La letteratura italiana. Storia e testi. Trattatisti e narratori del Seicento [Vol. 36]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI

VOLUME

36

TRATTATISTI E NARRATORI DEL

SEICENTO A CURA DI

EZIO RAIMONDI

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO• NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIGHTS RESERVED PRINTBD IN ITALY

TRATTATISTI E NARRATORI DEL SEICENTO

INTRODUZIONE NOTA BIBLIOGRAFICA

EMANUELE TESAURO

IX XXIII

3

MATTEO PEREGRINI

IOC)

SFORZA PALLAVICINO

193

SECONDO LANCELLOTTI

265

DANIELLO BARTOLI

317

PAOLO SEGNERI

653

GIOVANNI AMBROSIO MARINI

765

GIROLAMO BRUSONI

833

FRANCESCO FULVIO FRUGONI

897

GIULIO CESARE CROCE

1071

GIAMBATTISTA BASILE

1123

NOTA AI TESTI INDICE

INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

Secolo del genio», come volle definirlo lo Whitehead in rapporto alla stupefacente avventura della nuova scienza, il Seicento è un' epoca che lo storico pub percorrere in più direzioni, con una varietà, un'ampiezza di prospettive, che legittima, si direbbe, l'idea, così corrente tra gli uomini di quel mondo, di vivere in un grande teatro da scoprire, da trasformare «a forza di canapi, d'argani e di taglie» giorno per giorno. Proprio per questo è forse legittimo che, in mancanza di un filo conduttore che si articoli nella storia di un «genere» o nel dialogo delle poetiche e delle scuole, il paesaggio letterario cui introduce il presente volume si configuri piuttosto come una successione di scene, come un gioco di voci e di parti in un trapasso continuo dalle ragioni stilistiche ai temi ideologici, dalle tecniche agli oggetti. E, probabilmente, sarà poi la maniera più opportuna per saggiare, al livello d'una testimonianza tutt'altro che sistematica, i valori di una prosa che integra la tradizione con i presentimenti di un nuovo orizzonte mentale, con la scoperta, tra fantastico e sensuoso, di una realtà umana più complessa, più ambigua e magari sofisticata sino all'assurdo, sino al furore effimero del cattivo gusto.

genera «molt'altri equivoci episodici, avviluppamenti e peripezie meravigliose e istrane, che togliono la fede al vero e la danno al falso » per poi risolversi, alla fine, in una serie di «inaspettate e piacevoli agnizioni». Manca però al Marini - e in genere a tutti i romanzieri italiani della sua età - il genio dello stile, il senso autentico di un linguaggio narrativo. La sua scrittura a placche liriche trapianta moduli ariosteschi e più ancora tassiani negli schemi emblematici del preziosismo contemporaneo senza apporti di inven-

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XVII

zione personale. Ma occorre appunte;> precisare che la novità di questa esperienza romanzesca va ricercata non tanto nell'area della forza stilistica, quanto in quella della tecnica, dell'impianto delle situazioni. La nuova macchina narrativa invita lo scrittore a intersecare i piani dell'avventura, a moltiplicare le linee dell'azione, a svolgere gli episodi nel quadro di un pluralismo prospettico. E anche il mondo che ne vien fuori, dopo tutto, risulta pieno di suggestioni, di temi che, almeno nell'attacco, hanno l'abbandono contemplativo di un'atmosfera lontanamente preromantica: con certe spiagge deserte, rovine di campagne solitarie, notti lunari di fughe e di naufragi, antichissime selve, caverne misteriose, giardini barocchi. Sono i miti sentimentali di un'epoca che ha riscoperto la grandezza dell'avventura cavalleresca: ma mentre la società europea li porta sugli oceani e sui campi di battaglia come misura ideale di uno stile eroico, quella italiana, di cui il Marini è in qualche modo portavoce, li rivive piuttosto nell'aria stagnante di un declino provinciale come simboli di evasione, per le cc anime belle», nello «stupore» patetico. Qualora il termine non fosse improprio e non avesse il torto di proporre un'antitesi cui non corrisponde un effettivo contesto sociale, si potrebbe dire che di fronte all'aristocratico Marini il veneto Brusoni, con la sua trilogia di Glisomiro, è il rappresentante di un romanzo cc borghese». La verità è, su di un piano più modesto, che egli reagisce alla cc favola» di fantasia, sottraendosi, ma fino a un certo punto, alla letteratura delle eleganze concettose, e riconduce il racconto dall'universo fittizio del Calloandro a uno spazio concreto, nel mezzo della vita contemporanea. Lo scrittore è uno che tira via, anche nelle pagine di «bello stile», con un gusto approssimativo e tutt'altro che omogeneo; in compenso però, dispone d'un occhio intelligente, da cronista di mestiere che conosce il mondo per averlo praticato, e ha il dono di cogliere le figure del costume moderno nelle zone ambigue della galanteria e dell'ozio cittadini. Per quanto i personaggi abbiano poca consistenza, a parte, forse, qualche ritratto di précieuse in versione veneziana, il quadro d'ambiente, che va da un matrimonio di sorpresa a un incontro in villa, da un intrigo amoroso a un'avventura di viaggio, da un ritorno a Venezia a un dialogo femminile tra le calli, cresce a poco a poco nel ritmo quasi pigro d'una commedia d'atmosfera, dove, per un istante, si può scoprire la noia dolciastra d'una villeggiatura o la

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gioia stupita d'un mattino autunnale. E intanto la conversazione umanistica degli Asolani s'è trasformata in un discorso d'attualità, in uno scambio d'idee e di giudizi sulla letteratura, sulla morale e soprattutto sulla storia contemporanea: comodo pretesto poi, per il Brusoni, per inserire nella trama romanzesca, tra l'erotismo un po' squallido delle sue novelle libertine, un'erudizione inquieta di gazzettiere uso a percorrere le mappe dell'Europa politica e a registrare i drammi della ragion di Stato. Sfamo ancora lontani, non vi è dubbio, dal romanzo storico; ma le pagine sul Wallenstein, per esempio, costruite sullo sfondo della guerra dei Trent'anni in un contrappunto di silenzio e di furore, tra funebre e pittoresco, paiono un preannuncio, una cauta promessa. Il disperato bisogno d'essere moderno, d'adeguarsi alla moda d'una stagione, così vivo ed urgente per l'intelligenza recettiva di un Brusoni, perde, viceversa, ogni senso nel mondo in cui si muove l'anziano Giulio Cesare Croce. Per l'autore del Bertoldo, infatti, il tempo si confonde con la natura, con la secolare fatica degli uomini per il loro pane quotidiano. L'eroe che entra ora in scena, non è più il «cavaliere» spregiudicato ed elegante, ma il contadino sceso in città, provvisto soltanto d'un umore caparbio e d'un invincibile, cupo buon senso: una specie di Sancio Panza dell'Appennino bolognese, di Socrate paesano, che deve difendere la sua libertà di figlio della terra, facendo appello alla saggezza elementare dei proverbi, agli estri del buffone campagnolo. In una letteratura tradizionalmente aristocratica, incline a interpretare la campagna come un giardino arcadico, l'apparizione di Bertoldo e di Marcolfa introduce l'agrore di una schietta esperienza rurale con un accento di cordialità risentita. Non è il caso di insistere sull'impegno sociale, sulla coscienza di una protesta che termina nel paternalismo : così come conviene non esagerare i meriti artistici di un testo concepito con il piglio simpatico dell'autodidatta, un po' alla maniera di certe stampe popolari in cui, più che di un'invenzione, il linguaggio ha il valore di una testimonianza. Tuttavia questa franca parlata emiliana, colma di immagini rudi e angolose e di bizzarrie modeste ma vive, fissa per sempre il mito del popolano, del montanaro che ha fatto d'una piazza cittadina la sua scuola; mentre lievita in essa una vena di moralismo istintivo che, sotto la maschera di Bertoldino, tra apologhi e storielle animali, sa anche trovare gli accenti di una grazia grottesca, di una satira saporita e bonaria.

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In un colore greve di brulicante affresco barocco, la satira è anche l'ambizione dell'autore del Cane di Diogene. Dopo essersi cimentato nei generi più diversi, dal romanzo devoto alla biografia celebrativa, dal panegirico delirante al racconto storico; dopo aver viaggiato per mezza Europa passando dalle accademie spagnole ai ridotti del demi-monde parigino, immerso sino al collo negli intrighi di una piccola Corte, il Frugoni tenta di fondere le sue esperienze di vagabondo e di lettore in una grande allegoria satirica del proprio secolo con un furore ostinato di sensazioni gigantesche e una scrittura gonfia di forzature e d'ibridismi, di paste acri e di proliferazioni quasi mostruose. La sua lente deformatrice di moralista saturnino esplora l'universo per scoprire un teatro grottesco di fantasmi, di scene assurde, sospeso tra il fascino e la repulsa, il macabro e il giocoso. Non v'è esperienza stilistica del secolo - nel versante, s'intende, della sua cultura allucinata - che lo scrittore non sappia mettere a profitto. Giustapposti o incrociati, si travasano così nel Cane di Diogene la novella picaresca, la miniatura surrealistica nel gusto dei Suenos di Quevedo, la parodia antiscolastica d'impronta rabelaisiana, la bambocciata maccheronica, il romanzo allegorico-politico alla Barclay, il dialogo lucianesco, la diceria paradossale, l'invettiva predicatoria, il colloquio erasmiano, la cronaca di costume, il ragguaglio critico. L'enciclopedia del Frugoni, ultima incarnazione, forse, dell'umanesimo anarchico barocco, non si arresta alle tecniche, ma coinvolge anche le aree linguistiche, poiché contamina con indiscutibile virtuosismo lingua dotta, gergo e dialetto, estendendosi sino al francese e allo spagnolo. A una ricchezza tanto stupefacente di possibilità espressive fa poi riscontro una vena caricaturale che, quando abbandona la grigia atmosfera di un cimitero metafisico, aggredisce la vita contemporanea nelle sue cerimonie e nei suoi manichini con la baldanza lesta e aggressiva di un'acquaforte. Ma è anche vero, infine, che di rado capita al Frugoni di fermarsi a tempo: travolto dalle macchine dell' «ingegno», l'entusiasmo inventivo dilaga quasi sempre nella pedanteria. Nel suo museo di geroglifici dell'umana esistenza, il piacere della collezione opprime nella pinguedine il movimento dell'avventura, e un'aria chiusa, che sa di tanfo e di polvere, avvolge i mascheroni, sgretola le scene e i capricci dei Sette latrati. Ciò che fallisce al Frugoni sul tramonto del secolo, allorché il gusto è oramai attratto da una nuova letteratura, era riuscito, cin-

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quant'anni prima, a Giambattista Basile. Restituendo il grottesco, in un'agile cadenza di opera buffa, alla vita del cuore e all'avventura degli affetti, la favola meridiana del Pentamerone attua come per prodigio quella poetica barocca a cui pensava anche il Tesauro, di convertire il fatto quotidiano in una perenne sorpresa. Con le sue esplosioni d'ardore fantastico, con la sua veemenza effusiva, l'innata letizia del dialetto rinnova i procedimenti inventivi dell'ingegno in una curiosità fertile e pittoresca, in un racconto ricco di colore e di forza vitale, dove il gioco delle metafore si apre, ma filtrato da una remota ironia, a un sorriso popolaresco. La parola del Basile è festosa e veloce persino nell'ingorgo di un'enumerazione; e nasce, anche quando entra nei labirinti dell'illusionismo analogico, dalla gioia del reale, da una rigogliosa esperienza del molteplice. Una folla di personaggi semplici ma immediati invade cosi le terre capricciose della fiaba: contadini, mercanti, popolani, osti, signori, giovinette, zitelle, madri, befane, truffatori, saltimbanchi, soldati, pellegrini, parassiti, straccioni, golosi; a cui si affiancano, con un'aria familiare, più di commedia che di mistero, maghe, orchi, folletti, gatti mammoni e grilli sapienti. Il repertorio umano che il Pentamerone proietta tra le quinte di una città fantasmagorica, non ha però perduto il gusto frizzante della strada, degli incontri quotidiani, dei dialoghi vocianti tra due finestre di quartiere. Ecco perché, dopo Callot, il Basile è forse nel suo secolo il poeta più affettuoso di quell'eterna fiera che è la vita dell'uomo nel suo fluire lento e confuso tra il riso e le lacrime, la speranza e la noia, la miseria e l'illusione. Questa grande commedia dell'arte, gremita di gesti, di grida, di episodi, come una piazza gigantesca spalancata a tutti i moti del cuore, dai toni crepuscolari di un trepido colloquio domestico alla violenza dell'istinto e all'apoteosi dell'accidia, resta nel paesaggio massiccio del barocco italiano come il culmine, la trionfante kermesse di una stagione felice.

* Ma la città turbolenta di Giambattista Basile è anche il paese dove, come scrive qualche decennio più tardi un viaggiatore pieno, si, di preconcetti, ma altrettanto armato d'esperienza e d'acume, i poveri « meurent de faim, meme dans les meilleures années ». La verità è che sull'Italia del Seicento grava l'ombra del declino economico, che contribuisce a frenare o a ritardare la formazione

INTRODUZIONE

XXI

di una classe borghese e mercantile. Mentre dunque la letteratura tenta di trasferire il reale nel teatro fastoso dell' «ingegno» barocco, il mondo di cui essa fa parte si chiude in un processo di ruralizzazione conservatrice che allontana l'Italia dall'Europa e irrigidisce le forze vive della sua società sottosviluppata. Il fervore dell'immaginazione si perde nell'atmosfera immobile di una provincia povera, senza poter trovare nel dialogo quotidiano di una società operosa, economicamente attiva, la misura del concreto, lo stimolo delle cose. Per questo, forse, l'impressione che resta dopo aver seguito i tentativi delle generazioni barocche che pure presero atto della metamorfosi dell'universo, è quella di una giovinezza mancata, di un gusto ridondante di esperimenti e di ricordi, ma incapace di creare una nuova letteratura. Tocca allo storico, tuttavia, allorché egli riguarda i «grands courants d'idées, ces grands flux de sentiments qui, après savoir porté les pères et les aieux, s' enfoncent sous terre, y cheminent dans d'obscurs canaux et reparaissent ensuite, rajeunis, transformés, au temps des fils et des petits-fils », di ricordare che, se la saturazione umanistica della cultura barocca conduce anche dialetticamente a un nuovo classicismo della naturalezza, l'esperienza di una scrittura che mirò a incorporare tutti gli aspetti dell'esistenza sul piano dello stravagante e del caratteristico, apre la strada a quella riconquista del reale a cui il Settecento darà il sostegno di una prima coscienza civile. Una riconquista, per noi Italiani, che dura ancora. EZIO RAIMONDI

NOTA BIBLIOGRAFICA

Una rassegna degli studi critici intorno alla letteratura barocca di cui gli scrittori accolti nel nostro volume, con diversi titoli, fanno parte, non può non aprirsi con la citazione, da un lato, dei volumi fondamentali di BENEDETTO CROCE, Storia della età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1929; Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 19483 ; Nuovi. saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 19491 ; e dall'altra, delle fervide indagini di CARLO CALCATERRA, Controriforma e Seicento, nella silloge Un cinquantennio di studi sulla letteratura italiana (I886-I936). Saggi dedicati a Vittorio Rossi, I, Firenze, Sansoni, 1937, pp. 235-80; Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori, 1941; Il problema del Barocco, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano, Marzorati, 1949, pp. 405-501, oltre alle introduzioni a I lirici del Seicento e dell'Arcadia, Milano-Roma, Rizzoli, 1936. Rispetto alle tesi critiche del Croce e del Calcaterra, il Seicento di ANTONIO BELLONI, Milano, F. Vallardi, 1929, anche nella seconda edizione, appare soltanto un onesto repertorio, chiuso nei limiti di una storiografia senza problemi. Non è compito di questa Nota tracciare una storia, anche sommaria, della cosiddetta 11 questione del Barocco »: il lettore avveduto può consultare, a questo proposito, le informatissime pagine di GIOVANNI GETro, La polemica sul Barocco, in Letteratura e critica nel tempo, Milano, Marzorati, 1954, pp. 131-218, da legare con la suggestiva prefazione dello stesso autore alle Opere scelte di Marino e i Marinisti, Torino, U.T.E.T., 1949; e, più ancora che il pur utile volumetto di GIORGIO SANTANGELO, Il Secentismo, Palermo, Palumbo, 1958, il lucido studio, rivolto però soprattutto alle arti figurative, di HANS TINTELNOT, Zur Gewinnung unserer Barockbegriffe, in Die Kunstformen des Barockzeitalters, Bem, Francke, 1956, pp. 1391, e, per la storia della musica, l'ottimo contributo di LUIGI RoNGA, Un problema culturale di moda: il Barocco e la musica, in L'esperienza storica della musica, Bari, Laterza, 1960, pp. 144-216. Converrà invece segnalare a parte alcune opere recenti, in maggioranza straniere, le quali, pur non essendo di argomento specificamente italiano, interessano anche, per i problemi che coinvolgono, il nostro mondo letterario in rapporto, specialmente, alle nozioni di preziosismo, di barocco metafisico, di gusto manieristico, di illusionismo scenografico, di •civiltà• barocca: WERNER WEISBACH, El ba"oco arte de la Contra"eforma, Madrid, Espaso-Calpe, 1948 per l'intelligente ensayo introduttivo di ENRIQUB LAFUENTB Fmuwu, da confrontare peraltro con lo studio che NIKOLAUS PEvsNER pubblicò, riferendosi alla prima edizione tedesca dell'opera del Weisbach, come Beitrage zur Stilgescliichte des Friih- und Hochbarock, in «Repertorium filr Kunstwissenschaft •, 49 (1928), pp. 225-46; MARCEL RAYMOND, Du baroquisme et de la littérature en France aux XVl1 et XVII' siècles, nel volume miscellaneo La profondeur et le rythme, Grenoble-Paris, Arthaud, 1948, pp. 139-204; e

