzione, qualora egli avverrà ch'ella se l'abbia acquistata. Ché cosi vuol la natura, la quale ha diliberato che qual arbor tosto nasce, fiorisce e fa frutto, tale tosto invecchie e si muoia; e in contrario che quello duri per molti anni, il quale lunga stagione arà penato a far fronde. 2 Sarà adunque la nostra lingua, in conservarsi la sua dovuta perfezzione lungamente disiI. ne' nostri • • . ebrea: in C : • non dovea in quel tempo negli animi delle persone lasciar d'altrui lingua radice, e altretanto si poria dir della greca per rispetto alla egiptia o alla ebrea». Cfr. BEMBO, Prose della volgar lingua, I, v, a p. 63. 2.Benché ••• fronde: cfr. Du BELLAY, pp. 56-7: •car telle injure ne s'etendroit seulement contre les espris des hommes, mais contre Dieu, qui a donné pour loy inviolable à toute chose crée de ne durer perpetuellement, mais passer sans fin d'un etat en l'autre, etant la fin et corruption de l'un, le commencement et generation de l'autre. Quelque opiniatre repliquera encores: Ta Langue tarde trop à recevoir ceste perfection. Et je dy que ce retardement ne prouve point qu'clle ne puisse la recevoir: aincoys je dy qu'elle se poura tenir certaine de la garder longuement l'ayant acquise avecques si longue peine, suyvant la loy de Nature, qui a voulu que tout arbre qui naist, fforist et fructifie bien tost, bien tost aussi cnvieillisse et meure: et au contraire, celuy durer par longues années, qui a longuement travaillé à jeter ses racines ».

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derata e cercata, simile forse ad alcuni ingegni, li quali, quanto men facilmente apprendono le dottrine, tanto difficilmente le si lasciano uscire della memoria. Oh, ella è testimonio della nostra vergogna, essendo venuta in Italia insieme con la roina di leil Più tosto ella è testimonio della nostra solerzia e del nostro buono ardimento; ché, cosi come, venendo Enea da Troia in Italia, ad onor si recb lasciare scritto in un certo trofeo drizzato da lui, quelle essere state l'armi de' vincitori della sua patria; 1 cosi vergogna non ci pub essere l'aver cosa in Italia tolta di mano a coloro che noi tolsero di libertà. Direi, finalmente, quando esser volessi maligno, più tosto doversi adorar dalle genti il sole oriente che l'occidente. La lingua greca e latina già esser giunte ali'occaso, né quelle esser più lingue, ma carta solamente e inchiostro, ove quanto sia difficile cosa l'imparare a parlare, ditelo voi per me, che non osate dir cosa latinamente con altre parole che con quelle di Cicerone. Onde, quanto parlate e scrivete latino non è altro che Cicerone trasposto più tosto da carta a carta che da materia a materia ;2 benché questo non è si vostro peccato che egli non sia anche mio e d'altri assai e maggiori e migliori di me; peccato perb non indegno di scusa, non possendo farsi altramente. Ma queste poche parole dette da me contra la lingua latina per la volgare non dissi per vero dire; solo volsi mostrare quanto bene difenderebbe questa lingua novella, chi per lei far volesse difesa, quando a lei non manca né core né armi d'offendere l'altrui. · CoRTEG. Parmi, Monsignor, che cosl temiate di dir male della lingua latina, come se ella fosse la lingua del vostro Santo da Padova ;3 alla quale è di tanto conforme che, come quella fu di persona già viva, la cui santità è cagione che ora, posta in un tabernacolo di cristallo, sia dalle genti adorata, così questa degna reliquia del capo del mondo Roma, guasto e corrotto già molto tempo, I. Enea ... patria: cfr. VIRGILIO, Aen., III, 286-8: « aere cavo clipeum, magni gestamen Abantis, / postibus adversis fìgo et rem carmine signo: / AENEAS HAEC DE DANAIS VICTORIBUS ARMA». 2, non è ... materia: in C: « non è diverso da lui medesmo se non per diversità di materie, o per un poco di difercnzin di sito e di loco delle parole di lui». 3. la lingua ..• Padova: in C: « la lingua di S. Antonio da Padova». Ancor oggi nella Basilica del Santo - cosl è chiamato per antonomasia sant'Antonio, che in verità nacque a Lisbona, anche se svolse la sua principale attività a Padova (mori nel 123 I) - esistono i notevoli reliquari della « lingua incorrotta di S. Antonio», quello antico opera in argento dorato del secolo XIII, il più recente di Giuliano di Giovanni (1436).

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quantunque oggimai fredda e secca si taccia, nondimeno fatta idolo d'alcune poche e superstiziose persone, colui da loro non è cristiano tenuto, che non l'adora per dio. 1 Ma adoratela a vostro senno, solo che non parliate con esso lei; e volendo tenerla in bocca, cosi morta come è, siavi lecito di poterlo fare; ma parlate tra voi dotti le vostre morte latine parole, e a noi idioti le nostre vive volgari, con la lingua che Dio ci diede, lasciate in pace parlare. 2 BEM. Dovevate, per agguagliarla compitamente alla lingua di qualche santo, soggiungere qualmente !'orazioni di Cicerone e i versi di Virgilio le sono degni e preziosissimi tabernacoli; onde lei come cosa beata riveriamo e inchiniamo. Ma per certo né l'una né l'altra non meritava che la teneste per morta, operando tutt'ora ne' corpi nostri e nell'anime quella salute, questa virtute. Con tutto ciò lodo sommamente la nostra lingua volgare, cioè toscana; accioché non sia alcuno che intenda della volgare di tutta Italia: toscana dico, non la moderna che usa il vulgo oggidì, ma l'antica, onde sl dolcemente parlorno il Petrarca e il Boccaccio; ché la lingua di Dante sente bene e spesso più del lombardo che del toscano; e ove è toscano, è più tosto toscano di contado che di città. 3 Dunque di quella parlo, quella lodo, quella vi persuado apparare; quantunque ella non sia giunta alla sua vera perfezzione, ella nondimeno le è già venuta si presso che poco tempo vi è a volgere: ove poi che arrivata sarà, non dubito punto che, quale è nella greca e nella latina, tale fia in lei virtù di far vivere altrui mirabilmente dopo la morte. E allora si le vedremo noi fare di molti, non tabernacoli, ma tempii e altari, alla cui visitazione concorrerà da tutte le parti

I. alla quale ... dio: facile gioco di parole sulla comunissima designazione di Roma come caput mundi (già ricordata, con insofferenza, dal Cortegiano: cfr. p. 604); ma forse non è del tutto innocente l'accostamento fra la lingua, reliquia del Santo, e la lingua latina, reliquia del capo del mondo Roma: dicendo che non è considerato cristiano chi noti l'adora per dio il Cortegiano non alluderà all'obbligo di usare sempre il latino nella liturgia e al divieto di tradurre in volgare i testi sacri? 2. Ma adoratela .•. parlare: Lazzaro, e chi come lui oppugnava il volgare, voleva proprio questo: che il latino fosse riservato ai dotti e che gli idioti usassero solamente il volgare. Nelle parole del Cortegiano, però, c'è una forte ironia, che implicitamente pone in discussione anche la cultura che può esprimersi in quella lingua decrepita. 3. Il giudizio del Bembo su Dante è qui radicalizzato e un po' deformato; ma forse a voce il letterato veneziano giudicava Dante più duramente che nelle Prote della volgar li11gua: cfr. la lettera dello Speroni a Felice Paciotto del 19 maggio 1581 (qui a p. 846).

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del mondo brigata di spiriti pellegrini, che le faranno lor voti e saranno esauditi da lei. ConTEG. Dunque, se io vorrò bene scrivere volgarmente, converrami tornare a nascer toscano? BEM. Nascer no, ma studiar toscano; ché egli è meglio per aventura nascer lombardo che fiorentino, peroché l'uso del parlar tosco oggidi è tanto contrario alle regole della buona toscana, che più noce altrui l'esser natio di quella provincia, che non gli giova. CoRTEG. Dunque, una persona medesma non può esser tosca per natura e per arte ? BEM. Difficilmente per certo; essendo l'usanza, che per lunghezza di tempo è quasi convertita in natura, diversa in tutto dall'arte. Onde, come chi è giudeo o eretico, rade volte diviene buon cristiano, e più crede in Cristo chi nulla credeva quando fu battezzato; così qualunche non è nato toscano può meglio imparare la buona lingua toscana, che colui non fa, il quale da fanciullo in su sempremai parlò perversamente toscano. 1 CoRTEG. Io, che mai non nacqui né studiai toscano, male posso rispondere alle vostre parole; nondimeno a me pare che più si convenga col vostro Boccaccio il parlar fiorentino moderno, che non fa il bergamasco. Onde egli potrebbe esser molto bene che uomo nato in ì\!Ielano, senza aver mai parlato alla maniera lombarda, meglio apprendesse le regole della buona lingua toscana, che non farebbe il fiorentino per patria; ma che egli nasca e parie lombardo oggidì e diman da mattina parie e scriva regolatamente toscano meglio e più facilmente del toscano medesimo, non mi può entrare nel capo; altramente al tempo antico, per bene parlare greco e latino, sarebbe stato meglio nascere spagnolo che romano, e macedone che ateniese. BEM. Questo no, perché la lingua greca e latina a lor tempo erano egualmente in ogni persona pure e non contaminate dalla barbarie dcll'altre lingue, e così bene si parlava dal popolo per le piazze come tra' dotti nelle lor scole si ragionava. Onde egli si legge di Teofrasto, che fu l'un de' lumi della greca eloquenzia, essendo in Atene, alle parole 2 essere stato giudicato forestiere da una povera feminetta di contado. 1. Nascer • .• toscano: cfr. BEMBO, Prose della volgar lit1gua, I, xvi, a p. 99. 2. alle parole: in C: «aJla voce». L'aneddoto famoso, raccontato da CICERONE nel Brutus, XLVI, 172 («cwn percontaretur ex anicula quadam quanti

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CoRTEG. lo per me non so come si stia questa cosa; ma sl vi dico che, dovendo studiare in apprendere alcuna lingua, più tosto voglio imparar la latina e la greca che la volgar; la quale mi contento d'aver portato con esso meco dalla cuna e dalle fasce, senza cercarla altramente, quando tra le prose, quando tra' versi degli auttori toscani. BEM. Così facendo, voi scriverete e parlarete a caso, non per ragione; peroché niuna altra lingua ben regolata ha l'Italia, se non quell'una di cui vi parlo. 1 CoRTEG. Almeno dirò quello che io averò in core; e lo studio che io porrei in infilzar parolette di questo e di quello, sl lo porrò aliquid venderet et respondisset illa atque addidisset "hospes, non pote minoris", [dicitur] tulisse eum moleste se non effugere hospitis speciem, cum aetatem ageret Athenis optimeque loqueretur omnium») e poi da QuINTILlA&~O (lntt. orat., vur, i, 2), divenne uno dei luoghi comuni delle discussioni linguistiche, ma con un'interpretazione diversa da quella che qui ne dà il Bembo, che l'allega per mostrare che una povera Jeminetta di contado possedeva bene la lingua. L'aneddoto sembrava piuttosto mostrare (e a questo scopo l'aveva allegato Cicerone) che un forestiero, per quanti sforzi faccia (Teofrasto parlava divinamente, come testimonia il nome datogli da Aristotele), non riesce a spogliarsi del suo accento originario; pertanto i toscani ne deducevano la necessità d'imparare la lingua naturalmente e non dai libri, e i non toscani l'inopportunità d'un'imitazione stretta del toscano; cosi, per esempio, l'EQUICOLA nella redazione ms. del Libro de natura de Amore (Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, ms. N. 111.10, cc. 3v.-4: il passo è compreso nel tomo II di questi Trattatisti) e il CASTIGLIONE, Cortegiano, 1, 2: « né credo che mi si debba imputare per errore lo aver eletto di farmi più tosto conoscere per lombardo parlando lombardo, che per non toscano parlando troppo toscano; per non fare come Teofrasto, il qual, per parlare troppo ateniese, fu da una simplice vecchiarella conosciuto per non ateniese». 1. Io . .. vi parlo: il Cortegiano ha ben espresso, al di qua di considerazioni teoriche, quella che era una situazione reale: stante il principio d'imitazione, imparare il toscano o fiorentino comportava uno sforzo pari a quello necessario per imparare il latino. Abbandonare il proprio dialetto per accostarsi a culture nobilissime come quella greca e quella latina, sembrava ragionevole; per adottare un altro dialetto, per quanto illustrato da scrittori, no. Che poi fra le lingue d'Italia la toscana sola sia ben regolata è affermazione troppo secca, in cui si compendia il ben più articolato passo delle Prote della volgar lingua (1, xv, a pp. 96-9), in cui Carlo Bembo mostra che solo il fiorentino è degno d'essere usato nelle opere letterarie. Ma anche questo nuovo irrigidimento del pensiero bembesco serve a meglio puntualizzare le due concezioni del linguaggio che qui si contrappongono: retorica, quella del Bembo; strumentale, quella del Cortegiano, preoccupato esclusivamente di esprimere quel che sente e portato a valorizzare il contenuto piuttosto che la forma. La vita delle scritture, come dice subito dopo, deriva dai concetti dell'animo non dall'infilzar parolette di questo e di quello (dove infilzar indica la fatica e il fastidio di riunire insieme, una dopo l'altra, le parole degli autori).

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in trovare e disporre i concetti dell'animo mio, onde si deriva la vita della scrittura; ché male giudico potersi usare da noi altri a significare i nostri concetti quella lingua, tosca o latina che ella si sia, la quale impariamo e essercitiamo non ragionando tra noi i nostri accidenti, ma leggendo gli altrui. Questo a' di nostri chiara-mente si vede in un giovane padovano di nobilissimo ingegno, il quale, benché talora I con molto studio che egli vi mette, alcuna cosa componga alla maniera del Petrarca e sia lodato dalle persone, nondimeno non sono da pareggiare i sonetti e le canzon di lui alle sue comedie, le quali nella sua lingua natia naturalmente e da niuna arte aiutate par che e' gli eschino della bocca.z Non dico però che uomo scriva né padovano né bergamasco, ma voglio bene che di tutte le lingue d'Italia possiamo accogliere parole e alcun modo di dire, quello usando come a noi piace, sl fattamente che 'l nome non si discordi dal verbo, né l'adiettivo dal sostantivo: la qual regola di parlare si può imparare in tre giorni, non tra' grammatici nelle scole ma nelle corti co' gentiluomini, non istudiando ma giuocando e ridendo senza alcuna fatica, e con diletto de' discepoli e de' precettori. 3 • Questo •. . benché talora: in C: «Onde mi ricorda aver conosciuto in Padova gli anni passati, e seco avuto amicizia, un giovane di quella città, persona certo di grandissimo ingegno, il quale componeva come dio alla padovana con tanta felicità che, quantunque egli avesse nome Agnolo, nondimeno dalla gente non si chiamava se non Ruzzante, nome a sé posto da lui medesimo nelle comedie, ove era interlocutore. Costui, dunque, benché talora». 2. giovane .•. bocca: di Angelo Beolco, detto il Ruzzante (1502-1542), ci sono pervenute nove canzoni e un sonetto, che si possono leggere nell'edizione delle opere ruzzantiane procurata da L. Zorzi (Torino 1967), del quale si veda anche Canzoni inedite del Ruzante, in •Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», Classe di scienze morali e lettere, cxix (1961), pp. 25-74; ma questa testimonianza consente di supporre un'attività di poeta in lingua più vasta e impegnata. Lo Speroni parla sempre con grande consenso del Ruzzante, che nel 1542 avrebbe dovuto interpretare la Canace (ma per la sua morte la recita non fu effettuata), sostenendo per la prima volta un ruolo tragico. Tra l'altro lo introdusse come interlocutore del Dialogo dell'usura, in cui (nella parte aggiunta al tempo dell'Apologia dei dialogi) vien detto «in gentilezza di far commedie alla rusticana [, ..] senza pare in Italia» (S, 1, p. x14). 3. Non dico .•• precettori: si noti la funzione che ha, nel contesto del discorso del Cortegiano, l'elogio di Ruzzante. Già il Bembo aveva osservato (cfr. p. 600 e la nota 1) che vi è chi trova nel volgare - caso clamoroso il Petrarca - il mezzo per esprimere ciò che sente, mentre non vi riesce in latino. Ora il Cortegiano svolge ulteriormente il discorso, affermando che vi è anche chi, come il Ruzzante, solo nel dialetto trova lo strumento adatto per espri- . mere il meglio di sé. Siamo ancora alla complementarità fra le varie espe- . 1.

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BEM. Bene starebbe, se questa guisa di studio bastasse altrui a far cosa degna di laude e di meraviglia; ma egli sarebbe troppo leggera cosa il farsi eterno per fama, e il numero de' buoni e lodati scrittori in piccol tempo diventerebbe molto maggiore, che egli non è. Bisogna, gentiluomo mio caro, volendo andar per le mani e per le bocche delle persone del mondo, lungo tempo sedersi nella sua camera; e chi, morto in sé stesso, disia di viver nella memoria degli uomini, sudare e agghiacciar più volte, e quando altri mangia e dorme a suo agio, patir fame e vegghiare. 1 CoRTEG. Con tutto ciò non sarebbe facil cosa il divenir glorioso, ove altro bisogna che saper favellare. Che ne dite voi, messer Lazaro ? Io per me son contento, contentandosi Monsignore, che la vostra sentenza ponga fine alle nostre liti. LAZ. Cotesto non farò io, ché io vorrei che i difensori di questa lingua volgare fossero discordi tra loro, acciò che quella, a guisa di regno partito, più agevolmente rovinassero le dissensioni civili. CoRTEG. Dunque, aiutatemi contra all'oppenion di Monsignore, mosso non solamente dall'amor della verità, la quale dovete amare e riverire sopra ogni cosa, ma dall'odio che voi portate a questa lingua volgare, ché, vincendolo, vincerete il miglior difensore della lingua volgare, che abbia oggidi la sua dignità; dal giudicio del quale prende il mondo argumento d'impararla e usarla. LAZ. Combattete pur tra voi due, acciò che con quelle armi medesme, che voi oprate contra la latina e la greca, la vostra lingua volgare si ferisca e si estingua. CORTEG. Monsignore, né a voi sarebbe gloria vincer me, debole combattitore e già stanco nella battaglia dianzi avuta con messer Lazaro, né a me fia vergogna l'essere aiutato d'altrui incontra all'auttorità e dottrina vostra, le quali ambedue insieme mi danno guerra sl fattamente ch'io non conosco qual più. Per che, non rienze linguistiche, non a contrapposizioni polemiche: questo passo ulterio-· re sarà fatto dal Pomponazzi. 1. egli sarebbe • .• veggl,iare: cfr. Du BELLAY, pp. 105-6: « Certaincment ce seroit chose trop facile, et pourtant contemptible, se faire eterncl par renommée, si la felicité de nature donnée mesmes aux plus indoctes etoit suffisante pour faire chose digne de rimmortalité. Qui veut voler par les mains et bouches des hommes, doit longuement demeurer en sa chambre: et qui desire vivre en la memoire de la posterité, doit comme mort en soymesmes suer et trembler maintesfois, et autant que notz poetcs courtizans boyvent, mangent et dorment à leur oyse, endurer de faim, de soif et de longues vigiles ».

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volendo messer Lazaro congiurar con esso meco a difendermi, prego voi, signore Scolare, che con si lungo silenzio e sl attentamente ci avete ascoltati, che, avendo alcuna arme con la quale voi mi possiate aiutare, siate contento di trarla fuori per me; ché, poi che questa pugna non è mortale, potete entrarvi senza paura, accostandovi a quella parte che più vi piace, benché più tosto vi dovete accostare alla mia, ove sete richiesto e ove è gloria l'esser vinto da cosi degno avversario. 1 ScoL. Gentiluomo, io non parlai fin ora, peroché io non sapea che mi dire, non essendo mia professione lo studio delle lingue; ma volentieri ascoltai bramando e sperando pur d'imparare. Dunque, avendo a combattere in difesa d'alcuna vostra sentenza, non vi possendo aiutare, io vi consiglio che senza me combattiate; ché egl' è meglio per voi il combatter solo, che da persona accompagnato, la quale come inesperta dell'armi, cedendo in sul principio della battaglia, vi dia cagione di temere e farvi dare al fuggire. CoRTEG. Con tutto ciò, se mi potete aiutare, che appena credo che sia altramente, 2 sendo stato sì attento al nostro contrasto, aiutatemi, ché io ve ne prego; salvo se non sprezzate tal quistione come vil cosa e di sì poco valore che non degniate di entrare in campo con esso noi. ScoL. Come non degnarei di parlar di materia, di che il Bembo al presente e altra volta il Peretto, mio precettore, insieme con messer Lascari con non minor sapienzia che eleganzia ne ragionò? Troppo mi degnarei, se io sapessi, ma d'ogni cosa io so poco e delle lingue niente; come quello che della greca conosco appena le lettere e della lingua latina tanto solamente imparai quanto bastasse per farmi intendere i libri di filosofia d'Aristotele; li quali, per quello che io n'oda dire da messer Lazaro, non sono latini ma barbari ;3 della I. accosta11dovi . .. avversario: in C: «accostandovi alla parte mia, ove, contastando col maggior omo del mondo, gloria vi fia l'esser vinto per le sue mani» ( 11 con tastando ... mani 11 aggiunto nell'interlinea sopra "non meno glorioso vi serà esser vinto che vincer altrui» non cancellato). 2. che appena ... altramente: in C: «che esser non pò quasi altramente,1 (segue cancellato: 11 poi che voi steste così attento alla nostra disputa»; quest'ultima parola corretta nell'interlinea in «contesa»). 3. li quali ..• barbari: già il PETRARCA nel De suis ipsiw et multorum ignorantia (cfr. l'edizione a cura di P. G. Ricci, in Prose, voi. 7 di questa collana, 1955, p. 744) aveva lamentato che Aristotele, • interpretum rudi tate vel invidia», fosse stato

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volgare non parlo, ché di si fatti linguaggi mai non seppi, né mai curai di sapere, salvo il mio padovano, del quale, dopo il latte della nutrice, mi fu il vulgo maestro. CoRTEG. Pur a voi converrà di parlar, se non altro quello almeno che n' apparaste dal Peretto e dal Lascari, li quali così saviamente (come voi dite) parlarono intorno a questa materia. ScoL. Poche cose, delle infinite che a tal materia partengono, pò imparare in un giorno chi non le ascolta per imparare, pensando che non bisogni impararle. BEM. Ditene almeno quel poco che vi rimase nella memoria, ché a me fie caro l'intenderlo. LAZ. Volentieri in tal caso udirò recitare l'oppenione del mio maestro Peretto; il quale, avvegna che niuna lingua sapesse dalla mantovana infuori, 1 nondimeno co1ne uomo giudizioso e uso rade trasmesso • durus scaberque •, e la condanna dello stile di Aristotele e dei suoi traduttori latini era diventata quasi un luogo comune fra gli umanisti. Opportunamente BRUNI 1967, pp. 35-6, cita questo passo di M. NIZOLIO (De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudophilosophos, a cura di Q. Breen, Roma 1956, I, pp. 22-3) come esempio del persistere di questa opinione fra gli umanisti del Cinquecento: a Nec est quod quisquam speret translationibus Graecorum authorum legendis, et qualicunque sermone latino utendo, se principii huius necessitatem [la conoscenza del greco e del latino] vitaturum: nam quod ad translationes attinet, hae sunt partim ita foedae et incultae, ut ab homine docto non sine magna nausea atque fastidio legi queant: quales sunt vetustiores illae, partim magis latinae quidem et cultae, sed tamen tales, ut quam plurimis in locis sententiam Aristotelis non piene interpretentur [...]. Quod autem di.xi, non qua]icunque sermone latino utendo, hoc significare volui, non quamvis improprio, corrupto, et barbaro, qualis est ille, quo usi sunt pene omnes Aristotelis lnterpretes tam Latini, ut Albertus, Thomas, Scotus, quam Arabes, ut Abenrhois, et Avicena, et alii complures, eo modo quo nos leguntur translati: qui omnes non solummodo Graecam linguam prorsus ignoraverunt, sed etiam sua, hoc est, Latina et Arabica vix videntur fuisse tincti ». Ma nella discussione fra il Peretto e il Lascaris si avvertirà l'eco dell'analoga disputa che nel Quattrocento era avvenuta tra filosofi ciceroniani (Ermolao Barbaro) e filosofi "barbari" (Giovanni Pico della Mirandola): cfr. Prosatori latini del Quattrocento, pp. 804-23 (lettera del Pico), e pp. 844-63 (risposta del Barbaro). 1. il quale ... infuori: il Pomponazzi non sapeva il greco; pertanto quando le traduzioni latine gli parevano oscure o tra loro contraddittorie ricorreva a esperti grecisti come lo stesso Lazzaro (cfr. NARDI 1965 1 pp. 200-1). Aveva però una buona conoscenza dei classici latini, che cita spesso nelle sue opere: si vedano l'Introduzione di H. Busson a P. PoMPONAZZI, Les causes des merveilles de la nature ou les enchantements, Paris 1930, pp. 12-8; l'Index nominum et locorum dell'edizione, curata da R. Lemay, delDefato, de libero arbitrio et de praedestinatione del POMPONAZZI (Lugano 1957); e BRUNI 1967 1 pp. 43 sgg. Il Peretto, del resto, come tutti i docenti universitari faceva lezione in latino, ma - come mostrano i corsi manoscritti studiati dal Nardi -

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volte a ingannarsi, ne può aver detto alcuna cosa col Lascari, che l'ascoltarla mi piacerà. Pregavi adunque che, se niente ve ne ricorda, alcuna cosa del suo passato ragionamento non vi sia grave di riferirne. ScoL. Cosi si faccia, poi che vi piace; ché anzi voglio esser tenuto ignorante, cosa dicendo non conosciuta da me, che discortese, rifiutando que' prieghi che deono essermi commandamenti. Ma ciò si faccia con patto che, come a me non è onore il riferirvi gli altrui dotti ragionamenti, così il tacerne alcuna parola, la quale d'allora in qua mi sia uscita della memoria, non mi sia scritto a vergogna. CoRTEG. Ad ogni patto mi sottoscrivo, pur che diciate. 1 . ScoL. L'ultima volta che messer Lascari venne di Francia In Italia, stando in Bologna, ove volentieri abitava, e visitandolo il Peretto, come era uso di fare, un di tra gli altri, poi che alquanto fu dimorato con esso lui, lo dimandò messer Lascari :2 [LAsc. ]3 Vostra eccellenza, maestro Piero mio caro, che legge quest'anno? PER. Signor mio, io leggo i quattro libri della Meteora d'Aristotile. 4 il suo era il « rozzo latino in uso nelle scuole, sprovvisto d'ogni ricercatezza umanistica, e infiorato di frequenti espressioni che affluivano alle sue labbra dal dialetto materno» (NARDI 1965, p. 45). Non stupisce che il ciceroniano Bonamico considerasse dialettale questo latino e sostenesse che il Pc retto 111'u11a ling11a sapesse dalla mantovana infuori. I. Questa battuta manca in C, dove viceversa la battuta dello Scolare continua con queste parole: accettò l'opinione dei sostenitori della convenzionalità del linguaggio: 11 i suoni della voce» si legge all'inizio del trattato De interpretatione 11sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell~anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce». I suoni di per sé non banno significato alcuno, ma lo acquistano per convenzione: « si ha un nome [...] quando un suono della voce diventa simbolo» (traduzione di G. Colli). Tale concezione è riecheggiata dallo SPERONI, che la riferisce proprio all'insegnamento del.Peretto, in un passo del discorso I Del niodo di studiare (S, II, pp. 4878), citato nella nota 3 a p. 593. 3. Vero .•• altrame11te: cfr. Du BELLAY, p. 72: .."VII, Imprese, degli Scritti d'arte del Ci11quecento, 111, pp. 2753-862. 2. Un « Mons. Rota• è nominato in una lettera al sig. Guidone senza data (S, v, p. 125) e in un'altra allo stesso del 23 maggio 1562 (S, v, p. 132), ma sono indicazioni troppo generiche perché si possa tentare di identificarlo. 3. Mi piace •• • nozze: non so cli quali nozze si tratti. 4. Lucietta da Porto, che lo Speroni usava chiamare « la Contessettn »: il suo vero nome, come appare dal testamento del 1569 (FANO 1909, p. 165) era Filippa. 5. • Non s'è potuto trovare il principio

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nendo per poco tempo di speron morso, 1 onde li affrenino le punture. Ma non possendo ciò fare con viva voce in presenza, che voi in Padova dimorate e io qui in Roma pur sono ancora, come sapete, né sendo ben lo 'ndugiare fin che altra volta ci riveggiamo, che ciò potrebbe esser tardi, ora in scrittura vi parlarò. E veramente se tal parer fastidioso, mancando io nelle vostre nozze o di giudicio o di amore, ragione avesse di farvi noia, non viverei molti giorni o sconsolato li viverei. E da che domine2 sarei io, se, vecchio di anni presso ad ottanta spesi nei studi delle dottrine con tanti alti e gentili ingegni quanti ho veduti in Italia e ne' negozii cittadineschi con senatori, con principi, con cardinali e pontefici, or che, scemati per troppa etade li sentimenti, cresce il vigore dello 'ntelletto, io nel discorso del maritarvi non discernessi il sentiero che suol condurre a buon fine; o scorto avendolo io traviassi il miglior cammino e mi appigliassi al piggiore? Ma veramente in tale atto né per esempio né per ragione si può presumere alcun mio fallo di diligenza e di benvoglienza. Vegno alli esempli, poi la ragione distinguerò. Io cinque volte con molta cura già molti anni ho maritate tre mie figliole. La prima fu vostra madre, 3 la qual donzella diedi a Marsilio de' Papafavi, nobile, ricco e bello e sano quanto altro giovane avesse Padova al tempo suo; onde è Ruberto e sua nipote Pantasilea.4 E a Ruberto diedi per moglie una veronese 5 che era figliola di quel Sarego che mal graditte molte mie bone operazioni ; ma il Signor Dio l'ha gradite. Morto Marsilio, rimaritai mia figliuola, la quale aveva ventiuno anni, al conte Giulio da Porto, padre di di questa lunghissima lettera, la qual fu scritta nel I 578 agli ultimi di marzo; a' 6 del quale promise lo Speroni la nipote in Roma in isposa al Cavalier de' Cortesi. Il fine pure non si ha» (nota di S). 1. divene,rdo ••. mo,-so: lo Speroni scherzava volentieri sul proprio nome che si prestava a facili giochi di parole. Per esempio, alla figlia Giulia il 20 febbraio 1577 scriveva: • Io veramente ti ho scritto molte volte, e mi piace che tu non abbia avute le lettere, perché io ti rispondea stranamente ma con ragione, non scrivendomi tu mai altro che lamenti, li quali non voglio legger in modo nessuno. Però o lascia di scrivermi o scrivimi da figliola senza pungermi, perch6 io son più speron di te» (S, v, p. 231). 2. domine: esclamazione con valore rafforzativo. 3. vostra madre: Lucia, che nell'aprile del 1548 aveva sposato Marsilio Papafava (cfr. la nota 4 a p. 797). 4. Pantasilea: figlia di Alessandro Papafava (morto nel 1572), fratello di Roberto (cfr. la nota 2 a p. 795). 5. Roberto sposò Lucrezia del conte di Sarego di Verona; poi si rimaritò con Costanza, figlia di Scipio Costanzo (cfr. la lettera non datata che lo Speroni indirizza a quest'ultima da Roma, in S, v, pp. 313-4).

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voi e di Nicolò. L'altra figliola 1 la prima volta tolse un fratello di quel Marsilio simile a lui, detto Ubertino; la qual, lui morto, il conte Antonio dei Capra, padre di Ersilia e di Maddalena, la prese a moglie. La terza2 sola che mi è rimasa è mogliere di Alberto Conte da Padova, nobile anche esso non men che gli altri miei quattro generi nominati, ma assai più ricco d'ognun di loro. Altre figliole di mia mogliere non ebbi mai ;3 però di quelle non dirò altro. Or debbo creder che mia nipote madonna Laura, che fu figliola di mio fratello Bartolommeo,4 qualche fiata v'abbia veduta nel monisterio. Costei adunque, essendo io colla mia famiglia andato a stare a Murano 5 (perché l'absenzia della persona non mi allontana dalla memoria del mio bon sangue), costei, dico, morto suo padre, non contentando quel mio fratello, il qual pareva che amasse sé solamente ma in effetto né a sé né ad altri non volea bene,6 io maritai finalmente in Vespasian da Brazuolo,7 solo figliolo di un gentiluomo della mia patria, ma assai più ricco di vostro padre. Ora ella è moglie del Cavalier de' Soardi, che di ricchezza e di nobiltà non è in Bergamo chi l'avanzi. Dirò all'ultimo il primo esempio dei matrimonii che io sapea fare, non sendo ancora sì bene esperto, come ora sono, delle azioni cittadinesche. Era in Padova nelli anni 1530 una donzella di onesto sangue, ma tanto ricca che ognun la ambiva e disiderava. Costei, offertami da' parenti, io accettai per mia moglie, 8 a dire il vero più consigliato che volentieri, ché insino allora disiderava di lasciar Padova e venire a Roma, dove ora sono. Come si fusse, se in quel caso fui richieduto, ciò fu valore; e fu industria la mia, se io ebbi solo quel che tanti altri voleano avere. 1. L'altra figliola: Diamante (cfr. la nota 3 a p. 802). 2. la terza: Giulia. 3. Altre . .. mai: ebbe una figlia naturale, Angelica, che prima del 1547 sposò a un gentiluomo padovano, Antonio Olzignano. 4. Bartolomeo era il fratello maggiore dello Speroni; sulla famiglia Speroni si veda A. FANO, Noti::ie storiche sili/a famiglia [...] di S. Speroni, citate a p. 505. Nel testamento del 1569 (FANO 1909, p. 166) si legge: •vive ancora madonna Laura, che fu figliola di mio fradello messer Bartolomio [morto nel 1547], la quale è ricca e non ha bisogno della mia robba 11, s. essendo •.. Murano: lo Speroni si trasferl a Murano nel periodo precedente la prima partenza per Roma (1553): la tranquilla isoletta era divenuta un ritrovo di letterati, che si riunivano nelle ville dei patrizi veneziani. 6. quel mio fratello .. , belle: Giulio (cfr. la nota 4 a p. 812). 7. Vespasian da Brazuolo: di questo gentiluomo padovano, come del Cavalier de' Soardi nominato subito dopo, non ho altre notizie. 8. Costei . .. moglie: Orsolina da Stra (cfr. la nota I a p. 799), figlia di Giulio, nobilissimo cittadino padovano, e di Cristina Burletta.

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Delli esempli dei matrimonii da me condotti a bon fine non dirb altro, tempo essendo oggimai che io ponga mano nella ragione, lume verace dello 'ntelletto, che pub guidarvi a esser certa, non che sperare, che vivo e morto vi debba amare e far bene; poiché io so farlo, quando mi piace. Perché se prima io vi amai come figliola di mia figliola, il quale amore fu compassione e misericordia, che vince quasi in ogni uomo l'umanità della carne, ora io vi amo spiritalmente per la bontà de' costumi vostri; la quale avendo per undici anni continuati in un monistero fatta radice nel vostro animo benedetto, son sicuro che sia per crescere e maggior farsi ad ognora; e crescendo ella, fare in me crescere il disiderio di procurarvi tutto quel bene che possa ornar sempremai e onorare la vostra vita. Udite adunque e notate quel che io dirb; e non dirb, se non vero. Morì, essendo io in Roma, nello anno 1563 la poverella di vostra madre, che fu trentesimo di sua età, e vostro padre si mori l'anno seguente. Il che inteso, andai a Padova quasi a staffetta, quindi a Vicenza subitamente per vostro amore, senza aver cura di riposarmi, quantunque io fossi assai vecchio, né di veder la figliola con tanti e tanti de' miei parenti, alla maniera di quel pastore evangelico, il qual, lasciando in disparte novanta nove sue pecorelle, si dà a cercar di una sola. 1 Quivi trovati voi due fanciulli orfanelli, vostro fratel10 2 di alquanto più che cinque anni e voi di trentatré mesi e ambi infermi di un male istesso, vostro fratello, già quasi idropico divenuto, voi non già tanto ma poco meno; e, fatto vostro tutore, vi trassi a Padova, sendovi sempre, non pur tutore e avo materno ma servo, medico e balia. Padre non dico, perché in Vicenza era una voce per tutto 'l populo che 'l morto padre coll'avo vivo e tutore vi fusse vita e salute. Ecco adunque che insin da' vostri primi anni vi fu ventura il peregrinare e uscir for della vostra patria. Tenni voi fanciulletta due anni soli con esso meco, perciocché, avendovi conosciuta piena di nobile e alto ingegno naturalmente, degno mi parve che a si gentile disposizione la nutritura si convenisse; giudicai esser degno che, cominciando in puerizia dalli costumi religiosi e trapassando con essi insieme per lunga usanza alla gioventù, :finalmente Dio aiutando nella età vostra matura vi condualla maniera .•• una sola: allusione alla parabola della pecorella smarrita (Matth., 18, 12-4). z. tJOstro fratello: Niccolò da Porto. 1.

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cessi a perfezione. Con tal ragione e intenzione togliendo voi dalla compagnia di vili serve plebee, onde abbondava la mia famiglia, volli riporvi in un monisterio di donne nobili e costumate; ma di tanti altri che sono in Padova per r~ligione eccellenti, elessi quello di S. Chiara, benché lontano da casa mia, mosso per vero specialmente dalla opinion generale che del valore della Abbadessa si aveva in Padova a quel tempo; la quale ho tal ritrovata che, anche in mezzo di tanta peste quanta ha trafitta la nostra patria, che vostra è fatta oggimai, io vi ho lasciata in sua guardia. Ecco il secondo peregrinaggio fatto da voi fanciulletta da casa mia alle monache, molto migliore per il ben vostro che non fu il primo, perocché quello alla vostra vita fu necessario e questo eletto per la salute del1' onor vostro e della vostra anima. Puosivi adunque nel monistero fra gentil donne, quasi oro e gemma in sicuro loco, onde uscirete, piacendo a Dio glorioso, cresciuta in anni e in virtute e non pur salva, come i tesori ben custoditi, ma assai più fina e più preziosa che fanciulletta non eravate: non ritornando in Vicenza, onde il partirvi cosi per tempo vi è stato utile e onorato; non stando in Padova, ove mi glorio d'esser nato ma non vi stetti mai volentieri; ma tanto avanti peregrinando che giungerete in poche ore a una bella città non più veduta da voi, e forestiera non ne sarete. Imperciocché la compagnia che vi dee condurre ha privilegio dal Signor Dio di poter farvene cittadina, fora traendovi di memoria Vicenza e Padova, e forse ancor me medesimo. Di che non pur non mi dolerò, ché ciò facendo mi opponerei empiamente alla sentenza dell'evangelio; 1 anzi io prego con tutto il cor Gesù Cristo che così lieta vi faccia vivere in quel paese che mai di me non vi ricordiate, se non orando e ringraziando divotamente il Signore che mi eleggesse per instrumento di tutto '1 bene che egli vi dona e che io, siccome ho potuto, vi ho procacciato e disiderato. Non è già bene, né lo vorrei, non per vedervi di miei due occhi donna e reina di tutto 'l mondo, che vi scordaste del monistero di S. Chiara di Padova, ove imparaste di pregar Dio puramente di tutto 'l bene che io vi prometto e ove, bona facendovi in orazioni e in digiuni, degna vi feste dell'ottenere. Non è quel luogo né quella madre né quelle suore da esser posto in obblio da voi, figliola, ne' suoi costumi rigenerata, I. ché ciò •.• evangelio: cfr. Gen., 2, 24: •Quarnobrem relinquet homo patrem suum, et matrem, et adbaerebit uxori suae: et erunt duo in carne una•.

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per alcun nuovo accidente; né corporal lontananza dee dilungarvelo dal pensiero. E se la vostra novella patria ne arà un altro, che Dio il voglia, simile a questo di nome e d'ordine, ma di virtù sopra tutto, visitatelo caramente per amor suo, quasi fratello del padovano; fateli spesso qualche elemosina di quei beni, onde io so certo che abbondarete. A questo nostro (che bene il posso dir nostro, essendo io vostro e voi mia) ne farò io volentieri di tempo in tempo, quanto la vita mi durarà, e forse ancora qualche anno appresso; né mai sarà che ne' suoi bisogni mi trovi stanco di favorirlo. Mentre io parlo con esso voi lungamente del monisterio di S. Chiara di Padova, or commendando la bontà sua, or di ben farli ammonendovi, par che io trapassi il subietto, onde io a scrivere cominciai, cioè iscusarmi delli improperii che mi son dati da chi mi accusa del maritarvi in un Cavalier modenese, possendo darvi più facilmente e con minor dote ad un padovano o ad un vicentino; e lo trapassi non mica a caso e per trascuraggine ma a bello studio e con non bona arte, non ben sappiendo iscusarmi e vergognandomi di tacere. Con ciò sia cosa che 'l far parola del monisterio non abbia a far tanto o quanto col darvi a moglie ad un forestiere, lungi da Padova ottanta miglia. A che rispondo che 'l monisterio di S. Chiara è testimonio col suo valore del grande amore che io vi portava quando io lo elessi per vostra stanza; e è argomento atto a provar certamente che sia maggior pur assai quel che io vi porto al presente. Che se fanciulla imperfetta tanto vi amai che a posta vostra vecchio e mal sano senza conoscervi da Roma venni a Vicenza, quanto ora, giunta a perfezione per mio consiglio dal monisterio da me eletto aiutata, vi debbo amare e stimare? Dunque il parlarvi del monisterio non fu né inezia né finzione. [. . .] 1 1. Nel lungo passo qui tralasciato lo Speroni tesse le lodi della famiglia Cortese che, « per gentilezza di antico sangue nobile in Modona, è nobilissima in Roma per un suo gran Cardinale [Gregorio Cortese] da Paulo terzo criato, che ben sapeva che si facesse; e per la illustre signora Ersilia, la qual fu moglie di Giambatista da Monte, carnal nipote di Giulio terzo per Baldovin suo fratello; per lo cui amore e onore ha nome Ersilia l'una figliola delle due sole che ha il Conte Antonio dei Capra, Paltro mio genero vicentino». Il marito proposto era appunto un nipote di Ersilia, Alberto, • giovane bello, gagliardo, ben costumato e veramente Cortese; cavaliere dell'ordine di Francia, solo figliolo senza altra giunta di un suo buon vecchio onorato, ricco di entrate affittate ducati d'oro più di due mila, come promette, di propria mano scrivendo, la sopradetta signora Ersilia illustrissima, ricca de' beni della fortuna, mallevadori della parola, e non men ricca di quei dell'animo, onde sia certo che non m'inganni» (S, v, p. 253).

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Qui mi è avviso di udir gridare uno accusatore e dire a vostro fratello: or puoi vedere a qual fine questo tuo avo cosi per tempo e cosi lontano mandi a marito questa tua unica sorelletta. Vuol lei a Roma il buon vecchio, perché ella il serva; e per godersi superbamente uno o due anni del suo servigio, che tanto ancora e appena può egli vivere in questo mondo, priva in perpetuo te della compagnia di tua suora che tu tanto ami, lei della tua che le giovarebbe, de' suoi parenti e della sua patria. Ecco bella arte che egli ha pensato per adagiarsi in vecchiezza; ecco notabile affezione da lui portata al tuo sangue; ecco che egli ama, né te né lei ma sé solo. Ma se in sua vita questa fanciulla li sarà serva, che sarà di essa lui morto ? Queste e più altre male parole siate pur certa, figliola cara, che si diranno o son dette da chi mi ha in odio, forse perché amo ogni vostro bene come ognun sa e non mi sazio di procurarlo. iVla a tutte quante risponderò e sarò breve e verace. Voi notate la mia risposta, acciocché ad altri, quale io la dico, la ridiciate. Dico adunque non esser vero che innanzi tempo vi maritiate; per tempo sì e mi piace, ma più per tempo la prima volta io maritai vostra madre. Certo il tardare a far bene è mala accidia pericolosa. Passa e non torna la occasione e lascia l'uomo che l'ha perduta col pentimento dell'error suo, che sempre il roda e consume. Fuste riposta nel monisterio da me, vostro avo, non dal fratello, per impararvi boni costumi e religione, non per rinchiudervi o starvi tanto che v'invecchiassi. Pur nondimeno vostro fratello, non ben compiti diecesette anni, da sé medesimo consigliato (grande arroganzia fu questa sual), venne per trarvene alcuna volta sotto pretesto di pestilenzia. 1 E era certo che ciò faceva contra mia voglia, perché 'l facea senza mia licenzia, forse sdegnando di climandarla. l\tla io che, vecchio come io mi trovo, son d'imparare disideroso, e sia qual vuole il maestro, intenderei volentieri, seco parlando e presupponendo che quella e questa sua puerizia potesse aver giuridizione di farvi fare a suo modo, se pensò mai che la pestilenzia, dopo aver Padova combattuta, dovesse essere ardita di 1. Pur 11ondimeno •• • pestilenzia: cfr. la lettera a Giulia del 14 luglio 1576: a La Contessetta prego Dio che mi conservi in S. Chiara. Hanno avuto ardimento volerla menare a Vicenza senza mia licenza; cosi poco mi stimano. Non son morto, se ben son vecchio e lontano 11 (S, v, p. 230). Per la peste si veda la nota 4 a p. 825. 53

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dare assalto a Vicenza. Brutta risposta sarebbe il dirmi: nollo pensava; ché già il fatto è cosi, e se non fusse, poteva essere. Dunque, entrando la pestilenzia in Vicenza, egli in qual luogo per voi sicuro e onesto più che sia questo bon monisterio di S. Chiara di Padova, pensossi poscia di conservarvi? Non dirò altro, perciocché io l'amo come figliolo di mia figliola, se non che io vidi in quel punto, non già come Argo né Linceo, 1 perciocché io era già mezzo cieco, ma si ben quasi Tiresia,2 parte dell'animo e del cor suo, che era piuttosto voler privarvi della tutela di me vostro avo amorevole che liberarvi di pestilenzia. Il che veduto da Roma a Padova chiaramente e tutto insieme considerato che io non potea viver molto, e oltre a cib che, me morto, tardi ad indegni e non forse mai sareste data per moglie, con la ragione che io ho in voi, come tutor che vi sono, vi do a moglie a quel gentiluomo che io v'ho descritto in principio di questo nostro ragionamento. Tutore importa difenditore donato alli orfani dalle leggi contra le ingiurie che far si sogliono ai poverelli. A me è dato il suo titolo sl dalle leggi della natura come da quelle delle cittadi, perché io fui padre di vostra madre, e perciò anche secondo il sangue e la carne più vostro prossimo che 'l fratello, benché in cognome vi sia lontano; perché ambidue voi fratelli siete due rami che manda fora una pianta sola in diversi lati, non solamente vivendo ognuno del proprio suco con proprie scorze e midolle, ma spesse volte crescendo in guisa l'un più che l'altro che par che usurpi l'altrui onore. Io son radice di tutto il tronco che vi fe' nascere e fui tutore egualmente di voi e lui; ma perciocché egli, ben certo troppo per tempo, siccome ai frutti si può conoscere, volle da sé essere albero, lasciando a lui la sua cura, servai la vostra fin alla etade del maritarvi. La etade è giunta, che non sta ferma ma va più oltre e trapassa; son da voi lunge e per la vecchiezza vicino a morte naturalmente, e perciò molto più bisognoso d'alcun tutore che mi sostenti che io possa altrui governare. In tale stato sendo io e voi tuttavia, dicami un poco per carità, chiunque sia che mi accusi, quale altra cosa che maritarvi dovessi fare al presente che vi onorasse e giovasse ? La1. Argo (mostro mitologico che, secondo certe fonti, aveva cento e più occhi sparsi per tutto il corpo; era il custode di lo) e Linceo (uno degli argonauti, fornito di vista acutissima) erano proverbialmente accoppiati: cfr., per esempio, ARmsTo, Capitoli, 1x, 41: «Questi Lincei, questi Argi c'ho d'intorno•· 2. Come indovino, ché Tiresia era un celebre indovino cieco di Tebe.