XXIV

NOTA BIBLIOGRAFICA

dello stesso, Baroque et·renaissance en France, Paris, Corti, 1955; M. M. MAHOOD, Poetry and Humanism, London, Cape, 1950; S. L. BETHBLL, The Cultural Revolution o/ the Seventeenth Century, London, Dobson, 1951 ; ODETTE DE MoURGUES, Metaphysical, Baroque and Précieux Poetry, Oxford, Clarendon Press, 1953; JEAN RoussET, La littérature de l'age baroque en France, Paris, Corti, 19542 ; LucIBN F'EBVRE, De x560 à x66o: la chaine des hommes, nel volume collettaneo, tutto d'altronde da raccomandare, Le préclassicinnefranfais, Paris, Les Cahiers du Sud, 1952, pp. 17-32; ARNoLD HAUSER, Storia sociale dell'arte. 11. Rinascimento, Manierismo, Barocco, traduzione di M. G. Arnaud, Torino, Einaudi, 1956; VICTOR L. TAPIÉ, Baroque et Classicisme, Paris, Plon, 1957, insieme con il saggio-rassegna di PIBRRB FRANCASTEL, Baroque et Classique: une civilisation, in « Annales », XII (1957), pp. 207-22 e con la replica dello stesso TAPI:A, Baroque et Classicinne, ancora nelle «Annales », XIV (1959), che ribadisce la tesi della correlazione tra il gusto barocco e la società a struttura feudale-contadina; ALEJANDRO C10RANF.Scu, El barroco o el descubrimiento del drama, Universidad de la Laguna, 1957; GuSTAV RENÉ HocKE, Die Welt als Labyrinth, Hamburg, Rowohlt, 1957 e Manierismus in der Literatur, Hamburg, Rowohlt, 1959, due volumi, questi, quanto mai suggestivi nella loro fenomenologia «speleologica» del grottesco e dell'abnorme, anche se impongono allo storico riserve di fondo, come ha già notato MARIO PRAZ nella rassegna Maniérinne et Antimaniérisme, in «Critique», 137 (1958), pp. 829-31; RICHARD ALEWYN - KARL SXLZLE, Das grosse Welttheater. Die Epoche der hofischen Festein Dokument und Deutung, Hamburg, Rowohlt, 1959; ERNST BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 19591 1, pp. 412-51, 507-12,. 732-67, II, pp. 821-30, 924-9 1 970-3: si aggiunga infine, per un tentativo di sintesi storica, il libro di CARL J. FRIEDRICH, Das Zeitalter des Barock. Kultur und Staaten Europas im I7. Jahrhundert, Stuttgart, Kohlhammer, 1954, dove però le pagine meno felici sono proprio forse quelle dedicate all'Italia, e il grosso manuale di RoLAND MousNIER, Les XVI• et XVII• siècles, Paris, Presses Universitaires de France, 1954. Anche nella nostra cultura il mondo letterario barocco è oggetto di nuove ricerche, più attente alle strutture storiche e ai problemi del gusto di quanto non accadesse in passato: a parte gli studi di Giovanni Getto, di cui quelli già menzionati rappresentano appena un capitolo, e il volume Marino e i Marinisti, curato per questa collezione da Giuseppe Guido Ferrero, ne fanno fede due pregevoli r.accolte miscellanee: Retorica e Barocco. Atti del 111 Congresso internazionale di studi umanistici, a cura di Enrico Castelli, Milano, Bocca, 1955 (donde segnaleremo le pagine di GIULIO CARLO ARGAN, La «Rettorica» e l'arte barocca, Gumo MoRPURGO TAGLIABUE, Aristotelismo e Barocco, UGO SPIRITO, Barocco e Controriforma, VICTOR L. TAPit, Le Ba,oque et la société de l'Europe moderne, CESARE VAS0LI, Le imprese del Tesauro) e La critica stilistica e il Barocco letterario. Atti del secondo Congresso internazionale di studi italiani, Firenze, Le Monnier, 1957, dove, tra gli altri saggi, saranno da leggere IGNAZIO BALDELLI, Elementi lontani dalla tradizione nel lessico dell' «Adone•, CARMINE JANNACO, Critici del primo Seicento, GAETANO MARIANI, La tecnica dell'analogia nella poetica secentistica e in quella contemporanea, GIANFRANCO FoLENA, La mi-

NOTA BIBLIOGRAFICA

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stione tragicomica e la metamorfosi dello stile nella poetica del Guarini. Un diritto di citazione spetta, poi, alle pagine, chiare e ragionate, di FRANCO CaocB, Le poetiche del Barocco in Italia e a quelle, come sempre fini e civili, di LUCIANO .ANcESCHI, Le poetiche del Barocco ktterario in Europa, nel1'opera collettiva Momenti e problemi di storia dell'estetica, Milano, Marzorati, 1959, 1, rispettivamente pp. 547-75 e 435-546: e poiché il discorso si è, in questo modo, trasferito nell'area delle «poetiche,, occorrerà subito ricordare, per lo sfondo aristotelico in cui si muovono, oltre alle vecchie ricognizioni di G. ZoNTA, Rinascimento, Aristotelismo, Barocco, in « Giorn. stor. d. lett. it. », CIV (1934), pp. 1-63, 185-240, le stimolanti proposte di GALVANO DELLA VoLPB, Poetica del Cinquecento, Bari, Laterza, 1954, che riprendono su un piano di razionalismo critico, o asemantico•, le tesi della cosiddetta scuola neo-aristotelica di Chicago (di cui è da vedere la silloge Critics and Criticism Ancient and Modem, edited with an Introduction by R. S. Crane, The University of Chicago Press, 1952) e l'opera ormai classica di RosEMONDE TUVE, Elizabethan and Metaphysical Imagery, Chicago, The University of Chicago Press, 19571 ; senza dimenticare poi, per ciò che concerne il gusto emblematico che confluisce quasi sempre nelle poetiche dell'analogia secentesca, le ricerche di MARIO PRAZ, Studi sul concettismo, Firenze, Sansoni, 1946 e quelle più recenti di RoSBMARY FREEMAN, English Emblem Books, London, Chatto and Windus, 1948, come pure, per venire a un campo più specifico, F. SECRET, Les jésuites et le Kabbalisme à la Renmssance, in II Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance », xx (1958), pp. 542-55. Vero è che gli scrittori della nostra raccolta non si possono intendere al di fuori di una cultura e di una spiritualità barocche: il lettore che desideri, appunto, inserire anche i testi letterari in questa prospettiva più ampia, farà bene a tener presente studi come quelli di E. M. W. TILLYARD, The Elizabethan World Picture, London, Chatto and Windus, 1958 e HARDIN CRAIG, The Enchanted Glass, Oxford, Blackwell, 19521 , che offrono una descrizione critica della «visione del mondo» secentesca; mentre nell'opera di BASIL WILLEY, The Se'Uenteentli Century Background, London, Chatto and Windus, 1946, potrà seguire, sia pure, ancora, nell'àmbito della cultura inglese, il trapasso dall'allegorismo metafisico al razionalismo scientifico della fine del secolo. Intorno alla tradizione umanistica che è alla base dell'enciclopedismo barocco, possono istruire, integrandosi a vicenda, WBRNER KRAuss, Gracidns Lebenslehre, Frankfurt am Main, Klostermann, 1947, soprattutto per il capitolo finale Das Ende des Humanismus, e, dello stesso, Gesammelte Aufsiitze zur Literatur und Sprachwissenschaft, Frankfurt am Main, Klostermann, x949; FR1TZ ScHALK, Einleitung in die Encyclopiidie der franzosischen Aufkllirung, Milnchen, Hueber, 1936, per le pagine assai acute su Weisheit und Wissenschaft, pp. 66-109; GIUSEPPE ToFFANIN, Storia dell'Umanesimo. 111. Ln fine del Logos, Bologna, Zanichelli, 1950 e, naturalmente, La fine dell'Umanesimo, Torino, Bocca, 1920. La nozione di humaninM dévot, o, come forse pare ora più esatto, di naturalinne théologique, cosi presente anche neJla culturà gesuitica italiana, richiama d'altro canto la grande opera di HENRI BREMOND, Histoire littéraire du sentiment religieux en France. I. L'HumaninM dévot, Paris, Bloud et Gay, 1929, cui fanno oggi da contrap-

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NOTA BIBLIOGRAFICA

punto, e più ancora da correttivo, HENRI BussoN, La pemée Teligieuse fran;aise de ChaTron à Pascal, Paris, Vrin, 1933 e La religion des classiques, Paris, Presses Universitaires de France, 1948; J. DAGENS, Bérulle et Ies origines de la restauration catholique, Bruges, Desclée de Brouwer, 1952; Lou1s CoGNBT, Les on'gines de la spiritualité fran;aise au XVJJe siècle, in « Culture catholique », 4 (1949), pp. 3-105; ma si veda anche, per questo tema, FEDERICO ZERI, Pittura e Controriforma. L'arte senza tempo di Scipione da Gaeta, Torino, Einaudi, 1957. Se i capitoli sulla Controriforma e sul Barocco nella Filosofia, Milano, F. Vallardi, 1947, di EUGENIO GARIN ci esonerano da altre indicazioni di testi filosofici - al massimo ci sia permesso di segnalare, come due poli emblematici, lhNRI GouHIER, La philosophie de Malebranche et son expérience religieuse, Paris, Vrin, 1948 e PAOLO Rossi, Francesco Bacone dalla magia alla scienza, Bari, Laterza, 1957 - è necessario tuttavia portare l'attenzione su alcune opere intorno alla storia delle idee morali, in primo luogo a PAUL BÉNICHOU, Morales du Grand Siècle, Paris, Gallimard, 1948', a HIRAM HAYDN, The Counter-Renaissance, New York, Scribner's Sons, 1950, e a LUCIEN GOLDMAN, Le dieu caché, Paris, Gallimard, 1956, e più ancora su alcune indagini intorno ai rifle~si culturali delle nuove scoperte scientifiche. Pensiamo, per esempio, ai capitoli La première révolution industrielle, La révolution scientifique, Le milieu géographique, La découverte de l'Amérique, di }OHN U. NEF, La naissance de la civilisation industrielle et le monde contemporaine, Paris, Colin, 1954; al volume di M.AJORIE NICOLSON, Science and lmagination, Ithaca, Comell University Press, 1956, che, con ricchezza di materia, esamina appunto l'incidenza sulla sensibilità secentesca della dilatazione visiva conseguita mediante il telescopio e il microscopio; all'esemplare sintesi di ALEXANDRE KoYRÉ, From the Closed World to the Infinitive Universe, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1957; alle intelligenti meditazioni storiografiche di HERBERT BuTTERFIELD, The Origins of Modern Science: IJO~-I8oo, London, Beli, 1957, alle stupende pagine cli RoBBRT LENOBLB, Origines de la pensée scientifique moderne nella HistoiTe de la science, Paris, Gallimard, 1957. Il nome del Lenoble ci ha, insieme, portati a due lavori notevolissimi per la storia della cultura secentesca, REN~ PrNTARD, Le Libertinage érudit dans la première moitié du XVJJe siècle, Paris, Boivin, 1943, e, appunto dello stesso LENOBLE, Mersenne ou la naissance du mécanisme, Paris, Vrin, 1943, per cui si confronti l'acuta rassegna di LucIEN FEBVRE, Aw: origines de l'esprit moderne: Libertinisme, Naturalisme, Mécanisme, ora in Au coeur religieux du XVJe siècle, Paris, Seupen, 1957, pp. 337 sgg. Per l'area italiana si dispone soltanto di GIORGIO SPINI, Ricerca dei libertini. La teoria dell'impostura delle religioni nel Seicento italiano, Editrice Universale di Roma, 1950 (da integrare con le rassegne critiche di VITTORIO DB CAPRARIIS, Libertinage e libertinisme, in «Letterature moderne», n, 1951, pp. 241-61 e di MARIO SACCENTI, Seicento e libertini, in « Il Mulino», 29, 1954, pp. 189-209, e con il saggio di AUGUSTO DEL NoCE, La cn'si libertina e la ragion di Stato, in CTistianesimo e ragion di Stato, Roma-Milano, Bocca, 1953, pp. 35-47): è oramai invecchiato, anche per le pagine sul Seicento, il benemerito GABRIEL MAUGAIN, Étude sur l'évolution intellectuelle de l'ltalie de x657 à

NOTA BIBLIOGRAFICA

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z750 environ, Paris, Hachette, 1909, non meno dell'elegante PAUL HAZARD, La crisi della coscienza europea, a cura di Paolo Serini, Torino, Einaudi, 1948. A questo punto sarà anche tempo di far ritorno ai problemi specifici della prosa secentesca. Se intorno alla lingua del Seicento si debbono leggere le solide pagine di BRUNO MIGLIORINI nella sua Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1960, pp. 429-96 e quelle di GIACOMO DEVOTO nel Profilo di storia linguistica italiana, Firenze, La Nuova Italia, 19541 , pp. 95-100, per le interferenze tra stile letterario e dialetto si possono consultare MARIO SANSONE, Relazioni fra la letteratura italiana e le letterature dialettali, nel volume miscellaneo Letterature comparate, Milano, Marzorati, 1948, pp. 280-1, 288-91, 301-2 e la recentissima nota di LUIGI Russo, La letteratura secentesca e i dialetti, in «Belfagor», xv (1960), pp. 1-8: ma si veda anche, passando alla letteratura militante, il saggio umoroso di CARLO EMILIO GADDA, La battaglia dei topi e delle rane, in e L'illustrazione italiana», 86 (novembre 1959), pp. 49-53, 94, 97. Ma, a dire la verità, non esiste ancora, da noi, un'indagine sistematica sulle forme della prosa barocca, nel genere, per esempio, di un'interpretazione critico-retorica quale quella proposta da GEORGE WILLIAMSON per la prosa inglese in The Senecan Amble, London, Faber and Faber, 1951 o di una esegesi stilistica, sia pure con risultati discutibili, come ha tentato IMBRIE BuFFUM negli Studies in the Baroque /rom Montaigne to Rotrou, New Haven, Yale University Press, 1957. Tuttavia, sebbene vincolati a prospettive particolari, non mancano studi pregevoli e vivi: nella Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1942, n, di FRANCESCO FLORA si incontrano pagine nuove, spesso pittoresche, sulla prosa del paralogico barocco, cosi come osservazioni tecniche assai pertinenti si trovano nel saggio di un giovane studioso, WALTER MORETl'I, Lorenzo Magalotti e il suo secolo, in «Atti dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria" », 1956, pp. 255 sgg.; per la prosa scientifica del Seicento è sempre indispensabile la prefazione di ENRICO FALQUI all'Antologia della prosa scientifica italiana del Seicento, Firenze, Vallecchi, 1943; alla prosa degli scrittori d'arte è rivolta la sottile lettura di FERRUCCIO ULIVI, Galleria di scrittori d'arte, Firenze, Sansoni, 1953; a quella degli oratori sacri introduce, con strenue analisi linguistiche, P. GIOVANNI DA LOCARNO, nel Saggio sullo stile dell'oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul p. Emmanuele Orchi, Roma, lnstitutum Historicum Ord. Fr. Min. Cap., 1954; il problema dello stile senechiano è l'oggetto di un saggio di GIULIO MARZ0T, Seneca scrittore nel Seicento (nelPopera L'ingegno e il genio del Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 1944, pp. 13369), cui sia consentito all'autore della presente raccolta di affiancare un suo capitolo Polemica sulla prosa barocca, da un volume di Studi sulla letteratura del Seicento, di imminente pubblicazione presso l'editore Olschki di Firenze. L'assenza di un romanziere di genio è forse poi una delle ragioni per cui, dopo i vecchi studi dell' Albertazzi, il romanzo italiano del Seicento è rimasto un campo poco frequentato dalla critica: solo da qualche anno pare che si sia riacceso, anche per questo genere, un interesse più consistente e fecondo, penso tra l'altro ai contributi che s'annunciano di Giovanni Getto e di Vittore Branca, sebbene sino ad ora non si possieda nulla che

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NOTA BIBLIOGRAFICA

possa stare alla pari dei capitoli cosi acuti di ANTOINE AnAM nella sua Histoire de la littératurefrançaise au XVJJe siècle, Paris, Domat, 1954 e alla sua recentissima introduzione ai Romanciers du XV//' siècle, Paris, Gallimard, 1958. Al lettore desideroso di conoscere il contesto culturale da cui emerge il romanzo secentesco, raccomanderemo, in ogni caso, il vecchio ma utilissimo HEINRICH KoERTING, Geschichte des franzosischen Romans im XVII. Jahrhundert, Leipzig und Oppeln, Franck, 1885, folto di indicazioni intorno ai rapporti delle esperienze secentesche con il romanzo ellenistico e con il racconto satirico-allegorico, e anche WALTER P ABST, Novellentheorie und Novellendichtung. Zur Geschichte ihrer Antinomie in den romanisèhen Literaturen, Hamburg, De Gruytcr, 1953; quanto agli elementi picareschi che penetrano, per esempio, nel barocco vespertino di un Frugoni, egli potrà consultare ALBERTO DEL MONTE, Itinerario del romanzo picaresco spagnolo, Firenze, Sansoni, 1957 e, su di un piano più propriamente stilistico, LEO SPITZER, Zur Kunst Quevedos in seinem Buscon, in Romanische Stil- und Literaturstudien, Marburg, Elwert, 1931, n, pp. 48125 e AMtR1co CASTRO, Bacia Cervantes, Madrid, Taurus, 1957, soprattutto alle pp. 83-111. Giacché il romanzo, più d'ogni altro genere letterario, chiama in causa la società contemporanea, tanto nelle dimensioni celebrative dell'idealismo eroico quanto in quelle limitative del realismo comico o grottesco, sarà anche logico concludere questa Nota con una rassegna degli studi storici che ci hanno fatto da guida nel nostro lavoro critico. Accanto a ROMOLO QuAZZA, Preponderanza spagnola, Milano, F. Vallardi, 19501 ; a MASSIMO PETROCCHI, La rivoluzione cittadina messinese del I67 4, Firenze, Le Monnier, 1957 (soprattutto per le pagine sulla città italiana nel Seicento); ad ALESSANDRO VISCONTI, L'Italia nell'epoca della Controriforma dal r5I6 al I7I3, Milano, Mondadori, 1958; a VITIORIO DE CAPRARIIS, Il Seicento, nella Storia d'Italia, coordinata da Nino Valeri, Torino, U.T.E.T., 1959, 11, cui andrà ora aggiunto il recentissimo GIORGIO SPINI, Storia dell'età moderna, Roma, Cremonese, 1960, abbiamo il dovere di citare, per comprendere anche i temi della storia economica, AMINTORE FANFANI, Storia del lavoro in Italia, Milano, Giuffrè, 1943, pp. 60 sgg.; GINO LUZZATIO, Storia economica dell'età moderna e contemporanea, Padova, Cedam, 1955, I, pp. 87 sgg.; LUIGI BuLFERETII, L'oro, la terra e la società, in «Archivio storico lombardo•, LXXX (1954), pp. 5-66; CARLO M. CIPOLLA, Il declino economico dell'Italia, nella Storia dell'economia italiana, Torino, Edizioni Scientifiche Einaudi, 1959, I, pp. 605-23 (e anche le pp. 19-21 dell'introduzione); F. BRAUDEL - P. JEANNIN - J. MEUVRET - R. ROMANO, Le déclin de Venise au XVI/' siècle, nel volume miscellaneo Les aspects internationaux du déclin économique de Venise, Venezia, Fondazione G. Cini, in corso di pubblicazione. Ci introduce infine nel mezzo del costume secentesco il bel volume di FAUSTO NICOLINI, Aspetti della fJita italo-spagnuola nel Cinque e Seicento, Napoli, Guida, 1934, soprattutto alle pp. 243 sgg., dedicate al touriste Bumet, cui appartiene, appunto, la frase citata nella nostra Introduzione; e al Nicolini piace di giustapporre, nel mondo del gusto e della sensibilità figurativa, HENRI FocILLON, Giovanni Battista Piranesi, Paris, RenouardLaurens, 19281 : un nome che vorremmo ancora ricordare per lo splen-

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dido saggio Jacques Callot ou le microcosme, in De Callot à Lautrec. Perspectives de l'Art fran;ais, Paria, La Bibliothèque des Arts, 1957, quasi in omaggio a quel Callot narratore che fu il nostro Basile.

* Resterebbe da parlare, ora, dei criteri che hanno ispirato la nostra raccolta; ma il lettore avveduto potrà giudicare da sé, una volta che abbia scorso, accettando l'itinerario proposto nell'Introduzione, tutto il volume. Sarà invece più opportuno avvertire che i testi riprodotti sono stati liberati da tutti gli incidenti grafici che troppo spesso turbano le stampe secentesche: si sono conservate soltanto certe oscillazioni e certi fatti singolari, troppo tipici di quella selva culturale che fu il Seicento, perché si dovessero escludere da un quadro, dopo tutto, di testimonianze.