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sciarvi ancora cinque o sei anni in quel monisterio quasi negletta non era onor certamente né a me né a vostro fratello, e a voi forse non era onor né salute, specialmente venendo a mano d'altra abbadessa che non è questa che tanto vi ama e sa tanto; la quale anche essa è mortale. Oltre che forse lo starvi ancora più lungamente vi era vietato da chi si fosse, ché ben sapete che si è tentato non poche volte di farne uscir le mondane: tali son dette d'alcuni troppo spirituali tutte le giovani non velate, 1 quasi non siano ben cristiane. Dir che a Vicenza vostro fratello vi riporrebbe in un monisterio o con parenti nell'altrui case o in casa sua tra serventi ben consigliato vi menarebbe, è opinione gjà riprovata. Or se, perciocché cortesemente la prima volta l'ho riprovata, mi si fa incontra questa seconda e vuol di novo farsi ascoltare, taccia la prego per lo migliore, perché, altrimenti facendo, da ora innanzi non come sciocca semplicemente, quale ella parve e perciò degna che se ne avesse compassione, ma come iniqua e presontuosa arei ragion di trattarla. Era adunque non pur consiglio e elezione, ma viva forza e invitta di ragionevole violenzia lo accompagnarvi ad un gentiluomo, con esso 'l quale onoratamente vivendo, voi fussi allegra e sicura, tenendo egli nel governarvi l'autorità che aver solea veramente la madre e il padre e il tutore e che 'l fratello credea d'avere a suo senno ma lo 'ngannava la sua credenza. E questo tale è il marito a cui vi dono al presente, il qual da Dio ha potere di allontanarvi da ogn'altra cosa e accostarvi alla sua persona; onde ben parli una gran Reina del tempo antico al marito, 2 quando ella dice amorevolmente: tu sei a me signor mio, padre, madre, fratello e sposo; giungiamo noi finalmente, per adempiere ogni officio, amico e patria e paradiso di questo mondo. Or passo a quelli che, non possendo del ben che io faccio riprendermi, perché elio è noto ad ognuno, quasi indovini de' miei pensieri fannosi lecito l'accusarmi che tutto faccia per amor mio più che vostro, disiderando indiscretamente d'avere in Roma una tal nipote quasi al servigio di casa mia. Rispondo adunque in due modi. E questo primo è la verità, che, se una volta qui in Roma con mia figliola vi rivedessi, io morirei volentieri. Niego bene che a questo fine vi dea per moglie ad un forestiere. Non ho in costume, non velate: che non hanno pronunciato i voti. 2. una gran .•• marito: Andromaca a Ettore (cfr. OMERO, Il., VI, 429-30). 1.

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non ho per Dio, di far cosi le mie nozze, che già di tre mie figliole due in Vicenza ne maritai, e l'una fu vostra madre, l'altra fu madre delle due vostre cugine, 1 che lungo tempo vi fur compagne nel monisterio, la minor delle quali ha nome Ersilia in memoria della illustrissima vostra zia; in compagnia della quale venendo a Roma con esso il vostro consorte, molto d'onore, molto di grazia vi acquistarete, perché ella è fonte d'ogni virtù :2 e questo è quel che io disidero. L'altra risposta, che io son per fare alli accusatori, mostrarà ora assai bene non più il mio animo, già veduto, ma la lor sciocca ignoranzia. Ché posto ancora per cosa vera quel che non è, cioè che al fine da essi detto avessi fatto le vostre nozze, non me ne deono incolpare, perché io fui primo a servirvi, onde servita mi servirete. Oltre che in Roma niun servigio potrete farmi né tanto lungo, né cosi vario, come fu quello che v'ho fatto io che, vecchio essendo, per amor vostro, come corriere da Roma venni a Vicenza. In Vinegia e in Vicenza come fattore v'ho governata la facultà; poi nel governo della persona, sendomi in casa, io v'era balia e fantesca; nel monisterio si spesse volte vi visitava che non pareva che io fussi nato per altro fare; il quale officio considerando, la bona madre Abbadessa potea invitarsi ad accarezzarvi e governarvi con maggior cura. Voi mai indarno cosa veruna non dimandaste, e vi era in ciò spenditore, e molte vostre dimande furon precorse benignamente da' miei dinari e, non udite, esaudite. Il che era I. l'altra ... cugi11e: la Diamante, madre di Ersilia e Maddalena Capra (che nel 1580 lo Speroni sposerà al conte Francesco di Battista da Porto). 2. la minor ... virtù: cfr. la nota I a p. 832. Ersilia Cortese fu tenuta in grandissima considerazione dai letterati del tempo, da Girolamo Ruscelli, da Annibal Caro e da Pietro Aretino, per esempio. Lo SPERONI le indirizzò tre sonetti (S, IV, pp. 375-6). Figlia naturale di Iacopo Cortese, fratello del cardinale Gregorio, era nata nel 1529; nel 1552 rimase vedova di Giambattista del Monte, nipote cli papa Giulio III e, benché giovanissima, non volle rimaritarsi. Alcune sue rime si leggono nella raccolta Per donne romane rime di diversi allestita da Muzio Manfredi (Bologna, A. Benaci, 1575). Si adoprò molto per ricercare e pubblicare le opere dello zio Gregorio, ma le riuscl soltanto di rinvenire le lettere e il trattato sulla venuta di san Pietro in Roma, che pubblicò nel 1573 (G. CORTESE, Epi"stolarum familiarum liber. Tractatus adversus negatitem Petrum. fuisse Romae, a cura di E. Cortese, Venetiis, apud F. Franciscium). Cfr. R. ERCULEI, Una donna romana del XVI secolo: Ersilia Cortese del Monte, in « Nuova Antologia», S. 111, LII ( 1894), pp. 498-520, 686-707; C. MALMUSI, Di due celebri donne modenesi del secolo XVI (Ersilia Cortese e Tarqui11ia Molza), in II Memorie della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena •, VIII (1865-1866), pp. 7 sgg.

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segno del grande amore che io vi portava e porto ancor più che mai. Tutto ciò dico, figliola cara, non per far conto con esso voi de' servigi che mi farete venendo a Roma e che fanciulla voi riceveste da me, questi con quelli paragonando; ché ciò è cosa da mercatante, non da chi ama. Anzi confesso per cosa certa ad ognuno, o a quelli almeno di bon volere, valer più una oncia del puro amor fanciullesco, il quale è atto di naturale inclinazione prona a far bene sinceramente, quale è nel foco l'andare in suso a diritto, che cento libbre di uman discorso artificioso, il qual si volga e rivolga cercando il meglio, quasi del bene non si contenti. Ché questo è simile alla scienzia che argomentando impariamo, ben certa poscia e indubitata, ma prima incerta da sé e piena tutta di molti dubbi. Ma il vostro amor naturale può agguagliarsi alla dignità d'alcuni primi principii del saper nostro, detti e intesi subitamente senza niuna difficultà, come è che tutta la vostra chiesa di S. Chiara non sia minore dell'altar grande, né il dormitorio della sua cella particolare, né il monistero del dormitorio. Parmi vedervi meravigliare di leggere ora nella mia lettera cosi lunga cose e parole molto diverse da tutte l'altre che io soglio scrivervi, e dir cosi nel pensiero: or non sa egli il mio caro padre che io non son dotta? che non ragiono se non con donne, ben certo sagge e gentili molto, ma tutte parlano padovano? che è dunque che egli mi scrive in uno altro modo da quel che si usa e che io posso intendere? Veramente, figliola mia, questo è pensiero cosi modesto e accorto e d'imparare disideroso, che io debbo creder che vostro sia, quando si bene vi si assimiglia. Rispondo adunque di bona voglia che, benché io scriva a voi sola, io nondimeno sarei contento che questa lettera che io vi mando andasse tanto di mano in mano per tutta Padova e per Vicenza che pervenisse alli accusatori, li quali io credo che siano dotti oratori, poiché sono osi di armar le lingue in tal guisa contra la fama dclii innocenti; e dotti essendo di cotale arte, se scritta f usse plebeiamente come si parla dalli due populi nominati, non degnarebbono di vederla. Senza che ad alto e gentil subietto, quale è questo di cui ragiona, bassa favella non si conviene. Voi al presente tanto cercate per entro lei di bene intender l'altrui ragioni e le mie che siate certa se in queste nozze da me ordite e tramate io vi ho sprezzata o tenuta

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cara. Quel poi che importi tutto l'avanzo de' suoi vocaboli peregrini, qui meglio in Roma, Dio permettente, conoscerete che né in Vicenza né in Padova; conoscendo eziandio tutto ad un tempo che ci verrete non a servirmi, come altri pensa, ma a consolarmi, che bene è tempo, del vostro aspetto disiderato. E se venissi a servirmi, fareste officio non pur vile ma glorioso e insegnato a noi altri dalla natura e dalla virtù, perciocché alcuni delli animali senza ragione naturalmente discreti I pascono i padri e le madri vecchie; e il compatire a chi ci ha nudriti e fatti sono impotenti, rendendo bene per bene è graziosa giustizia, degna di giovane costumata e allevata in religione, la quale insegna alli cristiani non solamente la gratitudine naturale di render bene per bene ma la divina di Gesù Cristo, amar chi ci odia o dispregia e di giovare a' persecutori. Potete adunque esser certa che ben farete a servirmi; per conseguente senza gran premio non servirete, perciocché, ancora che io fussi ingrato, il che non credo che voi crediate, voi per quel bene che mi farete sarete sempre laudata. E questo è il premio delle buone opere virtuose che 'l mondo suole e può dare, dal quale se fussi ingannata, non v'ingannarà Gesù Cristo che sa supplire della sua grazia tutti i difetti che son qui giuso, e per ciò fare incarnò [XXXII] AN. N. A FIORENZA

Cl.mo signor, inanzi ch'io risponda alla vostra lettera e di me dica la verità, permettetemi ch'io possa dirla anche di voi, e ascoltatela volentieri. Quanto di bene suol di voi dire la vostra fama, che assai ne dice e sa dirne, e' tutto conferma in uno aprir d'occhio la vostra vista; ma tutto questo si può dir puoco rispetto al molto che poi si trova nel praticarvi. Non è dunque gran maraviglia che cosi accorto signore, come è il gran Prencipe di Toscana, 2 amatore di gentil'uo1. discreti: riconoscenti. 2. il gran Prencipe di Toscana : Francesco I, granduca di Toscana dal 21 aprile I 574, che ammirò molto lo Speroni. Cfr., per esempio, la lettera che Giacomo Alvise Cornaro scrisse allo Speroni il 20 marzo 1587: «infinite volte ho avuto ragionamenti di V. M. con questo Serenissimo Gran Duca, il quale più che mai brama di vederle, isti.mando le virtù sue sopra modo; come quello che, oltre una cognizione di lettere singolare, possiede giudicio maraviglioso di conoscere

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meni valorosi, vi accolga e tratti amorevolmente. E oso dire che se li fussi nemico, Sua Serenità imitando Serse, quando Temistocle andò in Persia a rifugio, 1 vi onorarebbe e essalterebbe, come ella fa. Onde io per me, se a me stesse, chiamarci questa sua buona accoglienza non men iustizia che cortesia. Ora in contrario questa è bene a un par mio più cortesia che iustizia, che Sua Altezza, mirando in basso, pensi di me in maniera che non pur degni ma desideri di vedermi. Della qual cortesia, prima ch'io vegna a ringraziarvi, perché io conosco che ella è passata fra due estremi per vostro mezzo, intenderei volentieri se, ragionando con Sua Altezza de' fatti miei, voi ascondeste li miei difetti o se per vero mi ritraggeste dal naturale, come fe' già Tiziano.2 Il qual ritratto in parole sarebbe questo, che, cominciando dalla età mia, io sono un vecchio di ottanta anni, mezo cieco, mezo sordo, onde io sia noia alli amici nel ragionare e nel salutarli; e scemo essendo di questi due sentimenti, 3 non posso avere intero intelletto quale ebbi forse già quarant'anni; ché, benché allora non fusse grande e valente, si era sano quel poco poco, e non storpiato come è adesso e sarà appresso di giorno in giorno assai più; ma non però lungamente, non potendo esser lunga la vita di questa etate infelice, la brevità della quale è posta con suo gran danno in proverbio, che ogni grazia che le si faccia è perduta. Della quale malignità, più non possendo, cosi si vendica d'ira il disperato che, biasimando la li meriti delle persone e con benignissima natura ne fa istima grande. E certo, signor mio, che, se sentiste le laudi che vi attribuisce, chiamandovi il più istimabile dell'età nostra e predicandovi per tale alla presenza de' migliori ingegni, son sicuro che V. M. direbbe d'essere obbligata a lasciarsi vedere a Fiorenza. Monsignore Abbioto poi, che è istimatissimo appresso Sua Altezza [...], fa ben spesso menzione di lei con quel più onore che sa immaginarsi. La Gran Duchessa una di queste sere, sentendolo a discorrere nelle laudi di V. M., mi disse che al partir mio di qua vuole darmi sue lettere da presentarle, poiché non sa con qual altro mezzo dimostrare l'affezione che porta al valore di lei 1 (S, v, p. 380). Alla Gran Duchessa di Tosca,ra Bianca Cappello lo SPERONI indirizzò il carme elogiativo che inizia •Quel vero padre e Re giusto e pietoso• (S, IV, pp. 349-56). E si veda la lettera del Comaro a Bianca Cappello del 15 maggio 1587, in FANO 1909, p. 183. 1. imitando .•• rifugio: esiliato dagli Ateniesi e condannato amorte in contumacia dall'assemblea panellenica, Tenùstocle si rifugiò in Persia, dove venne accolto ospitalmente da Artaserse, successore di Serse, il re che egli aveva tanto combattuto. 2. Nel testamento del 1569 lo Speroni ricorda un suo ritratto •fatto da Tiziano ora sono 25 anni• (FANO 1909, p. 169). È probabilmente il Ritratto di S. Speroni ora al Museo Civico di Treviso. 3. e scemo •• • sentimenti: ed essendo privo di questi due sensi.

SPERONE SPERONI

età presente, loda l'andata; è sospettoso e iracondo come l'infermo e la femina e, se si avvede d'aver errato, perché non vuole o non può imparare, iscusa il fallo ostinatamente e stassi in quello in eterno. Del non potere più imparare io posso esser buon testimonio, che, stato in Roma per due fiate quasi dieci anni, non sento punto del cortigiano e vivo quasi alla padovana. Or di tutte le condizioni da me narrate, parte mie proprie, parte communi con me insieme a molti altri vecchi, se la Serenità del Gran Duca non è appieno informato, io vi priego che lo informiate; questa aggiungendo all'altre, che mai non parlo se non mi vien commandato e sempre parlo altamente contra le regole della corte.1 Fa più per me che, palesando li miei diffetti, mi sia avuta compassione che ingannare ascondendoli. Conosciuta la verità, se mi sarà commandato ch'io vegna a posta a baciar la mano a Sua Altezza, eccomi pronto a ubbidire, quel che io mi sia. Supplico bene che ciò sia quando potrò. Venni a Padova, ove ho trovate le cose mie peggio trattate da' mali amici che non son io dalla mia vecchiezza. Queste ordinate, il che sarà fra due mesi, tornando a Roma farò la via di Toscana, che non farei a tal tempo. Voglia Dio che trovar possa anzi ch'io mora tanto di grazia nella cortesia del Gran Duca che egli mi nomi qualche volta per un d'i suoi servitori e non sdegni ch'io me ne vanti. l\1a voi, signor, che a questa mia contentezza avete dato si gran principio, ringrazio io caramente, e del buon del cuore, allegrandomi sommamente non pur del bene impetratomi ma dell'averlo per cagion vostra ottenuto, ché ciò è segno certissimo d'esser amato da si gran Prencipe, potendo far cosi facilmente che li sia caro per amor vostro chi per sé stesso non era degno della sua grazia. Dio sia con voi. Di Padova, a di I5 di settembre nel '79.

1. parlo .• . corte: in effetti lo Speroni nelle lettere più volte biasima, con accenti quasi aretineschi, la vita di corte. Cfr., per esempio, questo passo della lunga lettera, non datata, a Giacomo Critonio scozzese: « Generalmente ha in costume ogni corte con certi nomi onorati parlar de' suoi cortigiani, tale chiamando suo cameriere, suo secretario, suo consigliere, che nelle case de' cittadini privati per dritti nomi schiavi, ragazzi e gastaldi sono appellati. L'oro e l'argento, che dà la corte alli suoi seguaci, son tali ad essi quali a' dannati nelle prigioni o nelle galee il ferro o il ceppo che toglie e chiude l'uscita; e peggio fa, se più pesa» (S, v, p. 318).

LETTERE

[XXXIII] AL MOLTO MAGN. SIG. FELICE PACIOTTO 1 A PESARO

Molto magnifico mio signor, io non so quando leggessi letera più volentieri di questa vostra d'i 23 del presente, 2 perciò che io non sapeva di voi novella e non avea a chi dimandarne, e fresca e bona me l'ha recata. Piacemi che voi siate in Pesaro, casa vostra, in grazia e in braccio dello Ili.mo e Ecc.mo Signor Duca3 nostro signore e patrone, e con quello animo di studiare, o far perfetto lo studiato, col qual nasceste; cosa degna di voi e non indegna di S. E. e che in questa vostra quiete e con tale appoggio vi ricordiate più di me che io proprio non faccio. Di ciò vi ringrazio e del vostro bene essere ringrazio Dio e il nostro comun Signore. De' nostri studi parlaren10 di breve, delli quali ho assai a ddire, rimettendo il giudizio a chi più ne sa. Ora di me stesso ragionarò. Venni a Padova con gran favore di S. E. Ili.ma che mi ci mandò trionfante, ma con tanto disfavore di mali ainici che governavano la mia robba che ancor ci sono intricato; non però tanto che io non me ne possa delivrare di qua da pasqua e venire a Pesaro a baciar la mano a S. E. Ill.ma come servo a patrone, e abbracciarvi di bona voglia, quanto a me, quasi risuscitato; ove parlaremo de' miei Dialoghi alcune cose che cosi bene non scriverei. Dirò or solamente che dal signor P[rincipe] A[ntonio] e da quelle gentilissime due signore ho avuto molti favori ma niuno maggiore che d'aver cura dell'onor mio nel ristamparsi de' 1. Felice Paciotto, gentiluomo di Urbino, addetto come letterato alla corte dei Della Rovere, fu uno dei migliori amici dello Speroni, che gli scrisse molte lettere; fra quelle conservate la prima è del 2 dicembre 1566, l'ultima datata del 12 novembre 1582. Moltissime in S sono anche le lettere del Paciotto allo Speroni. Fratello del notevole architetto Francesco Paciotto, Felice godette in vita di grande fama come filosofo. Nel 1564 Emanuele Filiberto l'incaricò di restaurare lo Studio di Mondovì; fu anche tra i deputati alla correzione del calendario voluta da Gregorio XIII: cfr. A. LAZZARI, Memorie del conte Francesco Paciotti, Fermo 1796, p. 4. Nel I 58 I inviò una sua difesa della Canace allo Speroni (la si veda in S, iv, pp. 226-33), affinché la rivedesse e gli dicesse il suo parere, in vista di una eventuale pubblicazione. Ma forse, malgrado le numerose richieste dell'amico, lo Speroni non gliela restitui più, cosi che quell'abbozzo è rimasto fra i manoscritti speroniani. 2. questa •• • presente: la si veda in S, v, pp. 270-1. 3. Francesco Maria II Della Rovere, che fu duca d'Urbino dal 1574 al 1621 (e nel periodo 1623-1624). Morì nel 1631.

SPERONE SPERONI

miei Dialoghi, nelli quali vive ancora il mio nome in bona grazia di alcun cortese intelletto. 1 Laudo voi infinitamente di voler scrivere della poetica,2 della quale, interrogato molte fiate dal Tasso e rispondendoli io liberamente sì come soglio, egli n'ha fatto un volume e mandato al signor Scipione Gonzaga 3 per cosa sua e non mia; ma io ne chiarirò il mondo. Le vostre composizioni per sé buone e belle vedrò io o udirò volentieri, tanto più quando a esse sarà aggiunta, sl come ancella a signora, qualche mia laude. Io veramente di tutte l'arti razionali, ciò sono grammatica, istoria, poetica, loica e retorica, ho letto assai e scritto quasi altrettanto, ma in tante volte, in tanti luoghi e in tanti tempi che 'I porre insieme ogni cosa sarebbe opra impossibile; ma, ragionando con chi ne sa, sperarci di ricordarmene qualche parte, e ciò sarà tornando io a Roma che, passando per Pesaro, mi fermarò in esso quanto vorrete. Vi mando la inclusa perché le sia dato certo ricapito, 1. Dirl, ••. intelletto: il Paciotto nella lettera del 23 gli aveva scritto: •Aveva da dirle prima come S. E. Ili.ma l'aspetta con molto desiderio, e dopoi che in Milano il signor Pr. Antonio mi disse che vorria fare ristampare i Dialoghi di lei e che perciò desiderava d'intendere sopra ciò l'animo di V. S., cioè s'ella aveva fatto loro alcuna giunta, se gli ha finiti, quelli cioè che gli furono tolti prima che ella gli emendasse e adornasse; e se voleva rimuovere alcune cose, come si diceva, o pure vuole lasciar ad altri suoi fedeli e amorevoli la cura d'eseguire la mente sua. Che se bene non saranno sufficienti quanto bisogna, suppliranno con la diligenza e col mandarli prima a lei, acciocché veda poi se staranno bene» (S, v, pp. 270-1). Non ho elementi per identificare il Principe Antonio e le due signore. 2. Laudo ... poetica: cfr. la citata lettera del Paciotto: • Ho poi da dirle ch'io sono dietro ad una mia poetica, ricercato a ciò da molti virtuosi, i quali dicono di rimanere spaventati dopo tante lunghe scritture che sono fuori sopra tal materia. Studiarò alla facilità, all'ordine e alla brevità e ai veri fondamenti, secondo le mie forze; con patto che V. S. poi la vegga o la senta. Al fermo non serà in tutto mala, perché serà pure adornata del nome dell'unico signor Sperone e d'alcune laudi di lui e delle cose sue secondo }'occorrenze; oltre che la sua censura desiata le farà del bene per carità, come spero» (S, v, p. 2.71). 3. Scipione Gonzaga (1542-1593) 1 figlio del marchese Carlo di Gazuolo, aveva fondato nel 1564 a Padova l'Accademia degli Eterei. Nel 1587 sarà nominato cardinale. Fu assai legato a TORQUATO TASSO, che gli dedicò i Discorsi dell'arte poetica (poi editi a Venezia da G. Vasalini nel 1587). Il 2.0 febbraio il Paciotto rispondeva: « Vederemo d'avere quella scrittura che ha il signor Scipione, se sia in servizio di lei» (S, v, p. 2,73); e di rimando lo Speroni il 24 dello stesso mese: « Dal signor Scipione non spero che abbiate nulla, perché a mostrar quel che si usurpa quel pazzo si aspetta che io mora. Ma io li dissi nella Minerva che tutto era mio; e senza veder li suoi scritti profetiggiai che 'l suo poema non saria scritto con l'artificio da lui notato: segno che l'arte non era sua• (S, v, p. 274). Per i rapporti fra lo Speroni e Torquato Tasso si veda la Nota introduttiva, pp. 486-8.

LETTERE

il che non son sicuro che ella abbia per la via di Ferrara. Se le nozze della nipote del signor Duca di Parma col Principe di Mantova 1 sono vere, vi priego di mandarla; non sendo vere, datela al foco. Vi priego di farvi mostrare da M. Ettor Pardi2 tre miei forzieri3 da me lasciati nel guardarobba di S. E. Ili.ma e averne un poco di cura senza vostro fastidio; in quelli sono mie robbe delle più care e più necessarie che io abbia al mondo. E qui sia fine. Dio sia con voi.

Di Padova, di 29 di genn. I58r.

[xxxiv] AL MEDESIMO A PESARO

Molto magnifico signor, venirò questa estate allo Imperiale, 4 se la infermità della mia nipote il consentirà, 5 ché alla vecchiezza soccorreranno il disiderio di baciare al Signor nostro la mano; il qual di1. Il principe Vincenzo (1562-1612), dal 1587 duca di Mantova e del Monferrato, sposò infatti nel 1581 Margherita, figlia di Alessandro Farnese e quindi nipote di Ottavio, duca di Parma e Piacenza; ma il matrimonio venne annullato due anni dopo per imperfezione fisica della sposa. 2. Ettore Pardi, ricordato anche in una lettera del 12 novembre 1 582 (S, v, p. 284), era al servizio dei duchi d'Urbino. Nel 1571, per ordine di Guidobaldo II, aveva accompagnato a Venezia lo Speroni di ritorno da Urbino, dove aveva assistito alle nozze di Francesco Maria Della Rovere con Lucrezia d'Este. In tale .occasione lo Speroni si lamentò fieramente di lui: « con simil compagnia» scriveva al Paciotto il 10 marzo (S, v, p. I 93) e1 Dio mi guardi da far viaggio, né stanza mai più in luogo o a luogo alcuno». 3. Il Paciotto rispondeva il 20 febbraio: e I tre forzieri di V. S. sono nell'intima guardaroba di S. E. 111., serrati e ben custoditi. Se ci siano robe ch'abbino bisogno d'alcuna cura e ch'ella vogli che s'aprino, me lo facci sapere ch'io ci usarò fede e diligenza. Fra tanto se ne staranno rinchiusi» (St v, p. 273). 4. Imperiale: la bella residenza estiva dei duchi d'Urbino a pochi chilometri da Pesaro. 5. se la infermità . •• consentirà: cfr. la lettera del s maggio allo stesso Paciotto: «Nuovo e lungo travaglio e d'incerto fine mi apporta ora la mia non buona fortuna, perciocché una mia cara nipote [Lucietta], la quale io maritai già due anni in Modona [nell'ottobre del 1578] con molta spesa, è tornata sì fattamente indisposta che io temo molto della sua vita, e so certo di non poternela assicurare di questi sei mesi. Dunque del mio andarmene a Roma non sarà nulla questa estate, e forse ancora del venire a baciar la mano allo Ili. e Ecc. Signor nostro e patrone in Pesaro o in Urbino. Farò ben dal mio canto quanto potrò per venirvi, perché se 'l caldo m'impedirà il medicarla e ella stia in maniera che il mio governo specialmente non le bisogni, io senza dubbio verrò a baciarli la mano e star con voi quindici giorni» (St v, p. 276).

SPERONE SPERONI

siderio mi sarà in vece d'ale non che di barca o di cocchio, e seco insieme la temperanza del camminare e del vivere. Ma poiché la vostra letera 1 ha toccato un tasto che suol son armi nel core già molti anni, io, invitato da questo suono, invito voi e ogn'altro che si diletti di poesia a studiare con diligenzia la Enei,de di Virgilio con tutte quante le aggiunte necessarie a volere intendere per qual cagione volesse quel divin poeta che tal poema morisse insieme con lui, lasciando vivere non pur la Georgica, detta da S. Agostino poema emendatissimo, 2 ma la Bucolica ancora. In Roma un giorno il Cardinale Farnese, 3 male informato di me da quei cortigiani ociosi, con tai parole mi interpellò: «È vero, M. Sperone, che voi vogliate abbruggiar Virgilio?». Al quale io dissi: « Dio me ne guardi; ma voglio bene cercar d'intendere perché egli stesso volesse fare ardere la sua Eneide». Parmi adunque cosa da voi che nello ocio dello 'mperiale investighiate questo perché. Noto è il fatto per li scrittori della sua vita, per lo essametro di Ottaviano, per Plinio, per li epigrami di due Sulpicii, Apollinare e Gallo, e finalmente per la correzzione di Tuca e Varro ;4 ma la cagion dello effetto non ho mai letta in alcuno, e questa cerco; e è cosa da esser cercata da chi disidera d'imparare e insegnare, benché un gran literato5 nieghi il fatto palesemente. lo intorno a questo perché ho 1. Il Paciotto nella lettera del 6 maggio aveva scritto: • S. E. 111. desidera d'aver nuova ancora di quei scritti di V. S. intorno a Virgilio; non mi ha già detto ch'io le ne dia avviso, ma gliel'ho voluto significare perché lo sappia• (S, v, p. 277). 2. la Georgica ... emendatissimo: non ho trovato nelle opere di sant'Agostino questo giudizio, che non è registrato nemmeno nell'ampio studio di H. HAGENDAHL, Augustine and the Latin Classics, Goteborg 1967. 3. Alessandro Farnese (1520-1589), cardinale dnl 1539. 4. Noto •.• Va"o: come racconta DONATO, Verg. Vita (edizione citata nella nota 3 a p. 741), pp. 8 sgg., Virgilio «egerat cum Vario, prius quam Italia decederet, ut, si quid sibi accidisset, Aeneida combureret; at is factu.ru.m se pemegarat; igitur in extrema valetudine assidue scrinia desideravit, crematurus ipse; verum nemine offerente nihil quidem nominatim de ea cavit». E PROBO, Vita Verg.: «Aeneis servata est ab Augusto, quamvis ipse testamento damnat, ne quid eorum guae non edidisset extaret •· Augusto affidò a L. Vario Rufo e Plozio Tucca la cura di pubblicare l'Eneide a condizione che nulla aggiungessero. Il famoso episodio è narrato anche da PLINIO, Nat. hist., VII, 114; SERVIO, Aen., Praef.; MACROBIO, 1, 24, 6; SVETONIO, Vit. Verg., che cita i versi di Sulpicio da Cartagine (Sulpicio Apollinare: si veda Anth. Lat., 653 Praef.); GELLIO, Noct. Att., XVII, 10, e da altri ancora. 5. un gran literato: forse Torquato Tasso che in una lettera datata solo «di Ferrara il 18 di dicembre• (S, v, pp. 386-7) scriveva allo Speroni: • ho deliberato [.••] di scrivere alcuni dialoghi, ne' quali è mio proponimento di difender Virgilio da tutte le opposizioni

LETTERE

fatto gran studio, ma cosi rotto e spezzato da' m1e1 negozii che 'l porre insieme cib che io ne ho scritto mi sarebbe maggior fatica che non fu scriverlo; 1 ma mi diletta infinitamente il parlarne, né insin ora ne ho parlato a bastanza, perb mi resta ancora a parlarne, ma vorrei parlarne non con protervi, disiderosi più di contendere che di sapere. La materia è da sé degna d'ogni erudito ragionamento; ma io forse la faccio indegna con la bassezza del mio intelletto, ove non è chi mi ami. Voi mi amate e sapete assai, perb è bene che mi aiutate a intendere l'ultimo iudicio che di sé fece quel divino omo, al quale dovrebbe attendere chi fa profession di virgiliano. Finito questo negocio, se ocio alcuno ci avanche li possono esser fatte; e particolarmente da quelle ch,intendo che voi medesimo le fate. Dico ..intendo", perciocch'io non lessi mai l'opera che di ciò avete scritto; nondimeno a quello son risoluto di contradire •· 1. /o .•• scriverlo: molti scritti su Virgilio ci sono infatti rimasti in fase di più o meno avanzata elaborazione: Sopra Virgilio, dialogo primo e secondo (S, n, pp. 96-209); dialogo Sopra Virgilio, frammento (S, II, pp. 356-68); Sopra Virgilio, otto discorsi (S, IV, pp. 421-579). Per lo più essi son volti a cercare le ragioni a perché Virgilio ordinasse che fosse abbruciata la Eneide•, per usare le parole del titolo del discorso I Sopra Virgilio, in cui fra l'altro lo SPERONI afferma: 11 Spiacque a Virgilio per avventura il tutto della sua Eneide, sommamente piacendoli qualche sua parte, per una di due ragioni: o perché ella non fosse (tutta intendo) sua propria opra, ma da Omero talmente tolta e tradotta che altro non fosse che un ritratto di Omero. La qual cosa considerata alla fine da questo uomo divino, il quale di ingegno e di erudizione non fu d'Omero minore e in molte altre sue cose per avventura lo superò, mosse lui a comandare che questo tutto, non sua opra ma opra omerica, si abbrugiasse, sdegnandosi il poeta di camminare per le sue onne quasi in tutto il suo cammino [...]. Ma maggior ragione il mosse per avventura, o per sé sola o con la detta• (S, IV, pp. 4235). E qucstn sarebbe consistita nei difetti della favola, che fu «mal trovata e mal disposta» (ivi, p. 428). Cosi Virgilio fece • bellissimi versi di subietto non bello o mal disposto, per che il lettor lascia la materia e attende al verso solo, considerandolo gramaticalmente [...]. Però Omero è bello tradotto e disfatto il verso; non già così Virgilio [...]. Virgilio faceva i suoi versi non tanto per significare con esso loro il concetto del suo poema, come già fece Omero, ma per adornarlo e quasi indorarlo, come solcano indorarsi le statue da scultori; onde come l'oro nelle statue occulta i difetti e la bona arte di esse statue [...], cosi se a una statua non ben fatta si togliesse l'oro, la statua non valerebbe niente. E simile a questa statua è la Eneida di Virgilio, nella quale non è alcuno artificio quanto alla favola; e il suo difetto è occultato dalla bellezza dei versi di Virgilio, i quali sono alla favola come oro alla statua; e oro sl fine che tiene occupati gli occhi e gli orecchi al lor suono e non lasciano che lo 'ntelletto di chi legge si curi di trapassare al profondo e sostanza di essa favola. La qual cosa non è in Omero, li cui versi non paiono ornamento del suo poema, ma naturalmente nati e cresciuti con lui• (ivi, pp. 575-8). E cfr. F. ZANIBONI, ViTgilio e l'Eneide secondo un critico del Cinquecento, Messina 1895.

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zarà, vediamo un poco se il nostro Dante, il qual fu sommo virgiliano, come egli dice, è degno di esser letto come fu già altra volta o se è nulla, siccome il Bembo soleva dirmi. 1 Io di questi due solamente caricarò la mia barca, ma non ne parlarò mai se non sarò ricercato. Della tragedia che difendete, 2 se quelle cose che già ne dissi in sei giorni 3 delle persone e de' versi averò a mente, ragionaremo scherzando. Vi prego di pregar Dio che la nipote con la sua mala disposizione non mi ritegna; con la vecchiezza mi accorderò facilmente, se ella mi ama come amo lei. Allo Ili.mo e Ecc.mo Signor Duca nostro signore bacio la mano, e alla vostra amorevolezza ricamando il mio onore.

Di Padooa, dì r9 di maggio r58r. [xxxv] AL MEDESIMO A PESARO

Molto magnifico mio signor, la vostra letera io ebbi il sabbato e allora non ebbi tempo a rispondervi perché la posta si parte il dl istesso; e in ciò anche noi da Padova siamo disvantagiati da quei di Venezia. Credo che siate in Urbino, per non partirvene questa estate, salvo se non andassi a Castel Durante. 4 Dunque posso sperare di trovarvi con S. E. Ili.ma in un di questi due luoghi. Venendo portarò meco le mie difese che vostre sono principalmente, perché sotto esse, quasi quel Teucro omerico sotto lo scudo di Aiace, 5 sarà sicuro il mio onore. Dissi e non scrissi l'Apologia, che comincia « Fu già in Tebe>> ;6 la qual divisi in due parti: nell'una io di1. Per il giudizio del BEMBO su Dante cfr. Prose della volgar lingua, II, xxxxi, a pp. 161-4; per gli scritti danteschi dello Speroni la Nota introduttivo, p. 488; ma per le dispute sulla Commedia si veda la sezione ad esse dedicata del tomo III di questi Trattatisti. 2. tragedia che difendete: cfr. la nota 1 a p. 841. Per le dispute sulla tragedia, e anche sulla Canace dello SPERONI, si veda l'apposita sezione del tomo III di questi Trattatisti. 3. quelle cose • •• giorni: le sei lezioni accademiche tenute a Padova nel 1558 (S, IV, pp. 163-223). 4. Castel Durante: oggi Urbania (cfr. la nota J a p. 398). 5. quasi • •• Aiace: cfr. Il., VIII, 266-72. 6. È l'inizio non dell'Apologia contra il Giudicio della Canace (S, IV, pp. 145-62) ma del sommario della prima lezione accademica (S, IV, p. 163). Il Paciotto rispondeva il 30 giugno: « S. E. 111. m'ha data una scrittura che comincia "Fu già in Tebe" in difesa della tragedia; ma non è finita e non sappiamo se sia in effetto approvata da V. S.

LETTERE

fendea le persone, nell'altra i versi della tragedia. Della prima son fatte copie infinite, della seconda niuna, che io abbia inteso. Io veramente per negligenzia lasciai di scriverle e ne parlai ben sei giorni; ma se io trovassi chi cominciasse l'antifona dell'una e l'altra, potrebbe esser che io seguitassi con tutto il salmo. A voi starà il cominciare. Ma infra i libri che io ci vorrei a parlarne l'uno è l'opuscolo che scrisse Dante della volgare eloquenzia, lo quale a Roma ho lasciato, né saprei dir chi l'avesse. Vorrei anche per mio essempio un certo libro di molti versi e diversi che fu stampato in Venezia l'anno '64 per Dionigi Atanagi, nel quale sono molti miei versi e del Veniero e di simili; ma vi è tra lii altri un poema d'incerto autore, e di pochi versi di molte spezie, 1 molto notabile per la materia e per la sua forma, il quale e se ci sia il rimanente» (S, v, p. 283). E lo Speroni il 17 novembre spiegava: 11 Rispondo ora pregandovi che tanto indugiate a risolvervi intorno alla mia tragedia che io ne possa ragionar con voi in persona. lo già la difesi alla presenzia di tutto lo Studio di Padova e parve a tutti che assai bene la difendessi. Ma la difesa, poco prezzata da me, siccome poco istimo la offesa, non fu mai da me scritta, da altri sl bene; e io so che in Roma se ne trovano cento copie e perciò può esser che anche in Pesaro ce ne sia qualcuna. Però vi prego di procurar d'averla• (S, v, pp. 284-5). I. Il marchigiano Dionigi Atanagi (1504 circa-1573), notevole anche per altre iniziative editoriali (si veda nel Dizio11ario biografico degli Italiani [1962] la voce Atanagi Dionigi di C. MuTINI), pubblicò nel 1565 (non nel 1564) «in Venezia,appresso Lodovico Avanzo » due volumi De le rime di diversi nobili poeti toscani. Dello SPERONI vi sono compresi i sonetti Ecco Signor del cielo (n, p. I = S, IV, pp. 3734), Roma, questa diritta e piana via (II, p. 1v. = S, IV, p. 374), Scliiera gentil (II, p. 6v. = S, IV, pp. 374-5), Co,ne natura (II, p. 6v. = S, IV, pp. 378-9), Chi è costei (n, p. 7 = S, 1v, pp. 375-6), Nuova Aurora (11, p. 7 = S, IV, p. 376) e il «poema» Mira cor mio (n, pp. 1v.-6 = S, IV, pp. 341-9): insomma gran parte della sua esigua produzione lirica. Rime di DOMENICO VENIERO (1517-1582) sono nel primo volume, pp. 46-7, e nel secondo, pp. 7v.-15. Il poema d'incerto autore, e di pochi versi di molte spezie è senz'altro Passa,ido con pensier per un boscl,etto (II, pp. 171-171v.), che l'Atanagi nella Tavola commenta cosl: «Ebbe già l'Atanagio questa gentil frottoletta da l'onorata memoria del dottissimo M. Basilio Zanco, al quale molto piaceva; e come che ella non abbia certa regola o ne la maniera de' versi, de' quali oltre agli ordinarii ve ne sono molti di cinque sillabe e alcuni di quattro e di tre e uno di nove, qual con rima e qual senza, o ne la proporzion de le stanze tra loro, essendone alcuna di più versi, alcuna di meno, e questa d'una maniera di versi e quella d'un'altra, nondimeno e per la stima che ne faceva M. Basilio e per la qualità e forma d'essa non più veduta, io l'ho col mio debole parere giudicata degna di non dover perire ma d'essere conservata viva, cosi per un piacevolissimo scherzo d'ingegno de l'autore, chi che egli si fosse, come per una picciola reliquia de la purità naturale de l'antica lingua toscana, la quale in essa risplende». In realtà si tratta di una, oggi notissima, caccia di F'RANco SACCHETTI, di cui si può vedere un

SPERONE SPERONI

io vidi già son sessanta e più anni; del qual poema come io lo intenda, conoscerete leggendolo. Ello è un giuoco di alcune donne. Se io nel male della nipote 1 trovarò tanto di tregua che venir possa liberamente a Urbino, verrò al principio del luglio, ma non già a posta mia ma a vostra, perché a mia posta, cioè a posta della vecchiezza dalla qual sono tiranneggiato, starei a casa ocioso, acciò non fusse chi mi dicesse: tu vai cercando la morte e giungi al danno vergogna alla maniera del disperato. Dio sia con voi. Bacio la mano allo Ili.mo e Ecc.mo Signor Duca nostro signore.

Di Padova, di z6 di giugno nello '8z.

[xxxvi] A MADONNA N. N. 2

Amandovi io e apprezzandovi, come sapete che io faccio, e allo incontro trattandomi voi tuttavia nella maniera che mi trattate, non pò esser che alcuna volta la vostra propria conscienzia, benché poca n'abbiate, non vi riprenda e rimorda. Io adunque, che nato son per difendervi e liberarvi eziandio con mio danno da ogni vostro offensore e persecutore, iudico esser obligato di far si che la ragione, la quale per me vi parla nel core e forse con qualche stimolo di pietà vi traffigge, paia aver torto; onde voi e per lo passato e da ora inanzi sicuramente e senza niuna compassione avermi possiate a vostro modo straziarmi, disprezzandomi e odiandomi ancora, se così fare vi piacerà. Però lasciatevi parlare diman alla ora e al luogo usato, che io vi prometto da leal gentilomo d'insegnarvi questo secreto a mio danno. Venite adunque sicura dalle mie mani, le quali vi prometteno, e io fo loro la sicurtà, che non sol non vi toccheranno più che a voi piaccia il petto o commento metrico in R. SPONGANO, Nozioni ed esempi di metrica italiana, Bologna 1966, pp. 105-7. 1. nrale della nipote: cfr. la nota S a p. 843. 2. Questa lettera, senza data e nome della destinataria, può servire come esempio della corrispondenza amorosa dello Speroni, che è andata quasi del tutto perduta, e insieme come controprova dell'arguzia in cose d'amore da lui ampiamente dimostrata nei Dialogi. Sugli amori dello Speroni si veda A. SALZA, in GSLI, LXIX (1917), pp. 271-4, che mette a frutto - forse con qualche esagerazione - le notizie ricavabili dalle Lettere dell' ARETINO (edizione citata nella nota 4 n p. 797), 1v, pp. II4"•, 120, 241; v, p. 234; VI, p. 127"•

LETTERE

il viso o altra parte della persona, ma non saranno ardite di torvi il velo del capo; e se io vi mento, prego Dio che viva lungamente infelice. Venite adunque e imparato che averete in che guisa voi vi possiate iscusare con la vostra propria conscienzia del poco conto che voi tenete di me; apparecchiatemi incontra tormenti novi o continuate li usati, senza tema di dovere esser per ciò riputata crudele.

[xxxvn] AN. N.

Magnifico signor mio, tarda giunse la vostra letera; onde se tardo sono a rispondervi scrivendo in prosa risponderò per la rima. Me certo iscusano i giorni santi. Voi che? Dice e giura il corriere che egli veniva a staffetta. Ma questa vostra tutta cascante di cerimonie, bene parlante, bene inchinevole letera, chiunque fusse che per cammino incontrasse, chiamava a sé e con parole di perle e d'ostro 1 o almen di rose e viole lo salutava, accoglieva e così stava con esso seco un gran pezzo; poi nel partire voleva darli la strada e contrastava, or ritirandosi e or piegandosi all'altra mano, non guardando né a fossati né a fango; e con queste galanterie consumava di molte ore. Concluse al fine il corriere di non portar mai più letere d'alcun poeta, né portarebbe la mia a voi, se non fusse che io fui poeta e non sono. Per grazia, signor mio, se voi volete che io l'abbia tosto, non mi scrivete mai più letera in suon di questa, ma, al fatto venendo, ditemi subito come voi state della mascella, se siete più innamorato, se poetate, che fanno tutti que' miei signori che qui vi nomino, lasciando l'ordine de llor nomi alla elezzion della sorte, e se di me si ricordano; se venendo io a Ferrara, sarà signora o sua fantesca che degnar voglia di favorire un buon vecchio sordo da Padova, ascoltando con pazienzia le mie pazzie che molte sono e saranno e perdonandole tutte quante e ammonendomi gentilmente de' miei difetti. Che, dunque pensi, direte voi, di mai venire a Ferrara, se non andando a quella tua Roma ? Certo io ne penso al dispetto delle mie liti e della vecchiezostro: porpora. Perle e ostro è coppia petrarchesca; cfr. Rime, CCCXLVII, 4: •e d'altro ornata che di perle o d'ostro». Questa lettera è una bella caricatura dello stile cerimonioso del tardo Cinquecento. 1.

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SPERONE SPERONI

za congiurate a tenermi a Padova; e cib sarebbe senza alcun dubbio se Madama la Principessa di Urbino 1 ci venisse ella questo anno; né guardarei alla nemistà, che ha meco il luglio e l'agosto, di pormi in via contra il lor caldo, che a me suole esser come archibugio in trafigermi.

Poiché la lettera non è datata, non mi è possibile identificare questo principessa di Urbino. 1.