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Il conte Emanuele Tesauro nacque a Torino nel gennaio del 1592, settimo rampollo di un'illustre famiglia piemontese. Come cadetto, dopo aver seguito i primi studi nel collegio dei gesuiti, fini coli' entrare diciannovenne nella Compagnia, per il periodo di noviziato. Al termine dei cinque anni richiesti per gli studi di grammatica dovette recarsi a Milano, dove fu adoprato come insegnante di retorica ali' Accademia di Brera per un triennio, con l'obbligo, coritemporaneamente, di compiere il corso superiore di filosofia. Nel 1619 egli passò a Cremona per tenere, ancora, una cattedra di retorica, e nella sua veste di praeceptor pronunciò per l'Accademia dei Musanti la Gigantomachia e l'Oratio in qua probatur Academiam Cremonensem Animosorum esse verissimum H erculis templum, due esercizi giovanili di eloquenza nel gusto della scuola letteraria gesuitica. La stessa impronta si rivelava anche negli encomi e nelle epigrafi che il Tesauro aveva cominciato a dettare, e soprattutto nell' Hermenegildus, una tipica tragedia devota, recitata a Milano nel 1621, che fu stampata nella redazione italiana solo più tardi, nel 1661, insieme con l'Edippo e l'Ippolito, due liberi adattamenti da Seneca. Durante i quattro anni degli studi di teologia il Tesauro fece, tra l'altro, un viaggio a Napoli, dove nel '22 disse in latino un panegirico per le esequie di un religioso, fermandosi poi per qualche tempo, al ritorno, a Roma; ma dal 1624, allorché gli venne concessa la facoltà di predicare, era di nuovo a Milano, che rimase sino al I 630 la sua residenza ufficiale nonostante le frequenti puntate a Torino e altrove. Appartengono a questo periodo i primi panegirici sacri: J mostri, La mag11ificenza, Il comentan·o, La Margherita, La fuga mttoriosa, declamati a Torino tra il 1626 e il 1628; e L'apostolo delle Indie, La nutrice, Il presagio, letti a Milano nel 1629, come il Giudù:z"o, che è però del '25. È quasi certo inoltre che egli cominciasse in quegli stessi anni a stendere non solo le pagine minori sull'Arte delle lettere missive, che rimasero inedite tra le sue carte sino al 1674, ma anche un trattato latino dell'arte dell'argutezza, perché nel capitolo primo del Cannocchiale aristoteli"co è detto che il e< volume» d'« inchiesta» su ciò che sarebbe poi divenuta l'« Idea dell'arguta e ingegnosa elocuzione» fu composto da uno scrittore «ancor assai giovine». Il notevole prestigio che l'attività oratoria assicurò al Tesauro

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fece sì che fosse eletto predicatore della duchessa Cristina alla Corte sabauda. Ma già da qualche an,no s'era legato soprattutto alla famiglia del principe Tomaso di Carignano, dopo aver forse anche condotto a termine, nel corso dei suoi viaggi tra Piemonte e Lombardia, alcune missioni diplomatiche. Ormai egli poteva considerarsi la personalità letteraria più rappresentativa del mondo torinese, e spettava quindi a lui di celebrare i grandi avvenimenti della vita di Corte: la pace di Cherasco nel panegirico La Pace, il Natale del 1631 nell'Oroscopo, il Giovedì santo dello stesso anno nell' Esorcismo e poi nella Viltà maestosa, la nascita del primogenito di Vittorio Amedeo I nella Fenice. Con tutto ciò l'ambiente non si presentava facile neppure per lui: proprio mentre raccoglieva in volume i Panegirici sacri, nel 1633, un libello erudito del padre Monod, che era il confessore di madama Cristina, lo coinvolgeva in una polemica quanto mai aspra, che lo convinse un anno dopo, quando intervennero anche complicazioni d'ordine politico, a uscire dalla Compagnia, pur restando prete secolare, per raggiungere in seguito il principe Tomaso, ormai in aperto dissidio con la duchessa Cristina, nelle Fiandre. Nel 1635 il Tesauro si trovava appunto a Bruxelles, dove pronunciò un panegirico, l'Aurora, avendo modo per di più di ristampare a Colonia la sua risposta al Monod con il titolo definitivo di V ergine trionfante e Capricorno scornato. I sette anni al seguito del Carignano, prima nelle Fiandre e poi in Piemonte, in piena guerra civile, oltre ad allargare le esperienze del letterato trasformandolo anche in diplomatico, il quale scese per esempio in Italia, nel '37, alla morte di Vittorio Amedeo I, portarono l'abate gentiluomo alla storiografia militante e alla pubblicistica di parte, perché, per difendere la linea politica del principe Tomaso, egli compose via via il Sant'Omero assediato dai Francesi e liberato dal principe Francesco Tomaso di Savoia (1639), i Campeggiamenti overo 1.'storie del Piemonte (1643-1645), i Campeggiamenti di Fiandre (1646), cui si aggiunsero nel 1673, con la ristampa di tutta l'opera intorno al Carignano, l'Origine delle guerre civili del Piemonte e alcuni scritti polemici di replica al Capriata e al Siri. Allorché la duchessa Cristina e i principi cognati si rappacificarono nel 1642, il Tesauro, che era anche lui ritornato in patria, non riprese l'ufficio di predicatore a Corte, per quanto divenisse cavaliere di gran croce dei santi Maurizio e Lazzaro: assunse invece

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l'incarico di precettore presso i Carignano, in modo, tra l'altro, da poter attendere finalmente alla sistemazione del suo Cannocchiale, che fu però steso tutto d'un fiato nel 1654. Se si toglie un volume di elogi latini sui Patriarchi, il Tesauro tacque come oratore per oltre un decennio: soltanto nel 1653 salì di nuovo sul pulpito per tenere 'ijn ragionamento sacro su Le due croci., seguitando a predicare negli anni successivi con Il forte armato, La simpatia, L'eroe, Il ci,/i,ndro, Lo spettacolo, Il diamante, e La tragedia - quest'ultima per la morte di madama Cristina nel I 664 - che poi raccolse per buona parte nell'edizione in tre volumi dei suoi Panegin"ci.. L'autorità dell'erudito, il quale aveva anche licenziato nel 16571658 una Istoria della venerabilissima compagnia della fede catolica sotto l'invocazfone di S. Paolo e un'epitome Del Regno d'Italia sotto i Barbari, nel 1664, s'era intanto così rafforzata, che nel '66 il Municipio di Torino approvò il progetto di un'edizione di tutte le sue opere e conferì al Tesauro il compito di scrivere una storia della città, alla quale egli attese però solo parzialmente. Tra il 1669 e il 1674 cominciarono così ad apparire, per l'editore Zavatta, i sontuosi volumi dcli' opera omnia, tra cui bisogna soprattutto ricordare la ristampa, finalmente sotto il controllo dell'autore, del Can1ioccliiale aristotelico. Il conte abate, che alcuni anni prima un ammiratore, il Frugoni, aveva visto a succhioso e roseo al volto maestevole e affabile», stava nel frattempo invecchiando; ma aveva ancora l'entusiasmo e la forza necessari per accettare di sovraintendere all'educazione del principe, il futuro Vittorio Amedeo II, e per scrivere in suo onore, con l'eleganza lucida e ferma della sua «saggezza quasi ottuagenaria», l'ultima delle sue opere, la Filosofia morale. A chi l'incontrava, specialmente a coloro che venivano dallo studio delle scienze esatte, il 'resauro faceva ora l'impressione di un sopravvissuto che ignorava i «libri moderni», anche se discorreva del Galilei e si dichiarava « inclinato al sistema copernicano ». E in parte era vero. Ma l'uomo che nella Filosofia osservava che solo cc l'intelletto tranquillo» può ricevere « più chiare l'imagini delle sublimi contemplazioni, nella guisa che il limpido e tranquillo fiume riceve assai più chiare l'imagini delle stelle che in lui si specchiano», si preparava soprattutto alla morte, con l'onesta letizia di chi aveva vissuto la letteratura come una scuola di «civile giocosità». Quando il cavaliere Emanuele Tesauro venne meno all'improvviso, il 26 febbraio 1675,

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poteva prendere congedo dalla vita senza rimpianti: con quegli (( occhi più tosto lieti che mesti, ma non ridenti>>,• che aveva attribuito, pensando forse anche a se stesso, all'uomo di «ingegno faceto».

* L'analisi più ricca e più sicura intorno alla vita e alla carriera letteraria di Emanuele Tesauro è offerta dal saggio di LUIGI VIGLIANI, Emanuele Tesauro e la sua opera storiografica, in Fonti e studi di storia fossanese, « R. Deputazione subalpina di storia patria», CLXIII (1936), pp. 205-77. Quanto al posto che il Tesauro occupa nella storia delle poetiche barocche, sono da vedere prima di tutto le pagine sempre importanti di BENEDETTO CROCE, I trattatisti italiani del Concettismo e Baltasar Gracidn (del 1899), ora in Problemi di estetica e contributi alla storia dell-' estetica italiana, Bari, Laterza, 1954S, pp. 318-21; J predicatori italiani del Seicento e il gusto spagnuolo, ora in Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 19483, pp. 15965; Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 19417, p. 207; Storia della età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1929, pp. 188-9. Non aggiunge molto ai risultati del Croce Ciao TRABALZA, La critica letteraria nel Rinascimento, Milano, F. Vallardi, 1915, pp. 299-303. In questi ultimi anni l'interesse per il Tesauro si è fatto più acuto: stanno a dimostrarlo, oltre al saggio di GIULIO MARZOT, Teorici secenteschi del concettismo, nel volume L'ingegno e il genio del Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 1944, e alle pagine di EUGENIO GARIN, in La filosofia, Milano, F. Vallardi, 1947, 11, pp. 241-3, gli studi di JosEPH ANTHONY MAZZEO, Metaphysical Poetry and the Poetic of Correspondence, nel «Journal of the History of Ideas », xiv (1953), pp. 221-34; SAMUEL LP.SLIE BETHELL, Gracidn, Tesauro and the Nature of Metaphysical Wit, nella «Northern Miscellany of Literary Criticism», Manchester, autunno 1953, pp. 19-40; GIOVANNI Pozzi, Note prelusive allo stile del Cannocchiale, in «Paragone•, IV (1953) 1 pp. 25-39 (e ancora, dello stesso autore, gli accenni sparsi nel Saggio sullo stile dell'oratoria sacra nel Seicento .esemplificata sul p. Emmanuele Orchi, Roma, Institutum historicum Ord. fr. Min. Cap~, 1954); L. MENAPACE BRISCA, L'arguta et ingegnosa elocuzione, in « Acvum », xxvn ( 1954), pp. 45-60; GUIDO MORPURGO TAGLIABUE, Aristotelismo e Barocco, e CESARE V ASOLI, Le imprese del Tesauro, nella miscellanea Retorica 6 Barocco, Milano, Bocca, 1955, rispettivamente pp. 119-95 e 243--9; Ezio RAIMONDl, lngegnoemetaforanellapoetica del Tesauro, in« Il Verri•, Il (1958), pp.53-75, e Grammatica e retorica nel pensiero del Tesauro, in a Lingua nostra», xix (1958), pp. 34-9; FRANCO CROCE, Le poetiche del Barocco in Italia, nel volume miscellaneo Momenti e problemi di storia dell'estetica, Milano, Marzorati, 1959, 11 pp. 562-9; CARMINE JANNACO, Tradizione e innovamento nelle poetiche dell'età barocca, in «Convivium», N. S., XXVII (1959), fase. VI. Né andranno dimenticate le osservazioni, sia pure inserite in prospettive d'altro ambito culturale, che si possono leggere in }EAN RoussET, La littlrature de l'tige baroque en France. Circl et le Paon, Paris, Corti, 1954,

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e in GusTAV RENt HocKE, Die Welt als Labyrinth. Manier und Manie in

der europiiisclien Kunst, Hamburg, Rowohlt, 1957, e Manierismus in der Literatur, Hamburg, Rowohlt, 1959. Per il testo del Giudicio abbiamo seguito, affinché il discorso si presentasse, anche cronologicamente, come un'introduzione al Cannocchiale, la prima stampa, vale a dire i Panegirici sacri del molto reverendo padre EMANl.TRLE TESAURO, Torino, Eredi di G. D. Tarino, 1633. Per il Cannocchiale aristotelico, invece, non si può che riprodurre l'edizione Zavatta del 1670 (Il cannocchiale aristotelico, o sia Idea dell'arguta e ingegnosa elocuzione che serve a tutta l'arte oratoria, lapidaria e simbolica esaminata co' principii del divino Aristotele dal conte e cavalier gran croce d. Emanuele Tesauro patrizio torinese. Quinta impressione), in quanto essa offre il testo definitivo dell'opera cosi come volle fissarlo il Tesauro dopo tante o: ristampe italiane e straniere» uscite senza il suo beneplacito con «scorrezioni » - secondo quanto egli segnala nella lettera di dedica ai «sindici e conseglieri dell'augusta città di Torino» - d'ogni genere. Anche l'edizione romana del 1664, per fare un esempio, procurata dallo Halle e presentata come II quarte impressione», non è da giudicarsi soddisfacente, perché condotta sull'ultima impressione del Baglioni, che lo stesso Tesauro definiva, scrivendo all'editore a testo stampato, « tutta lorda e piena d'errori ». L'edizione più antica del Cannocchial,e, nella stesura meno ampia, priva tra l'altro dei trattati dei concetti predicabili e degli emblemi, è quella veneziana del Baglioni, nel 1655, dedicata al cardinale Maurizio di Savoia, La tradizione accenna anche a una stampa torinese del 16 54; ma poiché non se ne conosce alcun esemplare, è assai probabile che si tratti di una noti .. . . zia spuna.

IL GIUDICIO

Discorso academico. Chi troppo corre al promettere, inciampa nello eseguire: e io, che troppo frettolosamente obligai la parola di dare il mio giudicio intorno alla trionfale eloquenza di questi due vangelici oratori 1 ( come imposto mi avete), ho trovata sì difficile la esecuzione come mi parve agevole la promessa. lmperciò che, se fin nelle arti vulgari bassi a cercar parere da non vulgari in quell'arte, né ad Ettore parve bello il vanto militare se non di bocca di Priamo, 2 nella milizia lodatissimo, sarei ben povero di giudicio nel farmi giudice di quell'arte che, quanto è superiore alle altre, tanto si rende inferiore il mio ingegno, e di due personaggi che con la felicità della sua lingua hanno fatte infelici le lingue altrui. Sovviemmi che Alessandro, perché meglio s'intendea delle spade che de' pennelli, volendo recar sentenza fra due ritratti, fece dar nelle risa i pestacolori di Apelle :3 e io non sarò schernito da' saggi, se ardisco frammettere il mio voto a due perfettissime idee, che han trapassati i termini della opinione e prescritte le mete ai giudicii? Non ho io da temere che mi si avventi Anacarsi con quell'acuto apoftemma ch'ei lanciò contro de' Greci: cc oratores apud vos sapientissimi, iudices stulti »?4 Per queste ragioni, signori, erami caduto in pensiere di seguir chetamente la fantasia di certo Buna ateniese, 5 che, eletto arbitradore fra' Calcedonesi ed Elei, pesando or quinci or quindi le allegate ragioni, per tanti anni portò avanti la sentenza, che i piatitori6 si dimenticarono della lite. Ma un'altra considerazione mi ha fatto cambiar parere: ed ella è che non v'è arte alcuna della quale più facilmente si possa da chi che sia recar censura, che questa della eloquenza: perché dove le altre rifiutano il giudicio degl'ignoranti, questa sdegna il giudicio· de, saggi. L,anziano della eloquenza latina, nella contesa fra Demostene ed Eschine,7 prende i suffragi non dalle toghe delr Areopago, ma dalle più fracide palandrane del Pireo ;8 e il padre Ennio, per inquesti ••• oratori: vedi p. 18 e le note s e 6. :i. né ad Ettore ••• Pn"amo: cfr. il frammento tragico di Nevio citato da Cicerone, Ad fam., xv, 5, I; Tusc., 1v, 31, 67. 3. Alessandro .•. Ape/le: per Jtaneddoto si veda Plinio, Nat. hist., xx.xv, 10, 85-6. 4. Cfr. Plutarco, Sol., 5, 81 («presso di voi gli oratori sono sapientissimi, i giudici stolti»). 5. Buna ateniese: cfr. Pseudo Plutarco, Prov. Alexandrin., 23. 6. piatitori: contendenti. 7. nella contesa • .• Eschine: cfr. Cicerone, Or.• s. 26-7. 8. non dalle toghe· • .• Pireo: non dagli uomini colti, ma dai plebei del porto. 1.

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grandir la facondia di Cetego, 1 potendo citar l'autorità del fior di Campidoglio, ne raccoglie i voti della ciurmaglia di campo vaccino :2 dictus ollis popularibus olim flos delibatus populi,· madaeque medulla.3

E veramente, se rintrinseco fine della oratoria, come imparai da quel buon vecchio di Stagira,4 si prende dagli uditori, e non dai pochi, ma dalla moltitudine, che suol essere un corpo eterogeneo di mille teste più scervellate di quella che trovò il lupo di Andrea Alciati, 5 non saranno quegli stessi i giudici dell'oratore, che son gli oggetti dell'orazione? Non vedete voi che sovente accertano meglio nelle udienze certi predicatori empirici, che dalla sperienza de' popolari sintomi si formano gli aforismi del dire, che altri metodici o razionali, i quali giorno e notte squadernano il Demetrio del Panigarola6 per attignerne artificiosi precetti ? Misera e incerta fortuna degli oratori, che han per teatro un mare ondeggiante senza costanza, per giudice un corpo mostruoso senza giudicio, per premio una voce confusa senza certezza. Risolvomi adunque, per isdebitarmi una volta, di arbitrare7 ancor io sopra le due proposte che fatte mi avete: l'una, in che consista la diversità di questi due sagri dicitori; l'altra, qual delle due maniere mi sembri la migliore; ricercando dell'una e dell'altra quistione, che pure è una sola, da più alto luogo la comune e viva sorgente. I parti della eloquenza non son come quei di Leda8 così uniformi di viso e di colore, che non pur dalla madre si distinguevano: In utroque relucet f rater utroque soro,,· similis color ajJuit illis.9

Ma come quei di Niobe, di fattezze diversi, ma simili di bellezza: Unaque dissimiles ornabat gratia vultus. 10

M. Cornelio Cetego, ilprimooratoreromano; cfr. Cicerone, Brut., 15, 57. campo vaccino: come dire foro boario, mercato. 3. Cfr. Cicerone, Brut., 15, 58-9 («fu detto da quei cittadini allora il più bel fiore della città; e quintessenza della persuasione 11). 4. buon vecchio di Stagira: Aristotele; cfr. Rhet., n, 1, 1377 b, 21. 5. lupo di Andrea Alciati: uno degli emblemi, il 66, raccolti dall' Alciato nei suoi Emblemata. 6. Demetrio del Panigarola: è Il predicatore, ossia parafrasi e commento intorno al libro dell'eloquenza di Demetrio Falereo di Francesco Panigarola. 7. arbitrare: sentenziare da arbitro. 8. quei di Leda: Castore e Polluce. 9. 1 In entrambi riluce il fratello, la sorella: ebbero quelli simile colore.• 10. « E una sola grazia adornava i volti diversi. » I.