GIOVAN BATISTA GELLI

NOTA INTRODUTTIVA

Rispetto al Bembo e allo Speroni, che furono in relazione con i centri e i personaggi più rappresentativi della cultura italiana ed europea, a prima vista Giovan Batista Gelli sembra appartenere a un ambiente più ristretto, provinciale, pettegolo. In Firenze, dove nacque il 12 agosto 1498 da Carlo di Bartolomeo - che vi era venuto da Peretola col fratello Francesco per esercitarvi il mestiere di vinattiere -, trascorse tutta la sua esistenza. Non lo allettarono le belle città, fervide di vita culturale e artistica, e nemmeno le relazioni con i personaggi illustri. Da Firenze, a quanto pare, si allontanò una sola volta; e non per un lungo viaggio, bensl solamente per recarsi a Pisa, forse per incontrarvi Simone Porzio, professore di filosofia aristotelica nello Studio, del quale stava volgarizzando alcuni opuscoli. A parte le beghe accademiche e le noie con la censura ecclesiastica, la sua vita trascorse fin troppo tranquilla, apparentemente priva di inquietudini, in pieno accordo col regime instaurato da Cosimo I. Se conobbe momenti di crisi, li seppe nascondere assai bene, grazie alla garbata riservatezza con la quale circondava tutto ciò che apparteneva alla propria intimità. Poco pertanto sappiamo sulla sua vita privata, e quel poco non si presta a essere romanzato. I primi biografi, specialmente l'autore dell'orazione anonima, hanno insistito sull'indigenza della famiglia e sulla violenza che il padre avrebbe fatto ai suoi forti interessi culturali avviandolo al mestiere di calzaiolo. In realtà, Carlo, morto prima del 1524, non lasciò nella miseria il figlio che fin dal 1519, in compagnia di Filippo del lVIigliore, aveva cominciato a studiare il latino con Antonio Francini, allora correttore delle stampe dei Giunti. Nel I 520 si era sposato con lVlaria di Marco de' Bettini, da cui ebbe due figlie che poté regolarmente maritare nel I 538 e nel I 542, e poi lasciare eredi, col testamento rogato nel 1557, di una casa e di un podere. Quanto al lavoro di calzaiolo, si può credere che da lui fosse stato accettato senza drammi, come una cosa ovvia. Più tardi forse rimpianse di non aver avuto più agio per lo studio, ma non al punto da rinnegare il mestiere, nemmeno quando il prestigio che si era acquistato glielo avrebbe facilmente consentito. Il caso di Matteo Palmieri gli sembrava - come già era sembrato ai contemporanei I.

GIOVAN BATISTA GELLI

esemplare della possibilità di conciliare l'esercizio di un'arte meccanica con lo studio; e non a torto perché le caratteristiche precipue della più schietta tradizione fiorentina dipendevano proprio dal fatto che era espressione non di puri letterati bensl di uomini operosi nelle botteghe, nel fondaco, nella banca. Ed è significativo che per lo più il Gelli abbia dedicato le sue opere a mercanti; in una di queste - la Dedica della prima edizione della Lettura prima sopra lo Inferno (1554) a Giuseppe Bernardini «gentiluomo e mercante lucchese>> - egli anzi scriveva: «voi altri mercanti, quando voi vi dilettate di praticare con uomini litterati e virtuosi, gli volete per amici e per compagni, e non per servidori e schiavi, come i grandi e come i principi, non dico secolari o del mondo (ché questi per avere per loro fine il bene governare, mantenere e augumentare i popoli e i sudditi loro, hanno sempre civiltà e umanità, come posso particularmente far fede io, per i tanti benefizii di onori e di facultà, che ho ricevuti da la Eccellenza dello Illustrissimo Signore Duca di Firenze, Principe e patron mio), ma degli spirituali solamente, la maggior parte de' quali, avendo per loro fine principale il convertire prodigamente in uso e comodo propio tutto quello che arebbe a servire, parte al culto divino, parte ad essi e parte al sovvenimento di quei popoli d'onde ei lo traggono, altra cura non tengono, né fanno altrimenti stima alcuna de' litterati e degli amatori delle virtù, che il tenergli per servidori, non per affezione ch'e' portino a quegli, ma solo perché e' pensano che lo averne per le loro corti arrechi loro e loda e onore. Laonde io che, vivendomi contento nelle mie case del pane che mi viene della fatica delle mie mani, quanto qual si voglia di loro in qualunche grandezza e riputazione, non ho mai voluto, non che servirgli, ma né corteggiarli pure mangiando con loro o in modo alcuno altro, conoscendo assai chiaramente per tale cagione che le mie fatiche non arebbono mai grado alcuno appresso di loro, mi son finalmente risoluto di onorarne, per quanto io e elle possono, quegli uomini che sono al consorzio umano di qualche utile». Nel proprio "stato" non vedeva un'ingiusta condanna della società, bensl una condizione nel complesso vantaggiosa che gli permetteva di conservarsi immune dai vizi dei letterati e di dedicarsi agli studi con completo disinteresse, senza fare mercimonio del sapere. Pertanto, non lo rinnegò mai e non intrigò per innalzarlo con mansioni burocratiche o cortigiane, e invece si

NOTA INTRODUTTIVA

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sforzò in ogni modo per migliorare il proprio patrimonio culturale con la tenacia di colui che pensa di appartenere a una classe in ascesa e insieme con la modestia propria di chi crede di compiere niente più che il proprio dovere. In tutto questo c'è un "conformismo" che a qualcuno potrebbe spiacere. Non si deve però dimenticare che il momento di maggior vena del Gelli - fra il 1540 e il 1550 circa - coincise con un periodo di vigorosa iniziativa da parte di Cosimo I, impegnato nell'affrancare lo stato dalla tutela spagnola, nel difenderlo dall'ingerenza pontificia e nel dargli compattezza grazie al ricupero della cultura più genuinamente fiorentina e alla sua diffusione nei vari strati della popolazione. A Cosimo, preoccupato di allargare le basi del consenso popolare, servivano personaggi come il Gelli, il quale legato alla vecchia Firenze - si trovò ad aderire al programma del suo principe senza dover compiere una scelta, in quanto subito gli sembrò conforme alle proprie esigenze. Gli mancava la passione politica, così tipica di quei fiorentini a cui tornava nostalgicamente col pensiero; ma questa passione-per quanto è dato saperegli era mancata anche negli anni giovanili in cui di solito c'è una maggior capacità di impegno entusiastico. Nel 1520 il suo nome appare nello «squittinio » dei «veduti di Collegio» e poi ancora nello «squittinio » del 1524 come «non beneficiato per le arti minori»; nel I 539 come uno dei «veduti per i XII Buonomini ». Ed è tutto. Cresciuto ai tempi della prima repubblica, testimone della seconda e della sua drammatica fine, probabilmente maturò assai presto un generale scetticismo per i sommovimenti sociali e per la capacità del popolo di autogovernarsi. Passati i quarant'anni, quando entrò sulla scena della cultura, non poteva che sperare di incontrare un principe che almeno gli consentisse di operare per una rivoluzione culturale; lo incontrò, lo apprezzò sinceramente ma senza piaggeria: anche allora le sue uniche cariche furono quelle accademiche, e ad altre non ambì. L'attaccamento tenace alla propria città indica chiaramente i limiti del nostro calzaiolo, che però alla tradizione fiorentina seppe aderire con tanta lucidità che quei limiti si tradussero in fedeltà a un nucleo, ristretto ma intensamente vissuto, di convinzioni capaci di giustificare la sua opera di scrittore e di renderla forse non meno rappresentativa di quella del Bembo e dello Speroni. Si pensi innanzi tutto all'amore per Dante, che nell'Orazione sopra

GIOVAN BATISTA GELLI

la esposizione di Dante è indicato come (( la prima e principal cagione che io sappia quel tanto che io so (conciosia cosa che solamente il desiderio d'intendere gli alti e profondi concetti di questa sua maravigliosissima Comcdia fusse quello che mi mosse, in quella età nella quale l'uomo è più dedito e inclinato che in alcun'altra a' piaceri, e nella professione che io faceva e fo, tanto diversa da le lettere, a mettermi a imparare la lingua latina e di poi a spendere tutto quel tempo che io poteva torre a le mie faccende familiari negli studii delle scienze e delle buone arti, giudicando, come è il vero, che il volere intendere senza quelle questo poema fusse come un volere volare senz'ali, o veramente un volere navicare senza bussola e senza timone)». In questa e in molte altre dichiarazioni del genere si potrebbe sospettare una certa enfasi; ma a torto. La Commedia era davvero un testo fondamentale per la cultura fiorentina, tanto che fra Quattro e Cinquecento la "fiorentinità'' più o meno genuina di uno scrittore si potrebbe misurare proprio dall'adesione più o meno stretta, più o meno spontanea, a Dante. Il Gelli, dunque, non era, com'è stato detto, uno scrittore arretrato al Trecento, bensì un fiorentino che nella Commedia scorgeva una lezione letteraria e culturale irrinunciabile, non diversamente, per esempio, da Girolamo Benivieni che reagi al tentativo bembiano di fare delle Terze rime di Dante un testo esemplare e lontano, o meglio ancora dal Machiavelli che nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua affrontò baldanzosamente lo stesso Dante per fargli confessare la piena conformità della Commedia col fiorentino. Nel Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua il Gelli ci fa sapere d'aver frequentato gli Orti oricellari; e non è impossibile che qui abbia ascoltato l'ex segretario fiorentino difendere la propria lingua contro gli amici trissiniani, anche se, a ragione, non lo nomina fra coloro che cominciarono a considerare e a osservare (( gli avvertimenti e l'arte» di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma se per il desiderio di una lingua "regolata" finiva, involontariamente, per accostarsi ai "trissiniani" Cosimo Rucellai, Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonti, Francesco Guidetti, ecc., il Gelli restava tuttavia fedele al programma che il Machiavelli implicitamente ed esplicitamente aveva proposto per la rinascita culturale di Firenze. L'amore incondizionato per Dante, sentito come un autore vicino, tuttora usufruibile; il rifiuto di una letteratura di evasione

NOTA INTRODUTTIVA

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e in genere del culto classicistico della forma; l'amore per il Petrarca accompagnato dal rifiuto del petrarchismo; la predilezione per la prosa di riflessione e per la commedia intesa come specchio della vita quotidiana; l'adesione immediata agli autori del Quattrocento - Pulci e Burchiello, per esempio -, e non ancora il ricupero filologico ed erudito, ma senza simpatia, di un Varchi: queste e altre convinzioni mostrano la fedeltà del Gelli a quello che, non a torto, è stato considerato l'ultimo dei grandi fiorentini. Anche l'accusa di plagio lanciatagli dal Lasca, la confessione nell'Errore di una certa somiglianza con la Clizia e l'evidente ricordo dell'Asino nella Circe confermano che il Machiavelli era ben presente alla mente del Gelli. E che questi per il circolo del nostro calzaiolo fosse il vero difensore della fiorentinità è confermato dalla Difesa della lingua fiorenti,za e di Dante del Lenzoni, in cui proprio a lui è affidato il compito di confutare l'opinione bembiana che «l'essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio». La fedeltà del Gelli alla genuina tradizione fiorentina appare ancor più rilevante se si pensa che in lui la lezione del Machiavelli significativa, anche se dimidiata e scolorita - si fonde e si arricchisce con un'altra lezione, a cui l'autore del Principe era stato volontariamente sordo : quella ficiniana che aveva conseguito una grande popolarità presso le classi medie. E come elemento di continuità con la Firenze quattrocentesca agì anche il maestro di filosofia che il Gelli si era scelto: Francesco Verino il vecchio, lettore nello Studio, a cui mostrò sempre una grandissima devozione, tanto da ripetere per lui la lode tributata a Dante: . E si veda La Circe, x, a pp. 11 54 sgg. I. lddio ... natura: cfr. Letture dantesche, II, pp. 550-1 : « [ ••• ] Dio, poi ch'egli ebbe creato il mondo, impose a ciascuna cosa che operasse secondo la sua propria natura; e primieramente a' cieli che contenessero il tutto; e a' luminari ch'e' pose in quegli che rendessino la luce il giorno e la notte, e insieme con quella gl'infl.ussi loro; a l'acqua e a l'aria, che stessero ne' termini loro e producessero i pesci e gli uccelli; alla terra che producesse gli alberi e l'erbe; agli animali che crescessero, mantenendo le spezie loro; e a l'uomo, ch'egli aveva creato ad imagine e similitudine sua e datoli lo intelletto e l'anima ragionevole, ch'egli contemplasse le opere delle sue mani. Ché altro certamente non vogliono significare (secondo me) quelle parole del testo, che Dio, poi ch'egli ebbe creato l'uomo, lo prese e portollo nel paradiso delle delizie a ciò ch'egli operasse quivi, se non che l'uomo, come uomo, debbe operare nel paradiso delle contemplazioni, e non in questo sensibile, come gli altri animali, e che la sua propria operazione non è altro che lo intendere e 'I contemplare. E così finalmente si conchiude che ciascuna sustanzia creata ha qualche propria operazione, a la quale ella è, con una delettazione che in quella ha posto la natura, continovamente allettata; anzi da una providenzia della sua natura inclinata e sospinta, a ciò ch'ella

I CAPRICCI DEL BOTTAIO • III

sua fu poi miserabilmente cacciato, e gli fu tolto (che è quello che più mi duole) quella rettitudine che era in noi, cioè la giustizia originale, mediante la quale tu mi eri ubidiente, e non ricalcitravi mai contro di me, come tu hai fatto dipoi. GIUSTO. Orsù, io ho inteso dire tante volte queste cose medesime su pe' pergami,' che non bisogna più che tu me le ridica: vegnamo alla conclusione. ANIMA. Se tu non se' stolto interamente, tu puo' aver raccolto da questi miei ragionamenti, che il fine mio e tuo (perché ciò che io parlo, parlo de l'uomo) non è in queste cose corporee e terrestri, come è quel degli altri animali, i quali mancano della ragione; ma è solamente nella contemplazione della verità, de la qual, contemplando l'opere maravigliose fatte dalla potente mano di Dio, si può aver gran parte in questo mondo: onde io fui da Iddio messa in te e unita a te, perché, mediante i tuoi sensi e il tuo aiuto, io acquistassi tutte quelle cognizioni delle quali è capace la natura umana; acciò che quelle mi fussino scala a condurmi a contemplare essa verità senza velame alcuno, donde n'avessi a nascere la mia felicità insieme con la tua beatitudine. GIUSTO. Tutto questo che tu hai detto sta bene; ma in che ti ho io impedita? ho dato mai alcuna noia, che tu abbi circa a questo da dolerti di me? ANIMA. Io non vo' parlar, Giusto, di quegli impedimenti comuni che nascono da te e da la natura tua propria, inferma e inclinata ad amare e cercare sempre le cose terrene; ma mi vo' solamente dolere teco di questo, che tu m'abbi sempre tenuta occupata in così vile essercizio quanto è questo del bottaio, come tu hai fatto. Ohimè! che dolor credi tu, Giusto, che sia stato il mio, che son si nobile creatura, ne lo aver sempre a ministrarti ogni mio sapere e ogni mia possanza perché tu facci botti, bigonciuoli, arcucci da bambini, 2 zoccoli, e altre simil cose vili? e che solamente per i bisogni tuoi abbia avuto a lasciare la contemplazione della bellezza di questo universo, e a tener gli occhi rivolti in giù in cosa tanto bassa e contro a la natura mia? Dimmi un poco : non ho io ragione di dolermi ? conseguisca l'ultimo fine suo e la sua vera perfezione, che non è altro che il sommo bene 11. 1. su pe' pergami: dal pulpito. 2. arcucci da bambini: di legno o di vimini, si mettevano nelle culle o nei lettini sotto le coperte, per impedire che queste potessero soffocare i bambini.

GIOVAN BATISTA GELLI

Queste tue ragioni pare a me che in un modo sieno vere, e in un altro no. In quanto a considerare la natura tua, elle mi paion vere; ma in quanto a considerare la mia e dell'uomo ancora, no: perché e, si leverebbon via tutte l'arti mecaniche; e tu sai pur quanto elle sien necessarie, non solamente a me, ma a te ancora: perché, quando patisco io, tu non puoi ancora tu fare le tue operazioni perfettamente. ANIMA. Io non vo' levar l'arti mecaniche: ché io so bene di quante cose ha bisogno l'uomo, e tu particularmente, senza le quali tu caderesti in mille infirmità e in mille noie; le quali mi impedirebbon di maniera, ch'io potrei molto manco darmi a le contemplazioni che io non posso fare stando cosi. GIUSTO. O come noi Se tutte l'anime volessino che quegli uomini di che elle son parte si dessino a la vita contemplativa e a gli studii? .ANIMA. No, dico: ché io vorrei che quelle a le quali è tocco per sorte qualche corpo imperfetto, o composto di umori grossi, o mal complessionato, o che ha gli instrumenti de i sensi, per qualche impedimento che ha trovato la natura contra la intenzione sua, non bene atti a fare l'officio loro, fussino, dico, quelle che avessin pazienzia a esercitarsi in queste cose vili. GIUSTO. Ohi la cosa tornerebbe a punto nel medesimo termine: ché sarebbon più quegli che attenderebbono alle arti mecaniche che alle liberali; con ciò sia cosa che la maggior parte sia quella di coloro che nascon di maniera che egli hanno poco obligo con la natura, 1 e volgarmente sono chiamati uomini grossi. ANIMA. Mercé della poca prudenzia de gli uomini: i quali, quando egli hanno a seminare un campo di biade, usano ogni diligenzia che il seme sia buono e netto, e la terra sia bene a ordine; e quando egli hanno a generare un figliuolo, tengono poco conto dell'uno e manco dell'altro, acquistandone la maggior parte subito che egli hanno cenato, e che sono alterati dal mangiare e dal bere. Onde non è da maravigliarsi se ci nascono più bozzacchia che susine: ché vo' dir cosi per onore de la umana natura, la quale arebbe avuto forse più bisogno che gli altri animali di non venire GIUSTO.

I. 2.

egli •.. natura: non hanno motivo di provar riconoscenza per lo natura.

bo::zacclii: susine andate a male perché colpite, all'inizio del loro sviluppo, da un parassita. Il Gelli evidentemente pensava a DANTE, Par., xxvu,

I CAPRICCI DEL BOTTAIO • III

in amore se non a certi tempi; poi che ella opera sl poco quel conoscimento che gli è stato dato da Iddio, perché ella ponga il freno alle sue passioni non ragionevoli. Ma lasciamo andar questo, che non tocca a me: perché mi fu dato in sorte un corpo ben complessionato, e dotato di ottimi strumenti, dove s'hanno a esercitare i sensi così interiori come esteriori; e che è vivificato da un sangue tanto buono, che genera cosi chiari e sottili spiriti atti a fare qual si voglia operazione perfettamente1 • • • io dico ben di te, si, che eri atto a fare qual si voglia nobile essercizio, cosi contemplativo come attivo: e ha'mi sempre tenuta a fare il zoccolaio. Che di' ora? pàrti ch'i' abbia da dolermi o no? GIUSTO. E che volevi tu che io facessi? Ché io fui posto a questa arte da mio padre essendo ancor fanciullo, che, come sai, la faceva ancor egli; e oltre a questo, io era povero e non aveva il modo a studiare. ANIMA. Se tu fussi stato ricco, e avessi avuto ad eleggere l'arte da te, e fussi stato in età che tu avessi avuto conoscimento, io mi dorrei d'altra maniera di te che io non fo: ma io ti ho grandemente per iscusato per questa cagione. GIUSTO. O di che ti hai tu dunque da dolere ? ANIMA. Hommi da dolere, che, essendo tu pervenuto a l'età di discrezione, e veggcndo che tu eri avviato in modo a guadagnare, che tu avanzavi ogni anno buona quantità di danari, che tu non cominciasti a pensare ancora a me, cercando di darmi, se non in tutto, almeno in parte qualche perfezione, come tu facevi a te de gli agi e de' comodi. GIUSTO. E in che modo aveva io a fare cotesto? ANIMA. A darti a qualche scienzia che mi avessi a dare perfezione e contento, e che cominciassi a aprirmi la via della cognizione della verità, che, come io t'ho detto, è il mio ultimo fine. GIUSTO. In somma, come aveva io a fare? ANIMA. A darti a gli studi delle scienzie, dico, compartendo il tempo in modo che tu non avessi scommodato le tue faccende. I 24-6:

• Ben fiorisce nelli uomini il volere; / ma la pioggia continua converte / in bozzacchioni le susine vere •· I. vivificato •.• per/ettamente: come dice il VARCHI nella lezione Sulla generazione del corpo umano, in Opere, 11, cit., p. 290, • lo spirito non è altro che un corpo tenue, sottile, che si genera dalla più sottil parte del sangue [...]. E quelli hanno lo spi.: rito migliore e più sottile e più lucido, i quali hanno il sangue più puro e più sincero•·

GIOVAN BATISTA GELLI

GIUSTO. E ANIMA. Si

volevi tu che io facessi il zoccolaio e studiassi? voleva. GIUSTO. E che arebbon detto le genti? ANIMA. Che dicono elleno a Bologna d'un Iacopo sellaio 1 che vi è, che fa la sua arte, e niente di manco ha dato tanto opera alle lettere, che ei non si vergogna da molti 2 che non hanno fatto mai altro che studiare? e in Venezia d'un calzolaio, 3 il quale mori non sono molti anni, che era così litterato? GIUSTO. E che tempo arei io avuto a farlo? ANIMA. Tanto che ti sarebbe bastato: quel che tu consumavi tal volta in giucare, o in andarti a spasso cicalando per la via. Credi tu però che questi che studiano studin sempre? Se tu poni ben mente, tu gli vedrai la maggior parte del giorno andare a spasso. Ricordati un poco di Matteo Palmieri, che era tuo vicino ;4 che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante lettere, che fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli: la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo di si bassa condizione cadessino così nobili concetti di dare opera a gli studi, senza lasciare il suo esercizio. E mi ricorda avere inteso che quel Re ebbe a dire: «Pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son così fatti». 5 1. Iacopo sellaio: «Questo bravo operaio visse almeno 3 s anni, siccome dice una sua poesia che più sotto riporteremo. Era uscito di fanciullo nel 1500; e nel I s18 godeva già nome di poeta, ed aveasi guadagnato l'amicizia d'alcuno di que' tanti valentuomini che allora vivevano, e che noi chiamiamo con riverenza i letterati del bel cinquecento». Così scrive S. Muzz1, Il sellaio Giacomo e il ferraio Giulio Cesare, verseggiatori bolognesi, in «Rivista contemporanea Naz. Ital. », XXXVI (1864), pp. 103-16 (le parole citate, a p. 104). La poesia riprodotta è l'epistola in terza rima a Matteo Franzesi Messer Matteo, l,o dagli amici udito; altri versi di Iacopo - come segnala il Muzzi - sono sparsi nelle raccolte del Cinquecento. 2. ei non . .• da molti: non ha motivo di vergognarsi di fronte a molti. 3. e in Venezia d'un calzolaio: non so chi possa essere. 4. vicino: concittadino. 5. Ricordati . .. cosi fatti: Matteo Palmieri (1406-1475) fu per il Gelli più che un modello della sua concezione della letteratura e della vita. Di professione speziale, si era infatti impegnato nella vita pubblica e negli studi umanistici, con risultati così buoni che VESPASIANO DA BISTICCI gli dedicò una Vita, POGGIO BRACCIOLINI lo pose come interlocutore nei dialoghi De miseria humanae conditionis e altri lo ricordarono con lode. Il Gelli, in quest'uomo dedito a un'arte meccanica eppur dottissimo, doveva vedere un precursore anche per la volontà, da lui più volte manifestata, di divulgare le scienze: « Rivolto poi verso i mia carissimi cittadini, in me medesimo mi dolsi, molti vedendone che, desiderosi di bene e virtuosa-

I CAPRICCI DEL BOTTAIO • Ili

Io conosco che tu di' il vero; e are'vi, per me, avuto inclinazione. Ma due cose feciono che io non vi pensai mai: l'una, la vile arte che io faceva; e l'altra, la fatica e la difficultà grande che io ho inteso da molti ch'è lo studiare. ANIMA. Oh! tu se' appunto caduto dove io voleva, allegandomi questa seconda cagione: perché alla prima, se e' non ti basta lo esempio de' moderni che io ti ho nominati, bastinti gli antichi di quei filosofi, che tutti facevan qualche arte, e particularmente quel di Ippia, che tagliava e cuciva e suo panni, faceva fornimenti da cavagli, e mille altre cose; 1 ma all'altra, ti rispondo io GIUSTO.

mente vivere, sanza loro colpa, solo per non avere notizia della lingua latina, mancavano di innumerabili precetti che molto arebbono giovato il loro buono proposito». Così il PALMIERI scriveva ad Alessandro degli Alcssandri nella Dedicatoria del trattato Della vita civile, in Prosatori volgari del Quattrocento, p. 355 (si veda anche l'inizio del libro IV, ivi, pp. 359-61). Inoltre, nella Vita civile, anche in ciò seguito dal Gelli, liberamente traduceva, parafrasava, adattava le opere classiche: dal Somnium Scipionis, dal De officiis, dal De fi11ibus, dal De amicitia, dal De republica, dalle Tttsclllatzae di CICERONE all'l11stitlltio oratoria di QUINTILIANO, alle Noctes Atticae di AuLo GELLIO e al De re rustica di VARRONE. Per la Città di vita e la coraggiosa difesa che il Gelli fa di quest'opera del Palmieri, si veda la nota 2 a p. 985; per una scelta di pagine di questo scrittore fiorentino e per notizie bio-bibliografiche, si vedano i Prosatori volgari del Quattrocento, pp. 351-408. L'ambasceria ad Alfonso d'Aragona di cui parla il Gelli avvenne nel 1455 e di essa fa menzione VESPASIANO DA BISTICCI (Vite di uomini illustri del secolo XV, a cura di P. D'Ancona e E. Acschlimann, Milano 1951, p. 302), ma senza ricordare il motto qui riferito. I. lppia ••. cose: lppia di Elide, sofista nato forse nel 443 a. C. e vissuto fino a tarda età, è più volte ricordato_ da PLATONE, che lo pose come interlocutore dei dialoghi Protagora, Jppia maggiore e Ippia minore.; in quest'ultimo (xI, 368 b-e) Socrate esalta ironicamente le svariatissime doti, manuali e intellettuali, del sofista, che p.retendeva di essere -in pos-:sesso dell'> nel 1548 ; il secondo volume a Venezia «per gli figliuoli di Aldo» nel 15 50 (nel frontespizio, 1551). In quattro volumi uscirono poi a Venezia, presso G. Scotto, nel 1552. Ristampe si ebbero a Venezia (Comin da Trino, 1559 e 1564; F. Sansovino, 1560; G. Scotto, 1562, 1563, 1570, 1575, 1577; G. Alberti, 1587). Nel 1554 a Milano, presso G. A. degli Antonii, uscirono, a parte, le Lettere giovanili, ristampate dallo stesso nel 1558 (e poi a Brescia, per gli eredi di L. Britannico, nel 1563 e nel 1567). Una prima "giunta" cospicua all'epistolario si ebbe nel 1564, quando il Sansovino pubblicò a Venezia, presso F. Rampazetto, le Nuove lettere famigliari. di M. P. BEMBO a Giovan Matteo suo nipote. Nessuna ristampa si registra nel Seicento. Le lettere furono accolte in Opere del Cardinale P. BEMBO, Venezia 1729, III, e poi edite a parte in cinque volumi (Brescia 1743). Ancora presenti nell'edizione milanese, della quale occupano i volumi v-Ix (1809-1810), non furono più ripubblicate nella loro interezza, mentre si ebbero ristampe parziali e numerosi contributi d'inediti: Lettere di P. BEMBO Cardinale, in Monumenti veneziani di varia letteratura per la prima volta pubblicati da I. Morelli, Venezia 1796; Quattro lettere inedite incluse da M. BATTAGLIA nell'Elogio del Cardinal P. Bembo, Venezia 1827; Scelta di lettere famigliari del Cardinale P. BEMBO, a cura di B. Gamba, Venezia 1830; Lettere scelte, riscontrate coll'edizioni del 1548 e 1552 e corredate di note di L. Carrer, Venezia 1845; Una lettera del Cardinale P. Bembo, per nozze Zannini-Bacchia, Venezia 1847; Lettere inedite o rare di P.

PIETRO BEMBO

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BEMBO, per nozze Ferri-Bonin, a cura di R. De Visiani, Padova 1852; Lettere di uomini illustri conservate in Parma nel R. Archivio di Stato, a cura di A. Ronchini, 1, Parma 1853; Lettere inedite del Cardinal P. BEMBO, tratte da due codici della Biblioteca Marciana, a cura di A. Sagredo, Venezia 1855; Saggio di LXVII lettere del Cardinal P. Bembo (inedite), in «Sirena», XVI, Napoli 1862; Sessantasette lettere inedite del Cardinal P. BEMBO, a cura di G. Spezi, Roma 1862; Una lettera inedita del Bembo, Torino 1875; Alcune lettere del Cardinal P. BEMBO tratte le più dall'Archivio Storico dei. Gonzaga in Mantova, Padova, per nozze Bembo-Dionisi, 1875; Lettere inedite di P. BEMBO a G. B. Ramusio, a cura di L. Dall'Oste e G. Soranzo, per nozze Dionisi-Bembo, Venezia 1875; Due lettere di P. Bembo, estratte dal « Giorn. A·,-cadico », v, t. IV, I8z9, per nozze Sarti-Manetti, Faenza 1879; Due lettere cinquecentesche dagli autografi della BibUoteca civica di Trento, Roma, per nozze Levi-Aghib, 1916; Epistolario scelto, Milano 1919. Ma sopra tutto importante è stata l'edizione del Carteggio d'amore fra M. Savorgnan e P. Bembo, procurata da C. Dionisotti (Firenze 1950), che l'ha munita di un'importante Introduzione. Una descrizione analitica del codice Morelliano Marciano Italiano, x, 143, che contiene le copie di una settantina di lettere del Bembo al Ramusio, si legge in G. E. F'ERRARI, Per l'epistolario del Bembo, in (( Lettere italiane», VIII (1956), pp. 183-191. Due notevoli contributi per una futura edizione critica dell'epistolario bembiano ha dato E. TRAVI, P. Bembo e il suo epistolario, in (( Lettere italiane», XXIV (1972), pp. 277-309; P. Bembo e il suo epistolario: le edizioni, in > dice l'autore all'altro interlocutore, Ulisse Bassiano «vi è prima una facilità di lingua e di dire che il Musuro già o 'l Lascari, così famosi e eccellenti, non ebbero mai la greca così pronta, né già messer Lazaro Bonamico la latina come ha M. Sperone la nostra. Non parole, se non belle, scelte, proprie e isquisite che da sé corrono senza intoppo e non quali di molti sono, come si vede, che a guisa di ruscello con difficultà passa tra sassi e rovine. Veggiovi poi un artificio maraviglioso nelle sentenze, le quali, come voi sapete, sono come lumi e finestre all'oscurità o come colonne alle cose, che da sé non siano troppo forti, ferme e sode» (ivi, I, pp. 430-1). L'elogio dello Speroni («sole splendidissimo e idolo unico di questa nostra età>>, ivi, 1, p. 434; «nuovo Aristotile al mondo», ivi, 1, p. 436; «più che fenice unico al mondo», ivi, I, p. 437) e dei suoi dialoghi prosegue senza originalità, toccando le figure retoriche (« che, al poco giudicio mio, Prisciano o qualunque altro più pregiato gramatico, o Quintiliano retore, non ne insegnarono mai tante; né tanti ne ave l'arte, la gramatica o la rettorica che non gli abbia egli veduti, considerati, annotati, osservati e diligentissimamente iscritti», ivi, I, p. 431), la profondità e chiarezza delle «cose filosofiche», la padronanza della varia materia trattata, l'arguzia, la piacevolezza: in sostanza al Mantova Benavides pare che « M. Sperone sappia e intenda ogni cosa e che ci abbia involato il tutto a tutti, e a noi nulla sia restato di buono» (ivi, 1, p. 431). Più interessante è la lode che estemporaneamente L. SALVIATI (Avvertimenti della lingua sopra 'l Decamerone, I, Venezia, D. e G. B. Guerra, 1584, p. 101) fa della lingua dello Speroni, «uomo non pur solennissimo in iscienzia ma nella nostra prosa finissimo dettatore, il quale a niuno di quelli che con senno e con arte tutto se l'hanno acquistato estimiam noi che secondo sia il suo stile, anzi d'alcuno che il primiero si reputa da buona parte di più natural suono e di più semplice legatura per non dire altro del rimanente, il crediamo senza alcun fallo •· Ma le più notevoli testimonianze della fortuna dei Dialogi sono l'uso spregiudicato che ne fece JoACHIM nu BELLAY nella De.ffence et illustration de la langue françoise (Paris, Arnoul l 'Angelier, 1549) - che abbiamo ampiamente documentato nelle note al Dialogo delle lingue servendoci dell'edizione critica curata da H. Chamard (Paris

SPERONE SPERONI

1181

- e la traduzione francese di Claude Gruget (Les Dialogues de Messire S. Speroné Italien, Paris, par E. Groulleau, 1551). Una traduzione di due dialoghi (De la cure f amiliere avec aucuns preceptes I 961)

de mariage, extraictz de Plutarque; aussi un Dialogue de la dignit, des femmes, traduict des Dialogues de Messire SPERON italien) era già uscita «à Lyon, par Jean de Toumes » nel 1546. Ed è interessante notare come il pensiero speroniano fosse accolto e utilizzato per mostrare la superiorità del francese sul toscano. Scriveva infatti il Gruget nella Dedica «A Monseigneur, Monsieur de Maupas»: le ne fay doute, Monseigneur, qu'aucuns de ma congnoissance, m'ayans autrefois veu soustenir nostre langue vulgaire estre du tout superieure à la Tuscane, ne prennent maintenant argument pour calomnier mes raisons: pource (diront ilz) que ie contreviens à moy-mesme, voulant enrichir et decorer nostre langue des reuvres et inventions d'autruy, comme si elle estoit si povre et desnuée de ses fleurs et couleurs, qu'elle eust besoing d'en emprunter des estrangers. Et qu'en celà elle ressemblast à la pie Horatienne, qui pour se faire brave se vestit et orna des plumes des autres oyseaux: lesquelz peu apres venans à reprendre ce qui leur apartenoit, laisserent la povre pie toute nue et descouverte. Et sur ce ilz m'alegueront gue de la langue Tuscane (que i'ay tousiours estimée inferieure à la nostre) i'ay voulu orner nostre langue, par ma traduction que ie metz en lumiere des dialogues de Speron Speroné ltalien; mais à telz calonniateurs i'ay facile responce, car le principal motif d'une traduction n'est pour atribuer la richesse d'une langue à l'autre, pource que chascune langue retient sa propre et peculiere phrase et maniere de parler qui les plus souvent ne se peult traduire, et seroit tres dificile, voire impossible, donner à la chose traduite (i'entens en quelques endroitz) ceste grace et emphase de parler qui se trouve en son naif: les exemples en sont assez evidentz es traductions Greques et Latines, comme nous voyons de Lucian, que tant de grans personnages se sont efforcez de traduire, et neanmoins en plusieurs endroitz pour ne frustrer l'autheur de sa grace et facetieuse maniere de parler ont esté contraintz y laisser les clauses entieres en sa langue Greque, confessans ne les povoir traduire sans alterer son naturel. Voudroit on dire que celà procedast de la sterilité et povreté de la langue Latine, que Ciceron à fennement soustenu estre trop plus fertile que la Greque? Certainement oussi ce qui m'a meu et fait desireux de mettre la main à la presente traduction n'a esté pour plaisir que i•aye pris à la douceur ou elegance de la langue, veu mesmement que l'autheur n'est des meilleurs Tuscans; ains pour le fruit et plaisir que i'ay veu qu'on povoit recueillir par le discours de telz dialogues. Si ceste raison ne leur sufit ie m'en raporteray à ce seul autheur Speron, lequel en son dialogue des langues (recours à iceluy) maintient que ceste sienne langue Tuscane est du tout indigne de nom et de louange, recongnoissont neonmoins que les meilleurs et plus excellentz tennes d•icelle, mesmement l'art oratoire et poetique, sont empruntez de nous. Or voisent donc ces curieux admirateurs de langue estrangere soustenir oilleurs leur afectée opinion car de ma part ie sçauray fort bien me

NOTA Al TESTI

defendre du mesme baston, dont ilz penseroient m'assaillir. Et s'ilz veullent encores repliquer que puis que nostre langue est si riche comme ie l'cstime ie devrois donc escrire quelque bonne invention, commc font les estrangers pour demonstrer l'opulence de nostre langue, i'y puis respondre le conunun proverbe qui dit, riens n'estre dit à present qui n'ait esté dit paravant. Aussi quand on voudroit exactement rechercher ce qu'au iourd'huy on apelle invention l'on trouveroit que plustost se doit nommer adicion ou interpretacion sur les premiers labeurs d'autruy que vraye invention. Parquoy i'ay voulu suivre l'opinion de Ciceron, qui dit estre meilleur de traduire en sa langue les bons autheurs estrangers, que d'imiter ses predecesseurs pour courir apres leur louange et bonne reputation. D'avantage que (comme il est escrit) nous ne sommes pas tous apellez à toutes choses, l'un laboure la terre, l'autre la seme, l'autre l'arrose, chacun selon sa vocation s'y employe, les uns ont la grace d'inventer, les autres de traduire, les aucuns sont poetes, les autres orateurs. Et qui plus est la richesse d'une langue ne consiste en inventions ou abondance de livres, mais plustost en fertilité de dictions, sinonymes et locutions diversifiées. Enquoy ie puis dire à bon droit nostre langue heureuse en laquelle on peut transferer toutes choses, et dont le champ est si fertile que toutes sortes d'herbes et fteurs, pour estrangeres qu'elles soient, y peuvent prendre racine et profiter. En considerant donc toutes ces raisons ie n'ay craint mettre ma traduction en lumiere, et faire noz François participans du fruit de ces dialogues.

* L'aldina, nell'ordine, comprende: Dialogo d'amore (pp. 1-35v.); Della dignità delle donne (pp. 36-47v.); Del tempo del partorire delle donne (pp. 47v.-54v.); Della cura famigliare (pp. 55-7ov.), «pien di sì fatta filosofia di Aristotile e Senofonte che io » scrive lo Speroni nell'Apologia dei. dialogi, II (in Opere, cit., I, pp. 313-4) «non fui oso di fame autore il mio nome; ma imitando Platone, che fa parlare il suo Socrate, io al Peretta, siccome ad uomo che per dottrina degno mi parve di tale impresa, con riverenza l'ho attribuito » (parla, dunque, il Peretto «a una giovine sua figliuola di quindici anni », novella sposa come la sorella del cardinale Luigi Comaro a cui il dialogo è dedicato); Della usura (pp. 71-81); Dialogo della discordia (pp. 81v.-105; interlocutori : Giove, Discordia e Mercurio); Dialogo delle lingue (pp. 105v.-131); Dialogo della retorica (pp. 131v.-160); Dialogo delle laudi del Cataio, villa della S. Beatrice Pia degli Obici (pp. 16ov.-169v.; interlocutori: Marcantonio Moresini e Porzia, damigella della signora Beatrice); Dialogo intitolato Panico e Bichi (pp. 170-6; interlocutori: leronimo Panico e Annibale Bichi). Il dialogo Della cura famigliare fu offerto come dono di cresima a Cornelia Comaro, figlia di Giovanni e novella sposa di Piero Morosini; lo Speroni le fece da padrino il 21 maggio 1533, e certo entro

SPERO NE SPERONI

il I 535 il dialogo era compiuto: infatti nell'Apologia dei dialogi, che è del 1575, afferma di averlo scritto a Venezia «già quaranta anni, se ben ricordo» (in Opere, cit., I, p. 314). Il manoscritto del dialogo Della usura, che allora si chiudeva con il discorso della sedicente dea, reca in calce la data 29 maggio 1537: cfr. A. FANO, S. Speroni (I500-I588). Saggio sulla vita e sulle opere. Parte I. La vita, Padova 1909, p. 54. A proposito di questo dialogo lo Speroni stesso nell' Apologia dei dialogi., 11, racconta un aneddoto gustoso: «negli anni della salute 1547 io, procurando di trar di Padova la vera usura di molti banchi di Ebrei, che malamente la consumavano; e disputandosi questa causa in Collegio, davanti alla Serenissima Signoria di Vinegia, un gentiluomo delli avversarii avvocato, a me rivolto, cosi mi disse: "Tu che la usura hai lodata e di ciò fatto un dialogo, qual ragione puoi tu avere per discacciarla dalla tua patria ?". Cui risposi: "Non l'ho lodata; guardimi Dio dal lodarla. È ben vero che io volli scrivere tutte le laudi che ella a sé stessa potrebbe dare, se ella parlasse"» (in Opere, cit., 1, p. 308). La confutazione del discorso dell'Usura (che si legge in Opere, cit., 1, pp. I I 1-32) fu scritta al tempo dell'Apologia dei dialogi. e controvoglia; cfr. Apologia dei dialogi, II (in Opere, cit., I, p. 3 I 2): «se altro fine ci si disidera, che non è questo della difesa, e che Ruzante quasi can botolo vegna avanti e ringi contra la Usura, son presto a farlo per ubbidire. lo veramente se in ciò facessi a mio senno, nullo altro fine non li darei, da quel del dialogo di Plutarco, nel quale un porco di quei di Circe prova ad Ulisse che gli animali senza ragione son creature più virtuose in ogni genere di virtude [...] >>. Intorno al 1540 furono composti il Dialogo della discordia e il Del tempo del partorire delle donne, che non è veramente un dialogo ma una lettera a un non identificato «signor mio onorandissimo »: dialogo, però, lo chiama lo Speroni stesso nell'Apologia dei dialogi (qui a p. 722). Del 1540 circa dovrebbe essere anche il dialogo Della vita attiva e contemplativa, che riferisce una conversazione avvenuta nel 1529 a Bologna, in casa del cardinale Gasparo Contarini, e si lega strettamente ai dialoghi delle lingue e della retorica: cfr. la Nota introduttiva, a pp. 473 e 505. Non fu compreso nell'aldina, forse, per un atto di modestia di Daniele Barbaro, «primo degli amici », a cui è dedicato. Altri dialoghi, diversi per ispirazione e stile da quelli giovanili, lo Speroni venne componendo negli anni successivi, ma, incurante com'era degli onori della stampa, non si preoccupò di allestire un'edizione ampliata dei Dialogi., finché le censure dell'Inquisizione non lo posero nella necessità di emendare l'aldina; allora soltanto, spinto anche dalle amorevoli sollecitazioni degli amici, pensò di pubblicarne

NOTA AI TESTI

una nuova edizione. Probabilmente, come sembra di intuire dalla lettera ad Alvise l\1ocenigo del 15 ottobre 1575 (qui a p. 822), non si impegnò molto a questo scopo, per cui il progetto, malgrado l'interessamento di autorevoli personaggi (cfr. la lettera a F. Paciotto del 29 gennaio 1581, qui a pp. 841-2), non ebbe seguito e solo nel 1596, a cura di Ingolfo de' Conti, uscì a Venezia, presso R. Meietti, una più ampia raccolta di Dialogi, che non a torto Natal dalle Laste e Marco Forcellini (in Opere, cit., I, p. XII) giudicarono severamente. I Di.alogi, vecchi e nuovi, ricomparvero poi integralmente nelle Opere, cit., ma con scelte testuali non sempre chiare o opportune.

* Nella trascrizione mi sono attenuto ai criteri già enunciati per il Bembo, salvo che, essendo l'usus scrittorio dello Speroni assai oscillante, non ho proceduto a normalizzazioni nemmeno nei pochi casi segnalati per il Bembo. Avverto però che ho unito nulla dimeno, non dimeno e al meno, che ho conservato la t in Sci.thia e simili, che ho ridotto ad a il raro ad davanti a consonante (per esempio, ad ci.ò), che ho reso Sapho con Saffo, ma cathedra e simili con la scempia, e che, secondo l'uso prevalente dello Speroni, ho assimilato la x in excellenti e simili, e reso con ss la x intervocalica di exemplo, exilio e simili. Egiptii è stato trascritto Egizzii. Questo vale anche per la trascrizione degli autografi e delle copie manoscritte, in cui avviene di incontrare la x iniziale (Xantippe, Xeno/onte, ecc.) che ho reso con s. Avverto infine che ho esaminato i manoscritti speroniani su microfilm; questi sono stati eseguiti con molta cura dalla Foto-Cine Miotti di Padova seguendo le indicazioni di Iginio De Luca che con perizia e pazienza si è occupato di questo delicato lavoro.

* La scelta dei Dialogi è fondata sulla princeps che, per quanto scorretta e non riveduta dall'autore, ha fatto conoscere il pensiero speroniano in Italia e in Francia. Né altre edizioni, come ho detto, lo Speroni ha preparato per la stampa. Delle varianti presenti nei manoscritti speroniani conservati nella Biblioteca Capitolare di Padova (cfr. la Nota introduttiva, a p. 503), ho comunque dato notizia in nota. Uno studio sistematico dell'usus linguistico speroniano fra il 1 s30 e il I 540 - un usus, peraltro, sempre piuttosto oscillante - avrebbe consentito una "ripulitura" dei testi da certi vezzi che forse erano propri di colui o di coloro che copiarono i dialoghi passati dal Barbaro ai figli di Aldo. Ma, essendo un tale lavoro alquanto complesso e non realizzabile in questa sede, ho preferito conservare tutte le

SPERONE SPERONI

1185

forme in qualche modo giustificabili, correggendo solamente gli errori di stampa.