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IL GIUDICIO

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Che se la poesia partorisce molte figliuole di vario aspetto ma non di varia gentilezza, la tragedia, la comedia, l'epica, la ditirambica, ancor la oratoria, sorella di lei, diversi generi di componimenti ma tutti vaghi ugualmente produce. Tullio, vostro maestro, v'insegna una sola esser la idea del ben dire, e tutte I' altre tanto men belle quanto più dissimiglievoli sono da quella ;1 ma, con vostra pace, il maestro di Tullio2 gli dà un'ammenda, dicendo tanti generi delle orazioni al pari perfettissime ritrovarsi, quanti generi di ascoltatori si ritrovano, dividendo gli ascoltatori in due classi, cioè ingegnosi e popolari. Quinci nel gran cimento di Apolline con Marsia3 fingonsi giudici Minerva e Mida :4 Minerva, per la finezza dell'ingegno, simulacro de' saggi; Mida, per gli orecchi animaleschi, simbolo de' più semplici. Sonci ancor de' mezzani, che a guisa di uccelli anfibi non tanto giacciono a terra che non svolazzino alquanto; ma questi, nelle publiche udienze stancati dal rapido corso dell'orazione, ricadono fra la turba. Anzi, se bene in una calca di popolo alcuni acuti e sollevati spiriti si trovassero, non deesi cangiar lo stile più che se tutti fossero d'una impronta, se però verso questi non fosse la orazione indrizzata. Or come nell'arte della pittura s'insegnano due maniere, ambe degnissime di gloria uguale, ben che diversissime di talento: l'una di imaginar corpi con tratti gagliardi e grosso colorito, che vicini paiono un imbratto di tele, ma lontani han forza e vita; l'altra di finir con dilicatezza ogni coserella a punta di pennello, come le miniature che chiamano l'occhio vicino; cosi due sono i generi principali del favellare: l'uno si proporziona agl'intelletti di acuta vista, l'altro a quei del popolo, che mirano debolmente e come di lontano. « Quanto maior populus sit, » dice il mio maestro «tanto longius spectat».5 Il primo genere si chiamò dal medesimo esquisito, il secondo concertativo; quello ai libri, questo alla viva voce si adatta; quello ali' epica, questo alla scenica si paragona; quello è, come le saette, sottile e pungente, questo, come le bombarde, strepitoso e infiammato; quello fu proprio di Ulisse, questo di Nestore; quello in Tucidide e Quintiliano, questo in Demostene e Cicerone risplende; quello attico e salso, questo asiatico e dolce. Quello nelle academiche declamai. T11llio . •• da quella: cfr. Cicerone, Or., 3, 9 sgg. 2,. il maestro di Tullio: il Tesauro pensa ad Aristotele. Cfr. Rhet., 111, 12, 1414a, 11-4. 3. cimento ... Marna: il satiro Marsia aveva sfidato Apollo nella musica: vinto, venne scorticato. 4. Mida: il mitico re della Frigia. 5. Aristotele, Rhet., 111, 12., 1414a, 9-10 (•Quanto maggiore è la folla, tanto più di lontano guarda»).

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zioni, questo nelle forensi ringhiere meravigliosamente trionfa. Quinci un di questi due generi, portato nel teatro dell'altro genere, non ha più grazia. Avendo gli Ateniesi fatto scolpire a gara il capo di Minerva da Fidia e Alcamene per collocarlo in luogo eccelso, poiché furono portate ambe le teste sotto gli occhi de' giudici, risero tutti di quella di Fidia, che non pareva più che grossamente abbozzata, e sommamente ammirarono quella di Alcamene, che avea tutti i lineamenti diligentemente finiti. Ma Fidia, che avea l'intelletto più aguto che lo scarpello, pregò che fossero situate nella sua distanza sopra due colonne eminenti; e allora la sua, ridotta per la lontananza alla dovuta proporzione, parve bellissima, e quella di Alcamene parve una palla mal tonda. 1 Fate pensiero, signori, che tanto avviene in quest'arte. Voi leggerete un componimento esquisitissimo alla moderna. Ogni clausola è una sentenza e ogni sentenza porta sotto il suo stiletto ;2 ogni forma del dire ha il suo lume e ogni lume riguarda l'altro per isquadro; ogni aggiunto 3 è un concetto in quinta essenza e ogni concetto spiega più che non dice o dice più che non suona: niuna parola in somma entra per l'occhio, che non passi sotto l'arco trionfale del ciglio ammiratore. Con che applauso si rilegge ogni periodo e si atteggia di stupore! Chi non direbbe che questa sia la favella degli angioli? Ma fate che un predicatore parli al popolo in questo linguaggio: gli uditori non son più uditori; parrà che abbiano mangiato lattuga,4 ronferan più forte che il predicatore non parla. Questa era la esquisita scultura di Alcamene: vicino è bellissima, ma da lunge smarrisce la sua bellezza. « Quanto maior populus sit, tanto longius spectat, » dice il mio vecchio « qua propter quae exquisita sunt peiora videntur ».5 Per contrario quell'altro genere concertativo e popolare, portato innanzi a un intelletto veloce e pronto, parrebbe un vano cicalar di anfanatori. Di questo caratto erano gli Spartani,6 teste asciutte e perspicaci; che, avendo udita una bella orazione degli ambasciadori 1. Avendo ••• tonda: per l'episodio è da vedere, costituendone l'unica fonte, Tzetzes, Chi/., VIII, 353. Il Tesauro riespone l'episodio nella Filosofia morale (Venezia, Pezzana, 1719, p. 216). 2. stiletto: punta, acume. 3. aggiunto: epiteto. 4. La lattuga è considerata una specie di tranquillante: tale dunque da facilitare il sonno. 5. Vedi la nota 6 a p. 11 («perciò le cose che sono più squisite paiono più brutte•). 6. caratto: lega, tempra; gli Spartani: famosi per la loro sobrietà di parola: donde il nostro II laconico », essendo appunto gli Spartani abitanti della Laconia.

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ateniesi nel loro stile, risposero che quella diceria dalla metà in sù era loro uscita di mente e dalla metà in giù non era entrata nelle lor menti ;1 volendo inferire che a buoni intenditori poche parole bastavano. E non si trovarono ingegni cosi svogliati che morta e snervata, come dice Tacito nel suo dialogo2 (se pur non è Quintiliano) giudicarono la tulliana facondia? Bisognava orar3 a costoro come gli ambasciadori asiatici a' Lacedemoni; che, volendo chieder soccorso di vettovaglie, p~r farla più breve, mostrarono loro il paniere senza parlare. E questa è la ragione perché le prediche di monsignor Panigarola,4 che dal pergamo destavano tanti applausi, or che si leggono a sangue freddo, non paion quelle; né altro stupqr cagionano, se non che cagionassero tanti stupori; e dall'altra parte i componimenti che a leggersi pascono l'occhio non empiono l'orecchio di chi gli ascolta da' pulpiti. « Cum conferuntur, historici quidem in certaminibus angusti »:5 intende il mio maestro per lo stile istorico il genere esquisito. « Oratores autem boni, cum leguntur, agrestes videntur; causa vero est quoniam certamini congruunt. »6 Lasciato adunque da parte il primo genere per le stampe o per le udienze di pochi e ingegnosi, come sono le academie o consistori,7 solo il genere concertativo è atto e condizionato alle prediche, avendo per fine il muover la moltitudine piacevolmente insegnando. Ma questo ancora si divide in due. Perché, sì come due stili si costumavano nella musica, il diatonico,8 tutto grave, e il cromatico,9 tutto dolce, ambi nel suo genere perfettissimi, così in due stili ugualmente perfetti e copiosissimi si può favellare alla moltitudine. L'uno, maestoso e grave, che signoreggia negli animi come un prencipe di sagra porpora e di venerabili insegne circondato. L'altro, famigliare e piacevole, che a guisa di un affabile amico e nostro uguale le cure mordacissime dall'animo, favellando, ne divelle. Il primo sostiene il suo decoro spirando maestà in ogni parte. Maestà nella tema; concetti gravissimi, radi, ma ben vestiti; auche avendo ... menti: Paneddoto (ambasceria samia e non ateniese) presso Plutarco, Apopht. Lac., 232c, 1. 2. nel suo dialogo: cfr. Dial. de orat., 18, 5-6. 3. orar: parlare. 4. Francesco Panigarola (1548-1594), uno dei maestri dell'eloquenza sacra nella seconda metà del Cinquecento (e cfr. la nota 6 a p. 10). 5. Aristotele, Rhet., 111, 12, 1413 h, 15 («Se si mettono a confronto, gli storici nei dibattiti riescono scarsi»). 6. Cfr. Aristotele, Rhet., ibid. (« I buoni oratori, quando si leggono, paiono grossolani; la ragione è perché essi vanno bene per la disputa»). 7. consistori: qui per adunanze elevate. 8. diatonico: per toni. 9. cromatico: per semitoni. 1.

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torità pesanti ed efficaci; costumi compostissimi e graziosamente severi; affetti or soavi ed or gagliardi; ragioni sode e convincenti; acrimonia nel pugnere, ma temperata col sale. Maestà nelle forme; parole armoniose e sonore, periodo rotonda e ben cadente, or di allegorie or d'iperboli adorna, e di metafore, come di lucidissime gemme nelle falde, superbamente guarnita. 1 Maestà nella trama, sì che nel discorso, nei passaggi, nella division delle parti, nelle commettiture e vincoli loro nulla di basso né di casuale trascorra. Maestà nell'azione; memoria fedelissima nelle figurate amplificazioni, nelle corrispondenze delle antitesi, nelle autorità sinceramente ridette; voce sonora e chiarissima, gesto misurato e grave, e nella presenza non so che misto di piacevolezza e di terrore. Il secondo stile, come nella schiettezza e famigliarità ripone il vanto, manterrà il suo decoro, se addurrà argomenti e ragioni a chiascheduno che le ode pianissime; erudizioni ammirabili al vulgo; concetti frequenti o nelle ridicolose istorie o nelle dimestiche similitudini fondati; narrative or patetiche, or graziose, naturalmente rappresentate. Ne' costumi si mostrerà or faceto ed or fedele; degli affetti si appiglierà a quelli che più commovono le genti basse: paure, terrori, disiderio di beni utili. Sprezzerà la vaghezza e sonorità delle parole; anzi professerà di schifarle a bello studio, per esser tenuto schietto e senz'arte. Scoperte vorrà le divisioni e passaggi del suo discorso. La lode di memoria felice verrà da lui apertamente rifiutata; né si vergognerà di confessare che alcuna cosa le sia di mente fuggita. Niuna diligenza nella voce e nel gesto parrà che adoperi, ma che così parli come se d'improviso i concetti e le parole a lui fiorissero su le labbra. Insomma quella prima specie è simile alla tragedia, sollevata da terra col coturno; questa è simile alla comedia, che col socco2 batte la scena. Quella, a guisa di armata amazzone, con la secure e con la pelta3 combatte; questa, a guisa di quei paesani tirreni,4 tutto ciò che trova toglie per arma. Quella è come il tempio d'Ercole, in cui non volano mosche; questa, come il tempio di Apolline Egiziano, fra l'armonia delle cetre non isdegna il garrire delle stridenti rondinelle. E dove quella con la meraviglia corregge la noia della serietà, questa con la piacevolezza uguaglia il merito della meraviglia. periodo ..• guarnita: anche in altri luoghi, femminile di genere, come in latino. 2. socco: il calzare adoprato nella commedia. 3. pelta: specie di scudo leggero. 4. a guisa • .. tirreni: cfr. Virgilio, Aen., VIII, 505-8. 1.

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Or io mantengo che questi due stili, benché il primo paia più nobile e più difficile del secondo, sono però due idee, ciascuna nel suo genere, ugualmente belle e perfette. La bellezza, signori, è un tal conserto di parti in ordine al suo fine, si che senza deformità nulla aggiugnere o torre o trapportar si possa. Onde la galea non è più bella che la nave, quando ambedue abbiano le membra in ordine al suo fine ugualmente ideali e perfette. E avvenga che in questo secondo stile alcune cose paiano potersi maggiormente limare e migliorare, come la elocuzione, i concetti, il gesto, nulladimeno in genere di popolarità quelle stesse negligenze sono artificii, e chi volesse ridurle alla interezza del primo, cambiarebbe la natura di quello e alla perfezion di questo noi portarebbe giamai. Basso è il favellar dello schiavo nelle comedie plautine; sublime è quello degli eroi nelle tragedie di Seneca. Or fa che lo schiavo per parlar meglio mestichi tra' suoi sali1 i concetti e le forme di Teseo o di Giunone: farai freddure da riversar gli stomachi e avrai peggiorato lo stile per migliorarlo. E di qui nascono le imperfezioni de' sagri oratori, quando, o per vezzo o per instinto addetti ad un di questi due generi, dalla loro idea a guisa di fiumi fuor delle sponde nel più o nel meno inconsideratamente traviano. Eccesso del primo genere sarà per la parte del meno il mancare in alcuna delle proprietà sopradette: il che tanto più offende quanto il genere è più sublime; onde da più alto luog9 si cade a terra. Così adi~ene a chi, non avendo testa da sostenersi nella eminenza de' concetti, precipita poi nelle licenze del secondo genere; overo a chi, non intendendosi della lingua, col Bembo o col Boccaccio2 vuol gareggiare: o mal condizionato nel gesto e nella voce, muove alle risa mentre vuol muovere a meraviglia, o mal servito dalla memoria, come sopra un corsiero allassato, 3 entra in carriera di lunghe tirate, incespando a ogni passo con tanta noia degli uditori come se cadesse lor sopra. Ma per la parte del crescere sarà suo eccesso una tale altezza d'introduzione, che a guisa della Fama si stia col capo fra' nuvoli4 e col piè a terra; un'oscurità nel conchiudere, che manca fra le mani all'uditore, e come la seppia, quando sta per essere afferrata, sparge inchiostro; mestichi tra' s11oi sali: mescoli tra le sue facezie. 2. col Bembo o col Boccaccio: dunque con la tradizione della prosa effusa e letterariamente fiorita. 3. alias.rato: stanco e rilassato. 4. a guisa ••• capo fra' nuvoli: secondo l'immagine canonica datane da Virgilio (Aen., IV, 177). 1.

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un accennar concetti senza imprimerli, nel modo che i Parti scoccano fuggendo le sue saette; un dilettar più tosto con l'armonia de' periodi che colpire col vigor degli affetti, e invece dell'arco militare adoperar quel della lira; un'abbondanza di ornamenti nella povertà del suggetto, imitando quel mal pittore che, non sapendo dipigner Elena bella, ornata e ricca la dipinse ;1 una frequenza di descrizioni senza discrezione, sì che l'orazione paia una spalliera di arazzi ;2 un collegar metafore e allegorie disparate ad ogni periodo come grotteschi di capricciosi pittori; un non risolversi di mutar mai il tuono della voce e dar in certo unitono di monocordo 3 mal toccato ; una scelta soverchia di peregrine parole o scru pulosa squisitezza della favella toscana, essendo verissimo ciò che sovente diceva il cavalier Marino,4 che ai predicatori i quali parlano al popolo, e con l'animo commosso, assai maggiori licenze che agli scrittori concedere ordinariamente si deono. Questi sono gli eccessi del primo genere; ma piggiori son quei del secondo. Egli è eccesso per la parte del più il volere alla sua popolarità rimescolar le pompe del primo con garbo non maggiore che i comici calzino il coturno, 5 cagionando ora dispregio con la soverchia bassezza, or con l'altezza soverchia invidia e sdegno. Ma per la parte del meno egli è diffetto comunale lo infilzar concetti senza filo e fabricar senza calce, disponendo in modo le parti del discorso, che non stian quasi membra collocate in bel corpo, ma come rami affasciati in una scopa; lo schiamazzare alcuna volta con ismoderati gridori senza ragione, battendosi il fianco come se i dolori nefritici l'assalissero; il dimostrarsi nei sali e nei concetti buon compagno più tosto che buon religioso; il trarsi dattorno la cotta e sbuffar gli uditori come fanatico, maneggiando crocifissi a guisa di scimitarre; appiccarsi con capestri e altre simili frenesie; ma, quel ch'è peggio, imitare azioni basse e mimiche, cavalcando il pulpito6 e correndovici sopra alla lizza; o, di che il Dante ancor si adira, satireggiar con motti e con iscede7 contro persone particolari, cambiando il pulpito del Vangelo in scena di Aristofane.8 imitando .•. dipinse: cfr. Clemente Alessandrino, Paedag., 11, 12, 125, 1. una spalliera di arazzi: una parete addobbata. 3. monocordo: strumento musicale a una sola corda. 4. Il Tesauro considera, del resto, il Marino delle Dicerie sacre come uno dei suoi maestri ideali. 5. il coturno: il calzare adoprato nella tragedia. 6. cavalcando il pulpito: dimenandosi a più non posso, come in torneo. 7. iscede: cfr. Par., XXIX, 115. 8. in scena di Aristofane: in commedia sguaiata, facile all'attacco personale. 1.

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Ho conosciuto un ingegno assai buono ma impetuoso, che, quando a lui toccava la volta di sermoneggiare, si stimava ben glorioso se con mordaci concetti e scritture di doppio sentimento potea trafiggere quei che prendea di mira; onde si solea dire: «Andiamo alla satira». Questo è vizio dannoso a chi parla e a chi ascolta: poiché quello invece di virtuoso si dichiara malvagio; e questo, non compunto, ma punto e scandalezzato si parte. Eccovi, signori, la essenza e mediocrità di queste due idee, confrontate, come le altre virtù, coi loro estremi. E quinci conoscerete qual seguito e quale applauso abbia ciascuna. Per che, se bene se un sol di questi due dicitori si udisse, parrebbe a tutti gl'ingegni sommamente grato, nondimeno, se a confronto si pongono, vedrete pian piano farsi una separazione e scisma, per dir così, degli uditori, come avvien de' metalli nella fornace. Per che, essendo lo stil secondo assai più facile e piano, a lui concorreranno i più materiali e grossi ingegni; e a quell'altro i più sollevati e alteri. A questo persone che, quantunque dotte, non vogliono obligar la mente a starsi pendente ed immobile come gli uccelli di Orfeo; 1 e a quello persone che, quantunque poco sudato abbiano sopra i libri, godono però di sollevarsi come spiumati uccelli che pur battono l' ale per fare un volo : quali sono per lo più i cortigiani, i giovani e le dame. A questo alcuni religiosi che stanno sul notar col palinsesto i concetti predicabili,2 che dal discorso dell'altro, quasi gemme incassate, non ponno agevolmente spiccarsi; e a quello i professori della più nobil arte del dire o ne' tribunali o nelle scuole. A questo certi animi che vogliono essere con tumultuose perturbazioni commossi; e a quello animi più dilicati, che a guisa di generosi cavalli all'ombra della verga spiccano il salto. A questo alcuni padri di fameglia che godono di ridire a' suoi dimestici quel che hanno inteso; e a quello alcuni ingegni che di meraviglia per gli lunghi tratti di memoria e per gli sagliscendi e de-scrizioni ingegnose avidamente si pascono. Io lascio qui una incerta turba di coloro che, o rapiti dalla conformità di sangue o allettati dalla maggior vaghezza e commodità del tempio o instigati dalla persuasion de' compagni o invitati da corrispondenza di oggetti o I. Il canto d'Orfeo incantava chi l'ascoltasse. 2. stanno •.• concetti predicabili: annotano nel taccuino, o palinsesto, le formule delle sacre analogie. Per la nozione di concetto predicabile sono da vedere le pagine specifiche del Cannocchiale aristotelico. Cfr., appunto, qui pp. 102 sgg. 2

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per altri accidenti vari, a guisa di pendenti nuvolette dal soffio di fortunosi venti, or a questo or a quell'altro indifferentemente si recano. E perché sempre alcun uditore di un genere si trova alle prediche dell'altro, non è meraviglia se ambo questi oratori avranno il suo Zoilo 1 che dirà male: per che sempre vi sarà una Minerva a cui spiacerà la stridente sampogna di Marsia, e sempre un Mida a cui la canora cetra di Apolline sarà noiosa. Laonde, per mio credere, gravemente s'ingannano quei che, non conoscendo a qual de' due stili siano dalla natura portati, invaghiti dall'applauso di qualunque odano, alla imitazion di quello si destano: sì che alcuni, applicatisi al genere famigliare, che nati erano per lo maestoso, danno nel freddo; e altri, nati per il famigliare, lasciatisi invaghire dalla maestà del sublime, perdono il suo talento: quelli in tutto simili a Telesia2 tebano, che, al lirico poema abilissimo, mentre arebbe potuto involare a Pindaro l'alloro, allettato dalle solazzevoli e gradite satire di Filosseno, 3 diede egli maggior materia a' satirici di ridere che a' lirici di cantare; questi simili al temerario I pparco,4 che, argomentandosi di sonar la soave cetra di Orfeo spiccata dal tempio del Licio Apolline, invece di allettar gli uomini ad udirlo, attizzò i cani a lacerarlo. Parravvi, signori, ch'io non abbi detto fin ora in proposito di questi due soli della cristiana eloquenza. Ma pur son certo di non aver che aggiugnere, quando avrò detto in un fiato che l' Albrici 5 è la vivente idea del primo genere, maestoso e grave; e l'Orimbelli6 del famigliare. Sì che paiommi appunto risorti i due fratelli Gracchi,' de' quali Tiberio nel primo e Caio nel secondo stile togliendo la palma a tutti gli altri, lasciarono in dubbio a qual di loro la palma si dovesse. Così decido la lite: e questa voglio che sia la sentenza. So che direte che a sì breve decisione troppo lunghe sono state le premesse. Ma poi che voi erraste nel darmi questa carica e io nell'accettarla, avremo insieme fatta la penitenza del fallo con esserci stancati, io nel dire con poco sale e voi nell'udire con molta noia. Zoilo: il critico maligno per antonomasia. 2. Teleria: penso sia Teleste, poeta ditirambico di Selinunte che consegui la palma ad Atene nel 402-1 a. C. 3. Filosseno di Citera (436-5 - 380-79 a. C.). La sua opera più famosa è Il Ciclope. 4. Ipparco: in realtà, la tradizione fa il nome di Ncante. 5. l'Albrici: Luigi Albrizzi, gesuita, nato a Piacenza verso il 1576, morto nel 1655. Tra le sue opere, le Prediche (Roma 1645) e i Panegirici sacri (Roma 1655). 6. l'Orimbelli: su questo oratore non m'è riuscito di trovare notizia alcuna. 7. i due fratelli Gracchi: su di essi si veda quanto scrive Cicerone nel Brutus, 27, 103-6; 33, 125-6. I.

DA « IL CANNOCCHIALE ARISTOTELICO» Dell'argutezza e de' suoi parti in generale.

Un divin parto dell'ingegno, più conosciuto per sembianti che per natali,1 fu in ogni secolo e apresso tutti gli uomini in tanta ammirazione che, quando si legge e ode, come un pellegrino miracolo, da quegli stessi che noi conoscono, con somma festa e applauso è ricevuto. Questa è l'argutezza, gran madre d'ogni 'ngegnoso concetto; chiarissimo lume dell'oratoria e poetica elocuzione; spirito vitale delle morte pagine; piacevolissimo condimento della civil conversazione; ultimo sforzo dell'intelletto; vestigio della divinità nell'animo umano. Non è fiume sì dolce di facondia che senza questa dolcezza insulso e dispiacevole non ci rassembri; non sì vago fior di Parnaso che dagli orti di lei non si trapianti; non si robusta forza di rettorico entimema2 che senza questi acumi non paia rintuzzata e imbelle; gente non è sì fiera e inumana che al1' apparir di queste lusinghevoli sirene l'orrido volto con un piacevo} riso non rassereni; gli angeli stessi, la Natura, il grande lddio, nel ragionar con gli uomini hanno espresso con argutezze o verbali o simboliche gli lor più astrusi e importanti secreti. Ma non solamente per virtù di questa divina Pito3 il parlar degli uomini ingegnosi tanto si differenzia da quel de' plebei, quanto il parlar degli angeli da quel degli uomini, ma per miracolo di lei le cose mutole parlano, le insensate vivono, le morte risorgono; le tombe, i marmi, le statue, da questa incantatrice degli animi ricevendo voce, spirito e movimento, con gli uomini ingegnosi ingegnosamente discorrono. Insomma tanto solamente è morto, quanto dall'argutezza non è avvivato. Egli è il vero, desideroso leggitore, che quanto negli effetti luminosa e vivace è l'argutezza, altretanto (com'io ti diceva) ne ritrovai fra gli autori oscura l'origine, sconosciuta la essenza, l'arte disperata. Molti componimenti oratorii, molti epici, molti lirici, molti scenici, molte inscrizioni ho lette antique e nuove, di simili fiori vagamente adornate; ma que' medesimi autori che sapean 1. più conosciuto .•. natali: più conosciuto nelle sue manifestazioni che nella sua genesi. 2. entimema: è un ragionamento di tipo sillogistico, abbreviato. 3. Pito: la dea della persuasione ad Atene, la Suada dei Latini.

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comporre argutamente, non sapean che fosse argutezza, simili al cieco Omero che (si come dicono) sapea che cosa fosse roseo e non sapea che fosse rosa. Anzi di molti antiqui si sono accinti all'impresa di scrivere delle argutezze; ma in fatti tutto il lor discorso si estese in mostrarci con esempli molti frutti ridicoli e faceti (piccola particella dell'argutezza), ma della radice, che è il sommo genere, né de' rami principali, che son le adequate partizioni delle sue specie, non han discorso. L'istesso Tullio, cui non era più difficile il parlare arguto che l'aprir bocca, apresso a1 gran discorsi finalmente conchiude la natura, e non l'arte, esser maestra delle argutezze. 2 E quantunque un bel fascio di acuti e ingegnosi detti ci metta avanti, non ha pertanto né mostrato né conosciuto il suolo dove son nati: quasi l'argutezza sia un Nilo di cui si conoscono i rivi, e non la fonte. Anzi, schernendo coloro che si avean preso l'assunto d'investigar la traccia de' ridicoli, altro non trovò di ridicolo in quell'arte se non la follia di volerla ridurre ad arte. 3 Dall'altro lato grande animo e grandi speranze d'investigar la fonte di quest'arte mi fe' il divino Aristotele, che ogni rettorico secreto minutamente cercò e tutti gli 'nsegnò a color che attenti l'ascoltano. Talché possiam chiamar le sue Rettoriche un limpidissimo cannocchiale per esaminar tutte le perfezioni e le imperfezioni della eloquenza. Parlando egli dunque di tutta l'arte rettorica, la qual molti pur negavano potercisi 'nsegnare se non dalla sola madre Natura, disse, colui sicuramente poterne ritrovar l'arte, il qual, propostosi componimenti diversi, de' quali o per caso o per industria sian altri buoni e altri mali, sappia col suo ingegno sottilmente investigar le ragioni perché questi sian ottimi e quegli difettosi, gli uni movan nausea e gli altri applauso.4 Con tali speranze adunque, e con la sola scorta di questo autore, m'accinsi ancor assai giovine alla inchiesta di sì nobile e ingegnosa facultà per aggiugner quest'ultimo ornamento alle lettere umane, che nel secol nostro da nobili 'ngegni della mia patria erano state a tanta gloria felicemente inalzate. Composi adunque latinamente un giusto volume dell'arte dell'argutezza, il qual con le altre mie rettoriche fatiche ancor riposa; e acciò che non ti paresse discreditata l'arte apruso a: dopo. 2. Tullio . .. argutezze: cfr. Cicerone, De orat., n. 54, 216. 3. schernendo • •. arte: cfr. Cicerone, De orat .• n, 54. 216-8. 4. dis-se •• • applauso: cfr. Aristotele. Rhet•• 1, 1, 1354a, 6-7. 1.

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mia delle argutezze dalla insipidezza de' miei propri componimenti, feci la medesima protesta che fe' il mio autore, il qual insegnò anch'esso adorare, né mai orò; insegnò la poetica, né mai poetò;' insegnò le argutezze, né mai ne compose, dividendo con Isocrate questa gloria, eh' egli seppe insegnare, non praticare, e Isocrate praticare, non insegnare. 2 Ora, avend'io cominciato, alle grandi 'nstanze di molti amici, a permettere o premettere alle stampe il sol volumetto delle imprese, piccola parte dell'argutezza, mi è dapoi stato imposto da chi è signor del mio volere3 di trattare interamente in italiano per que' della Corte le due piacevolissime arti, simbolica e lapidaria, che comprendono tutte le argutezze di parole e di figure: quelle negli epigrammi, epitaffi, elogi, e in ogni genere d'inscrizioni argute; queste nelle imprese, emblemi, riversi, e in ogni genere di simbolo arguto. Laonde mi son io trovato astretto di valermi delle proprie fatiche in questa tema, replicando molte necessarie notizie dell'argutezza, per applicarle alla fabrica de' simboli e delle inscrizioni, bella e spiritosa famiglia di sì gran madre. Cagioni instrumentali delle argutezze .

. . . L'arguzia vocale è una sensibile4 imagine dell'archetipa, 5 godendo ancora l'orecchio le sue pitture, che hanno il suono per colori e per penello la lingua. Ma imagine abozzata più tosto che finita, dove l'ingegno intende più che la lingua non parla, e il concetto supplisce dove manca la voce. E per contrario ne' detti troppo chiari l'arguzia perde il suo lume, sì come le stelle nella oscurità lampeggiano, si smorzano con la luce. E di qui nasce il doppio godimento di chi forma un concetto arguto e di chi l'ode. Però che l'un gode di dar vita nell'intelletto altrui a un nobil parto del suo, e l'altro si rallegra d'involar col proprio ingegno ciò che l'ingegno altrui furtivamente nasconde, non richiedendosi minor sagacità nell'esporre che nel comporre una impresa arguta e ingegnosa. Sotto questo genere adunque si comprendono primieramente I.feci .•• poetò: cfr. Aristotele, RJiet., 111, 10, 1410b, 7-8. 2. Isocrate .•• insegnare: cfr. Cicerone, Brut., 8, 32-4. 3. signor del mio volere: il principe

Matlrizio di Savoia. 4. sensibile: cfr. Aristotele, De ìnterpret., 1, 1, 16 a. 5. L'arguzia archetìpa, come si spiega altrove, è quella dipinta nell'animo col pensiero.

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tutte le argutezze che con la voce articolata si vanno mescendo nelle continuate orazioni, nelle recitazioni teatrali e ne' privati colloqui: ne' quali molti simbolici detti sogliono udirsi, che cosi facilmente si pingerebbono come si parlano. Tai furono le minacce di Giunone stizzata delle nozze di Lavinia col pellegrino Enea: sanguine Troiano et Rutulo dotabere, virgo, et Bellona manet te pronuba. Nec face tantum Cissaeis praegnans ignes enixa iugales; quin idem Veneri partus suus et Paru alter funestaeque iterum recidiva in Pergama taedae. 1

Dove tu vedi che ogni clausoletta concisa è un motto figurato e simbolico, presago di sciagure a quelle nozze fatali e disastrose. Però che il suggetto di queste furibonde parole si potria vagamente rappresentare in un grandissimo quadro, là dove si vedessero Enea con Lavinia nel mezzo con le destre impalmate giurarsi la fede maritale: quegli accompagnato da Paride insanguinato, e questa da Elena lacrimante. Fra l'uno e l'altro Pallade armata e il fanciullo di Venere: questi, spezzato l'arco e gli strali, arderli con la sua face; quella, con fiero viso facendo ufficio di pronuba, strignere insieme le mani degli sposi e disaugurar con la sua nottola2 funesta le loro feste lugubri. Dall'una parte, le ruine di Troia ancor fumanti, gli brustoliti cadaveri de' Troiani, e i Greci armati di ferri sanguinosi e d'incendiarie facelle. Dall'altra, Ecuba, figliuola di Cisseo, con Venere disperata: questa lacerarsi le bionde chiome e quella stracciarsi lo scarno petto con la destra, impugnando con la sinistra la fiaccola da lei sognante partorita, ond'arse la patria e la famiglia. Ancelle e servi d'ogni 'ntorno con ricchissimi vasi, ma pieni di sangue per arre sposerecce 3 e per dotali ricchezze. Talché possiam dire che il poeta abbia fatto il pittore e le minacce di Giunone sian parole dipinte, over pitture parlanti. Ma per contrario qual diligente miniatura di accuratissimo penello del capriccioso Ludione4 apresso a lungo studio avria potuto animare Virgilio, Aen., vn, 3 18-22 («sangue troiano e rutulo, o vergine, avrai per dote, e pronuba ti atteI).de Bellona. Non partorl la Cisseide, d'una face incinta, solo fiamme nuziali; ché tale è il suo nato a Vcnere, novello Paride anch'esso, e nuove infauste fiaccole alla rinascente Pergamo»). 2. disaugurar .•• nottola: vaticinare infausta con la sua civetta. 3. a"e sposerecce: doni nuziali. 4. Ludione: è il Ludio di Plinio, Nat. hist., xxxv, I.

IO, I

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più ridicolose e più argute imagini di certe donnicelle donzinali, com' elle furono tratteggiate dalla lingua plautina in tre versetti: Hae hic sunt limaces, li'lJidae, diobola1'es, schoeniculae, miraculae, scranctiae, scrupedae, tantulae. 1

Non vedi tu qua ogni parola essere una facezia, e ogni tratto un protratto ?a Tu ne raffiguri una con faccia morchiosa e laida a modo di lumaca portar la chiocciola su la scrignuta schiena: ché tanto suona l'epiteto limaces. Un'altra vaiolata3 come la tarantola, livida di morviglioni e di guidareschi4 come una cestella di gelse more: e questa è la livida. Ad un'altra tutta assettatuzza, infardellata e rafazzonata da festa, un pezzente campagnuolo o:fferisce duo quattrinucci sopra la palma: e questa è la diobolare. Un'altra è di corpo asciutto e sottile più che la canna, ma scontorto e noderoso più che la fune: e questa è la schoenicula. Un'altra è così disfigurata e orribile che chi la guata atteggia di maraviglia e di spavento: e questa è la miracula. Un'altra forzatamente tossendo, e' par che debba sputar gli occhi e scriar5 li polmoni: e questa è la scranctia. Un'altra assiderata delle gambe, inarcata in su la cruccia, trascina gli piè a bistento: e questa è la scrupeda. L'ultima è così nana e ratrappata che non sembra corpo, ma epitome di un corpo,6 o una femina in iscorcio: e questa è la tantula. Or qual differenza farai tu fra queste arguzie parlanti di Plauto e le dipinte di Ludione? Dico il simile delle arguzie che ci vengono riferite passando il concetto dell'uno per la voce di un altro all'orecchio di un terzo: come s'io ti dicessi: Sappi che Lodovico dodicesimo alzava l'istrice per divisa col motto «Eminus et cominus ».7 Anzi, se un uccello imitator della voce umana, qual fu quello che Annone8 ammaestrò con la fame, ridicesse le medesime parole, ci farebbe conoscere quell'arguzia ch'ei medesimo non conosce. Onde Stazio Papinio 1. Cfr. Plauto, Cist., 405 sgg., e Varrone, De ling. Lat., vn, 64-5 (•Queste sono limacciose, livide, donne da due oboli, profumate d'unguento terribile, brutte da far paura, consunte, sciancate, minutissime»). 2. p1'ot1'atto: ritratto. 3. vaiolata: a protuberanze striate. 4. di moroiglioni e diguida1'eschi: di vaioli e di piaghe. 5. seriar: è il latino screare, sputare. 6. epitome di un corpo: riassunto, scorcio di un corpo. t formula molto cara agli scrittori barocchi. 7. Lodovico .•. et cominus: « Eminus et comminus • («Da lontano e da vicino•) era il motto delPimpresa del re di Francia Luigi XII. Su di essa il Tesauro s'intratterrà ancora nell' ldea delle a1'guzie eroiche vulgarmente chiamate imprese. 8. Annone: lo stesso ricordato da Eliano, Var. hist., xiv, 30.

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chiamò arguto il rostro del pappagallo che, facendo il parasito alla mensa di Meliore, facetissimamente motteggiava li convitati. 1 Egli è ben vero che nell'uccello si conosceva il maestro e l'arguzia si formava con la voce dell'uno e con l'ingegno dell'altro, potendosi ugualmente rappresentare un'impresa da un animai vivente in gabbia con l'imitazion della voce, come da un animai dipinto nello scudo con la imitazion de' colori. Che più? Ancor le voci informi, o non articolate o imitanti il suono delle fiere, possono talvolta esprimere interamente un concetto arguto e avvivar con anima brutale una eroica impresa. Come fe' colui che, per ischernire un calabro suo rivale che aveva il muso alquanto pignente innanzi,z non fece più che un grunnito, come far sogliono i succidi animali: e con quel suono lo dipinse al naturale ... Cagioni effidenti delle argutezze. [Argutezze divine.]

Ancora il grande Iddio godé talora di fare il poeta e l'arguto favellatore, motteggiando agli uomini e agli angeli con varie imprese eroiche e simboli figurati gli altissimi suoi concetti. E a giuste ragioni. Primieramente, acciò che l'ingegno divino non ceda punto all'umano, né quella mente insterilisca, la qual feconda di concetti le altre menti. Però che quanto ha il mondo d'ingegnoso, o è Iddio o è da Dio. Dipoi, acciò che lo stile della divina maestà non senta punto del triviale, ma da nobili figure si sollievi in guisa che la sublimità generi maraviglia, e la maraviglia venerazione. Inoltre, acciò che la verità, per sé amara, col vario condimento di concettosi pensieri si raddolcisca. Finalmente, acciò che l'ottusa e temeraria turba non si presuma interprete de' divini concetti, ma solo i più felici e acuti ingegni, consapevoli de' celesti segreti, ci sappiano dalla buccia della lettera snoccolare i misteri ascosi, e con subalternate influenze3 il nume impari da sé solo, il savio dal nume, l'idioto dal savio. Ben disse adunque il tragico Sofocle: Mysteria numen tecta sapientes docet; fatuis magister prorsus est inutilis.+ 1. Stazio • .• convitati: cfr. Silv., 11, praef., zo (11, 4, 13). z. pignente innanzi: prominente. 3. con suba/ternate influenze: gerarchicamente. 4. Cfr. Plutarco, De Pyth. orac., zs, 407 a (« Il dio insegna i misteri coperti ai saggi: del tutto inutile è il maestro agli sciocchi•).

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E perciò davanti alle porte de' templi solean collocarsi le imagini delle sfingi per accennare (come ci spiegò r eruditissimo Plutarco)1 che la divina Sapienza si rivela a' sapienti per via di simboli e di arguti enimmi. Tal è dunque il linguaggio di Dio nella Scrittura Sacra. Però che i precetti necessari alla salute furono veramente promulgati con piano e aperto stile, che da qualunque uomo incapace di dottrina si potesser capire: come «non occides, non furtum facies », 2 che tanto suonano all'intelletto quanto all'orecchia; e questo è il senso letterale. Ma le cose più alte e peregrine ci vengono copertamente scoperte e adumbratamente dipinte a chiaro oscuro con tre maniere di simboli figurati, che da' sacri svolgitori3 de' divini arcani grecamente chiamar si sogliono senso tropologico, allegorico, e anagogico; ma tutti son metaforici ... E quinci leggiermente intenderai qual cosa sian que' pensieri de' sacri oratori che vulgarmente chiamar si sogliono concetti predicabili, con tanto favore e con tanta ammirazion ricevuti dal sacro teatro, che la divina parola pare oggimai scipida e digiuna, s' ella non è confetta con tai dolcezze. Quistione certamente curiosa e fin qui (perch'io sappia) ancora inavvertita4 e intatta alle penne degli scrittori. Perciò che primieramente egli è chiaro che né un testo letterale dell'Evangelo, né una nuda istoria del Vecchio Testamento, né la simplice autorità di un sacro scrittore, né una soda e dottrinale ragion teologica, né un articolo di san Tomaso sogliono communemente passar sotto il nome di tai concetti favoriti dal popolo. Molto meno una filosofica sottilità, né una piana ed evidente ragion morale, né un esempio quantunque maraviglioso, né una profana erudizione, quantunque curiosissima, si chiamerà concetto predicabile apresso il popolo. Due cose adunque principalmente compongono questo sacro parto dell'ingegno: cioè la materia sacra, fondata nella divina autorità, e la forma arguta, fondata in qualche metafora formante un senso tropologico o allegorico o anagogico, differente da quello che di primo incontro le parole del sacro testo letteralmente offeriscono. Or questa apunto è l'arguzia, la qual consiste in un argomento ingegnoso, inaspettato e populare. Onde i teologi non confermano le loro tesi con sin1ili concetti arguti,

ma

1. come ... Plutarco: nel Dels. et Os., 9, 354c. 2. Deut., S, 17 e 19 (•non ucciderai, non commetterai furto»). 3. svolgitori: interpreti. 4. inavver-

tita: non presa in esame.