Dialogo d'amore - Della dignità delle donne. Sulla genesi dei dialoghi d'amore ci informa l' Apologuz dei, dialogi (qui a p. 692), in cui lo Speroni afferma che, al tempo dei suoi studi filosofici, «furono opre de l'ozio mio non feste o balli, non carte e dadi, con l'altra turba infelice che suole ir dietro a si fatta schiera, ma li dialogi dell'amore [Dialogo d'amore; Della dignità delle donne; Dialogo intitolato Panico e Bichi]; e questi allora senza alcun luogo determinato e senza i nomi delle persone che vi sono ora introdotte ». Si trattava, dunque, di semplici abbozzi, che poi vennero lentamente elaborati. Il Dialogo d'amore era ormai compiuto nel 1537, quando fu recitato in casa dell'Aretino (si veda la lettera dello Speroni all'Aretino de11'8 luglio 1537, qui a pp. 791-5, e le note relative). Fu letto anche da Bernardo Tasso e dal principe di Salerno, che ne scrissero ringraziamenti e lodi all1autore (cfr. B. TASSO, Lettere, Padova 1733, 1, pp. 138, 443). Nel 1575, per le censure dell'Inquisizione, lo Speroni lo emendò, riscrivendolo per intiero: la nuova redazione, compresa nel tomo I dei manoscritti speroniani, reca in calce la data «a' dì 30 di otto b. 1575 in Roma». Le correzioni di maggior rilievo sono costituite da soppressioni coatte, che fra l'altro riducono di molto la spregiudicatezza e la vivacità dell'operetta. Altre riguardano la forma e sono volte a chiarire qualche periodo un po' aggrovigliato e a rendere più regolare la struttura delle proposizioni. Inoltre, anche perché è stato completamente riscritto a distanza di quasi quarant'anni, il dialogo presenta tutta una serie di varianti fonetiche e morfologiche, dovute al mutato usus dello Speroni. Natal dalle Laste e Marco Forcellini (in Opere, cit., 1, pp. 1-45) riprodussero il testo riveduto e censurato; qui invece ho riproposto la lezione della princeps; comunque, in nota ho segnalato i passi soppressi e le più notevoli varianti dell'autografo, che per comodità dei lettori è indicato con S anche se il confronto è stato compiuto con l'originale. Quanto alle minute differenze fono-morfologiche, mi limito a fornire qualche esempio, relativo alle pp. 512-7 (precede la lezione dell'aldina, e qui a testo; segue quella del manoscritto e delle Opere): 512.7 saperà - saprà; o/tra - oltre (correzione sistematica); 512.9 mezo - mezzo; 512.13 stimate - istimate; o/tra - oltre a; 512.14 ubligata a - obbligata di; s12. 16 umilità - umiltà; vertù - virtute; s12.23 devrei, - dovrei,; 513.5 laudandomi - lodandomi; devere - dovere; 75

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NOTA Al TESTI

513.6 m'assomiglia - mi assimiglia; 513.8 strana - strania; 513.17 vertù - virtù (frequentissima; vertii è sistematicamente sostituito); 513.18 sopporterete - sopportarete; 513.20 gelosia - gellosia (sistematica; e si corregga gelosia nella nota 7 a p. 513); 513.21 offendeno offendono; 513.23 geloso - gelloso (sistematica; e si corregga gelosa nella nota 4 a p. 514); 513.26 udienzia - audienza; 514.2 spirito spirto; 514.7 sapemo - sappiamo; 514.18 altramente - altrimenti (sistematica); 515.1 zibeto - zibetto; 515.8 dovrebbe - doverebbe; 515.10 repigliasse - ripigliasse; 515. 11 puote - può; luoco - loco (sistematica); 515.17 continovamente- continuatamente; 515.33 perché 'l- perciocché il; 516.2 chiunque il - ciaschedun che 'l; 516.7 desiderio - disiderio (sistematica); 516.10 come - siccome; fuoco - foco (sistematica); si conserva - si serva; 5 16. 1 1 desiata - disiderata; 5 16. 14 speme - speranza (frequentissima) ; SI 6. 2,2, poscia - da poi; 5 16.26 imparare a imparare di; 516.30 di continovo - sempre; 517.24 oggetto - obietto.

Quanto al dialogo Della dignità delle donne, la copia, compresa nel tomo I dei manoscritti speroniani, non presenta sostanziali differenze dall'aldina.

Dialogo delle lingue. Una redazione autografa di questo dialogo si trova nel tomo I dei manoscritti speroniani; ma N atal dalle Laste e Marco Forcellini (in Opere, cit., 1, pp. 166-201) in questo caso preferirono attenersi all'aldina. È stato ristampato da B. Gamba, in Alcune prose scelte di SPERONE SPERONI padovano (Venezia 1828, pp. 55-114), da G. De Robertis col Dialogo della rettorica (Lanciano 1912) e da H. Harth (Milnchen 1975), che ha accompagnato la riproduzione fototipica del testo compreso in Opere, cit., con la versione tedesca del dialogo. Anch'io naturalmente ho riprodotto il testo dell'aldina; in nota però ho riportato le principali varianti dell'autografo (C). Delle ~ifferenze fono-morfologiche fornisco qui un piccolo campione, relativo alle pp. 585-91 (precede la lezione dell'aldina, qui a testo): 585.3 Cortegiano - Cortigiano; 586.1 Venezia - Vinegia; 586.7 buone - bone (variante sistematica); lettere - [etere (sistematica); 586.8 gli studiosi - li studiosi; 586.9 uomo - omo (sistematica); 587. 1 uomini omini (sistematica); 587 .3 nuova - nova (la forma non dittongata è sistematicamente preferita); 587.5 vertù - virtute (vertù è assente nel ms.); 587.9 doveva - dovea; 587.15 siamo - semo; 588.5 potrà porà; 588.13 i mortali-li mortali; 589.1 doverebbe-dovrebbe; 589.17 veggiamo - vedemo; 590.5 riputazione - reputazion; 590.8 argomento -

SPERONE SPERONI

argumento; 591.1 biasi.mlJ - biasmò; 591.2 arei - avrei; 591.19 cuoco - coco; 591.30 lo cangerei al - lo cangerei. col.

Dialogo della retorica. Non ne esiste alcun originale o copia fra i manoscritti speroniani. Oltre che in Opere, cit., è stato ristampato da G. De Robertis con il Dialogo delle lingue (Lanciano 1912).

APOLOGIA DEI DIALOGI Per il periodo in cui fu composta cfr. le lettere dello Speroni a Matteo Macigni del 9 ottobre 1574 (citata nella nota I a p. 821) e ad Alvise Mocenigo del 15 ottobre 1575, qui a p. 822. Come già gli editori delle Opere di M. S. SPERONI DEGLI ALvAR0TTI, Venezia 1740, mi sono fondato sulla redazione compresa nel tomo I dei manoscritti speroniani (ora conservati nella Biblioteca Capitolare di Padova), che, scritta da un copista, reca correzioni autografe dello Speroni. Ecco un elenco delle principali correzioni (che forniscono precise indicazioni sulle tendenze linguistiche dell'autore) e dei punti in cui sono intervenuto: 683.2 me li corretto in li mi (e così, 684.5 me li in li me); 684.2 stampadori in stampatori; 684.3 franzesi in francesi; 685.8 la pur dirò: nel ms. segue cancellato per mia scusa; 685. 15 adoperate corretto in addoperate (le forme di adoperare sono sistematicamente corrette [cfr. 685.24, 692.6, ecc.] in addoperare; pertanto ho corretto quelle sfuggite alla revisione dell'autore); 685.17 donque in dunque (altra correzione sistematica [cfr. 693.7, ecc.], che ho esteso ai casi sfuggiti all'autore); 685.18 le sue contrarie in le lor contrarie; 686.12 sembianza in faccia; 686.13 non si può fare in mal si sa fare; 687.24 e fu ... onestade: nel ms. c'era soltanto e la qual taccio per onestade; la frase è stata riscritta nell'interlinea; 687.4 dovemo: aggiunto sotto possiamo non cane. ; 687 .8 puoco corretto in poco (correzione sistematica [cfr. 687.14, 708.17, 709.14, 710.8, 710.9, ecc.), che ho esteso ai casi sfuggiti all'autore); 688.6 dispensare: correggo il ms. che ha dispensate; 690.10 adempiamo corretto in addempiamo; 690.15 Ma se .•. potrà : nel ms. E non possendo cilJ fare (la nuova frase è stata aggiunta nell'interlinea); 690.29 alcune ttsate operazioni: il ms. aveva le nostre usate operazioni; lo Speroni ha aggiunto nell'interlinea alcune sopra le nostre non cancellato; 691.23 perché era sazio corretto in quando era stanco; 695 .6 il ben ... arte: aggiunto nell'interlinea;

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NOTA Al TESTI

697 .8 immitante corretto in imitante (le forme di immitare sono sistematicamente corrette in imitare [cfr. 705.4, 705.6, ecc.]; pertanto ho esteso la correzione ai casi sfuggiti alla revisione dell'autore); 702.5 e a Satan: ((unde venis?»: aggiunto nell'interlinea; 702.1011 e lo scrittore ... Noe: aggiunto nell'interlinea; 706.3 adonque corretto in adunque (correzione sistematica [cfr. 708.29, 717.13, ecc.] che ho esteso ai casi sfuggiti all'autore); 706.9 a' generi delle cause: nel ms. segue cancellato deliberative, giudiziali, demonstrative; 706. 11 vol corretto in vuol (correzione sistematica [cfr., per esempio, 715.29] che ho esteso ai casi sfuggiti all'autore); 707.15 è pieno: aggiunto sopra abbonda non cancellato; 708.13 desiderio corretto in disiderio (le forme di desiderare, desideroso e desiderio sono sistematicamente corrette in disiderare, disideroso e disiderio [cfr. 708.14, ecc.]; pertanto ho esteso la correzione ai casi sfuggiti all'autore); 711.2x sole corretto in suole (altra correzione sistematica, che ho esteso ai casi sfuggiti all'autore); 713 .9 intelletto: nel ms. segue cancellato quale è il volgare; 713. 19 quale ... volte: aggiunto nell'interlinea; 722.22 negocio: sostituisce mio ozio e nudo al tutto de' miei piaceri; 722.23 per esso corretto in altrove.

Nel tomo II dei manoscritti speroniani si trova una minuta autografa, che per vari indizi mi sembra quella da cui è stata ricavata la redazione presente nel tomo I. Il confronto con questo autografo mi ha permesso di correggere alcune forme del copista, sfuggite alla revisione dello Speroni: 685.16 luoco in loco; 687.10 magior in maggior (e così 69 I. 19) ; 690. 7 atosca in attosca; 690. 19 escellenza in eccellenza; 691.3 vilano in villano; 691.16 piaccevoli in piacevoli; 691.17 saciando in saziando; 693.8 combatitori in combattitori; 694.4 intelletuali in intellettuali; 694.18 alegro in allegro; 696.7 acquettarle in acquetarle; 697.9 sentore in scrittore; 698.13 lassio in lascio; 702. 7 alguna in alcuna; 702 .8 racolto in raccolto; 703. 1 1 dilegiar in dileggiar; 70 s. 11 parassito in parasito; 70 s. 28 silogismo in sillogismo (e così 706.6, 706.17, 706.18); 706.21 rettorica in retorica; 707.7 s'introdurano in s'introdu"anno; 707. 18 magiormente in maggiormente; 707.19 dopia in doppia; 709.12 scintilando in scintillando; 709.15 doppo in dopo; 709.22 limma in lima; 710.25 co11disipulo in condiscipulo; 71 I. 12 solazzo in sollazzo; 71 1.22 puosi in puossi; 71 I. 32 legiamo in leggiamo; 712.1 riccorso in ricorso; 712.22 dissidera in disidera; 712.27 sequuor in sequor; 713.12 schiumma in schiuma; 713.13 uscignoli in wsignuoli; 714.23 pitttra in pittura; 714.26 Ticiano in Tizi"ano; 715. 11 disoluto in dissoluto; 71s.13 si lege in si legge; 717. 3 volendo in volere; 720.9 bramma in brama; 720. 1S Abram in Abraam; 721.2 Lega in Legga; 721.10 tratato in trattato; 721.22 negozio in

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negocio; 721 .24 preciosi in preziosi.; 722.8 subbitamente in subitamente; 722. 12 dissiderio in disiderio; 722. 16 /ecci in/eci; 724. 1 dissi,derare in disiderare.

DIALOGO DELLA ISTORIA Le fasi della composizione di questo dialogo si possono agevolmente seguire nelle lettere inviate allo Speroni da Alvise Mocenigo che veniva man mano ricopiando quanto l'amico scriveva. Il primo accenno è nella lettera del 27 agosto 1585 (in Opere di M. S. SPERONI DEGLI ALVAROTII, Venezia 1740, v, p. 378); si vedano poi le lettere del 31 agosto («Quanto al suo Dialogo, se ben vi sono anche in questa parte molte depennature, tuttavia l'ho trascritto assai bene, né ho tralasciato se non tre o quattro parole. Aspetterò il restante, e convegno dirle che, leggendo e trascrivendo, resto pieno di maraviglia, vedendo con quanto vivaci spiriti, e con quanta dotta eloquenzia, in così grave età ella adorni li scritti suoi, segno assai chiaro della sua verde vecchiezza e della lunga vita che le avanza», ivi, v, p. 378), del 2 («Avrei mandato anco prima a V. S. quanto aveva trascritto del suo Dialogo dell'istoria, se non mi avesse ritenuto il rispetto di darle impaccio e disviarla, come ella mi disse, dal corso di quanto che le restava a fornirlo. Ora, avendo veduto il suo disiderio, gliele mando; e se ella mi rimanderà originale, mi mandi anco il secondo quinterno cominciato, acciocché possa seguitare», ivi, v, p. 378) e 7 settembre 1585 (ivi, v, p. 379), del 23 febbraio e del 27 luglio 1586 («volentieri saprei novella se ella ha seguito più oltre di quanto io scrissi», ivi, v, p. 380). Il lavoro continuava ancora il 29 settembre 1587, quando il Mocenigo scriveva: «Io tosto avrò finito di trascrivere il suo Dialogo dell'istoria» (ivi, v, p. 381); infatti nella lettera dell' 11 ottobre si legge: «Ho finito di trascrivere la parte del suo Dialogo dell'istoria che ella mi diede». Quanto ci resta era certamente terminato il 31 marzo 1588 quando il Mocenigo scriveva allo Speroni: «Ora la voglio pregare che non le sia discaro a volermi mandare quel resto de' suoi scritti della istoria intorno alla lingua, che io tralasciai di torre quando ebbi gli altri, che tosto averò finito di trascrivere» (ivi, v, p. 384). Di lì a poco, del resto, la morte avrebbe impedito allo Speroni di continuare a lavorare a quest'opera e ad altre che, malgrado l'età avanzatissima, teneva sul telaio. Come gli editori delle Opere, cit., ho seguito la redazione autografa compresa nel tomo III dei manoscritti speroniani, ora conservati nella Biblioteca Capitolare di Padova. Sia per il tratto ormai incerto e tremolante sia per la cattiva conservazione del manoscritto, la lettura spesso è poco chiara. Qui però mi limito a indicare le sop-

NOTA AI TESTI

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pressioni più notevoli, le aggiunte interlineari (di nonna ho accolto la lezione aggiunta, anche quando la precedente non è cancellata) e i miei interventi: 728.4 parlò: aggiunto sopra parlasse non cancellato; 728.5 qualunque: agg. sopra ciascuna non cane.; 728. 7 umano: agg. sopra omo non cane.; 728.21 latina: agg. sopra romana non cane.; 728.32 ora accorto: agg. sopra ammunito non cane. ; 729. 1-4 Quasi vogliate . .. padovana: agg. sopra forse ha ragione di così dire ma che ciò importi non so vedere, ché se la lingua toscana, la quale è il fior della italiana, non si, pareggia colla latina; 729. r 9 in umanità: agg. sopra umanista non cane.; 733. 1 il consiglio: consiglio agg. sopra la guida non cane. (ho corretto l'articolo) ; 7 33. 3 3 le quattro parti: parti manca nel ms.; 734.19 tosto: agg. su bene non cane.; 734.32 io non parlo per insegnare: agg. sopra insegnando non parlarò non cane.; 735.14-7 lo della greca .. . latina: la battuta era stata scritta così: Di. ciò ho detto a bastanza. Succedette dopo il suo caso alla lingua greca, ma più per forza della signoria che come reda legittima la. Poi tutto questo è stato .cancellato (per dimenticanza, però, di ciò ho detto non è. cancellato) e la battuta è stata riscritta di seguito; a basta al presente seguiva '.succedeva a questa (corretto in alla) eccellenza di questa lingua, che è stato cancellato {ma non alla e lingua, certo per dimenticanza); 735.29 nella: agg. sopra alla non cane.; 735.31 nella: agg; sopra alla non cane.; 736.14 intenzion: agg. sopra cognizion non cane.; 736~ 1 S ·senza frutto: agg. prima di ascoltarla; queste parole in precedenza erano dopo il verbo e lo Speroni non le ha cancellate, ma evidentemente sono da sopprimere; 737 .4 fu già: agg. sopra era non cane.; 737. 1 1 si,: agg. sopra egli non cane. ; buono: agg. sopra fatto nori cane.; 738.9 mirabilmente: segue cancellato: e è tra' Greci chi loda anche Nerone, ma la poesia di Virgilio o di Ovidio, né di Catullo né di Properzio né di Tibullo,· di Tito Livio le istorie verso le quali tutti i parlari delli (agg. sopra a sermoni non cane.) grecanici, che tutto mondo intronarono, son fioche voci; l'arte oratoria di Cicerone, che fu sì grande che non capendo ne' termini del suo latino idioma ·tentar poteva la Grecia che con/essò d, esser vinta e pianse più amaramente l'onor perduto della eloquenzia che non f e' quel della libertà; 738.11-739.1 del suo: agg. sopra dello non cane.; 739.5 per acquistarsi la grazia: agg. sopra di tutti loro cane. (ma loro evidentemente è cancellato per errore); 739.21 dicesse: agg. sopra parlasse non cane.; 740.13 della gramatica: segue cancellato: la quale legge tolta che col consiglio della ragione elegge il meglio delle parole e quasi fila della testura che si. fa di esse nella retorica, nella poesia e nell'istoria le [?] insieme e ad una degne rendendole d'esser lette non solamente per la na-

,z

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tura della materia di che ci si parla, ma per la forma dell'ordinarle, assimigliando gli intagli e i smalti artificiosi. onde si adorna l' annel dell'oro oltre alla/orma che vi, è riposta; 741.1-2 quasi per forza: agg. sopra con negligenzia non cane.; 742.2 retorica: agg. sopra eloquenzia non cane.; 742.3 per: agg. sopra da non cane.; 742.16 venisse al mondo: dopo la romana aveva scritto nascesse al mondo, parole che poi ha sostituito con queste, senza cancellarle; 743.16 non confidando in sé stesso: agg. sopra di sé medesimo diffidando non cane.; 746.5 cittadino: agg. sopra padovano non cane.; 746.6 tra': agg. sopra ne' non cane.; 747.2 ove: agg. sopra onde non cane.; 747.15 a sua guisa: agg. sopra suo modo non cane.; 747.18 tutte: agg. sopra nostre non cane. ; 747. 19-20 con men fatica: agg. sopra più facilmente non cane.; 748.2 novo: agg. sopra un altro non cane.; 748.5-6 ad uno ad uno: nel ms. solo ad uno; 749.7 volea parlare: agg. sopra dovea rispondere non cane.; 749.12 confirmava: agg. sopra accresceva non cane.; 749.13 sciocca: agg. sopra una parola illeggibile non cancellata; bona: agg. sopra bella non cane.; 749.13-20 Ma il Poliziano . . . ignoranti: nel ms. precedono due tentativi cassati di questo periodo, ma senza varianti notevoli salvo che vi si ricorda che Giuliano de' Medici era «padre di Papa Clemente»; 749.16 luliano de' Medici: nel ms. segue non cancellato: scemò in parte cotal credenza, che poi lo Speroni ha aggiunto quasi all'inizio del periodo; 751.19 darle: agg. sopra porlo non cane.; 753.13 gli occhi: manca nel ms.; 755.21-2 si collocassero: manca nel ms.; 756.1 un'altra: agg. sopra qualche non cane.; 756.17 greca: manca nel ms.; 757.9 tanto o quanto: agg. sopra parte alcuna non cane.; 758.11 Padova: nel ms. segue non è nome non cane.; 760.6 umana e ciwle: agg. sopra nobile e valorosa non cane. ; 761. 16 non n' ho esperienzia: nel ms. segue non cane. ZAB. Con/esso di meritare che, dileggiando e scherzando, mi sia interrotto (agg. sopra voi interrompiate non cane.) il par le mie parole; 762.6 altro: agg. sopra qualche non cane.; 762.28 vorreste che si adornasse: agg. sopra volete che se ne adorni non cane.; 763.17-8 speziaimente la mia lombarda o wniziana: nel ms. è sottolineato come se dovesse essere soppresso o sostituito; 767.22 dirittamente: agg. sopra per dritto nome non cane.; 768.24 con: agg. sopra per non cane.; de' tre: agg. sopra delli non cane.; 769.1 nessiln poeta: agg. sopra poeta alcuno non cane.; 769.23 m,insegnavate: nel ms. seguono sedici righe cancellate, che costituiscono una prima redazione del passo successivo; 769.28 tuttawa: agg. sopra come si usa non cane.; 770.1 il ver: agg. sopra quel non cane.; 770.12 in terra: agg. sopra al mondo non cane.; 772.26 con la sua degna professione: scritto due volte; 773.4 ben: agg. sopra assai non cane. ; 773 .9-10 non gliene ... religioso: sostituisce gliene dispogli o salvi, durino sempremai col sempiterno religioso;

NOTA AI TESTI

773.15 di por suo studio in alcun: agg. sopra di studiar qualche non cane.; in alcttno: agg. sopra qualche non cane.; 774.18 questo: agg. sopra il non cane.; 776.10 non avvenne: manca nel ms.; 778.29 strani: agg. sopra molti non cane.; 779.4 greca: agg. sopra ebraica non cane.; 779.26 resiste a' superbi: agg. sopra a' superbi spezialnzente fa resistenzia; 780.23-6 che forse ... toscane: agg. nel margine sinistro in sostituzione di che possono esser ingeniose ma nu.lla tengono del soave onde è ripiena la .fiorentina; 781.21-2 semplicità •.. educata: agg. sopra bona educazion della quale non cane.; 782.2-3 ognun di loro ... dimostrativo: agg. nel margine sinistro in sostituzione di vanno al paro in valore alle ragioni dimostrative non cane.; 782.6 viver: agg. sopra esser non cane.; religiosi: agg. sopra tutta lor vita ( ?) non cane.

LE LETTERE Natal dalle Laste e Marco Forcellini nella loro edizione delle Opere di M. S. SPERONI DEGLI ALvAROTTI (Venezia 1740), qui indicata con S, per lo più hanno compiuto un buon lavoro, rispettando le lezioni dei manoscritti e operando scelte giudiziose fra i vari testimoni. Maggiore libertà si sono concessi per le lettere, che da loro non sono state edite né integralmente né fedelmente. Limitando la loro scelta alle missive di interesse letterario o umano, infatti non hanno esitato a stralciare, da quelle stesse che avevano deciso di pubblicare, le parti relative a fatti contingenti (e, in genere, agli affari dello Speroni) e, quel eh' è peggio, spesso hanno toscanizzato le parole dialettali. Per la piccola scelta che qui si propone non era possibile affrontare i complessi problemi dell'epistolario speroniano, ma almeno un saggio se n'è voluto dare, grazie all'aiuto di Iginio De Luca che si è assunto - con una cortesia di cui sentitamente lo ringrazio - il compito non semplice di ricercare nei tomi IX, x XI dei manoscritti speroniani, conservati nella Biblioteca Capitolare di Padova, le lettere da me scelte. Le lettere VII, IX, XI, XVII, xx, XXI, XXII, XXIV, XXVII, XXVIII, XXXIII (a 841.22 come S sciolgo l'abbreviazione P. A. in Principe Antonio), XXXIV e xxxv sono esemplate sugli originali autografi. La lettera x è conservata da due minute autografe (sostanzialmente uguali, salvo che in una, a 804.2, manca alcuna volta) e da una copia non autografa: naturalmente mi sono servito delle minute. Anche per le lettere XXXVI e XXXVII mi sono attenuto a minute autografe. La minuta della lettera XXXVII è preceduta da una prima redazione della parte iniziale: u Tarda giunse la vostra letera; dunque il tardi rispondere è il rispondervi per la rima. Ma me iscusano i giorni santi. Voi che ?

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SPERONE SPERONI

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Io ne incolpai il corriere, pensando che passo passo venuto fusse o che, a Padova arrivato, tenuta avesse la letera tre o quattro di, non ricordandosi più di lei o non volendo mandarmela. Ma il corriere mi si scusò molto bene e disse che egli venne a staffetta, ma che la letera ». Di copie non autografe mi son dovuto servire per le lettere IV (a 797.4, come S, ho corretto non giovar in giovar), XII (alcune varianti [805.13 la ricamando a V. S. - te la ricamando; 805.13-4 la priego - ti p,iego; 806.7 ve la - te la] fanno pensare che lo Speroni fosse stato in dubbio se usare il tu o il voi), XIV (807 .22 zia è la lezione di S; la parola mi è riuscita indecifrabile), xv, XVIII, XIX, XXIII (819.4 a voi manca nel ms.), XXVI, XXIX, xxx e XXXII. In mancanza di altri testimoni, mi sono attenuto a S per le lettere I, II, v, VI, VIII, x111, >..'VI, xxv, XXXI. Anche la lettera 111 è riprodotta secondo la lezione di S; nei mss. speroniani è però conservata una copia non autografa con varianti, che qui indico, non riconducibili tutte a interventi del trascrittore (precede la lezione di S, qui a testo): 792.2 empireo - istesso casa e tempio di tutti i dèi; 793.1 divino grande (che sostituisce il precedente divino); divina - grandissima (che sostituisce il precedente divina); ha - non ha; 793.2 io proposi - p,·oposi (io è cancellato); fabbricarlo - fabricarlo; 793.3 a quel - a quello; 793 .4 casette - picciole camere; 793. S antiche - di antichi; movono - moveno; 793.5-6 i principi e gran maestri - i prencipi (aggiunto sopra il mondo cancellato); 793.6 e disiderare • .. amistà e amarli disiderando la loro amistà; 793.7 bei nomi - nomi; onorevoli !lomini-persotie onorate; 793.8/abbrica-fabrica; 793.10 specialmentespezialmente; 793.14 disiderare - disiderare non che sperare; 793.15 s'inchinassero-si movessero; 793.16 che lodevole non sia-se non laudatissima; 793.17 meravigliose scritture - scritture; 793.20-1 non è degna - è indegna; 793.21 opera - opra; 793.23 buoni ... grazia - buoni che Dio debba far lor grazia; 793.24 divina - cane.; 793.24-5 è maggiore ... operare - maggiore infinitamente di quanto (agg. sopra tutto il bene che cane.) r,omo possa sperare; 793.25 parole - cose; 793.26 da voi .•• f assero - da voi a f avor delle persone del mondo f,usero; adulazioni - adulazioni e lusinghe; 793.26-794.2 potrebbe dire . .. con esso noi - cancellato e sostituito con s'inganarebbe; 794.1 lddio - Dio; 794.2 adulazione - l'adulazione; 794.3 fosse -fusse (e così sempre); mestieri- bisogno; Dio -Jddio; 794.4 di nuovo - di novo; 794.4-5 che voi •.. nominaste - delle vostre lusinglze; 794. 7 a farsi tale - a cercar di farsi tale; in parole ilfonnate- colle parole il mostrate; 794.8 camminasse-caminasse; 794.11 le persone che v'introduco- le sue persone; 794. 12 che non possa imitare - che vi possa imitare; 794. I 6 sciocchezzesciocchezze e semplici fantasie; 794. 17 son divenuti - son fatti; 794. 18

1194

NOTA AI TESTI

alle teste antiche - alle teste; 794. 18-9 le quali ..• tramutarono - alle qr,ali la i11giuria del tempo o di coloro che da llor luoghi li tramutarono; 794.20 altra - l'altra; 794.23 Se io ... occasi.one - Volentieri io l, avrei fatto se io avessi saputo e se io non l'ho fatto almeno io diedi occasione; 794.24 del magno Aretino - cancellato e sostituito con vostra; sua lettera - lettera; 794.25 guasta da me - manca; 794.27-795 .1 il credito ... pazzi - il credito a un Jallito che di mendico che egli è e mezzo morto di fame in Rialto ilfa -uivo parere; 795.1 velando - ascondendo; 795.2-3 abbia a rispondere - debba rispondere; 795.3-4 in continuo • •. rimarrà - continuamente viverà in disiderio di vederlo e di leggerlo. In questa copia manca la data, e nell'intestazione Pietro Aretino è cancellato.

GIOVAN BATISTA GELLI

* I CAPRICCI DEL BOTTAIO Come ha mostrato R. T1ssoN1 nella Nota sul testo della sua edizione dei Dialoghi (Bari 1967; d,ora in poi indicata con T1ssoN1), pp. 334-55, l'elaborazione dei Capricci si è svolta in cinque fasi, documentate dalle seguenti edizioni: 1. Dialoghi del GELL0. « Stampati in Fiorenza per il Doni nel 1546 ». Comprende i primi sette Ragionamenti (il Gelli stava allora scrivendo l'ottavo) e fu stampata abusivamente, e all,insaputa dell'autore, dal Doni che vi premise una sua Dedicatoria al Baroncelli (la si può leggere in T1ssoN1, pp. 506-7): cfr. la nota s a pp. 881-2.

Capricci del GELLO, col Dialogo dell,invidia e con la Tavola nuovamente aggiunti. « Stampati in Fiorenza per il Doni alli 4 di settembre, l'anno 1546 ». Fu curata dal Gelli - che aggiunse il Ragionamento VIII, corresse un gran numero di errori dell, edizione abusiva e apportò al testo molti ritocchi (il TISSONI ne ha contati 167) - anche se il suo nome non compare e all,inizio vi si legge ancora la Dedicatoria doniana. Evidentemente egli non considerava conclusa la sua opera e intendeva soltanto riparare in qualche modo ai guasti della stampa precedente, fondata su un manoscritto non ancora definitivo. 2.

3. I capricci del bottaio di GIOVANBATISTA GELLI, ristampati nuovamente con alcuni che vi, mancavano. In Firenze 1548 [manca il nome dell'editore, che però è senz'altro il Torrentino]. È la prima edizione ufficiale, in dieci Ragionamenti. Il T1SSONI vi ha riscontrato « più di 80 interventi (certo non macroscopici, ma comunque significativi) che non hanno nulla a che vedere con correzioni di errori ».

4. I capricci del bottaio di GIOVANBATISTA GELLI Accademico fiorentino, ristampati nuovamente con alcuni che vi, mancavano. In Firenze, con privilegio, 1549 [manca ancora la sottoscrizione tipografica, ma, come la precedente, anche quest'edizione usci dalla stamperia del Torrentino]. Contiene due cospicui complementi alla fine del VII e del x Ragionamento e, sempre secondo i dati del Tissoni, circa 130 modifiche, tra cui alcune «non del tutto infime sul piano stesso della sostanza del pensieroJ1 (TISSONI, p. 337). Fu ristampata due volte a

1196

NOTA AI TESTI

Venezia nel 1550 («appresso Giovita Rapirio », tipografo Bartolomeo Cesano; e 1< appresso di Agostino Bindoni ») e costituì a lungo la vulgata dei Capricci. 5. I capricci del bottaio di

Accademico fiorentino. La quinta impressione accresciuta e riformata. In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1551. Il T1ssoN1 vi ha contato un centinaio di modifiche, in buona parte assestamenti minimi; «ma anche da queste, come dalle precedenti correzioni,» osserva giustamente {p. 337) «risulta provata la tenacia con la quale il Gelli perseguiva un suo ideale di perfezione, cercando di "migliorare" i propri testi, attraverso gli anni, anche nei minimi particolari. Certo, i prodotti del nostro autodidatta restano lontani dalla armonia strutturale e formale di tanta letteratura, anche minore, del secolo: piuttosto che di compiuti risultati artistici si deve parlare - come è stato fatto - di aspirazioni artistiche. Vale tuttavia la pena di sottolineare il valore morale di questo ''lavoro letterario condotto con pazienza artigianale" [sono parole di E. Bonora], a volte con palese fatica, quando il nuovo canone retorico della spontaneità, lanciato, fra gli altri, da Pietro Aretino (ma quanto spontanea è poi, in realtà, la scrittura aretiniana ?) poteva incoraggiare e incoraggiava di fatto molti mediocri - alla sciatteria e alI1appross1maz1one ». Il lavoro correttorio del Gelli presenta infatti un interesse indubbio e merita di essere conosciuto; tuttavia non mi è parso necessario dame notizia, anche sommaria, nel commento, perché le varianti redazionali si ritrovano tutte nell'Apparato critico dell'edizione laterziana e il suo curatore nella Nota sul testo {pp. 337-55) ne ha esaminate un buon numero con grande finezza e con quella cordiale simpatia che rende meno ingrato e più proficuo il lavoro del filologo. G1ovANBATISTA GELLI

* Come già si è ricordato nella Nota introduttiva (p. 873), i Capricci nel 1554 furono inclusi nell'Indice dei libri proibiti, ma il Gelli non prese alcuna iniziativa per liberarli dalla condanna. Solo molto più tardi lo zelo di Lodovico Beccadelli lo indusse a emendarli. Il 30 aprile 1562 il prelato bolognese - che il 17 febbraio era stato nominato fra i membri della Commissione per la revisione delP Indice scriveva infatti a Lelio Torelli, segretario di Cosimo I, di far sapere al Gelli che il suo libro era fra quelli proibiti: 1< acciò che, quando volesse correggere o scusare alcune delle cose che li sono in detto libro opposte, come troppo licenziose contra le cerimonie della Chiesa, possa farcelo intendere: perché noi, come giudici benigni e suoi

GIOVAN BATISTA GELLI

1197

amorevoli, procureremo di liberarlo di questa nota,, (cit. in T1ssoNI, p. 357). Il Torelli, evidentemente, aderl subito all'invito, e già il 9 maggio il Gelli poteva comunicare al Beccadelli (che era arcivescovo di Ragusa) e al suo collega Antonio Agostini, vescovo di Ilerda, la propria disponibilità a purgare i Capricci. La lettera, come le altre due che riproduciamo, è stata pubblicata da A. L. DE GAETANO, Tre lettere inedite di G. B. Gelli e la purgazione de «I capricci del bottaio», in GSLI, CXXXIV (1957), pp. 298-313 (poi in A. L. DE GAETANO, G. Gelli and the Fiorentine Academy. The Rebellion against Latin, Firenze 1976, pp. 401-4). A' REVERENDISSIMI LO ARCIVESCOVO DI RAUGIA E IL VESCOVO DI ILERDA, DEPUTATI SOPRA LO INDICE DE' LIBRI

A

TRENTO

Reverendissimi in Cristo Padri e Signori miei osservandissimi. Certamente che ei non mi poteva occorrer cosa che io avessi più caro che, come mi è stato riferito da la Signoria di messer Lelio Torello, che Vostre Signorie Reverendissime, essendo state deputate a riformar lo Indice de' libri proibiti, e trovando infra quegli i miei Capricci. del Bottaio, si sieno mosse senza aver pratica alcuna meco, solo per zelo di carità, a farmi intendere che se io voglio correggere o scusare alcune cose che mi sono opposte che io ho detto in detto libro troppo licenziosamente contro le cerimonie della Chiesa, che procureranno come benigni giudici di liberarmi da questa nota. Al che io rispondo che non solamente voglio, ma che io sommamente lo desidero. E non lo arei a fare ora, se io avessi saputo conoscer da me quello che vi sia contro a la religione cristiana o a le cirimonie o riti o ordinazioni della Chiesa (ché questa non fu l'intenzion mia, quando io gli composi circa a venti anni sono), o se io avessi trovato chi me ne avesse voluto e saputo avvertire. Ché infra !'altre diligenze usai per tal cagione questa, quando io senti' che eglino erono stati proibiti: io me ne andai qui a l'ordinario, che ci era alora Vicario un messer Niccolò da Castel Durante, col quale io aveva qualche familiarità, e chieggiendogli consiglio di quel che io devessi fare, mi rispose che non sapeva quel che si fussi in detti miei Capricci per il che ei fussino stati proibiti; ma che aveva ' andare in breve a Roma e aveva a trovarsi con quegli che eron sopra la inquisizione, e che lo intenderebbe e a la sua tornata mi risponderebbe; e cosi fece. E perché io gli commessi di più che dicessi loro per mia parte, quanto ei mi dispiaceva di essere caduto inovertentemente in tal colpa di aver dato scandolo al mondo, e che io ero paratissimo a emendarmi, egli mi rispose quando ei tornò che aveva fatto per mia parte loro la mia imbasciata e che eglino gli risposono che io avevo fatto molto bene a umiliarmi, e che per alora, per non avere cosi in pronto in quel che io avevo mancato, non avevan che dirmi altro, ma che farebbono por mente e me ne darebbono avviso: il che non venne mai poi ad effetto, ché non mi fu mai scritto nulla da persona. Laonde confessandomi io di poi, e raccontando al confessoro la

NOTA AI TESTI

diligenza fatta, insieme con alcune altre con persone particulari, e mostrandogli come io ero disposto, sempre che ei mi fussi palesato l'error mio, di emendarmi, sono stato assoluto, e sommi comunicato almanco tre volte l'anno, come elle potrano certificarsi da il mio parrochiano che sono qui del popolo di San Pagolo. E questo è quanto mi occorre dire circa a tal cosa a Vostre Signorie Reverendissime. Restami ora solamente, ringraziandole prima dello esser proceduto tanto benignamente e con tanta carità verso di me (della qual cosa io prego Dio che renda Loro il contraccambio), a pregar Quelle per amore di Iesu Cristo, che elle dieno miglior progresso al buon principio cominciato da loro: cioè mi avvertischino di quelle cose che sono da correggere in detti Capricci, che subito lo farò in quel modo che mi sarà imposto da Quelle senza fare resistenza alcuna, come quel che so molto bene che a la vocazion mia si conviene ubbidire e non disputare; perché non saprei conoscerle da me, e in oltre non ho testi, ché non gli volsi mai poi vedere, fatto che io ebbi però alquanto di diligenza di vedere se io conoscevo in quel che io avevo errato, e non lo sapendo trovare. E in Firenze credo che io durerei una gran fatica a trovar chi ne avessi e volessi che ei si sapessi. E dipoi lo conduchino a quello ottimo fine che elle ne promettono di liberarmi da tal nota, acciò che il mondo conosca che se bene io potevo errare, io non potevo essere eretico, come disse ancor di santo Agostino. E tanto prometto per questa mia, fatta di mia propia mano questo dì 9 di maggio 1562 in Firenze, faccendo ancor loro asaper di più, acciò che elle vegghino quanto tal cosa sia desiderata e stimata da me: ché io ho scritto costi a l'oratore di Sua Eccellenza Illustrissima messer Giovanni Strozzi e a messer Domenico Mellini suo segretario, per esser miei intrinsichissimi e avermi conversato, e massimamente messer Giovanni, intrinsicamente degli anni più di trenta, che ne parlino con le Signorie Vostre Reverendissime, e faccino lor fede, che lo sanno, quanto io abbia sempre desiderato di dimostrare al mondo (non dico a Dio perché ogni cosa gli è palese) quanto mi sia dispiaciuto di avergli dato questo scandolo. E qui baciando con ogni debita reverenza a Quelle le mani, e pregando Dio che le tenga sempre nella sua grazia, fo fine.

Di Firenze, addì 9 di maggio I 562. Giovanbatista Gelli fiorentino l'anno sessantaquattresimo della sua vita.

Il Beccadelli rispose il 26 maggio, allegando una copia delle censure (la lettera è perduta, ma la lista delle censure corrisponde probabilmente a quella compresa in un documento ripubblicato dal T1ssoN1, pp. 497-8, e da noi utilizzato nel commento). Il Gelli allora, in una lettera del 9 giugno, si dichiarò pronto a emendare la sua opera: AL

REVERENDISSIMO ARCIVESCOVO DI RAUGIA

Reverendissimo in Cristo Padre e Signor mio osservandissimo. Ricevetti la di Vostra Signoria Reverendissima de' di 26 di maggio insieme con

GIOVAN BATISTA GELLI

II99

le censure che Quella ne scrive che furon di già fatte sopra i miei Capricci. Piglierò adunque uno testo e andrò chiarendolo e correggendolo tutto secondo dette censure, e di più levando via se ei vi sarà parola alcuna che potessi dare scandalo a persona. Dipoi vi rifarò una epistola, o a quello a chi io gli indirizzai la prima volta, o a chiunche mi fossi mostro che per tal cagione questa mia fatica avessi maggiore efficacia, per mostrare come io ho fatto questo solamente per mostrare a la nostra Chiesa che io sono e voglio essere uno del numero de' suoi buon figliuoli e non in cosa alcuna contrario a le determinazioni sue; e dipoi la manderò a la Signoria Vostra e Quella mi dirà quanto parrà a lei e a cotesti altri Reverendissimi che io faccia, che sarò al tutto loro obedientissimo. E questo è quanto mi occorre dire circa a questo a Vostra Signoria Reverendissima. Se a Quella occorressi in questo mezzo cosa alcuna, ne può parlare con messer Domenico Mellino, segretario dello lmbasciadore del nostro Ili.mo Duca, perché è mio amicissimo, consapevole del tutto, e di più gnene ho commesso. E di più la prego che in questo mezzo mi tenga in buona grazia sua e degli altri suoi colegi reverendissimi; ché se non posso o non potrò mai io renderle merito della sua pia affezzione e cristiana carità, gliele renderà Cristo che ha tanto comendata la dilezzione e la correzzione fraterna.

Di Firenze, addì 9 di giugno z562. Devotissimo e affezionatissimo a Vostra Signoria Reverendissima Giovan batista Gelli.

Nel giro d'un mese il lavoro era compiuto, e il 13 luglio il Gelli già poteva annunciare l'invio di un esemplare corretto: AL

REVERENDISSIMO ARCIVESCOVO DI RAGUSA

A

TRENTO

Reverendissimo in Cristo e Monsignor mio osservandissimo. Mando a Vostra Signoria Reverendissima i miei Capricci purgati da tutte quelle censure che Quella mi scrisse che eron già stati fatti di quegli. Infra le quali emendazioni, venendo a quelle cose che io avevo parlato del purgatorio e delle indulgenzie, le levai, come Quella potrà vedere, via al tutto, perché in verità non si potevano emendare, tanto impie erano e contro a le determinazioni e riti e cirimonie della Chiesa. E vi confesso ingenuamente che io non so mai come io me le scrissi, perché io non senti' in verità mai cosi; e questa mia inocenza è stata forse quella che ha fatto che Dio, che è solo scrutatore de' cuori, ha inspirato le Signorie Vostre Reverendissime a procedere tanto umanamente verso di me, e dire che io ho parlato troppo licenziosamente contro a la Chiesa quel che in verità, se bene ei non è cosi, apparisce che io abbia fatto più tosto troppo impiamente; del che sia lodato Lui da il quale procede ogni bene, e di poi Vostre Signorie Reverendissime che con questa loro carità cristiana mi hanno fatto venire in cognizione del mio errore. Onde io gli ho purgati da tutte quelle occasioni che potessero scandolezzare il prossimo; il che per fare ancor

1200

NOTA AI TESTI

meglio, mi ha mosso a farvi una altra epistola, nella quale io esprimo l'animo e la intenzion mia. Vostre Signorie Reverendissime vedranno il tutto, e occorrendo mutar cosa alcuna, io ho dato comessione al segretario dello Imbasciadore dello 111.mo Duca di Firenze che ne sia con Quelle e acconci il tutto a modo loro, che non voglio che ei resti scrupolo alcuno nelle menti di Quelle che abbia a impedire che elle non abbino a liberarmi da questa nota, della qual cosa io le prego strettissimamente. E il modo secondo me sarebbe questo: che elle mi dessino licenzia che io potessi stampargli nel modo però che ei son ridotti; e per esserne sicuri gli suggellassino e mandassino qui a lo inquisitore che è il guardiano di Santa Croce o ad altri a chi più piacessi loro, che avessi cura che ei fussino stampati a punto come eglino stanno; e cosi salverebbono gli ordini della Chiesa e libererebbono me da la infamia che io sentissi contro a le ordinazioni di quella. Nientedimanco, quando Vostre Signorie Reverendissime abbino altro modo che sadisfaccia loro più che questo, faccino quello che più piace loro, che tutto sarà aprovato da me, per ciò che, non avendo io altra intenzione che dimostrare a quegli che fussero di contraria opinione che io sono e voglio essere buon figliuolo della Santa Chiesa Romana, mi rimetto liberamente, come io debbo, sotto la autorità di quegli che sono stati deputati a tale offizio, che son le Signorie Vostre Reverendissime. Onde a Quelle umilmente mi raccomando, e particularmente a la Signoria Vostra Reverendissima che si è più affaticata che le altre in questa mia correzzione; della qual cosa prego Dio che renda loro merito egli, perché io da per me non ho che dare loro altro che aver loro quella reverenza che io posso, se non quella che elle meritono; del che io non mancherò mai per in sin che io arò vita.

Di Firenze, addì I3 di luglio x562. Servidore umilissimo della Signoria Vostra Reverendissima Giovanbatista Gelli.