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con piani e letterali argomenti. E per contrario il sacro dicitore che tesse di argomenti teologali il suo discorso è riputato scolastico insegnatore più che predicator populare. E ciò che sia vero, se tu assumi la fatica di esaminare un di cotesti parti ingegnosi, tu ci troverai per fondamento una metafora, un equivoco, un laconismo, o alcun'altra specie delle metafore, delle quali a suo luogo più specialmente si parlerà. Altro dunque non è il concetto predicabile che un'arguzia leggiermente accennata dall'ingegno divino, leggiadramente svelata dall'ingegno umano e rifermata con l'autorità di alcun sacro scrittore: dividendosi l'applauso a lddio dell'averla trovata e al predicatore dell'averla, come pellegrina merce, mostrata al mondo e tempestivamente appropiata al suo proposito. Quella pertanto è più commendevole, che più partecipa le doti dell'arguzia: cioè proprietà, novità, allusione ingegnosa e riflessione ammirabile. E principalmente se, ostentando 1 nella lettera un senso contradicente di primo incontro e difficile a strigare, 2 ci viene alla fine in senso figurato con alcuna sottil dottrina o pellegrina erudizione o vivace similitudine o con grazioso riscontro di alcun altro scabroso passo della Scrittura Sacra inaspettatamente e ingegnosamente prosciolto. Però che due detti oscuri insieme accozzati divengono luminosi.

Argutezze della Natura. Vengo alle simboliche arguzie della Natura, oltre ogni credenza ingegnosissime, e degne di ammirazione anco a' filosofi. E certamente, se la vivezza dell'umano ingegno ne' motti arguti è dono della natura più che dell'arte, com'esser può che così dotta insegnatrice non sappia ciò eh' ella insegna? Anzi, com' ella si mostra sapientissima nelle cose necessariamente ordinate alla publica utilità, così nelle cose piacevoli si studia per mera pompa d'ingegno di mostrarsi arguta e faceta. E che è questa varietà de' fiori, altri spinosi e irsuti, altri morbidi e dilicati; quasi quegli sian nati per adornare il cimier di Bellona, e questi la trecciera di Venere? Altri neri e fu.1ebri, altri candidi e puri; quegli dedicati a' sepolcri e questi agli altari. Altri infocati e fiammanti, altri cangianti e biscolori :3 trovando in quegli Amor le sue facelle e Iride in questi la sua ghirlanda. Altri finalostentando: mostrando. due colori. i.

2.

strigare: sciogliere, capire.

3. biscolori: di

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mente in varie vezzosissime guise raccolti, rivolti, sparti, acuti, globosi, scanalati, 1 piani, stellati; parendo che il sol nascente, per far della terra un cielo, scuota le stelle di cielo in terra. Tutte queste, oltra mill'altre, son pur figure eleganti e vivaci arguzie dell'ingegnosa Natura. Però che, sì come le arguzie de' poeti si chiaman fiori, così i fiori della Natura si chiamano arguzie. Talch'è soperchio il domandare perché l'Aurora sia tanto amica alle Muse, poiché la Natura istessa allora scherza e fraseggia con mille arguti e ingegnosi concetti. Ma se principalmente parliamo ora qua delle argutezze simboliche, dove più campeggia il fior dell'intelletto, quelle notturne imagini di fuoco che talora in cielo risplendono e spaventano, chiamate da' meteoristi2 comete crinite, barbate e codate, capre, travi, scudi, faci e saette, che sono se non metafore naturali, concetti figurati, simboli arguti, ingegnose imprese ed emblemi di sdegnata o di benigna Natura, la quale di quelle imagini si serve e come d'armi a ferire e come di ieroglifici3 ad accennare quai popo1i ella voglia ferire? Anzi, affinché l'acume del suo ingegno in que' simboli metaforici più mirabilmente riluca, osservano i naturalisti che con misterioso artifizio questa spiritosa poetessa fa corrispondere quelle imagini ignite alle stellate imagini del Zodiaco acciò che subordinatamente congiunte abbiano maggior forza al nuocere e maggiore argutezza al significare con geminata metafora il suo segreto. Quinci, sì come la saetta fra gli eruditi è ieroglifico di strage, di morte e di battaglia, così, se quelle meteoriche impressioni• della Natura prendono figura di una infiammata saetta, e se questa dirittamente soggiace alla Testa del Toro, 5 drizzando la ignita6 punta ver l'occidente, significa mortalità di armenti agli occidentali agricoltori. Sotto la Spica della Vergine7 annunzia crudelissima strage alle messi ispane. Sotto al Sagittario, mostro insieme umano e ferino, minaccia egualmente agli uomini e alle mandre. « Referre arbitrantur » dice quel sagace secretario della Natura, Plinio Secondo « quas in partes sese iaculentur eiusmodi formae, aut cuius stellae vires accipiant, quasque similitudines reddant, quibusque 1. globosi, scanalati: rotondi, rigati. 2. meteoristi: studiosi dei fenomeni atmosferici. 3. ieroglifici: segni di significazione misteriosa, simboli. 4. meteoriche impressioni: fenomeni atmosferici. s. Toro: è, come la Vergine e il Sagittario, una costellazione dello Zodiaco. 6. ignita: infuocata. 7. la Spica della V ergine: la Spiga, parte della costellazione della Vergine.

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in locis emicent; tibiarum specie musicae arti portendere, obscoenis moribus in verendis partibus signorum, ingeniis autem et eruditioni si triquetram figuram quadratamve paribus angulis ad aliquos perennium stellarum situs edant; venena fundere in capite septentrionalis austrinive Serpentis ». 1 Talché tu vedi che il cielo è un vasto ceruleo scudo, ove l'ingegnosa Natura disegna ciò che medita, formando eroiche imprese e simboli misteriosi e arguti de' suoi segreti. Quinci tutto questo tratto dell'aria fu chiamato dagli antiqui filosofi naturali Proteo di vari sembianti, per le monstruose forme che i sollevati vapori vi prendono, or di lupo or di leone or di destriero e or di gigante, argutamente alludenti a qualche faceto o severo concetto di scherzante Natura. Onde Aristofane fa discorrere il dotto Socrate in questa guisa: Videme similes tigridi, tauro, lupo tJolitare nubes? Quod tJident, fiunt cito. Si quem comatum Jorte Ganymeden vident, specie comati vanulum irrident equi. Rei voracem publicae si. quem vident, specie voracis improbum irrident lupi. Nuper fugacis sumpserant cervi pedes, Cleonymus cum castra deseruit fugax. 2

Eccoti come con tante chimere di vapori schernisce la Natura le chimere degli uomini. Ma simboli molto più arguti sono i due luminari maggiori, nelle cui divise leggono gli agricoltori e i nocchieri le sue fortune. Se pinge lo scudo lunare di color vermiglio, aspettane battaglie de' venti; se di bruno, mortiferi nembi alle biade; se di puro candore, pace al mare e alle campagne; se il nero supera il bianco, più dèi I. Cfr. Nat. hist., 11, 23 1 93 («Giudicano che sia importante verso quali regioni si lancino le comete o di quale stella subiscano l'azione e quali forme imitino e dove appaiano: con l'aspetto d'un flauto, è un presagio relativo all'arte musicale; nelle parti vergognose delle costellazioni riguarda i costumi depravati, il genio e il sapere quando forma un triangolo equilatero o un rettangolo con le stelle perenni, e versa veleni allorché si trova nella testa del Serpente australe o boreale»). 2. Cfr. Nub., 346-54 («Hai visto volare le nubi simili a tigre, toro, lupo? Ciò che vedono, subito divengono. Se scorgono per caso un Ganimede pettinato, deridono il vanerello sotto specie di cavallo chiomato. Se vedono un predone dello Stato, deridono il malvagio sotto aspetto di lupo vorace. Or non è molto han preso i piedi di un cervo veloce a fuggire, quando Cleonimo abbandonò, fuggendo, il campo»).

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temer che sperare; se dintorno alle corna della luna aggruppa alcun vapore, esprime quel laconico proverbio: «Foenum habet in cornu, longe fuge ». 1 Dico il medesimo del sole, oracolo della Natura assai, più verace che il sol di Delfo e Colofone2 • • • Questo in guisa di araldo, vestito di una bruna gramaglia, intimò a tutto il mondo l'esequie papulari di Giulio Cesare.3 E per contrario quel primo dì che Augusto suo successore fece l'entrata in Roma, il sol ne fece solennità mostrandosi incoronato di un chiaro e vago diadema, facendogli un simbolo arguto dello imperio del mondo. Io non so se allora il sole si specchiasse in Augusto o Augusto nel sole. Certamente tu aresti potuto con reciproca metafora chiamare il sole Augusto del cielo e Augusto sol della terra. Onde egli medesimo, sommamente orgoglioso di questo arguto simbolo, incoronò la sua statua4 co' raggi solari e chiamò se stesso fratello del Sole: quasi con lui partita avesse la monarchia dell'universo. Aggiungo a queste meteoriche imagini le prodigiose cadute de' fulmini, fonnidabili 5 arguzie e simboliche cifere della Natura, mute insieme e vocali, avendo la saetta per corpo e il tuono per motto. Con un fulmine accennò la tacita congiura di Catilina, spezzando le tavole delle leggi nel Campidoglio. Con il qual simbolo volle rivelare al Senato quel che poscia riferì l'istoriografo: «Tum Catilina polliceri novas tabulas, proscriptiones locupletum, magistratus, sacerdotia, rapinas, alia omnia quae bellum et victorum libido fert ».6 Con un fulmine, quasi con laconica lingua, ingegnosissimamente motteggiò la vicina morte di Augusto: però che, caduto nella basi della sua statua, dov'era scritto ccAugustus Caesar », delibò solamente la lettera C lasciando intero «Augustus aesar ».7 Il che riferito agli auguri, dissero che nella lingua loro Aesar significava Deus e la lettera C significava centum. Onde conchiusero che dopo cento giorni morendo Augusto, sarebbe deificato dal popolo: e tanto a punto seguì con quella lor genI. Orazio, Sat., 1, 4, 34 (« Ha il fieno sul corno, fuggi lontano»). 2. il sol . .• Colofone: Apollo. 3. ,,esequie . •. Cesare: cfr. Virgilio, Georg., 1, 466 sgg. 4. il sol ... diadema ••. statua: cfr. Svetonio, Aug., 95, 1; 52, 1. 5.Jormidabili: terribili. 6. Sallustio, De con. Cat., 21, 2 (•Allora Catilina a promettere l'abolizione dei debiti, la proscrizione dei ricchi, le magistrature, i sacerdozi, il saccheggio e tutti gli eccessi cui portano la guerra e l'abuso dei vincitori•). 7. Con un ••• «Augustru aesar»: cfr. Svetonio, Aug., 97, 2.

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tilesca apoteosi. Col guizzo di un fulmine, come con un tratto di penna, significò l' estinguimento di tutta la famiglia de' Cesari per la scelerata morte di Nerone. Però che, caduto nella reggia quel serpentello di fuoco, dove si vedeano tutte le statue de' Cesari ordinatamente scolpite al naturale, a tutte in un colpo mozzò la testa. 1 E ne' secoli più vicini un fulmine scoccato nel palagio della Republica fiorentina strisciò li gigli delle arme e arse li bossoli delle sorti2 onde si soleva eleggere a' suffraggi comuni il lor gonfaloniere: e senza più indugio, cambiata la republica in monarchia, cessò ad un tempo la protezion de' Francesi e la dignità del gonfalone3 ••• Annovero ancora i mostri fra le arguzie della Natura. Però che i mostri altro non sono che misteriosi ieroglifici e imagini facete figurate da lei o per ischerno o per documento degli uomini. Essendo chiaro che, sì come né Iddio né la Natura oprano a caso, così con subordinata serie di fini ogni cosa è indirizzata all'uomo e l'uomo a Dio. Che ci vuol dunque significare l'esigere dalla umana voce il latrato, generando nell'Asia interiore alcuni uomini con corpo di uomo e capo di cane? Egli è un capriccioso emblema, in cui la N attira ci rappresenta la maledicenza de' Cinici e biasima il lor talento con imitarlo. Che l'inestar due corpi in un corpo, geminando due capi sopra un sol petto: onde non sai se in una sola persona vivan due anime o un'anima sola in due persone? Egli è un simbolo della perfetta amistà, la qual si diffinisce un'anima in due corpi. Che il fornir gli Sciopodi4 africani di un sol piè, ma così grande che, giacendo eglino sempre a terra, contra il sol cocente serva loro di ombrello ? Egli è simbolo degli uomini scioperati, che con la propria dapocaggine oscurano la gloria de' lor maggiori. 5 Che il torre ambi gli piè alle femine dell'India australe e dargli smisurati a' lor mariti? Egli è simbolo significante che delle femine è proprio il guardar casa e de' maschi l'andare attorno per lor facende. Che i Trogloditi nascenti senza testa con l'occhio dietro alle spalle? Egli è simbolo de' trascurati e scemi di senno, che vedono il passato, ma non antivedono l'avvenire. Che son quegli uomini Astomi6 presso alla surgente del Gange, 1. Però che .•• testa: cfr. Svetonio, Galb., 1. 2. bossoli delle sorti: vasi per le votazioni. 3. palagio ••. gonfalone: cfr. Guicciardini, Storia d'Italia, Xl, 4. 4. Sciopodi: meglio Sciapodi. Cfr. Plinio, Nat. hist., 2, 23; e anche sant'Agostino, De civ. Dei, XVI, 8. 5. maggiori: cioè, antenati. 6. Astomi: cfr. Plinio, Nat. hist., vu, 2, 25.

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che, nati senza bocca, sol vivono dell'odoroso spirito de' fiori attratto per le nari? Egli è simbolo de' contemplativi, che, vivendo di spirito più che di senso, hanno il palato nell'intelletto e la sapienza per alimento. Che finalmente il cambiar di repente con istrana metamorfosi una femina in maschio, togliendo la favola alle favole e gareggiando di capriccio co' capricciosi poeti ? Certamente afferma Licinio Muziano aver veduto una giovane, chiamata da' genitori Arescusa, che, stata più anni col marito, ribellò al proprio sesso e, di moglie divenendo marito, ingannò il simplice Imeneo: il qual, credendosi legar due sole persone, legò una donna e due uomini. 1 E una vergine Triditana affermò Plinio aver veduta, che, già matura alle nozze, il dì medesimo degli sponsali conversa in maschio, nominato dipoi Lucio Cossizio, licenziato il marito, condusse moglie.2 Or queste fur metafore argute e simboli faceti di sagace Natura, o per dipingere la incostanza delle donne, che non pur nell'esser donne sono costanti, o per beffare la sottilità de' gramatici facendoli declinar con falso latino: «Hic uxor, haec maritus. Hic et haec foemina». 3 Ma qual cosa è (dirai tu) cotesta alma Natura, che possiede tanto d'ingegno e di argutezze? Risponderò succinto essere l'istesso intelletto divino in quanto si adatta alla materia da lui fabricata a principio e disposita alla manutenzione dell'universo. Però che chi è colui che dubiti o che tante mirabili e provide operazioni siano dalla Natura amministrate senza perfettissima intelligenza, o eh' ella possa avere altra intelligenza che quella del suo autore? Due concetti adunque si accoppiano in questa sola voce «Natura»: cioè l'intelletto creante e la materia creata: la qual non essendo né infinita né perfetta, eccoti che quanto di bene opera la Natura, si deve alla perfezione dell'ingegno divino, e quanto di male, alla imperfezione della materia. Talché la Natura, in quanto giova, si chiama benigna madre; in quanto nuoce, ingiusta matrigna: l'una e l'altra, in quanto sorprende l'opinione degli 'mprovidi mortali, si chiama fortuna e caso.

I. una giovane • •. uomini: cfr. Plinio, Nat. hist., vn, 4, 36. 2. una vergine .•• moglie: cfr. Nat. hist., ibid. 3. •Questi moglie, questa marito, questi e questa donna. •

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Arguzie umane.

Restano le arguzie umane; delle quali assai poco dovremmo dir qua, essendone sparto il volume. Ma poiché siamo nelle cagioni efficienti delle argutezze, questo è il proprio luogo di ragionare quali uomini sian più dispositi a fabricarle. Il nostro autore, discorrendo della metafora, la quale (sì come per addietro accennammo e per inanzi dimostraremo) possiam chiamare gran madre di tutte le argutezze, ci 'nsegna che tre cose or separate, or congiunte fecondano la mente umana di sì maravigliosi concetti: cioè l'ingegno, il furore e l' esercizio. 1 Talché tre generi di persone son più condizionati al formar simboli arguti: cioè ingegnosi, furiosi, esercitati. L'ingegno naturale è una maravigliosa forza dell'intelletto, che comprende due naturali talenti: perspicacia e versabilità. La perspicacia penetra le più lontane e minute circonstanze di ogni suggetto, come sostanza, materia, forma, accidente, proprietà, cagioni, effetti, fini, simpatie, il simile, il contrario, l'uguale, il superiore, l'inferiore, le insegne, i nomi propri e gli equivochi: le quali cose giacciono in qualunque suggetto aggomitolate e ascose, come a suo luogo diremo. La versabilità velocemente raffronta tutte queste circonstanze infra loro o col suggetto: le annoda o divide, le cresce o minuisce, deduce l'una dall'altra, accenna l'una per l'altra, e con maravigliosa destrezza pon l'una in luogo dell'altra, come i giocolieri i lor calcoli. E questa è la metafora, madre delle poesie, de' simboli e delle imprese. E quegli è più ingegnoso, che può conoscere e accoppiar circonstanze più lontane, come diremo. Non piccola differenza dunque passa fra la prudenza e l'ingegno. Però che l'ingegno è più perspicace, la prudenza è più sensata: quello è più veloce, questa è più salda; quello considera le apparenze, questa verità; e dove questa ha per fine la propria utilità, quello ambisce l'ammirazione e l'applauso de' populari. Quinci non senza qualche ragione gli uomini ingegnosi fur chiamati divini. Però che, si come Iddio di quel che non è produce quel che è, così l'ingegno di non ente fa ente, fa che il leone divenga un

la

I.

Il nostro autore • .. l'esercizio: cfr. Aristotele, Rnet.,

111, 10, 1410 b 1

7-8.