Impossibilitato a occuparsi personalmente della revisione, il Beccadelli incaricò Camillo Campeggi dell'ordine dei Predicatori di prendere in esame gli emendamenti e di compiere una nuova revisione dell'opera. Due documenti, ripubblicati dal T1ssoNI (pp. 498500) e da noi utilizzati nel commento, ci informano sulle emendazioni compiute dal Gelli e sui risultati dell'intervento censorio del Campeggi: l'uno, in latino, è forse la relazione ufficiale per la Commissione dell'Inquisizione; l'altro, in volgare, è probabilmente una minuta del precedente. Nel commento ci siamo serviti anche di un altro documento (le Correzioni delli Capricci del Gelli), edito dal DE GAETANO nell'articolo citato e poi dal T1ssoN1 {pp. 501-s), che lo considera , 227 col, co 'I, 183, 184 colà, 250, 251; cold giù, colà su, 251 colei, 186, 194, 206 1 208,242; colei la qual,, 208 colga, 237 Collatino Lucio Tarquinio, 308

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Collettanee nella morte de l'ardente Serafino Aquila110, 6oz Colli G., 625 Colli Vincenzo, vedi Calmeta Vincenzo Colocci Angelo, 22, 24, 33, 34, 75, 76, 585 Colonna Ascanio, 462 Colonna Francesco, 8 - Hypnerotomacl,ia Poliphi/i, 8, 3z8 Colonna Vittoria, 33, 445 e n., 448-51, 460-2 e nn. - Rime, 445 COLORI, 900-1 coloro, 186, 206, 209 colui, 186, 193, 194, 204, 205, 206, 208, 209, 241 1 255; colui il quale, colui al q11ale, 208 com, 271; come, 193, 260, 270, 277; tome che, 263; comt cl,e sia, 280 Commare (Costanza Fregoso ?), 393 e n. comme,rdatola, 248 Compagni Dino, vedi Dino Compagni COMPASSIONE, 1091 comperar (comperarono), 224 compie', 220; compiei, 218 1 220; compJto, 218-9; compiuto, 218 COMPLESSIONE (dell'uomo), 897, 1077, I 123; (degli animali), 1078 COMPONIMENTO DELLE VOCI, 131-5

comune, 256 comu11que, comunquemtnte, 260 con, 18.J, 185; (e il gerundio), 249 concedetti, concedr,to, 219; concedutogliele, 248; concesso, 219 CONCUPISCIBILE (potenza), 978 co11dotti, 226 con.firmamento, co,ifirmazione, 65 I con/uta::ione, 651 co,r la q11ale, 86 conobbi, 220: conosca, conoschi, 238; conosciuto, 220 CONOSCENZA, 885, 909, 1090, 1140-53 CONOSCITIVE (potenze), l 143-4

co,rq11iso, co,rquistato, 85 considera110, 148 CONSIGLIO, 1054 Console di Venezia a Costantinopoli, 4o8 CONSONANTI, 132-5 Constabilc Paolo, 683 e n., 684, 689 COIISllnlO, 123 CONTADINI, 1083-4, 1088, 1096 Contarini Gasparo, 459 e n., 46r, 473, 638 e n., 639, 680, 727, zz83 Contarini Lucia, 472 Contarini Marcantonio, 46r, 785 conte11i~no, 216 Conti (de') Alberto, 478, 489, 8oz, 802 e n., 809, 812 e n., 813 e n., 829 Conti (de') Antonio, 503 Conti (de') Binnca, 802 e n. Conti (de') Bianchctta, Szo Conti (de') Giulia, vedi Speroni Giulia

1231

Conti (de') Ingolfo, 501, 503, 681, 691, 795, xr84 Conti (de') Naimero, 820 e n., 823 e n. Conti (de') Paolo (consuocero dello Speroni), 802 e n. Conti (dc') Paolo (nipote dello Speroni), Bro, 820 e n., 823 e n. Conti (de') Speronella (Mo1'etta), 489, 805 e n., 808, 810 e n., 811, 816, 820 1 Bar contiene, 196 Contini G., XIX, 71, z,3 contra, 1281 266; contro, 266 CONVENEVOLEZZA, vedi DECORO DEGLI STILI convenuta, convenuto, 225 CONVERSAZIONE, 1012

convwti, convertei, convlrtere, 223 copwse, coprJ, coprire, 221 Corace, 657 e n. coralmente, 102 Corano, 597 e n., 949 Corbinelli Iacopo, 764 Corboli Piero, u69 Cordié C., 873, ro33 Corinna di Tanagra, 544, 780 e n. Comagliotti A., 903 Cornaro Alvise, 476, 48.r, 481, 506 Cornaro Andrea, 462 Comaro (Co,-nelia) Caterina, regina di Cipro, .rz, 286 e n., 287, 288 e n., 289, 290, 292, 293, 296 297, 335 e n., 336, 338, 339 Comaro Cornelia, zr79, zr81 Comaro Giacomo Alvise, 489, 508, 838, 839 Cornaro Giovanni, 476, rz81 Comaro Girolamo, 474, 505 Comaro Iacopo, 474, 48z, 505, 507, 8za Comaro Luigi, zr8a Cornaro Marco, 287 Cornelio Gaio, z 46 Corner, vedi Comaro Corona Alesina A., XVI, 876, 982, 994, :czo:z, rzo4 corpora, 177 Corrieri (de') Bino, 945

corrd,

227 CORRUZIONE, 1045

Corsi G., z36 Cortegiano (personaggio del Dialogo delle lingue), 585 e passim, 945 e n., 949 Cortese Alberto, 485, 507, 832 e n., 835 Cortese Ersilia, 485, 831, 836 e n. Cortese Gregorio, 831, 836 - Epistolarum familiar11m liber. Tractatus advwna negantem Ptt1'um fuisse Romae, 836 Cortese Iacopo, 836 Cortese Paolo, 22 - De cardinalatu, :c34, z5z, r7:c Cortesi, cavalier de', 818 CORTIGIANA (lingua), 91-5

1232

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

COSCIENZA, 996

cui, 186, 207, 208, 255; (interrogativo),

cosi, 210, 268, 270, 273, 277; eone, 244; cosifattamente, 273; così gra11deme11te,

208 CUORE, 1003, 1035

261

Cosimo de' Medici il vecchio, 9z 3 Cosimo I de' Medici, duca di Firenze, z8, 456, S53, S54, S55, S57, 85S, 860, 86:t, S6a, 866, 869, S7z, 877, 88I, 9a9, 942, 943, IOZS, 1067 e n., 1069, 1r64, lI96, 1199, 1200 Cosmico Niccolò Lelio, 97 e n., 161 e n. Costa E., 452 costà, 250, 251; costà giù, 251 Costanzo Costanza, Sa8 Costanzo Scipio, 82S costà su, 25 1 costei, 186, 206 costi, 250; costinci, 253 costoro, 186, 206 costui, 186 1 204, 205, 255 cotale, 210; (per cosi), 210 cotanto, 210, 261 cotesti, 204; cotesto, 204, 205; cotest11i, 204

Courtonne Y., 684 covelle, 267 Cozzi G., 988 Cozzi L., 988 Crasso Lucio Licinio, 98, 675 Crasso Marco Licinio, 686 Cratilo (personaggio del Cratilo di Platone), 625 ere', 2 I 3; credere, 230; credetti, 219; credi, 213; credia, 85; credo, 211; credre, 230; creduto, 195, 219, 232 Cremante R., 506, 877 creo (per credo), 211 Crescenzio Pietro, 48, 114 e n., 204, 205, 246, 249, 260, 453

- Ruralium commodorum libri (Coltivamento della villa), 48, II4, 204, a46, z6o, a67, 330, 453 e n., 809, 815, 816, 920, rooo, 1003 I, 12; 260 Il, 13; 249 III, IS: 205

Crescimbeni G. M., 41 Crescini V., 606, 764 cretti, 219; crio, 211 CRISTO, 979, 1017, 1031, 1065

Critobulo (personaggio del Simposio di Senofonte), 703 Critone (personaggio del Critone di Platone), 679 Critonio Giacomo, 840 Croce B., 27, 43, 48, 50, 94, 38x, 54a, 637, 945, 1028, 1104 Crocioni G., u3 croio, 83 crude' (invece di crudeli), 179 Ctesifonte, 654

Cupido, vedi Amore (dio) Curccnse, cardinale, vedi Lang Motthaus Curzio Rufo, 5u

d.

134, 116, 221, 25s, 212, 213

da (preposizione), 182, 184, 185, 188, 283; da', 185 dà, 220; (imperotivo), 228 da altra parte, 253 da ca11to, 267 da capo, 261 Da Carpi, vedi Pio da Carpi da che, 255 dae, 244 Dafne, 322 Da Gambara, vedi Gambara (da) da i,,di i,i avanti, da indi innanzi, 257 dal, da 'I, 182, 183 da la lungi, 256 d'alc1111a cosa, 267 Da Lion Lionello, vedi Lion (da) Lionello Dalla Memoria Francesco, vedi Memoria (dalla) Francesco dalle (le dà), 200 Dalle Laste N., 503, 1184, 1r85, rr86, xr87, rr89, 1192 Dall'Oste L., 1177 d'altra parte, 252 d'altro11dc, 252 da lrmgc, da lungi, 256 da ma11e, 258 D'Ambra Francesco, vedi Ambra (d') Francesco Damigella che conta la terza canzone degli Asola11i, 292-3, 297, 335 Damocle, 905 e n. Da Monte Baldovin, vedi Monte (do) Baldovin Da Monte Giombatista, vedi Monte (da) Giambarista Da Mula Marcantonio, vedi Mula (da) Marcantonio D'Ancona P., 9a9 dando, 249 Daniello Arnaldo, vedi Arnaldo Daniello Daniello Bernardino - Della poetica, 6ox, 699 Da Noale Pietro, vedi Pietro da Noale dansi, 216 Dante Alighieri, XI, 4, 7, 9, ao, 29-30, 48, 64 e n., 71 e n., 72, 76, 77, 78, 79 e n., So, 81, 82 e n., 83, 85, 87, 95, 97, 98, 102, 103 e n., .ro6, 107, 112 e n., 113 e n., 114, rzo, 122-3 e nn., 130, .r35, 137, 145, 154, 159 e n., 161-4 e nn., 172 e n., 173, 174, r75, r76, 178 e n., 179, 186, 188, 194, 198, 200, 201, 202, 204, 205, a.rz, ara, ax6, 219 e n., 220 1 aaz, 223, 229 e

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI n., 235, 236 e n., 237, 241-2 e nn., 244, 245, a46, 249, 252, 253, 254, 255 e n., 256, 257 e n., 259, 263, 264, 265, :170, 272, 273, 275, 282 e n., 288, 307, 3r4, 355, 488, 489, 504, 508, 545 e n., 594, 612 e n., 673,713 e n., 745,747, 748 e n., 752 e n., 753-6 e nn., 757 e n., 761 e n., 763, 76~ 768,770,774,811,846 e n., 847, 855, 856, 857, 858, 863, 866, 867, 873, 887, 901, 904, 908, 910, 914, 948, 949, 950, 951-3 e nn., 967, 980, 989, 990, 995, 996, 1010, 1012, 1028 e n., 1043, 1107 Commedia, XVI, 9, 26, 30, 45, 48,102, 11:1, 113, 135, 159, 161-4 e nn., 177,178,223, 229, 245, 256, 259, 275, 280, 488, 497, 508, 5 29, 673, 753 e n., 754, 846, 856, 872, 952, 986, 1028 lnferno,80,82,83,162,163,164,172,173, 177, 178 e n., r91, 195, 199, 200, 214, 219, 223, 236, 237, 244, 253 e n., 256, 258, 263, 264, 266, 267, 268, 270, 273, 279, aSo, 286, 289, 291, :193, 297, 307, 308, 310, 312, 334, 345, 351, 352, 358, 359, 360, 365, 366, 534, 539, 542, 6:16, 67 3, 713, 753, 768, 781, 794, 819, 872, 1012, 1028, 10:19, 1112, 1132 u, 2: 173 Il, 81: 81 lii, 85: 87 v, 12: 259 v, 103: S45 VI, 96: 173 VII, 25: 181 VII, 94: 202 Xl, 44: 122 Xli, 22•3: 265 Xli, 63: 253 Xlll, 98-9: 252 XIV, 14-5: 205 XIV, 22: 281 XIV, 25: 181 X\'1 1 22•3: 262 XXI, 19-20: 282 XXIII, 34: 144 XXIX, 76-7: 122, 162 X.XIX, 77: 162, 163 XXIX, 82-3: 122 1 162

xxx, 61: 188 xxx, 87: 145 XX.'Xl, 109-11: 81 62: 144

xx.ic11 1 XXXII,

101-2: 198 105: 241 P11rgatorio, 75, 76, 78, Sa, 83, 162, 164, 17:z, :c76, 177, 178, aza, 2:13, 236, z,,a, 244, :151, 257, :159, z66, 269, 273, 305, 336, 338, 356, 351, 358, 396, 752, 87:1, 892, 901 e n., 914, 996, :co28, 1037, 1080, 1107

x.icxn,

78

1oz, 204, :152, 307, 531, 914,

113, 214, z53, 324, 545, 990,

-

-

-

1233

Il, 63: 179 Ili, 133-4: 989 V, 45: 249 VII, 49·51: 235 IX, 145: 274 XIV, 5-6: 229 XIV, 65-6: 174 XXI, 25-6: 242 XXIII, 78: 25 I XXIV, 13-4: 278 XXVJI, 37-8: 201 xxvn, 140-1: 995 XXXI, 63: 909 Paradiso, 74, 19, 81, 82, 83, 102, 162, 163, 164, 172, 178, 195, 200, 2:c5, 219, 244, 245, z56, 257, 259, 269, :175, z88, 298, 300, 305, 345, 346, 354, 357, 358, 53~ 548,589,709,768, 87z, 91~ 92~ 931, 938, 992, 1151 xv, 109-11: 174 XXII, 16-8: 282 XXVI, 94: 148 XXVII, 106-8: 1043 XXVII, 115-20: 1043 xxxn, 76: 202 Com,ivio, 61, 64, 79, 83, 96, 98, 102, 176, 178, 194 e n., 215,243,246,249 e n., 3rz, 342, 578, 768, 819, 863, 887 e n., 896, 904 e n., 949, 964, 1010 e n., 1014, 1140 IV, xiii, 11 : 249 IV, xv, 4: 194 De vr,/gari e/oquentia, 31, 53, 63, 64, 71, 7:1, 74, 75, 76, 78, 82, 99, 112, 113, 124, 131,133,589,744,748 e n., 753,761 en., 768, 847 Epistu/ae, 753, 974 Rime, XIX, 76, 71, 78, 79, 82, 83, 102, zs6, 359, 291, 673 e n., 768 ~n. 52-3: 186 XLV:

77

LIII, 31-S: 275

- Rime dubbie, 83 - Vita ,iuova, 82, 102, 137 e n., 178, 219 e n., z43, :145, 2.56, 280, 358 Xli (Ballata, i' t10', 30): 272 xxm (Donna p1'etosa, 62): 201 XXXI (Li occhi dolenti, 63-4): 264 dantista, 901, 914 da onde, da ot1e, 252 da parte, 267 dapoi, 252, 255, 256; dapoi che, 255 03 Porto, vedi Porro (da) DAPPOCAGGINE, 939•40 da principio, 261 da qr,esto, 252 da quinci innan:ri, 257 dare, 224 Dario I, re di Persia, 716 Dario Il, re di Persia, 696

Da Romano Ezzclino, vedi Ezzelino da Romano

1234

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

da in-a, 258 da 1t%:o, 261 Da Tempo Antonio, vedi Antonio da Tempo dattorno, 253 da ultimo, 261 davante, 257; davanti', 256-7 Davanzati Bernardo, 4r, r22 Davide (Davit, Dauitte), 384 e n., 755, 933 e n., 958, 1005 e n., 1015 e n., ror6, 1064, u53; e vedi Bibbia de, de'• 185-6 de', 216; dea, deano, 239; debbt, 216; debbia, debbianio, 239; debbo, 210; debbono, 215 Debenedetti S., XVI, 12, '15, 79, 82, 83, 254. 258 debil vista, 179 Dc Blasi G .• 47 De' Cani Giovanni, vedi Cani (de') Giovanni Iacopo DECORO DEGLI STILI, 156-7

De' Corrieri Bino, vedi Corrieri (de') Bino DECREPITA, 1010

Dedalo, 548, 776 e n., 992 dee, 216 De Gaetano A. L., XVI, 874, 876, 877, 878, 969, 970, rr97, raoo, z202, r205 deggio, 210, 240 degli, 184, 185 DegliAgostini G.,xvi,336,438,458,586,785 Degli Obizzi, vedi Obizzi dri, 185-6 dri (indicativo), 216; (congiuntivo), 239 Deianira, 539 del, 182, 185 Del Carmine Giuliano, vedi Giuliano del Carmine Delfin Nicolò, 43 Delfino Federico, 565 Delfino Giovanni, 479 dell', 184; della, 184, 185 Della Casa Giovanni, vedi Casa (della) Giovanni Della Corte F.. 67 Della Fonte Bartolomeo, vedi Fonzio Bartolomeo Della Luna Francesco, vedi Francesco della Luna Della Porta Gian Battista - Magia naturale, roo4 Della Rovere Galeotto Franciotti, vedi Rovere (della) Galeotto Franciotti Della Torre Faustina, vedi Morosina Della Torre Francesco, vedi Torre (della) Francesco Della Torre Marco Antonio, vedi Torre (della) Marco Antonio delle, 184, 185 Delle ora%ioni voliannente ,aiue da molti uomini ill111tri, 38, 49, 68, 8u

del/i, 184 Del Migliore Filippo, vedi Migliore (del) Filippo Dclminio Giulio Camillo, 43, 48 del tanto, 261 De Luca I., rr84, rr9:1, z205 Del Vita A., 46r, 5rr De' Medici, vedi Medici (de') Democrito, roo8, ro94, 1123 e n. Demostene, 54, 93, 104, 105,118,591, S94, 627, 630, 63r, 654 e n., 656, 693, 740 e n., 747 - Filippiclre, 658 e n. - In favore di Ctuifonu pw la corona, 654 e n.

denno, 224 De Nolhac P .• 39, 50 Denores Giason, 503 - Breve trattato dell'oratore, 673 dentro, 277 deo (per dio), 102 deo, deo110, 215 De' Passeri Marcantonio, vedi Genova De' Pazzi, vedi Pazzi (de') De Petris A., roo7 De Planis Cnmpy David, roo4 De' Ricci Giuliano, vedi Ricci (de') Giuliano De Robertis G., 504, .rr86, zr87 De Rosalia A., 948 Dc' Rossi Giovanni Girolamo, vedi Rossi (de') Giovanni Girolamo De Sanctis F., 4r, 875 Descnlza Laura, 465 e n. De' Servi Matteo, vedi Matteo de' Servi de,idererei, desiderrei, 235 dessa, desso, 206 destato, 180 desti, 220 desto (per destato), 1801 248 destriere, 172 destro, 150, 180 dette, 223 detto, 2201 224 1 225, 226 deve, 216 De' Vieri Francesco, vedi Verino il vecchio De Vio Tommaso, vedi Caietano Dc Visiani R. • II7'/ di, 182, 185, 1861 188, 277 di, 244 dia, 239 Diacceto (da) Francesco Cattani, 100 Diana, 301, 324 e n., 345, 573, 1110 diano, 239 dianzi, 257 dicere, 223 di cl,e, 252, 263 di colò, 251; di co,td, 251, 253 di dietro, 266 Dido, 175 Didone (Eli,a), 645 e n., 700, 712

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI die, 244 die', 217, 223 diece, dieci, 178 diede, 221, 223; diede,, diedero, 224; diedi, 217; diedono, 224 die giudicio, 244 diemme, 128; dienne, 200; dier, dierono, 224; dievvi, :zoo DIETA, 1008 Di/esa di Dante come cattolico, 7 54 dijfermamento, 651 Di Filippo Bareggi C., 877 Di Francia L., 48 DIGESTIONE, 976, 999, 1035, 1057 di grado, 268 dii (verbo), 239 di là, 251, 252 dileita11za, 81 diletto, 665 dilibera'mi, diliberaimi, 218; diliberar (diliberarono), 224; di/ibero, diliberato, 180; dilibererei, diliberrei, 235 di lungi, 256 dimenticato, dimentico, 180 di meri'gge, di meriggiano, di meriggio, 258 dimostra, 196 dinanzi, 249, 255, 256 di niente, 267 dinne, 200 Dino Compagni, r86 Dino Frescobaldi, 113 e n., 255 - Rime, Br, 255 e n, dintorno, 253 Dio, 1063-5, 1070, 1072 Diocleziano Gaio Valerio, imperatore, 74:1 Diodoro di Tarso, 684, 721 Diogene di Sinope, 304, 779 e n., 956 e n., 1030 e n., ro94 Diogene Lacrzio, 778 - Vite dei filosofi, 304, 688, 704, 778 e n., 779, r0S9 Diomede - Ars grammatiea, r 46 Dionc Crisostomo, 704, 705 - De diceridi exercitatione, 705 Dionco (personaggio del Decameron), 3:15, 483 Dionigi l'Areopagita, 97 4 Dionisio di A1ico.rnasso, 735, 737 e n., 738 e n., 774 - Ant. Rom., 735, 738 e n. - De compositione verbon,m, r:15, r3r, r35 - Delle particolarità di Trtcraide, 737 Dionisio il giovane, 779, 905 Dioniso (dio), vedi Bacco Dionisotti c., xv, XVI, XIX, :,o, a6, 40, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 50, 53, 58, 59, 60, 65, 73, 78, 79, 80, Sr, 8:z, lOI, r3I, I34, r49, r5r, r59, r10, r7r, r76, r79, r85, r9r, 194, r99, aoo, ar9, :123, aa8, :129,

1235

236, 240, :,,14, 253, :,54, :,58, 264, :178, :19:1, 293, :194, 300, 3r4, 315, 320, 3:18, 330, 335, 331, 340, 342, 359, 360, 36r, 363,374,438, 1r65, rr69, 1173,r177 Dioscoride Pedanio, 1001 - De medica materia, su, 581, 645, 686, 942' 1000, JOOI e n., l I r7 Diotima (pcnonaggio del Simpono di Platone), 544 e n. diparti, 128, 221; dipartii/e, 199; dipartio, 128, 221 di qua, 251, 252; d1" quaentro, di qui, 251; di quinci, di quindi, 252; di quivi, 253 diraggio, 228; dire, 223 i dire', direi, dire' lo, 201 di rimpetto, 266 di rincontro, 266 dis-, 280 disagiato, 180 disagio, 280 disama, 280 discerneo, 222 disceverare, 1 80 DISCORSO, vedi RAGIONE dis/ace, 128, 280 disidererei, disidurei, 235 disio, 664 diso11ore, 280 di.sperde, 123 DISPOSIZIONE DELLE PAROLE, 120, 124-8 dispregio, 280 dùse, 223; disse,, 224; dissero, 223; dissi, 220 dita, diti, 177 divisamento, 651 do, 221 dobbiendo, 240 doglia, 665; doglia (congiuntivo), 237; doglio, 212, 215 Doglio M. L., 8a7 dogliono, 2 I 5 dolce, 178 DOLCE, 999 Dolce Lodovico, 42, 48,863,878, 953, u64, :zr72 dolce:z::ra, 133 dolente, 247; dolerà, doler/J, 227; dolesti, 221; dolfe, dol/ero, 222; dolfi, 218, 222; dolga, dolgano, 237; dolgo, dolgono, 215 dolore, 665 DOLORE, 1099-101

dolse, 222, 247; dolsi, 218; doluta, 225 domandao, 222; domandar (domandarono), 224 Domenichi Lodovico, XVII, 450, 685, r:ro3 - Facezie, motti e burle, 94r, 973, 914, 990, IIOJ

- La ,robiltà delle donne, II ra Domenico di Guzmlin, santo, 782 Donata (cameriera di Maria Savorgnan), 365 e n., 369 e n.

1236

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Donatello, Donato di Detto Bardi detto, x67, 913 e n.

Donati Forcse, \'cdi Forese Donati Donato Elio, 731 e n., 772, 788 - Ar.s grammatica, 7JI

schile singolare), 172, 178; (uscita del femminile singolare), 17s, 178; (uscita del femminile plurnlc), 175, 178; (uscita verbale), 210,212,221,223, 237; e'. 196, 197; ,. 85, 195, 196, 244

- Vergilii vita, 74.1, 844

ebbe (per fu e furono), 8s; ebbi, 218

Donato Francesco, 406 e n. Donato Girolamo, 6 donde, 252 Doni Anton Francesco, XII, 38, 86x, 873, S74, 881 e n., 882, 889, II95 - I man11i, 873, xo33, rxo4 - La libran·a, 873, 96:r - La z11cca, 979 Donna amata da Gismondo, 332-3 Donna che fu il primo amore del Bembo, 369 e n.

EBRAICA (lingua), 171 EBREI, 915, 961, 968, 969 Ebreo, orafo al canto dc' Pecori, 944 Ecateo di Mileto, 737, 765 e n. - Genealogie, 765 - Periegesi (o Figura della terra), 765 eccetto, 276 eccl,eità, 935

Eccius Io. G., 785 ed, 273 Edipo, rou

DONNE, 909 1 I 107-20

ie, 244

donneare, 79 dopo, 255 dorrà, 247;dorrò, 227 DOTE, III0-1 dotta, dottanza, dottare, 81 DOTTI, vedi LETTERATI Dotto Iacomo, 809, Bxo dove, 251, 252 dovei, 21 8 ; dovendo, 240 ; doTJetti, 218 D'Ovidio F., 78 Dovizi Bernardo, vedi Bibbiena (da) Bernardo Dovizi

Egeo, 770 Egidi F., SI Egisto, 324 EGITTO (lingua e scrittori), 63, 112 EGIZI, 96 I, 967 egli, 194, 195, 196, 197; eglino, 194; egli stessi, egli stesso, 207

dovunque, 259

Elena, 308 e n., 686 e n., 687, 774 Eleonora di Toledo, duchessa di Firenze,

Drez et rayson es qu'ieu ciani e'm demori (Droit et raison), 72, 444 e n. drudo, 83 dubbio, dubbioso, 180 Du Bellay Joachim, 503, 723, n8o - Deffence et illu.stration de la langue Jran&oyse, Xli, XVI, 503, 600, 6or, 608, 609, 6ro, 6x6, 622, 623, 624, 625, 626, 627, 628, 629, 630, 633, :r:r8o due: i due, le due, 178 duecotanto, 261 Duilio Gaio, 58z Duns Scoto Giovanni, 6r8, 935-6 e nn. duo, 178 duole, 221; duoli, 212; duolmi, 213 Dupuy Pierre, 606, 764 dur, 179 dura (per durata), 181 Du Verdier Antoine - Supplementum epitomes bibliotliecae Gcsnèriane, 9r:r

e,

127, 131-2, 178, 179, 183,189,190,191, 192, 193, 197, 216, 217, 227, 230, 234, 235; (aperta e chiusa), 132; (più s e consonante), 87; (latina), 132; (epitetica), 244; (prostetica), 86; (congiunzione), 273;

-e (uscita nel singolare dei nomi derivati dai sostantivi imparisillabi delln terza coniugazione latina), J72; (uscita del ma-

EGLOGHE, I 36 ei (verbo), 245; (pronome), 196 , 197

Eleazar, 777 Elefante-Aglafemo (personaggio della Circe), 87I, 1072,

I

136,

I

137-58

858 ELEZIONE DELLE PAROLE, 120-4

Eliano Claudio, uo3 Elifaz, 701 e n. Eliot T. S., :r42 Elisa, vedi Didone Eli.sei, 172 ELISIONE (diTJertimento), ISO, 183 Eliu, 7oz ella, 194, 195, 196, 198; elle, 194, 19S; elleno, 194; elli, 193, 194, 196, 198; e/lino, 194 1 196; elio, 193, 198 ELOQUENZA, 1075

Elwert W. Th., 43, 45, 292 Emanuele Filiberto, duca di Savoia, 841, 88r

Empedocle, 9r5, xoo:z ENDECASILLABO, 147-8

Endimione, 697 Enea, 359, 611 e n., 691, 700, 738 Ennio Quinto, 107, .159, 746 e n., 753 - Am1ales, 746-7 Enrico Il, re di Francia, 723 Enrico VIII, re d'Inghilterra, 406 Enrico da Susa, cardinnle ostiense, 974 e11vio, 183 e,ivoglia, 183 -enza, 81

Enzo, re di Snrdegna,

J

12, II3, I7S

1237

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI - canzone S'eo trovassepietan:za, 23-4: 175 EPENTESI, 12.6 Epimetco, 355 EPITESI, 126, 128, 244, 275

Equicola Mario, z4, z7, 4z - Libro de natura de Afflore, :c4, 45, 76, 88, :?92, 3oz, 3:rz, 6z4 Era, vedi Giunone era (da essere), 85 Eracle, vedi Ercole trono, 85 Erasmo da Rotterdam, 590, 865 - Adagia, 599 - Ciccroninnfls, 774 - Stflltitiae lnus, 935, :ro5a Ercolano Cesare, 488, 57:c Ercole, 598, 667, 686, 690, 693 e n., 738, 770, :e :e :cz Ercole li d'Este, duca di Ferrara, Modena e Reggio, 380, 436, 462 Ercole Libio, 860 Erculei R., 836 Ermafrodito, 514 e n. Ermete, vedi Mercurio Ermete Trimegisto, vedi Mercurio Trimegisto Ermione, 307 Ermippo di Smirne - Vite, zo89 Ermogene (personaggio del Cratilo di Platone), 624 Ero, 535 Erodoto, 93, 736, 737 e n., 739, 740, 765 e n., 826 - Storia, 63, S74, 7:c5, 737 e n., 739, 740, 762, 765, :co62, :c:cu errare, 214 Esaù, 1037, 1065 e n. Eschilo, 93 - Orestta, 307 Esclune, 630, 654 e n. - Contro Ctui/011te, 654 Esculapio, 632, 633, 685 Esiodo, 93, 35z, 573, 742 - Op., :c:co7 - Tlieog., 355 Esopo, 571, 779 ESPERIENZA, 1083 1 1090

tssa, usa lei, use, 206 1sscr1do, 243; essere, 132, 243, 276; (ausiliare), 225, 232, 242, 247 essi, 194, 206; esso, tsso lei, esso loro, uso lui, esso noi, 206; esso stesso (non esso stun), 207

Este (d') Anna, principessa di Ferrara, 969 Este (d') Isabella, vedi Isabella Este Gonzaga Este (d') Lucrezia, duchessa di Urbino, 482, 843 ESTIMATIVA (potenza), 1145, 1146-7, 1150 tsto, 205

Eatuftiga (de) Lopc, 380 - cobla Yo pienso si me muriesst, 380 tt, 273 ETA DELL'ORO, 1084 DELL'UOMO, 898-9 ,ui, 200 Ettore, 835 e n. Eurialo, 554 e n. Euridice, 561

ETÀ

Euripide, 93, 72:r - Aie., 324 - Bacch., 538, 734 - Hec., 865, 871 - Hipp., 533 - Jpl,ig. Taur., 324 - Med., 29:c

- Pl,om., :e :ca7 Euristco, 170 Eusebio di Cesarea - Cronaca, 74z Evandro, 598, 738 euvi, 200 tX/)trtO, I 34

txtrtmo, 134 Ezechiele, 776 e::iondio, 259; t::iondio che, 264 Ezzelino (Ace/in) III da Romano, 4o6 e n. /· 134, 22:Z la, 228; (per su), 28:z

Fabio Massimo, 573 Fabricius I. A., 986 Fabru?.zo (Fabru:zio) de' Lambertazzi, 112, :r:c3 faccenda, 977 f aedo, Jacdamo, 239; /aedo, /ace, :z45; Jncea, 216; Jacere, 222 1 224, 2.45; facessi, 233, 236, 245

Factonte, 697 Falaride, 533, 690 falla, fallare, :z14 falle (da fallire), 214 follen::a, 81 falliraggio, 2:17; fallire, fallo, 214 fallare, 102 fammi, 200 Fanciulle che cantano all'inizio degli A10lani, 290-3, 297, 305, 335 FANCIULLI, 938-9

/ane, 275 Fanelli V., 585 Fanfani P., :ro97 Fano A., XVI, 50a, 505, 506, 508, 6:c9, 692, 799, 827, 8.29, 839, :cz83 /ami, 216 FANTASIA, 885 1 902, 903, 920, 936, 976, 1035, 1077, 1145-6, 1148, 1150 Jantin, Ja,rtolin, 162 Jara'nt (/arai,re), 200, 201; Jaratti, 200i fare, 222, 224; Jaresh', 233

Farinata degli Uberti, :ro:r,

102

e n.,

107

1238

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Farnese Alessandro (nipote di Pnolo III). 36, 40, 46r, 46:1, 844 e n .• rr76 Farnese Alessandro di Ottavio. 843 Famesc Margherita, 8,u e n. Farsa nella q11ale si dimostra che i,r qual1111q11c grado l'11omo sia non si pr,ò quietare e vivere senza pensitri, r ro4 Fasulo C., 555 fata (le), 177 Fatini G., 55 fatta, 226; fatti con Dio, 282; fatto, 224,

/ie,

225

Fattor della Commenda di Bologna, 412 Faustina, 390 e n. Fausto Vittore, 438-41 - De comoedia li~llus, 438 Favati G., Il 3 favellare, 969 faville, 66s

/aTNi,

fiano, 244 fiate, 283 Ficino Marsilio, Xli, 4, .rr, ra, 867, 923, 9:14, 982, rx52, II57 - Apologi de vol11ptate, I roo - De vita, 997, rooo, roor, rooa, xoo3, roo4, xoo5, roo6, xoo7, .1008, roo9 - Epist., xorr - Tl,eologia Platonica, 867, 870, 907, 936, 997 Fidia, 168 e n.

200

Fazio degli Uberti, 83, .102 /e', 223; fea, 216 Febo, ,,edi Apollo fece, 221, 223; fecero, 223; feci, 217, 225 FEDE, 908 sgg., 979, 991-2, 1013, 1014, 10635; (e opere), 893; (e filosofia), 981-3 Federico II di Svevia, imperatore, 112, rr3, 269, 366, 974 - canzone Poi che ti piace, 28-9: 269 Federico d'Aragona, re di Napoli, 64 Federico li, duca di Mantova, 460 Federico Il, duca di Urbino, 394 Fedra, 633 Fedro, 779 /ei, 217 FELICITÀ DELL'UOMO, 908 FEMMINA, Il 08-9, I Il 7-8, Il 2 I Fénelon, F. de Salignac De La. Mothe, 874 FENICI (lingua e scrittori), 63, 112 f e,mo, 224; Jeo, 222 Ferdinando I, imperatore, 8r2 Ferdinando li il Cattolico, re d'Aragona, 35r, 406 ferisce, 246; ferisco, 212; ferlsconsi, fmsconosi, ferlsconsene, 149; ferito, 219, 242 Ferondo (personaggio del Decameron), 669 e n., 732 e n. Ferrajoli A., 47, 386 Ferrara M., 943 Ferrari G. E., II71 Ferrari S., XVI, 875, 876, 889, .1068, .1097, r2oa, .rao4 Ferrero E., 448 Ferrero G. G., 314, 445, 455, 790, 875 ferrigno, 180 feruta, /eruto, 219 fusi, 235 fia, 244 fiamma, 665 Fiammetta (penonagaio dell'Orlando furioso), 637

244

fiede, 212 fie,io, 244 fier (invece di fim), 179 fier (do. ferire), 213; fiere, 212, 213, 246 Fieschi Niccolò (Mons. di Flisco), 416 e n. FIGLI, 1116-8

figliuo' (invece di figliuola'), 179; figliuòlto (per figliuol tuo), 163 FIGURA, 900

fila (le), 177 Filelfo Francesco, 62, 258 Fileno (personaggio dell'Egloga del Gelli), 86I Filippo II, re di Macedonia, 658 Filippo da Bergamo - Supplememum Clrronicar11m, 986 Filippo Mario. Visconti, duca di Milano, 966 Filolao, 924 Filomena (personaggio del Decameron), 669 Filonardo Ennio, 462 FILOSOFIA, I I 09, 1138-40 Filostrato (personaggio del Decameron), 646 e n., 669 FINI, 1081; (dell'anima), 88s-7, 924; (del corpo), 886-7; (dell'uomo), 925 finsi, Jitrto, 219 Fiordibello Antonio, 459 fiore, 268 Fiorelli P., 817, ro28 FIORENTINA (lingua e letteratura), 57, 73, 7S-6, 95-103, 110, 134, 136, 163, 950

sgg.; (debiti dal provenzale), 73-88 FIORENTINI, 950, 1043 Firenzuola Agnolo, 27, 48 - La prima veste dei discorsi degli animali, 875 - L'asino d'oro, 875 Firpo L., 405, Io68 FISON0MJSTI, 1078 fiume, fi11mi, 177 Flamini F., 43, 60, 505, 876 Flaminio Marc'Antonio, 37, u64, .rr65 Flora F., 43, 46r, 505, su, 574, 876 Floriani P., 43, 46, 33a Florido Sabino Fro.ncesco - In M. Acii Plauti aliorumque latinae linguae talumniatoru Apologia, 945

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

lo. 2:u, 245 Focari, 809 1 8.10 Focionc, 8.19 foco, 664, 665 Foglietta Agostino, 3a, 4u Folchetto di Marsiglia, 74 e n. Folena G., 45, 19 Fontanini G., 4.1, 503, 875 Fontenelle (de) B. Le Bovier, 874 Fonzio (Della Fonte) Bartolomeo - Annalu suor11r,1 temporum, 986 far, 269, 270; fora, 269 fora (verbo), 84, 244 Forcellini M., 503, 505, 586, 6.19, :u84, rr85, rr86, .u87, rr89, rr9a /ore, 269 Forese Donati, 112, zr3 FORMA O APPARENZA, 120 sgg, Foroneo, re di Argo, 63 forse, 281 forsennato, 83, 270 /orsi, 281 FORTE (sapore), 999 Fortegucrri Scipione, vedi Carteromaco FORTEZZA, 1011, I 128-35 FortUnio Gio\'anni Francesco, 26, 43, 41, 56, 437 e n. - Regole grammaticali dtlla volgar lingua, XVI, 25, 53, .176, r77, :108, arr, ar41 a:c5, 2.16, aaa, 233, a34, t14.1, a4a, a54, asa. 431 forviare, 270 Jos-, 236 fosse, 276; fossi, /ossin, 236; Jostù, 221 fra (per /rate), 162 fra, 277; /ra-, 278 Fraate, 686 e n. Frac:astoro Girolamo, 34, 43, 50, 423-8 1 462 - Carmina, 4a6 - S3•p/1ilis, 49, 423-8 e nn., su Fraenkcl J. J., 44 Francesca (penonaggio del Decameron), 264 Francesca da Rimini, 308 e n. Francesco (servo di Maria Savorgnan), 366, 367 e n. Francesco I, re di Francia, SS, 4rz, 413-5 e nn., 417, 46a, 585, 637, 910, 1029 e n. Francesco II, re di Francia, 638 Francesco I de' Medici, granduca di Toscana, 489, 838 e n., 840 Francesco II Sforza, duca di Milano, Z163 Francesco da Buti, aa9 Francesco della Luna, 965 1 966 Francesco d'Olanda, 699 Francesco Ismera de' Beccanugi, 112, :,:,31 269, 276 - Rime, .178 canzone Per gran soverchio, 30: 260 canzone Per pan sowrehio, 65: 276

1239

Franceaco Maria I Della Rovere, duca di Urbino, ar, 394 e n., 395, 398, 409, 444, 484, 827

Francesco Maria 11 Della Rovere, duca di Urbino, 482, 489, 841 e n., 843 e n., 846 e n., 848 FRANCESE (lingua), 88, 92. 284 FRANCHI (Francui), 69 Francini Antonio, 853, 871 franco, 181 Frangipane (Fregapane) Criatof'oro, 404 e n., 405, 406 Frank J., 14, 78 Franzcsi Matteo, 9a8 frastornare, 278 frate, 162 Jratèlmo (per /ratei mio), 163 FRATI,

989, 1097-8

Fregoso Battista, r 4 - Antero,, r4 Fregoso Coatanza, 393 Fregoso Federigo, ao, ar, a4, 31, 55, 7a, 14, n9, 304, 336, 393, 390 e n., 444 e n., 46:z, rz6.1, rr76 Fregoso Federigo (interlocutore delle Prose della volgar ling11a), 55, 58, 62, 65, 66, 68, 70, 71, 73, So, 88, 89, 98, 99, 108, 109, 162, 182, 233, 284

117, 129, 148, 149, 158, 159, 163, 165. 166, 170, 174, 175, 185, 190, 195, 199, 200, 201, 249, 250, 252, 268, 270.

160, 177, 205, 282,

Frcgoso Fedcrigo (interlocutore del Cortegiano di B. Castiglione), zar Fregoso Ottaviano, :ro, 46, 393, 399 e n. Fresco U., 878 Frcscobaldi Dino, vedi Dino Fracobaldi Frigio Niccolb, u .16 /roda,/rode;/rode,/rod~ 175 fronda, fronde; fronde, /rondi, 175 frugane, 281 fu, 85, 244 Fubini M., :,35, z36, z37, nos Fubini R., 65, 95 /ue, 244; /ui, 243, 255 FUOCO, 914, 930, 931 /uor, 269, 270; /r,ori, 2691 283: fuori ehe, 270 Jur, 224, 243 Furie, 306, 307 /11ro, 243; /11rono, 85, 224, 243 Fusco L., 876, rao11 futuro, 247

g. 87,

134, 215, 240, 246, 258

Gabriele (arcangelo), 949 e n. Gabriele Angelo, S, 6, 1, 44, 139 Gabriele Trifon, 3 1 6, 7, 43, 90, 02-4 e nn., 432, 436, 456-8 1 661-3 e nn., 681, n6z u68, u69 Gaddi (de') Niccolb, 4611

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Gaetano, cardinal, vedi Caictano, De Vio Tommaso detto il gaggio, 82 gaio, 81, 84 Gaitcr L., 58r Galeno Claudio, 1000 - Delle facoltà degli alimenti, 1000 e n. - De simptomatum causis, 905 Gnliot du Pri, II7J Gallavotti C., XIX, 7r6, 782 Gallo Antonio, 478, 506 Gallo Gaio Cornelio, 697 Gallo (Galletto) Pisano, 112, rz3 Gamnliele, 783 e n. Gamba B., 503, 504, rr76, u86 Gnmbara (da) Giovan Francesco, 453 Gambara (da) Uberto, 296, 462 Gambara (da) Veronica, 33, 296, 3r5, 452 e n., 462, rr78 - Rime, 452 e n. Ganimede, 319 e n., 562 Garin E., XVIII, 504, 952 Gasca Queirazza G., 94 Gastaldi Giacomo, 50 Gatti B., 380 Gelli A., XVI, 873, 875, 877, 878, ro68, I202, I204 Gelli Carlo di Bartolomeo, 853, 873 Gelli Francesco, 853 Gelli Giovan Batista, xn, XVI, XVIII, 27 1 42, 48, r22, 346, 5or, 570, 78r - Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio ,iel quale lo Eccellentissimo Sig,ror Cosimo fu fatto Duca di Firenze, 860, 877, 96r, 964 - I capricci del bottaio, XII, XVI, XVII, 48, 347, 858, 863, 866-9, 870, 87r, 873, 874, 875, 876, 877, 878, 879, rz95-203 - La Circe, XII, XVI, 346, 857, 868, 8697r, 874, 875, 876, 879, 907, 924, 956, 989, roor, roo7, ror~ ro52, r203-5 - La sporta, 859, 899, 9r8, ro95, ru4 - Letture dantesche, XII, XVI, r22, 678, 68r, 868, 874, 877, 878, 879, 88r, 882, 885, 886, 887, 89r, 892, 894, 896, 899, 9or, 902, 905, 907, 909, 9ro, 9r4, 9r5, 9r7, 920, 9:12, 923, 924, 930, 934, 935, 937, 942, 944, 948, 949, 956, 970, 975, 980, 98r, 982, 983, 984, 985, 992, 994, 995, 997, 999, rooo, roo8, ror2, ror3, ror5, ro28,ro29,ro35,ro45,ro67,ro69,ro70, ro8r,ro87,rro4,rrr6,rr23,rr3r,rr36, rr37, rr45, rr46, rrsr, rr52, rr53 Orazione sopra la esposizione di Dante, 855,877 Lettura prima sopra lo Inferno, 854, 877 Lettura sesta sopra lo lnfemo, 88r Sopra un luogo di Dante nel XVI canto del Purgatorio, 881 e n. Sopra un luogo del XXVI canto del Paradiso, 872, 879, 882

- Lezioni petrarchucl,e, XVI, 865, 877, 878, 886, 894, 898, ro35, ro40, ro4r, ro42, ro44,ro46,ro47,rroo,rror,rr36,rr43, rr44, rr46, rr53 - Lo errore, 857, 859, ro55 - Polifila (attribuita), 877 - Ragio,ramc11to sopra le difficultà del mettere in regole la 11ostra lingua, 608 1 856, 863, 872, 878, 879, 95r, 964, 970, zor4 - Rime, 858 - Trattatello delle origini di Firenze, 860, 86r, 929 - Vite d'artisti, 873, 879 Gellio Aulo, 736 - Noct. Att., 539, 736, 760, 844, 929 Gellio Gneo (l'annalista), 63 GENERARE (umano), 926-7, 1117-8 GENERAZIONE, 1045 172 GENERE (dei nomi), 171

genere,

Gennaio (pseudonimo), 2r, 390 Gennari G., 505 Genova, Marcantonio de' Passeri detto il, 565, 820 gente, 132 GENTILUOMINI, 1098 Geri, 172

g;rminano, 148 Gerolamo, santo, 684, 969 e n. - Adversus Iovinianum, 58r - De vir. ili., 742 Gerone, 581 e n. Gheldole, r ro3 Gherardi A., 48 Gherio Cosimo, 565 Glùdctti E., roBo Chinassi G., 42, 3:r2, rr65 Glùno di Tacco {personaggio del Decameron), 248 Ghinucci Girolamo, 462 Ghirigoro (personaggio della Sporta del Gclli), ro95 Ghislieri (Gl,isilieri) Guido, vedi Guido Ghislieri gla, 243 giacere, 218 GIACITURA, 125, 127, 143-8 Giacobbe (lacob), 755,780, 1037, 1065 e n. Giacomino Pugliese, 22:1 Giacomo, apostolo, 893, zo70; e vedi Bibbia Giacomo II di Lusignano, re di Cipro, 286, 287 giacqui, 218 Giambcllino, vedi Bctlini Giovanni Giamboni Bono, vedi Bono Giamboni Giambullari Pierfrancesco, 858, 860, 86r, 86a, 863, 87z, 877, 878, 1028 e n., I039 - Della lingua che si parla e scrive in Firenze, roa8

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI - Del 1ito, Jorn,a , mùi,ra dello Inferno di Dante, 1028, :coa9 - Il Gello, 76, 86.r, .roa8 - I1toria dal nrille al nrille trecento, zoa8 - I1toria dell'Europa, roa8 Gian Francesco Il, marchese di Mantova, 397 e n., 637, 638 Gianni Alfani, 112, r r3, 268, 272 - ballata Ballat,tta dolente, 22-4: 272 - ballata De la 111ia do11na, 28-30: 268 Gianni Lapo, vedi Lapo Gianni Giano, vedi Iano Giasone, 291 e n., 292, 308, 769 Giasone, tiranno di Fere, 676, :coa5 Giberti Giovan Matteo, 3:c, 32, 49, 4az, 429-30 e n., 432-6 e nn. Gigante M., 779, zo90 Gigli O., 754, :co29 Gilbert F., 948 Gilson t., 980 Ginevra, 768 ginoccl,ia, 177; ginocchione, 281 glo, 243 Gioannini Girolamo do Capugnano, :cao4 Giobbe, 701 e n. Gioberti V., 875 GIOCO, 1101-2 Gioffrè D., 88:c gioia, 174, 175, 664, 665 gioire, 79 Giordani Giovan Battista, 877 Giorgio Bartolomeo, \'edi Bartolomeo Zorzi Giorgio Francesco, vedi Zorzi Francesco Giorgio Marin, 586, 587 GIORNO NATURALB I

GIORNO ARTIFICIALE,

1044 GIOVANI, 909, 1012, 1023 1 1055, 1060

Giovanni, santo, 772; e vedi Bibbia Giovanni Antonio, scalco del Bembo, 448 Giovanni Damasceno, 974 Giovanni de' Cani, vedi Cani (de') Giovanni Iacopo Giovanni Stefano Eremita da Ferrara, 229 Gio,·e, 3:c9, 525, 526, 527, 53r, S33 e n., 534, 531 e n., 541, 573, 100 e n., 70.r, 717, 7:13, 764, :coo9, :con, 1099, .rzoo Giovenale Latino, ao GIO\°E&'IZTÙ, 898,979,996, 1010, 1056, 1o61 giovn,ole::a, 960 Giovio Paolo, :14, 33, 39, :c68, 445 e n., 446 e n., 447-51 e nn., 46r, 585, 827 - Elogia doctorum tJiroruna, 585 - Elogia uirorum litteris illu1triur,1, 585,936, 986 - Hiltoriarum sui temporis libri XLV, 446, 441 - Micl1aeli1 Angeli tJita, z68 - V.'ta del fflarcl,es, di Pe1cara, 450 - Vita di Alfonso da E1t1 Duca di Ferrara, 864 Giraldi Cinzio Gian Battista

- Discor10 intorno al compo"e dei romanzi, r5a - Discor10 ,,.,,,. lettera intorno al comporre del/, comedi, e d,11, tragedi,, 54z-a - Orbecch,, 476 Girardi E. N., 867, 876, 871, 878, 879, 983 Girautz de Domelh (Giraldo Brun1ll0), 78 e n. gir,, girei, 243 Girelli Silvestro, 584 Gismonda (pcnonaggio del Decamnon), 146 Gismondo (pen0naggio degli Aio/ani), :ca, 289, 294, 296, 297, 298, 299, 301, 30:1, 303, 305, 306, 308, 309, 317, 318,319, 320, 3zz, 3z2, 323, 325 e n., 327, 329, 331, 332 e n., 334, 34Z, 346, 348, 352 gito, 243 gitteriino, 235 Giuda, santo, 712; e vedi Bibhia Giuda Iscariota, 935 Giudici E., 50 Giudicio ,apra la tragedia di Canace , Macareo, 476, 506, 542, 663 GIUDIZIO UNIVERSALI, 934, 973, 1048 giu,, 244 giuggiar,, 83 Giuliano del Carmine, 941 e n. Giuliano di Giovanni, 6z z Giulio II, papa, z7, :c8, 2r, :13, 55 e n., :c6o, 386, 392 e n., 394, 397, 398 e n., 399, 405, 4z7, 988 Giulio III, papa, 79r, 799, 83:1, 836 Giunone, 495, 53:c, 536 e n., 100. 7oz: Giunti Giovanni Maria, 453 Giunti Lucantonio, 452 Giunti Mariotto, 453 Giunti Tommaso, 452 e n. Giuseppe Flavio - Contra Apion,m, 683 Giusti G., z z z4 Giustinian Leonardo, 97 e n. GIUSTINIANE, 97 Giustiniano Antonio, 417 e n. Giustiniano Marino, 46:1 Giustino Il, imperatore, 70 GIUSTIZIA, 1011, 1127; (originale), 925,995 Giusto bottaio da San Pier Maggiore (personaggio dei Capricci del bottaio), 868, 870, 881, 882, 888, 889 e n., 891 e pa.ssim Glauco, 533, 547, 548 Glaucone (personaggio della Repubblica di Platone), 676, 671 gli (articolo), 183; (pronome), 198, 202, 204 i -gli, 198 gli altreta/i (per quegli altri), 209 gliele, -gliel,, 203-4; gliene, 204 Gliozzi M., roo4 gli tali (per coloro), 209

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI gli vi, 198 g11affe, 281 gnavo, 87 godei, 218; godute, goduto, 225 Gomero, S60 Gonzaga Cesare, :zo Gonzaga Cesare (diverso dal precedente), 479 Gonzaga Elisabetta, duchessa di Urbino, :rS, z9, :zz, 46, 388, 389 e n., 390, 391 e n., 394 e n., 395-9, 401 e n., 409 e n. Gonzaga Ercole, 584 e n., 585, 638 e n., 680

Gonzaga Francesco, 479 Gonzaga Leonora, duchessa di Urbino, :z:r, 444 e n. Gonzaga Scipione, 842 e n. Gonzaga Sigismondo, 638 Gorgia di Leontini, 609 e n., 648, 676 e n., 705 - Elena, 686 Gorni G., 45, :r37 Goro Giusto, 400-1 Goro Simon, 400 GOTI, 69 Gottfricd R. B., u73 Gottifredi Bartolomeo - Specchio d'amore, 499 Gotto mantovano, uz, :rx3 Gozzi G., 87 5 gozzo, 269 Gradenigo Pietro, 37, 4:z, 50, 463 gradora, 177 Graesse J. G. Tb., x:zo5 gramare, 84 gran, grande, 179, 180 Grande S., 50 grondo, 172 Grassi Niccolò, vedi Grazia Grassi Pdvitera G., 72 Grasso legnaiolo, 894 e n., 9:r6 grave, 180 GRAVITÀ, 130-5, 138-43, 150-2, 155-6, 157

Grayson C., 43, :r59, :r68, 233, 60:r GRAZIA DIVINA, 1013, 1048

Grazia, Niccolò Grassi detto il, SII, 790, 791, 79a, 793, 794, 795 Grazia Niccolò (interlocutore del Dialogo d'amore), 499, 511 e passim, 79a Grazie (le tre), 5a8 grazioso, 256 Grazzini Anton Francesco, vedi Lasca Grazzini G., 875 Gréban Arnoul - Passion, 903 GRECA (lingUa), 61, 62, 63, 66-8, 92-3, 95, 96, I 121 133-4, 136, 143, 148, 149, 281,

945, 961 sgg. GRECI, 945, 961 1 967, 969, 970, 1025 Greco A., 507, 5I2, 65a Gregorio Magno, papa, santo, 769 e n.

Gregorio XIII (Ugo Buoncompagni da Bologna), papa, 479, 483, 724, 825 e n., 84r greve, 180 grida11do, 249 Griffin N. E., rx4 Grifone (personaggio dell'Orlando Jurio10), 803 e n. Grillo (personaggio del Bruta ratione uti di Plutarco), Io 69, I z:z9 Grimani Giovanni, 723, II7 5 Grimano Marino, 462 Grion G., z36, z37 Gritti Andrea, doge, 438-9 e nn. Gritti Domenico, 792 gru, 173 Grugct Claude, XII, 723, II8I Gualandi Bartolomea (personaggio del Decameron), 669 e n. Gualteruzzi Carlo, XVIII, 27, 36, 38, 39, 40, 459 e n., 466, xx64, zx72, x:175 guarderi~no, 235 g11ardo, 279 guardrei, 234 guari, 81, 226, 261, 965 Guarino Veronese, 55, 772 e n. - Epistolario, 67 - Regulae grammaticale,, 772 Guasti C., 508 Guazzo Marco - Cronica, 986 Guccio Imbratta (personaggio del Decameron), 669 e n. Guerrieri Crocetti C., x52, 542 Guglielminetti M., 438, 567, :ro77 Guglielmo IX, duca d'Aquitania, 77 Guglielmo di Durante - Speculrm, i11diciale, 974 - Specufom legatorum, 974 Guicciardini Francesco, 27, 48, 258, 484, 507, 826 e n., 827 - Storia d'Italia, 48, 407, 408, 430, 507, 827, 987, :roa9 guiderdone, 80 Guidetti Francesco, 856, 872 Guidiccioni Giovanni, 46I Guidobaldo I, duca di Urbino, I9, 2x, 7a, 129 e n., 394-S, 396, 397, 398, 399, 409 e n., 410 Guidobaldo II, duca di Urbino, 477, 478, 479, 48z, 483, 484, 506, Sxz, 813, 8a7, 843, xz78 Guido Cavalcanti, 81 e n., Ba, 102 e n., II2, II3, 1421 255, 2601 a6I - Rime, z38, z55 canzone Donna mi prega: 142 sonetto Un amoroso sguardo, 1-8: 260 Guido delle Colonne (Guido Gi11dice), I 12, II3, ll4, 188, 204, 205, 264 e n. - Historia destructionis Troiae (Istoria della gue"a di Troia), So, :1:14 1 :r78, :188, 204, a40, 244, a67, a8x

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI XXVI, 4: 205

Guido Ghislieri, 112, :c:13 Guido Guinizzelli (Guinieell,), 81 e n., Ba 107, 112, :r:r3, 261 e D. - Rime, 79 sonetto Cl,'eo eor afJess,, 5-6: 260 sonetto Dolente lasso, 12: 205 sonetto Voi el,e per li occhi, 8: 261 (attribuito) Guidon, 506, 809 e n., 8:ro, 8:ra, 8a7 Guido Orlandi, J 12, r r3, 269 - sonetto Troppo seruir, 2: 269 Guillem de Saint Gregori, 444 guisa, 80 Guiscardo (personaggio del Decameron), 146

Guittone d'Arezzo, 102, 1121 211, 215, 269, 283, 763 - Rime, 211 e n., a:r5, z70 canzone Al,i Deo, 69: 283 Gilnther S., 50

h.

135

ha, 214; (per i o sono), 85; hacci, 200; 1,ae, 244 Hagendahl H., 844 lia'mi (1,aimi), zoo, 201 Hardouin J., 98 S Harth H., 504, :r .186 Hatzantonis E., 879 Hauser A., :r68 have, 214 Haym N. F., 875, :rzoa Hazard P., 4:r 4 ho, 244, 245

i,87, 132,163,179,189,191,192,210,211, 212, 217, 220, 223, 227, 235, 236, 239;

(latina), 132; (articolo), 183, 185, 186; (prostetica), 86-7, 205: -i (uscita del maschile singolare), 172; (uscita del maschile plurale), 173-4, 178; (uscita del femminile plurale), 175, 178; (uscita verbale), 212, 218, 228, 237, 238; -I, 220, 221; i' (io), 189 Iacopo Alighieri, 113 e n. - Dottri,iale, :r:r3 Iacopo (Notaio lacomo) da Lentini, 112, :r:r3

Iacopo, sellaio bolo1ncse, 928 e n. - Rime, 928 e n. lano, 860 larba, 699, 700 Icaro, 776 e n., 99• ldalogos (persona11rio del Filoeolo di G. Boccaccio), 90 lden Henry, :r:104 lesse, :ro16 Ifigenia, 314 ignavo, 87 ignudo, 87

1243

il (articolo), 182, 183, 274; (pronome), 198, 201

liceo, 426 il cl,e, 207 il meglio, il migliure, 268 il perché, 263 il quale, 207 1 208 il tale (per colui), 209 il "i, 202 image, imago, 172 IMITAZIONE (dell'antico nelle arti figurative), 167-8 IMMAGINAZIONE, I 137

impallidire, 246, 280 i impallidiseo, 246 IMPARARE, 984, 1096, 1152 imperciochi, 262 impiegato, 180 in, 188, 253, 277; (col gerundio), 249 in a11imo, 257 in cl,e cl,e modo si sia, 280 incl,inato, incliino, 180 incontanente, 258, 282 incontra, 128 1 266 i incontro, 266 in costò, 250 INDECLINABILI, 181 1 249-84 indi, 252, 253 indietro, 267 INDULGENZE, 987-8 INFANZIA, 898 INFER."llO, 987, in/ertà, 180

988

in/in che, infino, 26 s ; infino a qui, 251 1"nfirmità, 180 in/orme, 212 i,.Jra, 277 1 278 in fretta, 258 in /11ori, 270 ingeg,1ati, 225 lngenwinkel Giovanni, 447 e n. ingombrato, ingombro, 180 i11go::are, 269 in Jspagna, 87 inmantenente, 258 in modo cl,e, 263 i11nan:i, 256, 257 Innocenzo IV, papa, 974 e n. Innocenzo VIII, papa, 91, 400 e n., 937 Innocenzo da Pesaro, 304 e n., 397 in 11011 calere, 70 i11 parte, 265 in q11a, 251 in qualunque modo, 270 in quella, 265 in q11el ,ne:zo, in quel punto, 265 in quel tomo, 253 INSAZIABILITA UMANA, 887, 956-7, 10921104

lnstitoris (o lnstitor) Henricus, Heinrich Kriimer detto, 931 - Malleus malejiearum, 938

1244

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

in tanto, 266 INTELLETl'lVA (potenzn), INTELLETl"O, 886, 903,

902. 906, 1037, 1072., 1077, 1136, JI41, 1142, 1143-6, 114853, 1155; (agente), 981, 990

I!l.'TELLIGENZE, 1037-8 1 1069, 1076 1 1150

in tempo, 260 interdetto, 277 interponn,dosi, 277 interrompere, 277 i,iterve11uto, 277 intor110, 253 intra, 277, 278 i,itTamettere, 278 inveggiarc, 83 inverso, 268; im,erso 'I, 183 INVIDIA, 939, 953, 1018-24, II 27; (degli artefici), 940; (dei letterati), 940, 942, 945, 966 invio, 183 invoglia. 183 inzelosito, 133 lo, 834 io, 189, 193. 195, 196 Ioppi V., 438 lppia di Elide, 609, 648. 684, 860, 929 e n. Ippocrate, 896, 998 - Le arie, le acqw. i luo1hi1 998, zooz Ippolito, 633 Ippolito (personaggio non identificato), 391 Ipp0natte, zzr3 IRA, 894-5, I 128 IRASCIBILE (potenza), 1027 ire, 243 Irode, re dei Parti, 685, 686 Isabella Este Gonzaga, marchesa di Mantova, :c7, 46 1 585 1 638 Isacco, 1065 e n. ucl,ifarc, 86 Isidoro di Siviglia - Etym., 99, 589 Ismail, sofl di Persia, 407 lsmera Francesco, vedi Francesco Ismera de' Beccanugi isnello, 81 Isocrate, 55, 498, 499. 609 e n., 686 e n. - Busiride, 686, 687 - Del governo de" regni, 567 - Elena, 686 1 687 Jspagna, 87 ispesso, 86 ista mane, ista notte, 205 istare, 86 ista sera, 205 istesso, 86 istimare, 87 ISTINTO NATURALB, 1147

istrano, 87 ITALIANA (lingua), 87, 89-901 199, 218. 24S

Ittaco, 1075; e vedi Ostricn ivi, 250, 251

Jcanroy A., 74, 'J7 Jedin H., 402 Jodogne O., 903

Keil H., XVII, :c33, :c46 Kerquifinen (de) Claude 1 zaoa Klcin H. W .• 59 Kohler E., 72, 78 Krli.mcr Heinrich, vedi Institoria Henricus Kristcller P. O., 143 Kukenheim L., 589 /, 134,179,184, 210, 2.13, 218; 'l (articolo), 183; (pronome). 198; l' (articolo), 183; (pronome), 198, 202 la (articolo), 182, 183; (la 'ngiuria, la 'nvidia), 183; (pronome), 198; -la, 198 là, 2.50, 251 Labano, 573 Labé Louise, 50 laccio, 665 lacciuo', 173, 174; lacciuoli, 174 la Dio mercé, I 86, 268 là dove, 252 La Fontaine (de) J., 874 Lagomaggiore C., 49, 879 LAICI E CLERO, 972-3 Lamacchia R., 788 Lambertazzi (de') Fabruzzo, vedi Fabruzzo de' Lambertazzi la mi, 198, 199 Lamoni Puccio, vedi Minucci Paolo Lampridio Benedetto, 459 e n., 460, 565 Lancillotto, 768 larrda, 82 là 'rrde, 252 Landi Antonmaria, 88a Landin0 Cristoforo, 4 là 'nd'io, 252 Lando Agostino, 393 Lando Marcantonio, 393 Lando Pietro. 4or, 403 Lando Pietro, doge, 565 Lanfranco Cigala (Cicala), 74 e n. Lang Matthlius (Cardinale Curcense). 405 e n .• 406 langue, 246 Lanza D., zrz8 Lanzi F., 39 Laocoonte, 708 e n. Laomedontc, 700, 7or laonde, 252 Id ove, 252 Lapo Farinata degli Uberti. ro:a

- Rime, zo:a Lapo Gianni, 1121 :cz3, 269 1 272, 276 - Rime, 79, 8r ballata Amore, i' non son degno, 6: 269 ballata Ar,giolctta in sembianza, 35-8: 272 canzone Amor, nova, 66-7: 276 la quale, 208

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Lasca, Anton Francesco Grazzini detto il, 857, 859, 862, 874, 878 - Le ce,re, 87 5 - Rime, 859, 874, 877 Lascaris Costantino, 5, 44, 388 1 739 e n., 948 e n., u8o (?) - Erotemata, 5, 44 Lascaris Giovanni (Giano), 66, 585 1 617, 618 e n., 948 1 rr8o (?) Lascaris Giovanni (interlocutore del Dialogo delle lingue), 585 1 617 e passim lasciò, 221 Laso di Ermione, r34 lassato, 84; lasso, 181 LATINA (lingua e letteratura), 59-68 1 So, 87, 89, 98, 104-8, II2, 115, 132, 133, 136, 143, 148, 149, I 54, 169, 17 I I 172, 176, 185, 210, 233, 242, 247, 250, 258, 267, 273, 276, 277, 278, 942 sgg., 961 sgg., 970 LATINI, 962, 969; e vedi ROMANI

Latini Brunetto, vedi Brunetto Latini latora, 178 Lattanzio L. Celio (o Cecilio) Firmiano, 741-2 e n., 778 e n., 985 latte, 664 LATTE UMANO, 1004

Lauce orafo, 913 e n. Laura, r55, r83, 328, 422, 430, 431, 463, S 14, s 19, 541, 665, 756, 758 e n., 759 e n. Laurenti R., roo7, ro36, uo9 là 've, 252 Lavinello (fanciullo non identificato), 390 e n. Lavinello (personaggio degli Asolani), ra, 2S9, 298, 299, 300, 322, 335 e n., 337-61 LAVORO, 955, 957, 1079

la vostra mercé, 268 Layng Hcnry, r205 Lazzari A., 84r Lazzaro (Laz::ero), 903 e n., 904, 911 e n., 912, IOIJ le (articolo), 182, 184; (pronome), 198; -le-, 189 Leandro, 535 legame, 665 legga, 237, 239 Legge Livio, XVII, 892, 893, 9u, 9r3, 936, 938, 949, 952, 954, 959, 966, 968, 98r, 986 1 I05~ Io58, I20I legge, 132, :no, 221, 241; leggea, leggeano, 216; leggemmo, 223; leggemo, 211 ; leggendo, 240, 249; leggente, 247; leggt>re, 210, 230; leggerei, 233; leggerò, 227; leggui, 243; leggessate, 237; leggessi, 234, 235; leggeste, 223; leggesti, 221; leggeva, 216; leggevate, leggevi, 217; leggiamo, 211 ; leggiate, 239; /eggiavamo, leggiavate, 217

/eggier (invece di leggieri), 179 ltggio, leggo, 210

1245

/ti, 152, 189, 194, 195, 196, 198, 203, 206, 242, 248

Lelio Gaio Minore, 554 e n., zo57 Lemay R., 6I8 Lenzoni Carlo, 27, 86a, 863, 87a, 878, 953, IOIS - In difesa della lingua fiorentina e di Dante, 48, raz-3, 24r, 857, 817, 953, 960 Leonardi Gian Giacomo, conte di Monte l'Abate, II78 Leonardo da Vinci, 699 Leone (personaggio della Circe), n21, 1122-35

Leone X, papa, 22, 23, 24, 36, 38, 46, 57 e n., 58, 67, 229, 385 e n., 386 1 401-8 e nn., 408, 409, 4ro, 413 e n., 423, 424, 568, 585, 944 e n., 987, 1029 e n., u61 Leonetti P., 78 Leoniceno Niccolò, 6, 585 Leonico Tomeo Niccolò, 6, 423 e n., 428 Leopardi G., 4r, 497, 504, 875, roBo Lepre (personaggio della Circe), 1089, 1090-104, rr38 le si, 198 lusero, 223; lessi, 219 Lessico Suda, 74r Leto Pomponio, 6 letta, letti, 177 LE'M'ERATI, 888, 938 sgg., 940 sgg., 954, 966 Ltttere da diversi Re e Principi e Cardinali e altri uomini dotti a mons. P. Bembo scritte, 40, 48 Ltttere di Xlii uomini illustri, 726 LETTERE E ARTI, 167-9

Lettere volgari di diversi nobilissimi uomini, 543, 788 letto, 219, 232, 247 leva'mi (levaimi), 200, 201; levando, 249; levò, 221 Lez::io11i d'academici fiorentini sopra Dante, libro primo, 882 li (articolo), 182, 183; (pronome), 198; -li, 198 Il, 249, 250 LIBERALITÀ, 1055-6 LIBERO ARBITRIO, 1067-9, II54·5

Libro de le Tre Castità, 940 e n. LIBRO DI LAZZARO, 911-2

Libumio Niccolò, 258 Liciscn (personaggio del Decameron), 669

e n. Licurgo, 716, 970 lieve, lievi, 178 ligio, 84 Li Gotti E., r 36 Linceo, 834 e n., xorr, roa4 linci, 252 LINGUA, 51-3, 63, 95, 99-107, 944, 960, 966

Lion (da) Lionello, 800 Lionardo Aretino, vedi Bruni Leonardo

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Lippi Lorenzo - li .Afalnumti/e racq11istato, 909, 946, ro79 Lisa (personaggio degli Asola,ii), 289, 299, 300, 309, 310, 319, 320, 325 e n., 334 e n. Lisandro, 696 Lisetta (personaggio del Decameron), 669

e n. Lisia, 687 e n., 704 Lisippo, 549 Livia (maestra del monastero di San Pietro in Padova), 805-6 e nn. Livio Tito, 453, 693, 734, 746 e n., 753, 8rr - Ab Urbe condita, 48, 308, 452-3 e n., 578, 605, 695, 738, I I90 lo (articolo), 182, 183, 184; (/o 'nganno, lo 'nvito), 183; (pronome), 198; -lo, 198; -lo-, 189 loda, lode; lode, lodi, 175 Lodovico, messer, rr70 Lodovico (personaggio del Decameron), 195 Lodovico di Anhalt, uo2, r205 Lodovico, santo, vedi Luigi IX, re di Francia Loi Pozzi M. R., r205 Lombardelli Orazio - I fonti toscani, 87 3 L01'1BARDI (dialetti), 89 Lomellino Antonio, 462 Longhi S., 45 Longo Giulia (figlia di Antonia Bembo), 419 e n. LONGOBARDI, 70 lontani, 543 Loos E., 504 L6pez de Haro Diego, 93 Loredan Leonardo, doge, 402 e n., 407 Lorenzo il Magnifico, 28, 5r, 55, 57 e n., 6r, 64, 66 e n., 67, roo, rrr, r59, 585, 748 e n., 879 - Comento sopra alcuni de' suoi sonetti, 6r - Rime, S1, 1157 loro, 186, 187, 189, 194, 196, 198, 203, 206 Lucano Marco Anneo, 107, ro8, 160 e n. - De bello civili, r6o luce, 665 LUCE, 917 Luceio Lucio, 746 e n. Lucia (governante di Elena Bembo), 464 e n., 465 Luciano di Samosata, :r34, 697 e n., 699, 721, rr8r - Encomio della mosca, 687 - Lucio ovvero l'asino, 697 - Vera istoria, 697 Lucilio Gaio, zo69 lucore, 102 Lucrezia, 308 e n., 543 e n., 940 e n. Lucrezio Caro Tito, 424, 630, 713, 746 e n., 747,753, 7S4, 755,765

- De rer. nat., 32r, 736, 746, 754, 755, 765 e n., 980, ro77, ro85 1-2: 713-4 IV, 1-9: 755 IV, 1123-4: 713 li,

Lucullo Lucio Licinio, 760 LucuJlo Lucio Licinio (nipote del precedente), r r r 2 Ludovico il Moro, 7 :r lui, 184, 189, 193, 194, 195, 196, 198, 203, 205,206,241,248,255 Luigi IX (San Lodovico), re di Francia, 1029 e n. Luigi XII, re di Francia, 402, 403, 405, 406 e n., 407, 436, 585 l11me, 665; lume, lumi, 177 Irma, 256 LUOGO (in cui si abita), 998 luogora, 177 Lupo degli Uberti, zoa, 112, rr3, 175 - Rime, roa canzone Gentil madonna, 21: 175 LUTERANI, 983,987 Lutero Martino, 983, 987 Luzio A., 46, 585, 638

m,

134, 223, 235, 375 M (sigla di persona non identificata), 391 Macareo, 7 z6 Macario da Isonne, 9r8 macerato, macero, 180 Macchioni Jodi R., 876 ma' che, 282 Machiavelli Niccolò, 856, 857, 859, 877 - Clizia, 857, 859 - Discorso o dialogo intorno alla nostra ling11a, 76, 99, z7r, 856, 859 - Il Principe, 857 - /storie fiormtine, 70 - L'Asi110, 857 - Mandragola, 859, 9r8, 97a Macigni Matteo, 484, 507, 82r, rr87 Macrobio Ambrosio Teodosio - Sat11rnal., 844, 958 Maddalena, vedi Maria Maddalena Mnddalena A., 6S8, 963 Madonna G., 391-3 e nn. Madonna N. N ., 848 madre, 176 MADRIGALE (madria/e), I 36 Maestri D., 876, 879, raoz, rzo4 Maggi Vincenzo, 565 maggfore, 262 Magone Cartaginese - Trattato di agricoltura, 967 e n. mai, 258; (esclamativo), 281 ; ma' che, ,,,ai che, 282 Maierù A., 9or Malaspina (Malespini) Alberto, vedi Alberto Malaspina Malatesta Paolo, vedi Paolo Malatesta

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI malt, 177 nraltnanza, 81 malgrado di lui, malgrado vo,tro, 268 mali, 177 MALI, 1132; (dell'animo e del corpo).1123-7 MALIGNITA, 939; (dei letterati), 940 MALIZIA, 1127 Mallarmi S., 50 Malmusi C., 836 mal suo grado, 268 Manacorda G., 455 mancare, 214 Mancini G., 879 Manetti Antonio di Tucci0, 1028, 1029 e n. - Novella del Grasso legnai11olo, ro:19 - Vita di Filippo di su Brunelluco, ro29 Manctti Giannozzo - Dialogus consolatoriru, roo7 Manfredi Muzio, 836 mano: la mano, le mani, 175 Mantegna Andrea, 699 Mantova Bcnavides Marco, rr8o - Discorsi sopra i Dialoghi di M. S. Spuont, 689, zz8o Mantovani L., 409 Manuzio Aldo, 5, 8, 9, ro, 44, 56, 67, 454, 466, 723 e n., 725, 748 e n., 757 e n. Manuzio Aldo il giovane, 788 Manuzio Antonio. 723 e n., 788 Manuzio Paolo, 543, 723 e n., 725, 785, 7S8 - Epistolarum libri V, 726, 785 Manuzio Paolo (interlocutore del Dialogo della istoria), 725 e passim Manzoni A., 256, 914 Maometto, 949 e n. Marangoni G., 585 marca, 83 Marcello Elena, 3, 390 e n., 399-401 Marcello Nicolò, doge, 552 Marchi G. P., ro91 MARCHIGIANA (lingua), 91 marcigione, 960 Margherita di Monferrato, duchessa di Mantova, 460 e n. margi,rc, 172 Maria Maddalena, santa, 903, 904 Maria Tudor, regina di Francia, 406 e n., 407 Marietta Mirtilla, 542-3 Marigo A., 77 Mario Gaio, 355 marito, 571 Marsia, 603 e n. Martano (personaggio dell'Orlando furioso), 803 e n. Marte, 301 e n .• 526, zzz:, Martelli Lodovico, :z54, 951 - Risposta alla Epistola del Trissino, 99, 605, 951 e n.

1247

Martelli M., 875 Martelli U1olino, 455 Martellotti G., 35:, Martellozzo Forin E., 505 Marti M., xv, xvn, xix, ao, :15, 4:1, 45, 46, 47, 50, 63, 82, r3z, r34, r79, r85, r99, 236, 255, 258, a78, :z93, 329, 360, 363, 368, 380, 393, 40a, 403, 406, 407, 448, 504, 584, rr6:z, rr65, :cr66, :rz67, :rz73, zr76, :rz17 Martin Jean, zr73 Martinioni G., xvm, 8z:r martiro, 665 Marullo Michele, detto il Tarcaniota, 94S e n. Marziale Marco Valerio, 645, 697 Marziano Capella Minneo Felice, z33 MASCHIO, I 117-8, 1121 Masca, 860 Masistio (o Mnasistio), 762 e n. Massimiliano I, imperatore, 402, 403 e n., 405, 4o6, 408, 938 MATEMATICA, 1142 MATERIA, 119-20, 159-60; (grande, mezzana, bassa e volgare), 120 MATERIA COMUNE E PARTICOLARE, I 144•5 matre, 176; màtrnna (per matre mia), 163 Matteo dc' Servi, 916 e n. Mattioli Pietro Andrea, 5:1:1, 645, 685, 686, .rooo, rrr7 Mattioli R., r:zos Matusalemme (Matrualtm), 895 e n. Maupas, monsieur de, 7:z3, :rz8z Mausolo, 72:, Mazzacurati G., 47, 508, 509, 879 Mazzali E., 508, 760 Mazzeo di Ricco, 112, z:z3 Mazzoni Iacopo, 507 - Co,rclusioni, 501 Mazzuchelli G. M., 4r, 88r Mazzuoli Giovanni, vedi Stradino me, 190-1, 193; -n,e, 191, 192; -mt-, 189 me' (per ,neglio), 266 Mecenate Gaio, 414 Medea, 291 e n., 29:1, 307, 308 medesimità, 960 MEDICI, 932, 1089, IOC)I, 1097 Medici (dc') Cosimo il vecchio, vedi Cosimo de' Medici il vecchio Medici (de') Giovanni, vedi Leone X Medici (de') Giuliano di Lorenzo, duca di Nemoun, :,o, :z8, 55, 57, 67, zoo, :zoz, 386 e n., 399-401, 40:1, 409 e n., 454 Medici (de') Giuliano di Lorenzo (interlocutore delle Prose della volgar lingua), 55, 57, s8, 59, 61, 62, 65, 66, 70, 71, 73,88,89,91,92,93,94,95,98,99, 100, 103, 104, 105, 107, 108, 115, 117, IZZ 1 123, 127, 130, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 170, 173, 174, 175, 182, 187, 190, 191, 195, 198, 199, 200, 201,

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI 205, 206, 225, 226, 227, 232, 233, 237,

niica, 267

238, 249, 250, 284

Miccoli G., ()42 Michelangelo Buonarroti, 167-8 e nn., 699 Michele (arcangelo), 699 e n. Michicl Marcantonio, 34, 49, 409 Mico da Siena, 245, 272 Mida, re della Frigia, .152, 606 e n., 737

Medici (dc') Giuliano di Lorenzo (interlocutore del Cortegiano di B. Costiglione),

ZOl,

1116

Medici (dc') Giuliano di Piero, 5r1 55, 749 e n., .1.19.1 Medici (de') Giulio, vedi Clemente VII Medici (dc') Ippolito, z .163 Medici (de') Lorenzo, detto il Magnifico, vedi Lorenzo il Magnifico Medici (de') Lorenzo, duca di Urbino, 402, 4°9

Medici (de') Piero, detto il Gottoso, vedi Piero de' Medici, detto il Gottoso Medici (de') Piero di Lorenzo, vedi Piero di Lorenzo de' Medici mee, 244 r,ug/io, 266, 268 Mehus J.,., 65 ,nei (per meglio), 266 Meietti Paolo, 503 n1e la, 199 Melani V., 875 Melchisedec, 99:, Melisso, 741 MeUini Domenico, zz98, u99 1 zaoo n1embra, 177 MEMORIA, 885, 902, IOIJ, 1060, 1152 Memoria (dalla) Francesco, 443, 444 Menandro, 698 Mendoza (de) Diego Hurtado, .1.178 mine, 275 Menega, 369

Menelao, 774 meneriJ, 227

Menesseno, 6 56 Mengaldo P. V., 9.1 mnio, 261

Menone, 63 mentre. 265, 270 meo, 102 MERCANTI, 1096

Mercurio, 63, 301 e n., 526, 989 1 107:, Mercurio (o Ermete) Trimeeisto (Trismegisto), 923 e n., 9:14, 982, .1.152 - Asclepius, 9114 - Pinrander, 9:13, 9:14, z.157 Mercurius Maior, 9:,3 merrò, 227 messer,, 184; muto- lo, 184 Messeri A., 986 messo, 2201 247; messoti, 248 Mestica G., 45 metà: la tnetà diletto, 186 Metastene, 860 METATESI, 126

Metello Q. Pio, 766 e n. Mezenzio, 355

mi, 189, 191, 192-3, zoo, 202, 232; -mi, 189, 190, 191

miei, 152 ,,.;,,,. 132 mign, 267 ,iu"glior, 179

Miglioranzi C., 4.1 r Migliore (del) Filippo, 853, 871 - Giornale, 871 Migliorini B., 59, 79, Ba, 134, 136, .189 Migne J.-P., 7.19, 9.1.1, 962 MILANESE (lingua), 91, 92 Milanesi G., 447, 874, 9.13, 966 MILITA.RE (arte). 1054, 1098 Minerva, 33, 495, 526, 536 e n., 561, 603 e n., 757, 1110 Minio Marco, 587 Mino Mocato, I z3 ,ninore, 262 Minosse, 525, 716 Minotauro, 525 e n., 708, 722 Minucci Paolo, 909, 946, .1079 mio, 163 mirabil tempre, 179 MIRABOLANO, 1003 MIRACOLI (degli ecclesiastici). 973-4 niiraglio, 82

Miranda Villafaiie Francisco,

.1202

- Dialogot de la pha,1tastica philosophia, zaoa miratola, 248 Mirone, 168 e n. Mirra, 307 e n. mù-, 280 misagio, 280 miscredenza, 280 n1is/are, 280 mùi, 220 -misi, 191 niùleale, 280 mispatto, 280 MISURA, 1041 mi ti, -miti, 101 Mitridate VI, re del Ponto, 581 e n. mi ve ne, 192 ,ni vi, -mivi, 191

Mnasistio, vedi Masistio Mocato Mino, vedi Mino Mocato Mocenigo Alvise, 48.1, 48:1, 490, 506, 508, 7.16 1 8.10 1 811 e n., 81:1, 813 e n., 820, 822 e n., z 18 4, z z87, z .189

Mocenigo Alvise (L11igi) di Tommaso, doge, 81.1 Mocenigo Giovanni (Zuane), doge, 8 z z Mocenigo Piero, doge, 8 r 1 Mocenigo Tommaso (Tomà), doge, 8:i I

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI MOGLI, vedi DONNB moglie, 571 ml,glinna, ml>glieta (per moglie mia, moglie tr,a), 163; (di m/Jglieta, non della m/Jglkta), 163 MOLA,

I I

so,

43r, 456-8, 459,

Morosini (Moresini) Marcantonio, 566, 638, 191, rr82

Morosini (Moruini) Piero, rz79, 1r82

17-8

molesto (invece di molestia), 181 Molière, J .-B. Poquelin detto, 814 Molino Girolamo, 555 e n., 563, 791, 794 - Rime, 555 Molone, vedi Apollonio Molone Moltcni E., XIX molto, 261 1 268,283; (l'aggettivo per l'avverbio), 181 Molza Francesco Maria, z4, 33, 422, 423, 5:u, 794 - Gli ingannati, 5ra Molza Francesco Maria (interlocutore del Dialogo d'amore), 511, 525-31, 532, 534, 535, 546, 541, 556, 560 e n., 573, 792 momento, 267 Monaci E., XIX Monaco (non identificato), 371 e n. Moncallero G. L., 385, 390, 408 MONOSILLABO (accentato), 145 Montaigne, M. Eyquem, signore di, 4r, 874 - Essais, 4r Monte, conte di, vedi Leonardi Gian Giacomo Monte Andrea, uB Monte (da) Baldovin, 832 Monte (da) Giambatista, 83z, 836 Montefeltro (da) Antonio, 399 Monteforte A., 56 Montcsdoch Giovanni, detto lo Spagnuolo, 47z, 505, 587 Montù A. 1 874, S78, :uoz, r:104 Mopso (personaggio dell'Ami,ata di T. Tasso), 486 Morandi G., 39, 4r n,ordei, 220 Mordrec, 768 morduto, 220 Morelli Giovanni di Pagolo - Ricordi, rns Morelli I., 4r, 67, 442, zr76 Moreni D. 1 88r Moresini Marcantonio, vedi Morosini Marcantonio Moresini Piero, vedi Morosini Piero Moretti W., 505 Moretto (o Morato) Pellegrino Fulvio, 436

e n. - Rimario di tutte le caden::ie di Dante • Petrarca, 436 MORI, 69

morii110, 216 Morlini Girolamo - Nowl/ae, 988 moro (da ,norire), 213 Morosina, Faustina della Torre detta la, 79

23-4, 36, 3'1, 41, 462 e n.

1249

morsi, morso, 220 Morsolin B., 501 296, 368, 380 MORTE, 903-4 1 905-6 1 908-10, 1013 sgg. 1 1o61 sgg. morto, 248 1 280 Mosco Demetrio, 44 Mosè (Moisi), 777, 780, 783, 913; e vedi

Bibbia mossen. 224; mossi, 219; mosso, 220 Mosso (interlocutore dell'Egloga del Gelli), 860 1 86r mostrao, 222; mostrommi, 200 MOTO, 1087, 1144; (locale), 1045, 1087; (d'alterazione), 1045 i (della quantità), 1045 MOTORE PRIMO, 931

Motti e Jace::ie del piovano Arlotto, 9121 zo5r motto, 256, 267 Mounin G., 969 Mula (da) Marcantonio (Cardinale Amulio), 7z5 MUllcr G., 449 tnuoi (indicativo), 213; (congiuntivo), 238; m11oia1 muoiano, muoii, muoio, muoiono, 213; muor, ,nuori, 228 Muret Marc-Antoine, 724 e n. Muse, 561 1 691 e n., '154, 155, 790, 1099, zroo Musso G. G., 55 Musuro Marco, 5851 zz8o MUTAZIONI, 1045 Mutini C., 5S5, 637, 847 Muzio Girolamo, 99, :158, 508

- Per difesa d~lla volgar li,wua, 598 - Varchino, rSg, :133 Muzzi S., 9:18 "· 134. 179, 213. 215. 227, 236, 274. 278 N (sigla di persona non identificata), 391 Nanni Grosso, 913 e n. NAPOLI (dialetto di), 89, 92, 214 Narciso, 345 e n., 550 Nardi B., XVII, 505, 509, 5851 588, 59:1 1 6z8, 6z9, 96r, 981 Nardi T., 96r na"a::ione, 651 Narsete, 70 e n. Naselli M., 44 Nasictone di Salamina, 441 e n. NATURA, 885 1 907, 1007, 1075, 1076-81, 1085, JC>94, 1095, 1103. uoo. 1117, u18, u21, 1123, u39, 1140, u58 Navagero Andrea, :14, 33, 35, 4z, 287, 417 e n., 414, 438 e n., 454 e n •• rz6r

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Navagero Bernardo, 638 e n., 191, 812 e

n., 814 Navicella (pseudonimo), n, 391 ru (particella pronominale), 1921 193 1 2001 203 1 204; (preposizione), 1841 185, 253; (epitetico), 275; ni, 272, 275 i ne'. 185, 253; ntd, 272 nte,ite, 267 negoci11m, 977 nego:::iare, 077 Negroni C., XVI, 874, 878, 879 ne i, nel, 1ttll', 253 nel quale, 263 Nembrot (Nanrot), 744 e n. ni mica, 267 NEMICI, 1024-7

Notte (divinità), 30:r Novati F., 55 No!Jella del Gra110 legnaiuolo, 894, 9:c6 1 :ro29 Nowllino, xv, 27 1 48, 19, Bo, 83, :c73 1 r17 1 r78, :c94, 2:c4, 246, 267, 269, a70, a8o, 330, 459 XXVIII: 271 XXXVII: 261

LXIII: 278

LXVII: 278

nudo, 87 nulla, 267 nulladimeno, 262 nullo, 207 Numano Remulo, 701

Nencioni G., u4, :,34, 236

NUM~RO, 130 1 143-52

NEOLOGISMI, 960-1, 977

nuoto, 241 nutre, 246

Neottolemo, 307 Ntri, 172 Neri F., 9r, 878 Nerone, imperatore, 355, :r:r90 Nesso, 539 e n. ness11no1 207 Nettuno, 533, 686 NEUTRO, 171; (uscita del plurale), 176-8 flftle, 664

Niccolò da Castel Durante, r r97 Niccolosa (personaggio del Decameron), 669 e n. Nicola (donzella di Lucrezia Borgia), u7 r Nicolò, messer, 399 nido d'amore, 664 niente, 267 nientdimeno, 262 Nino senese, 1121 rr3 Niso (personaggio dell'Entide), 554 e n. niuno, 207 Nizolio Mario - De 'Utnl principiu et 'UWa ratione philosopl,andi contra pseudophilo1opho1, 6:c8, 6a5

NUTRIMENTO, 999 nutrire, nutrisco, 246 NUTRIZIONE, 897-1003

Nuvoloni Carlo, 462 Nyerges L., 41, 430 O, 132, 178, 179, 21s, 221, 222, 241; (aperto e chiuso), 132; (latino), 132; (congiunzione), 271 1 272, 275 1 278; (interiettivo e vocativo), 271; -o (uscita del maschile singolare), 172 1 I 78 i (uscita verbale), 210; -~ (uscita verbale), 221 obbietto, 430-1

N. N., 849

Obizzi (degli) Beatrice, 565, 566, :r:r78, :t:c82 Obizzi (degli) Beatrice (personaggio del dialogo Della dignità delle donne), IX, x, 499, s66 e passim Obizzi (degli) Gasparo, 566, 567, 569 Obizzi (degli) Pio Enea, 566 obliare, 79 Ochino Bernardino, 461 e n. od, 272 oda, 237, 241; odano, ode, odi, 241

no, 274, 281 nociuto, nocqui, 220

odutù, 221; odo, odono, 241

nodo, 665

Noè, 702 e n., 778 1 860 Nogara B., 65 noi, 192, 193 1 200

noia, 174, 175 NOME, 171-8 1 18o-2 non, 230 1 261 1 273, 274-5 non die, 263 nondimeno, 262 1 264 non legittimo, 82 non mica, 267 non per tanto, 262 Norandino (penonaagio dell'Orlando furioso), 803 NOTAI (loro latino), 944 notando, 241

ODIO, 1019-22, 1024, 1076 ODORATO, 1o86, 1087 1 1090 ODORI, 1007 oflerere, offersi, :118 o/lesi, 219 i offeso, 220 oggi, 258 oggimai, 259 ogni cosa (per tutto), 181-a ogni punto, 283 ogni tratto, 283 oi, oimi, oisi, 271 altra, 283 oltracotanza, 83 oltre, 257, 283

Olzignano Angelica, vedi Speroni Anaelica Olzignano Antonio, 413, 829 omai, 250

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI ombra, 132 Omero, 54, 67, 93, 104, :nB, 169 e n., 488, 495,496,573, S94 e n., S9S, S97 e n., 733, 74z, 753, 760 e n., 764, 772 e n,, 774, 782, 783, 845 - Il., 7S3, 760, 764, 114 e n., 835, 846 1 zo77 Ili, 154-60: 774 - Od., 346, 365, 533, 535, 753, 751, 760, 764, zo68, ro7z 1 :rz30 on, 86 oncia, 145 onde, 124, 252i (col significato provenzale), 86 ond11nq11e, 259 Onesto Bolognese, 81, Ba, 112, 227 - Rime, 227, zz8 onore, 172 ONORE, 1115

onta, 81 operando[, 241 OPERAZIONI, I 140 OPERE (buone), 1031 OPERE DI MISERICORDIA, 989

opra, 132 oprire, 84 or, 271; (esortativo), 283 -ora (uscita del neutro plurale), 177-8 ora, 257, 271; oramai, 259 Orazio Fiacco, Quinto, 8, zzo, aga, 746, 747, 780 e n., 887, zo:rz, zzBz - Ars poet., r56, r57, zoa3 - Cann., 7r5, 780 - Epist., 549, 739, zo53 - Sat., 65 Orbicciani Bonagiunta, vedi Bonagiunta Orbicciani Orco, 860 ORDINE DELLE PAROLE, 12S, 127 ORDINE DELL'UNIVERSO, 1078 Oreste, 306 e n., 324 e n., 554 Orfeo, 310 e n., 561 e n., 193, 9114 orgoglio, So Origene, 683 e n., 935, 984 e n., 985 e n. - De principiis, 68 3 Oriolo Filippo - Il monte Parnaso, 3, 43 Orlandi G., 45 Orlandi Guido, vedi Guido Orlandi Orlando (personaggio dclttOrlandofun·oso), 804 Orlando (personaggio del Morgante di L. Pulci), 946 oro fino, 664 ORO POTABILE, 1004 Orselli Bonaventura, 48 Orsini Fulvio, 39, 7 5, u78 Orsini Rinaldo, 987 e n. Orsino Girolamo, 46a Orsino Leone, 58:1 orto, 132

ortora, 177 Osiri, 860 Ostrica (personaggio della Circe), 1073, 1074-82 1 1086, 1087, zr38 Otavanri Juan Lorenzo, rao4 Otranto, vedi Zimara Marcantonio otta per vicenda, 283 OTTAVA RIMA, 136 i (siciliana e toscana), 136 Ottavio Famese, duca di Parma e Piacenza, 843 e n. Ottobono, 791 e n. ove, 251 OfJero, 2.71, 272, 275 Ovidio Nasone, Publio, 417, 494, 663, 697, 712, 746, 747 e n., 772, :rz90 - Amor., 746, 147, zo35 - Ars am,, 52.5, 7r2 - Fast., 308, 756 e n. - Her., z9r - Meta,r1., a9z, 29:1, 307, 308, 3r9, 3ar, 345, 365, 5r4, 5z4, 53:r, 533, 539, 548, 550, 56r, 574, 603, 606 e n., 633, 708, 734, 7?6 VII, 20•1: 712. - Trist., 534, 747 Owen D.D.R., 9zz

p.

133, 134, 239

Paciotto Felice, 48:z, 483, 486, 489, 507, 508, 6rz, 841 e n., 84z, 843 e n., 846 e n., rr84 - Difesa della Canau, 84:r Paciotto Francesco, 84:r Pacuvio Marco, 324 Padoan G., 35:r Padovano (interlocutore del dialogo Della dignità delle do,111e), 568 e n., passim padre, 176 Padre N. N., 821 paio (da parere), 2.13 Paleotti Camillo, 22, 408 Paliari Gerolamo di Udine, 5oz Pallade (Palla) Atena, vedi Minerva Palladio Rutilio Tauro Emiliano, 8z z Palmieri Matteo, 853, 928 e n., 9119, 935, 941 e n., 985-7 e nn. - Città di vita, 929, 985, 986 - Della vita civile, 898, 9z9, zzo7, zzz6 Pampaloni L., 876 Pan, 606 e n. Pancrazi P., 44 Pandolfini Ruberto di Filippo, 859 Pandora, 355 e n., 1099 e n., :r:roo Panfilio Pietro, 4611 Panfilo di Cesarea - Apologia per Origen,, 683 Panico Ieronimo, zz8a Panigada C., 450 Pantagruel (persona11io del Pantagruel di F. Rabelais), 98:r

INDICB DBI NOMI B DBLLB COSB NOTEVOLI Panurge (personaggio del Pantagruel di F. Rabelais), 9Sr Paolo, santo, 513, '/13, 904 e n., 912, Q4Z1 970, 973, 97S, 99a; e \'cdi Bibbia Paolo Ili, papa, 36, 38, 461 e n., 585 1 638 1 83:,

P11olo IV, papa, 638 Paolo, messer, 399 Paolo Emilio, 695 e n. Paolo Malatesta, 308 e n. Papafava Alessandro 1 196, 8a8 Papafava Arsenia, 796 Papafava Cassandra, 796. 798 e n. Papafava Diamante, vedi Speroni Diamante Papafava Livia, 796 Papafava Lucia, vedi Speroni Lucia Papafava Ludovica, 471, 483, 796, 800 e n., 801 e n., 805 e n .• 806 e n., 807 Papafava Marsilio, 471, 418 1 638, 68z 1 19Z, 795-8 e nn., 800, 8oz 1 Boa, 828 e n., 829 Papafava Pantasilea, 828 e n. Papafava Roberto. 478, 796, 798 e n.