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uomo1 e l'aquila una città.2 !nesta una femina sopra un pesce e fabrica una Sirena per simbolo dell'adulatore. Accoppia un busto di capra al deretano di un serpe.e forma la Chimera per ieroglifico della pazzia. Onde fra gli antiqui filosofi alcuni chiamarono l'ingegno particella della mente divina, e altri un regalo mandato da lddio a' suoi più cari. Benché, per dir vero, gli amici d'Iddio dovrebbero con più caldi voti chieder prudenza che ingegno, però che la prudenza comanda alla fortuna, ma gli 'ngegnosi (se non se per miracolo) sono sfortunati: e dove quella conduce gli uomini alle dignità e agli agi, questo gli 'nvia allo spedale. Ma perché molti antipongono la gloria dell'ingegno a tutti i beni della fortuna, io dico che gli uomini più ingegnosi hanno dalla natura maggior attitudine alle argutezze; anzi tanto vale la voce «arguto», quanto «ingegnoso ». Questo appare assai chiaro nella pittura e nella scultura: però che color che sanno perfettamente imitar la simmetria de' corpi naturali si chiamano artefici dotti; ma quei soli che pingono argutamente si chiamano ingegnosi. Pittore ingegnoso era Timante, perciò che (sì come scrive Plinio Secondo) «in omnibus eius operibus intelligitur plus semper quam pingitur»: ecco l'argutezza laconica; «et cum ars summa sit, ingenium tamen supra artem est»3 ••• Niuna pittura, adunque, niuna scultura merita il glorioso titolo d'ingegnosa, se non è arguta: e il medesimo dico io dell'architettura, gli cui studiosi son chiamati ingegneri per l'argutezza delle ingegnose lor opre .. Questo appare in tante bizzarrie di ornamenti vagamente scherzanti nelle facciate de' sontuosi edifici: capitelli fogliati, rabeschi de' fregi, triglifi,4 metope, mascaroni, cariatidi, termini, modiglioni ;5 tutte metafore di pietra e simboli muti, che aggiungono vaghezza all'apra e mistero alla vaghezza. Né manco argute nell'architettura militare si fabricano le armi di offesa e di diffesa. Dragoni fischianti per il tragitto dell'acre nel ventilar le insegne; testuggini animate da' corpi umani con le squamme di scudi; arieti cozzanti le mura con ritorte corna di bronzo; istrici, il leone ••. r,omo: Leone è anche nome proprio. È detto scherzosamente. l'aquila una città: l'Aquila è città difatti. 3. Cfr. Nat. liist., xxxv, 10, 74 («in tutte le sue opere si comprende sempre più di quanto non sia dipinto. E sebbene sia 1•arte somma, l'ingegno tuttavia supera l'arte»). 4. triglifi: decorazioni a tre solchi che si alternano con le metope, costituite da bassorilievi. 5. termini: specie di erme; modiglioni: sostegni di sporti o cornici. 1. 2.

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scorpioni, gigli, cicogne: tutte ingegnose ma fiere metafore e omicide. Ma questo è un nulla in riguardo di alcune argute sottilità de' nobili architetti, che fecero ingelosir la Natura. Tal fu quella del portico Olimpio, 1 il qual, dovendo consecrarsi alle sette arti liberali, fu concertato con tal ingegno che, se tu avessi recitato un carme, il carme stesso da quelle marmoree gole ti veniva sette volte iterato di rimando, quasi le sette Muse, abitatrici di quella dotta scuola, desser fidanza di gran progresso a' lor discepoli, dove anco i muti sassi eran facondi. Gran forza d'ingegno con una metafora arguta far parlare i marmi: non però minore il fargli udire . . . Mille altri arguti parti veggiamo delle tre più belle arti machinatrici,2 optica, vectica e pneumatica, 3 le cui pellegrine e metaforiche operazioni fanno incredulo chi non le vede e a chi le vede fan credere l'incredibile ... Argutissime finalmente sono le optiche, le quali per certe proporzioni di prospettiva con istrane e ingegnose apparenze ti fan vedere ciò che non vedi. Famose in questo genere fur due imagini, l'una di Diana, l'altra di Pallade: quella sculta da' figliuoli di Antermo, questa dipinta da Amulio.4 Quella collocata in tal punto di prospettiva, che la sua faccia pareva mesta a color eh' entravano nel tempio, ma lieta a color che ne uscivano : per dimostrare che l'ira de' numi per le colpe si accende, co' sacrifici si placa. L'altra con tal artifizio era dipinta,· che con gli occhi e con la persona parea si andasse volgendo da qualunque parte tu la mirassi: per significare che la prudenza, simboleggiata in quella dea, deve in ogni luogo accompagnare le azioni umane. Ma io non so se angelico o umano ingegno fu quello dell'Ollandese5 che pur a' nostri giorni con due optici specchietti, quasi con due aie di vetro, portò la vista umana per una forata canna là dove uccello non giunge. Con essi tragitta il mar senza vele; ti fa veder di presso le navi, le selve e le città che fuggono l'arbitrio della pupilla; anzi, volando al cielo in un lampo, osserva le macchie nel sole, scopre le corna di Vulcano in fronte a Venere,6 misura i monti e i I. portico Olimpio: cfr. Plinio, Nat. hist., XXXVI, 15, 100. 2. machinatrici: meccaniche. 3. vectica: l'arte che uda un secreto principio di movimento acquista vita»; pneumatica: l'arte che u ha il fiato per anima». 4. l'una di Diana ••. Amulio: cfr. Plinio, Nat. hist., xxxvi, S, 11-3; xxxv, 10, 120. 5. Ollandese: Zacharia Janssen, occhialaio di Middelburg, secondo la tradizione più diffusa. 6. le corna di Vulcano ... Venere: allude celiando al tradimento di Venere, divenuta amante di Marte.

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mari nel globo della luna, numera i pargoletti di Giove: 1 e ciò che Iddio ci nascose, un piccol vetro ti rivela. Onde puoi tu conoscere quanto sia il mondo invecchiato, poiché gli bisognano occhialoni di così lunga veduta. Qual cosa è dunque oggidì alla malizia umana assai cautelata e secreta? Argutamente invero scherzò Maurizio principe di O range, 2 a cui fu il primo cannocchiale dedicato dall'inventore ne' tempi apunto che si trattava la triegua infra' Spagnuoli e Ollandesi; la qual egli come soldato attraversava a più potere. Però che, sì come io leggo nelle istorie, avendo egli portato nel Senato di Ollanda quel visivo e non più veduto ordigno, disse: - lo vi presento, o signori, un instrumento novello, con cui possiate conoscere dalla lunga le astutezze degli Spagnuoli in questa triegua. Or non più dell'ingegno: dirò del furore, il qual significa un'alterazion della mente cagionata o da passione o da affiato o da pazzia. Talché tre sorti di persone, benché non fossero grandemente ingegnose né argute, il divengono: passionati, afflati e matti. Egli è certa cosa che le passioni dell'animo arruotano l' acume3 dell'ingegno umano e, come parla il nostro autore, la perturbazione aggiugne forza alla persuasione. E la ragione è che l'affetto accende gli spiriti, i quali son le facelle dell'intelletto: e la imaginazione, affitta a quel solo obietto, in quell'uno minutamente osserva tutte le circonstanze benché lontane. E come alterato, stranamente alterandole, accrescendole e accoppiandole, ne fabrica iperbolici e capricciosamente figurati concetti ... L'altro furore arguto è l'affiato, grecamente chiamato entusiasmo. Questo si vedea chiaro ne' sacri profeti, le cui maravigliose visioni altro non erano che simboli metaforici e argutezze divine, suggerite loro dal sacro Spirito: nelle quali più non abbiamo ad indugiare ora qua, avendone assai detto più sopra. Similmente degli oracoli profani, alcuni si rendevano per affiato, come nell'antro delfico e nel trofonio,4 dove persone illiterate e rozze, allo spirar di un'aura vaporosa di sotterra, precantavano5 cose maravigliose in arguti e misteriosi carmi di giusto e nobilissimo stile. i pargoletti di Giove:. sono i satelliti scoperti da Galileo nel 1610 e denominati Pianeti Medicei. 2. Maurizio principe di Orange: Maurizio di Nassau, lo statolder d'Olanda, che mori nel 1625. 3. am,otano l'acume: acuiscono l'acutezza. 4. nell'antro delfico e nel trofonio: sono due degli oracoli più famosi dell'antichità. 5. precantavano: è il latino praecantare, predire. 1.

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Quinci due generi di poeti distingue il nostro autore ;1 altri ingegnosi e altri affiati; quegli portati al verso dalla natura, questi rapiti da qualche spirito. Affiati furono un Orfeo, un Esiodo, un Omero/' che, senza aver imparato a cantare piangendo sotto la ferola, per solo instinto cantarono sotto allegorici metri cose alte e divine. Ingegnosi furono un Sofocle, un Eschilo, un Euripide, 3 che, acquistando con senno e arte il poetico talento, rapirono le Muse in Parnasso, anzi che dalle Muse fossero essi rapiti. Tutti però affettarono di mostrarsi affiati dal sacro furore, sì per vendersi poeti divini al credulo vulgo, sì per escusar la stranezza de' lor ghiribizzi con incolparne le Muse. l\1a gli epici, più che i tragici, come più ingegnosi e sublimi, nel vestibolo4 de' lor poemi implorano l'affiato delle Muse; come Virgilio, che pur fra' poeti fu il più stentato: «Musa, mihi causas memora ».5 Anzi Stazio, che fu il più astruso e traboccato nello stile, dalle prime mosse si mostra, non che spirato, ma spiritato: Fraternas acies alternaque regna profanis decertata odiis sontesque evolvere Thebas, Pierius menti calar incidit. Unde iubetis ire, deae? 6

Talché diresti che Virgilio andò cercar le Muse, e Stazio fu dalle Muse cercato. Ma Ennio, Orazio e Marziale non implorarono altro furor divino che il fervor del vino e si portarono a cintola il suo Castalio7 dentro l'orciuolo. E senza dubio l'un suffragava all'altro, però che la fantasia, riscaldata da quel vaporoso licore, assai metafore va fabricando e inalzando lo stile. Laonde, sì come a' vecchierelli e agli 'nfermi, indebilendosi il calore, s'indebilisce l'ingegno, cosi dove il calore abondi abonda vigore agli 'ngegnosi componimenti. Or questo ben si può risvegliare con medicate arti, con spiritosi elisiri ed eziandio con generosi grechi,8 purché la copia non opprima l'ingegno, come il soperchio alimento opprime 1. due generi ... nostro autore: cfr. Aristotele, Poet., xvu, 1455 a, 32. 2. Orfeo . .• Esiodo • •• Omero: sono i poeti dell'età più lontana, i 11primitivi ». 3. Sofocle • •• Eschilo ..• Euripide: i tre poeti tragici della Grecia. 4. vestibolo: protasi. 5. Aen., 1, 8 («Musa, narrami le cagioni»). 6. Tlieb., 1, 1-4 («L'armi fraterne e il regno alterno conteso con sdegni scellerati e la rea Tebe l'afflato delle Muse mi muove a cantare. Di dove comandate di prender l'avvio, o dee?»). 7. Il fonte Castalio, sacro ad Apollo. Qui significa l'ispirazione. 8. grechi: vini pregiati.

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il lume. Così ancor de' sacri profeti, altri con la tazza, come Giuseppe, 1 e altri con la lira, come Eliseo,2 destavano le naturali forze della mente a ricevere più vivo il raggio delle profetali influenze. L'ultimo furore è quel de' matti, i quali meglio che i sani (chi lo crederebbe?) sono condizionati a fabricar nella lor fantasia metafore facete e simboli arguti; anzi la pazzia altro non è che metafora, la qual prende una cosa per altra. Quinci ordinariamente succede che i matti son di bellissimo ingegno e gli 'ngegni pii! sottili, come poeti e matematici, più son proclivi ad ammattire. Però che quanto la fantasia è più gagliarda, tanto è veramente più disposita ad imprimersi li fantasmi 3 delle scienze; ma un sol fantasma troppo altamente impresso e riscaldato, divien sovente fantasticheria: e questa invecchiata divien pazzia. Onde puoi tu conoscere in quanto fragil vaso quanto tesoro si serbi: poiché sì vicina all'insania è la sapienza. Tal da Galeno ci vien dipinta la fantasia di colui il qual così profonda s'improntò la imagine di un grande doglio di terra da lui veduto, che gli entrò la frenesia di esser quel doglio. Onde gridava ad ogni passaggiere: - Fatti in costà, che tu non m'infragni, perch'io sono il doglio. - Né osava caminar, né corcarsi, ma ritto su' piè, con le mani su le anche, pareva un doglio manicato :4 e come doglio, stranamente amando il vino, diceva: - Colmiamo il doglio, acciò che asciutto non muffi. Or questa pazzia altro non era che metafora di un fantasma per un altro: di cui nasceva l'arguta allegoria. Però che quanto facesse o dicesse, conseguentemente si riferiva a quel suo doglio. Più ridicoloso fu Nicoletta da Gattia, il qual, imaginandosi divenuto un tizzone, pregava ciascuno a volergli soffiare adosso per avvivarlo. E più ancora Petruccio5 da Prato, il qual, credendosi un granel di senape, e veduto in mercato un grande orcio di mostarda, vi si tufò dicendo che mostarda senza senape non sape6 nulla. Che dirò di quell'altro che (secondo ne scrive Altomari)7 ficcatosi nel capriccio sé essere un gallo, nelle più nobili raunanze, quando se altri . .. Giuseppe: cfr. Gen., 40 sgg. 2. altri . .. Eliseo: cfr. IV Reg., 3, 15-9. 3. li fa11tasmi: sono, secondo la filosofia aristotelica, le immagini mentali. 4. manicato: con i manici. 5. Nicoletta ... Petruccio: cfr. TOMMASO GARZONI, L'ospidale de' pazzi incurabili, a cura di F. Marchionni, Lanciano, Carabba, 1915, pp. 30-1. 6. sape: ha sapore, sa. 7. Altomari: medico napoletano, nato intorno al 1520. Cfr. nelle Opere (Omnia quae hucusque in lucem prodil!runt opera, Lione, Boville, 1565) il cap. De melancliolia, p. 190, dove si legge anche la storiella intorno al doglio. 1.

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gli moveva quella pazza imaginazione, repente ringalluzzava, e stendendo il collo e scotendo le ascelle in guisa di ale, mandava una cotal voce acuta e rantacosa1 come di gallo, a cui tutti i galli facean tenore. Ancor a' nostri giorni un personaggio di grandissimo stato, qual molti abbiam conosciuto altrove, intesamente considerando una fornacella che dalle nasute bocce di vetro stillava acque di odori, s'intestò d'essere anch'egli una boccia col lungo naso di vetro. Onde per camino procedendo tentone, si tenea davanti la mano per non dar di naso in parete, e favellando con alcuno ritraeva il capo per fuggir l'urto: e ciò che gli stillava dalle nari parevagli bell' acqua di fiori. Vi sono ancor di quegli che tengono più dello sciocco che del matto; ma le sciocchezze medesime, se son ridicole, necessariamente procedono da qualche genere di metafora. Tal fu quella di Sebastian da Montefelice, a cui un cavalier napolitano suo padrone, avendo detto in un convito: - Portarne no arancio, - schiantò un albero di aranci, e levatolsi in collo, portollo in su la mensa. Tutti ne risero: e la cagion del riso fu la metafora dalla parte al tutto. 2 Ma queste son pazzie partorite da fantasimi gioviali e innocenti. Altre son metafore atroci e serioridicole, che ad un tempo movono risa e spavento, quando alcun fantasma orribile sia fomentato dall'atrabile. 3 Onde nascono argutezze flebili4 e facezie molte volte mortali. Tal fu la pazzia di Alcide, 5 cui dando volta il cervello, mentre che avea l'animo impresso di fieri simulacri della vendetta contra Lico tiranno, si stracciò d'attorno la spoglia leonina, dicendo quell'essere il leon celeste che andava a caccia delle stelle. E imaginando che i nuvoli fosser giganti ribelli al cielo, voleva entrare a parte della vittoria contra l'inimica Giunone. Indi svellendo da' cardini a forza di braccia le porte del suo palagio, si credeva arietar6 la reggia di Giove, e vibrando in alto li pezzi7 delle maculose colonne, si vantava di scagliar Pelione e Ossa co' lor Centauri in faccia de' numi avversi. Alla fine, strignendo la ferrata clava contra' propri figliuoli, pregiavasi8 di cancellar l'odiata stirpe di Lico: e uccisa Megara sua cara moglie, gridava sé aver uccisa rantacosa: stridente. 2. Sebastian ... tutto: cfr. TOMMASO GARZONI, L'ospidale, cit., p. 38. 3. dall'atrabile: dall'umore nero. 4.fiebili: lacrimevoli. 5. Alcide: il Tesauro pensa all' Hercules furens di Seneca. 6. arietar: percuotere. 7. pezzi: è interessante osservare che nella redazione più antica il Tesauro aveva adoprato in luogo del termine più comune il latinismo «frusti». 8. pregiavasi: si vantava. I.

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la matrigna Giunone e sgravato Giove suo padre del fedo 1 e indegno giogo di quella donna. Così, essendo deplorabile2 dove si riputava felice, ostentava come trofei le sue ruine. Queste erano adunque arguzie spaventevoli e metafore flebilmente ridicole, imitate dapoi da' moderni poeti nella pazzia di Orlando e di Armida: dove tu odi tanti spropositi a proposito, che sì come avviene de' grilli de' pittori, nulla è più artifizioso che peccar contra l'arte, nulla più sensato che perdere il senno. Ancor tra le argute pazzie si de' numerare l' ebrietà, sogno vegghiante e furor brieve, tanto più violento quanto più vinolento. Però che sì come ne' sonnacchiosi il fumo dello stomaco, così negli ebri il vapor del vino turba i diurni fantasimi, e prendendo l'una imagine per l'altra o confondendo l'una con l'altra, ne forma stranissimi crotteschi e ridicolose metafore. Tal fu l'ebrezza di que' ligornesi3 che nella famosa osteria di Montefiascone preser l' orso4 nel punto che fra lor divisavano del suo naufragio. Però che in quella imaginazion riscaldati, incominciarono fantasticare sé essere ancora nella marina: e conseguentemente cominciò l'ostello parer loro il tempestante vasello, le panche gli stamenali, 5 la mensa la corsia. Quinci con tumultuose voci gridando uno ad altro: - A poggia, a orza; alla borina ;6 mano alla scotta - altri votavan le botti credendosi dare alla bomba;7 altri, del tagliere facendo il bussolo,8 puntavano il vento ;9 altri, vomendo addosso al compagno, maledicean la nausea della maretta. 10 Tutti finalmente, concordando aversi a fare il gitto per isgravar la nave, attesero a gittar dagli balconi chi le stoviglie, chi il desco e chi le panche, indi le coltre, le masserizie, i forzieri dell'ostiere; e un di loro gridando: - Questo è un peso troppo intolerabile - gittò la moglie. Nessun perdé manco in quel naufragio. L'ultimo e più efficace sussidio di quest'arte è l'esercizio, che in tutte le arti umane è il suffraganeou dell'ingegno, essendo assai più giovevole e sicuro l'esercizio senza grande ingegno, che un 1./edo: sozzo, turpe. 2. deplorabile: lagrimevole, sciagurato. 3. ligornesi: livornesi. 4. preser l'orso: s'ubriacarono. t forma del linguaggio furbesco-giocoso. 5. stamenali: elementi che fanno parte delle coste, nella nave. 6. borino: è la fune che serve per tirare il cavo delle vele quadre. 7. bomba: è Palbero orizzontale per distendere la randa. Ma qui bomba è introdotto anche per il richiamo all'idea del bere: vedi il termine infantile bombo, cioè bevanda. 8. bussolo: bussola. 9. puntavano il tJento: determinavano la direzione del vento. 10. maretta: mare a onde spesse e schiumose. 11. suffraganeo: coadiutore.