Papafava Roberto (nipote del precedente), 796, 828 e n. Papafava Ubertino, 478, 798 e n., 802, 829 Paparelli G., 55 PAPATO, 912-3, 972·3, 1029 par (da parere), 213, 214 PARADISO, 988, 1031 Pardi Ettore, 843 e n. pare (da parere), 214

pare, pari, 178 Paride (Pari), 308, 458, 495, 536 e n., 700 e n. Parini G., 87 4 parlando, 241 PARLARE, 52, 54, 1107-8, 1109. 1120,

nsz

parlato, 226 paro (da parere). 213 Parodi E. G., 79, asa PAROLE (proprie, traslate, nuove) 1 121 parsi, 218 parte, 265 paru, 241 ; partendo, 240 PARTICIPIO, 246-8, 595; (presente). 247; (passato), J8o, 218-20, 224-5, 242 partiro, 224 paroi, 218 Paschini P ., 436 Pasifae, 5a5 Pasquali G., z86 Pasqualigo Pietro, 406 e n. passao, 222; passaro, 224; passato, 248 Passavanti Iacopo, 83 - Speccl,io della tJera penitenza, 893 Passeri (de') Marcantonio, vedi Genova Passerini L., 456, 817 Passione di Rtt1ello, 903, 9z z Pastor (von) L., 41, 433, 65a

Pastorello E., 1z3 pate, patisce, patisco, poto, 246 patre, 176; pàtremo (per patre mio), 163 pa11ra, 280 Pavanello G., 43 paventare, 280 Pazzi (de') Alessandro, 33 Pazzi (de') Alfonso, 874PAZZIA, 958-9, 1052, 1124

pe'. 185 peccare, 214, 280 peccata, peccati, 177 PECCATORI, 1015-7, 1064-5

Pecoraro M., 42, 43, 41 Pegaso, 539 e n. Peire Rogien (Pietro Ruggiero), 77 e n. - Can:oni, 77 pel, 185 Pelaez M., XIX Peleo, 324 Pellegrini F., 4a3, 426 pena (sostantivo), 665 pende, 280 Penelope, 535, 1122, zz30 Penelope (pseudonimo), 2 z peneri,, 227 Penìa (personaggio del Pluto di Aristofane), 599

pensato, 225, 257 pensier, 178; pensiere, 172 penti, pentti, 223 Pcnteo, re di Tebe, 734 e n. pintere, 223 pe11tirsi, 232 pentllta, 219 Pepe, capitano, 942 per, 183, 185 pera (da perire), 246 per adietro, 257 per altra parte, 253 per altrettanto, 261 per attorno, 253 per ac,entura, 281 Ptr cagion de' quali, 86 per canem, 703 percl,é, 262, 263, 264 pwcl,i cii, sia, 263 per cid elle, 262 Percivalle Doria, :rz3 Pèrcopo E .• 814 perdé, 221; perdei, 218, 221 i perdeo, 222 per di ltl, 253 per Dio, 281 ; per Dio si, per Dio no, 281 Per donne romane rime dic,erst, 836 P,rd11to, 218 pere (da perire), 246 peregrin (invece di peregriru'), 179 Peretto, vedi Pomponazzi Pietro PERFEZIONB, 930, 931, 979, 1069, 1076, 1139

Pericle, z z z,

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Perilao (o Perillo), 533 e n., 514 per i,rdi, 253 per innan%i, 257 PERIPATETICI, 980 per i1contro, 266 per la qual cosa, 252, 263 perle, 664 per le quali cose, 263 per li, per lo, 183, 185 per lo adietro, 257; per lo innanzi, 257 per lo mezzo, per mei, per niezzo, 266 pero (da perire), 246 perd che, 262 Perolo (o Penili) Bernardino, 416 e n. Perolo (o Penili) Marietta, 4:c6 Peronella (personaggio del Decameron), 594 Perottino (personaggio degli Asolani), ra, 289-90 e n., 298, 299 e n., 301 e n., 302, 303 e n., 304-5, 306 e n., 307, 3o8, 309 e n., 3:co, 313, 314 e n., 315 e n., 3:c6, 317 e n., 319, 322, 323 e n., 325, 329, 330, 346, 347, 352, 366, 560 per poco, 262 per q11a entro, 253 per quindi, 253 perTIJ, 227 Perseo, 292 e n. Perseo, re di Macedonia, 695 persona, 256 PERSUASIONE, I 56-8 per tempo, 261 Pertile F., 548 PERUGIA (dialetto di), 164 Penigino Tommaso, 39 puanza, 81 PESCATORI, 1075, 1079, 1o82, 1083, 1088 Pesenti G., 47, 60 Petrarca Francesco, 1, 8, 9, :c3, :c9, ao, 3:c, 32, 4:c, 43, 45, 54, 64, 15, 17, 78 e n., 79, 83, 84, 85 e n., 86, 87, 90, 95 e n., zoo, :cor, 103 e n .• 105, 107, 108, 114, 115, 118, 123 e n., 127, 131, 134 e n., :c36, 137, 139, 140 e n., 142, 143, 150, 154-6, :c57, 158, 159 e n., 161 e n., 164, :c69, 172, 174, :c75, :c76, 177 e n., :c78, 179, 184 e n., 186, 188, 189, 190, 192, 193, 195, 197, 198, 202, 206, 207, 209, 211 e n., 212, 213, :u5, 216 e n., 217, 219, 224, 225 e n., 226, 229, 230, 231, 234, 235, 236 e n., 237, 238, 242, 243, 244, 245 e n., 246, 249, 252, 253, 254, 256, 257, 259, 26o, 262, 263, 264, 265, 266, 269 e n., 1170, 271, 272, 273, 278, 279, a85, 3:c:c, 3:ca, 3:c6, 328, 35:c, 355, 375, 387-8, 421,422,430,431,436,444 e n., 448, 462, 475, 504, 519, 540, 541, 545, 555, 566, 576, 588 e n., 594, 600 e n., 6oz, 602,606,612, 615 e n., 634, 661, 662 e n., 663-6 e nn., 674, 675, 681, 714, 718, 719, 729, ?33, 74S, 747, 748 e n., 750, 7S3, 756-60 e nn., ?70, 8:c:r, 8:c9,

1253

856, 857, 858, 865, 908, 951 1 952 e D, 1 965, 967, :co40 - De 1ui ipriw et. mult.orum i,norant.ia, 6:c1 - De llila 1olitaria 1 35:c - Fam., 7:c, 7a, :c69 1 11221 35r - Rime, 8, 9, :c3, 26, 30, 33, 64, 1:c, 72, 11, 8:c, 84, 85, :cr1, :ca8, r38, :c42, :c69, :c72, :c77, :c78, :c79, :c83, :c84, :c92, :c93, :c99, 200, ar:c, a:c3, a:c4, a:cs, a:c6, 11:c7, a:c8, 11:c9, 11110, aaz, 222, 11241 :11151 1128, 1134, 1136, 1143, 244, 1145, •sa, 1154, •s1. a6o, 1166, 1167, 268, 278, 1179, 280, 283, 1185, 289, 29:c, 292, 1193, 296, 302, 306, 3:c:c, 328, 330, 345, 346, 35:c, 352, 351, 366, 368, 374, 387, 421, 436, 444, 5:c4, 523, 524, 540, 568, 514, 586, 601, 664, 665, 689, 7ra, 7:c3, 729, 736, 149, 756, 158, 849, 865, :co35, :co40, zo59, :c:co:c, :c:r67

•11,

I: 667 I, I: 127

r,

1-2: 123-4, 147, 150

I, 4: 127 I, 6: 127 I, 9-10: 127 11:

421

11, I: 147 lii: 421 lii, 13: 100 V, 9:

523

vn, 7: 147 VIII, I: 185 Xli, 7: 185

xv, 14: 716 X\"111, 7: 190 XXII, I: 209 XXII, 2: 276

31: 255 143 9: 252 100: 274 126: 260 XXVIII, 31 : 209 XXVIII, 44·5: 179 XXIX: 139 xxx. 28-9: 85 XXXII, 12•3: 164 XX."CVIII, I : 197 XLVII, 7-8: 253 XLVIII: 430 XLVIII, 12: 431 XLVIII, 14: 431 L, 24: 693 L, 39-41: 212 L, 57: 719 L, 66: 87 LII, 7: 107 LV, 13-4: 264 LVII, Il: 128 LIX, 4: 188 XXII,

XXIII: XXIII, XXIII, XXIII,

1254

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

LXIV. 12-3: 255 L"al• 16-7: 262 LXXI. 27-9: 271 LXXI, 59-60: 545 LXXI-L"alll: 155 LXXIII. 78: 523 LXXIII. 79-82: 276 ~m. 3-4: 273 ~~. 1-2: 208 LXXX, 16: 193 LXXX, 31-3: 277 LXXXll1. 14: 274 LXX>.-VI. JJ: 198 xcix. s-6: 263 cv: 142 cv, 16: 217 cv. 19: 145 cv. 51: 209 cx. 9: 188 CXVI, 7-8: 195 CXIX. 43: 179 CXIX, 45: 523 CXIX, 94: 266 CXIX, 96-8 : 209 cxxv: 140-1, 143, 155 cxxv I Il : 242 cxxv, 59-61: 236 cxxv, 79-80: 238 cn.-vI: 140-1, 143, 155 CXXVI, 35: 198 CXXVIII• 120: 207 CXXIX, 24: 541 cxxix. 25: 265 C'XXIX, 63-5: 541 cxxxv: 139 CXXXV, 76: 269 cxxxv. 76-8: 85 cxxxv, 94-5: 274 CXXXVI. 12: 221 CXL• 5: 523 CXLV, 9: 272 CLI. 9: 198 CLXVII, I: 541

cu.-vm. 9: 265 CLXXI, 5-6: 230 CLXXI, 12-3: 272 CLXXVI, I : 266

CLXXIX, 3: 263 CLXXXIII, I: 279 CLXXXIII, 12-4: 392 CLXXXVI, 13-4: 271 CXCVIII, 13: 179 CXCIX, 7-8: 190 CCVI, I: 198 CCVII. 66: 719

ccvm.

6-7: 238

CCIX, 8: 271 CCXIV, 10: 173 CCXVII, 3·4: 236 CCX\'III, I : 259 CCXXVIII, 12: 199

ccxxx. 8: 216 ccxxxi. s-6: 86 CCXXXVII, 22·3: 258 CCXLI, 5•7: I 64 CCXLVII, I: 758 CCXLVU, 4: 758 CCXLVII, 8: 230 CCXLVIII, I : 208 CCLVIII• 7: 216 CCLIX, 12: 86 CCLXIV, 45-6: 249 CCLXIV, 109: 203 CCLXIV, 119: 208 CCLXVIII, 77: 275 CCLXIX, 12-4: 271 CCLXX, 20: 197 CCLXX, 46-7: 279 CCLXX, 105: 540 CCLXXI, 5-6: 226 CCLXXV, 12-3: 193 CCLXXVI, 6 : I 89 CCLXXX, 7-8: 236 CCLXXXVII, 9-10: 254 CCLXXXIX, 13-4: 576 CCXCI, 9: 2J I

ccxcm, 1-2: 759 CCXCIII, 12: 759 CCCIII, 5: 151, 155-6, 694 CCCIV: 151-2 CCCIV, 3: 177 CCCIV, 13-4: 759 CCCXIII, 3: 248 C'CCXVIII, 7: 198 CCCXIX, I •2: 207 CCCXXIV, 12: 202 cccxxv, 79: 463 CCCXXVIII, 2: 248 CCCXXIX, 3: 272

cccxxx, cccxxx,

2: 229 7-8: 221 CCCXXXVI, 12•3: 254 CCCXXXIX, 9: 275 CCCXL, 8: 250 CCCXLI, 9: 202, 540 CCCXLII, 14: 236 CCCXLIII, 6-7: 208 CCCLIX, 22: 231 CCCLX: 759 CCCLX• 9-10: 186 CCCLX, 31 : 206 CCCLX, 33·4: 79 CCCLX, 136-7: 206 CCCLX. 146-7: 2 I 7 CCCLXIII, 5: 252

- Rim, disperi, sonetto Tu gi11gni ajJli:zion,, 12-4: 83 - Trio,ifi. 748 e n., '/49 Trionfo d'Amore, 64, 1r, '14, 76, 8a, 85, ar6, ar9, :111a, a45, a8o, a9r, a91, 3or, 30a, 307. 30~ 34~ 4ar, 56~ 513,733 Il, 111: 822

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI III, 130: 84 IV, 32: 175 Trionfo della Fama, I28, 2t12, 244, 277, 423, 664, 7I4, 908, 95:l Trionfo della Morte, I92, 236, 260 1 3551 360, 5I4, 159 II, 34: 718 Trionfo della Pudicizia, I28, I72, I99, 22I, 222

Trionfo dell'Eternitd, 255 Trionio del Tempo, a I I, 269 Trionfi, Appendice, 224 PETRARCA (autografi), 123, 436; (varianti autografe), 123-4 Petrocchi G., 242 Pettenati G., I25, I3l, :r35 piaccio, piacciono, 240 piacenza, 81 piacere (sostantivo), 665 PIACERE E DOLORE (apologo), 1099-101 PIACERI, 1038-9, 1057-8, 1059-61, 1099-102 PIACEVOLEZZA, 130-5, 139-43, 152, 153,155156, I 57 piacqr,en, 224 pian piano, 283 piansi, 219; pianti, 225 ; pianto, 219, 225 PIANTO, 1085-6 Piccitto G., 72 Piccolomini Alessandro, 415, 411, f99, 506, 584, Ir78, Il79 - Institu::ione di tutta la vita dell'uomo nato nobile e in a"ttà libera, u79 - Raffaella. 499 Piccolomini E., 44 Pico della Mirandola Gian Francesco, aa, 25, 3I, rro, 115, 937 e n., 952, 98:1 - De imitatione, 22, 622 - Stn·x, 931 Pico della Mirandola Giovanni, 4, 5, 6, 44, I59, 618, S67, 952 e n., 1152 - Contra /idei cl,riftianae septem hoftu, 95 2 - De hominu dignitate, :ro68, Io69, u53, II55 - De salute Origenis disputatio, 684 - Disputationes in a.strologiam divinat:ricem, 952 pii, piede, piedi, 176 PIEDI, 135 pieghi, 237 pien, 179 Pierantozzi D., f5 Piero Alighieri, r IJ Pier della Vigna (Piero dalle Vigne), 81 e n., 8t1, 112, 211 e n., 219, 222 - Rime, 211 e n., :122 canzone Asfai cretti celare, 1-2: 219 Piero de' Medici, detto il Gottoso, 149 Piero di Lorenzo de" Medici, 57 e n., 402 pWa, pietd, 148

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pietanza, 81 Pietro, santo, 566, 11•, 935, 973 e n., 974; e vedi Bibbia Pietro Aretino, vedi Aretino Pietro Pietro da Noale, 565 Pietro Lombardo (il Mautro delle sentenze), 935, 984 - Sententiae, 984 Pietro Ruggiero, vedi Peire Roriera Pigafetta Filippo, 488, 508 piggior, 179 piglill, 221 Pigna, Giovanni Battista Nicolucci detto il - Il duello, 507 - I romanzi, -,.8, 507 Pilade, 324 e n., 55-,. Pind:iro, 351, 427 e n., 780 e n. Pinelli Gian Vincenzo, 39, 75, u3, -,.84, 606, 764 pinto, 279 Pintor F., 43 Pinuccio (personargio del Decameron), 669 e n. Pio IV, papa, 478, 479, 480, 48z, 482 1 506, 808 Pio V, papa, 8zo Pio Xl, papa, vedi Ratti A. Pio Beatrice, vedi Obi.zzi (degli) Beatrice Pio da Carpi Alberto, 7, IO Pio da Carpi Ridolfo, 43:1, 433, 434 Pio Emilia, z8, I9, 46, 90, 388, 309 e n., 401 e n., 409 e n. Pio Ercole, 90 Pio Giovanni Battista, 980 piove, piovue, 223 Pir.uno, 307 e n., 535 Pirgotele, 549 Piritoo, 5S4 e n. Pirotta N., z36 Pirotti U., 41, 455, 878 Pisano Francesco, 432, 433 Pistofilo Bonaventura, u63 Pitagora, 924, 947 e n., 982, :roo9, rr38 Piteo, 710 pii.I, 261,265,268; pii.I che, 265; piiu, 244; più toft0, 257, 268 piacere, 102 Plasma (pseudonimo), u Platone, XIX, 93, 312, 336, 348, 486, SII, 621, 6:12, 624 e n., 630 e n., 648, 656, 676, 684 e n., 687-8 e M., 693, 694, 696, 697, 701, 703, 705, 706, 710, 719, 7t17, 728, 729, 739, 740, 747 e n., 753 e n., 770 e n., 772, 777, 779 e n., 782 e n., 783, 193, 809, 924, 9:19, 935, 941, 942, 94S, 06:r, 980 e n., 982, 983, 984, 990, 1009, zo59, z:ro9, II8:J - Apol., 103, 704, 710 - Crat., 624 e n. - Crit., 679, 70-,. - Epùt., 688 e n., 963

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI -

Gorg., 609, 648, 676, 703 Hip. n,a., 609, 9a9 Hip. mi., 609, 68S. 929 ]on, 707, 710 e n. ùg., 7:16, 7:19 .Alen., 70;, 984 .Alenex., 656 Pl1oed., 360 Pl,aedr., 36.r, 609, 687 e n., 707 Pl,il., :uoo Prot., 609, 688, 703, 9:z9 Resp., 609, 676 e n., 677, 688, 753, 77-,, e n., 783 - Symp., 3:14, 348, 544 e n., 687 - Theoet., 703, 753 - T/1ym., 35.r, zo59, .rzo9 Plauto, 95, zo6, 697 e n. - Amphitr., 697 e n. - Asin., I0II - Aul11l., 859 Plebe A., 643, 648, 716, 944, zo37 Plinio il vecchio, 63, 587, 630, 844, 907, 908, :1017 - Not. l,ist., XVII, JII, 35:1, 4a8, 44:1, 533, 538, 549, 574, 58:1. 592, 685, 722, 738, 844, 87z, 907, 908, 967, ZOO.I, .1077, zo8:z, zo85, zo86, II03, III3, III9 Plutarco, xu, 36:1, 490, 686, 697, 723, 739-41 e M., Bu, 8:16, 87z, 1019, 1069, 1070 e n. - Moralia, XVII Ad principem iner11ditllm, zo70 A11imae an corporis olfectiones sint peioru, Io77, II:Z3, II24, II25, II26 ApopTrth. Rom., 760 Aristophanis et Menandri comparatio, 698 Bruta ratione uti, 869, zo69, zo73, zz29, II8J Cons. ad Apoll., 9:10, :1037, :1062 De capienda ex inimicis utilitate, 58z, zo:z4, :1025, zo26 1 :1030 De c11piditate divitiarum, zoz4 De gloria Atl,e,r., 699 De Herodoti malignitate, 739-40 e n. De invidia et odio, zo:19 1 zo:u, :1022 De /iberis educandis, III6 De placitis pl,i/osophornm, 896, zooz De sol/crtia a11imali11111, I .r :19 Regmn et imperatorum apopl,tliegmata, 8r9 - Vitae, XIX Aem., 695 Alex., 956 Cat. Mai., 760 Cac., 739 Crass., 686, 7:15 Dem., 740 Lyc., 7:16 Pomp., 720 Tlu:m., 729, 774 Tl,es., 554

Plutone, rzoo poco dapoi, pocostante, 256 podista, 173 poggiare, 78 poi, 152, 226, 249, 255; poi clie, 255; poiché, 270; poi da, 255 Pole Reginald, 37, 462 Polemone, :1070 Polibio - Historiae, 578, 738 e n. Policratc - Accusa di Socrate, 686 - Bruiride, 686 Polidamante di Scotussa, 632 e n. Poliziano, Ambrogini Agnolo detto il, 41 5, 6, 22, 44, 64, 66, I00, II0, 749 e n., 941

- Miscellanea, 6 Oratio super Fabio Quintiliano et Statii Syluis, 55 Stanze, 749 e n. Polo (Paolo), 162 Polo di Agrigento, 648, 676 e n. Pompeo Gneo Magno, 720 e n., 766 e n. Pomponazzi Pietro, XVII, 472, 473, 490, 49I, 492, 493, 494, 496, 498, 500, 5oz, 505, 509, 566, 584, 585, 587, 588. 592, 6I8, 6:19, 637, 638, 692, 696, 707, 725, 727, 728-30 e nn., 731, 732, 734, 737, 742 e n., 743, 744, 745, 770 e n., 774, 867, 945, 980, 982, II83 - Apologia, 588, 639 - De fato, de libero arbitrio et de praedestinatione, 6z8 - De immortalitate animae, 639 - De incantatio,ribus, 6z8, 707 Pomponazzi Pietro (interlocutore del Dialogo delle lingue), 585, 617 e passini pon, 214; (imperativo), 228 pondo, 172 pone, 214; po11erl,, 227; pongo, 213, 215, 246; po,rgono, 215; poni, 213; (imperativo), 228; ponièno, 216; po11no, :u 5 Pontano Giovanni Gioviano, 6, 427 e n., 866, 989 e n. - C/iaron, 989 - Urania, 427 Pontormo, Iacopo Carucci detto il, 1027 e n. popoco, 284 popol, 127-8 POPOLARESCO (uso), 99-100 popolo, 128, 132 Poppe E., r72, z86 Porcacchi Tommaso, 990, I :17 2 poria, 234 po""• 227; po"OTJtJi, 200 porta, 228; portai, 217; portàndos,la, 149 i portarono, 223; porterl,, 227 Porto (da) Battistn, 836 Porto (da) Filippa, vedi Porto (da) Lucietta di Giulio

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Porto (da) Francesco di Battista, 836 Porto (da) Giulio, 478, 48:1 1 197, 801 e n., 802, 828, 829

Porto (da) Lucia, vedi Speroni Lucia Porto (da) Lucietta (Filippa) di Giulio, 48:1, 435, 486, 507, 8oz, 827-38 e nn., 843, 848 Porto (da) Luigi, 33, 46, so, 438 - Novella di Giulietta e Romeo, 438 Porto (da) Niccolò, 482, 4851 8or, 829, 830 e n., 834, 835 Porzia (damigella di Beatrice degli Obizzi), :u8a Porzio Simone, 853, 865, 866, 878, zo67 - De mente /zu,nana, 878, 983 - Dis/mta sopra quella /anei11lla della Magna la quale visse dr1t anni e più stn:za mangiare e sen:za btre, 864 - Mod.:, di orare cristianamente con la upon::ione del Pattr noster, 864 - Se l'11omo diventa b11ono o cattiw volontaTiamente, 864, zo67 - Trattato de' colori tlegl'occl,i, 8641 8651 878 poscia, poscia tl,e, 255 Poseidone, vedi Nettuno posi, 220 Posidonio Rodio, 522 posso, 212, 241, 255; possono, 215 posto, 220 Postumio A. Albino, 760, 96:1 Postumio Sp. Albino, ro53 poté, 221 ;potei, 218 1 221; (per potevi), 217; poteo, 222; pottrai, pottri>, 227; potttJa, 247; potttJi, 217; potibnmi, 216; poh·enomi, 217; potrai, 227; potre.. 234; potrei, 234, 235; potrutù, 236; patria, 234; potri>, 227; potuto, 232 Pound E., r4:, POVERI, 1093-S Pozzi G., 318

Pozzi M.,

XVII, 48, 58, 99, r59, z6r, z68, SII, 548, 754, 8rr, 817 pratora, 177 PREFISSI, 184-5, 268-9, 270, 277, 278, 270, 280 PREPOSIZIONI (proponimenti). 182. 184, 185-9 prese,ite, 248 presso, 256 presta,ne,ite, presto, 258 Previtera C., 989 prima, 226, 257 primaio, 174 PRIME NOTIZIE (PRIMI PRINCIPII), 891 1 990 prìmier, 178; pn'miero, 8s primo, 85 PRIMO MOBILI, 1042-41 1142 PRIMO MOTORE, I 156 Principessa di Urbino, 850 e n. PRlNCIPI, os6, 968, 1070, 1092-3 Prisciano, z7r, zr8o

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- I nstit11tionu grammatiea,, r7 z Priuli Alvise, 37 Priuli Luigi, 638 e n. pro' (per prode), 179 Probo Valerio - Vita Verg., 844 PROCURA.TORI, 1097

prode, 81, 179 Prodi P., 715 Prodico di Ceo, 609, 648, 693 PRODIGALITÀ, 10S5 PTo/erere, pro/ereva, pro/eriTe, 216 Prometeo, 355, 1068 e n., zo69 Prometeo di Tessaglia, 1025 e n. Prometheus physicus, 9:13 PRONOME, 186, 189-210 pronto, 2s8 PRONUNZIA, 950•1 Properzio Sesto, 747 e n., zr90 PROPONIMENTI, vedi PROPOSIZIONI PROSA,07·9, 104,128,134, 146-7, ISO, 1S7, 177, 179, 184, 194, 199, 200, 218, 234, 236, 237, 253, 950 sgg.

Prosperi A., 419 PROSTESI, 86-7 1 126 1 205

Protagora di Abdcra, 609 1 684 Proteo, zo68 Protogene, 428 provcdetti, 218 PROVENZALE (lingua e poesia). 71, 72-88, 95, 139, 142, 174-5, 240, 270, 282 PROVERBI, 1033 1 1137 providi. 218 PRUDE!o."ZA, 1010, 1025, 10S4, 1075, 10761 11021 I 104 ps, 133

Pucci P., 3:14 PUERIZIA, 898, 1056

PUGLIESE (lingua), 91 pug11a (nome), 237 p11g11c, p11gni, 21 s Pulci Luigi, zoo, 857, 946 - J\,Jorgante, 946, 986, r r:17 prmga (per /mg,10), 237 p11nge, pungi, 21s; pungo, 214 punto, 267, 268 può, 214 1 247; puoi, :u2, 255; puot,, 214. 241; puowi, 200 Puppi L., 49 p11rn, 178

pr,rchi, 264 pure, 178 PURGATORIO, 987-8 puro, 178 pur un poco, 84 PUSILLANI?tUTAt I I 18

q,

134, 218

qua, 250, 251 qua', 179, 210 quadrello, 81

INDICE DEI NOMI B DELLE COSE NOTEVOLI Quadrio F. S., 4r, 11 qua entro, q11a gi~. 251 Quaglio A. E., 97, a79 q11al, 209, 210 qualche, 207 qual cosa, 200 qi,alt, 207, 209, 262, 267; q11ali, 179, 210 QUALITÀ, 917 q11almente, 262 qualunque, 208-0 quando, 251, 270; quando che sia, 280; quando mai, quandunqut, 259 QUANTITÀ, 900

quanto, 259 1 260 1 267, 270; quanto si voglia, quantunque, quantr,nque volte, 259 Quarta N., 45 quasi, 262 qua su, 251 Quattrucci M., 458 que', 179, 210; quegli, 204 1 205; quei, 204; quel, 205, 210; quell', 205; quelli, 179, 194, 204, 206, 210; quellino, 194; quello, 204, 205, 208; quello che, 208 questa, 205; que1ti, q1111to, 204 1 205 1 206 queta'mi (q11etaimi), 200 1 201 qui, 249, 250, 251; quincentro, 253; quinci, 252; quincisù, 253; 91,indi, 252; quindigiù, 253 Quintiliano Marco Fabio, 55, 494, 571, 572, 639, 778, .rr8o - Inst. orat., 55, 124, 125, r3r, :153, 154, I 56, r 57, 160, 609, 614, 654, 668, 676, 178, 929, ro77 Quinto Massimo, ro59 Quirini Girolamo, 38, 40, 399, 4r7, 458, 460, 466 Quirini Massolo Elisabetta, 31, 38, 40, 458-9, 462-3, 465-6 Quirini Niccolb ( ?), 399 e n. Quirini Paolo ( ?), 399 Quirini Tomaso, 399 Quirini Vincenzo, 389 e n., 304-0, 401, :rr69 Quirino (dio), 65 (Juirn, 250

r,

134, 178, 185, 213, 227, 230, 233, 235, 236 ra-, 185 Rabelais Franç0i1, 913 - Pantagruel, 981 Rabow H., 45 rauo9, 228; raccogli, 229; raccogliere, 185; raccoglilo, 229 Rachele, 57 3 RADDOPPIAMENTO, 199-201

raddoppiare, J 8s Raffaello Sanzio, 167-8 e nn., 183-4, 409 e n., 410 e n. RAFFORZAMENTO FONOSINTATTICO, 184-5

rafforzare, 185

raggio, 665 902, 904, 906 1 978, 995, 1020, 1059, 1060, 1061, 1074, 1075, 1076, 1077, 1082, 1083, 1090, 1106, 1127, 1131, 1137, 1147 rai, 664 Raimondo Berengario IV (Ra,nondo Btri,ighieri, Ramon Berlingliieri), conte di Barcellona, 74 e n., 764 e n. Rajna P., 9r, 38:t Ralli Costantino, 7 a S ramaricati, 225 Rambaldi Benvenuto, vedi Benvenuto Rambaldi Rambaldo di Vaqueiras, 75 Ramberti Benedetto, 35, 586, 785-91 e nn., 796 ramora, 177; ramoruto, 178 Ramusio (Rannruio) Giambattista, 35, so, 437-43, 452-4, 472 1 588, 1r6r, 1163, 1r7a, rz73, rr77 - Dellt natJÌgazioni e tJiaggi, 437 Ramusio Paolo - In P. Bembi mortem eglogae tru incerti a11tl1oris, 39 rappellare, 185 rattamentt, 258 Ratti A. (poi Pio Xl), 47 ratto, 257 re-, 185 Re d'Egitto, 1115 redi, 246; redire, 245 j rediro, 246 Regio Raffaele, 58 S regni, regno, 177 Reina delle Fortunate Isole, 350, 351-2, 353 Reina F., 87 5, :rao2, :rao4 RELIGIONE, 991•2 Renata di Francia, duchessa di Ferrara, 436 e n., 437, 5r8 renda, 238; rendei, 218; rendi, 238; renduto, 218 Renier R., 46, 10a repente, 258 restituito, 247 Reuchlin Johanncs, 589 - De n1dime,iti1 l,ebraicis, 171, 589 Reumont (de) A., :1205 Rl,etorica ad Here1111ir,,n, 153, 156 ri-, 185 riaccogliert, 185 RICCHI, 1093 Ricchi Agostino, 795 Ricci (de') Giuliano - Cronaca (z53a-1606), 8a5 Ricci P. G., 351, 454, 617, 876 Ricciardo di Chinzica (penonaggio del Decameron), 669 Ricco (di) Mazzeo, vedi Mozzeo di Ricco Riccoboni Antonio, 484, 502, 507 - Oratio11e1, soa, 507

RAGIONE (DISCORSO), 894,

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI ricevilo, 229 Ricimcro, 69 ricogliere, 185 riconoschi, 238 Ricottini Marsili-Libclli C., 881 Ridolfi R., 943, 952 riede, riedi, 245 rig11ardò, rig11ardolla, 201 RIMA, 76-8, lJl, 135-43; (origini), 71, 75-6; (regolata, libera, mescolata), 135-7; (grave e piacevole), 138-43, 151-2, 155; (siciliana), 255-6; (composta), 145 77-8, IJ7, 138, 141-2; (doppia), 138 rimanti con Dio, 282 RIMARE (preso dai provenzali), 71-3; (nato in Provenza), 75 rimarrà, rimase, 247; rimasono, 224 rime (voce lcggiera e snella), 127 Rime di diversi nobili poeti toscani, 797, 847 e n. n"membrare, 79 rimpetto, 266 Rinaldo (personaggio del Morgante di L. Pulci), 946 Rinaldo d'Aquino, 112, u3 Rinieri, 172 Rinuccini Alamanno, 986 riparare, 79 risa, 177 risapraggio, 228 risi, 219 ; riso, 220 Ritmo Cassi,1ese, 85 ritrosa, ritrosia, ritroso, 267 Rizzardi F., 452 Rizzoli L., 39, 49 Roaf Ch., 874 rob, 964 Rohlfs G., XVIII, 84, 87, 132, x36, r63, 164, I78, I86, 203, :u6, 222 1 224, 234, 236, 237, 238, 239, ;,44, 245, 246, 249, :157, :158, 267, 273 Roino (o Ruini) Carlo, 641 e n. ROMA (dialetto di), 84, 163, 237; (le • rivercnde reliquie• del passato), 167 ROMAGNA (dialetto della), 267 ROMANI, 960,961,962,963, 964, 967, 970; e vedi LATINI Romanin S., 402, 404 Romanò A., :r:13 Romei Francesco, 980 - De nectssitate operur,, et libertate arbitrii, RIMALMEZZO,

980

Romitello, figlio di Filippo Balducci (personaggio del Decamcron), 333 e n. Romito (personaggio degli Asola11i), ra, 3:13, 336 e n., 337-61 rompere, 83, 230; rompre, 230 Ronchi O., 49 Ronchini A., 40, z 177 Ronsard (de) Pierre, 488

1259

Rooke M., 985 Rosa M., 456 Roscio Gallo Quinto, 582 e n. rose, 664 Rossi A., 45 Rossi (de') GiovaMi Girolamo, 33, 431-2

e n. Rossi V .• 97 Rota, monsignor, 827 e n. rovaio, 58-9 Rovere (della) Galeotto Franciotti, .18, a:r, 365, 385, 386 e n., 387-8, u76 rovescione, 280 Roy E., 904, 9:rr RUBARE, 1095 n,b;,,;, 664 Ruccllai Bernardo, 456, 948 Rucellai Cosimo di Cosimo, detto Cosirnino, 856 Rucellai Giovanni, 4:r Rucellai Palla, 455, 456 e n. Ruffo, vedi Curzio Rufo Rufino Tirannia, 683, 684 - Apologia ad Anastasium, 684 - Apologia (o lnvectiva) in Hieronymum, 684

- De adulteratione librorum Origenis, 683 Ruggiero (personaggio dell'Orlando furioso), 804 Ruini Carlo, vedi Roino Carlo Ruscelli Girolamo, 258, 836 Russo A., 9:r5, :r:r40 Russo L., 48, 876 Rustico (personaggio del Decameron), 594 Ruzzante, Angelo Beolco detto il, 476, 485, 496, 582, 615 e n., 761 e n. - Anconita11a, 76:r - Dialogo /acetissimo, 761 - Pastora/, 76:r - Vaccaria, 76:1 Ruzzante (pcnonaggio del Dialogo della usura dello Speroni), u83 S, 133-4, 218, 219, 234, 235, 236, 237, 243, 278; (più consonante), 86-7, 183, 184; (raddoppiata, da ps), 133-4; (raddoppiata, da x), J 33; s' (pronome), 202; s-, 279-80 sa, 245 Sabbadini R., 67 Sabellico, Marcantonio Coccio detto, 35, 53 Sabinetta (personaggio degli Asolani), 289, 309 e n., 329

sacce,,te, 102 Sacchetti Franco, 8 47 - caccia Passando con pensier: 847-8 saccio, 245 Sadoleto Giulio, 417 e n. Sadoleto Iacopo, Io, 22, 33, 35, 38, 41'1, 423, 444, u6a

1260

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Snffo, 544 e n., 736 Saffo, 175 sngliendo, sagliente, 1aglio, sagliono, 215 Sagrcdo A., r 171 Saitta G., 504 Salabactto o Salabetto (personaggio del Decnmeron), 669 e n. .fa/endo, salente, salgo, salgono, :u s Salici G. A., 502 Salinator C. Livio, :ro53 saliria, 235; salird, 227 Sallustio Gaio Crispo, 605, 734, 746 e n., 753, 765

- Cat., 647, 746 Salmacc, s14 e n. Salomone (Salomone), 384, 535, 545, 718, 776, 990, :r :co:c; e vedi Bibbia Salsano F., 79 SALSO, 999

Salutati Coluccio, 55 Salviati Cecchino, 502 Salviati Lionardo, 29, 508 - AvvtTtimenti della lingua sopra 'I Decamt:rone, :r89, 508, :r:r8o Salvini S., 87 5, 877 salvo clre, 282 Salvo-Cozzo G., 45, :r9:c Salza A., 638, 848 san, 179 San Borùfacio Lodovico, 568 San Bonifacio Lodovico (personaggio del dialogo Della dignità delle donne), 568 e passim San Bonifacio Manfredo, 479 Sandys Edwin - Relazione dello stato della religione, 988 Sanesi I., >.."VIII, 875, 9:r:r, 9:13, 9:16, 949, 973, 974, 98:r, 988, 994, :ro68, :r:ror, :r202, r204 Sanga Giambattista, 432, 434 SANGUE, 920, 927 SANGUE DEI GIOVANI,

Santippe, 703 S(mto, 179 Snntoro M., 42 Sanudo Marin, 35 - Diarii, XVIII, 35, 72, 402, 404, 406, 4:r6 Snnzio Raffaello, vedi Raffaello Sanzio sape, 239, 245; sapendo, 240; sapere, 228, 245, 256; saperei, saperd, 245 SAPIENZA, 1023; (e timor di Dio), J0II Sapore I, re dei Persiani, 546 SAPORI, 999

Sapori G., 825 sappi, 228; sappia, 239; sappiendo, 240; saprei, saprd, 245 sarà, 244; saraggio, 227; saranno, 244; sare', 234; sarebbe, 244 Sarego Lucrezia, 828 e n. sarei, 234; saria, 84. 234,244, soriano, 235; sarie, 244; sarièno, 235 Sarpi Paolo, 988 sarria, 235; sa"d, 227 Sassi (Sa,.-ius) G. A., 506 Saturno, 526 Saul, 755 Sauvage Denis Seigneur du Pare, :1204 Savino L., 45 Savonarola Giovanni Michele, 58:r - De balneis et termis naturalibw totiu.s orbis, 58:r Savonarola Girolamo, 866, 943 e n., 952 e n., 1063 e n. - Trattato co,ztra li astrologi, 952 - Triumplrus Crucis, 943, 1063 e n. Savorgnan Girolamo, 363, 438 Savorgnan Hieronimo ( ?), 364 Savorgnan Maria, xv, 8, :ro, :c2, 26, 44, 346,359, 363-80, :r:169, :r:177 - Carteggio d'amore, xv, 44, 359, 363, 364, 366, 367, 368, 369, 37:r, 372, 374, 377, I:169, I:17?

Saxius J. A., vedi Sassi G. A. 1004

sanguigno, 1 So sanità, 180 Sannazaro Iacopo, 336, 726 - Arcadia, :r 4, 30, 34, 4:r Sanseverino Ferrante (Ferdinando), principe di Salerno, 518 e n., 519 e n., 520, 522, 53:r, 723, :r:r78-9, :r:r85 Sansone M., 47 Sansovino Francesco, 38, 40, 49, 68, 48:r, 499, 811 e n., 8:r2, 813, :c:164, :r:176 - Ragio11amento nel quale s'insegna a' giovani la bella arte d'amare, 499 - Venezia città nobilissima, XVIII, 400, 4:r6, 439, 440, 565, 794, 8:r:r Sansovino, Iacopo Tatti detto il, 8:r :r santa, 462-3 santà, 180 Santa Giuliana Giovanni, 577 Santangelo G., 42, 46, 47

SAZIETÀ, 121, 153-6

Sbaragli L., :r3a Scalabrino Luca, 487 Scaligero Giulio Cesare - Poetices, 945 scarsità, scarso, 181 sceverare, 180 Schiaffini A., XVIII, :r:13, a34, 267, a7 3 SCHIAVONI, 969 Schmitt Ch. B., 937 Schonberg Niccolò, arcivescovo di Capun, 433 e n. Schutz A. H., 74, 98 SCIENZE, 1063 scig11ere, 279 Scilla, 533 e n., 1091 scioglia, sciolga, 237

Scipione Calvo, Gneo Cornelio, 766 e n. Scipione Emiliano, Publio Cornelio, 554 e n., :1057

INDICE DEI NOMI B DELLE COSE NOTEVOLI Scipione Nnsica, Publio Cornelio, 1025 e n. Scipione Publio Cornelio, 766 e n. Scipione Publio Cornelio, detto l'Africano, 578 e n., 766 e n., rx Ia Scolare (personaggio del Dialogo delle lingue), 49a, 5or, 585, 617 e passim, 7a7 scolare, 172 SCOLASTICI, 982-3 SCOMUNICHE, 973

728, rr8a

sco,icia, 145 scorrere, 279 scoscendere, 83 scostumato, 279 scotendo, 241 scnssr, 219, 225, 226: scritti, 225: scritto, 219, 224,

226, 242

Scrittura sacra, vedi Bibbia SCRITI'URE, 52, 104, 107, 111-2, I

- De const. 1ap., 304 - Epist., 958 - Hcrc. fur., ro37 - Hip. (attribuita), 560 - Oct. (attribuita), 560 senno, 270 Senofane, 782 Senofonte, 693, 696 e n., 698, 705, 706,

18 sgg,, 168

Scriva.no R., 504 SCRIVERE (e parlare), 52, 53 SCUOLA PARIGINA, 983

scuoto, 241 sdebitare, 279 se (condizionale), 132, 272, 276-7; (ottativo), 271, 277; (particella pronominale), 191: -se, 191, 192; si, 184, 191, 192, 196 se', 132, 243 Secchi S., 4r:1 secondamente, secondo, 260 sed, 272 sedetti, 218; sediamo, sediate, ::39 Segala Francesco, 502 segga, seggiate, 239; seggio, 210; seggo, 210, 212; seggono, 212 Seghezzi A. F., xv segni, 177 Segni Bernardo, 966 e n. - /storie fiorentine, 966 - Vita di Niccolò Capponi, 966 SEGNI DI CASO, 182, 185 segno, 177 sego, 211

Segre c., XIX, rs, 46, 47, 48, 804 Segretari del Bibbiena, 418 Segretario di Matthlius Lang, 405, 406 seguette, 223; seguie, 244 sei (da essere), 243 sei (numero), 178 se le, 198 Selim, sultano, 407 Semele, 531 e n., 537 e n., 541 Semiramide (Semiramis), uu, zrn semo, 211 Semprebenc da Bologna, 112, rz3, 211, 222 e n.

Semprebene di Ugolino di Niccolò della Braina, ZI3 Sempronio (pseudonimo), 60 sendo, 243 Seneca Lucio Anneo, il filosofo, 107, ro8, 36r

- Anab,, 696 - Mmi., 693 - Ot!con., 695, 696 - Symp., 703 ,e non, 276, 282; ,e non ,e,

,e non li, 276 SENSI, 885, 1035, 1090, 1140, 1141-3, 1144, 1145, 1148, 1149, 1150, II51, 1153, 1155; (interiori), 885, 1077, 1125, uso SENSIBILI PROPRI E COMUNI, 1142-3 SENSITIVA (potenza), 902, 921, 994, 995, 1035, I l 17, I 118, 1149, I l S4 SENSO COMUNl!, 1035, 1090, 1145 1enk, 210; senti, 221; ,end (per 1t11tii), :220; 1mtia, 216, 217; st11tiamo, 212; 1mtiano, 216; sentii, 217 sentiere, 172 sentii, 220; sentimmo, 223; 1entimo; 212; sentlo. 221 SENTIRE, 1140 sentire, 21 o; 1entirei, 233; 1entiro, 224; sentirono, 223; sentissate, 237: sentissi, 234, 235; sentiste, 223; sentisti, 221; se,itito, 225; sentiva, 216; ll!11tivi, 217 separare, separato, 180; separi, 128 SEPOLTURA, 989 seppi, 218

Serafino Aquilano, Serafino de' Ciminelli detto, 601 e n. Serassi P. A., xv, su, 555 Serpe (personaggio della Circe). roor, 1089

e n., zr38 Serse I. re di Penia, 7az, 774, 839 e n .• 99 2 Sertorio Quinto, 766 e n. SERVI, 958, 1095, 1098 1 I 103, I 129 seroièno, 216 Servio Onorato - Am. Prae/., 844 serviraggio, servirò, 227 SERVITÙ (di letterati a signori), 956, 1098-9 SESTINA, 76, 136, 138-9, 140; (doppia o rinterzata), 77 letJerare. 180; 1evrare. 84; sevri, 128; sewo, 180

Sl!::aio, 261 sface, 128 SFERA STELLATA. vedi PRIMO MOBILI sgannare. 279 sgombrato, sgombro, 180 sgoz:are, 269 sg11ardo, 279 li, 191,200,202, 232; (latino), 132; d. 264,

1262

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

273-4, 278, 281; -ri, 191. 192. 202; •SÌ- 1 191 ria, 244; slamivene, 149; siano, 244 Sibilla Cumana. 359 si che, 263 SICILIANA (lingua e poesia). 71-2, 86, 136. 204, 221 sie, 244 siede, $1°tdi, 212; siedo, 211 i nedono, 212 sieno, 244 Sifilo, 425 signor (invece di signori), 179 Signorile A., 5:ca signòrso (per n"gnor mo), 162-3, 182; (da ngnòrso e non dal ngnòrso), 163; signòrto (per signor tuo), 163 sii, 238

Silano Decimo, 967 Silano Decimo Giunio, 647 Silla Lucio Cornelio, I33, 355, 695 SILLABE (lunghe e brevi), 132, 143 silvestro, 180 Sinùoni A .• 64 Simonetta Alessandro, 419 Simonetta Lodovico, 479 Simonide, 304, 699 Simplicio, zo40 SINCOPE, 126, 180, 230, 234 SINERESI (macolamento), 150 rmagare, 82 nnarrito, smarruto, 219 smemorato, 279 nnorire, smorto, 280 Snell B., 55 so, 245 10 (per suo), 162 so' (per sono), 243 Soardi, cavalier de', 829 e n. soavi, 156 Socrate, 360, 486, 544 e n., 6:15, 656, 66z, 676 e n., 677, 678-0 e n., 681, 687 e n., 688, 702-4 e nn., 705, 706, 7zo, 711, 7z7, 819, 929, 980, 98a, zo89, zo94, zz8a

Soderini Giovanvettorio - Il trattato degli arbori, 898 1oj/era, 215; (imperativo), 228; so/ferì, 237; so/ferire, 215, 228, 237; so/ferirò, solferrl>, 227; soffra, 228 Sofocle, 93, zzza - Aiace, 307 Sofronia (personaggio della GmualemrM liberata). 487 SOGGETTO, vedi MATERIA soggiornando, 249; soggiornare, 269 soggiorno, So, 664 soglio, 212 SOGNO, 920-1, 1035-6; (di Giuliano de' Medici), 115-6 10/amente, 276; solamente clie, 264 1oletm0, :u6; 10/ei, :u7

Solerti A., 83 solevi, 217 soli, 664 solia, 85 Solimano Il il Magnifico, sultano, 638 Solone, 435, 970, 992, zo62 Soluzione de' Miracoli, 940 e n. sommettere. 269 son, 243 Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, 28 SONETTO, 137; (continuo), 137 SONNO, 976, 1033-9, 1050

sono, 85, 243, 244 soppanno, 269 soppidiano, 269 sopposto, 269 sopra. 132, 257, 269 sor, 269; sor-, 268-9 Soranzo Girolamo, 652 e n., 797, zz77 Soranzo Marcantonio (interlocutore del Dialogo della retorica), 637 e n., passim Soranzo Vettor, 33, 37, 38, 432, 436 e n., 443-4, 448, 590, zz7:z

sorbondato, 269 Sordello da Goito, 75 e n. Sordi Marcantonio, 50:z sorgozzone, 269 sormo,rtare, 269 sorprendere, 269 sortii/e, 200 sorvenire, 269 sorviziato, 269 soscritto, 269 sospinto, 269 sospiri, sospiro, 177 sostien, sostieni (indicativo), 213; (imperativo), 228; sostenirei, sosterrei, 235; sostenuto, 269 sot-, 268-9 sotterra, 269 sottil fiamma, 179 sotto, 269 sovente, 81, 260, 664, 965; (usato come aggettivo), 260; soventemente, 260 soverchio, 965 sovrempiere, 269 sovvi, 200 Sozzi B. T., 504, SII spacciatamente, 258 Spagna, 87 SPAGNUOLA (lingua}, 92, 93 Spagnuolo, vedi Montesdoch Giovanni sparse (voce piena e grave), 127 sparso, sparto, 220 spaventare, spavento, 280 speme, 664 spende, 280 spensi, spento, 219 Speroni Angelica, 473, 8:z9 Speroni Bartolomeo, 505, 829 e n.