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grande ingegno senza esercizio. Che se l'un con l'altro conspira, pervien l'artefice a segno, che più non pare uom terreno, ma un celestial nume nell'arte sua. Onde il nostro autore per la investigazione delle lontane notizie, sì nelle filosofali che nelle poetiche e argute composizioni, ricerca ingegno congiunto con l'esercizio. 1 Per più maniere adunque in questa vaga e nobil arte si può esercitar lo stilo erudito : cioè per pratica, per lettura, per reflessione, per indice categorico e per imitazione ... L'ultimo esercizio più di tutti efficace e ingegnoso è la imitazione. Questa fu l'anziana maestra di tutti gli uomini: a' quali troppo restia par che sia stata Natura nel voler che con molta fatica un uomo sia discepolo dell'altro; dove agli animali essa medesima è maestra. Il parlare, ·il caminare, il nuotare, il cantare, lo scrivere, dalla sola imitazione s'insegnano. Le virtù e le civili creanze nella cera dell'animo tenerello si 'mprimono con la sola imitazion de' padri e nutritori. Finalmente le arti tutte, così fabrili come ingenue,2 si apprendono dagli esemplari di ottimi artefici: e questi le appresero (tanto iniqua fu Natura) dalla imitazione degli animali. Il trar di arco fu lor mostrato dall'istrice; l'architettura dalle api; la navigazione da' cigni; la musica da' rusignuoli: la pittura dal ribattimento dell'ombra. Talché l'imitazione si può chiamar maestra de' maestri. Questa dunque (come saggiamente discorre il nostro autore)3 fu la primiera insegnatrice della poesia, la cui anima consiste nell'imitare. E poiché la metafora, e conseguentemente l'argutezza e tutti i simboli, son parti e parte della poesia,4 forza è che per essi la imitazione sia il più sicuro e necessario esercizio di tutti gli altri. Egli è il vero che l'imitare non è usurpar 5 le metafore e le argutezze quali quali6 tu le odi o leggi: però che tu non ne riporteresti laude d'imitatore, ma biasimo d'involatore. Non imita l' Apolline di Prassitele7 chi transporta quella statua dal giardino di Belvedere nella sua loggia, ma chi modella un altro sasso alle medesime proporzioni: talché Prassitele, vedendolo, possa dir con maraviglia: « Cotesto Apolline non è il mio, e pur è mio». Oltreché, ad ogni parto arguto è necessaria la novità, senza cui la maraviglia dilegua, e con la maraviglia la grazia e 1. il nostro autore .•. l'eserci.zio: cfr. Aristotele, Rhet., III, 10, 1410b, 7-8. z. fabrili come ingenue: arti meccaniche e liberali. 3. come •.. nostro autore: cfr. Aristotele, Poet., 1, 1447a, 15 sgg. 4. la metafora ... poesia: cfr. Aristotele, Rhet., 111, 1, 1404a, 20-1. 5. usurpar: adoprare. 6. quali quali: qui è usato come pronome relativo indefinito. 7. l'Apol/ine di Prassitele:

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l'applauso. Chiamo io dunque imitazione una sagacità con cui, propostoti una metafora o altro fiore dell'umano ingegno, tu attentamente consideri le sue radici e, traspiantandole in differenti categorie come in suolo sativo 1 e fecondo, ne propaghi altri fiori della medesima spezie, ma non gli medesimi individui. Un solo esempio ti basterà di soperchio. Nessun salutò la eloquenza così di lungi,~ che sovente non abbia udito quella rettorica figura «prata rident », per dire «prata vernant, amoena sunt». 3 Questa veramente argutezza intera non è, ma simplice metafora: feconda genitrice, però, d'innumerabili argutezze. Egli è dunque un bel fior rettorico, ma fiore oggimai sfiorito e così calpestato per le scuole, che incomincia putire. Laonde se in un tuo discorso academico4 tu pompeggiassi di questa metafora così nuda: «prata rident », vedresti rider gli uomini e non gli prati. Così ci fa ridere l'udire i «liquidi cristalli» e i «raggi di Febo». Ella pertanto ringiovenirà se, considerate le sue radici, l'anderai variando con leggiadria. La prima radice è l'essere la voce rident una particella dell'orazione, cioè un verbo neutro assoluto. La puoi tu dunque leggiermente e leggiadramente variare piegandola in tutte le altre maniere gramaticali e formandone il nome sostantivo: «iucundissimus pratorum n·sus ». Il cumulativo: «ridibunda viclimus prata,1. Il participio: «vernant prata ridentia». L'avverbio: «ridenter prata florent ». Il gerondio: ). 8. tullia11e: ciceroniane. 9. nnalefe: elisione di vocale finale. 1 o. canto /ermo: è il canto che si svolge con note di valore eguale. 1 1. con trapunto: composizione di note, melodie diverse, punctum contra punctum.

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mero di spondei: talché, rassunto il conto, le sillabe prolisse' monteranno al doppio più delle corte. Ma questa generai teorica ci viene agevolata dal nostro autore, insegnanteci di scandere solamente le desinenze delle clausulette che compongono la periodo: però che gli altri piè, spalleggiati dagli ultimi, passando sottomano, fraudano le orecchie non grandemente diligenti. Osservò egli,2 ancor la periodo ritonda3 necessariamente compaginarsi di piccole particelle, non già misurate e perfette come le membra della concisa, che per sé si reggono e fra lor si riguardano, ma successivamente appoggiate l'una all'altra per modo di piccoli respiri e quasi musicali battute, infino a quella estrema che ruba l'applauso a tutte l'altre. Ordina egli pertanto che ciascuna clausuletta finisca con qualche piè numeroso e ben cadente, acciò che tutte insieme con successivi 'ntervalli formino un vario e grato ritmo: come da' numerosi intervalli del cembalo o dalle varie posture de' pantomimi nasce il diletto dell'occhio e della orecchia. Or l'armonia di queste minute desinenze parimente consiste nel maneggiare il freno e la sferza, stimulando o infrenando sì destramente quelle ultime sillabe, che né trasvolino oltre alle mete, né caggiano a terra con desinenze triviali e plebeie. Produrrò in mezzo ad esempio l' anatomia4 della più ritonda e maestosa periodo che i romani rostri5 udisser giamai. La qual sì come usciva da un petto brillante e avampato di allegrezza dell'aver dato la vita a Roma, discacciatone il catilinario veneno,6 cosi e' pare che la periodo trionfi nelle labra dell'oratore, e l'oratore nella periodo: « Rempublicam, Quirites, vitamque omnium vestrum >> ( ecco la prima clausuletta, che da sé non fa senso) e< bona, fortunas, coniuges liberosque vestros » ( eccoti la seconda) « atque hoc domicilium clarissimi imperii » (ecco la terza), «fortunatissimam pulcherrimamque urbem - hodierno die deorum immortalium summo erga vos amore -, laboribus, consiliis periculisque meis - ex fiamma atque ferro ac paene ex faucibus fati - ereptam et vobis con .. servatam ac restitutam videtis ».7 1. prolisse: lunghe. 2. Osservò egli: cfr. Aristotele, Rhet., III, 9, 1409 b, 14 sgg. 3. periodo ritonda: il Tesauro distingue il periodo conciso, composto di «membretti fra lor cozzanti», dal periodo ritondo, che ha svilup .. po «sinuosamente convolto e numerosamente convolto ». 4. l'anatomia: è termine molto caro agli scrittori barocchi per indicare l'analisi. 5. rostri: le tribune degli oratori. 6. il catilinario veneno: allude alla congiura di Catilina. 7. Cicerone, Cat., III, 1, 1 («O Quiriti, voi vedete lo stato e la vita di tutti voi, i beni, le fortune, le spose e i figli vostri e questa sede

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Qual più degno principio di una concion sì 'mportante, di un orator consule e principe degli oratori, e del più nobile e più maestoso teatro dell'universo? Fingi ora tu che Cicerone, salito in bigoncia con quelle grandi novelle, avesse cominciato di quest'altro tenore, facendo le pause al fin de' versi : Rempublicam, Quirites, vitamque omnium vestrum, bona et fortunas atque coniuges vestrosque liberos, atque hoc domicilium clari.ssimi imperii, Jortunatissimam pulcherrimamque urbem vestram hodierno die, amore summo numinum immortalium, laboribus, consiliis et periculis meis ab igni, /erro, fati f aucibru raptam atque vobis restitutam cernitis.

Non ti parrebb'egli un prologo del Davo terenziano o del plautino Tranione, usciti dalle stoviglie o dalla macina? E pur tu vedi con quanto piccolo scambiamento una sì superba periodo si sia raumiliata, anzi invilita. Raffronta ora tu ciascuna di queste iambiche desinenze con le tulliane, e proverai con quanta varietà di consonanze sia maneggiato l'ultimo piè, facendol nascere (com'ei ci avvisa nel suo Perfetto oratore)1 dagli piè antecedenti così variamente consertati e così armonicamente mescolati fra loro, che rendono la periodo di pari maestosa e giubilante. La prima clausuletta infino alla voce omnium proscioglie veramente un verso iambico; ma, correndovi di soccorso uno spondeo, tira si ben le redine, che il iambo, ristretto fra duo spondei, non può cadere; anzi 'I rigor degli spondei dalla mollezza del iambo vien temperato: « Rempublicam, Quirites, vitamquom-nium-vestrum ». I quai duo ultimi piè congiunti formano quel nobil piè iambo-spondeo, con cui sì sovente quest'oratore, per dileticar2 gli orecchi, termina le periodi : « Belli apparatus refrigescent ». « U t vos decerneretis laboravi». « Impetus et conatus sunt retardati ». 3 di un illustre impero e una città cosi bella e fortunata, oggi, grazie all'immenso amore degli dei immortali verso di voi, con il travaglio, il senno, il rischio mio personale, strappata al fuoco e al ferro, e quasi alle fauci del destino, e restituita a voi intatta»). 1. nel suo Perfetto oratore: cfr. Cicerone, Or., 64 sgg.; 50, 215. 2. dileticar: solleticare. 3. Cfr. Cicerone, Phil., v, 11, 30; Prov. cons., II, 27; Sest., S, II («I preparativi di guerra perderanno vigore. M'affaticai che voi decideste. I tentativi e gli sforzi furono contenuti»).

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Men severa siegue la seconda desinenza. Però che, quantunque l'arresti un contumace spondeo, egli è pur mitigato da duo imbelli corei: « Bona, fortunas, coniuges libe-rosque-vestros ». E questi due piedi similmente uniti formano quel bellissimo piè corea-spondeo, ch'egli pareggia di merto al metro del dicoreo, canoro terminator delle periodi ritonde. Così terminò le seguenti: cc Consulibus caeterisque ultoribus dimicarem ». cc Ad posteritatis memoriam gloriosum ». « Nunquam de se pertimescent ». 1 Ma la terza clausuletta ne vien tutta giubilante e danzante al lieto suono di un tribraco, duo iambi e uno anapesto: e smoderatamente giubilerebbe, se moderata non fosse da duo spondei nel primo e nel quarto luogo: ,, egli è materia dialettica; ma se tu di': «Verre è un publico ladrone della Cicilia », sarà materia retorica. Dunque la cavillazion retorica si fabrica di materia civile popularmente persuasibile, e la cavillazion dialettica di materia scolarmente disputabile. Onde, se tu mi dicessi: «Ens syllaba est; sed ens est genus: ergo syllaba est genus», 3 questo sarebbe un paralogismo dialettico in materia scolastica, che non offende nessuno. Ma se tu dicessi : cc Verres » cioè il porcello «est animai brutum; sed Verres Siciliam regit: igitur animal brutum Siciliam regit »,4 questo sarebbe un paralogismo simile a quel dialettico nel luogo topico, cioè nella equivocazione, e ancor nella figura sillogistica, ma retorico nella materia, però che vitupera il pretore della Cicilia. Per consequente son differenti nel fine. Però che, sì come la retorica riguarda la persuasion populare, e la dialettica l'insegnamento scolastico, così la cavillazione urbana ha per iscopo di rallegrar l'animo degli uditori con la piacevolezza, senza ingombro del vero; ma la cavillazion dialettica ha per fine di corromper quasi prestigiosamente5 l'intendimento de' disputanti con la falsità. Onde avisa il nostro autore6 che il retorico nella sua persuasione sa fabricar i sofismi e può adoperarli : perciò che, come pur egli persuada le cose oneste, ogni argomento gli è licito. Per contrario il dialettico ben sa fabricarli; ma non gli è licito di adoperarli, essendogli a onta grande cercare il vero e insegnare il falso. Tal era quel paralogismo che Zenone chiamava il suo Achille: dialettica ciurmeria,7 con cui presumea far travedere a' suoi academici niuna cosa potersi movere né in ciel né in terra, benché gli occhi affermino eh' ella si muove: «Omne continuum componitur aringherie: discorsi, arringhe. 2. scolasticamente: nelle scuole, secondo la pratica scola.stica. 3. « L'ente è una sillaba; ma l'ente è genere: dunque la sillaba è genere. » 4. « Il verro è un animale bruto; ma Verre governa la Sicilia: dunque un animale bruto governa la Sicilia.• 5. prestigiosamente: alla maniera dei giocolieri. 6. avisa ... autore: cfr. Aristotele, Rhet., 1, 1, 1355 b, 19-20. 7. ciurmeria: inganno. Cfr. i frammenti 25-6 di Zenone (presso Aristotele, Phys., VI, 9) in H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, I, Berlin 19345, p. 253. 1.

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ex individuis; se~ super individuo nihil movetur: igitur super continuo nihil movetur ». 1 Tali ancora le cavillazioni di Protagora, vituperato dal nostro autore2 come sfacciato impostor degli 'ngegni e oppressor della verità con la menzogna. E quelle di Eschine, paragonato da Demostene alle crudeli Sirene,3 però che co' suoi paralogismi non intendea d'allettare alle cose utili, ma di far precipitare alle dannose. Quinci ancor nella materia! forma l' entimema urbano è diverso dal sofisma dialettico. Però che, sì come il fin del retorico è il persuadere in qualunque maniera più aggradevole all'ascoltatore, eziandio con le favolette e ca' trovati,4 cosi or condisce le proposizioni del suo entimema con belle frasi, or le ci porge senz'alcun ordine dialettico; ora tronca quelle che l'uditor, già sapendole, non udirebbe senza noia, e quelle avviluppa che, sviluppate e chiare, discoprirebbono la fallacia. Per contrario fra' disputanti, che scrupulosamente5 si assottigliano nel conoscimento del vero, _le proposizioni del sillogismo voglion esser chiare e distese, acciò che l'intelletto, consentendo all'antecedente, sia stretto di consentire al consequente.6 Quinci in quel motto di Cicerone contra l'editto di Verre tu vedi tutto un entimema inviluppato e rattamente vibrato in poche parole: cc Mirandum non est ius Verrinum tam esse nequam». Che s'ei l'avesse disteso in questa forma di sillogismo dialettico : Omne ius verrinum est nequam. Sed edictum V erris est ius V errinum. lgi,tur edictum V erris est nequam.7

troppo chiaramente apparrebbe l'equivocazion di quel mezzo termine ius verrinum; là dove, avviluppato e gittato colà alla sfuggita, passa sotto mano e sorprende l'ascoltatore, il qual gode di quella destrezza d'intelletto e ne ride come di un bel gioco di mano. L'ultima e principalissima differenza è nella forma essenziale 1. «Ogni continuo si compone di individui; ma oltre l'individuo nulla si muove; dunque nulla si muove oltre il continuo.» 2. vituperato . .• autore: cfr. Aristotele, Rhet., 11, 24, 1402 a, 25-7. 3. Eschine . .. Sirene: cfr. In Ctes., 228. 4. trovati: invenzioni. 5. scrupulosamente: esattamente. 6. l'intelletto ... consequente: cfr. Aristotele, Rhet., 111, 18, 1419 a, 18-9. 7. «Ogni brodaglia porcina è trista. Ma l'editto di Verre è diritto, brodaglia verrina. Dunque l'editto di Verre è tristo.»

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IOI

della urbanità. Però che, se bene ogni cavillazione sia una fallacia, non perciò qualunque fallacia sarà cavillazione urbana, ma quella solamente che senza dolo malo scherzevolmente imita la verità, ma non l'opprime: e imita la falsità in guisa che il vero vi traspaia come per un velo, acciò che da quel che si dice velocemente tu intendi quel che si tace: e in quell'imparamento veloce (come dimostrammo) è posta la vera essenza della metafora. 1 Quinci, sì come nelle simplici metafore, quand'io ti dico cc prata rident », non m'intend'io di farti credere che le prata ghignino come gli uomini, ma eh' elle sono amene, così l' entimema metaforico inferisce una cosa acciò che tu ne intendi un'altra. Non vuol tu credi l'editto di Verre esser veramente broda di animale; ma sotto a quella metafora di equivocazione vuol che tu intendi l'iniquità di quello editto. E questa è la cavillazione urbana che tu cercavi. Per contro la cavillazion dialettica vuol che tu intendi le sue proposte com' elle suonano. E come quella sotto imagine di falso t'insegna il vero, questa sotto apparenza di vero sfrontatamente t'insegna il falso. Insomma quella differenza passa tra questa e quella, che tra una vipera vera, la qual di repente ti morde e avvelena, ~ una vipera dipinta, che par ti voglia mordere e pur ti piace. Perciò che i motti urbani son veri parti della poesia, che ha per essenza la imitazione. Raccogliendo dunque le quattro circonstanze che ti ho discorse, conchiudo l'entimerna urbano essere una cavillazione ingegnosa in materia civile, scherzevolmente persuasiva, senza intera forma di sillogismo, fondata sopra una metafora. E questa è quella perfettissima argutezza di cui discorriamo in questo luogo. Ma qui voglioti io fare accorto che quelle quattro circonstanze possonsi ancor talvolta ad arbitrio di un bell'ingegno separare e permutare in guisa, che l'una facultà passi nelle confini dell'altra. Talché in qualche componimento la materia sarà ~etorica e la forma dialettica, o la materia dialettica e il fine retorico, o il sillogismo prenderà figura di entimema o questo di quello : e cosi di altri capricciosi inserti dell'intelletto fecondo. Quinci, se tu discorri così: cc La Terra si troverà fra posta intra il Sole e la Luna: dunque la Luna sarà eclissata», questo è sillogismo astronomico e dottri~ nale, travestito in figura di entimema retorico. Che se tu dicessi così: «La Terra invidiosa si pon davanti agli occhi a Diana acciò 1. in quell'imparamento 20-1.

.•• metafora: cfr. Aristotele, Rhet.,

111, 10, 1410 b,

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EMANUELE TESAURO

che mirar non possa il viso del suo Apolline; 1 ed ella perciò di tristezza ne scolorisce», ben vedi tu che la materia è astronomica, ma poetica è la forma essenziale, con un mescolamento del fine astronomico e del poetico: però che intende d'insegnar dilettando e dilettare insegnando; quai son le allegorie di Esiodo, di Orfeo e di tutti gli altri astronomi e filosofi favolatori. Or così talvolta il dialettico, spogliato quel suo scolastico rigore, diverrà civile e faceto ne' suoi sofismi per ischerzar fra gli 'ngegni con la urbanità, anzi che per opprimerli con la menzogna ... Trattato de' concetti predicabili.

Ora è tempo ch'io mi sdebiti di quanto promessi alla pagina 26 circa il riducere le specie de' concetti predicabili alle specie delle metafore, purché ti risovvenga la diffinizione colà stabilita in questi termini: il concetto predicabile è un'arguzia leggiermente accennata dall'ingegno divino, leggiadramente svelata dall'ingegno umano e rifermata con l'autorità di alcun sacro scrittore. Dico ch'ella è un'argutezza concettosa, cioè un argomento ingegnosamente provante una proposizione di materia sacra e persuasibile al popolo, il cui mezzo termine sia fondato in metafora. E per saper l'origine di questi mirabili e moderni parti d'ingegno, egli è certissimo (come osservò san Gregorio2 ne' suoi Morali) che la parola divina alcune volte è cibo e altre bevanda. Ella è cibo quando si persuade con argomenti dottrinali e difficili, che ricercano uditore attento e atto a masticarli. Ella è bevanda quando si persuade con argomenti così facili e piani, che ancora un debile e vulgare intelletto facilmente li sorbe. Talché, se a bassi ingegni tu porgi argomenti e ragioni alte e difficili, e a sublimi, ragioni piane e vulgari, ne avverrà ciò che disse il Profeta: « N obiles interierunt fame et multitudo siti exaruit ». 3 Sì che tutta l'arte degli evangelici dicitori consiste nel mescere in guisa il facile col difficile, che in un popolo mescolato di dotti e idioti, né i dotti sentan nausea per troppo intendere, né gl'idi