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Speroni Bernardino, 47:r, 472,473,505, 69a Speroni Diamante, 473, 478, 786 e n., 798 e n., 799 e n., 800, 802 e n., Su, 816, 829 e n., 836 e n. Speroni Giulia (lulia), 473, 478, 479, 48r, 482, 484, 5011, 506, 507, 786 e n., 797, 798 e n., 799 e n., 800 e n., 801 e n., 802 e n., 804, 805 e n., 806 e n., 807 e n., 808 e n., 810 e n., 8r2, 814, 815 e n., 820 e n., 82r, 823 e n., 8:24, 828, 829 e n.,

Dialogo della discordia, 499, 687, 696, 722, 723, :rr82, :r:r83

Dialogo della retorica, 49, 4:r8, 496, 499, 500, 504, 635, 696, 722. 723, 752, :c:r79, :r:r82, :rr83, :c:c86, :r:c87 Dialogo della wura, 485, 499, 507, 585, 6r5, 687, 696, 722, 723, 940 e n., :c:r8a, r:c83

Dialogo delle laudi del Cataio, 565 1 566, 570, 58:r-2, 696, 723, :c:r8a

Dialogo delle lingiu, XII, xv, :c6:,, 492, 496,

833, 836

Speroni Giulio, 505, 812 e n., 829 e n. Speroni Laura, 829 e n. Speroni Lucia, 473, 478, 48r, 482, 638, 786 e n., 796, 797 e n., 798 e n., 799 e n., 800 e n., So:r, 802 e n., 807 e n., 810,816, 828 e n., 830, 834, 836 Speroni Sperone, xv, xvr, XVIII, :t8, 34,

-

38, 4:r, 55, 92, :r:rr, 400, 4:rz, 853, 855, 863

-

-

- Apologia contra il giudicio della Canace, 476, 506, 726, 846

- Apologia dei dialogi, 472, 484, 498, 505,

-

507, 565, 570, 57I, 572, 576, 58:r, 6r5, 648, 725, 726, 727, 784, 822 e n., :rr8a, r:r83, :r:r85, r:r87-9 Argomento di un poema eroico, 508 Canace, 476, 477, 489, 503, 506, 542, 6:r5, 663, 792, 84:r, 846 e n., 847 Contra il Guicciardini, 784, 826 Contra la sobn'ttd, 507 Del genere demonstrativo, 682 Del genere gi"diciale, 68a Della fortrmn, 479, 506, 722 Della imitazione, 48:c, 507, 68a, 693 Dell'amor di si stuso, 479, 506, 550

- Della narra%1·one oraton'a e iston'ca, 68a,

- Dialogo della vita attitJa e contemplatitJa, 473, 493, 500, 505, 509, 565, 571, 638, 639, :c:c83

- Dialogo in lode delle donne, 584 - Dialogo sopra la fortuna, 565, 638 - Dialogo sopra Virgilio (frammento), 507, 682, 845

-

784

- Dell'arte oratoria, 496, 497, 509, 682, 705, 750

- Della tJirtà, 479, 506 - Del ,nodo di st11diare, 472, 473, 474, 49:r, 493, 505, 509, 593, 620, 625, 627, 63:r, 675, 695

- Del parlar dell'uomo, 49:r, 509 - De' romanzi, 804 - Dialoghi sopra Virgilio, 48:c, 492, 494, 507, 509, 630, 738, 143, 808, 845

- Dialogi, Xli, 415, 477, 484, 485, 489, 490, 497-500, 50:c, 503, 504, 507, 5:r8, 565, 683 e passim, 788, 79:r, 7911, 8:u e n., 822 1 841-2 e n., 848, 863, :rr78-87 Della cura famigliare, 498, 499, 504, 584, 690, 696, 722, 723, rr:ra, :rr79, :r:c8a-3 Della dignità delle donne, IX, 499, 696, 723, r:r8:1, :r:r85-6 Del tempo del partorire delle donne, 491-8 499, 722, 7:13, :r:r8a, :rz83 Dialogo d'amore, 485, 499, 507, 5:r8, 572, 696, 723, 790-s e nn., :rz78, :r:r79, :rzSa, :r:r85-6

499, 500, 50:c, 503, 504, 508, 696, 722, 723, 727, 945, 949, :c:r8a, :rr83, :c:c86-7 Dialogo intitolato Panico e Bichi, 584, 696,723, :r:c8a, :c:c85 Dialogo del giudicio di Senofonte, 48:c, 507, 696, 726, 738, 784 Dialogo della iston'a, 490, 497, 500-a, 508, 509, 606, :e :r89-9a Dialogo della istoria (frammento), 66:r, 784 Dialogo della tllorte, :r:r79

-

Discorso del dose tliniziano, 8:r:c Discorso della calunnia, 566 Discorso della istoria di Senofonte, 784 Discorso della milizia, 503, 695, 696, 698 Discorso dell'anima umana, 479, 506 Discorso della precedenza de' Principi, 503 Discorso della n'fonnazione dell'anno, 508 Discorso dell'onore, utile e fin dell'uomo, 419, 506 Discorso in lode della pittura, 547 Discorso in lode della Terra, 709 Discorso intorno all'istoria, 784 Discorso sopra Dionisio AUcarnass«>, 687, 731, 784

- Discorso sopra le sentenze • ne quid nimù • e • nosce te 1"psum •• 479, 506 - Esame e giudizio della commedia di A. Caro intitolata Gli straccioni, 504, 508 - Orazione agli Auademici lnfiammah·, 506

- Orazione a Girolamo Cornaro, 474, 505 - Ora...--ione a Iacopo Cornaro, 414, 48r, 505, 507, 8:cr, 812 e n., 813 - Orazione al Re Filippo di Spagna, 480, 506, 687 - Orazione al Serenissimo Luigi M oeenigo, 8:r:c - Orazione contra il Barbarossa, 4:ra - Orazione co11tra le cortigiane, 485, 507, 545, 72:c, rr:ra

- Ora::ion, della pace al lù Antonio di

NatJarTa, 480, 506

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI - Orazione in morta del Cardinale Pietro Bembo, 38, 506, '/30, '148, '149, '/SO, 151, 75S, 763 - Ora=ione in morte della Ducl,usa di Urbino, 417, 48r, 506, 507, Srr, 812 e n., 813

- Per la sobrietà, 507 - Rime, 48r, 488, 494, 506, 507, 508, 509, 809, 839, 847 e n. - Sommarli e I rammn1ti di lezioni in difua della Canace, 506, 635, 667, 686, 846 e n. - Sopra Dante, 488, 508 - Sopra il lib. a della Retorka d' Aristotile, 68a - Sopra l'Ariosto, 804 - Sopra le virtù, 479, 506 - Sopra Virgilio (disconi), 48r, 507, 687, 780, 845 spesso, spus'ore, 260 Spezi G., zz17 spietato, 279 Spinelli Giovan Battista, conte di Cariati,

-,ti, 220 stia, stiano, 239 Stilponc di Meaara, 304 stornare, 279 Stra (da) Giulio, 8a9 Stra (da) Orsolina, 413, 722, 786, 799 e n., 829 e n. Strabone Cesare, 98 Stradino, Giovanni Mazzuoli detto lo, 862, 874 stran, 179 Straparola Gian Francesco - Le piactvoli notti, 988 strazio, 665 STREGHE, 937

stretto, 220 Stringa Giovanni, xvm, Bzz stringo, 215; strinsi, 220 Strozzi Ercole, zo, 44, 41, 56, 58, 364, 380, 381 e n., rr69, rr70, rr7r Strozzi Ercole (interlocutore delle Prose della volgar lingua), 56, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 65, 66, 68, 71, 73, So, 88, 89, 91,

406 e D,

94, 95, 96, 98, 118, 119, 123, 139, 141, 148, 160, 161, 162, 174, 182, 185, 206, 218, 226, 284

Spinelloccio Tavena (personaggio del Decameron), 669 e n. spi11to, 279 Spira Fortunio, 79a, 193 SPIRITI, 891, 920, 1034, 1036, 1050 SPIRITI (fantasmi), 936-7 SPIRITI VITALI, 896, 897, 899, 923, 1003-5

Spitzer L., r36 6J}lendore, 665 Spongano R., 848, 876 sportato, 6J}orto, 279 Sprenger Iacopo, 938 - Mallew maleji&arum, 938 6J}roi,ato, 279 6J}untare, 279 sta (da stare), 220, 243 sta (per questa), 205 stae, 244 sta ma11e, stamattina, 205 Stampa S., 974 stanco, 181 1ta notte, 205 stare, 79, 224 sta sera, 205 stassi, 200, 243 ; stato, 243 Stato Giovan Battista, 6, 44 Stazio Publio Papinio - Aclzill., 539 - Tlieb., 53r stea, steano, 239 Stefano Protonotaro, azz Stella A., 336 Stella Giovan Pietro, 405 e n., 406 ,,.Ile, 664 ste11dere, 279 stessi, 207; stesso, 206-7 susti, 220; stettero, 224; stetti, 217

108, 124, 149, 163, 187, 228,

109, 126, 152, 164, 197, 232,

15 1 129, 158, 166, 203, 248,

I IO, I

128, 156, 165, 201, 233,

I 17, 130, 159, 170, 205, 250,

Strozzi Giovanni, zr98, raoo Strozzi Tito Vespasiano, 56, 380 STUDIARE, 930, 931-2, 940, 955 su (esortativo), 282, 283 sua ·mercé, z68 subito, sr,bito che, 257 Succhiello, fra, 989, 990 "" (per su), 244

Suida W., 39 su 'l, 183 Sulpicio Apollinare, 844 e n. Sulpicio Gallo, 844 suo, 162, 163 suo' (per suoli), 213 suocera d' Arriguccio (personaggio del Decameron), 669 e n. suogli, 212 suoi, 152 n,o/i, 212, 213; s11olti, 213 SUONO, I 30, I 31-43

supin, supi11amente, 281 11110,

243

Svetonio Gaio Tranquillo, 107, zo8

- Yit. Yerg., 844

t,

133, 134, 219, 273; (mutato in d), 176 ta' (per tali), 179, 210 taccia, tacciamo, 239; taccio, tacciono, 240: tacere, 218; tacette, 223; tac(lui, 2.18 Taddei Gio,•anni, 455 e n. T11ddei Taddeo, zr63

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI tal, 209,210; tale, 209,210, 262; (per alcuna cosa), 209; (per tale stato, tal condi::ione), 209 talento, 81 Talete di Mileto, zo89 tali, 210 Talia, 698 talmnite, 262 Talpa (personaggio della Circe), 1073, 1074, 1082-8, II38

Tamburini M., 43, 45, 288, 336 Tanci Lionardo, 872 Tansillo Luigi - Rime, 874 Tantalo, 365 e n., S33 e n., S34 e n. tanto, 210, 261 tanto o quanto, 84 tantosto, 258 Tapia (dc) J., 93 Tarantino N., 876 Tarcaniota, vedi Marullo Michele Tarquinio il Superbo, 308, 578 Tarquinio Sesto, 308 e n., 578 e n. tartaro, 964 Tasso Bernardo, 26, 56, 436-7 e n., 444, 477, 486, 507, 5ZZ, 543, 555, 56x, 638, 664, 794, 797, 799, 802-4 e nn., z:c85 - Amadigi, 486, 507, 803 e n. - Lettere, xv, 5xz, 5xa, 5r8, 799, 803, zz85 - Ragionamento della pouia, 56z - Rime, xv, 436, 5xz, 5x8, 519, 520, 534, 543, 554, 555, 561 e n., 562, 638 Tasso Bernardo (interlocutore del Dialogo d'amore), SII e passim, 792 Tasso Torquato, Xl, 486-8 1 507,508,842 e n., 844 - Aminta, 486 - Discorsi dell'arte poetica, 486, 508, 842 e n. - Discorsi del poema eroico, 760 - Gerusalemme liberata, 486, 736 Tateo F., 404 Tatti Iacopo, vedi Sansovino TATIO, 1078

Tavola ritonda, 83, azz te, 190, 191, 193, 195, 196; -te, 192; (uscitB verbale), 239; -te-, 189 te', 229 Tebaldco Antonio, zo, 24, 28, 33, 34, 75, 409 e n., 410, 451 e n., zz7z TEDESCA (lingua), 103 TEDESCHI (barbari), 69 legno, 210 te la, 198 temetti, :218 Temistio, 886, 902, 9zo Temistocle, 729, 774, 775, 79r, 839 e n. TEMPERANZA, 101 I, 10S9 TEMPERATURA DELLA COMPLESSIO~"E, 895-6 1 997, 1050, 1078, 1084

So

TEMPO, 994, 996, 1039-48 TEMPO (quantità delle sillabe), 143 1 1481 150-2 tempora, 178 temprnssen, 236 te,iendo, 240, 247; tenente, 247

Tenenti A., 878 te11esti, 221; tengo, 2101 212, 241, 246; tenni, 218 tentone, 281 tenuto, 242, 247 tenzona, 81 Teocrito, 160 e n., 742 Teodoro di Bisanzio, 609 e n. Teofrasto, 613 1 6z4 TEOLOGI, 981-3 Teopompo, 683 e n.; e vedi Anassimene

di Lampsaco Tepolo Niccolò, vedi Tiepolo Niccolò Terenzio Afro Publio, 4, aa, OS, 105, zo6, 438, 697, 882 e n. - Andr., zzo6 - Erm11cl1., 697 e n. - Phorm., 88a tèrminano, 148 Terpening R. H., 45 Terra (divinità), 3or TERRA, 914, 915, 930 1 931 TERREMOTI, 1080 TERZETTI (terza rima), 135, 154

Tesauro Emanuele - Idea delle perfette imprese, 827 Teseo, 554 e n., 633, 690, 708 e n., 770 teso, 226 Tessa (personaggio del Decameron), :z8z, 786 e n. testé, testeso, 257 tetto d'oro, 664 Teucro, 846 Teza E., 40 ti, 189,191,193,200,202,232; -ti, 189,192 Tibullo Albio, 560, 663, 746, rz90 ti ci, -tici, 191 tiemmi, tien, 213; tiene, 220 1 241; tieni, 212, 213

Tiepolo (Tepolo) Niccolò, 417 e n., 786, ZI6:C

TIMIDITÀ, I 133 TIMORE, 1131 TIMOR SERVILE, 979

Tindaro (personaggio del Decameron), 669 Tiraboschi G., 4z, 76, 875 Tiresia, 834 e n. Tisbe, 307 e n., 535 ti se, ti si, 191 Tisia, 657 e n. Tissoni R., XVIII, 869, 870, 876, 878, 879, 832,889, 95z, 964,970, 989,zoor, roo7, zor4,zo5a,zo68,ro69,zo78,ro84,zzo6, zrao,zz37,rz95,rz96,zz97,rr98,zaoo, raoz, z:103, r:104, r:105

1266

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Tiziano Vecetlio, 39, 502, 543, 547-8 e nn., 566, 669, 672, 699, 714, 794, 839 e n. Tmolo 1 606, 737 to•. 229 toccao, 222 Toffanin G., 43, 504, 505, 542, 876 togli. 213; (imperativo). 229; toglia, 237, 239; togliate, 239; toglio, togliono, 215; toi1 213 ; tolga. tolgano, 237; tolgo, tolgono, 215 Tolomei Claudio1 z7, 48, 46z - Dell'o chiaro e fosco. z3a - Polito, z33. z34, 892 Tolomeo Claudio - Geografia. r6o Tolomeo II Filadelfo, re d'Egitto, 111 tolse, 221; tolsi, 219; tolto. 220 Tomarozzo Flaminio. 34, 3'/. 459, 460 e n., 467 Tomaso. messer, 399 Tomiri 1 II 11 1 rrz:, Tomitano Bernardino, 47z, 415, 411, 484, 54 2

- Quattro libri della lingua toscana, XVIII, 47z. 411, so~ so~ 542, 56~ 66z - Ragionamenti della lingua toscana, XVIII, 477, 506, 565. 590, 593, 7z:, Tommaseo N ., 504 Tommasini I. F., 504 Tommaso d 1Aquino, santo, 6r8, 973, 974 e n., 982, :1040, zo67, zz46 - Comm. in Poi. A.ri1t., rz r7 - De unitat, intellect,u, 982 - Sum. theol. 1 ro76 Topazio (pseudonimo). u, 391 Torelli Barbara, 56 Torelli Francesco, 872 Torelli Lelio. 873, zr96. rr97, rzo4 Torello (penonaggio del Decamnon), 282 Torfanino Bartolomeo, 462 tormenti, tormento, 177; tormento. 665 tornare, 279; tornarono, tornò, 246 torrabbo 1 228 torre, 230 Torre (della) Francesco, 426 e n. Torre (della) Marco Antonio, 425 e n. Torrentino Lorenzo, 881 e n., 88:, Torresano Andrea. 7:,3 to"e via, 230: torri>. 228 : tor ma, 230 TOSCANA (lingua), vedi FIORENTINA (lingua e letteratura) TOSCANI, 960, 961 1 962, 963, 964, 965

Toscano Giovan Matteo - Peplus Italia,, 986 tostament,1 257; tosto, 163 1 257; tosto che, 257

tra, 277-8; tra-, 278 traboccare, 278 tracotanza, 83 1 84 (delle le11i divine), 968; (delle preahiere e degli uffici

TRADUZIONE IN VOLGARE

divini), 969 agg.: (delle leggi umnne), 968, 970; (delle scienze), 947-8. 960 sgg., 977 trafigere 1 278 traggi, traggo, trai, 213 Traiano Marco Ulpio, imperatore, 741 e n. tramettere, 278 tranqrtillo (invece di tranquillità), 181 trans, 278 translato, 278 trapelare, 278 trapo"e, 278 Trappolino Piero, 494 tra", di .sentimento. tra"' della primiero imagine, 82 tra.s-, 278 tra.sondare, 278 tra.scotato. 83, 84 trascuraggine, 83 trascurato, tra.scutato 1 84 trasformare. 278 Trasimaco di Calcedonia, 609 e n., 676 e n., 677, 684 traspo"e, 278 trasportare, 278 trasviare, 279 tratto tratto, 283 travagliare, 278 Travi E. 1 zr71 traviare, 279 tre, 178 tre cotanti, trecotanto, 261 trn, 178 trenta, 178 Trissino Giovan Giorgio, a5, 34. 53, 93, a58, 296, 453 e n., 663, 76I, 948-9 e n., 950, 951 e n. - Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, 68, 951 e n. - Grammaticl,etta, 237 - Il Castellano. 43 - La Poetica, 53, 11, 93. z5r, 6oz, 950 e n. - L'Italia liberata da 1 Gotti, 949 - Sofonisba, 663 Tristano, 768 TRITfONOHI (nel veno col valore di una sola aillaba). 174.5 Trofimo Felice, z42, 421-2 e n., 430-1 TRONCAMENTO, 80 1 173·4, 178-80, 196, 1971

210.211.213-4,216,217,220, 224,228229. 230, 236. 266. 270-1 troppo, 181 trovato, 257 tu, 173,189.193, 195,196

tu (per t11tto), 284 Tuberone Quinto Elio, 131 Tucca (Tuca) Plozio, 844 e n. Tucidide, 93, 737 e n .• 765, 827 - Storia, zzza tue, 244

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Tullia d'Aragona, 5rr, 794 - Della infinità di amor,, sr r Tullia d'Aragona (interlocutrice del Dialogo d'amor,), 511 e passim, 193 tuo, 163 turbo, 172 TURCHI, 69, 91 S Turini Turino da Pescia, 931 Tusanti, 284 Tutti i Santi, 284 tutto, 182 1 256, 264 1 278, 284; tutto eh,, 264; tutto quello el,e, 260; tutto tutto, 283; tututto, 283, 284 Il, 132, 134, 163, 2.12, 2.2.0, 221 1 241: (latina), 132; -u (terminazione di nomi estranea al toscano), 173 u', 251

Ubaldi (degli) Baldo, vedi Baldo degli Ubaldi Ubaldini F., 58 5 Uberti (degli) Farinata, vedi Farinata degli Uberti Uberti (degli) Fazio, vedi Fazio degli Uberti Uberti (degli) Lapo Fnrinata, vedi Lapo Farinata degli Uberti Ubcrti (degli) Lupo, vedi Lupo degli Uberti ubidente, ubidito, 247 Uccellatoio, 174 uccello, 84 uccidere, 84; ueeldonosi, ueddons,ne, uecidonsi, 149; uccisono, 224 udendo, 241; udl, 221; (per udii), 220, 221 i udia, 217; udiamo, 237; udiate, 239; udie, 244; udii, 217 ; udii, 220; udio, 221 i udire, 230; udirl>, 221, 227; udirono, 221, 223; udi1ti, 221; udita, uditi, 232; udito, 2:21, 232

UDITO, 1086, 1090 udivate, 217; udrei, 235 i udrl>, 227 ugne, ugni, 215

Ugolini A., 873, 815, 876 Ugolini F. A., 14, 1 S Ulisse, 307, 535, 559, 757 e n., ro1a, rr30 Ulisse (penonaggio della Ciree), 870, 87z, 989, 1072. e pa11im Ulisse (personaggio del Br11ta ratione uti di Plutarco), zo69-10, ro73, rra9, rr30, zz83 UMIDO, 897; (acqueo), 897-8; (aereo), 897-8 i (naturale o radicale), 896-7, 997, 999, 1001 UMORI, 897, 1050 1 1077, 1078 un'altra volta, 261 unge, 215 UNGHERl (barbari), 69 ungi, 215; urago, 214

Unico Aretino, ,•edi Accolti Bernardo UNIVERSALI, 1148

unqua, 2.58, 259; unquaneo, 259, 664; unque, unquemai, 259

UNTUOSO, 990

uo',

80

uom, uomo, 127-8 uopo, 80, 664 Urbano VIII, papa, 398 URBINO (dialetto di), 163 Urticio Giovanni Alessandro, 3, 5 Ulato, 180 wcie, 244 uso (sostantivo), 256; (per wato), 180 'V, 183, :u6, 217, 223, 250; (simile ab), 222 r,a, 2.43 : vaed, 200 r,acdo, 164 vada, 243; r,ae, 244 vaglio, 212 Valacca C., roa8 vale, 210 i valemmo, 223; valemo, 211 r,alen:ra, 81 r,alere, 210 Valeriano Pierio - De litteratorum infelidtate, z6o Valeriano Publio Licinio, 546 Valerini Adriano - Le bellezze di Verona, ro91 Valerio Carlo, 637 Valerio da Pesaro, 415-6 Valerio Gian Francesco, 4:r8, 522, 631, 638, 79a, 794, zz6r, rr75 Valerio Gian Francesco (interlocutore del Dialogo della r,toriea), 637 e pa,rim Valerio Massimo, 57 3 - Fact. et diet. fflffllorab., 578, 963, ro94, rrr3 valun, 234: valunmo, 236: valute, 223; valeva, 216; valevate, valm, 217 Valgimigli M., 103, 7:ro valiamo, 211 Valiero Agostino, -#19 Valla Lorenzo, 6a, 768 - Prae/atio Elegantiarum libri, 588, 592, 768 Vallone A., 508, 879 valore, 98 Valori Baccio, 86r, 862, 817 Valori E., 50 valsi, 218 van, 179 VANDALI, 69 Và-qua-tu, 918 e n. Varana Giulia, 411, 48z, 507, 8r2 Varchi Benedetto, al, 29, 34, 38, 4r, 46, 41, 48, 67, raa, z55, r89, •54, 455-6, 415, 471, 506, 570 e n., 571 e n., 857, 859, 86a, 863, 87a, 878, 953, rrz3, zr64 - Ercolano, xv, XVIII, 98, r89, ao3, 254, 30:1 1 334, 488, 508, 570, 57z, 590, 594, 602, 863, 938, 945, 941, 969, roao - Orazione in morte di P. Bembo, 33, 38, 49, 68

1268

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

- Rime, 455, 570 Storia fiorentina, 456, 998 Sulla generazione del corpo 11mano, 89x, 93 7

Sulle tre can::011i degli occl,i, 98 Varese C., XVIII VARIAZIONE,

12I, 130 1 152-6

Vnrio (Varro) Rufo, Lucio, 844 e n. Varrone Marco Terenzio, 67, 95 - De re rustica, 929, 967 Vasari Giorgio - Vite, 447, 874, 9r3, 966, xoa7 Vasconcellos (de) Michaelis C., 3r6 Vasoli C., 336 vassi, 243 Vattasso M., 45 ve, -ve, 192 ve', 229 VECCHI (costumi dei), 892, 899, 905-6, 908-9 896, 933, 979, IOI0-7, 1023, 1033, 1038, 1039, 1048-9 1 1050 sgg.

VECCHIEZZA,

Vecellio Tiziano, vedi Tiziano Vecellio vedavate, 217; vedella, 230; vedestù, 221; vedetelvi, 198; vedi, 229; vedo, 2 II VEDERE,

916-7, 1006 1 1086, 1087, 1090

Vedova G., 808 vedrasti, 200; vedrei, 235; vedrd, 227; veduta, 226; veduto, 225, 226 VEGETATIVA (potenza), 902, 1035, I I 17 Vegetti M., 896 veggio, 210, 240; veggo, 210 ve gli, 198 vegno, 210 -vel, 198 Velio Longo - De ortliograplria, x33 venavamo, venavate, 217 vendicato, vendico, 180 Venere, 46, 301 e n., 306, 318, 32x, 495, 526-7, 528 e n., 533 e n., 534, 536 e n., 580 e n., 687, 700, 939, 1009 e n., 1061, III2

(lingua e poesia), 96-8, 162 Veneziano Gabriele, 447, 448 vengiare, 83 vengo, 210, 212, 246; venièno, 216 Veniero Domenico, 432 e n., 433,479,506, 555, 797, 8xo, 847 - Rime, 797, 847 e n. Veniero Francesco, 46a Veniero Lorenzo, SII - Tariffa delle puttane a Ve11ezia (attribuita), srx Veniero Marcantonio, rr63 venire, 221, 232, 256; ve11irlJ, 227; venne, vennero, venni, 221 Ventura A., 43 Venturini G., 508 venuto, 219, 232 veo, 21 r fJtr (per verso), 268 VENEZIANA

210-49; (indicativo presente), 210-6; (imperfetto), 216-7; (passato remoto), 217-24; (pnssnto e trapassato prossimo), 224-5; (trapassato remoto), 225-6; (futuro semplice), 227-8; (futuro anteriore), 240; (imperativo), 228-30, 239; (infinito), 229, 230-2; (condizionale), 233-5, 240; (congiuntivo presente), 237-40; (congiuntivo imperfetto), 234, 235-7; (congiuntivo passato e futuro), 240; (gerundio), 240-2, 24.9 i (impersonale), 243; (passivo), 242-3; (irregolare), 243-6; (riflessivo), 225; (infinito sostantivato), 231; (ausiliare), 224-5, 232

VERBO,

1005-6

VERDE,

Verdizzotti Giovan Mario, 487, 508 Vergerio Pietro Paolo, 37 fJergine, 172 Verino il vecchio, Francesco de' Vieri detto, 857, 877, 942 e n. VERITÀ,

II06, I138, II39

Verlaine P., r3I Verre Gaio, 658 verriJ, 227 Verrocchio (del) Andrea, 9r3 VERSI, 950; (ossitoni, parossitoni, proparossitoni), 144-6; (ossitoni), 199; (rotti), 78, 138, 140-1, 148

verso, 267, 268 veruno, 207 Verzone C., 874 Vespasiano da Bisticci, 928, 929 - Vite di uomini illustri del secolo XV, 928, 987 VESTI,

1077-9

vestigi, vestigia, 177 vest;ta, vestuta, 219 vetro, 150 Vettori Pier, 455, 456 e n., 858, 874 vi (particella pronominale), 192 1 193, zoo, 202, 203; (locativo), 191, 200, 203, 251 ; -vi (locativo), 251 ; (pronome), 192

via, 270, 282-3; tJia fJia, 282 f.Jicino, 256 Vico Enea, 874 Vidas, 74, 75, 77, 451 fJidi, 218 Vidossi G., 96I vie, 283 viemmi, 213; vien, 213, 214; (imperativo), 228; viene, 212, 214; vieni, 212, 213; (imperativo), 228 Viera y Clavijo J., 351 Vicri (dc') Francesco, vedi Verino il vecchio Vigerio Marco, 462 Villani Giovanni, II4 e n., 181 1 194 e n., 204, 224, 244, 246, 248, 249, 264, 26s, 273, .105, 326, 752-3 e nn. Cronica, 48, 70, 80, Il4, x64, I73, 177,

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI r78, 194 e n., 244 e n., 246 e n., 270, 279, 280, 752, 753 I, 32: 264 IV, 15: 264

IV, IV,

86-7: 688 564: 698

Virgilio (personaggio della Commedia di Dante), 359, 753, 995, 996, zora

v, 42: 265

VIRILITÀ,

VI, 21: 277 VII, 99: 181 VIII, 39; 181 IX, 12: 181 IX, 15: 248 IX, 48: 284 IX, 53: 248 IX, 66: 273 IX, 129: 277 IX, 304: 181 IX, 318: 249 X, 72: 249 X, 96: 181 X, 169: 181

virtù, 173

Viltehardouin (de) Geoflroi, 764 Villey P., 503 Vincenzo I, duca di Mantova e del Monferrato, 843 e n. VINO, 920, 1000, 1003, 1008

Virgilio Marone Publio, 8, 2z, 54, 95, 104, 106, 107, u8, z59, r6o, 36I, 415, 424, 425, 427, 428, 431, 48I, 484, 489, -19-1, 495, 496, 594 e n., 595, 596, 597 e n., 600, 612, 630, 645, 663, 688, 691, 693, 698, 699, 712, 713, 714, 718, 740, 741 e n., 74:1, 746, 753, 754, 772, 778, 844 e n., 845 e n., 948, I I90

- Aen., :ro6, 307, 3r9, 359, 494, 495, 554, 6Ir, 633, 645, 69r, 699, 700 e n., 7or, 70S, 712 e n., 7r4, 738, 741, 742, 753 e n., 844 e n., 845, :ro37 I, 159-60: 431

208-9: 700 215-7: 700 371-2: 700 373: 700 541-2: 700 597-8: 700 612•3: 700 618-20: 700 662: 712 849: 741 IX, 599: 701 IX, 617-20: 701 IV, IV, IV, IV, IV, IV, IV, IV, VI, VI,

- Cui., I (Appe,rdi."C Vergi/iana), 698 - Ecl., 7 I -I, 738, 773 e n., 844 I, 6: 698 I, 9-10: 698

- Georg., 106 e n., 4a7, 56I, 69r, 7r4, 7:1:, 738, 844, ro68 I, 123-4: 718

I, 129-30: 717 III, 10: 754 III, 259-60: 712 IV, 3: 714 IV, 6: 714

899, 1061

VIRTÙ, 1125, 1128 VIRTÙ INFORMATIVA, VIRTUOSI, I 107

901

Viscardi A., 74, 768, 96:r Visconti Carlo, 479 Visconti Gaspare, :r 59 vissi, uisso, 219 uisto, 225, 248 904, 906, 997, 1013, 1062; (attiva e contemplativa), 111-2 Vita anonima di P. Bembo, 39 Vitatiani O., 637 Vitello (personaggio della Circe), rz35 Vitruvio Pollione, 168 e n. vitmto, 219 VITA,

VIZI, 1019-20, II25-7, 1133

vo, 243 vo' (per voglio), 211 VOCALI,

131-2

tJogli, 238; voglia, 237, 239; vogliamo, vogliate, 239; voglio, 211, 212, 227; voglio più tosto, 86 voi, 190, 191, 192, 193, 200 vola, 228 volea, 216; volere, 227, 230; wlessate, 237; volesse, 235; volessero, 227; wlusi, 233, 235; fJoleste, 237 VOLGARE (lingua e letteratura), 53, 61 sgg., 71 sgg., II 2-5; (sue origini), 68-70; (atta aJla filosofia), 942 sgg. ; (atta alle scienze), 947 sgg. volgei, volgevi, 217 VOLGO (opinioni del), u36 volle, 222; volli, :u 8 VOLONTÀ,

1067 1 II48 1 ll53•5

Volpati C., 49 volse, 221, 222; volsero, 223; volsi, 218 Volterano Andrea, 46:r vol11to, 232 VOLUTI'À,

1059

vorrebbe, vorrebbo110, 234; vorrei, 233, 234; vorremmo, vorreste, 235; vorresti, vorria, vorriano, 234; vorrl>, 227 vostra merci, 268 Vulcano (Volcano), 301 e n. v11ogli, vuoi, vuoli, 212; vuolsi, vuolvi, 213 VUOTO,

914•9

Weinberg B., XIX, '/7, 93, z5:r, 438, 56:r, 6or, 67 3, 699, 707 Weiss R., 43 Williamson E., 5:rr Winspeare F., 433 Wirtz M., 56

Wolf G., zaos

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Woodhouse J. R., z72 Wotton H., 39

:e,

133, 134

%. 133

Zabarella Gerolamo (interlocutore del Dialoga della istoria), 490. 725 e passim Zaccagnini G., 8:1. zz3. 64z Zacco Bartolomeo, 494, 511, 808 e n .• 825 e n .• 8:17 - Can::onine, 808 - Stori'a di Padova sino alla atinzione dei prina'pi Ca"arm, 808 zafiri. 664i zafiro, 133 Zambaldi F., 50 Zarnbetti A., 505 Zanchi Basilio, 31, 847 Zanchini Giovanni, 874

Zanette E., 50 Zaniboni F., 507, 508. 845 Zelotti Battista, 566 Zeno A., 39, 4:r, 49, 87 5 Zenobia, :rrr:, Ze11obio, 133 Zeppa (Ceppa) di Mino (pcnonaggio del Decameron), 669 e n. Zeus, vedi Giove Zimara Marcantonio. detto l'Otranto, ,17:1, 587, 588

Zipoli Perleone, vedi Lippi Lorenzo Zofar, 701 e n. Zonta G., 5zz, 8rr Zorzi (Giorgio) Bartolomeo, vedi Bartolomeo Zorzi Zorzi Francesco. 336 - De harmonia mundi toti111 cantica tria, 336

Zorzi Ludovico, 6z5

INDICE

PREFAZIONE

IX

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

xv

PIETRO BEMBO

Nota introduttiva

3

PROSE DI MESSER PIETRO BEMBO NELLE QUALI SI RAGIONA DELLA VOLGAR LINGUA SCRITTE AL CARDINALE DE' MEDICI CHE POI FU CREATO A SOMMO PONTEFICE E DETTO PAPA CLEMENTE VII DIVISE IN TRE LIBRI

Di messer Pietro Bembo a Monsignor messer Giulio Cardinale de' Medici della volgar lingua Primo Libro

51

Di messer Pietro Bembo a Mo,,signor messer Giulio Cardinale de' Medici della volgar lingua Secondo Libro

lii

Di messer Pietro Bembo a Monsignor messer Giulio Cardinale de' Medici della volgar lingua Terzo Libro DA « DEGLI ASOLANI DI MESSER PIETRO BEMBO NE' QUALI SI RAGIONA D'AMORE»

Libro Primo Libro Secondo Libro Terzo

Appe11dice: LETTERE

[1]. [n]. [111]. [1v]. [v].

[A Maria Savorgnan]. A' 20 di febraio 1500 [Alla stessa]. A' 7 di marzo 1500 [Alla stessa]. A' 25 d'aprile 1500 [Alla stessa]. A' 30 d'aprile 1500 [Alla stessa]. All'ultimo di giugno 1500

285 317 33S

1272

INDICE

[Alla stessa]. A' 9 d'ngosto 1500 [Alla stessa]. A' 30 d'agosto 1500 [Alla stessa]. A' 5 d'ottobre 1500 [VIII]. [Alla Duchessa di Ferrara]. Alli 3 di giugno 1503 [1x]. A madonna Lucrezia Borgia Duchessa di Ferrara. Alli [x]. 22 d'agosto 1503. In Ostellato [Alla stessa]. A' 5 di gennaio 1504. Di Vinegia [XI]. A messer Bernardo Bibiena, secretario del Cardinal de' [xu]. Medici, a Roma. A' 29 d'agosto 1505. Di Vinegia Al Cardinal di S. Pietro in Vincola, a Roma. A' 7 di gen[XIII]. naio 1506. Di Urbino [XIV]. A Bartolomeo Bembo, a Vinegia. A' 5 di gennaio 1507. Di Urbino A M. Bernardo Bibiena, a Roma. Al primo di settembre [xv]. 1507. Di Urbino A madonna G. A' 3 di febbraio 1508 [XVI]. A M. Vincenzo Quirino, a Vinegia. A' 10 di giugno 1508. [xvn]. Di Urbino [XVIII]. Al signor Giuliano de' Medici, che Magnifico era detto. A' 26 di luglio 1512. Di Roma A Papa Leone, a Roma. A' 15 di dicembre 1514. Di [XIX]. Vinegia [Allo stesso], a Roma. A' 18 cli dicembre 1514. Di Vi. [xx]. neg1a Al Cardinal di S. Maria in Portico, in Rubera. A' 19 d'a[XXI]. prile I s16. Di Roma [Allo stesso], in Francia. Al primo d'ottobre 1519. Di [xxn]. Vinegia [XXIII]. [A Giovan Matteo Bembo]. Di Roma, alli 6 di gennaro 1521 A Papa Clemente VII, a Roma. A' 21 di novembre 1523. [xxiv]. Di Padova A M. Felice Trofimo Arcivescovo teatino, a Palazzo. [xxv]. A' 20 di dicembre 1524. In Roma [xxvi]. A messer Cola, a Padova. A' 14 di settembre 1525. Di Villa [xxvn]. A M. Girolamo Fracastoro fisico, a Verona. A' 26 di novembre 1525. Di Padova [XJMII]. [Allo stesso], a Verona. A' s di gennaio 1526. Di Padova Al Vescovo di Verona, a Roma. A' 24 di ottobre 1526. Di [XXIX]. Padova All'Arcivescovo teatino, a Roma. A' S di dicembre 1526. [xxx]. Di Padova [XJCXI]. Al protonotario De' Rossi, a Padova. A' 16 di aprile 1527. Di Villa [XXXII]. A M. Giovan Matteo Giberti Vescovo di Verona, a Roma. Di Padova, 28 gennaio 1528 [VI]. [vn].

367 369 373 380 382 383 385 387 388 390 391 394 399 401 404 408 410 418

420 421

422 423 426 429 430 43 1 432

INDICE

[xxxn1]. A M. Vettor Soranzo. A' 3 d'ottobre 1528. Di Villa [xxxiv]. A M. Bernardo Tasso secretario della signora Duchessa di Ferrara. A, 27 di maggio 1529. Di Villa, nel Padovano [xxxv]. Al Rannusio, a Vinegia. A' 29 di maggio 1529. Di Villa [XXXVI]. [Allo stesso], a Vinegia. A' 21 di giugno 1529. Di Villa [XXXVII]. A M. Vettor Soranzo, a Bologna. A' 16 di novembre 1529. Di Padova [XXXVIII]. AW Arcivescovo di Salerno, a Pesaro. A' 22 di dicembre 1529. Di Bologna [XXXIX]. A M. Paolo Giovio, Vescovo di Nocera, a Roma. A' 7 d,aprile 1530. Di Padova [XL]. A Papa Clemente, in via, tornando da Bologna a Roma. A' 7 d'aprile 1530. Di Padova [XLI]. Al Vescovo di Nocera, a Roma. A' 15 settembre 1530. Di Padova [XLII]. A M. Antonio Tebaldeo, a Roma. A' 12 di novembre 1530. Di Padova [XLIII]. A madonna Veronica. A, 27 di maggio 1532. Di Padova [XLIV]. Al Rannusio, a Vinegia. Agli otto di marzo 1533. Di Padova [XLV]. A M. Benedetto Varchi, a Firenze. A' 15 di luglio 1535. Di Padova [XLVI]. A M. Trifon Gabriele, a Ronchi. Agli II d'agosto 1535. Di Padova [XLVII]. A M. Antonio Anselmi, a Vinegia. A' 15 di luglio 1538. Di Padova A M. Torquato Bembo mio figliuolo, a Mantova. A' 10 [XLVIII]. di novembre 1538. Di Vinegia [XLIX]. Alla Marchesa di Pescara, a Roma. A' 15 di marzo 1539. Di Vinegia A madonna Lisabetta Quirina. A' 12 di settembre 1539. (L]. Di Padova [LI]. Ad Elena. A' 10 di dicembre 1541. Di Roma [Alla stessa]. A' 10 di giugno 1542. Di Roma [LII]. [LIII]. A madonna Lisabetta Quirino. A' 7 di febraio 1544. Di Ogobbio [uv]. A Torquato Bembo. A' 25 di settembre 1546. Di Roma

1273 436 436 437 441 443 444

447 4S 1

452 452

4S9

SPERONE SPERONI

Nota i1itroduttiva

471

DAI « DIALOGI »

DIALOGO

D'AMORE

SII

1274

INDICE

DELLA DIGNITÀ DELLE DONNE

565

DIALOGO DELLE LINGUE

585

DIALOGO DELLA RETORICA.

Libro Primo

637

DALLA « APOLOGIA DEI DIALOGI »

Parte prima

683

DAL cc DIALOGO DELLA ISTORIA»

Parte seconda

Appendice: LETTERE

[I]. [n]. [III]. [IV].

[v]. [VI].

[vn]. [VIII].

[IX].

A M. Benedetto Ramberti, a Venezia Al medesimo, a Venezia. Di Padova A M. Pietro Aretino, a Venezia. Di Padova del '37 alli 8 di luglio A M. Marsilio Papafava, a Padova. Di Venezia a' 12 di giugno 1550 Alle sue figliole, a Murano. Di Agobbio dì 4 di maggio

785 790

1553

798 799

Alle medesime. Di Roma, dì 13 di giugno 1553 A Lucietta Papafava e a Iulia Sperona, a Vigodarzere. Di 19 di marzo 1557 A lulia Sperona, a Vigodarzere. Di Venezia, il primo di aprile 1557 Alla magn. M. lulia de' Conti, a Padova. Di 18 di agosto 1559

[x]. [x1]. [xn].

A M. Bernardo Tasso, a Venezia. [Di Padova agosto 1559] Alla magn. M. lulia de' Conti, a Padova. Di 22 feb. 1561 Alla madre S. Livia, a Padova. Di Roma, di 19 di aprile

1561 [XIII].

800 801 801 802 804 805

806

Alla sig. Lodovica Papafava, a Padova. Di 28 di giugno

1561 Al sig. Bortolamio Zacco, a Padova. Dl 16 di agosto 1561 [XVI]. Alla magn. M. Iulia de' Conti, a Padova [xvn]. Alla medesima, a Padova [XVIII]. Al molto magn. sig. Alvise Mocenigo, a Venezia. Di 4 di aprile 1562 [XIX]. Al medesimo, a Venezia. Dl I I di aprile 1562 [xv].

795

Alla magn. M. Iulia de' Conti, a Padova. Di 7 di giugno

1561 [XIV].

791

807 808 808 810 811

813

INDICB

1275

[xx].

Alla magn. M. lulia de' Conti, a Padova. Dl 13 di giugno 1562 814 [xxi]. Alla medesima, a Padova. Dl 5 di ottobre 1562 815 [xx11]. Alla medesima, a Padova. Dl 31 di luglio 1563 816 [XXIII]. All'ecc.mo signor mio molto onorato, il signor Agnolo Blasio, a Padova. Di 19 agosto 1564 [xxxv]. Alla magn. M. lulia Sperona de' Conti, a Padova. Dl I 2 de iugno I 574 820 [xxv]. Al rev. padre N. N. 821 [xxvi]. Al clar. sig. Alvise Mocenigo, a Venezia. Di 15 di ottobre 82.2. 1575 [xxvu]. Alla magn. sig. lulia Sperona dei Conti, a Padova. Dl 19 di novembre 1575 [XXVIII]. Alla medesima, a Padova. Dl 3 marzo 1576 [xxix]. Al magn. sig. Bartolomio Zacco, a Padova. Di Roma, dl 19 genaro 1577 82.5 [xxx]. Al medesimo, a Padova 825 [XXXI]. Alla mag. M. Lucietta de' Conti da Porto, a Padova 827 [xxxn]. AN. N., a Fiorenza. Di Padova, a di 15 di settembre nel '79 [xxx111]. Al molto magn. sig. Felice Paciotto, a Pesaro. Di Padova, dì 29 di genn. 1581 [xxxiv]. Al medesimo, a Pesaro. Di Padova, di 19 di maggio 1581 [x.""